MADRUGADA - Macondo · salvia, la voce si inceppa attorno ad un dubbio, una domanda lo tormenta, di...

32
Tutto può accadere tutto è possibile e verosimile il tempo e lo spazio non esistono su una base insignificante di realtà l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni. 27 anno 7 ottobre 1997 rivista trimestrale dell'associazione per l'incontro e la comunicazione tra i popoli MADRUGADA

Transcript of MADRUGADA - Macondo · salvia, la voce si inceppa attorno ad un dubbio, una domanda lo tormenta, di...

  • T u t t o p u ò a c c a d e r e

    t u t t o è p o s s i b i l e e v e r o s i m i l e

    i l t e m p o e l o s p a z i o n o n e s i s t o n o

    s u u n a b a s e i n s i g n i f i c a n t e d i r e a l t à

    l ’ i m m a g i n a z i o n e f i l a e t e s s e n u o v i d i s e g n i .

    27a n n o 7

    o t t o b r e 1 9 9 7

    r i v i s t a t r i m e s t r a l e d e l l ' a s s o c i a z i o n e p e r l ' i n c o n t r o e l a c o m u n i c a z i o n e t r a i p o p o l i

    MADRUGADA

  • Hanno scritto fino ad oggi su Madrugada:Alberton Diego, Alunni Istituto Alberghiero Abano Terme, Alves DosSantos Valdira, Amado Jorge, Anonimo peruviano, Anonimo,Antonello Ortensio, Arveda Gianfranco, B.D., Benacchio Stefano,Bertin Mario, Bertizzolo Valeria, Bianchin Saul, Bordignon Alberto,Braido Jayr, Brighi Cecilia, Brunetta Mariangela, Camparmò Armida,Cardini Egidio, Castellan Gianni, Cavalieri Massimo, Ceccato Pierina,Chierici Maurizio, Colagrossi Roberto, Colli Carlo, Corradini Luca,Correia Nelma, Cortese Antonio, Crimi Marco, Crosta Mario, CucchiniChiara, Dalla Gassa Marcello, Dantas Socorro, De Lourdes AlmeidaLeal Fernanda, De Marchi Alessandro, De Silva Denisia, De VidiArnaldo, Demarchi Enzo, Di Felice Massimo, Di Sante Carmine, DosSantos Isabel Aparecida, Eunice Fatima, Eusebi Gigi, Farinelli Gaetano,Ferreira Maria Nazareth, Figueredo Ailton José, Fiorese Pier Egidio,Fogli Luigi, Furlan Loretta, Gandini Andrea, Garbagnoli Viviana,Garcia Marco Aurelio, Gattoni Mara, Gianesin Roberta, Gomez deSouza Luiz Alberto, Grisi Velôso Thelma Maria, Guglielmini Adriano,Lazzaretto Marco, Lazzaretto Monica, Lazzarin Antonino, LazzariniMora Mosé, Lima Paulo, Lupi Michela, Marchi Giuseppe e Giliana,Margini Luigia, Masina Ettore, Masserdotti Franco, Matti Giacomo,Medeiros J.S. Salvino, Milan Mariangela, Milani Annalisa, MiolaCarmelo, Monini Francesco, Montevecchi Silvia, Morelli Pippo,Morgagni Enzo, Mosconi Luis, Murador Piera, Ortu Maurizio, P.R.,Pagos Michele, Pase Andrea, Pedrazzini Chiara, Pedrazzini Gianni,Pegoraro Tiziano, Peruzzo Dilvo, Peruzzo Krohling Janaina, PintoLúcio Flávio, Plastotecnica S.r.l., Ramaro Gianni, Ramos ValdecirEstacio, Ripamonti Ennio, Rossetto Giorgio, Ruiz Samuel, SansoneAngelica, Santiago Jorge Sartori Michele, Sbai Zhor, Scotton Giuseppe,Sella Adriano, Sena Edilberto, Serato Stefano, Simoneschi Giovanni,Spinelli Sandro, Stanzione Gabriella, Stoppiglia Giuseppe, StoppigliaMaria, Tessari Leonida, Tomasin Paolo, Tonucci Paolo, Tosi Giuseppe,Trevisan Renato, Turcotte François, Turrini Enrico, Vulterini Stefania,Zanetti Lorenzo, Zaniol Angelo, Zanovello Ivano.

    S O M M A R I O

    3 r e d a z i o n a l eControluceScorrendo le pagine di Madrugada

    4 e t i c a d e l c o n f r o n t oInfanzia, diritto al lavoroed educazione informaleIstanze e insegnamenti dal sud del mondo

    7 r e s p o n s a b i l i t àLe rivelazioni di un ereticoLa parabola del buon Samaritano

    9 s t o r i eL’opaca evoluzione di Noni,un tempo dolce bambina

    11 s p e c i a l ePaura del marxismo o di esserecambiati dai poveriDifficoltà, pericoli e speranze per un

    nuovo modo di intendere una riflessione

    sul cristianesimo

    15 c o n t r o c o r r e n t eScavando sotto il selciatoOltre la seduzione dei suoni,

    nell’interiorità della parola

    18 i n c e r c a d ’ a l iConfezioni raziocinanti e...scampoli del viandanteAlle radici della individualità

    20 g l o b a l i z z a z i o n eAmazzonia,l’Africa del secolo ventunesimo

    22 m e s s i c oI luoghi della storia,i luoghi della speranza

    24 i n t e r v i s t aSenza timore di essere feliceIncontro ravvicinato con Lula, leader

    del PT (Partito dei lavoratori) brasiliano

    26 n o t i z i eMacondo e dintorniCronaca dalla sede nazionale

    31 r e d a z i o n a l eEducare alla relazioneLe immagini di questo numero

    di Madrugada

    direttore editoriale

    Giuseppe Stoppiglia

    direttore responsabile

    Francesco Monini

    comitato di redazione

    Ortensio Antonello

    Stefano Benacchio

    Gaetano Farinelli

    collaboratori

    Mario Bertin

    Corrado Borsetti

    Enzo Demarchi

    Andrea Gandini

    Ettore Masina

    progetto grafico

    Andrea Bordin

    stampa

    Laboratorio Grafico BST

    Romano d’Ezzelino (Vi)

    Stampato in 2.700 copie

    Chiuso in tipografia il 6 ottobre 1997

    copertinacitazione di

    A. Strindberg, Il Sogno

    fotografia di Libero De Cunzo

    Registrazione del Tribunale di Bassano n.4889 del 19.12.90Il materiale di Madrugada può essere liberamente riprodotto, citandone la fonte e l’autore

    MADRUGADA27

    a n n o 7o t t o b r e 1 9 9 7

    Via Romanelle 12336020 Pove del Grappa (Vi)Telefono (0424) 80 84 07

    Fax (0424) 80 81 91

    c.c.p. 12794368

    E-mail: [email protected]://www.nsoft.it/macondo

  • Caro lettore e cara lettrice,

    il codice d’accesso alla let-tura del Controluce non è l’ab-bonamento a Tele+, ma sem-plicemente la finzione. Fiction,si gira!

    Sono stanco ed i miei occhispenti guardano verso occi-dente; seduto sotto il colonnatosento sulla guancia destra soloil fruscio delle ombre al tra-monto; ma li riconosco i visi-tatori, al passo e dal profumo.

    Silvia, piede leggero e pro-fumo di cinnamomo, mi parladi Africa e di Brasile e di bam-bini che sperano solo di soprav-vivere e non sanno cosa farnedella nostra morale e ci chie-dono per intanto di rispondereal loro diritto primario di viveree di costruire poi il filo tenue,tenace della speranza.

    Carmine, allungando la manonella ciotola che odora di ori-gano e di noce, riprende lavoce di un eretico, il buonsamaritano, e sussurra di unaresponsabilità intesa comerisposta alla voce dell’altro chesi impone a noi non come eco dei nostri pen-sieri e sentimenti, ma con la forza della sua pre-senza.

    Larga un’ombra si avvicina, forse di un som-brero messicano, mano che odora di cacao e diceibe e mi sussurra l’impresa del Chiapas e diMarcos, senza dimenticarsi del Messico anticoe dei Maya. Non mi riesce di riconoscerlo; tichiamerò Diego, come il pittore del tuo murales.

    Avanza saltellando, odora di rosmarino e disalvia, la voce si inceppa attorno ad un dubbio,una domanda lo tormenta, di rispondere al que-stionario del dolore con un formulario; o mace-rare dentro la risposta e camminare al fiancodi chi soffre di scorbuto e d’angoscia. Sieditiaccanto a me, Stefano, e raccontami del piattodel giorno alla trattoria.

    Giuseppe non passerà, mi ha mandato unbiglietto: ricorda don Milani, del bisogno di tro-

    vare uno strumento che ci sol-levi dalla uniformità, e mi ram-menta le favole dell’infanzia. Emi scrive pure dei nipotini e delprimo giorno di scuola o del-l’importanza dell’educazionealla vita, forse.

    Lucio Flavio, di passaggio aRoma per un premio, mi lasciaper sbaglio un real; l’ho sentitolamentarsi del Giappone, e delgrosso affare dell’alluminio, untempo prodotto in Giappone eora in Brasile, con un prezzopiù vantaggioso di prima, natu-ralmente per i giapponesi.

    Porta un lungo vestito, chesolleva una polvere leggeraIsabel Aparecida, dalla pellescura, che raccontava ieri intrattoria la storia di Noni chenon deve più fare ore di stradaper prendere l’acqua alla fon-tana; ma non ascolta adessopiù le voci della sua sorgente.

    Aspetto Egidio, forse con iltreno delle nove, ed io nonsarò più sotto il portico;quando ascolto le sue pagineprovo un senso di invidia,perché sa parlare di cose

    grandi con freschezza: hai letto la prima partedella Teologia della Liberazione? Allora provala seconda parte.

    Mi viene in mente per associazione di ideel’intervista di Eusebi a Lula, leader del partitodei lavoratori in Brasile, che continua a bat-tersi per i poveri, perché la povertà non è unamoda, e la felicità non è un privilegio: senzapaura di essere felici, suonava uno slogan dellasinistra brasiliana.

    Il sole è calato ed il cantastorie ha preso il mioposto all’angolo di via Cavour. Non lo ascoltanessuno; e gli altri ridono della sua presunzionedi raccontare storie vere. Pasquino sfoglia l’albumdi foto di Antonello, e non so perché l’hannomesso vicino allo sgabello del merlo accecato.

    Ciak! Riprendiamo l’illusione!

    La redazione

    ControluceScorrendo le pagine di Madrugada

    3

    r e d a z i o n a l e

  • Quando si pensa all’infanzia del suddel mondo, particolarmente a quelladei paesi e delle zone più povere, siha generalmente l’immagine di bam-bini sofferenti, privi di tutto, in baliadi un futuro già stabilito e conosciuto,e pressoché immutabile.

    Quando poi si pensa di fare qual-cosa per questi bambini, in linea dimassima si pensa ancora (nella mag-gior parte dei casi, anche se non in

    assoluto) ad interventi di tipo assi-stenziale, che non partono dall’ascoltodell’altro, e soprattutto che puntano,in definitiva, a portare quell’infanziaad un tipo di vita più vicino al modellodell’infanzia occidentale: ben pasciuta,che va a scuola, in strutture rigida-mente organizzate; un’infanzia cheha un curriculum da seguire e che,soprattutto, ha davanti a sé un lungoperiodo di dipendenza dal nucleofamiliare.

    Non è un’infanzia inerme

    Ora, se è vero che molte delle imma-gini che si hanno qui dell’infanzia deipaesi poveri non sono completamenteerronee, è pur vero innanzi tutto chenon è un’infanzia “inerme” (come sipotrebbe o in certi casi vorrebbe pen-sare), assillata dal problema della famee delle malattie, in attesa di risposte esoluzioni dal mondo degli adulti.

    È un’infanzia che ha coscienza delladifficoltà di mutare il proprio destino,ma lotta fortemente per costruirlo. Essanon ha davanti a sé la prospettiva diuna lunga adolescenza e dipendenzafamiliare, come in occidente.

    Naturalmente non parleremo ingenerale ma farò riferimento ai duepaesi che ho conosciuto maggior-mente, il Brasile ed il Senegal.

    Infanzia e diritto al lavoro

    Da noi è un fatto assodato che l’in-fanzia non deve lavorare. Fino ad unacerta età c’è la scuola, e fino a quel-l’età lavorare è vietato. Perché l’in-fanzia ha diritto alla spensieratezza,al gioco e alla libertà. Dunque hadiritto di non lavorare.

    In questo postulato, che in occidentenon viene giustamente più messo indiscussione, si sommano conquisteculturali maturate nei secoli. Citeròdue esempi.

    Da un lato, le lotte e le rivendica-zioni sindacali dei nostri padri, checon il sangue e spesso la morte (speciea partire dalla rivoluzione industriale)hanno conquistato il rispetto di unorario di lavoro umano, dei dirittisociali, e dell’infanzia, un tempo trat-tata come normale forza lavoro.

    Dall’altro lato, la psicologia e poi lapedagogia hanno cominciato a defi-nire scientificamente le necessità(cognitive, affettive, ecc.) dell’infanziasolo a partire dal secolo scorso e con

    Infanzia, diritto al lavoroed educazione informaleIstanze e insegnamenti dal sud del mondo

    di Silvia Montevecchi

    4

    e t i c a d e l c o n f r o n t o

  • le conquiste di queste scienze si èpotuti approdare a definire l’infanziacome soggetto di diritti!

    Teniamo presente, tuttavia, che senoi fossimo andati solo sessanta annifa, prima della guerra, a parlare ad unafamiglia di contadini, di qualunquezona d’Italia, di “diritto dei bambini anon lavorare”, forse saremmo stati presia legnate!

    I bambini del sud, oggi

    Ora, se noi ci trasferiamo dalla nostraopulenta società ad un ambiente incui necessariamente “tutti devono farela loro parte”, è evidente che quelpostulato per noi così ovvio, saltaimmediatamente.

    Risulta invece ovvio che i bambinilavorano, che si guadagnano il panee che è giusto che sia così. E in ciò nonvi è nulla di crudele.

    In una società di tipo rurale, tuttihanno un posto nel sistema produt-tivo. Per questo è normale, per tantaparte dell’infanzia africana, anchequella metropolitana, provvedere a sestessa.

    I bambini, che nelle grandi città delsud lavorano come instancabili for-miche a qualunque ora del giorno edella notte, non vivono necessaria-mente questa situazione come una vio-lenza, come un sopruso. Al contrario,essi vogliono lavorare, e lo ritengonoun loro diritto, perché così sono auto-nomi, provvedono a se stessi, spessosono loro a mantenere la loro fami-glia.

    Questo li fa sentire forti e liberi.Essi non chiedono di non lavorare,

    bensì chiedono di essere riconosciutie rispettati tanto quanto i lavoratoriadulti.

    Chiedono di non essere consideratiteppisti e malmenati da tutti perchégirano continuamente per le strade.E poi, chiedono formazione, quella sì.Per imparare le lingue degli stranieri,per leggere e scrivere, per farsi rispet-tare, e per imparare un mestieremigliore. In molte metropoli africane,in questi ultimi anni, bambini e bam-bine lavoratori si sono organizzati indelegazioni per partecipare ai festeg-giamenti del primo maggio.

    Intercultura e solidarietà

    Considerare l’aspetto fondamentale

    del diritto al lavoro per l’infanzia,implica molte cose.

    Per esempio, che i progetti di soli-darietà che “piovono” dal Nord riccodovrebbero tenere in considerazioneciò che i bambini chiedono, non ciòche noi qui vorremmo per loro, anchese ciò è contrario ai “principi fonda-mentali” da noi assodati e conquistaticon secoli di lotte.

    Questo significa, a sua volta, la capa-cità di ascoltare. Capacità di ascoltarei bambini. Capacità di ascoltareun’altra cultura.

    Cadere dalla solidarietà all’inge-renza è più facile di quanto non sicreda. Varie volte, in Africa, mi è capi-tato di sentire ridicolizzare le cam-pagne che qui si fanno, per esempio,per il boicottaggio di quelle marcheche utilizzano manodopera infantile.Talvolta mi sono sentita dire: “Maperché non pensate ai vostri pro-blemi? Se boicottate quelle marche,non capite che togliete a questi bam-bini la sola possibilità di sopravvi-venza?”.

    Certo è una scelta difficile. Per noietico in certi casi è “intervenire indifesa di”.

    Imparare nuove strategieeducative dal sud del mondo

    Considerare il diritto dei bambini alavorare, oltre a far meditare noi occi-dentali sulle innumerevoli immaginidi infanzia esistenti nel mondo, ci portaanche ad apprendere molto dallapedagogia del sud.

    I bambini che lavorano sono moltospesso bambini che vivono senza lafamiglia. Le ragazzine abbandonanoi loro villaggi per andare nelle città alavorare come colf (dove poi vengonosfruttate e maltrattate).

    A Dakar si trovano adolescenti soli,immigrati dalla Costa d’Avorio, dalMali, dalla Mauritania e lo stesso valeper tutte le capitali africane. Vivonodunque con tutta la fatica di chi nonha più un punto di riferimento, unafaccia nota, un indirizzo a cui ritor-nare.

    Poi, un po’ alla volta, i riferimentisi creano, ci si organizza in gruppi diamici e di “colleghi”, tra chi intra-prende lo stesso lavoro, e si tira avanti.Con le attività più impensate, aseconda delle stagioni, del flusso turi-stico e della situazione economicagenerale.

    Educatore informale

    L’educatore che vuole occuparsi diquesti ragazzi, dunque, visto da unpedagogista o da un educatore occi-dentale, ha davanti a sé il “caos”. Noipurtroppo (e sottolineo il purtroppo)siamo totalmente abituati a conside-rare come ambito educativo quasi solola scuola. L’istituzione pubblica, cheha degli edifici, degli utenti che fre-quentano, degli orari, delle età defi-

    5

    e t i c a d e l c o n f r o n t o

  • nite per ogni ciclo.Tutto ciò che esiste al di fuori del-

    l’educazione formale è ben pococonosciuto, concepito, fatto oggettodi studi pedagogici. Quando si parladi extrascolastico non si sa bene cosasi intenda, quale sia l’età di riferimento,quali le attività, quali le agenzie e,naturalmente, quali le finalità educa-tive.

    Orbene, in paesi in cui l’indebita-mento cronico, il sottosviluppo, ladisoccupazione, la miseria, non con-sentono certo ai governi di possederegrossi introiti da investire in istruzione,è evidente che la situazione va capo-volta.

    Azione e ricerca

    In questa situazione, allora, gli edu-catori hanno imparato a lavorare conuna prospettiva totalmente rovesciatarispetto alla nostra. Niente edifici,niente orari, niente curriculum, nienteprogrammazione, nessuna età di rife-rimento. È una sperimentazione con-tinua, una ricerca-azione costante eprolungata.

    Il lavoro si fa, da principio, per strada,dove l’educatore va incontro alragazzo, quando questi è disponibile.In questo tipo di rapporto l’arte sedut-tiva dell’educatore deve essere ben più

    raffinata che in condizioni normali,perché appunto l’educatore non haiscritti che vengano a lezione: deveconquistarseli.

    Per riuscirci deve essere, innanzitutto, una presenza autentica, nonambigua, realmente amica.

    Per questo, il tipo delineato di edu-catore è, forse, innanzi tutto, un mili-tante. Un compagno di viaggio perquei ragazzi, che come tale ha decisodi impegnarsi a far crescere il pro-prio paese, aiutando questi bambiniad emanciparsi. La sintesi educa-zione/politica, da noi generalmentedimenticata, è qui inscindibile.

    Operatore di democrazia

    Non si tratta davvero più, qui, diistruire, bensì di aiutare a crescere,secondo le richieste dei bambini. Sonosì richieste di istruzione, ma anchedi difesa dei diritti, di organizzazionedel lavoro, di lotta contro i maltratta-menti. In questa dimensione informale,l’educatore è un po’ sindacalista, unpo’ assistente sociale, è lui che tessequelle reti per far sì che bambini ebambine possano organizzarsi in cate-gorie, prendere coscienza dei tortisubiti (per esempio da chi non dà lorola giusta paga). Ed è lui che organizza,poi, quegli spazi un po’ più formali

    (con gli edifici e con gli orari) dovefare formazione: professionale, sani-taria, linguistica, ecc., nonché gli spazidi svago, perché anche questi bambinisappiano che esiste un posto dove staretranquilli, difesi, non più in balia di unmondo nemico.

    Inoltre, l’educatore, in queste situa-zioni, è davvero un operatore di demo-crazia, abituato a programmazioni evalutazioni collettive (ovvero, abituatoa mettersi in discussione, a farsi valu-tare dai bambini). Infatti, in un per-corso che è primariamente di coscien-tizzazione, spetta agli stessi soggettidel percorso il diritto di decidere doveandare, che strada fare, con qualemezzo, con quale velocità e anche ildiritto di fermarsi a discutere sull’an-damento del viaggio.

    Credo che per gli insegnanti ed edu-catori italiani sia importante conosceremodelli pedagogici differenti, even-tualmente anche con un periodo distudio sul campo.

    Silvia MontevecchiPedagogista, scrittrice per l’infanzia.

    Ha lavorato a lungo nei servizi perl’handicap. Da anni si occupa dicooperazione internazionale ededucazione interculturale e allosviluppo. Ha realizzato diverse

    pubblicazioni e organizza viaggi-studioper la conoscenza di altre culture.

    6

    e t i c a d e l c o n f r o n t o

    i s c r i v i t ia

    M a c o n d o

    i s c r i v i t ia

    M a c o n d o

    «Macondo crede nel valore della complessità,come caratteristica della condizione e dell’agire umano.E perciò si pone come obiettivo e ragione del suo esserci

    l’incontro di persone e di culture diverse.E considera il reciproco aiuto, l’aiuto solidale - di qualsiasi

    natura esso sia (economico, culturale, scientifico...) -non come fine ed obiettivo, ma come strumento dell’incontro tra diversi, della con-vivenza.

    In cui ciascuno contribuisce con le sue risposte e con le sue domande.Con la sua luce e con il suo buio.

    Dove luce e buio sono ugualmente positiviperché esprimono un modo dell’essere».

    [Mario Bertin]

    Se non hai ancora rinnovato la Tua iscrizione a Macondo puoi farlo con il conto corrente allegato a questo numero.Costa lire 50.000 e comprende anche l’invio di Madrugada.

  • La domanda sul senso

    Ad un saggio d’Israele che un giornogli chiese quale fosse il senso dellavita, Gesù rispose con una storia: “Unuomo scendeva da Gerusalemme aGerico e incappò nei briganti che lospogliarono, lo percossero e poi se neandarono lasciandolo mezzo morto.Per caso un sacerdote scendeva perquella medesima strada e quando lo

    vide passò oltre dall’altra parte. Ancheun levita, giunto in quel luogo, lo videe passò oltre. Invece un Samaritano,che era in viaggio, passandogliaccanto, lo vide e ne ebbe compas-sione. Gli si fece vicino, gli fasciò leferite, versandovi olio e vino; poi cari-catolo sopra il suo giumento lo portòa una locanda e si prese cura di lui.Il giorno seguente estrasse due denarie li diede all’albergatore, dicendo:Abbi cura di lui e ciò che spenderaiin più, te lo rifonderò al mio ritorno”.

    E, rivolto al suo interlocutore,aggiunse: “Va’ e anche tu fa’ lostesso”” (Lc 10, 31-37).

    La relazione o incontro

    Il senso della vita, il chiedersi cioècome uscire dalla noia e dal vuotoper realizzarsi ed essere felici, trovarisposta solo nell’incontro: quandol’io esce dal suo io e si trova di fronteall’altro. Quando si è in crisi, il modomigliore per superarla non è, per ilracconto evangelico, guardarsi, scru-tarsi, analizzarsi, interrogarsi, spessotorturarsi e flagellarsi (indagini comequeste sono destinate per lo più al fal-limento, perché invece di infrangerele catene dell’io ve lo avvinghianosempre più ostinatamente), bensìrispondere all’altro che l’io non sce-glie ma che all’io va incontro. Il sama-ritano non sceglie di incontrare il mal-capitato che giace mezzo morto sulciglio della strada ma se lo trova “percaso”, al di là e contro il suo desi-derio, iniziativa o progetto: ed è inforza di quest’altro non scelto maincontrato che egli accede al sensodella vita, della sua vita.

    L’incontro con l’altro che dischiudeil senso (la “vita eterna”, in terminievangelici, che non è la vita dopo lamorte ma la vita di ogni giorno sot-tratta al nonsenso), non è quello dovel’altro è cercato e desiderato bensìquello dove egli, né cercato né desi-derato, si erge di fronte all’io e con lapotenza della sua impotenza (nienteè più impotente di un malcapitato che,come quello della parabola, giacemezzo morto sul ciglio della strada)lo sottrae a se stesso dischiudendoglila libertà “escatologica”, cioè ultimae autentica.

    È qui che va colto il primo signifi-cato del racconto di Gesù alladomanda del dottore: il senso che tucerchi non lo trovi in te ma nella rela-

    Le rivelazionidi un ereticoLa parabola del buon Samaritano

    di Carmine Di Sante

    7

    r e s p o n s a b i l i t à

  • zione con l’altro, qualsiasi altro,dovunque incontrato, in ufficio, ascuola, in strada, in piazza, sull’au-tobus o in qualsiasi altra parte; essonon inabita l’io e neppure chissà qualimondi misteriosi e lontani bensì l’altro,in quella sua nuda alterità rappre-sentata, nel racconto evangelico, dalpovero malcapitato abbandonato sullastrada. È a partire da questa alteritànuda e impotente, incapace perfinodi gridare e invocare (del malcapitatonon si dice, infatti, neppure che stessegemendo!) che, per l’io, si dischiudeil senso: come se da quella alteritàsplendesse una luce al cui chiarorel’esistenza, come la pagina di un libro,si fa leggibile.

    La potenza di questo messaggio nonha solo un risvolto soggettivo e per-sonale ma anche, soprattutto, cultu-rale e epocale, perché messa in discus-sione sia dei modelli individualisticiche di quelli totalitari in cui sembraesaurirsi il dibattito culturale. Piùimportante dell’io e più importantedel gruppo c’è, per la bibbia, la rela-zione tra l’io e il tu, che per questoBuber pone a principio stesso delreale: “in principio c’è la relazione”.La sfida più grande di fronte alla qualeci troviamo è di ripensare l’umano eil convivere degli umani sul principiorelazione: principio che de-assolu-tizza sia le ideologie individualistiche,incentrate sull’Io, che quelle organi-cistiche, incentrate sul Tutto (stato,nazione, regione, religione, etnia,comunità, gruppo, sette, movimenti,ecc.), e ridefinisce il senso dell’uno edell’altro non come fini in sé ma comeservizio al “tu” e al “volto”.

    La relazione mancata

    Ma più che affermazione della rela-zione in astratto, la pagina evangelicaè prima di tutto racconto della rela-zione mancata: “Per caso, un sacer-dote scendeva per quella strada equando lo [il malcapitato che giacevamezzo morto] vide passò oltre dal-l’altra parte. Anche un levita, giuntoin quel luogo, lo vide e passò oltre”.Il “sacerdote” e il “levita”, credentie rappresentanti del sacro, si imbat-tono con l’altro ma mancano l’in-contro: vedono, ma passano oltre.Abbiamo qui descritto il dramma dellarelazione mancata, dove c’è un“vedere” (“lo vide”) ma che nongiunge a compimento perché subito

    interrotto e contraddetto: “e passò oltredall’altra parte” (il termine grecoesprime contemporaneamente l’ideadi interruzione e di oltrepassamento).Il sacerdote e il levita “vedono”, mail loro è un “vedere” superficiale chenon si conclude; è un “vedere” cheresta in realtà un “non vedere”. Perquesto continuano per la loro strada,come se nulla fosse capitato né a loroné al povero disgraziato massacratodai briganti.

    Ma cosa non vedono? Che il mal-capitato è ferito, percosso e mezzomorto? No, essi vedono tutto questo,come il racconto sottolinea voluta-mente per ben due volte; essi “lovedono”, cioè sanno che chi giace lìè un povero disgraziato. Ma quelloche non “vedono” è che quel disgra-ziato li riguarda. Ma come e perché,se neppure lo conoscono ed è unestraneo?

    Ciò che il sacerdote e il levita nonvedono e non colgono è l’alterità del-l’altro in quanto altro che, al di là del-l’appartenenza (“è uno dei nostri”) eal di là della desiderabilità (“puòessere interessante”) è vocazione edelezione del loro io a rispondergli. Illevita e il sacerdote non colgonoquesta alterità invocante ed appellanteche, accolta, li avrebbe introdotti nella“vita eterna”, cioè nello spazio delsenso. Per questo la loro è una rela-zione mancata e in essi non siaccende l’evento dell’incontro libe-rante.

    La relazione riuscita

    Ma è soprattutto sulla relazione riu-scita che il racconto evangelico insiste:“Invece un samaritano, che era inviaggio, passandogli accanto, lo videe ne ebbe compassione. Gli si fecevicino, gli fasciò le ferite, versandoviolio e vino; poi caricatolo sopra il suogiumento lo portò a una locanda esi prese cura di lui. Il giorno seguenteestrasse due denari e li diede all’al-bergatore, dicendo: Abbi cura di luie ciò che spenderai in più, te lo rifon-derò al mio ritorno”.

    A differenza del sacerdote e dellevita il samaritano, che i benpensantidi allora ritenevano eterodosso ed ere-tico (oggi si direbbe un infedele o unateo), “vide” il malcapitato “e ne ebbecompassione”. L’altro lo si vede vera-mente quando, al di là dell’apparte-nenza che lo lega all’io e al di là della

    desiderabilità che lo rende attrattivo,se ne coglie la dimensione di povertàe di bisogno anteriormente al suostesso essere buono o cattivo, e ci sichina su di essa come sulla propriastessa sofferenza. L’altro lo si vede elo si incontra realmente e non super-ficialmente quando, come il samari-tano, lo si avvolge nello sguardo dicompassione recettiva (“mi accorgodel suo patire”) e attiva (“elimino ilsuo patire”), scoprendo, in questo,la propria singolarità più profonda erealizzante.

    È questa la ragione per la quale larelazione di compassione è la rela-zione umana autenticamente riuscita.Gesto divino (“solo Dio può fare atten-zione ad uno sventurato”, essendo“contro natura”, ricorda con forzaSimone Weil!), accolto e acconsen-tito, la compassione instaura unumano che al suo centro, invece dellaforza del giudizio e della condanna,pone la potenza della tenerezza per-donante: “Spesso ci aspettiamo daglialtri più di quanto noi stessi siamodisposti a dare. Perché finora abbiamoriflettuto in modo così poco obiettivosulla debolezza dell’uomo, e suquanto sia esposto alla tentazione?Dobbiamo imparare a valutare gliuomini più per quello che soffronoche per quello che fanno o non fanno.L’unico rapporto fruttuoso con gliuomini - e specialmente con i deboli -è l’amore, cioè la volontà di mante-nere la comunione con loro. Dio nonha disprezzato gli uomini ma si è fattouomo per amor loro” (D. Bonhoeffer).

    L’io responsabile o solidale

    La relazione di compassione che, peril racconto evangelico, fa dono delsenso dell’esistenza, è una relazionenuova e paradossale che sovverte tuttele altre e instaura l’io come essereresponsabile: non essere di bisognoche, in quanto essere di bisogno, vaverso l’altro per arricchirsene e col-marsene, bensì libertà d’amore evolontà di bene che, trascendendo ilsuo essere di bisogno, pone il suo ioa servizio dell’altro. La responsabilitàbiblica, di cui il samaritano del rac-conto evangelico è il paradigma insu-perabile, non consiste, pertanto, nelrispondere a se stessi delle propriescelte e delle conseguenze da essederivanti (una responsabilità così intesaè piuttosto sinonimo di coerenza),

    8

    r e s p o n s a b i l i t à

  • Le donne e le ragazze sono circa lametà della popolazione mondiale.Secondo l’Organizzazione Interna-zionale del Lavoro i due terzi delle orelavorative nel mondo sono eseguiteda donne, ricevono un decimo delreddito e possiedono meno di un cen-tesimo delle proprietà del mondo. Èsulle spalle del miliardo e 600 milionidi donne d’Africa, d’Asia e dell’Ame-rica Latina che questo fardello ricadepiù pesantemente. Per la maggior parte

    L’opaca evoluzione di Noni,un tempo dolce bambina

    di Isabel Aparecida dos Santos

    9

    s t o r i e

    bensì nel prendersi cura dell’altro(l’altro essere di bisogno, invocante“pane” e “perdono”), sovvertendo lalogica dell’io-per-l’io ed instaurandoquella dell’io-per-l’altro. L’io respon-sabile (o, con termini equivalenti, l’io“solidale”, “etico”, “giusto” “buono”o “santo”) è l’io che, rinunciando a“prendere” e “comprendere” l’altro,si lascia svuotare, deporre e dimis-sionare dal suo volto indifeso e inog-gettivabile.

    L’io responsabile o solidale, adom-brato dalla pagina evangelica come iltratto fondamentale dell’antropologiabiblica, lungi dall’essere una formulasuggestiva e accattivante, vuole e deveessere la risposta alla crisi della post-modernità in atto: crisi che AndreaPase, in uno degli ultimi numeri diquesta rivista, descriveva con il sim-bolo del deserto (I deserti della post-modernità e le oasi del senso) e cheSergio Givone trova espressa effica-cemente nella metafora del malatoche si illude di trovare sollievomutando continuamente posizione sulletto. Si tratta di una crisi che attra-versa tutti gli ambiti dell’umano (lasoggettività, le relazioni interperso-nali, il lavoro, la produzione, la distri-buzione del denaro e delle risorse,ecc.) e che, in un mondo divenuto perla prima volta villaggio a causa soprat-tutto dell’informatica e del mercatoplanetario, coinvolge indistintamentetutte le istituzioni (laiche, religiose,scientifiche, giuridiche, economiche,ecc.).

    L’io responsabile, che non si defi-nisce in rapporto al proprio io bensìin rapporto alla priorità dell’altro edella sua felicità, non teme la crisi inatto, essendo il suo io da sempre incrisi, per la presenza dell’altro impos-sedibile e inoggettivabile. Per questoegli è nelle condizioni migliori perridisegnare un mondo (a partire daquel piccolo “pezzo di mondo” nelquale e del quale egli vive quotidia-namente) dove, al posto dell’io impe-rialista e solitario, splenda il povero(o, in termini di Lévinas, il volto)inerme e disarmante: l’unico assolutoche inabita la storia e che, con lapotenza della sua impotenza, comela folgore nella notte, vi accende ilsenso. Il senso come non indifferenzaall’altro. Il senso come gratuità, bontà,santità e disinteressamento.

    Carmine Di SanteTeologo del Centro Sidic - Roma

  • di loro, infatti, il lavoro quotidiano siaggira intorno alle sedici ore, mentrecoltivano e trasformano gli alimenti,provvedono alla legna, all’acqua, aivestiti, alle cure sanitarie e della casa,per soddisfare i bisogni delle fami-glie che esse sostengono e allevano.

    Pertanto se si tiene in considerazioneil ruolo fondamentale svolto dallemamme per l’allevamento dei bam-bini è facile comprendere come dal-l’avanzamento della loro condizione,dalla loro emancipazione e dal miglio-ramento delle loro condizioni di vitadipenda il futuro di gran parte dell’u-manità.

    Noni, ragazza Samburu

    La storia di Noni, una ragazza Sam-buru, ci fa comprendere le difficoltàche una donna africana deve superareper vivere e per sostenere la sua con-dizione, quella di sorella, madre esposa.

    Noni è nata nel nord del Kenya, dovela terra è secca. La sua gente è unatribù nomade, che si sposta con le pro-prie mandrie, seguendo le piogge.Installa i suoi manyatta (villaggi) dicapanne di paglia e rami per tutto ilperiodo in cui il bestiame trova pascoliin quella zona. Poi si sposta per nontornare in quell’area fino all’annoseguente, poiché l’erba cresce moltolentamente.

    Le capre e le mucche sono la lorovita: da esse ricavano latte e carne pernutrirsi e pellame per gli indumenti.Oltre a ciò, è abitudine diffusa tra iSamburu vendere qualche prodotto almercato per ricavare del denaro perl’acquisto di coperte per le notti freddee di altra merce.

    Guardiana di capre

    Già all’età di sei anni Noni badava allecapre della mamma e alle mucche coivitelli, come gli altri bambini delmanyatta con i quali attraversava lepianure, seguendo gli uccelli del mieleper trovare il miele selvatico, bacchee funghi mangerecci.

    Quando suo fratello più piccoloiniziò a lavorare, ad otto anni, lei sioccupò di alcune mansioni che primasvolgeva la madre, sempre indaffarataad andare a prendere l’acqua, a recarsial mercato del distretto e a badare aivecchi nonni e ai più piccoli.

    Molte erano le difficoltà che Noni,come tutti i suoi coetanei, dovevasaper affrontare, dagli insetti agli scor-pioni, al sole, al fuoco...

    Assai raramente gli uomini erano pre-senti, poiché andavano a portare lemandrie a pascolare lontano, nellasavana, tornando soltanto poche volte.

    Alla ricerca dell’acqua

    Con il passare degli anni e l’irrobu-stirsi del corpo, le ragazze Samburudovevano andare a prendere l’acquache spesso distava molto dal villaggio.Le pozze più vicine, infatti, quandonon erano secche, divenivano meta diabbeveraggio degli animali e quindil’acqua che ancora vi si trovava nonera più potabile. I bambini morivanoquando la bevevano. Così si dovevacamminare anche dieci o quindici chi-lometri per trovarne di pulita. Quellamigliore si trovava nella sabbia o nelletto dei fiumi secchi i quali duranteun periodo dell’anno erano torrentitumultuosi e nel periodo di siccità deiletti di sabbia. Ma scavando un po’, inprofondità, era possibile trovarequalche rivoletto di acqua pulita e,lavorando a lungo, se ne poteva riem-pire un secchio.

    Un progettogovernativo di irrigazione

    Fu durante quel periodo che si iniziòa parlare di un progetto del governoper incanalare il torrente stagionale

    delle montagne del sud e irrigare partedella terra, per coltivare miglio ed altristrani alimenti. Se una famiglia volevaaggregarsi al progetto doveva venderela maggior parte del bestiame e ver-sare un deposito per un appezzamentoda coltivare. I Samburu non vedevanodi buon occhio coloro che scavavanoil suolo, perché tutto ciò andava controla loro cultura e le loro credenze. Inquel periodo ci furono molte discus-sioni tra gli adulti del villaggio. Alcunisostenevano che la siccità sarebbe tor-nata ancora, l’erba non sarebbe piùcresciuta e il bestiame sarebbe tuttomorto, altri sostenevano il contrarioe prevedevano il ritorno delle piogge,forti come non mai.

    Alcuni ancora dicevano che vendereil bestiame significava vendere il dirittodi nascita, questi gridavano nelle riu-nioni che ciò significava vendere laterra che sempre era stata loro, e chesarebbe stato sciocco dare tutto ciòche si possedeva per incassare ciò chesarebbe passato tra le dita come lasabbia.

    Cambia la vita

    Il padre di Noni decise di vendere ilbestiame e versò il suo deposito peraggregarsi al progetto agricolo; si tennesolo alcune capre e poche mucchein agonia. Costruì una casa di legno edi fango di tre camere. La loro vitastava cambiando. Con quel pocodenaro rimasto, suo padre decise diiscrivere suo fratello alla scuola ele-mentare del villaggio più vicino. Unfunzionario diede loro alcuni consigliriguardo alla semente da utilizzare ecosì di mese in mese lei e sua madrecontinuarono ad imparare a coltivare,guardando come facevano i vicini cheessendo di una tribù sedentaria eranoabituati a zappare e avevano bracciaforti come le gambe dei Samburu abi-tuati a camminare.

    La vita di Noni cambiò: non facevapiù chilometri per prendere l’acquache ora trovava buona e abbondantenel vicino pozzo, ma al tempo stessonon danzava più e non ricordava gliusi della sua tribù. Suo padre la daràin sposa ad uno sconosciuto, come eragià successo a sua madre, e lei cre-scerà i suoi figli ma non come feceroi suoi genitori poiché Noni, insiemealla siccità, perse anche la sua cultura.

    Isabel Aparecida dos Santos

    10

    s t o r i e

  • Le difficoltà della Teologiadella Liberazione

    È evidente che le difficoltà alle qualiva necessariamente incontro la Teo-logia della Liberazione restano ancoraoggi molto precise: l’accusa di nonessere una vera e propria teologia, lafatica di creare un equilibrio tra spi-ritualità cristiana e prassi pastorale esociale, la relazione controversa conil pensiero marxiano, la necessità diinterpretare di nuovo e di giustificareil martirio.

    L’accusa: uscita daimodelli teologici tradizionali

    L’accusa di non essere una vera e pro-pria teologia partiva e parte general-mente dai settori che hanno sempreconcepito la riflessione teologica comeun corpo scisso da qualsiasi analisisociologica o politica, una realtà auto-

    sufficiente e incontrastabile. A ciò siè aggiunta sicuramente l’uscita dellaTeologia della Liberazione dai canonitradizionali della teologia, così comefino ad ora è stata espressa, secondomodelli culturali tradizionalmenteeuropei, là dove l’interpretazione dellafede spesso corre su binari solo paral-leli o addirittura avulsi dal contestostorico, compiendo forse anche losforzo di leggere la relazione del Diocristiano con la storia, ma parados-salmente senza leggere la storia.

    Le categorie sociali e politiche

    In questo senso la Teologia della Libe-razione si è appropriata di alcune cate-gorie dell’analisi sociologica e poli-tica, proprio per rivalutare la fede enon certo per subordinarla ai modellisociali accolti. La fine di un modellorigidamente scolastico e astratto nel-l’interpretazione della fede ha risve-gliato in molti la paura di non poterpiù intendere la teologia in una chiavequasi verginale, di distacco quasi neu-trale da qualsiasi altra scienza umana,come se qualsiasi compromissionecon ciò che non è strettamente teo-logico possa portare alla caduta di cer-tezze precostituite e mai verificate.

    Mi pare proprio necessario ricono-scere che nessuno in America Latinaha mai pensato, neppure lontana-mente, di mettere in forse il dato cen-trale della fede, che è soltanto ed esclu-sivamente l’annuncio evangelico diGesù Cristo, né di portare la Chiesalontano dal suo legame originario conil fondatore.

    In questo senso anche il legame conil pensiero marxiano è stato al centrodi molti contrasti. È certo che ilmarxismo è stato uno strumento dianalisi delle dinamiche socioecono-miche, utilizzato in molte occasionied è altrettanto certo che ci sono statiforme ed episodi di idealizzazione

    Paura del marxismoo di essere cambiati dai poveri?Difficoltà, pericoli e speranze per un nuovo modo

    di intendere una riflessione sul cristianesimo

    di Egidio Cardini

    11

    s p e c i a l e

  • di questo rapporto. Tuttavia, il supe-ramento storico del modello socialemarxista ha determinato di fatto ilsuperamento della relazione, che inogni caso è stata a mio parere sopra-valutata dentro una strategia che havoluto descrivere questo modello diChiesa secondo un’immagine falsatae fuorviante e secondo la tradizioneormai consolidata di vedere ovunquetracce di marxismo, con il solo intentodi difendere interessi, privilegi e isti-tuzioni invecchiate.

    Il vero problema:il cambiamento

    A mio parere questo è un falso pro-blema, mentre la sfida decisiva va gio-cata nello sforzo di comporre un equi-librio tra la spiritualità cristiana e laprassi pastorale e sociale.

    “Il vero problema non è il marxismo,ma la paura del cambiamento, pre-sente sia nella Chiesa che nella società.Chi opera la scelta a favore della pro-spettiva dei poveri chiede un cam-biamento, perché la realtà è tantoassurda che non si può tollerare. Ilrifiuto assoluto del marxismo diventauna maschera dietro cui si nascondeil rifiuto di qualsiasi cambiamento, sianella società che nella Chiesa” (L. Boff).

    Dimensione spiritualee prassi liberatrice

    Si tratta di trasmettere ex novo unamistica politica della Liberazione,recuperando una dimensione tra-scendentale cristiana nella lotta socialee politica. Si tratta di trasformare l’e-sperienza della preghiera, collocan-dola in un contesto dove il piano indi-viduale possa trovare un’espressionecomunitaria negli atti celebrativi. Infinesi tratta di evitare la frattura tra ladimensione spirituale e una prassi libe-ratrice che può indurre a perdere pro-gressivamente di vista i valori evan-gelici originari, assumendo i conno-tati di un’azione politica di liberazionefine a se stessa.

    In questi termini i problemi indicatirestano intatti e a questi se ne aggiungeun altro in forme drammatiche: il mar-tirio. La ripresentazione del martirio(quello vero) in conseguenza delladifesa degli oppressi pone necessa-riamente le comunità davanti allascelta di poterlo sostenere oppure no.

    Possiamo ragionevolmente credere chela concreta possibilità del martirioabbia di fatto aperto da una lato unagrande assunzione di responsabilità inordine alla propria fede e da un altrolato un consolidamento straordinariodella fede popolare, determinandopure una riscoperta del ruolo dellaChiesa primitiva e dell’azione profe-tica. È soprattutto nel martirio e nellevicende quotidiane di oppressione edi fraternità che il popolo sperimentala credibilità della Rivelazione biblica.

    L’ecclesiologia dellaTeologia della Liberazione

    È chiarissimo che la vera spinta rivo-luzionaria della Teologia della Libe-razione sia consistita nel dare un’in-terpretazione profonda del modelloecclesiale conciliare. È stata ed è tut-tora una svolta ecclesiologica, innan-zitutto perché ha proposto in terminiradicali una concezione orizzontaledella Chiesa.

    Le responsabilità della base sonostate finalmente riconosciute su unpiano di partecipazione comunitariademocratica a tutti i livelli (educativo,

    celebrativo, biblico, caritativo, socio-politico, organizzativo), là dove nonc’è più spazio per un autoritarismopiramidale che riconosce solo adalcuni credenti ruoli e spazi che sonodi tutti. Inoltre c’è un elemento stabi-lizzatore che dà di nuovo al Battesimoe alla professione di fede il ruolo cen-trale che compete loro e in virtù deiquali il cristiano si riconosce esclusi-vamente per questo e non invece perun’accettazione formale di verità pre-stabilite o di istituzioni estranee allasua partecipazione.

    In questo modo la Chiesa può tro-vare in se stessa una capacità di rige-nerazione e di rinascita e, mediantequesto processo comunemente rico-nosciuto come ecclesiogenesi, puòristabilire una relazione immediatacon la propria tradizione primitiva.

    Autonomia nel segnodella comunità apostolica

    Sarà proprio questa rivendicazione diautonomia spirituale nel segno dellacomunità cristiana apostolica che pro-vocherà un cambiamento radicalenelle relazioni con la Chiesa istitu-

    12

    s p e c i a l e

  • zionale, via via sempre più conflittuali.Il superamento di un complesso cle-ricocentrico, che dava al ministeroordinato ruoli e funzioni sproporzio-nati, si è rivelato uno splendido pas-saggio ecclesiologico, che ha restituitodignità a un popolo di Dio troppospesso schiacciato contro una figuraquasi padronale del sacerdote, delvescovo e del religioso. Restituendoal laicato questa responsabilità negatada secoli, la Teologia della Liberazioneha saputo spostare il baricentro istitu-zionale della Chiesa dai vertici alpopolo di Dio nella sua base.

    Fuori discussione l’autorità,non l’autoritarismo

    La conseguenza di questo svilupponon poteva che essere un conflitto pro-gressivo con la dimensione istituzio-nale della Chiesa, che ha inteso indi-viduare pericoli che di fatto non esi-stevano e ha portato il confronto-scontro su due questioni sbagliate apriori: la dottrina e l’autorità. Perchésbagliate? Semplicemente perché nes-suno ha mai voluto rovesciare o sol-tanto scalfire le fondamenta dottrinalidella Rivelazione, così come nessunoha mai voluto minacciare il dato del-l’autorità della Chiesa. Lo si è volutosoltanto ridiscutere con l’obiettivo diricostituire una trasparenza evange-lica nelle relazioni intraecclesiali.Allora una Chiesa che cerca di rista-bilire al suo interno, mediante un ten-tativo velleitario e autoritario di nor-malizzazione, un’autorità che nessunole contesta, è una Chiesa che evidenziauna crisi di autorità per eccesso diautoritarismo.

    È amaro constatare che oggi moltibattezzati non subiscono soltanto per-secuzioni ad extra, ma sono vittimesoprattutto di persecuzioni ad intra,che provocano di fatto una netta sepa-razione tra cristiani costretti al silenzioperché liberamente responsabili dellapropria fede e della propria intelli-genza, coerenti testimoni del Vangelo,acuti lettori della storia presente, e cri-stiani grigi, amorfi e rassegnati al pro-prio destino storico, piegàti in un rico-noscimento formale dell’autorità.

    Accesso ai ministeri

    Tuttavia questo non ha consentito ilsoffocamento del rapporto tra la lai-

    cità e la ministerialità: lo dimostranoil ruolo decisivo della donna nellecomunità di base, l’apertura nell’ac-cesso ai ministeri, l’acquisizione diuna coscienza collettiva nella comu-nità cristiana e il riconoscimento diuna vivissima dialettica interna.

    Nello stesso tempo si è radicato unequilibrio tra la Rivelazione biblicae il Magistero, si sono ristabilite legerarchie determinate dallo SpiritoSanto: prima la Rivelazione biblicae poi il Magistero. Questo ha con-cesso al popolo di Dio, nella sua glo-balità, la garanzia di un’interpreta-zione biblica non più sottomessa alMagistero, il quale ha potuto final-mente riappropriarsi della sua fun-zione simbolica a servizio dell’unitàdella comunità e in difesa deglioppressi.

    Il futuro dellaTeologia della Liberazione

    Cercando di tracciare una linea che siorienti nella direzione del futuro,pongo due domande:

    1. quale credibilità potrà averedomani una teologia degli oppressi edegli esclusi?

    2. quale applicabilità propone questomodello teologico fuori dell’AmericaLatina?

    Prima questione

    Sulla prima questione possiamo man-tenere un ottimismo di fondo che tut-tavia ci impone di restare fedeli adalcuni capisaldi: un radicamentoincrollabile nella storia degli oppressi,un rafforzamento di una mistica dellapovertà, il mantenimento della cen-tralità della Rivelazione biblica, lacapacità di sopportare le persecuzioniinterne nella Chiesa e di non sfuggirele responsabilità, la proposta di unricambio generazionale di teologi chesappiano continuare senza timori que-st’opera di rinnovamento spiritualee culturale e infine il coraggio di fron-teggiare le nuove sfide dell’esclusionesociale e della disperazione silenziosadi interi popoli soggiogati dallamiseria.

    Vincere queste sfide equivale a riaf-fermare una credibilità teologica indifesa degli oppressi e per gli esclusi,che sono i veri destinatari della storiadella salvezza.

    Seconda questione

    Sulla seconda questione gli itinerarisono, a prima vista, molto più com-plessi. È certo che il modello della Teo-logia della Liberazione non è appli-cabile sic et simpliciter al modellosocioeconomico dei Paesi del cosid-detto Primo Mondo, proprio perché lecondizioni storiche sono profonda-mente differenti. Tuttavia, se la sceltapreferenziale per i poveri deve essereaffermata nella sua universalità e defi-nitività, non è possibile rinunciare adun adeguamento della mistica dellapovertà e del nuovo modello eccle-siale alle condizioni storico-socialiemergenti nei Paesi tecnologicamenteavanzati.

    In parole semplici, si tratta dicostruire una Teologia della Libera-zione per un mondo dove le esigenzedi liberazione sono diverse, ma ugual-mente presenti, riscoprendo i modellicoraggiosi di una scelta preferenzialeper i poveri.

    Un muro dentro la Chiesa

    Sicuramente le dinamiche in atto nellaChiesa contemporanea non induconoall’ottimismo. Oggi dentro la Chiesac’è ancora un muro sovietico eretto indifesa di un’istituzionalità fine a sestessa e di una logica che non è lon-tana dall’amore per il potere.

    Attendiamo pazientemente chequesto muro crolli e che sia finalmentedata di nuovo a ciascun credente lalibertà di essere soggetto attivo, soprat-tutto perché gli oppressi e gli esclusinon sono un dettaglio della Rivela-zione cristiana, ma i principali desti-natari dell’annuncio evangelico, sonogli storpi, gli zoppi e i ciechi del Van-gelo, che non possono aspettare undomani apparentemente più buio del-l’oggi, ma devono fare i conti con lapropria fame e il proprio dolore.

    “Il ricco commette ingiustizia e perdi più grida forte, il povero riceveingiustizia e per di più deve scusarsi”(Sir. 13,4).

    L’amara constatazione di questo testosapienziale raffigura in modo esem-plare una pesante verità storica chesoltanto la spinta veemente di unaChiesa autenticamente evangelica eprofetica potrà definitivamente rove-sciare quando il muro sarà crollato.

    Egidio Cardini

    13

    s p e c i a l e

  • Un abbraccio senza amore

    La finestra dalla quale guardo Mestre,in questo scorcio di settembre, mi farimpiangere le finestre senza vetri diRio Branco che inquadravano l’infi-nito. È una mattinata grigia. Una lam-pada fortissima illumina costantementeuna pianta al di qua dei vetri e sim-boleggia il disperato tentativo di man-tenere un po’ di vita. Il rincorrere lavita per trattenerla, incarnato nellapianta immobilizzata sotto la luce vio-lenta, mi fa venire in mente quelli cheingabbiano il canto di un passeroperché accompagni la loro vitadeserta; è forse perché non l’hannodentro, il canto?

    Questa strada, soffocata dai rumoridella città, a dieci minuti dal centro,è senza canto, senza bellezza, senzanatura. La solitudine della montagnami ha fatto sentire austero, mai triste.Qua non c’è natura, salvo questasquallida pianticella violata dalla luceche la immobilizza nell’abbracciosenza amore.

    Passi sulla neve, nella stanza

    So che questa strada è lunghissima edincrocia altre vie giù fino alla stazione,dove la vita si ispessisce e mi fa pen-sare ai sentieri del mio paese, nellaValle dove sono nato, nella stagionein cui la neve felpava i passi dei pas-santi e li introduceva nella mia stanza.Nello stesso tempo i passi si facevanomeno sonanti, più interiori, più rac-colti, nessuno si perdeva. La nevefaceva entrare passi desolati, come sedei passanti estranei avessero bussatoalla porta per chiedere il calore dellacasa. La scoperta degli altri ha forseun principio straziato.

    A tutto questo ripenso nella mat-tina d’ozio. Il tempo si ferma per me,nella città più affannata e caotica delVeneto. Sì, ho conosciuto da bambino

    la solitudine dell’uomo - ora lo ricordo;mi fu trasmessa da questi passi not-turni sulla neve, quando le paroleumane si ritiravano dalle strade peraccendersi attorno al caminetto dellenostre vecchie case. Come avrei volutoche non terminasse la veglia attornoal fuoco; noi si litigava per difendereil posto più vicino alla fiamma; e poidurava a lungo la lotta contro il sonno,caricato progressivamente dal caloredel fuoco, con il grosso libro rilegatoin rosso “Senza famiglia” tenuto aforza, perché al suo cadere dalle miemani, la mia giornata sarebbe termi-nata. La lotta disperata finiva semprein una sconfitta, e mi trovavo a lettonella stanza fredda, a ricevere nelcuore i passi che mi chiedevano acco-glienza.

    Sguardi erranti sul selciato

    Li ripenso oggi questi passi, osservandola città al di qua dei vetri, e vedo voltiche guardano lungamente, fissamentela strada. Mi pare che tutti quei voltial di là dei vetri, esprimano la miastessa curiosità e la mia stessa pauradi guardare il fondo della strada. Con-divido con i volti, che appaiono dietroi vetri, la decisione di non guardaregiù, in quel fondo che ci manda vocialterate. Mi rassegno a questa comu-nicazione insolita, propria delle gior-nate lunghissime delle corsie d’ospe-dale.

    Poveri ed impoveriti

    Nell’America Latina ho visto i poveri,qua m’incontro con gli “impoveriti”.I poveri han dovuto trovare la forza divivere, che, per abitudine, si è fattasemplice, normale, non tradisce losforzo.

    Nessun ricco, nessun intellettuale,che chiama fatalismo la capacità di

    Scavando sotto il selciatoOltre la seduzione dei suoni,

    nell’interiorità della parola

    di Giuseppe Stoppiglia

    15

    c o n t r o c o r r e n t e

    “Non devo chiedere all’altro

    di parlare più forte.

    Devo aumentare il mio silenzio”.

    [Anonimo]

    “La scuola deve tendere tutta

    nell’attesa di quel giorno

    glorioso in cui lo scolaro

    migliore le dirà:

    povera vecchia,

    non ti intendi di nulla.

    E la scuola risponderà

    con la rinuncia a conoscere

    i segreti del suo figliolo,

    felice soltanto che il suo figliolo

    sia vivo e ribelle”.

    [Don Milani]

  • assumere la fatica senza tensioni tra-giche e senza declamazioni, sarebbecapace di pagare il costo di un lorogiorno di vita. Infatti questi impove-riti che sembrano maschere di Brecht,non hanno ancora scoperto il segretodi vivere da poveri. E sfuggono allavita con tutte le evasioni possibili,nello scenario di queste case chepotranno sopravvivere al tempo. Lavita verde ed i fiori sono imprigionatial di là dei vetri, e non possonoabbracciare con felicità i muri inrovina, come invece abbracciano lefacciate di fango delle catapecchie inAmerica Latina.

    La gioiadi non sapersi felice

    Una vecchia prostituta mi manda dasotto il trucco un saluto di accoglienza.È il primo invito ad uscire da quellostupore in cui mi ha legato la stranacontemplazione del mattino. Mi sonoprestato tutta la mattina, dietro i vetridella finestra, a questo mimo della con-vivenza, ed ora è come se mi svegliassicon il richiamo di un cuore lontano,nascosto dietro la maschera della con-suetudine.

    Questa donna, che mi saluta con cor-dialità, non so per quale miracolo hascoperto la giustizia di non essere

    bella, e la gioia di non sapersi felice.Il suo saluto festoso sblocca una miadisponibilità raggelata nella mattinasolitaria. Forse questa vecchia daicapelli biondissimi, ha scoperto quelcarisma che Gesù recupera nel terrenotorbido della prostituzione, perchénella gelida accoglienza di Simone ilfariseo, si sente accolto da lei. Mi dàla gioia che non è sua, e l’accoglienzache non ha mai ricevuto. CertamenteCristo continuerà a preferire alla chiesalucida e riscaldata, dove è stato seque-strato, questi antri dove la speranza èclandestina e sovversiva

    Gli eroi di oggisono... uomini

    La fine dei significati, il controllo deisaperi e l’omologazione collettiva cispingono a batterci per un modello diappropriazione delle parole sensatecontro la banalizzazione e i piaceridel consumo scriteriato. Sono convintoche essere uomini oggi sia più difficileche essere eroi. Nella trasformazionea volte improvvisa, ma sempre veloce,della nostra società, credo sia in gioconon qualcosa di marginale, ma il benefondamentale: la coscienza umana, lasua capacità di essere libera dallemanipolazioni, fossero pure le mani-polazioni della religione.

    Lo spirito critico e la scuola

    Obiettivo prioritario è dunque lo svi-luppo dello spirito critico e la capa-cità di ragionare con la propria testa.Non c’è un’alternativa diversa. O lascuola insegna ad essere liberi, ancheliberi di rivoltarsi, o è uno strumentodi potere e nemica dei poveri. Nelrigurgito integralista di questi anni, nonva solamente suggerito, ma gridato ilsenso dell’intransigenza evangelica,che scarta la potenza come veicoloper la fede perché rinasca la Parolaanzitutto in chi non ce l’ha, comeParola di liberazione.

    Le speranze facili del consumo

    Liberare i poveri dalla passività, resti-tuirli alla loro coscienza di uomini, ègià Vangelo. Se perciò vogliamo rifarei ponti tra passato e futuro, garantireun senso alla storia, tutto questo nonavverrà se la parola dell’uomo è stataspenta, tramortita dal consumo totale.Troppo spesso la speranza messianicasi trasforma oggi in una scienza, in unametodologia pastorale, e si arricchiscegiorno per giorno delle tecniche ausi-liarie, ma intrinsecamente incapace diraggiungere i poveri, inadatta a quelliche fanno la storia. La speranza sinasconde nei tuguri o nei deserti, e

    16

    c o n t r o c o r r e n t e

  • sfuggirà sempre i luoghi dove si fatroppo visibile e troppo facile...“vedere quello che speriamo, non èpiù sperare. Come si potrebbe sperarequello che si vede? Se speriamo coseche non si vedono, dobbiamo sperarlecon pazienza…” (Rom. 8, 24-25).

    Tempo libero, e... vuoto

    Quanti credono nella cultura comealternativa festosa?

    Certamente non molti, e su questopunto si insiste poco: sulla necessitàdella cultura per il tempo libero.

    “Più una persona è colta e menodenaro le serve per fare una vacanzao vivere una giornata felice. Meno ècolta, più ha bisogno di scialacquare,di spendere, ha bisogno di più giochidi artificio, di più riti, perché il tenta-tivo di arredare un vuoto non è sem-plice” (F. Savater).

    L’interno della nostra coscienza,anche se siamo piccolissimi, è tal-mente vasto, infinito, che per quantaroba ci cacciamo dentro non riusciamomai a stiparlo.

    Di conseguenza, conviene creare unfermento, perché se tentiamo di riem-pirlo di cose esterne non ne troveremomai a sufficienza, perché è un pozzosenza fondo. In un mondo in cui c’èsempre più gente e più tempo, è neces-sario creare spazi interiori per poterciallontanare dagli altri. Una delle ragioniper cui si fa uso di droga, sta nel fattoche sostituisce il pensiero di chi non ècapace di pensare. Alcune persone persopportare la contiguità con il pros-simo devono avere una zona interioredove rifugiarsi. E se non è quel fermentoa dargliela, sarà la chimica o qualco-s’altro, perché ne hanno bisogno.

    Il fermento e la parola

    C’è una lettera di don Milani, fra lemoltissime del suo epistolario, cherivela: “Non si può essere educatori,se non si ha una fede”. E ad una mae-stra, poi, che gli diceva di essereinquieta nel suo cammino di fede,risponde: “Quando avrai perso la testaper questi pochi ragazzi, al fondo deltuo impegno di liberazione dallaparola naturalmente troverai Dio. Cioè,troverai la Parola che si è fatta carne”.

    Ogni volta che accosto anche soloqualche pagina di Don Milani, ne restopreso: polemico fino al fastidio, para-

    dossale, classista, clericale, incapacedi mediare e di rendersi conto dellesituazioni. Certo lontano dal mio tem-peramento e dal linguaggio nel qualetento di esprimermi; a trent’anni dallamorte richiama in me ideali attualis-simi e mi spinge a battaglie che pare-vano ovattate nella storia.

    Vocaboli devianti

    Sconfitto come ogni profeta, sfuggentea qualunque gabbia ideologica, DonMilani ancora oggi afferma, con uncandore al quale non siamo abituati,che il momento supremo della libe-razione è nell’educazione. È la parolaa liberare l’uomo, ma bisogna che siauna parola liberata, un segno delsenso, e non una parola che mistifica,imbroglia, devia o distrae.

    «Il “Maestro” deve essere, per quantopuò, profeta, scrutare i segni dei tempi,indovinare negli occhi dei ragazzi lecose belle che essi vedranno chiaredomani e che noi vediamo solo con-fusamente».

    Vorrei aggiungere che non basta più,oggi, dare la parola ai poveri. Le tre-cento parole che Don Milani invocavaper loro, sono diventate duemila, ein più lingue, ma sono parole attra-verso le quali passa una nuova e piùpenetrante alienazione.

    Recuperare la direzionedietro la discrezione

    Il problema, oggi, è quello di liberarei significati, di recuperare la Parolasignificativa nel discorso umano, disalvaguardare le identità nel grandeprocesso di meticciato culturale chestiamo vivendo, con la mescolanza diculture più sulle antenne che nelleradici.

    Solo le persone libere sono libe-ranti...

    Vorrei passare da mediatore delsacro, da gestore di riti, da detentoredell’ultima parola a testimone, senti-nella, pedagogo che non crea nulla.Diventare immagine del dito cheindica la luna, ma per ritirarlo in frettaperché la gente non si fermi al miodito. È possibile diventare solo indi-catore come i segni posti sui sentieridi montagna.

    Forse scegliendo la discrezione.Discrezione che è propedeutica all’at-tesa di chi si sente accampato nellacittà. Un po’ sul modello di quegliangeli biblici che aspettano come percaso qualcuno ad un crocicchio e,dopo averlo accompagnato, si dile-guano senza lasciare traccia.

    Pove del Grappa, 30 settembre 1997

    Giuseppe Stoppiglia

    17

    c o n t r o c o r r e n t e

  • Pugni chiusi

    Tento a fatica di concentrarmi nellostudio nell’affollata aula dell’univer-sità e vedo entrare Simonetta dallaporta. Ha il viso teso, gli occhi segnatied è visibilmente nervosa. Mi invitaad uscire con lei in corridoio. Gli occhile si riempiono di lacrime e le parolefaticano ad uscire, strette fra i dentidigrignati dalla rabbia e dal non senso.“Il mio migliore amico si è impiccatoun anno fa ad una trave in soffitta; ierila madre ha trovato il fratello minore,ventenne, l’unico figlio rimastole,appeso alla stessa trave”.

    Mi prende un nodo d’ansia e dirabbia allo stomaco, il respiro mi si facorto, rimango freddo e ammutolito,con i pugni stretti. La mia razionalitàrimane chiusa, intrappolata, quasisospesa al limite di un baratro, in uncontinuo protendersi verso una vanaspiegazione, giustificazione. Non sonoriuscito allora e tantomeno riesco adarmela adesso.

    Abitare il dolore

    Non riesco ad accettare di non riuscirea darmi una risposta razionale allamorte, alla sofferenza; mi sento quasiprecipitare nel vuoto del non senso,oppresso da una realtà che non riescoad affrontare, a vivere, perché inevi-tabilmente intrisa di dolore e di con-traddizioni.

    Eppure, paradossalmente, da quandole vicende personali mi hanno in uncerto senso vincolato alla realtà, impe-dendo ogni mia possibilità di fuga negliidealismi più astratti di chiusura nel-l’intimismo più infantile, sto speri-mentando la vita, riesco a percepirlanelle sue verità.

    Attimi di nuda esistenza che nellaloro cruda verità risvegliano i desideripiù reconditi e autentici, mi permet-tono di attingere alle sorgenti della vita

    nella sua assolutezza, mi aprono all’in-contro con il misterioso volto delVivente.

    Al di fuori di ogni mia previsione oprogetto, da quando ho scelto di abi-tare le sofferenze e le contraddizioniche accompagnano quotidianità estoria, che sempre stanno al fondo dinoi stessi, di me stesso, un nuovo oriz-zonte si è inarcato ai miei occhi: lavita.

    Intuisco, anche se non riesco adesprimerlo concettualmente, che “soloquando c’è dolore inizia la ricerca”(P. Sloterdijk), solo quando si vive l’e-silio della solitudine si apre la possi-bilità di un approfondimento dell’u-mano, vengono decomprimendosiquegli spazi interiori che liberano lelatenze sopite di umanità essenziale.

    Perdere ogni certezza

    Ad una ad una sto perdendo tuttequelle certezze che fino ad ora mihanno orientato nella vita, mi hannopermesso di vivere, anzi di sopravvi-vere; perché se da una parte mi hannosostenuto (ma non erano le miegambe!), dall’altra mi hanno impeditodi farmi intimo a me stesso, di acqui-sire autoconsapevolezza, di assumereil peso di esistere.

    Le certezze di quegli “affetti” cheplacano il vuoto della solitudine (ildono della solitudine), impedendo l’e-sperienza della pienezza che accom-pagna un cammino di liberazione chesempre muove dall’esilio, dal dolore.

    Le norme morali che cristallizzanole energie vitali (aggressiva e sessuale)così interdette alla loro meta essen-ziale che è la gioia di esserci, pre-messa di una relazione autentica. Leconvinzioni religiose che non hannoaltro radicamento che sia quello delleabitudini, che bloccano al suonascere ogni pensiero dell’ulteriorità.Le prospettive escatologiche che

    Confezioni raziocinanti e . . .scampoli del viandanteAlle radici della individualità

    di Stefano Serato

    18

    i n c e r c a d ’ a l i

    “Ogni essere grida in silenzio

    per essere letto altrimenti.

    Occorre non essere sordi

    a queste grida”.

    [Simone Weil]

  • estraniano dalla ricchezza del pre-sente, del mio qui ed ora. Le certezzeideologiche che nel loro tentativo diabbracciare la totalità rasentano lafollia misconoscendo quell’incredi-bile realtà che è la persona umananella sua assolutezza e contingenza,universalità e singolarità, perennità estoricità. Le certezze del risultato rag-giunto che innescano quel processodi identificazione e dipendenza dal-l’esterno che impedisce di rivolgerelo sguardo alle radici della mia indi-vidualità.

    L’esperienzadello spaesamento

    Ho perso le certezze e mi sembra divivere quella che U. Galimberti defi-nisce l’esperienza dello spaesamentodel viandante. “Il viandante è un uomonon garantito, obbligato, per soprav-vivere, a elaborare continuamente la

    diversità dell’esperienza... L’etica delviandante è sviluppo fortissimo dellapropria individualità. Il se stesso cheil viandante fa emergere non è alloraun se stesso rigido, ma continuamenteloquente con la popolazione semprenuova che incontra”.

    Perdo le certezze e mi sento quasidesituato; ma nell’incertezza delmomento mi scopro viandante in cam-mino, dotato di quell’unico ma essen-ziale bagaglio che è la faticosa dispo-nibilità ad esporsi all’insolito.

    Io è un Altro

    “In momenti simili sperimentiamo lanostra alterità non soltanto nei con-fronti delle altre persone da cui comin-ciamo a distinguerci, ma anche neiconfronti di noi stessi. L’io è un altro,non solo ora e casualmente, masempre e in maniera essenziale” (PeterShellenbaum).

    Scendere al centro di me stesso, neipiù riposti a volte oscuri interstizi del-l’anima per dilatare gli orizzonti edaccogliere nuove prospettive di vitae di senso. Accedere e sostare accantoalla mia essenza di uomo, scoprirela necessità di divenire in atto ciò acui sono destinato in partenza, in untendere verso una meta, un fine cheè tutto interiore. Un fine che non ci èmai dato di possedere definitivamentema solo di realizzare, di attualizzareparzialmente. Parzialità e incompiu-tezza che sono l’impulso della ricercae che non portano all’ansia e all’an-goscia; perché vivere è sì un tendere,un continuo processo di umanizza-zione, ma affonda le sue solide radicinella certezza (l’unica che mi è data)dell’esserci, nel mio essere mani,occhi, ventre: un corpo consapevoledi esistere.

    È questa la scoperta dell’alterità indi-viduale, dell’Io che inizialmente irri-gidito nelle sue certezze immobiliz-zanti si scopre improvvisamente altroe si ricompone nell’autenticità dina-mica, mai statica e cristalizzata, del-l’essere se stessi.

    È un passaggio insolito in cui siannuncia una libertà diversa, che èrealtà frontale di una identità che sisolleva dalle passività dei dati e liritesse in un disegno nuovo, all’internodel quale individua quei percorsi pre-ferenziali che permettono alla personadi accostarsi alla propria essenza chesi confonde con il mistero.

    Ringrazio la vita per le sorprese, avolte dolorose, che mi riserva!

    Rompendo gli specchi

    È il momento di rompere gli specchi,di frantumare la mia immagine riflessache mi fa dipendere dall’esterno (dalgiudizio, approvazioni, rimproveri), distrappare il “vestitino della primacomunione” che immobilizza l’energiavitale e inchioda nell’inerzia delle abi-tudini, di riconoscere e rifiutare tuttiquei modelli esterni che mi rendonouno qualsiasi. Tutto questo per risco-prire, accogliere e offrire il mio voltonella mia autentica nudità e verità.

    Tutto questo per un nuovo iniziocreativo, per una nuova nascita checome tutte è sempre accompagnatadal dolore, ma che è apertura almistero della vita.

    Stefano Serato

    19

    i n c e r c a d ’ a l i

  • C’era una volta

    Nel 1973 il Giappone lavorava nel suoterritorio tutto l’alluminio che produ-ceva, 1,2 miliardi di tonnellate, cherappresentava il maggior consumomondiale. Oggi, tutte le fabbriche giap-ponesi sono chiuse, ma il paese hamantenuto il suo consumo. Il prodotto,ad un prezzo migliore di prima, arrivada altri paesi situati appunto in Asia omolto lontano. La maggior unità dirifornimento di alluminio per il Giap-pone sta a ventimila chilometri didistanza: è la società Albras (fabbricadell’alluminio), installata nelle vici-nanze di Belem, la città più grandedell’Amazzonia brasiliana, che prov-vede al 15% della domanda giappo-nese.

    Una storia esemplare

    La storia di questa società, se raccon-

    tata in modo adeguato, aiuta a com-prendere il ruolo attuale e futuro del-l’Amazzonia. La regione si è aggan-ciata all’economia internazionale,dopo aver avuto con questa relazionidi breve durata (come il ciclo dellespezie del “sertao”, il caucciù e, permezzo secolo, la gomma, fino al1920), a seguito dello choc petroliferodel 1973. Paesi come il Giapponecapirono che avrebbero dovuto abban-donare la produzione di conduttori dicorrente. Non disponevano di fontisufficienti di energia, oppure questeerano diventate molto care. Avrebberodovuto trasferire questo compito alleregioni periferiche, che avrebberoaffrontato i costi di produzione (oppurei costi di finanziamento esterno, senon disponevano di risparmio internoadeguato alla domanda di capitale),ma che avrebbero dovuto vendere talibeni industriali ad un prezzo moltopiù basso di quanto costavano quandoerano prodotti dai paesi sviluppati.

    Amazzonia,l’Africa del secolo ventunesimo

    di Lúcio Flávio Pinto

    20

    g l o b a l i z z a z i o n e

  • Una scelta oculata

    L’Amazzonia è diventata uno deiluoghi che hanno ricevuto questa indu-stria giapponese messa in pensione nelprimo mondo: disponeva di enormifonti di energia, soprattutto di origineidrica, di mano d’opera a bassoprezzo, di materia prima (come labauxite, minerale che dà origine all’al-luminio) e di spazio fisico (oltre allenorme legali tolleranti o permissive),per assorbire gli effetti dell’inquina-mento industriale, che i popoli più esi-genti non sopportano più.

    L’alluminio va in pensione

    Il primo conduttore di corrente messoin pensione nel primo mondo e rima-neggiato dai paesi satelliti è stato l’al-luminio. Nel 1973 anche il Brasilecostituì la Elettronorte, una compagniastatale che sarebbe stata incaricatadi costruire una enorme centrale idroe-lettrica sul fiume Tocantis, nella regionedel Parà, per rifornire di energia laprima fabbrica di alluminio dell’A-mazzonia, che è anche la più grandedel Continente sudamericano. Da solatale fabbrica, costruita dalla Compa-gnia Vale del Rio Doce (statale recen-temente privatizzata da parte delgoverno di Fernando Henrique Car-doso), la maggiore per estrazione diferro del pianeta, e dal consorzio giap-ponese NAAC, assorbe l’1,5% del con-sumo di energia di tutto il Brasile, cheha 157 milioni di abitanti. Consumadue volte e mezzo l’energia che con-sumano gli abitanti di Belem (1,2milioni di abitanti), che dista solo qua-ranta chilometri dalla centrale elet-trica.

    I costi dell’alluminio: la centrale

    Per comprendere le necessità dienergia di questa fabbrica, basta pen-sare che la Elettronorte ha dovuto pro-gettare una delle maggiori centraliidroelettriche del mondo, che oggi pro-duce quattro milioni di chilowattora(ma può arrivare al doppio dei KW nelsecondo stadio della costruzione, chesi prevede abbia inizio nel prossimoanno). Quando nel 1975 iniziò lacostruzione, il suo preventivo di spesaera di 2.1 miliardi di dollari. Ma almomento dell’inaugurazione, nel 1984la spesa era già arrivata a 5,4 miliardi

    di dollari. In questa cifra non eranoinclusi gli interessi sui prestiti che ilBrasile aveva contratto per costruirel’opera, che vanno dai tre ai quattromiliardi di dollari, facendo sì che ilcosto globale stia ormai raggiungendoi dieci miliardi di dollari. Con l’in-conveniente che la Francia, principalefinanziatrice, ha preteso che la metàdelle gigantesche turbine fosse com-prata da produttori francesi, mentrel’altra metà è stata costruita in Bra-sile (ma tramite concessionarie fran-cesi, alle quali si pagano “royalties”,i diritti di sfruttamento commercialedei macchinari).

    Aggiunte di spesa:agevolazioni ed interessi

    A causa dei contratti a lungo termineche fu costretta a firmare, la Elettro-norte fornisce alla Società Albrasenergia ad un prezzo agevolato, al disotto del costo di produzione. Il costodi tale agevolazione nell’arco del con-tratto, di venti anni, risulta all’incircadi un miliardo di dollari, denaro cheesce dal tesoro nazionale. Questovalore corrisponde ai due terzi delcapitale che fu utilizzato per costruirela fabbrica dell’alluminio. Con un’ag-gravante: siccome il Brasile non hamezzi finanziari sufficienti per copriretutto il costo della fabbrica, è dovutoricorrere agli agenti finanziari giap-ponesi. Essi entrarono nell’affare con604 milioni di dollari contro i 1400milioni di dollari dell’investimentototale. Ma da allora, solo per causadegli interessi, il debito originale è pas-sato ad un miliardo di dollari.

    E la somma fa la... beffa

    Se includiamo nel calcolo di spesa l’a-gevolazione energetica concessaall’Albras, l’investimento nelle infra-strutture di appoggio alla fabbrica(come la città, il porto, le strade), l’e-sonero dalla partecipazione dell’Al-bras al costo della idroelettrica diTucuruì (nonostante che la fabbrica dialluminio usi il 30% della potenza fissadella centrale elettrica) e gli interessipagati, un resoconto finale mostra cheil Brasile ha trasferito all’estero qual-cosa come sette miliardi di dollari perpoter disporre del complesso di pro-duzione dell’alluminio nell’Amaz-zonia. Il problema è che il prezzo del-

    l’alluminio, oltre ad usare energia inmodo intensivo, ha perso di valorerelativo. In 12 anni di attività, l’Albrasaccumula una perdita superiore a 500milioni di dollari perché le sue rela-zioni di scambio sono sfavorevoli. Leentrate provenienti da vendita nonsono in grado di coprire i costi di pro-duzione ed i prestiti. Sfavorevoli sonoin genere gli scambi dell’Amazzoniacon il mondo, che l’ha incorporata asé per imporle la produzione di elet-troconduttori a prezzi più bassi perchégli antichi produttori del primo mondohanno abbandonato la produzione diquesti beni e ne sono diventati con-sumatori. Se prima volevano buoniprezzi di vendita, ora fanno di tuttoper disporre di beni di acquisto adun prezzo più basso possibile, purrompendo il vecchio incantesimo delmercato (che è la regola dei prezzibasata sulla legge della domanda edell’offerta) con i suoi cartelli.

    Il miracolo e la serie dei guasti

    Questa nuova divisione del lavorointernazionale, costituita a partiredallo choc petrolifero, spiega in chemodo il Giappone (paese senza fontidi energia elettrica, senza petrolio econ l’energia nucleare condizionata)sia riuscito a chiudere tutte le sue fab-briche di alluminio e mantenere il suoconsumo, ricevendo inoltre l’allu-minio ad un costo inferiore a quelloche produceva nel suo territorio.Questa storia dell’alluminio si puòapplicare al metallo del silicio, cheè terzo nella graduatoria degli elet-troconduttori, che l’Amazzonia giàproduce (per la gioia di fabbricanti diorologi e computer), come si puòapplicare al rame, secondo maggiorconduttore di corrente, quando laregione comincerà a produrlo, entrocinque o sei anni.

    Epilogo

    Se dipenderà da questa storia, l’A-mazzonia ripeterà, in questo nuovosecolo che, di fatto, è iniziato nel 1973,ciò che l’Africa e l’Asia hanno rap-presentato per l’era del vecchio colo-nialismo dei secoli diciannovesimoe ventesimo. Nonostante tutta la reto-rica che recita in senso contrario.

    Lúcio Flávio Pinto

    21

    g l o b a l i z z a z i o n e

  • Grottesco, ironico Diego

    A Città del Messico, all’interno delPalazzo Nazionale, vi è un grandiosodipinto realizzato da uno dei massimimuralisti messicani: Diego Rivera. Èl’illustrazione della storia del Messicoper immagini: le diverse civiltà pre-colombiane, la struttura originaria dellacapitale Tenochtitlan, e poi l’arrivo

    degli spagnoli, la fucilazione di Mas-similiano d’Asburgo, i vari presidentidel paese, le lotte contadine, la nascitadella classe operaia...

    Salendo lo scalone che conduce alsecondo piano e percorrendo poi ilcorridoio esterno che corre intorno alpatio, la vista si riempie di un inin-

    terrotto susseguirsi di volti, figure,cavalli, armi, bandiere, attrezzi dalavoro, animali, piante. Non ci sonospazi vuoti, tutto è pieno e continuo.Fatti e tempi diversi si toccano nel pro-cedere di una storia orizzontale. Nonc’è retorica celebrativa, esaltazioneeroica, piuttosto ironia o un tratto fero-cemente grottesco: tutti, in ugualmisura, sono protagonisti su questopalcoscenico che Rivera dipinse tra glianni ’40 e ’50.

    Storia orizzontaleSquarcio nel presente

    Ma la storia è ancora in corso e Riveranon avrebbe certo mancato di aggiun-gere al suo affresco il massacro di Tla-telolco, gli anni del salinismo e glizapatisti di oggi, perché la storia delMessico ha un procedere orizzontalee così come sopravvivono le cultureindie vive anche Emiliano Zapata.

    Credo che per noi europei sia diffi-cile da comprendere questo rapportocon la storia: per noi molto spesso soloesercizio di memoria, ricerca nel pas-sato, nei documenti, negli archivi; avolte storia orale, ma solo per ciò chedista poche generazioni. In Messicola storia è squarcio del presente, èrisveglio, è presa di coscienza del-l’essere in questo tempo.

    La sollevazione zapatista del ’94 hacontribuito ad illuminare questa storia,ha mostrato al paese una delle suefacce, la più antica, la più triste, maanche la più carica di speranza: hamostrato le sue origini indie, hamostrato come in una regione ric-chissima di risorse la popolazione vivain estrema miseria, ha mostrato unosfruttamento ancestrale e il voltomoderno di una cultura antica. Nellostesso tempo, però, si è potuto vederel’unirsi delle forze, l’elaborazione diproposte, la modificazione dei con-flitti. Nel momento in cui sulla scena

    I luoghi della storia,i luoghi della speranza

    22

    m e s s i c o

  • compariva dirompente la denuncia inarmi di una popolazione flagellata ecostretta alla pura sopravvivenza, siè fatta strada la speranza di un futurodifferente.

    La speranza contamina,ma non uccide

    Le richieste degli zapatisti (tetto, terra,lavoro, pane, salute, educazione, infor-mazione, cultura, indipendenza,democrazia, giustizia, libertà, pace)sono diventate le richieste della societàcivile messicana, non solo dei 27milioni di poveri, ma anche dellaclasse media, di chi percepisce tuttal’instabilità dell’anomalo sistema“democratico” messicano.

    Ed è così che il Chiapas diventa unlaboratorio politico.

    Le proposte dell’EZLN rivelano unagrande capacità di aggregazione:donne, lavoratori, studenti, intellet-tuali, gruppi di scontenti, ovvero quellaparte del paese che non ce la fa piùa sopportare le piccole e grandi ves-sazioni quotidiane, fanno proprio il yabasta lanciato dagli zapatisti comeparola d’ordine. Secondo alcuni staproprio nella individuazione di obiet-tivi di lotta che appartengono al viverequotidiano, che riguardano il miglio-ramento delle normali condizioni divita, la forza di mobilitazione del-l’EZLN.

    Lo scoppio della rivolta ha resa mani-festa una situazione comune di males-sere e sofferenza, tanto che le condi-

    zioni estreme della popolazione delChiapas sono state scelte per rappre-sentare il disagio di un intero paese.Forse per la prima volta in molti anni,si è avuto un riconoscimento che hafatto sì che gli abitanti di una mega-lopoli come Città del Messico potes-sero avvertire come proprie le riven-dicazioni dei contadini chiapanechi.

    Che cosa ha reso possibile tuttoquesto?

    Identificazione e protagonismo

    C’è un altro slogan nei cortei: Todossomos Marcos.

    A prescindere dalle differenze spe-cifiche di classe sociale, di regione, dilingua, di etnia, si produce una iden-tificazione che oltrepassa le singoleindividualità per toccare qualcosa dicomune e profondo: la condizioneumana.

    Il significato del vivere umano, laqualità dell’esistenza diventano oggitema di discussione politica. Nasce laconsapevolezza di una nuova forza,costruttiva, che non delega più, chetrasforma la sfiducia in un sistema fal-samente democratico, come quellomessicano, nella speranza di un futurodove coloro che governano mandenobedeciendo (comandino obbedendo).

    Anche in questo caso è la storia oriz-zontale che riappare. Viene messo indiscussione il concetto di democraziacome puro meccanismo elettorale.Che valore può avere una democraziaalla luce di un crescente astensio-

    nismo, di brogli, di governi che sonoespressione di una parte minoritariadella società?

    Si riscoprono, invece, le forme diautogoverno proprie delle comunitàindigene: la democrazia diretta, l’as-sunzione di una responsabilità che stanel fare e non nel dire, un dirigere cheviene sottoposto al giudizio continuodi tutto il villaggio.

    Que viva a vida

    Ogni uomo è chiamato a ricoprire unruolo e ad assumersi un carico all’in-terno della comunità cosicché lacostruzione del futuro, l’apertura allasperanza diventa compito di ciascuno,nell’interesse individuale e collettivo.

    Quando si visita un villaggio zapa-tista, ciò che colpisce è la vita, sentirela vita che si sprigiona da luoghi dovela morte è sempre in agguato, percause naturali (virus, infezioni,malattie...) o per mano militare: è lacostante presenza di bambini di tuttele età e lo sforzo continuo di orga-nizzazione, di partecipazione, didiscussione, che trasmette la sensa-zione di una tenace, anche se faticosa,spinta in avanti.

    I dimenticati, i dannati della terra,gli uomini senza volto stanno ripren-dendo la parola, stanno acquistandovoce; la storia, che sembrava averlichiusi in un angolo buio, si riapre,ed è la loro presenza che ora indicaanche a noi un nuovo orizzonte di spe-ranza.

    23

    m e s s i c o

    a b b o n a t ia

    m a d r u g a d a

    a b b o n a t ia

    m a d r u g a d a

    Rinnova oggi stessoil tuo abbonamentoalla nostra rivista.

    Invia le tue 15.000 lirecon il conto corrente

    allegato a questo numero.

    Madrugada è poca cosa...ma cresce con te.

  • “Sem medo de ser feliz”

    “Sem medo de ser feliz” è stato peranni, in Brasile, uno slogan efficace,in politica come nel sindacato, neimovimenti popolari, nelle comunitàdi base, tra gli indios, i negri, i fave-lados, i contadini, i braccianti, glioperai. Esprimeva - oltre che una tro-vata di marketing elettorale del PT -un sentimento di ottimismo diffuso trala gente, uscita alla fine degli anniottanta da due decenni di feroce dit-tatura militare.

    Mentre nel mondo cadevano i murie subito ne venivano innalzati deglialtri ed in Italia dominava il “ram-pantismo” politico e culturale, in Bra-sile si tentava di proporre un nuovomodello di società e di governo, cheereditava gli aspetti migliori delle teoriesocialiste adattandoli ad un contestolatino, ricco di umanità e di calore, inun paese dove le ingiustizie sociali ela violenza erano e sono tragichecostanti della vita quotidiana.

    Nacque, crebbe e si impose all’at-tenzione generale il PT (Partido dosTrabalhadores) e l’uomo che più di

    tutti ha rappresentato il simbolo diquesta stagione politica è Luis Inàcioda Silva: Lula.

    Il romanzo di una vita

    È stato due volte candidato alle ele-zioni presidenziali e per due volte èstato sconfitto dall’onnipotenza deimass media, in particolare della fami-gerata Rede Globo, che nell’89 ha“fabbricato” dal nulla il fantoccioCollor de Melo e nel ’94 ha “inven-tato” un piano di risanamento eco-nomico per sponsorizzare l’attuale pre-sidente, Fernando Henrique Cardoso.

    Lula non è un personaggio qua-lunque, ma uno degli esempi più affa-scinanti di come sia possibile coniu-gare impegno politico ed onestà,carisma e simpatia. È una figura ormaileggendaria negli ambienti popolari bra-siliani, una specie di incrocio tra FidelCastro (di cui ricorda la leadership e lacapacità comunicativa) ed Alex Langer(per l’umanità e la visione politica).

    La sua storia è un romanzo: cin-quantenne, nordestino (originario cioèdella regione più povera del paese),emigrò a sette anni a San Paolo con lafamiglia alla ricerca di lavoro e dignità,dopo un viaggio di molti giorni suifamosi pau de arara (letteralmente, tre-spolo di pappagallo, dal tipo di camionche trasportava i contadini, stipandolicome bestie). Arrivato nella metropolipaulista, scoprì che il padre avevaun’altra donna, dalla quale aveva avutocinque figli. La “famiglia” crebbe finoa venti componenti e Lula dovette cer-care un lavoro per sopravvivere. Fecedi tutto un po’ e con il tempo divennetornitore meccanico. Ci perse ancheil mignolo, tranciato in officina in unmomento di distrazione.

    Negli anni settanta fu perseguitatodal regime militare e rimase a lungoin clandestinità. Con altri compagnidiede vita nel ’79 alla CUT (Centrale

    Senza timore di essere feliceIncontro ravvicinato con Lula,

    leader del PT (Partito dei Lavoratori) brasiliano

    di Gigi Eusebi

    24

    i n t e r v i s t a

  • Unica dei Lavoratori), che oggi è diven-tato il maggior sindacato dell’AmericaLatina, con quasi dieci milioni diiscritti. Nell’80 fondò il PT, di cui èsempre stato il capo carismatico arri-vando, come detto, a sfiorare per duevolte l’elezione a - come ama ricor-dare - “primo tornitore meccanico Pre-sidente della Repubblica”.

    Dice anche, sottovoce, che il PT rap-presenta, insieme al sandinismo, lamigliore esperienza di sinistra dellastoria recente. I suoi modi non raffi-nati e la straripante umanità ne fannoun mito per molti e uno spauracchioper pochi (un sapo barbudo, un rospobarbuto da ingoiare, è stato definitospesso). Le sue straordinarie capacitàpolitiche di articolazione, di media-zione e di intuizione, gli hanno per-messo di acquisire la dimensione distatista, riconoscimento che non glinegano nemmeno i suoi avversari poli-tici e le oligarchie militari ed econo-miche brasiliane.

    Lula e il Brasile

    “Dopo quasi tre anni di governo - ciracconta Lula - il presidente Cardosonon ha concretizzato niente che giu-stifichi la fama di democratico rifor-mista che si è saputo creare in cam-pagna elettorale. Per la gente non ècambiato nulla, in quanto tutte lemanovre intraprese ubbidiscono alla“ricetta”