L'Universale - numero uno - Il Governo del Fare

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IL GOVERNO DEL FARE 04-07-11

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IL GOVERNO

DEL FARE

04-07-11

2 / L’Universale

DirettoreStefano Poma

VicedirettoreGianluca Di Agresti

RedazioneFernanda AbbadessaGiorgio AquilinoAlessio Quinto BernardiMarika BorrelliMarta CaldaraLuisa CaridiFederica CasarsaMargherita Di ClementeMatteo Di Grazia

Silvia FabbriLaura FoisGiuseppe PipitoneMassimo PittarelloDenise PucaPasquale Restaino

Art directorValerio Casanova

VignetteGiacomo De GiacomisTratto A-maro

SegreteriaElisa Sitzia

AcquistA il numero 2 A

in uscitA il 18 luglio su

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L’Universale / 3

Sommario4 Editoriale: Tu chiama- le se vuoi... Elezioni6 Reportage: Terremoti efranefinanziarie8 Cornuti e mazziati9 Deboli come un’aquila10 Il Maggio della ricostruzione11 Arbeit Macht Frei13 D-istruzione15 L’emergenzainfinita16 Non è un paese per occupati17 L’Italia che implode18 L’Aquila rugby19 S.O.S. - Scuola publica sull’orlo di una crisi di nervi20 Veni Vidi Vici21 Pupari, Calunnie e Dinamite22 E se l’opposizione va al bar!24 L’evoluzione Rai: da mamma a prostituta

25 Last Bet26 La compattezza degli italiani (maschi)27 Ex voto28 Intervista: Alberto Burgio - Propaganda politica razzista30 Sparlano di noi31 Corrispondenza dal nostro inviato32 Esteri: Nucleare: il Gi appone in ginocchio33 Esteri: Alla ricerca dei fondi perduti35 Esteri: La rivoluzione della gente comune36: Esteri: Morto un Bin Laden se ne fa un al tro

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Tu chiamale se vuoi... ElEzioni

cerca di rielaborare le scalette dei Tg, tentando di ricordarsi il nome di qualche azienda che va chiudendo, ma ricordandosi solo servizi su: il matrimonio del millennio tra William e Kate, il bel culo della sorella di lei, Pippa, le camicie di Michele Misseri, e il grande scoop del Tg1 su “come difendersi dai serpenti”. Non si sa mai, venire inghiottiti vivi da un Taipan in pieno centro, a Roma, mentre si aspetta il bus, non è proprio bello. E dopo essersi ricordato solo vittime e parenti di vittime incazzati, precari e operai incazzati, magistrati idem, e studenti ed insegnanti ancora di più, arriva alla conclusione: sono tutti comunisti, come ha detto B. Ma, le elezioni, hanno palesato un altro dato molto importante. L’opposizione (quella convenzionale, quindi il Pd) non s’opponeva. O, meglio, non faceva. Anche se Bersani continua a millantare vittorie a destra e a manca, invitare Prodi sul palco per mostrargli la presa della Bastiglia, mettere il mandato di B nelle mani di Napolitano per prenderselo, le urne hanno spifferato altro. A vincere non è stato Bersani. Ma Vendola, in concorso a quella sinistra che non è Pd. A Milano ha vinto il candidato di Vendola, Pisapia, . A Napoli ha vinto De Magistris, azzoppando il candidato di Bersani, Cozzolino. A Torino ha vinto sì, un candidato di Bersani, ma avrebbe vinto anche Gambadilegno sostenuto da una giunta comunale formata dalla

di Stefano Poma

Le ultime elezioni comunali e provinciali, che hanno visto i candidati del centrodestra perdere voti quanto Raiuno perdere ascolti grazie all’ottimo Sgarbi, hanno svelato l’arcano: il governo del fare non faceva. Unanime stupore serpeggia tra i più, punti interrogativi si materializzano sopra la testa dell’italiano medio che, con infradito, slippino aderente Arena di colore bianco, canotta, e una bella copia del giornale di Sallusti o di Belpietro sottobraccio, se ne va dubbioso e cipiglioso a godersi una calda giornata in riva al mare, lacerato pur sempre dai dubbi: ripensando alla signora sovrappeso che a Forum aveva detto “a L’Aquila è tutto ok, risolto tutto, state tranquilli”, e a Rita Dalla Chiesa che, in Pompa Magna, portava in trionfo con tanto di coccarde il governo B e l’opera di Bertolaso. Ripensando a B che aveva detto “a Napoli i rifiuti rimarranno solo per altri tre giorni, fidatevi di me”. E fidiamoci. Cercando di ricordarsi cosa avesse detto Minzolini sui tagli all’istruzione, che avrà l’effetto d’un bombardamento al pari di Dresda e Berlino della seconda guerra mondiale, o all’avere come Generale di Stato Maggiore Cadorna nella prima. Ma, anche sforzandosi a tal punto da rischiare spiacevoli inconvenienti (Ferrara ne sa qualcosa), il déjà-vu non parte. Poi nel vedere che, gli operai uscendo dalle urne gridano peste e corna contro il governo del fare,

“Non ha vinto la sinistra che

era a favore del sì. È B che s’è suicidato, facendo per-

dere il no.”

Copertina Editoriale

Il Sindaco di NapoliLuigi De Magistris

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Banda Bassotti, dato l’avversario: Michele Coppola. Che, non si sa come, ha raggiunto il 27%. E che rappresenta, col suo risultato, l’espressione pleonastica che incombe in quel partito: la fine. Sberle da ogni parte. I referendum sono stati, e qui ha ragione qualche berluscones, un voto politico. Il governo invita i cittadini a non andare a votare, di scegliere piuttosto il mare. Il Tg1 ha perfino taroccato le previsioni del tempo, per convincere la gente a disertare le urne e scegliere pinne, fucile

e occhiali. Ma, non potendo più sopportare questa sciagurata classe dirigente, hanno scelto tutt’altro. Il voto. Appena Maroni, s’è capacitato del fatto che il quorum sarebbe stato raggiunto, le segreterie del Pdl hanno inviato, ai loro iscritti, una mail per sollecitarli a recarsi alle urne, e votare “no”. Ma, quelli, erano già al mare. Per la seicentomilionesima volta Bossi prende le distanze da B, per poi riconciliarsi subito dopo, tipo fidanzatini alle prime armi e ai primi amori. E, a festeggiare,

sono le sinistre, tutte le sinistre. Credendo d’essere state loro a battere B. Ma, la questione è un’altra. Non ha vinto la sinistra che era a favore del “sì”. È B che s’è suicidato, facendo perdere il “no”. E, ora, bisognerà attendere la lotta da quella parte, per vedere chi, dei vari Bersani, Vendola, Di Pietro, è più lesto e bravo nel seppellirne il cadavere. Aiutati, in questo, dalle folle osannanti che, negli ultimi diciassette anni, hanno tenuto gli occhi chiusi e le orecchie tappate. E che ora, vedendosi con le

altrove, sono nate le cose migliori: come la nostra Costituzione. E, quando cittadini con capacità d’intendere e volere, hanno avvicinato le Sacre sfere della politica per mutare quest’ultima, geneticamente, s’è cambiato in meglio. Un elettorato consapevole è senz’altro possibile. Con capacità (come ho detto prima) d’intendere e di volere: la prima, alcuni italiani non ce l’hanno. La seconda, è facoltà di tutti, nella loro interezza. E in alcuni ne è fervente soprattutto una, in particolare. Quella di volere e osannare un padrone.

Il Sindaco di NapoliLuigi De Magistris

Il Sindaco di MilanoGiuliano Pisapia

spalle al muro, o meglio, rivolti al muro col solito politico arruffato dietro, hanno detto basta. Hanno detto basta alla politica fatta dai politicanti, alla politica ladrona e conservatrice, a quella politica fatta a favore della casta. Ma, non hanno detto basta alla cosa fondamentale: alla politica fatta di parole. B, di questo, ne è stato maestro. E i leader della sinistra, in particolare Vendola, ne seguono le orme. Non servono parole, ma fatti. Osannare un politico dieci secondi dopo la vittoria, equivale a non aver capito nulla

degli errori precedentemente commessi. Se festeggiamenti in piazza, sventolii di bandiere, pianti e abbracci collettivi dovrebbero esserci, sarebbe opportuno ch’essi avvengano a fine legislatura, dopo che il politico ha fatto il suo dovere, dopo che ha rispettato il programma per cui è stato votato. Altrimenti, al politico gli si da mandato di rappresentanza piena, un “ci fidiamo di te”. No. Quando le cose nella nostra Storia sono andate male, è perché si è sempre fatto così. Dalla partecipazione attiva dei cittadini, da noi come

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TErrEmoTi e franE finanziarie

Reportage da un convegno a L’Aquila per capire se le vicende irpine hanno insegnato qualcosa nella gestione degli eventi sismici italiani

ricostruzione – definita la più “economica” (tranne che per le C.A.S.E. berlusconiane) -- sono fermi alla Cassa Depositi e Prestiti.Invano si è chiesta la deroga al patto di stabilità per la Regione Abruzzo e per gli enti locali del cratere, come pure il finanziamento dei contratti di programma già predisposti e quelli in via di definizione e la zona franca urbana con il necessario incremento dei fondi rispetto a quelli previsti, nonché l’utilizzo del 30% delle risorse già deliberate dal CIPE (4 miliardi di euro) da destinare al sostegno del tessuto economico preesistente sul territorio. Anche a L’Aquila va di moda la politica degli annunci, perché nessuno di questi strumenti è operativo e un imprenditore, seppur volenteroso (o coraggioso?), non godrebbe di alcun beneficio né sostegno.Il Sindaco de L’Aquila ha svelato che alla mezzanotte del 5 aprile 2009 era stato finalmente completato il Piano Strategico Territoriale che riconfermava le vocazioni turistiche di montagna, la cura del polo universitario, il tessuto storico-culturale e l’industria high-tech. Ma a leggere un articolo di Giustino Parisse (giornalista aquilano) “L’Università è cresciuta nell’indifferenza generale, per quanto remunerativa per i privati che affittavano case e che ora hanno perso il reddito. Già prima del terremoto le sedi erano

di Marika Borrelli

“Doveva essere il più grande cantiere d’Europa”, ha detto Massimo Cialente, Sindaco de L’Aquila, in un recente dibattito (cui abbiamo assistito in trasferta a L’Aquila) che ha coinvolto rappresentanti da tutte le zone terremotate d’Italia: Friuli, Sicilia, Umbria e Irpinia.“Invece – ha continuato – la disoccupazione è aumentata e la cassa integrazione è esplosa.”Questi i dati: 7 milioni e 250 mila ore di CIG (incremento del 736,10%), aumento del 60% dei lavoratori inseriti nelle liste di mobilità per perdita di lavoro, disoccupazione pari al 9,4%. Metà delle ore di CIG è stata utilizzata nei settori del commercio e dei servizi, nel solo centro storico (cuore amministrativo e gestionale) sono state chiuse 1000 attività commerciali. (dati: Sindacati e Confindustria locali)Già prima del terremoto, L’Aquila e la sua provincia non stavano bene, ora sono letteralmente in ginocchio. La mancata ricostruzione ha finora impedito che l’edilizia diventasse un fattore di sopravvivenza per un territorio economicamente disastrato.Il decreto di affidamento delle attività post-terremoto al Commissariamento Comune-Regione non ha (ancora?) previsto la gestione diretta dei fondi da parte dei Commissari. Nessun cantiere, quindi, è stato ancora aperto a due anni dal sisma e i 9 miliardi e mezzo destinati alla

sparpagliate e tale logistica creava problemi serissimi per i trasporti e i servizi. L’ospedale ha visto perdere tutte le sue eccellenze ed ora si parla addirittura di chiuderlo. Il laboratorio di fisica nucleare sotto il Gran Sasso non ha mai avuto un colloquio vero con la città. Per non parlare del turismo: L’Aquila si trova al centro di tre Parchi importanti attrattori e non è mai riuscita a dare priorità ad infrastrutture e ricettività in grado di incanalare un flusso turistico costante, sia verso i luoghi di cultura che di culto.”L’imprenditoria è ferma. “Le imprese locali non dispongono della struttura organizzativa e finanziaria adeguata a sostenere le dimensioni dell’emergenza e della ricostruzione, a meno di impiegare decenni, non uno, per dare risposte.”, scrive accorato Rinaldo Tordera, direttore generale della Carispaq (Gruppo BPER di Modena, lo stesso della ex Banca Popolare dell’Irpinia, ora Banca della Campania, quella che ha gestito totalmente i fondi della ricostruzione irpina), in un quaderno di testimonianze dal terremoto. L’azienda di credito aquilana (ultimamente in guai molto seri per lo scandalo di Lande, la cui finanziaria pariolina stile Maddoff, la EIM, aveva il conto nella filiale romana) è stata la prima a darsi da fare per aprire ‘fondi comuni d’investimento immobiliare con finalità etiche’ (sic) al fine di avviare una

RepoRtage

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ricostruzione privata slegata dagli inesistenti aiuti statali, ma gli aquilani – la cui economia è disastrata peggio che il territorio – non vi accedono. Certo che Tordera è un bel Giano! La Carispaq ha previsto linee di credito ‘etiche’ per i gonzi mentre ascosamente ha mosso milioni e milioni di euro fuori del controllo Consob -- cui sistematicamente ometteva le segnalazioni anti-riciclaggio -- diventando complice nella frode finanziaria di cui sono piene le cronache. Anche perché, oltre al silenzio complice dei vertici Carispaq nei confronti della Consob, è coinvolto anche un certo Torregiani, figura di rilievo di Carispaq, connesso a Verdini ed alla sua ‘cricca’ nel consorzio “Federico II” che doveva occuparsi della ricostruzione abruzzese. Insomma, malaffare multitasking e multisharing.Per appigliarsi a qualcosa, è stato creato un “Comitato Attività Produttive per lo sviluppo e l’occupazione nell’area del sisma”, le cui proposte comprendono l’accelerazione per instaurare la zona franca urbana, il rifinanziamento della Tremonti-ter e la possibilità di concessioni gratuite delle garanzie sui finanziamenti alle PMI, oltre ad un regime agevolato di tassazione e contribuzione.L’asse VI del POR FESR Abruzzo ha a disposizione 83 mln di euro, impegnati (non assegnati) per più della metà. Alberto Bazzucchi, ricercatore CRESA, ha recentemente denunciato che strategia e sviluppo si scontrano con “un vuoto nelle amministrazioni e nelle competenze locali, in cui si tuffano professionisti di monopolio nella consulenza dell’area ma anche esterni, usi a costruire sull’instabilità politica e sulla debolezza tecnica delle amministrazioni la propria

indispensabilità”, si legge (sempre in un quaderno di testimonianze, la cui pubblicazione è stata possibile grazie al contributo della Carispaq. In altre parole, le vicende del dopo-sisma irpino non hanno insegnato nulla, né eviteranno altre sconcezze.Più emblematico come esempio di miopia imprenditoriale quale fattore di decollo economico

l’imprenditoria di settore privata e si è sciolto come neve al sole. Per questo motivo, si deve provare con i laboratori pubblico-privati.Il problema maggiore, però, sottolinea il rettore, è che occorre ricostruire in ogni senso l’Università aquilana per mantenere gli studenti, magari anche accorpando due dei quattro atenei abruzzesi, numero

è ciò che racconta il rettore dell’Università aquilana, Ferdinando Di Orio in un articolo: “Sono 11 le aziende spin-off (aziende italiane nate su progetti innovativi ideati e studiati negli atenei) presenti in Abruzzo e tutte dovute ad iniziative specifiche dell’Università de L’Aquila, la quale assieme ad altri soggetti – enti locali, sindacati e Confindustria – intende promuovere il consorzio ‘Scienze Aquila Park a r.l.’allo scopo di sviluppare la vocazione scientifico-culturale della Città, quale primaria risorsa per la ripresa economica del territorio. Questo progetto trae origine dall’esigenza di favorire le sinergie con il tessuto imprenditoriale locale.”Il polo high-tech di matrice statale, creato tra gli anni ’70 e ’80 (in odore di assistenzialismo) non ha saputo competere con

onestamente eccessivo per estensione territoriale e numero di abitanti.Nessun terremoto d’Italia -- neanche quello del Friuli la cui ricostruzione manierata è portata a continuo esempio -- ha insegnato qualcosa alle classi dirigenti. La più vistosa delle differenze tra il dopo-terremoto del Friuli e tutti gli altri la troviamo nell’utilizzo dei fondi, lì utilizzati per la rinascita industriale del nord-est. In Irpinia, come si prospetta (va) anche per L’Aquila, i fondi sono stati abusati per la ricostruzione privata. Come è successo a Napoli, dove sono state ricostruite le periferie.Diceva Tolstoj – nell’incipit di “Anna Karenina” -- che ogni famiglia infelice lo è a suo modo. Vale lo stesso per i territori colpiti dal terremoto.

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CornuTi e mazziati

di Denise Puca e Gianluca Di Agresti

Sono passati circa 3 anni da quan-do, con l’approvazione della legge 123/2008, il Parlamento trovava “misure straordinarie” per fronteg-giare l’emergenza rifiuti. La stessa che nel dicembre 2009, il governo, con tanto di decreto legge, dichi-arava finita.La verità è che i rifiuti sono ancora sotto il naso dei napoletani, tanto quanto degli abitanti vesuviani. Costretti, dall’ottobre 2010, a sub-ire l’ennesima umiliazione: la real-izzazione di una seconda enorme discarica, la cosiddetta Cava Vitiello di Terzigno. I rifiuti, quindi, continueranno ad essere sversati nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio, dichiarato patrimonio dell’Unesco dal lontano 1997. In quest’area dovrebbe essere realizzato un deposito di 3 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti.La più grande discarica del Mez-zogiorno. Il tutto al modico prezzo di 12 euro a tonnellata di rifiuti,

Christi”, di fama mondiale, che non potranno più vendere per l’inquinamento delle falde ac-quifere sottostanti ai vigneti. Prima della realizzazione della discarica una bottiglia di questo vino costava 160 dollari negli Stati Uniti.Con la legge 123, infatti, si per-mette uno sversamento indiscrim-inato di rifiuti. Tra le varie sostanze permesse ci sono: ceneri pesanti e scorie contenenti sostanze peri-colose; ceneri leggere contenenti sostanze pericolose; fanghi pro-dotti da trattamenti chimico-fisici contenenti sostanze pericolose;altri rifiuti prodotti dal trattamen-to meccanico dei rifiuti contenenti sostanze pericolose. Ma la cosa più sconcertante è che non è prevista alcuna norma che obblighi le società addette al trattamento rifiuti alla bonifica dei territori. Per cui semmai quella cava verrà liberata dai rifiuti e si volesse bonificarla, ci dovranno essere nuovi fondi da stanziare e nuovi appalti per i soliti furbetti. Quando si sarebbe potuto avere lo stesso risultato senza ulteriori spese per lo Stato. Rimangono, infine, alte le preoc-cupazioni di infiltrazioni camor-ristiche nella gestione delle discariche, soprattutto dopo il sequestro della cava Vitiello nel dicembre 2010. I proprietari (degli impianti di estrazione, non del terreno n.d.a.) sono stati arrestati per aver continuato ad estrarre materiali di pregio (pietra lavica vesuviana e sabbia), venduti poi a ditte già in odore di camorra.Tanto per cambiare.

che entreranno nelle casse del co-mune di Terzigno, governato dal sindaco Pdl Domenico Auricchio. Proprio quello che nel novembre 2008, ai microfoni del Corriere del Mezzogiorno, dichiarava: ”Ber-lusconi mi ha promesso che farà di Terzigno la Los Angeles d’Italia”. Mentre il sindaco vesuviano ha “l’American dream”, il Commissario all’Ambiente dell’Unione Europea, Janez Potocnik, ha congelato i 145 milioni di euro di fondi comunitari destinati all’Italia in quanto “non è possibile edificare discariche in un Parco Nazionale”. Chiaro per tutti. Tranne che per il governo italiano, deciso a far manganellare dalla polizia i cittadini che da circa 3 anni protestano. Perchè per il sottosegretario all’Interno Man-tovano “chi protesta a Terzigno è un camorrista”. La rabbia dei cittadini, impegnati da anni nei comitati contro la discarica di Cava Sari, esplode alla notizia che i loro territori verranno sfregiati da un’altra discarica. Si susseguono scene di violenza, con lanci di sassi e petardi, blocchi per impedire il passaggio dei camion, proteste che cercano una voce a livello nazionale, ma che non servono a fermare questo scem-pio. È stato anche proposto al Tar un ricorso di Asìa Napoli S.p.a. ed Ecodeco contro il Comune di Terzigno, Arpa, Sapna ed Ente Parco Nazionale del Vesuvio, ma per i giudici “anche se la Cava Sari inquina le falde non ci sarà né la chiusura né la bonifica”.Tra i tanti, piccoli casi, di cittadini danneggiati, ci sono i produt-tori del pregiato vino “Lacryma

Cava Sari

di Massimo Pittarello

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Come una ciambella. Tanto bella e zuccherata intorno, quanto vuota e inesistente al centro. Questa è l’Aquila a due anni dal terremoto. Una città perimetrale con il Niente dentro. E nel centro del centro il silenzio è talmente assordante che si ha quasi paura a parlare. Nella desolata piazza Duomo, vortice del buco nero che sembra risucchiare la vitalità cittadina, c’è un bar di un coraggioso esercente che ha riap-erto dal febbraio scorso. Ha lasciato il vecchio nome, un nome che oggi sembra paradossale, quasi sarcastico: il bar Florida, quella parte d’America dove c’è Miami, il sole, le palme e the land of opportunities. Nel giro di centinaia di metri non ci sono vicini di casa che si lamentano del rumore o della musica, e non perché siano educati o magari un po’ timidi, semplicemente perché non ci sono, i vicini. E allora ecco il tentativo di coprire quel silenzio: il Bar Florida è dotato di potenti amplificatori stereo sintonizzati su stazioni radio d’allegria che pom-pano musica a tutto volume. Ma il ritmo radiofonico che si propaga attraverso quella piazza deserta, quel centro città vuoto, quegli edifici cadenti e puntellati, sembra piuttosto un urlo disperato di aiuto, un lamento di agonia. Nel centro storico dell’Aquila, o quello che era il centro storico, ci trovi tre categorie di persone: con-trollori (forze dell’ordine e militari), lavoratori (dei pochi esercizi com-merciali aperti o dei vari cantieri edili, anche se con più architetti che muratori) e curiosi (turisti, troupe televisive, giornalisti). Ma di cit-

tadini aquilani nemmeno l’ombra. Qualche messaggio però gli aq-uilani lo hanno lasciato in quello che fino ad un paio di anni fa era il centro storico della loro città. Foto e cartelli, messaggi e ammonimenti, con uno in particolare che, posto in via del Corso, recita “L’Aquila non è luogo di scampagnata turistica”.Tutte le città di provincia hanno il loro cuore pulsante nel centro storico; quel posto dove ti incontri senza telefonarti, dove vai senza motivo, dove respiri vita e cos-truisci in ogni gesto relazioni che durano nel tempo. L’Aquila non ce l’ha più. Prima del terremoto si facevano le vasche sotto i portici, ora si passa da un centro commerciale all’altro, i ragazzi si vedono alle “Vele” o al “Mc Don-ald”. Finita l’era della vita di paese, comincia l’arrembaggio ai prodotti globali, finiti quelli locali, i grandi marchi invadono anche il territorio degli aspri monti abruzzesi. Decisione strategica del governo per la ricostruzione dopo il ter-remoto è stata quella di attrezzare

strutture provvisorie nelle zone circostanti al centro città: i M.A.P., Moduli Abitativi Provvisori, che provvisori non saranno; le C.A.S.E., che case da abitare non sono. MUSP, blocchi, caseggiati e tutta un’altra serie di sigle. Tutti prodotti precostruiti, preconfezionati e pre-vissuti, che hanno cancellato anche solo la speranza di un ritorno alla città che era, e che non sarà più. Da quando il centro storico non c’è più, la vita si svolge altrove, fra consorzi di vetrine e negozi tirati a lucido. Se lo shopping non è però fra le priorità, è sempre possibile ri-manere dentro le nuove abitazioni, perché a chiamarle case l’imbarazzo sorge in ogni persona di buona fede. Dentro però, in queste “abitazioni”, si possono sempre trovare televisori al plasma con 200 canali e il gran varietà mediatico che entra bene nelle case e proietta le immagini colorate sulle pareti bianche,dove ovviamente non puoi mica appendere un quadro. Per ritrovarvi la sera, scordatevi “le vasche sotto i portici”, la vineria

mCaquila: unA città in sAlsA di plastica

di Margherita Di Clemente

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con l’oste panciuto. La società di cartapesta che da decenni sta avvolgendo le nostre vite, mal sopporta roccaforti di veracità, di osterie rustiche, di anziani che giocano a carte nella pi-azza. Se ve ne state fra di voi, se socializzate, se parlate e vi confrontate, rischiate di non comprare abbastanza, di non rinnovare il contratto Sky, di non guardare Forum e di non passare alla Standa; e allora addio centro storico, addio vineria di fiducia. Ci vediamo sotto la Standa, lì nel parcheggio del grande supermarket della felicità. Passeggiando per il centro commerciale “Le Vele” ci si imbatte in comitive di giovani adolescenti che recitano i loro ruoli e fumano più sigarette di quanto un ac-canito tabagista possa fare. “Vuoi un’altra sigaretta, ma se la hai appena spenta?” – “ Si me ne fumo un’altra, almeno passo il tempo” – “Com’è? Ti annoi?” – “Eh si eh, sto sempre qui, stiamo sempre qui, ci vediamo tutti i pomeriggi alle Vele”. Educazione di un giovane consumatore. Cambiando posto, il dialogo non cambia; dopo il cen-tro commerciale, il Mc Donald. “Ragazzi sapete mica

dirmi un posticino giovanile dove bere e mangiare qualcosa?” – “E dove vuoi andare? Che non ti piace il Big Mac??. Ok, prima ce lo avevamo, su nel centro storico. Ora è inutile, stiamo sempre qui”. All’inizio di via del Corso c’è uno storico locale dell’Aquila, una vineria tanto spartana quanto ac-cogliente; alle pareti ci sono le foto della inaugurazi-one dopo il terremoto. Un folla densa che celebra un pezzetto della città che torna a vivere come viveva prima. “Ma come va adesso?” chiedo all’oste, cercando un dialogo.“Ma insomma, noi siamo aperti da decenni, soprav-viviamo. Però universitari ce ne sono sempre meno, i giovani non vengono più, e poi dal terremoto in poi sta succedendo qualcosa che prima non succedeva: i ragazzi fanno a botte, litigano, tanto e spesso, almeno una volta al giorno, e sempre senza motivo. Ai miei tempi succedeva, ma era sempre per una ragazza o cose così, adesso lo fanno perché non hanno nulla da fare, si annoiano.”Il partito dell’odio che sopravanza il partito dell’amore.

“Nomi e soprannomi di locali e gestori si sovrappon-gono come strati di ere geologiche successive nella mappa delle notti aquilane. (…). Nel centro storico dell’Aquila la cartina del divertimento giovanile not-turno richiama l’indecifrabilità del labirinto. Corso Federico, via Sassa, via Cavour, piazza San Pietro, i portici di San Bernardino: sono alcuni dei nomi della galassia che, ogni notte, si accende. (...). La città si ritrova in bar e ristoranti unita dal divertimento” Queste le parole e l’immagine della città che conservo in un foglio di giornale. Strappato e custodito gelosamente nel portafogli, l’articolo citato si intitola: ”La movida nel labirinto delle notti giovanili” che il caso ha voluto che uscisse proprio domenica 5 aprile 2009.Da due anni dal terremoto di quella città, di quell’universo dominato dalla mescolanza di età e divertimenti, non sembra esserci traccia.Il labirinto di cui si parla sembra aver lasciato spazio ad un vasta piana. Deserta e silenziosa.La vita che prima si diffondeva da Corso Federico II a Piazza Duomo, travolgendo Piazza Regina Margher-ita, piazza Palazzo, piazza San Biagio (solo per citarne

alcune), ora è limitata ad un rivolo che scorre prin-cipalmente verso l’anonimo e buio Viale della Croce Rossa dove i giovani vagano cercando un luogo di aggregazione.Così decido di andare comunque in Centro dove qualche locale , come lo storico “Boss” (“ju boss” in verità) che dagli anni ’60 non è mai passato di moda, ha coraggiosamente riaperto i battenti. In quella pic-cola piazza per un attimo riesco a dimenticare quel fatidico 6 aprile ma, girato lo sguardo, una camionetta dei militari mi riporta a 2 anni dopo il sisma.Basta spostarsi qualche metro più in la, in direzione piazza Duomo, per essere avvolti, nuovamente, dal silenzio innaturale di una città morta . Uno scheletro infinito fatto da impalcature.E insieme alla città “anche la comunità sembra esser morta quella notte”.E’ questo il dato, raggelante in verità, che emerge chi-aramente da una ricerca portata avanti da 3 università italiane che ha coinvolto più di 15 mila terremotati che lamentano soprattutto l’assenza di ritrovi pubblici, considerato che ad oggi, per esempio, ancora decine di centri storici di tutto l’hinterland aquilano – i cosid-

Il miraggiodella riCoSTruzionE

di Giorgio Aquilino

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detti “Comuni del cratere” - sono abbandonati.Si tratta di “lutto culturale”, di quella perdita della realtà quotidi-ana che nasce dalla perdita di quei luoghi - chiese, piazze, bar – sui quali si fonda la quotidianità di ognuno. La dimensione rituale dell’individuo, le sue abitudini ven-gono travolte dall’onda d’urto del terremoto , le persone crollano. Come quelle chiese, come quelle piazze, come quei bar…

L’Aquila, che nei giorni immediata-mente successivi al terremoto, fu usata come “vetrina” per mostrare l’efficacia e l’efficienza delle azioni di un Governo in cerca di ribalta, ha patito, invece, un processo di ricos-truzione “paternalistico e central-ista” senza un pianificazione della ripresa nel lungo periodo.Le ricerche effettuate sul territorio aquilano mettono in luce infatti la distruzione del tessuto sociale con conseguenze disastrose sull’intera vita della comunità: aumento della disoccupazione, calo delle iscrizioni universitarie, casi sempre maggiori di depressione come effetto del senso di isolamento. Continuo a vagare per le piazze ancora distrutte e vuote del centro.Penso.“L’Aquila città universitaria”. Queste parole mi suonano i testa come un eco lontano. I giovani, i miei amici, sono sempre più scoraggiati e vinti dalla noia. Se durante il primo peri-odo post-terremoto l’entusiasmo nella speranza che la città potesse rinascere dalle sue “ceneri” aveva confortato molti di noi, il tempo (che sembra essersi quasi del tutto fermato ) sembra testimoniare il contrario.E l’idea di vivere di nuovo la “nos-tra” L’Aquila si fa fioca e lontana.Solo per il reinsediamento dei tessuti urbani, spiega David Alex-ander (uno trai i massimi esperti di disastri e curatore di una ricerca sul post-terremoto in Abruzzo),

Arbeit Macht Freiil lavoro rende liberi

Il Lavoro rende liberi, in tedesco Arbeit Macht Frei, era il motto che si stagliava all’ingresso di alcuni campi di concentramento nazisti, una massima che circolava fin dalla fine del XIX secolo negli ambienti politici dei nazional-popolari tedeschi. Per gli Häftlinge, i reclusi, quell’enunciazione rappresentava una scoperta forma di cinica irrisione, perché il lavoro, per chi subiva la rigida regolamentazione del campo, significava percosse, sfruttamento, soprusi, morte. Mi permettano i miei contemporanei, posteri come me di quel massacro e non, di utilizzare la crudele beffa nazista per suggerire da queste righe l’odierno, e forse non meno crudele, motto del progresso: “il lavoro rende liberi perché, prima o poi, sarà lui a liberarsi di te”. Il posto di lavoro, inteso a mo’ di culla nella quale, come un percorso di vita all’inverso, si giunge: a volte dopo un percorso formativo o altre volte assume le sembianze di un bacino di nozioni al quale attingere dietro compenso, contiene rapporti umani tra i più disparati, da relazioni e pensieri di odio e competizione, ad amicizie servili e affettuose. Capita, poi, che vieni convocato, elogiato, ringraziato e licenziato.Credersi distanti non conviene, né conviene di più cercar di capire quale tragitto i nostri governanti abbiano percorso bendati, in una mosca cieca in cui le prede erano e sono gli elementi umani di una classe sociale da immobilizzare, i lavoratori.Loro, gli occhi distanti che giocano con i fili del benessere, non capiscono nulla. Inetti e scansafatiche si alternano su poltrone comode perchè imbottite, stesi al sole dei decimali che spiegano, sovente con artifici lessicali più che statistici, i riflessi dei tagli di un raro diamante che, per loro, prezioso non è, ma che per “l’uomo quotidiano” è la fatica da barattare con il pane, il lavoro.Lavoratori e lavoro, o meglio, forza lavoro e domanda di lavoro, oggi si intersecano come due rette parallele nel piano sociale. Dando un’occhiata alle statistiche riguardanti il mercato del lavoro italiano, ci troviamo difronte a dati che ci segnalano un pronunciata situazione di stallo. Tasso di disoccupazione giovanile (età 15-29 anni)

potrebbero volerci decenni.Come si dice “la speranza è l’ultima a morire” anche se, camminando per i relitti della mia città, di sicuro è viva la rabbia.Rabbia per una ricostruzione gestita male e per un’informazione spesso falsa e vittima di giochi propagandistici, dove le colpe e le mancanze sono davanti agli occhi smarriti di tutti noi.Apro il portafogli e leggo l’ultima

frase dell’articolo.“La mezzanotte e mezza è passata da poco. In corso Federico II ormai quasi deserto, il sassofonista appas-sionato di bossa nova ha smontato il piccolo palco e svuotato degli spiccioli la custodia del suo stru-mento.Domani sera si replica.”

Si sbagliava.

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in Italia: 20,2 per cento (ISTAT); tra il 2008 e il 2010 il tasso di occupazione giovanile è disceso con un’intensità (-13,2 per cento) quasi sei volte superiore a quella media registrata per il complesso della popolazione in età di lavoro (-2,3 per cento) (ISTAT); per quel che riguarda le famiglie, segnala il Codacons,: più di 3 famiglie su 10, ossia un terzo degli italiani, non arriva a fine mese; dall’aprile 2007 hanno perso il posto in media 460 persone ogni giorno come se avesse chiuso un’azienda da milioni di fatturato ogni 24 ore (Espresso); suicidi per perdita di lavoro aumentati vertiginosamente nell’ultimo biennio, quasi un suicidio al giorno per disoccupazione. Non bisogna poi tralasciare la situazione dei precari d’Italia, le vittime preferite di una crisi che vede in loro, con la Speranza di vita Aziendale ridotta ai minimi termini, i candidati perfetti all’ecatombe in onore dei fatturati. Scriveva qualche mese fa il prof. Mario Deaglio su La Stampa: “I precari, in grande maggioranza giovani, diventano lavoratori-cuscinetto che assorbono direttamente i colpi della crisi e quindi, implicitamente, forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri”, un vero e proprio scudo sociale, una tattica che assegna la prima linea agli inebriati dai bassi salari mandati al macello al grido “avanti!”. Un trittico terminologico balena alla mente se si pensa al mondo lavorativo italiano di oggi: sfruttamento, soprusi e morte, già enunciati qualche riga più sopra in riferimento ai campi di detenzione nazisti.Sfruttamento: ovviamente si intende lo sfruttamento da parte del Sistema Economico, il lavoratore eroga una quantità di lavoro superiore a quella per la quale viene pagato o, detto in altri termini, produce beni il cui valore è superiore a quello per cui viene pagato (Marx). Se consideriamo che oggi chi ne ha la possibilità, impiega 10 – 12 ore al giorno in più di un lavoro, producendo un valore congiunto superiore a quanto farebbe per impieghi disgiunti ma con un

salario inferiore, ecco che ci scontriamo con uno Sfruttamento di Sistema. Dirigendo l’attenzione al martoriato Sud, quel che spicca è uno sfruttamento non più a livello sistemico ma da campi di cotone, e riguarda ovviamente i lavoratori immigrati, gambe che scalciano piante di pomodori o mani che si feriscono con spine d’arancio per 10 - 12 ore al giorno con paghe misere, situazione inaccettabile per un paese civile.Soprusi: eppur ci sono. I rapporti all’interno delle organizzazioni aziendali hanno subito cambiamenti in direzioni degradanti, chi ha un briciolo di potere oggi cerca di conservarlo mostrandosi mansueto verso i capi e terribile con i subordinati, comportamenti, questi, mirati alla conservazione del proprio o alla perdita dell’altrui posto di lavoro.Morte: da troppo tempo tra le pagine dei quotidiani il decesso sostituisce la pensione o è l’epilogo di un licenziamento. Tempo addietro un ragazzo di Ostuni migrato al Nord, ed impiegato in un call-center, perse il posto ottenuto con fatica; si è ucciso in Puglia lanciandosi dal finestrino dell’espresso Bolzano-Lecce. Come lui migliaia. Vittime dell’abbandono delle istituzioni, latitanti della speranza, chiusi in un mondo di mutuo e famiglia che di certo un sistema in crisi come quello italiano non premia anzi se ne ciba.Puntando il naso al di là della forza lavoro possiamo sentire il tanfo che proviene dalla domanda: fatturati stagnanti, ordinativi in cancrena, la melma dell’intervento pubblico che, come suggeriva l’ormai Ex governatore della Banca D’Italia Mario Draghi, dovrebbe alleggerirsi della zavorra dell’inefficienza e ritornare a parlare di liberalizzazioni. Le aziende hanno bisogno di aiuto, di nuovi partner commerciali, di un Governo che spenda i quattrini per interventi mirati in settori strategici, come, ad esempio, la cantieristica navale, o in settori ad alto sviluppo come le tecnologie rinnovabili. Le aziende delocalizzano, se ne vanno da un Paese che le abbandona a se stesse, che vorrebbe stringerle a sé con i suoi artigli fiscali e burocratici, che sembra non comprenderne a pieno la rilevanza sociale, come è accaduto nella vicenda Datalogic, una delle aziende leader nel mondo per la produzione di scanner per la lettura di codici a barre con sede a Bologna; bene, l’azienda avrebbe deciso di trasferirsi in Vietnam licenziando così i suoi dipendenti della divisione trevigiana. E’ consueto in Italia che qualcuno cadi dalle nuvole a notizie di questo genere, ma ciò non può essere permesso al Ministro del Lavoro. Maurizio Sacconi, il ministro, ne è venuto a conoscenza quando l’azienda era già con un piede in Oriente, e solo allora ha deciso di aprire un tavolo negoziale con la stessa. Vi è la necessità di un Osservatorio sulle aziende in crisi, che abbia come attività principale la connessione tra il pubblico e il

di Stefano Poma

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privato, tra il Governo e le imprese italiane, tra Sacconi e la Datalogic.Ritornando alla libertà discendente dal lavoro, che si mescola alla dignità dell’uomo e ne diventa radice e germoglio, essa porta con sé la certezza di un futuro, la stabilità di un’esistenza che è doveroso garantire ad ognuno. Non solo a chi lo esercita ma anche a chi vorrebbe esercitarlo con passione ma si schianta al muro della best practice Italiana, la meritocrazia; un parolone che dietro di sé nasconde, anni e anni di tentato conseguimento. Potremmo anche dire che la nostra nazione è stata edificata sul concetto di clientelismo, dai poeti e cantastorie delle corti, passando per Garibaldi che con poca fatica prese un Sud venduto dai nobili ai Savoia, ai favoritismi familiari nelle Università, nelle Poste, in Finmeccanica, in Ferrari, in Fiat, ed in altre organizzazioni, dove il padre consegna il trono lavorativo al figlio in cambio di un assegno di uscita inferiore alla prassi. E poi ci si stupisce se si vedono volare gli studenti dai tetti degli atenei, come accaduto a Palermo.Difendere la nostra civiltà dalle minacce del progresso, sembra diventare, oggi, ancora più difficile.I turbini che spazzano i viali della stabilità sociale, ripulendola dalla sozzura prodotta dal Potere, tardano ad arrivare nel nostro dannato Bel Paese, e noi giovani e noi famiglie questa attesa la stiamo pagando molto cara.

Quando Enrico Letta a Ballarò le mostrò il Documento Economico Finanziario 2011, nel quale venivano pianificati tagli alla scuola pubblica per ulteriori tredici miliardi e 683 milioni di euro, la ministra Gelmini, stralunata come se avesse visto volare un mulo o Giuliano Ferrara magro, ha esclamato “ma no, il ministro Tremonti me l’avrebbe detto, non ci saranno più tagli”. Spiegando che, giustamente, come sosteneva in studio Mario Sechi (l’uomo che ha gli occhi come i neuroni, uno che manda affanculo l’altro) “quelli del DEF non sono tagli ma riduzione di spesa”. Proprio mentre chi sa almeno leggere e scrivere smetteva di ridere per quest’arrampicamento su uno specchio unto da un getto d’olio continuo, sono arrivati gli effetti del fantastico duo formato dalla Gelmini e da Tremonti: per l’anno scolastico 2011-12 è previsto il taglio di 35 mila posti di lavoro, composti da ventimila docenti e quindicimila per l’organico ATA. Il tutto previsto dal decreto 112 del 2008, poi convertito dalla legge 133/2008, chiamandolo addirittura “decreto per lo Sviluppo”. Ma, per tornare al DEF, ci saranno ulteriori tagli nei prossimi tre anni, quantificati in 4,5 miliardi all’anno. E, nelle casse del Ministero dell’Istruzione, verranno meno 320 milioni per il solo 2011, 640 milioni per il 2012, e ben 960 milioni nel 2013. Facendo scendere la quota del PIL impegnata per l’istruzione dal 4,2% attuale al 3,7% del 2014, e al 3,4% del 2020. Mentre in Europa la Francia gli dedica il 5,6%, la Germania il 4,5% e l’Inghilterra il 5,4%. E, questi tagli, vanno a sommarsi agli otto miliardi e 13 milioni già precedentemente

sottratti dal governo B alla scuola. Dove, già da quest’anno, si sono riscontrate non poche difficoltà sul piano strutturale, dovute al taglio dei docenti. Ben ottantasettemila insegnanti in meno, mandati a spasso, un buco che ha portato allo slittamento di ventimila scrutini in tutta Italia. E, da quando B è sceso in campo, anche le scuole pubbliche sono diminuite, andando controtendenza con la

D-istruzione

Il Ministro dell’istruzionedell’Università e della Ricerca

Mariastella Gelmini

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crescita della popolazione: nel ’94 le scuole pubbliche per l’infanzia erano 13.723, oggi 13.624. Le materne erano 18.211, oggi 16.111. Le scuole medie da 8.494 sono diventate 7.054. Le scuole superiori da 5.049 a 5.025. Per una perdita totale di 3.663 scuole. E, anche un bambino scemo, conosce l’importanza dell’istruzione per la crescita d’un Paese. In occasione della premiazione con 29 borse di studio ad altrettanti studenti da parte della UniCredit & Universities Knight of Labor Ugo Foscolo Foundation, il direttore centrale per la ricerca economica e le relazioni internazionali della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, citando una ricerca dell’OCSE e dell’OECD sul rapporto tra istruzione e Pil, ha dichiarato che ogni anno d’istruzione aggiuntivo corrisponde a una crescita del Pil pro capite del 5%. Ma, prosegue Rossi, questa correlazione non è così evidente in Italia, perché ci sono pochi incentivi a migliorare la propria educazione e perché non ci sono garanzie che l’investimento si traduca poi in salari più alti. Quindi, il laureato italiano, bello bello con la sua valigia, lascia il Paese per andare, tipo, in Francia, dove gl’investimenti per la ricerca

sono stati di 30 miliardi di euro nel solo 2010, o in Germania, dove il governo federale investirà 2,7 miliardi di euro in più nel triennio 2012-2015. Lasciando così un Paese che, per la fuga dei cervelli, è famoso. E provocando un danno economico enorme: equivalente, negli ultimi 20 anni, a quattro miliardi di euro. Cifra quantificata dalle 155 domande di brevetto depositate all’estero. Brevetti che, oltre alla bravura degli scienziati italiani, si realizzano grazie a equipe ben strutturate, sostenute da università e centri di ricerca di valore. Roba che, in Italia, si vedrà solo quando ci sarà il ricambio di questa classe dirigente. Tutta. Emblematica la scenetta che coinvolse Paola Perego e Giulio Andreotti, con la presentatrice (si fa per dire) che chiede al senatore: “senatore, quale futuro gli aspetta e quale futuro spera che abbiano i nostri bambini?”. Mummificazione temporanea del senatore a vita e panico in studio. Gente che, quando andava a scuola, aveva come ministro dell’istruzione Giovanni Gentile, dinosauri del pensiero, che non possono comprendere il cambiamento tecnologico che stiamo subendo o, meglio, che non vogliono capire. Il

sistema scolastico, essendo statale, ha sempre dovuto tenere in piedi il mito dello Stato. Becero retoricume sull’unità d’Italia, schiaffeggi alla Monarchia e slinguazzate alla Repubblica. Ancora vecchi sistemi d’ancien régime, dove la Storia del nostro Paese che viene insegnata nelle scuole si ferma alla seconda guerra mondiale , poiché “non avete bisogna di studiare la seconda metà del novecento, essendoci nati la conoscete già”. E, questa presunzione, richiama un velato senso di censura. Studiare Tangentopoli nelle scuole, per formare una popolazione con senso critico, è fondamentale. Quindi, riformare la Scuola, certo, ma da gente per bene. Tagliare i fondi all’istruzione, significa rendere ancora più analfabeta un popolo già composto da molti analfabeti. Gente che non cerca maestri e che, quando li trova, li trova in malafede. Spiriti guida che vivono del pane donatogli dai sempliciotti, dai poco accorti e dagli sciocchi. Sprovveduti che senza pudore si sparano in vena tutto ciò che è intrattenimento, lobotomizzati davanti alla tv mentre il politico di turno gli frega i nani dal giardino o gli ruba l’autoradio. Poi, siccome tra uno scippo e l’altro va a fare una capatina nello studio televisivo per mostrarsi al popolo italiano e al mondo, viene anche votato dagli stessi derubati. A seconda della simpatia. E, ne siamo certi, queste armi di distrazione di massa esisteranno sempre, è l’istruzione che deve far alzare il livello culturale. Anche perché la classe dirigente è lo specchio del proprio popolo. È accaduto con Mussolini, è accaduto con Craxi, è accaduto con B: siamo un popolo a cui piacciono i protervi, i capi ostinati, il cinghiale con lo smoking avvezzo alla politica urlata. Forse perché, quelli che parlano a bassa voce, non li sentiamo. Non ci hanno ancora insegnato a sentire meglio.

di Denise Puca

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L’emergenza rifiuti a Napoli sembra non avere mai fine. Dalle utopiche promesse di “due settimane” o “tre giorni” sbandierate nelle campagne di propaganda di B., alle amare (ma più realistiche) considerazi-oni di “almeno 3 anni”, secondo il presidente della regione Campania, Caldoro, indagato per “epidemia colposa”.

Il nuovo piano previsto dalla sua Giunta, approvato agli inizi di marzo, prevede la creazione di quattro nuovi inceneritori, di cui uno a Napoli est, per il quale sono già partiti i bandi di concorsoIntanto, un inceneritore esiste già, quello di Acerra (inaugurato in stile Hollywood, con tanto di maxis-chermo magnificante delle gesta premierali), che doveva attuare il “miracolo” berlusconiano. In realtà, su tre linee presenti ne funziona soltanto una, talvolta due, peraltro a singhiozzo, a causa di continui problemi di manutenzione, il che è indice di problemi ben più gravi. Nell’ottobre 2010, infatti, la procura di Napoli ha avviato un’inchiesta per verificare “se le sue caratteris-tiche corrispondano al bando di gara, sulle emissioni, sulla qualità e la quantità dei rifiuti bruciati”.Attualmente, infatti, i rifiuti brucia-ti sono quelli provenienti dalle eco balle (che di ‘eco’ non hanno nul-la!), cioè balle di spazzatura pres-sate negli ex CDR (attuali STIR) e non a norma, per l’alta presenza di residui di umido, che le ‘gonfia’ per al fine di aumentarne il numero (in modo da ottenere maggiori finanzi-amenti) e che le rende di fatto non adatte alla combustione. Per questo motivo (molto fraudolento), prima di gettarle nell’inceneritore, ven-gono aggiunti rifiuti combustibili

non differenziati, dunque inquinan-ti. C’è anche da ricordare che, se Acerra funzionasse, occorrerebbero comunque 50 anni per smaltire tutti i depositi di balle accatastate in giro per la regione.Il problema quindi, come ricor-da Michele Buonomo, presi-dente di Legambiente Campa-nia, “non è quello che esce da quell’inceneritore: è quello che entra I materiali che arrivano molto spesso non sono solo quelli che dovrebbero entrare”. Non è un caso, visto che “non siamo esattamente campioni nei controlli, tant’è vero che in Campania ci sono migliaia di microdiscariche illegali e ci sono interi territori invasi dai rifiuti. Evi-dentemente qualcosa non funziona nel controllo. Noi abbiamo spesso le leggi più rigorose, perché tanto non le applichiamo”.

Intanto, i livelli di raccolta differen-ziata continuano ad essere perico-losamente inferiori ai livelli nazi-onali. Partita benissimo in alcune zone campione della città, come Colli Aminei o Bagnoli, nelle quali raggiungeva quasi l’80%, così come in alcuni comuni di provincia, che oggigiorno superano abbondante-mente la soglia del 35%.Epperò, basta che le zone ancora prive del programma di raccolta differenziata entrino in crisi per far saltare l’intero sistema. Tra le ultime decisioni della giunta Caldoro per risolvere il problema c’è la regionalizzazione rifiuti della raccolta, che comporta lo sver-samento dei rifiuti indifferenziati di Napoli al di fuori della provin-cia stessa. La decisione ha subito suscitato le proteste da parte delle province di Benevento e Avellino che, nonostante siano in testa nelle

classifiche dei “comuni ricicloni” in Campania, rischiano di essere som-merse dall’immondizia.In definitiva, però, di chi sono le responsabilità di questo disastro? Il continuo scaricabarile di accuse tra la ex giunta Iervolino e il trio Berlusconi-Caldoro-Cosentino induce a pensare che l’immondizia si sia autogenerata spontanea-mente, a dispetto della fisica e dei napoletani. Intanto, è ancora aperta l’inchiesta denominata “Rompi-balle”, che ha instaurato un proces-so a carico di Impregilo (la società concessionaria dell’appalto sulla gestione dei rifiuti dal 2000, non-chè di altre chicche come il ponte sullo Stretto di Messina, il Mose di Venezia, tratti della Salerno-Reggio Calabria e l’ospedale San Salvatore a L’Aquila), di Bassolino e di circa al-tre 20 persone per traffico illecito di rifiuti e truffa ai danni dello Stato. Stralciata dall’inchiesta invece, la posizione di Guido Bertolaso, la cui vicenda, secondo i pm “se non fosse stata scoperta avrebbe portato a un nuovo e più grave disastro ambien-tale”.

In quest’ottica, quindi, risultano minime le responsabilità dei citta-dini napoletani, accusati da decenni di essere “incivili” e disattenti e, ancor peggio, menefreghisti. Secon-do Buonomo, infatti, “al cittadino dobbiamo chiedere di attenersi alle leggi, alle norme, ma quando viene messo in condizioni di farlo. Io posso invitare i cittadini ad usare di più il mezzo pubblico, ma se il mezzo pubblico non c’è, funziona male, oppure ci sono dei tagli nelle corse, il cittadino non può fare a meno di prendere l’auto. Quindi il cittadino è responsabile in minima parte, nonstante abbia delle grosse responsabilità come elettore. Dovrebbe mettere più attenzione, dovrebbe pretendere alcune cose. I mali della democrazia si guariscono solo con più democrazia, e ciò non significa avere leggi più democrat-iche, ma solo più partecipazione.”

l’emergenza infiniTa

di Denise Puca

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non è un paese per occupAti

crisi sono i giovani nella fascia tra i 15 e i 29 anni, di cui ben 501 mila si sono ritrovati disoccupati. In più si nota come l’innalzamento dell’età pensionabile “abbia com-portato una maggiore permanenza nell’occupazionedella forza lavoro con almeno 50 anni di età”. Il rischio della “trappola della preca-rietà”, che tanti sedicenti politicanti avrebbero pensato di risolvere con la magica formula della “flessibilità del lavoro”, è in realtà aumentato, così che circa un quinto dei cosid-detti “lavoratori atipici” finisce per non vedersi rinnovati i contratti a tempo determinato.Altra bella notizia riguarda l’istruzione, ormai inutile come scudo per proteggere i giovani dagli effetti della crisi. La percentuale dei diplomati occupati è infatti scesa di circa due punti, arrivando al 43,9%; mentre quella dei laureati è scesa al 48,5%.dell’ignoranza, della povertà e della paura di un futuro sempre più buio.Dicono che il vento sta cambiando. Sarebbe ora, però, di vederlo soffiare nella direzione giusta.Si legge inoltre che “la crisi ha am-pliato gli storici divari nella parte-cipazione delle donne al mercato del lavoro”. Partendo già da livelli imbarazzanti, siamo arrivati ad un divario di circa 12 punti percentuali nel confronto con gli altri paesi

dimensioni di estrema gravità nel Mezzogiorno”, così che “si è ulteri-ormente ridotto il già esiguo tasso di industrializzazione delle regioni meridionali “. C’è da dire che, anche se, nello scorso anno, il tasso di disoccupazione in Italia è stato più basso di quello medio europeo, si è raggiunto il livello più alto dal 2002, con ben 2,1 milioni di disoc-cupati. Come se non bastasse, c’è stato un aumento dell’inattività lavorativa, arrivata al 37,8%, superi-ore quindi di quasi 9 punti al livello europeo. Ciò significa che milioni di persone sono così scoraggiate da aver smesso di cercare un lavoro, ritenendo che sarebbe stato del tutto inutile. Risulta lampante quindi che l’impatto della crisi sull’occupazione sia stato pesante. Nel biennio critico mezzo milione di persone ha perso il lavoro, di cui più della metà sono residenti nel Mezzogiorno. I proble-mi sono sempre gli stessi: il divario territoriale è enorme, con un dis-tacco di oltre venti punti tra il Nord e il Sud, che aumenta se si considera il tasso di occupazione delle donne nelle varie zone d’Italia.Come sempre i più colpiti dalla

Il ritratto impietoso dell’Istat sulle conseguenze della crisi nel 2010 è la conferma di ciò che ognuno di noi vive sulla propria pelle. Il paese è fermo. La crescita rallenta, crolliamo nelle classifiche europee sull’occupazione giovanile e fem-minile, le condizioni di lavoro peggiorano e le speranze di miglio-ramento sono deboli. Il rapporto, presentato il 23 maggio alla Camera dei deputati, analizza l’andamento del mercato del lavoro negli ultimi anni di crisi, inseren-dolo nel bilancio complessivo del decennio 2000-2010. Fino al 2008, infatti, si era registrato un aumento del numero di occupati dell’11%, dato che stabilizzava l’Italia sui livelli della media europea. Ma la recessione che ha colpito l’economia mondiale si è prolungata anche per parte del 2010, mentre nelle altre maggiori economie eu-ropee (eccezion fatta per la Spagna) c’è stato un recupero più veloce, con conseguenze meno devastanti.Nel 2009 c’è stato un aumento delle ore di lavoro, piuttosto chedel numero di posizioni occupazi-onali, per cui le ore di straordinario sono arrivate al 3,8%.In più c’è stato un massiccio ricorso alla Cassa integrazione, che “solo ora si sta lentamente riassorbendo”. I settori più colpiti dalla crisi sono quelli “tradizionali”, cioè l’industria manifatturiero-estrattiva e le costruzioni, per cui ne risentono soprattutto le fasce più deboli della società.Solo nel campo della manodopera industriale, infatti, hanno perso il lavoro ben 404 mila persone tra il 2009 e il 2010. “Ancora una volta – sottolinea il rapporto - il fenomeno ha assunto

di Margherita Di Clemente

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europei. La principale causa dell’interruzione dell’attività lavorativa continua ad essere la nascita di un figlio, solo che in oltre la metà dei casi, questa non risulta essere una libera scelta da parte delle donne. Tra il 2008 e il 2009, infatti, “circa 800 mila madri hanno dichiarato che nel corso della loro vita lavorativa sono state licenziate o sono state messe in con-dizione di doversi dimettere in occa-sione o a seguito di una gravidanza”. Di queste, “solo il 40,7 per cento ha poi ripreso l’attività, e le opportunità di riprendere a lavorare non sono le stesse in tutto il Paese: su 100 madri licenziate o indotte a dimettersi, riprendono a lavorare 51 nel Nord e soltanto 23 nel Mezzogiorno”. Sono dati che sconvolgono solo chi ha ignorato le condizioni del paese negli ultimi tempi. La dura realtà, denunciata dalle continue proteste dei lavoratori, non può continuare ad essere insabbiata come “mistifi-cazione” della “solita sinistra disfat-tista” o come una conseguenza in-evitabile dovuta alla crisi. I numeri parlano chiaro: l’Italia non sa reagire come gli altri paesi. Le “dimissioni in bianco” hanno aumentato il liv-ello di discriminazione delle donne nel mondo del lavoro. L’uso massic-cio di contratto a tempo determi-nato ha reso il precariato uno stile di vita, scoraggiando migliaia di giovani italiani che speravano in un futuro migliore. I tagli alla cultura non solo hanno ridotto il numero – già esiguo – di dipendenti statali, ma hanno reso l’istruzione inaccessibile alle fasce più deboli, contribuendo anche a svalutare l’importanza di un titolo di studio.Sarebbe ora che la classe dirigente di questo paese si svegliasse, ren-dendosi conto che c’è un’Italia che sta morendo sotto il peso dell’ignoranza, della povertà e della paura di un futuro sempre più buio.Dicono che il vento sta cambiando. Sarebbe ora, però, di vederlo soffiare nella direzione giusta.

l’italiache Implode

Il quadro presentato dall’Istat è quanto mai fosco: nell’ultimo decennio l’Italia ha realizzato la performance di crescita peggiore tra tutti i paesi europei.Considerata ormai il “fanalino di coda dell’UE”, l’Italia si trova ad af-frontare nuovamente i demoni che l’accompagnano dalla nascita e che, ad oggi, rischiano di soffocarla.La crisi è ormai stagnante.O si interviene oppure rischiamo di esser vinti.Si parla del nostro mostruoso debito pubblico, della scarsa cresci-ta (il nostro tasso medio annuo è dello 0.2%), della mancanza di in-novazione e ancora, dopo 150 anni dall’unità, del “problema del mez-zogiorno”.Nel documento dell’Istat si registra ,infatti,una situazione particolar-mente critica nel Mezzogiorno, dove si attesta il maggior numero di persone in Cig a distanza di un anno e il minor numero di rientri sul posto di lavoro (33,6% a fronte del 64,2 nel Nord), con un flusso più ampio di uscite verso la disoc-cupazione (7,9%) e, soprattutto, verso l’inattività (24%)”.

Il nostro PIL, negli ultimi 15 anni, è cresciuto meno dell’1% della media europea e siamo tra i soli 5 Paesi su 33(insieme a Spagna, Islanda, e Irlanda) che non riusciranno a recuperare la perdita di PIL dovuta alla crisi(2008,2005).Eppure siamo qui, fermi.L’Italia ha bisogno di politiche finanziarie, industriali e fiscali più agili ma il governo non è in grado di realizzare una benché minima politica in tal senso ed invece uti-

lizza strumenti quali privatizzazioni e taglio agli incentivi quasi fossero una panacea a tutti i mali.

Anche la cassa integrazione sta finendo e siamo attestati su livelli di crisi mai toccati prima causa della scarsa domanda interna dovuta al basso livello del reddito disponibile dei consumatori ed alle difficilis-sime situazioni del mercato del lavoro per i giovani.E non solo siamo fermi, non vogli-amo neanche provarci.I nostri obiettivi, fissati dal PNR, sono infatti tra i più bassi d’Europa(della serie neanche ci proviamo).La crescita è serenamente appog-giata sullo 0 ma dall’alto di Mon-tecitorio continuano a dire che va tutto bene(magari a furia di ripeter-lo iniziano addirittura a crederci), che i conti pubblici hanno retto e gli italiani sono ricchi.Peccato che anche i dati trimes-trali dell’Eurostat dimostrano che su base trimestrale peggio di noi riescono a fare solo Portogallo e Cipro.Con questo scenario a tinte nere si ingrossa la fila dei c.d “inattivi”,ovvero coloro che non sono ne’ disoccupati ne’ occupati; sono coloro che hanno perso la voglia (o la forza) di cercare lavoro. Il tasso di inattività e’ oggi pari all’incirca al 38%.La percentuale dei “neet” (not in education employment or train-ing), giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano corsi di istruzione è nettamente superiore a quella tipica degli altri paesi europei (è di circa il 22% della

di Massimo Pittarello

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popolazione).

È chiaro: non va tutto bene.L’Italia è stata riconosciuta vulnerabile ed è evidente che per fronteggiare le crescenti difficoltà la società ha eroso molte delle riserve disponibili,le famiglie hanno ridotto drasticamente il tasso di risparmio per soste-nere il loro tenore di vita, l’economia nazionale mostra numerose difficoltà nella fase della ripresa che è, infatti, pari ad 1/3 di quelle delle nostre vicine Francia e Germania.I più colpiti, anche questa volta, sono i giovani e le donne.Secondo Giovannini per queste fasce di lavoratori, si avrebbero “prospettive sempre più incerte di rientro sul mercato che ampliano ulteriormente il divario tra le loro aspirazioni, testimoniate da un più alto livello di istruzione, e le opportunità”Per quanto riguarda il lavoro “in rosa” cresce il part-time involontario ma soprattutto aumenta la disparità salariale rispetto a quello maschile creando un divario di circa il 20%.I giovani sono sempre più ai margini della società:“Il n’y a rien pour les jeunes”, così recita un articolo di «le Figaro» parlando della situazione di marginalità dei giovani italiani, ma il governo risponde solo con tagli: all’istruzione pubblica, alla ricerca, alle tutele sociali. In tutti i paesi europei,poi,chi rimane senza lavoro riceve un sussidio che può essere sia assistenziale che assicurativo (indennità proporzionale alla retribuzione

e ai contributi versati); non ci stupisce ormai sco-prire che entrambi questi sussidi coesistono ovunque tranne che in Italia(e in Grecia).Sfogliando i dati si legge,inoltre, che Il tasso di occu-pazione specifico è diminuito negli ultimi due anni di circa 6 punti percentuali. Nel 2010 era occupato circa un giovane su due nel Nord e meno di tre su dieci nel Mezzogiorno.

Sono dati allarmanti che fanno dell‘Italia un paese vec-chio, un paese dal quale i giovani fuggono per soprav-vivere.Come spiega anche Saccomanni (direttore generale della Banca d’Italia) “non si puo più restare immobili, va superato il dualismo iniquo e inefficiente del mer-cato del lavoro. Il sistema di istruzione ancora non garantisce conoscenze e competenze adeguate al nuovo contesto competitivo globale”.

l’aquila rugby“L’Aquila Rugby è L’Aquila e L’Aquila è L’Aquila Rugby”.

Con queste parole la società dell’Aquila Rugby sintetizza il rapporto che c’è con la città. Una relazione suggellata dal più prestigi-oso premio che in questa disciplina sportiva si può ottenere a livello mondiale: “Spirit of Rugby”, fregio che International Rugby Board ha assegnato all’Aquila Rugby, prima e unica squadra in Italia, dopo che nella notte del 6 aprile 2009 l’intera

squadra della palla ovale ha evacu-ato un intero reparto dell’ospedale cittadino. E’ un anno particolare quello appena trascorso per la società aquilana, che celebra pro-prio nel 2011 il settantacinquesimo anniversario dalla sua fondazione. Ma riconoscimenti e ricorrenze non migliorano la vita della so-cietà. “Spirit of Rugby, vuol dire che il valore della nostra squadra è riconosciuto più all’estero che fra le mura amiche”. Con queste pa-role Marco Molina, responsabile

relazioni esterne della società com-incia a togliersi qualche sassolino dalle scarpe “Molti con la squadra si sono riempiti solo la bocca. In tanti parlano e basta. La realtà è che dalle istituzioni locali, comune, provincia e regione non è arrivato nemmeno un po’ di sostegno”. E se a ciò si aggiunge che fra i membri del consiglio di amministrazione che riporta il sito della società c’è anche un tale Massimo Cialente, proprio lui, il sindaco dell’Aquila, qualche interrogativo rimane.

di Luisa Caridi

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Parlo da insegnante: se ne parla ormai da tre anni, si manifesta, si organizzano sit-in a Montecitorio e di fronte alla sede del Ministero della Pubblica Istruzione, docenti di ogni ordine e grado digiunano, protestano, ponendo a rischio la propria vita e l’equilibrio delle proprie famiglie. Ma perché tutto questo? Forse perché, come dice l’insigne Mary Star, i professori sono tutti comunisti? O forse per-ché tentano disperatamente di con-servare un posto di lavoro? No, non ci siamo proprio. Qui il problema riguarda il futuro e l’incolumità delle giovani generazioni, e in senso più ampio lo sviluppo del nostro paese. Tagli sconsiderati alla scuola pubblica (e altri 20000 a quanto pare sono program-mati per il prossimo anno) hanno prodotto e continuano a produrre appiattimento culturale, disordine, mancanza di punti di riferimento. Analizziamo punto per punto. 1. Appiattimento culturale. si for-mano classi di 30/35 alunni, molti dei quali vivaci e iperattivi, con la tendenza a urlare appresa dai mass-media e dalla politica. L’insegnante si ritrova quindi a dover fare prima il baby sitter, poi lo psicologo e infine forse riesce a lavorare, spesso riducendo i programmi e abbassando i livelli; come seconda ipotesi può scegliere di bocciare indiscriminatamente per riportare l’ordine, andando a ingrossare gli iscritti delle paritarie per gli stu-denti più abbienti, che potranno reindirizzarsi a un percorso di studi alternativo, gettando invece per strada chi i soldi per acquistare

In effetti la sede della società è in un prefabbricato di quattro metri per quattro, riscaldato con una stufa elettrica. Forse non proprio l’ideale per una squadra da “Spirit of Rug-by”; ma lo sfratto esecutivo che in-combe non è certo di buon auspicio per una sistemazione più degna. Lo sfratto esecutivo invece arriva per-ché la sede societaria è all’interno di quello che viene chiamato lo “Stadio del Rugby”, struttura da 14000 posti a sedere iniziata con i contributi de-gli atleti che hanno vinto lo scudet-to del rugby nel 1967 e nel 1969, poi con i contributi della Federazione Italiana Rugby e successivamente con quelli disponibili in occasione dei mondiali di calcio di Italia 1990. In realtà nello “Stadio del Rugby” non è mai stata disputata nemmeno una partita. Ultimato nel 2009 dopo decenni di lavori, subito dopo il ter-remoto è stato adibito a tendopoli. Ora le tende non ci sono più, ma non c’è più nemmeno la speranza che il rugby si possa giocare. I piani alti hanno deciso che quello sarà lo stadio del calcio, dell’Aquila Cal-cio che attualmente milita in serie D. Chissà se si ricorderanno che almeno il nome va cambiato. Intanto nel cancello dello “Stadio del Rugby” c’è affisso un cartello nero verde che recita la scritta “Un passo alla volta”. Il perché ce lo spiega ancora Marco Molina: “Un passo alla volta vuol dire che non cerchiamo illusioni, che voliamo basso, che viviamo come una partita di rugby, dove per andare avanti bi-sogna passare la palla indietro, dove ogni centimetro costa sudore, fatica e a volte sangue, dove il nostro com-pagno è nostra forza e protezione e il nostro scopo è strappare fazzoletti

di terra agli avversari da passare in consegna al nostro compagno. Un passo alla volta, come in una guerra di logoramento, una guerra di trin-cea; anche qui siamo in trincea”.La società ha anche cambiato i colori sociali: da rosso-blu a nero-verde: nero per il lutto, verde per la speranza. Quella speranza che l’attività sportiva, come la cura del fisico, della mente e dei rapporti interpersonali può regalare a dei ragazzi che dopo il terremoto si ritrovano a girovagare nei centri commerciali senza prospettive. “Cerchiamo di tenere duro e di dare speranza ai cittadini di questa città” è la chiosa finale del dirigente nero verde. Ma anche il mantenimento del campo di gara è un problema. Lo Stadio Fattori dell’Aquila, terreno di gioco storico e, a quanto pure, futuro, è stato costruito secondo un progetto che prevedeva una capi-enza di 9200 posti. In realtà, per gli standard di sicurezza che non ci sono – non sismici, ma per ciò che riguarda tornelli, accessi per i porta-tori handicap, le uscite di sicurezza, ecc… – la storica struttura è omolo-gata per 2000 posti, con una deroga a 3200, quota che viene spesso rag-giunta durante i match del campi-onato di eccellenza.Lo scorso 30 gennaio, ad esempio, nello stadio Fattori si sono disputati 6 match differenti, perché L’Aquila Rugby non è solo la prima squadra, ma è composta sono diverse com-pagini di diverse categorie. L’Aquila Rugby ha 500 bambini iscritti che si dividono l’unico campo da rugby rimasto in città, con l’under 20 e i seniores, si arriva a 600 persone che giocano su un solo campo nella stessa giornata. Speriamo che regga.

S.O.S.SCuola pubbliCasull’orlo di una CriSi di nErvi

L’Aquila Rugby

di Fernanda Abbadessa

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un diploma non ce l’ha. E a poco servono le battute dell’ex ministro della Giustizia Castelli, il quale sostiene che lui frequentava una classe di 44 alunni e stava benissi-mo! Parliamo di contesti storici di-versi in cui non solo i ragazzi erano diversi, ma anche i metodi. Se la memoria non mi inganna, fiorisco-no racconti di professori con la bacchetta, che infliggevano pene umilianti ai discenti, dividendoli in buoni e cattivi. Certo mantenevano l’ordine, ma è quella la scuola che vogliamo? Una scuola classista, coercitiva piuttosto che educativa? Non è forse meglio creare classi di 20/22 alunni che possono essere seguiti didatticamente e umana-mente? 2. Disordine. con i tagli al personale Ata, e l’eliminazione delle ore a disposizione per i docenti, le classi spesso rimangono scoperte e i ragazzi sono fuori controllo con tutti i rischi annessi e connessi. 3. Mancanza di punti di riferimento. Con il precariato in aumento, so-

prattutto nelle scuole di provincia gli studenti cambiamo docenti tutti gli anni, e per questioni di medie matematiche volute dal Ministero si ritrovano ad avere le cattedre frammentate con 1 docente diverso per ogni materia, addirittura mi è capitato di vedere in una seconda di un liceo 3 insegnanti diversi per la cattedra di lettere (1 di italiano; 1 di latino; 1 di storia). Cosa genera questo? Oltre a una mancanza di continuità che penalizza la realiz-zazione di un percorso formativo adeguato, la mancanza di punti fermi per i ragazzi in una società precaria dove spesso non hanno dei modelli, né in famiglia, né nelle istituzioni e in nessun altro settore dell’esistenza. Perché ci stupiamo allora se sono indisciplinati? Cosa fanno le istituzioni per garantire lo sviluppo equilibrato dei ragazzi? Nulla fuorché tagli programmati a tavolino per far quadrare la finan-ziaria. E mentre in questa tempesta gli insegnanti cercano di trasmet-

tere valori sacri come la libertà, la democrazia, il rispetto, la giustizia, dal premier arrivano pesanti ac-cuse. “I docenti di sinistra incul-cano valori diversi da quelli delle famiglie”, quindi Pericle, Roussau, Manzoni, Dante ecc sarebbero dei sovversivi? Forse mi sfugge qual-cosa o io in 30 anni della mia vita non ho capito nulla, ma a giudicare dai bunga bunga e mignottocrazia varia non mi pare che il nostro presidente si prodighi a trasmet-tere l’immagine della famiglia tradizionale, quel che emerge è lo squallore di un mondo mercificato. Per concludere l’ultima delizia offertaci dal Ministero è la prova INVALSI sul cui modello dovrebbe svolgersi l’esame di Stato. Crocette per valutare la capacità logico-crit-ica-espressiva di una persona. Non credo di dover aggiungere nulla, la prova si commenta da sé... e il DEGRADO continua...

veni VIdI viciSono le parole con cui Cesare (Plutarco, Vita di Cesare, 50, 6) annunciava la sua rapida vittoria nel Ponto e che oggi vogliamo ricordare in omaggio al nuovo Ministro Galan, insediato il 23 marzo al Dicastero per i Beni e le Attività Culturali. L’On. Galan ha messo in campo ogni energia per analizzare e di seguito razionalizzare le risorse disponibili, poi si è battuto per ricordare che la cultura è un bene indispensabile per il nostro paese e che investire in essa porterà a delle ricadute positive sul piano del turismo e dell’economia. La prima manovra finanziaria decisa dal Governo in favore dei Beni culturali, dal momento dell’arrivo di Galan,

è stata quella di aumentare le accise di benzina per ottenere maggiori fondi (57,3 milioni di euro) che verrano destinati alle azioni d’urgenza segnalate da Soprintendenze e Direzioni Regionali. In data 10 giugno il Consiglio Superiore dei Beni Culturali ha siglato un documento che approva interventi per 47,7 milioni di euro (provenienti dai fondi del Lotto) che verranno affidati ad Ales, società in house del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, escludendo altre società private a cui in passato erano state affidate attività e servizi. Quest’azione ha permesso un risparmio di circa 4 milioni e mezzo di euro che potranno essere

usati per restauri e azioni di tutela. Quindi l’On. Giancarlo Galan, in un momento di particolare fervore politico, è riuscito a far ripartire la macchina amministrativa, con caparbia ed energia. Chiedendo anche lo sblocco delle assunzioni, che autorizzate dal Decreto Omnibus dello scorso mese, consentiranno di inserire personale negli uffici delle Direzioni Generali, delle Soprintendenze e nelle strutture dell’amministrazione periferica diffuse a livello regionale. Resta il cavillo del turn over, che limita il numero di nuove leve al 20 per cento rispetto ai pensionamenti, restano anche le carenze di organico (a cui si sopperisce esternalizzando i

di Giuseppe Pipitone

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servizi a società private). Però indubbiamente ora ci troviamo in presenza di una svolta. Perchè? Basti ricordare che l’anno scorso abbiamo sentito dire che “con la cultura non si mangia”. Inoltre sino al 2011 al Ministero per i Beni e le Attività Culturali sono stati imposti tagli per circa un miliardo e mezzo di euro. Questo ha determinato una carenza gestionale ed una paralisi delle azioni di tutela. Situazione chiaramente denunciata da un illustre professore, Salvatore Settis, che al momento dell’insediamento dell’ On. Bondi al Ministero, veniva riconfermato Direttore del Consiglio Superiore dei Beni culturali. Le reiterate dichiarazioni sulle conseguenze prodotte dai tagli, sull’inutilità di un super manager per la valorizzazione o di gestioni commissariali delle aree archeologiche, hanno finito con il provocare un inasprimento dei toni e le dimissioni stesse dello studioso. L’archeologo aveva predetto ciò che, in mancanza di tutela, di lì a poco si sarebbe verificato: nel 2010 crollano alcune volte delle gallerie Traianee della Domus Aurea, una porzione delle Mura Aureliane nei pressi dell’arco di via Nola, mezzo metro quadro di malta dagli ambulacri del primo piano del Colosseo, la Schola Armaturarum ed altre strutture murarie a Pompei e frana parte del villaggio dell’età del Bronzo di Nola. È vero che anche durante le precedenti legislature si sono verificati alcuni crolli, però qualche intervento a favore dei beni culturali c’è stato: l’allora Ministro Rutelli ha bandito un concorso per funzionari archeologi, architetti, storici dell’arte e personale di custodia. Ciò nonostante il Ministero continua a registrare pensionamenti di centinaia di persone, che al momento sono solo in parte reintegrate col turn over al 20 per cento. Oggi Galan, in soli quattro mesi di lavoro ha ottenuto fondi per risanare le situazioni più critiche, con Pompei Ercolano e Oplontis in testa, destinatarie di un piano finanziario di 105 milioni di euro per attività di restauro e valorizzazione. Il Codice dei beni culturali afferma che la tutela è imprescindibile; essa si attua con una continua attività di conoscenza, prevenzione, manutenzione e restauro. Pur trovandoci di fronte a numerosi monumenti che hanno migliaia di anni, oggi abbiamo tecniche avanzate per recuperare i monumenti danneggiati, ma prevenire con il monitoraggio rende chiaramente inferiore la spesa, così come recentemente ricordato dal Consiglio Superiore dei Beni culturali. Tanti laureati in beni culturali, archeologia e restauro potrebbero mettere in campo le loro competenze, peraltro molti di loro attendono ancora un riconoscimento giuridico della professione. Di cultura si può mangiare eccome, purchè il nostro patrimonio, ben pubblicizzato e curato, determini un incremento dell’industria del turismo.

pupAri, CAlunnie e dinAmiteUna trattatIva dI sorpreseFacce da mostro, signor Franco/Carlo, papello e contro papello. Adesso la vicenda sulla Trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra si tinge ulteriormente di giallo. Sullo sfondo l’ombra di un puparo a cui sarebbe possibile dare un volto e un nome. Per il momento però Massimo Ciancimino si è limitato a indicarlo soltanto come Mister X, su indicazione dei magistrati della procura di Palermo - ii sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido e il procuratore aggiunto Antonio Ingroia - che sono tutt’ora impegnati in attività d’indagine. Il protagonista delle scottanti rivelazioni (ormai a getto continuo) che hanno fatto aprire le indagini due anni fa è ancora oggi rinchiuso nel carcere Pagliarelli di Palermo per calunnia aggravata nei confronti di De Gennaro dopo la scoperta dell’artefatta lista di nomi, quasi tutti funzionari dello Stato, in cui era contenuto anche il nome di De Gennaro, collegato con una freccia a Gross, individuato dal Massimo Ciancimino come il signor Franco. Il documento, che la polizia scientifica ha poi accertato essere un “falso”, sarebbe stato consegnato a Ciancimino proprio dall’oscuro “puparo”, Mister X. “Dopo il 7 aprile 2010 - ha rivelato Ciancimino Junior - sono stato avvicinato da questo mister X. Mi ha citato alcuni personaggi a me cari. Sosteneva che mio padre fosse stato perseguitato da De Gennaro e Falcone. Mister X era un carabiniere, autista del generale Paolantonio. L’ho incontrato a Palermo e Bologna. Mi ha dato una serie di documenti. Voleva che li consegnassi io ai pm. Lui non voleva apparire”. Il carabiniere, ex autista del generale Giacinto Paolantonio, si sarebbe presentato a Ciancimino proprio dopo la presentazione del libro “Don Vito” nel capoluogo palermitano. E dopo avergli presentato addirittura il suo biglietto da visita (al vaglio degli inquirenti) avrebbe dichiarato di essere in possesso di alcuni documenti appartenenti all’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. “Mi disse che erano documenti utili per me. Che li aveva ricevuti da mio padre ed era il momento di consegnarli ai pm”. Tra questi, anche il documento in cui si parla del giudice Giuseppe Di Gennaro, essenziale per provare la falsità dell’elenco di nomi in cui si accusa Gianni De Gennaro e che è costato a Massimo Ciancimino l’arresto. “Ho ricevuto questo scritto da mister X per posta - ha detto il figlio di Don Vito - Mi disse che lo aveva avuto da

di Gianluca Di Agresti

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mio padre. Ho scritto io i nomi tranne quello di De Gennaro. Me lo dettò mio padre per ricordare i suoi rapporti con le istituzioni. Ho scritto sotto la dettatura di mio padre. Mi sono meravigliato. C’erano nomi che non avevo mai sentito dire prima. Non ho scritto io De Gennaro. Ho chiesto a mio padre nel 2000 chi c’era dietro Gross. E mio padre mi disse che c’era De Gennaro. Poi mister X mi consegnò lo scritto col nome di De Gennaro”. E sempre Mister X avrebbe fatto pressioni su Massimo per consegnare al più presto i documenti “taroccati” ai magistrati. “Mi diceva di portare al più presto i documenti con scritto De Gennaro ai pm, perchè erano importantissimi”. Mister X avrebbe inoltre consegnato a Massimo Ciancimino anche una lettera, scritta dal padre Vito, e rivolta all’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Il puparo, ex autista di Paolantonio, si sarebbe espresso anche sull’opportunità per Ciancimino junior di continuare ad essere teste d’accusa nel processo a Mori e Obinu. “Mi ha detto di non parlare più con i pm su Mori ed altri. Perché diceva che erano stati altri a portare avanti la trattativa. Mi disse che era stato De Gennaro a organizzare l’intercettazione in Calabria per screditarmi. Mi suggerì di allontanarmi da Palermo. Di stare attento. E dopo pochi giorni mi è stato recapitato il pacco con la dinamite a casa”. In origine, secondo il racconto di Massimo Ciancimino, i candelotti di dinamite recapitati nella casa di via Torrearsa a Palermo, sarebbero stati addirittura 50 “erano da parte di Messina Denaro - ha spiegato il teste - ed erano accompagnati da una foto di mio figlio mentre saliva sulla blindata e sul retro la scritta: ‘Stai attento a come ti comporti, a quello che dici e recapita 750 mila euro a chi sai’.Avevo paura e non ho denunciato il fatto. Ho diviso i candelotti in due sacchi: una parte l’ho seppellita e una parte l’ho fatta buttare a mare da un amico”. In realtà, come si è scoperto in seguito, l’amico di Ciancimino Junior non li avrebbe buttati a mare, ma “soltanto” in un cassonetto di rifiuti.Le indagini sulla trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra proseguono, ma dopo l’implosione del super testimone Massimo Ciancimino hanno subito uno brusco stop. Con i media che hanno colto la palla al balzo per dare addosso ai pm – colpevoli di voler ricercare la verità lì dove sarebbe meglio far cadere l’oblio – e un’opinione pubblica che a causa delle piroette del figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo sembra seguire gli sviluppi con maggiore disinteresse rispetto al passato.

e se l’opposizione

va al bar!Una cosa del genere può accadere solo in questa malata Italia in cui resta in sella ancora B. nonostante le notti di Hardcore, i processi del lunedì (non quelli di Biscardi si intende) e i disguidi con il Carroccio. Se l’opposizione in Parlamento avesse fatto il proprio dovere, in realtà il satrapo di Arcore avrebbe già da tempo dovuto salutare Palazzo Chigi. E quindi addio alla “riforma epocale” della giustizia per salvarsi dal processo e non nel processo ed addio quindi gioco forza al federalismo padano e secessionista che vu-ole la Lega. Tutto semplice se ciò non accadesse nello Stivale dove i “compagni” dell’opposizione vanno al “bar” considerate le assenze dorate degli onorevoli. Uno studio fatto recentemente da statistici e sociologi ha evidenziato la sistematica mancanza in Parlamento degli “oppositores” di B. che oltre a perdere pezzi (vedi Razzi e Scilipoti ma anche Calearo) si permettono il lusso di non presenziare ai lavori parlamentari. Se per il berlusconismo qualcuno suona già il “de profundis” qualcun altro del Pd in questi giorni non vuole cred-ergli e corre in soccorso del Cavaliere. Un roboante Veltroni dichiara: “Nel nostro partito urge dopo le elezioni un momento di riflessione per una svolta moderata. A rincarare la dose D’Alema: “La vittoria alle amministrative non è della sinistra radicale ma nostra. Dobbiamo allearci col Terzo Polo”. Il politico di Gallipoli evidentemente ha voglia di fare la “Union Sacrèè” ex fascio-comunista ora terzo-polista con Fini. Subito pronto Casini dall’altare a dichiarare marito e moglie i dalemiani e i finiani. Oddio ma ce li vedete ex missini ed ex comunisti tutti insieme appassiona-tamente alle elezioni? Certo che D’Alema è uno che se ne intende di “inciuci” politici. Ve lo ricordate ai tempi della “Bicamerale”? Quanti benefici ne ha tratto lo stesso B. Analizzando con dovizia di particolari la questione punti di convergenza si trovano tra terzo-polisti ed alcuni democratici. Ad esempio su alcuni temi cocenti come lavoro ed università, tuttavia non si registrano divergenze sul modello Marchionne tra i parlamentari tutti concordi sulla linea industriale Fiat che riduce i diritti sanciti dalla Costituzione ma in fin dei conti garantisce il tozzo di pane ancora per tutti gli operai dell’indotto, almeno fin quando l’a.d. rileverà la

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maggioranza assoluta della quota Chrysler e volerà a Detroit cantan-do Good Bye Italia salutando tutti da Sacconi a Bonanni passando da Confindustria a Governo finendo per Fassino e Chiamparino rispetti-vamente sindaco ed ex sindaco del capoluogo piemontese casa madre

offerto prospettive alternative con la legge Gelmini che non uccide soltanto l’istruzione italiana ma blocca il vero mercato del lavoro con buona pace di Udc e Fli che l’hanno votata e con l’incapacità palese del Pd di trovare soluzioni ma d’altronde si sa i veri disastri si combinano da anni. Tutto ebbe inizio dalla Zecchino-Berlinguer. In questo caso non è solo colpa di B. che comunque anche se trascorre tutto il tempo di primo ministro ad inveire contro giudici rossi e leader della sinistra che non si lavano tro-va anche modo di profetizzare falsi miracoli. Così dichiarava il premier ad Acerra lo scorso 28 ottobre: “In 72 ore Napoli sarà pulita dai rifiuti”. Che il miracolismo di Berlusconi fosse una concezione favolistica lo si sapeva. Non si risolve il prob-lema spazzatura inviando l’esercito (il primo fu Romano Prodi) dove il governo mostrando pugno duro non dà soluzioni concrete con in-ceneritori e discariche abusive che contribuiscono all’ennesimo arric-chimento sulla “munnezza” delle cricche. Gravi responsabilità vengo-no pagate dai governi di centro-sin-istra e destra che si sono succeduti, incapaci di legiferare in maniera ambientale, materia esclusiva ris-ervata allo Stato e che questo sia da lezione per i giornalisti scodin-

zolanti al guinzaglio del premier che continuano ad addossare tutte le responsabilità agli enti locali. Il Comune sicuramente paga respon-sabilità grosse non avendo fatto una raccolta differenziata degna di questo nome e la Provincia risulta incapace di smaltire i rifiuti. Basso-linismo e cosentinismo compagni di viaggio in questa Napoli che agli occhi dell’Italia sembra la rovina di questo paese al quale serve una svolta perché come ha detto Aldo Cazzullo: “Napoli siamo noi”. Pochi giorni fa l’on. Eurodeputato Mario Borghezio della Lega Nord aveva dichiarato ad una radio: “L’Aquila e Napoli sono una palla al piede per questo paese. Al sud politici e camorra sono conniventi”. Senti da che pulpito viene la predica dove assistiamo ad una Lega al Nord che fa la voce grossa mentre a Roma cala le braghe e va a mangiare pro-prio coi “collusi” del Sud. L’inizio e la morte di questo governo passa da Napoli e L’Aquila, epicentri di monnezza e terremoto, malaffare comune di centro-destra e centro-sinistra dove solo gli affari unisco-no ma non fanno rabbia i topi per le strade partenopee e le tendopoli permanenti del capoluogo abru-zzese. Tante le famiglie senza una casa, senza un lavoro dove sussidi di 800 euro non bastano ed anche gli albergatori sono in agitazione nei confronti dei loro con-cittadini stufi di questa situazione. Il sin-daco Cialente (PD) abbandonato da tutti si è dimesso il 7 marzo ma poi ha ritirato le dimissioni grazie ad una chiamata dal governo che ha promesso aiuti per risolvere l’emergenza. Sarà vero? Intanto da due anni sono ancora tantissimi i senza tetto. E all’opposizione?. Beh Ragassi a noi dopo tutto basta salire a volte sui tetti giusto così per far vedere che almeno protestiamo. Facendo finta eh! Mica siamo del tutto passi!

“Un’opposizione che diventa ac-quiescente alle logiche del mer-cato del lavoro che non offren-do alternative

serie si fa ingoi-are dalla magica

modernità”

dello stabilimento Fiat da sempre. Proprio quest’ultimi si sono im-pegnati a far votare gli operai lo scorso gennaio Si al referendum sulla cui legittimità si pronuncer-anno i giudici grazie alla denuncia della FIOM ma per i democratici il giudizio è unanime e per bocca di Sergio Chiamparino:”Marchionne è uno di sinistra”. Un’opposizione che diventa acquiescente alle logiche del mercato del lavoro che non offrendo alternative serie si fa ingoiare dalla “magica modernità” dove chi la fa da padrone sono la disoccupazione superiore alla me-dia europea e quella giovanile che fa registrare dati incredibili: 30%. L’Italia è un paese che non cresce. E a dirlo non sono per fortuna peri-colosi bolscevichi o toghe rosse con la bava bocca ma istituti autorevoli quali l’ISTAT e L’Ocse i quali hanno detto che siamo solo davanti al Por-togallo in piena recessione. Per far fronte alla crisi il governo ha subito Massimo D’Alema

di Pasquale restaino

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l’evoluzione Rai:da mamma a prostitutA!Ah mamma Rai! La parabola discendente cui assistiamo ormai da qualche anno sembra non avere fine. Episodi di censura sempre più frequenti, palinsesti intasati di troppi prodotti ridicoli e scopiazzati e non ultima una predisposizione naturale alla manipolazione po-litica che sta diventando sempre più insopportabile. Purtroppo sì, la Rai è stata la nostra cara mamma. Uso volutamente il passato perché faccio fatica ad accettare questa mamma. Una mamma sì fatta, senza più dig-nità, che si concede a tutti i potenti di turno e che non alza più la voce in difesa della verità. Per carità, ad una mamma si vuole sempre bene perché ci ha educato, informato e accompagnato, ma adesso ci tocca assistere inermi l’avvio ad una glori-osa carriera da prostituta...e questo non lo posso accettare.La storia degli intrecci tra la Rai e la politica è una vecchia storia, che viene da lontano. Certo, ci sono stati momenti più bui come l’era della spartizione delle tre reti a Dc, Psi, Pc fino agli anni ’90, quando la Rai era amministrata esclusiva-mente dal governo, e momenti in cui il cambiamento (post tangen-topoli) sembrava poter concreta-mente portare ad un’indipendenza

mai avuta prima. Purtroppo ri-marrà solo una speranza disattesa perché l’avvento sulla scena politica di Berlusconi farà un sol boccone del servizio pubblico. Per onestà va ricordato che alla lottizzazione della tv di stato hanno partecipato tutte le forze di governo e tutti i partiti, sen-za distinzione. Come dire: quando si tratta di fare abuso del rispetto e della corretta e libera informazione siamo tutti d’accordo!Inutile negarlo. Il maggiore, e più influente, mezzo d’informazione italiano è stato sempre una risorsa troppo importante perché venisse lasciata in mano a professionisti seri e giornalisti indipendenti. Il rischio è troppo alto e la politica non può permettersi di lasciare in giro cani sciolti a fare il loro mestiere. Nes-sun governo, ripeto nessuno, ha mai avuto la lungimiranza di svincolare la Rai dal potere politico. Ciò non vuol dire che bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca, affatto. La Rai nonostante tutto ha delle ec-cellenze straordinarie, professionisti seri e una squadra di maestranze invidiata da tutto il mondo. Ov-viamente vi hanno trovato spazio anche molti giornalisti degni di questo nome, e alcuni lo fanno eroicamente ancora oggi; una su tutte Milena Gabanelli con “Report”. Ma la Rai, si sa, non gradisce più la libera informazione e mette in atto piccole strategie per sfiancare la voglia di raccontare, denunciare e informare. Mentre scrivo ancora non c’è certezza delle condizioni in cui la Gabanelli e il suo staff dovranno lavorare. Basterebbe dire che la Rai punta su “Report” perché lo ritiene un programma di punta del servizio pubblico, invece tentenna. Speriamo che i vertici si

schiariscano le idee e difenderanno una delle migliori giornaliste su cui l’azienda può puntare.Pesano come un macigno anche i recenti episodi di censura che sono diventati, oltre che ridicoli, anche molto frequenti. Basti ricordare l’episodio del film “Il Caimano” di Nanni Moretti, che i vertici di viale Mazzini, prima della sua messa in onda, avevano deciso di tagliare proprio nella scena finale quella che ritraeva il Caimano atto ad incitare alla sovversione contro i giudici. Oppure lo spot di “Silvio Forever”, documentario di Roberto Faenza, di cui la Rai ha sospeso la messa in onda del trailer senza una vera ragione se non per obbedire alla volontà del padrone. O ancora, i continui richiami e ritardi provocati a “Vieni via con me” della cop-pia Fazio-Saviano e l’ultima triste vicenda dei referendum, con la Rai che ha, con sospetta negligenza, ri-tardato la messa in onda degli spazi informativi, nonostante i continui richiami dell’Agcom. Questo sì che è servizio pubblico. Ma questi sono solo alcuni dei più maldestri e recenti episodi, che manifestano l’insofferenza del potente di turno, in questo caso quella di Berlusconi, (un uomo liberale, sostiene di se stesso!) alla libertà di stampa. Questo però non fa nemmeno più notizia.Separiamo però i due piani della nostra argomentazione. Se da un lato, come abbiamo appena di-mostrato, la longa manus della politica ha messo in campo tutte le possibili strategie per rendere “mor-bida” l’informazione e problematica la messa in onda del materiale sgradito, dall’altra non va sottovalu-tato il deficit qualitativo messo re-

MilenaGabanelli

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centemente in campo dalla Rai nei suoi palinsesti. Qui la politica non c’entra, almeno non direttamente. Le recenti dirigenze Rai, incalzati dalla tv commerciale del cavaliere, hanno imbottito i palinsesti di merce avariata cercando di rincor-rere gli investitori pubblicitari ed un pubblico già modellato al gusto di massa. Questa tendenza ha allon-tanato, tanto per fare un esempio, gente come Corrado Guzzanti, un genio che dovrebbe essere presenza fissa nella tv degli italiani, o Fiorello, l’unico che negli ultimi anni ab-bia dimostrato di essere all’altezza di fare un varietà degno di questo nome. Invece no, siamo costretti a subire il degrado culturale messo in campo dai reality show, che di reale non hanno assolutamente niente. La sconfitta più grande è che la Rai si fa dettare l’agenda da Media-set. Non riesce più ad anticipare i tempi, non capisce l’evoluzione della società moderna e non inventa più. Per non parlare delle fiction. Nella struttura Rai esiste un settore specif-ico, Rai Fiction, che sforna fallimen-ti uno dietro l’altro. Cose inguarda-bili in cui la qualità è diventata un miraggio lontano. A tal proposito il consiglio è quello di andare a fare una “vacanza-studio” negli Stati Uniti e prendere appunti sul come si fa una fiction o una serie tv. L’elenco degli scempi potrebbe continuare a lungo ma mi fermo qui. Credo di aver addotto, nei limiti imposti da un articolo, sufficienti motivi per dimostrare il fallimento culturale e funzionale della Rai.E’ triste osservare come la Rai, semplicemente non è più inter-prete del gusto degli italiani e non sa più stimolarne l’intelligenza. Sa solo alimentare il suo gusto del volgare tanto sapientemente cos-truito dal Biscione. E’ proprio vero: una prostituta non ama mai i suoi clienti, ne appaga solo i piaceri, ma i clienti prima o poi si stancheranno di pagare solo per questo e quando accadrà il fallimento sarà totale.

di Massimo Pittarello

LastBETDelinquenti o cialtroni? Ci trovi-amo di fronte ad una associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva legata ad ambienti della criminalità organizzata e al riciclag-gio di denaro sporco o ad un social network di cialtroni che millan-tano conoscenze e creano su skype falsi profili di giocatori famosi? Ad meno di un mese dall’esplosione del nuovo scandalo del calcio scommesse, ancora dobbiamo capire a cosa siamo di fronte. Co-munque ci mancava, almeno da un po’. Certo dopo il coinvolgimento di mezzo mondo ti pare il non venis-sero scoperte irregolarità nel mon-do del calcio scommesse italiano. Un giro d’affari annuo di quasi 5 miliardi di euro, legali. Più quelle illegali, che si stima arrivino ad altri 4 miliardi. 200 milioni di entrate fiscali e quasi 50mila eventi su cui scommettere ogni anno. Il calcio è la quinta industria del paese. Una pasticceria troppo fornita per non fare gola alle voraci bocche italiote. Ormai il Totocalcio è roba geologica, ance se molti sperano in un ritorno alle origini: vietare le scommesse?? Impossibile.. Sicura-mente l’effetto di regolarizzarle, di legalizzarle, ha portato dei vantaggi, come le entrate fiscali, ma non ha risolto il problema. Anche perché chi doveva curarsi del problema, non lo ha fatto, e costui ha un nome e un cognome: Federazione Italiana Gioco Calcio. Molti tifosi già se lo immaginavano che nel mondo del calcio ci fosse una compravendita di partite. E in federazione? Se non sapevano sono degli incompetenti, se sapevano sono in mala fede.

Ed è ancora peggio. I monopoli di stato hanno segnalato 37 partite con scommesse anomale alla FIGC. Se è fisiologico che, tra migliaia di addetti, il calcio abbia le sue mele marce, l'industria delle scommesse aveva prodotto (e ancora produce, evidentemente) una degenerazione patologica. E la patologia, forse non è ancora abbastanza chiaro, è il gio-co d'azzardo, del quale la disonestà sportiva è solo un indotto. E intan-to crescono i centri per la cura del gioco patologico, come quelli per uscire dalle dal tunnel dell’eroina, della cocaina o dell’alcol.. Certo che riciclare il denaro sporco, frutto ad esempio dello spaccio di droga, è un’operazione estremamente sem-plice con le scommesse. Un fenom-

Il problema cal-cio, nella sua drammaticità, è molto sem-

plice. Un fiume di denaro tanto

impetuoso e imponente da mettere in dif-

ficoltà pure coloro che con i numeri ci la-vorano tutti i

giorni.

di Marika Borrelli

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eno che risucchia miliardi di euro ogni anno, ovviamente non solo nel calcio, distrugge persone, rovina famiglie, ingrassa gli usurai e il mercato dello strozzo, induce a una dipendenza compulsiva centinaia di migliaia di insospettabili, malati di gioco. Tra la massaia che dilapida la pensione al video-poker e il bomb-er che scommette sulla propria sconfitta (in tutti i sensi), la dif-ferenza è nella quantità del "buco", non certo nella qualità della pato-logia. Solo questa riesce a spiegare perché, nonostante le pene, non-ostante la gogna mediatica, non solo i comprimari delle serie infe-riori, ma anche calciatori di suc-cesso rimangono ancora incastrati in quella macchina infernale. Scrive il sociologo , Zygmunt Bauman, che il meccanismo profondo che guida e condiziona la vita sociale contemporanea è la dipendenza. Lo scriverebbe anche a proposito di questo nuovo scandalo, gioca-tori che vendono il loro gioco per continuare a pagarsi il gioco. Gli arbitri stessi, secondo una lettera di uno dei fischietti italiani spedita al presidente del AIA Nicchi, sareb-bero pienamente coinvolti nella vicenda. Il fischietto di Cremonese Spezia (finita 2 a 2), la partita in cui Marco Paoloni prima si fa sfilare il pallone dalle mani al 92esimo minuto poi colpisce l’arbitro per frasi espellere, si chiama Claudio Gavillucci. E fino al primo giugno era un dipendente dell’agenzia di scommesse StanleyBet. La stessa agenzia comunicò il presunto conflitto di interesse nel 2008. Dalla Federazione, per due anni, nes-suna risposta: chissà quanti altri nomi usciranno, quante omissioni e silenzi compiacenti saranno svelati nel corso dell’indagine Last Bet: siamo solo all’inizio. Nessuno può stare tranquillo. Tutti i campionati di calcio professionistico in Italia sono sotto la spada di Damocle. In compenso ci stiamo facendo una cultura enigmistica di acronimi:

Figc e Coni hanno salutato con favore e fervore la nascita dell’Uiss, figlia del momento, e di altre sigle come Dda, Dia, Sco, Gico, Ross, Essa, Gip, Anm. Diamo il benv-enuto alla neonata Unità Investi-gativa Scommesse Sportive, nella speranza che dimostri un po’ più di attivismo e prontezza della giusti-zia sportiva, una volta orgoglio dell’organizzazione calcistica. Che oggi, invece, impiega 5 anni per dirci se una persona dev’essere radiata o no, un anno e mezzo per discutere un ricorso fondamentale di una grande squadra di A, un anno ad archiviare procedimenti su partite di due campionati fa. Il problema calcio, nella sua dram-maticità, è molto semplice. Un fiume di denaro tanto impetuoso e imponente da mettere in difficoltà pure coloro che con i numeri ci lavorano tutti i giorni. Lo dicono gli esperti del settore (fonte Agicos), che sono convinti che il mercato delle scommesse illegali rappresenti oggi più del 50% di quello legale. Ma purtroppo la formidabile Lega di serie A ha unico argomento all’ordine del giorno da mesi: la spartizione dei diritti televisivi. Che per il momento ci sono ancora. Ma che, guarda un po’, potrebbero anche volatilizzarsi, come ha scritto Tom Mockridge, amministratore delegato di Sky Italia. La ricorrenza ciclica di questi eventi nel mondo del pallone ci fa però pensare che tutti si risolverà in qualche annun-cio e molto confusione. La strategia difensiva degli accusati è la solita: "così fan tutti", cioè confessare tutto e dire: "tutti coinvolti, tutti colpevoli, nessuno punibile". Così è stato e così sarà, aspettando che la ricorrenza ciclica degli scandali del calcio si verifichi di nuovo.

Gli Italiani sono uniti dalla lingua (salvo spinte leghiste), dal Codice della Strada (ma non dalla Cos-tituzione) ed infine dal ricordo di Bearzot. Non c’è molto altro. Seppur in una scala graduata (e con qualche illuminato distinguo), gli Italiani -- e molte Italiane – sono, però, uniti dalla comune considerazione del ruolo della donna nella società. È un modo di essere, più che un ragiona-mento, è l’aria che si respira, più che una moda. È l’elefante rosa. L’Italia è il Paese più maschilista d’Europa. Lo è per la sciatta applicazione delle Leggi a favore della parità e delle pari opportunità (che sono due cose diverse) e lo è nella vita pratica, nella vita quotidiana, nei fatti e nelle omissioni. Lo è per quanto riguarda il lavoro, perché la disoccupazione femminile è immensa (circa il 65% delle donne tra i 15 ed i 64 anni, dice l’OECD-Eurostat). Lo è per redditi percepiti, perché le Italiane gua-dagnano di meno degli Italiani di pari livello. Lo è per presenza delle donne sui mass media (in qualità) e nei posti di comando (in quantità). Lo è per lo squassante sbilancia-mento del carico di accudimento ed di organizzazione famigliare. Tanto, per restare in tema di unità nazion-ale, dall’anno della riunificazione tedesca (1991) al 2008, il tasso di oc-cupazione femminile in Germania è salito fino al 65% (sempre OECD), ma sono dettagli. Noi siamo la Na-zione europea con il più basso tasso di natalità (il famoso ‘unovirgola-due’) e di donne in cariche elettive (all’incirca il 10%). Siamo famosi all’estero più per scandali sessuali (dove la donna è oggetto per scambi e/o compravendita) che per avan-guardie culturali, artistiche o scien-tifiche. Il TIME e il NewsWeek (ma

lA compAttezzAdegli iTaliani(maschI)

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anche The Economist e il New York Times) si scambiano l’argomento a settimane alterne. Abbiamo una Costituzione ancora molto mod-erna e più lungimirante di quello che si pensi, eppure non si contano gli assalti per tacitarla, per castrarla nelle sue affermazioni fondanti (laicità, parità, uguaglianza), nonchè nell’opera di rimozione degli ostacoli per garantire appunto laicità, parità e uguaglianza. A cominciare dalle questioni di genere. Per stanchezza o per rassegnazione, gli Italiani hanno subito e stanno ancora sub-endo un processo di unificazione verso il basso, anzi verso il peggio, allontanandoci sideralmente dai processi unificanti europei, almeno quelli culturali, civili e del diritto. L’abisso più separante e perdurante tra noi e gli Europei, però, è nella considerazione delle donne. È qui che gli Italiani sono davvero uniti, con spontaneità e convinzione. A tutti gli Italiani pare vada bene così. Le poche voci di protesta (non chiamiamole femministe, per carità, che è una parola sconcia e retro-grada) non bastano a ri-equilibrare l’andazzo maschilista in questa nos-tra Nazione, che si picca di definirsi moderna, occidentale e industrializ-zata (Marchionne permettendo). Sì, sì ci sono molti movimenti, molte voci femminili ma, nonostante il loro grido di dolore, non incidono abbastanza nel cambiare il senso comune. Perché è di questo che si tratta: il senso comune. Un blocco impermeabile che deforma la co-scienza e annichilisce la riflessione. Italiani di destra e di sinistra, i primi per azioni i secondi per omissioni, sono uguali ed uniti nel non affron-tare il penosissimo problema della condizione femminile italiana. Ma vi è di più. Neanche le Italiane se ne accorgono, specialmente quelle

più giovani. Ecco un esempio di come si consolida l’unità nazion-ale contro la donna. Il Pontefice ha detto: “L’educazione sessuale e civile impartita nelle scuole di alcuni Paesi europei costituisce una minaccia alla libertà religiosa […] Proseguendo la mia riflessione non posso passare sotto silenzio un'altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un'antropologia contraria alla fede e alla retta ragione". Ipse dixit. A ragionarci bene, significa che c’è un’antropologia (quella cattolica evidentemente, quindi anche itali-ana) che ammette le conseguenze del mancato uso del preservativo, che è un tema di educazione ses-suale. Non solo l’aborto clandestino è una di queste conseguenze, ma lo è anche l’AIDS, lo sono le malat-tie sessualmente trasmissibili, le gravidanze adolescenziali, l’abuso della ‘pillola del giorno dopo’ e il continuare a perpetrare l’immagine della donna quale oggetto per il pi-acere maschile. Da ammazzare, una volta ogni tre giorni, statisticamente parlando.Poiché il Pontefice ha parlato di Europa, possiamo abbastanza tran-quillamente escludere le pratiche di infibulazione e di mutilazione dei genitali femminili, poiché sono usi e tradizioni di altri Paesi e di altre antropologie, seppur conseguenti alla carenza di educazione sessu-ale. È vero che le Italiane non sono pienamente Europee (per carenza di parità fattuale), ma mica siamo scesi così in basso da volerci unificare ai Paesi infibulanti? No, ma ci stiamo avvicinando parecchio.

Italiani di destra e di sinistra, i primi per azio-ni i secondi per omissioni, sono uguali ed uni-ti nel non affrontare il penosissimo problema

della condizione femminile italiana.

di Alessio Quinto Bernardi

Ex voto:l’opposizione fantasma

Il trionfo del centro-sinistra alle ultime amministrative si configura più come un voto contro il premier ed il governo che pro-opposizioniLe recenti amministrative sono state ''più una sconfitta del cen-trodestra che una vittoria del Pd'', e, del resto, delle opposizioni tutte. Se lo dice Dario Franceschini, ex-reggente del PD ed ora suo capogruppo alla Camera, possiamo crederci. Queste parole sottendono il mea culpa di un’opposizione che non hai mai saputo imporsi e mettere sotto scacco l’attuale mag-gioranza, tanto abile a implodere da sola con clamorosi scandali accompagnati ad una manifesta incapacità governativa. Incapacità che controbilancia amabilmente quella di questa diafana minoranza che non ha saputo mai lanciare l’offensiva finale contro un esecutivo inabile a governare ed in agonia continuata. Non posso esimermi dal rilevare che le responsabilità del centrosinistra sono quantomeno doppie, poiché al non saper fare l’opposizione, va assommata anche l’inadeguatezza di porsi come un’alternativa credibile ed elettoral-mente vincente. Ha ragione Alexan-der Stille, docente di Giornalismo alla Columbia University, quando spiega al N.Y. Times che "per capire la permanenza di Berlusconi al potere non possiamo prescindere dalla mancanza di una opposizione forte e credibile". Il berlusconismo trova il suo spazio vitale nel fertile vuoto lasciato da un centrosinistra senz’anima e corpo. Questi op-positori vestiti da Pirro discutono di tutto e, nel contempo, del nulla: delle eventuali alleanze, delle pos-sibilità delle primarie, di grandi coalizioni guidate o da Bersani o da

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Fini o da Casini. E dei problemi di un Paese messo in ginocchio da una sempiterna crisi economica, flagel-lato da una disoccupazione galoppante ed insonne per l’incubo di una possibile stagflazione, nessuno ne parla od offre eventuali soluzioni. Di cosa consterebbe quest’alternativa di governo non è dato sapere. Certo è che il PD risulta al momento il partito più fragile, allorquando dovrebbe porsi come perno per le opposizioni. Questo dato è confermato dalla vittoria nelle principali città (Milano e Napoli) di Pisapia e De Magistris, candidati designati l’uno dal SEL e l’altro dall’IdV. Tuttavia non si ha nemmeno il tempo di festeggiare che il centro-sinistra riprende a bisticciare e scatta un botta e risposta tra Bersani e Di Pietro. Il segretario del PD vuole aprire al terzo polo di Casini, che si è presentato da solo alle amministrative. Il leader dell'IDV rimarca che "l’asse tra Pd , Sel e IdV è più nei fatti che nelle parole. La costruzione di un’alternativa è sempre più urgente e rincorrendo il Terzo Polo si rischia di perdere tempo". È di tutta evidenza che manca ancora un’alleanza di governo, che, seppur determinata dal risultato elettorale, non esiste nei programmi e nell’idea del Paese. Lo scenario politico è ineluttabilmente desolante. Questa opposizione ha paura di guardarsi allo specchio. È come un giovane che fugge dalla responsabilità di riconoscere il figlio, assumendosi l’onere della paternità. Va avanti per inerzia nella speranza che Berlusconi si distrugga con le proprie mani. E poi? Un’eventuale fine politica di Berlusconi coinciderà necessariamente con la vittoria dell’attuale minoranza? Franceschini è convinto che ora ''il premier non ce la fa più, proverà a rimettersi in piedi ma il suo declino é inarrestabile. Ora verrà la parte più pericolosa perché non credo che lui accetterà di 'andarsene a casa' come un uomo politico sconfitto dovrebbe fare. Quando uno é pericoloso, lo é di più quando rischia di uscire di scena'' e continua “penso che da qui alle prossime elezioni politiche (Berlusconi) farà di tutto. Bisogna vigilare più che essere ottimisti''. Da queste dichiarazioni emergono tutte le irrazionali paure che l’opposizione nutre nei confronti del Presidente del Consiglio. Paure che affondano le radici sia nell’incapacità di contrastarlo politicamente sia nell’assenza di una concreta proposta alternativa. Alla luce di ciò emerge quanto sia mediocre questa classe politica nel complesso, intesa come governo e opposizione che in un Paese sano dovrebbero essere “i protagonisti della vita politica”. Invece, giacché pensare alle sorti dell’Italia e degli italiani, siamo costretti da un lato a sorbirci la risoluzioni dei guai giudiziari di uno, mentre dall’altro si favoleggia sulle alchimie elettorali e gli onirismi politici. La politica è morta.

Silvia Fabbri

propAgAndA politicA rAzzistA

intervista ad Alberto burgio

Durante la campagna elettorale pre-ballottaggio ne ab-biamo viste di tutti i colori, in particolare a Milano, la città del Premier, il cuore del berlusconismo. La destra per screditare Pisapia, si è data al teatro di strada, ha costruito una sua realtà parallela per ottenere consenso: ha messo in scena la falsa costruzione della “moschea di Pisapia” assoldando finti operai occupati nella costru-zione, ha sparso per la città ragazzi travestiti da Rom a distribuire volantini pro-Pisapia... forse per fornire veridicità alle aberranti dichiarazioni quali “Con Pisa-pia Milano diventerà una città islamica”, “Con Pisapia Milano si trasformerà in una zingaropoli” affermazioni pronunciate, senza vergogna, dal Premier e i suoi. Ora, una domanda sorge spontanea: in questi casi, si può parlare di propaganda politica razzista? Chiediamolo ad Alberto Burgio, direttore del dipartimento di filosofia di Bologna, esperto di filosofia politica e critica del razzis-mo.

Prof. Burgio, per i casi sopracitati si può parlare di propaganda politica razzista?Il punto in primo luogo è questo: di sicuro c’è l’uso della paura relativa allo straniero come minaccia, che inner-va la propaganda politica, cioè si dice: il mio avversario politico, in questo caso, il mio competitore elettorale, non debbono essere presi sul serio e non debbono es-sere oggetto di attenzione e men che meno di consenso, perché sono tacciabili di intelligenza con questo genere di soggetto che è lo straniero, l’infiltrato, il criminale diciamo, il deviante, e quindi con chi ti minaccia. Su questo, credo che proprio, possiamo dire che è una pura e semplice descrizione della realtà.Che questo sia di per sé razzismo, ammesso che sia importante definirlo, naturalmente è un po’ più com-plicato, di sicuro diciamo che c’è una dimensione di xenofobia in senso proprio, perché la xenofobia è la paura dello straniero, e qui c’è l’uso, la mobilitazione o addirittura la produzione della paura dello straniero,

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dove lo straniero è raffigurato, anche solo per evoca-zione, come minaccia e quindi come fonte di paura. Il razzismo è una cosa un po’ più complicata, perché rispetto alla xenofobia, è qualcosa di, se vuole, più strut-turato, dentro una vera e propria interpretazione comp-lessiva dei rapporti tra gruppi umani e, si potrebbe dire, una interpretazione che sta dentro una (anche qui più o meno esplicita e più o meno organica) gerarchia antropologica, allora, non tutta la xenofobia è razzista, anche se naturalmente nessuna forma di xenofobia è in-compatibile col razzismo, perché non sempre c’è bisog-no di strutturare il discorso razzista, talvolta è più che sufficiente evocare paure, diffondere stereotipi perché la finalità immediata è questa; forse quello che si può dire, per essere proprio rigorosi - quindi abbiamo detto che c’è un uso della xenofobia a scopo elettorale quindi dentro un’attività di propaganda- quello che si può dire è questo: che quando l’uso della xenofobia in un dis-corso propagandistico è reiterato nel tempo, anche se non dovesse esserci un’argomentazione razzista esplicita e organica, si è comunque operato in modo che nella società il razzismo alligni; perché sai, se io te lo dico una volta sola “attento allo zingaro”, ma se io continuo a battere su questo e ne faccio nel tempo un argomento...

ma anche la parola zingaropoli... ripeto: se fosse un unicum, se uno dice nel maggio del 2011 è venuta fuori come un fulmine a ciel sereno, allora uno dice stiamo attenti, ma invece no, questa è una cosa che, in Italia, e non solo-sullo sfondo, peraltro di processi molto concreti e importanti, come sono i flussi migratori- da anni e anni si batte sul tasto della paura dello straniero, che lo straniero è una minaccia, come minimo per la nostra identità culturale, ma in

realtà per la coesione sociale, per la sicurezza, allora, se si batte nel corso del tempo, la xenofobia, che di per sé, insisto, non è razzismo,-è bene dirlo perché altrimenti, uno dice, voi mettete tutto, tutte le erbe in un fascio- e la xenofobia che pure non è di per sé razzismo, lo di-venta, perché se io continuo un discorso, allora questo discorso, poi alla fine consolida i pregiudizi, consolida gli stereotipi e radica nella mente delle persone che noi siamo noi e siamo quelli buoni, gli altri sono radical-mente diversi e sono quelli cattivi e qui abbiamo fatto un passo al di là della xenofobia, qui abbiamo posto, se non altro, le premesse per un’azione di discriminazione e di persecuzione che è poi quello che in definitiva il razzismo tende a determinare.

Dinamiche quali, ad esempio, Figuranti che fingono di costruire moschee...si, quella è una tecnica che nella sua, diciamo così complessità o , come potrei dire, sofisticazione dimostra che c’è una determinazione a perseguire questo tipo di relazione col proprio elettorato e una consapevole finalità di fare in modo che nelle persone si generino questi pregiudizi, queste reazioni, questi sentimenti e in definitiva, questo modo di considerare gli altri, questo possiamo dirlo sicuramente. Vede, io sono cauto, circospetto, perché siccome penso che il discorso sul razzismo sia un discorso, non solo serio -ed è ovvio- ma anche molto attuale, penso però anche che se noi non lo facciamo con tutta la cautela si rischia di essere criticabili, banali o accusati di “al lupo al lupo” e poi, in realtà, le cose non sono così gravi... no, le cose sono molto gravi e io te lo debbo dimostrare, a me l’onere di dimostrarlo con un discorso che non sia generico ma invece articolato.

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JErSEy ShorE l’epopeA del tAmArro

pArlAno di noiS

Abbronzatura, catene, scollature in vista: sono approdati a Firenze lo scorso 13 maggio i protagonisti di Jersey Shore, il reality show di Mtv che, in onda negli Usa da dicembre 2009 (da marzo 2010 in l’Italia), nelle scorse tre stagioni si è af-fermato come il programma più seguito della rete, con punte di oltre 8,9 milioni di telespettatori. Ora la troupe è arrivata in Italia, dove si sta girando la quarta, attesissima serie, non senza polemiche susci-tate dalla comunità italoamericana e dalla stampa nazionale.Il reality segue le “gesta” di un gruppo di ragazzotti italoamericani di seconda o terza generazione provenienti da una particolare zona degli Stati Uniti, il Jersey Shore appunto, nel New Jersey. Caratteri tipici dei vari“The situation”,“Jolie”, “JWoww”, protagonisti della se-rie, sono perenne abbronzatura, canottiere, capelli impomatati per

i maschi, scollature esplosive per le ragazze, atteggiamento sguaiato e strafottente, birra e musica a tutto volume. Il tutto condito da una diffusa e permeante igno-ranza. Insomma, l’essenza della tamarraggine e del trash. Non-ché un condensato di stereotipi dell’italoamericano medio che ha contribuito a coniare nuovi termini e fondare una fantomatica filosofia di vita che si riassume nella sigla GTL, ossia “Gym, tam, laundry”, palestra, abbronzatura, lavanderia. I ragazzi dello show sono dei “Gui-do” o “Guidette”, termini che negli Usa venivano usualmente utiliz-zati per indicare gli italoamericani, specie se di bassa estrazione sociale, ma che dopo il successo del real-ity sono passati a rappresentare un modo di apparire di molti giovani, tutto muscoli, cafonaggine e scarsa cultura.E mentre i Guidos scorrazzano tra Firenze e Riccione, non man-cano di infuriare le polemiche, nel Bel Paese come Oltre Oceano. Lo show ha scatenato le ire di molte associazioni italoamericane come Unico, il cui presidente ha dichiara-to che la serie si basa su “stereotipi, comportamenti violenti e maledu-cati” che naturalmente gli italiani, e tanto meno quelli residenti negli Usa, non intendono riconoscere come propri. Roberto Del Bove, dalle colonne della rivista romana Newnotizie, ha parlato di “peggiori stereotipi italiani moltiplicati per mille e americanizzati (vedi: spet-

tacolarizzati) fino al parossismo più estremo”. Anche Beppe Severgnini aveva tempo fa manifestato ai microfoni del Wall Street Journal il timore per l’immagine degli italiani che un simile programma avrebbe potuto diffondere all’estero. E se comprensibili sono le lamen-tele del popolo discendente da Dante, Michelangelo e Verdi, inter-essanti sono anche le reazioni che esse hanno suscitato Oltre Oceano. Oltre mille sono i commenti lasciati dai lettori dell’Huffington Post a seguito dell’italica indignazione. Se alcuni hanno osservato che è solo un programma televisivo, per’altro divertentissimo, molti non hanno potuto non collegare l’immagine trash e degradata dell’italiano di Jersey Shore agli scandali sessuali che hanno coinvolto il premier Silvio Berlusconi. “Il loro Primo Ministro danneggia molto più la loro reputazione”, commenta pun-gente e lapidario un lettore, “Con Berlusconi come Primo Ministro non sono esattamente in una buona posizione per essere così critici”. Colpiti e affondati. Se si considera che il Presidente del Consiglio si fa conoscere nel mondo (rappre-sentando, è bene sottolinearlo, gli italiani) per Bunga Bunga, barzel-lette sconce e sguaiati richiami a Barack Obama durante il G20 del 2009 (prontamente apostrofati da una very british regina Elisabetta), il prototipo dell’italico super-cafon-al proposto dalla serie americana è più che giustificato. D’altronde

Il cast di Jersey Shore

di Marta Caldara, Federica Casarsa, Denise Puca e Laura Fois

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programmi nostrani come “Grande Fratello” e “Uomini e donne”, seguitissimi, non propongono di certo un’immagine dell’italiano intellettuale ed elegante. Della serie, è bene risolvere le beghe di casa nostra prima di pensare a criti-care quelle che arrivano da oltre Oceano.Ciò che però ci si deve doman-dare è se davvero Jersey Shore intenda rappresentare lo stereotipo dell’italiano o piuttosto inquad-rare e mostrare nel quotidiano uno spaccato di società americana Vinny Guadagnino, star dello show intervistata dal Corriere della Sera, ha detto: “Per quel che mi riguarda, noi non rappresentiamo gli italoamericani, ma solo noi stessi. Più che altro, mi sento di rappresentare uno stile di vita”. E non è nemmeno detto che Jersey Shore sia un’apologia della tamar-raggine. Antonio Campo dall’Orto, vicepresidente di Mtv International, difende così sul Corsera il prodotto dell’emittente: “In Jersey Shore è palese la volontà di mostrare uno spicchio, uno spaccato culturale e il messaggio non è: siate così. Ma: guardate come si divertono questi.”. Complessivamte positiva è anche l’analisi fatta da Aldo Grasso, che definisce il reality “divertente e istruttivo perché mostra il tamarro americano in azione”. Poco importa se quelli incarnati dai Guidos sono stereotipi dell’italoamericano, per-ché “nascono dal superamento del luogo comune dell’italiano mafioso. Certo, si scade in un altro luogo comune, ma più divertente”.E sia. Guardiamoci questo “di-vertente e istruttivo” programma (sempre che i nostri stomaci siano sufficientemente allenati al trash), senza prenderci troppo sul serio. Nella speranza, però, che un giorno “italiano” diventi sinonimo di Leonardo da Vinci. Un po’ meno divertente, ma di sicuro più reale e dignitoso.

Buone nuove dal nostro inviato nel ridente Paese del Berluskonistan. Anzi, non troppo buone: pare infatti che i servizi segreti sovietici abbiano elaborato, nella terra che si vanta d’aver dato i natali all’alter ego umano del personaggio interpretato da Renato Pozzetto nel film “Da grande” che, anziché ritrovarsi più vecchio di colpo, si vede ringiovanire di giorno in giorno (il che spiega il suo continuo infatuarsi di bambine), un nuovo sistema per portare la falce e il martello al potere. Mentre l’italiano medio è ancora cincischiato con sistemi un po’ arretrati ma sicuri, quali Gogol e i videoregistratori a cassetta, questi diavoli hanno inventato un sistema che, a quanto pare, sfugge spesso al controllo dei partiti politici. Internet. E, in malafede, l’hanno utilizzato per far andare la gente a votare “sì” ai referendum popolari, che abrogano quindi le norme che il meraviglioso governo B aveva elaborato. Con quorum ampiamente superato, essendosi presentati alle urne il 57 percento degli aventi diritto. Tutti, naturalmente, disinformati sui quesiti da queste orde comuniste supertecnologicizzate. Difatti, cosa contenevano i referendum e le norme che si andavano ad abrogare era chiarissimo, grazie all’informazione che, organi di stampa e tv, hanno fatto. Era fattibilissimo trovare le informazioni necessarie, come ci garantisce il nostro inviato che, a questa campagna e pubblicità, ha assistito. E, non potendo giustamente togliere dal palinsesto programmi fondamentali andati in onda sabato e domenica, quali: su Raiuno “Italia mia”, dove s’indaga sull’omicidio di Simonetta Cesaroni a ventuno anni dal delitto, e dove si sono annunciati grandi scoop sul caso che tiene gl’italiani col fiato sospeso. Poi, come togliere programmi quali “L’eredità” di Carlo Conti, o “Italia’s got talent” dove c’è gente che riesce a scoreggiare e ruttare nello stesso tempo. O anche l’ottimo “Show dei record”, dove si contendono gli ascolti Lucky Diamond Rich e Danny Ramos Gomez, rispettivamente, l’uomo più tatuato e l’uomo più peloso del mondo. Tutta roba importante che, giustamente, ha fatto slittare gli spot televisivi sul referendum a notte tarda, andando a molestare giovani che, tra un porno e l’altro, cercavano di dare la loro interpretazione al chiarissimo messaggio che veniva lanciato: “Referendum numero uno, modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione”. Poi, mentre i due amici fanno un cenno come per dire “capito tutto”, parte lo spot del secondo referendum: “determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito”. Tutto molto chiaro, anche se qualche comunista su internet scrive che, abrogando questa norma, si evita di mettere l’acqua pubblica in mano a costruttori che, prima di lunedì, si sfregavano le mani. Gli stessi costrut-tori che, così per dire, ridevano alle 3:32 del 6 aprile 2009. Mentre stavano dentro al letto, comodi e al calduccio, mentre in Abruzzo la gente moriva sommersa dalle mura della propria casa (costruita col fango). Simile il dis-corso sul terzo referendum: “nuove centrali per la produzione di energia nucleare. Abrogazione parziale di norme”. Anche qui, qualche comunista,

di Stefano PomaCorrispondenzadal nostro inviato

Facce da Quorum

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parafrasando l’oratoria populista di B, complica il discorso al grido di “volete voi delle centrali nucle-ari vicino a casa vostra, dove poi all’interno ci metteremo le scorie che vi faranno ammalare? Oppure volete voi delle centrali costruite in zone sismiche?”. Quarto refer-endum: “abrogazione di norme della legge 7 aprile 2010 n°51, in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri a comparire in udienza penale”. Ormai i due

amici rasentano l’idolatria per se stessi, autocompiacimento da vin-citore del premio Nobel, autostima che si unisce alla protervia. Per convincere l’amico che ha capito il messaggio, uno dei due accavalla le gambe, alza il sopracciglio, mano in posa sul mento e vecchio monocolo del nonno portato sull’occhio, men-tre con una mano prende un sigaro e con l’altra il buon brandy. Senso di onnipotenza, come quello dei geni che, il giorno di ferragosto alle 13 del pomeriggio con 50 gradi di

temperatura, fanno gli abbaglianti alla macchina che marcia davanti per dargli fastidio, sghignazzando un “eh, eh, così impara”. E, sempre questi comunisti di internet, spieg-ano che “il legittimo impedimento è la norma che B aspettava già da prima di entrare in politica, la scor-ciatoia per salvarsi le chiappe dai quattro processi ancora pendenti”. Ora sarà dispiaciuto poveretto. Questi comunisti gli hanno fatto il quorum.

di Marta Caldara

nuClEarE: il giAppone in ginocchioVenerdì 11 marzo 2011, ore 14.46. Una data importante per il Gi-appone. Un terremoto di scala 8.9 Richter, seguito da uno tsunami che raggiungerà l'altezza record di 38.9 metri, si abbatte sul freddo nord del paese del sol levante. La zona maggiormente colpita è quella circostante la città di Sendai, a 380 chilometri da Tokyo. Sembra tutto finito. Le immagini che arrivano dal Giappone di quel venerdì pomeriggio lasciano parlare solo il silenzio. Ma ora è finita, il peggio è passato. E invece no. Fukushima, 250 chilometri a nord di Tokyo. La centrale nucleare ha subito danni al reattore numero 4. Lo tsunami sarebbe stato determinante nel dan-neggiamento del reattore, a quanto pare solo lievemente colpito dal terremoto. Questo, stando alle di-chiarazioni ufficiali del Governo. E ai responsabili della Tokyo Electrics (TEPCO). Nei giorni successivi, le dichiarazioni della TEPCO saranno contrastanti, tanto che i giornalisti si innervosiscono. Il 16 marzo si scopre che il reattore n.4 avrebbe preso fuoco. Un giornalista chiede quale sia stata a causa. La TEPCO dichiara: “Controlleremo” e ancora

“Non abbiamo informazioni qui”. Successivamente la TEPCO dichi-ara che l'incendio sarebbe iniziato nel reattore n.3. Ancora, più tardi, i media riportano che il livello di acqua nei reattori era al disotto del normale, citando fonti governative. La TEPCO confermerà solo molte ore dopo. Successivamente verrà comunicato che c'è stata la fusione del nucleo, in più di un reattore. Il fatto è che a tre mesi di distanza dall'incidente alla centrale nucleare, cosa sia veramente successo non si sa ancora. Infatti, un mese fa,

spuntano fuori novità. Il quotidi-ano nazionale Asahi Shimbun, il 26 maggio pubblica un articolo in cui viene dichiarato che la vera causa del danneggiamento dei reattori della centrale di Fukushima non è stata lo tsunami. A quanto pare, tutto sarebbe stato causato dal ter-remoto, contrariamente a quanto sostenuto dalla TEPCO, indaffarata a passare per un'azienda seria e scrupolosa, tanto che il 24 maggio Junichi Matsumoto, un ufficiale della TEPCO, addirittura asseriva che le tubature del reattore non

Naoto KanPrimo Ministro giapponese

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sarebbero state neanche danneggiate. “Sospettiamo ci sia un malfunzionamento degli strumenti di pressione” dichiarava in conferenza stampa. Eppure, la TEPCO ha rilasciato documenti lo stesso giorno, indicando che il danno al sistema di raffreddamento potrebbe essere stato causato dal terremoto. Keiji Miyazaki, emerito professore di ingegneria dei reattori nucleari all'Università di Osaka, sostiene che il sistema di raf-freddamento fosse danneggiato prima di essere colpito dalle onde del mare. “Dal momento che il sistema si trova all'interno del reattore, è molto poco probabile che sia stato danneggiato durante lo tsunami”. La costruzione del reattore nucleare n.1 di Fukush-ima precede la compilazione delle linee guida anti-terremoto, rese pubbliche nel 1978, anche se alcuni all'interno dell'industria nucleare ritenevano che la centrale potesse sostenere anche un terremoto di nono grado, e che gli standard di resistenza ai terremoti fos-sero sufficienti. Gli esperti dichiarano però che c'è bisogno di un'analisi dettagliata,, in modo da poter determinare quale veramente sia stata la causa del danneggiamento al sistema di raffreddamento che ha fatto poi dis-perdere il materiale radioattivo. Mike Weightman, a capo del gruppo IAEA (International Atomic Energy Agency), aveva richiesto al governo giapponese una maggior indipendenza sia strutturale che per quanto riguarda le risorse e le competenze a disposizione, anche se lo stesso Weightman sosteneva che la causa principe del danneggiamento fosse dovuta allo tsu-nami e che la Tepco si era mostrata collaborativa nel mettere a disposizione le informazioni riguardanti i reattori. Ad ogni modo, fortunatamente il primo ministro Naoto Kan si è mostrato collaborativo, sot-tolineando la necessità di andare a fondo con le in-dagini, soprattutto per via delle critiche provenienti dalla comunità internazionale, riguardo all'incidente. Il primo giugno infatti, una commissione indipendente, con a capo Yotaro Hatamura, professore emerito dell'Università di Tokyo e di cui fanno parte 10 esperti dello IAEA si è recata a Fukushima per studiare il caso. “Gli occhi del mondo sono puntati sulla commissione, e voglio che questa stili un rapporto che possa dare delle risposte alla comunità internazionale” -ha dichi-arato Kan l'8 giugno scorso- “Credo che la reputazione del Giappone come nazione dipenda dal riuscire ad ot-tenere la credibilità a livello internazionale, mettendo a disposizione tutto ciò che verrà fuori dalle indagini”. Kan ha anche aggiunto: “Vorrei che questa commis-sione analizzasse l'incidente e possa dare dei giudizi in maniera completamente indipendente dalla precedente amministrazione nucleare”. Il gruppo è stato scelto con attenzione, in modo da essere certi che nessuno abbia interessi nell'ambito del nucleare. Rimarca il carat-

tere indipendente della commissione la dichiarazione di Hatamura stesso: “Ritengo sia stato un errore che questa cosa pericolosa fosse considerata sicura”. Un rapporto provvisorio della commissione verrà reso pubblico a fine anno, mentre quello conclusivo sarà stilato una volta che la centrale nucleare si sarà sta-bilizzata. Stando sempre a Hatamura, quando, non è ancora dato saperlo.

di Laura Fois

alla ricerca dei fondI perdUtI“Il Parlamento è una farsa. Il sistema dei partiti è l’aborto della democrazia. Il salario deve essere abolito”. L’ha scritto Muammar Gheddafi nel 1975 nel Libro Verde, con l’obietto di trovare “la soluzione globale al problema della società umana”. Il visionario Colon-nello, fondatore della Terza Teoria Universale (alterna-

Esteri

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tiva al capitalismo e al comunismo), aveva inventato il termine Jamahiry per esprimere la sua idea tribale di democrazia. La Libia doveva essere socialista, governata e controllata dal popolo. Il suo colpo di Stato nel 1969 è stato evidentemente la messa in pratica, secondo lui, dell’esercizio democratico del potere popolare. Per quarantadue anni, la Libia era lui. Lo stesso Occidente, che ora gli sta facendo la guerra, ha fatto affari d’oro con il dittatore. Se si pensa, ad esempio, che nel 2008 la Libia ha versato agli Stati Uniti 1,5 miliardi di dollari come risarcimento alle vittime del terrorismo e neanche un anno dopo, le esportazioni ameri-cane alla Jamahiry fatturarono 650 milioni di dollari. Sempre nel 2008, l’Italia stipulò con la Libia l’ormai mitico Trattato d’amicizia, con il quale il nostro Paese s’impegnava a versare un assegno di 5 miliardi di dollari per vent’anni con la moti-vazione di “sviluppare un rapporto bilaterale, speciale e privilegiato”, e un partenariato economico e polit-ico. Un modo elegante per scusarci delle “profonde ferite” inferte alla ex colonia. In realtà, solo le aziende italiane avevano il via libera nella realizzazione di progetti infrastrut-turali. Il 2008 sembrava essere l’anno magico: se il Trattato, la cui bozza esisteva già col governo Prodi, firmato appena tre mesi dopo la costituzione del governo Berlusconi (il premier ha visitato più Gheddafi che Obama, la Merkel e Lula messi insieme), l’Italia è stato il paese che ha venduto più armi a Tripoli fino al 2009. Il nostro paese è da anni il primo partner commerciale della Libia. Gli investimenti libici in Italia sono noti: oltre alle infrastrutture, l’energetico e il bancario; basta fare qualche nome: Unicredit, dove detiene il 5% delle azioni, Finmec-canica e FIAT (2%), ENI (1%). Astaldi e Impreglio, le principali imprese di costruzioni italiane,

hanno firmato contratti milionari per costruire l’autopista che da Tripoli arriverà fino all’Egitto (un vecchio sogno di Gheddafi). Non sono stati quindi solo i titoli degli investimenti sul petrolio e sul gas a causare l’imbarazzante blackout out di sei ore della Banca d’Italia l’11 febbraio di quest’anno. Con l’insurrezione di Bengasi del 17 febbraio, l’attacco di Gheddafi ai civili, la dichiarazione il 18 marzo della no fly zone da parte delle Na-zioni Unite e l’inizio dell’operazione Odissea dell’Alleanza dei volenterosi costituita, per la prima volta, anche da paesi arabi, è iniziata una guerra dagli scenari incerti e che proba-bilmente durerà a lungo. Per l’Italia cambia tutto: dal punto di vista geo-strategico, politico ed economico. Il nostro paese ha iniziato a conge-lare i beni libici solo dal 5 marzo, e per di più ha congelato i patrimoni delle persone fisiche ma non degli istituti finanziari ad esse collegate, né delle partecipazioni azionarie alle nostre imprese e banche. La maggior parte dell’oro di Gheddafi si concentra infatti negli istituti finanziari e nelle partecipazioni azionarie alle varie imprese e is-tituti bancari internazionali. Si è calcolato che il Colonnello abbia

delle partecipazioni in 800 società straniere per un valore di 150 mil-ioni di dollari. Un impero gestito, secondo quanto ha riportato un giornale austriaco, a Lussemburgo da finanziarie libiche e europee che hanno costruito una rete interna-zionale complicatissima e difficile da decifrare. Solamente in Austria, gli investimenti della Libia am-montano a 30 miliardi di dollari. Tra prestanome e società di fac-ciata, dell’impero di Gheddafi non si recupereranno, forse, che briciole. Intanto, colui che Ronald Reagan ribattezzò “il cane pazzo del Medio Oriente”, non perse tempo a con-vocare, all’indomani dello scoppio della protesta a Bengasi, gli ambas-ciatori di Russia, Cina e India per parlare di gas e petrolio. Ma l’Unione Europea, con l’Italia che esprime ora una ferrea po-sizione di condanna contro l’ex amico, non sta certo a guardare. Secondo l’ex presidente del Par-lamento europeo José María Gil-Robles, oltre a dare ingenti somme di denaro, la UE si sta impegnando a dare armi ai ribelli, ma soprat-tutto, a dotarli di un sistema lo-gistico per fare fronte al conflitto. “Non dimentichiamoci, però, che il grosso della guerra l’hanno già fatto gli USA, quando sono intervenuti per primi, impiegando 500 razzi da cinquecento milioni di dollari”, avverte. Intervistato il giorno dopo il G-8, alla domanda se l’immagine dell’Italia sia stata offuscata an-cora una volta dopo l’ingerenza di Berlusconi (quando confessò a Obama che l’Italia stava approvan-do un’importante riforma della giustizia in quanto presente una dittatura di magistrati comunisti), Gil-Robles, per nulla sorpreso, ha risposto che la stessa dichiarazi-one gliela aveva fatta Il Cavaliere anni fa. “Per venti minuti non fece altro che parlarmi della necessità di quella riforma”, ricorda divertito l’ex presidente, “Deve essere una sua fissazione”. O un déjà vu.

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Esteridi Laura Fois

La RivoluzionedellA gente ComunEIl movimento del 15M spagnolo promuove un modello di democrazia partecipativa. L’apatia degli italiani.

A Madrid le giornate di maggio sono afose e torride. Poi, improvvisamente, cadono piogge torrenziali. È pazza questa primavera. C'è un proverbio spagnolo che dice: “La primavera altera il sangue”. Dev'essere stato così il 15 maggio scorso, quando migliaia di cittadini si sono riuniti nelle strade della capitale per protestare contro la classe politica e l'ordine sociale ed economico esistente, al grido di “Non siamo politici né sindacati, solo cittadini idignati”. La manifestazione, organizzata sul web e da vari gruppi quali Democracia Real Ya, No Les Votes, Joventud Sin Futuro, aveva un motto chiaro: “Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri”. Nessuno si aspettava che la manifestazione potesse continuare e concretizzarsi in un movimento (15M). Una volta terminato il corteo alla Puerta del Sol, centro economico e politico della Spagna, alcuni ragazzi hanno deciso di continuare la protesta dormendo in piazza. Trentadue ore dopo, una sezione della polizia nazionale, nota come antidisturbios, è intervenuta con violenza, arrestando 24 persone. Quella notte i ragazzi sono rimasti. E altri, tantissimi altri hanno occupato la piazza nelle ore successive. Il 18 maggio si è realizzata la prima assemblea e si sono formati i primi gruppi di lavoro, per discutere dei problemi reali del paese: disoccupazione (arrivata al 21%), privilegi e

corruzione dei politici, poca o nulla trasparenza nel controllo delle entità bancarie, frode fiscale.Il movimento 15M si è esteso in tutta la Spagna e l'Acamapada Sol si è decisa a rimanere prima fino al 22M, giorno delle elezioni amministrative, poi fino al 12 giugno. La vera novità di questo intento di democrazia partecipativa sono state le assemblee popolari che si sono organizzate ogni sabato nei quartierti delle varie città spagnole. Solo nella prima settimana a Madrid si sono contate 121 assemblee. Dopo dibattiti e scambi di idee, le richieste maggiormente condivise arrivano alla grande commissione. L’obiettivo è raccogliere consenso in modo che le proposte arrivino ai mezzi di comunicazione, alla classe politica e alla società civile intera. Dimostrare che si può realizzare

una democrazia migliore, più diretta e onesta, è il compito e la speranza di questa rivoluzione.Il simbolo di questo intento è proprio la Puerta del Sol, rinominata piazza “SOLución”. Qui ci sono state le concentrazioni maggiori, qui si è costruito un vero e proprio laboratorio di idee a cielo aperto. Entrare nella piazza “soluzione” è come addentrarsi in una mini città autogestita e solidale, un eco-museo di arte contemporanea. Ci sono persone che ogni giorno hanno donato coperte e viveri. C'è stata una piccola biblioteca, addirittura un orto e pannelli solari. Per un paese che attraversa una rescissione importante, questo movimento è un occasione e anche una sfida. Gli spagnoli hanno già fatto la loro rivoluzione perché sono riusciti a scuotere e mobilitare una parte della popolazione scontenta e arrabbiata, metterla a confronto e farla agire per trovare linee di soluzione condivise e ragionevoli. La costituzione di assemblee popolari è stata una novità assoluta nel panorama delle moderne democrazie occidentali e può essere un fattore di pressione enorme per i governi locali e soprattutto per quello nazionale. Le prossime elezioni generali

Plaza del Sol

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saranno tra neanche un anno: il premier Zapatero ha già rinunciato alla ricandidatura, e ha proposto come candidato una persona di fiducia (Alfredo Pérez Rubalcaba) che faticherà per riconquistare un elettorato di sinistra profondamente deluso. Una parte di esso si riconosce nel movimento 15M, il quale non ha influito molto nelle ultime elezioni amministrative, che hanno registrato però sintomi preoccupanti: il voto nullo è cresciuto di un 50%, e più di un terzo il voto in bianco. Questi non-voti rappresentano oggi la quarta forza politica del paese. Solo una persona su quattro ha votato il Partito Popolare, lo schieramento di destra che ha ottenuto la maggioranza in tutte le comunità autonome (le nostre regioni). Il 19 giugno è prevista una marcia verso il Congresso dei Deputati (il nostro Parlamento), e per il 15 ottobre si sta organizzando una mobilitazione mondiale. Il vento spagnolo sta soffiando in più parti d'Europa ma in Italia è debole. L’Economist si è chiesto perché: “mentre gli spagnoli sono arrabbiati (la loro economia è passata da un boom a un collasso improvviso)”, ha motivato la rivista inglese, “gli italiani sono semplicemente intorpiditi da un decennio di crescita lenta”. Ma c’è di più: in Italia i giovani non hanno capito, al contrario degli spagnoli, che un sistema marcio è sostenuto anche dalla sinistra e dai sindacati, e così “si dividono tra quelli che lasciano il paese o vorrebbero farlo e quelli che rimangono, nella speranza di entrare nel gruppo dei privilegiati”.Un portavoce della manifestazione spagnola, a Barcellona, ha detto: “Quando rifletteremo su questo secolo ciò che ci sembrerà più grave non saranno le azioni dei violenti, ma lo scandaloso silenzio delle brave persone”. È un invito anche ai giovani italiani ed europei.

Esteridi Matteo Di Grazia

morto un Bin Laden se ne fA un altroQuando un papa muore, si può star certi che ne verrà eletto un altro. L’inferenza è talmente scontata che, oltre a non essere accettata come oggetto di scommessa, ha dato vita al detto più abusato tra i luoghi co-muni. Altra cosa è, invece, indovin-are il nome del successore. I fattori che entrano in gioco sono moltepl-ici, il segreto e il silenzio diventato la prima regola dei cardinali riu-niti in conclave, nulla trapela e il pronostico sarebbe un puro atto di divinazione.Ma, si sa, una lista viene sempre stilata, e dalle silenziose stanze vati-cane giungono soffusi echi di nomi che vengono miracolosamente colti dagli esperti, detti volgarmente vaticanisti, per poi venire stampati su tutti i giornali italiani e su pochi giornali stranieri.Tale lista è, come tutti sanno, quella dei papabili, termine talmente co-mune da diventare il secondo detto più abusato di tutti i tempi.Folle di fedeli trepidano alle porte di S.Pietro, mentre i cardinali votano in silenzio. Urla di de-lusione pervadono la Città del Vaticano quando del fumo nero si spande in aria, mentre i cardinali si apprestano a rivotare con pa-zienza. Gioia, felicità e alcuni isolati fenomeni d’isteria di massa scen-dono su tutti i fedeli cattolici del mondo quando una fumata bianca (terzo detto in ordine di popolarità) annuncia l’avvenuta nomina. Si può credere che l’elezione di una papa sia la manifestazione con-creta del volere divino, tanto che papa Fabiano fu nominato perché una colomba si posò sul suo capo, oppure si può sapere che un papa

sale al soglio pontificio per tante ragioni, la più forte delle quali è quella politica.È famosa l’elezione papale del 1268-71 di Viterbo: dato che i cardinali impiegavano con troppa solerzia la virtù della pazienza, a discapito delle tasche della città che doveva fornire vitto e alloggio, si decise di scoperchiare il tetto del palazzo ove era riuniti i cardinali per mettergli, diciamo così, un po’ di fretta nello scegliere il nuovo papa. Si rese necessario invogliare i cardinali alla decisione non perché la volontà divina tardava a manife-starsi, ma perché il clima politico del tempo rendeva complicata la decisione.Sarebbe utile aprire un altro tetto per comprendere appieno quello che succede oggi, non a Roma, ma in un imprecisato luogo che, di sicuro, non si trova né in Pakistan né in Afganistan.Il mondo ha appreso con gioia che Osama Bin Laden, leader di Al Qaeda, è stato ucciso dalle truppe americane. L’uomo più temuto del mondo, colui che ha architettato gli attentati del 2001, è stato scovato, ucciso, trasferito su di una nave, ha beneficiato di un funerale islamico e, infine, ha trovato riposo sul fondo del mare.Dieci anni di ricerca svaniti in 24 ore. Alle volte è meglio lasciare un dubbio che cercare di fugarlo con mezzi inefficaci, quindi possiamo affermare che Bin Laden è morto e che l’America ha sferrato un duro colpo al terrorismo internazionale.Ma, memori delle gesta dei viterbe-si del XIII secolo, proviamo a salire su quel palazzo imprecisato che,

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adesso lo possiamo dire, si trova sul suolo americano. Una volta arrivati in cima, scostiamo una tegola, ché aprire tutto il tetto sarebbe troppo, e guardiamo in basso. La stanza è invasa dalla luce perché, è ovvio, una democrazia deve essere “con-trollabile”. Sono bene illuminati i valori della libertà, le vittime del terrorismo, pagine e pagine di dis-corsi presidenziali circa il ruolo de-gli Stati Uniti nel mondo, l’obiettivo primario dell’esportazione della democrazia, la necessità della lotta ai talebani in quanto ostacolo alla convivenza dei popoli in un con-testo geopolitico delicato e, per ultimo, la ferma battaglia ad Al Qaeda.Però, data la visuale privilegiata di cui si può godere dall’alto, le zone scure nella stanza sono più di quelle che si poteva immaginare. Ma l’altezza impedisce anche di illuminarle a dovere, e non è nella nostre capacità rischiarare total-mente anni di informazioni celate. Se non è un mistero che i talebani sono stati finanziati dagli Usa du-rante la guerra fredda per fronteg-giare l’avanzata dell’Unione Sovi-etica, salvo poi essere additati come nemici una volta caduto il muro di Berlino, più difficile è dimos-trare lo stretto rapporto che lega l’amministrazione Usa e Al Qaeda.Il fatto è che qui non si vuole dimostrare nulla ma, più semplice-mente, mostrare quel che c’è di contradditorio e che mai nessun esponente istituzionale americano ha tentato di risolvere. Al Qaeda è “nata” negli anni ’90, in un periodo in cui gli Usa si trova-vano senza l’antagonismo dell’Urss, ed era composta da molti di quei combattenti afgani finanziati dagli americani. L’attacco del 2001 aprì la strada alle guerre in Iraq e in Afganistan. L’azione americana in Iraq fu giusti-ficata da motivazioni che si rive-larono inequivocabilmente false, l’azione americana in Afganistan fu

giustificata dalla lotta al terrorismo in generale e alla cattura di Bin Laden in particolare.La lotta al terrorismo si è poi trasformata nella lotta ai tale-bani, mentre tutta Al Qaeda (“l’organizzazione terroristica più potente al mondo”) si riduceva ad un solo uomo. Per chi fosse inter-essato alla letteratura umoristica, consiglio di leggere i centinaia di articoli, interviste, video e dichiar-azioni ufficiali in cui veniva descrit-ta l’organizzazione terroristica e la sua base: un bunker costruito sotto una montagna, a più livelli, dotata di centinaia di stanze dotate dei più avanzati sistemi informatici in cui lavoravano giorno e notte i terror-isti, intenti a pianificare i prossimi attentati.Dopo dieci anni Bin Laden viene trovato in una località di villeggiat-ura, insieme ad una moglie, forse un figlio e altri due uomini. La “base” era dotata di un pc portatile e di una televisione.Sorge il dubbio che, se proprio non si vuol credere all’idea di un’America che finanzia il terror-ismo, almeno sia plausibile che il nemico gli Usa se lo siano scelto e gestito.Morto un papa se ne fa un altro, perché l’uomo passa ma la Chiesa rimane.Morto un Bin Laden se ne fa un altro, almeno finché fa comodo, perché il bisogno di un nemico vendibile non passerà mai.

Osama Bin Laden

dopo mesi di

cApriole, corse

contro il tempo,

piroette, sAlti

mortAli finAnco

quAndo immortAli,

ce l’AbbiAmo fAttA.

AppuntAmento trA

quindici giorni.

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