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Luoghi di sosta e di accoglienza sulle strade italiane (secoli XVII-XX): architetture, funzionalità, paesaggi Gli edifici destinati all’accoglienza diffusi sulle strade italiane durante i secoli del Grand Tour (XVII-XVIII) e sviluppatisi nel corso dei successivi (XIX-XX), siano essi di natura pubblica (stazioni di posta, dogane, presidi ferroviari o case cantoniere) oppure privata (locande, alberghi, osterie), presentano caratteristiche architettoniche peculiari: si tratta di fabbricati utilitaristici che rispondono al gusto del tempo e alle consuetudini del viaggio stesso. Gli scritti che seguono analizzano le caratteristiche architettoniche peculiari di questi edifici, il rapporto con il contesto paesaggistico e cronologico nei quali sono sorti e le trasformazioni dei quali sono stati protagonisti, attraverso i mutamenti delle modalità del viaggio stesso, nonché gli usi attuali. Sono messe a confronto le architetture ricettive stradali di respiro internazionale, studiate da storici dell’arte, dell’architettura e da studiosi di discipline affini. Fabiana Susini, Olimpia Niglio 1353

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Luoghi di sosta e di accoglienza sulle strade italiane (secoli XVII-XX): architetture, funzionalità, paesaggi

Gli edifici destinati all’accoglienza diffusi sulle strade italiane durante i secoli del Grand Tour (XVII-XVIII) e sviluppatisi nel corso dei successivi (XIX-XX), siano essi di natura pubblica (stazioni di posta, dogane, presidi ferroviari o case cantoniere) oppure privata (locande, alberghi, osterie), presentano caratteristiche architettoniche peculiari: si tratta di fabbricati utilitaristici che rispondono al gusto del tempo e alle consuetudini del viaggio stesso. Gli scritti che seguono analizzano le caratteristiche architettoniche peculiari di questi edifici, il rapporto con il contesto paesaggistico e cronologico nei quali sono sorti e le trasformazioni dei quali sono stati protagonisti, attraverso i mutamenti delle modalità del viaggio stesso, nonché gli usi attuali. Sono messe a confronto le architetture ricettive stradali di respiro internazionale, studiate da storici dell’arte, dell’architettura e da studiosi di discipline affini.

Fabiana Susini, Olimpia Niglio

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La casa cantoniera e un turismo sostenibile Maria Melley

Università di Parma – Parma – Italia Parole chiave: paesaggio, edificio, disegno, tipologia, funzione. 1. Storia – Tipologia – Architettura – Paesaggio Le case cantoniere sono facilmente identificabili perché con il loro colore rosso “pompeiano” si pongono ai lati delle strade statali e sono sparse per tutto il territorio nazionale. La loro tipologia infatti varia, pur mantenendo alcuni elementi principali costanti, da luogo a luogo e con il passar del tempo ha avuto sorti differenti proprio per la diversa collocazione geografica. Fino al 1992 la società ANAS spa era l’unica proprietaria degli immobili. Successivamente è iniziata la cessione della proprietà a Regioni e Provincie che hanno a loro volta iniziato a venderle tramite aste pubbliche. Ad oggi solo poche di queste vecchie abitazioni sono abitate da ex-cantonieri in pensione, alcune sono state trasformate in vere e proprie abitazioni private, molte sono in totale stato di abbandono. Per potere raccontare la storia delle case cantoniere è indispensabile collocare la nascita di una figura professionale che, in modo indiretto, condiziona sia nell’aspetto architettonico sia nella collocazione geografica questi piccoli manufatti storici. È la Francia, già all’epoca di re Sole, ma soprattutto durante gli anni di Napoleone (grande stratega) che insegna che i cantonieri e i pontonieri sono figure fondamentali non solo per la manutenzione delle carreggiate e dei ponti, ma soprattutto per il controllo generale del territorio. In Italia la figura del cantoniere sarà introdotta intorno al 1820, in Sardegna, dall’ing. Giovanni Antonio Carbonazzi, piemontese doc, nato a Felizzano, provincia di Alessandria e formatosi alla scuola francese École Polytecnique di Parigi.

Casa cantoniera nella Strada Statale 62, situazione esterna e interna

Nel 1824 un ragionevole numero di cantonieri già operava lungo le strade del Regno Sardo. Nel 1830 questa figura di operatore divenne insostituibile per la manutenzione della rete viaria rotabile. Circa un secolo dopo, nel 1928 nacque l’AASS (Azienda Autonoma delle Strade Statali) e nel 1929 l’avv. Giovanni Giurati, primo presidente dell’azienda, nonché Ministro dei Lavori pubblici, promulgava la circolare per le Norme Fondamentali per la buona gestione dei servizi tecnici riguardanti l’ordinaria manutenzione. Sarà però solo nel 1946 (con la nascita dell’ANAS) che il ruolo importante dei cantonieri come tutori e manutentori delle strade statali prenderà effettivamente piede a livello nazionale. Nonostante ancora oggi la figura del cantoniere è ritenuta una figura professionale importante per la tutela delle strade nazionali, le loro abitazioni sono state quasi tutte abbandonate non ricoprendo più così il loro ruolo originario. Degli oltre 1000 edifici sparsi

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per tutto il territorio nazionale alcuni sono stati inglobati nella cerchia urbana, ma molti si trovano a dominare paesaggi extraurbani di varia natura. Da anni il Dipartimento di Ingegneria e Architettura (DIA), dell’Università di Parma, si sta occupando delle sorti di questi edifici attraverso l’attuazione di un monitoraggio eseguito lungo alcune principali strade statali della penisola, dove i manufatti sono stati singolarmente censiti, schedati e rilevati geometricamente. Oltre a ciò è in atto una consultazione all’archivio storico dell’ANAS a Cesano (Roma), dove sono raccolti i principali disegni di progetto delle case cantoniere, a livello nazionale. La ricerca si proporne di individuare linee guida sia per la tutela architettonica dell’edificio sia del suo intorno paesaggistico, ridando una funzione attiva all’intero insieme.

Analisi tipologia delle case analizzate nelle tre Strade Statali

(Elaborazione eseguita in Tesi di Laurea Magistrale in Architettura, Università di Parma, Dipartimento di Ingegneria e Architettura, da Roberto Mazzi, Greta Leoni e Francesco Temi)

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A tale proposito l’ANAS ha pubblicato un manuale di progettazione per il recupero architettonico e funzionale di queste particolari abitazioni nel tentativo di definire metodi generali d’intervento. Delle 1244 case, 650 sono state destinate a progetti di riqualificazione, di cui 150 per progetti turistico culturali e 30 ricadono nel progetto pilota partito come bando nazionale in questi ultimi mesi. L’Università di Parma invece, come ente esterno e non proprietario, sta operando verso la conoscenza architettonica e quindi tipologica di questi piccoli manufatti e del rapporto percettivo con il proprio paesaggio. Il punto di partenza è stata quindi l’attivazione di una campagna di rilievo sia alla scala urbana sia a quella architettonica che permettesse di percepire le principali caratteristiche architettoniche dell’edificio e il loro rapporto con il contesto, ma ancora di più comprendere le motivazioni che hanno portato ad abbandonare in maniera talvolta definitiva tali manufatti. Le ragioni di tale abbandono sono senz’altro da ricercarsi nella radicale trasformazione delle modalità di viaggio che l’era moderna ha completamente trasformato. L’ANAS gestisce circa 20000 km di strade statali, di questi alcuni tratti, a causa di processi di urbanizzazione, sono stati dismessi e la manutenzione è passata nelle mani dei comuni interessati. Le strade Statali italiane sono denominate SS n. (acronimo di strada Statale) e la n. sta ad indicare il numero progressivo (dall’1 al 700) a seconda della data di costruzione della strada stessa. La nostra ricerca ha censito tre strade (SS62-63-18) le prime due in Emilia Romagna, la terza in Calabria, mentre sono state per ora solo catalogate alcune case in Val D’Aosta, in Sardegna, in Lazio e in Abruzzo. Tutte le case cantoniere vengono costruite sulla strada proprio perché il cantoniere aveva il compito di tutelare il cantone, un tratto di strada statale che si estendeva mediamente per 4-5 km. Dal libro del Genio Civile, Ministero dei lavori pubblici, Libro dei Cantonieri delle strade nazionali, vengono citati tre articoli di particolare importanza che inquadrano la figura del cantoniere e la funzione della sua abitazione: Art. 8 Abitazione: “Ciascun cantoniere deve avere la sua abitazione il più possibile in prossimità del tratto di strada a lui affidato. Non può cambiare abitazione senza preventiva approvazione dell’Ingegnere Capo”1. Art. 23 Casa Cantoniere: “I cantonieri che abitano nelle case cantoniere o di ricovero esistenti lungo le strade nazionali sono tenuti a conservarle in buono stato e saranno responsabili delle degradazioni che avvenissero per loro incuria. Inoltre saranno in obbligo di lasciare la camera comune solamente di giorno, e la scuderia anche di notte, a disposizione dei viandanti a piedi e a cavallo che vi possano giungere in qualunque ora; e devono pure all’occorrenza dare ricovero agli agenti della forza pubblica e ai militari in servizio. I piazzali e terreni annessi alle case cantoniere saranno pure mantenuti in buono stato da servire all’uso cui sono destinati”2. Art. 22 Soccorso ai viaggiatori: “Sarà altresì dovere dei cantonieri di prestare gratuito soccorso ai viaggiatori ed alle vetture nel caso di intemperie o di disgrazie. Sarà riguardato come gravissima mancanza per parte dei cantonieri il chiedere ricompensa per il prestato aiuto”3. La tipologia della casa cantoniera varia al variare della zona geografica nella quale è stata edificata, da nord a sud del paese, ma anche lungo la stessa strada se cambia l’altimetria morfologica del terreno. Normalmente trattasi di edificio di piccole dimensioni, a pianta rettangolare, sviluppato su due piani più sottotetto, con copertura a falde o piane (soprattutto nel sud dell’Italia e nelle isole), a volte provvisto di piccola torretta. Quasi sempre l’edifico 1 Ministero ai Lavori Pubblici – Genio Civile, Libro dei Cantonieri delle Strade Nazionali, Roma, Tipolitografia del Genio Civile, 1905. 2 Ibidem.3 Ibidem.

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ospita due appartamenti, entrambi divisi su due piani il cui collegamento è assicurato da una scala in muratura centrale all’edificio stesso. Un aspetto che unifica, o che unificava (spesso manca l’intonaco originale), le facciate era l’uso del colore dell’intonaco sempre di colore rosso pompeiano con serramenti esterni in legno colore verde scuro caratterizzati da una fascia marcapiano in muratura di colore bianco. Non esiste una letteratura in merito alla scelta del colore rosso, si potrebbe però ipotizzare che la scelta di tale colore possa derivare dal significato stesso di tale tinta. Il nome rosso pompeiano è una tinta di rosso scintillante tendente al porpora che deriva dal colore delle bellissime dimore di Pompei, da cui infatti ha preso il nome. In realtà si è scoperto che queste antiche abitazioni fossero in origine giallo ocra, colore che si è poi “arrossito” grazie ai gas e all’incedibile calore emanato durante l’eruzione del vulcano. Esiste però un altro significato che giustificherebbe tale uso: dal latino rubens (rosso) è sinonimo di colorato, il fatto di abbinarlo a delle abitazioni che devono essere facilmente visibili, ne spiega in parte il significato. Chi si veste di rosso, si fa, senza ombra di dubbio notare, così vale anche per il “vestito esterno” di queste particolari abitazioni che sono nate come punti di segnalazione non solo per la manutenzione delle strade ma anche d’appoggio ai tanti viandanti che percorrevano le strade statali italiane. Sui lati dei prospetti su strada è posto un altro “segno” comune: un’insegna scritta su sfondo bianco che indica il numero della strada e il km a cui si trova l’edificio. Gli altri elementi, quali cancelli, inferiate, portoni sono generalmente di colore verde scuro come i serramenti. Le abitazioni generali in genere sono affiancate da autorimesse o depositi nei quali venivano custoditi i mezzi e le attrezzature utilizzate per esplicitare le operazioni di manutenzione delle strade statali. Al di là della variabilità tipologica, tutti questi edifici hanno stesse modalità costruttive: fondazioni in muratura di pietrame, con malta idraulica di pozzolana, muri in elevazione costruiti in pietra con ricorsi di mattoni pieni o solo con l’uso di mattoni pieni, con malta semi-idraulica e pozzolana, solai con capriate, travi e travetti in legno di castagno. “I solai saranno in legno costituiti da travi di castagno con sezione non inferiore a 18 cm diametro, equidistanti un metro le une dalle altre, con soprastante tavolato pure in legno di castagno di spessore di 2.5 cm uniti a mezzo legno ed assicurate alle travi con viti mordenti da 5 cm.”4 Nei tre percorsi che andremo brevemente a descrivere tutte le case sono state appositamente schedate, indicando una breve descrizione architettonica, tipologica e il proprio inserimento nel paesaggio. 2. Le Strade

2.1. Descrizioni delle strade

S.S. 62, Strada Statale della Cisa, 108 km, da Sarzana-Verona (analizzate 29 case) In questo tratto di strada le case presenti ed analizzate sono 29, divise in sette tipologie differenti, con piccole varianti per almeno tre tipologie. In questo tratto risulta molto interessante analizzare anche la distanza tra di loro delle singole abitazioni, le distanze variano dal un massimo di 11 km ad un minimo di 1,8 km, e le distanze maggiori si trovano sui tratti pianeggianti della strada, mentre le case sono molto più ravvicinate nei tratti dell’appennino. Le coperture sono rigorosamente a falde con edifici più alti e massicci sempre in prossimità dell’attraversamento dell’appennino. S.S. 63, Strada Statale del Valico del Cerreto, 137 km, da Aulla – Gualtieri (analizzate 19 case)

4 Estratto da Azienda Autonoma Statale della Strada, SS n.18, Lavori di costruzione di una casa cantoniera doppia. Archivio Storico ANAS, Cesano, Roma.

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Tavola di progetto dove la casa cantoniera appare ancora allo stato di fatto, ma l’attenzione

progettuale si rivolge prima di tutto sul recupero del proprio paesaggio (Elaborazione eseguita in Tesi di Laurea Magistrale in Architettura, Università di Parma,

Dipartimento di Ingegneria e Architettura, da Roberto Mazzi)

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In questo tratto di strada le case presenti ed analizzate sono 19, divise in cinque tipologie differenti. Le distanze tra una casa e l’altra varia dai 3 ai 10 km. Si tratta in media di edifici di piccole dimensioni, sempre con tetti a falde. S.S. 18, Strada Statale Tirrenia Inferiore, 536 km, da Napoli - Reggio Calabria (analizzate 8 case) In questo tratto di strada le case presenti ed analizzate sono 8, divise in cinque tipologie differenti. In questo tratto le distanze variano in modo completamente diverso, da un massimo di 46 km ad un minimo di 1 km, anche in questo caso le abitazioni sui rilievi hanno distanze più ravvicinate. Le coperture sono rigorosamente piane, l’unico edificio a falde è quello collocato più a nord. Come si può notare dall’immagine degli schemi delle tipologie delle case cantoniere, quelle posizionate tra Emilia Romagna e Liguria sono molto simili mentre quelle in Calabria appaiono completamente differenti. Grazie alla documentazione reperita presso l’archivio di Cesano di Roma è stata realizzata una campagna fotografica, a campione, anche per le regioni Val D’Aosta, Lazio, Abruzzo e Sardegna. Da un confronto diretto tra i progetti realizzati nelle diverse regioni si notano subito differenze tipologiche molto evidenti che riguardano il numero dei piani, l’inclinazione delle falde e la presenza di corpi giustapposti diversificati per forma e volume. Eppure viaggiando per le nostre strade nessuno fatica ad individuare queste particolari abitazioni. È la loro collocazione ai bordi della strada, il colore rosso e la scritta sul fronte del numero e del km della via percorsa che accomuna tutte queste piccole ma particolari architetture. È per questo motivo che il recupero architettonico delle case ha un senso solo se si comincerà ad ipotizzare un recupero del paesaggio sulle quali queste abitazioni insistono. È chiaro che la funzione principale che questi manufatti dovrà rivestire sta appunto nel recupero delle proprie originali funzioni, non quelle propriamente abitative utilizzate dal cantoniere, ma quelle di supporto notturno o di ristoro per un turismo lento e sostenibile. Quindi bisognerebbe, attraverso l’osservazione del paesaggio innescare un processo di “ritorno” a modalità di viaggio “antiche”, modi di viaggiare “lenti”, con lo scopo di conoscere il proprio territorio nazionale e farlo conoscere ai turisti stranieri. L’Osservatorio del Paesaggio (istituito con decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, art. 132, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio), è uno strumento operativo che unisce scienza, cultura ed economia per applicare una lettura interdisciplinare, storico-culturale, ambientale ed economica. In questo senso, gli obbiettivi di questa istituzione partono dall’osservazione del territorio, per conoscerlo ed esaltarne gli aspetti percettivi e valutarne le trasformazioni avvenute e definire gli organi di tutela. La norma in realtà non ha ancora “visto la luce” e la ricerca attuale sta invece a testimoniare quanto ci sarebbe bisogno dell’attivazione di un osservatorio del paesaggio sia come ufficio di controllo vero e proprio, sia come strumento per la sensibilizzazione dei cittadini al rispetto del proprio territorio.

Bibliografia G. Bracci, C. Bracci, La via francigena 1000 anni dopo, NaturArte, Firenze, 2000. La Cisa nella storia e nella cronaca. Parma: Autocamionale della Cisa, 1976. La strada Imperiale della Cisa, Tecnografica Editore, Parma, 2010. Ministero ai Lavori Pubblici-Genio Civile, Libro dei cantonieri delle Strade Nazionali, Tipolitografia del Genio Civile, Roma, 1905. M. Zizzi, La casa cantoniera, Guerini, Milano, 1992.

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Architetture per l’accoglienza lungo le direttrici di pellegrinaggio.

Da Canterbury a Roma passando per Lucca Olimpia Niglio

Kyoto University – Kyoto – Japan Parole chiave: Lucca, Via Francigena, Complesso San Frediano, Real Collegio.

1. Le direttrici di pellegrinaggio I luoghi sacri propri del cristianesimo, sin dal Medioevo, hanno istituito importanti direttrici di pellegrinaggio nonché messo in rete, secondo un linguaggio più contemporaneo, geografie e culture tra loro non sempre affini. Tali direttrici erano percorse da viandanti che per motivi religiosi e devozionali, ma anche di conoscenza e commerciali, intraprendevano luoghi viaggi attraverso non solo il proprio territorio nazionale ma spesso oltrepassando confini e raggiungendo mete piuttosto lontane. Lungo queste direttrici i viandanti trovavano ristoro presso conventi ma anche locande di transito che a loro volta avevano favorito lo sviluppo di piccoli centri abitati e borghi. Nonostante queste vie non fossero del tutto sicure, anche per motivi di brigantaggio, per secoli hanno costituito dei riferimenti importanti a livello di comunicazione e scambi commerciali e tuttora si tratta di strade operative ed importanti da un punto di vista culturale. La pratica propria del pellegrinaggio religioso trova radici nella venerazione dei luoghi santificati dalla predicazione e dalla passione di Cristo nonché connessi alle sepolture dei martiri e degli apostoli. In realtà è proprio lo sviluppo del culto dei santi che aveva contribuito, sin dal Medioevo, ad incrementare notevolmente i percorsi di pellegrinaggio devozionale. Tale pratica aveva favorito lo sviluppo di numerosi flussi migratori in tutto il bacino del Mediterraneo nonché a collegare differenti territori attraverso la nascita di basiliche martiriali e cimiteriali, già in epoca tardo romana, nonché a stabilire luoghi della memoria e della venerazione, in particolare connessi al sepolcro di Cristo in Terrasanta, a cui erano dirette le principali direttrici di pellegrinaggio. Ovviamente la meta in Terrasanta trovava riscontri e collegamenti anche con altri importanti santuari di culto come la cattedrale di Canterbury in Inghilterra, Mont-Saint-Michel in Normandia ed ancora San Michele in Val di Susa (Fig. 1) senza escludere ovviamente la tomba dell’apostolo Giacomo a Santiago de Compostela, simbolo della riconquista cristiana da cui il Cammino di Santiago. Tuttavia il fenomeno del pellegrinaggio, sin dai primi tempi dell’era cristiana, si era fondato sul bisogno di venerare i luoghi dei santi mediante una condivisione diretta del sito e quindi attraverso una percezione tangibile e pertanto visiva. In realtà questo aveva favorito differenti forme di pellegrinaggio nonché caratterizzato le stesse mete in diverse tipologie: luoghi narrati nella Sacre Scritture, luoghi santificati, santuari contenenti importanti sepolture di martiri, paesaggi sacri identificati dalle tradizioni locali1. Ovviamente le principali mete erano la Terrasanta ed i santuari delle tombe apostoliche romane in Roma. Il viaggio a Gerusalemme, città ideale della chiesa dei pellegrini ed immagine della Jerusalem coelestis, a partire dall’alto Medioevo costituirà una meta che non si interromperà mai. A partire dalla fine del IV secolo d.C. importanti furono i numerosi resoconti di viaggi che descrivevano ed illustravano i vari itinerari sia per terra che per mare, nonché i differenti santuari da visitare contribuendo a costruire una prima forma di guida dei luoghi sacri in grado di documentare anche quanto descritto nei Vangeli.

1 F. Panzeri, R. Righetto, Santuari, Lindau, Torino, 2010.

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Certamente i momenti di maggiore intensità del pellegrinaggio cristiano sono coincisi con quelle fasi davvero drammatiche della storia dei santuari. Un caso esemplare l’anno 1009 che coincide con la grande devastazione del Santo Sepolcro di Gerusalemme da parte del califfo del Cairo al-Hakim, a seguito del quale da ogni parte d’Europa enormi masse di pellegrini si erano messe in viaggio per giungere in Terrasanta e proteggere il luogo sacro2. Certamente era anche in queste occasioni che il pellegrinaggio costituiva un momento importante di meditazione, di condivisione collettiva e di sollecitazione per rinnovare un messaggio di vicinanza al Regno dei Cieli. Non va dimenticato però che queste stesse forme di viaggio erano state promotrici di ben altre azioni come quelle delle Crociate promosse sulle coste mediorientali del Mediterraneo3. Lungo queste direttrici […] i segni lasciati dal passaggio dei viandanti erano tangibili: case di spiritualità e di accoglienza, progetti di carità e formazione, ospedali e scuole, chiese e parrocchie, luoghi dedicati alla memoria […]4. Era queste solo alcune delle principali funzioni sviluppatesi luogo le direttrici di pellegrinaggio per accogliere ed assistere i viandanti e da cui anche la nascita di istituzioni di assistenza medica proprio all’interno delle strutture monastiche con le prime istituzioni di centri studi medici tra cui si annota la Scuola Medica Salernitana in Italia meridionale nella città di Salerno fortemente caratterizzata dalla cultura longobarda.

Fig. 1. Pellegrini in San Michele in Val di Susa (© 2012, autore del testo)

Roma certamente costituiva una meta importante, dopo la Terrasanta, dove i pellegrini confluivano da ogni parte dell’Europa per visitare e venerare le reliquie dei martiri cristiani nonché conoscere direttamente i luoghi di sepoltura. Ampiamente documentato in epoca longobarda fu il pellegrinaggio verso Roma che riscontrò un periodo di dura crisi subito dopo il crollo dell’impero carolingio (800-888 d.C.), riprendendo poi nuovamente vigore subito dopo la riforma della Chiesa nell’XI secolo. Con la proclamazione da parte di Papa Bonifacio VIII del primo Anno Santo nel 1300 il pellegrinaggio verso Roma si intensificò nuovamente 2 F. Cardini, Gerusalemme. Una storia, Il Mulino, Bologna, 2012; F. Cardini, In Terrasanta Pellegrini italiani tra Medioevo e prima età moderna, Il Mulino, Bologna, 2002. 3 O. Niglio, Akko, città del Mediterraneo. Storia di un insediamento pisano in Medio Oriente, in T. Colletta (a cura di), “Città portuali del Mediterraneo e la rete di colonie di mercanti stranieri. I luoghi dello scambio commerciale tra Medioevo ed Età moderna”, FrancoAngeli Editore, Milano, 2012, pp. 29-38; O. Niglio, San Juan de Acres (Akko), la perla del Mediterráneo, in APUNTES, revista de la Pontificia Universidad Javeriana, Facultad de Arquitectura y Diseño, Bogotá, 2009, vol. 22, n. 2, pp. 116-123. 4 M. Signoretto, Cittadini del cielo. Pellegrini sulla terra. Guida ai luoghi, ai volti e carismi in Verona, Fedele, Verona, 2016, p. 7.

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con l’istituzione degli anni giubilari. Tra tutte le direttrici che conducevano a Roma, la strada per eccellenza fu la via Francigena5. Certamente a livello europeo la via Francigena, storicamente detta “via che viene dalle France” rappresentava e rappresenta tutt’oggi una delle principali direttrici di pellegrinaggio che collegano la Gran Bretegna, la Francia, la Svizzera e l’Italia mediante un percorso che trova in sé molteplici ramificazioni. Sin dall’epoca medievale, infatti, questa direttrice aveva rappresentato una delle tre peregrinationes maiores insieme a Santiago de Compostela e alla Terrasanta (Fig. 2).

Fig. 2. Pellegrini in viaggio.“Cronache”. Lucca secolo XIV. Archivio di Stato di Lucca

2. Complesso di San Frediano in Lucca Lungo la direttrice Francigena una tappa fondamentale è stata sempre rappresentata dalla città di Lucca dove trova sede l’affascinante leggenda dell’irlandese Fridian, da cui il nome Frediano, vescovo di Lucca fondatore anche dell’omonima chiesa e del suo convento. Il convento di San Frediano, le cui origini risalgono al VI secolo, sin dal XVI secolo fu anche luogo di ospitalità per tanti intellettuali europei di spirito libero da cui il gruppo evangelico di San Frediano. Dopo diversificate trasformazioni il convento oggi conserva il suo spirito di accoglienza originario attraverso nuove funzioni quali un ostello ed un’area di ristoro. Un primitivo insediamento monastico è documentato sin dal VI secolo ed intitolato a San Vincenzo e secondo la tradizione sarebbe stato voluto proprio dal vescovo irlandese Frediano. Con maggiore certezza si conoscono i lavori compiuti per il monasterium S. Vincentii et Frediani a partire dal 685 d.C. ricordati anche in documenti medievali conservati presso l’Archivio Arcivescovile di Lucca che testimoniamo la presenza di ampi possedimenti terrieri6. Il progetto per la nuova chiesa ebbe luogo a partire dal 1112 e l’immagine attuale è il risultato di importanti trasformazioni che l’intero complesso subì nel corso dei secoli, fino a tutti i giorni odierni.

5 A. Vittorelli, Historia de’ giubilei pontificii celebrati ne’ tempi di Bonifacio VIII, Roma, 1625. Copia conservata presso la Bibliotheque J.S. Las Fontaines, Chantilly, Francia. 6 I. Belli Barsali, Lucca. Guida alla città, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1988, p. 222.

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Fig. 3. Complesso di San Frediano in Lucca (© 2016, autore del testo)

Risulta interessante in questa sede, e per il tema che questo contributo si è prefissato di elaborare, evidenziare una particolarità collegata al convento di San Frediano quale luogo di accoglienza all’interno della via Francigena e non solo. A partire dal XVI secolo il priorato dei Canonici di San Frediano venne unito alla Congregazione dei Canonici Lateranensi e la chiesa e il monastero passarono sotto la giurisdizione della Congregazione riformata di Santa Maria di Fregionaia. In questo periodo il convento assunse un ruolo molto importante nell’ambito della diffusione delle dottrine ecclesiastiche e tutto questo favorito anche dalla presenza di numerosi pellegrini del nord Europa che sostavano in Lucca per poi proseguire verso Roma. Tali dottrine ecclesiastiche praticate in San Frediano erano, per i tempi e non solo, molto riformiste ed innovative. In realtà la Repubblica di Lucca non ostacolò mai la diffusione e gli studi di tali dottrine anche se la posizione della Chiesa di Roma fu molto intransigente e non esitò a più riprese a reprimere questi studi e a fare pressioni per bandire gli eretici riformisti dal convento di San Frediano, alcuni dei quali poi si rifugiarono a Ginevra. Tuttavia risulta interessante annotare che nella città di Lucca, nonostante questa situazione non fu mai praticata l’inquisizione e mai fu registrata la presenza dell’ordine gesuitico che non mancò di manifestare a più riprese dissensi nei confronti degli studi praticati a Lucca in San Frediano7. In particolare nel 1541 il teologo agostiniano Pier Martire Vermigli, priore in Napoli, fu accusato dal Santo Uffizio di simpatie nei confronti di studi ritenuti eretici. Per questo gli fu consigliato di raggiungere la città di Lucca e di rifugiarsi in San Frediano dove da tempo ospitava numerosi intellettuali in contatto con gruppi liberali europei. Vermigli raggiunse 7 R. Silva, La Basilica di San Frediano in Lucca: urbanistica, architettura, arredo, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1984.

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Lucca dove ebbe la opportunità di continuare i suoi studi e di dare anche diffusione alle sue innovative idee in ambito ecclesiastico. Alcuni di questi studiosi aderirono poi alla riforma luterana e non è un caso che la Bolla di Papa Paolo III Licet ad initio del 1542, che per l’appunto istituì l’inquisizione, menzionava la città di Lucca ed in particolare San Frediano come il luogo di ritrovo e di diffusione di idee innovatrici e dei testi luterani8. Con la prima soppressione dei conventi in epoca napoleonica e precisamente tra il 1798 ed il 1799 il convento di Fregionaia fu incluso nella lista dei beni ecclesiastici che passarono al governo napoleonico e quindi alla città. In realtà la repubblica di Lucca sin dal 1770 aveva valutato di destinare questi spazi allo studio universitario e come confermato anche dal Papa Pio VI nel 1779 la soppressione del convento doveva prevedere proprio la costituzione del nuovo complesso universitario. Nel 1783 il Consiglio nominò una commissione per provvedere all'organizzazione del Real Collegio di Lucca e quindi dell’Università e del Ginnasio9. L’inaugurazione avvenne nel 1785 ma i primi concreti sviluppi si avviarono solo nel 1802, grazie ad alcuni lasciti destinati alla pubblica istruzione. In questa epoca fu edificato lo stabile in via della Cavallerizza, destinato a sede della Biblioteca Pubblica poi traslocata circa un secolo dopo nell’ex Convento di Santa Maria Corteorlandini dove si trova tuttora la Biblioteca Statale di Lucca. Lo stabile di via della Cavallerizza dopo diversi anni di abbandono, con i finanziamenti del Giubileo del 2000, è stato oggetto di un primo importante restauro che ha consentito di riconfermare quel ruolo di ospitalità ad un luogo che sin dalle sue origini aveva assunto questa funzione in quanto meta di pellegrinaggi nonché rifugio di intellettuali da tutta Europa. Questa particolare funzione ricettiva è oggi riconfermata da una struttura alberghiera per giovani viaggiatori, e non solo, che raggiungono Lucca seguendo le tracce dell’antica via Francigena, valorizzando così un itinerario naturalistico e culturale che attraversando l’Europa e l’Italia consente di ripercorrere la storia del nostro continente giungendo fino alle porte delle mura della città di Lucca (Fig. 4).

Fig. 4. Mura della città di Lucca. Piattaforma San Frediano tra il baluardo Santa Croce e porta Santa Maria (© 2016, autore del testo)

8 M. Tazartes, Artisti e committenti ai primi del Cinquecento in San Frediano di Lucca, Bulzoni, Roma, 1983. 9 F. P. Luiso, Il Real Collegio e i locali del Ginnasio di Lucca, Amedei, Lucca, 1920.

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L’intervento di riconversione funzionale dell’ex complesso conventuale di San Frediano e dell’ex Real Collegio, quale luogo di ricettività e di accoglienza per eventi culturali, consente di evidenziare, in questo contesto, anche un tema molto avvertito a livello ecclesiastico e che riguarda in particolare gli Ordinamenti della CEI del 1992 in relazione al riuso dei beni culturali di interesse religioso10. In dettaglio tali ordinamenti affermano l’importanza di un mutamento funzionale, la diretta fruibilità ed accessibilità nonché la conservazione integrale, anche per uso pubblico, di beni ecclesiastici non più attivi con il fine di garantire la continuità del bene e non la sua perdita per sottoutilizzazione o abbandono. Tali direttive sono state alla base del programma di conservazione e valorizzazione del complesso di San Frediano in Lucca, meta di nuovi pellegrini da tutto il mondo e sede di interessanti scambi interculturali che hanno confermato il valore delle antiche ed originarie funzioni. Bibliografia

I. Belli Barsali, Lucca. Guida alla città, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1988. F. Cardini, Gerusalemme. Una storia, Il Mulino, Bologna, 2012. F. Cardini, In Terrasanta Pellegrini italiani tra Medioevo e prima età moderna, Il Mulino, Bologna, 2002. F. P. Luiso, Il Real Collegio e i locali del Ginnasio di Lucca, Amedei, Lucca, 1920. M. Madonna, Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. La tutela dopo l’inteso del 26 gennaio 2005, Marcianum Press, Venezia, 2007. O. Niglio, Akko, città del Mediterraneo. Storia di un insediamento pisano in Medio Oriente, in T. Colletta (a cura di), “Città portuali del Mediterraneo e la rete di colonie di mercanti stranieri. I luoghi dello scambio commerciale tra Medioevo ed Età moderna”, FrancoAngeli Editore, Milano, 2012, pp. 29-38. O. Niglio, San Juan de Acres (Akko), la perla del Mediterráneo, in APUNTES, revista de la Pontificia Universidad Javeriana, Facultad de Arquitectura y Diseño, Bogotá, 2009, vol. 22, n. 2, pp. 116-123. F. Panzeri, R. Righetto, Santuari, Lindau, Torino, 2010. M. Signoretto, Cittadini del cielo. Pellegrini sulla terra. Guida ai luoghi, ai volti e carismi in Verona, Fedele, Verona, 2016, p. 7. R. Silva, La Basilica di San Frediano in Lucca: urbanistica, architettura, arredo, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1984. A. Vittorelli, Historia de’ giubilei pontificii celebrati ne’ tempi di BonifacioVIII, Roma,1625. M. Tazartes, Artisti e committenti ai primi del Cinquecento in San Frediano di Lucca, Bulzoni, Roma, 1983.

10 M. Madonna, Patrimonio culturale di interesse religioso in Italia. La tutela dopo l’inteso del 26 gennaio 2005, Marcianum Press, Venezia, 2007, p. 40.

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Stazioni di posta del Granducato di Toscana nel XVIII secolo: varianti locali e sviluppi funzionali

Fabiana Susini Università di Firenze – Firenze – Italia

Parole chiave: Granducato di Toscana, viabilità, stazioni di posta, ospitalità. 1. La rivoluzione del sistema postale toscano La Sovrintendenza Generale delle Poste venne istituita nel Granducato di Toscana nel 1607 a seguito di un provvisione del Granduca Cosimo I de Medici del 1566, con la quale si stabiliva che la gestione delle Poste fosse concessa a gente abile e fidata sotto un controllo diretto dello Stato. Tuttavia, un riordinamento vero e proprio dell‟organizzazione postale si ebbe solo con l‟avvento della casa asburgica: già nel 1737 venne realizzato un Piano generale e nel 1783 la proprietà e la gestione passò alla Direzione Generale delle Poste. La rivoluzione dell‟organizzazione postale approntata in Toscana dal governo lorenese comportò il miglioramento dei servizi connessi al trasporto di persone, merci e corrispondenza attraverso le cosiddette poste-cavalli situate, fin dal XVI secolo, lungo tutte le principali arterie di transito, le cosiddette Strade Postali. Queste strutture furono controllate strettamente dall‟apparato statale che se ne serviva a sostegno dei propri corrieri: il servizio consisteva nell‟installazione a distanze regolari di stazioni fisse gestite da postieri e adibite a consentire la sostituzione dei cavalli, oltre a essere luogo di ristoro e pernottamento per i viaggiatori1. Sulle strade di Toscana, le stazioni di posta vennero inizialmente collocate all‟interno di edifici che già assolvevano a funzione di accoglienza, come antiche locande o vecchie osterie. Trattandosi di edifici pubblici dovevano rispettare alcuni criteri basilari come quello della visibilità anche da lontano e della facciata con l‟insegna: la riconoscibilità dell‟edificio infatti, attraverso l‟apposizione dei vessilli granducali che ne designavano la proprietà, era da considerarsi una sorta di tutela per i viaggiatori. Per quanto riguarda la tipologia architettonica, essi non differivano molto gli uni dagli altri ma, nei casi peggiori, potevano anche presentarsi come semplici stalle o pagliai. Il modello progettuale più diffuso, con le dovute varianti locali, era semplice e compatto e fornito degli annessi indispensabili. Usualmente cucina, rimessa e stalle si trovavano a pian terreno, mentre le camere da letto e i „luoghi comodi‟ [bagni] erano distribuiti ai piani superiori; ai fienili era spesso riservata l‟area del sottotetto, più asciutta. Generalmente le soluzioni planimetriche di tali stazioni tenevano conto dell‟esigenza di separare gli spazi destinati agli animali da quelli riservati al ristoro e al pernottamento dei viaggiatori, ma purtroppo a volte, a causa dell‟esiguità degli spazi, questo non era possibile. Questo contributo descriverà alcune stazioni postali pertinenti ad aree diverse del Granducato di Toscana; l‟analisi delle planimetrie e della distribuzione degli

1 Questo contributo è il risultato di una selezione dei risultati emersi dalla tesi di dottorato dell‟autrice, I luoghi dell’accoglienza in Toscana nei secoli del Grand Tour: ospitalità, termalismo, villeggiatura, discussa nel 2015 presso il dipartimento di architettura (DIDA) dell‟Università degli Studi di Firenze. Per i riferimenti documentari si fa qui riferimento a L. CANTINI, Legislazione Toscana, Firenze 1802, vol. VI; G. PRUNAI, Firenze (sec. XII-1808), Milano, Giuffrè, 1967. Sull‟organizzazione postale in Toscana in età moderna si vedano: G. PANSINI, Direzione delle poste. Archivio di Stato di Firenze, in Guida generale degli Archivi di Stato, II, Roma, Ipzs, 1983; F. SCARSO, L’organizzazione postale del granducato di Toscana (1681-1808), tesi dottorale, Istituto universitario navale di Napoli, 1996; S. CHIEPPI, I servizi postali dei Medici dal 1500 al 1737, Firenze, Servizio editoriale Fiesolano, 1997; V. ALFANI, Toscana: organizzazione postale dal 1700 al 1851, Firenze, Florence center, 2007; SUSINI F., Il sistema delle stazioni di posta nel Granducato di Toscana nel XVIII secolo: architetture, funzionalità, paesaggi. In: „Archivio per la Storia Postale. Comunicazioni e società‟, a cura dell‟Istituto di Studi Storici Postali, Prato, anno XV, n. 7 N.S. (36 V.S.), 2015, pp. 9-90.

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ambienti ha permesso l‟individuazione di varianti locali fisse e lo studio dei successivi sviluppi funzionali di tali edifici a partire dalla seconda metà del XVIII secolo. 2. Antiche osterie e nuovi edifici per l’accoglienza nel Granducato tra XVII e XVIII secolo Agli inizi del XVIII secolo la situazione delle strutture di accoglienza lungo le strade del Granducato si presentava come poco specializzata: le vie di maggiore percorrenza erano caratterizzate dalla presenza di numerose locande, osterie e rudimentali stazioni di posta per il cambio cavalli, regolamentate dall‟Amministrazione statale. 2.1 L’area dell’Appennino

Muovendosi da Firenze in direzione Bologna sulla vecchia strada postale Bolognese passante per il Giogo, la prima stazione di posta si trovava ad Uccellatoio, che rimase in uso fino al 1755: questo era un edificio molto grande e ben sviluppato su tre livelli, disposto in continuità al margine della strada. Al seminterrato si trovavano le scuderie, al primo piano vi erano le cucine, una sala centrale, le camere disposte in linea lungo due corridoi e i bagni alle due estremità dell‟edificio; il secondo livello era organizzato allo stesso modo, ma privo di cucine2. Altra sosta possibile su questa strada era quella alla posta del Giogo: l‟edificio era molto più piccolo rispetto a quello di Uccellatoio per cui gli spazi riservati agli animali erano mescolati agli ambienti destinati all‟alloggiamento delle persone: la stanza di ingresso era dotata di grande camino per riscaldarsi e permetteva il ricovero dei cavalli nelle stalle contigue. A piano terra erano presenti due camere assieme alle cucine, alle cantine e al fienile; una scala conduceva al piano a tetto dove era presente la sala comune attorno alla quale si disponevano quattro camere, di cui due con camino e altri ambienti di servizio (Fig. 1). In linea generale le stazioni di posta dell‟area appenninica erano caratterizzate dalla presenza di portici o androni di ingresso con grandi camini per accogliere viaggiatori e carrozze al riparo dalle intemperie e dalle rigide temperature; le camere, spesso comuni, erano spoglie ed essenziali, mentre i servizi igienici erano rilegati ad un solo luogo comodo per piano. 2.2 L’area del senese

Sulla strada Romana che da Firenze portava a Roma passando da Siena sussistevano numerosissime strutture dedicate all‟accoglienza, per lo più essenziali, ma ben distribuite e funzionali alle esigenze dei viaggiatori: l‟edificio della posta di Radicofani, invece, emerse su tutti gli altri per ampiezza, organizzazione interna e destinazione d‟uso. Fin dalla fine del Cinquecento, l‟ultima posta dei cavalli in territorio toscano sul tratto Siena-Roma era quella situata sul valico di Radicofani: fu il Granduca Ferdinando I a far costruire una grande osteria e albergo per i viaggiatori, utilizzando in parte una casa di caccia eretta in precedenza dal granduca Francesco I. Anche se la struttura non sembra essere stata edificata prima del 1587, nel 1583 esisteva una pianta di quella che in seguito divenne l‟Osteria Grossa o la Posta costruita su progetto del Buontalenti e di Simone Genga3. Nel 1589 l‟osteria era già in funzione: vi pernottò Sebastiano Corradus che la descrisse come „extructum a Ferdinando duce comodo viatorum’4. Nel 1676 il visitatore granducale Bartolomeo Gherardini descriveva

2 Per la descrizione di questo e dei successivi edifici postali, si è fatto riferimento alle planimetrie conservate in ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE, d‟ora in poi ASFI, Piante dello Scrittoio delle Regie Possessioni, Scrittoio Fortezze e Fabbriche Lorenesi, Piante Miscellanea. 3 G. C. ROMBY, La Posta granducale di Radicofani. Avvio di un percorso di ricerca tra storia e architettura, in «De strata francigena», 19. 2011, 1/2, pp. 125-129; la studiosa non riporta i riferimenti documentari in merito. 4 Ivi, p. 125.

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l‟Osteria come „una fabbrica grande e bella atta a ricevere qualunque personaggio e gran quantità di gente e cavalli‟5. La posta di Radicofani è l‟edificio più vasto costruito lungo questa viabilità, con un corpo di fabbrica di impianto rettangolare che si sviluppava su quattro livelli. Al piano terra si trovavano le stalle, i saloni di ingresso, le cucine, le sale da pranzo.

Fig. 1 In alto: Archivio di Stato di Firenze, d’ora in poi ASFI, Piante dello Scrittoio delle Regie Possessioni, Tomo 2, Pianta n. 1. Prospetto e piante della posta dell’Uccellatoio di Sua Maestà Imperiale in oggi dismessa fatta l’anno 1755. In basso: ASFI, Piante dello Scrittoio delle Regie

possessioni, Tomo 4, Piante 69/1-69/2- Piante e prospetto della posta del Giogo.

5 ARCHIVIO DI STATO DI SIENA, Manoscritti D 82-93, «Visita fatta alle città terra e castella, comuni e comunelli dello stato e della città di Siena dall‟Illustrissimo Signore Bartolomeo Gherardini»; copia più tarda iniziata nel Dicembre 1724 e terminata nel Febbraio 1725, eseguita – come si evince dal frontespizio - dal “Prete Tommaso del G. Piero Mocenni parroco di S. Niccolò a‟Maggiano presso la Città di Siena”.

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Fig. 2 ASFI, Scrittoio Fortezze e Fabbriche, Fabbriche Lorenesi n. 2054. Terreni e Fabbriche a Radicofani spettanti all’I. e R. Scrittoio delle Fabbriche, Filippo Nini 1815.

Al primo livello erano alloggiati due grandi saloni, uno dei quali si affacciava sul loggiato, l'appartamento dei gestori, la Cappella Regia della Santissima Annunziata e le camere importanti. Al piano successivo trovavano posto due saloni, le stanze per la servitù e le camere per l'ospitalità più semplice. Il disimpegno delle funzioni era risolto con il grande atrio al piano terreno che serviva anche come spazio comune (Fig. 2). 3. Nuove stazioni per nuove viabilità

Con l‟avanzare del XVIII secolo, per rispondere ad una sempre crescente domanda di servizi e architetture per l‟accoglienza e con l‟apertura di nuovi tracciati viari, vennero progettati fabbricati più funzionali dedicati all‟alloggiamento; se alcuni di questi vennero adattati all‟interno di strutture già esistenti, altri vennero costruiti ex novo. 3.1 La nuova via della Futa

Con la costruzione della nuova via della Futa, per attraversare più velocemente gli Appennini, si sentì la necessità di fabbricare nuove strutture destinate all‟ospitalità dei viaggiatori. A Fontebuona venne istituita una nuova stazione di posta che prese il posto della più antica posta dell‟Uccellatoio: il complesso era costituito da tre fabbricati, di cui il primo adibito a posta e osteria, l‟altro situato di fronte ad uso di rimessa e l‟ultimo ad uso di cappella. La stazione di posta situata a Covigliaio si sviluppava su tre livelli con ampio portico di accesso che serviva anche per rimessa delle carrozze da cui si accedeva allo stallone per i cavalli. A piano terra erano presenti i locali di servizio, mentre i viaggiatori accedevano alla locanda attraverso una stanza di ingresso dotata di camino, dalla quale una scala portava subito al primo piano che, forse a causa dell‟esiguità degli spazi, si presentava „ibrido‟ per la contemporanea presenza di ambienti di servizio per gli animali e le camere per il pernottamento; il secondo piano era destinato all‟accoglienza esclusiva dei viaggiatori con sei camere da letto. I luoghi comuni, in numero di due, erano disposti in aggetto al primo e al secondo livello dell‟edificio (Fig. 3).

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Fig. 3 A sinistra: ASFI, Scrittoio delle Regie Possessioni, n. 2604 (1853) Posta di Fontebuona. Sviluppi dei fabbricati. A destra: ASFI, Scrittoio Fortezze e Fabbriche, Fabbriche Lorenesi, n. 2774,

Piante della fabbrica della posta di Covigliaio. .

3.2 La nuova via Pistoiese- Modenese

La nuova strada voluta dal Granducato Lorenese che collegava Firenze a Modena era stata concepita per incrementare i traffici della Toscana con le regioni settentrionali; per questo fu dotata di molte strutture atte ad accogliere commercianti e viaggiatori con una successione di poste, osterie e locande dislocate ad intervalli regolari. Sulla nuova tratta Pistoia-Modena furono realizzate quattro nuove stazioni di posta con locanda: Le Piastre, Boscolungo, Piano Asinatico e San Marcello. Il disegno della fabbrica della posta con locanda di Boscolungo faceva parte dei progetti di Leonardo Ximenes effettuati nel 1776 per la strada reale pistoiese; a partire dal 1782 nel complesso fu insediata anche la dogana su progetto dell‟architetto Bernardo Fallani. Per assicurare i servizi religiosi al personale ed ai viaggiatori fu costruita la chiesa intitolata a San Leopoldo, in onore al granduca Pietro Leopoldo promotore della grande opera transappenninica. Dalla pianta consegnata a Cosimo Bacci postiere e locandiere nel 1784, è possibile osservare l‟organizzazione del complesso posta-locanda-dogana che si articola in due blocchi separati che si affacciano sulla strada. La distribuzione dei locali è funzionale all‟uso: portico con stalle, cantine e cucine a piano terra, salotti e camere e luoghi comodi per gli ospiti al piano superiore. Il complesso della posta e locanda di San Marcello era molto ambizioso e razionalmente ben organizzato: si sviluppava in due blocchi contrapposti sulla strada regia con la locanda e gli uffici da una parte e dall‟altra le scuderie. La fabbrica della posta e locanda, molto ampia, si sviluppava su tre livelli: l‟ingresso era circondato da due salotti con camino, cucina, dispense, stanze per la legna e carbone, cantine, beveratoio per cavalli, lavatoio e pollaio. Il primo e il secondo piano erano invece destinati al pernottamento: ognuno di esse presentava dieci camere libere, allineate da due gallerie centrali che si aprivano su due salotti con camino

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contigui e divisi da una scala centrale di accesso. Su entrambi i livelli un unico ambiente, sul prospetto ovest, era destinato a luogo comodo (Fig. 4).

Fig. 4 A sinistra: ASFI, Piante miscellanea, M. 12, 292 BIS, Piante della posta e dogana di Boscolungo. A destra: ASFI, Scrittoio Fortezze e Fabbriche, Fabbriche Lorenesi n. 2774. Piante

contratti inventari della Reali Poste dello Stato dal 1777 al 1793, Pianta della posta e locanda di San Marcello.

4. Conclusione

Il sistema delle stazioni di posta nel Granducato mediceo a partire dalla seconda metà del XVI secolo si mostrava già ben sviluppato e distribuito lungo le viabilità di maggiore percorrenza del territorio; si trattava tuttavia di strutture rudimentali, anguste, „ibride‟ e ben poco specializzate. Nel corso del XVIII secolo le locande e le nuove stazioni di posta, aperte in punti strategici della viabilità dal governo lorenese per il pernottamento o la semplice sosta, divennero poli di attrazione del territorio, capaci di fornire utili „servizi‟ non solo ai viaggiatori, ma anche agli abitanti del circondario. In conclusione, si sono distinte due fasi nell‟evoluzione delle strutture delle stazioni di posta: in un primo momento esse vennero inserite all‟interno di antiche osterie ed edifici già addetti all‟accoglienza; in questa prima fase, si ravvisano alcuni risultati architettonicamente eccellenti, sia dal punto di vista distributivo che funzionale, come la stazione dell‟Uccellatoio e quella di Radicofani. L‟ultima fiorente stagione delle stazioni di posta si ebbe a partire dall‟ultimo ventennio del XVIII secolo, quando il governo lorenese si prodigò per la costruzione di nuove strade e il miglioramento dei servizi sulle stesse. Molti di questi edifici, per la maggior parte costruiti ex-novo, sono giunti a noi senza subire sostanziali modifiche nel loro aspetto architettonico originario, spesso mantenendo intatta anche la loro funzione ospitale.

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Gli edifici di accoglienza sulle strade bellunesi tra metà Ottocento e primi del Novecento: caratteristiche architettoniche e paesaggio

Michelangelo De Donà Università di Pavia – Pavia – Italia

Parole chiave: alberghi, turismo, strade, Dolomiti, territorio, montagna. 1. Il caso della “Strada delle Dolomiti” Il progressivo arricchimento dell’offerta di accoglienza in provincia di Belluno si registra verso la fine dell’Ottocento1. Infatti alle persone che vi giungevano alla scoperta delle Alpi andò ad affiancarsi un consistente numero di villeggianti. Oltre ai rifugi, costruiti ai piedi delle cime più frequentate, sorsero numerosi alberghi nell’area del Cadore e poi i Grand Hotel di lusso. Cortina divenne la località più importante. Non trascurabile l’elenco delle personalità che trascorsero soggiorni estivi (basti pensare al Carducci e alla Regina Margherita), come non mancano interessanti descrizioni letterarie del tour alpino nelle località dolomitiche. L’attenzione del paper si concentrerà, per la sua dimensione internazionale, sulla “Strada delle Dolomiti” che collega Cortina a Bolzano. Tracciata per scopi militari divenne un’importante via turistica ed ebbe tra i suoi ideatori Theodor Cristomannos (1854-1911). Il suo motto «senza nessun hotel nessuna strada, senza nessuna strada nessun hotel» è molto interessante per lo sviluppo tematico qui proposto. Va però ricordata una precisazione storica. Con la nascita del Regno Lombardo-Veneto nei territori già veneziani della costa orientale adriatica si stabilì l’aggregazione diretta all’Impero asburgico. Sappada passò alla provincia di Belluno solo nel 1852, mentre il plebiscito dell’ottobre 1866 sanzionò l’annessione del Veneto al Regno d’Italia. La provincia mantenne questo assetto fino al 1923 quando vi fu l’annessione dell’Ampezzano, Colle Santa Lucia e Livinallongo2. 2. Theodor Christomannos e la valorizzazione del territorio con strade ed hotel

Attingendo al libro di Christomannos pubblicato nel 1909 dal titolo La Strada delle Dolomiti. Bolzano, Cortina, Dobbiaco3, troviamo l’indicazione delle tre tappe di questo percorso carrozzabile che valica tre passi: Costalunga, Pordoi e Falzarego. L’autore riporta anche i dati sui costi, sul cronoprogramma e sulla direzione ed esecuzione dei lavori4, nonché sulle lunghezze dei tracciati: «Da Bolzano a Cortina vi sono esattamente 112 chilometri; da Bolzano a Dobbiaco chilometri 142»5. L’autore sottolinea poi la peculiarità di questo territorio: «Dalle praterie verdi e dolcemente ondulate e fra mezzo ad oscure foreste sorgono e s’innalzano improvvise verso l’azzurro del cielo cime e picchi selvaggiamente irti di guglie

1 Cfr., Belluno, Storia di una provincia dolomitica. Dalla caduta di Venezia ai giorni nostri, a cura di P. Conte, Belluno-Udine, Provincia di Belluno-Forum, 2013, pp. 70-73. Vedi inoltre: A. Lazzarini, F. Vendramini, La montagna veneta in età contemporanea. Storia e ambiente. Uomini e risorse, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1991. 2 Cfr., Belluno, Storia di una provincia dolomitica, cit. Per un approfondimento anche dal punto di vista cartografico vedi: R. De Nard, Cartografia bellunese, saggio storico, Belluno, Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e Culturali, 1985; Cartografia storica dei territori bellunesi. Catalogo della mostra, a cura di R. De Nard, Belluno, Biblioteca civica di Belluno, 1988. 3 T. Christomannos, La Strada delle Dolomiti. Bolzano, Cortina, Dobbiaco, Brescia, Nordpress, 1999. 4 Ivi, p. 17. 5 Ivi, p. 15.

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gigantesche, mentre un mare di sole di luce inonda deliziosi altipiani…»6. Egli arriva ad una maggior incisività descrittiva, pur nella sua brevità perché i frequentatori di queste valli potranno ammirare e godere «del paesaggio incantevole, sul quale i Monti della luce‟, le Dolomiti, sorgono simili a costruzioni monumentali bianche ed enormi7.» Non manca inoltre il riferimento alla «profonda austerità e la melanconica grandezza di queste montagne8. Venendo alle località e agli edifici di accoglienza descritti da Christomannos si possono fornire alcuni esempi. Ad Arabba «che fino a poco tempo fa era un posto dimenticato da tutti, ci sono ora due alberghi che fanno ottima impressione, e presso i quali si fermano anche eleganti automobili postali»9. A Livinallongo si trovano «case, di quattro o cinque piani ciascuna, si ammucchiano l‟una accanto all‟altra e le strette viuzze lasciano a mala pena il passo a un veicolo. Una piccola piazza davanti la chiesa costituisce il solo tratto considerevole di terreno pianeggiante … Qui stanno i primi alberghi del villaggio»10. Si fa cenno inoltre al di sopra della borgata di Andraz alle rovine dell‟omonimo castello «che nei secoli passati serviva di soggiorno estivo ai vescovi di Bressanone»11. Altre veloci riferimenti li troviamo al passo Falzarego: «Un piccolo nuovo albergo e un piccolo ospizio del Comune di Ampezzo, posti a breve distanza dal passo, invitano al riposo e al ristoro»12. Infine l‟autore descrive Cortina «le cui case biancheggianti e i numerosi alberghi sembrano posti a protezione di un alto campanile. […] E‟ progettata la costruzione in un grande albergo sulla Crepa stessa, che schiuderà al traffico e al movimento dei forestieri l‟alta regione di Pocol, ugualmente adatta al soggiorno estivo e a quello invernale, e farà di Cortina una stazione di primo ordine»13. L‟autore si sofferma sulle ragioni di attrazione di questo luogo: «Omnibus postali, equipaggi privati e carrozze d‟ogni specie portano sempre nuova gente […] Davanti agli alberghi che danno sulla strada siedono numerosi i viaggiatori e i turisti che qui convengono e consumano i loro pasti tranquillamente di fronte all‟incessante movimento»14. Con riferimento specifico ai numeri apprendiamo che «Cortina, allora sotto l‟Austria, già nel 1901, disponeva di 17 alberghi (alcuni di grandi dimensioni) con 530 letti. L‟offerta turistica ampezzana poggiava saldamente sul binomio alberghi-alloggi privati, con netta prevalenza dei primi sui secondi. Stava anche affermandosi una ricettività complementare con rifugi e punti di sosta costruiti dai Club Alpini tedeschi»15. E‟ possibile ricostruire molti aspetti negli anni precedenti grazie alle opere degli inglesi Gilbert e Churchill che tra poco vedremo, ma anche The Alpine Guide (1868) di John Ball, Untrodden Peaks andm Unfrequented Valley (1873) di Amelia Ann Blandord Edwards. 3. L’accoglienza tra le montagne dolomitiche: l’esplorazione di Gilbert e Churchill

Il volume The Dolomiti Mountains. Excursions through Tirol, Carinthia, Carniola e Friuli in 1861, 1862, & 186316 rappresenta un importante punto di riferimento per lo studio storico 6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 Ivi, p. 16. 9 Ivi, p. 23. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 24. 12 Ivi, p. 25. 13 Ivi, p.26. 14 Ibidem. 15 La società e l’economia bellunese nei primi decenni del Novecento. Documenti d’archivio, rapporti e statistiche camerali, a cura di G. Larese e M. Sandi, Belluno, Camera di Commercio Belluno, 2012, p. 248. 16 J. Gilbert e G. C. Churchill, The Dolomiti Mountains. Excursions through Tirol, Carinthia, Carniola e Friuli in 1861, 1862, & 1863, London, Longman, Green, Longman, Roberts, & Green, 1864. Cfr. J. Gilbert e G. C.

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sulla nascita del turismo alpino in area dolomitica. Basta scorrere le pagine scritte dal pittore Josiah Gilbert e dal naturalista George Cheetham Churchill per rendersene conto e coglierne gli elementi descrittivi più interessanti. Così, ad esempio, la ricerca di una sistemazione a Caprile dove i nostri individuano: «Un basso edificio con le persiane verdi, al margine del villaggio, non lontano dalla chiesa [..] stanze basse, poco pulite e letti scomodi [...]. L‟ingresso, in parte cantina, in parte stalla, aveva un aspetto assai poco promettente». Gilbert e Churchill però aggiungono subito che al secondo piano «ci fu aperta una serie di stanze quasi elegantemente fornite di mobili in noce, con le pareti dipinti e i pavimenti ben lucidati, mentre un balcone in ferro battuto, sporgente sulla strada, metteva in mostra dei vasi di geranei e di oleandri»17. Di Cortina vengono indicati come luogo di riposo e di ristoro: Stella d’oro «piccola ma confortevole», Aquila nera «ben più dotata quanto a stanze» e Kellnerin con un‟ottima sistemazione e accoglienza molto diversa rispetto a Caprile: «Gli ampi piani erano pulitissimi, letti e mobilio raffinati nella loro nitidezza, fiori ornavano la saletta di ricevimento e sulle pareti c‟erano degli eccellenti dipinti»18. A Buchentein (Pieve di Livinallongo) si trovano «due locande, la migliore, quella di Finazzer, comprende anche una piccola bottega»19. Un nuovo passaggio a Caprile segna un cordiale benvenuto alla locanda della famiglia Pezzès: «Cortina ci aveva accolti con molta grazia, Caprile con affetto. Le stanze erano tutte linde e ben ammobiliate. […] Ogni nostro più piccolo desiderio, manifestato l‟anno precedente, era stato tenuto presente e soddisfatto con così premurosa cura da restarne commossi»20. Un eccellente alloggio venne trovato anche a San Nicolò «una casa di campagna pulita e ordinata, con una nitida cucina»21. Un cenno merita infine Agordo con due osservazioni. La prima riguarda la sistemazione: «Il nostro albergo, costruito su pesanti arcate, occupa quasi tutto un lato della piazza. Si tratta del più squallido fabbricato che si possa immaginare ma offre, salite tre sudicie rampe di scale in pietra, due grandi appartamenti, decentemente arredati, con ampia veduta dalle finestre»22. La seconda osservazione è sul paese nel suo insieme: «Agordo è la più piacevole cittadina di montagna che ci sia capitato di visitare»23. 4. Brevi cenni su altri ipotesi di studio

Un breve cenno conclusivo meritano alcuni altri casi di grande interesse per il territorio bellunese. Ad esempio gli ospizi che sorsero lungo il Canale di Agordo: Vedana, Agre e Candaten ceduti dai canonici della cattedrale di Belluno ai padri certosini con un'apposita foresteria. Di fatto i tre ospizi furono ceduti ai privati che in base ad un'antica consuetudine dovranno ospitare e rifocillare i viandanti. Andrea Segato acquisterà la maggior parte dei beni dell'ex certosa mentre nel 1862 aveva già costruito l'albergo “La Stanga” nell'omonima località24 (se ne trovano varie registrazioni: casa colonica, fabbricato urbano e casa villeggiatura). E ancor si può ricordare, al centro del canale del Mis, in località Gena Bassa,

Churchill, Le montagne dolomitiche. Escursioni attraverso il Tirolo, la Carinzia, la Carniola e il Friuli nel 1861, 1862, & 1863, Belluno, Nuovi Sentieri, 2002. 17 J. Gilbert e G. C. Churchill, Le montagne dolomitiche, cit., p.129. 18 Ivi, p. 140. 19 Ivi, p. 339-340. 20 Ivi, p. 352. 21 Ivi, p. 355. 22 Ivi, p. 360. 23 Ivi, p. 361. 24 Cfr. G. De Vecchi, La Stanga di Sedico. Storia di una località, di un albergo e di Giuseppe Zanelle straordinario imprenditore, Rasai di Seren del Grapa, DBS, 2012.

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l'albergo “Valle del Mis”25 che rappresentava l'unico punto d'appoggio per la salita ai monti vicini. Da questa analisi non va tralasciato il fatto che la maggior parte dei commerci veniva attraverso il Piave (zattieri), mentre l'isolamento del bellunese è dovuto alla mancanza o all'impraticabilità delle strade. Nel periodo storico preso in considerazione si può infine segnalare, in Comelico e in molti comuni del Cadore, l'introduzione della pratica di demolire i fabbricati in legno per riedificare a muro interi villaggi, con una trasformazione radicale nello sviluppo architettonico e urbanistico. 5. Conclusioni

La rinascita dopo la fine della prima guerra mondiale procedette in modo lento e faticoso anche per l‟arretratezza economica dell‟aera bellunese. Dal punto di vista della dotazione di alberghi la situazione non era delle migliori: «Belluno dava alloggio a chi decideva di pernottarvi in attesa di raggiungere il Cadore o Cortina oppure perché, come centro burocratico provinciale, presentava molti uffici statali. La guida Touring del 1920 elenca in totale 48 alberghi, una buona parte dei quali distrutti o inagibili. Tre su quattro appartenevano ai comuni non ancora annessi alla provincia di Belluno. Se Cortina faceva (e lo fa anche oggi) la parte da leone, la ricettività di Feltre e Belluno era discreta. Si raccomandavano il Delle Alpi e il Cappello nel capoluogo, il Tre Corone e il Doriguzzi a Feltre, ma anche Agordo e Alleghe erano ben dotati»26. La perla delle Dolomiti era comunque dotata delle strutture alberghiere di lusso più grandi, oltre che dotate di numerosi servizi: 370 posti letti complessivi tra il Miramonti27, il Cristallo28 e il Tre Croci. Bibliografia

T. Christomannos, La Strada delle Dolomiti. Bolzano, Cortina, Dobbiaco, Brescia, Nordpress, 1999. J. Gilbert e G. C. Churchill, The Dolomiti Mountains. Excursions through Tirol, Carinthia, Carniola e Friuli in 1861, 1862, & 1863, London, Longman, Green, Longman, Roberts, & Green, 1864. Id., Le montagne dolomitiche. Escursioni attraverso il Tirolo, la Carinzia, la Carniola e il Friuli nel 1861, 1862, & 1863, Belluno, Nuovi Sentieri, 2002. La montagna veneta in età contemporanea. Storia e ambiente. Uomini e risorse, a cura di A. Lazzarini e F. Vendramini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991. La società e l’economia bellunese nei primi decenni del Novecento. Documenti d’archivio, rapporti e statistiche camerali, a cura di G. Larese e M. Sandi, Belluno, Camera di Commercio Belluno, 2012.

25 Una storia, tante storie. La vita e la gente del Canal del Mis, a cura di P. Casanova, Belluno, Tipografia Piave, 1999, p. 89. 26 La società e l’economia bellunese nei primi decenni del Novecento. Documenti d’archivio, rapporti e statistiche camerali, a cura di G. Larese e M. Sandi, Belluno, Camera di Commercio Belluno, 2012, p. 249. 27 Ivi, p. 443-446. 28 Ivi, p. 447-448.

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Tra vie di terra e rotte marittime: la breve ed esemplare vicenda della Locanda San Pietro

a Porto Venere nella Liguria di levante Enrica Maggiani

Parole chiave: Liguria, Porto Venere, approdo, struttura ricettiva.

La logica del viaggio per mare e degli insediamenti costieri destinati all’ospitalità, perdurata per secoli, muta nell’epoca moderna con i nuovi tracciati stradali e le ferrovia. Un esempio di questa trasformazione è dato dalle vicende dai borghi liguri delle Cinque Terre e di Porto Venere1 . Difficilmente raggiungibili dai percorsi terrestri di qualche rilevanza, tramandano storie di ospiti illustri giunti dal mare, da miti fondativi a fatti storici accertati. Lo scalo di Porto Venere si afferma fin dall’epoca romana2, prospera durante tutto il Medio Evo e mantiene il proprio ruolo almeno fino alle soglie del XVI secolo3. Da allora, cambiati gli equilibri militari e commerciali, inizia un lento declino; le rotte che convergono verso Porto Venere rimangono quelle di piccolo cabotaggio, scarsamente frequentate da forestieri, tant’è che la scoperta turistica dei luoghi è tardiva rispetto a quella di altre località. La novità sarebbe arrivata via terra: l’effimero sogno napoleonico di costruire nel golfo della Spezia un arsenale marittimo lasciò quale concreto retaggio la prima strada di collegamento tra la città e Porto Venere, o meglio, i suoi dintorni, poiché il tracciato si fermava in un’insenatura a qualche distanza da esso. Era il 1812. Le locomotive non raggiunsero mai Porto Venere, a differenza delle Cinque Terre, inserite nella linea tra Genova e Pisa. Così s’inquadra storicamente il caso in esame, rappresentativo dell’alternante fortuna dell’approccio per via di mare e per via di terra ai luoghi di interesse culturale e turistico. Negli anni Venti del Novecento fioriscono nello spezzino iniziative volte ad attirare i visitatori, ormai non più viaggiatori ma villeggianti; alberghi, alcuni dei quali di buon livello, erano in funzione alla Spezia, facilmente raggiungibile da tutta Italia e dall’estero. L’ubicazione prescelta per la Locanda San Pietro può apparire una scelta originale, se non addirittura sconsiderata: il sito, pur dotato di rare qualità panoramiche, era della massima scomodità per i collegamenti via terra, assicurati unicamente da uno stretto carrugio medievale, il quale immetteva nella malagevole strada che conduceva alla Spezia. Un commento merita la reputazione di Porto Venere ed in particolare del promontorio di San Pietro: dal 1876 circolava in Europa l’opera Viaggio Pittoresco dall’Alpi all’Etna4, che descrive l’amenità dei dintorni della Spezia; di Porto Venere menziona la chiesa di San Pietro 5 che domina il

1 Oggi compresi nei confini della provincia della Spezia. Il sito, individuato come “Portovenere, Cinque Terre e Isole Palmaria, Tino e Tinetto” ed iscritto nella Lista del Patrimonio UNESCO dal 1997, è così descritto: «Questo territorio ligure, che si estende dalle Cinque Terre fino a Portovenere, è un paesaggio di grande valore panoramico e culturale. La forma e la disposizione delle sue cittadine, unite alla tipologia del paesaggio circostante, testimoniano la storia ininterrotta degli insediamenti umani in questa regione nel corso dell’ultimo millennio». Da http://www.unesco.beniculturali.it/mbac/vis_sk_identificazione.php, consultato in data 22 febbraio 2016. 2 Durante i lavori di restauro della medievale Torre Capitolare (intervento diretto dalla scrivente tra il 2009 e il 2011), è stata eseguita la sorveglianza archeologica degli scavi, dai quali è emersa una porzione di muratura attribuita ad opere di banchinamento di età romana, a conferma di fonti antiche. Purtroppo, gli esiti della ricerca e della valutazione sono ad oggi inediti. 3 Per la storia dell’insediamento si vedano: E. Mazzino, Portovenere genovese nella storia e nell’urbanistica, La Spezia, senza data; E. Mazzino, Ricerche sulla colonia genovese di Portovenere, La Spezia, 1965. 4 K. Stieler, E. Paulus, W. Kaden, Italien. Eine Wanderung von den Alpen bis zum Aetna, Stoccarda, 1876. L’opera fu tradotta in italiano nello stesso anno 1876 sotto il titolo Viaggio Pittoresco dall’Alpi all’Etna, Milano, 1876. Ne esiste anche una versione inglese: Stieler, Paulus, Kaden, Italy from the Alpes to Mont Etna, Londra, 1877. La parte del volume dedicata alla Liguria si deve a Karl Stieler. 5 Stieler in Stieler, Paulus, Kaden, Italy from the Alpes…, cit., p. 147. Il commento di Stieler condensa gli elementi più significativi della storia millenaria del complesso di San Pietro, all’epoca tramandati da dotte reminescenze e dalla

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promontorio da cui la Locanda prese nome, accompagnando il testo con una xilografia che raffigura quella lingua di terra circondata dai flutti. Si diffonde così l’immagine di Porto Venere come destinazione da raggiungersi via mare: il primo sguardo rivolto dal visitatore al borgo è da un’imbarcazione. L’ideazione della Locanda San Pietro6 iniziò nel 1926 e si sviluppò in un costante dibattito sui valori da tutelare e le moderne istanze da soddisfare7. Nonostante notevoli difficoltà pratiche, i lavori procedettero velocemente e terminarono nel 1928. Il disegno della Locanda dovette, in ossequio alla tutela imposta sul promontorio8, rispondere ad una serie di prescrizioni impartite dalla Soprintendenza. Dagli elaborati che furono prodotti9 emergono alcune peculiarità nel rapporto tra l’erigendo complesso e l’intorno urbano, tra cui l’inadeguatezza dell’esistente rete viaria pedonale e l’esigenza di facilitare l’accesso alla Locanda, la quale, sorta sull’allineamento frontale della medievale palazzata in ripa maris, presenta rispetto ad essa una netta discontinuità formale. Mentre le facciate del nucleo storico sono improntate a grande semplicità non priva di un pittoresco disordine, le fotografie10 della Locanda mostrano una rigorosa composizione, su cui s’innesta una decorazione ricca e complessa, ancorché concentrata nel fronte rivolto verso il mare, mentre le altre facciate appaiono più modeste, fino ad apparire come sobrie superfici intonacate. L’ingresso principale alla Locanda avveniva dalla battigia, tra i massi che proteggevano l’edificio dall’azione dei marosi; la profondità del fondale era sufficiente per le manovre dei battelli che consentivano agli ospiti di entrare nella Locanda senza aver compiuto neanche un passo nelle viuzze di Porto Venere. All’epoca, la calata che oggi collega la strada carrabile con il promontorio di San Pietro non esisteva ed il mare lambiva la palazzata. Le attrezzature di intrattenimento in voga nelle località turistiche marittime, inclusi gli impianti balneari, erano rudimentali o inesistenti; la Locanda stessa era spartana: la maggior parte delle camere era di esigue dimensioni e sprovviste di bagno privato. Il punto di forza della Locanda era la «posizione panoramica incantevole»11; tra le attrattive che essa vanta nella propria réclame vi sono le gite in motoscafo, a conferma dell’importanza della navigazione locale nel golfo della Spezia, già solcato dal servizio regolare di diverse linee, allora in gran parte utilizzate dai lavoratori che dai centri rivieraschi si recavano negli opifici del capoluogo. Le corse in motoscafo, con il loro carattere ludico, anticipavano la situazione attuale, con i battelli utilizzati solo durante la bella stagione e a scopo turistico e balneare.

tradizione, nel corso del Novecento precisati da scavi archeologici e ricerche scientifiche. Per approfondimenti sulla chiesa di San Pietro si veda G. Rossini, Porto Venere (La Spezia) – Chiesa di San Pietro, in Relazione su cento lavori, a cura di L. Pittarello, Genova, 1995, p. 110. 6 Il progetto fu affidato a due architetti di solida fama locale: Giorgio Guidugli e Raffaello Bibbiani. L’attività di Guidugli (1886-1961) fu particolarmente intensa fino agli anni Quaranta, con una produzione caratterizzata da elementi di gusto liberty. Per alcune notizie sulla biografia professionale si veda A. Landi, Enciclopedia della città della Spezia, La Spezia, 2008, p. 385. Il genovese Bibbiani (1891-1989) a partire dagli anni Venti fu attivo alla Spezia dove progettò, spesso in collaborazione con Guidugli, alcuni degli edifici più rilevanti del periodo. Anche per Bibbiani si veda: A. Landi, op. cit., p. 85. 7 Per la ricostruzione delle vicende storiche della Locanda si rimanda a: E. Maggiani, «Porto Venere (La Spezia) tra immagine urbana, vocazione turistica e tutela del paesaggio. La vicenda della Locanda San Pietro», in Urbanistica per la villeggiatura e per il turismo nel Novecento, ASUP 3/2015, a cura di F. Canali, Firenze, 2016, pp. 212 e seguenti. 8 Ai sensi della Legge 20 giugno 1909 n. 364 “Che stabilisce e fissa norme per l’inalienabilità delle Antichità e delle Belle Arti” e della Legge 11 giugno 1922 n. 778 “Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico”. 9 Gli elaborati grafici della Locanda San Pietro sono conservati nel fondo così individuato: La Spezia, Comune della Spezia, Museo Civico “Amedeo Lia”, fondo “Archivio Raffaello Bibbiani” (d’ora in poi indicato come La Spezia, MAL, ARB). 10 Le fotografie a cui si fa qui riferimento, appartenenti ad una collezione privata, furono eseguite dallo studio Zancolli della Spezia, sulla cui attività si trovano notizie in: L’Archivio fotografico del Comune della Spezia – Gli studiosi e l’«immagine» tra ‘800 e ‘900, a cura di P. Rum, Genova, 1990, pp. 15, 30. 11 Dall’invito pubblicitario all’inaugurazione della Locanda in data 1 marzo 1928 (Porto Venere, collezione privata).

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La progressiva militarizzazione del golfo12 fu di pregiudizio al turismo, sia per l’indebolimento dell’immagine del paesaggio, sia per le concrete limitazioni che furono imposte alla fruizione del territorio e degli specchi acquei: aree sempre più vaste furono riservate alle forze armate. Ancor più impattante fu la seconda guerra mondiale: ai gravi danni subiti per terra e per mare13 si associò la trasformazione della percezione degli spazi, di cui fu apprezzata la potenzialità produttiva ai fini della ricostruzione industriale, a scapito della vocazione turistica. Gli insediamenti minori della provincia, quali Lerici, le Cinque Terre e Porto Venere, furono risparmiati dalla più radicale metamorfosi, ma subirono comunque conseguenze che influenzarono anche la Locanda San Pietro. Lo spazio che la circondava mutò: grazie ad un riempimento, la Locanda ebbe un accesso terrestre, perdendo quello marittimo, e risultò banalizzata pur senza acquisire le comodità ormai considerate irrinunciabili. Nella seconda metà del Novecento più moderni alberghi aprirono a Porto Venere, dotati – a differenza della Locanda – di parcheggi e facilmente raggiungibili in automobile. Erano gli anni della motorizzazione di massa e l’approdo non segnava più l’arrivo di un percorso privilegiato; inizia così la parabola discendente della Locanda. In tema di approdi, è ironico che proprio un’iniziativa connessa alle Celebrazioni Colombiane del 1992 abbia inaspettatamente inferto il colpo decisivo alla Locanda. Le Colombiane furono intese a solennizzare il quinto centenario dallo sbarco di Cristoforo Colombo sul continente americano e comportarono per Genova e per tutta la Liguria un intenso programma di manifestazioni e di lavori pubblici e privati14, alcuni dei quali avviati con un irrecuperabile ritardo rispetto alla scadenza fissata. Tra questi si annovera il progetto per il rinnovamento della Locanda, autorizzato nel mese di febbraio 199215. Il cantiere si protrasse per anni, tra rallentamenti, complicazioni burocratiche e lo scemare delle risorse disponibili, fino al fallimento della società proprietaria dell’immobile. Nel frattempo, veniva approvato il Piano particolareggiato16 del centro storico di Porto Venere che prevedeva la sostituzione edilizia di una buona metà del complesso. Sono invero sorprendenti le motivazioni addotte dal Piano, che si dimostra incapace di comprendere la Locanda come tutto unico, ancorché articolato in due corpi di fabbrica: il blocco a mare viene individuato come l’elemento pregevole da conservare, mentre si prescriveva l’abbattimento di quello a monte, giudicato inadeguato, da ricostruirsi in base ad una tardiva imitazione delle volumetrie dell’edificato medievale. Molto si discusse anche sulla possibile variazione di destinazione d’uso del complesso, la cui sostenibilità come albergo era sempre più dubbia, mentre ne appariva più vantaggiosa la trasformazione in residenza turistica alberghiera17. Oggi, dopo decenni di abbandono, la Locanda spicca nella compagine urbana come architettura in

rovina. L’approdo privato e la memoria delle rotte che ad esso conducevano sono stati cancellati.

Nonostante la presenza di turisti sia esponenzialmente aumentata, nessuna via - di mare o di terra -

sembra più portare alla Locanda San Pietro.

Bibliografia

S. Danese, R. De Bernardi, M. Provvedi, Difesa di una Piazzaforte Marittima. Fortificazioni e artiglierie nel Golfo della Spezia dal 1860 al 1945, La Spezia, 2011. 12 Sul fenomeno di militarizzazione si veda: S. Danese, R. De Bernardi, M. Provvedi, Difesa di una Piazzaforte Marittima. Fortificazioni e artiglierie nel Golfo della Spezia dal 1860 al 1945, La Spezia, 2011. 13 Per la situazione del golfo nell’immediato dopoguerra si veda: G. Tonelli, La Spezia e il suo Porto, La Spezia, 2005, p. 161. 14 L’esordio delle Celebrazioni fu segnato nel 1984 dal progetto di Renzo Piano per il collegamento fisico e funzionale del centro storico di Genova al mare, con lo scopo di valorizzare le potenzialità turistiche della città. 15 Le notizie sono ricavate dalla relazione del progetto elaborato dallo studio Ricco&Neri Architetti Associati (La Spezia) per la variante al Piano urbanistico comunale di Porto Venere; progetto Norma 08_F.A._03.10.2011. 16 Il Piano Particolareggiato per il centro storico di Porto Venere è stato approvato con D.P.G.R. n° 370/1997. Alla Locanda San Pietro è dedicata la Scheda n° 5. 17 La trasformazione della Locanda in residenza turistica alberghiera fu accolta come variante normativa al Piano Urbanistico del Comune di Porto Venere ed approvata con D.P.G.R. n° 1058/2010.

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A. Landi, Enciclopedia della città della Spezia, La Spezia, 2008. L’Archivio fotografico del Comune della Spezia. Gli studiosi e l’«immagine» tra ‘800 e ‘900, a cura di P. Rum, Genova, 1990. E. Maggiani, «Porto Venere (La Spezia) tra immagine urbana, vocazione turistica e tutela del paesaggio. La vicenda della Locanda San Pietro», in Urbanistica per la villeggiatura e per il turismo nel Novecento, ASUP 3/2015, a cura di F. Canali, Firenze, 2016. E. Mazzino, Portovenere genovese nella storia e nell’urbanistica, La Spezia, senza data. E. Mazzino, Ricerche sulla colonia genovese di Portovenere, La Spezia, 1965. G. Rossini, Porto Venere (La Spezia) – Chiesa di San Pietro, in Relazione su cento lavori, a cura di L. Pittarello, Genova, 1995, p. 110. K. Stieler, E. Paulus, W. Kaden, Viaggio Pittoresco dall’Alpi all’Etna, Milano, 1876. G. Tonelli, La Spezia e il suo Porto, La Spezia, 2005.

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