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Mare monstrum 2003 I NUMERI E LE STORIE DELLASSALTO ALLE COSTE Roma, 2 luglio 2003

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Mare monstrum 2003

I NUMERI E LE STORIE

DELL’ASSALTO ALLE COSTE

Roma, 2 luglio 2003

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IL "CHI E'" DI LEGAMBIENTE

LEGAMBIENTE è l’associazione ambientalista italiana con la diffusione più capillare sul territorio (1000 gruppi locali, 20 comitati regionali, 110000 tra soci e sostenitori). Nata nel 1980 sull’onda delle prime mobilitazioni antinucleari, LEGAMBIENTE è un’associazione apartitica, aperta ai cittadini di tutte le idee politiche, religiose, morali, che si finanzia con i contributi volontari dei soci e dei sostenitori delle campagne. E' riconosciuta dal Ministero dell'Ambiente come associazione d'interesse ambientale, fa parte del “Bureau Européen de l'Environnement”, l’unione delle principali associazioni ambientaliste europee, e della “International Union for Conservation of Nature”. Campagne e iniziative Tra le iniziative più popolari di LEGAMBIENTE vi sono grandi campagne di informazione e sensibilizzazione sui problemi dell’inquinamento: “Goletta Verde”, il “Treno Verde”, l’”Operazione Fiumi”, che ogni anno “fotografano” lo stato di salute del mare italiano, la qualità dell’aria e la rumorosità nelle città, le condizioni d’inquinamento e cementificazione dei fiumi; “Salvalarte”, campagna di analisi e informazione sullo stato di conservazione dei beni culturali; “Mal’Aria”, la campagna delle lenzuola antismog stese dai cittadini alle finestre e ai balconi per misurare i veleni presenti nell’aria ed esprimere la rivolta del “popolo inquinato”. LEGAMBIENTE promuove anche grandi appuntamenti di volontariato ambientale e di gioco che coinvolgono ogni anno centinaia di migliaia di persone (“Clean-up the World/Puliamo il Mondo” l’ultima domenica di settembre, l’operazione “Spiagge Pulite” l’ultima Domenica di maggio, i campi estivi di studio e recupero ambientale, “Caccia ai tesori d’Italia” all’inizio della primavera), ed è fortemente impegnata per diffondere l'educazione ambientale nelle scuole e nella società (sono migliaia le Bande del Cigno che aderiscono all'associazione e molte centinaia gli insegnanti che collaborano attivamente in programmi didattici, educativi e formativi). Per una globalizzazione democratica LEGAMBIENTE si batte contro l’attuale modello di globalizzazione, per una globalizzazione democratica che dia voce e spazio alle ragioni dei poveri del mondo e che non sacrifichi le identità culturali e territoriali: rientrano in questo impegno le campagne “Clima e Povertà”, per denunciare e contribuire a combattere l’intreccio tra problemi ambientali e sociali, e “Piccola Grande Italia”, per valorizzare il grande patrimonio di “saperi e sapori” custodito nei piccoli comuni italiani. L’azione sui temi dell’economia e della legalità Da alcuni anni LEGAMBIENTE dedica particolare attenzione ai temi della riconversione ecologica dell’economia e della lotta all’illegalità: sono state presentate proposte per rinnovare profondamente la politica economica e puntare per la creazione di nuovi posti di lavoro e la modernizzazione del sistema produttivo su interventi diretti a migliorare la qualità ambientale del Paese nei campi della manutenzione urbana e territoriale, della mobilità, del risanamento idrogeologico, della gestione dei rifiuti; è stato creato un osservatorio su “ambiente e legalità” che ha consentito di alzare il velo sul fenomeno delle “ecomafie”, branca recente della criminalità organizzata che lucra migliaia di miliardi sullo smaltimento illegale dei rifiuti e sull'abusivismo edilizio. Gli strumentiStrumenti fondamentali dell'azione di LEGAMBIENTE sono il Comitato Scientifico, composto di oltre duecento scienziati e tecnici tra i più qualificati nelle discipline ambientali; i Centri di Azione Giuridica, a disposizione dei cittadini per promuovere iniziative giudiziarie di difesa e tutela dell'ambiente e della salute; l'Istituto di Ricerche Ambiente Italia, impegnato nel settore della ricerca applicata alla concreta risoluzione delle emergenze ambientali. LEGAMBIENTE pubblica ogni anno "Ambiente Italia", rapporto sullo stato di salute ambientale del nostro Paese, e invia a tutti i suoi soci il mensile “La Nuova Ecologia”, “voce” storica dell’ambientalismo italiano.

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MARE MONSTRUM 2003

INDICE 1. Premessa 1 2. Pirati all’assalto: le Bandiere nere 2003 6 3. I numeri del “mare illegale” 30 4. E la nave va: l’illegalità del “popolo dei naviganti” 34 5. Cemento in spiaggia 36 6. Fronte del porto 61 7. L’erosione della costa 77 8. Il mare inquinato 85 9. La pesca “miracolosa” 107 10. L’onda nera 113

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Il dossier “Mare monstrum 2003” è stato realizzato dall’Ufficio ambiente e legalità, dall’Ufficio campagne, dall’Ufficio scientifico e dall’Ufficio vertenze territoriali di Legambiente. Hanno collaborato: Francesca Biffi, Riccardo Biz, Stefano Ciafani, Chiara Della Mea, Gianluca Della Campa, Nunzio Cirino Groccia, Luca Fazzalari, Domenico Fontana, Enrico Fontana, Roberto Giangreco, Angela Lobefaro, Fabio Manenti, Ilaria Masone, Giuseppe Messina, Rossella Muroni, Antonio Nicoletti, Enzo Parisi, Peppe Ruggiero, Sandro Scollato, Vincenzo Tiana, Sebastiano Venneri, Lucia Venturi, Mauro Veronesi. Si ringraziano per i contributi forniti: il Comando generale delle Capitanerie di Porto, il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, il Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente, il Comando generale della Guardia di Finanza, il Corpo Forestale dello Stato e delle Regioni Sardegna e Sicilia, che hanno fornito i dati statistici relativi alle attività di controllo in materia di tutela ambientale; Enzo Pranzini del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze Lega Pesca; Ezio Amato, ricercatore Icram; Giancarlo Bussetti; Antonello Caporale de La Repubblica; Franco Mancusi de Il Mattino.

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Ecomostro (comp. di eco- (1) e mostro (2), 1999) s.m. Costruzione che suscita repulsione sul piano estetico

e dal punto di vista ambientale

(lo Zingarelli 2002 - Vocabolario della lingua italiana)

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1. Premessa

Quella in corso potrebbe essere l’estate degli ecofurbi, di quanti cioè approfitteranno del clima di disattenzione e di impunità che sembra stia caratterizzando l’operato di molte amministrazioni nel nostro Paese. Qualche esempio? Basterebbe citare l’incredibile decisione del Ministro della Salute, Girolamo Sirchia, che per la prima volta dal 1989, anno in cui è stato pubblicato il primo Rapporto sulle Acque di Balneazione, ha consentito l’avvio di una stagione balneare senza uno straccio d’informazione ai bagnanti sulla qualità dei nostri mari. E che dire dell’incredibile denuncia affidata solo pochi giorni fa alle pagine del Secolo XIX dal Comandante della Capitaneria di Porto di La Spezia che dichiara di essere costretto a tenere in banchina le pilotine per mancanza di carburante? Per non parlare dell’inaspettata resurrezione delle reti spadare, attrezzo già vietato da quasi due anni, ma che pure continua ad operare grazie a modifiche normative che allargano le maglie dei divieti.

Continua a crescere indisturbato intanto il fenomeno dell’abusivismo edilizio che si direbbe piuttosto caratterizzato da una sorta di salto di qualità: basti considerare l’aumento dei sequestri dei manufatti abusivi che è cresciuto di oltre il 50% in un anno. E il cemento sulla costa non è solo quello dei privati: dal Ponte sullo Stretto ai porticcioli turistici sulla costa tirrenica calabrese, dagli insediamenti turistici sulla costa lucana a quelli fra le lagune del Veneto, è tutto un proliferare di infrastrutture che, grazie ad accordi di programma e leggi speciali si ritagliano corsie preferenziali che semplificano l’iter autorizzativo.

Non a caso le “bandiere nere” ai pirati della costa quest’anno sono state assegnate quasi esclusivamente ad amministrazioni pubbliche, sia che si parli di governo centrale che di enti locali. Dal Ministro Pietro Lunardi, pervicace sostenitore dell’opera pubblica ad alto impatto ambientale e a basso tasso d’autorizzazioni, all’amministrazione comunale di Porto Cesareo, cui si deve l’impareggiabile trovata amministrativa del mare considerato “maglia urbana regolarmente edificata”, passando per l’infaticabile Aurelio Misiti, l’assessore regionale calabrese, nonché capo del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, una sorta di habitué ormai fra i personaggi insigniti del poco ambito riconoscimento, seriamente impegnato da quest’anno anche nell’opera di cementificazione definitiva della costa calabrese.

Se lo sguardo al pubblico è desolante, quello all’industria privata non è più confortante. Diciassette dirigenti dell’ex Enichem (ora Syndial), principale industria chimica nazionale, arrestati perché smaltivano mercurio e altri veleni come fossero gli scoli dell’acqua piovana. E’ l’operazione realizzata dalla Guardia di finanza di Siracusa e chiamata beffardamente “Mar rosso”: nessun riferimento in questo caso ai paesaggi da sogno della barriera corallina, ma solo il colore del mare siciliano che cambia quando arriva l’onda dell’acido solforico. In questo modo l’azienda chimica, certificata Emas in quell’area, riusciva a risparmiare fino al 400% nei costi di smaltimento. Intanto i dati

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epidemiologici indicano una percentuale di nati malformati nell’area di Augusta-Priolo tripla rispetto al resto della Sicilia: il sospetto, ma più verosimilmente la certezza, è che la causa vada individuata nella dieta a base di pesce al mercurio delle gestanti. Chissà se nel bilancio ambientale dell’azienda ritroveremo anche questo dato…

Più disattenzione e meno controlli: sembra questa, insomma la formula dell’estate 2003. E in un mare dimenticato aumentano i reati ambientali. Ma se la situazione di quest’anno non è delle migliori, c’è di che consolarsi evidenziando i successi conseguiti grazie anche alle denunce e alle segnalazioni che sono giunte proprio da queste pagine. Cresce il numero, infatti, delle bandiere nere e degli ecomostri sui quali si sono attivati gli organi di controllo, le amministrazioni e le locali Procure della Repubblica. A cominciare dalla vicenda di Sanremo, proprio quella dei favori e delle tangenti legate all’inserimento delle nuove proposte canore fra i big della canzone, che ha preso lo spunto dalla costruzione del Teatro del Mare, l’ecomostro sul lungomare della cittadina ligure denunciato sull’edizione 2002 di Mare Monstrum e oggetto di un blitz dell’equipaggio di Goletta Verde dello scorso anno. Altra bandiera nera ed altra Procura, in questo caso quella di Lecce, che apre un’inchiesta sulla bandiera nera 2001 alla società immobiliare Sis, quella che aveva provveduto a realizzare un ecomostro su uno dei tratti di costa più belli del litorale salentino. Anche in questo caso era scattato il blitz della Goletta Verde, come quello realizzato di fronte alla Stoppani, altra bandiera nera del 2001. Dalla bandiera nera assegnata nel 2000 al Comune di Fossacesia per la realizzazione di un incredibile porticciolo turistico alla foce del Sangro, è partita invece la procedura d’infrazione da parte dell’Unione Europea nei confronti della Regione Abruzzo. Frattanto la Procura di Cagliari ha aperto un’inchiesta sul ripascimento selvaggio del litorale del Poetto, per il quale il Presidente della Provincia ha meritato la bandiera nera.

Gli anticorpi contro l’imbarbarimento del nostro litorale e contro i pirati che saccheggiano il futuro delle popolazioni costiere ci sono, l’importante è attivarli.

I numeri del “mare illegale”

“Affondati i controlli in mare”, titolava meno di un mese fa Il Secolo

XIX, riportando la circostanziata denuncia del Comandante della Capitaneria di Porto di La Spezia. Oltre il 30% dei fondi destinati a finanziare l’attività dei mezzi nautici è finito sotto la scure della legge Finanziaria che ha lasciato a secco le pilotine, come ha fatto del resto con le volanti della Polizia di Stato. Così le Capitanerie di Porto sono state costrette a rimodulare la loro attività, privilegiando il controllo via terra o in banchina alla tradizionale attività di vigilanza in mare. Confermate solo le attività di soccorso e annullati, al contrario, buona parte dei servizi di controllo e vigilanza.

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Secondo i dati forniti dalle forze dell’ordine i controlli in mare e sulla costa subiscono una riduzione generalizzata, con picchi più preoccupanti per l’attività di controllo delle Capitanerie di Porto sugli abusi sul demanio. Ciononostante i dati relativi ai reati ambientali continuano a far registrare cifre impressionanti: 16.656 infrazioni registrate lungo la costa (quasi 2 reati ogni ora) addebitabili in buona parte alla cattiva condotta da parte dei diportisti (6.858), seguiti dai pescatori di frodo (4.883) e dagli abusi edilizi (3.158).

La classifica dell’illegalità vede in testa in quasi tutti i settori, la regione Campania, prima sia per valori assoluti (2898 infrazioni accertate) che per infrazioni su chilometri di costa (più di 6 infrazioni al chilometro). Di contro la virtuosa Basilicata fa registrare appena un’infrazione ogni tre chilometri di costa. Da segnalare l’aumento considerevole dei sequestri effettuati per abuso edilizio sul demanio costiero, cresciuti, rispetto allo scorso anno, di oltre il 50%, un dato che per la Regione Sicilia fa registrare valori tre volte superiori a quelli dell’anno scorso. Mare inquinato

In principio fu il Ministro De Lorenzo che, sul finire degli anni ‘80,

cominciò a firmare i primi rapporti sulla qualità delle acque di balneazione dopo anni di denunce di inadempienze da parte delle associazioni ambientaliste, Legambiente in testa. Da allora non c’è stato anno e non c’è stato ministro che non abbia rispettato, con maggiore o minore solerzia, l’appuntamento con il popolo del mare. Ma nessuno aveva mai lasciato, come quest’anno il Ministro Girolamo Sirchia, che la stagione cominciasse senza alcuna informazione al popolo dei bagnanti sulla qualità delle acque. Mai nessuno aveva ostentato tanto disinteresse verso un tema, quello della balneazione, che sta a cuore a qualche milione di connazionali ed altrettanti turisti stranieri.

Un silenzio tanto più assordante se si considera che, solo tre mesi fa, è stato varato un complicato decreto, da poco convertito in legge, che consente di togliere il divieto di balneazione con più facilità rispetto al passato. Un provvedimento discusso ed emanato, peraltro, senza neppure una circolare esplicativa che ne garantisse un’applicazione univoca.

Se il Ministero della Salute tace, quello dell’Ambiente continua invece a registrare, grazie all’attività delle Regioni, i dati impressionanti sulla quantità di metalli pesanti nei sedimenti costieri rilevati purtroppo anche nelle zone cosiddette di “bianco”, a riprova, se mai ve ne fosse bisogno, della condizione in cui versa il nostro mare. Cadmio, arsenico, piombo, mercurio e altre sostanze persistenti, che si accumulano fino ai livelli più elevati della catena trofica fino a far registrare valori preoccupanti per le quantità di diossine e Pcb nel pesce spada e nel tonno.

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Porti ed ecomostri

Sul fronte del cemento selvaggio sono diversi gli elementi di forte

preoccupazione che emergono quest’anno dall’analisi dei numeri e delle storie. Sembra in dirittura d’arrivo la scellerata proposta di condono edilizio approvata la primavera scorsa dalla Giunta regionale siciliana guidata da Totò Cuffaro. Il provvedimento che si pone l’obiettivo di condonare le costruzioni edificate entro i 150 metri dalla battigia dovrebbe, infatti, andare in discussione in Consiglio regionale per l’approvazione definitiva prima della pausa estiva.

Per quanto riguarda, invece, i dati relativi agli abusi edilizi accertati sul demanio marittimo dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di Porto spicca in particolare il numero dei sequestri effettuati: si passa, infatti, da 504 del 2001 ai 772 del 2002, con un incremento percentuale del 53%. Nella sola Sicilia, a dimostrazione dell’effetto perverso dell’annunciato condono, sono stati operati 260 sequestri, pari al 33,7% del totale nazionale, con un incremento percentuale rispetto al 2001 del 180% (erano stati 96 due anni fa e sono saliti a 260 nel 2002). Per quanto riguarda, infine, gli ecomostri, alle vecchie conoscenze, dalla saracinesca di Punta Perotti a Bari allo scheletro di Alimuri, al centro di un singolare “contratto” tra due comuni limitrofi, si vanno affiancando new entry, con le quali presto entreremo in “confidenza”: dalla “palafitta” e il “trenino” di Falerno Scalo (Cz), due “nitidi” esempi di abusivismo creativo, all’ecomostro di Villa Tozzoli sull’isola della Gaiola (Na).

Accanto al cemento abusivo c’è anche il cemento legalizzato: singolare il caso della Regione Abruzzo che, in deroga alle leggi di tutela dell’area, autorizza la realizzazione di una caserma dei carabinieri nella pineta litoranea di Pescara.

Continua intanto il diluvio dei porti turistici. Ricordiamo infatti che negli ultimi cinque anni sono stati realizzati in Italia 36 nuovi porti turistici contro i 44 costruiti nei cinquant’anni precedenti. Sono 35 i progetti (per un totale di 17mila posti barca) già autorizzati, mentre altre 50 richieste (altri 20mila posti barca) attendono il sì definitivo dalle Conferenze di servizi. Il tutto si andrà a sommare ai 110mila posti barca già esistenti.

L’onda nera

Quello trascorso è stato l’anno della Prestige, come quello precedente

era riconosciuto come l’anno della Ievoli Sun e quello prima ancora come l’anno della Erika. Si potrebbe assegnare a ogni anno il nome di una carretta affondata, con la speranza, probabilmente mal riposta, che si tratti sempre dell’ultima. 53mila tonnellate di olio pesante hanno imbrattato per sempre cinquecento chilometri di costa e centinaia di ettari di fondale fra la Spagna e la

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Francia: l’ennesima catastrofe annunciata, l’ennesimo incidente senza colpevoli e senza risarcimento.

Ora si attendono le misure messe a punto dall’Ue per evitare casi analoghi. Anche queste prendono il nome dalle carrette affondate: il pacchetto “Erika 1”, quello “Erika 2”, ed ora la nuova normativa, prontamente denominata “Prestige”. In Italia è entrato in vigore intanto il provvedimento che anticipa il phasing out per le carrette che attraccano nei nostri porti, ma la battaglia per estendere queste misure a livello internazionale è appena cominciata.

Se la situazione normativa nazionale è migliorata, drammatica appare ancora la situazione infrastrutturale. In particolare tutti i porti sono pressoché privi di impianti per la raccolta dei rifiuti liquidi prodotti dalle navi (residui del carico o “slop” acque di lavaggio delle cisterne, residui oleosi di sentina). Questa situazione di fatto favorisce le attività di smaltimento illegale dei rifiuti.

La depurazione Permane il forte deficit depurativo che caratterizza il nostro Paese.

Secondo quanto emerge dai risultati di una recente ricerca realizzata a cura dell’Apat sui sistemi di fognatura negli agglomerati con oltre 15.000 abitanti equivalenti, appena il 37% degli agglomerati sono risultati conformi a quanto previsto dal Decreto legislativo 152/99 sulla tutela delle acque. Inferiore al 50% è risultato invece il dato per il grado di conformità dei sistemi di depurazione dei reflui urbani a servizio degli agglomerati con oltre 15.000 abitanti equivalenti.

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2. Pirati all’assalto: le Bandiere nere 2003

Sono le bandiere meno ambite d’Italia, quelle che segnalano i “nuovi pirati del mare”: amministrazioni, politici, imprenditori, società private che si sono contraddistinti per attacchi o danni all’ambiente marino e costiero. Sono le Bandiere nere che ogni anno Legambiente assegna in tutta la Penisola. Quest’anno poi si raddoppia, se nel 2002 le Bandiere Nere assegnate erano state 12, quest’anno si arriva a 24 anche se con un certo numero di “soliti noti”. C’è chi, come Salvatore Cuffaro, Governatore della Regione Sicilia, potrebbe diventarne il testimonial (è dalla prima edizione che il Presidente riceve la Bandiera nera). Ma anche Misiti e Galan, rispettivamente Assessore ai Lavori pubblici della Regione Calabria e Governatore della Regione Veneto, non sono da meno: sono addirittura 2 quelle che Misiti si aggiudica quest’anno. Record eguagliato quest’anno dalla Regione Abruzzo.

Eccola allora la lista di coloro che vedranno consegnarsi dalla Goletta Verde di Legambiente il vessillo nero nel corso di quest’estate, con tanto di motivazione ufficiale: - all’Amministrazione comunale di Zoagli (Ge) per aver determinato, in

concorso con altri, la riduzione territoriale del parco di Portofino ed aver consentito numerose nuove edificazioni, soprattutto in aree collinari;

- all’Enel e alla Regione Veneto per aver concesso il via libera all’uso

dell’orimulsion nella centrale di Porto Tolle nel Delta del Po; - per il secondo anno consecutivo al Governatore della Regione Veneto

Giancarlo Galan, per il progetto Palalvo, un colossale piano urbanistico da realizzare nell’area delle lagune e del litorale del Veneto orientale, che prevede la realizzazione di 7 porti turistici e strutture turistico ricettive per un milione e mezzo di metri cubi;

- all’Amministrazione comunale di Muggia (Ts) per la presenza di

numerose discariche abusive a mare e per le operazioni edilizie dal devastante impatto ambientale che si stanno realizzando in zone tutelate;

- all’Immobiliare Medusa per la realizzazione del villaggio Elisea a Porto

Garibaldi (Fe), 2.500 posti letto in una delle ultime aree libere tra Ravenna e il Delta del Po;

- alla Raffineria Api di Falconara (An) per aver contribuito al pesante

inquinamento ambientale della costa (aria, suolo e sottosuolo) fino a far dichiarare dal Consiglio Regionale delle Marche, l’area della bassa valle dell’Esino, “area ad elevato rischio di crisi ambientale”;

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- all'Amministrazione comunale di Potenza Picena (Mc) per aver previsto nel nuovo piano regolatore migliaia di nuovi metri cubi di cemento nell’Oasi di Protezione della Fauna presso i laghetti di Potenza Picena;

- alla Regione Abruzzo, per quanto previsto dal piano demaniale marittimo

messo a punto dalla Giunta regionale e per il provvedimento con il quale si consente l’edificazione a Pescara, all’interno della Riserva naturale della pineta D’Avalos, della caserma provinciale dei Carabinieri;

- al Sindaco di Civitavecchia (Rm), on. Alessio De Sio, che, nonostante la

forte mobilitazione popolare, ha firmato la convenzione con l’Enel per la riconversione a carbone della Centrale Enel di Torre Valdaliga Nord;

- al Sindaco di Sabaudia (Lt), Salvatore Schintu, per non aver mai dato

esecuzione alle quasi 300 ordinanze di demolizione per abusi edilizi all'interno del Parco Nazionale del Circeo, da cui la recente richiesta di riclassificazione di ben 1.200 ettari del Parco Nazionale del Circeo;

- all’Amministrazione Comunale di Vietri sul Mare (Sa) e alla

Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici per le province di Salerno ed Avellino che, attraverso il Piano Urbanistico Esecutivo, hanno consentito un vero e proprio intervento cementificatorio “legalizzato” che sta distruggendo la spiaggia del Comune;

- al Sindaco di Bari, Simeone Di Cagno Abbrescia, per l’atteggiamento

troppo cauto e propenso ad individuare sempre nuovi ostacoli, procurando ritardi e rinvii nell’abbattimento del complesso edilizio di Punta Perotti;

- all’Amministrazione comunale di Porto Cesareo (Le), per aver permesso

la realizzazione di un pontile all’interno dell’area marina protetta che ha determinato lo scempio dei fondali e per aver approvato una delibera che definisce la costa del Comune “lotto intercluso”, diminuendo i vincoli di tutela;

- all’Amministrazione comunale di Pulsano (Ta) per i contenuti del Pug

(Piano urbanistico generale) recentemente approvato dal Consiglio comunale che sottrae il litorale alla fruizione della collettività per svenderlo e cementificarlo;

- All'Amministrazione comunale di Lesina (Fg) che attraverso la

previsione del Pirt (Piano d’intervento di recupero territoriale), che avrebbe dovuto sanare gli abusi non sanabili ai sensi delle L.R. 56/80 e 30/80, aggiunge in realtà edificazione di completamento e nuova edificazione nella zona dell’istmo tra il lago e il mare;

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- alle Amministrazioni comunali di Policoro e Scanzano Jonico (Mt), per la realizzazione dei villaggi turistici Marinagri e Cit Holding, due progetti ad alto impatto ambientale su uno dei tratti di costa ancora scampati alla speculazione;

- al Sindaco del Comune di Ricadi (Vv), Francesco La Versa, che ha

permesso la realizzazione del Villaggio turistico “Le Capanelle” e di una scogliera artificiale, nella suggestiva spiaggia di Baia di Riace, ad appena 30 metri di distanza dalla battigia;

- per il secondo anno consecutivo, ad Aurelio Misiti, Assessore ai Lavori

pubblici della Regione Calabria, per lo scellerato piano della portualità turistica messo a punto in Calabria che prevede migliaia di nuovi posti barca e metri e metri cubi di cemento sulla costa;

- all’Eni per le società Agip Petroli, ex Enichem (ora Syndial) e Polimeri

Europa, responsabili dell’inquinamento delle falde idriche della zona e dello sversamento di mercurio nel mare antistante Priolo;

- al Sindaco di Catania, Umberto Scapagnini, per le omissioni nella

demolizione delle case abusive nell’Oasi del Simeto e per l’approvazione della nuova variante della Plaja che prevede di costruire villaggi turistici e alberghi sulla costa;

- al Ministro Lunardi, ai Presidenti delle Regioni Calabria e Sicilia e al

Presidente della Società Stretto di Messina per la caparbietà dimostrata nell’intenzione di realizzare il Ponte sullo Stretto;

- all’Amministrazione comunale di Castellammare del Golfo (Tp) che,

con il nuovo Prg, consentirà la realizzazione di nuovi insediamenti per complessivi 30.000 (!) posti letto a ridosso dell’incantevole borgo di Scopello della Riserva Naturale Orientata dello Zingaro;

- alla società Eurallumina per la richiesta alla Regione Sardegna di

realizzare una discarica di 80 ettari a mare per 10 milioni di metri cubi di fanghi rossi.

2.1 Sulla costa sventola Bandiera Nera: storie esemplari di aggressione alla costa

2.1.1 Il Mare rosso di Priolo Concentrazioni di mercurio negli scarichi superiori di 20mila volte il

limite previsto dalla legge. Un risparmio per l’azienda di diversi milioni di euro. Trenta indagati. Ma soprattutto 18 persone arrestate per complessivi 552

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capi d’imputazione riportati in un’ordinanza di custodia cautelare di ben 538 pagine. Tra gli arrestati figurano 17 dirigenti del petrolchimico e il responsabile della Provincia di Siracusa per i controlli amministrativi sulla gestione dei rifiuti dello stabilimento Enichem di Priolo. Con questa carrellata di numeri si riassume una delle pagine più oscure della più importante azienda chimica italiana, coinvolta in un traffico di rifiuti svelato da un’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza di Siracusa e coordinata dal sostituto procuratore Maurizio Musco. Tutto è iniziato il 10 settembre 2001 quando, in seguito allo sversamento in mare di un’ingente quantità di acido solforico (da cui il nome dell’inchiesta “Mar rosso”), partirono le denunce di alcuni cittadini.

L’accusa mossa dagli inquirenti è grave: tutti gli arrestati sono accusati a vario titolo di aver costituito “una stabile associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di ingenti quantità di rifiuti pericolosi contenenti mercurio, miscelando rifiuti pericolosi, utilizzando formulari falsi, indicando falsi dati nei certificati di analisi, trasportandoli in discariche non autorizzate e smaltendoli in violazione alle prescrizioni di legge”. I dirigenti arrestati sono l’ex e l’attuale direttore dello stabilimento di Priolo, l’ex vicedirettore e attuale direttore del petrolchimico di Gela, i responsabili dei seguenti settori: sicurezza; controllo e tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti; ecologia; gestione amministrativa dei rifiuti; laboratorio chimico; gestione del reparto cloro-soda; produzione del reparto cloro-soda; gestione del reparto aromatici; produzione del reparto aromatici. A questi vanno aggiunti il responsabile, il capo, un’assistente del reparto aree comuni e il capo del reparto cloro-soda dello stabilimento.

Per la Procura di Siracusa, i rifiuti dell’Enichem di Priolo non venivano smaltiti negli impianti per rifiuti pericolosi, ma in quelli non autorizzati a ospitare questo tipo di rifiuti, tra cui numerose discariche, anche di classe 2A per rifiuti inerti, in Sardegna, a Ravenna, Crotone e Brindisi. Parte dei rifiuti venivano scaricati illegalmente addirittura nei tombini del petrolchimico che scaricano direttamente in mare. In alcuni casi sul fondo dei fusti contenenti gli oli esausti del petrolchimico sono stati trovati piccoli involucri in plastica che nascondevano rifiuti ben più pericolosi. Il tutto per risparmiare soldi a danno dell’ambiente e della salute dei cittadini che vivono in quelle aree, così come ricordato dal procuratore generale di Siracusa, Roberto Campisi: “Da questa indagine è emerso che l’attività d’impresa era fortemente connotata da una volontà di riduzione dei costi, sia a livello alto che a in quello intermedio dell’azienda”. I costi affrontati dall’azienda, infatti, secondo quanto accertato durante l’inchiesta, erano inferiori di circa il 400% rispetto ai prezzi praticati sul mercato. E ancora: “Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali emerge la disinvoltura e il sostanziale disprezzo per il valore dell’ambiente e dunque della stessa vita umana”.

Vale la pena ricordare a tal proposito i risultati delle perizie tecniche sul tavolo del Procuratore capo Roberto Campisi e del suo sostituto Maurizio Musco, secondo i quali sembrerebbe emergere una vera e propria emergenza sanitaria e ambientale: «Le analisi compiute - ricorda Campisi - hanno già

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portato ad accertare risultati preoccupanti per la presenza di metalli pesanti nei pesci della rada di Augusta». Ancora più inquietanti le dichiarazioni del Procuratore capo sull’eventuale correlazione tra l’inquinamento industriale e la nascita in zona di bambini malformati, che nel 2000 sono stati il 5,6% sul totale dei nati, contro la media regionale del 2% secondo l’Oms. Anticipando parte dello studio che la Procura ha effettuato su 600 coppie di genitori locali, la metà delle quali negli ultimi 10 anni hanno avuto figli con malformazioni, il procuratore Campisi ha sostenuto che «comparando gli stili e le abitudini alimentari nel periodo della gestazione di questi due gruppi di trecento genitori, abbiamo verificato che una quota significativa tra quelli che hanno poi generato figli con malformazioni avevano utilizzato pesce proveniente dalla rada di Augusta».

Tornando alle indagini il coinvolgimento dei vertici del petrolchimico sarebbe confermato da intercettazioni telefoniche e ambientali, possibili grazie al nuovo delitto di organizzazione di traffico illecito di rifiuti. Il 17 novembre 2001, il giorno dopo aver appreso dell’apertura dell’indagine avviata dalla procura di Siracusa, i massimi dirigenti del polo industriale organizzano un incontro nell’ufficio del direttore dello stabilimento. Le “cimici” poste dagli investigatori avrebbero ascoltato il colloquio tra i vertici del petrolchimico, alcuni capi settore e persino un dirigente della sede centrale di Milano. Viene fatto il punto sulle attività dell’impianto, sulla sistematica miscelazione abusiva dei rifiuti pericolosi e sulla “scientifica” falsificazione dei certificati analitici che accompagnano i rifiuti. Nelle fasi conclusive della conversazione, secondo quanto riportato nel provvedimento firmato dal Gip del Tribunale di Siracusa Monica Marchionni, si fa riferimento al progetto di installare una macchina per il sollevamento dei rifiuti per dichiarare “falsamente” alle autorità di controllo che l’apparecchiatura sarebbe stata utilizzata per caricare i rifiuti nei mezzi di trasporto. In realtà, secondo gli inquirenti, “il macchinario servirà per miscelare i rifiuti all’interno dell’impianto senza che possa essere visto dall’esterno”.

A questo punto è necessaria un’indagine sugli altri impianti petrolchimici del ex gruppo Enichem, oggi Syndal, e di Polimeri Europa. Viste le responsabilità per l’impianto di Priolo sarebbe opportuno che il Ministero dell’Ambiente inviasse tecnici anche presso gli altri 13 impianti petrolchimici italiani, da Marghera a Porto Torres, da Brindisi a Mantova, per verificare la corretta gestione dei rifiuti e il rispetto della normativa ambientale. 2.1.2 I fanghi rossi di Portovesme

Nel comune sardo di Portoscuso (Ca), in località Sa Foxi – Portovesme, esiste da tempo un bacino di stoccaggio di fanghi rossi prodotti dalle attività industriali della società Eurallumina. Il territorio circostante ha già pagato un pesante tributo al dio della produttività, l’ambiente appare definitivamente compromesso, eppure gli appetiti dell’Eurallumina non sembrano essere finiti

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visto che ha da poco richiesto alla Regione Sardegna di realizzare una discarica di 80 ettari a mare per 10 milioni di metri cubi di fanghi rossi.

Lo studio di fattibilità disegna uno status dell’ambiente limitrofo all’attuale sito di ubicazione del bacino Sa Foxi critico per diversi aspetti: - qualità dell’aria parzialmente compromessa dalla presenze dell’area

industriale; - qualità del suolo scadente e tale da configurarsi come area contaminata ai

sensi della normativa per la bonifica dei siti contaminati (D.M. 471/99) - inquinamento dell’acqua di falda - inquinamento dell’acqua di mare e dei sedimenti marini.

Insomma il quadro è tale che l’area deve essere oggetto di risanamento e non di ulteriore compromissione con nuove opere di smaltimento. Nello specifico si evidenzia, come attestato anche dalle segnalazioni dei pescatori della zona, che l’attuale bacino Sa Foxi, per via della presenza della prospiciente scogliera di protezione a mare, ha alterato la dinamica naturale costiera e sono evidenti i segni di degrado nella zona marina immediatamente antistante la porzione centrale dell’attuale bacino. L’ampliamento a mare del bacino esistente andrebbe altresì ad occupare una zona marina degradata proprio dalla presenza dell’attuale bacino: dovrebbe pertanto essere considerato il degrado aggiuntivo sul fondale marino connesso all’ampliamento a mare del bacino che avrà sicuramente effetti sul regime di sedimentazione nella fascia costiera.

Il Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti Speciali, approvato dalla G.R. in data 30.04.02 (del. 13/34), ha fornito le linee guida per la gestione dei rifiuti prodotti dai vari settori produttivi e nello specifico ha esaminato la problematica inerente i “fanghi rossi” prodotti dallo stabilimento della Società Eurallumina. Il Piano segnala che già nella programmazione precedente (Piano Smaltimento Rifiuti Speciali del 1992) era stata individuata la necessità che l’Eurallumina nel tempo provvedesse a intervenire sulle caratteristiche del processo produttivo al fine di limitare la produzione dei rifiuti e/o di migliorarne le caratteristiche al fine di massimizzare il recupero ed i campi di applicazione del rifiuto stesso. Ciò in quanto le elevate produzioni (400.000 t/a di solidi secchi) mettevano in crisi in prospettiva il sistema di gestione del rifiuto, basato esclusivamente sullo stoccaggio nel bacino Sa Foxi, la cui volumetria iniziale di 6,5 Mmc poteva essere sufficiente solo fino al 2000. Il Piano del 2002 menziona che, nonostante queste indicazioni, negli anni ’90 il sistema di gestione non si è modificato ma, al contrario, sono aumentate le produzioni di “fanghi rossi” fino al loro raddoppio (circa 800.000 t/a di solido secco pari a 1.200.000 t/a di tal quale): vi è stata pertanto la necessità di aumentare la capacità del bacino con la progressiva sopraelevazione degli argini fino ad una capacità di 13 Mmc.; attualmente si sta esercendo il bacino col 5° argine ed in prospettiva sono previsti altri due argini: col 7° argine si raggiungerà una volumetria di circa 18 Mmc che potrà soddisfare le esigenze di Eurallumina fino al 2005.

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Il nuovo intervento di ampliamento del bacino di stoccaggio, propone la realizzazione di opere marittime come una nuova scogliera a mare quale presidio antierosione e nuovo argine a mare. Questi interventi, che modificano sensibilmente la linea di costa, devono quantomeno essere equiparati alla realizzazione di porti marittimi che devono essere assoggettati a Valutazione di Impatto Ambientale Nazionale ai sensi del D.P.C.M. n°377 del 10.08.1988. Peraltro il processo naturale del trasporto litoraneo dei sedimenti è già stato turbato da interventi antropici (quali moli e opere di difesa della costa), in particolare la realizzazione dell’attuale scogliera parallela alla riva prospiciente il bacino che ha esaltato il trasporto delle sabbie: dunque l’impatto di una nuova opera di sbarramento a mare è importante e deve essere esaminato al massimo livello possibile, quale appunto la Valutazione di Impatto Ambientale Nazionale col coinvolgimento del Ministero dell’Ambiente.

Lo studio di fattibilità non si sbilancia sulla valutazione delle interferenze con l’ambiente marino limitrofo ed è necessario che i primi risultati dell’indagine modellistica vengano verificati con modelli di maggior dettaglio.

Inoltre non si approfondisce il bilancio dei materiali necessari per la realizzazione della nuova scogliera a mare e dei riempimenti necessari. Quali sono i materiali ipotizzati per il riempimento per la realizzazione del nuovo argine di contenimento dei fanghi rossi?

Si prospetta il nuovo bacino con caratteristiche drenanti al pari dell’attuale che comunque già interferisce con l’ambiente come dimostrato dai diversi studi fin qui condotti e dall’avvio da parte della stessa Eurallumina del Piano di Caratterizzazione considerando il bacino come opera che necessita di bonifica ai sensi del D.M. 471/99); non si ritiene di dover trattare l’opera come una discarica, quale in realtà è e quindi con la necessità di rispettare i requisiti stabiliti dalle norme comunitarie (direttiva 31/99/Ce) per le discariche di rifiuti non pericolosi (impermeabilizzazione di fondo e pareti).

Per realizzare l’opera si ipotizzano deroghe, con apposito Accordo di Programma, al rispetto di vincoli esistenti: l’area infatti rientra nell’ambito n°1 del P.T.P. n°14 e non può essere interessata da nuovi interventi; altresì è in contrasto con il PUC di Portoscuso (adottato in data 19.97.99) che indica la zona come area di tutela integrale (zona H1). Inoltre l’ambito 1 del PTP 14 e la vicina laguna di Boi Cerbus sono individuati come Siti di Interesse Comunitario (SIC).

Inoltre la localizzazione dell’ampliamento del bacino attuale è in contrasto anche con i criteri specifici emanati dalla Regione (delib. della G.R. n°26/6 del 20.06.2000) per il giudizio di non idoneità di siti di localizzazione di impianti di gestione rifiuti: gli ambiti di grado 1 del PTP hanno un vincolo integrale così come le spiagge, i compendi sabbiosi e le loro immediate adiacenze.

L’Accordo di programma che si vorrebbe utilizzare ai sensi dell’art.28 della L.R. 45/89 sarebbe valido per realizzare opere in vari settori, tra cui

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quello industriale, nella fascia entro 500 metri dal mare, ma non per fasce entro il mare.

L’Accordo di programma dovrebbe essere promosso dalla Regione. E’ paradossale pensare che sia proprio la Regione, le cui indicazioni e criteri in materia di gestione dei rifiuti sono stati sempre disattesi dall’Eurallumina, a promuovere sanatorie e deroghe a vantaggio della stessa Società. 2.1.3 Il Ponte sullo stretto

Il Via libera ambientale è arrivato il 20 Giugno scorso. Sembrerebbe dunque tutto pronto per i cantieri - da avviare nei primi mesi del 2005 - in modo da inaugurare il Ponte nel 2011, dopo aver speso almeno 6 miliardi di euro. Ma prima di passare alla fase esecutiva sono molti i dubbi aperti sulla realizzabilità dell'opera. Intanto perché il progetto preliminare esce notevolmente cambiato dalla Valutazione di Impatto Ambientale, modificato nei contenuti, nelle soluzioni, negli studi ancora necessari e quindi con una forte lievitazione dei costi. In secondo luogo perché su tutta la procedura avviata sono molti i punti poco trasparenti, i passaggi saltati per "velocizzare" la realizzazione. Uno su tutti appare clamoroso e in evidente conflitto con le Direttive europee: nessuno ha potuto vedere i documenti richiesti alla Società Stretto di Messina dalla Commissione VIA per integrare delle analisi e delle soluzioni ritenute non complete. Integrazioni non da poco, geologiche e naturalistiche, ma anche collegamenti ferroviari e stazioni non considerate nel progetto. Bene questi documenti nessuno li ha potuti vedere, né presentare osservazioni, il Ministero dell'Ambiente ha deciso di non renderli pubblici malgrado siano indispensabili per valutare l'insieme degli impatti dell'opera. Su questo come su altri punti sono pronti i ricorsi di Legambiente e delle altre associazioni ambientaliste.

I clan sono già al lavoro per prendere parte alla costruzione del Ponte sullo Stretto, dalle cave al calcestruzzo, fino alla gestione dei cantieri. Al di là dei forti dubbi sull’effettiva fattibilità anche finanziaria dell’opera - senza un enorme investimento da parte dello Stato, a spese di altre opere più utili e urgenti - accanto a quelli sul suo devastante impatto ambientale esiste, insomma, il serissimo rischio di infiltrazioni mafiose, messo peraltro nero su bianco in uno studio ufficiale sull’impatto criminale del Ponte. Un pericolo ribadito, per quanto riguarda le opere pubbliche in senso lato, anche dal procuratore generale della Corte di Cassazione, Francesco Favara. "Si conferma l'interesse di Cosa nostra e della criminalità organizzata nazionale per la manipolazione illecita degli appalti - ha detto Favara nel suo discorso d'inaugurazione dell'anno giudiziario 2003 - e neppure il progressivo inserimento del sistema economico italiano nell'ambito europeo è sfuggito all'interesse di tali organizzazioni, che si sono attrezzate in questo campo anche con il tentativo di instaurare proficue relazioni con importanti espressioni dell'imprenditoria, della finanza e della pubblica amministrazione".

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Quello del procuratore generale è l’ultimo, autorevole, segnale d'allarme partito dal cuore delle istituzioni. Lo scorso ottobre, nel corso di un'audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, il ministro degli Interni Giuseppe Pisanu ha dichiarato che “la criminalità organizzata ha un interesse rinnovato nel settore degli appalti pubblici, in particolare sull'ampliamento e l'ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria e sui lavori per il Ponte sullo Stretto di Messina”. A pochi giorni dall'allarme lanciato dal Viminale, le forze dell'ordine hanno effettuato una serie di blitz contro l’infiltrazione della criminalità organizzata nei lavori per la terza della A3 Salerno-Reggio Calabria, prima sul tratto salernitano e poi su quello cosentino.

Ma anche sul possibile ingresso dei clan nel maxi-affare del Ponte sullo Stretto, gli inquirenti hanno raccolto più di un semplice sospetto. “Esistono elementi concreti sotto il profilo investigativo - ha affermato Alberto Cisterna, sostituto procuratore e componente del Servizio appalti della Direzione nazionale antimafia (Dna) - per affermare che la ‘ndrangheta si sta preparando ad approfittare dell'affare miliardario costituito dalla sua realizzazione”. Molte cosche calabresi, ha proseguito il magistrato, starebbero per entrare “in cordate d'impresa che potrebbero avere parte negli appalti al momento in cui saranno chiamate dal general contractor (un’unica mega-impresa cui lo Stato affida il compito di progettare e costruire l'opera, ndr)”. Si tratta delle stesse famiglie già denunciate dal Rapporto Ecomafia 2002 per le attività illecite legate all'edilizia: Alvaro, Iamonte, Latella, Libri, Molè, Garonfolo, i Raso-Gullace-Albanese, i Bellocco, i Serraino, i Rosmini e i Piromalli. Riciclando i soldi provenienti delle estorsioni entrerebbero a far parte di società pulite, soprattutto dei distretti industriali del Nord. E da lì, lontani dai riflettori, i “mafio-imprenditori” preparerebbero l'assalto nei minimi dettagli.

Per ridurre il rischio infiltrazione il procuratore generale della Corte d’appello di Reggio Calabria, Giovanni Antonino Marletta, ha proposto che “la Regione Calabria, soprattutto in vista della grandiosa intrapresa del ponte sullo Stretto di Messina, approvi una legge sugli appalti” simile a quella adottata dalla Regione Sicilia, “che in pochi mesi, da alcune centinaia, ha ristretto a poche decine le aziende che partecipano ai bandi”

La costruzione del Ponte a campata unica più lungo al mondo, infatti, è un’impresa ingegneristica unica e un affare altrettanto colossale. E i clan ne sono ben consapevoli. Nessuna lotta per accaparrarsi l'intera torta allora: anche singole fette sono ampiamente soddisfacenti. Inoltre una nuova faida attirerebbe l'attenzione degli inquirenti. È più probabile che entri in gioco “una strategia che porterà le cosche a trovare un accordo per guadagnare tutte - spiega Cisterna - anche se quelle più forti imporranno un pizzo minimo alle famiglie della 'ndrangheta che vengono da fuori provincia, facendo pagare il 3 e non il 5% come adesso”.

Ma il business su cui si stanno attrezzando le famiglie mafiose non è solo quello strettamente legato all'edilizia e ai trasporti. Anche l'indotto fa gola: dal catering per gli operai (basta pensare che durante la costruzione del porto di

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Gioia Tauro Gioacchino Piromalli gestì direttamente le mense) agli alloggi, dai trasporti sui cantieri alle forniture che non sono oggetto di appalto. Il procuratore di Messina Luigi Croce, in un'intervista a Famiglia Cristiana, ha addirittura affermato di non ritenere “che i clan possano infiltrarsi in modo determinante nelle imprese di livello mondiale che parteciperanno alle gare d'appalto. I mafiosi - ha proseguito il magistrato - interverranno semmai quando i cantieri saranno aperti. Imponendo o cercando di imporre le ditte per il movimento terra, per le forniture, per la sorveglianza dei cantieri, per la manodopera”.

Anche la “compartecipazione” del versante siciliano, quello di Cosa nostra, si risolverà come più volte è successo in passato: a tavolino. A detta degli inquirenti già esistono contatti tra siciliani e calabresi per spartirsi l'attività estorsiva. D'altro canto già due volte gli agrigentini sono andati in Calabria per mettersi d'accordo con i Piromalli: in quel caso la posta in gioco era il porto di Reggio.

Per rafforzare l'attività di prevenzione, lo scorso novembre è stato costituito un pool di magistrati composto da due sostituti procuratori della Dna e due procuratori provenienti rispettivamente delle direzioni distrettuali dei due “piloni” del Ponte, Reggio Calabria e Messina. Il pool, ha spiegato il procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna, “lavorerà a delle idee investigative per evitare le infiltrazioni, con particolare attenzione a quel 30% di finanziamenti che la legge obiettivo riserva alle imprese locali”.

Gli organismi deputati a vigilare sugli appalti pubblici sono numerosi: dal Gruppo di monitoraggio sul Ponte sullo Stretto presso il ministero dell'Interno al gruppo interforze coordinato dalla Direzione investigativa antimafia (Dia); dall'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici al Servizio alta sorveglianza sulle grandi opere presso il ministero delle Infrastrutture. Il rischio di sovrapposizioni è forte, tanto che il procuratore Vigna ha più volte affermato la necessità di un coordinamento: “C'è un tavolo per la giustizia - ha dichiarato - facciamone uno anche per i lavori pubblici”. E ha puntato il dito contro “l’eccessiva farraginosità” della legislazione in materia di appalti, auspicando che arrivi in tempi brevi una razionalizzazione efficace. “Dopo la legge Merloni del '94 abbiamo avuto la bis, la ter e la quater che annuncia una nuova legge. Poi c'è quella sulle grandi opere con il suo regolamento, attraverso la quale crea un sistema legislativo speciale. Poi ancora le leggi regionali in materia. Troppe norme incidono sulla libertà d'impresa e creano insicurezza negli imprenditori”.

Il 20 giugno scorso si è aggiunto dunque un nuovo tassello importante all’opera più inutile che si possa immaginare per il Sud. La nuova Commissione Via ha dato una valutazione di impatto ambientale positiva al progetto preliminare del Ponte sullo Stretto, condizionando però l'assenso ad una serie di prescrizioni che modificano sostanzialmente il progetto. Variazioni che sicuramente influenzeranno anche il costo economico dell’opera, rendendolo molto più oneroso. Ma quello che è veramente assurdo è che il progetto, spacciato fino a oggi come definitivo, in realtà presenta una serie

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infinita di buchi e le prescrizioni della commissione via lo testimoniano. Stiamo insomma per buttarci in quella che pomposamente viene definita l'ottava meraviglia del mondo senza avere chiari alcuni elementi progettuali indispensabili. Un bel pasticcio.

Lacune colpevoli e taciute fino ad oggi sia dall’amministrazione centrale dello stato che dalla società Ponte sullo Stretto di Messina. Lo testimoniano con evidenza le scarne osservazioni (8 pagine in tutto per un ponte sospeso di 3.300 metri!!!) tra cui si legge: diamo "parere favorevole circa la compatibilità, fatti salvi tutti gli adempimenti e le autorizzazioni, a condizione che si ottemperi alle prescrizioni sopra riportate. E quali sono questi adempimenti? Studi geologici, studi sismici, studi tettonici, uno specifico piano di monitoraggio per i Siti di importanza comunitaria, una ricostruzione del modello idrogeologico per tutte le gallerie. Ma allora viene spontanea la domanda? Ma la società Ponte sullo Stretto di Messina come ha fatto a disegnare un progetto senza tener conto di questi aspetti basilari. Ecco quanto traspare dalla Via: “Si prescrivono studi geosismologici e geotettonici [...] al fine di una ricostruzione integrata della geometria del bacino e della sua posizione nell'ambito delle geostrutture sismogenetiche regionali; per i due Pantani di Ganzirri (siti di importanza comunitaria) visti i delicati equilibri idrodinamici tra le falde acquifere e le acque marine, le fondazioni delle torri profonde oltre 50 metri e tutti gli scavi devono essere perfettamente isolate da un punto di vista idraulico; per tutte le gallerie va ricostruito il modello idrogeologico del sottosuolo. Si prescrive per le aree Sic e per le aree prossime uno specifico piano di monitoraggio che consenta di valutare anche gli eventuali effetti di disturbo da parte di cantieri e strutture. Si prescrive per le attività di cantiere un Piano di Gestione Ambientale secondo i criteri della ISO 14001. Per assicurare la compatibilità dell'opera si dovrà attuare una significativa riqualificazione del territorio e delle sue realtà anche al fine di risolvere le contraddizioni accumulatesi nel tempo”. Ultima, ma non in ordine di importanza, l’assenza della Valutazione ambientale del collegamento ferroviario tra il Ponte e la rete nazionale. Non c'erano nel SIA, non ci sono ancora. Come si fa a pensare che non siano parte integrante della valutazione? Ora Legambiente pone un interrogativo al Cipe, che dirà l’ultima parola sul progetto preliminare: “Quali sono a questo punto i costi veri? Quanto è modificato il progetto? Chi paga le modifiche?”. 2.1.4 Addio Scopello

Uno dei tratti di costa più belli dell’intera Sicilia – quello che va da

Castellammare del Golfo alla Riserva Naturale dello Zingaro – e le campagne tutt’intorno l’antico borgo di Scopello rischiano di essere stravolti da una colata di cemento senza precedenti grazie al Piano Regolatore Generale approvato pochi giorni fa dal Consiglio Comunale di Castellammare.

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Se tale piano dovesse diventare esecutivo, Scopello e tutta la fascia costiera verrebbero prese di mira dalla speculazione e sarebbero in breve tempo trasformate in un unico, abnorme “vacanzificio”, ovvero in uno di quei “non-luoghi” delle vacanze ormai da tempo disertati dai turisti e dai visitatori più accorti.

Secondo le stime del Sindaco si tratterebbe di reperire “solo” 3.000 nuovi posti letto (in un paese in cui si trovano già ben 4.300 case non abitate stabilmente), ma in realtà le aree destinate ad attrezzature alberghiere sono così estese e con indici così elevati da consentire in teoria, dati alla mano, la realizzazione di circa 30.000 posti letto!

Il Comune di Castellammare giustifica questa manovra di bassa mercificazione delle bellezze del territorio con il solito ricatto della ricaduta positiva sull’asfittica economia del paese. In realtà, questo P.R.G, identificando il turismo con la speculazione edilizia, non fa che proporre un modello di sviluppo antiquato e rivelatosi già altrove fallimentare.

Il progetto in questione, che prevede, tra l’altro, la costruzione di strutture ricettive su tutta la fascia costiera e l’urbanizzazione di Scopello con annesso depuratore, megaparcheggi e circonvallazione di 12 mt, stravolgerebbe irreparabilmente l’iconografia dei luoghi e l’identità storica dell’antico borgo seicentesco e della stessa Tonnara, le cui prime notizie storiche risalgono al 1200. Ma non solo il territorio ne verrebbe alterato: anche noi non ci riconosceremmo più nei nostri luoghi, perdendo così la nostra identità e la memoria di ciò che siamo stati.

La via da seguire non può essere quella del depauperamento delle risorse (in questo caso un patrimonio naturalistico e storico per cui la zona è giustamente rinomata in Italia e all’estero), ma, al contrario, quella della loro salvaguardia e corretta valorizzazione in funzione di un uso eco-sostenibile delle stesse.

La vicina Riserva dello Zingaro che, sottratta 20 anni fa alle mire degli speculatori del tempo, è adesso uno dei luoghi più rinomati e visitati della Sicilia, rappresenta un esempio in questo senso.

Eppure il P.R.G. ha purtroppo già varcato la soglia del comune di Castellammare e si appresta adesso a passare al vaglio dell’organo superiore competente, il Consiglio Regionale di Urbanistica, dove potrebbe ancora essere bloccato. 2.1.5 La saracinesca della vergogna

Un’eterna telenovela, di quelle purtroppo note nel nostro Paese quando, da parte delle amministrazioni pubbliche, si tratta di prendere decisioni ed assumersi responsabilità. Punta Perotti a Bari, l’Ecomostro più famoso di Italia secondo solo al fu Hotel Fuenti, è ancora lì. Eterno ed immutabile, con qualche anno in più, ancora più brutto ma in piedi e tutto intero. Il Comune ha persino proseguito la meritevole opera di riqualificazione del lungomare “Pane e

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Pomodoro”, restituendo alla città un pezzo importante di identità . Ma a guardare i fatti sembra che il Sindaco di Bari ritenga che anche Punta Perotti sia parte dell’identità barese. Dopo anni di rimbalzi di responsabilità, accuse, lavate di mani, finalmente si è stabilito che deve essere il Comune di Bari ad abbattere l’ecomostro, la “saracinesca” come lo chiamano i baresi. Eppure nulla si muove.

In data 28 maggio 2003 la Corte di Cassazione ha depositato la sentenza con cui ha rigettato gli incidenti di esecuzione proposti sia dagli ex proprietari del complesso di Punta Perotti, sia dal Comune di Bari. Quest'ultimo, in particolare aveva impugnato l'ordinanza del gip del Tribunale di Bari che aveva individuato nel Comune il soggetto competente a demolire.

Con la sentenza in argomento la Cassazione ha affermato il potere - dovere dell' Amministrazione comunale di procedere alla demolizione del manufatto abusivo". La Suprema Corte, inoltre, nel citare la regola giuridica di riferimento, contenuta nell’art,. 7 della L. n.47 del 1985, ha fatto riferimento alla eccezionale possibilità che il Comune decida di non procedere alla demolizione in considerazione di una duplice valutazione del C.C. in ordine alla prevalenza di un interesse pubblico che vada in senso contrario alla demolizione, nonché al presupposto accertamento in ordine alla compatibilità urbanistica e/o ambientale del manufatto.

Detta eccezionale possibilità, incidentalmente e marginalmente rappresentata dalla Cassazione sta diventando il nuovo grimaldello per rimettere in discussione le certezze ed i risultati tanto faticosamente raggiunti.

Legambiente ritiene che la valutazione discrezionale cui è chiamato il Consiglio comunale non possa legittimare lo stesso ad una scelta arbitraria, ma dovrà essere condotta alla stregua dei criteri indicati dalla norma che non potranno che condurre alla demolizione, stante l'evidente contrasto del manufatto con gli interessi ambientali (se così non fosse non vi sarebbe stata alcuna pronuncia giurisdizionale in ordine al carattere abusivo), nonché la assoluta insussistenza dell'interesse pubblico alla conservazione dello stesso. A quest'ultimo riguardo, anzi, l’interesse pubblico milita in senso assolutamente contrario al mantenimento dell’ecomostro, come dimostrato dalla rivolta della cittadinanza barese, che dovrebbe identificare l'interesse pubblico di cui il Comune deve tener conto ai sensi dell'art.7 della L. n.47 del 1985.

Alla luce di queste innegabili considerazioni l'atteggiamento troppo cauto (per usare un eufemismo) del Sindaco e così propenso ad individuare sempre nuovi ostacoli alla demolizione, induce la Legambiente a formulare un giudizio negativo in ordine alla volontà di risolvere il problema in conformità con gli interessi ambientali e dunque della comunità che lo stesso dovrebbe rappresentare.

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2.1.6 Tornano all’assalto i pirati del Golfo di Taranto Sono trascorsi due anni dal terribile incendio che il 25 giugno 2001

devastò 48 ettari di pineta in pini d’aleppo secolari e numerose strutture commerciali della Marina di Pulsano. Fu cancellato l’intero tratto di costa a pineta e nulla è stato fatto per la riforestazione, rimanendo tuttora a rischio la piccola parte di pineta ancora esistente, in mancanza di un piano di sicurezza antincendio. Restano ancora da chiarire le cause dell’incendio e le responsabilità, in quanto il procedimento giudiziario in atto è stato trasferito dal tribunale di Taranto a quello di Potenza.

Subito dopo l’incendio, l’Amministrazione comunale di Pulsano, ha approvato nella zona ex pinetata, un progetto per la costruzione di un parcheggio con annessi locali di pubblica utilità, denominandolo: “dotazione di servizi e riforestazione di Lido Silvana”. Per riforestazione, era prevista la piantumazione di oleandri. Legambiente Pulsano, si è opposta al progetto, anche in Consiglio Comunale (con propri aderenti), ed in collaborazione dell’Ispettorato delle Foreste di Taranto ha ottenuto l’annullamento del progetto dal parte del T.A.R. di Lecce.

Ancora dopo l’incendio, l’Amministrazione comunale di Pulsano, ha rilasciato una concessione edilizia allo stabilimento balneare “Fatamorgana lido”, per la ricostruzione di uffici, box e locali distrutti dall’incendio (strutture preesistenti precarie). La ricostruzione si stava effettuando con l’utilizzo di centinaia di mc di cemento armato sulla spiaggia, da dove precedentemente era avvenuto un enorme sbancamento ed asportazione di sabbia. Legambiente Pulsano ha denunciato lo scempio e la zona è attualmente sottoposta a sequestro da parte della magistratura di Taranto.

Il bellissimo campeggio di Lido Silvana, immerso nella pineta che arrivava fino alla spiaggia, è stato completamente distrutto dall’incendio ed al suo posto è prevista la costruzione di un villaggio turistico della società KIRA, con strutture anche in cemento armato. Tuttora il progetto non è in attuazione per la ferma determinazione dell’Ispettorato delle Foreste di Taranto che ha imposto prioritariamente l’attuazione di un progetto di riforestazione.

Nella stessa zona sussistono resti archeologici riguardanti una villa romana e vasche del periodo imperiale. Vista l’incuria ed il disinteresse degli Enti preposti, Legambiente Pulsano ha interessato il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Lo stesso Ministero in data 3 marzo 2003 ha trasmesso alla Soprintendenza provinciale, la segnalazione per la migliore tutela e fruizione delle testimonianze antiche. Tuttora i resti sono in continuo degrado.

Il tratto di costa pulsanese di 7,5 km in molti punti e interdetto alla pubblica fruibilità per le numerose costruzioni e recinzioni presenti. Molte di queste hanno presentato condono edilizio e le pratiche sono praticamente inevase, come tutte quelle del territorio del Comune.

Il 31 gennaio 2003 il Consiglio Comunale di Pulsano ha adottato il Pug (Piano urbanistico generale) previsto dalla legge urbanistica regionale n°20/2001, che invece di indicare le linee di lungo termine su cui imperniare

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uno sviluppo locale efficacemente connaturato al territorio ne adombra un disastro dal punto di vista ambientale. Questo Pug sottrae la marina alla fruizione della comunità e da qualsiasi seria ipotesi di rilancio turistico sostenibile per svenderla sotto forma di una muraglia di case e strutture di enorme impatto ambientale: - campo da golf (!) della estensione di 60.000 metri quadri in prossimità

della costa, in una zona con presenze autoctone di macchia mediterranea. La zona soffre una carenza di possibilità irrigue ed è impensabile eseguire pozzi artesiani per il notevole aumento della salinità per l’avvenuto abbassamento della falda acquifera. E’ plausibile pensare che il progetto nasce dalla possibilità di accesso a finanziamenti comunitari.

- porto turistico “Terrarossa” per l’ormeggio per tutto l’anno di barche di grosse dimensioni e la realizzazione di strutture portuali dell’altezza di 8 metri che limitano la visibilità del mare.

- approdo turistico “Capparrone” ( a poche centinaia di metri dal primo), per barche di piccole dimensioni. Anche per questi progetti è plausibile pensare che nascano dalla possibilità di finanziamenti comunitari. Considerando anche la vicinanza del porto di Campomarino e del porto di Taranto.

- villaggio turistico “Li Vazzi” per la realizzazione di unità turistiche dell’altezza di mt 7,5 per 1.800 posti letti, che soffocherebbero l’antica masseria che dovrebbe essere recuperata e valorizzata.

- insediamenti alberghieri e scuola alberghiera in area boscata, incompatibili con le previsioni delle presenze turistiche della zona e incompatibili con l’attiguo parco “delle Cannedde” che risulterebbe totalmente circoscritto da queste strutture e dal preesistente residence Fata Morgana.

- centro commerciale e parcheggio multipiano a ridosso dell’area pinetata, con altezze edificatorie di 10 metri.

Insomma la ricetta è sempre la stessa: il cemento porta turismo. Peccato che tanti casi dimostrano il contrario e che mentre si discutono e si cerca di far partire progetti faraonici questa zona rimanga lontana dai grandi flussi turistici. 2.1.7 La voglia di condono del Comune di Lesina (Fg)

Sono circa duemila le costruzioni abusive situate nel comune di Lesina

(Fg) lungo una porzione di 9 km dell’istmo, compreso tra il lago omonimo e il mare: una fascia costiera di 300-400 m, compresa tra foce Schiapparo e Torre Mileto. Le costruzioni abusive sono state realizzate negli anni ’70 e ’80 nella fascia di 300 m dal mare e 200 dal lago, contrariamente a quanto previsto dalla normativa. Questa zona e’ priva di infrastrutture igienico–sanitarie appropriate e ospita nel periodo estivo dalle 4.000 alle 5.000 persone. Inoltre, l’area e’ interessata da vincoli: Parco Nazionale del Gargano; contigua alla ZPS “lago di Lesina” (codice it9110031); vincolo idrogeologico; zona sismica s=9; in zona b9 di valore rilevante e c) di valore distinguibile del PUTT/P (piano paesistico).

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Tempo fa si era parlato di demolizione con intervento del genio militare, ma nulla è stato fatto e ora si vuole legittimare e premiare l’illegalità diffusa di questo insediamento “spontaneo” di 1839 abitazioni (28% del tot. ab.) confermando le previsioni di una variante di recupero urbanistico (L. 47/85 e L.R. 26/85) prevedendo un PIRT (piano d’interventi di recupero territoriale) d’iniziativa privata per sanare l’edificato abusivo non sanabile ai sensi della L.R. 56/80 e 30/90 aggiungendo anche l’edificazione di completamento e la nuova edificazione nelle zone interstiziali. Tutto meno che la demolizione degli ecomostri. 2.1.8 Il Villaggio Vacanze Elisea

Tra i progetti in itinere per la realizzazione di nuovi insediamenti

immobiliari e Villaggi Turistici nelle aree finora rimaste libere nell'area tra Ravenna e il Delta del Po c'è quello sul quale si è già aperta una procedura formale da parte del Comune di Comacchio. Qui si è votato un nuovo sindaco, il pittore Giglio Zarattini (DS) eletto nel maggio 2002, già vicesindaco nella precedente amministrazione, che ha fatto della realizzazione di questo insediamento uno dei punti forti della sua campagna elettorale.

Sul piano normativo c'è da dire che già la Giunta Regionale intervenne verso la fine degli anni 80 bloccando l'espansione edilizia nell'area. I protagonisti politici dell'epoca sono scomparsi dalla scena anche per opera della magistratura, ma restano gli appetiti. Oggi c'è un piano regolatore comunale approvato da pochi mesi che prevede 34 ettari di urbanizzazione.

Il nuovo progetto privato occuperebbe altri 39 ettari in un'area del Parco del Delta del Po (area di Preparco) a due passi dalla spiaggia, dal sistema dunale e dalla Pineta. Il villaggio vacanze "Elisea" (2.500 posti letto) proposto dall'impresa Turistica immobiliare Medusa srl, dovrebbe insediarsi appunto in questa zona (area del Podere Forbino) una delle aree bloccate dalla Giunta Regionale all'epoca. Il costruttore Tomasi, proprietario dell'immobiliare (anche lui sostenitore dell'elezione del sindaco nelle ultime elezioni), è noto per aver costruito e venduto (anche grazie all'uso della pubblicità televisiva) buona parte delle seconde case di ultima generazione realizzate nei Lidi Comacchiesi. L'intervento, per la mole di cementificazione proposta, per le caratteristiche delle costruzioni, per i problemi che arrecherebbe alla mobilità in un'area già congestionata, presenta tutte le caratteristiche di una vera e propria struttura urbana con tutti i difetti che i turisti trovano già nelle loro città. Si tratta dell'ennesima operazione speculativa diretta a catturare investimenti in "beni rifugio" di risparmi in fuga dai BOT e dai CCT. Gli argomenti usati dai proponenti a difesa del loro progetto, criticato con dovizia di argomenti da Legambiente e dal WWF, sono stati assai deboli: una generica disponibilità a mitigare le cose più aberranti insieme al sostegno della tesi che le 2500 persone che arriveranno al villaggio Elisea useranno l'aereo e quindi non si sommeranno altre automobili! Non ci sarebbe nessun pericolo quindi né sul

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fronte del temuto aumento della mobilità, né per le dune e gli altri elementi di naturalità che hanno a suo tempo fatto sì che l'area scelta del Podere Forbino fosse prima inserita nel perimetro del Parco del Delta del Po e che oggi venga proposta per una nuova colata di cemento "nelle immediate vicinanze del Parco del Delta".

Legambiente ha fatto appello ai cittadini, al Parco, al Comune, alla Provincia e alla Regione perché siano bloccati questo ed altri progetti che si pongono in netto contrasto con le tendenze turistiche in atto e con la dignità e l'orgoglio di chi ama il proprio territorio e desidera difendere le sue zone più preziose da uno sviluppo dalle gambe corte. Purtroppo fino ad ora molti hanno preferito tacere. La Regione balbetta, il Parco del Delta del Delta del Po appare finora in una posizione abulica, il Comitato Scientifico presieduto da Giorgio Celli non si è ancora pronunciato. Purtroppo l'unica a parlare è stata la Provincia di Ferrara, organo di controllo per quanto riguarda gli strumenti urbanistici, e lo ha fatto con una delibera nella quale la Giunta Provinciale capeggiata da un esponente della Margherita, con un Vicepresidente DS (l'ex capogruppo alla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati On. Zagatti,) e un assessore verde all'ambiente, ha deliberato la costituzione di una "cabina di regia" con l'intento di garantire un esito favorevole alla procedura per la costruzione del villaggio sostenendo che questo rientra negli obiettivi del piano d'area. Una situazione che desta allarme. 2.1.9 Il miracolo di Porto Cesareo: il mare diventa cemento

La vicenda di Porto Cesareo è salita agli onori delle cronache in seguito

alle denunce di Legambiente che ha portato sul luogo anche la trasmissione “Le Iene”. La storia dei lotti interclusi e del pontile della penisola della Strea è ben ricostruita da Antonello Caporale, di cui riportiamo il testo dell’articolo uscito su Repubblica il 5 maggio scorso. «Hanno ventisette chilometri di costa, venti chilometri di dune, un parco marino. E ventimila case abusive. A Porto Cesareo, quindici minuti d'auto da Gallipoli, la perla del Salento, si sta a meraviglia. Bisognevoli di poco spazio i cittadini hanno acconsentito di abitare gli uni sugli altri. Una felice e creativa confusione: ogni abitazione ne contiene un'altra, ogni scala porta direttamente in strada, ogni infisso reca i segni dell’anodizzato e ogni muro è ornato dalle piastrelle da bagno. Chi può ha gli scarichi e le fogne. Chi non può butta l'acqua dalla finestra. Chi ha gli scarichi però paga l'Ici. Chi è senza no, non paga. A Porto Cesareo ingegneri e architetti si battono per attuare - almeno in tema di urbanistica - la devolution amministrativa. L'autonoma scuola di pensiero si è ultimamente esibita in consiglio comunale teorizzando il mare come area «regolarmente edificata». Con notevole sforzo teorico-comparativo gli ingegneri Nestola e Basile hanno dedotto che se gli uomini hanno costruito le case, il Creatore ha prodotto il mare. I primi hanno edificato col cemento, l'

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Altissimo con l' acqua. Due aree, appunto, «regolarmente edificate». Suggestionato dall'ardito teorema, il consiglio comunale della città salentina ha approvato. Il tutto per aprire la strada a nuove costruzioni sul filo della bellissima spiaggia. I fatti. L'anno 2003, il giorno 12 del mese di febbraio, il consiglio si riunisce in adunanza straordinaria. C'è da approvare il Putt, sigla che sta per piano urbano territoriale tematico. E' una legge della Regione Puglia e stabilisce vincoli a tutela del paesaggio. La Regione ha demandato a ciascun comune l'attuazione del piano spiegando che le restrizioni non si osservano in aree interne a perimetri già costruiti. Se il perimetro non c'è... beh allora bisognerà per ciascuna nuova costruzione chiedere un supplemento di vigilanza. Il sindaco di Porto Cesareo, Luigi Fanizza, Forza Italia, politico di lungo corso, chiama i due tecnici a individuare i perimetri costruiti. Gli ingegneri arrivano in consiglio comunale e illustrano il lavoro. Qui c'è un perimetro, qui un altro. Arrivano alle case di fronte al magnifico mare: tra le case e le onde c'è un lembo di spiaggia e varie attività commerciali: ristoranti, pub, friggitorie. Tirati su alla buona. Certo, se potessero allargarsi un po' , sarebbe meglio. L'opposizione alla giunta in carica (un fritto misto di Fi, An, Ds, Ppi), maligna annota: «Tre quarti degli esercizi commerciali - dice l'architetto Polimeno - sono di proprietà di parenti di tre quarti della giunta comunale». Quando in consiglio si arriva al dunque i tecnici spiegano che le case che affacciano sul mare costituiscono un perimetro, il mare un altro perimetro, quello che c'è in mezzo, la spiaggia, la darsena, il parcheggio, le dune, risulta area interclusa tra due perimetri. Se è interclusa, non si applica la legislazione più restrittiva. L'ingegner Nestola mette a verbale: «Secondo me bisogna operare in questo modo, sennò quelle aree non potrebbero mai essere intercluse. Il mare che funzione ha? E' evidente che deve costituire l'altra sponda per chiudere il cerchio». E il cerchio è stato davvero chiuso. Se anche a Bari approvano la teoria del mare edificato, si fa tombola. A Porto Cesareo si può ciò che altrove nemmeno si fantastica. Qualche anno fa il ministero dell'Ambiente ha voluto istituire il parco marino, area protetta per la bellezza dei fondali e l'unicità della flora. La scuola ingegneristica locale ha ritenuto che potesse realizzarsi un pontile, naturalmente in legno. Fatto il pontile ci si è accorti che, insomma, gli ormeggi sarebbero stati più sicuri se i pali in legno poggiavano su qualcosa di davvero solido. L'ufficio tecnico ha detto sì a piccole piattaforme in cemento armato sul fondale. Poi, per attivare un processo di internazionalizzazione - i turisti oggi vengono da Napoli e da Roma, domani chissà - si è pensato di dare un tocco da Miami beach e la macchia mediterranea è stata trasformata in un rigoglioso palmeto. Tutto nel parco marino; tutto a norma di legge. E lo sforzo comunicativo, ma qui siamo al marketing puro, non ha risparmiato i simboli della devozione popolare. Alla venerata Madonna del Perpetuo Soccorso Porto Cesareo ha voluto affiancare, affinché riscaldasse i cuori delle centinaia di pescatori, la figura protettiva di Manuela Arcuri. C'è davvero una statua della star, «moglie del pescatore di Porto Cesareo». Edificata, ma forse abusiva».

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2.1.10 La privatizzazione della costa abruzzese e la costruzione della caserma nella Riserva naturale di Pescara

Sono due i provvedimenti della Regione Abruzzo che motivano l’assegnazione della bandiera nera: il Piano demaniale marittimo e il provvedimento sull’edificazione a Pescara, all’interno della Riserva naturale della pineta D’Avalos, della caserma provinciale dei Carabinieri.

Il Piano demaniale marittimo presentato dalla Giunta regionale abruzzese prevede una riduzione della superficie complessiva della spiaggia libera dal 20% al 10% rispetto all’attuale, percentuale “teorica” poiché in essa vengono inclusi i servizi di pubblica utilità, tra cui servizi igienici, passerelle, ecc. Inoltre il Piano prevede l’aumento della concessione dell’area demaniale, la realizzazione degli stabilimenti balneari anche di quelli “a palafitte” (sulla costa rocciosa!), l’aumento del “fronte mare” dai 60 metri attuali ai 70. Non si evidenzia nessun intervento ecocompatibile a tutela dall’erosione e dei tratti di costa liberi. Nella cittadina di Vasto dove già è stato attuata una privatizzazione sfrenata della costa, a causa delle numerose concessioni, i risultati negativi non si sono fatti attendere: grandi proteste dei cittadini e una giunta comunale in piena crisi.

La Regione Abruzzo conquista la bandiera nera anche grazie al provvedimento poco trasparente con il quale ha dato il permesso di edificare, all’interno della Riserva naturale della pineta D’Avalos, la caserma provinciale dei Carabinieri, una struttura che priverà la Riserva dell’ultima testimonianza di continuità del bosco costiero con il mare. Il provvedimento della Regione Abruzzo ridimensiona il vincolo di inedificabilità all’interno della Pineta Dannunziana, Riserva Naturale in gestione al Comune di Pescara, e condanna la città a perdere un altro rarissimo tassello di verde. La modifica alla legge istitutiva della Riserva è contenuta in un comma della Legge finanziaria 2002 e consente la realizzazione di “opere per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Decidere di collocare all’interno della riserva imponenti edifici a servizio di una caserma è profondamente sbagliato sia dal punto di vista ambientale che urbanistico perché comporta per la città la sottrazione di 8000 metri quadrati di area verde con una colata di 23.000 metri cubi di cemento. Il luogo dove costruire la caserma del Comando Provinciale dei Carabinieri deve massimizzare i benefici derivanti dalla sua presenza senza compromettere lo stato e la funzionalità dei luoghi e il benessere dei cittadini. Il progetto è a forte impatto ambientale poiché prevede scavi profondi 5 metri per realizzare locali interrati che aggraveranno i problemi idrogeologici oltre a peggiorare la già precaria salute dei pini. La presenza della caserma peraltro mal si concilia con la prospettiva della riunificazione dei diversi comparti della pineta, con l’eliminazione delle strade che l’attraversano e con l’auspicabile pedonalizzazione della riviera.

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2.1.11 Le Bandiere nere nelle Marche La Bandiera nera viene assegnata alla raffineria API di Falconara per

aver causato in questi anni un pesante inquinamento ambientale della costa, in particolare del suolo del sottosuolo e delle falde. Infatti a causa dell’attività di raffinazione nel sottosuolo sono presenti notevoli quantità di prodotto idrocarburico in galleggiamento sulla falda, costituito prevalentemente da benzine, gasoli, MTBE ed altri oli più pesanti con fuoriuscita a mare e sul fiume. Tale processo è tutt’ora in atto e continua nel tempo a peggiorare compromettendo seriamente l'inquinamento del mare e delle falde. Il tutto ha contribuito sia a far dichiarare dal Consiglio regionale delle Marche l’area della bassa valle dell’Esino, dove insiste anche la raffineria, “ad elevato rischio di crisi ambientale”, sia a farla dichiarare dal Ministero dell’Ambiente “sito di interesse nazionale da bonificare” per la sua rilevante contaminazione ambientale. La presenza della raffineria sulla costa ha inoltre ridimensionato e compromesso la vocazione turistico-balneare di Falconara Marittima, preesistente prima dell’insediamento della Raffineria.

L’altra Bandiera nera viene assegnata all’Amministrazione comunale di Potenza Picena per aver previsto nel nuovo Piano regolatore migliaia di nuovi metri cubi di cemento nell’Oasi di Protezione della Fauna presso i laghetti di Potenza Picena, istituita dalla provincia di Macerata e gestita da un anno dalla nostra associazione. L’area naturale protetta, di elevato valore ambientale e collocata nel litorale costiero Nord di Potenza Picena, a tutt’oggi non è ancora compromessa dal mattone. E’ evidente il valore aggiunto di un area così importante la quale potrebbe qualificare significativamente anche l’offerta turistica di quel territorio.

2.2 Le vittorie di Mare Monstrum

Qualche volta anche nella vita reale, capita che dei tenaci Peter Pan riescano a mettere nel sacco degli scellerati Capitan Uncino. Questo è proprio quello che è accaduto ad alcuni “pirati delle coste” insigniti dalla bandiera nera che, da quattro anni, ogni estate Legambiente assegna a quei soggetti che si sono distinti per un comportamento particolarmente negativo ai danni del mare e dell’ambiente costiero. Il bottino portato a casa dopo quattro anni di denuncie è piuttosto soddisfacente, perché è stata proprio l’assegnazione della bandiera nera a bloccare molti scempi esemplari ai danni delle coste italiane, o comunque è servita a far punire i malfattori.

Percorrendo da nord a sud le coste della penisola vediamo alcune delle bandiere nere più significative, andate a segno. Era il 2001 quando fu assegnata la bandiera nera alla Stoppani di Cogoleto, l’azienda produttrice di cromo che per oltre un secolo ha inquinato il litorale antistante le spiagge di Arenzano e Cogoleto con cromo, cadmio ed altri metalli pesanti. La fabbrica ha inquinato anche il torrente Larone a causa del dilavamento dei fanghi stoccati nella

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discarica di Molinetto, le falde sotterranee sono risultate inquinate con valori ben 24.000 volte oltre i limiti di legge e problemi di inquinamento persistente si riscontrano anche sul mare e in atmosfera. Dopo l’assegnazione della bandiera nera, e dopo un’infinita serie di procedure giudiziarie, finalmente la fabbrica del cromo è stata chiusa e l’area è stata inserita nel Programma nazionale di bonifica. Ora è arrivato finalmente il momento di avviare iniziative economiche specifiche dell’area che non sono certo quelle della produzione chimica, ma semmai di turismo di qualità, tutela dell’ambiente e valorizzazione del territorio.

Cambiamo mare e arriviamo sull’Adriatico e precisamente sul litorale romagnolo. Qui ben due bandiere assegnate nel 2001 e nel 2002, hanno avuto ragione bloccando due situazioni che avrebbero danneggiato per sempre uno dei pochi tratti del litorale ancora intonsi e ben conservati. La prima denuncia era rivolta al progetto “Villa Marina” dell’industriale Giacobazzi, che aveva chiesto e ottenuto la concessione per la costruzione di una mega-struttura balneare sulla spiaggia di Marina di Ravenna che, una volta realizzata avrebbe stravolto l’unico tratto di spiaggia libera sulla quale si sono ancora mantenuti intatti i cordoni dunosi. Il tutto in area paesaggisticamente e ambientalmente vincolata, nonché Sito di Importanza Comunitaria. Il secondo caso era rivolto ai vandali delle dune dell’ex colonia Varese a Milano Marittima, sempre in provincia di Ravenna. Anche in questo caso uno splendido tratto di duna miracolosamente scampato all’urbanizzazione massiva di quest’area è stato vittima per anni di una serie di interventi vandalici e oggetto di mire speculative, nonché trasformato in pista per gare di motocross. Dopo l’assegnazione della bandiera nera, l’area è stata cintata, i rombi delle moto sono spariti e sono stati bloccati i progetti di speculazione.

Scendiamo di qualche chilometro lungo il litorale adriatico e arriviamo in Abruzzo, a Fossacesia in provincia di Chieti. Qui, purtroppo l’assegnazione della bandiera nera nel 2000 non è riuscita a bloccare la realizzazione, ormai purtroppo quasi completata, di un porticciolo turistico per circa 400 posti barca su uno degli ultimi tratti di costa non cementificata del litorale adriatico in prossimità della foce del fiume Sangro, all’interno dell’istituendo Parco Nazionale della Costa Teatina.

Tuttavia gli strali congiunti di Legambiente, Wwf e Italia Nostra, che si sono mobilitati per impedire la costruzione del porto, alla fine hanno sortito qualche effetto presso l'Unione europea che ha avviato un procedimento di infrazione nei confronti della Regione Abruzzo per l'intervento in un Sito di Importanza Comunitaria. Infatti, la speculazione nell’area di grande interesse naturalistico, interessata da flussi migratori avi faunistici, è stata particolarmente favorita dall’atteggiamento piratesco dell’amministrazione regionale, che dopo aver riconosciuto il valore naturalistico della zona, in un secondo momento, per consentire la realizzazione del porto, l’ha declassata. Il tutto per fare spazio ad un porto che oltre ai posti barca prevede bar, ristoranti, minimarket, negozi e strutture di pronto intervento. E come se non bastasse, a completare il quadro, ci sono i dati dell’Ucina che confermano come la

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domanda della navigazione da diporto poteva essere soddisfatta dalle vicine strutture di Pescara, Ortona e Vasto. Ma grazie al furore cementificatorio di Regione ed enti locali, il litorale abruzzese rischia di raggiungere in un brevissimo arco di tempo una densità di aree portuali da Guinness dei Primati: una ogni 13 chilometri. Nella stessa fascia di litorale, infatti, è già in programma la costruzione di nuovi attracchi, sebbene gli stessi operatori economici del settore abbiano espresso la propria perplessità rispetto a nuovi progetti.

Arriviamo in Puglia a Porto Miggiano, nel Comune di Santa Cesarea Terme in provincia di Lecce. Qui, nonostante l’allarme lanciato da Legambiente lo scempio ai danni di uno dei paesaggi cartolina del Salento si è compiuto. Ciò nonostante, a fermare i lavori sono stati i sigilli della Guardia di Finanza su ordine dei sostituti procuratori della Repubblica. Diverse persone ruisultano iscritte nell’elenco degli indagati per i lavori relativi alla costruzione del complesso turistico (dotato di ristorante, bar, due piscine di acqua salata, appartamenti e parcheggi su circa 45mila metri quadri), tra cui i titolari della Società che ha realizzato la struttura, un’ex Assessore di Lecce, il direttore dei lavori e il responsabile del Piano urbanistico.

Per finire la panoramica torniamo sul Tirreno, in Sardegna. Qui la bandiera nera assegnata al villaggio turistico Bagaglino Country Village di Stintino, è servita a mandare in galera un industriale bresciano, responsabile di una delle più grosse colate di cemento realizzata sulle coste sarde, di fronte all’isola dell’Asinara, quantificabile in 322mila metri cubi, 1400 ville per un totale di 7000 posti letto. Un complesso turistico parzialmente abusivo che ha letteralmente sconvolto Punta Su Torrione, un’area di straordinario valore naturalistico. Un bell’esempio di quell’imprenditoria che Legambiente combatte con ogni mezzo: fatta di un facile rapporto con le banche, fin troppo disponibili a finanziare l’impresa, un complesso di società che rende difficile ai creditori l’individuazione delle responsabilità, e poi un intrigo di sub appalti a piccole società artigiane saldate con modalità di pagamento quanto meno discutibili: si parla di cambiali, di tratte non autorizzate e quindi non protestabili, di appartamenti in permuta supervalutati, senza considerare che in alcuni casi la società capofila ha cercato la transazione offrendo ai creditori, secondo quanto riferito da un quotidiano locale, partite di biciclette e di computer, mobili per uffici e addirittura prosciutti e mortadelle.

Sempre in Sardegna, l’assegnazione della bandiera nera e le battaglie portate avanti dalla Legambiente locale per la spiaggia del Poetto, hanno fatto si che il per devastante ripascimento della spiaggia dei cagliaritani la provincia di Cagliari si impegnasse ad un’opera di ripristino del tratto di costa ferito. Il fatto ha dell’incredibile: grazie allo sversamento sull’arenile delle sabbie (dragate con autorizzazione del Ministero dell’Ambiente nel Golfo degli Angeli ad una profondità di 45 metri), la spiaggia dal tradizionale colore bianco è diventata nera. 370.000 metri cubi di sabbia scura, color cemento, sono stati riversati nel giro di poche settimane sulla spiaggia bianchissima del Poetto, cambiando un paesaggio unico nel Mediterraneo, punto di riferimento

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per migliaia di cagliaritani. Nessuna valutazione di impatto ambientale e nessuna gradualità in un’operazione che la Provincia di Cagliari ha portato avanti con arroganza a fronte delle preoccupazioni espresse dalla cittadinanza e da buona parte della comunità scientifica

Ma oltre alle bandiere nere, tra vittorie riportate dalle tante battaglie portate avanti da Goletta Verde e denunciate in questo dossier, sono senz’altro da annoverare gli abbattimenti degli ecomostri, i più “maestosi” casi di abusivismo edilizio che deturpano le nostre coste.

Fra gli abbattimenti eccellenti il primo da annoverare è sicuramente quello delle prime cinque torri del Villaggio Coppola “Pinetamare”, da registrare come un segnale molto positivo, in una battaglia che sebbene non ancora del tutto conclusa, si è trascinata per anni e anni. Per descrivere sinteticamente lo scempio del Pinetamare bastano poche parole: dune mobili e una splendida pineta di proprietà demaniale sostituite da un “paese privato e abusivo” di oltre 15.000 abitanti, un mostro di pietre e cemento lungo quattro chilometri costituito da otto grattacieli identici di dodici piani, con almeno ottanta appartamenti l'uno, 1300 posti auto, hotel e residence, pizzerie e rosticcerie, un porto privato per seicento posti barca, una chiesa e un cinema. Ad aprile di quest’anno è stata abbattuta la quinta torre a spese di chi aveva costruito abusivamente, ma il progetto di recupero del Villaggio Coppola non si deve fermare, occorre demolire le altre tre torri abusive e dare corso al progetto di riqualificazione dell’intera area. Nel frattempo 101 ettari della Pineta Grande, sopravvissuti al degrado, sono stati affidati al Corpo Forestale per un periodo sperimentale di tre anni, in modo che siano garantiti manutenzione e ripristino del verde

Completamente abbattuto, invece, il Villaggio Sindona di Lampedusa, dodici scheletri di cemento armato in stato di completo abbandono che hanno deturpato per quasi vent’anni una delle aree costiere più belle e interessanti dell’isola, Cala Galera, in zona A della Riserva naturale. La costruzione dell’ecomostro isolano risaliva al 1973 su un’area del demanio comunale, soggetta a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 1497/39. Nel 1968 il Comune vende l’area alla società Interfinanza s.p.a. di Michele Sindona, che avrebbe dovuto realizzarci un villaggio turistico. Nel 1986 viene emanato un decreto dell’Assessore Regionale al Territorio e Ambiente per l’apposizione del vincolo di inedificabilità assoluta su un’ampia fascia costiera, che comprende anche l’area di Cala Galera. Nel 1991 viene approvato il piano regionale dei Parchi e delle Riserve che prevede l’istituzione della Riserva di Lampedusa. Nel 1996, l’istituzione della Riserva Naturale Orientata “Isola di Lampedusa” conclude definitivamente il processo di tutela e chiude ogni possibilità di sfruttamento edilizio di queste aree, in cui nel frattempo sono sorti i dodici scheletri. Il 22 marzo 2001, il Sindaco di Lampedusa rigetta la domanda di sanatoria presentata nel 1986 dall’attuale proprietario ai sensi della legge regionale 37/85 e firma l’ordinanza di demolizione.

Nel marzo del 2002 le ruspe della legalità hanno spianato 80.000 metri cubi di cemento abusivo in pieno parco del Cilento. Certo la devastazione

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operata per la lottizzazione del complesso residenziale Baia Punta Licosa di Montecorice, in provincia di Salerno che ha devastato otre 10 ettari di un intero bosco di rarissimi pini d’Aleppo non sarà facile da risanare, ma sicuramente si è messa positivamente la parola fine ad una vicenda protratta per oltre vent’anni, nella quale, come capita abbastanza spesso nel nostro Paese, lo scempio edilizio si fonda anche su concessioni e licenze “regolarmente” rilasciate, che determinano un lunghissimo strascico giudiziario.

Sempre in Campagna un’altra vittoria messa a segno è quella dell’abbattimento sul lungomare di Mondragone di un moncone di cemento armato mai ultimato, che da oltre vent’anni ha fatto bella mostra di se da oltre vent’anni. Si trattava di un pontile d’attracco che partendo dalla terra ferma, attraversava l’intero arenile e si protraeva per qualche decina di metri nel mare. Il progetto originario risalente al 1971, prefigurava un pontile di attracco per piccole imbarcazioni, che si sarebbe dovuto addentrare per oltre 256 metri nel mare e consentire così, anche, una gradevole passeggiata panoramica. I lavori partiti agli inizi degli anni ’80 non sono mai stati ultimati, non solo per lungaggini tecnico-burocratiche, ma soprattutto per lo stop decretato il 20 settembre 1990 dall’allora Ministro dei Beni Culturali e Ambientali che ritenne l’opera incompatibile con la vocazione turistico-balneare dell’area.

Altra regione, la Calabria e altro ecomostro abbattuto quello del Villaggio Lo Pilato, che con i suoi 16mila metri cubi deturpava la baia da oltre vent'anni la scogliera di Copanello di Stalettì, sul versante ionico catanzarese. La demolizione è avvenuta in tempi molto rapidi grazie anche allo stanziamento di 40.000 euro messi a disposizione dal ministero per l’Ambiente e la Tutela del territorio.

Per finire, un successo che a partire dall’assegnazione della bandiera nera ha innestato una reazione a catena che ha portato ben più lontano di quello che si poteva immaginare. Stiamo parlando della vicenda legata ai due ecomostri realizzati sul lungomare della città di Sanremo. L’artefice della vicenda è il sindaco Giovenale Bottini, da 8 anni a capo del Comune ligure, che ha proceduto alla realizzazione di due incredibili ecomostri, un albergo e un teatro, che bloccano la visuale a mare nei due tratti di passeggiata della città dei fiori. Un mega albergo a Portosole che supera di due metri il livello della strada sostituendo con la vista sui piani alti dell’albergo il panorama a mare della passeggiata. Poco oltre un imponente teatro ha cambiato il paesaggio di uno dei tratti più caratteristici della località della riviera, proprio di fronte al Casinò e nei pressi della Chiesa Russa. Anche in questo caso il fronte a mare del teatro di una trentina di metri ha sostituito il precedente panorama della passeggiata. Proprio dalle vicende legate alla costruzione degli ecomostri sono partite le indagini che hanno svelato un incredibile giro di tangenti che avrebbero recentemente coinvolto persino l’organizzazione del celeberrimo festival della Canzone italiana.

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3. I numeri del “mare illegale”

I dati sulle illegalità ambientali nei mari italiani confermano ancora una volta le preoccupazioni di Legambiente. Continuano, infatti, senza sosta le aggressioni al mare italiano dai diversi fronti: si va dall’abusivismo costiero all’inquinamento da scarichi illegali, dalla pesca di frodo alle violazioni al codice della navigazione

Entrando nel merito dei numeri le infrazioni accertate sono state 16.656 del 2002, le persone denunciate o arrestate 5.721 i sequestri effettuati 5.205. Sono questi i risultati dell’elaborazione di Legambiente dei numeri forniti dalle forze dell’ordine (Comando Carabinieri tutela ambiente, Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a Statuto speciale, Guardia di finanza) e dalle Capitanerie di porto relativi ai reati consumati nel 2002 ai danni del mare.

Un dato che vale la pena sottolineare è quello relativo ai sequestri di costruzioni abusive sulle aree demaniali costiere che passa dai 504 del 2001 ai 772 dello scorso anno con un aumento percentuale del 53%. Ricordando come il sequestro sia un atto giudiziario di una certa rilevanza compiuto solo in casi di evidente gravità, si conferma anche sulle aree costiere il dato preoccupante sul ritorno dell’abusivismo, dovuto fondamentalmente al cosiddetto “effetto annuncio” del non ancora varato condono edilizio nazionale, già denunciato nel “Rapporto Ecomafia 2003” della nostra associazione.

IL QUADRO GENERALE DEL “MARE ILLEGALE” IN ITALIA NEL 2002

Cta-CC* Gdf** Cfs - Cfr*** Capitanerie di porto

TOTALE

Infrazioni accertate 1.092 4.987 547 10.030 16.656 Persone denunciate o arrestate

960 1.432 687 2.642 5.721

Sequestri effettuati 116 2.405 167 2.517 5.205 Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a statuto speciale e Capitanerie di porto. *: i dati del Comando Carabinieri tutela ambiente sono relativi al periodo 01/05/2002 - 30/09/2002. **: i dati della Guardia di finanza si riferiscono ai settori Pesca e Codice della

navigazione ed all’abusivismo su aree demaniali. ***: i dati dei Cfr si riferiscono a Friuli Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia.

La classifica per numero di reati in valore assoluto vede la Campania, con 2898 reati accertati, strappare il primo posto alla Sicilia, che scende in seconda posizione con 2856 infrazioni. Seguono la Puglia, che da seconda nella classifica dello scorso anno diventa terza quest’anno con 1785 reati, e il Lazio. In coda alla classifica troviamo l’Abruzzo, il Molise e la Basilicata.

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LA CLASSIFICA DEL MARE ILLEGALE IN ITALIA: VALORI ASSOLUTI (2002) Regioni Infrazioni

accertate Persone denunciate

o arrestate Sequestri effettuati

1 Campania ↑ 2898 822 754 2 Sicilia ↓ 2856 530 510 3 Puglia ↓ 1785 656 309 4 Lazio ↑ 1299 355 179 5 Calabria ↓ 1093 646 166 6 Sardegna ↑ 963 453 812 7 Toscana ↓ 954 296 983 8 Veneto ↔ 922 491 732 9 Liguria ↓ 861 143 112 10 Marche ↓ 665 85 311 11 Emilia Romagna ↔ 650 179 125 12 Friuli Venezia Giulia ↑ 276 31 16 13 Abruzzo ↓ 240 29 66 14 Molise ↔ 112 23 7 15 Basilicata ↔ 22 22 7

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a Statuto speciale e Capitanerie di porto.

La Campania si conferma prima anche nella classifica del mare illegale considerando le infrazioni per chilometro di costa (6,17 nel 2002, mentre nel 2001 erano state 5,20), spodestando il Veneto (5,80) e l’Emilia Romagna (4,96), prima e seconda regione d’Italia lo scorso anno in questa speciale classifica. E’ da segnalare il netto passo in avanti fatto dal Friuli Venezia Giulia che dal tredicesimo posto del 2001 passa al settimo nel 2002 (con 2,47 reati per chilometro di costa), mentre sono la Sardegna e la Basilicata a chiudere la classifica.

Il confronto complessivo con i dati rilevati nel 2001 segnala una riduzione del numero degli illeciti accertati, delle persone denunciate o arrestate e dei sequestri, anche piuttosto significativo (si passa infatti dalle 23.474 infrazioni del 2001 alle 16.656 del 2002, dalle 10.278 persone denunciate o arrestate del 2001 alle 5.721, dagli 8.954 sequestri di due anni fa ai 5.205 dell’anno scorso). I dati risentono in particolare del brusco ridimensionamento degli illeciti accertati dalle Capitanerie di porto, che passano dalle oltre 14mila infrazioni del 2001 alle 10mila circa del 2002. Un dato che deve far riflettere anche alla luce delle recenti denunce provenienti dalle stesse Capitanerie sulle conseguenze dei tagli ai finanziamenti di questi ultimi anni. E’ significativa a riguardo la riduzione dei controlli effettuati per

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quanto riguarda il demanio e le attività balneari: erano oltre 126mila nel 2001 sono diventati poco più di 111mila nel 2002. Diminuiscono anche le missioni di vigilanza demaniale marittima: erano oltre 4300 nel 2001 sono scese sotto le 3.800 lo scorso anno.

Si dimezza anche il numero dei controlli effettuati durante la stagione estiva dall’Arma dei carabinieri: complessivamente si passa dagli oltre 7800 controlli nel periodo maggio-settembre 2001 ai 3800 del 2002. Per quanto riguarda il settore specifico dell’inquinamento idrico i controlli erano stati 2.765, quelli del 2002 appena 1186.

In calo infine anche gli illeciti accertati dal Corpo forestale dello Stato e dalla Guardia di finanza.

LA CLASSIFICA DEL MARE ILLEGALE IN ITALIA: INFRAZIONI PER KM DI COSTA (2002)

Regione Infrazioniaccertate

Km di costa Infrazioni per Km

1 Campania ↑ 2.898 469,7 6,17 2 Veneto ↓ 922 158,9 5,80 3 Emilia Romagna ↓ 650 131 4,96 4 Marche ↓ 665 173 3,84 5 Lazio ↑ 1.299 361,5 3,59 6 Molise ↓ 112 35,4 3,16 7 Friuli Venezia Giulia ↑ 276 111,7 2,47 8 Liguria ↓ 861 349,3 2,46 9 Puglia ↑ 1.785 865 2,06 10 Sicilia ↓ 2.856 1483,9 1,92 11 Abruzzo ↓ 240 125,8 1,91 12 Toscana ↔ 954 601,1 1,59 13 Calabria ↓ 1.093 715,7 1,53 14 Sardegna ↔ 963 1731,1 0,56 15 Basilicata ↔ 22 62,2 0,35

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a Statuto speciale e Capitanerie di porto.

Le infrazioni al codice della navigazione sono state anche nel 2002 le

più ricorrenti nei mari italiani (6.858 pari al 41,2% del totale). A seguire la pesca di frodo (4.883 reati, 29,3% del totale) e l’abusivismo edilizio sulle aree demaniali costiere (3.158 infrazioni, 19,0%). L’inquinamento da scarichi illegali conta infine solo il 4,2% dei reati consumati in mare (697 reati). Il maggior numero di sequestri è stato compiuto contro i pescatori di frodo (2.050), mentre spetta all’abusivismo edilizio sul demanio marittimo il record delle persone denunciate o arrestate (3.587).

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I PRINCIPALI REATI NEL 2002

Reato Infrazioniaccertate

Persone denunciate o arrestate

Sequestri effettuati

% sul totale

Abusivismo edilizio sul demanio

3.158 3.587 772 19,0

Depuratori, scarichi fognari, inquinamento da idrocarburi

697 248 12 4,2

Pesca di frodo

4.883 292 3.887 29,3

Codice navigazione e nautica da diporto

6.858 634 418 41,2

Altro 1.060 960 116 6,3 Totale

16.656 5.721 5.205 -

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a Statuto speciale e Capitanerie di porto.

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4. E la nave va: l’illegalità del “popolo dei naviganti”

L’italiano in mare continua ad essere poco rispettoso delle norme sulla navigazione. Questo dicono i numeri sulle illegalità accertate dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di porto nel 2002: anche se in diminuzione rispetto al 2001, i reati sono stati 6.858, le persone denunciate o arrestate sono 634, mentre sono stati compiuti 418 sequestri.

Nella classifica regionale la Campania (con 1.443 infrazioni e 146 tra denunciati e arrestati) è diventata la prima regione in Italia in questa classifica, dopo aver sorpassato la Sicilia seconda con 1.272 reati. Il Lazio torna sul podio classificandosi terzo con 650 infrazioni. Stando a quanto riportato dalle Capitanerie di porto, la mancanza delle attrezzature di sicurezza previste dalla legge è il reato più ricorrente (2.743 infrazioni), seguito dalla navigazione in zona non consentita (2.400).

LA CLASSIFICA DELL’ILLEGALITÀ DELLA NAVIGAZIONE IN MARE NEL 2002 Regione Infrazioni

accertate Persone denunciate

o arrestate Sequestri effettuati

1 Campania ↑ 1.443 146 0 2 Sicilia ↓ 1.272 7 41 3 Lazio ↑ 650 7 1 4 Veneto ↔ 567 310 17 5 Puglia ↔ 538 42 29 6 Toscana ↑ 479 14 11 7 Liguria ↓ 473 35 4 8 Sardegna ↑ 466 9 300 9 Marche ↔ 275 1 3 10 Emilia Romagna ↔ 264 35 2 11 Calabria ↓ 226 26 10 12 Friuli Venezia Giulia ↔ 132 1 0 13 Molise ↑ 51 0 0 14 Abruzzo ↓ 22 1 0 15 Basilicata ↔ 0 0 0 Totale 6.858 634 418

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a Statuto speciale e Capitanerie di porto.

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I REATI AL CODICE DELLA NAVIGAZIONE E NAUTICA DA DIPORTO NEL 2002 Reato Numero di

infrazioni %

Mancanza di attrezzatura di sicurezza (giubbotto salvagente, razzi segnalatori,

autogonfiabili)

2743 40%

Navigazione in zona non consentita (sottocosta, aree marine protette)

2400 35%

Mancato pagamento tassa di stazionamento

686 10%

Altro (p.es. trasporto di persone non consentito, sci nautico non

regolamentare, eccesso di velocità, violazioni nell’attività subacquea)

1029 15%

Fonte: elaborazione Legambiente su dati delle Capitanerie di porto

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5. Cemento in spiaggia

Anche quest’anno le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa primeggiano nella classifica degli abusi edilizi sulle coste. La Campania sale al primo posto con 575 reati, la Calabria scende in terza posizione (550) e la Puglia resta quarta con 385.

Un discorso a parte merita la Sicilia, seconda in classifica con 563 infrazioni, dove è ancora in discussione il disegno di legge sul “riordino delle coste”, il condono edilizio presentato dal governatore siciliano Totò Cuffaro. Il cosiddetto “effetto annuncio” ha sortito i suoi effetti anche nel 2002, non tanto sul numero dei reati accertati dalle forze dell’ordine (dagli 857 del 2001 sono diventati 563 nel 2002), quanto piuttosto sul numero dei sequestri che dai 93 del 2001 sono passati ai 260 dello scorso anno (pari al 33,7% del totale nazionale) con un incremento percentuale del 180%. Vale la pena ricordare come il sequestro sia un atto giudiziario di particolare rilevanza, compiuto solo in casi di evidente gravità.

LA CLASSIFICA DELL’ABUSIVISMO EDILIZIO SUL DEMANIO NEL 2002 Regione Infrazioni

accertate Persone denunciate

o arrestate Sequestri effettuati

1 Campania ↑ 575 638 155 2 Sicilia ↓ 563 475 260 3 Calabria ↓ 550 576 73 4 Puglia ↔ 385 537 70 5 Lazio ↑ 292 311 40 6 Sardegna ↑ 258 375 48 7 Emilia Romagna ↓ 135 136 67 8 Toscana ↓ 102 255 13 9 Liguria ↔ 82 81 23 10 Marche ↑ 69 72 9 11 Veneto ↑ 59 54 3 12 Friuli Venezia Giulia ↑ 26 15 3 13 Abruzzo ↓ 24 24 4 14 Molise ↔ 22 22 2 15 Basilicata ↔ 16 16 2 Totale 3.158 3.587 772

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a Statuto speciale e Capitanerie di porto.

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5.1 Gli ecomostri: abusivismo edilizio, cemento legale, progetti insensati, storie esemplari di aggressione al Belpaese

A vele spiegate contro gli ecomostri. Anche quest’anno Goletta Verde darà vita a numerosi “demolition day”: ville, villaggi turistici, alberghi e lottizzazioni abusive e non, verranno “assaltate” simbolicamente dagli equipaggi del Pietro Micca e della Catholica. Bliz anti-ecomostro verranno organizzati inoltre nelle zone in cui progetti insensati minacciano di distruggere e deturpare cornici paesaggistiche e naturali uniche al mondo.

Una campagna che, oltre a denunciare vecchi e nuovi attacchi al patrimonio ambientale del Belpaese, vuole dare un segnale preciso per quanto riguarda la lotta agli ecomostri e all’abusivismo edilizio. Proprio su quest’ultimo fronte la situazione che è emersa nel corso del 2002 non è affatto rosea per usare un eufemismo.

Nel 2002, infatti, l’abusivismo edilizio torna a sfondare il “muro” delle 30mila costruzioni abusive, precisamente 30.821 con un incremento del 9% rispetto alle 28.276 del 2001, mettendo così la parola fine alla breve ma significativa stagione della lotta al cemento selvaggio nel nostro Paese. Il ritorno del “mattone selvaggio” ha alimentato una produzione di cemento illegale equivalente a 4.204.380 metri quadrati per un valore immobiliare di 2.102 milioni di euro. Cresce di 400.000 metri quadrati, equivalenti a oltre 40 campi di calcio, la superficie complessiva del nuovo abusivismo rispetto al 2001. E aumenta di ben 317 milioni di euro il business dell’edilizia illegale.

Le stime elaborate dal Cresme in questi anni, sulla base dei dati dell’Istat ed Enel, consentono di avere un quadro abbastanza chiaro di ciò che è accaduto. Dopo tre anni di costante flessione, si è interrotto, infatti il ciclo virtuoso che sembrava essersi avviato a partire dalla demolizione dell’Hotel Fuenti, avvenuta nel 1999, e proseguito con le demolizioni sul lungomare di Eboli, nell’Oasi del Simeto a Catania, a Pizzo Sella a Palermo, a Roma, a Napoli e lungo la Costiera Amalfitana. Nel corso del 2000, infatti, avevamo registrato una brusca inversione di tendenza nelle costruzioni di case illegali nel nostro Paese, ben 4.663 in altre parole una flessione percentuale del 13,8%, con punte superiore al 15% nel Mezzogiorno: nel 2001, invece, la “ritirata” del cemento selvaggio si era attestata al 2,3%.

Come Legambiente ha sempre sostenuto, le demolizioni stavano cominciando a svolgere una fondamentale funzione preventiva e dissuasiva: quando il rischio di vedere distrutto l’immobile abusivo diventa reale, chi deve investirci i propri denari ci pensa due volte.

Si trattava di proseguire su quella strada, di rendere ancora più efficaci le procedure di demolizione e di riqualificazione e di ripristino dei luoghi. Come prevedeva un disegno di legge elaborato dal ministero dei Lavori pubblici che è finito purtroppo nelle sabbie mobili dell’ultimo scorcio della precedente legislatura.

Oggi siamo all’inversione di tendenza. La causa è fin troppo evidente: l’effetto “liberatorio”, come lo definisce efficacemente il Cresme nella sua

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ricerca, dell’annunciato nuovo condono edilizio. Al quale si è sommata una forte sensazione di impunità dovuta al brusco rallentamento delle demolizioni.

L’immediata e netta opposizione di Legambiente e delle associazioni ambientaliste ma anche la forte contrarietà del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, Altero Matteoli, hanno impedito che l’operazione condono andasse in porto. Ma i dati parlano chiaro: c’è chi l’ha comunque “garantito”, chi l’ha prospettato come una soluzione possibile. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Ad approfittare di questa nuova ondata di costruzioni illegali sono state, come sempre, le organizzazioni criminali. Il 55% di questa enorme massa di cemento illegale, ovvero 16.914 case abusive, si concentra, e non è un caso, nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia.

L’incidenza del mattone illegale sul mercato edilizio complessivo è davvero impressionante: in queste quattro regioni il 26,5% degli immobili costruiti nel 2002 è abusivo. Insomma, più di una casa su quattro. La punta massima si registra in Sicilia (28,9%).

Se il grosso dell’abusivismo si concentra, complessivamente, tra Mezzogiorno e isole (20.912 case fuorilegge, pari al 67% del totale, con un’incidenza sul mercato edilizio del 21,8%, ovvero una casa abusiva su cinque costruite) non può non destare preoccupazione anche il significativo incremento registrato nell’Italia centrale, con il 15,2% in più rispetto al 2001. Nelle regioni del Nord, spicca il dato relativo al Veneto: 1.664 case abusive costruite nel 2002, il 19,2% in più rispetto al 2001.

A fronte di questi dati, oggettivamente scoraggianti, qualche elemento positivo si registra anche nel corso del 2002, come l’abbattimento di un’altra torre del Villaggio Coppola Pinetamare a Castelvolturno e le diverse demolizioni effettuate lungo i litorali di Carini in provincia di Palermo e di Rossano in Calabria. Si tratta di piccoli segnali in attesa che il nostro Paese abbandoni definitivamente a qualsiasi ipotesi condonatoria e si doti al più presto di efficace strumenti di d’intervento (è da tempo depositato alla Camera il disegno di legge, primo firmatario Ermete Realacci, che prevede sistemi rapidi d’intervento e risorse adeguate) contro il cemento selvaggio.

Di seguito vengono riassunte delle storie esemplari di pezzi di Belpaese aggrediti dal cemento selvaggio. Il cemento in spiaggia a Falerno Scalo

“Palafitta” e “trenino” non sono i nomi di due personaggi di una nuova serie di cartoni animati, ma bensì i nomignoli con cui i cittadini e i turisti di Falerno Scalo, in provincia di Catanzaro, hanno soprannominato le due costruzioni realizzate sul bagnasciuga della costa calabrese. “Palafitta” con i suoi tre piani sfida continuamente le onde essendo stato costruito direttamente sulla battigia e nei giorni di mare leggermente mosso sembra che galleggi sul

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mare. “Trenino”, invece, con i suoi appartamenti a schiera realizzati direttamente sul bagnasciuga viene invaso dalla sabbia che spesso riempie completamente il piano terra. Si tratta di due esempi scellerati di aggressione al patrimonio costiero, sperando che al più presto il buon senso liberi questo pezzo di costa calabrese dal cemento selvaggio. L’ecomostro di Villa Tozzoli

La storia degli abusi di Villa Tozzoli alla Gaiola (Na) dura da tempo e

sta diventando un luogo simbolo della lotta all’abusivismo a Napoli. In uno dei posti più suggestivi e affascinanti della costa napoletana impreziosito dai resti della villa-città di Velio Pollione, che si affacciano proprio sulla spiaggetta, prolungandosi per oltre 150 mt. sotto il livello del mare, si sta perpetrando uno scempio intollerabile. Infatti sulla spiaggia della Gaiola, proprio sul terreno che affaccia sull’arenile e su quel tratto di mare che costituisce il Parco sommerso di Gaiola, riconosciuto di alto valore paesaggistico ed archeologico da un recente decreto del Ministero dell’Ambiente, un aristocratico diplomatico in pensione, per l’esattezza un ex ambasciatore demolendo ed inglobando resti archeologici, ha realizzato abusivamente salone per ricevimenti. In pochi anni la superficie di un immobile di 100 metri si è a poco a poco trasformata in una enorme sala di ricevimenti di oltre 500 mq che si estende fino ai resti della Villa di Velio Pollione.

Tra una condanna per abusi edilizi, il rigetto da parte degli Uffici competenti di 12 domande di condono, un risarcimento economico per danno ambientale in favore di Comune di Napoli e della Legambiente, oltre che di un vicino leso nel suo diritto a vivere nella sua profonda natura, quasi selvaggia, un posto unico al mondo, e diverse ordinanze di demolizione (sia del Tribunale di Napoli, confermata anche dalla Corte di Appello e lo scorso maggio anche dal Tar), Villa Tozzoli continua ad ospitare ricevimenti allestiti in occasione degli sfarzosi matrimoni. La parola passa al Comune di Napoli, che ha già avviato e procedure per l’affidamento dell’appalto per le opere di demolizione. Metteremo in campo tutti gli strumenti affinché un abuso realizzato in maniera da deturpare un luogo incantevole, che é di tutti in quanto tale, non venga dimenticato né ampliato, ma abbattuto. Ma anche perché l’area venga consegnata alla Sovrintendenza Archeologica in modo che al teatro all’aperto, recentemente riaperto al pubblico, e cui si accede con le Terme Alte dalla Grotta di Seiano, possa aggiungersi l’anello mancante della Villa di Pollione, posta a delimitare quella zona dal teatro romano coperto. Le villette di Campobello di Mazara

Venti villette sequestrate, per un valore di circa 6 miliardi di vecchie

lire e sei persone denunciate, è questo il risultato di un operazione

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antiabusivismo condotta dai carabinieri della Compagnia di Mazara, in contrada Tonnara di Tre Fontane, un area ad alte potenzialità turistiche, nel comune di Campobello. Ad essere finiti sotto i riflettori degli inquirenti, sono stati, oltre al proprietario accusato di aver violato le prescrizioni previste dagli strumenti urbanistici comunali nonché le normative statali e regionali, anche cinque funzionari dell’ufficio tecnico comunale, accusati di aver rilasciato concessioni edilizie illegittime. In particolare è stato accertato che una parte delle villette è stata edificata in una area che il Prg comunale destinava ad “zona verde di rispetto del litorale”, dove è consentita soltanto la realizzazione di strutture a carattere temporaneo di supporto alle attività balneari, dove il proprietario a pensato bene di costruire delle vere e proprie villette in cemento armato. Inoltre quest’area ricade interamente all’interno dei 150 metri della battigia, dove è vietato ogni genere di costruzioni. La questione, adesso, è in mano alla magistratura, sperando che al più presto venga risanata la grave ferita inferta all’ambiente siciliano. L’ecomostro “legalizzato” di Pozzano a Castellammare di Stabia

Era luglio dello scorso anno, quando i volontari di Legambiente a bordo della Goletta Verde con un blitz sulle coste vesuviane denunciarono l’ecomostro “legalizzato” di Pozzano a Castellammare di Stabia. Un blitz che suscitò numerose polemiche con istituzioni, sindacati, partiti politici. L’accusa solita: gli ambientalisti sono contrari allo sviluppo e denunciano uno scempio dopo che si sta ultimando. Ma ripercorriamo la cronistoria dell’ecomostro.

“Un intervento di tipo conservativo delle strutture preesistenti rappresentando ciò … un obiettivo principale .. capace di garantire l’identità del complesso”: sono questi alcuni dei passaggi della Relazione descrittiva dell’intervento di recupero, approvata dalla Conferenza dei servizi il 30 ottobre 1998, dello stabilimento "Calce e Cemento" in località Pozzano a Castellammare di Stabia. Il complesso industriale costituito da un edificio a volte e da due torri dei forni si trova a 10 metri dalla statale per Sorrento e a due passi dal bagnasciuga, nella splendida cornice della penisola Sorrentina. Venne presentato come un progetto di recupero archeologico-industriale, di fatto del vecchio edificio a volte non è rimasto nulla, al loro posto sono stati costruiti due edifici ex novo che diventeranno ben presto dei lussuosi alberghi, categoria quattro stelle, oltre 250 posti letti e come corollario una sala congresso e una paninoteca. Inoltre, il parcheggio è stato ottenuto dall’altra parte della strada sotto la montagna franata il 10 gennaio 1997, che ha causato la morte di quattro persone, in una zona ad altissimo rischio idrogeologico. L’intera operazione di “recupero” del vecchio cementificio grava come un macigno sul paesaggio dell’intera penisola Sorrentina, realizzato in un area di inedificabilità assoluta come regolamentato dal Piano paesistico della Penisola Sorrentina. Il grimaldello utilizzato è contenuto nella delibera del Consiglio regionale della Campania, la n. 53/1 del 18 novembre 1998, con la quale venne

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concessa una deroga al P.u.t. (Piano Urbanistico Territoriale della penisola Sorrentina) approvato con legge regionale n. 35 del 27 giugno 1987, che garantiva la permanenza dello stabilimento "Calce e Cemento" e il suo riutilizzo a fini turistici privato, nonostante le innumerevoli contestazioni mosse dall’opinione pubblica e dalle associazioni ambientaliste in prima fila Italia Nostra, Wwf e Legambiente, sull'opportunità di sottrarre al pubblico godimento uno dei più bei tratti di costa Sorrentina. Dopo il blitz di Legambiente, la Regione Campania il 23 luglio 2003 convocò una riunione a Palazzo Santa Lucia. Con non poco imbarazzo regione, Provincia, Comune di Castellammare e Tess e i titolari dell’impresa che sta costruendo il complesso turistico, ammettevano che il complesso era davvero brutto e si impegnarono di correre ai ripari, proponendo soluzioni capaci di ridurre, almeno, l’impatto ambientale.

La proposta avanzata è che la ditta predisponga alcuni miglioramenti relativi agli infissi in ferro, al colore bianco da sostituire con un altro conforme all’ambiente roccioso e, infine, alla sistemazione del verde che non preveda alberelli sparsi, ma una oasi di verde. Il sindaco di Castellammare si impegnò a promuovere una indagine per verificare se l'impresa si è attenuta ai parametri previsti nel progetto appaltato. A distanza di un anno chiediamo se sono stati mantenuti questi impegni, se al danno si è aggiunta la beffa. Gli interventi richiesti per correggere e rendere quanto più sostenibile l’ecomostro legalizzato rappresenta una piccola nostra vittoria ma soprattutto un piccolo grande gesto di civiltà verso i cittadini e verso il territorio. Questa storia deve essere una lezione da tener presente per il futuro. Pozzano deve rappresentare un simbolo ma soprattutto un monito per le attuali e future classi politiche di un esempio sbagliato di intervenire sul territorio: attraverso accordi di programma, di “pianificazione urbanistica contrattata” e non concertata un modo questo di disegnare il territorio, il profilo delle nostre coste ed il nuovo assetto di quelle già deturpate da interventi fortemente impattanti. Il gigante di cemento di Bassano a Torre del Greco

Sono più di trent’anni, ormai, che il gigante di cemento di Bassano a

Torre del Greco (Na) continua a fare bella mostra di sé, proprio oscurando la torre saracena del 1600. L’albergo a forma di alveare, in parte realizzato illegittimamente su area demaniale (circa 20 metri in larghezza), con la sua imponente mole di sette piani, due in più rispetto ai cinque autorizzati, domina il bagnasciuga torrese. Sono queste alcune violazioni riscontrate nel maggio 2001 dalla Procura della Repubblica di Torre Annunziata.

La vicenda prende le mosse nel 1965 con il rilascio da parte del comune della concessione edilizia per la realizzazione di una serie di opere di edilizia residenziale e di un albergo sul mare.

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Nel 1972 il comune di Torre del Greco si pronuncia sui manufatti dichiarando che l’albergo può essere realizzato mentre sorgono una serie di problemi per ciò che riguarda le case residenziali.

Nel corso del 1998 un’altra società subentra ai vecchi proprietari, la quale viene autorizzata dal comune a compiere solo lavori di ordinaria manutenzione, mentre la società di fatto lavora per ultimare l’albergo. Nel 1999 la Capitaneria di porto ha emanato un’ordinanza nella quale ha intimato alla proprietà della struttura di transennare la zona per pericoli di frana.

Ci troviamo davanti ad una situazione, da tempo già denunciata dai Circolo locale di Legambiente e dal Wwf, sempre più ingarbugliata, con l’ecomostro che continua a dominare imponentemente il litorale. L’assalto di cemento alla Baia di Campese (Isola del Giglio)

Una colata di cemento ha sommerso la baia di Campese davanti alla

Torre Medicea sull’isola del Giglio. L’albergo realizzato lungo la via Provinciale in prossimità del centro abitato è arrampicato sul pendio che scende dolcemente a mare, rappresenta sicuramente uno scempio non solo visivo, ma soprattutto ambientale. Il cantiere, non ancora ultimato, è stato oggetto di numerosi sopralluoghi dell’Ufficio Tecnico comunale che hanno ravvisato notevoli violazioni urbanistiche in merito alle previsioni perimetrali e all’eccedenza di volumetria, ma soprattutto una difformità del progetto alle previsioni del Piano regolatore generale. Grazie, infatti, ad alcuni articifici tecnici, varianti, perizie geologiche ed ad una serie di sviste, è stata consentita la realizzazione di volumi notevolmente superiori rispetto alle indicazioni contenute nel PRG comunale. Il Tribunale amministrativo ha revocato il provvedimento di annullamento della concessione edilizia disposta dall’Ufficio Tecnico comunale per vizio di forma. Nel frattempo sull’intera vicenda sta indagando la Procura di Grosseto per appurare eventuali violazioni urbanistiche. Il sipario sul lungomare di Sanremo

Cala il sipario sul lungomare di Sanremo. E’ questo il triste destino che

incombe su di un tratto della passeggiata a mare denominata Trento-Trieste, uno dei pezzi più suggestivi e caratteristici della riviera ligure. Il rischio per gli appassionati frequentatori potrebbe ben presto trasformarsi in realtà se venisse ultimato l’albergo in fase di costruzione sul lungomare sanremese. Lo scempio prende le mosse da una errata rilevazione del dislivello, ormai acclarato tecnicamente, esistente tra le aree di sedime dove sono state impiantate le fondamenta dell’albergo e il livello della passeggiata. La differenza riscontrata è superiore ai due metri. Ma davanti a tali fatti, denunciati dal Circolo Legambiente di Sanremo, l’amministrazione comunale fa finta di nulla,

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considerando, anche, che non è il primo caso. Nel gennaio 1996, infatti, dopo la realizzazione di un primo lotto delle opere a terra del porto privato di Portosole, scoppia il precedente: una interpellanza consiliare solleva la questione dirompente delle altezze per un’altra infrastruttura di servizio al porto. I controlli successivi rilevarono che l’altezza del volume realizzato superava l’altezza della passeggiata e dei giardini di circa 1 metro, per un errore nelle tavole del Piano Particolareggiato e precisamente nell’indicazione della quota della passeggiata. Intanto la Soprintendenza sollecita l’Amministrazione Comunale ad “adottare provvedimenti cautelativi” e davanti all’inerzia della Giunta Comunale nell’agosto del 1997 esprime un severo giudizio di irregolarità delle opere eseguite e caldeggia il ripristino delle inquadrature panoramiche alterate. Inoltre, lo stesso Piano Particolareggiato L1 Portosole, per la realizzazione delle opere a terra a completamento del porto privato, prescrive esplicitamente la necessità di salvaguardare il litorale prevedendo che la localizzazione delle nuove volumetrie deve tener conto delle visuali godibili sia da mare che da terra nei confronti dei giardini di Villa Ormond.

Dall’Amministrazione comunale ancora nulla; anzi alla richiesta del Circolo di Legambiente di rivedere il Piano risponde affidando un incarico per un parere tecnico ad uno noto professionista, il quale - pur riconoscendo l’errore - arriva a sostenere che l’interesse pubblico attuale è quello di mantenere ciò che è costruito, seppure viziato. A seguito degli esposti di Legambiente il cantiere è stato sequestrato dalla Procura di Sanremo, i vertici della società di Cnis Portosole, sono stati rinviati a giudizio per le irregolarità edilizie ed ambientali. Il prossimo 9 luglio inizierà il processo su questa vicenda, il Circolo Legambiente Sanremo e Legambiente nazionale chiederanno di costituirsi parte civile per i danneggiamenti ambientali e di immagine che ha subito la città di Sanremo. Da più parti si chiede che anche il Comune di Sanremo si costituisca parte civile. Teatro del Mare: l’ecomostro 2 di Sanremo

E’ li tronfio ed imponente, oscura oscenamente il paesaggio da tutte le

angolazioni, occupa prepotente una zona di libero accesso al mare, fiero della ingombrante modernità. Una scelta scellerata, contro ogni regola e buon gusto. Sono queste alcune delle considerazioni fatte sul Teatro del Mare, l’Ecomostro 2, come è stato immediatamente etichettato, costruito in riva al mare di fronte alla Passeggiata Imperatrice, davanti ai Grandi Alberghi, al Casinò, Chiesa Russa, sul lungomare sanremese. La stessa Soprintendenza per i Beni ambientali di Genova ha dichiarato, fermo restando la provvisorietà che “la costruzione è molto avanzata sul mare, particolarmente vistosa, ingombrante e tipologicamente anomala, in contrasto con vincolo ambientale”. Di fronte a tale scempio la città si è indignata e mobilitata, come dimostrano le oltre

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tremila firme raccolte dal Circolo locale di Legambiente, in prima linea contro l’ecomostro, su di un esposto trasmesso alla magistratura e agli organismi regionali di controllo, per verificare la regolarità della struttura. Di fronte a tanto fervore, l’amministrazione comunale si affretta a dichiarare che si tratta di una struttura che non necessità di concessione edilizia, visto che è caratterizzata dalle condizioni di precarietà, eccezionalità, e di provvisorietà. I tecnici comunali ribadiscono che la struttura è “precaria” in quanto smontabile senza “atti demolitori”; la rete di putrelle sarebbe imbullonata e il basamento in cemento armato separato da fogli di pvc, quindi non ancorato al suolo. Le verifiche effettuate e documentate evidenziano che le putrelle sono saldate e non imbullonate, plinti e cordoli in cemento armato senza alcuna traccia di fogli di pvc di separazione, riempimenti di terra e pietrisco, rampe di accesso asfaltate. Gli stessi controlli effettuati dalla Regione hanno riscontrato delle difformità rispetto all’autorizzazione regionale.

La vicenda, inoltre, presenta notevoli zone d’ombra, ambiguità ed incertezze da chiarire, anche rispetto al rientro dei costi della struttura, in rapporto alla temporaneità dell’opera. Proprio con questi interrogativi avevamo chiuso la descrizione dell’ecomostro nel Rapporto Maremonstrum dello scorso anno. Molti di questi interrogativi sono attualmente al vaglio della magistratura sanremese, che ha scatenato un vero e proprio terremoto politico nella città dei fiori. Basti pensare che la Procura ha aperto una quindicina di filoni di indagini sulla attuale amministrazione sanremese in merito a presunti favori e tangenti legate all’inserimento di nuove proposte canore all’interno della selezione dei big della canzone, che ha preso spunto da un esposto presentato da Legambiente sulla costruzione del Teatro del Mare.

Sanremo e la sua costa, finalmente liberati dalla ferrovia, meritavano sicuramente altri destini.

L’abusivismo edilizio nella Riserva marina di Capo Rizzuto Ben 57 costruzioni abusive (10 nel comune di Crotone e 47 in quello di

Capo Rizzuto) per 48.600 metri cubi, sono state individuate dalla Capitaneria di porto di Crotone, nell’area di demanio costiero della Riserva di Capo Rizzuto e nella fascia di rispetto.

Una morsa di cemento illegale, fatto di moli che si protendono in mare, porticcioli, fabbricati, muri di recinzione, piattaforme in cemento armato, porticati, che stringe e avvolge la stupenda riserva marina di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. Tutte le gare fatte finora per demolire gli immobili sono andate deserte e nessuno, a cominciare dall’Ente gestore della Riserva, ha risposto alla stessa Capitaneria di Porto, che aveva dato la propria disponibilità a provvedere agli abbattimenti. E ancora oggi non si registrano novità volte a liberare questi luoghi.

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Baia di Copanello Siamo nel Comune di Stalettì, in provincia di Catanzaro, sulla costa

ionica della Calabria. In uno scenario di straordinaria bellezza, “convivono” i due estremi, negativi e positivi, di tante aree del Mezzogiorno: l'ecomostro di cemento di Villaggio Lo Pilato, che con i suoi 16mila metri cubi deturpa la baia da oltre vent'anni; la tomba di Cassiodoro, il grande senatore e letterato romano del Vivarium, abbandonata a sé stessa nella più totale incuria e a pochi metri da un “illuminante” caso di scempio urbanistico. Sul Villaggio pende una ordinanza di demolizione del 1987, mai eseguita, e una gara di demolizione andata deserta. Sulla vicenda Legambiente ha presentato una denuncia le cui indagini sono ancora in corso. Capo Rossello

Capo Rossello è una baia nel tratto più bello della costa meridionale

della Sicilia, nel comune di Realmonte (Agrigento). E’ un luogo di grande suggestione, reso unico da uno scoglio, chiamato, per via di una antica leggenda, “Do zitu e da zita”, cioè del fidanzato e della fidanzata, che si trova nel mare a trecento metri dalla spiaggia. La spiaggia di Capo Rossello, proprio per la sua straordinaria bellezza, è stata al centro delle mire speculative di un gruppo di politici e di imprenditori, denunciati e condannati dopo la pubblicazione di un dossier di Legambiente Sicilia. Nei primi anni Novanta, utilizzando uno strumento urbanistico scaduto ed in violazione del vincolo paesistico, alcuni assessori del Comune di Realmonte rilasciarono a sé stessi una serie di concessioni edilizie per realizzare palazzine in riva al mare, piantando i piloni nella sabbia e sbancando la costa di pietra bianca che completava il tratto costiero. Nel febbraio ’94, dopo la denuncia di Legambiente, l’intera Giunta Municipale, la commissione edilizia ed alcuni imprenditori furono tratti in arresto, processati e condannati. Si attende ancora, che il Comune demolisca lo scempio, fortunatamente bloccato. Assalto alla baia dei Turchi

Sempre in territorio di Realmonte (Ag), a pochi chilometri da Capo

Rossello, in località Baia dei Turchi, si trova un altro monumento alla speculazione edilizia, realizzato illegalmente da un altro gruppo di palazzinari grazie a concessioni edilizie compiacenti. Si tratta del progetto di un albergo sul mare, su quel tratto di costa dove, come dice il nome, un millennio fa sbarcarono gli ottomani. L’intervento di Legambiente, obbligò la Regione ad annullare la concessione ed a bloccare i lavori. Anche in questa baia ancora oggi si attende l’arrivo delle ruspe demolitrici.

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Vico Equense

Gli scheletri dell'ecomostro di Alimuri, uno schiaffo all'immagine e al

paesaggio naturalistico della penisola sorrentina, dal 1971 presidia maestoso una delle conche più belle del golfo di Napoli. Nel 1964 viene rilasciata la licenza per costruire, sulla spiaggia della conca di Alimuri, un albergo di 100 vani. Nel 1967 la licenza viene rinnovata per la costruzione di 50 vani più accessori per un altezza massima di 5 piani. Nel 1971 la Soprintendenza ordina la sospensione dei lavori ma il ministero della Pubblica Istruzione accoglie il ricorso proposto dal titolare della licenza. Nel 1976 la Regione Campania annulla le licenze rilasciate dal Comune perché in contrasto con il Programma di Fabbricazione, ma il Tar Campania nel 1979 ed il Consiglio di Stato nel 1982 annullano gli atti adottati dalla Regione. Nel 1986 i lavori sono sospesi dal Comune di Vico Equense perché si rendono necessari lavori di consolidamento del costone roccioso retrostante. Completare l'ecomostro di Alimuri avrebbe un duplice “effetto”: dare corso all'ennesimo assalto al patrimonio ambientale della penisola sorrentina e rendersi responsabili di un’opera a rischio, costruita alle pendici di un costone roccioso fragile, inserito nella zona rossa, quella a maggior rischio, dell'ultimo piano d’intervento per il dissesto idrogeologico realizzato dall'Autorità di Bacino del Sarno. Basti pensare che i solai del complesso di Alimuri risultano attualmente sfondati da numerosi "fori" del diametro anche superiore al metro provocati da ripetuti crolli di blocchi lapidei staccatisi dal costone. L'amministrazione comunale di Vico Equense ha fatto rientrare l'area tra quelle di maggior pericolosità, censite nel nuovo Piano di Protezione Civile Comunale.

E’ a dir poco singolare l’accordo stipulato il 23 aprile scorso tra il Comune di Meta e quello di Vico Equense che di fatto si “spoglia” delle proprie competenze istituzionali in merito alla tutela e salvaguardia del territorio delegandole di fatto a quello contiguo di Meta. L’accordo stabilisce esplicitamente: “che il Comune di Vico Equense si impegna a rilasciare la concessione di demolizione del manufatto (ndr del complesso di Alimuri) al Comune di Meta nel caso di esito positivo di acquisto dell’aerea”. In altre parole il Comune di Meta a intenzione di acquistare con i propri fondi l’area con l’ecomostro in questione che ricade all’interno del comune di Vico Equense per poi successivamente demolirlo. Una sorta di patto tra gentiluomini che fa strame di una secolare tradizione amministrativa.

L’isola dei Ciurli di Fondi

L’isola dei Ciurli, un’area agricola di grande valore paesistico, 21 scheletri in cemento armato illegali aspettano da decenni di essere demoliti. Il Tar di Latina con una sentenza dell’ottobre 1997 ha giudicato l'intera lottizzazione abusiva. Il Comune di Fondi, anziché avviare le procedure per

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l’acquisizione della lottizzazione al patrimonio pubblico e prevedere un piano di demolizione degli edifici, ha invitato i titolari della lottizzazione a sospendere i lavori e a presentare una proposta di lottizzazione. Il 29 settembre 1998 il Consiglio comunale di Fondi ha approvato il “progetto di lottizzazione convenzionato e relativo schema di convenzione”. Sulla vicenda è intervenuto l’Assessore regionale all’Urbanistica Buonadonna che nel 1999 ha dichiarato il provvedimento comunale illegittimo per violazione delle norme fissate dal PRG, procedura che fosse stata rispettata avrebbe di fatto ridotto notevolmente i volumi in gioco della lottizzazione. Ovviamente la delibera comunale non è stata successivamente annullata. Questo è l’ultimo passaggio di una lunga storia iniziata nel 1972 che attraverso provvedimenti di sospensione dei lavori, sequestri giudiziari e ordinanze di sanatorie si è trascinata fino ai nostri giorni. Il Circolo Legambiente di Fondi, da tempo in prima linea contro l’ecomostro, ha presentato contro la decisione del Comune un esposto alla Procura della Repubblica di Latina. Gli scheletri di Agrigento

Sono circa 600 le abitazioni realizzate illegalmente nell’area sottoposta a vincolo di inedificabilità assoluta. Dopo la demolizione di uno degli edifici di proprietà di un mafioso che, da tempo deturpavano una delle aree archeologiche più importanti e suggestive d’Italia e del mondo, si è aggiunta agli inizi del 2001 una nuova stagione di abbattimenti. Le ruspe demolitrici hanno varcato i confini del Parco Archeologico della Valle dei Templi cominciando a ristabilire quella sovranità dello Stato e delle sue leggi che era stata ridotta, in quella terra a carta straccio. Il 15 e 16 gennaio 2001 la Prefettura di Agrigento ha dato il via libera con l’ausilio del Genio militare, all’abbattimento di altri sei scheletri nella Valle dei Templi. Grazie anche al positivo contributo dell’Assessore ai Beni Culturali e Ambientali regionale, Fabio Granata, e dell’allora Sottosegretario ai Lavori Pubblici, Antonio Mangiacavallo. Purtroppo resta ancora tanto da fare per liberare il Parco archeologico dal cemento selvaggio.

Simeto: un'oasi a rischio

Non conosce sosta l'attività di Legambiente che continua a diffidare ripetutamente l’amministrazione comunale di Catania sollecitando la demolizione delle centinaia di costruzioni abusive ricadenti all’interno della riserva naturale “Oasi del Simeto”. Ma sino ad oggi i risultati sono stati modesti e le poche demolizioni effettuate dall’amministrazione comunale sono state eseguite con il solo fine di evitare l'intervento dell’autorità giudiziaria. Il ricorso di Legambiente al TAR Catania ha scongiurato una prima modifica della perimetrazione della riserva che sanava di fatto tutti gli agglomerati

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abusivi; ma oggi vi è un ulteriore rischio, ancora più grave, che incombe sull’Oasi del Simeto. L’estensione dell’istituto del silenzio assenso contenuto nella recentissima legge finanziaria siciliana, di fatto apre le porte ad una sorte di sanatoria generalizzata delle numerosissime costruzioni illegali per le quali è in corso la procedura di verifica della compatibilità con i valori ambientali e paesistici.

Infatti, la procedura prefissata dalla norma per il rilascio o il diniego delle concessioni in sanatoria si deve espletare nel termine perentorio di 180 giorni Inoltre, per verificare tale compatibilità, occorre distinguere tra le costruzioni realizzate prima dell’introduzione dei vincoli, dove non è più richiesto il nulla osta dell’ente preposto alla tutela del vincolo dai casi di costruzioni realizzate dopo l’introduzione dei vincoli stessi. In quest’ultimo caso l’ente preposto alla tutela deve pronunciarsi in tempi strettissimi trascorsi i quali si applica l’istituto del silenzio assenso. Lo stesso meccanismo del silenzio assenso è previsto per i passaggi successivi davanti agli uffici comunali e regionali. È facile immaginare le difficoltà operative degli enti preposti al controllo dei vincoli, degli uffici regionali e comunali nell’evasione delle pratiche nei termini strettissimi prefissati dalla legge, considerando che in Sicilia sono centinaia di migliaia le pratiche di condono in discussione. Ciò potrebbe favorire il rilascio di concessioni in sanatoria con il sistema del silenzio assenso anche per l’abusivismo edilizio ricadente all’interno delle riserve naturali, delle aerea archeologiche e sottoposte a vincoli paesaggistici, per le quali non si sia provveduto tempestivamente a verificare l’insanabilità dell’abuso.

L’equilibrio ambientale della riserva è, inoltre, minacciato dai diversi progetti di realizzazione di villaggi turistici e campi da golf nelle aree recentemente estromesse dalla perimetrazione della riserva: si tratta di progetti che snaturerebbero le condizioni del suolo distruggendo la vegetazione e la fauna tipica delle aree dunali e della macchia. Legambiente si è rivolta all’autorità giudiziaria contro il decreto di perimetrazione della riserva e ha presentato osservazioni articolate contro la delibera di adozione della variante urbanistica che cementifica il territorio. Le ville di Pizzo Sella

Un milione di metri quadri di collina scoscesa e rocciosa sottoposta a vincolo idrogeologico e paesaggistico lottizzati abusivamente, 314 concessioni edilizie rilasciate illegittimamente dal Comune di Palermo in una zona destinata a verde agricolo 140 unità immobiliari realizzate, il tutto corredato da opere di urbanizzazione primaria, strade, fognature, impianto di illuminazione, ecc. Si tratta delle ville di Pizzo Sella, a Palermo, un altro ecomostro il cui caso è quasi chiuso: le case abusive costruite sul promontorio palermitano di Pizzo Sella, ribattezzata la collina del disonore, vanno confiscate e il danno ambientale prodotto deve essere risarcito. Lo ha stabilito la sentenza emessa il

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29 gennaio 2000 dal giudice Lorenzo Chiaramonte, che ha condannato dieci tecnici, funzionari comunali e imprenditori, accusati di aver partecipato a vario titolo ad un’enorme speculazione edilizia. Diversi lotti di terreno con rispettiva villetta sono stati "donati" ad alcuni tecnici e funzionari comunali, per facilitare e rendere possibile il rilascio delle concessioni. In particolare, il progettista del complesso edilizio allo stesso tempo faceva parte della commissione edilizia che dava il parere sulle concessioni e naturalmente aveva esercitato la sua influenza affinché i progetti fossero approvati senza problemi. Particolare non trascurabile, infine, le concessioni edilizie figuravano intestate alla sorella del noto boss mafioso Michele Greco il "papa della mafia". Una colossale speculazione immobiliare che nasconde un’imponente operazione di riciclaggio di denaro “sporco” da parte di Cosa Nostra. Dopo la demolizione dei primi scheletri avvenuta nel 1999 e la sentenza emessa dalla magistratura palermitana, nel maggio scorso il Comune di Palermo ha acquisito al patrimonio indisponibile del comune l’intero complesso immobiliare, sperando che si tratti di ulteriore passo verso la definizione definitiva dell’annosa vicenda che da più di vent'anni deturpa la collina del disonore di Pizzo Sella.

La “saracinesca” di Bari

Il 29 gennaio 2001 la Corte di Cassazione ha reso definitiva la sentenza emessa nel 1999 dal giudice per le indagini preliminari di Bari, Maria Mitola: l’ecomostro di Punta Perotti, 300mila metri cubi di cemento costruiti sul lungomare di Bari, è abusivo, annullando, così la sentenza della Corte d’Appello di Bari che aveva assolto gli imputati perché il fatto non sussisteva e restituito l’ecomostro di Punta Perotti ai proprietari. La sentenza, definitiva, prevede l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dei due grattacieli e delle aree di sedime in cui sono stati realizzati e, soprattutto, non lascia margini di equivoco sul futuro della Saracinesca: le costruzioni devono essere abbattute. Spetta ora all’amministrazione comunale dare corso all’ultimo atto di una lunga vertenza, che ancora tarda a venire. Infatti, la legge 47/85 prevede che sia il Sindaco a ordinare la demolizione delle opere abusive. Proprio quest’ultimo aspetto è stato confermato nell’aprile scorso da un’ulteriore decisione della Corte di Cassazione, a cui si era rivolto il Sindaco di Bari contro il pronunciamento della Procura che individuava in capo al Sindaco il soggetto titolato ad emettere l’ordinanza di demolizione delle opere confiscate.

Nel frattempo Legambiente, in collaborazione col Ministero dei beni culturali, ha inserito Punta Perotti tra le aree oggetto di un concorso internazionale di progettazione, al fine di promuovere idee per la riqualificazione del tratto costiero violato dalla “Saracinesca”.

Una vertenza cominciata, grazie anche all’impegno dei Centri di azione giuridica di Legambiente Puglia, subito dopo l’avvio dei cantieri, nei primi anni Novanta, e che è proseguita nel tempo tra alti e bassi: prima la decisione del Gip di Bari, poi la revoca della sentenza in Corte di appello; provvedimento

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annullato dalla decisione della Terza sezione penale della Cassazione ed infine il pronunciamento del Suprema Corte dell’aprile scorso. Sperando che quest’ultima decisione ponga la parola fine a questa sorta di “telenovela” giudiziaria e si proceda immediatamente alla “liberazione” dal cemento illegale del lungomare di Bari.

La “Pietra” di Polignano a Mare

Nel febbraio del 1998 è scattata l'operazione “Pietra Igea”, condotta dagli uomini del Coordinamento provinciale del Corpo forestale di Bari su delega del sostituto procuratore Roberto Rossi contro una lottizzazione abusiva nel Comune di Polignano a Mare. L'area, in località Ripagnola, si estende su quattro ettari, e al momento del blitz già ospitava un volume complessivo di oltre 20.000 metri cubi di cemento: un complesso turistico, con albergo e villini annessi. Diciannove i “corpi di fabbrica” già sequestrati nell'area soggetta a vincolo paesaggistico, sette gli avvisi di garanzia emessi nei confronti dei responsabili di questo scempio. Villaggio Coppola: un paese abusivo

Dune mobili e una splendida pineta di proprietà demaniale costituivano la cornice di uno stupendo paesaggio unico nel suo genere: si presentava così il litorale domiziano in provincia di Caserta. Ora su quella dune c'è un “paese privato” di oltre 15.000 abitanti, il Villaggio Coppola “Pinetamare”, un mostro di pietre e cemento lungo quattro chilometri costituito da otto grattacieli identici di dodici piani, con almeno ottanta appartamenti l'uno, 1300 posti auto, hotel e residence, pizzerie e rosticcerie, un porto privato per seicento posti barca, una chiesa e un cinema.

La lottizzazione risale ai primi anni '60. A realizzarla fu la Società immobiliare Fontana Blu di proprietà dei fratelli Coppola, di Aversa. Nel 1995 scattano i sequestri disposti dal sostituto procuratore Donato Ceglie, inizio di una lunga vicenda giudiziaria che non ha ancora visto la parola fine. Nel frattempo le ruspe (pagate da chi aveva costruito abusivamente) hanno terminato d’abbattere la sopraelevata del Parco Saraceno, 800 metri di asfalto abusivo che collegavano la darsena con le strade principali. Una nuova primavera per il Villaggio Coppola, sul quale pendono ben 165 procedimenti penali, è iniziata. Questa accelerazione è dovuta, in buona parte, all'insediamento dell’allora Commissario Straordinario di Governo per le aree del territorio di Castel Volturno, il Prefetto Mario Ciclosi. Finalmente si passa ad una nuova fase, più incisiva, nella gestione della vicenda: sono nominati due Comitati operativi, nazionale e periferico, per coordinare le diverse attività e gli interventi. Nel frattempo 101 ettari della Pineta Grande, sopravvissuti al degrado, sono stati affidati al Corpo Forestale per un periodo sperimentale di

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tre anni, in modo che siano garantiti manutenzione e ripristino del verde. Ma il progetto di recupero del Villaggio Coppola non si deve fermare: cinque torre in momenti diversi sono state già abbattute, occorre demolire le altre tre restanti e dare immediatamente corso al progetto di riqualificazione dell’intera area. Gli interventi per il ripristino della legalità in una zona già tanto danneggiata, passa necessariamente attraverso il rigoroso rispetto della legge sull’abusivismo e il divieto assoluto di nuove concessioni. Lo Spalmatoio di Giannutri

Una lunga fila di fatiscenti immobili in cemento armato per circa 11.000 metri cubi, fa bella mostra di sé da oltre 10 anni nell'insenatura dello Spalmatoio a Giannutri, isola che fa parte del Parco nazionale dell'Arcipelago Toscano. Delle costruzioni, iniziate negli anni '80 dalla società Val di Sol e poi interrotte, rimangono oggi alcuni scheletri in cemento e qualche villetta in completo stato di abbandono. Dopo oltre 10 anni di oblio, la nuova società che ha acquisito gli immobili ha chiesto al Consiglio direttivo dell'Ente Parco il nulla-osta per “recuperare” il complesso. L'Ente Parco è in attesa di documentazione aggiuntiva dal Comune del Giglio (nel cui territorio rientra Giannutri) per chiarire una vicenda che presenta diversi lati oscuri. Il complesso residenziale di Fossa Maestra

"A trenta metri dall'incantevole spiaggia di Marina di Carrara, la Società Casa Fiorita 2 sta costruendo un complesso immobiliare denominato Residence Paradiso, formato da tre piccoli gruppi di ville a schiera immersi nel verde": così nel dicembre del '92 veniva pubblicizzato su alcuni giornali la costruzione del complesso residenziale di "Fossa Maestra", in un'area dove il Piano regolatore prevedeva "attrezzature collettive balneari". Il circolo Legambiente di Carrara nell'aprile '93 ha presentato un esposto alla magistratura; nel luglio '95 il pretore ha condannato i responsabili a 20 milioni di multa "per aver realizzato un albergo in contrasto con quanto previsto dal Prg e per aver realizzato l'edificio in difformità rispetto alla concessione edilizia rilasciata dal comune". La sentenza è stata successivamente confermata in Cassazione. Sono passati quattro anni ma lo scheletro è ancora in piedi, impedendo ogni possibilità di ripristino e recupero dell'area umida, prevista dal Piano strutturale in vigore. Il Comune si è dimostrato in questi anni molto disponile nel promettere la demolizione dell’ecomostro, peccato che alle parole non sono seguiti i fatti.

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Lo "scheletrone" di Palmaria

Circa 10.000 metri cubi di cemento incombono sul paesaggio del Parco Regionale delle Cinque Terre. Uno scheletro abusivo alto 30 metri nel Comune di Portovenere di cui Legambiente chiede la demolizione e il recupero dell'area, tra le più suggestive di Palmaria.

La vicenda inizia nel 1975 quando il Sindaco di Portovenere rilascia una concessione edilizia per la realizzazione di un albergo e di un residence di 45 appartamenti, con annessi servizi e infrastrutture. Nello stesso anno la Pretura blocca la speculazione, mette sotto sequestro il manufatto e rinvia a giudizio i titolari della società lottizzatrice, il Sindaco e l'impresa. La sentenza è poi confermata anche in appello. Si attende ancora un intervento della Giunta regionale. La Giunta comunale di Portovenere ha votato una delibera che rigetta definitivamente la richiesta di condono presentata dai proprietari. Il 23 maggio 2002 è stato raggiunto un accordo tra la regione Liguria, il Comune di Portovenere e la Sovrintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio della Liguria che sembrava dovesse portare in breve tempo all’abbattimento dello scheletrone di Palmaria è passato già un anno e l’ecomostro continua a sfregiare da oltre 30 anni uno dei tratti di costa più belli della Liguria. L’Hotel Castelsandra nel Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano (Comune di Castellabate – Salerno)

Un vasto complesso immobiliare a destinazione alberghiera costruito su

di una collina, nel cuore del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano. Siamo nel comune di Castellabate in provincia di Salerno dove, a partire dalla meta degli anni ’80, in assenza di qualsivoglia lecito titolo concessorio, in una zona incontaminata soggetta a vincolo di inedificabilità e destinato all’uso civico boschivo, è stato costruito l’Hotel Castelsandra. Il complesso alberghiero è stato confiscato perché ritenuto oggetto di reinvestimento e di riciclaggio di attività illecite e criminali da parte del clan camorristico dei Nuvoletta.

Sull’annosa vicenda che va avanti ormai da un decennio si è aperta una nuova e più incisiva fase, grazie anche al notevole impegno profuso in questi anni dalla Dott.ssa Margherita Vallefuoco, Commissario di governo per i beni confiscati. Il Sottosegretario di stato per l’economia e la finanza Maria Teresa Armosino, infatti, nella seduta della Camera dei deputati del 28 novembre 2001 ha espressamente risposto in merito all’interrogazione parlamentare sull’Hotel Castelsandra che: “l’area interessata dalla costruzione e contraddistinta da un vincolo di inedificabilità assoluta, prevista dal Piano regolatore generale adottato dal Comune di Castellabate. Di conseguenza l’edificazione realizzata non è neppure suscettibile di un provvedimento di sanatoria edilizia”. Inoltre, “Il soggetto giuridicamente tenuto a procedere ad ogni attività occorrente per la demolizione secondo le regole tipiche dettate in argomento dalla legge n.47/85

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è il Comune di Castellabate. Solo in caso di inerzia ingiustificata del comune, l’ente parco nazionale potrà ad esso sostituirsi, attivando le procedure di demolizione e rivalendosi, successivamente, sul comune per i costi sostenuti”. Le villette abusive di Piscina Rey a Muravera

Dopo una lunga vicenda giudiziaria fatta di appelli e riforme parziali di sentenze, il 9 aprile 1999 la Corte di Cassazione ha confermato l’ordinanza di demolizione per un complesso immobiliare di villette a schiera per migliaia di metri cubi costruito in un’area ad uso civico lungo la costa di Muravera. Dopo sette pronunce giurisdizionali non è stato ancora demolito nulla. 5.3 Il condono edilizio in Sicilia

Da anni ormai in Sicilia si tenta di sanare anche gli abusi insanabili realizzati sulla fascia costiera ed oggi esiste addirittura un DDL approvato dalla giunta regionale dal titolo altisonante, ma che otterrà, qualora venisse approvato, come unico risultato una nuova sanatoria nella fascia costiera.

Spiegare questa scelta semplicemente con un tentativo d’accaparramento dei consensi elettorali degli abusivi attuali e di coloro che si preparano a diventarlo è riduttivo. Ci sono anche altre motivazioni, tra cui un deficit politico-culturale che impedisce il dispiegarsi di una azione di governo capace di elaborare un progetto di reale sviluppo della Sicilia basato sugli indirizzi ormai consolidati dell’Unione Europea. Questo deficit è stato chiaramente esplicitato nel confronto sul DDL “Norme per il governo del territorio e il riordino delle coste”.

La Legambiente non si è sottratta al confronto col Governo ed anzi ha ritenuto opportuno fornire anche il proprio contributo di contenuti e proposte alla luce sia del rilievo che questa norma potrebbe avere sulla gestione complessiva del territorio siciliano ma anche della condivisione di quegli obiettivi che il Governo in un primo momento aveva presentati come principali: - un riordino del sistema costiero siciliano, che tenesse conto di tutti i fattori

di degrado che negli anni hanno sconvolto un equilibrio già di per sé piuttosto fragile;

- il potenziamento della ricettività turistica legata alla fruizione del mare, nell’ambito di uno sviluppo equilibrato dalle esigenze di tutela.

Entrambi gli obiettivi rivestono un’importanza strategica per lo sviluppo socio-economico della Sicilia e vanno certamente considerati interconnessi sia nella fase di analisi che nella ricerca di possibili soluzioni. Anzi, il riordino della fascia costiera non può che costituire la precondizione di un reale potenziamento ricettivo.

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Il contributo che Legambiente ha fornito, però, non ha trovato accoglimento da parte dell’Assessorato Territorio e Ambiente che ha predisposto, invece, un DDL dai contenuti inaccettabili e che rischia di pregiudicare per sempre la possibilità di uno sviluppo sostenibile della Sicilia.

Il DDL approvato non è funzionale al riordino della costa né tanto meno allo sviluppo turistico.

In che modo la sanatoria edilizia di quindicimila case costruite sulla spiaggia, seppur filtrata da strumenti di pianificazione (sulla cui efficacia ci soffermeremo appresso), possa innescare un processo di riqualificazione della fascia costiera riteniamo sfugga ai più. Come questo, poi, possa conciliarsi con lo sviluppo di un turismo legato alla fruizione del mare non ci resta che farcelo spiegare da coloro che, con straordinaria creatività, hanno redatto questo articolato di legge.

Chi può credere veramente che il riordino di un agglomerato abusivo costruito sulla spiaggia e la riqualificazione della costa si possano ottenere semplicemente dotando di fogne ed acqua le case abusive?

Gli agglomerati abusivi siciliani ancora oggi, dopo due sanatorie edilizie ed il completo fallimento dei piani di recupero del patrimonio abusivo, per qualità urbana, somigliano più alle bidonvilles che a pezzi di città europee, e ciò che li rende molto simili alle favelas brasiliane o venezuelane non è tanto il ceto sociale d’appartenenza o le condizioni socio-economiche di chi vi abita, ma il disordine urbanistico. Bisogna però fare una distinzione essenziale: le bidonvilles sono nate come risposta spontanea ad un fenomeno di massiccio inurbamento originato dalla fame e dalla speranza in una vita migliore di enormi masse di diseredati; nel nostro caso, molto più banalmente, l’origine è da ricercare in un consumismo sfrenato che fa sentire la seconda o la terza casa come un fabbisogno essenziale e comunque “il mattone” come un investimento sicuro.

Si tratta di una sub-cultura fondata sull’interesse particolaristico e sul disprezzo del bene comune, ma che purtroppo trova molti sostenitori. E ciò anche tra quelle classi dirigenti che, invece, dovrebbero sentire come propria la responsabilità dell’emancipazione culturale e della crescita di una reale coscienza civile delle popolazioni che rappresentano.

Bisogna uscire da ogni infingimento. Non possiamo più prendere seriamente le analisi che ci presentano l’abusivismo come un fenomeno legato alle rimesse di poveri emigranti che investono tutti i loro risparmi o alla carenza degli strumenti urbanistici generali e del quale ci si deve limitare a prendere atto!

Il fenomeno dell’abusivismo edilizio, infatti, si basa su valutazioni economiche molto precise è ha in ogni caso una natura speculativa: anche una piccola casa abusiva è frutto di un progetto speculativo con il quale si vuole ricavare una rendita che decuplichi il capitale investito. Si compra un terreno inedificabile e per ciò stesso molto conveniente; si edifica in nero e quindi con un costo di costruzione ridotto di circa il 40%; se si riesce a conseguire la concessione in sanatoria si ottiene la stessa rendita di una casa regolarmente

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costruita ad un costo nettamente più basso. Ovviamente vanno attentamente valutati e minimizzati i rischi, e per questo, nella maggior parte dei casi, si evita di costruire nelle aree già escluse dalle due sanatorie del 1985 e del 1994. Un caso esemplare è quello della Valle dei Templi di Agrigento: la speculazione abusiva la aggredì negli anni settanta e nella prima metà degli anni ottanta; dal 1986 (anno successivo alla sanatoria nazionale L.47/85 che escludeva tale area) il fenomeno si è sostanzialmente arrestato.

Ciò è avvenuto in quasi tutte le aree escluse dalle sanatorie, compresa la fascia d’inedificabilità assoluta di 150 dalla battigia, oggi oggetto del DDL del Governo.

Ed è appunto questo il dato di partenza su cui occorre riflettere. L’insanabilità blocca l’abusivismo, le nuove sanatorie creano grandi aspettative criminose. Così si spiega lo spostamento dei massicci interessi speculativi illegali verso le aree rurali: si ritiene tanto semplice evitare l’acquisizione o la demolizione in queste aree che le case abusive vengono regolarmente vendute dalle agenzie immobiliari.

Cosa avverrebbe se si approvasse una nuova sanatoria sulla fascia costiera, cioè in un’area dove il fenomeno si è sostanzialmente arrestato?

La risposta è scontata, ed infatti è stata sufficiente la sola approvazione in giunta per fare ripartire l’assalto alle coste. Tutti abbiamo avuto notizia dagli organi di stampa del sequestro di alcune ville in costruzione e addirittura di un’intera lottizzazione in provincia di Trapani.

E certamente non sono credibili le rassicurazioni di chi ritiene di grande importanza avere fissato come limite per la sanabilità il 31 dicembre 1993. La storia ci ha insegnato che questo non serve a nulla, ma ancora meno servono le sanzioni previste, di solito negli ultimi articoli come corollario della sanatoria, per chi non vigilerà in futuro.

In questo senso quale straordinaria novità alberga in questo nuovo testo? L’art.13 prevede che i sindaci da responsabili diretti si trasformino in semplici controllori dell’operato dei funzionari ed in caso d’inerzia nel sollevare dall’incarico i funzionari negligenti, scattano i fantomatici poteri sostitutivi della Regione che può arrivare anche alla rimozione del Sindaco. Chi non ha la memoria corta, certamente ricorderà che quest’ultima sanzione è già prevista da molti anni dalle attuali norme e, ovviamente, non è mai stata irrogata. Forse perché tutti i Sindaci siciliani hanno combattuto con solerzia l’abusivismo edilizio? Sarebbe più serio cercare altre spiegazioni!

Perché oggi dovrebbe andare diversamente? In realtà si tratta di un film già visto e, come è sempre avvenuto nella storia del cinema, i numeri 2 o 3 di film di grande successo sono molto più scadenti degli originali.

L’intera questione del risanamento della costa siciliana non può essere ricondotta ad una semplice riproposizione di strumenti di riqualificazione come fa il DDL approvato dalla giunta regionale.

I piani di recupero degli agglomerati abusivi previsti dalle norme vigenti hanno completamente fallito il loro obiettivo ed il tentativo di trovare

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strumenti leggermente diversi come i PRUA, ci conferma come tale fallimento sia inconfutabilmente ammesso dallo stesso Governo regionale.

Il mancato recupero degli agglomerati abusivi però non può essere esclusivamente spiegato con la povertà dei finanziamenti disponibili (a proposito, quante migliaia di miliardi costerebbe il riordino previsto dalla proposta del Governo siciliano?? Quante decine d’anni occorreranno per averli?), cosa peraltro assolutamente reale, ma anche con le caratteristiche tipologiche di tessuti edilizi che, per come si sono sviluppati, difficilmente potranno assumere un aspetto diverso.

Il fatto che poi anche questi ultimi piani siano affidati ai Comuni, le cui responsabilità sulla crescita del fenomeno dell’abusivismo edilizio sono sotto gli occhi di tutti, ci dà il senso pieno della strumentalità della proposta.

Entrando nel merito del DDL, vale la pena di sottolineare due punti significativi: - iI PRUA dovrebbero essere “redatti sulla base dei contenuti dell’Atto di

indirizzo del PTUR” e non su quelli del Piano vero e proprio. Questo Atto d’indirizzo, inoltre, dovrebbe essere redatto entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge “nel rispetto dei principi delle Linee guida del Piano territoriale paesistico”. In buona sostanza si dovrebbe provvedere alla redazione dei PRUA in totale assenza di criteri oggettivi costruiti su una fase di analisi propedeutica, dignitosamente approfondita. In queste condizioni ovviamente verrebbe sanato tutto ciò che non ricadrebbe all’interno di aree protette. Potrebbe, infatti, essere questo l’unico criterio oggettivo adottabile;

- i PRUA potranno prevedere il recupero solo per quegli abusi già oggetto di richiesta di concessione in sanatoria ai sensi delle precedenti leggi di condono. Cioè potranno sanare esclusivamente coloro che, pur non avendone titolo ma essendo dotati di sconfinata fiducia nelle classi dirigenti che si sono alternate alla guida della Regione, hanno comunque richiesto il condono edilizio. Saranno premiati quindi coloro che pensano: “tanto prima o poi arriverà una nuova sanatoria”, gli altri abusivi resteranno a guardare;

- ma è ancor più evidente l’altro profilo d’incostituzionalità di questo DDL. Non si fa una nuova sanatoria, ma si riaprono i termini delle precedenti sanatorie nazionali. Onestamente mi sfugge come possa l’Assemblea Regionale Siciliana riaprire i termini di una sanatoria approvata dal Parlamento nazionale che escludeva la possibilità di sanare gli abusi commessi in aree vincolate.

Noi di Legambiente siamo stati richiamati ad un più sano realismo dai nostri interlocutori al Governo. Ci è stato spiegato che non è credibile pensare alla demolizione di tutte e quindicimila le case in questione e noi, in linea con i nostri valori e con il realismo che da sempre contraddistingue la nostra azione, abbiamo proposto due soluzioni alternative: - l’acquisizione al demanio di tutte le case e la concessione in uso, in

applicazione delle norme attualmente vigenti;

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- l’acquisizione al demanio di tutte le case e il successivo riutilizzo di questo patrimonio, in termini di cubatura, da parte di quegli imprenditori turistici che vorranno realizzare strutture ricettive sulla fascia costiera, anche all’interno dei 150 metri dalla battigia, facendosi carico della riqualificazione dell’area. Questa previsione, riguardando ovviamente quei grossi agglomerati che hanno ormai cancellato ogni possibilità di rinaturalizazione del sito originario, avvierebbe un reale processo di recupero ambientale, paesaggistico ed urbanistico di questi, garantendo la sostenibilità ambientale di un nuovo sviluppo turistico, in un equilibrio attivo con quelle parti di costa ancora perfettamente conservate che dovrebbero rimanere intangibili. Tali interventi dovrebbero essere inseriti in specifici piani o progetti di comparto d’iniziativa privata. Il processo di riqualificazione potrebbe così realisticamente avviarsi, essendo affidato in gran parte alla finanza privata.

Quest’ultima proposta, peraltro ritenuta di grande interesse anche dagli industriali siciliani, denuncia uno sforzo reale di tenere insieme diverse esigenze ma soprattutto di raggiungere i due obiettivi già citati e sbandierati dal Governo per giustificare la redazione di questo testo di legge.

Non è stata presa minimamente in considerazione dal Governo ma è servita a smascherare il vero obiettivo della legge e cioè la sanatoria edilizia.

E se qualcuno ritiene questa lettura inaccettabile giudicandola un po’ dietrologica, forse è il caso di riflettere su un’altra tanto grave quanto significativa contraddizione. Uno dei contenuti del PRUA inseriti nell’art.4 del DDL e quindi approvati dalla giunta è il ripristino del demanio. La stessa giunta ha però proposto nello stesso periodo, per l’approvazione delle commissioni competenti (e noi speriamo francamente che non arrivi in aula), l’art.1 di un altro DDL collegato alla finanziaria, il n.298. Questo articolo si intitola “Sdemanializzazione di aree e manufatti demaniali marittimi” e guarda caso prevede la sdemanializzazione anche per le “opere realizzate in assenza o in difformità dalla concessione” cioè per quelle case abusive.

Se non si volesse regalare ai siciliani l’ennesima sanatoria ed al contrario si puntasse su uno sviluppo turistico “possibile”, sarebbe indispensabile fugare ogni dubbio in proposito e partire dall’assunto che è prioritario bloccare i meccanismi socio-economici che alimentano l’abusivismo edilizio.

Noi riteniamo che questo sia il presupposto per qualunque discussione seria sul riordino delle coste e per questo siamo convinti che sia comunque essenziale arrivare all’acquisizione delle case abusive. Solo così si può scoraggiare il nuovo abusivismo edilizio. Tutte le leggi di sanatoria non hanno ottenuto alcun risultato in termini di risanamento ed hanno di converso rilanciato l’abusivismo edilizio. Perché oggi dovrebbe andare diversamente?

Forse non è un caso che tutto il dibattito verte sulla sanatoria e nessuno parla del PTUR. Forse non è un caso, ed obiettivamente sarebbe poco credibile parlare di un presunto rafforzamento dell’impianto pianificatorio siciliano attraverso la creazione di un nuovo strumento di pianificazione d’area vasta

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mentre contestualmente si approva una nuova sanatoria, il più efficace strumento di deregolamentazione nella gestione del territorio. 5.3 Il caso Ardea (Rm)

Perché, in materia di abusivismo edilizio nella Provincia di Roma, esiste un "caso" Ardea? Esiste un "caso" Ardea per almeno 4 motivi: 1) I dati Istat relativi al numero dei residenti nei Comuni della Provincia di

Roma indicano in Ardea, uno dei 9 Comuni costieri della Provincia, uno dei Comuni che dal 1991 al 2001 ha conosciuto un vero e proprio "boom residenziale". Si pensi che nel 1991 la popolazione residente del Comune di Ardea si assestava su 16.854 unità, mentre al 2001 Ardea raggiunge 26.711 residenti, con una crescita di 9.857 residenti, ed un incremento, rispetto al 1991, pari al 58% di crescita;

2) Uno studio della Regione Lazio, risalente all'inizio degli anni '80, stimava il Comune di Ardea quale bacino territoriale nel quale si concentrava il 10% del totale dell'abusivismo;

3) secondo dati forniti dagli stessi Amministratori di Ardea, tra I° e II° Condono edilizio l'antica Città dei Rutuli assomma 19.000 domande di Condono: un rapporto altissimo, quindi, tra numero delle domande di Condono e numero dei residenti;

4) il recente rapporto "Ecomafie" di Legambiente indica una ripresa dell'abusivismo edilizio: 1697 case abusive - + 8%, rispetto all'anno precedente - nella Regione Lazio: poiché la produzione legale di alloggi per il 2002 è stata di 15.896, ne risulta che nella Regione Lazio una casa su 10 è abusiva. Alla base dell' incremento dell'abusivismo, c'è il cosiddetto, "effetto annuncio", dovuto ad uno sciagurato tentativo di varare un terzo condono da parte del Governo: il provvedimento è stato poi ritirato, ma ne è bastato l'annuncio per far ripartire il fenomeno.

Ma naturalmente tutto ciò non bastava per poter parlare di " caso Ardea": occorreva quindi una indagine sul campo, incrociata con i dati disponibili, che permettesse di avere gli elementi minimi necessari per fare una stima. Questa indagine ha prodotto il dossier che qui alleghiamo, e che riguarda l'arco temporale 1994/2001, un arco temporale, quindi, di completa incondonabilità delle opere realizzate, giacchè il secondo condono ha sanato le opere realizzate entro il 31 dicembre 1994. I numeri sono quelli, per l'appunto, da "caso": dal 1994 al 2001 si può stimare che ad Ardea siano stati realizzati 337.940 mc, con un consumo di suolo stimabile in 60 ettari. Questo vuol dire che nel periodo suddetto sono stati consumati illegalmente 205 mq di suolo al giorno, e siano stati realizzati 115 mc abusivi al giorno. In più il rapporto tra edilizia legale realizzata nello stesso periodo, e le attività abusive pende a favore di quest'ultima: circa 220.000 mc realizzati nella legalità, a fronte di 337.940 mc realizzati abusivamente.

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C'è ne è abbastanza quindi, per parlare di "caso" Ardea : il "boom" residenziale è dovuto anche ad una forte e radicata offerta di alloggi illegali - e quindi sottocosto - che quel bacino territoriale continua a produrre.

La prima parte del lavoro è stata volta con un indagine sul campo, volta a stimare la dimensione media delle varie tipologie di abusi per destinazioni d'uso presenti sul territorio di Ardea. Questa prima parte del lavoro ha prodotto la tabella seguente.

Dimensione media abusi per tipologie Tipologia abusi Dimensione

media Altezza media Cubatura media Dimensione media lotto

Manufatto - nuova costruzione

120 mq 3,5 metri 420 mc 1.000 mq

Capannone 500 mq 4,5 metri 2.250 mc 1.500 mq Ampliamento

Difformità 40 mq 3,5 metri 140 mc ------------

Veranda 50 mq 3,5 metri 175 mc ------------ Lottizzazione Numero

medio lotti 15 -------------- --------------- 1.000 mq

Dimensione media lottizzazionemq 15.000

Sopraelevazione 80 mq 3 metri

240 mc ------------

Piattaforma Fondamenta

Cordoli su lotto

---------------- ------------ Lotto medio 1.000 mq

Abusi su aree del Demanio marittimo

300 mq ----------- ------------- --------------

Tettoia 300 mq 3,5 metri 1.050 mc

La seconda parte del lavoro è consistita: - nella selezione degli abusi sui dati del Comune di Ardea

complessivamente disponibili: sono stati quindi considerati i soli abusi che hanno provocato nuovo consumo di suolo o produzione di quote significative di nuova cubatura;

- sono stati quindi suddivisi gli abusi per destinazione d'uso finale, ed infine, il risultato ottenuto sui singoli anni è stato incrociato con la stima effettuata con l'indagine sul campo

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Ecco quindi il risultato di questo lavoro di stima. Tabella riassuntiva particolareggiata dell'attività abusiva non condonabile nel Comune di Ardea - 1994/2001

Numero pratiche

Numero abusi

Manufatti nuove

costruzioni

Ampliamenti Tettoie Capannoni Piattaforme fondamenta

cordoli su lotti

Demanio marittimo

Lottizzazioni

1.037 1.077 430 136 76 26 28 44 6 Stima

mq/mc Stima mq/mc

Stima mq/mc

Stima mq/mc

Stima mq

Stima mq

Stima mq

mq 51.600 mc 180.600

mq 5.440 mc 19.040

mq 22.800 mc 79.800

mq 13.000 mc 58.500

mq 28.000 mq 13.200 mq 90.000

Numero lotti 430

----------- Numero lotti 26

mq 430.000 mq 39.000 mq 28.000 mq 13.200 mq 90.000 Tabella riassuntiva generale dell'attività abusiva non condonabile nel Comune di Ardea - 1994/2001

Stima consumo di suolo comprendente la sola superficie calpestabile Stima cubatura realizzata mq 94.420

Stima consumo di suolo per l'intera superficie dei lotti per abusi di nuova edificazione mq 600.200 mc 337.940

Stima consumo di suolo/realizzazione cubature quotidiane nel Comune di Ardea - 1994/2001

Consumo di suolo Cubature realizzate 1994/2001 mq 600.200 mc 337.940 2.920 giorni

Stima consumo di suolo quotidiano Stima cubature abusive quotidianamente realizzate mq 205 mc 115

L'offerta dell'edilizia legale negli anni 1994 - 2001 1994/1996 1997 1998 1999 2000 2001 Totale 20.000 mc 40.000 mc 40.000 mc 40.000 mc 40.000 mc 40.000 mc 220.000 mc

equivalenti a 1.833

stanze/persona

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6. Fronte del porto La rivista “Capital” lo considera un affare, un investimento sicuro che frutterebbe più dell’acquisto di un appartamento: con soli 45.000 euro si può comprare un posto barca nel Porto di Lavagna per poi affittarlo, il business è assicurato. Peccato che quello di Lavagna è un Porto in crisi in cui la cattiva gestione ha fatto seguito ad una cattiva costruzione.

Un investimento sicuro dunque per la rivista “Capital”, quasi uno status symbol per le amministrazioni comunali, un modo sicuro per attirare i turisti, la ricetta magica per fare sviluppo. Sono i porti turistici, un vero business che spesso si trasforma nell’ennesima occasione per speculazioni a molti zeri, ai danni delle casse pubbliche, e in una vera e propria aggressione ai danni del patrimonio naturale. Così in alcuni casi decine di porti e porticcioli spuntano lungo la costa a poche decine di chilometri l’uno dall’altro come funghi dopo un temporale, in barba alla logica e a qualsiasi seria valutazione di impatto ambientale. In altri casi, invece, strutture portuali progettate per rispondere a reali o presunte esigenze finiscono impantanate nella palude della burocrazia e dei ritardi incomprensibili, che trasformano vaste porzioni di territorio in un cantiere in pianta stabile. In altri casi ancora, porti realizzati facendo ricorso a stanziamenti dell’erario finiscono inspiegabilmente nelle mani di privati che li gestiscono a proprio piacimento. Insomma il problema non è nelle strutture portuali in sé quanto nella assoluta mancanza di logica con cui viene gestito ed soprattutto progettato questo settore.

Questo lo scenario per la portualità turistica in Italia, complicata non poco dalla recente semplificazione delle procedure normative in materia e poco male se il porto rimarrà vuoto, se si insabbierà, se costerà un procedimento di infrazione da parte della Comunità Europea nel caso della Regione Abruzzo: un porto non si nega a nessuno.

Il risultato è quasi sempre lo stesso: fiumi di denaro pubblico gettati al vento e nelle tasche degli speculatori, mentre il mare e i litorali agonizzano, insidiati sempre di più dal cemento. E’ quanto avvenuto, per esempio, in Sardegna, dove, in assenza di un adeguato controllo, gli interessi di progettisti e imprese costruttrici hanno spinto verso la realizzazione di infrastrutture sovradimensionate, spesso inadatte al loro ruolo.

Se da un lato il diporto nautico va considerato come una componente significativa dell’economia turistica delle aree costiere, dall’altro è evidente che le proposte di piani per la portualità turistica presentati fino ad oggi sono condizionati da alcune presunte esigenze che tendono ad appesantire più del necessario il livello delle infrastrutture presenti lungo il litorale.

Innanzitutto è necessario fare chiarezza sui numeri: si è spesso parlato di 800mila barche, ma le dimensioni reali della flotta da diporto italiana si aggirano tra le 80-90mila unità. Il resto è composto da gommoni, lancette, derive e pattini, che con i porti non hanno nulla a che fare. La “densità nautica media” non è dunque di una barca ogni 70 abitanti, ma di una ogni 700. La

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domanda di posti barca permanenti potrà dunque registrare una certa crescita ma sarà sempre difficile convincere i diportisti a scegliere come porti di armamento delle località lontane dalla loro residenza, e magari anche difficili da raggiungere.

Ma accanto ad un’utenza prevista decisamente inesistente c’è anche la convinzione che i porti turistici debbano avere una grande dimensione, pari ad almeno 700-800 posti barca, per ragioni di economia di gestione. Accettare indiscriminatamente questo principio significa ignorare la netta distinzione di funzione tra i porti stanziali, destinati a servire da basi logistiche permanenti, ed i porti di scalo, da utilizzare su base stagionale come semplici punti di tappa durante le crociere estive. I porti del secondo tipo non richiedono, in realtà, né le dimensioni, né l’insieme di servizi che devono essere presenti nei porti stanziali. Deve essere sfatata anche la presunta esigenza di attrezzare l’intero sviluppo costiero del nostro paese con una catena ininterrotta di porti da disporre a distanze di 20-30 miglia, vale a dire ad una normale giornata di navigazione l’uno dall’altro. Già oggi, infatti, è molto elevato il numero delle imbarcazioni che dai porti della Liguria, della Toscana e del Lazio migrano per le vacanze verso la Corsica e la Sardegna, coprendo tratte in mare aperto anche nell’ordine del centinaio di miglia, così come è considerato normale nell’Adriatico un trasferimento verso le coste della Dalmazia, di lunghezza poco inferiore.

E’ essenziale, perciò, che dagli sforzi volti ad avviare un processo di sviluppo della nautica nel nostro paese non emerga un approccio simile a quello proposto in passato con il progetto Bonifica per il Ministero della Marina Mercantile (“Sistema di Approdi nel Mezzogiorno”), che accettava in modo acritico i due postulati appena messi in discussione, vale a dire quello della dimensione dei porti, considerati tutti obbligatoriamente di grandi dimensioni, e quello delle distanze tra loro. Un simile modo di procedere si tradurrebbe in un’ulteriore cementificazione della fascia costiera o in uno spreco di risorse pubbliche. Appena ci si allontana dai principali bacini di utenza, infatti, la possibilità di realizzare dei porti turistici utilizzando esclusivamente capitali privati sussiste solo quando alla realizzazione di porti vengono abbinate grosse operazioni immobiliari. Anche se lo sviluppo della nautica può avere delle ripercussioni positive dal punto di vista economico, c’è dunque il rischio concreto che dietro l’obiettivo ufficiale di tale sviluppo possano nascondersi interessi non dichiarati per operazioni immobiliari sul litorale o per la costruzione di porti inutili a carico di tutta la collettività.

Senza riportare documenti di fede ambientalista, che potrebbero essere sospettati di faziosità, vale la pena riportare quanto contenuto nel Documento sulla portualità turistica nel Mezzogiorno, curato dall’Ucina, l’organismo della Confindustria che raggruppa gli imprenditori della nautica. A detta dell’Ucina su intere regioni del nostro Paese la disponibilità attuale dei posti barca sarebbe più che sufficiente a soddisfare le esigenze della domanda: è il caso del Lazio, dell’Abruzzo e della Puglia. Al contrario, se si legge il Piano porti della Regione Lazio si scopre la volontà di realizzare nel prossimo periodo ben

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10mila nuovi posti barca. In Abruzzo, se si portassero in porto, è il caso di dire, i progetti presentati, si conterebbe un approdo ogni 13 chilometri, senza considerare quanto sta accadendo in Puglia dove si prevede di realizzare un porticciolo, quello di Serra Cicora, a due passi da due aree protette, ma soprattutto a tre chilometri da un porto già esistente (porto Cesareo).

Queste valutazioni devono anche tenere in considerazione il tenore di vita che caratterizza le diverse aree della penisola: non a caso la grande maggioranza della flotta è concentrata nel mar Ligure, nell’Alto Tirreno e nell’Alto Adriatico. Lo sviluppo del turismo nautico nel Mezzogiorno dipenderà dunque in misura significativa dalla capacità o meno di attirare una clientela proveniente dall’Italia settentrionale e dal Nord Europa. Ciò implica l’abilità nell’attirare una clientela disposta a lasciare permanentemente la propria imbarcazione nel sud, dato che la maggior parte dei diportisti durante le crociere estive non si allontana più di 150-200 miglia dal porto di armamento.

L’acquisizione di una clientela stanziale può però venire solo a rimorchio di un massiccio sviluppo turistico a terra, oppure da un reale interesse nautico delle coste, come in Grecia, Turchia o in Croazia. Una prospettiva che, sulla scorta di quanto avvenuto in passato, può far venire i brividi: è auspicabile, infatti, che nell’Italia meridionale non si ripeta la tentazione di costruire più abitazioni sulla costa nella speranza di attirare più barche, e la demolizione di Coppola Pinetamare sembra dare un segnale positivo in questo senso. D’altra parte, molti tratti della costa del Mezzogiorno, per quanto dotati di grande potenziale turistico, hanno caratteristiche che le rendono poco attraenti da un punto di vista nautico, a causa soprattutto del carattere lineare e poco articolato delle coste. Si giustifica così un approccio più selettivo, che concentri l’attenzione sulle zone più interessanti come bacini di vacanze nautiche, rifiutando la tesi del porto di grandi dimensioni ogni 20 o 30 miglia lungo il litorale. 6.1 Che tesoro di ormeggio: il portolano delle assurdità

Di seguito alcune storie esemplari di porti mal gestiti, mal pensati e

soprattutto inutili. Non è difficile trovare progetti assurdi lungo le coste italiane ma la ricerca è capillare poiché sono poche le regioni che si sono dotate di un piano della portualità. Tutto è affidato ai bisogni e alle idee del momento: insomma c’è di che tremare. 6.1.1 Il porto “fantasma” di Crotone

In questo caso non si tratta di un porto turistico ma commerciale: è il

porto di Crotone, un luogo che si va progressivamente spegnendo. Paradossalmente, proprio ora che Crotone può contare su un porto attrezzato e su chilometri di banchine, non ci sono più imbarcazioni, mentre in passato

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spesso si creava la fila di quelle costrette ad attendere il proprio turno per poter sbarcare e imbarcare il proprio carico. Due anni fa è stato registrato un calo del 23,56 per cento del movimento delle merci, con un valore in assoluto pari a meno 73.507 tonnellate. Il maggior calo è stato registrato nelle merci sbarcate, meno 33,37 per cento, mentre quelle imbarcate, i cui volumi però sono inferiori, hanno fatto registrare un incremento del 17,86 per cento. A quest’ultimo risultato ha contribuito la chiusura dello stabilimento Pertusola: circa 50mila tonnellate di ferriti, 4.600 di cemento di rame e 1.550 di calamina calcinata, rappresentano infatti, i residui di lavorazione dello stabilimento metallurgico e costituiscono da sole poco meno dell’80 per cento del totale delle merci imbarcate.

Il crepuscolo del porto di Crotone si stava delineando da almeno un decennio, e si è aggravato ulteriormente negli ultimi tre anni, senza che ci fosse alcuna iniziativa per attrarre un volume di traffici più consistente. La soluzione del problema, come spesso accade, sembra dover passare ancora una volta dal cemento. La dotazione delle banchine, infatti, è destinata ad aumentare di 570 metri lineari, facendo del sistema portuale crotonese una struttura di notevoli dimensioni. Il tutto ad un costo complessivo pari a circa 32 miliardi. Altri ingenti investimenti, dunque, come se l’ampliamento di un porto già scarsamente utilizzato bastasse di per sé a rilanciare l’economia locale.

In effetti, a questa eventualità non sembrano credere in molti, tanto che già si punta sul turismo per lo sviluppo del territorio. Così fioriscono nuovi progetti, a cominciare da quello del porto turistico nel bacino sud (porto Vecchio), che prevede la sistemazione dell’intera area con l’apertura verso il quartiere marina e la costruzione di edifici per servizi. In questo contesto si inserisce anche la richiesta della società Aeroporto Sant’Anna di utilizzare una parte del bacino nord, banchina di riva e radice dell’attiguo molo foraneo, come approdo turistico riservato ad imbarcazioni di maggiore stazza. Sta prendendo corpo, inoltre, l’ipotesi della realizzazione di un approdo per navi da crociera, inserendo la città negli itinerari turistici.

Tutti questi progetti sembrano preludere all’ulteriore esborso di quattrini pubblici per la realizzazione di opere la cui effettiva utilità resta tutta da dimostrare. Visti gli errori compiuti in passato, sarebbe dunque preferibile cercare di far funzionare una volta per tutte le strutture già realizzate. A meno che non si pensi di rilanciare l’economia locale attraverso la continua apertura di nuovi cantieri fini a se stessi. 6.1.2 Il caso di Tarquinia

La teoria che sia sufficiente costruire un porto per promuovere lo

sviluppo turistico di una zona sembra aver fatto proseliti anche nel Lazio. E’ il caso, almeno, di Tarquinia, culla della civiltà etrusca, dove è in progetto la realizzazione di una struttura portuale per imbarcazioni da diporto all’altezza della foce del fiume Marta. Un vasto terreno, distante circa due chilometri alla

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foce del fiume, è infatti oggetto da tempo di una tentata variante urbanistica per trasformare 43 ettari di zona agricola ad alto valore paesaggistico in zona portuale, in grado di ospitare più di mille imbarcazioni.

Contro il progetto si sono schierate le principali associazioni ambientaliste, che hanno sottolineato come sulla costa di Tarquinia siano già stati costruiti in passato un milione e mezzo di metri cubi di cemento in seconde case ed alberghi, mentre l’amministrazione comunale si è già attivata per consentire altre operazioni simili nelle lottizzazioni di San Giorgio, del Lido di Tarquinia e di Marina Velca.

Il progetto di Tarquinia non tiene conto, inoltre, dell’estrema vicinanza di un altro porto, progettato alla foce del fiume Fiora e inserito nel Piano dei Porti della Regione Lazio nel contratto d’area Tarquinia-Montalto di Castro. L’aver progettato due strutture portuali alla distanza di circa 10 chilometri l’una dall’altra, per di più insistenti su pianure alluvionali e servite da fiumi con scarso apporto idrico, sembra preludere alla distruzione delle due foci fluviali. Le dimensioni della variante sono anche del tutto incompatibili con l’attività balneare delle spiagge del Lido, a causa dell’inquinamento atmosferico e acustico, e dell’intorbidimento delle acque derivante dalla presenza del porto.

Il sospetto è che il progetto del porto possa in realtà rappresentare uno stratagemma per cambiare la destinazione d’uso dei terreni interessati. Il solo passaggio da zona agricola a zona portuale, infatti, ha determinato un aumento istantaneo del valore dei terreni pari a 40 miliardi di lire. Così, se il progetto della nuova area portuale sarà bocciato, basterà una piccola variante per dare il via alla costruzione di nuove seconde case. 6.1.3 Il porto di San Felice Circeo

Nel maggio del 1999, la PENTA Srl, società a responsabilità limitata

con unico socio, con sede in Ferentino (Fr), presentava alla Capitaneria di Porto di Gaeta una richiesta di concessione demaniale marittima cinquantennale per l’ampliamento del Porto turistico di S. Felice Circeo. Detto progetto prevedeva un incremento di oltre 200 posti barca, rispetto agli attuali 250 accoglibili, con conseguente realizzazione di tutte le infrastrutture necessarie (pontili, parcheggi ecc.) ed andava ad interessare una superficie totale di 56.650 mq, di cui mq. 500 di area terrestre e mq. 56.150 di specchio d’acqua.

L'area demaniale interessata dall'ambizioso progetto ricadeva, e ricade tuttora, in un delicato contesto ambientale essendo sottoposta a vincolo paesaggistico (d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 - d.m. 20 luglio 1967) e a un “doppio” vincolo naturalistico, essendo il promontorio del Circeo, sul quale sarebbe andato a ricadere parzialmente l'intervento, compreso nel territorio del parco nazionale del Circeo che è, a sua volta, compreso nell’elenco dei Siti di importanza comunitaria e nelle zone di protezione speciale. Il progettato

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ampliamento del Porto di San Felice Circeo, oltre ad avere pesanti ripercussioni a livello ambientale, si poneva anche in contrasto con una Delibera del Consiglio Regionale che, pur prevedendo la possibilità di un ampliamento del porto esistente, stabilisce che esso non debba essere eccessivo, considerate le “difficoltà di collegamento stradale, la ripidità delle pendici incombenti e la limitata disponibilità delle aree terrestri”, e consiglia di studiare provvedimenti per l’eliminazione della barra sabbiosa che si forma presso l’imboccatura portuale, auspicando prioritariamente che il Comune assuma iniziative decise per una razionalizzazione del porto esistente. Ed è proprio con riferimento al nuovo piano dei Porti della Regione Lazio, che il Comune di San Felice Circeo con deliberazione del Consiglio Comunale del 15 luglio 1999, espresse, in prima battuta, la propria opposizione alla realizzazione dell’opera, evidenziando diverse carenze progettuali sia sotto il profilo delle vie di collegamento stradale di accesso e di uscita dal porto sia per la mancanza di soluzioni per tutte le aree dei servizi connessi con l’ampliamento dell’area portuale. Per la realizzazione del raddoppio del porto é stata seguita la procedura prevista dal DPR n. 509/1997, che disciplina la realizzazione di strutture portuali per la nautica da diporto, con la convocazione della conferenza dei servizi da parte del Comune per la valutazione del progetto preliminare. Nel corso di detta procedura, mentre il Comune di San Felice Circeo, contraddicendo la precedente delibera, si dichiarava fin da subito favorevole alla richiesta di ampliamento, ignorando così le lacune progettuali in precedenza riscontrate, il Ministero delle Finanze – Dipartimento del Territorio – Ufficio del Territorio Latina, con nota del 10 maggio 2000, evidenziava le possibili interferenze e i conseguenti rischi di un minor introito erariale per sottoutilizzazione della struttura attualmente esistente, e invitava l’amministrazione comunale a “stimolare una più ampia partecipazione di operatori, considerata l’importanza degli interventi” attraverso una maggiore pubblicizzazione delle opere che si intendono realizzare. Anche la Regione Lazio - Dipartimento Urbanistica e Casa -, con nota allegata agli atti della conferenza di servizi, svolgeva alcune considerazioni, quali: «L’ampliamento previsto dal progetto presentato dalla Penta Srl non può considerarsi del tutto conforme alle previsioni del suddetto piano dei Porti, trattandosi di opere comportanti il raddoppio o quasi degli attuali posti barca, snaturando ovviamente il concetto stesso di ristrutturazione del porto esistente«Lo stesso Piano dei Porti comunque riconosce la limitatezza di aree terrestri in prossimità dello scalo portuale e presumibilmente proprio per tale motivo auspica un non eccessivo ampliamento del porto esistente» e concludeva affermando che «considerato che la presente proposta progettuale non è del tutto conforme alle previsioni del piano di Coordinamento dei porti della Regione Lazio approvato con DCR n. 491 del 22/12/1998, e che un eccessivo incremento della capacità ricettiva dell’attuale scalo portuale potrebbe aggravare la già precaria situazione urbana dell’abitato di San Felice Circeo, si ritiene che tale proposta necessiti da parte dei soggetti proponenti una rivalutazione generale».Sempre il Dipartimento Urbanistica e Casa della

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Regione Lazio riteneva, inoltre, "indispensabile prevedere un più limitato incremento delle potenzialità ricettiva dell’esistente scalo portuale a beneficio di una riorganizzazione e riassetto dell’attuale configurazione tale peraltro da ricondurre i previsti interventi in effettive opere di ristrutturazione tenendo inoltre in considerazione l’esistente attività cantieristica”, auspicando, anche per questo motivo, l’azione coordinata con l’Amministrazione comunale, la quale anche attraverso proprie previsioni urbanistiche, facesse positivamente interagire il contesto urbano di San Felice Circeo con l’infrastruttura portuale, ovviamente ai fini di un reciproco beneficio, evitando inoltre possibili diseconomie derivanti anche da un eccessivo congestionamento della zona. Ma al coro dei no si aggiungeva anche il Dipartimento Opere Pubbliche e Servizi per il Territorio della stessa Regione Lazio, che evidenziava il contrasto con il Piano dei Porti della Regione Lazio, “che non prevede ampliamenti ma, al più, interventi di razionalizzazione e ristrutturazione dell’esistente”, e lamentando la “mancata considerazione che gli effetti del raddoppio della capacità portuale produrrebbe nel quadrante urbano interessato, sia per quanto riguarda i collegamenti viari, sia in relazione all’aumento del traffico veicolare ed alla necessità dei parcheggi”. Formulava, inoltre, diverse prescrizioni e raccomandazioni, tra le quali: “il progetto dovrà considerare il principio di realizzare una ristrutturazione del porto, all’interno della quale dovranno essere razionalizzate e prese in considerazione tutte le attività commerciali, di servizio e cantieristiche oggi esistenti”; “il progetto dovrà essere accompagnato dalla necessaria valutazione degli effetti prodotti sull’intero quadrante urbanistico con particolare riferimento alla viabilità di accesso, la viabilità di collegamento, i parcheggi e i servizi”; “Dovranno essere altresì essere rigorosamente osservate tutte le norme del P.T.P. (art. 35) con particolare riferimento agli effetti probabili che una consistente struttura portuale può produrre sui litorali sabbiosi fino a Terracina. Va altresì predisposto una adeguato studio di inserimento paesaggistico (S.I.P.)” ; “il progetto dovrà seguire la procedura di V.I.A.”. Tutto ciò premesso il Dipartimento Opere Pubbliche e Servizi per il Territorio concludeva richiedendo una rielaborazione del progetto. Nonostante le diverse richieste di riformulazione generale del progetto, il Comune di San Felice Circeo, autorizzava la Penta Srl alla presentazione del progetto definitivo, cui faceva seguito la convocazione di una nuova conferenza di servizi per il suo esame, alla quale peraltro non veniva convocato il rappresentante del Parco Nazionale del Circeo. Nella seduta del 21 giugno 2001, il progetto definitivo, nonostante non avesse apportato sostanziali modifiche a quello preliminare in termini di aree da adibire a parcheggio, di razionalizzazione del sistema viario di accesso al porto, di decongestionamento del quadrante urbano retrostante il porto, di prevenzione dal fenomeno dell’erosione delle coste, fu definitivamente approvato. Così, in data 13 dicembre 2001, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti rilasciava concessione demaniale marittima per la realizzazione delle opere.

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Tale concessione demaniale è stata annullata dal TAR Latina con sentenza n. 1456/2002 per diversi ordini di motivi. Primi fra tutti, la mancata partecipazione alla conferenza di servizi del Parco Nazionale del Circeo ricadendo, anche se solo in parte, il progettato intervento all'interno del suo perimetro, e il mancato esperimento della procedura di Valutazione di Impatto Ambientale.

Quello che sorprende della vicenda sopra descritta è come sia stato possibile rilasciare alla società Penta Srl la concessione demaniale per l'ampliamento del porto di San Felice Circeo nonostante le diverse segnalazioni ed esposti inoltrati da Legambiente, e da privati cittadini, alle autorità competenti, ricalcanti peraltro le perplessità espresse in prima battuta da tutte le amministrazioni coinvolte nel procedimento circa l'illegittimità della procedura e l'inopportunità dell'intervento, perplessità poi tutte condivise dal TAR Latina. 6.1.4 La Marina di Torre Inserraglio

E’ ormai tristemente famosa la vicenda del porto turistico “Marina di

Torre Inserraglio”, da realizzarsi nel Comune di Nardò, in località Serra Cicora, la società che possiede un villaggio turistico propone un porto per cui l’amministrazione comunale indice immediatamente una delle famigerate conferenze di servizi, tuttora in corso, per valorizzare la sua struttura e creare il precedente infrastrutturale per l’urbanizzazione turistica di un tratto di costa incantevole, non a caso tutelato dall’Unione Europea. Il progetto del porto di Serra Cicora prevedeva un’area totale d’intervento di 72mila metri quadrati, l’escavazione di un bacino interno di 42mila metri quadrati, un canale di accesso di 55 metri di lunghezza per 35 metri di larghezza, due dighe foranee a mare lunghe rispettivamente 148 e 15 metri, oltre ad infrastrutture a terra che comprendono un’area parcheggio per oltre 300 posti auto, strade di collegamento e due edifici per servizi. L’impatto che una struttura simile avrebbe avuto sull’ambiente circostante sarebbe stata senza dubbio devastante, e per questa ragione in molti tra associazioni ambientaliste, politici e privati cittadini si sono attivati per impedirne la realizzazione. 6.1.5 Voglia di porti per la Regione Calabria

Lo schema che segue è ripreso dal Bollettino Ufficiale della Regione Calabria ed è l’intesa istituzionale di programma tra il Governo della Repubblica e la Regione Calabria. Forse più di mille storie potrà servire a capire quali sono gli appetiti che si scatenano nel nostro Paese quando si parla di portualità. Molto significativi in particolare sono i costi: cifre del genere presuppongono forzatamente l’intervento di privati.

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PORTO INTERVENTI COSTO (milioni di €)

Gioia Tauro • Ampliamento canale portuale e definizione viabilità retrostante

• Ampliamento bacino Nord con formazione di nuova imboccatura portuale e dragaggio dei fondali

• Realizzazione piazzale retrostante banchina alti fondali e dragaggio fondali antistanti

• Risanamento e adeguamento strutturale banchine di levante e relative vie di corsa gru

• Adeguamento attuale imboccatura portuale e bacino di espansione

• Pontile esterno per attracco rinfuse liquide

80,050 115,000 7,750 19,100 50,000

20,100 Reggio Calabria • Rifacimento impianto di illuminazione

portuale • Rifacimento pavimentazione piazzale e

banchina di levante

1,030 0,930

Villa San Giovanni

Consolidamento banchina di riva 2,070

Palmi - Taureana (porto rifugio)

Completamento struttura portuale località Taureana

9,810

Scilla (porto rifugio)

Prolungamento del secondo braccio del molo foraneo e ristrutturazione opere portuali

10,330

Saline Ristrutturazione servizi e scavi e pennello 2,025 San Lorenzo pontile 0,260 Roccella jonica Accesso da mare e da terra nel porto 1,030 Vibo Valentia Marina

• Consolidamento banchina fiume e pavimentazione piazzale

• Rifacimento impianto di illuminazione portuale

• Consolidamento banchina e completamento in conformità del vigente P.R.P.

• Escavazione fondali bacino portuale

0,520 0,620 15,490 1,550

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Catanzaro Lido Località Casciolino (porto rifugio)

Ripristino opere foranee esistenti e completamento delle strutture portuali

9,810

Crotone porto nuovo

Costruzione banchine, darsene e relativi piazzali nonché escavazione dei fondali in attuazione del vigente P.R.P.

38,730

Crotone porto vecchio

Prolungamento molo foraneo bacino sud 3,100

Pizzo Calabro Nuovo porto turistico 15,000 Lamezia Terme Nuovo porto turistico 7,000 Amantea Adeguamento porto turistico 6,000 Cariati Completamento porto turistico 3,710 Bagnara Adeguamento porto turistico 5,000 Paola Adeguamento porto turistico 5,000 Trebisacce Nuovo porto turistico 10,000 Diamante Nuovo porto turistico 4,000 Sibari Adeguamento porto turistico 3,794 Corigliano Adeguamento servizi 1,170 Cetraro Adeguamento porto turistico 4,000 Rossano Nuovo porto turistico 10,000 Nicotera Nuovo porto turistico 6,000 Satriano Nuovo porto turistico 5,000 Bova Marina Adeguamento porto turistico 5,000 Catanzaro lido Infrastrutturazione porto turistico 3,000 Reggio Calabria Infrastrutturazione porto turistico 3,000 Bonifati Realizzazione approdo turistico 8,563 Cirò Marina Rafforzamento diga frangiflutti 2,000 Ricadi Infrastrutturazione approdo turistico 5,000 Scalea Infrastrutturazione porto turistico 15,963

Totale costi interventi del sistema portuale commerciale e turistico: 517,505 6.1.6 Il caso Liguria Il quadro generale

Lungo le 160 miglia circa di sviluppo costiero della regione sono oggi

disponibili circa 16.000 posti barca, distribuiti in circa quaranta strutture portuali di diverso tipo.

Circa 6.500 posti sono situati in porti turistici veri e propri, dotati di tutti i servizi necessari; 4.500 sono stati ricavati in porti minori adattati per la nautica in modo spesso approssimativo; oltre 3.000 sono collocati in zone

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dismesse o inutilizzate dei maggiori porti commerciali; 1.500 sono costituiti da ormeggi situati lungo l’asta terminale del Magra e infine poco più di 500 si trovano in approdi minori di interesse puramente locale.

Una dotazione di questo tipo per un litorale con uno sviluppo di 160 miglia, porta la “densità nautica” della Liguria a un livello inusuale in Italia, con un centinaio di posti barca per miglio di costa.

Nonostante questo i porti liguri sono in uno stato di pratica saturazione a causa del peso economico e demografico del retroterra che gravita su di essi. Si è calcolato che sui porti della regione si accumuli la domanda proveniente da oltre 20 milioni di abitanti, in una delle zone a più alto reddito in Europa.

In questa situazione, la domanda di posti barca è sistematicamente risultata in eccesso rispetto alla disponibilità, con la conseguenza di portare i prezzi degli ormeggi a livelli elevatissimi.

Il tema della portualità turistica è stato affrontato dalla Regione Liguria nell’ambito del “Piano di Coordinamento della Costa”, con l’obiettivo di arrivare a un sostanziale incremento della capacità ricettiva, da ottenere evitando effetti negativi sull’ambiente costiero.

La giustificazione del proposto aumento è stata indicata nei rilevanti effetti economici che derivano dalla presenza stabile di una flotta da diporto, ormai confermati da tutti gli studi effettuati in materia; il modo per evitare effetti ambientali negativi è stato individuato nella concentrazione degli interventi previsti in zone urbanizzate, in particolare utilizzando al massimo gli spazi ricavabili all’interno dei porti commerciali.

In altre parole il Piano mirava a un potenziamento sostanziale, ma nell’ambito di un sistema di vincoli tutto sommato abbastanza severi, evitando la compromissione di ulteriori tratti di costa.

L’esperienza maturata fino ad oggi ha evidenziato la difficoltà di raggiungere gli obiettivi del Piano, sia per quanto riguarda il potenziamento della capacità, sia per i vincoli ambientali da rispettare.

La difficoltà di adeguamento dell’offerta si è manifestata più nettamente lungo la Riviera di Levante, mentre a ponente i progetti di potenziamento non sempre hanno rispettato le prescrizioni iniziali del Piano, che escludevano ogni edificazione di tipo residenziale nell’ambito dei porti.

6.8.1.1 Le situazioni locali Data la varietà delle situazioni che si incontrano lungo la costa ligure,

conviene esaminare separatamente i suoi tratti significativi, procedendo da levante a ponente.

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Bocca di Magra

Il proliferare degli ormeggi più o meno abusivi lungo l’asta terminale del Magra contrasta con gli indirizzi di salvaguardia enunciati con la costituzione del parco fluviale; fino ad oggi non si è assistito ad alcun tentativo di ridurre il numero delle imbarcazioni ospitate lungo il corso del fiume, anche perché manca ogni alternativa per il loro trasferimento ad altra sede.

Nell’ambito urbano della Spezia manca la possibilità di una ricollocazione, in quanto la darsena turistica prevista a fianco dell’arsenale non risulterebbe sufficiente per capacità e verosimilmente presenterebbe prezzi ben più elevati di quelli praticati a Bocca di Magra.

Prescindendo dai confini amministrativi della Regione, un’alternativa possibile sarebbe rappresentata da Viareggio, appena 20 miglia più a sud e dove il piano regionale toscano prevede un potenziamento fino a 2.000 posti barca. Tuttavia un tale potenziamento di Viareggio rimane poco credibile, tanto che con l’ultimo piano regolatore del porto ci si è dovuti fermare poco oltre i mille posti barca: in definitiva il problema del Magra appare di difficile soluzione, facendo prevedere il persistere della situazione in atto.

Golfo della Spezia

In tempi recenti, nella zona di levante del Golfo Porto Lotti ha messo a disposizione oltre 500 posti barca di buon livello; sul lato opposto i Cantieri del Fezzano si sono attrezzati con un complesso di pontili galleggianti per 200 posti, mentre in centro città, la locale Assonautica ha sistemato altri pontili per circa 300 posti, che risultano però totalmente privi di servizi a terra.

Questi interventi non hanno creato particolari problemi; la cosa potrebbe essere diversa volendo ottenere un ulteriore aumento di capacità: si parla di attrezzare la rada delle Grazie, o di completare le opere del porto di Lerici, ma in ambedue i casi le implicazioni paesistiche meriterebbero un maggiore approfondimento.

Dalle Cinque Terre a Punta Manara

Fino ad oggi c’è stato un gran discutere sulla necessità di un punto di rifugio a metà tra il Golfo della Spezia e il Tigullio: dato il livello dei naviganti nostrani, 25 miglia senza porti intermedi sono ritenute un pericolo.

Si è proposto un porticciolo a Levanto che non avrebbe senso (costi sproporzionati causa alto fondale): nel frattempo in loco con la scusa di dare un ricovero ai barchini dei villeggianti è nata una specie di baraccopoli nautica veramente brutta.

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Più a ponente si è proposto un porticciolo a Moneglia: qui il progetto è stato contestato per ragioni ambientali ma comunque anche in questo caso i costi eccessivi sembrano sufficienti a liquidare l’iniziativa. Golfo Tigullio

Da Sestri Levante a Portofino ci sono più di 3.000 barche e ci sarebbe la domanda per almeno altrettante. Tuttavia la zona non si presta per grandi aumenti di capacità.

Per Sestri il Piano della Costa aveva rinunciato a ogni intervento ritenendo giustamente che piazzare un porto completo a ridosso del promontorio avrebbe avuto effetti paesistici inaccettabili. Successivamente il comune ha sposato la tesi del nuovo porto, organizzando un concorso per la progettazione dell’opera; ora si deve presumere che si passi alla realizzazione di un bacino da circa 400 barche, destinato a sostituire gli attuali ormeggi su gavitello, che a prescindere da ogni considerazione ambientale non è valido neppure dal punto di vista strettamente tecnico.

Prescindendo poi dai possibili nuovi interventi, nel Golfo Tigullio rimane il problema del porto di Lavagna. Il più grande porto turistico della regione è stato progettato male, realizzato peggio e infine gestito in modo pessimo, tanto da portare al fallimento della società realizzatrice e alla conseguente creazione di un caos amministrativo in cui oggi si fa fatica ad orientarsi.

Il porto ligure è stato costruito per contenere 1.500 barche. Pare che almeno il 70 per cento degli assegnatari dei posti barca provenga dalla Lombardia. Attualmente la gestione dello scalo è nelle mani della società “Porto di Lavagna s.p.a.”, che ha ottenuto il subingresso dal ministero dei Trasporti nella concessione demaniale, dopo il fallimento della Cala dei Genovesi, titolare di quella concessione e dopo la gestione affidata alla “Lavagna Sviluppo s.r.l.” della Duferco-Garaventa. La situazione attuale appare caotica e incerta, gli utenti del porto non si sentono minimamente tutelati e temono speculazioni tese a far prevalere interessi privati legati alla gestione del porto stesso. La stragrande maggioranza degli assegnatari dei posti-barca ritiene indispensabile un intervento del comune di Lavagna, affinché crei una società ad hoc per la gestione diretta del porto. Il sindaco di Lavagna, la forzista Gabriella Mondello, starebbe valutando la possibilità di intervenire direttamente nella questione, che peraltro sta scatenando un contenzioso infinito tra “Cala dei Genovesi” e “Porto di Lavagna”. Le due società, a colpi di carta bollata, rivendicano entrambe la titolarità a gestire il porto. La “Cala dei Genovesi” ha anche presentato un ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Lazio e il braccio di ferro può dirsi tutt’altro che risolto. A farne le spese rischiano di essere però gli utenti del porto. Ecco perché questi ultimi auspicano che il comune crei una società a maggioranza pubblica, sul modello di “Marina Chiavari”, la società che gestisce l’approdo

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della città confinante. Nel frattempo si fa strada un’ipotesi alternativa: una gestione del porto di Lavagna da parte dell’amministrazione comunale di Chiavari, che avrebbe già manifestato un interesse di questo tipo. Insomma tutto tranne che un investimento sicuro. Riviera di Ponente fino a Savona

Qui sembra tutto abbastanza definito. Arenzano dopo un referendum popolare ha rifiutato l’ingrandimento del porto, che dovrebbe vedere solo una sistemazione del bacino attuale.

Cogoleto da tempo immemorabile insiste per un porto alla foce del Lerone, nella zona della Stoppani, ma sembra che le obiezioni di ordine idraulico siano state recepite in Regione, tanto da far superare la proposta.

Per quanto riguarda Savona città, si sono sentite le proposte più strane, in connessione con il progetto di Bofil che prevede una totale trasformazione della zona tra il porto e la fortezza del Priamar. E’ prevedibile che nel lungo termine buona parte del porto commerciale sia convertita ad uso nautico, a somiglianza di quanto è stato fatto nel porto storico a Genova.

Tutto dipenderà dall’evoluzione del traffico commerciale e in ogni caso si tratta di interventi di recupero di aree dimesse che ben si inserirebbero in un ridisegno del waterfront cittadino. Qui le barche anziché un problema ambientale potrebbero rappresentare un buon elemento di arredo urbano. Da Savona ad Albenga

Dopo Savona, la rada di Vado Ligure è destinata soltanto ai traffici commerciali; per la nautica sono presenti solo alcune strutture minime, di scarso interesse su scala regionale e per le quali non sono previsti ampliamenti.

Più avanti, la quasi totalità dei vecchi porti di IV classe è destinata a essere trasformata in varia misura.

A parte questo, al confine tra i comuni di Spotorno e Noli non è stata autorizzata la costruzione di un nuovo porto, di capacità attorno ai 600 posti barca, perché insisterebbe in un Sito di importanza comunitaria, né la qualità dei due progetti concorrenti sembra particolarmente soddisfacente.

A Loano sono incompiuti da anni, per ragioni di ordine interno alla società interessata, i lavori che dovrebbero trasformare il vecchio porto in un marina da quasi 1.000 posti barca. Le opere di difesa sono quasi complete, ma l’intera zona ha l’aspetto di un cantiere abbandonato: si tratta di un’opera che ha danneggiato irrimediabilmente un tratto di litorale e della quale ancora non se ne vede la conclusione.

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Da Alassio a Sanremo

Dopo Alassio, si entra nell’estremo ponente ligure, dove il numero delle iniziative per la realizzazione di nuovi posti barca risulta maggiore che nel rimanente della regione.

Il porto di Andora è già stato trasformato da tempo in un vero porto turistico di buona qualità a cura del locale comune. Fino ad oggi la trasformazione ha mantenuto un carattere accettabile, evitando l’inserimento di volumi a filo di costa, ma al momento si ipotizza un’ulteriore espansione, che questa volta include una significativa componente immobiliare da seguire con attenzione, dato che il porto si colloca a ridosso della zona verde di Capo Berta.

Quindi Diano Marina è oggi datata di un porticciolo di ridotta dimensione, destinato a un sistematico insabbiamento ma di limitato impatto visivo. Una sostanziale espansione cambierebbe decisamente lo stato delle cose anche dal punto di vista dell’equilibrio costiero e si può temere che si tratti di un’iniziativa destinata ad avere un seguito.

Si arriva poi ad Imperia, dove è in fase di progettazione un grande intervento che dovrebbe trasformare Porto Maurizio in uno dei maggiori porti turistici della Liguria, con oltre mille posti. Qui il tratto di costa interessato è oggi rovinato dai resti di vecchi lavori di riempimento, effettuati quando si pensava che Imperia dovesse avere un grande porto commerciale, esteso da Porto Maurizio a Oneglia; tuttavia l’area retrostante rappresenta un polmone non edificato tra i due centri, che secondo il progetto dovrebbe essere completato da un’estesa spiaggia artificiale.

In rischio più evidente è che la con testualità dei due interventi (porto turistico e parco urbano) venga persa per strada e che tutto si riduca alla realizzazione delle sole opere remunerative.

A San Lorenzo al Mare si è proposto di sostituire l’attuale piccolo approdo con una struttura di maggiore dimensione, nell’ordine dei 250 posti barca. Naturalmente i conti non quadrano: ma a questo si è rimediato con un’adeguata dotazione di “cabine marittime” (leggi: residenze) progettate in modo molto discutibile.

Più avanti Marina degli Aregai dovrebbe mantenere la sua configurazione attuale, da considerare definitiva; la stessa cosa dovrebbe accadere per la piccola darsena collocata alla foce dell’Argentina, ad Arma di Taggia.

A Sanremo si è proposto di riordinare il porto pubblico o ipotesi decisamente negativa di riempire di barche anche lo specchio acqueo tra Porto Sole e appunto il porto pubblico.

Una zona da tenere sotto controllo è quella di Ospedaletti, dove qualcuno vorrebbe realizzare un grande porto davanti alle vecchie discariche autostradali, che nel frattempo sono diventate una zona verde meritevole certo di un riordino, ma non di un’urbanizzazione spinta.

A Bordighera invece sono rientrati i rischi di un intervento macroscopico e si ipotizza oggi solo un limitato allungamento della diga di

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sopraflutto, secondo il modello di Arenano o di Alassio. La zona di intervento include però alcuni scogli cari alla soprintendenza, che verrebbero “salvaguardati” facendoci girare attorno una “passerella” che in realtà è una banchina carrabile di sette o otto metri di larghezza…

Infine si arriva a Ventimiglia, dove oggi nella zona a ridosso di Punta della Rocca è in abbandono un molo incompiuto, residuo di un progetto di oltre vent’anni fa.

Su Ventimiglia le discussioni continuano ancora oggi. Il Piano della Costa prevedeva la possibilità di un porto di limitata dimensione, per circa 400 barche, che avrebbe dovuto proporsi come porto di altissima qualità, con un ruolo simile a quello di Porto Carlo Riva a Rapallo: attualmente si propone invece una cosa nettamente più estesa, che sembra però non aver superato le obiezioni avanzate dalla Regione Liguria, almeno a livello tecnico.

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7. L’erosione della costa

Le nostre ampie spiagge sono il risultato di una politica di rapina del territorio, essendo il prodotto di frane ed erosioni accelerate, innescate da una progressiva riduzione della copertura boschiva. A questo riguardo è necessario sottolineare che vi è una evidente conflittualità fra la “difesa del suolo” e la “difesa delle coste”; ogni intervento teso a ridurre il rischio di alluvioni o di frane avrà una immediata ricaduta negativa sull’equilibrio delle spiagge; si dovrà trovare il modo di compensare i litorali per quanto perderanno, in termini di sedimenti, per gli interventi necessari alla messa in sicurezza dei bacini idrografici

Con l’abbandono delle campagne, iniziato già nel XIX secolo, e la ricrescita del bosco, congiuntamente agli interventi di bonifica, di stabilizzazione dei versanti ed estrazione di inerti dagli alvei fluviali, i delta fluviali hanno iniziato a ritirarsi. I tempi di questo processo sono leggermente sfasati, in funzione del ritardo con il quale in alcune regioni si affermano queste tendenza economiche e demografiche.

L’erosione partì dalle foci fluviali, che avevano acquisito una forma prominente in mare, e si propagò poi progressivamente alle spiagge più distanti, che inizialmente ricevevano ancora i materiali erosi nei settori costieri posti sopraflutto.

Nello stesso periodo, anche a seguito della sconfitta della malaria, era iniziato il flusso migratorio dall’interno verso la costa, dove si vennero a concentrare insediamenti urbani ed industriale e vie di comunicazione. Molti insediamenti costieri furono costruiti in prossimità del mare quando già l’erosione stava producendo i suoi effetti.

Il fenomeno divenne così preoccupante che fu promulgata una legge specifica, quella del 4 luglio 1907 “Legge per la difesa degli abitati dall’erosione marina”, che prevedeva l’intervento automatico dello Stato laddove gli insediamenti abitativi erano minacciati dall’erosione. Nella legge erano contemplate tre possibilità: la costruzione di pennelli, di scogliere parallele a riva o di ogni altro lavoro idoneo a fermare l’erosione.

In quegli anni la difesa dei litorali era di fatto la protezione delle strutture abitative e delle vie di comunicazione, dato che non si era ancora affermato il turismo balneare e, tanto meno, una coscienza ambientalista.

Delle tre possibilità, di fatto furono attuate solo le prime due, ossia la costruzione di scogliere parallele ed ortogonali a riva, rinunciando alla possibilità di percorrere strade diverse ed innovative.

Ciò fu determinato da vari fattori, il primo dei quali risiede nel fatto che il personale tecnico chiamato ad intervenire era costituito da ingegneri formatisi nella costruzione dei porti, e per loro le scogliere costituivano la soluzione più ovvia per proteggere la costa dall’attacco delle onde.

I litorali furono così “stabilizzati” con scogliere aderenti e protetti dalle onde con scogliere parallele poste al largo. Furono costruiti anche molti

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pennelli, bloccando il flusso dei sedimenti lungo riva ed aggravando l’erosione nei tratti di litorale non protetti.

Questo approccio fu favorito dalla grande disponibilità di scogli che vi è lungo le nostre coste o, comunque, in cave assai prossime alla riva.

In altri paesi, ed in particolare del Nord Europa, la risposta fu completamente diversa. In queste zone da secoli venivano effettuati dragaggi di estuari e di imboccature lagunari, dove erano posizionati i porti principali. Le conoscenze tecniche acquisite e la disponibilità di draghe idonee furono messe a disposizione per la soluzione del problema dell’erosione costiera e si poté dragare la sabbia dove si trovava in eccesso e refluirla o trasportala dove mancava.

In Italia, la mancanza di porti in estuari ed in lagune, con l’eccezione di Venezia, non aveva favorito né lo sviluppo di simili tecnologie né l’affermarsi di una mentalità idonea ad utilizzarle.

Una scarsa attenzione ai problemi ambientali e una limitata conoscenza dei processi costieri portò anche alla costruzione, in quegli anni, di porti lungo le coste basse, che intercettano ora il flusso dei sedimenti lungo riva e causano, o incentivano, l’erosione delle spiagge poste sottoflutto.

Molte spiagge italiane sono oggi protette da scogliere aderenti o parallele e da pennelli che stravolgono il paesaggio costiero, creano erosione sottoflutto, impediscono una ottimale utilizzazione dell’arenile ed hanno elevati costi di manutenzione.

Un quadro delle attuali tendenze evolutive dei litorali italiani è difficile da realizzare poiché i vari tratti costieri sono stati analizzati con diversi criteri ed a scale diverse. L'Atlante delle Spiagge Italiane, compilato da ricercatori afferenti a diverse sedi universitarie e con il finanziamento del CNR, dà un quadro omogeneo in scala 1.100.000 di tutti i litorali italiani, ma i vari fogli sono stati compilati in un intervallo temporale che va dal 1981 al 1995. Nel 1998, nell'ambito delle ricerche condotte dal Gruppo Nazionale Difesa Catastrofi Idrogeologiche del CNR è stata prodotta una carta del rischio costiero in scala 1:750.000 partendo proprio dalle conoscenza che si erano acquisite con la compilazione dell'Atlante delle Spiagge, ed aggiornando e rileggendo i dati alla luce delle conoscenze più recenti. I vari tratti costieri sono stati attribuiti alle classi di rischio Molto alta, Alta, Bassa e Nulla sulla base delle tendenze evolutive degli ultimi decenni, della morfologia dell’entroterra e della presenza ed efficacia delle opere di difesa.

Le difficoltà di giungere ad un quadro omogeneo dipendono anche dai problemi di definizione: quale è l'accuratezza dei rilievi su cui si basano i confronti fra linee di riva relative ad anni diversi? Quale è il limite dello spostamento che fa passare una spiaggia "stabile" nelle classi "in erosione" o "in avanzamento". L'errore medio delle misure può essere tranquillamente di 5 metri, cosa che comporta un possibile errore di 10 metri nel confronto fra rilievi effettuati in momenti diversi. Infine, vi sono tratti di litorale in cui la costa arretra di 20 metri all'anno ed altri in cui gli spostamenti sono di poche

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decine di centimetri all'anno: è ovvio che non possono essere considerati nello stesso modo.

Un altro aspetto è legato alla presenza di opere di difesa: dove queste hanno funzionato, i rispettivi tratti di costa vengono considerati stabili o in accrescimento. Non solo, ma la difesa di un punto può determinare l'avanzamento della costa per diverse centinaia di metri o per chilometri sopraflutto che, sebbene tendenzialmente in erosione, vengono inseriti nella categoria "in avanzamento".

Con queste premesse i quadri regionali, ed ancor più quelli nazionali, devono essere letti con grande cautela e solo una approfondita ed aggiornata conoscenza dei processi in atto e delle realtà territoriali coinvolte può fornire indicazioni attendibili sullo stato dei nostri litorali. Dati pubblicati sullo stato dei litorali italiani

Regione Lunghezza spiagge

Atlante delle Spiagge (%)

Mare Monstrum

A S E Lungh. % eros. Liguria 182 3 79 18 355 15 Toscana 215 10 55 35 470 17 Lazio 260 8 71 21 290 18 Campania 202 9 64 27 350 58 Calabria 589 2 64 34 690 67 Sicilia 661 5 79 16 996 12 Sardegna 482 7 70 23 1900 1,5 Basilicata 44 2 25 73 53 57 Puglia 308 5 47 48 Abruzzo 112 2 69 29 125 25 Molise 34 3 68 29 Marche 149 3 64 33 145 16 Emilia Romagna 134 7 83 10 130 13 Veneto 132 14 77 9 160 7,5 Friuli 81 4 94 2 100 4,2 Italia 3612 3 70 27

Atlante delle spiagge Italiane: A = Avanzamento, S = Stabile, E = Erosione. Mare Monstrum: Lunghezza dei tratti considerati e % dei tratti in erosione.

Il quadro che emerge è comunque preoccupante, anche perché molti tratti di litorale sono in erosione nonostante siano stati pesantemente difesi con scogliere di ogni tipo, che hanno determinato una degrado paesaggistico ed una riduzione del valore economico della spiaggia.

Negli ultimi anni anche in Italia si è cominciato ad utilizzare protezioni morbide nella difesa dei litorali: scogliere sommerse e ripascimento artificiale delle spiagge, spesso senza alcuna protezione.

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Il ripascimento artificiale, con sedimenti provenienti da dragaggi marini o da cave a terra costituisce oggi la tecnica privilegiata nella difesa dei litorali ed è in linea con le raccomandazioni espresse all’UN Intergovernment Panel on Climate Change 2001.

Le continue richieste di materiali da utilizzare nei ripascimenti spingono la ricerca di sedimenti in mare verso fondali sempre maggiori ed anche su depositi lontani. Draghe con capacità di carico crescenti consentono un notevole abbattimento dei costi unitari della sabbia, ma solo su interventi di grandi dimensioni, e si rende quindi necessario un coordinamento a livello regionale ed interregionale dei progetti.

Negli ultimi anni, alcuni tratti della costa italiana sono stati oggetto di importanti interventi di ripascimento con sabbia prelevata sulla piattaforma continentale, che hanno portato ad una espansione dell’arenile di svariate decine di chilometri, spesso consentendo una drastica riduzione delle difese tradizionali: sui litorali del Veneto, dell’Emilia Romagna e del Lazio sono stati versati più di 20 milioni di metri cubi di sedimenti, e quasi tutti gli interventi di difesa costiera oggi in fase di realizzazione o di progetto si basano su consistenti ripascimenti. Le spiagge che proteggono la Laguna Veneta sono state difese con circa 13 milioni di metri cubi di sedimenti dragati in mare nell’Alto Adriatico, pur con la stabilizzazione con opere rigide. Nel Lazio sono stati fatti interventi di ripascimento su 22 km di spiagge. Anche in Europa la tendenza è verso un aumento dei ripascimenti artificiali ed attualmente si valuta che ogni anno vengono portati sulle spiagge circa 28 milioni di metri cubi di nuovi materiali, per la gran parte dragati in mare. La Spagna, che per la difesa delle coste che si affacciano sul mediterraneo si era inizialmente affidata a difese strutturali, negli ultimi 5 anni ha sviluppato ben 400 interventi di ripascimento, per un volume totale di sabbia di ben 110 milioni di metri cubi.

Ma se è oggi possibile progettare opere di difesa costiera più morbide, con minore impatto sulle spiagge poste sottoflutto e in grado di preservare i valori paesaggistici originari, si pone sempre il problema della sostituzione delle vecchie scogliere.

Queste hanno modificato talmente la linea di riva ed i fondali antistanti che non è possibile più una loro semplice sostituzione con le nuove opere. E’ necessario studiare nuove soluzioni per gestire questa fase di transizione e di riconversione delle vecchie hard structures nelle nuove soft protections. E in questo pochissime sono le esperienze a livello internazionale a cui ispirarsi, anche perché le vecchie soluzioni all’italiana non sono state esportate in molti paesi.

Alcune esperienze fatte recentemente, accompagnate da prove su modelli fisici, dimostrano che in molti casi è possibile un ritorno alla spiaggia, ossia una graduale riduzione delle scogliere senza pregiudicare la stabilità della costa e delle infrastrutture in essa presenti. A sud di Marina di Pisa recentemente è stata costruita una spiaggia in ghiaia davanti ad una scogliera aderente, con lo scopo di ridurre la riflessione delle onde e favorire l'avvicinamento della sabbia verso costa, mentre davanti all'abitato è iniziato

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l'abbassamento delle scogliere parallele e la costruzione di spiagge, sempre con materiali grossolani, che vanno a sostituire le scogliere aderenti che proteggono la strada e le case. Qui ogni chilometro di litorale è difeso da 2,3 chilometri di scogliere, che hanno trasformato un litorale basso e sabbioso in una costa rocciosa in cui anche il solo accesso al mare è estremamente pericoloso. Il nuovo intervento darà a questo centro abitato una spiaggia, seppure in ghiaia, ampia più di 20 metri e l'abbassamento delle scogliere parallele consentirà un maggior ricambio idrico. Se il sistema evolverà verso condizioni più naturali, sarà possibile in futuro abbassare ulteriormente le scogliere o ridurre le dimensioni dei sedimenti che formano la spiaggia.

E’ comunque un percorso che impone fasi di sperimentazione e che necessita di nuove normative, di ampio consenso nelle popolazioni residenti e di tempi molto lunghi.

L’aspetto più problematico è proprio quest’ultimo: il ritorno della spiaggia a condizioni morfologiche più naturali, se raggiungibile, richiede un graduale adattamento delle strutture alla nuove condizioni che si vanno via via a determinare. E’ però vero che già i primi cambiamenti hanno una notevole visibilità, tale spesso da fare cambiare completamente faccia alle località interessate. Si possono verificare alcune resistenze locali, poiché le scogliere, anche se estremamente impattanti, sono a volte viste come una componente ormai “naturale” del paesaggio.

Il consenso, e quindi la partecipazione delle popolazioni, può essere ottenuto con una forte campagna di sensibilizzazione e con la presentazione di quei pochi casi in cui questo processo è già stato avviato.

Questo recupero del fronte mare, in litorali pesantemente occupati da strutture di difesa, offre nuove possibilità di ripensamento dell’interfaccia terra-mare e di valorizzazione di tutta la fascia costiera. Oggi, in molti casi, la transizione fra la terra e il mare avviene in una strettissima fascia occupata dalle scogliere; la nuova configurazione consentirà un passaggio graduale, con una maggiore vivibilità di queste aree.

La creazione di una nuova spiaggia, al posto degli attuali accumuli di scogli, dovrà quindi essere accompagnata da un ampio progetto urbanistico di riqualificazione di una vasta parte del territorio costiero. Solo in questo caso il passaggio dalle difese rigide alle protezioni morbide sarà occasione di riqualificazione ambientale.

Anche laddove le difese costruite nei decenni passati hanno determinato la permanenza della spiaggia si cerca di ridurre la presenza delle scogliere emerse, come si sta attualmente studiando a Marina di Massa (Toscana), dove sono stati costruiti quattro setti sommersi sperimentali, ortogonali a riva, in un tratto posto sottoflutto alle difese rigide e soggetto ad un'erosione di 4 metri all'anno; i primi dati indicano che il processo erosivo è stato fermato senza produrre alcun impatto negativo sul litorale. Ciò rende ottimisti sulla realizzazione di un progetto che comporta la parziale demolizione delle scogliere poste più a nord, dove su ogni chilometro di costa vi sono ben 1,7 chilometri di scogliera.

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In un breve tratto del litorale di Ostia, a Procida, a Marina di Ravenna e ad Alassio si sta cercando di bloccare l'erosione con tubi drenanti, che abbassano il livello di saturazione in prossimità della linea di riva, favorendo così l'infiltrazione dell'acqua dell'onda che risale la battigia, in modo da ridurre la quantità di acqua che torna verso il mare e che contribuisce all'erosione della spiaggia.

L'interesse per l'ambiente costiero ed il valore economico della spiaggia spingono verso la ricerca di sempre nuove soluzione per la difesa morbida dei litorali, ma contemporaneamente emerge la consapevolezza che non tutte le spiagge sono difendibili, anche perché in molti casi è proprio la loro erosione che garantisce l'afflusso di sabbia a settori limitrofi. Il fatto che circa l'80% delle spiagge mondiali è in erosione dimostra che questo processo dipende anche da fattori globali, e principalmente dall'innalzamento del livello marino, ai quali non è semplice e rapido trovare rimedio. Il convivere con l'erosione è la nuova sfida che ci aspetta e se saremo costretti a difendere in ogni modo litorali intensamente urbanizzati, parallelamente dovremo consentire all'erosione di procedere negli ambienti più naturali, considerando che in molti casi la delocalizzazione di piccole strutture ha dei costi economici, e certamente ambientali, assai minori di quelli della difesa ad oltranza. In questo quadro è poi evidente che non è pensabile proseguire nell'edificazione delle fasce costiere, ben sapendo che sarà fra breve necessario intervenire per difendere gli stessi insediamenti. 7.1 Un caso esemplare: la Campania

In teoria ogni anno dovremmo trovare la stessa spiaggia e lo stesso

mare. In realtà non è così: spiagge risucchiate dal mare, costruzioni di cemento armato piegate dalle onde, alberghi come palafitte. E un nemico non da poco: l’erosione che rosicchia un metro di spiaggia ogni anno. Su 500 km di costa campana ben 135 risultano soggetti a fenomeni irreversibili di erosione costiera. Il 58% delle spiagge è in pericolo; la Campania è seconda alla Calabria, prima con il 67%.

La scomparsa della spiaggia danneggia l’ambiente ma mette a rischio anche l’economia turistica della Campania. Basti pensare che secondo una ricerca del 2002 del Ministero delle Infrastrutture, la scomparsa di una fascia balneare sabbiosa di appena 11 ettari può comportare una perdita di 125mila euro al giorno durante la stagione estiva. Dalla fine degli anni ’50 ad oggi, la fascia costiera campana è stata utilizzata come un bene inesauribile su cui gravare con un numero illimitato di opere, senza curarsi delle conseguenze. Spesso i successivi interventi, con la costruzione delle più svariate opere di difesa, sono stati spesso del tipo “tampone” sotto la spinta dell’urgenza: le opere realizzate in tempi diversi, in aree limitate, hanno rimandato la soluzione del problema senza risolverlo, le strutture portuali a difesa della costa (Pinetamare, Casalvelino, Policastro, Ischia, foce del Volturno, Monte di Procida) e gli interventi realizzati lungo le aste fluviali (Traversa di Ponte

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Annibale sul Volturno, Traversa di Persano sul Sele, diga del fiume Alento) hanno contribuito negli ultimi anni a modificare gli equilibri naturali creando locali vantaggi e diffusi scompensi ai litorali.

Il viaggio di Legambiente nell’erosione costiera in Campania ha evidenziato diversi punti critici: - il litorale a sud della foce del Garigliano con sintomi di erosione per circa

un km; - il litorale tra Mondragone e Pescopagano e la foce del Volturno; - il litorale 2 km nord della foce del Fusaro: - il litorale a Sud di Pinetamare in località Ischitella di Castelvolturno.

Uno studio della Fiba, Federazione Italiana Stabilimenti Balneari, ha evidenziato negli ultimi sei anni, dal 1995 al 2001, un’erosione media degli arenili di 15 metri lineari per una superficie complessiva di 23.076 mq. Un fenomeno erosivo così rapido, negli ultimi anni, che sommato agli effetti disastrosi già registratisi lungo il litorale con riduzioni dell’arenile disponibile per l’utenza balneare (da un minimo di 10 metri ad massimo di 80 metri per complessivi 118.730 mq. di arenile) ha comportato già la scomparsa di alcuni stabilimenti e la riduzione, per tutti gli altri, dei servizi di accoglienza offerti all’utenza. Ma la denuncia della Fiba è ancora più circoscritta. Ogni due anni scompaiono oltre dieci metri di costa del litorale domizio; ossia una fila di ombrelloni in meno. Questo si traduce in una riduzione di 3 addetti per ogni stabilimento balneare. In base ai dati dell'Università degli Studi di Napoli e dell'Autorità di Bacino del Liri-Garigliano e Volturno risulta che ogni anno dalle spiagge alla foce del fiume Volturno spariscono circa 200.000 mc di materiale. Negli ultimi 30 anni questa zona ha perso 6 milioni di mc di spiaggia, con arretramenti di varie centinaia di metri ed una sostanziale modifica morfologica della linea di costa. La situazione si fa ancora più critica nelle isole. A Procida la conseguenza più evidente è stato lo smantellamento e la continua demolizione della scarpata costituita da depositi vulcanici degradabili. Pertanto l’isola è afflitta da continui crolli di roccia che mettono in pericolo sia la vita dei bagnanti che i manufatti attigui. La spiaggia di Chiaiolella, viene rosicchiata dall’erosione anno dopo anno, fino a gennaio di quest’anno, che dopo una violenta mareggiata è praticamente scomparsa. Un dato numerico fotografa la gravità della situazione: agli inizi degli anni’60 il fronte mare della spiaggia presentava una profondità di circa 35 metri, oggi il fondale è di appena 10 metri. Emblematica può essere considerata anche l’attuale situazione dell’Isola d’Ischia. Il fenomeno d’arretramento coinvolge tutto il litorale: a seguito della scomparsa di intere spiagge è aumentato il rischio legato alle frane di crollo nei versanti a falesia, che ora risultano essere assolutamente indifesi dall’azione erosiva del moto ondoso. Ad Ischia particolarmente a rischio è la località Punta Molino, ad est di Ischia Porto, dove una marcata erosione ha provocato l’asportazione della sabbia e l’affioramento di massi che hanno reso difficile la fruizione della spiaggia e l’ormai famoso caso della spiaggia dei Maronti (una lingua di sabbia lunga 2 km) al centro degli studi da circa 25 anni e dove il lido in questione è per metà scomparso. Il

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danno economico derivante dalla diminuzione della superficie delle spiagge va dai 3 € a mq per semplici concessioni demaniali a danni economici indiretti dovuti al degrado del paesaggio nelle località più rinomate come quelle di Ischia, dove il valore della perdita economica può raggiungere i 1.000 € a mq. Ci spostiamo nel salernitano. A rischio il litorale sabbioso, che va da Salerno a sud, con maggiori problemi verso Eboli, dove in alcuni punti il mare lambisce la strada provinciale costiera o nel Cilento, dove i ritmi di erosione, superano sicuramente di gran lunga i valori di un metro all'anno. Nel tratto salernitano compreso tra piazza della Concordia fino alla foce del fiume Fuorni, negli ultimi 25 anni, si è assistito ad un arretramento generalizzato con punte massime di 15 metri. Qui sotto accusa il consistente prelievo di "inerti". Nella zona di Mercatello, per la realizzazione di una scogliera prospiciente l’omonimo lido nel ’90, si è determinato un tombolo sabbioso che ha accentuato l’erosione nelle zone adiacenti. Andando verso la litoranea, un altro caso emblematico lo troviamo ai confini del comune di Pontecagnano, dove il mare lambisce addirittura la strada provinciale che va verso Paestum. Meno grave il problema nella costiera amalfitana, dove nelle insenatura in cui sono presenti le spiagge, il fenomeno esiste anche se in misura minore sebbene i torrenti a monte non riforniscono più come un tempo le spiagge stesse. Significativi arretramenti si registrano nel tratto da capo San Marco al promontorio del castello di Agropoli, dove in quest'ultimo tratto vi è pericolo di crolli di prismi rocciosi. Le zone più colpite sono la Piana del Sele, dove all’altezza di Pontecagnano, Battipaglia si assiste ad un progressivo arretramento quantificabile in 1,5m/anno. Stesso dicasi per le zone di Eboli e Capaccio, mentre a Castellabate la zone interessata riguarda la Punta Pagliarolo. Alla Foce del Fiume Alento nel Comune di Casalvelino, si assiste ad un arretramento della costa anche di 4 metri all’anno, soprattutto in Marina di Casalvelino. Ad Ascea la zona a rischio è alla foce del torrente Fiumarella e le scogliere tra la foce del fiume Alento e Fiumarella. A Pisciotta l’erosione colpisce la Spiaggia di Suerte in località Capo Arena e nelle spiaggie di Ficaiola e Torraca . Il disastro dell’erosione delle coste non è un processo naturale: è un danno provocato dalla cattiva gestione del territorio. Un primo attacco viene da terra con la cementificazione dei fiumi, il prelievo sfrenato ed illegale di sabbia e ghiaia che determina lo sconvolgimento di un percorso dell'acqua naturale e riduce la portata dei detriti alla foce. Dal mare arrivano poi gli altri problemi: con il dilagare di porti e porticcioli, di colate di cemento, di costruzioni protese sull'acqua e villaggi turistici si è modificato anche il gioco delle correnti marini, causando uno scompenso nella naturale distribuzione della sabbia del fondo. Di fronte ad una situazione di queste proporzioni, si avverte l’esigenza di provvedimenti drastici in grado di invertire la tendenza in atto. Servono misure capaci di intervenire sui vari fronti del problema, dal dissesto idrogeologico, all’avanzata del mare, dalle frane al danno paesaggistico. E’ fondamentale intervenire con un imponente piano di difesa del territorio da cui potrebbe derivare anche un consistente rilancio dal punto di vista occupazionale.

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8. Il mare inquinato

La Campania nel 2002 sale in testa anche nella classifica del mare inquinato: con 136 reati alla normativa sugli scarichi, infatti, la regione campana si piazza davanti alla Toscana, seconda con 105 infrazioni. Entrambe le regioni fanno un grande passo in avanti (nel 2001 la Campania era sesta mentre la Toscana si era piazzata settima), mentre la Sicilia scende dal primo posto della scorsa edizione del dossier all’ottavo di questa.

LA CLASSIFICA DEL MARE INQUINATO NEL 2002

Regione Infrazioniaccertate

Persone denunciate o arrestate

Sequestrieffettuati

1 Campania ↑ 136 26 0 2 Toscana ↑ 105 26 0 3 Calabria ↓ 101 34 4 4 Puglia ↑ 71 6 0 5 Liguria ↓ 62 22 1 6 Lazio ↓ 60 35 0 7 Sardegna ↓ 57 46 7 8 Sicilia ↓ 38 15 0 9 Friuli Venezia Giulia ↔ 28 15 0 10 Marche ↑ 18 4 0 11 Emilia Romagna ↓ 6 6 0 12 Veneto ↓ 6 6 0 13 Abruzzo ↓ 5 3 0 14 Basilicata ↑ 4 4 0 15 Molise ↓ 0 0 0 Totale 697 248 12 Fonte: elaborazione Legambiente su dati Comando Carabinieri tutela ambiente, Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a Statuto speciale e Capitanerie di porto. 8.1 La depurazione in Italia 8.1.1 L’inquinamento delle risorse idriche

L'acquisizione di informazioni riguardanti le fonti di inquinamento, il

tipo e l'entità dei pericoli e dei danni in atto, costituiscono il presupposto per la definizione di linee relative alla gestione di un determinato ambiente.

Il “carico organico potenziale” fornisce una stima della quantità di carico prodotto da diverse fonti, in quanto rappresenta la stima dei carichi totali

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da sottoporre a depurazione nell’area d’interesse e può servire a valutare la pressione esercitata sulla qualità della risorsa idrica dai carichi inquinanti che teoricamente giungono a essa.

Inoltre, sono stati presi in considerazione gli indicatori: “depuratori-conformità del sistema di fognatura delle acque reflue urbane” e “depuratori-conformità del sistema di depurazione delle acque reflue urbane”, poiché l’entrata in vigore del D.lgs. 152/99 e sue successive modifiche e integrazioni, impone l’adeguamento tecnologico dei sistemi di fognatura e di depurazione delle acque reflue urbane, al più tardi, entro il 31 dicembre 2005.

In questo contesto è stata avviata un’indagine finalizzata a valutare la conformità ai requisiti previsti dalla normativa dei sistemi di fognatura e di depurazione delle acque reflue urbane attualmente esistenti in Italia.

Inoltre, si è convenuto di denominare l’agglomerato con il nome del Comune di ubicazione dell’impianto, ovvero con il nome del Comune che presenta il maggior numero di abitanti residenti tra i Comuni serviti. L’agglomerato può essere costituito da uno o più Comuni o essere servito da uno o più impianti. 8.1.2 La conformità del sistema di fognatura dei reflui urbani

In tabella si riportano i dati relativi alla conformità del sistema di

fognatura di agglomerati urbani relativamente ai requisiti stabiliti dal D.lgs. 152/99. Lo studio fornisce informazioni sul livello di adeguamento di una rete fognaria a garantire il fabbisogno di collettamento di un agglomerato. La presenza o meno della rete fognaria, e il suo grado di copertura, espresso in percentuale, indicano il grado di conformità del sistema ai requisiti di legge.

Sono stati finora censiti i sistemi fognari a servizio di 730 agglomerati con oltre 15.000 abitanti equivalenti. Dall’esame dei dati resi disponibili, corrispondenti a 699 agglomerati, risulta che 661 (91%) sono provvisti di rete fognaria. Per quanto riguarda il grado di copertura della rete, l’informazione è piuttosto scarsa: il dato infatti non è pervenuto per 241 agglomerati (33%).

Considerando, quindi, i soli agglomerati per i quali è possibile valutare la conformità in modo adeguato, tale informazione è stata acquisita per 420 agglomerati: quelli dotati di sistema fognario conforme, in grado cioè di garantire il fabbisogno di collettamento, sono 275, pari al 38% del totale. Dei restanti 145 (20%), aventi sistemi di fognatura insufficienti al fabbisogno, soltanto per 20 di essi (3% del totale) risulta definita la data entro la quale saranno adeguati, i restanti sono parzialmente conformi.

Con riferimento ai valori assunti dall’indice integrato di conformità per ciascuna regione 1 regioni su 20 presentano valori compresi tra il 60 e l’80%; 6 regioni hanno un indice di conformità uguale o di poco superiore al 50%. Soltanto 3 regioni (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Emilia Romagna) raggiungono il punteggio pieno.

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8.1.3 Obiettivi fissati dalla normativa

Il raggiungimento degli obiettivi principali fissati dal recente D.lgs. 152/99 e smi, che definisce la disciplina generale per la tutela delle acque, dovrà essere conseguito attraverso l’adeguamento dei sistemi di fognatura e depurazione degli scarichi idrici nell’ambito del servizio idrico integrato, come previsto dalla legge 5 gennaio 1994, n. 36 “ Disposizioni in materia di risorse idriche”.

In base a quanto stabilito dall’art.27, comma 1 del D.lgs. 152/99 e smi, gli agglomerati devono essere provvisti di reti fognarie per le acque reflue urbane: - entro il 31 dicembre 2000 per agglomerati con numero di abitanti

equivalenti superiore a 15.000 a.e.; - entro il 31 dicembre 2005 per agglomerati con numero di abitanti

equivalenti compreso tra 2.000 e 15.000. Il comma 2 prevede, inoltre, che devono essere provvisti di reti fognarie

tutti gli agglomerati con oltre 10.000 abitanti equivalenti, le cui acque reflue urbane si immettono in acque recipienti considerate “ aree sensibili”. È ritenuto: ☺☺☺ Conforme: l’agglomerato provvisto di rete fognante e con grado di copertura uguale o superiore al 90%; ☺☺ Conforme alla data ultima del 31/12/2005: l’agglomerato per il quale sono stati programmati interventi di adeguamento realizzabili nei prossimi tre anni;

Conforme con riserva: l’agglomerato provvisto di rete fognaria, ma con grado di copertura non definito;

Parzialmente conforme: l’agglomerato provvisto di rete fognaria, ma con grado di copertura inferiore al 90%;

Non conforme: l’agglomerato sprovvisto di rete fognaria.

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GRADO DI CONFORMITÀ AL DLGS 152/99 DEI SISTEMI DI FOGNATURA DELLE ACQUE REFLUE URBANE A SERVIZIO DI AGGLOMERATI CON OLTRE 15.000 ABITANTI EQUIVALENTI Regione N° agglomerati ☺☺☺ ☺☺ Piemonte 26 20 0 1 5 0 Valle d’Aosta 3 3 0 0 0 0 Lombardia 100 20 0 48 10 0 Trentino Alto Adige 32 32 0 0 0 0 Veneto 50 16 0 3 31 0 Friuli Venezia Giulia 14 3 0 0 11 0 Liguria 21 10 0 5 6 0 Emilia Romagna 50 50 0 0 0 0 Toscana 49 13 14 22 0 0 Umbria 6 0 0 2 4 0 Marche 22 1 0 19 2 0 Lazio 51 20 6 0 22 0 Abruzzo 24 17 0 7 0 0 Molise 4 2 0 0 2 0 Campania 10 0 0 10 0 0 Puglia 76 0 0 72 2 0 Basilicata 10 8 0 0 0 0 Calabria 80 34 0 6 10 30 Sicilia 49 21 0 3 20 3 Sardegna 53 5 0 43 0 5 TOTALE 730 275 20 241 125 38 Fonte dei dati: Elaborazioni APAT dei dati forniti dalle Agenzie Regionali e Provinciali di Protezione dell’Ambiente (ARPA/APPA), verificate e validate dalle Regioni e dalle Province Autonome.

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GRADO DI CONFORMITÀ AL DLGS 152/99 DEI SISTEMI DI DEPURAZIONE DEI REFLUI URBANI A SERVIZIO DI AGGLOMERATI CON OLTRE 15.000 ABITANTI EQUIVALENTI Regione N° agglomerati ☺☺☺ ☺☺ Piemonte 26 26 0 0 0 0 Valle d’Aosta 3 3 0 0 0 0 Lombardia 100 67 0 12 12 6 Trentino Alto Adige 32 32 0 0 0 0 Veneto 50 36 0 2 12 0 Friuli Venezia Giulia 14 10 2 0 1 0 Liguria 21 12 0 0 2 0 Emilia Romagna 50 48 0 0 0 0 Toscana 49 25 14 0 9 0 Umbria 6 6 0 0 0 0 Marche 22 17 0 0 5 0 Lazio 51 14 10 0 22 0 Abruzzo 24 14 0 2 5 1 Molise 4 4 0 0 0 0 Campania 10 7 0 1 1 0 Puglia 76 1 46 22 5 0 Basilicata 10 0 0 10 0 0 Calabria 80 33 0 2 26 1 Sicilia 49 5 0 0 7 14 Sardegna 53 1 0 26 0 0 TOTALE 730 361 72 77 107 22 Fonte dei dati: Elaborazioni APAT dei dati forniti dalle Agenzie Regionali e Provinciali di Protezione dell’Ambiente (ARPA/APPA), verificate e validate dalle Regioni e dalle Province Autonome. 8.1.4 Carichi organici potenziali e deficit depurativi

Con l’indicatore “carico organico potenziale” esprimibile in abitanti

equivalenti (AbEq) si intende valutare la pressione potenziale esercitata sulla qualità della risorsa idrica.

A fronte di questa stima, come valutazione della efficacia delle misure intraprese, è importante valutare anche il deficit depurativo. Una valutazione di questo deficit può essere tentata rapportando le stime del carico inquinante potenziale (dati ISTAT, Statistiche Ambientali 1998) al censimento Federgasacqua del 1995.

Tale deficit è di circa 41.200.000 AbEq pari al 37% delle necessità depurative globali. La differenza tra la popolazione equivalente totale, che comprende sia la popolazione residente che la popolazione equivalente

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industriale, pari a circa 150 milioni di AbEq rispetto alla popolazione trattata nella rete civile (70 milioni di AbEq) è da ascriversi agli impianti industriali forniti di depuratore e non allacciati alla rete civile.

Si nota con grande evidenza la significativa differenza tra capacità di progetto e potenzialità attuale. Ciò è ulteriormente confermato, dallo stesso censimento, da una rielaborazione dei dati effettuata sulla base delle province interessate a bacini idrografici di interesse nazionale.

Nel bacino del Po su un totale di 327 depuratori, di cui 322 con trattamento secondario, si deduce una stima della capacità di depurazione pari a 12.900.000 AbEq a fronte di una capacità di progetto maggiore di 14.350.000 AbEq.

Analogamente nel bacino dell’Arno su 73 depuratori tutti con trattamento secondario ad una capacità di progetto globale pari a 5.380.266 corrisponde una potenzialità attuale stimata in 4.500.000 AbEq.

Il quadro del sistema depurativo si completa con lo stato delle reti di collettamento fognario che convogliano circa l ’80% del carico inquinante di origine urbano. Le 13.000 reti di fognature miste o separate che si estendono per ben 310.000 km (fonte: Federgasacqua,1995), dovranno essere ulteriormente estese per far fronte agli adempimenti conseguenti al recepimento della direttiva 91/271/Cee per il trattamento delle acque reflue. CENSIMENTO DEI DEPURATORI IN AGGLOMERATI DI PIÙ DI 10.000 ABEQ

REGIONE DATI TOTALE

Emilia Romagna Impianti totali Capacità di progetto totale (AbEq) Attuale potenzialità totale (AbEq)

14 1.792.000 1.351.617

Friuli Venezia Giulia Impianti totali Capacità di progetto totale (AbEq) Attuale potenzialità totale (AbEq)

21 2.284.700 1.127.171

Lombardia Impianti totali Capacità di progetto totale (AbEq) Attuale potenzialità totale (AbEq)

147 5.592.461 6.980.447

Marche Impianti totali Capacità di progetto totale (AbEq) Attuale potenzialità totale (AbEq)

5 215.000 183.000

Piemonte Impianti totali Capacità di progetto totale (AbEq) Attuale potenzialità totale (AbEq)

77 234.545 113.157

Trentino Alto Adige Impianti totali Capacità di progetto totale (AbEq) Attuale potenzialità totale (AbEq)

56 2.428.700 1.790.998

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Valle d'Aosta Impianti totali Capacità di progetto totale (AbEq) Attuale potenzialità totale (AbEq)

3 208.300 117.200

Veneto Impianti totali Capacità di progetto totale (AbEq) Attuale potenzialità totale (AbEq)

4 520.000 522.454

Toscana Impianti totali Capacità di progetto totale (AbEq) Attuale potenzialità totale (AbEq)

73 5.380.266 4.394.597

Fonte: Anpa 2001

Una attenta considerazione delle informazioni disponibili in termini di carichi organici e di nutrienti afferenti nei mari italiani e dei deficit depurativi, tra cui sono critici quelli derivanti dalla mancanza di depuratori in grandi agglomerati urbani (Milano, Firenze) spinge ad una rivalutazione ed estensione della delimitazione delle aree sensibili Secondo una valutazione della Commissione Europea effettuata valutando lo stato di attuazione della direttiva 91/271/CEE sul trattamento delle acque reflue urbane, tale rivalutazione dovrebbe essere molto rilevante.

Molto più rilevante in particolare per quanto riguarda l ’Adriatico Nord Occidentale, la Toscana e la Sicilia.

Le innovazioni concettuali e metodologiche introdotte nelle più recenti norme per attuare una politica ambientale di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità delle risorse idriche e per un uso sostenibile, vertono a focalizzare l’attenzione sulla fragilità degli ecosistemi acquatici con l ’individuazione di aree particolarmente vulnerabili e sensibili come quelle vicine alla costa o alle foci di fiumi, o in golfi o mari relativamente chiusi, e valutare quanto il loro equilibrio è influenzato dai bacini idrografici sottesi in termini di apporti inquinanti (pressioni) e di effetti sugli ecosistemi (impatti). 8.2 Il programma di monitoraggio per il controllo

dell’ambiente marino costiero 2001-2003 Il programma di monitoraggio per il controllo dell’ambiente marino-

costiero pianificato nel triennio 2001-2003 dal Ministero dell’Ambiente e iniziato ufficialmente a giugno 2001 e tuttora in corso, vede per la prima volta una omogeneità nelle metodiche analitiche di riferimento e una quasi completa copertura su tutto il territorio mare: infatti alcune regioni si sono aggiunte operativamente solo a tappe successive – l’ultima la Sicilia- ma senza dubbio è in assoluto la campagna di monitoraggio che fornisce e fornirà in termini di conoscenza risultati sono ad ora non disponibili.

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I passati programmi di monitoraggio intrapresi dal servizio Difesa mare del Ministero nel decennio precedente – pur mantenendo il pregio di aver fornito gli unici dati esistenti sullo stato di qualità dell’ambiente marino- avevano infatti la caratteristica di assoluta disomogeneità in termini di aree campionate, metodi analitici, tempi di riferimento e tenevano in considerazione solo alcuni dati descrittivi della qualità dell’ecosistema marino, attraverso l’analisi di alcuni parametri chimici, microbiologici e fisici.

L’emanazione di normative europee e nazionali riguardo alla conoscenza e quindi al monitoraggio dell’ambiente marino-costiero, ha portato ad impostare il monitoraggio in corso, con criteri più complessi e a definire aree e metodiche campionamento e modalità di analisi uniformi e più consone ai livelli di conoscenza richiesti.

La messa a punto e la realizzazione di un programma a maggior complessità è stato possibile anche perché in questi ultimi anni è stata completata la rete di Agenzie Regionali di Protezione Ambiente, a cui il monitoraggio è stato affidato.

La campagna di monitoraggio prevede campionamenti in aree sottoposte a particolari pressioni antropiche, le cosiddette aree critiche e aree scarsamente sottoposte a questo tipo di impatto che assumono quindi la funzione di controllo o aree di bianco.

All’interno di ogni area d’indagine vengono effettuati transetti disposti perpendicolarmente lungo la linea di costa, su cui sono posizionate le stazioni di prelievo che per le acque sono fissate in tre punti: alto, medio e basso fondale a seconda della batimetrica rispetto alla linea di costa e su cui vengono condotte analisi con cadenza quindicinale per la ricerca di 13 parametri fisico-chimici.

Per i sedimenti le stazioni di campionamento sono individuate in corrispondenza della fascia di sedimentazione della frazione pelitica e variano quindi in funzione della geomorfologia della costa.

Le analisi sui sedimenti che riguardano la ricerca di sostanze persistenti, idrocarburi e spore di Clostridi Solfitoriduttori, vengono ripetute due volte l’anno, analogamente alle misure di bioaccumulo su un bivalve, il mitilo.

Una volta l’anno inoltre verranno effettuate anche indagini - ove presenti - sulle praterie di Posidonia oceanica. 8.2.1 Le caratteristiche del Mediterraneo

Il Mediterraneo è un mare per sua natura semi-chiuso, ma nonostante ciò non ha una chimica propria.

Una caratteristica distintiva del Mediterraneo è la sua salinità – se paragonata all’Atlantico – e la concentrazione relativamente bassa, anche nelle acque più profonde, di alcuni costituenti chimici. Questo fenomeno è causato dal flusso continuo attraverso lo stretto di Gibilterra, che riceve acqua di

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superficie povera dall’Atlantico ed esporta acqua profonda dal Mediterraneo, relativamente ricca.

Questa costituzione è tale da evitare l’eccessiva eutrofizzazione del Mediterraneo.

Approssimativamente dopo 80 anni, quasi tutte le sostanze disciolte nelle acque superficiali hanno subito un aumento di concentrazione pari al 5% e refluiscono in Atlantico, questo è alla base della costituzione tipica di questo bacino.

Le acque del Mediterraneo sono oligotrofiche, tranne in prossimità dei grandi delta dei fiumi, e i sedimenti si presentano di solito con un basso contenuto di carbonio organico a causa della scarsa produttività biologica dell’acqua e alla presenza di alte concentrazioni di ossigeno nelle acque profonde.

L’eutrofizzazione del Mediterraneo è quindi un fenomeno legato pressoché all’ambiente costiero, dove la scarsità di ossigeno è correlata a scarichi di reflui urbani, foci dei fiumi ecc.

A causa della forte stratificazione delle acque di superficie, l’eutrofizzazione raggiunge punte più alte in estate, quando le concentrazioni di ossigeno si riducono in modo massiccio e valori più bassi durante il rimescolamento verticale invernale.

Le concentrazioni delle sostanze naturali ed inquinanti presenti nei sedimenti sono assai più elevate delle concentrazioni disciolte nell’acqua marina, sia per fenomeni di rimescolamento che per azioni di fissazione che avvengono sul sedimento stesso per effetti chimici e metabolici.

I dati disponibili in letteratura mostrano che i livelli più alti di sostanze inquinanti si trovano nei sedimenti estuariali e in prossimità di scarichi industriali e che i livelli diminuiscono andando verso il mare aperto. Comunque non sono solo le fonti antropogeniche che possono influenzare le concentrazioni di sedimenti: infatti la composizione geochimica naturale degli ambienti terrestri prospicienti la costa o la composizione mineralogica dei sedimenti marini stessi possono influenzare molto i livelli di base.

Chiaramente per le sostanze provenienti da sintesi chimica quali i pesticidi organoclorurati o il PCB ad esempio, il valore di fondo nei sedimenti marini dovrebbero essere nullo. Tuttavia la loro attuale diffusa distribuzione e le caratteristiche di persistenza nell’ambiente sono tali da generare una sorta di “fondo antropico” inevitabilmente riscontrabile con le attuali metodologie analitiche. 8.2.2 Qualità delle acque

I risultati sulla qualità delle acque vengono riassunti attraverso un sistema di valutazione che in pratica fa una sintesi di tutti i parametri analizzati attraverso un giudizio che si esprime in alta, media e bassa qualità.

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L’elaborazione dei giudizi ottenuti sulle singole stazioni di campionamento, rapportate al numero di stazioni mette in evidenza una situazione non drammatica per quanto riguarda la qualità delle acque dei nostri mari, da un punto di vista ecologico, ma neanche una situazione di eccellenza.

Le Regioni che eccellono per la qualità delle acque sono la Sardegna, la Toscana, il Friuli Venezia Giulia, il Veneto e l’Abruzzo: la Liguria presenta una situazione di eguali percentuali di campioni di alta, media e bassa qualità.

La gran parte delle Regioni presentano risultati che si collocano tra la media e la bassa qualità, con punte assolutamente in negativo che si registrano nel Lazio dove solo lo 0.8% dei campioni analizzati rientrano nel giudizio di alta qualità, mentre oltre il 55% risultano invece di bassa qualità.

In Campania si registrano percentuali simili di campioni ad alta e bassa qualità, mentre nelle Marche le percentuali simili sono dei campioni a bassa e media qualità.

Nella tabella che segue vengono riportati i risultati relativi alle stazioni sottocosta, campionate con cadenza quindicinale durante l’anno solare 2002.

Il Molise non è stato inserito perché ha un'unica stazione di campionamento; la Sicilia ha iniziato il monitoraggio solo nel 2003.

REGIONE N. STAZIONI

TOTALE PRELIEVI

ALTA QUALITA’

MEDIA QUALITA’

BASSA QUALITA’

N° campioni

% N° campioni

% N° campioni

%

ABRUZZO 4 96 76 79 20 21 - 0 BASILICATA 3 72 19 26.4 49 68 4 5.6 CAMPANIA 7 168 76 45 20 12 72 43 CALABRIA 7 168 26 15.4 141 84 1 0.6 EMILIA R. 4 96 23 34 57 59 16 17

FRIULI V. G. 4 96 76 79 19 20 1 1 LAZIO 6 135 1 0.8 59 43.7 75 55.5

LIGURIA 5 120 44 37 40 33 36 30 MARCHE 5 120 52 43 62 52 6 5 PUGLIA 7 168 34 20 82 49 52 31

SARDEGNA 8 192 142 74 40 21 10 5 TOSCANA 6 144 79 55 33 23 32 22 VENETO 5 110 73 66 35 32 2 2

Fonte: elaborazioni Legambiente su dati del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio ALTA QUALITA’: acque incontaminate; MEDIA QUALITA’: acque con diverso grado di eutrofizzazione, ma ecologicamente integre; BASSA QUALITA’: acque eutrofizzate con evidenza di alterazioni ambientali anche di origine antropica.

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8.2.3 Qualità dei sedimenti I parametri indagati Metalli Pesanti I valori riscontrati dai dati in letteratura che tengono conto di campagne di monitoraggio -mai o poco standardizzate - in aree geografiche del Mediterraneo e di indagini finalizzate alla caratterizzazione dei sedimenti marini ai fini di sversamento in mare di materiali provenienti da dragaggio, indicano valori di riferimento quali quelli che seguono: - Cr - Cromo: 15.000 microg/kg; - Cu - Rame: 15.000 microg/kg; - Zn - Zinco: 50.000 microg/kg; - Cd - Cadmio: 150 microg/kg; - Pb - Piombo: 25.000 microg/kg; - Hg - Mercurio: 5-100 microg/kg; - As - Arsenico: fino a 10 ppm (mg/kg) in Adriatico, fino a 25 ppm in

Tirreno. Per gli altri elementi monitorati (Nichel, Vanadio, Ferro) non è stato possibile trovare riferimenti in letteratura: - Idrocarburi alogenati: 0,2-2,5 microg/kg; - Idrocarburi aromatici: 2-66 microg/kg; - Pcb: 0,8-0,9 microg/kg. Spore di Clostridi Solfito Riduttori (SCS)

I Clostridi sono microrganismi anaerobi obbligati (che significa che non possono vivere e moltiplicarsi in presenza di ossigeno). Riducono il solfito, producendo solfuri e sono in grado di sviluppare spore termoresistenti e resistenti anche a situazioni ambientali sfavorevoli: possono infatti resistere anche ai trattamenti con i comuni disinfettanti compreso il cloro. Poiché alcune specie vivono anche nell’intestino animale, compreso l’uomo, e date le loro caratteristiche di resistenza sono considerati validi indicatori di contaminazione fecale. Nei sedimenti marini le concentrazioni delle spore possono oscillare tra 10 e 10.000 UFC/g I risultati del monitoraggio in corso, regione per regione

Il dato che emerge da un’analisi dei risultati è che è diffusa generalmente lungo tutta la costa una scarsa qualità dell’ambiente marino : il mare risulta con assoluta evidenza essere il deposito finale della maggior parte dei contaminanti prodotti ed utilizzati in ambiente terrestre .

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I risultati di questo monitoraggio mostrano infatti che sui sedimento costieri (su cui abbiamo posto la nostra attenzione) si ritrova gran parte delle sostanze immesse nell’ambiente e l’ecosistema marino rappresenta quindi una sorgente continua di questi contaminanti. I quali entrano nella catena alimentare e si concentrano negli organismi marini ai vari livelli trofici, provocando effetti dannosi sia da un punto di vista riproduttivo, sia a livello del sistema endocrino e immunitario. Gli effetti più gravi si manifestano negli organismi che si trovano ai livelli più elevati della catena trofica sino all’uomo, attraverso l’alimentazione con prodotti provenienti dall’ambiente marino.

I contaminanti più diffusi sono i metalli pesanti – in particolare Cromo, Cadmio, Piombo e Mercurio- e i PCB (Policlorobifenili) che fanno parte delle sostanze persistenti (POPs), e per questa loro caratteristica particolarmente dannose per l’ecosistema marino.

L’altro dato particolarmente significativo è la presenza spesso rilevata di alte concentrazioni di sostanze inquinanti nelle aree cosiddette di bianco, ovvero quelle che dovrebbero essere scarsamente sottoposte a impatto antropico e che per tale motivo assumono la funzione di controllo.

Il fatto di trovare alte quantità di Cromo nell’area ligure dove per decenni la Stoppani ha sversato i reflui della sua industria di vernici non desta particolare stupore, ma il fatto che analoghe concentrazioni si ritrovino a Novasiri, che rappresenta l’area di bianco in Basilicata o a Cattolica che è l’area di riferimento dell’Emilia Romagna, è un dato che deve assolutamente far riflettere e indurre a prendere provvedimenti concreti. ABRUZZO Sono quattro le stazioni: Pescara, Ortona, Vasto - che rappresenta l’area di bianco - e Giulianova. In genere si riscontrano concentrazioni elevate di metalli pesanti in tutte le stazioni in particolare Cd, Pb, Zn ; ma si rilevano anche alti valori di PCB e in qualche periodo anche di IPA. BASILICATA Le stazioni campionate sono tre: Novasiri - che è il bianco - Castrocucco e Metaponto Proprio a Novasiri si riscontrano elevate concentrazioni di Cromo così come a Metaponto, mentre Cadmio, Mercurio e Piombo sono più presenti a Castrocucco. CALABRIA La Calabria ha iniziato il monitoraggio nel 2002 e ha fissato le stazioni a Crotone, Caulonia, Pellaro, Mesima Nicotera, Vibo marina, Paola e l’area di bianco a Capo Rizzuto. I risultati di due semestri di campionamento hanno messo in evidenza la presenza di metalli pesanti in particolare a Crotone e a Paola.

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CAMPANIA La Campania ha fissato stazioni di campionamento a Napoli, Portici, alla foce del Sarno, alla foce del Tresino, e ha fissato l’area di bianco a punta Licosa. In maniera purtroppo attesa si rilevano alte concentrazioni di tutti i metalli pesanti alla foce del Sarno, oltre ad una massiccia presenza di Clostridi Solfito riduttori. Elevate quantità di Mercurio, Piombo, IPA e PCB si rilevano anche nella stazione di Napoli, mentre il mercurio è presente anche a Portici. EMILIA ROMAGNA Sono quattro le stazioni di riferimento in Emilia Romagna: Porto Garibaldi, lido Adriano, Cesenatico e Cattolica che rappresenta l’area di bianco. Ovunque alti i valori di Arsenico e di Mercurio, ma anche Cromo, Rame e Zinco a Porto Garibaldi, a Lido Adriano, ma soprattutto è eclatante il dato di Cattolica dove il Cromo è sempre presente a valori molto più alti di quelli indicati in letteratura. FRIULI VENEZIA GIULIA In tutte e tre le stazioni - Porto Nogaro, baia di Panzano e punta Sottile a Miramare che rappresenta l’area di bianco - si riscontrano alti valori delle concentrazioni di metalli pesanti, in particolare Cadmio, Piombo, Mercurio. Particolarmente preoccupante è la situazione rilevata a punta Sottile dove oltre al Cromo ela Piombo si rileva anche la presenza di PCB. LIGURIA Imperia, Vado ligure, la foce del torrente Lerone e punta Mesco che rappresenta il bianco sono le aree di campionamento liguri. Riguardo alla presenza dei metalli pesanti si ritrova di tutto e a valori astronomici al torrente Lerone ( dove per anni ha sversato la Stoppani), dove il Cromo ha raggiunto anche valori di 2x106 microgrammi/kg; ma non sta bene neanche Vado Ligure elevate concentrazioni di Mercurio, di Cadmio e di Piombo oltre alla presenza di PCB. Da sottolineare come anche in Liguria il campione preso come bianco, cioè punta Mesco presenti elevate concentrazioni di Cd. MARCHE Le stazioni scelte dalle marche sono quasi tutte foci di fiumi: il Foglia, l’Esino, il Chienti, il Tronto e l’area di bianco è rappresentata dal Conero. I metalli pesanti sono presenti in elevata concentrazioni su tutte le foci e nel Chienti si rileva anche la presenza di idrocarburi alogenati. Anche nelle Marche, si ritrova nell’area di bianco la presenza di cromo e di PCB.

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MOLISE Anche il Molise ha scelto come stazioni due foci di fiumi: il Trigno e il Biferno dove si rileva la presenza di Cadmio e Piombo in entrambi i punti. PUGLIA In Puglia sono due le aree di bianco : le isole Tremiti e Porto Cesareo, mentre sono considerate aree critiche Manfredonia, Barletta, Bari, Brindisi e Taranto. I metalli pesanti sono presenti in tutte le stazioni e in particolare si rileva cadmio e piombo alle tremiti, Arsenico a Porto Cesareo, Mercurio a Bari e Brindisi. Piombo, Cromo e IPA a Manfredonia e a Taranto. SARDEGNA Anche in Sardegna sono due le aree di bianco: l’ Aasinara e capo Carbonara. Le altre stazioni sono a Alghero, alla foce del Tirso, a S.Antioco, Cagliari, , Arbatax e Olbia. Si rileva ovunque la presenza di PCB e per quanto riguarda i metalli pesanti si registrano elevate concentrazioni di Mercurio Cromo e Cadmio a Arbatax e a S. Antioco dove è elevato anche il Piombo e alla foce del Tirso. SICILIA Ha iniziato la campagna di monitoraggio solo a partire dall’inizio di quest’anno per cui non sono ancora disponibili i dati dei sedimenti. TOSCANA Sono sette i punti di campionamento toscani: foce Magra, fiume Morto, Antignano, Castagneto, Carbonifera, fiume Ombrone compresa l’area di bianco nella costa nord dell’isola d’ Elba. Anche la situazione dei sedimenti lungo le coste toscane non è delle migliori: a partire dall’isola d’Elba si riscontrano infatti elevate concentrazioni di metalli pesanti più o meno in tutte le aree di campionamento. Particolarmente presente il Mercurio e il Piombo, ma anche il Cromo e il Cadmio. VENETO Il Veneto monitora quattro stazioni: la foce del Piave, lido Cavallino, Albarella e a Pellestrina ha fissato l’area di bianco. Il dato più eclatante è quello di Cavallino, dove si rileva la presenza elevata di tutte i metalli analizzati, in particolare Mercurio, Cromo, Piombo , ma anche PCB. Non è comunque esente da inquinamento neanche Pellestrina dove si sono rilevate elevate concentrazioni di Mercurio, presente di fatto in tutte le stazioni.

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8.3 Balneabile sì, balneabile no, balneabile forse!

La balneazione nel nostro Paese è regolata dal DPR. 470/82 che è stato

modificato con Legge 422/2000 e recentemente con il Decreto Legge del 31 marzo 2003 n° 51 convertito in legge il 30 maggio 2003 n° 121.

In base al DPR 470/82 la stagione balneare va dal 1° maggio al 30 settembre e il periodo di campionamento va dal 1 aprile al 30 settembre con cadenza bisettimanale: quindi per poter stabilire la balneabilità di un tratto di mare sono necessari almeno 12 campionamenti; se sono 11 viene decretata la non balneabilità per insufficienza di campionamento. Le acque vengono dichiarate balneabili per la stagione balneare in corso sulla base dei risultati di campionamenti effettuati l’anno precedente: quindi la costa balneabile nella stagione 2003 è quella in cui almeno 12 campionamenti effettuati nel 2002 sono risultati favorevoli con le percentuali previste (80% dei risultati favorevoli per i parametri batteriologici; il 90% per gli altri).

Entro il 1° aprile di ogni anno le zone di balneazione devono essere determinate dalle Regioni - tramite delibera - in base quindi ai dati raccolti l'estate precedente. Spetta ai Comuni delimitare su questa base prima del 1° maggio, con ordinanza del sindaco, le zone non idonee alla balneazione ricadenti nel loro territorio.

Con le modifiche apportate dalla Legge 422/2000, se nel corso della stagione balneare durante i campionamenti di routine, si verifica che le analisi effettuate su un campione risultano sfavorevoli anche solo per un parametro (temperatura, trasparenza, coliformi ecc.), il laboratorio che effettua i controlli deve mettere in atto ispezioni dei luoghi per verificarne la causa e dovrà anche effettuare le analisi su cinque campioni prelevati in giorni diversi nello stesso punto. Se in più di un campione (quindi ne bastano due) anche uno solo dei parametri non sarà entro i limiti, la zona dovrà essere temporaneamente vietata alla balneazione.

Su queste acque dovranno comunque continuare i controlli con la frequenza prevista (due al mese) e i risultati dei 5 prelievi suppletivi non dovranno essere utilizzati per ottenere la percentuale dei campioni favorevoli per definire la balneabilità della stagione balneare successiva.

Se sulle acque dichiarate temporaneamente non idonee si verificano due analisi favorevoli consecutive per tutti i parametri, queste potranno essere nuovamente adibite alla balneazione.

Con l’ulteriore modifica apportata attraverso il Decreto Legge del 31 marzo 2003 n° 51 convertito in Legge il 30 maggio 2003 n° 121, si dà la possibilità di riaprire le spiagge dichiarate non idonee alla balneazione sulla base di quanto sopra , se si verifica l’eventualità che due prelievi effettuati a partire da aprile e durante la stagione balneare in corso, diano risultati favorevoli per tutti parametri. Il quadro a questo punto appare ulteriormente complicato: questo potrebbe significare che con delibera della Regione,

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potranno essere riaperte durante la stagione balneare in corso, spiagge già dichiarate non balneabili qualora due prelievi risultino favorevoli per tutti i parametri. Ma questa eventualità potrà verificarsi a questo punto in aprile, maggio, giugno e così via e non è necessario che i prelievi siano consecutivi. Qualora infine il tratto in questione sia riaperto alla balneazione, secondo quanto previsto da questo nuovo provvedimento, dovranno essere effettuate analisi ogni 10 giorni, durante tutto il periodo di massimo affollamento (chi lo stabilisce qual è?) e nel caso che almeno due campioni diano risultato non favorevole anche per uno solo dei parametri dovrà nuovamente essere revocata la balneazione.

8.4 Il rischio del bioaccumulo

Il mare è il deposito finale della maggior parte dei contaminanti prodotti ed utilizzati anche nell’ambiente terrestre, oltre a quelli che vengono sversati durante il trasporto o in occasione di incidenti. Oggi sappiamo ad esempio che una gran parte dei POPs (Persistent Organic Pollutants) di cui fanno parte le diossine, i PCB o i pesticidi clorurati immessi nell’ambiente (si tratta di vari milioni di tonnellate di principi attivi) si ritrova nei sedimenti costieri e profondi dei nostri mari e degli oceani, e ad opera del trasporto atmosferico riescono a raggiungere anche territori molto distanti dal luogo di immissione e il loro elevato tempo di permanenza nell’ambiente ne permette la diffusione su vasta scala: per questo motivo grandi quantità di pesticidi e di diossine sono state rilevate anche in luoghi remoti quali l’Artide e l’Antartide, dove sono già state messi in evidenza gli effetti sulle popolazioni di orsi polari che presentano casi di ermafroditismo.

Il deposito di sostanze persistenti in mare trasforma quindi l’ambiente marino stesso in una sorgente di questi inquinanti per gli organismi che lo popolano, sia vegetali che animali, entrando nel loro ciclo alimentare.

Date le loro caratteristiche di persistenza si concentrano negli organismi a livello dei tessuti e poiché è scarsa o nulla la escrezione dall’organismo stesso e spesso basso l’effetto tossico sugli organismi appartenenti ai bassi livelli della catena alimentare, si ritrovano anche negli organismi dei livelli trofici più elevati, dove si riscontrano gli effetti più evidenti.

Bioconcentrazione, bioaccumulo e biomagnificazione: sono questi tre processi infatti che fanno sì che molti POPs si ritrovino in concentrazioni elevate in alcuni livelli della catena alimentare.

La bioconcentrazione consiste in pratica nel passaggio di inquinanti dall’ambiente in cui vengono immessi agli organismi, attraverso varie porte d’ingresso (epiteli, epidermide, via respiratoria).

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Contaminante nell’ambiente

Escrezione

Branchia, foglia superficie respiratoria

Fluidi

circolanti

Accumulo

Metabolismo

Il passaggio successivo è il bioaccumulo che considera anche il fattore

alimentazione, determinante in molti casi per l’assunzione e la ritenzione dei contaminanti da parte dell’organismo.

Il bioaccumulo comporta un aumento delle concentrazioni dei contaminanti nel tempo, che corrisponde anche ad aumento con l’età dell’organismo stesso. Questo processo determina il fatto che si possano ritrovare alte concentrazioni di inquinanti in una specie in relazione al livello di contaminazione del suo alimento principale e queste concentrazioni possono quindi aumentare in funzione dell’età di un individuo. Dieta Respirazione

1

Branchia, foglia superficie respiratoria

Tratto gastro -intestinale

Fluidi

circolanti

Escrezione

Accumulo Metabolismo

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La concentrazione di una sostanza anziché la sua diluizione ad ogni passaggio successivo nella catena alimentare è quella che si chiama biomagnificazione che è poi il comportamento tipico di certe sostanze quali i pesticidi.

Fonte: Bollettino della Comunità scientifica in Australasia

Le specie poste ai vertici delle catene trofiche saranno quelle che su cui si avranno i più forti effetti tossici. Per determinare questo fenomeno è stato introdotto (Suedell e coll. 1994) il TTC, ovvero il coefficiente di trasferimento trofico, che rappresenta il rapporto tra la concentrazione di un contaminante nel tessuto del consumatore e quello nell’alimento. Se il TTC è minore o uguale a 1 non si ha biomagnificazione, che invece avviene con un TTC>1.

Uno degli esempi tra i più noti e per primo descritto nel Mediterraneo che spiega gli effetti di questi processi, è quello della presenza di elevate concentrazioni di mercurio nei tonni di questo bacino, rispetto a quelle rilevate nei tonni dell’Atlantico. I tonni provenienti dalle aree atlantiche contengono

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meno mercurio di quelli mediterranei a causa in parte della sua anomalia geochimica (vi sono le principali aree ricche di questo minerale tra cui il monte Amiata, le miniere della Spagna), ma soprattutto perché per anni sono state scaricate in mare sensibili quantità di mercurio quale elemento di scarto di molti processi industriali. Va poi ricordato che il Mediterraneo è caratterizzato da un lentissimo ricambio: tutte queste condizioni hanno determinato l’accumulo di mercurio nei sedimenti, da lì è entrato nella catena alimentare ed ha subito i fenomeni di bioconcentrazione, bioaccumulo e di biomagnificazione, sino ad essere rilevato in grandi concentrazioni nei tessuti muscolari dei tonni.

Uno studio importante per valutare il contributo dato dai prodotti ittici ai livelli di assunzione alimentare dei contaminanti persistenti e tossici quali le diossine e i composti diossino-simili, è stato effettuato dall’Università di Siena, su esemplari di varie specie ittiche (nasello, triglia di fango, sardina, polpo e scampo) provenienti da attività di pesca in sei aree marine italiane: Alto e basso Adriatico, Ionio, Alto e basso Tirreno, Canale di Sardegna. Le stesse indagini sono state effettuate anche su campioni di tonno e pesce spada mediterranei, pescati nel mar Tirreno e su campioni di spigole e orate provenienti da impianti di acquacoltura sia in gabbie a mare che in vasche a terra.

Nella ricerca per valutare la tossicità di tutte le sostanze presenti nei prodotti alimentari e tenendo conto che diossine e PCB si trovano spesso sottoforma di miscele complesse, è stato adottato il metodo proposto dall’Organizzazione Mondiale della sanità, che si basa sulla conversione di tutti i contaminanti diossino-simili in tossici equivalenti (TEQ) del congenere più tossico che è la 2,3,7,8 TCDD (tetraclorodibenzodiossina), utilizzando i fattori di equivalenza tossica proposti da Van der Berg.

In tutti i prodotti ittici dei nostri mari testati in questo studio i livelli di diossine sono generalmente molto contenuti e la maggior parte della TEQ rilevata è da attribuirsi alla presenza di PCB. E questa è emersa come caratteristica generale dei prodotti alimentari mediterranei, a dimostrazione del fatto che nel nostro bacino uno dei problemi principali è determinato dalla presenza di questi composti, e che il mare in genere rappresenta il serbatoio finale degli inquinanti persistenti.

I dati ottenuti da questo studio, se riferiti ai limiti di assunzione settimanale suggeriti dal Comitato Scientifico della Commissione Europea, pari a 14 picogrammi di sostanza con tossicità equivalente alla diossina (TEQ) per kg di peso corporeo, non destano particolare preoccupazione per la salute pubblica: i risultati relativi ai TEQ totali mostrano infatti valori generalmente compresi tra 0,1 e 1 pg/g peso fresco, che corrispondono – considerando una dieta settimanale di 1000 g di prodotto fresco, ad una assunzione giornaliera posta generalmente al di sotto o al limite di quella considerata a rischio per la salute dell’uomo. Fanno eccezione in alcuni casi la sardina e il nasello e in linea generale il tonno e il pescespada. Relativamente a questi ultimi pesci di

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grande taglia l’assunzione settimanale suggerita dovrebbe essere infatti ridotta a 500 g di prodotto fresco.

SPECIE AREA DI INDAGINE Tirreno -

pg/ Kg di prodotto fresco

Alto Adriatico - pg/ Kg di prodotto fresco

Basso Adriatico pg/ Kg di prodotto fresco

Ionio pg/ Kg di prodotto fresco

Alto Tirreno pg/ Kg di prodotto fresco

Basso Tirreno pg/ Kg di prodotto fresco

Mar di Sardegna pg/ Kg

diprodotto fresco

Nasello 0.45 0.46 0.36 0.95 0,71 0.41 Sardina 0.99 0.30 0.20 0.88 0.19 0.79 Scampo 0.16 0.15 0.12 0.40. 0.36 0.13 Triglia 0.35 0.36 0.33 0.50 0.51 0.27 Polpo 0.19 0.22 0.08 0.26 0.45 0.19 Tonno 1.59

Pescespada 1.63 Fonte: Silvano Focardi, Università di Siena, e Paolo Pelusi, Consorzio Mediterraneo

I prodotti provenienti dall’acquacoltura sono sempre al di sotto della soglia di rischio, ma è bene ricordare che in questo caso gli elementi più importanti che possono far aumentare la concentrazione dei contaminanti persistenti nel pesce sono il suo contenuto lipidico – perché è il tessuto dove maggiormente si accumulano- e la loro presenza nei mangimi; per questo è di fondamentale importanza che anche gli allevamenti ittici seguano precisi disciplinari riguardo alla qualità dei mangimi utilizzati. 8.5 Il ciclo delle acque in Campania

Lo stato di salute delle coste della Campania è in netto miglioramento,

facendo registrare rispetto allo scorso anno un incremento dei tratti balneabili di ben il 13%.Vale a dire che per la stagione turistica 2003 dei circa 500 km di costa, circa l'80% (pari a 401 km) risulta balneabile. Nella provincia di Napoli sono stati recuperati alla balneazione alcuni tratti del litorale prospiciente via Caracciolo ed altri nel comune di Torre del Greco. In provincia di Caserta non e' stato registrato un miglioramento della situazione. Ma non è tutto oro quello che luccica, se si pensa che il golfo di Napoli è da anni chiuso tra due fonti di inquinamento a cinque stelle, da un lato il Sarno e dall'altro Volturno e Garigliano. Scarichi fognari, più o meni abusivi, più o meno "avvelenati", foci dei fiumi da livelli di inquinamento da record, interi comuni privi di allacciamento alle fogne.

Una rete colabrodo con una percentuale di perdita pari al 44% nel territorio regionale con una situazione peggiore nell’Ato 4 Sele dove le perdite si attestano intorno al 55%, il 30% della popolazione non coperto dal sistema

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fognario, con molti comuni della provincia di Napoli non allacciati alla rete . Ancora più grave la situazione per quanto riguarda il grado di copertura del sistema di depurazione, con poco meno del 50% della popolazione regionale allacciata la sistema di depurazione.. I dati sono inclusi in un documento ufficiale dell’Autorità Ambientale della Regione Campania su monitoraggio dell’Arpac calcolati su tre Ato (Napoli Volturno, Sele ed Sarnese Vesuviano) su quattro con l’esclusione dei dati dell’Ato Calore irpino.

Dalle stime effettuate durante le ricognizioni, la percentuale di copertura del servizio di adduzione è buona per tutti gli Ambiti Territoriali Ottimali, coprendo il 92,01% della popolazione dell’ATO 2 Napoli-Volturno e attestandosi sul 97-98% nell’ATO 3 Sarnese Vesuviano e nell’ATO 4 Sele. Anche se il valore medio della copertura percentuale dell’ATO 2 è comunque alto, la situazione in tale Ambito Territoriale appare migliore nei comuni dell’entroterra rispetto a quella di altri comuni dell’ Ato dove si registrano particolari situazioni di disagio (Capriati al Volturno 70%, Casapesenna 60%, Gricignano di Aversa 60%, Presenzano 70%, San Cipriano d’Aversa 70%, San Nicola La Strada 70%, Teverola 50%, Villa Di Briano 65%).

Rilevanti sono le perdite di acqua dalla rete idrica in tutti gli Ambiti Territoriali Ottimali della Campania,. Le perdite nell’ATO 2 Napoli Volturno si attestano su un valore percentuale medio del 46,34%, ma si segnalano situazioni di particolare criticità nei comuni di Aversa, Cancello Arnone, Carinola, Castello al Matese, Dragoni, Monteverna, Piedimonte Matese e Rocca d’Evandro. Una situazione analoga esiste nell’ATO 3 Sarnese Vesuviano, dove, si registra una perdita media percentuale di acqua immessa in rete del 46,81%, con situazioni di maggiore criticità nei comuni di Brusciano, Lettere, Marigliano, San Marzano sul Sannio e Sant’Antonio Abate. La situazione peggiora ancora nell’ATO 4 Sele, dove le perdite in rete si attestano intorno al 54,69%, con situazioni di particolare criticità nei comuni di Giffoni Sei Casali, Ogliastro Cilento, Sant’Angelo a Fasanella, Buccino. Tuttavia, tenendo presente che il valore percentuale delle perdite è stato quantificato come metri cubi di acqua persa/metri cubi di acqua immessa in rete e che il valore di acqua persa è stato stimato come differenza tra metri cubi di acqua immessa e metri cubi di acqua fatturata, si evidenzia che tali valori talvolta possono non essere indicativi di una quantificazione reale delle perdite. In particolare, tale metodo di stima fornisce dei risultati non veritieri in quei comuni in cui, a fronte di erogazioni particolarmente esigue della risorsa, l’Ente gestore riscuote ugualmente il canone per la fornitura del servizio. Ciò può dare luogo a valori negativi delle perdite

Il grado di copertura del sistema fognario è misurato attraverso l’indicatore Percentuale della popolazione servita dalla rete fognaria. Dallo studio si rileva che la copertura media del sistema fognario raggiunge il 68,33% nell’Ambito Territoriale Ottimale Napoli Volturno, il 73,00% nel Sarnese Vesuviano e l’86,13% nel Sele, per una media regionale calcolata sui tre ATO considerati del 71,81%. La situazione appare particolarmente critica nei comuni di Casalnuovo di Napoli, Lettere, Poggiomarino, Sant’Antonio

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Abate, San Valentino Torio, e Terzigno, tutti ricadenti nell’ATO 3 e non allacciati alla rete fognaria. In altri 20 comuni ripartiti tra i tre ATO considerati, il livello di copertura del servizio si attesta al di sotto del 50%. Il grado di copertura del sistema di depurazione delle acque reflue è pari al 64,99% nell’Ambito Territoriale Ottimale Napoli Volturno, al 19,94% nel Sarnese Vesuviano e al 56,31% nel Sele, per una media regionale calcolata sui tre ATO considerati del 53,05%. In particolare che: nell’ATO 2 ci sono tre comuni non serviti da impianto di depurazione (Caianello, Calvi Risorta, Roccaromana); nell’ATO 3 due sono comuni non serviti (Lettere e Pimonte), mentre nell’ATO 4 sono 32 i comuni non allacciati all’impianto di depurazione.

Caratteristiche Infrastrutture esistenti Ambiti Territoriali Ottimali(Ato) Regione Campania

Ente Ambito % Popolazione allacciata alla rete idrica

Stima percentuale delle perdite della rete idrica

% Popolazione allacciata alla rete fognaria

% Popolazione allacciata al sistema di depurazione

Calore Irpino

Dato non pervenuto

Dato non pervenuto Dato non pervenuto Dato non pervenuto

Napoli Volturno

71,67 46,34 68,33 64,99

Sarnese Vesuviano

100 46,81% 73,00 19,94

Sele 100 54,69% 86,13 56,31 Regione Campania

82,21 44,17 71,81 53,05

Fonte ARPAC 2002 elaborazione Legambiente

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9. La pesca “miracolosa” 9.1 La pesca di frodo

Nella classifica della pesca di frodo la situazione in testa non cambia: si confermano infatti nelle prime quattro posizioni la Sicilia con 983 reati accertati, la Puglia (791), la Campania (744) e le Marche (303). Netto passo in avanti è compiuto dal Lazio che dall’ottavo posto del 2001 passa al quinto del 2002, mentre la Calabria passa dal quinto al decimo posto di quest’anno.

LA CLASSIFICA DELLA PESCA DI FRODO NEL 2002

Regione Infrazioniaccertate

Persone denunciate o arrestate

Sequestri effettuati

1 Sicilia ↔ 983 33 209 2 Puglia ↔ 791 71 210 3 Campania ↔ 744 12 599 4 Marche ↔ 303 8 299 5 Lazio ↑ 297 2 138 6 Veneto ↑ 290 121 712 7 Toscana ↓ 268 1 959 8 Emilia Romagna ↑ 245 2 56 9 Liguria ↑ 244 5 84 10 Calabria ↓ 216 10 79 11 Abruzzo ↑ 189 1 62 12 Sardegna ↓ 182 23 457 13 Friuli Venezia Giulia ↔ 90 0 13 14 Molise ↓ 39 1 5 15 Basilicata ↔ 2 2 5 Totale 4.883 292 3.887

Fonte: elaborazione Legambiente su dati Guardia di finanza, Corpo forestale dello Stato e delle Regioni a Statuto speciale e Capitanerie di porto. 9.2 La “miniera” datteri

Il dattero di mare (Lithophaga lithophaga) è un mollusco bivalve perforatore che colonizza le rocce calcaree, fino a 35 metri di profondità. Ad eccezione di alcune zone in cui è divenuto una vera rarità, non è una specie in via di estinzione, ma la sua cattura provoca la distruzione delle scogliere in cui vive: i datteri vengono raccolti spaccando e sminuzzando la roccia con picconi, scalpelli e addirittura martelli pneumatici. Il risultato è la completa rimozione della copertura biologica dei substrati duri superficiali (da 0 a 15 metri di

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profondità), con conseguente desertificazione dei fondali. Si tratta di uno dei più gravi fenomeni di erosione della biodiversità in Mediterraneo. Il dattero vive nel suo cunicolo scavato nella roccia, in gallerie fusiformi che costituiscono dei veri e propri microhabitat popolati da un gran numero di organismi. Gli ambienti più minacciati dalla cattura del dattero sono quelli litoranei di falesia calcarea, particolarmente abbondanti proprio nelle aree prescelte per l’istituzione di riserve marine e risultato di processi evolutivi particolarmente lunghi e complessi. Le zone più battute dai datterai nel nostro paese sono le coste della penisola sorrentina, in particolare i fondali dell’area marina protetta di Punta Campanella, le coste pugliesi, quelle delle Cinque Terre e del litorale spezzino e le coste sud orientali della Sicilia.A causa della pesca del dattero, siti caratterizzati dalla presenza di comunità complesse e che svolgono un’attiva funzione filtratrice dell’acqua, si trasformano in deserti rocciosi. Un dattero raggiunge 5 cm di lunghezza dopo circa 20 anni: una crescita così lenta costringe i pescatori di datteri (datterai) a cambiare continuamente luogo di raccolta, distruggendo ettari di fondale e riducendo al tempo stesso la produzione di nuove larve. Le tecniche di immersione subacquea consentono oggi a chiunque di accedere ai banchi, senza difficoltà e senza limitazioni di tempo e profondità. Per prelevare i datteri vengono utilizzati piccozze, scalpelli, martelli pneumatici e persino piccole cariche esplosive, una vera catastrofe ambientale, uno dei più gravi fenomeni di erosione della biodiversità in Mediterraneo paragonabile solo ai disastri ecologici causati dal naufragio delle petroliere.

Il divieto di raccolta, detenzione e commercio di dattero di mare vige nel nostro paese sin dal 1988. Più recentemente il decreto del 16 ottobre 1998 ha prorogato questo divieto. Una circolare del Ministero delle Politiche Agricole ha chiarito infine che è perseguita allo stesso modo anche l’importazione dall’estero di datteri di mare. Dunque chi offre datteri, sia in pescheria che al ristorante, è di sicuro fuori legge.

Nonostante tutto, ogni anno in Italia vengono raccolte tra le 80 e le 180 tonnellate di datteri, equivalenti a 6-15 milioni di individui e a 4-10 ettari di fondali desertificati. Ogni consumatore di datteri contribuisce in maniera sostanziale a questo scempio: basti pensare che un piatto di linguine ai datteri ne contiene circa 200 grammi, pari a 16 individui: pochi rispetto ai milioni di cui si è detto, molti se si considera che per raccoglierli si è distrutto un quadrato di fondale di 33 centimetri di lato. Le cifre del disastro 15-25 kg: il prelievo giornaliero da parte di un datteraio “professionista” 500 kg: il prelievo giornaliero di datteri lungo la penisola sorrentina 30.000 mq i fondali desertificati dai datterai ogni anno nel Salento 70.000 mq di fondali desertificati ogni anno lungo la penisola sorrentina 2 milioni di euro: il giro d’affari annuale dei datterai nella sola penisola sorrentina 1000 cmq: le dimensioni dell’area distrutta per un piatto di linguine ai datteri

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9.3 Il mercato del pesce “illegale” in Campania 9.3.1 Pesce all’acqua pazza

Cozze, vongole, orate, calamari di dubbia provenienza, conservati male,

venduti e serviti in difformità alla legge. L’emergenza frutti di mare fuorilegge a Napoli e provincia, così come nel salernitano, continua senza freno. A parlare sono le cifre, i dati dei sequestri e dei controlli delle forze dell’ordine su tutto il territorio regionale. Secondo l’attività dei Nas CC di Napoli, nel settore operativo “prodotti ittici” a Napoli e provincia sono state effettuate 80 ispezioni, riscontrate 121 infrazioni tra quelle penali ed amministrative. Sessanta le persone segnalate alle Autorità Penali ed amministrative, sequestrati oltre 436 t di prodotti ittici detenuti in cattivo stato di conservazione, privi delle prescritte indicazioni e sprovvisti di bolli sanitari per un valore delle merce sequestrata di 1.781.810 di euro.

Tra le principali operazioni effettuate ricordiamo quella del 20 marzo 2002 quando i Nas di Napoli, insieme a quelli di Bari, bloccarono un autofrigo proveniente dalla Grecia con 1.720 kg di orate commerciate per fresche, scongelate durante il viaggio e la cui provenienza era sconosciuta e destinata ad una ditta mai registrata presso i competenti uffici veterinari.

Dopo esattamente tre mesi i Nas di Napoli in collaborazione con i Carabinieri nel corso di servizi tesi a contrastare il fenomeno dell’illecita coltivazione di molluschi, localizzò nel tratto di mare tra Castellammare di Stabia e Torre del Greco, caratterizzato da un elevato indice di inquinamento, tre allevamenti abusivi che portarono al sequestro ed alla distruzione di 230 tonnellate di mitili.

La situazione più grave si è registrata soprattutto a Napoli, dove solo nel periodo tra marzo ed maggio 2002 sono state sequestrate dalla Nucleo di Polizia Giudiziaria della Guardia Costiera di Napoli, e dal personale dell’Asl Napoli Distretto 51, 1,5 tonnellate di prodotti ittici ed effettuati verbali amministrativi per quasi 165mila euro. Il 30 aprile 2002 oltre un quintale di prodotti ittici viene sequestrato in vari ristoranti e punti vendita dopo un’operazione del Nucleo di Polizia Giudiziaria della Capitaneria di Porto e guardia costiera di Napoli in collaborazione con Asl Napoli1-distretto 51. I controlli sono stati effettuati nei ristoranti di Via Costantinopoli, ai Colli Aminei, in Via Foria, a Sant’Erasmo.

Alla fine dell’anno, con l’avvicinarsi delle festività natalizie, il gruppo aeronavale della Guardia di Finanza di Napoli ha eseguito due distinte operazioni che hanno portato al sequestro di frutti di mare infetti e la repressione della pesca a strascico di novellame. Il sequestro di mitili, oltre 75 tonnellate, è avvenuto nello specchio di mare antistante il porto di Torre Annunziata. Nell'operazione sono stati impiegati militari del gruppo sommozzatori e tre unità navali, nonché un elicottero della sezione aerea di Napoli. Secondo le stime delle fiamme gialle i frutti di mare - coltivati in acque altamente inquinate – se immessi sul mercato avrebbero fruttato circa 550mila

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euro. Le unità navali della Guardia di Finanza, invece, hanno fermato nelle acque del litorale domizio, nelle vicinanze di Castelvolturno, un peschereccio che stava effettuando pesca a strascico sotto costa ad una profondità non consentita.

A Napoli, insomma più che di mucca pazza è lecito parlare di pesce pazzo e sono soprattutto i frutti di mare infetti a preoccupare. Spigole ed orate scongelate con acqua torbida, cozze e calamari decorati con spicchi di limone sulle bancarelle di mezza città, ma immersi in acqua di dubbia provenienza. E lo sfizio di regalarsi una spaghettata o magari la famosa “impepata” per i cittadini diviene un rischio. Infatti epatite A, quella alimentare, viene spesso associata al consumo di frutti di mare, che nella maggior parte dei punti di vendita cittadini, soprattutto abusivi, vengono sistemati in bacinelle piene d’acqua marina. Con questo procedimento che i pescatori chiamano “rinfrescata”, il prodotto - anche dopo il trattamento di purificazione effettuato in uno stabulario - ridiventa infetto se cozze, vongole, tartufi, fasolari vengono immesse in bacinelle piene di acqua di mare raccolta in zone in cui è vietata la balneazione. Gli ultimi preoccupanti dati raccolti dall’Asl Napoli 1, disegnano chiaramente un fenomeno in via di espansione: nel mese di giugno 2002 sono stati segnalati 19 casi di epatite A, il doppio rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Inoltre una recente indagine pubblicata lo scorso agosto dal quotidiano Il Mattino, registrava che il 60% delle famiglie campane consuma frutti di mare, e il 17% li consuma crudi. Su 300 persone intervistate nel corso della ricerca quasi il 95% è consapevole che mangiare i frutti di mare, specialmente crudi, significa rischiare delle malattie ed il 75% conoscono bene l’epatite A. A Napoli le zone a rischio per la vendita di prodotti ittici di dubbia provenienza sono localizzati a Porta Nolana, Porta Capuana, Lavinaio, Borgo Sant’Antonio Abate, Via Cinthia, Pianura ed Agnano. Secondo i dati SEIEVA (Sorveglianza Epidemiologica Integrata Epatite Virale Acuta) dell’Istituto Superiore della Sanità controllando il fattore di rischio "consumo frutti di mare", potrebbe essere evitato fino ad oltre il 40% dei casi di epatite.

Ma se Napoli piange, Salerno non ride. Infatti secondo i dati della Guardia di Finanza Comando operativo navale di Salerno al 31 maggio 2003 sono stati elevati 116 verbali, denunciate 72 persone sequestrate 71 reti di tipo strascico, spadare, 7.051 kg di prodotti ittici, 26kg di datteri, 308 attrezzature illegali tra nasse, siluri e fucili subacquei non in regola. Molti di questi interventi sono stati eseguiti nell’Area della Riserva Marina di Punta Campanella dove molte imbarcazioni sono state sorprese ad esercitare la pesca a strascico e la cattura con nasse di specie ittiche protette, nonché prodotti ittici sottomisura.

9.3.2 Il racket della banda del pesce O’ pesce fete da capa. Il pesce puzza dalla testa, soprattutto se è della

camorra. In Campania, precisamente a Castelvolturno e Pozzuoli le forze

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dell’ordine hanno scoperto il racket della banda del pesce. Lo vende direttamente il padrino stesso, il quale apre società di comodo, estorce gamberi, spigole ed orate ai pescatori, impone tasse. Per chi si ribella sono guai. Il primo episodio si registra a Castelvolturno, il 14 maggio 2003. Tre militari della Capitaneria di porto di Castelvolturno (Caserta) e un maresciallo della Guardia di Finanza di Napoli vengono arrestati dalla polizia con l'accusa di aver permesso di pescare in acque proibite ad alcuni pescatori di frodo legati alla camorra. Gli arrestati ricevevano in cambio una fornitura gratis di pesce. In manette sono finite complessivamente otto persone, su ordinanze di custodia cautelare ottenute dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, a seguito delle indagini del commissariato di Castelvolturno. Le accuse sono estorsione, incendio aggravato, corruzione e minacce. I marinai e il finanziere secondo la procura, prima di uscire in mare con le loro motovedette avvisavano i pescatori di frodo, permettendo loro di allontanarsi. In cambio ricevevano cassette di pesce fresco. L'attività dell'organizzazione, secondo gli inquirenti, sarebbe iniziata nei primi mesi del 2001 e avrebbe fruttato introiti per milioni di euro. Precisamente, le indagini erano iniziate due anni fa, a seguito dell'incendio di numerose imbarcazioni nel porticciolo di Castelvolturno. A dare un contributo fondamentale alle indagini sono state le denunce di alcuni pescatori che non volevano piegarsi alle minacce del racket. Minacce che, per telefono e a voce, parlavano chiaro: o pagate la tangente (250 euro per le barche grandi, 100 euro per le piccole, ogni mese) oppure vi roviniamo. Una vera e propria associazione che per anni hanno tenuto in scacco il porticciolo di Castelvolturno e guadagnato cifre altissime riempiendo le reti con la pesca a strascico, sistema tassativamente vietato dalla legge ma da loro praticato senza correre alcun pericolo. La banda del racket del pesce imponeva la sua legge su tutta l’economia del mare del litorale domizio e per i pescatori che non stavano al gioco, minacce e, quando non bastavano, l’incendio dello scafo, equivalente alla rovina economica. Stesso mese, stesso il giorno cambia solo il luogo: il mercato ittico di Pozzuoli. Sempre il 14 maggio grazie ad blitz anticamorra si effettuano 35 arresti. L’inchiesta è opera della Procura di Napoli, coordinata dal Procuratore Felice di Persia. Qui, tutti gli attori della vicenda facevano parte del racket: grossisti, dettaglianti, autotrasportatori. Mini tangenti quotidiane in contanti, o meglio, in molti casi in più cospicue cassette di pesce. Secondo l’indagine dei carabinieri tutte le operazioni erano in mano al boss del clan Longobardi, al quale spettava sempre l’ultima parola su tutto ciò che riguardava il mercato ittico di Pozzuoli. Secondo le indagini dei carabinieri, avallate da quelle della Procura, i Longobardi avevano acquisito il “controllo diretto” di 4 società e imponevano un’originale legge del pizzo: i rivenditori del mercato ittico erano costretti a consegnare ogni settimana una cassetta a testa di pesce dal valore di 250 euro. A Pasqua le cassette salivano a due. Inoltre anche i varchi di accesso erano controllati dalla cosca che imponeva a tutti i conducenti dei camion (più di 100 al giorno) di pagare una tassa di 5 euro all’uscita del mercato. E nella genialità napoletana, perfino i carabinieri che indagavano e che si erano finti autotrasportatori sono stati costretti a pagare il

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pizzo. I prodotti “regalati” o entravano in commercio o i boss li ridistribuivano agli affiliati o ad esponenti di clan collegati. E chi si ribellava al racket del pesce, come sempre, veniva punito.

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10. L’onda nera

Era stato salutato dalle stesse associazioni ambientaliste come l’accordo più avanzato in materia di trasporto di petrolio e sostanze pericolose che fosse stato mai sottoscritto. Stiamo parlando dell’accordo volontario siglato in extremis dall’ex Ministro dell’Ambiente Willer Bordon con il suo omologo ai Trasporti, Confindustria, Sindacati, associazioni ambientaliste, Assoporti ed altri soggetti, che prevedeva una serie di misure volontarie che l’industria italiana si era impegnata a rispettare ed un calendario di phasing out per l’eliminazione delle “carrette dei mari” che avrebbe anticipato di alcuni anni quanto previsto a livello internazionale. Per parte sua l’Amministrazione Centrale avrebbe provveduto a predisporre una serie di provvedimenti ed iniziative per facilitare le iniziative dell’industria. Il tutto con la benedizione di sindacati e associazioni ambientaliste.

In particolare l’accordo prevedeva l’anticipo di ben 4 anni delle scadenze fissate dall’Unione Europea e dall’OMI (Organizzazione Marittima Internazionale), per quanto riguarda l’eliminazione delle carrette dei mari. Tra i vari punti cruciali stabiliti nell’accordo, l’impegno da parte di armatori e utilizzatori di bandire entro il 31 Dicembre 2003, le navi preMarpol per il trasporto di greggio e entro il 31 Dicembre 2005 di preMarpol adibite al trasporto di sostanze pericolose. L’accordo prevedeva inoltre che l ’industria italiana inserisse nei contratti di noleggio la clausola che vieta il transito delle petroliere, qualunque sia la bandiera di appartenenza, nelle Bocche di Bonifacio, area di notevolissimo pregio naturalistico.

Finalmente, l’anno 2003 vede riapparire dai meandri del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio il famoso accordo volontario per la sicurezza ambientale dei trasporti marittimi di sostanze pericolose. Peccato però che ci sia voluto un ennesimo disastro ambientale come quello accaduto lo scorso novembre 2002 a seguito dell’incidente della petroliera “Prestige” per dare avvio agli impegni presi. E’ stato così istituito il comitato di monitoraggio che solo recentemente si è attivato e dal quale sono nati due sottogruppi che lavoreranno sulle seguenti tematiche:

- reception facilities; - formazione del personale.

Tra le iniziative già portate a termine e quelle ancora in corso d’opera e che ricadono nell’ambito dell’Accordo Volontario c’è per primo il Decreto Interministeriale contro le carrette del mare firmato il 21 febbraio 2003 dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti di concento con il ministro dell’Ambiente. Il provvedimento stabilisce il divieto di accesso ai porti italiani delle navi cisterna a scafo singolo con più di 15 anni e una portata superiore alle 5.000 tonnellate.

È in fase di ultimazione anche il decreto sui rifiuti che recepisce la Direttiva 2000/59/CEE previsto per lo scorso dicembre 2002 e che dovrebbe risolvere i problemi della raccolta degli slops delle petroliere.

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Sono invece in preparazione la proposta di istituzione di una PSSA nell’area delle Bocche di Bonifacio in sede OMI per vincolare il più possibile il transito delle petroliere in tale area e sono riprese le trattative nell’ambito dell’accordo trilaterale (italo-croato-sloveno) per la salvaguardia dell’Adriatico.

Ne sono passati 12, invece, di anni dall’incidente che ha portato all’affondamento della Haven e allo sversamento di decine di migliaia di tonnellate di idrocarburi nel mare Ligure. La carcassa della Haven giace tuttora sul fondo marino e tonnellate di catrame e petrolio ricoprono i fondali. Dieci anni dopo quello che è considerato il più grave disastro ambientale del Mediterraneo si sta cominciando a rimettere mano alle regole che governano il traffico marittimo petrolifero. Ci sono voluti altri incidenti, dalla Erika alla Ievoli Sun, perché l’Unione Europea cominciasse a prendere in considerazione la possibilità di dotarsi di una normativa più avanzata in questo settore, e perché l’OMI adattasse la normativa esistente per accelerare l’eliminazione delle petroliere substandard. Nonostante questi incidenti, il cosiddetto pacchetto normativo “Erika 1”, con misure mirate a rendere più sicuro il trasporto di prodotti petroliferi nei mari europei, si è dimostrato insufficiente. È stato necessario un nuovo incidente, quello della petroliera Prestige al largo delle coste della Galizia, perché sia la Comunità Europea che numerosi stati membri, tra cui l’Italia, adottassero misure ancora più stringenti per evitare l’accesso di navi sub-standard nei mari europei. 10.1 Alcuni dati sul bacino del Mediterraneo

Il mare Mediterraneo è un mare semi chiuso circondato da tre continenti, Europa, Asia ed Africa. Su di esso si affacciano oltre venti stati, di condizione politica, economica e sociale molto diversa per un totale di circa 450 milioni di abitanti, di cui un terzo abita nelle aree costiere. All’interno del bacino interagiscono numerosissime attività, sia i Paesi rivieraschi sviluppati sia quelli in via di sviluppo dipendono in gran parte dalle sue risorse. L’area totale è di 2.5 milioni di km, che costituisce lo 0,8% della superficie totale degli oceani. La lunghezza totale tra Gibilterra e la costa della Siria è di 3,800 chilometri e la larghezza massima tra Francia ed Algeria è di 900 km. La massima distanza di un punto dalla costa è di 370 km, ma oltre il 50% della superficie del Mediterraneo è a meno di 100 km dalla costa più prossima. La profondità media è di 1500 m, con punte di oltre 4000 m.

Negli ultimi decenni si è assistito ad un continuo flusso di nuovi abitanti lungo le coste. Questo trend è particolarmente evidente sulla riva nord, dove in certe aree il livello di urbanizzazione ha quasi raggiunto il 100%, come nell’area tra Mentone e Marsiglia in Francia, la riviera Ligure e la zona intorno a Napoli in Italia. Alla pressione abitativa, si deve poi aggiungere lo sviluppo del settore turistico. Il Mediterraneo è sempre stato una delle destinazioni preferite a livello mondiale: un terzo dei turisti mondiali, quasi 150 milioni di

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persone, sceglie annualmente il Mediterraneo come destinazione per le loro vacanze, attratto da mare, spiagge e sole.

La pesca nel Mediterraneo è ancora in gran parte portata avanti con metodi “artigianali ”,utilizzando imbarcazioni di piccole e medie dimensioni, e da pescatori individuali o in cooperative, con una produzione in gran parte indirizzata al mercato interno. Il settore della pesca è molto importante a livello sociale oltre che economico, in quanto da esso dipendono non solo i pescatori, ma anche gli occupati dei settori collegati della trasformazione, distribuzione e cosi via, con un rapporto tra gli addetti di quasi 1:2,5. Solo in Italia, il settore della pesca marittima in quanto tale occupa 43.757 addetti (dati dal VI Piano Triennale della pesca e acquacoltura 2000-2002), cui si devono aggiungere 17.000 addetti nei settori dell’acquacoltura, trasformazione e cantieristica, e circa 46.000 addetti nelle attività correlate (come ad esempio distribuzione, commercializzazione e servizi portuali),per un totale di occupati di circa 107.000 unità. In caso di incidenti con sversamento di idrocarburi, i danni subiti da queste attività pregiudicherebbero in maniera determinante la situazione economica di un altissimo numero di famiglie.

Operazioni Offshore Nel Mediterraneo esistono una serie di aree di piattaforma continentale piuttosto vaste, come l’Adriatico, che nella parte settentrionale non è mai più profondo di 200 metri, il Golfo del Leone, l’Egeo settentrionale e lo stretto di Sicilia. In queste aree sono già partite attività di esplorazione e sfruttamento delle risorse dei fondali, soprattutto gas, ma anche petrolio. Anche se queste attività sono limitate a poche aree, il rischio di impatti negativi sull’ambiente marino e sulle altre risorse ed attività economiche che vi si basano è comunque molto alto, ed aumenta con lo sviluppo di tali attività. Allo stato attuale, sono attive oltre 100 piattaforme offshore nelle acque italiane, greche, libiche, spagnole, turche e tunisine. Trasporto Marittimo Fin dall’apertura del Canale di Suez, il Mediterraneo è tornato alla ribalta come canale preferenziale per il trasporto di merci di ogni genere. Ogni anno il bacino è attraversato da centinaia di navi che trasportano merci di ogni genere, dal petrolio greggio alle merci manufatte. Ma è il trasporto di petrolio greggio e dei prodotti della raffinazione che rappresenta la voce principale del trasporto marittimo nel Mediterraneo.

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Il traffico marittimo di idrocarburi A livello mondiale il petrolio è la merce maggiormente trasportata via mare. Secondo fonti EUROSTAT e OECD/IEA, nel 1998 sono stati trasportati via mare petrolio greggio e prodotti della raffinazione per un totale di 2.000 milioni di tonnellate che in termini di peso rappresentavano il 40%dell’intero trasporto via mare. Il trasporto di greggio rappresenta tre quarti del trasporto mondiale di prodotti petroliferi (1.590 milioni di tonnellate), mentre i prodotti raffinati sono il restante quarto (430 milioni di tonnellate). Traffico marittimo mondiale di materie prime (1995) Materia prima Totale trasportato (milioni di tonnellate) Petrolio greggio 1.415 Carbone 423 Minerali di ferro 402 Granaglie 196 Fonte: Confitarma Le vie di traffico principali sono quelle che vanno dai paesi produttori, dal Medio Oriente e Golfo Persico, verso Asia, Europa e Stati Uniti, dal Nord Africa verso l ’Europa, e dai Carabi verso gli Stati Uniti. Lungo queste direttrici il petrolio prodotto in Africa occidentale e nel mare del Nord viene trasportato in navi di 130-150000 tonnellate (cosiddette Suezmax),quello prodotto dai Paesi Arabi è trasportato in VLCC di dimensioni superiori alle 250.000 t, mentre dai Caraibi, dal Mediterraneo e dal Mar Nero il greggio è trasportato in navi di 80-100,000 tonnellate (cosiddette Aframax). Nel caso di trasporto intraregionale, come quello che si svolge all’interno del Mediterraneo, le navi utilizzate superano raramente le 50,000 tonnellate. La flotta mondiale di petroliere e chimichiere è composta da 8.720 navi per un totale di 324,340,718 tonnellate di stazza lorda (dati OMI).Di queste 1.780 sono petroliere e 6.940 trasportano invece prodotti raffinati. Da notare comunque che al maggior numero di chimichiere non corrisponde una stazza complessiva più elevata, in quanto le petroliere sono generalmente di maggiori dimensioni. Secondo stime recenti, più del 60% della flotta circolante ha più di 17/18 anni di età, mentre sarebbe addirittura del 90% la percentuale delle grandi petroliere (con stazza superiore alle 200.000 tonnellate) che hanno superato i 16 anni di età. Una situazione oltremodo allarmante, se si considera che una petroliera dovrebbe essere avviata al disarmo tra i 15 e i 20 anni di età. Il traffico di petrolio all’interno dell’Unione Europea rappresenta il 27% del traffico mondiale ed il 90% del trasporto di petrolio viene effettuato via mare, mentre gli Stati Uniti da soli importano il 25% del totale. Il traffico petrolifero nel Mediterraneo, che costituisce lo 0,8% della superficie delle acque mondiali, rappresenta più del 20%del traffico mondiale marittimo

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del petrolio, ed ammonta a 370 milioni di tonnellate annue (fonte Rempec), di cui:

300 milioni entrano nel Mediterraneo diretti verso Paesi del bacino stesso 180 milioni di tonnellate di petrolio greggio e condensato partono dal

Medio Oriente (125 milioni di tonnellate attraverso il Canale di Suez e la condotta di Sumed, 50 milioni attraverso il Bosforo, e 5 milioni dalla Turchia) principalmente verso l’Italia;

100 milioni di tonnellate di petrolio greggio e condensato partono dal Nord Africa (60 milioni dalla Libia, 40 milioni dall’Algeria) principalmente verso la Francia;

20 milioni di tonnellate partono da Paesi mediterranei verso altri Paesi del bacino (8 milioni di prodotti della raffinazione dalla Francia all’Algeria).

20 milioni di tonnellate lasciano il Mediterraneo, 10 milioni attraverso lo stretto di Gibilterra (prodotti raffinati, soprattutto

in partenza dalla Francia);

10 milioni attraverso il canale di Suez (prodotti raffinati).

40 milioni di tonnellate attraversano il Mediterraneo 20 milioni di petrolio greggio e condensato partono dal Mar Nero

attraverso il Bosforo e lo stretto di Gibilterra

20 milioni dall’Egitto (canale di Suez e condotta di Sumed) e attraverso lo stretto di Gibilterra.

In media, 250-300 petroliere sono in circolazione nel Mediterraneo ogni

giorno su un totale di circa 2000 navi di stazza superiore alle 100 tonnellate GDT.

Dal 1996 per effetto della MARPOL, le navi cisterna devono essere costruite con scafo doppio o con tecnologia equivalente, mentre quelle monoscafo andranno gradualmente dismesse.

La MARPOL però non fissa una tempistica rigorosa e celere per l’eliminazione delle petroliere monoscafo. Dati INTERTANKO danno al 1 gennaio 2000 una percentuale di cisterne a doppio scafo in servizio nel mondo del 20,8%,che sale al 42,8%per i tankers tra le 80.000 e le 200.000 tonnellate ed al 33.3%per quelli superiori alle 200.000 tonnellate, percentuale che in Mediterraneo sembra essere molto più bassa.

L ’Oil Polluction Act americano del 1990, approvato in seguito al disastro dell’Exxon Valdez, e che stabilisce un calendario per vietare totalmente l’accesso nelle acque territoriali americane alle petroliere monoscafo, ha iniziato a concentrare la parte più vecchia della flotta cisterne, che non potrebbe più accedere ai porti americani, verso le destinazioni asiatiche o mediterranee. Solo poche petroliere a doppio scafo agiscono

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abitualmente nel Mediterraneo, sulle 250-300 giornaliere con stazza lorda oltre le 100 GRT. Traffici di idrocarburi nel Mediterraneo (2003). Principali porti e rotte1

Porti principali Porti di medie dimensioni. Porti di piccole dimensioni. Porti minori.

Nel 1998 (fonte UPI)sono transitate nei porti Italiani 123.800.000 di tonnellate di petrolio greggio,in gran parte movimentate nei porti dell ’Adriatico.Nel 1999 (fonte U.P.I.)sono state importate nel nostro paese 80.369.000 tonnellate di greggio,con una movimentazione di circa 2.000.000 di barili al giorno,di cui il 65%nei porti maggiori.

Nell’anno 2002 sono stati movimentati nei principali porti italiani circa 170.000.000 di idrocarburi di cui la metà in Adriatico. Rischio in Alto Adriatico

L’alto Adriatico è già interessato da un alto traffico di petroliere (circa 400 ogni anno) e da una movimentazione di idrocarburi che ammonta a circa 65 milioni di tonnellate annue. Già nel 1998 e poi nel 2000, in occasione della Conferenza internazionale dell'Alto Adriatico (Ancona) si era richiesto il riconoscimento formale dell'Adriatico come "Area Marina Particolarmente Sensibile "(PSSA) ai sensi della Risoluzione IMO A.927(22). Ad oggi ancora tutto tace e anzi il pericolo sembra aumentare nel prossimo futuro a seguito dell'attuazione del progetto «Druzb-Adria». Tale progetto consiste nel 1 Fonte: IHO, sito: http://www.iho.shom.fr/ECDIS/WebCatalogue/routs.htm

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potenziamento del già esistente oleodotto di proprietà della società Janaf che alimenta la raffineria nell’isola di Veglia per far giungere a Fiume il del petrolio estratto dal Mar Caspio e dal bacino caucasico.

Le prime stime parlano di quantitativi iniziali di circa 5.000.000 di tonnellate annue che però andranno man mano aumentando fino ad arrivare a circa 20-25.000.000 di tonnellate incidendo pesantemente sul traffico annuo di petroliere in Adriatico. 10.2 Gli incidenti

Secondo una definizione del GESAMP, l’inquinamento marino è l’“Introduzione diretta o indiretta da parte umana, di sostanze o energia nell’ambiente marino...che provochi effetti deleteri quali danno alle risorse viventi, rischio per la salute umana, ostacolo alle attività marittime compresa la pesca, deterioramento della qualità dell’acqua per gli usi dell’acqua marina e riduzione delle attrattive ”

Si possono quindi inquadrare tre differenti tipi di inquinamento: - inquinamento sistematico :causato dall’immissione continua nel tempo di

inquinanti (scarichi fognari, reflui industriali, dilavamento terreni, e così via);

- inquinamento operativo: causato dall’esercizio di natanti (lavaggio cisterne, scarico delle acque di zavorra e di sentina, ricaduta fumi, vernici antivegetative e così via);

- inquinamento accidentale: causato da incidenti: naufragi, operazioni ai terminali, blow-out da piattaforme, rottura condotte);

Secondo fonti OMI tra le fonti di inquinamento delle acque marine solo il 23%sono costituite da sorgenti marine e tra queste la percentuale del 12% è quella legata all’inquinamento dovuto al trasporto marittimo, il resto è dovuto a cause di origine terrestre, ad attività di dumping e off-shore ed al trasporto aereo.

Principali sversamenti di petrolio in mare DATA LOCALITA' NAVE SVERSAMENTI (t) Luglio 1979 Trinidad Atlantic Express 276.000 Novembre 1987 Iran Fortuneship 260.000 Maggio 1991 Angola Abt Summer 260.000 Marzo 1978 Francia Amoco Cadiz 228.000 Settembre 1985 Iran Son Bong 200.000 Agosto 1983 Sud Africa Castillo de Belver 190.000 Aprile 1991 Italia Haven 144.000 Maggio 1988 Iran Barcelona 140.000 Novembre 1991 Terranova Odissey 140.000 Marzo 1967 Gran Bretagna Torrey Canion 121.000 Dicembre 1972 Golfo di Oman Sea Star 115.000

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Febbraio 1980 Grecia Irenes Serenade 102.000 Maggio 1976 Spagna Urquiola 101.000 Luglio 1985 Iran M.Vatan 100.000 Febbraio 1977 Pacifico del Nord Hawaian Patriot 95.000 Novembre 1979 Bosforo Independenta 95.000 Gennaio 1993 Gran Bretagna Braer 85.000 Dicembre 1987 Oman Norman Atlantic 85.000 Gennaio 1975 Portogallo Jacob Maersk 84.000 Dicembre 1992 Spagna Aegeum Sea 80.000 Dicembre 2002 Spagna Prestige 77.000 Agosto 1979 India World Protector 70.000 Dicembre 1985 Iran Nova 70.000 Dicembre 1989 Marocco Khark V 70.000 Febbraio 1971 Sud Africa Wafra 63.000 Febbraio 1996 Gran Bretagna Sea Empress 60.000 Maggio 1983 Iran Panoceanic Fama 60.000 Febbraio 1985 Iran Neptunia 60.000 Maggio 1975 Porto Rico Epic Colocotroni 57.000 Dicembre 1960 Brasile Sinclail Petrolone 56.000 Gennaio 1983 Oman Assimi 54.000 Agosto 1974 Stretto di Magellano Metula 53.000 Novembre 1974 Giappone Yuyo Marn 50.000 Ottobre 1987 Iran Shinig Star 50.000 Maggio 1988 Iran Seawise Geant 50.000 Dicembre 1978 Spagna Andros Patria 47.000 Dicembre 1983 Qatar Pericles G C 46.000 Giugno 1968 Sud Africa World Glory 45.000 Gennaio 1975 Nord Pacifico British Ambassade 45.000 Aprile 1979 Francia Gino 42.000 Febbraio 1968 Oregon Mandoil 2 40.000 Gennaio 1975 Delaware Corinthos 40.000 Dicembre 1978 Stretto di Hormuz Todotzu 40.000 Novembre 1979 Texas Burmah Agate 40.000 Giugno 1973 Cile Napier 38.000 Dicembre 1982 Iran Scapmount 37.000 Marzo 1989 Alaska Exxon Valdez 35.000 Dicembre 1999 Francia Erika 31.000

Fonte:Bilardo e Mureddu 1992,Intertanko, ITOPF (2002)

Nel Mediterraneo, secondo le statistiche OMI, la percentuale degli inquinamenti da idrocarburi dovuti a sversamenti da navi è del 10%. Si tratta ovviamente di statistiche relative agli sversamenti accidentali che non tengono conto delle operazioni illegali, quali il lavaggio delle cisterne. Secondo una stima dell’Unione Petrolifera il Mediterraneo riceverebbe ogni anno circa 1 milione di tonnellate di idrocarburi provenienti da varie fonti (sversamenti intenzionali e accidentali, fonti endogene, apporto dai fiumi, ecc.).

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Analizzando le cause di questi incidenti, è possibile riscontrare che per il 64%dei casi esse sono imputabili ad errore umano, il 16% a guasti meccanici ed il 10% a problemi strutturali della nave, mentre il restante 10% non è attribuibile a cause certe.

Per avere un quadro più vicino alla realtà bisogna tenere presente come la gran parte delle percentuali attribuibili agli errori umani e alle cause non determinate possono senz’altro essere ascritte ai problemi connessi alla presenza di vecchie imbarcazioni con equipaggi improvvisati e impreparati che percorrono in gran numero il Mediterraneo.

Secondo statistiche elaborate dall’ITOPF, l’associazione di categoria dei trasportatori di idrocarburi, le cause degli sversamenti si manifestano secondo le seguenti proporzioni: - durante le operazioni di carico e scarico circa il 35%, - durante il bunkeraggio circa il 7%, - per collisioni circa il 2%, - per arenamento circa il 3% - per falle nello scafo circa il 7%, - in seguito a incendi o esplosioni (come nel caso della Haven) per il 2%, - per altre cause non meglio determinate il 29%, - per altre operazioni di routine il 15%.

Nel 1999 sono stati compiuti oltre 100 interventi per oil spill superiori alle 500 tonnellate, un record per gli ultimi anni. Di questi, una consistente parte è avvenuta in Mediterraneo. La media annuale di spill superiori a 500 tonnellate si aggira per il nostro bacino sulle 21.000 tonnellate annue.

Negli ultimi 20 anni, oltre 600.000 tonnellate di idrocarburi sono state sversate in mare in seguito a tre soli incidenti, per un totale del 75%della quantità totale (Cavo Cambanos nel 1981, Sea Spirit ed Hesperus nel 1990, Haven nel 1991). Dati REMPEC.

Per quanto rilevanti tuttavia, gli sversamenti accidentali dovuti ad idrocarburi, rappresentano solo una piccola quota del totale degli scarichi dovuti al traffico marittimo. La maggior parte di essi infatti, dall’80 al 95% a seconda dei criteri di stima è infatti determinata da operazioni di routine, in particolare dallo zavorramento e dal lavaggio delle cisterne, con uno spill medio a livello mondiale, valutabile da 8 a 20 milioni di barili, con 1 milione di barili nel solo Mediterraneo.

Cosa sarebbe successo se un incidente come la Prestige fosse accaduto nel Mediterraneo? L’inquinamento, già catastrofico sulle coste atlantiche, sarebbe risultato decisamente drammmatico nel nostro mare. A parte le conseguenze prettamente ambientali di un incidente del genere, non è da escludere che difficoltà di gestione dell’incidente simili a quelli sorti in Spagna, potessero ripresentarsi anche in Italia e altri paesi del Mediterraneo. Spesso infatti, la responsabilità per la gestione delle varie attività relative al mare e alle coste, le aree più soggette alle conseguenze negative degli sversamenti, è suddivisa tra numerosi amministrazioni, sia locali che centrali, e spesso le attribuzioni non sono chiaramente ripartite. Nell’esempio italiano,

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(vedi tabella in calce) sono indicate in maniera sommaria le varie attribuzioni delle amministrazioni italiane nelle aree marine e costiere:

Amministrazioni responsabili per attività collegate al mare e alle coste2

MD

MT

AP

SI

MA

MPu

MS

ASL

MI

R

P

C

Navigazione R P R G M Pesca P R M P Porti commerciale/industriali

P R C

G R

Porticcioli P R R P P G Qualità dell’acqua

M R M R M M P R G C

Scarichi urbani e rurali

R R M P M G C

Scarichi industriali

G R M

Eutrofizzazione M M P M G

M

Erosione costiera

M P C P G C

Turismo R G M R P G R Urbanizzazione M M P R M G C Parchi e Riserve P R P R

G G G M

Siti archeologici R P R G M Usi militari P R

C G

Mappature M P G M

Attività offshore

R G P R

Abbreviazioni delle Amministrazioni governativeMD Ministero della Difesa MPu Ministero dei Lavori Pubblici MT Ministero dei Trasporti e Navigazione MA Ministero dell’Ambiente e Tutela del Territorio MI Ministero dell’Industria e delle Attività Produttive MS Ministero della Salute ASL Agenzie Sanitarie Locali AP Autorità portuali SI Servizio Idrografico R Regioni P Province C Comuni

Abbreviation of responsibilitiesP Pianificazione G Gestione M Monitoraggio R Regolamentazione C Costruzione

Della Mea2003, adattato da scritti precedenti.

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Il numero di agenzie governative che si occupano di gestione delle aree marine e costiere italiane include una mezza dozzina di ministeri, che delegano parte delle loro responsabilità ad una serie di agenzie ed uffici locali. Parte delle responsabilità, per via del processo di devoluzione delle responsabilità di gestione, dipende dalle autorità regionali o locali. Alcune delle agenzie responsabili per il monitoraggio e la ricerca su alcune attività marine e costiere sono oltre a tutti collegate sia alle amministrazioni centrali che a quelle locali, come le ASL, che conducono il monitoraggio della qualità delle acque, che sono uffici locali del ministero dell’ambiente ma dipendono e sono collegate alle regioni.

Una ulteriore complicazione è anche dovuta ai movimenti interni all’amministrazione centrale dei dipartimenti interessati alla gestione delle attività marine e costiere. Con il cambio di governo, o il trasferimento di uffici da un ministero all’altro, cambiano radicalmente sia gli orientamenti politici che le competenze specifiche di dipartimenti chiave.

Inoltre, varie agenzie e dipartimenti con compiti affini operano sotto diverse amministrazioni centrali. In teoria dovrebbero collaborare tra di loro, ma in realtà si assiste più spesso ad una sovrapposizione di competenze. L’esempio più lampante è la gestione della sicurezza in mare. Nei mari italiani operano cinque differenti forze di polizia: la Marina Militare (sotto il Ministero della Difesa), la Guardia Costiera (Ministero delle Infratsrutture), la Guardia di Finanza (Ministero dell’Economia), la Polizia (Ministero dell’Interno) e i Carabinieri (Ministero della Difesa). Di queste, la Marina si occupa di vigilanza al di fuori del mare territoriale, mentre gli altri hanno compiti complementari nelle acque italiane. A queste cinque forze di polizia vanno poi aggiunte, con compiti più settoriali, i vigili del fuoco, la guardia carceraria e la guardia forestale. Ovviamente, tradizionali rivalità di corpo e difficoltà di districarsi nella selva di normative nel campo della sicurezza in mare, limitano in maniera significativa la collaborazione fra questi corpi.

L’incidente della petroliera Prestige ha dimostrato ancora una volta l’importanza di una risposta pronta ed efficace in caso d’emergenza. Ma ciò è possibile solo se si dispone di piani d’intervento precisi, dettagliati e aggiornati. In Italia le responsabilità amministrative tra intervento a mare e intervento sulla costa sono distinte; l’intervento a mare spetta alla Direzione Difesa Mare del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, mentre l’intervento lungo la fascia costiera spetta invece alla Protezione Civile. I piani di emergenza utilizzati da entrambi in caso di inquinamento o di imminente pericolo di inquinamento delle acque del mare causato da immissioni, anche accidentali, di idrocarburi o di altre sostanze nocive, non sono in linea con la Convenzione sulla preparazione, la risposta e la cooperazione in materia di inquinamenti da idrocarburi (OPPRC’90) in quanto gli ultimi aggiornamenti risalgono al 1988. Tale Convenzione è stata ratificata con legge n. 464 del 15 dicembre 1998 e ad oggi ancora non sono pronti i cosiddetti Contingency Plans, nazionale e regionale, basati su studi di vulnerabilità delle coste, l’individuazione delle aree più sensibili e delle possibili zone di stoccaggio del

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materiale recuperato a seguito di uno sversamento. Inoltre, un altro punto fondamentale è la formazione in materia di preparazione e di lotta contro l’inquinamento da idrocarburi e l’acquisizione, lo stoccaggio e la disponibilità di materiale per contrastare un inquinamento da idrocarburi.

Densità del catrame pelagico negli oceani mondiali

Mare Catrame trovato in media (mg/m 3 )

Mediterraneo 38 Mar dei Sargassi 10 Sistema giapponese 3,8 Corrente del Golfo 2,8 Atlantico nord-occidentale 1 Golfo del Messico 0,8 Caraibi 0,6 Pacifico nord orientale 0,4 Pacifico sud occidentale <0,01

Fonte: Bilardo e Mureddu 10.3 Inquinamento da petrolio, cause ed effetti sull’ambiente 10.3.1 Le ultime onde nere

Si dice che il petrolio sia come il maiale, non si butta via nulla. Ogni

prodotto, ogni residuo di raffinazione trova un suo utilizzo, anche l’ultimo scarto della lavorazione, dopo che al greggio sono state tolte tutte le sostanze nobili, gli aromatici, quelle più volatili per produrre oli e benzine. Alla fine del processo rimane una poltiglia densa e nera, piena di asfalteni, sostanze pesanti e zolfo.

In molti paesi questa specie di catrame è considerato un rifiuto tossico nocivo, da smaltire separatamente, in altri invece è considerato un combustibile che è ancora possibile utilizzare per alimentare le centrali elettriche. Questa roba è fuoriuscita dalle cisterne della Prestige e ha imbrattato le coste della Galizia. E questa stessa roba era nelle stive della Erika, la carretta diretta alla centrale Enel di Piombino che si inabissò tre anni fa davanti alle coste della Bretagna. E sempre questa “robaccia” era quella trasportata dalla Baltic Carrier, la petroliera coinvolta in un incidente nel mar Baltico nel marzo del 2001.

Coincidenze? Solo in parte, ma è utile prenderle in considerazione e non trattarle solo come tali se si vuole tentare di risalire all’individuazione delle cause degli incidenti. C’è un problema di vettori, cioè di affidabilità delle navi, c’è un problema di manutenzione e di controlli, c’è un problema di coperture assicurative e responsabilità e c’è anche un problema connesso al

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tipo di sostanza che si trasporta. E’ evidente che ognuno di questi problemi è strettamente intrecciato con gli altri e non è pensabile risolvere la complessità della questione dando risposte settoriali.

E’ un caso che negli incidenti più significativi degli ultimi tre anni in acque europee la sostanza sversata sia stata sempre la stessa: olio combustibile denso, o olio pesante se preferite, o fuel 2 se si vuole usare un gergo appena più tecnico, una sorta di bitume nero e denso che va tenuto costantemente caldo per evitarne la solidificazione.

L’incidente della Prestige ha nuovamente dimostrato come le catastrofi ambientali dovute ad incidente sono soprattutto causate da errore umano. E non solo dall’imperizia dei comandanti o degli equipaggi delle navi ma anche, e purtroppo, delle autorità a terra che spesso sottovalutano o valutano in maniera errata il rischio ambientale di determinate azioni o che preferiscono soluzioni di breve periodo, spesso con risultati opposti al previsto. La Prestige era una nave preMARPOL, costruita nel 1976. Come nel caso della Erika, la Prestige trasportava un carico di 77.000 tonnellate di olio combustibile pesante ed era tenuta in pessime condizioni.

Il 14 Novembre 2002, durante una tempesta al largo delle coste spagnole della Galizia, la Prestige subì una frattura nello scafo. Inizialmente non avvenne nessuno sversamento. Le autorità spagnole, nonostante la nave fosse relativamente vicina a terra, e nonostante il maltempo, rifiutarono l’avvicinamento a terra della nave e ordinarono di allontanarsi. Cinque giorni dopo, la Prestige si spezzava in due e colava a picco con 53.000 tonnellate di idrocarburi pesanti e olio combustibile. La decisione delle autorità spagnole, presa in nome della difesa delle zone di pesca della Galizia, si è rivelata in realtà profondamente sbagliata investendo con l’olio sversato una fascia di litorale estremamente più ampia e coinvolgendo addirittura le coste francesi.

Centosessanta dollari a tonnellata, tanto costava l’olio pesante imbarcato dalla Prestige in Lituania, 40 dollari in meno di quanto costava a Singapore, destinazione finale del carico e la ragione del viaggio è tutta nella differenza fra queste cifre. C’era quindi un margine di guadagno ancora significativo, soprattutto se si considera che il nolo della nave avrebbe inciso per nove dollari a tonnellata. Se ci si fosse affidati ad una nave a doppio scafo il margine di guadagno si sarebbe considerevolmente ridotto e quindi, per spuntare qualche dollaro in più nel trasporto di una sostanza così poco preziosa non rimaneva che affidarsi ai vettori più economici, le carrette appunto.

Quella affondata nelle acque della Galizia batteva bandiera delle Bahamas, ma apparteneva a una società liberiana di un armatore greco che la gestiva tramite un’altra società liberiana, insomma il solito complesso gioco di scatole cinesi che si rivela utilissimo, guarda caso, proprio in caso di affondamento della nave: per i danni da pagare la società risponde con i propri beni e in questo caso l’unico bene della società ora è spaccato in due tronconi a 3.500 metri in fondo all’oceano.

Da lì trafila lentamente e inesorabilmente l’olio pesante, in lunghe scie nere che risalgono fino alla superficie, viaggiano sulle onde fino ad arrivare

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sulla costa. Recuperare questa roba è un problema, come hanno potuto fare esperienza i volontari di Legambiente impegnati sin da subito nell’opera di pulizia e di solidarietà alle persone colpite dall’evento. E’ un problema sia in acqua che sulle spiagge: intasa i tubi delle pompe aspiratrici, si mischia all’acqua formando un composto di consistenza simile al chewing gum, il “chapapote”, come lo hanno soprannominato i galiziani, una sostanza che costa poco e inquina tantissimo, molto più del greggio che sarebbe stato più facilmente recuperabile. E a rispondere del danno alla fine non sarà chiamato nessuno: il comandante avrà fatto qualche giorno di prigione, l’assicurazione coprirà secondo i massimali previsti, la società liberiana dichiarerà fallimento e il danno ambientale rimarrà scoperto. E anche il noleggiatore della nave sarà risarcito della perdita del carico, nonostante si possa considerare uno dei soggetti più responsabili.

Ora l’Unione Europea chiede agli stati membri di inasprire le misure adottate all’indomani dell’affondamento della Erika. Triste destino della normativa in materia di sicurezza marittima: è sempre un incidente che determina l’inasprimento delle misure. A cominciare da quello del Titanic che migliorò la sicurezza nel settore del trasporto passeggeri, fino ai pacchetti Erika 1 e 2, voluti dall’Unione Europea dopo l’incidente nella Manica, passando per l’incidente in Alaska della Exxon Valdez che portò all’approvazione dell’Opa 90, la normativa che ha reso più dura la vita delle carrette in prossimità delle coste americane. Non a caso proprio la Prestige tra il febbraio del 1997 e il giugno del 1999 aveva subito ben dieci ispezioni nei porti americani fino a quando, verosimilmente vessato dalle ispezioni della guardia costiera americana, l’armatore non decide di spostare la sua nave verso altri mari. Una sola ispezione il primo settembre del 1999 a Rotterdam, poi più nulla fino al giorno dell’affondamento. Per una carretta dei mari viaggiare eludendo le maglie dei controlli previsti dal Memorandum di Parigi non è difficile, basta fare scalo nei porti degli Stati che non hanno ratificato quell’accordo, per esempio Gibilterra, la tappa mai raggiunta dalla Prestige, o fare scalo nei porti minori confidando nelle maglie larghe dei controlli. A Kalamata, nel settembre 2002, la Prestige fu “graziata” per … mancanza di tempo.

E può succedere anche che la Prestige, quella che per tutti ora è la “carretta” per antonomasia, superasse indenne solo pochi mesi prima dell’incidente la verifica annuale dell’American Bureau of Shipping, il severo e qualificato registro navale americano, società di certificazione scelta dall’armatore greco per la sua nave. Stessa sorte era toccata alla Erika, la nave con bandiera maltese, gestita da un armatore italiano, ma noleggiata da una società delle Bahamas con sede in Svizzera e certificata dal Rina, il nostro registro navale.

Anche in quel caso fu un cedimento strutturale alla fine che determinò l’affondamento della nave. Navi che si spaccano in due, strutture che dovrebbero reggere a qualsiasi sollecitazione e a qualsiasi condizione meteomarina e che invece, senza neanche collidere con altre navi, vengono spaccate dalla forza delle onde. Secondo i dati dell’Intertanko, l’associazione

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internazionale dei proprietari indipendenti di navi cisterna, tra il 1995 e il 2001 si sono spezzate o sono andate vicino alla rottura oltre 400 petroliere e per la metà di queste si parla sempre di “cedimenti strutturali”. Una coincidenza? Può darsi, anche in questo caso, ma proprio l’American Bureau of Shipping, il registro navale americano, ha parlato per primo di una sorta di “corrosione iperaccelerata”, che la stampa ha provveduto prontamente a ribattezzare “super ruggine”. L’episodio è stato recentemente rilanciato dalla rivista L’Internazionale che in un articolo cita un documento dell’Abs secondo il quale la velocità di corrosione dell’acciaio della Castor, una petroliera che aveva evidenziato una serie di crepe sospette, procedeva alla velocità di 0,71 mm all’anno, ben sette volte la velocità prevista.

Per la Prestige si è parlato di un acciaio di scarsa qualità prodotto in Corea, poi dei sistemi di zavorra segregata che avrebbero contribuito a ridurre la solidità strutturale della petroliera, ma è anche vero che le petroliere, soprattutto quelle vecchie come la Prestige o la Erika, negli ultimi anni della loro vita cambiano velocemente proprietario. E chi investe su una petroliera vecchia, che dopo qualche anno sarà destinata al disarmo, difficilmente si preoccuperà della sua manutenzione. Più verosimilmente l’armatore sarà impegnato a ricavare il maggior rendimento economico facendo viaggiare il più possibile la nave e sfruttandola al massimo.

Per la Erika si parlò anche dei lavori che erano stati realizzati per allungare la nave, che ne avrebbero compromesso la solidità. C’è anche chi sostiene che la causa di questi incidenti vada ricercata nella decisione di affrontare condizioni meteomarine particolarmente sfavorevoli pur di risparmiare qualche giorno nei tempi di consegna. Anche un solo giorno di sosta vuol dire centinaia di milioni di vecchie di lire di mancato guadagno, tanto che è diffusa la pratica di eseguire gli stessi lavori di manutenzione con la nave in navigazione. In condizioni meteomarine così proibitive il comando della nave deve essere superefficiente, per non rischiare di prendere il mare nella maniera peggiore per la tenuta della nave. Se poi diventa ingovernabile i rischi della rottura diventano inevitabili. In questo caso il problema è la discrezionalità del comandante, cui spetta l’ultima parola nella decisione di prendere o meno il mare. Se si considerano gli effetti che questa decisione può comportare dal punto di vista ambientale, forse non si deve considerare un eccesso di potere delegare questa decisione alle locali autorità.

E sarebbe sciocco pensare infine che la soluzione tecnologica possa risolvere il problema una volta per tutte. La Baltic Carrier, la petroliera al centro della collisione nel mar Baltico del marzo 2001 era uscita dal cantiere appena l’anno prima con tanto di doppio scafo che non ha impedito lo sversamento di 2700 tonnellate del solito olio combustibile.

Bisogna quindi rassegnarsi a convivere con il rischio di incidenti? Più che altro bisogna convincersi ad affrontare un problema complesso che pretende risposte differenziate: più controlli, più tecnologia, meno discrezionalità per il comandante della nave, coperture assicurative più

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adeguate ai danni causati e coinvolgimento nella responsabilità anche da parte degli acquirenti del carico.

Ora l’Unione Europea sta cercando di correre ai ripari invitando gli Stati membri ad inasprire i controlli nelle proprie acque territoriali e varando misure più severe in particolare per il trasporto di olio pesante. L’Enel, il nostro ente elettrico nazionale, è il principale importatore di olio combustibile al mondo. L’Erika era diretta alla centrale di Piombino e portava fuel 2 acquistato dalla Totalfina. Armatori, registri navali, comandanti, ma in realtà i veri “market maker” sono loro, le società petrolifere e le aziende elettriche, grandi produttori e grandi consumatori, sono loro che determinano il mercato dei noli e, di conseguenza, fanno cadere la loro scelta, a seconda del periodo e dell’attenzione dell’opinione pubblica, sui vettori più o meno economici. Riusciranno le nuove misure degli stati nazionali e dell’Unione Europea ad avere ragione del mercato?

Il nostro paese è il più esposto sia per la configurazione geografica sia per le quantità di sostanze importate. I problemi relativi agli sversamenti di petrolio e di sostanze pericolose in genere sono tanti, e più ancora sono gli attori coinvolti nel settore del trasporto di idrocarburi: governanti, noleggiatori, armatori, comandanti, autorità portuali e così via. Ma sarebbe opportuno che le comunità locali, proprio quelle che sopporteranno per decenni i danni da sversamenti, entrassero a pieno titolo sulla scena prima che avvenga l’irreparabile, prima dell’incidente insomma. Gli amministratori locali, gli operatori del mondo della pesca, ma anche i bagnanti o i semplici cittadini che hanno tutto il diritto di godere del proprio tratto di litorale, così come lo hanno sempre conosciuto, devono farsi sentire in tutte le sedi, per reclamare e pretendere sicurezza e garanzie, per dire con forza, come hanno fatto centinaia di migliaia di manifestanti scesi in piazza all’indomani dell’incidente della Prestige, “nunca mais marea negra”.

La maggioranza degli sversamenti accidentali di idrocarburi si ha in seguito all’arenamento (grounding) della nave. È proprio in seguito a questa constatazione che negli anni ottanta e novanta fu sviluppato il sistema del doppio scafo come mezzo più sicuro per evitare lo sversamento degli idrocarburi direttamente in mare in caso di arenamento o collisione. Il doppio scafo infatti, pur non aumentando in assoluto la sicurezza della navigazione, minimizza gli effetti negativi in caso di incidente, garantendo la presenza di uno strato intermedio tra le cisterne e l ’esterno, per evitare che l ’eventuale scontro causi la dispersione in mare di tutto il carico.

Nella grande maggioranza dei casi, gli incidenti sono generalmente imputabili ad errore umano, come evidenziato nel grafico seguente:

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Il Mediterraneo: cause di sversamenti accidentalidi idrocarburi da navi cisterna

1 6 %

6 4 %

1 0 % 1 0 %

P r o b l e m i s t r u t t u r a l i d e l l a n a v e

G u a s t i m e c c a n i c i

E r r o r i i m p u t a b i l i a l l ' e l e m e n t o u m a n o

C a u s e n o n i d e n t i f i c a t e

Dott. E. Amato

Fonte: Ezio Amato - Icram L'impatto degli sversamenti di petrolio nell'ecosistema marino

dipendono da molti fattori concomitanti: quantità di petrolio sversato, modalità dell'incidente (l'incendio del petrolio può trasferire parte degli idrocarburi in atmosfera),distanza e morfologia della costa, condizioni meteorologiche.

In generale, uno sversamento consistente produce effetti acuti nel breve termine e cronici nel lungo periodo sugli organismi marini (in particolare sulle uova o sui piccoli pesci), sui crostacei (ad esempio lo zooplancton, che rappresenta la principale fonte di cibo per i pesci), sugli invertebrati filtratori (coralli, spugne, anemoni di mare, bivalvi, etc.) e sull'avifauna che viene a contatto con gli strati oleosi galleggianti. Quando le chiazze raggiungono il litorale, i danni colpiscono anche gli organismi stanziali, siano essi alghe, piante o animali.

In particolare, per quanto riguarda gli effetti acuti, il petrolio forma una sottile pellicola che: - impedisce gli scambi gassosi provocando condizioni di anossia; - limita la penetrazione della luce con ripercussioni sull’attività fotosintetica

di alghe, fanerogame marine, fitoplancton e quindi provoca una diminuzione della produzione primaria;

- aderisce agli organismi che vivono o interagiscono all’ interfaccia aria/acqua (mammiferi marini, uccelli, organismi bentonici intertidali, alghe, stadi larvali, gameti, ecc.) impedendone le normali funzioni vitali.

Gli effetti cronici, si verificano per gli organismi quando la tossicità rimane ad un livello sub-letale, ma la presenza delle sostanze inquinanti provoca alterazioni sostanziali delle condizioni chimico-fisiche che, con tempi più o meno lunghi, si ripercuotono sulla comunità, presentandosi come: - alterazioni fisiologiche, fisiche e comportamentali; - modificazioni della composizione in specie; - modificazioni delle interazioni ecologiche (es. preda-predatore).

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Il petrolio nell’ambiente marino subisce una serie di trasformazioni chimico-fisiche e biologiche, in percentuale variabile a seconda del tipo di greggio. Il petrolio evaporato viene fotossidato in alcune ore o in alcuni giorni producendo emissioni di anidride carbonica, ossido di carbonio, composti organici ossigenati ed aerosol secondari. La fotossidazione interessa anche il petrolio galleggiante.

Il petrolio che sedimenta sul fondo è quello più dannoso per l'ecosistema marino: analisi condotte sui sedimenti di una spiaggia inquinata hanno evidenziato che alcune componenti idrocarburiche rimanevano assolutamente inalterate per molti anni. Il petrolio sedimentato nei fondali può interferire con la vita sia degli organismi superiori che dei microrganismi.

Goletta Verde ha effettuato una ricerca sulla presenza di idrocarburi nei sedimenti dei fondali marini. L’indagine ha riguardato principalmente i fondali del Tirreno e dell’alto Adriatico, e ha sostanzialmente confermato la situazione già rilevata in precedenti occasioni: un inquinamento da idrocarburi forte e diffuso, con valori molto superiori a quelli registrati dall'Unep in altre aree del Mediterraneo. Particolarmente significativi i picchi rilevati lungo la costa del Friuli Venezia Giulia, in prossimità del porto di Trieste e della centrale Enel di Monfalcone, e davanti al litorale di Reggio Calabria.

Oltre agli sversamenti, ci sono altri danni che una petroliera può causare all'ambiente. Particolarmente rilevante è il problema dell'introduzione di specie esotiche nell'ecosistema marino attraverso le acque di zavorra. Infine, un rischio collegato all'attività delle petroliere è quello dell'inquinamento atmosferico: a differenza di tutti gli altri mezzi di trasporto, infatti, le navi usano carburanti in cui il contenuto in zolfo non è sottoposto ad alcuna limitazione. 10.4 Slops e acque di sentina

In osservanza della direttiva 2000/59/CE tutti i porti devono essere forniti di impianti per la raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi, siano essi solidi (residui di cucina o derivanti della normale attività di bordo) o liquidi (residui del carico o “slop” acque di lavaggio delle cisterne, residui oleosi di sentina). La situazione italiana, relativa ai maggiori porti petroliferi è attualmente la seguente: Augusta – Priolo

Le acque di lavaggio possono essere scaricate solo in alcuni accosti dei terminali petroliferi e solo se la nave opera (carica o scarica) presso quei pontili. Le acque di sentina possono essere scaricate solo su bettolina, previa domanda all’Autorità Portuale e ottenimento (dopo 3 / 4 giorni) del nulla-osta del Prefetto.

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Gela

Solo le navi che operano presso il terminale petrolifero (diga foranea) possono scaricare le acque di lavaggio e solo se queste derivano dal lavaggio di cisterne ex prodotti bianchi (benzine, jetfuel, virgin naphtha, etc.). Non è possibile scaricare acque oleose di sentina. Non esiste un servizio raccolta a mezzo bettolina. Ravenna

I terminali petroliferi non sono attrezzati per la ricezione di slops / sentina. Si può scaricare solo su bettolina oppure su autobotte (sempre che il terminale risulti idoneo per il transito dell’autobotte). Venezia - Porto Marghera

I terminali petroliferi non ricevono né slop né acque di lavaggio. La discarica è possibile solo su bettolina Milazzo

Non è possibile scaricare slop / sentina né al terminale né su bettolina. Genova

La discarica di acque di lavaggio è possibile al terminale o su bettolina. Non è invece possibile scaricare le acque oleose di sentina né al pontile né in bettolina.

Laddove i servizi esistono, essi sono interamente a carico della nave. Non è consentita la discarica di slop o acque di sentina durante le operazioni commerciali della nave. Le lungaggini burocratiche relative all’ottenimento delle autorizzazioni (vedi Augusta – Priolo) spesso impediscono che il servizio a mezzo bettolina possa essere reso durante il tempo di sosta in porto della nave.

La carenza o inesistenza nei porti del servizio di raccolta delle acque di lavaggio e di sentina a mezzo bettolina è probabilmente in maggior parte dovuto alla diversa e contrastante interpretazione delle norme che attualmente classificano tali rifiuti. Secondo il decreto legge 22/97 essi sono da considerarsi “merce” fintanto che rimangono a bordo della nave e “rifiuto” quando giungono a terra. Diverse amministrazioni le considerano invece “rifiuto” in ogni circostanza e da ciò deriva la conclusione che bettolina e suo armatore

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siano da classificare allo stesso modo di un autocompattatore e di un impresa per la raccolta dei RSU. Il fatto poi che tale servizi nei porti siano ancora oggi soggetti a concessione da parte dell’Autorità Marittima o Portuale, scoraggia le imprese dall’investire in un’attività non basata sulla libera concorrenza ed il cui limite temporale è aleatorio.

La carenza è particolarmente grave se si considera che il servizio di raccolta a mezzo bettolina è essenziale per quelle unità commerciali o da diporto che scalano i porti italiani non per caricare o scaricare merci ma esclusivamente per rifornimento di bunker o provviste, imbarco o sbarco passeggeri e simili motivi. Tali unità, ovviamente, non operano presso i terminali petroliferi e non hanno altre possibilità di smaltire le acque di lavaggio o di sentina se non su bettolina.

Per quanto riguarda i terminali petroliferi, sebbene alcune Autorità Portuali abbiano sollevato obiezioni, non sono state finora applicate alla raccolta delle acque di lavaggio le disposizioni di cui all’art. 28 della Legge 22/1997. La norma si applica invece alle acque oleose di sentina ed ecco perché i terminali petroliferi in Italia non le ricevono. Sarebbe nell’interesse economico dei terminali recuperare le acque oleose ma si preferisce non farlo per evitare prassi burocratiche lunghe e complicate.

Le conseguenze di un simile stato di cose, anziché favorire il ricorso delle navi ai servizi di smaltimento, inducono gli armatori ed i comandanti a comportamenti illegittimi per evitare:

- il costo della discarica delle acque di lavaggio al terminale, quantificabile in diverse migliaia di euro, e – soprattutto – una costosissima manovra di ormeggio / disormeggio presso un pontile dove la nave non opererebbe ma che è attrezzato con la stazione di ricezione;

- la perdita di tempo dovuta al fatto che non si possono svolgere contemporaneamente operazioni commerciali e discarica di slop / acque di lavaggio;

- una lunga sosta inoperosa in porto in attesa dell’autorizzazione alla discarica. I comportamenti illegittimi sono ovviamente la discarica in mare di

rifiuti altamente inquinanti e la falsa registrazione sui registri “Oil Record Book”, parte coperta e macchina, dei dati relativi alla produzione di slop / acque di sentina ed al loro smaltimento.

Alla luce di quanto sopra ed in ossequio allo spirito ed alla lettera dell’art. 3 dell’Accordo Volontario qui firmato il 1° giugno 2001, Legambiente propone agli altri sottoscrittori i seguenti impegni:

1) realizzazione in tempi brevi presso ogni accosto dei terminali petroliferi italiani delle attrezzature per la ricezione delle acque di lavaggio (indifferenziate) e delle acque di sentina;

2) istituzione in tutti i porti italiani del servizio raccolta acque di sentina a mezzo bettolina. Servizio che non deve essere soggetto a concessione da parte dell’Autorità Portuale ma lasciato alla libera iniziativa ed

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espletato da mezzi abilitati e riconosciuti idonei secondo la vigente normativa;

3) esclusione dello slop / acque di sentina dal regime “rifiuti” e mantenimento del regime “merci” finché mantenuti e trasportati su natanti, siano essi quelli che li hanno prodotti o che li trasportano per avviarli allo smaltimento;

4) esclusione dalle disposizioni dell’art. 28 della Legge 22/97 limitatamente alla costruzione e esercizio delle attrezzature per la ricezione dello slop / acque di sentina. Le disposizioni restano valide per gli impianti di recupero e/o di smaltimento;

5) autorizzazione alle operazioni di discarica slop / acque di sentina anche durante le operazioni commerciali della nave. Nel caso la discarica avvenga su bettolina mentre la nave sta operando al terminale petrolifero, il natante ricevente deve essere munito di tutte quelle ulteriori dotazioni di sicurezza (parabordi, fenders, ecc.) che l’Autorità Marittima ed il Registro Italiano Navale riterranno opportuno prescrivere;

6) l’espletamento del servizio è soggetto a semplice comunicazione all’Autorità Portuale o Marittima da parte del Comandante della nave e non necessita del rilascio di autorizzazione scritta da parte dell’Autorità che ha comunque il potere di effettuare controlli, vietare le operazioni o sospenderle per motivi di sicurezza;

7) il costo della discarica di slop / acque di sentina ai terminali petroliferi deve essere concordato dalle organizzazioni nazionali dell’armamento e degli esercenti i terminali. Nello stabilire la tariffa per i singoli porti si terrà conto del risparmio derivante dal recupero degli oli;

8) la tariffa per la discarica su bettolina sarà stabilita dall’organizzazione nazionale dell’armamento con i suoi rappresentanti nei singoli porti;

9) i terminali petroliferi riceveranno senza indugio dalle bettoline le acque di lavaggio e di sentina da esse raccolte e li avvieranno agli impianti di trattamento / smaltimento. Il costo per tali operazioni nei singoli porti sarà stabilito di comune accordo tra i rappresentanti nazionali dell’armamento e quelli degli esercenti i terminali;

10) regolamentazione del cambio d’uso per le navi gasiere. E’ la tecnica utilizzata per eliminare residui di carico dalle cisterne delle navi gasiere prima di caricare una sostanza diversa: si scalda il carico, si aprono i serbatoi e i residui della sostanza evaporano. Si può trattare di propilene, etilene, ma il problema è ancora più grave quando si tratta di Cvm. Si è parlato in passato di stazioni di degassificazione che dovevano riguardare non solo le navi cisterna, ma anche le gasiere. Ma in tutto il Mediterraneo non c’è ancora una sola stazione di degassificazione. C’è da sottolineare che queste sostanze nel nostro Paese viaggiano solo per conto Eni (Polimeri Europa ex Enichem – etilene, propilene, cvm ; Agip – butano, propano). I porti interessati

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sono quelli di Augusta, Milazzo, Gela, Brindisi, Ravenna, Venezia, Sarroch e P. Torres.

10.5 Le proposte: le dieci regole per cambiare il mondo del trasporto marittimo delle sostanze pericolose 1) Via le vecchie carrette dai nostri mari. Chiediamo che, dopo la positiva azione italiana per limitare l’accesso nei nostri mari alle vecchie petroliere, l’Italia si impegni anche a livello mediterraneo perché misure simili siano adottate da tutti i Paesi rivieraschi. 2) Stop al lavaggio delle cisterne in mare. Chiediamo che vengano intraprese iniziative a livello di bacino del Mediterraneo per la piena applicazione dello status di area speciale ai sensi dell’annesso I della MARPOL e per l ’efficace repressione degli inquinamenti volontari. Chiediamo un impegno per l ’adozione delle reception facilities e di misure che consentano di rendere economicamente conveniente lo scarico delle acque delle cisterne presso i depositi costieri e rischioso e svantaggioso il lavaggio a mare e misure serie per l ’armonizzazione e l ’applicazione delle sanzioni. 3) Basta con gli “equipaggi babele ”e privi di capacità professionale. E ’ necessario intervenire sempre più sulla formazione degli equipaggi e dei comandanti, chiediamo un controllo continuo sulla composizione e sulla professionalità degli equipaggi delle navi che trasportano merci pericolose. 4) Basta con le navi insicure. Chiediamo controlli severi e stringenti sulla adeguatezza delle navi e il blocco di quelle che non offrono garanzie adeguate di sicurezza. 5) Stop al rischio tempesta. Chiediamo venga imposto il divieto di navigazione alle navi che trasportano sostanze pericolose e inquinanti in condizioni meteomarine particolarmente avverse. 6) Anche il bunker uccide il mare. Chiediamo un impegno concreto a ratificare e rendere operativa al più presto la convenzione Bunker, firmata dall’Italia nel 2001, che estende anche al al bunker (combustibile di bordo)trasportato dalle navi la copertura assicurativa in caso di incidenti. Chiediamo che le navi siano adeguate anche a livello costruttivo per ridurre i rischi legati agli incidenti. 7) Chi inquina deve pagare. Chiediamo l ’allargamento della responsabilità in solido per tutti i soggetti coinvolti nel trasporto delle sostanze pericolose e nel viaggio della nave, dall’armatore, al noleggiatore, al trasportatore e così via. Chiediamo la piena applicazione del principio “chi inquina paga ”,perché il mare non sia più l ’unico soggetto costretto a pagare.

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8) Anche l’ambiente ha un costo. Chiediamo il pieno riconoscimento e risarcimento del danno ambientale in ambito IOPCF, attualmente solo parzialmente riconosciuto. Chiediamo un impegno italiano per una pronta adesione del recente Protocollo addizionale al fondo IOPC, che ha innalzato in maniera significativa il massimale. Ci rivolgiamo all ’Unione Europea perché contribuisca in tutte le sedi internazionali a individuare una definizione precisa di “danno ambientale ”e promuova strumenti e forme anche integrative di risarcimento. 9) Stop al traffico nelle Bocche di Bonifacio. Chiediamo un impegno italiano ed europeo, anche in sede IMO, per giungere all ’eliminazione del traffico dalle Bocche di Bonifacio, in modo che l’azione iniziata con l’accordo volontario del giugno 2001, che ha portato una significativa diminuzione del transito delle navi che trasportano merci pericolose, possa ulteriormente essere perfezionata, scoraggiando il traffico anche delle navi delle altre bandiere, attualmente non limitate da regole cogenti internazionali. 10) Il petrolio non è solo un problema di trasporto, ma soprattutto ambientale. Chiediamo che il trattamento delle questioni relative alle problematiche del trasporto marittimo di sostanze pericolose venga svolto a livello UE congiuntamente dalle Commissioni Ambiente e Trasporti . È necessario che gli obiettivi ambientali vengano sempre più integrati all ’interno delle disposizioni sulla sicurezza in mare proposte dall’Unione Europea che, pur condivisibili, finora hanno mantenuto un’accezione prettamente trasportistica.

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