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XXV Convegno SISP Università degli Studi di Palermo Facoltà di Scienze Politiche 8-10 settembre 2011 COSA È ALTERNANZAIN POLITICA E COME VA STUDIATA Marco Valbruzzi Istituto Universitario Europeo ([email protected]) VERSIONE PRELIMINARE: CITARE CON PRUDENZA Sezione II: TEORIA POLITICA Daniela Piana ([email protected]) e Alberto Vannucci ([email protected]) Panel 2.2: CHIARE LETTERE. ANALISI DEI CONCETTI POLITICI Gianfranco Pasquino ([email protected]) e Marco Valbruzzi ([email protected])

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XXV Convegno SISPUniversità degli Studi di Palermo

Facoltà di Scienze Politiche8-10 settembre 2011

COSA È “ALTERNANZA” IN POLITICA

E COME VA STUDIATA

Marco ValbruzziIstituto Universitario Europeo([email protected])

VERSIONE PRELIMINARE: CITARE CON PRUDENZA

Sezione II: TEORIA POLITICADaniela Piana ([email protected]) e Alberto Vannucci ([email protected])

Panel 2.2: CHIARE LETTERE. ANALISI DEI CONCETTI POLITICIGianfranco Pasquino ([email protected]) e Marco Valbruzzi ([email protected])

Cosa è “alternanza” in politica e come va studiataMarco Valbruzzi (Istituto Universitario Europeo)

PremessaDi solito la teoria precede, o dovrebbe precedere, la ricerca empirica. Esistono però casi in cui il percorso viene fatto a ritroso: dalle impressioni emerse nella ricerca e, talvolta, elaborate in forma di dati, si risale fin su alla teoria. Oltre a non essere un cammino logicamente ineccepibile, è anche irto di ostacoli, pericoli e problemi. Il concetto di alternanza in politica è esemplificativo di questo percorso a ritroso. Come ha giustamente scritto Przeworski (2011, 8), «le alternanze pacifiche sono state rare fino all’ultimo quarto del secolo scorso». Poi, però, tanto improvvisamente quanto inaspettatamente, soprattutto a partire dagli anni ’90, le alternanze di governo si sono fatte sempre più frequenti, e quindi sempre meno improvvise e inaspettate. I “dati” sembrerebbero parlare da soli (vedi fig. 1).

Fonte: Przeworski (2011, 169)

I ricercatori che, nel corso degli ultimi decenni, si sono interessati al fenomeno dell’alternanza si sono perciò trovati di fronte a questo fatto compiuto, che andava sostanzialmente recepito e registrato. Tutto bene, quindi? Direi di no, e il motivo è presto detto: nello studio dell’alternanza oggi ci troviamo ad essere «poveri di teorie e ricchi di dati ingannevoli» (Sartori 2011, 114). Con ciò intendo dire che, se i dati sono contenitori concettuali, la maggior parte degli studiosi ha cominciato a raccogliere informazioni senza sapere cosa stesse realmente collezionando. Peggio ancora, sono state spacciati per alternanze eventi o mutamenti che nulla avevano a che fare con cambiamenti totali di governo. Di conseguenza, dall’ambiguità individuale di un singolo studioso si è arrivati ben presto all’ambiguità collettiva di una comunità di studiosi, che ha cominciato a elaborare statisticamente dati e ipotesi che

poggiano su fondamenta fragilissime. Compito di questo paper è quello di individuare gli equivoci e cercare soluzioni nello studio del concetto di alternanza politica, nelle sue possibili definizioni e nei suoi tentativi di misurazione.

Il problema terminologicoL’analisi concettuale prevede essenzialmente due tipi di trattamento (del concetto): quello logico e quello definente. Ovviamente, questi due aspetti sono tra loro strettamente intrecciati poiché una definizione che salta l’analisi logica rischia di essere una definizione sbagliata o inutilizzabile. È opportuno comunque, ai fini della nostra analisi, tenere separati questi due momenti perché, così procedendo, sarà più facile indicare gli errori legati alla definizione del concetto, da un lato, e quelli connessi al suo trattamento logico, dall’altro. Innanzitutto, per quel che riguarda l’aspetto definente, è necessario ripartire dall’etimologia del termine “alternanza”. La parola-radice alter del verbo “alternare” indica chiaramente l’altro, l’uno fra due o uno di due, qualcosa o qualcuno che non è qualcos’altro o qualcun altro. L’alternatio, quindi, indica il processo di avvicendamento tra due parti, l’uno che sostituisce l’altro, o viceversa. Se teniamo ferma questa ricostruzione etimologica, l’alternanza altro non è che il procedimento attraverso il quale un determinato oggetto viene sostituito con un altro. La questione si complica, ma non più di tanto, se consideriamo che per i latini alter stava ad indicare anche qualcosa di diverso, ovvero l’alterità nell’identità. Due oggetti simili possono alternarsi pur non prevedendo alcuna loro intrinseca diversità. Questo è un punto cruciale perché ci permette di tenere separati due concetti che oggi, invece, molti studiosi in preda all’ansia da misurazione hanno ingiustamente fuso: quello di alternanza come processo e quello di alternativa in quanto contenuto del processo. In ambito politico, significa confondere l’alternanza dei decisori con l’alterità delle decisioni (prese dai decisori). I fautori della fusione, convinti che “alternanza” sia una concetto sostanzialmente multi-dimensionale, assumono, il più delle volte implicitamente, cioè senza cognizione, che il processo dell’alternanza comporti in sé e per sé anche l’alternativa politica, vale a dire decisioni, preferenze e orientamenti diversi (se non opposti) rispetto a quelli dei governanti precedentemente in carica. A mio avviso, alternanza e alternativa sono due concetti distinti, che fanno certamente parte dello stesso campo semantico, ma che non devono essere confusi e ricondotti ad un concetto singolo a più dimensioni. Anche perché non solo un’alternanza di governo può non necessariamente comportare politiche alternative, ma soprattutto possono darsi casi in cui gli stessi governanti decidono di adottare soluzioni e decisioni differenti rispetto a quelle prese fino a poco tempo prima. Come emerge schematicamente dalla tabella 1, dalla combinazione dei due concetti si possono enucleare quattro tipi di relazione alternanza-alternativa. In un caso si può avere quello che ho definito una situazione di “rinnovamento”: quando non c’è alternanza al governo, ma vengono comunque adottate politiche alternative o diverse rispetto a quelle dell’immediato passato. Tanto per fare un esempio, si può citare il passaggio di consegne nel Regno Unito tra il Primo Ministro Tony Blair e il suo sostituto, anche egli (neo)laburista e fino al 2007 Cancelliere dello Scacchiere, Gordon Brown. Senza alcuna alternanza, quel cambio alla guida di governo tra due diversi esponenti del partito Laburista, ha comportato una serie di decisioni politiche alquanto differenti, a partire dalla politica estera inglese (per esempio, la decisione di ritirare le proprie truppe dall’Iraq). Possono essere elencati e ricordati tanti altri casi in cui gli stessi governi, talvolta senza neppure la sostituzione del capo di governo e spinti da imprevisti di varia natura, hanno preso decisioni del tutto differenti rispetto a quelle promesse, programmate ed effettivamente prodotte, ma il quadro è già chiaro a sufficienza. Un secondo caso è quello che ho definito “stallo”, cioè quelle situazioni in cui non c’è né alternanza nei decisori né alternativa nelle politiche perseguite. Da questa prospettiva, il funzionamento del sistema politico-partitico italiano dal 1946 al 1992 è emblematico. Ad eccezione di pochi periodi in cui l’ingresso nella coalizione di governo di partiti laici-progressisti (si pensi alla fase del cosiddetto “centrosinistra”) aveva favorito l’adozione di politiche innovative e, in parte, alternative, la storia della Prima repubblica, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’70, è stata caratterizzata da un sostanziale stallo sia di politics che di policies. Il “ricambio” è caratteristico, invece, di quelle situazioni in cui all’alternanza (con)segue l’alternativa o, per meglio dire, la diversità delle decisioni politiche. Tra i numerosi casi disponibili ne

scelgo solamente due, recenti e piuttosto significativi. Il primo è quello dell’elezione del socialista Zapatero nel 2004, che andava a sostituire Josè Maria Aznar del Partito Popolare. Quell’alternanza ha segnato l’inizio di una vera e propria svolta nella storia spagnola, sia nella politica economica e sociale (si pensi ai delicati rapporti con la Chiesa e al trattamento riservato ai temi eticamente sensibili) che in politica estera. L’altro esempio è offerto dalla storica elezione di Obama nel 2008 alla presidenza degli Stati Uniti con la quale si poneva termine (almeno temporaneamente) alla “dinastia” Bush e, in particolare, alle politiche e all’ideologia dei neo-conservatori. Da ultimo, rimane da considerare il tipo di situazione politica che ho denominato “continuità”, caratterizzata dalla presenza di una alternanza di governo senza una contestuale alterità nelle politiche. Potrebbe sembrare un caso di scuola, da lasciare all’elaborazione teorica di qualche studioso particolarmente ingegnoso. In tal caso sbaglieremmo, per due differenti ragioni: la prima riguarda la teoria, mentre la seconda la realtà politica effettiva. Già da tempo, i sostenitori della tesi del «partito-cartello» (cartel party) vanno argomentando che «questi partiti si assomigliano sempre più uno con l’altro; rispetto ai loro elettorati, alle loro politiche, ai loro obiettivi, ai loro stili le differenze sono sempre meno evidenti» (Katz e Mair 2009, 757). Si tratta, per essere più precisi, di una forma di «competizione vincolata», che fa riferimento più «alla natura della competizione piuttosto che alla assenza di alternanza elettorale». In questo senso, ciò che conta è sapere «se fa differenza chi vince, e non con quale frequenza i vari partiti vincono» (ibidem). Con questo intendo mostrare che, almeno in punto di teoria, è già stata presa in considerazione la circostanza in cui all’alternabilità (possibilità di alternanza dei governanti) non corrisponde meccanicamente l’alternatività (o alterità) delle politiche. Resta ora da osservare la realtà, cioè l’effettiva occorrenza della “continuità”, intesa come una situazione contraddistinta da alternanza politica e assenza di politiche alternative. Chi sostiene l’ipotesi del cartel party spesso adduce a proprio favore esempi (spesso poco più impressioni) ricavati dall’esperienza del bipartitismo americano (soprattutto agli inizi degli anni ’90) oppure, più di recente, dal contesto canadese, dove, ad esempio, «la sostituzione del governo Liberale di minoranza guidato da Martin con il governo minoritario del Conservatore Harper all’indomani delle elezioni del 2006 può offrire sostegno alla tesi della cartellizzazione invece che indicare un aumento della competizione». Senza bisogno di scovare esempi così particolari e idiosincratici, si potrebbero comunque citare tanti altri casi. Uno in particolare, proveniente dalla “democrazia dell’alternanza” per antonomasia, cioè il Regno Unito, è piuttosto calzante. Il periodo tra il 1945 e il 1979 è stato definito dagli studiosi inglesi in due diversi modi ugualmente rivelatori: a) consensus politics, a indicare la sostanziale convergenza tra i due principali partiti su alcune politiche fondamentali; a) butskellism, neologismo derivante dalla fusione dei nomi del Cancelliere dello Scacchiere conservatore degli anni Cinquanta, Butler, e del suo collega laburista Gaitskell. In maniera molto opportuna, Massari (2011, 148), riferendosi alle alternanze avvenute nel Regno Unito nel trentennio considerato, ha parlato di «alternanze di o nella continuità», lasciando per l’appunto intendere la possibilità di cambi di governo tra partiti con proposte programmatiche non del tutto alternative, almeno sulle politiche principali.

Tab. 1 – Alternanza e alternativa: una tipologia

Alternanza

sì no

+ ricambio rinnovamentoAlternativa

- continuità stallo

Prima di concludere sul punto, è necessaria un’ultima precisazione terminologica. Per quanto alternanza (politica) e alternativa (di politiche) possano condividere alcune caratteristiche, rispettivamente, coi concetti di vulnerabilità e decidibilità – intesi come dimensioni dell’onnicomprensivo concetto di competizione politica (Bartolini 1999; 2000) – è comunque preferibile tenere separati i due ambiti. Nello specifico, è importante soprattutto non confondere l’alternanza governativa con la vulnerabilità

degli eletti se, per quest’ultima, si intende «la possibilità per un governo (coalizione, partito) in carica di essere sostituito o altrimenti modificato nella sua composizione come risultato del cambiamento delle scelte degli elettori» (Bartolini 1996, 252). L’alternanza è, come vedremo, una forma (estrema) di vulnerabilità, ma non l’unica, ed è per questo che i due concetti vanno tenuti chiaramente distinti.Cerco di ricapitolare quanto argomentato fin qui. L’alternanza politica va intesa come un processo e, soprattutto, non va confusa con l’alterità decisionale. Questo è un passaggio fondamentale perché ci permette di evitare l’errore che molti studiosi hanno invece compiuto, che è quello di studiare la variabile (non il concetto, a cui, purtroppo, non si presta alcuna attenzione) di alternanza sotto forma di differenza ideologica fra due governi o, più precisamente, come «la differenza tra la posizione del governo in carica (il punto intermedio rispetto ai partiti che lo compongono) rispetto a quello che lo ha preceduto» (Tsebelis 2004, 278). La variabile denominata “alternanza” da Tsebelis misura realmente l’alternanza? La risposta è fin troppo ovvia, perche in quel caso ciò che si sta indagando non è il processo di sostituzione governativa, bensì la diversità ideologica di due governi (anche quando non si “alternano”, nel significato corretto del termine). Tsebelis quindi, proponendo una definizione operazionale piuttosto discutibile, studia l’alternanza nelle vesti dell’alternativa, perciò ogni conclusione della sua analisi, se non errata, è decisamente fuori bersaglio. Un esempio può servire ad illustrare brevemente il punto. Tsebelis (2004, 280) afferma, risultati statistici alla mano, che «la produzione di leggi significative è influenzata… positivamente dalla differenza tra governo in carica e governo precedente (alternanza)». Che cos’è allora che, in un determinato sistema politico, spiega, inter alia, la maggiore o minore produzione di leggi significative: la sostituzione totale del governo oppure la distanza ideologica fra i governati passati e presenti? Tsebelis risponderebbe entrambe le cose, perché per lui non c’è differenza tra alternanza e alternativa. Però, siccome la differenza c’è, l’unica cosa che noi possiamo dire è che, in basi ai dati raccolti, la distanza ideologica fra due governi successivi ha una influenza positiva sulla produzione legislativa. Invece, nulla di più e nulla di simile possiamo sostenere in merito all’influenza dell’alternanza governativa.Accorgendosi dell’errore concettuale di Tsebelis, altri studiosi, più recentemente, hanno proposto di integrare la dimensione della distanza nelle politiche in quella generale di alternanza (Herowitz et al. 2009; Zucchini 2011, Pellegata 2011). Ne è venuto fuori un concetto ibrido, una combinazione talvolta denominata “alternanza ideologica”. In sostanza, un’alternanza per essere tale non deve prevedere soltanto l’uscita di scena di tutti i governanti, ma si pretende in aggiunta che i nuovi governanti siano sufficientemente “diversi” rispetto a quelli passati. Quel che temo è che, con questa trovata, l’errore di Tsebelis sia stato accantonato più che corretto e, per questo motivo, continuo a ritenere valide le argomentazioni presentate in precedenza1. Dirò di più: continuo a pensare che sia ancora più corretto e utile studiare l’alternanza dei decisori e l’alternativa delle politiche come due concetti separati, dando due nomi diversi a due cose diverse, senza fare strani miscugli o improbabili miscele.

Il problema denotativoFinora mi sono concentrato unicamente sulla relazione tra parola e significato, e ciò che ho tentato di porre in evidenza è l’esistenza di un problema terminologico. Infatti, in gran parte della letteratura scientifica tra parola alternanza e il suo significato esiste un rapporto ambiguo che, almeno in via preliminare, potrebbe essere risolto facendo il percorso a ritroso fino all’etimologia. Chiarito questoaspetto, il secondo passaggio richiede l’analisi del rapporto tra significato e referente, ossia l’oggetto del mondo reale che noi intendiamo afferrare con le nostre definizioni di alternanza. In questo caso il rischio è di trovarsi ad affrontare un «problema denotativo» derivante dalla vaghezza o indeterminatezza del rapporto significato-referente (Sartori 2011, 157).Prima di affrontare tale questione è necessaria una premessa meta-concettuale, relativa alla natura del concetto esaminato. Solitamente (Kaplan 1964), si distingue tra termini teorici e termini osservativi. Senza perderci nei dettagli, quel che qui è necessario sapere è che i termini teorici sono quelli che hanno un senso solo all’interno di una determinata «struttura teorica» o che, meglio, possiedono unicamente

1 Correndo il rischio della pedanteria, mi preme sottolineare che non sto affatto sostenendo che non sia importante conoscere quanto una alternanza sia o non sia effettivamente alternativa. Il mio argomento è che, per sapere quanto una alternanza sia alternativa, dobbiamo prima sapere cosa è una alternanza.

un «significato sistemico» (Kaplan 1964, 57). Tanto per intenderci, se cade un pilastro (leggi: termine teorico) nella struttura della teoria, scompare la teoria e scompaiono anche i suoi termini teorici. All’opposto, i termini osservativi (o concetti empirici) hanno un significato slegato da qualsiasi impianto teorico sovrastante e sono tali in quanto suscettibili di osservazione, non importa quanto diretta o indiretta (bidem; Sartori 2011, 126). Indubbiamente, quello di alternanza è un concetto empirico, sicuramente osservabile e capace di reggersi da sé, senza l’aiuto di nessuna stampella teorica. Ciò detto, perché è rilevante questa premessa? Lo è per una ragione molto semplice: perché sono solo i concetti empirico-osservativi a poter essere sottoposti ad un trattamento logico, ovvero a poter essere definiti per genus et differentiam e, in particolare, a poter essere disposti lungo una scala di astrazione. Da qui possiamo ripartire.

Tab. 2 – Scala di astrazione del concetto di alternanza

Livello Avvicendamento fra governi Tipo di trattamento

1 cambiamento pacifico o violento sì-no

2 cambiamento o assenza di cambiamento sì-no; se sì, quanto

3 cambiamento limitato o totale si- no cambiamento parziale o totale

4 cambiamento di partiti o di coalizioni sì-no, quanti (partiti), che tipo di coalizioni

5 Frequenza di cambiamento quanta, fra quali partiti, ecc…

6 Quantità di cambiamento quanta diversità/alterità ha prodotto

7 altro altro

Nella tabella 2 è possibile osservare una ipotetica scala di astrazione, o generalità (Collier e Mahon1993), del concetto in esame. Se spinto al livello più elevato, quel poco che possiamo affermare è che l’alternanza, come metodo di avvicendamento governativo, è un mezzo pacifico, ovvero democratico, di interazione partitica. Con riferimento a Popper, possiamo individuare «soltanto due tipi fondamentali di istituzioni di governo: quelle che consentono un mutamento del governo senza spargimento di sangue, e quelle che non lo consentono. Ma se il governo non può essere cambiato senza spargimento di sangue, nella maggioranza dei casi, non può essere rimosso per nulla» (1972, 595). Nel primo caso, si parla di democrazia, mentre nel secondo di tirannide. Ha ragione, quindi, Quermonne (2003, 13) a scrivere che «l’alternanza al potere si contrappone alla Rivoluzione»: i due concetti – a questo livello –sono perfettamente antitetici, perché laddove uno (il primo) mira a un cambiamento nel regime politico, l’altro (il secondo) intende cambiare il regime. Specificato ciò, e quindi scendendo nella scala di astrazione, arriviamo ad un incrocio fondamentale, quello in cui va specificato l’opposto o il negativo dell’alternanza. L’errore che spesso viene commesso a questo livello è la sovrapposizione di significato tra due concetti distinti, quello di cambiamento governativo e quello di alternanza. Confondere i due piani, come fanno sia Strøm (1985; 1990) che Mair (2006), porta dritti ad un’impasse logica insormontabile: il concetto opposto di “cambiamento governativo” è identico a quello di “alternanza”. Per sbrogliare questa matassa bisogna pensare alla relazione tra i due concetti come un rapporto tra genere e specie, e quindi nel genus dei cambiamenti di governo rientra le specie della alternanza o, per essere ancora più chiari, l’alternanza rappresenta lo stato estremo nel concetto di cambiamento governativo. Si ha alternanza quando tutti i partiti che erano al governo escono di scena e vengono sostituiti da altri partiti non al governo nel periodo immediatamente precedente. Pertanto, la non-alternanza governativa è diversa dal non-cambiamento governativo, perché una compagine di governo può essere modificata o sostituita solo in una sua parte, più o meno consistente. E questo equivale a

dire che i concetti di cambiamento governativo e alternanza combaciano solo in piccolissima parte e soltanto ad uno estremo (vedi fig. 2).

Fig. 2 – Rappresentazione dei concetti “cambiamento governativo” e “alternanza”

Quanto appena detto mi permette di stabilire un’ulteriore differenza tra i due concetti. Nel primo caso, quello riferito al genere del cambiamento, ci troviamo di fronte ad un concetto che Hempel (1976, 70) avrebbe definito «quantitativo», giacché è possibile trattarlo in modo graduabile o continuo, nei termini di “più-o-meno”. Al contrario, il concetto di alternanza2, non potendo essere “graduato”, permette solo un trattamento disgiuntivo o discontinuo del tipo “sì-no”. In sintesi, l’alternanza c’è o non c’è3. Non si danno casi o stati intermedi: tertium non datur. Ad un livello ancora più basso nella scala di generalità si incontra un problema strettamente collegato a quanto affermato poco sopra. Il fatto che, secondo logica, non si possa parlare di “più o meno alternanza” non esclude la possibilità di trattare il tema delle “più o meno alternanze”. Il passaggio dal singolare non è insignificante perché sancisce il salto dal concetto di alternanza ad una sua specifica proprietà: la frequenza. Quante volte si presenta un’alternanza è una questione diversa rispetto a cosa è un’alternanza. Infatti, possiamo adottare un trattamento continuo nel primo caso, ma non nel secondo. Un simile ragionamento può essere utilizzato, rebus sic stantibus, anche per molte altre proprietà dell’alternanza. Tra la tante possibili, Mair (2006, 248-251) ne seleziona (oltre alla frequenza) tre4: a) «innovazione nella formazione dei governi», b) «accesso al potere», c) «livello di alternanza». Le prime due proprietà possono effettivamente essere riferite anche al concetto in esame: la prima intende verificare se, attraverso cambiamenti totali, si formano governi frutto di coalizioni “innovative”, mai sperimentate in precedenza; mentre la seconda proprietà si sofferma sulla possibilità che un’alternanza porti al governo un partito che fino a quel momento non aveva superato la «soglia del potere esecutivo» (Rokkan 1970, 79). La terza proprietà proposta non è, invece, sostenibile per le ragioni che abbiamo già indicato, cioè a dire la natura dicotomica del concetto di alternanza. Non si può definire un livello (o un grado) di alternanza così come non può esistere una (pleonastica) «alternanza totale» né tantomeno una «parziale». Come abbiamo visto, quello che può essere graduato, o suddiviso in livelli, è il concetto di cambiamento governativo, proprio perché possiede un concetto opposto che è contrario ma non contradditorio5.Prima di passare a considerare le definizioni del nostro concetto è bene chiarire un ultimo aspetto. Non so se, come sostiene Goertz (2006, 6), «i concetti più importanti che noi usiamo sono multidimensionali e multilivello in natura». In merito all’alternanza, ho sostenuto che si tratta di un concetto “a una dimensione”, ma che può, direi deve, essere analizzato a diversi livelli, in relazione agli scopi del singolo ricercatore. A tal fine, a mio avviso la strada migliore è ancora quella tracciata da Sartori con le sue

2 Non seguo Hempel (1976, 69) nel definire «classificatori» quei concetti che non possono essere graduati o ordinati perché ritengo che sia possibile “classificare” anche in presenza di concetti quantitativi o comparativi. 3 Questa è la ragione logica per cui è sbagliato parlare di un «indice di alternanza», come fa Mair (2006, 252), oppure sostenere, come fa invece Strøm (1990, 125), che «l’alternanza misura il grado di ricambio».4 Come precisato sopra, Mair scrive alternanza, ma in realtà intende e misura il cambiamento governativo. Tuttavia, alcune delle proprietà proposte possono ugualmente essere riferite anche ai cambiamenti totali dei governi. 5 Per Lyons (1980, 293-315) i contrari sono i concetti opposti a quelli graduabili (caldo/freddo; buono/cattivo ecc.), mentre si definiscono contradditori quelli in opposizione a concetti non graduabili del tipo: acceso/spento, salire/scendere ecc.

«regole per l’analisi dei concetti», soprattutto se intendiamo dare il giusto nome e il giusto trattamento ai nostri concetti. Questo è l’obiettivo del prossimo paragrafo.

Tipi di definizioneIniziando a discutere di definizioni, la cosa più semplice che si può fare è concordare con il giudizioecumenico di Quermonne (2003, 8): «è complicato definire l’alternanza». Anche per questo motivo, ma non soltanto, molti studiosi hanno preferito saltare questo passaggio, dando la definizione per scontata oppure, più semplicemente, non ponendosi neppure la domanda. Il fatto è che se intendiamo studiare qualcosa, dobbiamo sapere che cosa stiamo studiando. Una prima definizione, di tipo sostanzialmente dichiarativo, è quella offerta dallo stesso Quermonne (ibidem), secondo il quale l’alternanza è «un cambiamento di ruoli tra le forze politiche situate all’opposizione, che un’elezione a suffragio universale fa accedere al potere, e le altre forze politiche che vi hanno provvisoriamente rinunciato per andare all’opposizione». A mio avviso, questa definizione dice troppo (poco) e dice male. Quali sono i ruoli nei quali deve prodursi alternanza? Che cosa si intende per forze politiche? Quali attori hanno forza politica? Qual è il rapporto tra elezioni (a suffragio universale) e avvicendamento fra governi? È evidente che la definizione proposta da Quermonne solleva più problemi di quelli che riesce a risolvere. Lo stesso vale anche per altri studiosi interessati, seppur tangenzialmente, al tema dell’alternanza. Per esempio, Bobbio (2006, 127) la definisce semplicemente come una regola del gioco, un metodo di sostituzione dei governi basato sulla «formula “o l’uno o l’altro”». Parimenti, Sartori (1976, 165), nel suo volume sui sistemi di partiti, si limita ad affermare che l’alternanza «sfuma nel concetto di competitività» e come tale andrebbe studiata, cioè come «la differenza fra i due partiti maggiori» (nei casi di bipartitismo). Ovviamente, in entrambi i casi, quelli di Bobbio e Sartori, mi sembra che la definizione sia troppo vaga e non colga adeguatamente il referente.In assenza di definizioni più precise, la maggior parte degli studiosi ha percorso la via più breve e meno problematica, mettendosi alla ricerca di definizioni operazionali in grado di misurare direttamente l’alternanza, prima anche di averne fissato, almeno in modo approssimativo, il significato. Gli esempi che si possono citare sono numerosi, ma mi limito ad esaminarne cinque che ritengo particolarmenteemblematici. Il primo fa riferimento ad uno studio recente condotto da Lundell (2011, 154), la cui premessa è tanto significativa quanto sbalorditiva: «siccome i risultati elettorali sono misurati su una scala continua, è ragionevole trattare l’alternanza allo stesso modo». Questa argomentazione è davvero bizzarra e, se la seguissimo fino in fondo, potremmo dire che siccome l’età di un individuo si misura su una scala continua, è ragionevole trattare la vita (o la morte) in egual maniera, come qualcosa di continuo. È evidente che questo ragionamento non sta in piedi. Di conseguenza, tutto ciò che Lundell sostiene è insostenibile, a partire dal fatto che, a suo dire, «l’alternanza parziale è una situazione intermedia», per poi arrivare alla conclusione che l’«alternanza categorica è quando vengono individuati modelli di alternanza nei diversi tipi di democrazie». Quel che è certo è che con queste premesse si va poco lontano. Il secondo esempio è strettamente legato al precedente in quanto affetto dallo stesso virus, quello del «gradismo» (Sartori 2011, 222), cioè il vizio sempre più ricorrente in scienza politica di ritenere che tutte le differenze siano differenze di grado e, pertanto, «che i trattamenti dicotomici debbano essere inevitabilmente rimpiazzati da trattamenti di tipo continuo» (ibidem). Kaiser (2002; vedi anche Kaiser et al. 2002), partendo dall’assunto – tutt’altro che fondato empiricamente – che i cambiamenti completi di governo siano «estremamente rari e fondamentalmente ristretti ai sistemi bipartitici o ai sistemi a partito predominante», arriva alla conclusione che dovremmo «sviluppare misure più adeguate [sensitive] per finalità comparate» (Kaiser 2002, 449). Insomma, poiché il concetto di alternanza, in sé logicamente binario o dicotomico, è «difficile da quantificare», dobbiamo snaturarlo e trattarlo come qualcos’altro, per qualcosa che non è. La soluzione-escamotage avanzata da Kaiser si fonda «sul concetto di partito di governo dominante». In teoria, quando un partito governativo che controlla più del 50% dei seggi viene sostituito, dobbiamo registrare questo mutamento alla voce “alternanza”; in pratica, siamo ancora decisamente fuori bersaglio, perché la definizione afferra tutto fuorché ciò è un cambiamento totale al governo.

Il terzo esempio ci è fornito da Horowitz et al. (2009), in uno dei pochi studi dedicati espressamente, almeno nel titolo, al concetto di alternanza governativa. In realtà, nel corso del loro lavoro gli autori utilizzano in maniera disinvolta il termine turnover, intendendo in certi casi un semplice cambiamento governativo e in altri una vera e propria alternanza. Al di là di questa intrinseca ambiguità mai dipanata, le proposte di definizione (e misurazione) avanzate da Horowitz et al. (2009, 111) sono chiare: «una regola sarebbe quella di contare il ricambio [turnover] quando i partiti rimanenti sono in minoranza nella [nuova] coalizione. Una regola più stringente conterebbe un’alternanza [alternation] solo se i partiti rimasti al governo non sono necessari a formare la nuova coalizione di maggioranza». In sostanza, l’alternanza in questo caso è, e va considerata come, un cambiamento più o meno consistente nella coalizione di governo. I difetti di questa definizione sono molteplici. Per cominciare, la sua ridotta capacità di “viaggiare” fra diversi sistemi politici, poiché si parla soltanto di coalizioni e non si fa mairiferimento ai sistemi bipartitici. Un secondo problema è di ordine logico (trattamento continuo di un concetto discontinuo) e, avendolo trattato già ampiamente, non merita un’ulteriore discussione. Il terzoe ultimo problema riguarda i punti di separazione (cut-uff points): quand’è che un semplice cambiamento di governo diventa alternanza? Ecco la risposta di Horowitz et al. (2009, 113-114): «quando i componenti del vecchio governo di coalizione non eccedono un quarto o un terzo della nuova coalizione governativa». Ovviamente, non è una risposta adeguata e la proposta, per quanto praticabile, rimane illogica. Perché stabilire proprio quelle soglie (addirittura due diverse!) nel conteggio di un’alternanza? Non solo questo quesito è destinato a rimanere senza una fondata risposta, ma, peggio ancora, adottando una soluzione così arbitraria, si finisce per elaborare e corroborare ipotesi sulle conseguenze dell’alternanza che sono difettose, in maniera esiziale, già nelle loro fondamenta.Il quarto esempio in realtà contiene un grappolo di studi, accomunati più o meno dalla stessa fallacia. Come ho già ricordato in precedenza, sia Strøm (1990) che Mair (2006) propongono definizioni (e indici) di alternanza che sono però definizioni del cambiamento governativo. Per esempio, secondo Strøm (1990, 125; 1985, 744) l’alternanza è «il grado di ricambio nelle cariche da un governo al successivo» e, da un punto di vista operazionale, viene misura «come la percentuale dei seggi parlamentari ottenuti dai partiti che cambiano di status tra governo e opposizione». Anche Mair (2006, 252) si muove su questa stessa scia e, infatti, la sua definizione operazionale prevede che l’indice di alternanza sia «semplicemente la somma (in valori assoluti) dei guadagni di tutti i partiti “vincenti” (quelli che hanno aumentato la quota di ministri) e delle perdite dei partiti “perdenti” (quelli che hanno una quota di ministri ridotta), diviso due». Sostanzialmente, il difetto delle definizioni avanzate dai due studiosi è dato soltanto, per così dire, da un problema di etichetta (la specie dell’alternanza che viene elevata a genus), superato il quale le tecniche di misurazione proposte mantengono una loro validità. Qui però entrano in scena altri due studiosi, Maeda e Nishikawa (2006), i quali, pur dando il giusto nome al proprio «indice di cambiamento governativo», cadono anche loro nella trappola “gradista”: poiché l’indice «può assumere qualsiasi valore compreso tra 0 e 100, non abbiamo nessuno standard teorico per decidere quale valore deve essere ritenuto significativo nel rappresentare un’alternanza di partiti al potere perché si tratta di una variabile continua. Una soluzione semplice al problema è quella di fermarsi a metà strada tra 0 e 100» (ibidem, 361-632). Va da sé, che si tratta di una soluzione tanto semplice quanto sbagliata, perché non serve nessuno «standard teorico» a stabilire il punto di separazione dell’alternanza. Quello che basta è uno standard (etimo)logico, secondo il quale il cut-offpoint dell’alternanza è auto-evidente, trattandosi del livello massimo di cambiamento governativo, cioè 100.Infine, l’ultimo esempio che è utile considerare è rappresentato da una serie di studi che Przeworski(2011, vedi anche Przeworski 2010 e, più in generale, 2000) ha dedicato al rapporto tra democrazia, alternanza, forza dei militari e sviluppo politico ed economico. Prima di affrontare il problema delle definizioni, è opportuno ricordare che, per Przeworski, l’alternanza è una proprietà fondamentale, addirittura definente, del concetto di democrazia. Infatti, se i paesi democratici sono quelli «in cui i partiti perdono le elezioni» (Przeworski 1991, 11) e diventano stabili proprio «quando i perdenti in una determinata tornata della competizione elettorale hanno sufficienti possibilità di vincere in futuro» (ibidem 2005, 266-267), è chiaro che i cambiamenti totali di governo assumono, in questo quadro teorico, una grande rilevanza. Non a caso, Przeworski, assieme ad altri suoi colleghi (2000), elabora una vera e

propria «regola dell’alternanza» in base alla quale distinguere le democrazie dalle non-democrazie. Ciò che stupisce è che a tutta questa importanza assegnata al metodo dell’alternanza non ha assolutamente fatto seguito una meticolosa analisi del concetto, che è rimasto sempre ambiguo, coi contorni sbiaditi e indefiniti. In certi casi, l’alternanza è stata definita come «qualsiasi cambiamento nella coalizione di governo» e, di conseguenza, tanto per fare un esempio, l’Italia ha, o avrebbe, sperimentato – all’insaputa di molti altri studiosi e commentatori – tante “piccole”, microscopiche alternanze. Se è così – e non conosco ragioni per pensare altrimenti – questa definizione non tiene e va prontamente rigettata. Alla stessa sorte sono destinate anche altre soluzioni introdotte più recentemente dallo studioso americano-polacco, come quella relativa alle «sconfitte elettorali dei governanti» (2011, 169), per due motivi: primo, perché ci può essere alternanza, almeno nei regimi parlamentari, anche al di là delle elezioni; secondo, perché Przeworski considera solamente i partiti come unità di riferimento e, quindi, una stessa coalizione che torna al governo guidata, però, da un esponente di un altro partito viene indicata come cambiamento. In sintesi, dunque, il problema vero di queste definizioni difettose non è tanto legato al concetto in sé e per sé, che una analisi più rigorosa potrebbe eventualmente correggere. Il guaio vero è che, questa piccola anomalia che sta a monte finisce per trascinare una valanga di anomalie dalle quali difficilmente riusciremo a liberarci. Chiudo con un esempio. Quando Przeworski et al. (2000) chiosano il loro studio dedicato al rapporto tra democrazia e sviluppo affermando, in modo alquanto categorico, che «una moderata frequenza di alternanza al potere aumenta la stabilità delle democrazie» oppure che «l’alternanza ha un effetto ridotto sulle prestazioni economiche» dei paesi democratici, il messaggio che “passa” è che l’alternanza ha certi poteri. Dopodiché, se quella che loro chiamano alternanza è davvero tale poco importa. Ciò che conta è che il messaggio, anche se sbagliato, sia arrivato al destinatario.A conclusione di questa carrellata di esempi, il punctum dolens evidente è che oggi ci troviamo a convivere con un duplice paradosso. Da un lato, navighiamo senza bussola in una marea di definizioni operazionali che, oltre a non cogliere correttamente il referente, sono del tutto slegate da definizioni di ordine superiore, specificative o denotative che siano. Il secondo paradosso è che, continuando a così mal definire, siamo finiti per approdare a quell’eccesso di operazionalismo secondo il quale «differenti operazioni definiscono differenti concetti» (Kaplan 1964. 41). Il che equivale a dire, nel nostro caso, che non si stiamo producendo alcuna cumulabilità del sapere, ma solo un gigantesco caos, una Torre di Babele in sedicesimi.

Una proposta di definizioneNel corso del paragrafo precedente ho cercato di mostrare perché le varie definizioni dell’alternanza stipulate siano, in fin dei conti, sbagliate. Inoltre, ho anche indicato come queste definizioni siano o troppo astratte o troppo legate a contesti di piccole dimensioni. Quella che a noi serve è una definizione denotativa in grado di viaggiare in diversi contesti e fra varie democrazie. Nel tentativo di elaborare una definizione adeguata, un ricercatore si trova, presto o tardi, ad affrontare tre problemi distinti: quello dei confini, quello della popolazione e quello dei punti di taglio o separazione di un concetto (Sartori 2011, 160-164). Ora, ci concentreremo sui primi due problemi e lascerò il terzo al prossimo paragrafo. Il problema dei confini nel concetto di alternanza lo abbiamo già incontrato nelle pagine precedenti e qui servirà solo un rapido accenno. L’alternazio in politica deve essere intesa come un processo di sostituzione fra due governi successivi, totalmente differenti nella loro composizione l’uno dall’altro. In questo senso, i confini del concetto sono netti: l’alternanza è il polo estremo nel continuum riferito al cambiamento governativo e la non-alternanza racchiude tutti gli altri mutamenti possibili (compresa l’assenza di mutamento), ad esclusione di quello totale.Il secondo problema è quello della popolazione o, meglio, delle componenti da includere/escludere nel corso di un processo definitorio. Per fare ciò sono necessarie quelle definizioni che Sartori chiama «specificative» (2011, 160), che servono appunto a precisare quali elementi o proprietà includere e quali escludere. Come abbiamo visto nel caso di Przeworski, per esempio, vengono inclusi nel concetto di alternanza anche quei semplici mutamenti nel partito del Primo Ministro, nonostante la coalizione governativa sia rimasta immutata. In altri casi, si includono quelle sostituzioni di governo che avvengono sopra una certa «soglia», arbitrariamente definita. Si potrebbero, poi, pensare anche altre ipotesi, come quella di considerare “alternanza” ogni sostituzione del capo di governo, a prescindere dal

“colore” dei partiti o dei governi. Una definizione specificativa deve saper risolvere questi e altri problemi simili. Una proposta di questo genere è quella avanzata da Pasquino (2011, 21), quando stabilisce che l’alternanza è una «sostituzione di un governo con un altro governo completamente diverso nella sua composizione quanto a partiti e a persone dal governo che viene sostituito». Certamente, questa è una definizione che permette al concetto di viaggiare e sulla qualche concordo in buona parte, ma non del tutto. Gli elementi di accordo sono due: a) la specificazione del ruolo governativo e b) l’indicazione di un cambiamento completo, cioè totale. In pratica, chi era al governo al tempo t-1 non deve più esserlo al tempo t. L’aspetto sul quale non mi trovo d’accordo è in sé marginale, ma nonostante questo significativo, e riguarda l’inserimento della sostituzione delle “persone” tra le caratteristiche definenti dell’alternanza. Innanzitutto, Pasquino non specifica a quale personale governativo fare riferimento (primo ministro, ministri, sottosegretari ecc.) e, quindi, la definizione rimane pericolosamente sospesa. In secondo luogo, includere il personale governativo nella definizione significa esporsi al rischio di ritrovarsi tra le mani casi ambigui, che condividono solo alcune caratteristiche dell’alternanza e, probabilmente, non quelle più importanti. Un esempio potrebbe essere offerto dai regimi presidenziali, specialmente quelli dell’America Latina, dove la rielezione dello stesso partito alla presidenza non comporta la rielezione dello stesso Presidente. Non a caso, Camerlo e Malamud (2011) preferiscono riservare il termine “alternanza” (totale) solo a quei casi in cui cambia sia il personale governativo che i partiti di governo, mentre definiscono “rielezione presidenziale” quelle circostanze in cui viene rieletto uno stesso Presidente, ma con un altro partito, o coalizione, a propriosostegno. Sebbene questa proposta abbia una sua valida ragion d’essere all’interno del contesto per la quale è stata elaborata, ossia quello latino-americano, se l’obiettivo è quello di individuare una definizione dell’alternanza in grado di viaggiare, a mio avviso è preferibile fare riferimento unicamente alla dimensione partitica. Nel privilegiare tale dimensione, si possono comunque trovare casi anomali in cui un Presidente o anche un capo di governo vengono rieletti alla guida di una formazione politica totalmente diversa da quella costituita in precedenza, tuttavia si tratta di circostanze così rare e poco frequenti da meritare una trattazione specifica o ristretta, rimanendo all’interno di un quadro più generale. Sulla base delle precisazioni appena introdotte è possibile avanzare una definizione minima di alternanza, che riesca a cogliere le proprietà fondamentali del concetto. La soluzione che propongo è la seguente: alternanza è una sostituzione completa dei partiti al governo con altri partiti che non erano al governo nel periodo immediatamente precedente. Con questa definizione ritengo di aver indicato gli elementi essenziali per distinguere un’alternanza da qualsiasi altro tipo di ricambio nella compagine di governo. Innanzitutto, ho assicurato il carattere binario dell’alternanza: o c’è, e quindi avviene una sostituzione totale, oppure non c’è. Perciò non sono ammesse scorciatoie o soluzioni “parziali” o terze rispetto a quelle due sole opzioni. In secondo luogo, ho specificato la natura esclusivamente partitica del meccanismo di alternanza e, quindi, chi viene premiato o punito da una (non) alternanza è principalmente il partito politico. In terzo e ultimo luogo, nella definizione proposta viene indicato l’arco temporale all’interno del quale deve avvenire l’avvicendamento fra i governi. Più specificamente, l’alternanza deve realizzarsi fra due squadre di governo temporalmente contigue, cioè immediatamente successive, senza nessun tipo di interruzione o sfasatura temporale. Le uniche eccezioni a questo criterio possono riguardare i governi tecnici, i quali, oltre ad essere poco diffusi (Strøm 2000), possono considerarsi, almeno ai fini dell’analisi, governi-fantasma che funzionano da ponte fra due governi prettamente “politici”.Indicata una definizione minima capace di adattarsi alla realtà di diversi sistemi politici, rimane ancora la necessità di trattare alcuni casi di alternanza che possono sollevare alcuni elementi di ambiguità. Nello specifico, le maggiori perplessità possono derivare dalla natura del governo nei vari regimi politici, da quelli parlamentari a quelli presidenziali, direttoriali o semi-presidenziali. Il punto è che, in alcuni di questi regimi, il governo non sempre è “unificato”, ma può essere diviso o, perlomeno, condiviso. Per il presidenzialismo degli Stati Uniti, ma non solo in riferimento a quello, vale il giudizio di Neustadt (1960,33) secondo cui il governo è formato di «istituzioni separate che condividono i poteri». Stabilire a priori, quindi, qual è l’istituzione che “conta”, vale a dire quella che effettivamente comporta una alternanza al potere è un’operazione delicata e complicata. In questi casi, ma solo in questi, è effettivamente possibile concepire tipi di alternanze (totali e parziali), cioè quando il riferimento sono le istituzioni (il potere

esecutivo nel suo insieme) e non il concetto in sé. Per esempio, l’alternanza completa può prodursi solo e soltanto quando si assiste ad un totale cambiamento di governo a livello sia presidenziale che congressuale. Sono da considerarsi alternanze parziali, o limitate, solo quello che coinvolgono un’istituzione di governo, o il Presidente o il Congresso (per un’illustrazione di questo approccio al caso americano, si veda Pasquino e Valbruzzi 2011). Un altro caso ambiguo nello studio dell’alternanza è rappresentato dai regimi semi-presidenziali, soprattutto in quelle circostanze caratterizzate da coabitazione, in cui capo dello Stato e capo di governo sono sostenuti da differenti partiti o coalizioni. I due concetti (alternanza e coabitazione) sono strettamente legati ad un comune destino, nel senso che non potrebbe esserci l’uno senza l’altro. Più precisamente, non potrebbe darsi coabitazione senza alternanza. Gli stessi studiosi francesi concordano con questa prospettiva di analisi. Massot (1997, 17), per esempio, afferma che «il termine alternanza copre una realtà più ampia rispetto alla condizione della coabitazione: si applica normalmente ad una situazione di completo capovolgimento [basculement] politico, o grande alternanza, e si traduce, in un regime dualista come il nostro, nell’elezione di un Presidente della Repubblica di una tendenza opposta a quella del suo predecessore, seguita, dopo lo scioglimento, dall’elezione di una nuova Assemblea, riflesso della nuova maggioranza presidenziale». Come si vede, il rapporto tra alternanza e coabitazione è molto più che stringente e, di nuovo, tenendo fermo il riferimento alle istituzioni di governo, è possibile distinguere tra una alternanza completa (che la grandeur françaiseimpone di chiamare “grande”) e una limitata o, più banalmente, piccola, che dà luogo ad una situazione di coabitazione.Nella tabella 3 ho riassunto le precisazioni sopra introdotte relative ai regimi presidenziali e a quelli semi-presidenziali, utilizzando come prototipi quello statunitense e quello francese. L’ultimo aspetto da commentare riguarda gli esiti del tipo di alternanza che qui ho chiamato “parziale”. Ovviamente, nei casi in cui esiste già un governo diviso o a una coabitazione, le alternanze parziali sono alternanza di “riallineamento”, che servono a ricondurre il governo sotto un’unica maggioranza. Nelle altre situazione, cioè quando la situazione di partenza è quella di un governo unificato, nel caso americano il prodotto di una alternanza parziale è il governo diviso, mentre nell’altro, quello del semi-presidenzialismo francese, è la coabitazione. Ciò detto, l’alternanza deve continuare ad essere considerata solamente uno strumento attraverso il quale si vengono a formare le due situazioni, che, a prescindere dal loro comune denominatore/detonatore, rimangono situazioni politiche diverse e distinte (Pasquino 2007).

Tab. 3 – Tipi di alternanza nei regimi presidenziali e semi-presidenziali

Alternanza nel legislativo

sì no

sì alternanza completaalternanza presidenziale

(USA: governo diviso)(Francia: coabitazione)Alternanza alla

Presidenzano

alternanza congressuale(USA: governo diviso)(Francia: coabitazione)

assenza di alternanza

Prima di passare ad affrontare la questione delle misurazioni, merita un chiarimento il tema dellecosiddette definizioni funzionali dell’alternanza, ossia la determinazione delle possibili funzioni che questa modalità di sostituzione governativa svolge all’interno di un sistema politico. Nella letteratura definizioni di questo tipo non sono particolarmente discusse e dettagliate. Da un lato, si può ricordare lo studio di Huntington (1995) riguardante la terza ondata di democratizzazione, all’interno del quale le alternanze di governo, in particolare le prime due nella storia di una democrazia, svolgevano un compito essenziale. Per la precisazione, le prime due alternanze servono a (cioè, svolgono la funzioni di) consolidare un regime democratico. Secondo Huntington (1995, 285), «la democrazia è veramente tale solo se i governanti accettano di rinunciare al potere come risultato delle elezioni». Per questo motivo,

«il primo ricambio elettorale ha dunque un significato simbolico»6 : dimostra ai propri cittadini la possibilità di cambiare il governo senza dover modificare, con spargimento di sangue, il proprio regimepolitico. La seconda alternanza serve, invece, a mostrare due aspetti: a) «l’esistenza di due grossi partiti politici democratici disposti a cedere il potere dopo una sconfitta elettorale », e b) «il funzionamento del meccanismo democratico valido sia per le élite sia per l’opinione pubblica, disposte a cambiare i governanti (e non il regime) quando le cose non funzionano» (Huntington 1995, 285). Quindi – ecco la definizione funzionale – l’alternanza è una modalità di consolidamento della democrazia7.Un altro esempio di definizioni di questo tipo è quello proposto da Strøm (1985; 1990), che studia e definisce l’alternanza non come concetto in sé, ma come uno degli obiettivi dei partiti politici (vedi tab. 5). Più precisamente, come un indicatore delle prestazioni post-elettorali dei governi in carica (vedi tab. 4). Nelle parole dello stesso Strøm (1985, 744), «i governi possono essere giudicati in base alle modalità con cui riescono a rimanere in carica». Per intenderci, se uno degli obiettivi dei partiti è quello di restare al potere, l’alternanza può essere interpretata come una spia del giudizio degli elettori sull’operato dei governanti. Pertanto, in questo contesto ha una duplice funzione: analitica, in quanto può servire alla studioso per giudicare la prestazione elettorale del governo, e informativa, perché invia un preciso messaggio a chi si trova al governo o all’opposizione. Tab. 4 – Tipologia degli obiettivi dei partiti

Prospettiva di corto periodo Prospettiva di medio periodo

Cariche di governo Cariche pre-elettoraliDurata

Cariche post-elettoraliAlternanza

Influenza nelle politiche Influenza pre-elettoraleDimissioni

Influenza post-elettoraleSuccesso elettorale

Fonte: Strøm (1985, 740)

Infine, tra le tante ipotesi, si può pensare anche ad una definizione funzionale che tenga in considerazione la funzione sistemica dell’alternanza all’interno di un determinato sistema politico. In particolare, un cambiamento totale di governo può essere inteso come una risposta alla mancanza di efficacia decisionale dei governi, all’interno di un quadro di regole immutato. La tabella 5 può aiutare aillustrare meglio questo punto. Quando la sfida al sistema politico coinvolge tanto le regole quanto le sue prestazioni, lo scenario che si viene a creare è quello della transizione, cioè un periodo, più o meno lungo, di passaggio verso un sistema dotato di regole e governanti differenti rispetto al periodo iniziale. Il caso della tormentata transizione politico-elettorale italiana rientra in questa casistica. Si ha invece delegittimazione quando vengono criticate o non accettate le regole del “gioco” politico, al di là di quelle che sono le prestazioni dei governi in carica. Per fare un esempio, si pensi al ruolo delle forze di opposizione in Francia durante i primi vent’anni della V repubblica, quando ad essere sfidate apertamente non erano direttamente le azioni di chi era in carica (De Gaulle in testa), bensì le regole elettorale e istituzionali di “incarico”8. Il processo di consolidamento (nella democrazia e non verso la democrazia) avviene quando né le regole del sistema politico né i governanti sono apertamente sfidati. Qui, dunque, c’è una grossa differenza rispetto all’analisi di Huntington, il quale considerava l’effettivo consolidamento democratico come il prodotto dell’alternanza di governo. Invece, nel nostro caso le democrazie si consolidano quando le regole sono ritenute legittime e le prestazioni del sistema politico

6 Ricambio, che è la traduzione di turnover, è usato da Huntington come sinonimo di alternanza.7 In riferimento al caso spagnolo, si veda Raniolo (2011, 175), che distingue le alternanze di consolidamento da quelle di funzionamento.8 È appena il caso di ricordare che, proprio in quegli anni, Mitterrand (1964) mandava in stampa un pamphlet dal titolo significativo “Le coup d’état permanent”.

adeguate. Come aveva notato lo stesso Huntington (1995, 2685), «il doppio ricambio è un test importante per la democrazia» e, infatti, non sempre viene superato. Ma possiamo considerare consolidate solo quelle democrazie che lo superano? La mia risposta è no, e per questo è preferibile distinguere nettamente l’alternanza dal consolidamento, pensando alla prima come una risposta “regolata” alla insufficiente produttività dei governanti e al secondo come una situazione di relativa soddisfazione per il funzionamento (regole) e il rendimento (prestazioni) del sistema politico.

Tab. 5 – Tipologia di mutamenti dei e nei regimi politici

Sfida alle regole del sistema politico

sì no

sì Transizione AlternanzaSfida alle prestazioni del sistema politico no Delegittimazione Consolidamento

Per chiudere questa parte e passare oltre, rimane da chiarire soltanto un ultimo aspetto. Il rapporto tra definizioni funzionali di un concetto – cosa l’alternanza fa o a che cosa serve – e definizioni strutturali –cosa l’alternanza è e com’è fatta – non è un rapporto paritario. Piuttosto, si tratta di un rapporto di dipendenza, perché senza quelle definizioni che io chiamo strutturali non potremmo avere nessun’altra definizione di ordine inferiore. Quindi, esiste un ordine logico con cui affrontare i due argomenti. Se e quando quest’ordine viene a mancare, il rischio è di assegnare funzioni a oggetti o fenomeni che non conosciamo, indebolendo gravemente ogni nostro sforzo analitico.

Tipi di misurazioneGià a metà degli anni ’60 Kaplan (1964, 172) guardava con sospetto chi, nell’ambito della ricerca scientifica, inneggiava alla «mistica della quantità» dando un «peso eccessivo al significato della misurazione, solo perché quantitativa, senza nessun interesse per quello che si andava misurando o per ciò che si poteva fare successivamente con quella misura». Dagli anni ’60 ad oggi le cose non sono certomigliorate e i mistici della quantità si sono moltiplicati e rafforzati. Sempre più spesso, infatti, i «numeri sono trattati come se avessero un intrinseco valore scientifico» (ibidem), senza badare al significato reale del fenomeno studiato. La scienza politica e, nel suo piccolo, la letteratura dedicata al concetto di alternanza, non hanno certo fatto eccezione, perciò oggi ci troviamo con indicatori, indici e misure di “cose” che non conosciamo. La «premessa fondamentale», ha scritto Giovanni Sartori (2011, 21), «è che la quantificazione entra in campo dopo, e solamente dopo, aver formato il concetto». S’intende: formato o ri-formato il concetto, che è esattamente quello che ho tentato di fare nelle pagine precedenti. Ora, l’operazione successiva è quella di suggerire misure adeguate rispetto alla definizione proposta dell’alternanza governativa. Nello schema per l’analisi concettuale elaborato di Goertz (2006, 62), il «livello indicatore/dati è quello dove il concetto si fa così specifico da guidare la raccolta dei dati empirici». Perciò, il punto davvero rilevante è che deve esistere un certo grado di «coerenza concetto-misura» o, più precisamente, la nostra «misura numerica deve riflettere la struttura fondamentale del concetto» (ibidem, 95). Chiaramente, quando non c’è coerenza, significa che stiamo lavorando con una definizione imprecisa oppure che le nostre ipotesi di operazionalizzazione e misurazione non sono valide. Nel caso dell’alternanza, ciò a cui va prestata particolare attenzione sono le caratteristiche del concettoovvero alcune sue specifiche dimensioni. A tal proposito, è opportuno distinguere fra: a) alternanza come effettivo accadimento politico, b) alternabilità (possibilità di alternanza), c) probabilità di alternanza. Il primo aspetto è, alla luce di quanto detto fin qui, quello di più agile trattazione, poiché riguarda la struttura del concetto di alternanza. Quel che sappiamo, infatti, è che l’alternanza rappresentalo stato estremo del cambiamento governativo, quello in cui chi era al governo non c’è più nel periodo immediatamente successivo. In tal caso, l’analisi dell’alternanza passa attraverso la misurazione del cambiamento fra un governo e l’altro. Da questo punto di vista, non siamo del tutto sprovveduti: per

esempio, gli indici elaborati da Strøm, (1985; 1990) e Mair (2006) possono essere utilizzati a questo scopo. In questa sede mi limiterò ad indicare un terzo strumento per misurare il cambiamento, a cui darò il nome di indice di volatilità intergovernativa (IVG), costruito attraverso la seguente formula:

Indice di volatilità intergovernativa = Σ i =1 ׀Pi,t - Pi, t -1 ׀ 2

dove n rappresenta il numero dei partiti al governo, mentre Pi indica il peso di un partito in un determinato governo (definito dai seggi parlamentari controllati) al tempo t e al tempo t - 1. Un breve esempio può servire ad illustrare meglio le operazioni di misurazione. Nella tabella 6 ho riprodotto, in tre diversi momenti temporali, una ipotetica situazione parlamentare, indicando in grigio i partiti al governo. Nel passaggio da t-1 (governo AB) a t (governo CDE) assistiamo ad una alternanza governativa (e il valore dell’indice è, di conseguenza, 100); nel secondo passaggio, cioè da t (governo CDE) a t+1 (governo BC) l’indice di cambiamento governativo ha un valore pari a 50.

Tab. 6 – Illustrazione dell’Indice di volatilità intergovernativa

Partiti A B C D E Fperiodo t - 1

% seggi 15 35 20 15 10 5Peso nel governo (%) 30 70

periodo t% seggi 10 30 25 15 15 5

Peso nel governo (%) 45,4 27,3 27,3periodo t + 1

% seggi 10 30 30 10 10 10Peso nel governo (%) 50 50

L’esempio appena illustrato è utile anche perché ci permette di affrontare il “problema dei punti di separazione” che avevo lasciato in sospeso nel paragrafo precedente. Naturalmente, come si è visto, i casi di alternanza emergono naturalmente, perché il punto di taglio (il polo estremo del continuum) è inequivocabile. Stesso ragionamento vale per quelle circostanze in cui i partiti al governo non cambianotra un periodo e il successivo. Diverso è, invece, il caso di tutto ciò che sta tra i due poli estremi, ovvero tutte quelle forme di cambiamento che non sono alternanze. Per evitare di includere tutto in un'unica classe, suggerisco l’introduzione di un unico punto di separazione, in modo tale da dividere i casi di micro-sostituzione governativa dalle semi-rotazioni. Operazionalmente, definisco “micro-rotazioni” tutti quei cambiamenti di governo compresi tra i valori 0,1 e 35 dell’IVG, e “semi-rotazioni” quei cambiamenti governativi compresi tra 35,1 e 99,9. In questo modo, per quanto inevitabilmente arbitrario, intendo tenere distinte quelle sostituzioni fra governi in cui entrano o escono solo piccoli partiti da quelli in cui sono coinvolte formazioni politiche più consistenti. La figura 3 mostra la distribuzione di frequenza dei valori registrati dell’IGV in sedici democrazie europee dal 1945 ad oggi. Come si può notare, l’assenza di cambiamento è il fenomeno più frequente, cioè nella maggior parte dei casi gli stessi governi, composti dagli stessi partiti, succedono a se stessi. Le alternanze registrate, invece, sono solo 78, pari a poco più del 16% dell’intero universo dei casi. Tale dato, però, potrebbe essere fuorviante e in contraddizione con quanto scritto nella premessa di questo lavoro (si veda anche la fig. 1). Tuttavia, se osserviamo l’andamento nel tempo dei cambiamenti di governo nelle democrazie europee, ci accorgiamo che esse sono diventate la modalità prevalente di avvicendamento dei governi europei (vedi fig. 5)

Fig. 5 – Istogramma dell’Indice di volatilità intergovernativa, 1945-2011

Fig. 6 – Evoluzione e diffusione dei cambiamenti governativi in Europa, 1945-2011

20

35

45

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

1945

-194

9

1950

-195

9

1960

-196

9

1970

-197

9

1980

-198

9

1990

-199

9

2000

-201

1

Micro-sostituzione Semi-rotazione Alternanza

I dati appena presentati ci permettono di spostare adesso la nostra discussione dall’alternanza intesa come concreto accadimento politico all’alternabilità, cioè la possibilità che alcuni sistemi politici sperimentino o no sostituzioni complete dei loro governi. Su quest’ultimo aspetto, le riflessioni più convincenti rimangono ancora oggi quelle di Sartori (1976), il quale suddivide i sistemi di partiti in base al loro formato (numero di partiti) e alla loro meccanica (direzione della competizione). Nei sistemi bipartitici e bipolari l’alternanza è un esito possibile e praticabile perché la competizione è centripeta, e avviene per l’appunto fra due partititi o gruppi di partiti non troppo distanti ideologicamente, ovvero in un contesto a bassa polarizzazione. Al contrario, nei sistemi caratterizzati da un multipartitismo estremo (nel formato) e polarizzato (nella meccanica) l’alternanza è impossibile a causa della presenza, al centro, di un polo/partito inamovibile costretto a resistere, in una dinamica centripeta, alle opposizioni bilaterali di partiti cosiddetti anti-sistema. Quel che a noi interessa sono gli indicatori che possono essere utilizzati per “cogliere” l’alternabilità dei sistemi partitici. A mio avviso, i principali indicatori da tenere in considerazione sono due, e rimandano esattamente alle indicazioni di Sartori in merito alla “meccanica” della competizione: a) la polarizzazione ideologica; b) la presenza di una struttura bipolare. Prima di tutto, c’è alternabilità in quei sistemi partitici non polarizzati, in cui i partiti-antisistema, se ci sono, sono deboli e non “rilevanti”. In tal senso, la polarizzazione potrebbe essere misurata in due diversi modi: come distanza ideologica fra i partiti in parlamento oppure come forza, in termini di percentuale di seggi, dei partiti anti-sistema rilevanti. Entrambi i metodi colgono due aspetti importanti della polarizzazione. Il primo può servire a valutare l’«estensione complessiva dello spettro ideologico in ciascun sistema politico», mentre il secondo metodo permette di considerare l’«intensità ideologica», ovvero la forza delle opposizioni bilaterali nei confronti dei governi collocati al centro. Per quanto riguarda il rapporto tra bipolarismo e alternanza, il punto di partenza è fissato, in maniera piuttosto perentoria, da Duverger (1951, 374): «l’alternanza presuppone il dualismo». Da questaprospettiva, almeno in apparenza, non ci sono grosse differenze con l’argomentazione di Sartori. Tuttavia, mentre per Duverger l’alternanza era solo e soltanto il prodotto del formato del sistema partitico, per Sartori è la meccanica, cioè la direzione della competizione, a rendere praticabile l’alternanza. Naturalmente, le due spiegazioni si integrano e si rafforzano a vicenda, ciononostante sarà compito dall’analisi empirica valutare se e quale variabile prevale sull’altra, ovvero in che modo, ordine e misura l’interazione formato-meccanica incide sulla possibilità dell’alternanza.Da ultima, rimane da considerare la probabilità dell’alternanza. Ovviamente, solo ciò che è possibile può essere più o meno probabile, quindi la probabilità per un governo di essere sostituito in blocco va considerata una sottodimensione della alternabilità. Ciò premesso, arrivano le complicazioni, che sono di varia natura e origine. Innanzi tutto, questo ambito è quello che presenta un numero maggiore di ipotesi e soluzioni di misurazione (vedi tab. 7), tutte orientate a cogliere una qualche caratteristica, o sfumatura, della probabilità di alternanza. Da un lato, ci sono quegli studiosi che fanno derivare questa probabilità direttamente da alcune caratteristiche del sistema partitico o da quello elettorale. Per esempio, sia Kaiser et al. (2000) che Zucchini (2011) e Pellegata (2011) analizzano la probabilità dell’alternanza nelle democrazie parlamentari europee utilizzando due indicatori: la disproporzionalità del sistema elettorale e il numero di partiti rilevanti (Kaiser et al.) o effettivi (Zucchini e Pellegata). In questo caso il problema è che la relazione tra probabilità di un avvicendamento governativo completo e le due caratteristiche del sistema partitico, anche se giustificabile in linea teorica, non sempre tiene alla prova pratica, quella dei fatti. Infatti, se consideriamo la frequenza delle alternanze in Europa (vedi Valbruzzi 2011), ci accorgiamo che essa raggiunge valori elevati in paesi come la Danimarca9 o la Norvegia, caratterizzati da sistemi partitici ed elettorali “inclusivi”, e valori minimi in sistemi tendenti al bipartitismo, come quelli del Regno Unito e della Spagna, in cui la disproporzionalità del sistema elettorale è sicuramente superiore. A supporto di questa tesi si può citare anche il caso italiano, che ha cominciato a conoscere l’alternanza esattamente nel momento in cui esplodeva la frammentazione partitica. Nello studiare la probabilità dell’alternanza un secondo gruppo di studiosi ha preferito percorrere un’altra strada, prendendo a riferimento la competitività elettorale. L’ipotesi sottostante è abbastanza

9 A tal riguardo, è interessante notare che, proprio il sistema elettorale danese, è quello preferito da Lijphart (2005, ix) per l’«alto, non necessariamente perfetto, grado di proporzionalità».

chiara: maggiore competitività elettorale (comunque la si intenda misurare) produrrà maggiore probabilità di alternanza. Del resto, questo era precisamente ciò che aveva in mente Sartori (1976, 75)nel definire «competitività credibile» quella in cui il partito di minoranza rappresenta «una minaccia competitiva reale e concreta», capace cioè di andare al governo. Lo stesso argomento vale tanto per i sondaggi pre-elettorali quanto per la volatilità inter-blocco degli elettori, perché entrambi gli strumentidanno indicazioni sull’incertezza, ovvero l’imprevedibilità, del voto. Tuttavia, come ha giustamente notato Strøm (1989, 278), «la competizione tra i partiti è un po’ come l’elefante del proverbio: facile da vedere ma difficile da definire». E, come si sa, l’indefinito può essere solo raramente o malamente misurato. Quindi, il problema nella relazione tra competitività e probabilità di alternanza sta, innanzi tutto, nel complicato spacchettamento del concetto di competizione politica. Probabilmente, è la vulnerabilità degli eletti la dimensione della competizione che più si avvicina al concetto di alternanza, ma anche in questo caso i problemi di una adeguata misurazione restano in tutta la loro impellenza(Bartolini 1996). In secondo luogo, la competitività è, nel migliore dei casi, una promessa/premessa di alternanza e, difatti, si potrebbe immaginare un sistema partitico competitivo, in cui i margini elettorali tra i due poli sono sempre ridotti, senza nessuna esperienza di alternanza governativa. Forse non è solo un caso che, fino ad oggi, la ricerca empirica (Ieraci 2010) non sia riuscita a individuare una relazione stringente tra queste due dimensioni della competizione politica, che, a mio avviso, vanno tenute distinte, senza confondere l’una per l’altra.

Tab. 7 - Variabili e indicatori

Alternanza Indici di cambiamento governativo Frequenza nel tempo Grado di cambiamento

Alternabilità Polarizzazione Distanza ideologica Intensità ideologica (partiti anti-sistema)

Bipolarismo Concentrazione voti/seggi in due poli Presenza di coalizioni pre-elettorali

Probabilità di alternanza Numero di partiti Partiti rilevanti Partiti effettivi

Caratteristiche del sistema elettorale Disproporzionalità del sistema elettorale Dimensione media delle circoscrizioni

Competitività inter-partitica Divario (post)elettorale fra i due poli Differenza nei sondaggi pre-elettorali fra i due poli Volatilità elettorale interblocco

Caratteristiche dei governi Frequenza di governi minimi vincenti Frequenza di governi di minoranza

Indici di predominanza Numero di anni senza alternanza Numero giorni/anni di uno stesso partito al governo

Rischio di alternanza Numero di elezioni che hanno prodotto alternanza Frequenza dell’alternanza rispetto agli altri tipi di

cambiamento governativo.

Altri fattori che possono essere utilizzati per spiegare la maggiore o minore probabilità di alternanza presente in un determinato sistema politico vanno individuati nelle caratteristiche dei governi, adesempio nella formazione di coalizioni minime vincenti, che lasciano spazi all’opposizione per organizzare quello che, nel contesto inglese, viene chiamato l’alternative government in waiting. Lo stesso vale per i governi monopartitici e anche per quelli di minoranza, che sono, nelle parole di Strøm (1990, 92), almeno nei sistemi partitici bipolari, dei veri e propri «veicoli di alternanza». Naturalmente, tutto questo è collegato anche alla presenza, o all’assenza, al governo di partiti predominati, vale a dire capaci di restare al potere per un così lungo numero di anni, al di là dei risultati delle elezioni, da rendere inverosimile qualsiasi tipo di sostituzione governativa. Da questo punto di vista, i vari indici di predominio o predominanza presenti nella letteratura (Neubauer 1967, 1006; Sartori 1976, 173-174; Zucchini 2011) sono da considerarsi come delle misure di improbabilità dell’alternanza, ovvero didifficoltà per i partiti di opposizione di aspirare, almeno nel breve periodo, al governo. Ad ogni modo, il punto da tenere a mente è che, laddove esiste un partito predominante, l’«alternanza non è esclusa» e rimane sempre un esito realizzabile (Sartori 1976, 177).Infine, è possibile suggerire due ulteriori misure della probabilità di alternanza. La prima si riferisce al momento elettorale e rileva – per così dire – il rischio che una determinata elezione possa produrre un cambio completo al governo. Il «rischio di alternanza» è dato, sostanzialmente, dal rapporto tra il numero di elezioni che hanno prodotto una sostituzione totale dei governanti e il numero generale di elezioni registrate in un determinato sistema politico. Dunque, si tratta di una misurazione path dependent, che, in base alle esperienze del passato, indica una tendenza che potrebbe riprodursi anche in futuro. La seconda misura, chiamata «tasso di alternanza», indica invece la frequenza con cui i governi vengono sostituiti in blocco in base al numero totale di cambiamenti governativi registrati (tasso relativo) oppure al numero complessivo dei governi (tasso assoluto). Anche per questo indicatore, la misurazione riguarda l’esperienza di alternanze passate che possono essere, comunque, significative per comprendere le dinamiche del presente. In aggiunta, però, questa misura permette di considerare tutti i cambiamenti di governo, e non soltanto quelli prodotti dalle elezioni. Per inciso, il termine che si userebbe in Italia per descrivere una sostituzione completa dei governanti non “benedetta” dalle elezioni è “ribaltone”, che sta ad indicare appunto un totale ribaltamento della maggioranza votata dagli elettori con un’altra maggioranza imposta per via parlamentare. Nella prospettiva adottata in questo studio, non c’è differenza tra i due tipi di alternanze, se non quella che una deriva dalle elezioni e l’altra da un mutamento, del tutto legittimo nei regimi parlamentari, della maggioranza in Parlamento.

Tab. 8 – Tasso e rischio di alternanza in Europa, 1945-2011

N. di alternanzealle elezioni

N. di elezioni

Rischio di alternanza

N. totale di alternanze

Tasso di alternanza

relativo

Tasso di alternanza assoluto

Austria 1 19 5,3 1 14,3 4,0Belgio 3 20 15,0 3 10,7 7,7Danimarca 9 25 36,0 10 50,0 29,4Finlandia 0 19 0 1 4,0 3,0Francia IV 0 4 0 0 0 0Francia V 6 12 50,0 6 46,1 23,1Germania 1 17 5,9 1 10,0 4,0Grecia 5 12 41,7 5 71,4 38,5Islanda 2 20 10,0 2 12,5 7,1Irlanda 12 20 60,0 12 70,6 48,0Italia I 0 11 0 0 0 0Italia II 5 5 100,0 5 83,3 62,5

Lussemburgo 0 15 0 0 0 0Norvegia 7 17 41,2 13 92,9 46,4Paesi Bassi 0 20 0 0 0 0Portogallo 4 13 30,8 4 50,0 21,1Regno Unito 7 18 38,9 7 100 43,8Spagna 3 10 30,0 3 100 33,3Svezia 5 20 25,0 5 50,0 19,2

Media 3,5 15,6 24,9 4,1 40,3 20,6

È ovvio che l’elenco delle possibili misurazioni a cui può essere sottoposta l’alternanza, intesa nei tre modi sopra specificati, è pressoché infinito. Avere a disposizione tante soluzioni, però, non è necessariamente un bene. Anzi, spesso una molteplicità di misure per uno stesso fenomeno sta ad indicare la sostanziale indeterminatezza del concetto alla base della misurazione. Gli studi sull’alternanza e le varie ipotesi di quantificazione ad essa collegate hanno finora privilegiato l’analisi statistica a quella concettuale, ossia il misurare senza bussola piuttosto al costruire una bussola che suggerisca cosa e come misurare. I risultati sono tutt’altro che soddisfacenti: ci troviamo con dati ingannevoli su cui costruiamo teorie errate che confermano concetti e concezioni senza fondamento. È un circolo vizioso dal quale non sarà facile uscire.

Conclusioni alternativeL’alternanza politica, ossia la possibilità di cacciare tutti i “mascalzoni” dal governo, è una caratteristica fondamentale dei regimi democratici. Lo è, in particolare, all’interno di quella visione della democrazia che oggi viene variamente definita maggioritaria, competitiva o, semplicemente, schumpeteriana. È lo stesso Schumpeter (1955, 282) a riconoscere, in uno dei suoi passaggi meno citati, che «elevando a funzione prima del corpo elettorale la creazione di un governo (direttamente o attraverso un corpo intermedio), vi ho compreso anche la funzione di abbatterlo». La possibilità dell’alternanza o, per dirla sempre con lo studioso austriaco, «il ritiro dell’accettazione» da parte dei cittadini-elettori, è un meccanismo imprescindibile delle democrazie. Per di più, si tratta anche un fenomeno politico che, nel corso degli ultimi decenni, si è fatto sempre più ricorrente e, per alcuni, preoccupante (Mair 2009). Purtroppo, la maggior parte degli studiosi si è fatta trovare impreparata di fronte a questo sviluppo e ha preferito adottare scorciatoie che, alla fine dei conti, si sono rivelate del tutto deleterie.La prima scorciatoia è stata quella di sbarazzarsi del concetto, saltando direttamente all’analisi dei dati. Come sappiamo, però, i dati non sono fatti puri e crudi, ma sono espressione e funzione dei concetti sottostanti. L’esito di questo salto nel vuoto è sotto gli occhi di tutti: ci troviamo con informazioni incoerenti che producono montagne o banche di dati di nessuna utilità per la scienza politica. La seconda scorciatoia, dagli effetti ancor più nefasti rispetto alla prima, ha visto molti ricercatori adattare, cioè stiracchiare, i concetti alle proprie teorie, frutto di ipotesi campate in aria. Quando, solo per fare un esempio, si arriva a concludere che «l’alternanza non è assolutamente rara nelle democrazie consensuali» (Lundell 2011, 162), il dissesto teorico e concettuale è eclatante e lampante. In questo modo, non solo si finisce per storpiare il modello di democrazia consensuale (Lijphart 2001), basato inter alia sulla presenza di “grandi coalizioni” al governo, ma allo stesso tempo si deforma a tal punto il concetto di alternanza da renderlo del tutto inutile o inutilizzabile.A questo punto, cioè considerate le pessimi condizioni in cui versano gli studi sull’alternanza governativa, il mio suggerimento è di ripartire dai fondamentali, dalle fondamenta concettuali. Ovviamente, come ha scritto Kaplan (1964, 52), «la formazione del concetto e la formazione della teoria nella scienza procedono mano nella mano», nel senso che l’una permette avanzamenti dell’altra. Tuttavia, esiste un ordine di partenza: «quanto migliori sono i nostri concetti, tanto migliore sarà la teoria che con essi formuleremo e, di conseguenza, migliori saranno i concetti a disposizione per la prossima, migliore teoria» (ibidem, 54). Questa è la strada che va percorsa, una via in salita che non permette facile scorciatoie, ma promette una conoscenza solida e un sapere cumulabile. «Pensare», diceva Kant, «è la conoscenza per concetti». Iniziamo a pensare e a pensarci.

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