Mani pulite primo capitolo - Travaglio,Gomez,Barbacetto

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Barbacetto Gomez Travaglio MANI PULITE LA VERA STORIA, 20 ANNI DOPO

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Mani Pulite, la vera storia - Primo Capitolo - Travaglio, Gomez, Barbacetto

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Mani pulite, vent’anni dopo. Altro che storia passata, questolibro racconta l’Italia dell’illegalità permanente. Un docu-mento storico che rimarrà per sempre sul tradimento dellapolitica. La cronaca di fatti e misfatti parte da Milano, 17 febbraio1992, arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio AlbergoTrivulzio: il primo tangentomane che fa tremare l’impero, adue mesi dalle elezioni. Saranno elezioni terremoto, quelledel 1992, stravinte dal partito degli astenuti (17,4 per cento)e dalla Lega nord. Intanto la Prima Repubblica va in galeraed è ancora solo superficie. Falcone e Borsellino trucidati aPalermo (e nel 2012 molti processi ancora aperti sulle stragi).Un anno dopo la corruzione è ormai un fatto nazionale,nessun partito escluso (70 procure al lavoro, 12.000 personecoinvolte per fatti di tangenti, circa 5000 arresti).“L’Italia sta risorgendo”, saluta così l’anno nuovo il presidentedella Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Peccato che sia l’iniziodel 1994, l’anno di Berlusconi e dell’inizio della restaurazione.Scatta l’operazione Salvaladri, con gli imputati che mettonosotto accusa i magistrati. È il mondo alla rovescia e gli italiani assistono allo spettacolo. Alcuni protestano, molti si abituanoe finiscono per crederci.Poi gli anni dell’Ulivo, della Bicamerale e dell’inciucio centro-destra-centrosinistra, che produce una miriade di leggi controla giustizia: ad personas, ad castam e ad mafiam. Fino al2001, che avvia il quinquennio della definitiva normaliz-zazione: il ritorno di Berlusconi, decine tra imputati econdannati di nuovo in Parlamento, le leggi ad personam, ireati aboliti, i giudici trasferiti... E poi ancora i due anni delsecondo governo Prodi e i tre del terzo governo Berlusconi,che fra indulti e altre leggi vergogna ripiombano il paesenegli scandali e nella crisi finanziaria. Infine il governo Monti,sempre in attesa di una seria legge anticorruzione, vent’annidopo.

Gianni Barbacetto è giornalista de “il Fatto Quotidiano”. PerChiarelettere ha pubblicato MANI SPORCHE (con Peter Gomeze Marco Travaglio, 2007) e LE MANI SULLA CITTÀ (con DavideMilosa, 2011).

Peter Gomez è direttore de “il Fatto Quotidiano” online. PerChiarelettere ha pubblicato SE LI CONOSCI LI EVITI (conMarco Travaglio, 2008), IL BAVAGLIO (con Marco Lillo e MarcoTravaglio, 2008), PAPI. UNO SCANDALO POLITICO (con MarcoLillo e Marco Travaglio, 2009), IL REGALO DI BERLUSCONI(con Antonella Mascali, 2009). Da ricordare anche il bestsellerscritto con Lirio Abbate, I COMPLICI (Fazi 2007).

Marco Travaglio è vicedirettore de “il Fatto Quotidiano” eautore di inchieste di successo, molte delle quali firmate conPeter Gomez. Oltre a quelli già citati, ricordiamo i suoi libripiù recenti: AD PERSONAM (Chiarelettere 2010), COLTI SULFATTO (Garzanti 2010) e SILENZIO, SI RUBA (dvd+libro,Chiarelettere 2011) che raccoglie gli interventi della rubricasettimanale “Passaparola”, in rete ogni lunedì fino al set-tembre 2011. Dopo il successo di PROMEMORIA, 15 ANNI DISTORIA D’ITALIA AI CONFINI DELLA REALTÀ, è in scena neiteatri italiani con ANESTESIA TOTALE, PRIMO SPETTACOLO(POCO SPETTACOLARE) DEL DOPO-B, insieme a IsabellaFerrari. Dopo cinque anni di ANNOZERO, quest’anno proseguela sua collaborazione insieme alla squadra di Michele Santorocon SERVIZIO PUBBLICO.

I S B N 978-88-6190-053-0

9 7 8 8 8 6 1 9 0 0 5 3 0

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“IL RACCONTO DEI FATTI SPAZZA VIA LESCIOCCHEZZE E LE MENZOGNE CHE PERANNI SONO STATE DIVULGATE DAI MEZZIDI INFORMAZIONE... QUEST’OPERA È UNVADEMECUM CHE AIUTERÀ A RICORDARECIÒ CHE È ACCADUTO, PERCHÉ È L’OBLIO

DEI MISFATTI CHE LENTAMENTECONSUMA LA LIBERTÀ

DELLE ISTITU-ZIONI.”

Piercamillo Davigo

Barbacetto

•Gomez

•Travaglio

MANI PULITE Barbacetto •GomezTravaglio

19,60Progetto grafico: David Pearsonwww.davidpearsondesign.com

MANIPULITELA VERA STORIA, 20 ANNI DOPO

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Buona lettura,

Lorenzo Fazio Direttore editoriale Chiarelettere

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Inchieste e reportageprinCipioattivo

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Michele Ainis, Tina Anselmi, Claudio Antonelli, Franco Arminio, Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Bandanas, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Nicola Biondo, Tito Boeri, Caterina Bonvicini, Beatrice Borromeo, Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Dario Bressanini, Carla Buzza, Andrea Camilleri, Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Gianroberto Casaleggio, Andrea Casalegno, Antonio Castaldo, Carla Castellacci, Mario José Cereghino, Massimo Cirri, Marco Cobianchi, Fernando Coratelli, Carlo Cornaglia, Roberto Corradi, Pino Corrias, Andrea Cortellessa, Riccardo Cremona, Gabriele D’Autilia, Vincenzo de Cecco, Luigi de Magistris, Andrea Di Caro, Franz Di Cioccio, Gianni Dragoni, Giovanni Fasanella, Davide Ferrario, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Fondazione Giorgio Gaber, Goffredo Fofi, Giorgio Fornoni, Nadia Francalacci, Massimo Fubini, Milena Gabanelli, Vania Lucia Gaito, Giacomo Galeazzi, don Andrea Gallo, Bruno Gambarotta, Andrea Garibaldi, Pietro Garibaldi, Claudio Gatti, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Luigi Grimaldi, Dalbert Hallenstein, Guido Harari, Riccardo Iacona, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro, Alessandro Leogrande, Marco Lillo, Felice Lima, Stefania Limiti, Giuseppe Lo Bianco, Saverio Lodato, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Ignazio Marino, Antonella Mascali, Antonio Massari, Giorgio Meletti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Davide Milosa, Alain Minc, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Loretta Napoleoni, Natangelo, Alberto Nerazzini, Gianluigi Nuzzi, Raffaele Oriani, Sandro Orlando, Max Otte, Massimo Ottolenghi, Antonio Padellaro, Pietro Palladino, Gianfranco Pannone, Walter Passerini, David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Simone Perotti, Roberto Petrini, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Ferruccio Pinotti, Paola Porciello, Mario Portanova, Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Sigfrido Ranucci, Luca Rastello, Marco Revelli, Piero Ricca, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Vasco Rossi, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Giuseppe Salvaggiulo, Laura Salvai, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Roberto Saviano, Luciano Scalettari, Matteo Scanni, Roberto Scarpinato, Gene Sharp, Filippo Solibello, Riccardo Staglianò, Franco Stefanoni, Luca Steffenoni, theHand, Bruno Tinti, Gianandrea Tintori, Marco Travaglio, Gianfrancesco Turano, Elena Valdini, Vauro, Concetto Vecchio, Giovanni Viafora, Anna Vinci, Carlo Zanda, Carlotta Zavattiero. 

chiarelettereAutori e amici di

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pretesto1fpagine 31-32

“�Mani�pulite�nasce��in�uno�Stato��a�un�passo��dalla�bancarotta.”

10 luglio 1992. Il presidente del Consiglio Giuliano Amato decide una manovra finanziaria record (93.000 miliardi di lire) per risanare il debito pubblico.

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pretesto2fpagina 823

“�L’inchiesta�Mani�pulite�ha�prodotto�circa�1.300�dichiarazioni��di�colpevolezza,�fra�condanne��e�patteggiamenti�definitivi...�Circa�il�40�per�cento�degli�indagati��si�sono�salvati�grazie��alla�prescrizione,�a�cavilli�procedurali�o�a�modifiche�legislative��su�misura.�Quasi�tutti�gli�indagati�del�1992-94�e�degli�anni�successivi�sono�rimasti�o�tornati�rapidamente�nella�vita�pubblica.”

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pretesto3fpagine 68, 31

� IL�GIRO�D’AFFARI�DI�TANGENTOPOLI“�La�corruzione�vale�10.000�miliardi�all’anno,�ha�generato��un�indebitamento�pubblico��tra�i�150.000�e�i�250.000�miliardi�di�lire,�con�15-25.000�miliardi��di�relativi�interessi�annui��sul�debito.”

Fonte Mario Deaglio, 1992.

“�Il�14�luglio�1992�tocca�a�Paolo�Scaroni,�amministratore�delegato�della�Techint�(patteggerà�una�pena�di�1�anno�e�4�mesi�per�aver�pagato�tangenti�in�cambio�di�appalti�dall’Enel).�Nel�2002�il�governo�Berlusconi�nomina�Scaroni�amministratore�delegato�dell’Enel.”

Dal 2005 Paolo Scaroni è amministratore delegato e direttore generale dell’Eni.

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pretesto4fpagine 65, 88

“�In�me�c’era�un�dualismo��e�lo�confessavo�anche�al�mio�padre�spirituale.�Da�un�lato�la�vocazione�all’onestà,�ma�anche�il�desiderio��di�fare�carriera.�Raccogliere�quattrini��per�il�partito�era�un�modo�per�fare��salti�di�qualità.”

Luigi Martinelli, democristiano, presidente della Commissione ambiente della Regione Lombardia, 1992.

“�Anch’io�come�Claudio�Martelli�avevo�libero�accesso�al�frigo��di�casa�Craxi,�ma�con�una�differenza:�io�lo�champagne��lo�mettevo�in�frigo,�lui�lo�prendeva...”

Silvano Larini, titolare del conto Protezione all’Ubs di Lugano, 8 febbraio 1993.

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pretesto5fpagine 77, 83

“�Bisogna�dire�ciò�che�tutti�sanno:�buona�parte��del�finanziamento�pubblico��è�irregolare�o�illegale�e�nessun�partito�è�in�grado�di�scagliare��la�prima�pietra.”

Bettino Craxi, discorso alla Camera dei deputati, 3 luglio 1992.

“�Avvertiamo�il�dovere�di�esprimere�con�chiarezza�di�fronte�ai�cittadini�l’opinione�maturata�sulla�base�della�nostra�esperienza�professionale…�L’indipendenza�del�pm�rispetto�all’esecutivo�e�l’unicità�della�magistratura�nella�storia�dell’Italia�repubblicana�ha�rappresentato��una�garanzia�per�l’affermazione��della�legalità.”

Documento firmato da vari magistrati, tra i quali Francesco Saverio Borrelli e i membri del pool Mani pulite.

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© Chiarelettere editore srlSoci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol SpaLorenzo Fazio (direttore editoriale)Sandro ParenzoGuido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare Spa)Sede: Via Melzi d’Eril, 44 - Milano

ISBN ---53-

Prima edizione: febbraio 22

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Gianni BarbacettoPeter GomezMarco Travaglio

Mani pulitePrefazione di Piercamillo Davigo

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Gianni Barbacetto, giornalista, scrive su «il Fatto Quotidiano». È direttore di Omi-cron (l’Osservatorio milanese sulla criminalità organizzata al Nord). Ha cominciato a lavorare per la radio (Radio Milano Libera, Radio Città, Radio Rai). Negli anni Ottanta ha contribuito a fondare il mensile «Società civile», che ha diretto per una decina d’anni. Si è molto divertito, anni fa, a condurre un programma televisivo di economia e finanza su una tv privata (Rete A). Ha realizzato, con il regista Mosco Boucault, il documentario per la rete franco-tedesca Arte sul Lodo Mondadori, mai trasmesso in Italia. Ha lavorato per la tv (Annozero, Blunotte), il cinema (A casa nostra di Francesca Comencini), il teatro (A cento passi dal Duomo di Giulio Cavalli). I suoi libri: Milano degli scandali (con Elio Veltri, Laterza 1991); Campioni d’Italia (Tropea 2002); B. Tutte le carte del Presidente (Tropea 2004); Compagni che sbagliano (il Sag-giatore 2007); Il guastafeste (intervista ad Antonio Di Pietro, Ponte alle Grazie 2009); Se telefonando (Melampo 2009); Il grande vecchio (Rizzoli-Bur 2009); Le mani sulla città (con Davide Milosa, Chiarelettere 2011). Con Peter Gomez e Marco Travaglio ha pubblicato Mani sporche (Chiarelettere 2007).

Peter Gomez, giornalista de «il Fatto Quotidiano» e direttore de «il Fatto Quotidiano» online, ha lavorato con Indro Montanelli prima a «il Giornale» e poi a «La Voce». Negli ultimi anni ha seguito tutti  i principali scandali  italiani su mafia, tangenti e corruzione. Molti  i suoi  libri: O mia bedda Madonnina (con Goffredo Buccini, Rizzoli 1993); L’intoccabile. Berlusconi e Cosa nostra (con Leo Sisti, Kaos Edizioni 1997); Piedi puliti (con Leonardo Coen, Leo Sisti, Garzanti 1999); I complici (con Lirio Abbate, Fazi editore 2007); Il regalo di Berlusconi (con Antonella Mascali, Chiarelettere 2009). Con Marco Travaglio ha pubblicato: La repubblica delle banane (Editori Riuniti 2001); Lo chiamavano impunità (Editori Riuniti 2003); Bravi ragazzi (Editori Riuniti 2003); Regime (Rizzoli-Bur 2004); L’amico degli amici (Rizzoli-Bur 2005); Inciucio (Rizzoli-Bur 2005); Le mille balle blu (Rizzoli-Bur 2006); Onorevoli Wanted (Editori Riuniti 2006); E continuavano a chiamarlo impunità (Editori Riuniti 2007); Mani sporche (con Gianni Barbacetto, Chiarelettere 2007); Se li conosci li eviti (Chiarelettere 2008); Bavaglio (con Marco Lillo, Chiarelettere 2008); Papi (con Marco Lillo, Chiarelettere 2009).

Marco Travaglio ha lavorato con Indro Montanelli, prima a «il Giornale» e poi a «La Voce». Ha collaborato con diverse testate, fra cui «Sette», «Cuore», «Il Messaggero», «Il Giorno», «L’Indipendente», «Il Borghese», «la Repubblica» e «l’Unità». Oggi, oltre a collaborare con «l’Espresso», «MicroMega», «A» e con Servizio pubblico di Michele Santoro, è vicedirettore de «il Fatto Quotidiano», che ha contribuito a fondare nel 2009. Dopo il successo di Promemoria, è in scena nei teatri italiani con Anestesia totale. Primo spettacolo (poco spettacolare) del dopo B, insieme a Isabella Ferrari. È autore di molti libri di successo, tra i quali: L’odore dei soldi (con Elio Veltri, Editori Riuniti 2001), Regime (con Peter Gomez, Rizzoli-Bur 2004), Per chi suona la banana (Garzanti 2008), Colti sul fatto (Garzanti 2010). Per Chiarelettere ha pubblicato: Mani sporche (con Peter Gomez e Gianni Barbacetto, 2007), Se li conosci li eviti (con Peter Gomez, 2008), Il bavaglio (con Peter Gomez e Marco Lillo, 2008), Italia Annozero (con Vauro e Beatrice Borromeo, 2009), Papi. Uno scandalo politico (con Peter Gomez e Marco Lillo, 2009), Ad personam (2010), Silenzio, si ruba (dvd+libro, 2011).

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Sommario

Per non dimenticare di Piercamillo Davigo  xiii

i pulite

Prologo  5

1992. Mani sporche 

1. Mariuoli a Milano  - 2. Il «sistema» Milano 22 - 3. «Viva Di Pietro» 32 - 4. Tangenti bianche, nere, rosse 42 - 5. Milano, Italia 4 - 6. La prima guerra al pool  - 7. Autunno 1992, fuga da Bettino 3

1993. Mani alzate 

1. Il tramonto dell’impero 3 - 2. La politica si arrende 3. Le tangenti rosse 35 - 4. Il Cavaliere e l’Ingegnere 53 - 5. Eni, Montedison, Iri: boiardi e pirati 4 - 6. Al cuore della Fiat 27. Tangentopoli, Italia 223 - 8. La guerra dei dossier 23

1994. Mani legate  24

1. La Giustizia nell’urna 24 - 2. Nuovo Governo, vecchi amici 24 - 3. Fiamme gialle, Fiamme sporche 2 - 4. Chi tocca i fili muore 2 - 5. Tutti contro il pool 32 - 6. Indagine sul presidente del Consiglio 322 - 7. Di Pietro addio 33 - 8. Berlusconi arrivederci 35 - 9. Tutti i complotti contro Di Pietro 33

1995. Mani basse  3

1. La Giustizia di Mancuso 3 - 2. Obiettivo Fininvest 33. Uscire da Mani pulite 3 - 4. Brescia contro Milano 4

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5. Tutti colpevoli, nessun colpevole 443 - 6. All Iberian: Craxi, Berlusconi & C. 4

1996. Mani lunghe  4

1. Toghe sporche 42 - 2. Il convitato Di Pietro 53. Tangentopoli 2, la vendetta 53 - 4. La Fininvest alla sbarra 35. I due marescialli  - 6. Caccia al magistrato 

1997-2000. Mani libere   2

1. Di Pietro corrotto, anzi no 23 - 2. La Giustizia in Bicamerale 4 - 3. Tangenti ad alta velocità 5 - 4. Tolleranza mille 5. All Iberian non si processa 2 - 6. Toghe sporche: la miglior difesa è il rinvio 4 - 7. I resti di Tangentopoli 55 - 8. C’era una volta la Giustizia 5

Post scriptum. Gli ultimi 10 anni 

Appendice 

Com’è andata a finire  23

1. I processi 23 - 2. Gli imputati eccellenti 24 - 3. Il pool 3

Francesco Saverio Borrelli. Memorie di un procuratore  33

Bibliografia  53

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Per non dimenticaredi Piercamillo Davigo

Mani pulite. Vent’anni dopo

Sono passati vent’anni da quando, il 17 febbraio 1992, a Milano fu arrestato Mario Chiesa, fatto che è stato considerato l’inizio di quelle indagini che i mezzi di informazione hanno chiamato «Mani pulite». Quella non era la prima volta in cui un pubblico amministratore veniva sorpreso in flagranza di corruzione, e non fu l’ultima. Per quale ragione, vent’anni dopo, quell’ac-cadimento viene ancora ricordato, tanto da portare alla seconda edizione di un volume che ricostruisce quella vicenda e quelle che seguirono?

Credo che la spiegazione sia da ricercare nel sorprendente (anche per gli inquirenti) sviluppo delle indagini, innescate da quell’episodio, che in un tempo relativamente breve (specie se rapportato ai tempi dell’ammini-strazione giudiziaria) portò alla scoperta di un numero impressionante di reati e al coinvolgimento di migliaia di politici, funzionari e imprenditori.

Che cosa aveva fatto la differenza fra quelle indagini rispetto ad altre precedenti e successive?

In questi vent’anni si sono sentite in proposito, da parte di vari com-mentatori, numerose sciocchezze, quali «lo sapevano tutti», «dov’era prima la magistratura?», «è stato un golpe» (orchestrato, a seconda dell’ideologia di chi sosteneva tale tesi, dai comunisti, dalla Cia, dai poteri forti ecc.) e altre stravaganze. Anzitutto non è vero che «lo sapevano tutti». Né i miei colleghi né io, pur avendo la percezione che i reati di concussione, corru-zione, finanziamento illecito dei partiti politici e false comunicazioni sociali fossero ben più numerosi di quanto risultava dalle statistiche giudiziarie, immaginavamo le dimensioni dell’illegalità, quali emersero dalle indagini.

Neppure i cittadini immaginavano che la corruzione avesse raggiunto tali dimensioni e soprattutto che appartenenti a partiti di opposti schieramenti si dividessero le tangenti, e rimasero attoniti quando Bettino Craxi, alla Camera dei deputati il 29 aprile 1993, parlò di un sistema di finanziamento illegale alla politica che coinvolgeva tutti, senza che nessuno dei deputati 

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XIV  Mani pulite

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presenti in aula (fra cui certamente ve ne erano pure di onesti, ma ignari di ciò che era accaduto all’interno dei loro partiti) si alzasse a rivendicare la propria estraneità e il proprio sdegno nel sentirsi accomunare al generale ladrocinio.

Del resto nelle statistiche giudiziarie i reati di corruzione apparivano (e appaiono tuttora) come poco numerosi, ma ciò non deve stupire. La cor-ruzione ha infatti alcune caratteristiche della mafia, fra cui la sommersione e il contesto omertoso, e ha una cifra nera (differenza fra delitti commessi e delitti denunziati) altissima. La corruzione non si commette di fronte a testimoni; è un reato a vittima diffusa, non viene subita da una persona fisica determinata che abbia l’interesse a denunciarla; e le pratiche comprate sono quasi sempre le più «a posto», le più curate; se a ciò si aggiunge che le leggi vigenti rendono difficile scoprirla e reprimerla, vi sono ragioni sufficienti per spiegare perché prima (ma anche dopo) sia emerso nelle statistiche giudiziarie pochissimo di quel sistema di illegalità diffusa che le indagini del 1992-95 svelarono.

Queste considerazioni rispondono anche alla domanda «dov’era prima la magistratura?». Mi sono sempre chiesto perché mai tale domanda (almeno per quel che ne so, ma non mi stupirei del contrario) non sia stata formulata anche a proposito dei procedimenti di mafia. Le indagini sulla mafia, solo dalla collaborazione di Tommaso Buscetta in poi, hanno potuto evidenziare l’esistenza di Cosa nostra come struttura unitaria con regole radicate. Prima i magistrati e le forze di polizia non avevano la minima idea della struttura interna a tale organizzazione.

Peraltro è ben possibile che alcuni di coloro che pongono queste domande retoriche sapessero sia della corruzione che della mafia, ma allora il quesito da porre a costoro dovrebbe essere: «Se lo sapevi perché non hai informato le Procure della Repubblica?».

Quanto alla tesi del golpe, un briciolo di buon senso sarebbe sufficiente a ricordare che chi fa affermazioni così devastanti dovrebbe adempiere all’onore di supportarle con fatti. Rimane il  fatto che in quella vicenda gli esiti delle indagini furono diversi da quelli di procedimenti anteriori e successivi, pur talvolta condotti dalle stesse persone fisiche, con uguale determinazione.

1992. Il sistema entra in crisi

Bisogna allora cercare di individuare le ragioni per le quali questo è avvenuto e perché allora. Anzitutto perché, come ha insegnato il professor Franco Cordero, la caccia e la preda sono due cose distinte. Si può andare a caccia seguendo le regole venatorie e non prendere nulla, così come si può essere 

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Per non dimenticare XV

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pessimi cacciatori e tuttavia avere fortuna, tornando dalla battuta con un ricco bottino. Tuttavia ritengo che siano individuabili alcuni specifici fattori che possono contribuire a spiegare l’esito particolarmente favorevole che quelle indagini ebbero nel periodo dal 1992 al 1995.

L’enorme debito pubblico e la crisi economica del 1992 avevano deter-minato la riduzione della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi e questa, a sua volta, aveva ridotto la possibilità per i corruttori di traslare le tangenti sulla pubblica amministrazione e di sperare in futuri lucrosi appalti. Molti  imprenditori, che  fino ad allora avevano partecipato a cartelli corruttivi,  si  scoprirono concussi e, anziché far  fronte comune con i corrotti, cominciarono a scaricarli, fornendo agli inquirenti l’elenco delle tangenti pagate. All’inizio i vertici dei partiti scaricavano i soggetti che venivano arrestati, descrivendoli come mariuoli isolati, singole mele marce. E quelli, sentendosi abbandonati dai loro complici, descrivevano il resto del cestino delle mele.  Ciò determinò una reazione a catena nelle chiamate in correità incrociate e quello che in questo volume viene chia-mato «effetto domino».

Le indagini fecero emergere che la corruzione è un fenomeno seriale e diffusivo: quando qualcuno viene trovato con le mani nel sacco, di soli-to non è la prima volta che lo fa. Inoltre i corrotti tendono a creare un ambiente favorevole alla corruzione, coinvolgendo nei reati altri soggetti, in modo da acquisirne la complicità fino a che sono le persone oneste a essere isolate.Ciò indusse ad affrontare questi reati con la consapevolezza che non si trattava di comportamenti episodici e isolati, ma di delitti seriali che coinvolgevano un rilevante numero di persone, fino a dar vita ad ampi mercati illegali.

Nel 1992, con il crollo delle ideologie, era anche entrata in crisi la tra-dizionale forma-partito come strumento di aggregazione del consenso e soggetto destinatario dell’assoluta fedeltà degli iscritti. Ricordo che in una trasmissione televisiva, poco dopo l’arresto del segretario cittadino del Pds, un iscritto a quel partito, intervistato, commentò il fatto dicendo che da trent’anni andava ai festival dell’Unità come volontario a cuocere le salamelle sulla griglia e che ora veniva a sapere che, mentre lui girava le salamelle sulla griglia, i suoi capi rubavano, e concludeva dicendo che dovevano andare in galera. L’insieme di queste cause consentì la scoperta della vasta trama di corruzione, e la reazione dell’opinione pubblica, la cui sensibilità era acuita dalla crisi economica, ebbe effetti (all’apparenza) dirompenti sul panorama politico: scomparvero dalla scena politica cinque partiti, quello di maggioran-za relativa (Democrazia cristiana) e altri quattro (Partito socialista italiano, Partito socialdemocratico italiano, Partito repubblicano italiano e Partito liberale italiano), tre dei quali avevano più di cento anni.

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XVI  Mani pulite

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La restaurazione

In realtà il sistema politico si è rapidamente ricomposto in forme nuove, continuando tuttavia a calpestare sia la volontà dell’opinione pubblica (ad esempio aggirando l’esito del referendum sull’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti politici, che oggi ottengono dallo Stato più denaro di prima del referendum, giustificato come rimborsi per spese elettorali) che le esigenze, imposte anche da istanze internazionali (Onu, Consiglio d’Europa, Unione europea, Fondo monetario internazionale, Ocse), di ridare legalità e trasparenza alle istituzioni e al mercato. Da allora (e fino a non molto tempo fa) è invece stato avviato un tentativo di restaurazione, che ha ottenuto il duplice risultato di far crollare il numero delle condanne per corruzione e di far precipitare l’Italia, negli indici della corruzione percepita, al penultimo posto (nel senso degli ultimi della classe) nel mondo occidentale, dietro molti paesi africani e asiatici. 

Il numero di condanne per corruzione, ridotto a un decimo di quello di quindici anni fa, non appare dunque frutto di una riduzione della corru-zione, ma della difficoltà a fronteggiarla. Il clima in cui da anni operano i magistrati (attaccati da ogni parte e perennemente «minacciati» di riforme volte a ridurre la loro indipendenza e la loro possibilità di azione) e lo sfascio della giustizia non impedito e talora accentuato da parte delle maggioranze parlamentari che si sono trasversalmente avvicendate in questi vent’anni, spiegano sia  le maggiori difficoltà delle  indagini che l’esito negativo dei processi, sempre più spesso conclusi con pronunzie di prescrizione. Non ci si deve quindi stupire se  la corruzione è probabilmente aumentata e, se mai, ci si deve domandare perché questi reati dovrebbero emergere in procedimenti giudiziari.

La normativa sulla corruzione, per il numero e la frammentazione delle fattispecie, consente di inquinare agevolmente le prove: basta un’occhiata d’intesa fra due soggetti per passare, con lievi modifiche delle dichiarazioni, dalla concussione alla corruzione, dalla corruzione propria a quella impro-pria, con rilevanti effetti sia sulla pena che sulla prescrizione. Perciò non si può indagare su un caso di corruzione se i protagonisti possono comunicare fra  loro. Inoltre  la serialità e diffusività di questi reati  integra pressoché sempre il pericolo di reiterazione dei reati. L’esperienza insegna anche che questo pericolo non viene meno neppure con l’allontanamento dei corrotti da incarichi pubblici, perché li si ritrova di lì a poco a svolgere il ruolo di intermediari fra i vecchi complici non scoperti.

In un interrogatorio reso nel 1992, una persona sottoposta a indagi-ni, riferendo di appalti relativi a un importante ente pubblico a  livello nazionale, dichiarò che esisteva un cartello di circa duecento  imprese 

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Per non dimenticare XVII

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che si  spartivano tali appalti, che si pagava praticamente chiunque, sia con riferimento alla struttura dell’ente sia ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza e dei principali partiti di opposizione, e che ciò «è standardizzato da almeno vent’anni».1 Essendo questo il quadro, secondo le regole del codice di procedura penale, nessuno dei soggetti che delin-quono da anni, inseriti in un contesto criminale e criminogeno, dovrebbe essere in stato di libertà. 

Ma le campagne mediatiche contro le presunte «manette facili» (chissà perché riferite solo ai crimini dei colletti bianchi e non, ad esempio, agli scippatori) hanno sortito effetto: oggi i magistrati arrestano molto meno per questi reati e comunque si ricorre agli arresti domiciliari, anziché alla custodia in carcere, con il risultato che molte indagini vengono irrimedia-bilmente inquinate. 

Gli indagati, anche quando fingono di collaborare, confessano solo quel che non possono negare o che immaginano sarà comunque provato e lo raccontano a modo loro, spesso dopo aver concordato versioni di comodo con i complici e ritagliando spazi di omertà da far valere per assicurarsi un futuro politico ed economico basato sulla capacità di ricatto acquisita con il silenzio mantenuto. Nel sistema ci sono meno smagliature in cui gli inquirenti possono infilarsi per scoprire la verità. La legge elettorale vigente fa dipendere l’elezione dalla collocazione in lista, sicché i vincoli verso coloro che formano le liste elettorali si sono rinsaldati e la tendenza a fare quadrato prevale su ogni altra considerazione.

D’altro canto a rapporti diretti di corruzione sembrano essersi affiancati comitati d’affari che rendono ancora più difficile ricondurre le relazioni a fattispecie penali, non essendo stato inserito nel codice penale il delitto di traffico d’influenza, alla cui introduzione pure le convenzioni internazionali obbligano l’Italia. L’unica spinta di segno contrario alla protezione della corruzione proviene infatti dalle istanze internazionali. Le poche leggi che mirano a rendere più facile la scoperta e il perseguimento di questi reati derivano da convenzioni internazionali. Tuttavia la Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa, dopo essere stata firmata nel 1999, non è stata ancora ratificata dall’Italia. 

Altre convenzioni, in sede di ratifica, non sono state attuate o sono state depotenziate. Ad esempio: è stata introdotta nel codice penale la confisca per equivalente (cioè di beni di pari ammontare) del prezzo, ma non del profitto di reato. La legge, come ha confermato una recente pronuncia della Corte di cassazione a sezioni unite in materia di peculato, infatti, non consente 

1 Si veda P. Davigo, G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale controllo penale, Laterza, Roma-Bari 2007.

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XVIII  Mani pulite

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la confisca dei beni per l’equivalente del profitto sottratto. Si può soltanto confiscare l’equivalente del prezzo del reato. Come se si sequestrasse all’au-tore di una rapina l’equivalente della paga avuta per partecipare al delitto, ma non l’equivalente della refurtiva. 

Leggi salvacorrotti

La sequenza di leggi di origine soltanto nazionale è invece di segno oppo-sto. Molte pronunzie assolutorie sono derivate dalla sopravvenuta (per leggi nel frattempo approvate) inutilizzabilità di prove prima utilizzabili e – nel silenzio dei mezzi d’informazione – presentate come attestazioni di  innocenza. Elevatissimo è stato il numero di sentenze di non dover-si procedere per prescrizione, mai rinunziata dagli  imputati, anche da coloro che hanno ricoperto cariche pubbliche, dimentichi che l’articolo 54 della Costituzione richiede a costoro «disciplina ed onore», senza che mai nessuno all’interno dello stesso o di opposti schieramenti ricordasse il dovere dell’onore.

La legge «ex Cirielli», oltre a ridurre i termini di prescrizione e a mandare in fumo decine di migliaia di processi in più, ha sortito un effetto spesso ignorato: prima, se ad esempio un corrotto riceveva tangenti per dieci anni, tutte le corruzioni rientravano in un unico disegno criminoso e l’istituto della continuazione gli riduceva  la pena: ma la prescrizione decorreva dall’ultimo episodio di corruzione. Con la  legge ex Cirielli  invece ogni reato in continuazione si prescrive autonomamente. Le conseguenze sono che non è più possibile risalire nel tempo a investigare precedenti episodi per individuare i complici e risalire ai fatti più recenti da costoro realiz-zati. Chi vuol corrompere un funzionario pubblico deve avere dei fondi neri, cioè deve falsificare i bilanci. Dietro un bilancio falso molto spesso si nascondono anche tangenti. 

Le leggi più dannose sono state perciò quella approvata dalla maggio-ranza di centrosinistra sui reati  finanziari e quella della maggioranza di centrodestra sul reato di false comunicazioni sociali. La prima ha ridotto la punibilità per  l’annotazione di  fatture per operazioni  inesistenti  (il sistema più usato per creare fondi neri) solo ai casi in cui si riverberano oltre una certa soglia sulla dichiarazione dei redditi: basta indicare spese gonfiate o inventate fra i costi non deducibili anziché fra quelli detraibili e si ottengono risorse fuori bilancio senza più commettere reato. Con la seconda (riforma del falso in bilancio del 2001) sono state abbassate le pene e dunque ridotta la prescrizione, sicché è quasi impossibile concludere i processi in tempo utile. 

Ma soprattutto, per le società non quotate, il delitto è stato reso perse-

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Per non dimenticare XIX

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guibile solo a querela della parte offesa, creditore o azionista. Il creditore non è danneggiato dalle false comunicazioni, ma dall’insolvenza: se viene pagato non sporgerà querela. I soci di minoranza di solito ignorano le falsità contabili, ma se anche le conoscessero verrebbero tacitati. Il socio di maggioranza di solito è il mandante e il beneficiario del reato (altrimenti, invece di denunciare l’amministratore, lo sostituirebbe), sicché stabilire la perseguibilità del falso in bilancio a querela dell’azionista è come pretende-re la perseguibilità del furto a querela del ladro. Con entrambe le riforme sono state comunque introdotte soglie di non punibilità molto alte: è stata così prevista la liceità penale della «modica quantità» di fondi neri, come per la droga! 

I risultati di queste modifiche normative non si sono fatti attendere: al solo processo per l’aggiotaggio Parmalat si sono costituite circa 40.000 parti civili, cioè 40.000 vittime che volevano essere risarcite. Quanto impiega uno scippatore a fare 40.000 vittime?

Quanto all’abuso d’ufficio (reato utilissimo per iniziare a indagare) è stato depenalizzato quello non patrimoniale e sono state abbassate le pene per quello patrimoniale, così vietando la custodia cautelare. 

Oggi sembra (sembra?) che i partiti, quasi sempre, continuino a difendere i propri uomini che finiscono nei guai. Quella che viene chiamata la casta fa quadrato, nessuno (o quasi) viene scaricato. L’opinione pubblica è stata a lungo indifferente o rassegnata o semplicemente non informata. Nel 1992 giornali e tv raccontavano i fatti, e questi erano più importanti dei commenti perché parlavano da soli. Peraltro i commenti erano frequentemente favorevoli all’opera di pulizia, come l’editoriale di Giulio Anselmi La torta è finita, sul «Corriere della Sera» del 2 maggio 1992, talora perfino imbarazzanti per gli inquirenti, come gli articoli di Vittorio Feltri (poi convertito) che arrivava a scrivere: «Che Dio salvi Di Pietro» («L’Indipendente» del 15 giugno 1992) e a parlare di «regime putrido» («L’Indipendente» del 16 dicembre 1992) e molti altri ricordati nel libro.

Successivamente molto spesso i fatti vennero nascosti, filtrati e manipolati da un sistema mediatico controllato da potentati politici e imprenditoriali, frequentemente coinvolti nei procedimenti giudiziari. Il commento fuor-viante ha finito per prevalere sulla cronaca, relegata in posizioni marginali per consentire ai mezzi di  informazione di parlar d’altro. Frequentissimi sono stati gli attacchi ai singoli magistrati, a interi uffici giudiziari e alla magistratura nel suo complesso, ma ciò nonostante la magistratura sembra aver complessivamente tenuto. Negli anni ’80, quando subì il referendum sulla responsabilità civile dopo le prime indagini sulla corruzione e il crimi-ne organizzato, la magistratura ne era uscita più indebolita di quanto non appaia ora (e tuttavia mancavano cinque anni a Mani pulite).

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XX  Mani pulite

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Oggi, come nel 1992

Per l’insipienza di chi  li sferrava, gli attacchi hanno investito non solo i magistrati del pubblico ministero, ma anche tutti i giudici di ogni grado, fino alle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione, così ottenendo il risultato di tenere uniti i magistrati.

Il fatto che in tutta Italia ci siano ancora inchieste e processi sui reati della classe dirigente, nati quasi sempre da iniziative giudiziarie e quasi mai dalle forze di polizia (che non hanno le guarentigie di indipendenza dal potere politico che tutelano i magistrati, sicché tale iniziativa non è da loro esigibi-le), è segno che la magistratura è riuscita a conservare la sua indipendenza.

La crisi economica che oggi, come nel 1992, grava sul paese probabilmente ridarà slancio a iniziative serie per ridurre la corruzione e di conseguenza a una repressione più incisiva. Tuttavia tanti anni sono passati invano ed è necessario ricominciare dall’inizio a fronteggiare questi fenomeni, che contribuiscono a rendere l’Italia poco efficiente e poco credibile sul piano internazionale, per l’ingente sperpero di risorse pubbliche, i tempi biblici per la realizzazione di opere pubbliche e la scarsa qualità dei beni e servizi acquistati dalle pubbliche amministrazioni, quantomeno sotto il profilo qualità-prezzo. Allora è necessario ricordare i fatti accaduti vent’anni or sono perché quello è stato il momento in cui le reali dimensioni della corruzione in Italia sono cominciate a emergere e dai fatti accertati possono essere tratti elementi utili per fronteggiare seriamente queste attività delittuose.

Il volume di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio è un ottimo compendio di quei fatti. Uscì nella sua prima edizione nel 2002, dieci anni dopo l’inizio di quelle indagini, nel momento in cui cominciava ad affievolirsi il ricordo di quanto era accaduto e i mezzi di informazione tentavano di accreditare l’idea che i magistrati avevano esagerato in passato, che in ogni caso erano stati parziali, avendo salvato alcune forze politiche, ma che ora si era finalmente tornati alla normalità e via discorrendo di simili amenità, anziché guardare inorriditi il fango che era emerso, l’ipocrisia di un’intera classe dirigente, il palese spregio del giuramento prestato da parte di moltissimi funzionari pubblici.

Il racconto dei fatti, ricostruiti con certosina pazienza e con la maestria che contraddistingue gli autori, spazza via  le sciocchezze e  le menzogne che per anni sono state divulgate dai mezzi di  informazione. Accanto ai delitti commessi emerge con nitore l’incapacità (se non peggio) della clas-se dirigente di questo paese di creare le condizioni perché si possa vivere secondo le regole comunemente accettate del mondo occidentale, del quale dichiariamo di voler far parte.

Quest’opera è un vademecum che aiuterà a ricordare ciò che è accaduto, perché è l’oblio dei misfatti che lentamente consuma la libertà delle istituzioni.

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Ringraziamenti

Gli autori ringraziano, oltre ai personaggi intervistati, tutti coloro che li hanno aiutati nel lavoro di raccolta dei dati e dei documenti e in quello di controllo e di rilettura. Un grazie particolare a Paolo Biondani, Piero Colaprico, Luca Fazzo, Pier Francesco Fedrizzi, Luigi Ferrarella, Giuseppe Guastella, Paolo Flores d’Arcais, Daria Lucca, Caterina Malavenda, Marco Mensurati, Renato Pezzini, Mario Portanova, Emilio Randacio, Franca Selvatici, Leo Sisti, Carmine Spadafora, Corrado Stajano.

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«L’attuazione delle leggi era venale e arbitraria. Un criminale benestante non solo poteva ottenere l’annullamento di una giusta sentenza

di condanna, ma anche infliggere all’accusatore, ai testimoni e al giudice la punizione che più gli piacesse.»

(Edward Gibbon, Declino e caduta dell’impero romano, I edizione, 1776-1788)

«Il crimine, una volta scoperto, non ha altro rifugio che nella sfrontatezza.» (Tacito)

«Il nostro lavoro stava smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la vera

forza della mafia [...]. La lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale

che coinvolgesse tutti, e soprattutto le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare

il puzzo del compromesso morale [...]. Questa stagione di “tifo” per noi sembrò durare poco, perché ben presto sopravvenne quasi il fastidio, l’insofferenza

al prezzo che la lotta alla mafia doveva essere pagato dalla cittadinanza: l’insofferenza alle scorte, l’insofferenza alle sirene, l’insofferenza alle indagini,

l’insofferenza che finì per legittimare un garantismo di ritorno che ha finito per legittimare a sua volta provvedimenti legislativi che hanno estremamente

ostacolato la lotta alla mafia, o peggio hanno fornito un alibi a chi – dolosamente spesso, colposamente ancor più spesso

– di lotta alla mafia non ha voluto o non ha più voluto occuparsi...» (Paolo Borsellino, commemorando Giovanni Falcone il 25 maggio 1992 nella chiesa di San Domenico a Palermo, due mesi prima di morire assassinato in via d’Amelio)

«Legalità.» «Moderiamo i toni!»(ElleKappa)

«Una volta un giudice giudicò chi aveva dettato le leggi. Prima cambiarono il giudice. E subito dopo la legge.»

(Fabrizio De André)

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Prologo

Lunedì 17 febbraio 1992, ore 17,30. Un imprenditore di 32 anni, Luca Magni, si presenta in via Marostica 8 a Milano, nell’ufficio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Magni è titolare di una piccola impresa di pulizie, la Ilpi di Monza, che lavora anche per il Trivulzio, la storica casa di ricovero per anziani fondata nel Settecento. Chiesa è un esponente del Partito socialista italiano e non nasconde le sue ambizioni politiche: sogna di diventare, in un futuro che spera prossimo, sindaco di Milano.

Dopo mezz’ora di anticamera, Magni viene ricevuto. Deve consegnare al presidente 14 milioni, la tangente pattuita su un appalto da 140 milioni. Nel taschino della giacca ha una penna che in realtà è una microspia. In mano stringe la maniglia di una valigetta che nasconde una telecamera. «A dir la verità – ricorderà Magni – avevo una paura pazzesca, ero agitatissimo. L’ingegner Chiesa era al telefono e io sono rimasto dieci minuti in piedi ad aspettare che finisse di parlare. Poi gli ho dato una busta che conteneva 7 milioni. Gli ho detto che gli altri sette per il momento non li avevo.» Chiesa non reagisce. Domanda soltanto: «Quando mi porta il resto?». «La settimana prossima», risponde concitato Magni. Poi saluta. E, uscendo, quasi si scontra con un carabiniere in borghese.

Mentre l’imprenditore telefona a casa («Per tranquillizzare mia madre e mia sorella, che sapevano dell’operazione ed erano preoccupate per me»), una squadretta di investigatori blocca il presidente del Trivulzio, che capi-sce di essere caduto in trappola. «Questi soldi sono miei», azzarda. «No, ingegnere, questi soldi sono nostri», replicano gli uomini in divisa. Allora chiede di andare in bagno e si libera delle banconote di un’altra tangente da 37 milioni, incassata poco prima, gettandole nella tazza del gabinetto. Poi viene arrestato e portato nel carcere di San Vittore.

L’intervento è stato preparato con cura. Le prove sono schiaccianti: una ogni dieci delle banconote di Magni è stata firmata da un lato dal capitano dei Carabinieri Roberto Zuliani, dall’altro dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro. La ditta di Magni, che si occupa di speciali trattamenti ospedalieri,

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lavora per il Trivulzio da qualche anno. Nel 1990, con i primi appalti con-sistenti, sono arrivate anche le prime richieste di denaro. Racconta Magni: «I soldi Chiesa me li ha chiesti con poche parole secche, com’è sua abitu-dine: “Mi deve dare il 10 per cento”». In meno di due anni l’imprenditore porta a Chiesa una quarantina di milioni, in sei o sette consegne, sempre in contanti, dentro una busta bianca. «Io non immaginavo certo che cosa sarebbe successo dopo la mia decisione di andare dai Carabinieri. Per me era un problema economico. Il 10 per cento è troppo, anche perché nel nostro settore non possiamo recuperare gonfiando i prezzi. E poi le buste Chiesa le voleva subito, mentre noi i pagamenti li vedevamo molti mesi dopo. Era una situazione insostenibile.»

Così Magni chiede aiuto all’Arma. Il 13 febbraio telefona alla caserma milanese di via Moscova. Il capitano Zuliani gli fissa un appuntamento per le 10 del giorno seguente, venerdì 14. Lo ascolta, raccoglie la sua denuncia e la presenta al magistrato con cui lavora: Di Pietro. Il pm e l’ufficiale preparano il blitz per il lunedì: quel giorno Di Pietro è di turno, quindi l’inchiesta sarà assegnata a lui. L’appuntamento è per le 13 del 17 febbraio, alla caserma di via Moscova. Luca Magni arriva con la sua auto Mitsubishi e con i suoi 7 milioni. Il capitano lo accompagna subito a Palazzo di giustizia: «Ero un po’ teso – ricorderà l’imprenditore – perché non mi aspettavo di incontrare un magistrato. Però mi sono subito tranquillizzato, perché Di Pietro è stato molto gentile. Ha fatto uscire dalla sua stanza tutti quelli che vi stavano lavorando, mi ha messo a mio agio e mi ha chiesto di raccontargli i fatti, senza alcun atteggiamento inquisitorio».

In caserma, le banconote vengono siglate e fotocopiate. Si provano la penna-trasmittente e la valigetta-telecamera (che alla fine non risulterà granché utile). Poi un corteo di quattro auto, la Mitsubishi di Magni e tre mezzi dei Carabinieri, parte per il Pio Albergo Trivulzio (il Pat, che i milanesi chiamano familiarmente «Baggina» perché ha sede sulla strada che porta a Baggio). Sta nascendo Mani pulite, l’inizio della fine di un sistema politico. Ma nessuno, quel giorno, può ancora immaginarlo.

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1992. Mani sporche

«L’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, una casa di riposo per anziani, è stato arrestato questa sera dai Carabinieri con l’accusa di concussione. Lo hanno reso noto gli investigatori con un comunicato diramato in serata.» Così recita il dispaccio Ansa delle ore 22,16 del 17 febbraio 1992. I quotidiani, il giorno successivo, danno la notizia senza enfasi: in manette per una tangente un amministratore socialista. Dovranno passare alcune settimane prima che si imponga all’attenzione della stampa il «caso Chiesa», che poi diventa il «caso tangenti» e che esploderà solo tra aprile e maggio. Il sistema di corruzione che verrà alla luce sarà chiamato «Tangentopoli» e l’indagine sarà per tutti «Mani pulite».

«Chiesa l’abbiamo preso con le mani nella marmellata», è l’unico com-mento, rigorosamente ufficioso, del magistrato della Procura di Milano che segue l’inchiesta, Antonio Di Pietro. Pressoché sconosciuto, il sostituto procuratore è un ex poliziotto molto abile nel lavoro investigativo. E ha due punti di forza. Il primo è che si è già occupato di altri casi di corruzione: nel 1988 ha condotto, insieme al collega Piercamillo Davigo, l’inchiesta «carceri d’oro» sulle tangenti pagate dal costruttore Bruno De Mico. Poi ha indagato su Lombardia Informatica, una società della Regione, e sulle forniture all’Atm, l’azienda dei trasporti pubblici milanesi. Così si è convinto che la corruzione non sia un’eccezione patologica nel rapporto tra politici e imprenditori. Ma che sia un metodo, un sistema. E lo ha descritto in alcuni articoli, come quello pubblicato nel maggio 1991 su un piccolo mensile milanese, «Società civile»: «Più che di corruzione o di concussione, si deve parlare di dazione ambientale ovvero di una situazione oggettiva in cui chi deve dare il denaro non aspetta più nemmeno che gli venga richiesto; egli, ormai, sa che in quel determinato ambiente si usa dare la mazzetta o il pizzo e quindi si adegua».

Il secondo punto di forza è che, quando arresta Chiesa, Di Pietro ha già a disposizione molte informazioni su di lui. Da mesi, infatti, conduce un’in-dagine per diffamazione nata da una querela, presentata nel giugno 1990 da

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un amico di Chiesa, Mario Sciannameo, proprietario di alcune imprese di pompe funebri. Sciannameo ha denunciato Nino Leoni, cronista del quo-tidiano «Il Giorno», per un articolo su un presunto «racket del caro estinto» al Pio Albergo Trivulzio. Secondo Leoni, Sciannameo aveva l’esclusiva per i funerali degli anziani morti nella casa di riposo, anche se poi ne «cedeva» una piccola parte ai concorrenti in cambio di denaro: 100.000 lire a salma.

Di Pietro, per la diffamazione, ha chiesto l’archiviazione. Ma, fiutando reati contro la pubblica amministrazione, ha continuato a lavorare sul Pat, aprendo il fascicolo numero 6380/91: quello che nel febbraio 1992 si riem-pirà dei primi atti del «caso Chiesa». Intanto ha interrogato un concorrente di Sciannameo, Franco Restelli, che era la «gola profonda» di Leoni; e ha messo sotto controllo i telefoni di tutti i protagonisti. Dalle intercettazioni ha ricavato una buona conoscenza dei metodi di lavoro e della situazione patrimoniale e finanziaria del manager socialista, che con Sciannameo ha molti rapporti d’affari.

Da tempo alla ricerca di un bandolo per districare la matassa del sistema delle tangenti, Di Pietro cuoce Chiesa a fuoco lento: guai se, anche questa volta, l’inchiesta si limitasse a un singolo episodio. Blocca i suoi conti bancari, anche quelli intestati ai genitori e alla segretaria Stella Monfredi. Sequestra cassette di sicurezza, libretti al portatore, azioni, titoli di Stato. «Avvocato, riferisca al suo cliente che l’acqua minerale è finita», dice un giorno a Nerio Diodà, il difensore del manager socialista. Chiesa capisce al volo: il pm ha scoperto anche i suoi conti svizzeri, denominati «Fiuggi» e «Levissima». In totale, gli fa sequestrare una dozzina di miliardi.

Il caso potrebbe essere chiuso in poche settimane, con la rituale richiesta di rinvio a giudizio per la minuscola tangente ritirata quel fatidico 17 febbraio. Borrelli, scettico sulle possibilità di «sfondare», è per questa soluzione. Ma, se fosse andata così, Mani pulite non sarebbe mai nata. Invece Di Pietro finge di dimenticare le scadenze procedurali e non deposita gli atti nei termini previsti per la celebrazione del processo per direttissima. Poi fa filtrare alla stampa una notizia: di Chiesa sta parlando un certo Vito Occhipinti, in carcere a Busto Arsizio per una vicenda che i giornali associano ad affari truffaldini e ambienti in odore di mafia. Occhipinti, in realtà, ha poco di veramente rilevante da dire. Ma così l’attenzione dell’opinione pubblica sul caso Chiesa resta viva.

1. Mariuoli a Milano

Il Psi si prepara alle elezioni politiche del 5 aprile. E l’arresto in flagrante di un tangentomane, in campagna elettorale, non è una bella propaganda.

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Soprattutto per un partito già nel mirino della stampa e della satira per i suoi rapporti conflittuali con il codice penale. Chiesa viene subito abbandonato al suo destino. Già il giorno dopo l’arresto la federazione provinciale del Psi diffonde un comunicato in cui ribadisce «la sua più assoluta estraneità sotto ogni profilo rispetto ai fatti e agli addebiti mossi dal magistrato nei confronti dell’ingegner Chiesa» e comunica di aver «assunto la determinazione di sospendere in via cautelare lo stesso dal partito». Il 22 febbraio interviene Craxi in persona: «Ci siamo trovati – dice parlando a Lodi, senza mai nominare Chiesa – in una situazione spiacevolissima. Voglio dire però che la disonestà non è la nostra, ma di chi l’ha compiuta. Abbiamo immediata-mente separato le responsabilità e preso per parte nostra i provvedimenti che dovevamo. Un conto però è manifestare indignazione per quanto accaduto, un conto cercare di dipingere il Psi per qualcosa di diverso da quello che è».

Craxi torna più volte sull’argomento nei giorni successivi. Il 3 marzo al Tg3 definisce Chiesa, sempre senza nominarlo, un «mariuolo» che dan-neggia il partito:

Io mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un Governo che affronti i momenti difficili che abbiamo davanti e mi trovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano in cinquant’an-ni – non in cinque, ma in cinquant’anni – non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi commessi contro la pubblica amministrazione.

Un amministratore inquisito e arrestato per gravi reati contro la pubblica amministrazione, in verità, c’era già stato: Antonio Natali, padre politico di Craxi, per tanti anni presidente della Metropolitana milanese, considerato l’inventore del sistema scientifico di spartizione delle tangenti a Milano. Accusato nel 1987 da un imprenditore di aver preteso una mazzetta di 488 milioni per la costruzione di un tratto di metropolitana. Natali era stato salvato dal partito con una formidabile barriera protettiva. Craxi, allora presidente del Consiglio, aveva chiesto subito di visitarlo in carcere. Poi lo aveva fatto eleggere al Senato e, nel maggio 1990, l’assemblea di Palazzo Madama aveva respinto l’autorizzazione a procedere per concussione chiesta dal magistrato milanese Marco Maria Maiga. L’aula aveva accolto l’esito del voto con vivi «applausi finali da destra, dal centro e da sinistra».

Chiesa invece si è lasciato prendere con le mani nel sacco e per di più in campagna elettorale: un vero «mariuolo». Il 5 marzo Carlo Tognoli, ex sindaco socialista di Milano e suo padre politico, dichiara:

Il caso Chiesa è il caso Chiesa, noi siamo tutto il resto. Appare singolare che le cosiddette «pecore nere» vengano individuate solo nel Psi e proprio in questo periodo. A mio avviso qui gatta ci cova. Credo che, se fosse stato di un altro

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partito, se ne sarebbe parlato meno. E comunque il Psi può vantare centinaia di buoni amministratori di cui, però, non si parla mai.

Claudio Martelli, numero due del partito e ministro della Giustizia, aggiunge il 26 marzo: «Un ladro non può sporcare l’immagine di un intero partito». Vittorio Craxi detto Bobo, figlio del segretario socialista, già il 17 febbraio ha sentenziato: «Mario Chiesa è un mascalzone. Idiota, poi, a farsi prendere con le mani nel sacco». Qualcuno (si dice lo stesso Di Pietro) si premura di far conoscere la definizione craxiana all’interessato. Che non la prende bene.

Intanto Di Pietro lavora. Il 29 febbraio interroga la moglie separata di Chiesa, Laura Sala, impegnata nella causa di divorzio contro il marito (che le lesina gli alimenti, pretendendo di calcolarli sul suo magro stipendio «ufficiale»). La donna fa sapere che ci sono anche i miliardi in Svizzera. Il pm la fa attendere a lungo fuori dal suo ufficio, seduta su una panca, in modo che cronisti e avvocati la vedano. E ottiene l’effetto sperato: far credere di avere in mano molti elementi sull’indagato e diffondere la sensazione che attorno al manager socialista si stia creando il vuoto. Nello stesso tempo avvia accertamenti su tutti gli appalti assegnati dal Trivulzio negli ultimi cinque anni. Poi, il 12 e il 13 marzo, convoca in Procura tutti gli imprenditori, una quarantina, che hanno ricevuto dal Pat incarichi superiori ai 100 milioni.

Anche con loro ricorre al metodo del bluff, lasciando intendere di sapere più di quanto in realtà non sappia. Lo stesso fa con Chiesa. Così la situa-zione di stallo si sblocca. Alcuni fornitori del Pat ammettono di essere stati costretti a pagare tangenti. E questo costa a Chiesa nuove imputazioni e il rischio di un nuovo provvedimento di custodia cautelare in carcere.

Il presidente del Trivulzio è alle corde. È in cella da più di un mese, attraversa un momento particolarmente difficile della sua vita personale, con il figlio adolescente che non gli parla più e una nuova compagna in attesa di un altro bambino; ha il patrimonio sequestrato; è accusato dagli imprenditori che lo avevano finanziato; il suo partito l’ha abbandonato. Per la verità, sulle prime, Craxi ha tentato di fargli giungere tutt’altro segnale: resisti, perché il magistrato è «uno dei nostri» e presto tutto si concluderà positivamente. Ma Di Pietro, che pure ha conoscenze anche negli ambienti socialisti, non mostra alcuna indulgenza per il suo indagato. Anzi, usa tutti i mezzi processuali e una buona dose di furbizia per allargare l’inchiesta oltre la tangente del 17 febbraio. Così, lunedì 23 marzo, dopo cinque settimane di silenzio in carcere, Mario Chiesa comincia a parlare.

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