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Università degli Studi Dipartimento di di Brescia Economia Aziendale Dicembre 2008 Paper numero 82 Marco BERGAMASCHI MARCHI, IMPRESE E SOCIOLOGIA DELL’ABBIGLIAMENTO D’ALTA MODA

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Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Dicembre 2008

Paper numero 82

Marco BERGAMASCHI

MARCHI, IMPRESE E SOCIOLOGIADELL’ABBIGLIAMENTO D’ALTA MODA

Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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MARCHI, IMPRESE E SOCIOLOGIA

DELL’ABBIGLIAMENTO D’ALTA MODA

di Marco BERGAMASCHI

Dottorando in Economia Aziendale Università di Brescia

L’autore intende ringraziare per i suggerimenti, i consigli, le critiche, i professori Renato Camodeca, Alberto Falini e la dottoressa Ilaria Grezzini. L’a. ringrazia

inoltre per i colloqui concessigli il dott. Alberto Damian, il dott. Andrea Zanoni, il dott. Emilio Foà, il dott. Fabrizio Concaro, l’Avv. Luca Pastorelli.

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“La moda è la più eccellente delle farse, quella in cui nessuno ride

perché tutti vi recitano.”

(André Suarès, Voici l’homme)

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Indice

1. Introduzione ............................................................................................. 1

2. Il marchio nella prospettiva economico-aziendale ................................ 2

3. La normativa italiana in tema di contabilizzazione dei marchi........... 5

3.1 La legge applicabile ............................................................................. 5

3.2 I Principî Contabili Italiani e Internazionali......................................... 6

4. I criterî e i metodi di valutazione del marchio....................................... 9

4.1 Considerazioni introduttive.................................................................. 9

4.2 Il criterio del costo. ............................................................................ 11 4.2.1 Il metodo del costo storico ..................................................... 11 4.2.2 Il metodo del costo storico residuale ..................................... 12 4.2.3 Il metodo del costo di riproduzione........................................ 12

4.3 Il criterio dei redditi differenziali ....................................................... 12 4.3.1 Il metodo di attualizzazione dei redditi differenziali (premium

price)....................................................................................... 12 4.3.2 Il metodo dell’attualizzazione delle perdite da sopportare in

ipotesi di cessione ................................................................... 13 4.4 Il criterio comparativo........................................................................ 13

4.4.1 Il metodo delle transazioni comparabili ................................ 13 4.4.2 Il metodo dei tassi di royalty o dello sgravio delle royalties .14 4.4.3 Il metodo dei multipli ............................................................. 14 4.4.4 Il metodo dei differenziali di multiplo sulle vendite ............... 15 4.4.5 I metodi fondati su ricerche di mercato: interbrand, brand

rating e valore delle relazioni con il cliente ........................... 15

5. Storia e sociologia della moda. Cenni................................................... 17

6. Il marchio nel settore dell’abbigliamento di moda e nei due casi definiti ......................................................................................................... 26

7. Conclusioni ............................................................................................. 34

Bibliografia ................................................................................................. 40

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1. Introduzione

Il fenomeno-moda, esistente in sé da sempre –in particolare nelle civiltà sviluppate, opulente, e poi via via decadenti-, ha assunto negli ultimi decenni, nelle c.d. <società avanzate>, rilevanza tale da poter esser data per nota al Lettore.

Tuttavia, lo svilupparsi del fenomeno in oggetto, se ha comportato mutamenti sociali noti o intuibili, ha nondimeno indotto cambiamenti rilevanti nei sistemi aziendali in cui lo stesso si esprime.

Oggetto sostanziale del presente lavoro è costituito dall’economia del marchio nel settore dell’Alta Moda, da un lato nelle sue premesse sociologiche, dall’altro nei suoi criterî di valutazione.

Il c.d. fashion system presenta infatti variabili sociali del tutto caratterizzanti, tali certamente da contribuire alla complessità del fenomeno in parola anche in prospettiva economico-aziendale.

Per tale motivo il lavoro comprende una breve disamina delle teoresi di alcuni autori che variamente si sono succedute nel tempo in merito alla moda quale <istituzione sociale>; teoresi che talvolta hanno insistito sullo <spirito di emulazione> degli individui, sulla capacità di differenziazione o, ancora, su una sintesi di ambedue gli aspetti, talaltra sulla possibilità per la moda –come Arte?- di condizionare e strutturare la realtà sociale stessa1.

Del resto, già sul finire del Secolo decimonono la filosofia sociale, in particolare con Simmel, intendeva cogliere lo spirito della moda nella diade imitazione-innovazione, cioè da un lato nella diffusione ampia e onnicomprensiva del fenomeno in parola e, dall’altro, al contempo, nella repentina caducità del medesimo2.

Tale impostazione, per quanto di carattere sociologico e dunque ultronea rispetto alla <ontologia regionale>3 delle discipline economico-aziendali, dà tuttavia contezza delle difficoltà che inevitabilmente si prospettano ogni qualvolta si renda necessario assegnare un valore al marchio, quest’ultimo elemento fondativo e qualificante delle aziende del sistema-moda.

Nel lavoro si accenna inoltre al marchio in prospettiva economico-aziendale e ragioneristica, e alla normativa vigente in Italia, con particolare riguardo all’applicazione dei principî contabili italiani e internazionali. Tale

1 O. WILDE, The decay of lying, 1891, trad. it. di A. Lamarra in ID., La decandenza

della menzogna, Napoli, Filema, 2006. 2 G. SIMMEL, Zur Psychologie der Mode. Soziologische Studie, 1895, poi ripubblicato

nel 1905 con il titolo Philosophie der mode, infine confluito come Die Mode nella raccolta di saggi del 1911 Philosophische Kultur. Gesammelte Essais.

3 Sul concetto di <ontologia regionale> quale <campo scientifico> cfr., in particolare, G. PRETI, Fenomenologia del valore, Milano, Principato, 1942; E. PACI, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano, Il Saggiatore, 1963.

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parte del presente articolo si conchiude infine con un rapido richiamo ai principali criterî di valutazione del marchio, e relativi metodi.

Si prosegue poi con l’esposizione delle peculiarità del <settore-moda>, con particolare riguardo da un lato al duplice grado di competizione (simbolico ed economico) che involve tale mercato, dall’altro lato alla preminenza del c.d. <codice stilistico>, ossia il tratto distintivo dell’intera produzione delle aziende di cui si tratta.

Si esaminano infine casi definiti di valutazione del marchio del settore-moda –e che l’autore si auspica siano ritenuti sufficientemente rappresentativi-, relativi alle società Valentino Fashion Group S.p.A. e Giorgio Armani S.p.A.

2. Il marchio nella prospettiva economico-aziendale

Richiamando in forme brevi quanto proposto dalla dottrina giuridica, si è ormai da tempo consolidata la definizione di marchio come qualsivoglia segno suscettibile di venire rappresentato graficamente mediante parole, disegni, lettere, cifre, suoni, forme (sia del prodotto, sia della confezione), combinazioni o tonalità cromatiche, purché atto a distinguere i beni o i servizî di una determinata impresa4.

Sempre secondo tale logica, occorre dunque valutare del marchio l’elemento essenziale della <capacità distintiva>, ossia l’idoneità a consentire ai consumatori di distinguere i beni o i servizî di un’impresa da quelli simili di un’altra impresa.

La nozione giuridica di marchio ora proposta, per quanto funzionale ai fini di tutela cui le norme del Codice della proprietà industriale all’uopo introdotte debbono tendere, risulta tuttavia riduttiva della complessa realtà economica.

Infatti, molteplici studî di marketing hanno nel tempo rilevato come la marca sia identificativa di elementi ulteriori rispetto alla mera capacità

4 Nella letteratura giuridica si rinvia fra gli altri a: M. RICOLFI, I segni distintivi.

Diritto interno e diritto comunitario, Torino, Giappichelli, 1999; P. AUTERI, G. FLORIDIA, V. MANGINI, G. OLIVIERI, M. RICOLFI, P. SPADA, Il diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Giappichelli, Torino, 2001; N. ABRIANI, G. COTTINO, M. RICOLFI, Diritto industriale, in <Trattato di diritto commerciale>, CEDAM, Padova, 2001; L. C. UBERTAZZI, Codice della Proprietà industriale, Milano, Giuffrè, 2004; AA.VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, Giappichelli, 2005; M. SCUFFI, M. FRANZOSI, A. FITTANTE, Il codice della proprietà industriale, Padova, CEDAM, 2005; V. MANGINI, Manuale breve di diritto industriale, Padova, CEDAM, 2005; A. VANZETTI, V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Milano, Giuffrè, 2005; F. DE BENEDETTI, G. GHIDINI, Codice della proprietà industriale, Il Sole 24 Ore, Milano, 2006.

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distintiva quali, fra gli altri -certo in maggiore o minor misura-, la storia dell’azienda, la quota di mercato detenuta, il grado di notorietà del nome, la qualità dei beni esitati sul mercato, l’efficienza della rete di vendita, le capacità del management commerciale e così via5. Si comprende allora come la marca sia un concetto di natura relativa, in quanto essa instaura una relazione con il consumatore, al fine di i) comunicargli i valori di cui sopra, ii) indirizzarlo nella scelta verso il prodotto di riferimento6.

Ricalcato il binomio anglosassone di trademark e brand, il coacervo di valori rappresentati dalla marca, -variamente componibili e, in taluni casi, sovrapponibili7- pone in luce il problema dell’appartenenza della medesima alla categoria delle attività c.d. <intangibili> donde, di conseguenza, il problema della sua misurazione in quantità monetarie. Occorre cioè prendere coscienza delle problematiche che i beni immateriali –fra i quali stricto sensu il marchio- sollevano in merito alla loro i) definizione, ii) classificazione, iii) rilevazione contabile.

L’osservazione dell’odierna realtà economica consente del resto di intuire il grado di rilevanza che i beni immateriali detengono fra i fattori produttivi di alcune imprese. Restando al tema del presente lavoro, si pensi

5 Cfr. fra gli altri: S. PODESTÀ, Prodotto, consumatore e politica di mercato, Milano,

Etas Libri, 1974.; S. PODESTÀ, Nuovi sviluppi del marketing, in AIDEA, Il marketing dei servizi, Milano, Giuffrè, 1982; B. BUSACCA, L'analisi del consumatore: sviluppi concettuali e implicazioni di marketing, Milano, Egea, 1990; D. A. AAKER, Managing brand equity: capitalizing on the value of a brand name, New York, Free Press, 1991; K. L. KELLER, Conceptualizing, measuring and managing customer-based brand equity, <Journal of Marketing>, 57, 1993, pp. 1-22; B. BUSACCA, S. CASTALDO, Il potenziale competitivo della fedeltà alla marca e all'insegna commerciale: una metodologia di misurazione congiunta, Milano, Egea,1996; K. L. KELLER, Strategic brand management, Upper Sadle River, Prentice Hall, 1998; G. BERTOLI, G. TROILO, L’evoluzione degli studi di marketing in Italia, Brescia, Paper numero 10 del Dipartimento di Economia Aziendale, 2000; B. BUSACCA, Il valore della marca tra postfordismo ed economia digitale, Milano, Egea, 2000; G. BERTOLI, B. BUSACCA, Il valore della marca. Modello evolutivo e metodi di misurazione, Brescia, Paper numero 19 del Dipartimento di economia Aziendale, 2002; G. BERTOLI, E. VALDANI, Marketing e mercati internazionali, Milano, Egea, 2006.

6 Ritenendo evidentemente non del tutto esplicativi del fenomeno i concetti di trademark e di brand, a muovere dagli anni Ottanta del Secolo XX alcuni Autori sono giunti alla teoresi del concetto di brand equity quale valore finanziario incrementale di un prodotto dovuto al brand. Sul punto, cfr. in particolare, D. A. AAKER, op. cit., 1991; P. FARQUHAR, J. Y. HAM, Y. IJIRI, Recognizing and measuring brand assets, Working Paper Series, Report Number 91-119, Cambridge, MA, Marketing Science Institute, 1991; R. SRIVASTAVA, A. D. SHOCKER, Brand equity: a perspective on its meaning and measurement, Working Paper Series, Report Number 91-124, Cambridge, MA, Marketing Science Institute, 1991.

7 L. GUATRI, Il differenziale fantasma, in <Finanza, Marketing e Produzione>, 1, 1989, pp. 53-61, a p. 55.

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al settore della moda: in taluni casi la produzione viene addirittura completamente delegata all’esterno, conservando la maison le sole attività di creazione, pubblicità, distribuzione, ossia di sviluppo dei beni immateriali.

Al fine di offrire una corretta definizione di bene immateriale, la dottrina economico-aziendale è giunta a formulare in merito i seguenti tre requisiti:

1. essere oggetto di un <flusso di investimenti>; 2. essere all’origine di <beneficî economici differenziali> di entità

apprezzabile; 3. essere (almeno idealmente) <trasferibile>8.

Si noti come il primo e il secondo aspetto siano intimamente connessi, in quanto determinati impieghi di risorse compiuti a favore di taluni beni immateriali vengono analizzati tenuto conto:

i) della loro rilevanza rispetto all’intera struttura degli investimenti, ii) dei benefici economici attesi, quantificati in base ai differenziali di

prezzo o di volume ottenuti.

Il terzo aspetto, ossia il giudizio di <trasferibilità>, consente poi di selezionare i beni immateriali, considerando oggetto autonomo di valutazione i soli per i quali sussista una <fruibilità separata>. Rimangono in tal modo escluse, ad esempio, le quote di mercato o i costi di addestramento del personale, quelle e questi poiché non direttamente trasferibili. Antecedente logico del concetto di <trasferibilità> è allora il c.d. criterio di <identificabilità>, alla luce del quale i beni immateriali suscettibili di autonoma valutazione sono considerati separatamente dai meri <valori immateriali>, riconducibili questi ultimi nell’ambito del valore dell’avviamento aziendale e, per certi aspetti, del <going concern value>9.

Infine, tramite il c.d. criterio della <dominanza>, la dottrina economico-aziendale è giunta alla composizione di due classi omogenee di intangibili, a seconda che afferiscano all’area del marketing o della tecnologia, onde evitare il rischio di sovrapposizioni e duplicazioni; il criterio in parola stima

8 G. BRUGGER, La valutazione dei beni immateriali legati al marketing e alla

tecnologia, in <Finanza, Marketing e Produzione>, n. 1-1989, pp. 33-52, a p. 43. Del medesimo orientamento in particolare G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende, Torino, Giappichelli, 1992; S. BIANCHI MARTINI, L. CINQUINI, G. DI STEFANO, M. GALEOTTI, Introduzione alla valutazione del capitale economico. Criteri e logiche di stima, Milano, Franco Angeli, 2000. Sul tema, si veda poi il recente lavoro di S. ZAMBON, G. MARZO, Visualising intangibles: measuring and reporting in the knowledge economy, London, Ashgate, 2007.

9 A. RENOLDI, La valutazione dei beni immateriali. Metodi e soluzioni, Milano, Egea, 1992, pp. 25-26.

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gli intangibili in relazione a tali categorie, a seconda della prevalenza dei profili, appunto, di mercato o tecnologico10.

Secondo alcuni Autori, le teoriche finora esposte hanno la funzione di evitare lo iato fra la rappresentazione contabile degli intangibili e il loro presunto valore economico, al fine di:

i) determinare con completezza il risultato economico di periodo, ii) migliorare la qualità dell’informazione societaria11.

In ordine al primo aspetto, Guatri evidenzia infatti come, componendosi il risultato economico di periodo della variazione del capitale netto contabile e della variazione di valore dei beni immateriali, sfugga alla rilevazione contabile tale secondo elemento, per tale motivo denominato anche <differenziale fantasma>12.

In ordine al secondo aspetto, il problema della valorizzazione dei beni immateriali nei documenti contabili riflette il noto tema del bilancio d’esercizio quale strumento cardine della informazione societaria per la moltitudine dei soggetti che, a vario titolo, presentano interessi nell’impresa, tra i quali gli azionisti, gli obbligazionisti, i creditori (i c.d. <stakeholders>)13.

3. La normativa italiana in tema di contabilizzazione dei marchi

3.1 La legge applicabile

La redazione del bilancio di esercizio avviene in aderenza alle norme del Codice civile, interpretabili -anche se sul punto non tutti i pareri risultano concordi- dai principî contabili nazionali emanati dall’OIC (Organismo Italiano di Contabilità).

Si aggiunga però che, con il Regolamento Comunitario 19 luglio 2002, n. 1606, l’Unione Europea, a muovere dal 2005, ha inteso introdurre negli

10 L. GUATRI, M. BINI, Nuovo trattato sulla valutazione delle aziende, Milano,

Università Bocconi Editore, 2005, p. 145. Sul punto cfr. anche, L. GUATRI, M. BINI, Impairment 2. Gli intangibili specifici, Milano, Università Bocconi Editore, 2003; I. GREZZINI, La valutazione delle imprese industriali in funzionamento, Padova, CEDAM, 2005, pp. 98-99.

11 Sul punto, cfr., L. GUATRI, M. BINI, op. cit., pp. 150-159; B. LEV, Intangibles, Washington, Brooking Institution Press, 2001, pp. 105-107; L. GUATRI, op. cit., p. 58-61.

12 L. GUATRI, Il differenziale fantasma, in <Finanza, Marketing e Produzione>, 1, 1989, pp. 53-61.

13 In tema di bilancio non solo quale strumento informativo ma anche quale strumento di gestione, cfr. fra gli altri, R. CAMODECA, L’iter formativo del bilancio d’esercizio, Padova, CEDAM, 2001, pp. 225-242.

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Stati membri l’applicazione degli IAS (International Accounting Standard) emanati dallo IASB (International Accounting Standard Board), al fine di rendere maggiormente comparabili i bilancî consolidati delle società quotate europee14. L’art. 5 del regolamento in parola lascia inoltre agli Stati membri la facoltà di applicare i principî contabili internazionali relativamente i) al bilancio d’esercizio delle società quotate, ii) anche al bilancio d’esercizio e consolidato di tutte le società non quotate.

L’Italia ha esercitato tale facoltà con l’emanazione della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (c.d. legge Comunitaria), in forza della quale si dispone l’obbligo di adozione dei principî contabili internazionali per la redazione:

i) del bilancio di esercizio delle società quotate; ii) del bilancio di esercizio e consolidato delle società che emettono

strumenti finanziarî diffusi fra il pubblico ai sensi dell’art. 116 del D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58;

iii) del bilancio di esercizio e consolidato delle banche e degli intermediarî finanziarî sottoposti a vigilanza da parte della Banca d’Italia;

iv) del bilancio consolidato delle imprese di assicurazione; v) del bilancio di esercizio delle imprese di assicurazione solo se

quotate e non redigenti il bilancio consolidato15.

L’applicazione degli IAS è facoltativa per le società non quotate che redigano il bilancio in forma completa, mentre è vietata per le società che adottino il bilancio in forma abbreviata ai sensi dell’art. 2435bis del Codice civile.

3.2 I Principî Contabili Italiani e Internazionali Il marchio rientra fra le immobilizzazioni immateriali; occorre pertanto

fare riferimento a quest’ultima categoria economico-giuridica. Secondo il principio contabile n. 24 dell’OIC, esplicativo dell’art. 2426

del Codice Civile, le immobilizzazioni immateriali sono tali se i) non sussista alcun elemento di tangibilità, ii) i costi connessi alla loro acquisizione o produzione siano identificabili, misurabili ed effettivamente sostenuti, iii) si sia ipotizzata l’utilità futura, intesa come beneficio economico dato da maggiori ricavi o minori costi. Non sono soggetti a iscrizione i valori immateriali acquisiti a titolo gratuito, in virtù del

14 Si rammenti poi il Regolamento n. 1725/2003/CE, mediante il quale la Commissione

ha approvato la generalità dei 41 documenti IASB e delle 33 interpretazioni SIC esistenti alla data di omologazione, con esclusione dei soli IAS 32 e 39.

15 P. MORETTI, L’applicazione dei principi IAS nell’ordinamento italiano, in <Corriere tributario>, 30, 2004, pp. 2355-2360, a p. 2357.

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contrasto con il principio della prudenza, ai sensi dell’art. 2423bis del Codice civile16.

Rispetto al citato Principio Contabile n. 24, lo IAS 38 statuisce che sia definito <bene intangibile> un’attività i) identificabile, ii) sulla quale l’entità eserciti un controllo, iii) atta a produrre benefici economici futuri.

Si intende quindi distinguere l’elemento considerato dal più generale avviamento aziendale, verificarne la fruibilità esclusiva, valutarne l’attitudine prospettica a generare redditi, misurarne il costo sostenuto per acquisirne la disponibilità17. In altre parole, occorre che l’attività immateriale sia i) separabile, cioè passibile di scorporo dall’entità al fine di essere lato sensu ceduta, ii) derivante da diritti contrattuali o da altri diritti legali, iii) oggetto di utilizzazione da parte della sola entità e non di terzi, iv) produttiva di benefici economici futuri (ad esempio, i proventi originati dalla vendita di beni economici o i minori costi di produzione, così il punto 17 dello IAS 38).

Tale logica consente un‘ulteriore classificazione dei beni immateriali, previa alla iscrizione in bilancio degli stessi a seconda che essi siano a) acquisiti dall’esterno, b) prodotti internamente.

La prima categoria è obbligatoriamente soggetta a rilevazione contabile, fatta eccezione per l’ipotesi anzidetta dell’intangibile ricevuto a titolo gratuito.

Per la seconda il trattamento appare maggiormente complesso. Il Principio Contabile n. 24 non osta infatti all’iscrizione in bilancio degli intangibili internamente prodotti, ma in tal senso si configura una discrepanza rispetto alla previsione del punto 63 dello IAS 38, secondo il quale non è possibile capitalizzare i costi relativi allo sviluppo interno di un marchio, in quanto non distinguibili dai più generali costi di sviluppo dell’avviamento aziendale18. La definizione assunta dallo IAS 38 considera

16 La dottrina ha espresso sul punto opinioni talvolta contrastanti; cfr. in particolare, G.

ZAPPA, Il reddito di impresa, Milano, Giuffrè, 1950, pp. 577-586; P. ONIDA, Il bilancio d’esercizio nelle imprese. Significato economico del bilancio e problemi di valutazione, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 441-449; F. SUPERTI FURGA, Le valutazioni di bilancio, Milano, Isedi, 1976, p. 79; G. E. COLOMBO, Il bilancio di esercizio. Strutture e valutazioni, Torino, UTET, 1987, p. 180.

17 L. MARCHI, La contabilità aziendale, Ipsoa, Milano, 2005, pp. 347-351. Cfr. sul punto F. MANCA, Il valore di bilancio degli intangibles assets, Padova, CEDAM, 2003; L. POZZA, Gli intangibili in bilancio. Comunicazione e rappresentazione, Milano, Università Bocconi Editore, 2004, pp. 69-75.

18 Sul punto, cfr. fra gli altri, L. C. UBERTAZZI, Il valore del marchio nell’era tecnologica, in <Diritto dell’internet>, 1, 2006, pp. 5-9.

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i soli marchi acquisiti, per i quali cioè l’azienda abbia pagato un <prezzo>, escludendo i segni distintivi generati internamente19.

Le immobilizzazioni immateriali devono venire inizialmente iscritte in bilancio al costo di acquisto o di produzione ai sensi dell’art. 2426 del Codice civile20. Anche lo IAS 38 prescrive che gli intangibili vengano iscritti inizialmente al costo di acquisizione; esso aggiunge però che, qualora il bene sia stato ottenuto tramite un’operazione di aggregazione aziendale (business combination), lo stesso venga iscritto al proprio <fair value>. Tale concetto dovrebbe esprimere il corrispettivo al quale il bene potrebbe venire scambiato in una libera transazione fra parti consapevoli e disponibili (così il punto 8 del nuovo IAS 38 adottato con regolamento della Commissione 29 dicembre 2004, n. 2236 e attuato in Italia con il D.lgs. 28 febbraio 2005, n. 38)21.

Successivamente il costo delle immobilizzazioni immateriali deve venire sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione al residuo utilizzo. Lo IAS 38 prevede sul punto una distinzione, a seconda che il bene immateriale abbia vita utile definita o meno22.

Nel primo caso, in aderenza ai principî contabili italiani, si procede ad ammortamento; nel secondo caso, viceversa, si compie una valutazione sull’eventuale perdita di valore del bene denominata <impairment test> ai sensi dello IAS 3623. Nel campo della moda, oltre all’avviamento aziendale, il marchio viene ritenuto da alcuni uno dei pochi intangibili a vita indefinita, dal momento che ad un incremento del suo valore, corrisponde un

19 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., p. 144; PRICEWATERHOUSECOOPERS, Principi

Contabili Internazionali. Analogie e differenze. IFRS, US GAAP e Principi Italiani, 2006, reperibile dal sito www.pwc.com.

20 C. BIANCO, Le immobilizzazioni immateriali nel bilancio d’esercizio, tra disposizioni civilistiche, principi contabili nazionali e disposizioni fiscali, in AA.VV., Il bilancio d’esercizio 2003: novità civilistiche, contabili e fiscali, Torino, MAP, 2004, pp. 33-50.

21 L. MARCHI, op. cit., p. 357. 22 Per evidenze empiriche in tema di trasparenza ed efficacia nella comunicazione

economico-finanziaria degli intangibili, si rinvia a C. TEODORI, M. VENEZIANI, The impact of the IAS 38 on financial performances: a survey of the Italian New Market, XXVIII European Accounting Association Congress, Göteborg, 18-20 maggio 2005; C. TEODORI (a cura di), L’adozione degli IAS/IFRS in Italia: le attività immateriali e l’impairment test, Torino, Giappichelli, 2006; C. TEODORI, M. VENEZIANI, Intangibles assets in annual reports: a disclosure index, 3rd Workshop on Visualising, Measuring and Managing Intangibles and Intellectual Capital, Ferrara, 29-31 ottobre 2007; C. TEODORI, M. VENEZIANI, L. BOSIO, Intangibles e trasparenza informativa. La disclosure sulle immobilizzazioni immateriali e sull’impairment test, Bilanci consolidati. Prima applicazione degli IAS/IFRS e best practice, Il Sole 24 Ore, Milano, 8 febbraio 2008.

23 G. FERRANTI, Lo IAS 38 e la valutazione dei beni immateriali, in <Forum Fiscale>, 2, 2006, pp. 53-59, a p. 57.

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incremento della durata dei benefici economici generati. Tale logica parrebbe peraltro confermata dalla norma di cui all’art. 16 del Codice della proprietà industriale, la quale consente il rinnovo ogni decade della registrazione del marchio senza significativi costi addizionali24.

Oltre al metodo del costo, lo IAS 38 prevede poi il c.d. <metodo della rivalutazione> (allowed treatment), che concerne i soli beni negoziati in un <mercato attivo>: si prevede che un’attività immateriale venga iscritta al proprio <fair value> al netto degli ammortamenti e delle perdite per riduzione durevole di valore accumulato (così il punto 75 dello IAS 38). Al marchio non può venire tuttavia applicato tale metodo in quanto, data l’unicità del bene in parola, si presume l’assenza di un mercato sistematicamente attivo25.

4. I criterî e i metodi di valutazione del marchio.

4.1 Considerazioni introduttive Esposti in forme brevi i principî per la rappresentazione contabile del

marchio, occorre ora proporre alcune riflessioni in tema di criterî e metodi di valutazione del valore economico del medesimo.

La necessità di ricorrere a tale valutazione si manifesta in tre ipotesi tipiche:

1. impairment test o svalutazione per perdita durevole di valore, ai sensi dell’art.2426, punto 3;

2. <cessione> del marchio, intesa lato sensu; 3. controversie giudiziarie in materia, anche relative ai punti sub 1) e

2)26.

Con riguardo alla prima ipotesi, rinviando a quanto esposto in precedenza in tema di normativa contabile del marchio in Italia, si rammenti solo che, qualora la legge esiga la valutazione del marchio al proprio <fair value>, sia

24 D. PREDOVIC, La valutazione del marchio. Dalla consumer-based brand equity alla

valutazione finanziaria, Milano, Egea, 2004, pp. 127-128. Per il commento giuridico della citata norma si rinvia, fra gli altri, a: M. SCUFFI, M. FRANZOSI, A. FITTANTE, op. cit., pp. 143-144.

25 Un mercato è <attivo> se si verificano le seguenti condizioni: i) i beni negoziati sono omogenei, ii) gli acquirenti e i venditori disponibili alla negoziazione possono essere trovati in qualsivoglia momento, iii) i prezzi sono disponibili al pubblico.

26 Cfr. S. VICARI (a cura di), Brand Equity. Il potenziale generativo della fiducia, Milano, Egea, 1995.

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in caso di business combination, sia nell’ipotesi di applicazione del c.d. impairment test, occorre ricorrere a uno dei criterî qui di seguito esposti27.

In merito alla seconda ipotesi si pensi, titolo esemplificativo, al contratto di vendita, mediante il quale una parte si obblighi a trasferire in capo all’altra la titolarità del segno dietro corrispettivo in denaro; ai contratti di godimento del diritto quali il licensing e il merchandising; agli atti di conferimento di diritti relativi a segni distintivi, sia nella fase di costituzione della società sia successivamente nel caso di aumento del capitale sociale; infine a operazioni straordinarie quali fusioni e scissioni28.

Con riguardo infine alla terza ipotesi, si consideri come le controversie –oltre a quelle inerenti le materie sub 1) e 2)- possano sorgere qualora i) Tizio pretenda di essere titolare di un marchio registrato da Caio ed eserciti un’azione di rivendicazione del marchio nei confronti di quest’ultimo; ii) Tizio eserciti un’azione di nullità per <carenza di novità> del segno di Caio; iii) Tizio eserciti un’azione di decadenza del marchio di Caio; iv) Tizio eserciti un’azione di accertamento del proprio diritto di preuso; v) Tizio avvii un’azione di contraffazione per l’illecito utilizzo del marchio da parte di Caio29.

La letteratura economico-aziendale dedica ampio spazio al tema dei criterî di valutazione dei beni immateriali, sostenendone in particolare la distinzione fra a) criterî analitici, la cui costruzione logica è sorretta da informazioni documentate, b) criterî empirici, fondati su formule desunte dall’andamento del mercato di riferimento, nonché su percentuali o moltiplicatori di grandezze date, ritenute basilari ai fini della misurazione degli intangibili considerati30.

27 Sul punto, cfr. D. PREDOVIC, op. cit., pp. 146-152; L. C. UBERTAZZI, op. cit., p. 6; A. RENOLDI, op. cit., pp. 21-23.

28 Sul punto, oltre alle opere di cui alla n. (2), cfr. F. GALGANO, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, “merchandising”, in <Contratto e Impresa>, 1, 1987, pp. 173-187; ID., Il nuovo diritto societario, CEDAM, Padova, 2003; AA.VV, Diritto commerciale, Bologna, Monduzzi, 2007; C. GALLI, voce Marchio, <Il Diritto. Enciclopedia Giuridica>, Milano, Il Sole 24 Ore, 2007, pp. 386-417.

29 Sulle problematiche sorte in sede giudiziaria civile e penale per la tutela del marchio Louis Vuitton, si veda, STUDIO LEGALE CIRILLO E SVARIATI (a cura di), Marchi, note illustrative, giurisprudenza, Roma, 1989.

30 I. GREZZINI, op. cit., p. 100. Oltre alle opere di cui alla n. (5), cfr. R. MAZZEI, Brand equity: il valore della marca. Teoria e prassi dei processi valutativi, Milano, Egea, 1999; D. PREDOVIC (a cura di), Brand. Ma quanto vale?, Milano, Egea, 2004. Sul tema, con riguardo alla letteratura straniera cfr. A. SEETHARAMAN, ZAINAL AZLAN BIN MOHD NADZIR, S. GUNALAN, A conceptual study on brand evaluation, in <Journal of Product & Brand Management>, vol. 10, 4, 2001, pp. 243-256; H. SATTLER, S. HÖGL, O. HUPP, Evaluation of the Financial Value of Brands, Research Papers on Marketing and Retailing, University of Hamburg, 7, 2002; T. KOLLER (a cura di), Valuation: measuring and managing the value of companies, New York, John Wiley & Sons Ltd, 2005; M.

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Fra i criterî del primo tipo si ricordano principalmente a)1) il criterio del costo, comprensivo a propria volta dei metodi del costo storico, del costo residuale, del costo di sostituzione (replacement); a)2) il criterio dei redditi differenziali, includente i metodi del premium price e del <costo della perdita>.

Fra i criterî del secondo tipo si annoverano b)1) il criterio comparativo (metodi delle transazioni comparabili, dei royalty rates o del relief of royalties, dei multipli impliciti nei deals, dei multipli empirici, dei differenziali di multiplo sulle vendite), b)2) il criterio delle ricerche di mercato (metodi interbrand e brand rating), b)3) il criterio del valore della relazione con il cliente31.

Si aggiunga poi che qualsivoglia metodo o criterio adottato deve necessariamente trovare il proprio limite nel valore dell’azienda nella sua unitarietà. La dottrina economico-aziendale parla in proposito di vincolo dello <scenario reddituale>, tramite il quale si verifica la congruità del valore assegnato ai beni immateriali in relazione all’attitudine dell’impresa di produrre redditi e capitali32.

Data la circoscrizione del tema discusso, si intende porgere nel prosieguo del presente lavoro alcune brevi annotazioni in merito ai metodi di valutazione del marchio maggiormente accreditati secondo le odierne letteratura e prassi economico-aziendali.

4.2 Il criterio del costo.

4.2.1 Il metodo del costo storico

Il metodo del costo storico, -sovente utilizzato per i beni intangibili in via di formazione, dunque soggetti a un elevato grado di approssimazione nella stima- si concretizza nella capitalizzazione dei costi che l’azienda ha dovuto sostenere per la costituzione e l’affermazione del proprio marchio.

Si sottolinea tuttavia come nell’ipotesi di marchi internamente prodotti, l’utilizzazione di tale metodologia si sostanzi nella rinuncia a un giudizio di valutazione, anche senza considerare la complessità nota del problema di scindere complessi di costi comuni, nei fatti congiunta33.

HOMMEL, D. PAULY, S. SCHMITZ, Valuation of brand assets for financial reporting, 3rd Workshop on Visualising, Measuring and Managing Intangibles and Intellectual Capital, Ferrara, 29-31 ottobre 2007.

31 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., p. 161. 32 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., p. 162-163. 33 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., p. 164.

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4.2.2 Il metodo del costo storico residuale

Una variante del metodo del costo storico consiste nell’accertamento dei costi storicamente necessarî per la formazione e lo sviluppo del marchio, a prescindere dall’eventuale capitalizzazione contabile del medesimo. La stima deve peraltro avvenire a valori monetarî correnti e, se del caso, al netto del degrado intervenuto.

I costi da considerare devono poi possedere la natura di investimento: per tale motivo, occorre includere, fra le altre, le spese sostenute per gli oneri pubblicitarî e, più in generale, per la struttura e l’organizzazione del marketing34. 4.2.3 Il metodo del costo di riproduzione

Il metodo del costo di riproduzione consiste nella stima di quanto costerebbe riprodurre alla data odierna il marchio oggetto di valutazione35. In altre parole, tale metodo si basa sull’ammontare degli investimenti che si renderebbero necessarî qualora si volesse realizzare –in relazione all’attuale <grado catallattico> del mercato- un marchio dalle potenzialità equivalenti al marchio da valutare36.

La stima può avvenire tanto per via analitica, ossia calcolando precisi volumi di attività necessarî e prezzi unitarî, quanto per via sintetica, cioè tramite l’utilizzazione di coefficienti, intesi come moltiplicatori degli oneri annuali sopportati per riprodurre il marchio a valore corrente. Occorre ad ogni modo sottolineare come debbano essere assunti i soli costi relativi alle fasi di lancio e di consolidamento del marchio, escludendo -secondo la letteratura prevalente- le spese di marketing ascrivibili al mantenimento dell’immagine, della notorietà e della fedeltà alla marca nei confronti della clientela37.

4.3 Il criterio dei redditi differenziali

4.3.1 Il metodo di attualizzazione dei redditi differenziali (premium price)

Il metodo di attualizzazione dei risultati differenziali si fonda sulla convinzione che il marchio sia all’origine di specifici e misurabili vantaggi da stimare in via <differenziale> in relazione a imprese analoghe che non ne fruiscono38. In altri termini, il valore del marchio dell’impresa Alfa è dato

34 I. GREZZINI, op. cit., pp. 100-101. 35 C. ZARA (a cura di), La valutazione della marca, Milano, Etas, 1997, pp. 55-89. 36 G. DEMARIA, Trattato di logica economica, vol. I, La catallattica, Padova,

CEDAM, 1962; A. RENOLDI, op. cit., pp. 81-89; 37 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., pp. 165-166. 38 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., p. 170.

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dalla risultante della comparazione fra il volume dei prezzi-ricavo derivanti dalle vendite dei beni di Alfa rispetto al volume dei prezzi-ricavo delle vendite dei beni di un’impresa concorrenziale che non goda del segno distintivo di Alfa, oggetto della stima39.

Al fine di stimare una <previsione ragionevole> dei margini economici consentiti dalla <notorietà> del marchio, per un periodo equivalente alla ipotizzata vita economica del medesimo, si aggiunga inoltre che si rende necessario considerare, fra l’altro, i maggiori costi di marketing per il mantenimento dell’elevato livello qualitativo del prodotto40. 4.3.2 Il metodo dell’attualizzazione delle perdite da sopportare in ipotesi di cessione

Mediante il metodo dell’attualizzazione delle perdite da sopportare in ipotesi di cessione si stima l’ipotetico danno cagionato dalla perdita della disponibilità del marchio. In sede operativa, il valore del marchio è identificativo della stima attuale dei margini reddituali perduti, i) misurati in base all’analisi differenziale, ii) relativi al prevedibile periodo di tempo occorrente per la ricostituzione di un marchio di pari valore41.

In altri termini, tale metodo consiste nel prezzo che l’impresa sarebbe disposta a versare per assicurarsi nuovamente la disponibilità del marchio ceduto.

4.4 Il criterio comparativo

4.4.1 Il metodo delle transazioni comparabili

Il metodo delle transazioni comparabili si basa sulla comparazione del marchio oggetto di stima con i valori assegnati a marchi assimilabili in operazioni di scambio con terze economie.

Occorre tuttavia evidenziare come tale metodo incontri limiti assai stringenti dovendo esso scontare l’oggettiva carenza di un campione sufficientemente rappresentativo di casi effettivamente comparabili42.

39 Sul punto, cfr. M. CELLI, Il marchio d’impresa, valore e funzioni nell’economicità

dell’azienda moderna, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 66-93; R. MAZZEI, in S. VICARI (a cura di), op. cit., pp. 216-220.

40 I. GREZZINI, op. cit., pp. 103-104. 41 A. RENOLDI, op. cit., pp. 172-173. L’Autore evidenzia come tale metodo conduca a

una <grandezza-soglia inferiore>, poiché sarebbe del tutto illogico che il cedente richieda quale corrispettivo un prezzo inferiore al valore della perdita sopportata in ragione della cessione. Sul punto, cfr. anche G. BRUGGER, op. cit., pp. 50-51, I. GREZZINI, op. cit., p. 105.

42 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., p. 175.

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4.4.2 Il metodo dei tassi di royalty o dello sgravio delle royalties

Fra le procedure c.d. <comparative>, basate cioè su informazioni di mercato, è forse la più accreditata -dalla dottrina e dalla prassi- la metodologia dei tassi di royalty. Essa ipotizza che il valore del marchio coincida con le royalties attualizzate, relative alla cessione in uso del medesimo.

I fattori critici/fondanti del metodo in esame sono costituiti: i) dalla stima del fatturato volta a commisurare le royalties, ii) dal tasso di royalty da applicare, calcolato in via comparativa con categorie omogenee di marchi. Tale secondo fattore presuppone un congruo numero di transazioni, a seguito delle quali si deduca un range di valori espressi dal mercato. All’interno del range così ottenuto, occorre individuare lo specifico tasso di royalty in relazione alla c.d. <forza del marchio>43.

A riguardo della procedura in parola, si è recentemente diffuso nella prassi il metodo dello <sgravio delle royalties> (royalty relief o relief from royalty method), tramite il quale viene stimato il valore del marchio quale “valore attuale del risparmio che il proprietario del segno distintivo consegue in ragione della titolarità del diritto in parola”44.

L’utilizzo di banche-dati al fine di individuare –grazie alle informazioni di mercato- un campione di comparabili, non esime il metodo dello <sgravio delle royalties> dalla duplice soggettività i) dell’operatore economico che compone il range di valori numerici rappresentativi, ii) del soggetto che se ne avvale per fini peritali o, lato sensu, valutativi45.

4.4.3 Il metodo dei multipli

I multipli corrispondono a <prezzi standard> applicati a grandezze contabili (a titolo esemplificativo, fatturato, depositi bancarî, premî annuali delle compagnie assicurative, diffusione delle testate di giornali e periodici) in ragione dell’attitudine di queste a connettersi -più o memo indirettamente- alla produzione di redditi nel futuro. Tale metodo si fonda dunque su moltiplicatori ritenuti espressivi del valore di mercato del marchio considerato, traenti la loro validità da fondazioni empiriche di casi omogenei e comparabili.

43 Secondo alcuni Autori, la forza verrebbe identificata in base ai seguenti fattori:

estensione dell’uso, unicità, margini di profitto incrementale, protezione legale, vantaggio competitivo, barriere all’entrata, stato legale, vita residua del bene. Sul punto, cfr. I. GREZZINI, op. cit., p. 107, L. GUATRI, M. BINI, op. cit., pp. 177-178, E. VASCO, La perfetta valutazione del marchio, Milano, Lupetti, 2005, pp. 76-80.

44 Cfr. D. PREDOVIC, op. cit., pp. 198-199; R. MAZZEI, in S. VICARI (a cura di), op. cit., pp. 228-232.

45 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., pp. 178-180.

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I limiti di tale metodo si fondano in particolare nella carenza di informazioni accessibili sui deals, all’assenza di omogeneità fra le aziende o, ancora, all’esiguità dei casi di specie.

Per concludere sul punto, teoria e prassi economico-aziendali convergono in particolare sulla possibilità di dedurre i multipli i) dai prezzi negoziati per le operazioni di finanza straordinaria (deal prices), ii) da transazioni o società comparabili46. 4.4.4 Il metodo dei differenziali di multiplo sulle vendite

Il metodo dei differenziali di multiplo sulle vendite si esprime nella seguente formula:

valore del marchio = [(EV/S)α – (EV/S)β]S

ove é: α = marchio dominante della società oggetto di stima; β = marchio generico comparato; EV = Enterprise Value, ossia valore del capitale maggiorato dei debiti finanziarî; S = vendite annuali.

Anche in tal caso si ripropongono le medesime problematiche già

annotate per i precedenti metodi di tipo comparativo e in tal caso relative alla carenza di disponibilità di <deal prices> o <stock prices> per società che operano senza marchi o con marchi di scarso rilievo47. 4.4.5 I metodi fondati su ricerche di mercato: interbrand, brand rating e valore delle relazioni con il cliente

I metodi fondati sulle ricerche di mercato procedono, ai fini di stima del marchio, all’identificazione di <fattori> (quali, ad esempio, la <forza della marca>) passibili di traduzione quantitativa e, dunque, trasformabili in moltiplicatori di una grandezza economica.

Il metodo Interbrand poggia sulla <forza della marca>, la cui logica sottostante si dipana nei seguenti sette aspetti:

1. leadership (collocazione sul mercato); 2. stabilità (fedeltà del consumatore); 3. mercato;

46 Sul punto, cfr. L. GUATRI, M. BINI, op. cit., pp. 189-191; D. PREDOVIC, op. cit.,

pp. 214-216; R. MAZZEI, in S. VICARI (a cura di), op. cit., pp. 232-249. 47 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., p. 189.

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4. internazionalità; 5. trend (sviluppo nel lungo termine); 6. sostegno (investimenti in marketing a protezione del brand); 7. protezione (legale).

Il valore del multiplo viene poi dedotto sulla base del punteggio che viene assegnato a ciascuno dei fattori sopra menzionati e infine applicato all’utile differenziale netto calcolato con riguardo agli ultimi tre anni.

Un’altra variante del metodo finora esposto è il c.d. <brand rating>, edificato sulla base dei seguenti tre elementi:

1. il c.d. <iceberg della marca>, espressivo della <performance qualitativa> della medesima;

2. il <differenziale di prezzo> del marchio oggetto di stima rispetto a marchi generici;

3. il potenziale sviluppo della marca48.

Occorre infine menzionare il metodo del valore delle relazioni con i clienti, la cui logica sottostante si fonda, appunto, sulla possibilità di stimare la marca in ragione delle relazioni –attuali e nuove- che la medesima genera con i consumatori. In termini analitici:

Wrc = Wra + Wrn

ove è: Wrc = valore delle relazioni con i clienti attivate dalla marca; Wra = valore delle relazioni attuali; Wrn = valore delle relazioni nuove.

Il <valore della stabilità> delle relazioni (Wra) dipende da: i) il coefficiente di fedeltà dei clienti, ii) la longevità prospettica delle relazioni attuali, iii) il margine atteso da tali relazioni al netto dei costi connessi alla gestione e allo sviluppo delle stesse; iv) il tasso di attualizzazione.

Il <valore della riproducibilità> delle relazioni (Wrn) dipende viceversa da: i) il coefficiente di attrazione di nuovi clienti, ii) la durata delle nuove relazioni, iii) il margine generato dai nuovi clienti, al netto dei costi di acquisizione, iv) il tasso di attualizzazione.

La formula per la stima di tale valore viene quindi espressa in tali termini:

Wrc = Mra . a n⎤ i + Mrn . a m⎤ j

48 L. GUATRI, M. BINI, op. cit., pp. 191-195.

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ove è: Wrc = valore delle relazioni con i clienti; Mra = margine atteso dalle relazioni attuali; Mrn = margine atteso dalle nuove relazioni; i, J = tassi di attualizzazione; n = numero di anni corrispondente alla longevità media prospettica delle relazioni attuali; m = numero di anni corrispondente alla durata stimata delle nuove relazioni49.

5. Storia e sociologia della moda. Cenni.

La Storia insegna come il fenomeno-moda nell’abbigliamento abbia origine dall’avvenuto superamento di necessità primarie –“il vestito, segno che separa l’uomo dall’animale”, per dire con le parole del Marchese di Condorcet50-, in ordine all’emergere di necessità di carattere estetico e, preminentemente, sociale51.

Seppur le funzioni protettiva e ornamentale del vestito siano universalmente osservabili e note, la moda come fenomeno sociale teso al periodico cambiamento delle fogge degli abiti e, dunque, anche come forma di acquisizione di <prestigio> nella società, trova la propria genesi nella società occidentale. L’abito di seta del mandarino cinese, per quanto sontuoso e abilmente rifinito, appare infatti privo di variazioni significative nel tempo e, in definitiva, cristallizzato nel tempo e nello spazio, quasi a presentare una conquista e una differenziazione ornamentali basate esclusivamente sul merito, nonché rappresentative del medesimo52.

La moda è peraltro fenomeno prettamente occidentale e relativamente recente: essa si colloca con l’avvento di realtà sociali in cui si pone l’individuo quale valore supremo: ad esempio, le società collettivizzate dell’Unione Sovietica e della Cina di Mao Tse-Tung ne restano escluse53.

Sotto l’aspetto storico, la moda necessita inoltre del superamento della pre-esistente regolazione sociale fondata su principî di carattere ascrittivo e

49 G. BERTOLI, B. BUSACCA, op. cit., pp. 15-18. 50 Jean Antoine Nicolas Caritat, marchese di Condorcet (Ribemont, 1743 – Bourg-La-

Reine, 1794), fu matematico, economista, filosofo, uomo politico francese. 51 Sul punto, cfr. G. DORFLES, Modi e mode, Mazzotta Editore, 1979; D. SIMON,

Moda e sociologia, Milano, Franco Angeli, 1990. 52 F. MONNEYRON, Sociologia della Moda, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008, pp. 9-

11. 53 Cfr. L. DUMONT, Saggi sull’individualismo, a cura di C. Sborgi, Milano, Adelphi,

1993.

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tradizionale, questi ultimi infatti volti a mantenere una coerente e ordinata architettura vestimentaria quale riflesso delle gerarchie sociali.

Ciò diviene tanto più autoevidente ove si consideri, ad esempio, la pletora di leggi suntuarie che a muovere dal basso medioevo viene promulgata al fine di regolamentare <le apparenze> in funzione delle gerarchie sociali: l’abbigliamento degli individui indica la diretta appartenenza a una precisa classe sociale e offre inoltre altre informazioni circa l’età, la professione e, ovviamente, il genere54. Tale legislazione viene sovente contrastata dall’aristocrazia, specialmente nel momento in cui il prestigio di quest’ultima non si traduce in un’adeguata differenziazione di abiti rispetto ai nuovi ceti commerciali55.

Con la conclusione del periodo <ascrittivo>, l’ambito della moda diviene dunque il modo più facilmente accessibile per le classi sociali <inferiori> di <imitare esteriormente> le classi <superiori> al fine di condividerne il prestigio. Prodromico al fenomeno della <moda> diviene allora il concetto di <prestigio>, come in particolare sistematicamente impostato da Georg Simmel il quale, ne La differenziazione sociale del 1890, annota come la dialettica tra individuo e collettività si traduca in tendenze del singolo talvolta <imitative>, talaltra <distintive> rispetto alla comunità di appartenenza. Parrebbe anzi di poter asserire che i meccanismi di imitazione e differenziazione siano le due direttrici lungo le quali s’incardina l’azione umana.

In altre parole, si potrebbe affermare che l’individuo agisca per imitazione mosso da due giudizî, formatisi il primo su di sé, sulla propria situazione sociale, sulle proprie motivazioni individuali, il secondo sul ceto il cui stile di vita intende emulare. In altri termini, il soggetto prende innanzitutto coscienza di sé medesimo e, successivamente, giudicando <di prestigio> l’appartenenza a un ceto sociale più elevato, ne imita usi e costumi se del caso anche in modo acritico. Tale istinto imitativo si manifesta dunque quale logica conseguenza della c.d. capacità <magnetica> del prestigio56.

Il desiderio di affermarsi socialmente tramite l’acquisizione di onore, rispetto e prestigio, si traduce dunque nell’istinto emulativo mediante il quale l’individuo tende a orientarsi verso la classe sociale più elevata ove

54 M. BELFANTI, Alle origini della moda come istituzione sociale, Brescia, Collana del

Dipartimento di Studi Sociali, 1, 2006, pp. 3-5. 55 M. G. MUZZARELLI, A. CAMPANINI (a cura di), Disciplinare il lusso. La

legislazione suntuaria in Italia e in Europa tra Medioevo ed Età moderna, Roma, Carocci, 2003.

56 Sul punto cfr. G. TARDE, Le leggi dell’imitazione, in Scritti sociologici, a cura di F. Ferrarotti, Torino, UTET, 1976.

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ritiene di trovare la propria identità, nonché la propria –presunta- gratificazione sociale.

E ancorché il possesso ostentativo esteriore di ingenti averi quale mezzo di acquisizione (presunta o reale) di <prestigio> sociale fosse conosciuto già dagli antichi –si pensi, ad esempio, alle figure di Artemòne, il <villan rifatto> di Anacreonte57 e di Trimalchione nel Satyricon di Petronio58 o, ancora, al sonetto Il denaro è tutto di Cecco Angiolieri-, è solo con il Secolo XIV e seguenti che il profilo torna rilevante dal punto di vista empirico e, a muovere dai primi del Secolo XVIII, anche dal punto di vista teorico.

Già nell’antichità, il desiderio di differenziazione sociale di alcuni individui li conduce alla costruzione del proprio <prestigio> tramite i) il possesso e la ostentazione di beni ad elevato <contenuto simbolico>, ii) il riconoscimento, nell’opinione dell’intera collettività, della rarità di detti beni e della esclusività del rapporto precedente. Ma mentre nelle civiltà arcaiche, in particolare la greca e la romana, fra i predetti beni <simbolici> potevano annoverarsi l’appartenenza alla stirpe aristocratica –rectius, di origini divine-, peculiari virtù civiche, nonché il sapere in quanto tale59, è solo con gli stadî di progresso economico della società e con la conseguente maggiore diffusione di denaro, che viene posto, quale ulteriore tratto distintivo del prestigio, la detenzione di ricchezza o di particolari beni materiali e l’uso della stessa a fini emulativi e ostentativi60.

Si rifletta, ad esempio, al ceto mercantile formatosi nei Secoli XIII-XVI il quale -accumulati ingenti patrimonî grazie ai molteplici traffici commerciali- tende al prestigio della classe aristocratica mediante a) l’acquisto di titoli nobiliari, b) la stipula di matrimonî d’interesse o, qualora non riuscisse negli intenti sub a) e b), con lo sfoggio delle proprie fortune in ville patrizie, feste e banchetti, abiti sfarzosi, un tempo appannaggio della sola nobiltà.

Con l’avvento del capitalismo industriale nei Secoli XIX-XX, si pone quale ulteriore e preminente tratto di differenziazione sociale non più lo status nobiliare, bensì l’accumulazione di ricchezza in sé e, di conseguenza,

57 Fr. 82 Gentili (388 Page). 58 Petronio descrive, attraverso la figura di Trimalchione, il mondo dei liberti romani,

uomini ormai liberati dal giogo della schiavitù e dediti tipicamente ai traffici commerciali grazie ai quali costruirono ingenti fortune. Figura simile al liberto nell’antica Grecia e, in particolare, nell’Atene classica era il meteco (μέτοικος, metoikos) cioè lo straniero residente in città e tipicamente incline all’attività mercantile ed artigianale.

59 Tale primordiale tipologia di prestigio è lessicalmente riscontrabile nelle distinzioni greca, ανήρ (anér) e άνθρωπος (àntropos) e latina, vir e homo.

60 Sul concetto di prestigio, cfr. T. MACCABELLI, Economia e sociologia del prestigio: sulla genesi di alcune categorie concettuali tra Otto e Novecento, in M. BIANCHINI (a cura di), I giochi del prestigio. Modelli e pratiche della distinzione sociale, <Cheiron>, 1999, 31-32, pp. 279-312.

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l’assunzione di <stili di consumo> improntati sull’elevata capacità di spesa degli individui appartenenti a tale classe sociale61.

Sul piano teorico, si rammentino ad esempio i saggi di Jean François Melon62, Jean François Saint-Lambert63, Nicolas Baudeau64, Georges Marie Butel-Dumont65, Jean Louis Mallet-Butini66, Carlo Antonio Broggia67, che avviano il dibattito sul lusso nella cultura francese e, lato sensu, europea del Settecento68; ma non di meno, all’opera di Alexis de Tocqueville, Political and social condition of France, del 183669, in tema di beni reali o convenzionali, appannaggio di una ristretta cerchia di soggetti e, dunque, fondativi di <prestigio> sociale.

Tale letteratura insegna, peraltro, anche la distinzione fra <lusso>, <sfarzo> e <prestigio>: mentre il primo termine si colloca in una dimensione privata dell’individuo e si contrappone non già alla povertà,

61 G. SIMMEL, La differenziazione sociale, a cura di B. Accarino, Bari, Laterza, 1982,

p. 84. 62 J. F. MELON, Essai politique sur le commerce, in <Economistes financiers du XVIII

siècle>, ed. Eugene Daire, Parigi, 1734. 63 J. F. SAINT-LAMBERT, Essai sur le luxe, in Encyclopédie: ou, dictionnaire

raisonné des sciences, des arts et des méteirs, par un société de gens de lettres, ed. Marcel Diderot, 1764-1778.

64 N. BAUDEAU, Principes de la science morale et politique sur le luxe et les lois somptuaires. Introduction et table analytique par A. Dubois, 1767, Parigi, ed. Paul Geuthner, 1912.

65 G. M. BUTEL-DUMONT, Théorie du luxe; ou, trait dans lequel on entreprend d’établir que le luxe est un ressort non seulement utile mais même indispensablement nécessaire à la prospérité des états, ed. mancante, 1771.

66 J. L. MALLET-BUTINI, Traite du luxe, ed. Chez Issac Bardin, 1774. 67 C. A. BROGGIA, Del lusso. Il più notevole e de’ suoi quanto più sicuri ed efficaci,

altrattanto specialmente dei nostri tempi, ignoti rimedi, 1748-1751, in Il Banco e il Monte de’ Pegni – Del lusso, trascrizione ed edizione critica a cura di R. Patalano, Napoli, La Città del Sole, 2004.

68 Per maggiori approfondimenti si rinvia a J. J. SPENGLER, The Physiocrats and Say’s law of market. I, in <Journal of political Economy>, 3, 1945, pp. 193-211, C. BORGHERO (a cura di), La polemica del lusso nel Settecento francese, Torino, Einaudi, 1974; P. FRASCANI, Il dibattito sul lusso nella cultura napoletana del ‘700, in <Critica Storica>, 3, 1974, pp. 397-424; M. SONENSCHER, L’impero del gusto:mestiere, imprese e commerci nella Parigi del XVIII Secolo, in <Quaderni Storici>, 87, 1994, pp. 655-668; G. RIELLO, La società del consumo nell’Inghilterra del Settecento: trent’anni di studi, in <Ricerche di Storia Sociale e Religiosa>, 55, 1999, pp. 41-66; T. WAHNBAEK, Luxury and public happiness. Political economy in the Italian enlightenment, Oxford, Oxford University Press, 2004; A. CLEMENTE, Storiografie di confine? Consumo di bei durevoli e cultura del consumo nel XVIII Secolo, in <Società e Storia>, 109, 2005, pp. 569-598; I. MAGNANI, Economisti campani: a proposito della pubblicazione di due inediti di Carlo Antonio Broggia, Pavia, Quaderni del Dipartimento di economia pubblica e territoriale, 2005.

69 A. DE TOQUEVILLE, L’antico regime e la rivoluzione, Torino, Einaudi, 1989.

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bensì all’ignoranza, il secondo rimanda invece al bene meramente ostentativo, correlato alla categoria dello <spreco>, dunque evocativo di una dimensione pubblica; il terzo rinvia infine al bene caratterizzato non tanto dalla propria corporeità, quanto piuttosto dall’elevato significato simbolico, tale peraltro da concernere gli ambiti artistico e, lato sensu, culturale70.

In tema di capacità di spesa, rafforza tale riflessione Thorstein Veblen mediante il concetto di <consumo vistoso> da parte della leisure class71. Nell’opera La teoria della classe agiata del 1899, l’Autore ritiene infatti che nella società odierna l’individuo abbia sostituito l’atavico <istinto predatorio> con lo spirito di <emulazione pecuniaria>. Il mero fatto di accumulare ricchezza, a prescindere dai modi –anche disonesti- tramite i quali essa si sia acquisita, consente alla c.d. leisure class di ottenere onore e rispettabilità, al fine distinguersi dalla pluralità dei consociati.

Tale teoresi pare peraltro cogliere caratteristiche e limiti di un determinato ideal-tipo sociale –il c.d. <parvenu>- storicamente sorto in aperta antitesi alla riflessione morale del protestantesimo, in particolare nella forma calvinista, e di certo <cattolicesimo rigorista> proprio, fra gli altri, del giansenismo72.

Il prestigio del <parvenu> si manifesta dunque nella c.d. <agiatezza vistosa>, cioè nell’astensione dal lavoro produttivo, la quale si traduce poi nel fenomeno del <consumo vistoso>. Dunque non solo –o non tanto- la maggiore capacità di spesa del singolo, bensì piuttosto l’acquisizione di simboli dell’agiatezza si pone quale metro per misurare la stima degli altri e, di conseguenza, la stima di sé.

Ritorna allora il concetto di <sfarzo> delineato in precedenza, con particolare riferimento all’abbigliamento, espressione della cultura pecuniaria. L’indumento non svolge tuttavia la sola funzione di testimoniare la capacità di spesa dell’individuo che lo indossa, bensì manifesta anche la di lui agiatezza nel vivere quotidiano. Veblen si sofferma in particolare sul vestiario femminile: il busto, i tacchi alti, i cappelli a larghe tese, le gonne

70 A. CATALANI, G. COMBONI, A traditional management model in the prestige

goods industry, DIR-Working Papers Series, SDA Bocconi, 65, 2002, pp. 2-4. 71 T. VEBLEN, The Theory of the leisure class, New York, Courier Dover Publications,

1994; trad. it. di F. Ferrarotti in ID., La teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni, Torino, UTET, 1971.

72 Cfr. in generale sul protestantesimo, D. CANTIMORI, Studi sulla Riforma e sulla vita religiosa del Cinquecento, in Studi di Storia, Torino, Einaudi, 1959; sul calvinismo, A. OMODEO, Calvino e la riforma a Ginevra, Bari, Laterza, 1947; C. CALVETTI, La filosofia di Giovanni Calvino, Milano, Vita e Pensiero, 1955; sul cattolicesimo <rigorista> proprio del giansenismo, cfr. F. RUFFINI, Studi sul giansenismo, La Nuova Italia, Firenze, 1974.

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voluminose levano vitalità al soggetto, rendendolo del tutto inadatto al lavoro.

Soffermandosi anche sulle condizioni economiche e sociali della donna, Veblen illustra il tema in tali termini:

“In women’s dress there is an obviously greater insistence on such features as testify to the wearer’s exemption form or incapacity for all vulgarly productive employment. […] obviously productive labour is in a peculiar degree derogatory to respectable women, and therefore special pains should be taken in the construction of women’s dress, to impress upon the beholder the fact (often indeed a fiction) that the wearer does not and can not habitually engaged in useful work.”73.

Le variazioni nel campo della moda vestimentaria vengono di

conseguenza spiegate in ragione proprio del conspicuous consumption: l’abito viene indossato solo per un breve periodo e non se ne prolunga l’utilizzo, né s’indossano vestiti della stagione precedente dal momento che comportamenti di tal genere risultano ostativi –si ritiene- della <spesa vistosa> della classe agiata.

Si conferma in tal modo il sopraccitato <spirito di emulazione> quale criterio-guida in forza del quale l’individuo non tende all’ordinaria spesa media, bensì a un <consumo ideale> per il quale viene richiesto un maggior impegno economico.

Conclude sul punto l’Autore:

“In this way the leisure-class standards of good repute come into sustain the prestige of those aptitudes that serve the invidious purpose; and the leisure-class scheme of decorous living, therefore, also further the survival and culture of the predatory traits.”74.

La percezione di rispettabilità e prestigio quale fine ultimo

dell’emulazione pecuniaria pare inoltre evocare il concetto di <superadditum>, introdotto da Georg Simmel nell’opera Filosofia del denaro del 190075.

Con tale termine il sociologo berlinese intende affermare il maggior prezzo che il benestante è disposto a pagare pur di ottenere un bene o un servizio la cui <esclusività> dipenda dall’elevato costo, e non da reali differenze qualitative rispetto ai beni disponibili per i ceti inferiori.

73 T. VEBLEN, op. cit., p. 110. 74 T. VEBLEN, op. cit., p. 142. 75 G. SIMMEL, Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli, L. Perucchi, Torino, UTET,

1984, pp. 317-324.

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Chiarisce il punto lo stesso Simmel con il seguente esempio:

“Nei tram di alcune città ci sono due classi che hanno prezzi diversi, senza che la prima classe offra un vantaggio oggettivo o una maggiore comodità. Tuttavia, con il prezzo più alto, si compera la compagnia esclusiva di persone che lo pagano soltanto per essere separate da chi paga di meno per viaggiare. In questo caso il benestante può procurarsi in modo del tutto immediato un vantaggio pagando di più, non solo quindi per mezzo di un equivalente oggettivo della sua spesa.”76.

Si coglie allora come il concetto di <superadditum> possa valere anche

nel campo della moda ove –per dire con Veblen- lo <spirito d’emulazione> motiva l’individuo all’acquisto di un determinato capo d’abbigliamento, il cui quid pluris è offerto non tanto dai vantaggi oggettivi del bene, quanto semmai dalla percezione del prestigio che promana nell’agghindarsi in modo palesemente differenziante.

Tale fenomeno è anche conosciuto con il nome di <effetto Veblen>, espressione mediante la quale si suole descrivere la propensione dei consumatori al pagamento di un prezzo più elevato pur di ottenere la disponibilità di un determinato bene rispetto a un altro funzionalmente equivalente77.

Come già accennato, è allora di tutta evidenza come la moda, quale ne sia l’oggetto –arredo, abbigliamento, cultura et al.- si incardini nel sempiterno processo di imitazione-differenziazione quale strumento volto al perseguimento –e al mantenimento- del predetto prestigio sociale.

Tale riflessione trova peraltro sistematica impostazione grazie ancora a Georg Simmel il quale, nel saggio Die Mode, pone in luce lo spirito di <imitazione> della massa verso capi d’abbigliamento, giacché ritenuti beni <di prestigio>, tali cioè da poterseli permettere solo le persone più abbienti, e pur tuttavia in qualche modo divenuti accessibili o imitabili.

L’ulteriore tendenza -negatrice della prima- della propensione alla <distinzione>, esige che la moda, in quanto prodotto della divisione in classi sociali, venga abbandonata dal ceto più elevato non appena questa divenga oggetto di appropriazione da parte dei ceti inferiori78.

76 G. SIMMEL, op. cit., p. 318. 77 Cfr. H. LEIBENSTEIN, Bandwagon, snob, and Veblen effects in the thoery of

consumers’ demand, in <Quarterly Journal of Economics, 64 (2), 1950, pp. 183-207; L. S. BAGWELL, B. D. BERNHEIM, Veblen effects in a theory of conspicuous consumption, in <The American Economic Review>, 86, 3, 1996, pp. 349-373.

78 F. MONNEYRON, op. cit., pp. 34-35.

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In altre parole, se da un lato la moda si impone quale modello atto a condurre il singolo sul c.d. <main stream>, offrendo cioè un universale che fa del comportamento di ogni individuo un mero esempio, dall’altro essa appaga la necessità di diversità, rectius la tendenza alla differenziazione, giacché le mode sono sempre e comunque <mode di classe>79.

Quindi, un maggior grado di <perequazione> del sistema economico, corrisponde un aumento nelle classi sociali <inferiori> della propensione all’imitazione e, di conseguenza, la tendenza al <nuovo> da parte del ceto più elevato. I repentini mutamenti della moda inducono i prezzi ad abbassarsi; la diminuzione di questi ultimi spinge allora i consumatori all’acquisto e costringe i produttori a cambiare moda ulteriormente.

Si può dunque concludere sul punto con la locuzione simmeliana di <carosello della moda>, con la quale si vuole descrivere il continuo intreccio fra imitazione e innovazione, fra diffusione e distinzione, fra <desiderio di essere> ed <essere desiderio>.

Il sociologo tedesco si esprime con le seguenti parole:

“ma, per riassumere, il fascino propriamente piccante e stimolante della moda risiede nel contrasto tra la sua diffusione ampia e onnicomprensiva e la sua rapida e fondamentale caducità, e nel diritto a esserle infedeli. Il fascino della moda sta non di meno nella strettezza dei legami con cui essa chiude una determinata cerchia sociale e nella risolutezza con cui la separa da tutte le altre, dimostrando che questa comunanza è insieme la sua causa e il suo effetto.”80.

La moda è infatti una Forma di Vita (Lebensform) originata dalla

coesistenza di due opposti impulsi psicologici degli individui (la diade imitazione-distinzione di cui sopra), atti a delimitare una cerchia di soggetti mediante l’eguaglianza interna e la differenziazione rispetto all’esterno. Il meccanismo così innescato conduce –o quantomeno coopera- alla provvisoria definizione di determinati raggruppamenti sociali; provvisoria in quanto la moda viene abbandonata al momento stesso del suo eccessivo diffondersi.

Si aggiunga sul punto che la dicotomia innovazione-imitazione presenta similitudini con la figura dell’imprenditore-innovatore di Joseph A. Schumpeter, secondo il quale il fattore determinante dell’economia

79 G .SIMMEL, Die Mode, 1911, trad. it. di L. Perucchi, in ID., La moda, Milano, SE,

1996, p. 15. 80 G. SIMMEL, La moda, pp. 59-60.

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dinamica è appunto l’imprenditore, artefice del nuovo prodotto, del nuovo processo, del nuovo mercato81.

E la medesima diade quale forza regolatrice dei rapporti fra classi sociali manifesta inoltre analogie con la <teoria della circolazione delle élites> di Vilfredo Pareto, impostata nel Trattato di sociologia generale del 1916. Muovendo dai tempi di conservazione economico-sociale della ricchezza, l’Autore ritiene che si possano formare nuovi gruppi sociali decisi a conquistare il potere a spese del ceto detentore. La sostituzione delle élites dirigenti, successiva al perdurare di un conflitto fra interessi avversi e contrapposti, manifesta l’ineluttabilità della <forza> quale elemento di dinamismo della società82.

Il linguaggio comune adotta poi indifferentemente espressioni quali <essere di moda> ed <essere alla moda>; viceversa –alla luce della diade simmeliana imitazione-distinzione- è forse possibile sottolineare come le predette locuzioni presentino significati dissimili ove si vogliano intendere gli aspetti sociologico ed economico del fenomeno <moda>.

Mentre con l’espressione <essere di moda> si intende cogliere l’esperienza stessa nel suo darsi un contenuto, nella quale l’individuo prende autocoscienza della propria diversità -costruisce cioè un <sentimento di sé> appagando il proprio desiderio di essere un <modo d’essere>-, <essere alla moda> identifica viceversa la volontà del soggetto di essere <per un modo d’essere>, cioè una tensione verso un orientamento <identitario>, un’affermazione del singolo nella pluralità dei consociati alla ricerca di una gratificazione sociale83.

Quindi, la distinzione fra <essere> moda e <divenire> moda, ossia la moda quale <modo d’essere> rispetto alla moda quale <desir de paraître>, da un lato identifica il <fenomeno-moda> come esperienza intrinsecamente insoddisfatta di sé medesima e perciò instabile, mutevole, sfuggente al perimetro della razionalità sociale in quanto forma del sentire, non del pensare, dall’altro riduce tale fenomeno a mezzo del singolo per l’acquisizione di prestigio nella società.

A muovere dagli anni Sessanta del secolo XX, gli studî di Barthes hanno poi posto l’attenzione sulla moda quale meccanismo dell’attuale società di

81 Cfr. J. A. SCHUMPETER, L’imprenditore e la storia dell’impresa, a cura di A.

Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 1993. 82 V. PARETO, Trattato di sociologia generale, a cura di G. Busino, 4 voll., Torino,

UTET, 1988; sul Pareto sociologo cfr., in particolare, C. MONGARDINI, Vilfredo Pareto dall’economia alla sociologia, Roma, Bulzoni, 1973; G. BUSINO, Guida a Pareto, Milano, Rizzoli, 1975; D. FIOROT, Politica e scienza in Vilfredo Pareto, Milano, Comunità, 1975; J. FREUND, Pareto, Bari, Laterza, 1976.

83 A. ABRUZZESE, Introduzione, in N. BARILE (a cura di), Communifashion. Della moda, la comunicazione, Roma, Luca Sossella Editore, 2001, pp. 7-45.

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massa volto a diffondere il desiderio fra gruppi sociali attraverso il linguaggio verbale. La moda diviene allora specifico oggetto di indagine della <semiologia>, al fine di porre in luce il valore strutturale e significante del vestito. In altri termini, il vestito offre l’ulteriore funzione di significazione, mediante il quale l’uomo, abbigliandosi, recita la propria <attività significante> nell’ambito della dialettica con la società stessa84.

Tuttavia, mentre il sociologo francese muoveva dal fenomeno-moda in quanto imposizione unilaterale e arbitraria di segni vestimentarî all’eteroclita massa di consumatori, giustificata ex post dai periodici del settore, altri studiosi hanno recentemente sottolineato l’importanza assunta dalle riviste specializzate nel partecipare, in qualità di intermediarî privilegiati, al processo di imitazione85.

Si è giunti cioè a proporre il rovesciamento dell’intera tradizione filosofica occidentale –in particolare dei suoi fondamenti platonici e aristotelici86-, al fine di decretare il rilievo dell’apparenza delle cose in vece della loro essenza. Il vestito non è dunque da considerarsi come un apparire accessorio e a tratti ingannevole della persona, bensì come un <modello sociale> che determina comportamenti e modi d’essere87.

Per concludere sul punto, la funzione del vestito di costruire <modelli> consente allora alla moda di dare forma al reale e di strutturare il sociale, al punto che l’abbigliamento anticipa uno stato di cose a venire e, forse, giunge a simulare un’organizzazione alternativa della società stessa88.

6. Il marchio nel settore dell’abbigliamento di moda e nei due casi definiti

Le aziende operanti nel campo dell’abbigliamento di moda –il c.d. <fashion system>- orientano la propria attività in ragione tanto della competizione <simbolica>, quanto della competizione <economica>.

84 R. BARTHES, Il senso della moda. Forme e significati dell’abbigliamento, Torino,

Einaudi, 2006, p. 83. 85 R. BARTHES, Sistema della moda, a cura di L. Lionzi, Torino, Einaudi, 1970; sui più

recenti sviluppi, cfr., in particolare, V. CODELUPPI, Che cos’è la moda, Roma, Carocci, 2003; AA.VV., Enciclopedia della moda, 3 voll., Roma, Treccani, 2005; P. CALEFATO, Moda, corpo, mito. Storia, mitologia e ossessione del corpo vestito, Roma, Castelvecchi, 1999; R. GRANDI, G. CERIANI (a cura di), Moda: regole e rappresentazioni, Milano, Franco Angeli, 1995.

86 Per il rinnovamento della critica nietzscheana del platonismo, cfr. in particolare, G. DELEUZE, Différence et Répétition, Parigi, P.U.F., 1968, trad. it. di G. Guglielmi in ID., Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997.

87 F. MONNEYRON, op. cit., pp. 78-79. 88 F. MONNEYRON, op. cit., pp. 80-81.

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Tale duplice livello concorrenziale evidenzia come il successo sia, in tale settore, dettato non solo dall’accrescimento dei volumi di fatturato, delle quote di mercato, degli utili, ma anche dalla vis creativa dello stilista, intesa quale attitudine a incidere sul gusto dei consumatori tramite lo sfoggio di stili nuovi e distintivi.

In particolare, la letteratura economico-aziendale ritiene che la peculiarità del <fashion system> risieda nello <stile>, intendendo con tale termine un codice composto -nel campo dell’abbigliamento di moda- dall’eteroclita combinazione dei tipi di tessuto, delle trame dei materiali, dei colori e degli abbinamenti, dei volumi e della modellazione degli abiti89.

Si è inoltre ipotizzato come ogni azienda di tale settore possa definire la propria <isola stilistica>, intesa quest’ultima quale combinazione di stile e conoscenza analizzata in senso diacronico e in relazione a un determinato gruppo di consumatori i quali riconoscono e condividono i codici stilistici del prodotto90. Occorre infatti che l’impresa evidenzi la propria <identità stilistica> con lo scopo di perseguire lo stile che maggiormente le corrisponde per storia e per esperienza, per <vocazione> e <cultura>.

Definita la propria <isola stilistica>, l’azienda deve poi affrontare il problema della <espressività> dei prodotti al fine di ottenere maggior riconoscibilità dei medesimi in relazione al gruppo <target> di consumatori.

L’iter delineato si conclude infine con la progettazione del prodotto volta a costruire una <grammatica> essenziale ma <significativa>, il cui linguaggio sia coerente con le aspettative della clientela. L’utilizzazione sapiente di tessuti, finiture, proporzioni consente infatti all’azienda di realizzare un <codice di condivisione> adeguato rispetto alla <isola stilistica> ex ante prospettata91.

Si tratta peraltro del noto concetto di <imprenditorialità>, con il quale si suole intendere l’originalità nell’aggregare certi fattori produttivi piuttosto che altri, in certi modi piuttosto che in altri, sublimandosi in senso schumpeteriano nel nuovo prodotto, ma non di meno nel nuovo processo produttivo: in sostanza in ogni innovazione economica dell’impresa. Si può allora comprendere come la competizione sia in realtà sempre e solo economica, riconducendo l’elemento simbolico alla capacità dell’imprenditore di combinare sapientemente i fattori produttivi al fine di esitare sul mercato abiti dallo stile originale ed esclusivo.

89 Cfr. R. CAPPETTA, V. PERRONE, A. PONTI, Competizione economica e

competizione simbolica nel fashion system, in <Economia & Management>, 2, 2003, pp. 73-88.

90 G. COMBONI, F. MOLTENI, Prodotto Moda e “isola stilistica”, in <Economia & Management>, 2, 1994, pp. 20-30, alla p. 24.

91 G.COMBONI, F. MOLTENI, op. cit., pp. 25-26.

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Riconosciuto quindi lo <stile> quale tratto distintivo della produzione delle aziende operanti nel settore della moda, occorre allora offrirne una valutazione in termini di i) originalità, ossia distanza dall’esistente, ii) esclusività, cioè distinzione dagli altri stili.

Con il primo aspetto si rende necessario comparare lo stile oggetto di valutazione con altri stili in un arco temporale medio-lungo, rilevandone cioè la dimensione diacronica. Il secondo aspetto valuta lo stile rispetto a quelli presenti nel medesimo periodo, evidenziandone invece la dimensione sincronica.

Studî di marketing asseriscono che l’incrocio fra le due predette dimensioni consenta la identificazione dei quattro tipi fondamentali di <stile>, caratterizzabili nei seguenti termini:

1. <classico>, tale cioè da recuperare schemi del passato, atti più a distinguere che a innovare (ad esempio, Armani, Valentino, Gucci, Chanel, Hermès);

2. <radical fashion>, marcatamente distintivo e, al contempo, innovativo (ad esempio, Jean Paul Gaultier, Alexander McQueen, Yohji Yamamoto, Vivienne Westwood);

3. <cheap and chic>, certamente innovativo rispetto al passato, ma sovente dai tratti poco esclusivi;

4. <incrementale>, propositivo di stili del recente passato, perciò poco distintivo e poco innovativo92.

Dalle macrocategorie sopraccitate si evince chiaramente come il lusso nella moda risieda negli stili 1) e 2) (<classico> e <radical fashion>), confinando i 3) e 4) all’abbigliamento di minore <contenuto simbolico>.

Si può inoltre osservare come uno stile <classico> derivasse, almeno inizialmente, da un’innovazione spiccatamente radicale, alla quale lo stilista-imprenditore ha saputo conferire nel tempo continuità e coerenza. Le aziende che offrono uno stile di tal genere detengono poi ampie quote di mercato e ottengono, di conseguenza, ampî volumi di fatturato; viceversa, le aziende i cui abiti sono foggiati in base allo stile <radical fashion>, presentano nicchie di mercato che non consentono loro, in una <logica degli scenarî>93, una visione strategica di ampio respiro, sovente dibattendosi in persistenti situazioni di difficoltà economica.

Tralasciando allora le categorie sub 2), 3), 4) giacché irrilevanti per il tema di cui s’intende trattare nel prosieguo, la posizione di un marchio appartenente allo stile <classico> richiede una pianificazione strategica che

92 R. CAPPETTA, V. PERRONE, A. PONTI, op. cit., pp. 77-78, con modifiche. 93 I. ANSOFF, Organizzazione innovativa, Milano, Ipsoa, 1987.

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la dottrina suole individuare nelle fasi di i) creazione e sviluppo, ii) maturità, iii) rilancio.

La prima fase si caratterizza per la vendita iniziale del bene sul mercato, bene al quale occorre conferire i) intrinseche qualità dei materiali utilizzati, superiori rispetto ai concorrenziali, ii) esclusività, derivante da diffusione selettiva, prezzo elevato, produzione limitata, iii) originalità dello stile.

Dal punto di vista tecnico-operativo, si consideri poi come una collezione di abbigliamento di moda -pur con le debite variazioni da azienda ad azienda- si sviluppi secondo le seguenti fasi:

1. intuizione dello stilista-imprenditore in ordine al proprio codice stilistico da seguire, creato in base sia a personali canoni estetici, sia alle scelte cromatiche –le c.d. <tendenze>- suggerite dai fornitori della materia prima;

2. realizzazione dei bozzetti della collezione; 3. realizzazione dei modelli in forma di capi-prova senza

variantatura94; 4. discussione dei costi e successiva definizione del listino; 5. variantatura e operazioni-campione di vendite al fine di verificare le

scelte dei tessuti e dei colori nonché, se del caso, compiere eventuali aggiustamenti dei prezzi di listino;

6. apertura della campagna vendite e conseguente raccolta degli ordini; 7. pianificazione della produzione95.

Durante la fase di maturità, propria del marchio che ha stabilizzato la propria collocazione mediante il mantenimento di costanti quote di mercato, l’azienda deve porsi come obiettivi strategici: i) la creazione di una cultura aziendale del lusso, attenta cioè alle qualità materiali del prodotto, alla costante originalità dello stile del medesimo, al marketing, alla distribuzione, ii) la capacità di affrontare nuovi scenarî quali, ad esempio, la diversificazione dei prodotti e l’outsourcing96.

La fase di rilancio si qualifica infine per l’elevato rischio di saturazione dell’immagine del prodotto, alla quale può conseguire la sostituibilità da

94 Con il termine <variantatura>, s’intende la definizione di un abito secondo

proporzioni, modellazione, taglia. 95 G. COMBONI, F. MOLTENI, op. cit., p. 21, con modifiche. 96 Sul rilievo in tale fase delle politiche di comunicazione, cfr. M. CODA SPUETTA,

La marca nel Sistema moda. Una variabile fondamentale per un marketing di successo, in <Economia & Management>, 4, 1994, pp. 102-115; M. POIANI, Alti consumatori. Il marketing dei beni ad alto valore simbolico, Milano, Lupetti, 1994; S. SAVIOLO, S. TESTA, Le imprese del sistema moda. Il management al servizio della creatività, Milano, Etas, 2006.

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parte del consumatore con beni parimenti elitarî e tuttavia maggiormente innovativi97.

L’elevata redditività delle aziende i cui beni si caratterizzano per lo stile <classico> consegue dall’avvenuta crasi fra le logiche dell’alta moda di ordine sartoriale (la c.d. haute couture) e della manifattura tessile di ordine industriale. In altre parole, la qualità e l’originalità proprie della produzione sartoriale si combinano con l’obiettivo di maggiore diffusione del bene sul mercato, tipico della produzione industriale.

Tale scelta strategica ha dato origine -in particolare in Italia già dagli anni Cinquanta e Sessanta con le creazioni, fra le altre, di Simonetta Colonna di Cesarò, Mila Schön, Elvira Leonardi Bouyeure, in arte Biki, le sorelle Fontana- al c.d. prêt-à-porter, fenomeno tramite il quale, a muovere poi dagli anni Ottanta, si crea una <rottura con il passato>: gli abiti sono ispirati dalla haute couture ma, rispetto a questa, presentano fogge meno elaborate e prezzi già più accessibili al vasto pubblico dei consumatori98. L’offerta del prêt-à-porter diviene allora identificabile nelle seguenti tipologie del medesimo:

1. <diffusion>, comprensiva delle seconde e terze linee dei marchi di alta moda, tale cioè da estendersi ad ampie fasce di mercato caratterizzate da un pubblico prettamente giovanile;

2. <bridge>, relativa a marchi di elevato contenuto simbolico esitati sul mercato in modo veloce e capillare;

3. <mass>, includente le caratteristiche della 1) e della 2)99.

Per le predette qualità, recenti studî di marketing ritengono dunque che il prêt-à-porter italiano si sbilanci a favore di una moda <democratica>, tale cioè in quanto poco esclusiva, poco innovativa, ma dalla elevate potenzialità di vendita100. Si tratta forse di quanto -seppur con altri termini- prima asserito con riferimento alle aziende la cui produzione si distingua per stile <classico>: la sapiente commistione di logica sartoriale e logica industriale, ossia l’originaria idea imprenditoriale volta alla creazione di uno stile radicale ed elitario e le successive strategie di <diffusione selettiva> dei prodotti, conducono a un’elevata redditività, e consentono dunque

97 V. DE MARTINO, I prodotti di lusso: il caso Bulgari, in <Micro & Macro

Marketing>, 2, 2001, pp. 337-357, alle pp. 337-341. 98 R. CAPPETTA, V. PERRONE, A. PONTI, op. cit., pp. 78-79. 99 P. LA MARCA, G. PALAMARA, Strategie di nicchia nel settore moda,

Dipartimento di Ricerche Aziendali di Pavia, Collana Working Paper, 4, febbraio 2005, pp. 40-41, con modifiche.

100 In particolare, cfr. R. CAPPETTA, V. PERRONE, A. PONTI, op. cit., p. 80, nonché, P. LA MARCA, G. PALAMARA, op. cit., p. 40.

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Marchi, imprese e sociologia dell’abbigliamento d’alta moda

all’azienda di mantenere ampie quote del mercato dell’abbigliamento di lusso101.

Si rammenti infine come, negli ultimi anni, si sia assistito a un certo <eclettismo culturale>, dal quale sono scaturite veementi critiche ideologiche nei confronti delle aziende del <fashion system>, e atto a portare non già a <nuove mode>, bensì al tentativo di <liberazione> dalle medesime.

Tale eclettismo, richiamando il <superadditum> di Simmel, si fa portavoce dell’opinione secondo la quale i consumatori siano indotti dalle componenti di immagine legate ai marchi notorî ad acquistare a prezzi elevati beni che, nella sostanza, sono del tutto equivalenti –se non peggiori- ad altri più economici. Tale tesi non tiene in dovuta considerazione che i) la prospettata <liberazione dalle mode>, è essa stessa pur sempre una <forma di moda>, ii) il mercato –ossia i consumatori- riconosce un valore anche alle c.d. <politiche di marketing> per i prodotti esitati102.

Al fine di ottenere un raffronto empirico di quanto finora discusso, si

prosegue con l’esposizione di due casi definiti di valutazione del marchio ritenuti –a parere di chi scrive- un campione sufficientemente rappresentativo del settore-moda: si tratta di Valentino Fashion Group S.p.A. e di Giorgio Armani S.p.A.

101 Per ulteriori approfondimenti sul marchio del settore lusso, cfr. R.

FRANCESCHELLI, Il marchio dei creatori del gusto e della moda, in <Contratto e Impresa>, 3, 1988; C. DELLA BELLA, Il processo di valutazione degli intangibile nel settore dei beni di lusso con un applicazione al caso Bulgari, in <La Valutazione delle Aziende>, 21, 2001, pp.40-54; C. DELLA BELLA, Value-value companies nel settore del lusso: cogenerazione di valore per azionisti, investitori e management, Milano, Egea, 2002; A. ORSELLI, Case study: il test d’impairment applicato ad un’impresa appartenente al settore del lusso, in <La Valutazione delle Aziende>, 37, 2005, pp.49-63; E. VALENTINIS, Il caso ex-Marzotto: dalla scissione dell’abbigliamento alla quotazione di Valentino Fashion Group, in <La Valutazione delle Aziende>, 38, 2005, pp. 65-82; G. AIELLO, L. DONVITO, L’evoluzione del concetto di lusso e la gestione strategica della marca. Un’analisi qualitativa delle percezioni sul concetto, sulla marca e su un prodotto di lusso, Le Tendenze del Marketing, Venezia, 20-21 gennaio 2006; C. DELLA BELLA, Il settore del luxury e l’occasione perduta di una maggiore value relevance dell’informazione contabile IAS/IFRS, in <La Valutazione delle Aziende>, 42, 2006, pp. 79-97; C. GALGANI, Brand valuation fro IAS-IFRS annual reports and performance measurement systems of luxury goods companies. Tod’s Group case study, 3rd Workshop on Visualising, Measuring and Managing Intangibles and Intellectual Capital>, Ferrara, 29-31 ottobre 2007.

102 Per la radicalità di tali critiche si rinvia al bestseller N. KLEIN, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2001. Per una replica di tipo giuridico a tali posizioni, cfr. C. GALLI, Protezione del marchio e interessi del mercato, in AA.VV., Studi in onore di Adriano Vanzetti, Milano, Giuffrè, 2004, pp. 661-690.

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In data 16 maggio 2007, Permira, operatore di private equity, emetteva un comunicato stampa mediante il quale dava atto di aver acquistato da International Capital Growth il 29,6% del capitale sociale di Valentino Fashion Group S.p.A. (pari a 21.951.000 azioni) per mezzo della società Red & Black Lux S.àr.l.103.

Sempre tramite Red & Black Lux S.àr.l., Permira lanciava un’offerta pubblica di acquisto volontaria totalitaria avente a oggetto 52.155.302 azioni ordinarie di Valentino Fashion Group S.p.A. a far data dal giorno 23 luglio 2007 e avente termine il 7 settembre 2007104.

Poiché a conclusione di tale operazione finanziaria Permira aumentava la propria partecipazione nel capitale di Valentino Fashion Group S.p.A., passando dal 60,18% al 97,12%, si rendeva necessaria un’offerta pubblica di acquisto residuale, valida dal 23 ottobre 2007 al 14 novembre 2007105.

In ragione di tali fatti veniva incaricata una società di revisione di procedere alla stima del valore dei marchi detenuti da Valentino Fashion Group S.p.A.

La perizia è stata effettuata muovendo dall’approccio metodologico dello sgravio delle royalties (relief from royalties method), metodo tramite il quale si ipotizza l’esborso che l’azienda avrebbe dovuto sostenere per poter disporre dell’utilizzazione del marchio se tale risorsa non fosse stata di sua proprietà.

Innanzitutto, con riferimento al fattore su cui parametrare il coefficiente percentuale espressivo dei corrispettivi si è considerato il fatturato derivante dalla vendita dei prodotti che beneficiano del marchio, così come desunto dal piano approvato dal management in vigore alla data della valutazione. A tale grandezza si è applicato il tasso di crescita dei ricavi pari ai tassi indicati dal succitato piano, maggiorati del <growth rate> individuato ai fini della stima nell’ultimo anno di valutazione e calcolato al 3%.

Si è poi tenuto conto del c.d. <tax amortization benefit>, volto a includere nel calcolo di cui sopra il beneficio fiscale degli ammortamenti sui valori riconosciuti al marchio.

Per quanto concerne invece il coefficiente espressivo del tasso di royalty applicato, quest’ultimo –inclusivo di una quota corrispondente al contributo pubblicitario previsto dall’accordo- è la risultante del raffronto compiuto fra i tassi dei contratti in vigore e quelli di un campione di società comparabili concorrenti.

103 VALENTINO FASHION GROUP S.p.A., Comunicato stampa del 17 maggio 2007, reperibile dal sito www. consob.it.

104 VALENTINO FASHION GROUP S.p.A., Documento di offerta pubblica di acquisto volontaria totalitaria, reperibile dal sito www.consob.it.

105 VALENTINO FASHION GROUP S.p.A., Documento di offerta pubblica di acquisto volontaria residuale, reperibile dal sito www.consob.it.

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Si è così giunti ad una stima del valore dei marchi (ritenuti beni immateriali a vita utile indefinita) in considerazione dei flussi di cassa ad essi pertinenti e stimati su un orizzonte di 10 anni (la metà però per l’effettuazione del c.d. <impairment test>) ed un tasso di attualizzazione il cui coefficiente è stato determinato sulla base dell’analisi di mercato di aziende del medesimo settore ed in funzione della struttura di indebitamento della società stessa.

Tale impostazione risulta peraltro coerente con quanto si legge nelle note esplicative ai bilancî di esercizio e consolidato 2006 alla voce <immobilizzazioni immateriali>: “l’avviamento e i marchi derivanti da acquisizioni, qualificabili come attività immateriali a vita indefinita, non vengono ammortizzati; la recuperabilità del loro valore di iscrizione è verificata annualmente e comunque quando si verificano eventi che fanno presupporre una riduzione del valore (“impairment test”), in ottemperanza allo IAS 36. Se, sulla base di tale verifica, emerge che le attività hanno effettivamente subito una perdita di valore, viene stimato il valore recuperabile dell’attività.”106.

Ulteriore caso definito dalla pratica –relativo tuttavia alla valutazione

dell’intero capitale e non dei soli marchî detenuti- riguarda la società Giorgio Armani S.p.A., per la quale preme innanzitutto dire che il bilancio di esercizio 2006 è stato redatto secondo i principî contabili internazionali applicati su base volontaria. In aderenza alla possibilità prevista dall’IFRS 1, il Gruppo Armani non ha inteso utilizzare l’opzione contenuta nel disposto dello IAS 38 e relativa alla valutazione dei cespiti o delle attività immateriali diverse dall’avviamento al <fair value> alla data di transizione, in sostituzione del criterio del costo.107

Il valore del marchi iscritto in bilancio risulta pertanto irrilevante e non-esemplificativo della reale redditività dell’intangibile in parola; più precisamente, vengono spesati a conto economico i soli costi derivanti da consulenze e tutela dei marchi108. Tale situazione si spiega peraltro in quanto non è mai sovvenuta alcuna esigenza pratica di compiere una valutazione di tale tipologia di beni immateriali (dettata, ad esempio, da operazioni straordinarie con parti terze).

È tuttavia interessante notare come il bilancio di esercizio 2006 riporti alla voce <operazioni di rilievo> che la società Giorgio Armani S.p.A., in

106 VALENTINO FASHION GROUP S.p.A., Bilancio d’esercizio e consolidato 2006,

reperibile dal sito www.valentinofashiongroup.com, pp. 34-35 e 109-110. 107 GIORGIO ARMANI S.p.A., Rapporto Annuale 2006, reperibile dal sito

www.giorgioarmani.com, pp. 106-108. 108 GIORGIO ARMANI S.p.A., op. cit., p. 163.

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ottemperanza alla delibera assembleare del 18 luglio 2006, abbia proceduto all’acquisto di azioni proprie nella misura di 500.000 azioni ordinarie, rappresentative del 5% del capitale sociale, aventi valore nominale 1 euro cadauna. Sulla base di una perizia indipendente, il prezzo per ciascuna azione è stato fissato in 350 euro, per un esborso complessivo di 175 milioni di euro109. Tale valore evidenzia l’applicazione non del criterio del costo, criterio che avrebbe infatti svalutato il patrimonio netto dell’azienda nonché, in particolare, i marchi, bensì –si ipotizza- di metodologie di tipo finanziario quali, ad esempio, l’attualizzazione dei <flussi di cassa>110.

7. Conclusioni

Con il presente lavoro si è tentato di dimostrare come il capitale delle aziende dell’abbigliamento di lusso si componga non solo di beni materiali, ma anche –e forse in misura superiore- di beni immateriali, la cui rilevazione in bilancio consentirebbe un minor divario fra valore contabile e valore economico del patrimonio aziendale, al fine di individuare di quest’ultimo la consistenza e composizione effettive111.

109 GIORGIO ARMANI S.p.A., op. cit., p. 133. 110 Per un’agile e chiara disamina degli approcci finanziarî anglosassoni, nonché dei

loro limiti, cfr. I. GREZZINI, op. cit., pp. 195-244. 111 Del valore delle proprietà intangibili era consapevole anche lo statunitense John

Roger Commons, il quale, già a muovere dagli Venti del Secolo XX avvertiva il maggior valore del capitale invisibile delle imprese rispetto a tutti i macchinarî, le terre, i fabbricati, le scorte in loro possesso, e deduceva conseguentemente che se tale capitale invisibile avesse perduto il proprio valore, probabilmente tutto il capitale visibile si sarebbe ridotto <a ferri vecchi e rottami>, in J. R. COMMONS, I fondamenti giuridici del capitalismo, Bologna, Il Mulino, 1981. Per un agile lettura sul pensiero del Nostro, cfr. A. HERMANN, Economia, diritto e istituzioni nell’opera di John Roger Commons, in <Il Pensiero Economico Moderno>, 3, 2004, pp. 45-70. Per evidenze empiriche in tema di informativa sugli intangibles, oltre alla (46) cfr. E. ROELOFSEN, G. MERTENS, F. VERBEETEN, Voluntary and semi-voluntary disclosures of intangibles assets in earnings conference calls, XXXI European Accounting Association Congress, Rotterdam, 2008; A. P. MATIAS GAMA, J. P. ESPERANCA, A. GULAMHUSSEN, The stock market valuation of intangibles expenditures: an empirical examination of US net firms, XXXI European Accounting Association Congress, Rotterdam, 2008; L. RODRIGUEZ-DOMINGUEZ, Intangibles and the generation of positive market expectations, XXXI European Accounting Association Congress, Rotterdam, 2008; M. FERRARI, The IAS/IFRS application on the intangibile assets: the case of italian ceramic tile companies, XXXI European Accounting Association Congress, Rotterdam, 2008; L. POZZA, A. PRENCIPE, P. MAZZOLA, P. GAULDANI, Purchase price allocation: the information content of separately recognized intangibile assets in the London Stock Exchange, XXXI European Accounting Association Congress, Rotterdam, 2008; D. VOLKOV, T. GARANINA, Value-based management and the role of intangibile assets in value creation, XXXI European Accounting Association Congress, Rotterdam, 2008; B. HIRSCH, Y.

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Marchi, imprese e sociologia dell’abbigliamento d’alta moda

Mentre peraltro l’acquisizione del marchio da terze economie conduce alla formazione di un <prezzo>, cioè di una quantità monetaria certa, perfezionatasi all’atto dello scambio, la rappresentazione in bilancio dell’intangibile in parola nel patrimonio dell’azienda presenta invece difficoltà nelle fasi di i) determinazione, mediante i più efficaci procedimenti, delle quantità oggetto di rilevazione e ii) classificazione delle stesse112.

Con riguardo alla fase sub i) la dottrina ritiene che il valore del marchio sia ascrivibile alla categoria delle <quantità-misura stimate>, espressive di realtà presuntivamente accertabili, ma non misurabili in modo certo ed effettivo. Tali quantità si fondano su ipotesi di lavoro che presentano un grado di approssimazione al vero tanto più elevato quanto più risultino verificate ex-post le premesse logiche alla base della previsione concepita113. Tuttavia, a causa dell’elevato numero di assunti e astrazioni che concorrono alla formazione del valore del marchio, si può forse giungere ad affermare che l’intangibile in parola sia una quantità congetturata, cioè frutto di una fictio ratiocinandi artis, in quanto, nei fatti, difficilmente verificabile.

Con riguardo alla fase sub ii) si consideri poi il perenne rischio di compiere duplicazioni di valori al momento di determinare il contributo reddituale apportato in modo specifico dal marchio rispetto, ad esempio, al contributo di intangibles in qualche modo riconducibili all’avviamento114.

In altre parole, individuato così lo scopo, ossia la determinazione e rappresentazione del <valore corrente> da assegnarsi al marchio quale bene immateriale che compone il capitale d’azienda, occorre allora riflettere in merito alla i) possibilità di ottenere un elevato grado di approssimazione al

SCHNEIDER, The intangibile parts of customer value in value-based planning, XXXI European Accounting Association Congress, Rotterdam, 2008.

112 P. ONIDA, Economia d’azienda, Torino, UTET, p. 577. 113 In tema, cfr. G. ZAPPA, Il reddito d’impresa, Milano, Giuffrè, 1950; P. ONIDA, La

logica e il sistema delle rilevazioni quantitative d’azienda, Milano, Giuffrè, 1970; P. ONIDA, Economia d’azienda, Torino, UTET, 1971; P. ONIDA, Il bilancio d’esercizio nelle imprese. Significato economico del bilancio e problemi di valutazione, Milano, Giuffrè, 1974; A. PROVASOLI, Il bilancio d’esercizio destinato a pubblicazione, Milano, Giuffrè, 1974; F. SUPERTI FURGA, Le valutazioni di bilancio, Milano, Isedi, 1976; C. MASINI, Lavoro e risparmio, Torino, UTET, 1979; V. CODA, G. FRATTINI, Valutazioni di bilancio, Venezia, LUEV, 1986; A. CANZIANI, Per il ritorno a una concezione classica in tema di bilancio di esercizio, in AA.VV., Scritti di economia aziendale in memoria di Raffaele D’Oriano, Padova, CEDAM, 1997, pp. 189-210; R. CAMODECA, L’iter formativo del bilancio di esercizio, Padova, CEDAM, 2000.

114 Cfr. L. GUATRI, L’avviamento d’impresa: un modello quantitativo per l’analisi e la misurazione del fenomeno, Milano, Giuffrè, 1957; E. ARDEMANI, L’avviamento dell’impresa, Milano, Marzorati, 1958.

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vero e ii) all’esclusione di qualsivoglia valore riconducibile anche ad altre voci di bilancio.

In ragione di tali direttrici, si addivenga allora –seppur per accenni- ad una analisi critica dei criterî di valutazione del marchio.

Si può innanzitutto notare come i metodi basati sul criterio del costo abbiano il pregio di cogliere una misura oggettiva del valore del marchio, forse pur tuttavia limitati nella capacità di individuare il <reale> vantaggio competitivo del medesimo.

I metodi fondati sul criterio del reddito tentano viceversa di dare effettiva evidenza del contributo del marchio alla redditività aziendale, ma corrono il rischio di produrre stime approssimative a causa di duplicazioni di valore, nonché di eccessive aspettative di reddito.

Infine, il criterio fondativo dei metodi comparativi e di mercato, se da un lato si basa su prezzi già riconosciuti dal mercato finanziario, dall’altro pare pervenire a valori pur sempre approssimativi a causa delle medie di multipli utilizzate.

La complessità della valutazione di un bene intangibile quale è il marchio conduce cioè l’esperto all’utilizzo di modelli di ordine quantitativo-matematico, fondati su ipotesi e assunti. Questi ultimi, in particolare, consistono in a-priori del pensiero mediante i quali l’esperto tenta la via del riduttivismo logico, al fine di individuare la possibile soluzione di un problema altrimenti teoreticamente insolubile; essi pertanto rispondono a finalità essenzialmente pratiche.

Infatti, la teoria del reddito, muovendo dalla premessa dell’impresa quale sistema di parti interagenti115, non può che ritenere logicamente impossibile la misurazione del singolo elemento –per giunta immateriale- in relazione alla quota-parte di reddito che si ritiene promani dal medesimo.

A tale riguardo, lo stesso Gino Zappa asserisce che “il reddito promana, e la sua determinazione contabile lo manifesta ed evidenza, da tutto il complesso, multiforme e pur coerente svolgersi della gestione in modo tale da non poter essere riferito distintamente a particolari elementi patrimoniali o a particolari classi di elementi patrimoniali”116. E in un ulteriore passo de Il reddito di impresa, l’Autore sostiene ancora che “per taluni pochi elementi del capitale, spesso, ad esempio, per gli investimenti cosiddetti di carattere patrimoniale, è evidente la connessione tra di essi ed i correlativi componenti del reddito. Sta però di fatto, che, per norma, il contributo di ogni valore capitale alla formazione del reddito non può percepirsi. Gli

115 Sul concetto di sistema, cfr. L. VON BERTALANFFY, Teoria generale dei sistemi,

a cura di E. Bellone, Milano, Istituto Librario Internazionale, 1971; In economia aziendale si veda, in particolare, il contributo di C. MASINI, op. cit., pp. 28-39.

116 G. ZAPPA, op. cit., p. 283.

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elementi del capitale concorrono sicuramente in più o meno larga misura alla generazione del reddito; ma l’entità dell’efficacia di ognuno di essi non può scernersi, fuor che per mal fondata supposizione, proprio così come non possono distinguersi i risultati che sono dovuti all’azione complementare dei singoli organi amministrativi”117. Il reddito è cioè un unicum che consegue solo ed esclusivamente dall’inscindibile insieme dei fattori produttivi così come combinati dalla gestione dell’azienda.

Ammaestra sul punto anche Pietro Onida il quale, -con riguardo ai brevetti ma, mutatis mutandis anche per i marchi- afferma che “non si può pensare di attribuire, ai brevetti, valori di stima fondati sulla supposta particolare redditività di quei beni dell’impresa –sulla parte del complessivo reddito d’esercizio che da essi deriverebbe- giacché tali valutazioni sarebbero non soltanto sommamente arbitrarie ma soprattutto logicamente impossibili”118.

La teoria del reddito non consente in definitiva alcuna valutazione dello specifico valore reddituale da assegnarsi al marchio: dall’introduzione di ipostatizzazioni e assunti per la soluzione di problemi di ordine valutativo consegue quindi l’eventualità dell’errore nel risultato finale119. In altre parole, la stima del valore del marchio può scontare inesattezze di ordine valutativo più o meno gravi a seconda dell’apparato epistemologico utilizzato dall’esperto120.

La teoria deve pur tuttavia reggere alla prova dei fatti e altresì rispondere ai quesiti che la prassi instancabilmente le propone, non limitandosi –per restare al tema discusso- ad una critica dei metodi di valutazione del marchio, atta a celare il problema più che a risolverlo.

117 G. ZAPPA, op. cit., pp. 341-342. 118 P. ONIDA, Il bilancio, p. 445. 119 In tema di errore nella misurazione delle quantità economiche, sia consentita la

citazione delle seguenti parole di Giovanni Demaria: “l’indeterminazione logica deriva dall’impossibilità razionale di stabilire, misurare e osservare o semplicemente definire esattamente, tanto a priori, quanto a posteriori, tutti i nessi di ordine esistenti tra i fatti osservabili o osservati in natura. […] Essa, cioè, è il prodotto o dell’insufficienza dell’intelligenza umana, che non è in grado di osservare compiutamente i fatti rilevati (e in particolare commette sempre degli errori nella misura delle osservazioni), oppure dal fatto che l’uniformità trovata è stata stabilita soltanto con il processo induttivo. Nel primo caso, come già sappiamo, indeterminazione significa soprattutto inesattezza. Nel secondo, incertezza.”; in G. DEMARIA, Trattato di logica economica, vol. I, Padova, CEDAM, 1974, pp. 47-48. In tema di incertezza nell’economica, si veda anche J. M. KEYNES, A treatise on probability, New York, Courier Dover Publication, 2004; per un esegesi dell’opera di Keynes, cfr. A. CARABELLI, J. M. Keynes e A treatise on probability, in AA.VV., Modelli di razionalità nelle scienze economico-sociali, Venezia, Arsenale Cooperativa Editrice, 1982, pp. 115-132.

120 L. GUATRI, La qualità delle valutazioni. Una metodologia per riconoscere e misurare l’errore, Milano, Università Bocconi Editore, 2007, pp. 21-57.

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Tali quesiti sorgono peraltro dalla pratica professionale quali conseguenze dell’introduzione anche in Italia del principio giuridico tipico della common law noto come <substance over form> e fondativo non solo delle Direttive CEE IV del 1978, n. 660 recepita dal D. Lgs. del 1991, n. 127, e VII del 1983, n. 349, ma anche dei principî contabili internazionali adottati tramite il Regolamento Comunitario del 2002, n. 1606121. E di tale principio –sovversivo del convenzionalismo zappiano- è infatti tributario il concetto anglosassone e pseudo-empirico del <fair value>, concetto al quale devono adeguarsi le valutazioni dei beni immateriali nelle ipotesi in precedenza esaminate, in fase di redazione del bilancio di esercizio.

Tornando allora ai criterî di valutazione accennati supra, mentre redditi differenziali, comparativi e di mercato scontano il rischio di inesattezze più o meno gravi nella determinazione del valore, il criterio del costo parrebbe viceversa offrire una rappresentazione contabile quantomeno prudente, nella quale si dovrebbe poi comprendere anche l’ammontare di qualsivoglia investimento finalizzato alla costituzione e al consolidamento del bene intangibile in parola (a titolo esemplificativo, gli oneri pubblicitarî, i costi relativi all’organizzazione di vendita, all’addestramento e formazione del personale commerciale, alla struttura interna di marketing).

Infine, dipende certamente dal ponderato giudizio dell’esperto la scelta del tipo e della quantità dei costi da capitalizzare, evitando qualsiasi duplicazione di valori di altre voci di bilancio.

Non si può tuttavia non rilevare come l’applicazione del criterio del costo in sede di stima del marchio –ancorché aderente al principio di prudenza- possa causare una sottovalutazione del capitale delle aziende che operano nel settore dell’abbigliamento di lusso, e la cui economia si regge quasi esclusivamente sul valore dell’intangibile in parola.

Appare sul punto significativo il caso trattato di Valentino Fashion Group S.p.A., dal quale si evince l’esigenza, per la società, di compiere una stima del marchio atta a evidenziarne l’attitudine prospettica reddituale. Non diverge da tale posizione neppure il caso di Giorgio Armani S.p.A., ove si è percepita la necessità dell’utilizzo di metodi finanziarî/comparativi comunque fondativi di stime legate alle aspettative reddituali o di <cash flow> operativi, non appena si è avuto l’esigenza di valutare il capitale dell’azienda.

Si è in tal modo tentato di dimostrare la peculiare posizione che tale bene intangibile ricopre nel c.d. <fashion system> rispetto ad altri settori

121 Sul punto, cfr. A. CANZIANI, Measurements and calculations in accounting: a note

on continental v. anglo-saxon methodology, in <Economia Aziendale>, 1982, 1, pp. 57-71; A. CANZIANI, Critica della “true and fair view” quale pseudo concetto empirico, in Studi in onore di Ubaldo De Dominicis, Trieste, LINT, 1991, pp. 279-291.

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economici, in ragione della capacità del medesimo di essere –per dire con le parole di Brugger122- i) oggetto di un costante ed elevato <flusso di investimenti>; ii) origine di <beneficî economici differenziali> di entità apprezzabile; iii) <trasferibile>. Oltre ai citati aspetti sub i), ii), iii) si rifletta inoltre alle necessità di iv) monitoraggio delle licenze ed eventuale loro riduzione, v) tempestivo intervento in tutti i casi di contraffazione, al fine di evitare eventuali perdite di valore del marchio.

In conclusione, questo autore non ritiene sussistano soluzioni univoche o, quantomeno, concordi in tema di valutazione del marchio, e ciò pare vieppiù confermato nel settore dell’abbigliamento di lusso ove tale intangibile ricopre un ruolo di indubbia e primaria importanza. Per tale motivo, e a fronte di esigenze revenienti dalla prassi professionale, in deroga al principio di prudenza che richiederebbe coerentemente l’applicazione del criterio del costo, si prospetta quindi l’eventualità di utilizzare metodi atti a evidenziare la capacità reddituale del marchio di lusso, quali –come nel caso trattato- il royalty relief method.

122 G. BRUGGER, op. cit., p. 43.

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30- Rino FERRATA, Le variabili critiche nella misurazione del valore di una tecnologia, aprile 2004.

31- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Co-branding e valore della marca, aprile 2004. 32- Arnaldo CANZIANI, La natura economica dell’impresa, giugno 2004. 33- Angelo MINAFRA, Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del

XXI secolo?, luglio 2004. 34- Yuri BIONDI, Equilibrio e dinamica economica nell’impresa di Maffeo Pantaleoni,

agosto 2004. 35- Yuri BIONDI, Gino Zappa lettore degli Erotemi di Maffeo Pantaleoni, agosto 2004. 36- Mario MAZZOLENI, Co-operatives in the Digital Era, settembre 2004. 37- Claudio TEODORI, La comunicazione via WEB delle imprese italiane quotate: un

quadro d’insieme, dicembre 2004. 38- Elisabetta CORVI, Michelle BONERA, La comunicazione on line nel settore della

distribuzione dell’energia elettrica, dicembre 2004. 39- Yuri BIONDI, Zappa, Veblen, Commons: azienda e istituzioni nel formarsi

dell’Economia Aziendale, dicembre 2004. 40- Federico MANFRIN, La revisione del bilancio di esercizio e l’uso erroneo degli

strumenti statistici, dicembre 2004. 41- Monica VENEZIANI, Effects of the IFRS on Financial Communication in Italy:

Impact on the Consolidated Financial Statement, gennaio 2005. 42- Anna Maria TARANTOLA RONCHI, Domenico CERVADORO, L’industria

vitivinicola di Franciacorta: un caso di successo, marzo 2005. 43- Paolo BOGARELLI, Strumenti economico aziendali per il governo delle aziende

familiari, marzo 2005. 44- Anna CODINI, I codici etici nelle cooperative sociali, luglio 2005. 45- Francesca GENNARI, Corporate Governance e controllo della Brand Equity

nell’attuale scenario competitivo, luglio 2005. 46- Yuri BIONDI, The Firm as an Entity: Management, Organisation, Accounting, agosto

2005. 47- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Luca MOLTENI, Consumatore, marca ed

“effetto made in”: evidenze dall’Italia e dagli Stati Uniti, novembre 2005. 48- Pier-Luca BUBBI, I metodi basati sui flussi: condizioni e limiti di applicazione ai fini

della valutazione delle imprese aeroportuali, novembre 2005. 49- Simona FRANZONI, Le relazioni con gli stakeholder e la responsabilità d’impresa,

dicembre 2005. 50- Francesco BOLDIZZONI, Arnaldo CANZIANI, Mathematics and Economics: Use,

Misuse, or Abuse?, dicembre 2005. 51- Elisabetta CORVI, Michelle BONERA, Web Orientation and Value Chain Evolution

in the Tourism Industry, dicembre 2005. 52- Cinzia DABRASSI PRANDI, Relationship e Transactional Banking models, marzo

2006. 53- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Federica LEVATO, Brand Extension &

Brand Loyalty, aprile 2006. 54- Mario MAZZOLENI, Marco BERTOCCHI, La rendicontazione sociale negli enti

locali quale strumento a supporto delle relazioni con gli Stakeholder: una riflessione critica, aprile 2006

∗ Serie depositata a norma di legge. L’elenco completo dei paper è disponibile al

seguente indirizzo internet http://www.deaz.unibs.it

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Page 54: MARCHI, IMPRESE E SOCIOLOGIA DELL ... - Portale di Ateneo · ... Diritto industriale, in

55- Marco PAIOLA, Eventi culturali e marketing territoriale: un modello relazionale applicato al caso di Brescia, luglio 2006

56- Maria MARTELLINI, Intervento pubblico ed economia delle imprese, agosto 2006 57- Arnaldo CANZIANI, Between Politics and Double Entry, dicembre 2006 58- Marco BERGAMASCHI, Note sul principio di indeterminazione nelle scienze sociali,

dicembre 2006 59- Arnaldo CANZIANI, Renato CAMODECA, Il debito pubblico italiano 1971-2005 nel-

l'apprezzamento economico-aziendale, dicembre 2006 60- Giuseppina GANDINI, L’evoluzione della Governance nel processo di trasformazione

delle IPAB, dicembre 2006 61- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, Brand Extension:

l’impatto della qualità relazionale della marca e delle scelte di denominazione, marzo 2007

62- Francesca GENNARI, Responsabilità globale d’impresa e bilancio integrato, marzo 2007

63- Arnaldo CANZIANI, La ragioneria italiana 1841-1922 da tecnica a scienza, luglio 2007

64- Giuseppina GANDINI, Simona FRANZONI, La responsabilità e la rendicontazione sociale e di genere nelle aziende ospedaliere, luglio 2007

65- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, La valutazione di un’estensione di marca: consonanza percettiva e fattori Brand-Related, luglio 2007

66- Marco BERGAMASCHI, Crisi d’impresa e tecnica legislativa: l’istituto giuridico della moratoria, dicembre 2007.

67- Giuseppe PROVENZANO, Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!! , dicembre 2007.

68- Elisabetta CORVI, Alessandro BIGI, Gabrielle NG, The European Millennials versus the US Millennials: similarities and differences, dicembre 2007.

69- Anna CODINI, Governo della concorrenza e ruolo delle Authorities nell’Unione Europea, dicembre 2007.

70- Anna CODINI, Gestione strategica degli approvvigionamenti e servizio al cliente nel settore della meccanica varia, dicembre 2007.

71- Monica VENEZIANI, Laura BOSIO, I principi contabili internazionali e le imprese non quotate: opportunità, vincoli, effetti economici, dicembre 2007.

72- Mario NICOLIELLO, La natura economica del bilancio d’esercizio nella disciplina giuridica degli anni 1942, 1974, 1991, 2003, dicembre 2007.

73- Marta Maria PEDRINOLA, La ristrutturazione del debito dell’impresa secondo la novella dell’art 182-bis L.F., dicembre 2007.

74- Giuseppina GANDINI, Raffaella CASSANO, Sistemi giuridici a confronto: modelli di corporate governance e comunicazione aziendale, maggio 2008.

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77- Pierpaolo FERRARI, Leasing, factoring e credito al consumo: business maturi e in declino o “cash cow”?, giugno 2008.

78- Giuseppe BERTOLI, Globalizzazione dei mercati e sviluppo dell’economia cinese, giugno 2008.

79- Arnaldo CANZIANI, Giovanni Demaria (1899-1998) nei ricordi di un allievo, ottobre 2008.

80- Guido ABATE, I fondi comuni e l’approccio multimanager: modelli a confronto, novembre 2008.

81- Paolo BOGARELLI, Unità e controllo economico nel governo dell’impresa: il contributo degli studiosi italiani nella prima metà del XX secolo, dicembre 2008.

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Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Dicembre 2008

Paper numero 82

Marco BERGAMASCHI

MARCHI, IMPRESE E SOCIOLOGIADELL’ABBIGLIAMENTO D’ALTA MODA

Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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