Lule të ligjaalbanese, Meshari (il Messale), del vescovo cattolico Gjon Buzuku (1555), le opere...

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si trova in II Canti e tradizioni popolari e Lule të ligja – Fiori del Male in appendice: Rimario a cura di Giuseppe Fiorilli

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si trova in II

Canti e tradizioni popolari e

Lule të ligja – Fiori del Male

in appendice: Rimario

a cura di Giuseppe Fiorilli

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Ururi si trova in Italia

II

Canti e tradizioni popolari e

Lule të ligja – Fiori del Male

in appendice: Rimario

a cura di Giuseppe Fiorilli

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Gjuha jone sa e mirë,

sa e ëmbël, sa e gjerë, sa e lehtë, sa e dlirë,

sa e bukur, sa e vlerë! Naim Frashëri

[ghiúha ióne sa e mir, sa e εmbεl, sa e ghiér,

sa e léht, sa e dlír, sa e búcur, sa e vlér!]

[la lingua nostra tanto buona, quant’è dolce, tanto leggera, quant’è facile, tanto schietta,

quant’è bella, tanto preziosa!]

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Indice

Presentazione pag. I Prefazione “ III Ringraziamento “ VIII Note sulla pronuncia e sulla trascrizione

“ IX

Alfabeto XII

Parte I

Cap. I La corsa dei carri Rrjedhënjën qerret

“ 3

Cap. II Magia e superstizione Shishja

“ 7

Cap. III Le feste Féstat Si bëhet sangunati Si bëhen qiqrat me rër Kallón ti kaha illazët Nata e mirë Kumandamendet Tata jonë

“ “ “ “ “ “ “

9 10 16 18 19 20 21

Cap. IV I giochi Lojrat “ 22 Cap. V Le favole e le storie

Prraezët e storjet Këmba e vjedhur Çiçikalla e milingona Ujtë ka vera Takarata “a la çëkata” Di mushqit Ujku e qengji Qifti e kollëza Kali i çuop

“ “ “ “ “ “ “ “ “

24

24 27 28 31 32 33 34 35

Cap. VI Detti e proverbi “ 37

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Parte II

Cap. VII Canti dell’amore materno e familiare

43

Cap. VIII Canti dell’amore giovanile e della gelosia

“ 52

Cap. IX Canti nuziali “ 64 Cap. X Lamenti funebri “ 66 Cap. XI Poesie buffe e filastrocche “ 68 Cap. XII Poesie religiose “ 86 Cap. XIII La diaspora “ 88 Cap. XIV Canti della nostalgia “ 90 Cap. XV

I Contemporanei E çë anát simbjet Kënga akuedotit Kallón ci ‘Ndoni Hora ime Tekur bie bora Hora ime ng’e harruor

“ “ “ “ “ “

96 99

101 103 104 105

Parte III

Lule të ligja “ 109 Appendice Come poetare in arbëresh “ 176 Rimario “ 179 Indice alfabetico dei Canti “ 198 Indice alfabetico di Lule të ligja “ 202 Bibliografia “

204

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I

Presentazione

Questo nuovo lavoro letterario del nostro Giuseppe Fio-

rilli ricalca nel titolo quello precedente Ururi si trova in Ita-lia – Profilo storico e si sofferma ora sui Canti e tradizioni popolari di Ururi. Nell’ultima parte, riporta una serie di componimenti che mirano a esorcizzare le più dolorose si-tuazioni del vivere quotidiano, raccolte nei versi dei Fiori del Male, Lule të ligja. L’opera termina con un Rimario che costituisce un’utile spunto per le giovani generazioni che vorranno cimentarsi nell’arte del poetare in arbëresh.

Anche quest’opera, come la precedente, viene donata al nostro paese, che gliene è grato.

Non mi sorprende che un nostro concittadino, che ha pas-sato gran parte dell’esistenza lontano dal paese natío, sia fi-sicamente, sia intellettualmente, perché immerso in proble-matiche non consuete per noi, senta ora il bisogno di ritrova-re le proprie radici. Non è l’unico caso. Mi auguro, e dico ciò con una certa apprensione, che le giovani generazioni sappiano utilizzare i frutti di questo generoso lavoro e non consentano che il nostro bell’idioma, gjuha jone sa e mirë, finisca nelle nebbie dei ricordi.

Siamo in ritardo nel recupero della nostra cultura e nella riscoperta delle nostre più autentiche tradizioni, però ho fi-ducia nella nostra gente, credo in quei giovani che non si a-dagiano nel conformismo del momento e che dialetticamente si interrogano sulla valenza di antichi valori morali, rispetto alla pericolosa onda materialistica che a volte sembra voglia sommergere tutto e tutti.

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II

In alcuni versi dei Canti risuonano sentimenti d’amore per la libertà, per la lealtà, per l’amicizia, per la famiglia, per i grandi valori morali, simboleggiati - come giustamente messo in evidenza da Giuseppe Fiorilli nei suoi articoli ap-parsi su Kamastra -, dalla mitica figura di Skanderbeg. Sap-piamo che il nostro eroe non fu fermato né dai tradimenti, né dai tentativi di corruzione, andando dritto per la sua strada, finché visse.

Noi arbëreshë dobbiamo disegnare un ponte immaginario che, sormontando i quattro secoli di dominazione turca ed i cinquant’anni di dittatura comunista - una lunga storia che non ci appartiene – ci unisca simbolicamente a Skanderbeg ed ai suoi ideali, che poi sono in gran parte autentici mes-saggi cristiani.

È questo l’invito implicito contenuto nei Canti e negli al-tri versi dell’opera di Giuseppe Fiorilli e che rivolgo ai miei concittadini, alle famiglie, ai giovani.

Luigi Plescia Sindaco di Ururi

Ururi, luglio 2001

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III

Prefazione Quest’antologia di canti e di tradizioni popolari arbëre-

shë ha richiesto inevitabilmente una selezione. Il criterio se-guito è stato uno solo, valido, se vogliamo, per tutte le situa-zioni: si è cercato, cioè, di dare la preferenza a quei soggetti tematici che riescono ad esprimere meglio le antiche radici.

In genere, sono stati rispettati i testi, così come gli arbë-reshë della prim’ora ce li hanno tramandati, sostituendo, tut-tavia, laddove possibile, alcuni termini lasciati infiltrare pi-gramente in passato, che in ogni caso ci son parsi brutti per-fino come “neologismi”. Per quest’opera di rinnovamento si è fatto riferimento al materiale letterario classico e moderno e, in particolare, alla “Grammatica” di Martin Camaj,1 nell’edizione 1996 del Brenner, tradotta dal tedesco a cura di Ardian Vehbiu.

L’arbëresh di Ururi non ha conosciuto le evoluzioni lin-guistiche dei paesi italo-albanesi di Calabria. Ci si rende conto di ciò scorrendo le opere dei grandi letterati arbëresh calabresi, in particolare di Girolamo De Rada (Rapsodie di un poema albanese), di Giulio Varibobba (Gjella e Sh. Mëris Virgjër) e di Giuseppe Angelo Nociti (Rëmenxa t’arbresha). Leggendo lo “studio introduttivo” di Italo Costante Fortino a Rëmenxa t’arbresha, si prova un grande rimpianto nel con-statare in quale profondo oblío è caduto l’arbëresh nel no-stro paese, dove l’antico idioma si parla ancora solo grazie alla tradizione orale.

A nostra parziale discolpa va il fatto che la produzione letteraria, antica e moderna, usa il dialetto ghego, per noi non di immediata comprensione. Il Gheg, poi, è tanto più di-verso dal Tosk, quanto più ci si allontana dalle nicchie ghe-ghe dell’Albania meridionale verso la profonda Kosòva, 1 Martin Camaj (1925-1994) nacque nell’Albania settentrionale. Dopo aver concluso gli studi classici a Scutari, nel 1956 per dissensi politici si trasferì a Roma, dove fu assistente di Giuseppe Ungaretti. Nel 1969 gli fu affidata la cattedra di albanologia all’Università di Monaco. Ha lasciato diverse opere letterarie.

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IV

culla del Gheg. La stessa capitale albanese, Tirana, che co-stituisce il centro politico e culturale del paese, è situata in una zona ghega. E così sono scritti in ghego il primo libro in albanese, Meshari (il Messale), del vescovo cattolico Gjon Buzuku (1555), le opere classiche di Fishta, di Prenushi, di Koliqi.1 Lo stesso Martin Camaj ed il suo commentatore Ar-djan Vehbiu, appartengono alla schiera dei gheghi; per que-sto la Grammatica del Camaj è ancor più preziosa, essendo poliedrica ed obiettiva.

Fa parte, invece, della più ridotta schiera dei letterati Tosk Ismail Kadarè, probabilmente il più grande scrittore nella storia letteraria dell’Albania (I tamburi della pioggia ed altre opere).

Anche il mondo politico è stato alternativamente rappresentato, da Enver Hoxha, di etnia tosca, al successore Alia, che, invece, era ghego come Sali Berisha, del quale si diceva che fosse incapace di fare un discorso in albanese moderno, cosiddetto standard. D’altra parte, fino al 1952 sia l’albanese letterario che quello parlato erano dominati dal dialetto ghego e solo nel congresso del 1972 si decise, per motivi esclusivamente politici, di basarsi sul Tosk. È quindi ancora troppo presto per valutare le conseguenze di questa decisione; per noi arbëreshë, comunque, la lettura di un testo letterario in albanese moderno non è facile; ne percepiamo i significati, grazie al coordinamento delle parole a noi note, ma non siamo in grado di tradurre alla lettera.

Anche la lettura degli autori calabresi, con esclusione, forse, del Varibobba – del quale possediamo, oltre che la tra-scrizione moderna, anche una traduzione letterale – richiede un certo impegno per la comprensione, come dimostrano i seguenti due frammenti che riportiamo, il primo del De Rada ed il secondo del Nociti:

(dal Canto XIX delle “Rapsodie”)

Mori e buccura Moree O bella Morea 1 che si pronuncia – come correttamente dice Vincenzo Musacchio che l’ha conosciuto – “colíci”, perché in ghego la q coincide con la ç.

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V

Cy t’lhee, myy sy t’pee!

Come ti ho lasciata, più non ti vidi!

Attie cam u ξognen m’yym, Là ho la signora mia madre Attie cam u t’im vulaa, Là ho mio fratello Attie cam u ξoon tat Là ho il signore mio padre Ty mbulhuar nyn δee. Coperto sotto terra. O e buccura Moree, O bella Morea Cy t’lhee myy sy t’pee!

Come ti ho lasciata, più non ti vidi!

(dal Canto XIII delle “Rëmenxa”

Ku ë lumsía? Dov’è la felicità? Ng’ë vërteta, ng’ë vërteta Non è vero, non è vero se lumsía gjëntet te jeta.

che la felicità si trova in questa vita.

E mos ndje se qellënj dhun

E non crediate che vi prendo in giro

kur ju thom se ng’ë gjikun;

se vi dico che non si trova in alcun luogo;

se ku më ke bes se rrí perché dove si crede che stia nëng’ gjëntet lumësí. non si trova la felicità.

Che il nostro arbëresh sia influenzato dal dialetto tosco è sostenuto dagli studiosi; i quali citano, tra le diverse prove, il rotacismo (l’uso della r invece della n) nei verbi, negli ag-gettivi, nei sostantivi, come arbëresh anziché arbënesh. Ciò confermerebbe indirettamente la provenienza dall’Albania centro-meridionale delle famiglie che hanno popolato Ururi.

Val la pena, per valutare questo aspetto, leggere la se-

guente breve storiella che riportiamo dalla citata Grammati-ca del Camaj, in modo che, alla fine, ciascuno di noi può trarre le proprie conclusioni:

Ujku e poçari

Ghego Tosco Ujku i malit kishte ngranë Ujku i malit kishte ngrënë

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VI

shumë dele të katundit. shumë dele të fshatit. U mblodhën baritë e katun-dit e shkuen në mal të vrasin ujkun.

U mblodhën barinjtë e fshatit e shkuan në mal të vrasin u-jkun.

Bashk me barí vojti edhé nji poçar me vrá ujkin.

Bashkë me barínj vajti edhé një poçar për të vrarë ujkin.

Tue ikë, i tha ujku poçarit: Duke ikur, i tha ujku poçarit: Njerí i mirë, këtyne njérëzve u kam faj, por ty çka të bana?

Njerí i mirë, këtyre njérëzve u kam borxh, por ty çë të bëra?

A të ngrana ndonji poç? A të hëngra ndonjë poç?

Il lupo e il vasaio Il lupo della montagna aveva divorato molte pecore del vil-laggio. I pastori del paese si riunirono ed andarono sulle montagne per ammazzare il lupo. Con i pastori anche un vasaio andò a uccidere il lupo. Fuggendo, disse il lupo al vasaio: Buon uomo, verso queste persone sono in colpa, ma a te co-sa ti ho fatto? Mica ti mangiai qualche vaso?

Da noi non ci si è preoccupati del problema della tra-

scrizione – dacché gli unici esempi di letteratura nostrana sono in lingua italiana – o del lessico, tant’è che nel nostro paese era ed è invalso l’uso di intercalare, all’arbëresh parla-to, parole prese a prestito dall’italiano e magari dai dialetti meridionali.

Intendiamoci, le motivazioni d’ordine sociale che, in pas-sato, hanno spinto a snobbare l’antico idioma – motivazioni sacrosante, dettate dall’esigenza primaria dell’integrazione territoriale, unica strada che garantisce la sopravvivenza agli emigrati – non bastano per assolverci ed oggi non possiamo che rammaricarcene e cercare di recuperare un po’ del tempo perduto.

Con tali premesse, dobbiamo perfino meravigliarci se, in tanta povertà lessicale, siamo riusciti a salvare un certo nu-

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VII

mero di Canti, che, pervenuti fino a noi per tradizione orale, appartengono in gran parte ad una inedita e meticolosa rac-colta compiuta dal compianto Ettore Frate – l’indimenticabile maestro plurilaureato - , al quale va il no-stro pensiero e la nostra riconoscenza. 1

Tra i “contemporanei”, ne abbiamo citati solo alcuni, poi-ché il fine di questo lavoro è stato quello di far riemergere l'arbëresh antico.

La lettura dei “canti” – dei quali è stata riportata, per mo-

tivi didattici, una traduzione rigorosamente letterale – offre, accanto a quadretti ora arguti, ora comici, altre volte amari, ma sempre inseriti in un contesto di vita sociale, una compo-sita serie di modi di dire, di frasi, di temi sociali.

Il loro scopo pedagogico è alleggerito dalla brevità e dal-la normalità dei contenuti. Le note di richiamo vogliono sot-tolineare e, a volte, integrare gli aspetti più incisivi del parti-colare modo di pensare arbëresh.

Il “Rimario”, infine, costituisce il naturale corollario di

quest’opera e tende a incuriosire e favorire i tentativi di let-teratura soprattutto da parte delle nuove generazioni, alle quali – memore del fatto che il mio arbëresh l’ho applicato esclusivamente nei primi dieci spensierati anni della mia vita a Ururi - vorrei mandare solo una breve raccomandazione: imparate i “canti” a memoria e ripeteteli a voce alta oltre che nelle scuole e nelle vostre case, soprattutto per strada; è qui dove effettivamente l’arbëresh s’apprende e si tramanda.

Giuseppe Fiorilli

1 sulle battaglie sociali di Ettore Frate, ved. Ururi si trova in Italia, Profilo storico, pp. 269 ss.

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VIII

Ringraziamento

Devo esprimere un particolare ringraziamento a Vincen-zo Musacchio, arbëresh “doc”, il quale, con pazienza certo-sina, mi ha aiutato a scovare e correggere molti vocaboli non propriamente ururesi e ad inserirne altri che, pur essendo sta-ti prestati dall’italiano o dal dialetto molisano, formano la parlata caratteristica del paese.

Sarò inoltre grato a tutti coloro che mi vorranno segnalare altre imprecisioni, alle quali si porrà rimedio in una edizione successiva.

g.f.

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IX

Note sulla pronuncia e sulla trascrizione

L’alfabeto albanese consta di 36 fonemi, dei quali 29

consonanti e 7 vocali (che, però, diventano 6 nell’alfabeto arbëresh, dove non esiste il suono della y – simile all’ü te-desca o all’u francese - ed è reso, a seconda dei casi, con i o j).

Alcune brevi e semplici regole grammaticali: 1. In italiano, per indicare il genere ed il numero di un so-

stantivo, si usano gli articoli il, lo, la per il singolare; i, gli, le per il plurale. In arbëresh, questi articoli sono in-corporati nei sostantivi, fino a indicarne non solo il ge-nere ed il numero, ma anche la loro declinazione. Per esempio, prendiamo la parola lihàr (lume): a) lihàr vuol dire “lume”, quale soggetto od oggetto di

una frase; in questo caso, è preceduto da një (un). Questa forma è chiamata Nominativo Indefinito sin-golare, se il sostantivo è usato come soggetto; oppu-re Accusativo Indefinito singolare se è usato come oggetto;

b) lihàri vuol dire “il lume”, quale soggetto di una fra-se. Questa forma è chiamata Nominativo Definito singolare;

c) lihàrin vuol dire “il lume”, quale oggetto di una fra-se. Questa forma è chiamata Accusativo Definito singolare.

Esempi: u kam një lihàr io ho un lume ( a ) u kam lihàrin io ho il lume ( c ) një lihàr isht këtú un lume è qui ( a ) lihàri isht këtú il lume è qui ( b )

Vediamo, ora, un esempio di sostantivo femminile: mo-tër (sorella):

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X

a) motër vuol dire “sorella”, quale soggetto od oggetto di una frase; in questo caso, è preceduto da një (u-na). Questa forma è chiamata Nominativo Indefinito singolare, se il sostantivo è usato come soggetto; oppure Accusativo Indefinito singolare se è usato come oggetto;

b) motra vuol dire “la sorella”, quale soggetto di una frase; Questa forma è chiamata Nominativo Definito singolare;

c) motrën vuol dire “la sorella”, quale oggetto di una frase. Questa forma è chiamata Accusativo Definito singolare.

Per la forma indefinita delle altre declinazioni, genitivo, dativo e ablativo, si usa la stessa forma del Nominativo Definito (per il maschile); oppure l’Accusativo Definito (per il femminile), sostituendo la a finale con una e: lihàri > lihàri [drit lihári = luce di lume] motra > motre [bir motre = figlio di sorella] Per la forma definita del Genitivo, si prende l’Accusativo Definito, sostituendo la n finale con una t (per il maschile) o con una s (femminile) lihàrin > lihàrit [drita lihárit = la luce

del lume] motrën > motrës [biri motrës = il figlio della

sorella]

2. In arbëresh vi sono diversi modi del Verbo; queste le principali: - l’indicativo, per le semplici dichiarazioni.

Es.: u jam = io sono - il congiuntivo, per le espressioni di possibilità.

Es.: u të jem = che io sia - il condizionale, per le espressioni di condizione.

Es. do të isha = io sarei - l’ottativo, per le espressioni di desiderio.

Es.: u qofsha = che io possa essere - l’imperativo, per le espressioni di comando.

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XI

Es.: jini! = siate! Vi sono due voci: attiva (es.: u marr, io prendo) e me-dio-passiva, nella quale il medio ed il passivo finiscono per coincidere (es.: u lodha, mi stancai). Alla voce attiva appartengono tutti i verbi intransitivi (es.: u qeshënj, io rido), mentre gli impersonali possono ricorrere sia in forme attive che passive. Il futuro nell’arbëresh di Ururi si forma con kat + con-giuntivo (es.: kat jem = sarò; kat kem = avrò).

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XII

Alfabeto

a a italiana. Es.: kam (io ho), mal (monte)

b b italiana. Es.: i bardhi (bianco)[ibarδi], bashk (in-

sieme)[basck]

c z sorda o aspra di “forza” o “azione” o “abbazia” o “ragazzo”. Es. cili (quale)[zili], u êcënjë (io cammi-no)[uèzεgn], acár (acciaio), pëcendarí (pover-tà)[pεzεndarì], dicá (un po’, alcuni)[dizà]

ç c italiana di “ceci” davanti a tutte le vocali. Es.: çikat (cieco), dëçembri (dicembre)[dεcèmbri], kulaç (focac-cia)[culàc], paçar (intatto)[paciàr], çuvete (civet-ta)[ciuvète]

d d italiana. Es.: dal e dal (lentamente), derku (il maia-le)

dh th dolce e sonora dell’inglese “that” o “mother”. Es.: dhjet (dieci)[δièt], dhëmb (dente)[δεmb], dheu (la ter-ra)[δèu]

e e italiana. Es.: petkat (i vestiti)[petcat], grepi (l’amo)

ë 1. quando è tonica o accentuata, si pronuncia come nel francese “beurre” (burro) o nell’inglese girl (ra-gazza). Es.: hëna (la luna)[hεna], gërshëra (la forbi-ce)[gεrscεra] e, per compensazione, si allunga leg-germente. 2. Nella tradizione di Ururi, il fonema spesso s’elide in finale di parola o in alcuni tempi verbali o, infine, in alcuni sostantivi; es.: v[ë]diq (morì)[vdìch], përgjegj[ë] (rispondere)[pεrghiegh], djeg[ë] (bruciarsi)[diègh], dit[ë] (giorno), djal[ë]

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XIII

(bambino)[diàl], krip[ë] (sale), miq[ë]t (amici), lot[ë]t, anche lot’t (lacrime)[lotεt]. 3. Ancora nella tradizione ururese, a volte si pronuncia i; è questo il caso di është (egli è), che, perciò, viene trascritto co-sì come si pronuncia: isht.

f come in italiano. Es.: frin (soffia il vento), furkati (la forca)

g g italiana, sonora, davanti ad a, o, u come in “gora”, oppure gh davanti ad e, i. Es.: gûr (pietra), kënga (la canzone)[chεnga], i ngusht (stretto)[ingùsct], gisht (di-to)[ghisct], nget (cammina)[nghèt], i vogël (picco-lo)[ivòghεl]

gj approssimativamente gh di “ghiaccio”, ma senza far sentire la i, davanti a qualsiasi vocale; es. gjel (gal-lo)[ghièl], gjum (sonno)[ghiùm], gjegj (ascol-ta)[ghiègh], gjiza (la ricotta)[ghisa], gjaku (san-gue)[ghiàcu]

h è leggermente aspirata come nel tedesco “herr” (si-gnore). Es.: hareja (l’allegria), na hami (mangiamo), kríhemi (ci pettiniamo), láhemi (ci laviamo). Quando necessario, per evitare la creazione di diagrammi impropri, quali th, dh, sh ecc., viene usato un tratti-no; es.: at-herë (allora)

i come in italiano. Es.: i nipi (il nipote), njëqind (cen-to)[gnεchìnd], idhur (amaro)[iδur]

j come nell’italiano “iato” o “Ionio”. Es.: jasht (fuo-ri)[iàsct], u jam (io sono)[uiàm], ju ini (voi siete)[iuìni], vjedh (rubare)[vièδ], zjarr (fuoco)[siàr]. Quando i gruppi vocalici (ai, ëi, ia ecc.) contengono la i atona, questa viene trascritta con j; es.: Parrjasi (Paradi-so)[pariàssi], prëçësjuna (processione)[prεcεssiùna], kjo (questa)[kiò]; viceversa, la i è conservata quando è

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XIV

tonica e nelle desinenze, negli articoli o particelle pronominali; es.: aí (quello) bie (cade)[bìe], thoi (di-ceva)[θòi]

k davanti a qualsiasi vocale, ha il suono della c italiana di “caldo”. Es.: kau (il bue), kush (chi)[cusc], buka (il pane), kiç (chiave)[chic], ikënj (correre)[ichεgn], sikër (sigaro)[sichεr]

l l italiana di “leale” o “polo” o “sigla”. Es.: lagënj (bagnare)[laghεgn], gjalet (ragazzo)[ghialèt], kal (mu-lo), lihar (lume)

ll 1. simile, ma più velarizzata, all’inglese “hill” o al francese “famille”; es.: mâlli (il desiderio)[màji], îllë-za (la stella)[ijεsa]; 2. nella maggior parte delle parole è semimuta e si risolve nell’allungamento della vo-cale che precede; es. gjella (vita)[ghièa], molla (me-la)[mòa], vullá (fratello)[vuà], muillíri (il muli-no)[muìri]; 3. infine, in alcune parole la ll finale è scomparsa del tutto, es.: uthu, anziché uthull. Manca, nella tradizione di Ururi il suono della gl di “figlio”.

m m italiana; dopo una vocale, è leggermente nasale; spesso si elide se all’inizio o alla fine di parola. Es.: mosgjë (niente)[mosghiε], [m]brënda (dentro)[brεnda], mëmë (madre)[mεm]

n vale quanto detto per la m; es.: ndonjëherë (talvol-ta)[ndognεhèr], ngajôsh (sulle spalle)[ngajòsc]

nj gn italiana di “gnomo” o “bagno”; es. një (un, uno, una)[gnε], mosnjarí (nessuno)[mosgnarì], mundënj (vincere)[mundεgn]. Quando si deve leggere ni anzi-ché gn, la j viene resa con i; es.: bënie (il far-si)[bεnie], puthnie (il baciarsi)[puθεnie], nié (neo, no-do)

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XV

o o italiana di “poco”. Es.: kopsht (giardino)[copsct], somenat (stamattina)

p come in italiano; es.: pakrip (insulso, senza sale)

q approssimativamente ch di “chiave”, ma senza far sentire la i. Es.: qen (cane)[chièn], shoq (mo-glie)[scioch], qepënj (cucire)[chiepεgn], qoftë (pos-sa)[chiòft]

r r debole dell’italiano “ero”; es.: e re (nuova), rë-gjënd (argento)[rεghiεnd], Shën Mërja (la Madon-na)[scεmrìa]

rr r forte dell’italiano “ferro”. Es.: rrush (uva)[rusc], rrip (stringa)[rip], burr (uomo), errura (arrivai)

s s italiana sorda di “sano”; es.: samzi (appena) [ssam-si]; lis (albero) [liss]; mos (forse che) [moss]

sh sh aspra dell’italiano “scena”; es.: shum (mol-to)[scium], shëndet (salute)[scεndèt], shiu (la piog-gia)[scìu], qeshënj (ridere)[chièscεgn]

t come in italiano; es.: tata (il padre), matunata (il pa-vimento)

th th forte dell’inglese “think” (penso). Es.: u thom (dico)[uθòm], djiath (formaggio)[diàθ], thik (coltello)[ θich], ghjithëditën (per tutto il giorno)[ghiθεdìtεn]

u u italiana; es.: unaza (l’anello)[unàsa], uthull (ace-to)[uθu]

v v italiana; es.: vajzetja (la ragazza)[vaisètia]

x z sonora di “zoppo”; es.: xathur (scalzo)[zaθur], xol (zolla)[zol], u xura (ho saputo)[uzùra], vuxa (il bari-

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le)[vuza]

xh g italiana di “gelo”, davanti a qualsiasi vocale; es.: xheshur (svestito)[gèsciur], vuxhë (voce)[vug], xhufiel (fischietto)[giufièl], Enver Hoxha [enverhògia]

y come la ü tedesca o la u francese, però manca nel sistema vocalico d’Ururi, dove di solito è reso con la i, es.: syt = sit (occhi); aty = atí (là); fryn = frin (soffiare); lyp = lip (chiedere); a volte con la j, es.: pyes = pjes (chiedere), yonë = jonë (nostro)

z s dolce dell’italiano “rosa”. Può trovarsi ad inizio di parola, es.: zëmbër (cuore)[sεmεr], zog (uccello)[sog], zonjë (signora)[sogn]; in posizione intervocalica, es.: e zezë (nera)[esès] e unita ad altra consonante, es.: zgavonj (scavare)[sgavògn], mjezdit (mezzogior-no)[miesdìt], zvërlonj (andare fuori strada)[svεrlògn]

zh come nel francese “jour” o nell’inglese “pleasure”; es.: gozhdë (chiodo)[goξd]

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Parte prima

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Parte I - Tradizioni

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Capitolo I

La corsa dei carri

Rrjedhënjën qerret

Non potete avere un’idea della corsa dei carri di Ururi 1 se non avete visto almeno una volta Ben Hur, il film “kolos-

sal” epico-biblico che racconta la storia di Giuda Ben-Hur, imprigionato nelle galee romane e poi liberato per aver sal-vato la vita al comandante Arrio, caduto dalla nave durante una battaglia e che più tardi lo adotterà come figlio suo, permettendogli di diventare romano. 1 Si può leggere quasi tutto sulla corsa dei carri in Ururi si trova in Italia, vol. I pp. 193-8 e 258-65; qui ci limitiamo ad alcune considerazioni e-stemporanee.

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Parte I - Tradizioni

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Durante il suo viaggio di ritorno, Ben Hur sarà spinto dallo sceicco musulmano a sfidare nella corsa delle bighe il suo nemico Messala. Il film ebbe diversi Oscar, ma non quello della sceneggiatura. Eppure, la scena delle bighe era superla-tiva, con i cinque cavalli bianchi di Ben Hur ed i cinque caval-li neri di Messala, in una competizione senza esclusione di colpi.

La corsa dei carri di Ururi è naturalmente diversa e ricor-da solo vagamente la gara delle bighe. Ai carri, di solito due, raramente tre, sono aggiogati due coppie di buoi, alti, ga-gliardi, atletici, allenati durante tutto l’anno. 1 Sul carro sal-gono tre o quattro picadores, giovani armati di un’asta lunga quattro metri, in cima alla quale è incastonato un grosso chiodo d’acciaio con il quale le bestie vengono spronate a sangue. Davanti al carro c’è il cavaliere principale, detto ca-teniere, colui che, montato su un cavallo anch’esso atletico, sui due metri di altezza, pilota il carro tirandolo con una grossa fune attaccata al giogo mobile della prima coppia di buoi. Tutt’intorno, una decina di cavalieri, muniti anch’essi di quella micidiale asta, spronano i buoi sui fianchi, costrin-gendoli così a tenersi sul centro della strada.

Il percorso, leggermente in salita, è lungo quattro chilo-metri, con partenza dalla masseria di Bosco Pontoni. I carri si dispongono alla distanza di venti metri l’uno dall’altro; la pole position spetta al vincitore dell’anno precedente.

All’altezza del “bar Provinciale”, il carro che giunge per primo in paese è obbligato a svoltare a sinistra per via del Piano e poi per via Larga 2, Kjaca Madhe, percorrendo così diciannove metri più dell’altro che, invece, può proseguire diritto e poi svoltare per via della Trinità. In tal modo, ri-schia di essere neutralizzato il vantaggio di cui ha goduto il primo carro alla partenza. La corsa si sviluppa, così, a tena-glia, che si ricongiunge al termine di Via Larga e di Via Tri-nità, vero nodo critico dove si giocano le ultime risorse di forza e di abilità. 1 A partire dagli anni ’70, v’è una sola coppia di buoi per carro. 2 Oggi via V. Tanassi

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Vince il carro che imbocca con metà timone via Com-merciale, che conduce alla chiesa di Santa Maria delle Gra-zie, Kisha Madhe. La corsa dura circa 11 minuti, perciò quei miti buoi corrono all’incredibile velocità di 22 chilometri all’ora! 1

Prima della partenza, i carri vengono guidati lentamente fino alla chiesa, dove il parroco li benedice. Poi, sempre len-tamente, in mezzo a una moltitudine di bambini e simpatiz-zanti, s’avviano verso la partenza.

Qui, i carri vengono girati verso il paese e i buoi aggioga-ti sono trattenuti da un gruppo di persone pronte a lasciarli allo sparo del maresciallo, che dà il via. 2

Questa tradizione, che dà calore e sapore alla festa del 3 di maggio, Santo Legno della Croce, Lenjë Lacroçit, ha il potere di richiamare gli Ururesi lontani, anche dall’estero.

La carrese è simbolicamente una rievocazione guer-resca.

In n’immaginaria veduta dall’alto, le formazioni dei due carri possono ben apparire come due battaglioni di cava-lieri in corsa.

È straordinaria l’allegoria tra la corsa dei carri e la de-scrizione di una battaglia degli stradioti. Nella battaglia di Fornovo, gli stradioti calarono dalle alture “imitando le aqui-le” e, accerchiando i cavalli corazzati, per prima cosa mas- 1 Con il carro ridotto ad una sola coppia di buoi, la velocità dopo gli anni ’70 si è quasi raddoppiata. La gara dura circa 6-7 minuti. 2 A Ururi un po’ corrono i buoi, un po’ i cavalli ed un po’ gli uomini. Si racconta che, nei primi anni del dopoguerra, Antonio Calascione, il burlo-ne del paese, un giorno si mise a correre, senz’alcun motivo, per il Corso in direzione della Piazza. Qui giunto, voltatosi, scopre di essere stato “in-seguito” da decine di persone, che avevano inventato fantastiche ragioni di quella pazza corsa.

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sacrarono fanti e scudieri, gli aiutanti dei cavalieri. Questi, infatti, issati sui giganteschi cavalli con i quali costituivano un tutt’uno, erano vere e proprie “macchine da guerra”, pre-corritrici dei carri armati. Non riuscivano a muoversi senza l’aiuto dei numerosi servitori, a volte più di sei o sette, che di volta in volta porgevano loro le diverse armi, pesantissi-me. Bastavano tre stradioti per abbattere uno di questi “uo-mini d’arme” con tutto il seguito; il rapporto era davvero lu-singhiero.

Nella carrese, la calca urlante dei cavalieri che circonda-no i buoi, assomiglia proprio ad un “volo” di “aquile stri-denti”. Per fortuna, oggi non vengono aggrediti i cavalieri avversari, ma a volte, ahimè! qualche “colpo basso” ci scap-pa e proprio usando quell’asta micidiale e lunghissima.

Gli stradioti, dopo aver fatto il vuoto intorno ai cavalli corazzati, dovevano cercare di abbatterli, perché era l’unico modo per aver ragione del cavaliere. Quindi, tenendosi a de-bita distanza, cercavano di infilare la punta dei loro lunghis-simi giavellotti nelle maglie della corazza che copriva il ca-vallo nemico. Non appena vi riuscivano, questo, fino ad allo-ra lentissimo nei movimenti a causa anche del peso dell’armatura, si metteva subito a scalpitare ed il cavaliere finiva disarcionato.

Nella carrese, le “lenti macchine da guerra” sembrano simulate dai buoi, i quali, poveretti, più che “correre”, fug-gono sollecitati dai pungiglioni delle aste. E dunque, nella carrese più che una corsa dobbiamo vedere una carica. Né deve meravigliare che a correre siano due schiere, perché gli stradioti si potevano trovare spesso su campi contrapposti, al servizio di due signori diversi tra loro antagonisti.

Oggi, nei paesi dove si rievoca la tradizione, Ururi, San Martino in Pensilis, Portocannone, Chieuti, sono stati uni-ficati i regolamenti per motivi di sicurezza e perfino i colori dei due partiti più ricorrenti, i giovani bianco-azzurri ed i giovanotti, bianco-rossi.

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Capitolo II

Magia e superstizione

Shishja

Le formule magiche sono segrete e s’apprendono soltanto nella notte della vigilia di Natale. A Ururi non vi sono ma-ghi, solo maghe, si vede che le donne si trasmettono i “segreti” soltanto fra di loro.

Alcune praticano la palmata, pullumba [puùmba], con cui pronosticano un avvenimento o risolvono un dilemma; pren-dono un lungo pezzo di stoffa e, misuran-dolo a palmi, lo tagliano in due; se il se-condo pezzo sovrasta il primo, la risposta è affermativa. Naturalmente, non si è mai dato il caso che i due pezzi siano uguali.

Una controprova di questa formula è “l’angelo di buona nuova”, engjëli i mir i re [enghli imìr irè]. A mezzanotte si reci-tano in coro cinque pater, avemaria e glo-ria ed un credo; se dopo si vedrà passare una persona, un cavallo o un cane o se ne udrà la voce o il verso, la risposta al di-lemma è affermativa; se invece passa un gatto o se ne ode il miagolio, la risposta, ahimè! è negativa.

Per curare i malanni vi sono diverse chance: il mal di pancia, dhëuri barkut [δεùri bàrcut], passa canticchiando uno dei tre stornelli riportati al Cap. IX (canti n. 60, 61 e 62).

Le tonsille, parotkat [paròtkat], sono curate massag-giando i polsi.

Ma shishja è infallibile contro il malocchio, la jettatura,

la cui esistenza si rivela con un forte mal di testa. Però il rito appartiene alle tradizioni “importate” dai latini.

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Si prende un piatto piano, vi si versa poca acqua e dopo vi si lasciano cadere alcune gocce d’olio d’oliva, mormoran-do le parole: du’ uocchjë t’ha ‘ducchiatë; tre sante t’ha iuta-te; Nome dë Padre, Fije e Spiritë Sante, stu maluocchjë an-dasse chju avantë! Se le gocce d’olio si allargano, confon-dendosi con l’acqua, è sicuramente malocchio. Si bagna un dito nell’olio e si fa il segno della croce sulla fronte del sof-ferente.

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Capitolo III

Le Feste

Féstat

Il ciclo annuale si apre con Capodanno, Kapëdhani. Il giorno precedente, San Silvestro, gruppi di giovani hanno

atteso il nuovo anno facendo musica con una fisarmonica e cantando per le vie del paese. Fin dall’alba iniziano gli scambi d’auguri. Anno nuovo, vita nuova, vit i re, gjiellë e re [vìt irè, ghièj erè], la speranza di un anno migliore fa dimenticare per un attimo i problemi irrisolti, la maggior parte

dei quali nasce dal bisogno. Quasi per esorcizzare l’immutabile destino che il fato riserva ai contadini, a Ururi non si ripete più la tradizionale sfilata dei dodici giovani, ognuno armato di uno strumento agricolo per simboleggiare i dodici mesi dell’anno: la zappa in marzo, un ferro dell’aratro in giugno, la sega per potare in luglio, il sacco con il grano da semina in novembre.1 Il lavoro è causa ed ef-fetto di benessere, ma il lavoro nei campi no, è fonte solo di altra miseria, è sopportato come un castigo ed il padre, pur rassegnato, cerca di trasmettere al figlio la voglia di affran-carsene. Studia, figlio, chi sa leggere e scrivere supera ogni difficoltà! 1 L’agricoltura non può prosperare senza l’industria, che è il motore dell’economia. Industria ed agricoltura devono saper convivere, altrimenti avremo sempre miseria. La politica di intervento dello Stato degli anni ’50 era corretta; peccato che quelle immense risorse siano state sperperate. Il Sud ha perso una grande occasione, forse irripetibile.

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Si bëhet sangunati Kur vrasmi derkun, ja e marrmi gjakun e e kullomi. Pas marrmi menduat e mëskotin. Duhen di pjes mëskot nga pjes gjak [për ezembju: di litra mëskot e një litër gjak], pët vinj i zezë. Çami menduat e i skurçomi, dhopu i ndrimi ka ujtë e ngroht e del ajó e zeza e vjeten menduat e bardha si borë. Bëmi menduat tiqe tiqe e i mëshkomi me gjakun e me mëskotin, ka kusía. Ndonjarí mëshkon arat, ndonjetër pinuojt, ma më shumë menduat. Kur zjarri isht i bënur, mëse fingjillë, fare flak, vumi kusín sipër e trapjedhit e xhiromi dal e dal, ngë kat e lëç maju, sinó ngjitet pë ndën. Kur ze fill e bën pëf, pëf, marrmi dicá e e vumi ka tajuri: ndë ngë shprishet ujët, sangunati isht i bë-nur. E vlomi ka një rëçpjend lilëzje o ferobjanku.

Come si fa il sanguinaccio Quando ammazziamo il maiale, ne prendiamo il sangue e lo coliamo. Poi prendiamo le mandorle ed il mosto cot-to. Occorrono due parti di mosto cotto ed una di sangue, per farlo venire scuro. Rompiamo le mandorle e ne to-gliamo la buccia, dopo le gettiamo nell'acqua calda, e-sce la buccia nera e restano solo le mandorle bianche come la neve. Facciamo le mandorle a pezzetti e le me-scoliamo con il sangue ed il mosto cotto, nella pentola. Qualcuno mescola noci, qualcun altro pinoli, ma di più mandorle. Quando il fuoco è fatto, solo carboni accesi, senza fiamma, appoggiamo la pentola sul treppiede e gi-riamo lentamente, senza fermarci, altrimenti si attacca sul fondo. Quando comincia a fare puf, puf, prendiamo un po’ e lo mettiamo sul piatto: se non si sparge acqua, il san-guinaccio è pronto. Lo conserviamo in un recipiente di ce-ramica o di ferro smaltato.

Il 17 gennaio, Sant’Antonio Abate, Sën Andoni [sεnandòni], che, per ironia della sorte, è il protettore degli

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animali, si festeggia … l’uccisione del maiale, che viene pro-grammata fin da quando se n’è fatto l’acquisto 1 alla fiera.

Quando arriva il 2 febbraio, la Candelora, Qirinjet [chi-rìgnet], si scruta il cielo, perché “se è bel tempo a Candelora, de l’inverno semo fora, ma se piove o tira vento de l’inverno semo dentro”, come dice l’antico proverbio romanesco. Qualcuno declama che “a la Cannelora o hiocche o chiovë, la vernate è sciuta forë”, prendendo a prestito il detto lëtí. Oppure “si fa lu sulëcillë, quaranta juornë de malëtimpë”. Ma, ineluttabilmente, neve, pioggia o sole che sia, con la Candelora iniziano i raffreddori ed i primi ad esserne colpiti sono i bambini. Da febbraio non si vedono che bambini raf-freddati, col naso intasato, quracët [chiuràzt], senza rimedio.

A metà febbraio iniziano i preparativi per carnevale, Karnuvalli [carnuvài], ed alcuni pregustano i dieci giorni di grandi abbuffate, di scherzi, di frivolezze. Dieci giorni di en-tusiasmo, di buffonerie, di delirio. Ci si pittura di nero fumo, i maschi si mettono il rossetto e le femmine i panta-loni; le trasgressioni sono permesse e tollerate per dieci giorni. Ognuno sceglie la ma-schera che gli suggerisce l’inconscio.

Antonio Calascione guida la Compagnia di carnevale, Kumpanja karnuvajt [cumpagnìa carnuvàit], formata da a-dulti mascherati che in processione girano il paese cantando a squarciagola. In mezzo, tenuto da alcuni di loro, viene tra-sportato un pupazzo di stracci di altezza normale, che simbo-leggia il “fratello”, vullà [vuà], il Carnevale morto, sul quale si scatena una grottesca parodia della veglia funebre; e, così, mimando i gesti delle prefiche, uno dei “compagni” – mar-róçja [marròcia], la moglie del Carnevale - finge di strap-parsi i capelli, di graffiarsi la faccia, di tirarsi il fazzoletto che copre il capo femminile, scuotendo la testa e agitandosi a più non posso. Ci si scambia un fiasco di vin rosso vivace, che vien tenuto sempre pieno dalle offerte dei vicini, i quali 1 Ved. Ururi si trova in Italia, Profilo storico, pp. 143 ss.

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donano anche pane fresco e salsicce, che sono appese ad un lungo bastone tenuto da due della Compagnia. Seguito dallo schiamazzo dei bambini, il corteo si avvia verso il cimitero antico, dove il pupazzo, cosparso di vino, viene seppellito in mezzo ad un baccano infernale, la cui eco giunge fino alle estreme case del paese, ma si affievolisce presto ed il giorno dopo si smorza definitivamente nell’amarezza della vita quo-tidiana. Però nelle famiglie più rispettose delle tradizioni, l’ultimo giovedì di carnevale è dedicato al rito del grano bol-lito, lej zot [leisòt], che per alcuni rappresenta l’unico nutri-mento della giornata. Il grano, insieme con qualche chicco di granturco, viene bollito in un’antica pignatta, poçja [pòcia], ereditata dai padri. A tavola, il capofamiglia mette su un piatto un cucchiaio di grano per ogni defunto da ricordare, dicendo: “ vada in suffragio di ” ed aggiungendo il nome del defunto da ricordare, i vaftë mbë hajdhi shpirtit [ivàft mbε hàiδi scpìrtit]. Quindi, ognuno dei commensali mescola nel pasto una porzione del grano e rivolge mentalmente un pen-siero ai propri defunti.

Il 19 marzo, festa di San Giuseppe, sën Sepa [sensèpa], è dedicato alla famiglia. Di notte, nel caminetto vengono mes-si a cuocere in diverse pignatte, poçet [pòcet], ceci, fagioli, fave e piselli. Prima del pranzo, uno dei familiari invita una “famiglia di Cristo”, vete e marrë fëmijën e Krishtit [vete emàr fεmìjεn ekrìsctit], cioè padre, madre e figlio poveri. A tavola, sono serviti in religioso silenzio, con i legumi, alcuni piatti tipici della festa: lasagnette al pane, tumac me tul [tu-màz metùl], riso “spogliato” o in bianco, granariz i xheshur [granarìs igèsciur]. Al commiato, viene donato alla famiglia povera una pagnotta di pane dov’è disegnata una croce.1 È una tradizione molto cristiana, che testimonia una commo-vente sensibilità … sennonché un anonimo narratore ag-giunge che, “licenziata” la famiglia povera, si passa alla ta-vola numero due, e dita triesë [edíta trièss] - più riccamente imbandita - e ci si abbuffa con ogni ben di dio. 1 Oggi quest’usanza non c’è più e, in ricordo, si distribuiscono a tutti dei piccoli panini.

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La Quaresima diventa un buon pretesto per le famiglie per risparmiare sulle cose superflue; un detto contadino dice che “una buona Quaresima dovrebbe durare almeno tre mesi”.

La domenica delle Palme, dita ullìrit [dita uìrit], è dedica-ta alla benedizione dei rami d’ulivo, simbolo di pace e, come tale, oggetto di scambio quasi obbligatorio tra parenti e amici.

Nella settimana che precede la Pasqua, la settimana san-ta, java e madhe [iàva maδe], nelle case degli Ururesi vige l’austerità. Non si ride, non si scherza, non si canta. La mor-te di Gesù viene rispettata come un avvenimento attuale. Le donne sono occupatissime a preparare i dolci pasquali1 ed a colorare con il rossocupro le uova. Il giovedì, të enjëtën e madhe [tégntεn emàδe], è dedicato alla preparazione del se-polcro, spulku, ornato con erba di grano bianca, fatta cresce-re al riparo dalla luce e così privata della clorofilla. Sul tardi, le campane vengono silenziate, lidhen kumbort [lìδen cum-bòrt] e potranno essere “slegate” solo il mattino di Pasqua. Il venerdì, i ragazzi, a gruppi, vanno in giro per il paese agi-tando le raganelle - le tric-trac napoletane - e invitano i fede-li a recarsi in chiesa, veni ka kisha! [veni ka kìscia]. Il giorno di Pasqua, i ragazzi possono fare a gara per provare chi ha l’uovo rosso dal guscio più duro, però in chi perde non v’è delusione, né smania di rivincita. Ma il lunedì, të hënën e Pa-shqëvet [t-hεnεn epàsckiεvet], il paese quasi si svuota; è forse l’unico giorno che le famiglie degli ururesi al completo passa-no nelle rispettive case di campagna.

E finalmente arriva la festa del patrono, il 3 maggio, San-to Legno della Croce, lenjë lacroçi 2 [legn lacròci], con la sua “corsa dei carri” che ha il potere di radunare gli ururesi lontani. Al mattino, prima e dopo la corsa, v’è un intrecciarsi di strette di mani, di abbracci, di saluti, di sorrisi: “ciao, co-me stai, ti trovo bene, i tuoi figli? ma sei sempre uguale!” e via di questo passo, in una reciproca illusione di essere riu-sciti a dominare il mondo, gasati dall’euforia sprigionata dal-la pacifica e secolare competizione. Quando, ricevuta la be- 1 Ved. Ururi si trova … pag. 145-6 2 Ivi, pag. 146

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nedizione dal parroco, passano i carri diretti alla partenza, ci si scambia commenti da intenditori.

Costantino Occhionero che, pur abitando a Roma, non ha mai perso una corsa, esprime dubbi sulla coppia di buoi aggiogati all’asta mobile del carro dei Giovani, per il quale egli simpatizza e che gli appaiono meno impetuosi e più pesanti del carro degli avversari, i Giovanotti; vullà [vuà]– egli dice – këto më trëmbënjën [ctò mtrεmbεgnεn] -; “fratello, questi mi fan paura”; ma tutti sanno che lo dice per scaramanzia. Vincenzo Musacchio, che è molto più schietto di carattere, cade nell’amichevole tranello e innesca una polemica discussione per dimostrare il contrario, che però è evidente a tutti. E questo è niente, di fronte ai dibattiti accalorati che si accenderanno dopo la corsa tra i sostenitori dei due “partiti”. E dunque chi ha perso è stato sempre e solo sfortunato od ostacolato con inganno da qualche cavaliere avversario o tutt’al più ha commesso qualche errore tattico. La colpa non è mai dei poveri animali, i buoi fanno sempre il loro dovere, anche quando, come a volte succede, vanno fuori strada, zvërlonjën [svεrlògnεn], perché l’errore è del cateniere. La leggenda dice che una volta, dopo la benedizione, i buoi venivano fatti inginocchiare con il capo verso Oriente e tutti gli arbëreshë presenti declamavano i versi della no-stalgia:

Eja mirna Zoti jone ka ki dhe

Portaci via, mio Signore, da questa terra

Ke zëmbra na u bë si fillë pè

Dove il nostro cuore si è rin-secchito

Eja nxirna ka ki lëtì Liberaci dai latini Ke lotët na shkasën ka di ka di

Ché le lacrime scendono a due a due

La versione integrale del Canto si trova al Cap. XIII (can-to n. 84, Dheu jone sa i ëmbël).

La festa di Sant’Antonio da Padova, che cade il 13 giu-gno, è spesso differita alla domenica successiva, perché i

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grandi lavori nei campi sono in pieno svolgimento e non ci si può permettere troppe pause.

In piazza, viene allestita la piattaforma per l’orchestra, che è di chiara fama. La sera, si suona solo musica operisti-ca, certo non siamo al Regio di Parma, i nostri arbëreshë so-no di bocca buona, però sanno distinguere un “do di petto” da una stecca e gli applausi scrosciano con generosità. Lun-go le strade principali si accendono i falò, i fuochi in onore di Sant’Antonio, sui quali i ragazzi si cimentano saltando pe-ricolosamente.

Ormai i lavori nei campi sono in pieno svolgimento. “A fine giugno, falce in pugno”.

Il giorno del Corpus Domini è dominato dalla lunga, in-terminabile processione della “via crucis”. Quasi in ogni strada del paese è stato allestito un altarino, davanti al quale il prete è obbligato a fermarsi e, innalzando l’ostensorio, a recitare le avemarie ed il gloria.

Anche se “al tempo della mietitura non c’è tempo per di-re le orazioni”, si cerca ogni tanto qualche pausa.

Il 15 agosto s’incrociano diverse feste nei dintorni, ma la più importante è quella della Madonna Grande di Nuova Cli-ternia, Shë Mëria Madhe të Ramtiel [scεmbrìa maδe ram-tièl], che richiama un gran numero di devoti arbëreshë, so-prattutto di Montecilfone. I pellegrini, giunti davanti al San-tuario, vi fanno tre giri all’intorno, stando in ginocchio, pre-gando e cantando inni sacri; alcuni, entrati nel Santuario, percorrono, strisciando con la lingua sul pavimento, il tratto dall’ingresso all’altare, “per grazia ricevuta”.

Il 2 novembre, commemorazione dei defunti, è un bel giorno per i bambini, perché al mattino essi trovano la calza, che di notte è riempita di doni o di carbone “ad opera dei de-funti”, che a Ururi sostituiscono la befana.

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Con la fine di novembre, s’incomincia a respirare aria na-talizia, con le prime zampogne suonate dai montanari del Matese. Scendono speranzosi gli zampognari, ma a Ururi riescono a racimolare solo qualche spicciolo, alcune pagnot-te di pane e magari una salsiccia. Alcuni giorni prima della

“madre di tutte le feste”, nelle case si confezionano i dolci caratteristici, karanjuat [caragnuàt], tipici tarallini fritti di sottile pasta all’uovo, sui quali viene sparso un velo di miele; kavçunt [cavciùnt], biscotti di sfoglia di pasta, fritti o al for-no, ripieni di marmellata d’uva, luvkòt, oppure di pasta di ceci oppure ancora di una “mousse” fatta di mandorle, noci, buccia d’arancia e pane; krukandja, la cicerchiata abruzzese, noci o mandorle tenute insieme con zucchero fuso fatto raf-freddare. Ma nel periodo invernale non vi sono solo i dolci tipici a riempire il tempo e a soddisfare la gola. Una produ-zione molto apprezzata dai bambini (ma anche dai buoni be-vitori, perché si accompagnano bene al vino rosso novello) sono i ceci abbrustoliti sotto la sabbia, qiqrat me rër [chí-chrat me rεr].

Sono in molti a conoscerne la meticolosa preparazione: 1. si mette a bollire una pentola d’acqua, kusía, e a parte si ten-gono pronti i ceci dentro un sacchetto di tela di canapa; si versano nell’acqua alcuni cucchiai di sale; appena la pentola bolle, vi si infila il sacchetto dei ceci e ve lo si lascia per il

Si bëhen qiqrat me rër Duhet një kusí plot me ujë e një tjele plot me rër e

detit. Bite e zjen ujët ka kusía. Marrmi qiqrat e i vumi brënda një bursë kanapësh; dërvimi ka kusía dicá krip e, ka ujët ç’isht e zjen, vumi bursën me qiqrat e rëçtomi një pater, një ave e një gloria; kur sosmi uratën, nxjerr-mi bursën kaha ujët e nxet e dërvimi qiqrat ka tjelja, ma kat mbami rërën i nxet si hekur i kuq.

Xhiromi rërën me qiqrat brënda, çë – pët jen të bënur - kat bëhen të bardha si gja hi e kat shkrehnjën.

Pas shkomi rërën e qiqrat me sitën; rëra kallon e qiq-rat mbjeten sipër.

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tempo che richiede la recitazione di un pater, un’ave ed un gloria; 2. nel frattempo, si riempie un tegame con sabbia di mare e la si lascia arroventare sul fuoco fino a quando il fondo del tegame non tende a diventare incandescente; vi si versano i ceci preparati in precedenza e si gira con un cuc-chiaione di legno, lugën [lùgεn], fino a quando non si vedo-no i ceci crepitare e coprirsi di una bella patina bianca; 3. si versa il composto di sabbia e ceci nel setaccio pronto, sitën, da dove la sabbia scende lasciando in superficie i ceci abbru-stoliti.

E finalmente durante l’antivigilia si friggono le zeppo-le, pétuat (nulla a che vedere con le zeppole napoletane di San Giuseppe).

Davanti al focolare, vatra, che a Ururi è çumnerja [cium-nèria], prendono posto le donne di casa, che accudiscono il grande pentolone - riempito d’olio d’oliva -, assicurato con l’apposita catena ad uncino, kamastra; sul tavolo della cuci-na, magjia [màghia], è pronto l’impasto, brumi, ben lavorato e cosparso di farina. Il patriarca della casa forma una piccola croce con qualche filo di paglia strappata da una sedia o da una scopa e la butta nella pentola, dove resta per tutto il tempo del rito; poi le donne con delicatezza modellano dei grissini di pasta, lunghi una quarantina di centimetri, che so-no immersi nell’olio bollente con rapidità e tolti, non appena rosolati. Le zeppole si mangiano calde e quindi al momento; molti le gustano anche riscaldate sul barbecue; i ragazzi le mangiano anche fredde, a volte cosparse di zucchero.

La sera della vigilia, vilja, si gustano le anguille, ngjalat [nghiàlat], che probabilmente vengono dal vicino lago di Lesina. All’ora di cena, il capofamiglia riempie un piatto con un campione di tutte le pietanze preparate e lo poggia fuori dalla porta, vicino a un lume, kuçër [cùcεr], perché si crede che se ne nutrano i defunti, che quella notte girano per casa.

Alla Messa di mezzanotte, quando Olindo, il sagre-stano, fa calare lentamente dalla cupola centrale la sporta con il Bambin Gesù, si scatenano le ugole dei giovani con

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“Tu scendi dalle stelle”, Kallon ti kaha illazët 1 [caòn ti kàha ìast]: Kallon ti kaha illazët e vjen ka hora

Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo

lehe ka një kalídhe e ftóhët gja bora.

e vieni in una grotta al freddo e al gelo.

Oj Ti Djalëz shumë i vogël O Bambino mio divino këtu Të shoh sa drídhe Ti: sa mall më kishe

io Ti vedo qui a tremar, o Dio beato

pë mua sa bëre Ti, psè mirë më dishe!

ah quanto ti costò l’avermi amato!

Tía çë je Të shékullit, aí ç’e bëri

A Te che sei del mondo il creatore

Të duhen, Zoti jonë, petkat dhe zjarri!

mancano panni e fuoco, o mio Signore!

Shumë i dashur djiali bukur, Caro eletto pargoletto, sa i vapëk je Ti nanì e u më Të dua

quanto questa povertà più m’innamora

psè gjithë këtë bëre Ti, vetëm pë mua.

giacché Ti fece amor povero ancora.

Ti lure të T’it Eti një shpì e shejte

Tu lasci del Tuo Padre il divin seno

Të vije të angohëshe ujur ka kashta.

per venire a penar su questo fieno.

Ëmbëlsíja zëmbrës jone Dolce amore del mio cuore ku Të qen kjo dashurì? Oj Regji qellëzës

dove amor ti trasporto? O Gesù mio,

psè aqë u derdhe Ti, hareja zëmbrës?

perché tanto patir, per amor mio?

Ma nd’isht ke e duojte Ti gjithe këtë angím

Ma se per suo volere il tuo patir,

nanì ç’isht kjo të kjar edhè ki perché vuoi pianger, poi, 1 Il testo in arbëresh è stato liberamente adattato da Guido Tartaglione

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rekím? perché vagire? Drita jone, spërënxa jone, Sposo mio, amato dio oj Xhesù nanì Të dì; shëndéta burrit

mio Gesù, T’intendo, sì; ah mio signore,

ngë kjá Ti pë dhëur, kjá pë të mirët e Rurit.

Tu piangi non per duol, ma per amore.

Oppure con “Astro del ciel”, nata e mirë 1:

Nata isht e mirë, isht gjithë arrësirë

Astro del ciel, pargol divin!

ngë frin gjë, ngë tundet mozgjë mio agnello redentor! prëz Shë Meris e jatit atì Tu che i vati da lungi sognar shumë i vogël e i bukur je Ti

Tu che angeliche voci nunziar

flé përdhé Ti nanì luce dona alle menti flé përdhé Ti nanì. pace infondi nel cuor. Nata isht e mirë, isht gjithë arrësírë

Astro del ciel, pargol divin

ulé përdhé, ka aì bukur dhé mite agnello redentor! jati kaha qellëza e tërgovi pë ne

Tu di stirpe regale decor,

rrofëshe sembu bashkë Ti me ne

Tu virgineo mistico fior

erdhe pë gjindjat të mirë luce dona alle menti erdhe pë gjindjat të mirë. pace infondi nel cuor. Nata isht e mirë, isht gjithë arrësyrë

Astro del ciel, pargol divin,

Regji jonë, Zoti jonë mite agnello redentor! prëòj Ti pë këta gjindja të re Tu disceso a scontare l’errore sipër kashtës Ti u leve pë ne Tu sol nato a parlare d’amor paqe përdhé prure Ti luce dona alle menti paqe përdhé prure Ti pace infondi nel cuor

1 Il testo in arbëresh è stato liberamente tradotto e adattato da Emilio Oc-chionero

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I padri hanno tramandato ai figli le parole de I dieci Comandamenti e della preghiera più amata, Il Padrenostro:

I dieci Comandamenti Kumandamendet

U jam Zoti, Krishti jote. Vetëm një isht Zoti jote.

Io sono il Signore, tuo Dio. Non avrai altro Dio fuori di me.

Mos e numënoj embrin Krishtit mëse pët vandohesh.

Non nominare il nome di Dio invano.

Nga fest e nga të djel mbaj trut sembu ka qelli.

Ricordati di santificare le feste.

Ndë ke prinjët o gjërí të’mdhenjët, gjegji e mos ja jip dhëúr.

Onora tuo padre e tua madre.

Mos vraç njarí. Non uccidere. Mos bën mbiçe turpshe. Non commettere atti impuri. Mos vjedh. Non rubare. Mos mirr dhûn përpara lexhës.

Non dire falsa testimonianza.

Mos tërgoj sit ka gruója e huój.

Non desiderare la donna d’altri.

Mos e do bukën e tjervet. Non desiderare la roba d’altri.

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Il Padre nostro Tata jonë

Tata jonë çë je ka qelli, Padre nostro, che sei nei cieli, qoftë bekuór embri jote, sia santificato il tuo nome, e t’ vinj rregjërìa jote, venga il tuo regno, qoftë bënur vulundáta jote, sia fatta la tua volontà, si ka qelli edhé ka dhéu. come in cielo così in terra. Jipna neve bukën sonde e nga dita

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

e mbulój dhëtírat e tona sikúr na i mbulodhëmi atírve çë ka’t na japën

e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

e mos na lëj ka tendacjuna e non c’indurre in tentazione, ma mbaj neve dharasu ka i ligu.

ma liberaci dal male.

Ashtú qoftë. Amen.

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Capitolo IV

I giochi Lojrat

Il gioco delle palline è l’antesignano del biliardo. Le palline sono multicolori, alcune lucide, altre talmente consumate da far intravedere l’argilla sotto la crosta di smalto. In genere si gioca in due e, se si è più di due, si attende il turno. Si but-ta il pallino-guida e poi tira per primo il vincitore del pari o dispari. Colui che tocca il pallino-guida guadagna una pal-lina dall’altro ed ha diritto di lanciare nuovamente il pallino, che perciò risul-terà posto in posizione difficile. Si gio-

ca meglio all’aperto, quindi in primavera e d’estate ed a vol-te qualcuno dei giocatori perde tutta la scorta di palline, mentre qualcun altro, più abile, se ne riempie le tasche. Mol-te palline si distruggono o vanno perse, altrimenti non si spiega perché nel negozio di lal luvxhini kashierit [luvgìni cascièrit] – dove si può trovare di tutto, tranne i prodotti ali-mentari - c’è un andirivieni di bambini. Con 10 lire si com-prano dieci palline.

A nove-dieci anni si cambia e si gioca alla barriera, un gioco a due squadre contrapposte, che difendono la propria casa, shpía jonë [scpìa iòn], idealmente disegnata dal muro al quale ognuna di esse si appoggia. C’è qualcosa di guerre-sco nel gioco: due giocatori, uno per squadra, escono a turno dalla loro casa e si danno la “caccia”. Vince chi tocca l’altro e lo fa prigioniero; questi può essere liberato da un compa-gno che, nelle corse successive, riesce a toccargli la mano. Si fa punto se si riesce a toccare il muro avversario con la palma della mano, urlando barrier!

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La vittoria finale è della squadra che totalizza il maggior numero di punti o di prigionieri. È un gioco che richiede grande velocità nelle gambe e abilità nel correre a zig-zag; sebbene sia più adatta ai maschi, ogni tanto s’infiltra qualche femmina.

Le ragazze, appunto, preferiscono giocare libera, un gio-co che somiglia molto al precedente, ma è meno aggressivo e consiste nel fare e nel liberare i prigionieri. Questi vengono custoditi con le mani tese, che simulano le catene; durante i tentativi di entrare nella casa avversaria, si urla libera! quando un prigioniero viene toccato da un compagno “libe-ratore”.

E mentre alle femmine tocca giocare ai colori, kullurvet [cuùrvet], una parodia religiosa che simula la lotta fra Dio e il diavolo ed ovviamente vince chi riesce a rimanere seria di fronte ai suoi scherzi tentatori; oppure a pizzico e pizzicotto, cimbë e cimbikë [zimb e zimbích]; o ancora con l’altalena, kashandua [cashàndua]; o infine facendo saltare dei rametti tagliati e appuntiti, kiçkat [chìc-cat]; ai maschi sono riservati il salto dei compagni, pedhinja [peδìnia]; il lancio dei coltel-li nel cerchio di terra, çirkuli [cìrculi], suddiviso in tanti se-micerchi quanti sono i partecipanti; il tiro della trottola, vu-jëza [vùjsa]; la caccia al tesoro, zjarri [siàri], dove si incita l’esploratore con i suggerimenti “acqua” e “fuoco”, ujë e zjar-rë [ûj e siàr]; la morra collegata all’uso di un colpo dato con un fazzoletto annodato, strumbiji [strumbìi]; ed infine il cam-panile, fatto con individui che si reggono sulle spalle di altri, recitando “quattro e quattro otto” prima di crollare, quattë e quattë ottë, shkarkala bo!

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Capitolo V

Le favole e le storie

Prraezët e storjet

1. Këmba e vjedhur.

Ishi një her një burrë çë vajti ka guerra.

Një shquptatë t’armikut e zuri ka këmbët, një më shu-më ke tjetra e ashtú mjethqit ja këputën e ja vurën njetër, e rëgjënd mbrënda e e’art jashta.

Rrojti edhé dizet vjet e kur vdiqi vet e këmba va-jtën ndën dheut ka kam-sandi.

Një dit, një njërí, çë shkoji atí prëz, pa dheun i njomë e tavutin i hapt e lu-kójti pët sërrísi tjerrit. Kur kta errurën, gjith pan ke aí i mjeri kishi mëse një këmb; çë kish kjënë? Atrunt kishën vjedhur këmbën e art.

Pupupupu, bëjën gjindjat, e një thoj tjetrit atë çë kish gjegjur.

Pas, gjithnjarí harojti gji-thsena.

Shkojtën shtat vjet e, ka

një shpí t’asana horë, hajën,

1. La gamba rubata.

C’era una volta un uomo che andò alla guerra.

Alcuni colpi nemici lo col-pirono alle gambe, una più dell’altra e così i medici gliela amputarono e gli applicarono una protesi, d’argento all’interno e d’oro fuori.

Visse altri quarant’anni e quando morì lui e la protesi furono sotterrati nel campo-santo.

Un giorno, un tizio, che passava da quelle parti, vide la terra rimossa e la bara aper-ta e urlò per chiamare gli altri. Quando questi giunsero, vide-ro che il poveretto aveva solo una gamba; che cosa era suc-cesso? I ladri avevano rubato la gamba d’oro.

Oh cielo! esclamava la gente e l’uno raccontava all’altro quel che aveva sentito.

Dopo, tutti dimenticarono ogni cosa.

Passarono sette anni e in

una casa del paese si man-giava, si beveva e si danzava

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pijën e këcéjën pse kish vuji kurór e para bijë e fëmijës. Kjo kish edhé di motra e jati e jëma mbëhshën mbë dhiet pët gjuftojën gjitanís virtutës e tire.

Ka e treta dit festje, na-tën, kur bijët e e shoqja fli-jën, jati gjegji tre bot ka de-ra. “Kush isht ka kjo her?” – lukójti; ma mosnjarí flisi. “Mos isha e mirja ëndërra” – aí kuitóji e u qëllojti. Popà gjegjën tre bota. U ngré e kallovi posht “Kush je? e çdo?” – lukóvi popà. “Jam aí njërí me këmbën e rë-gjënd e art e erdha e mora ktë prap”. U përgjegjë një vuxhë.

Kur gjegji kto fjal pra-pa ders, burri u bë si is, hjati ngë ja vej ne mbrënda ne jashta e zëmbra dish ja fërmohshi; gjuha ja u bë e that e kraht ja pizojën si gja di shkëmba; kurmi zuri fill të dredhëshi e djersit ja kalloj ka kurizi njiera ka këmbt.

Pas, trëmbasía ja dha shéndët, zuri shkallët çë qe-jën lart, ka kamra ku flihet e te ku erruri me një hjat e u derdh ka shtrati si gja vde-kurit. E shoqja u zgjúa e, tekur pa të shoqin i bardh si vënxuj e i lagët me djers, ja

giava, si beveva e si danzava perché doveva sposarsi la primogenita. Questa aveva altre due sorelle ed i genitori erano impegnati ad esaltarne le virtù con il vicinato.

Il terzo giorno di festa, di notte, mentre le figlie e la moglie dormivano, il padre udì tre colpi alla porta. “Chi è a quest’ora?” – urlò; nessuno rispose. “Forse stavo sognan-do” – egli pensò e si rimise a dormire. Di nuovo sentì tre colpi. Si alzò e scese giù. “Chi è? e cosa vuoi?” – urlò di nuovo. “Sono quello della gamba d’argento e d’oro e sono venuto a riprendermela”. Rispose una voce.

All’udire quelle parole dietro la porta, l’uomo di-ventò di gesso, il respiro non andava né fuori né dentro e il cuore sembrava volersi fermare; la lingua gli si sec-cò e le braccia gli pesarono come due macigni; il corpo cominciò a tremare ed il su-dore gli colava lungo la schiena fino ai piedi.

Dopo, la paura gli mise le ali, prese le scale che porta-vano sopra, alla camera da letto dove arrivò senza fiatare e si buttò sul letto come se fosse morto. La moglie si svegliò e, quando vide il ma-rito bianco come un lenzuolo e fradicio di sudore, si spa-

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mundi trëmbasía e zuri fill edhé vet të dridhshi.

Atëherna u gjegjë një bot i madh si nje njërí kish derdhur derën përdhé e një vuxhë çë errej kaha moti e thoj: “Naní hipënj të parën shkallë, pse erdha e mora këmbën ime!”

Pë gjith ktë kjas, edhé të bijët u zgjuón e, ta gje-gjur ató luke, u sdërpuón ka kamra prinjvet. E kur ishën ktú bashk, u gjegjë popà ajó vuxhë: “Naní hi-pënj të ditën shkallë, pse erdha e mora këmbën i-me!”

Burri ngë tundshi, aq shum ishi i trëmbur e grat lu-kojën si qengjëra ka skanexhi; jëma iki përpara e prap e ka-pilja çë kish vuji kurór ja vej pas; tjerit di lukojën: “Oj ma’, oj pa’!” e rridhjën ka një an e ka njetër.

Kish shkojtur ca mot, kur

u gjegjë p’e treta her ajó vu-xhë çë dukshi ke viji kaha spulku: “Naní hipënj të tre-tën shkallë, pse erdha e mo-ra këmbën ime!”

Kur e gjegjën, gjith të pesa ikën ka balkuni e me një cumb ran posht, ku i prisi, pë fërtun, bari i aftu.

e fradicio di sudore, si spa-ventò e cominciò anch’ella a tremare.

Allora si udì un gran botto come se qualcuno avesse but-tato giù la porta e una voce che arrivava dall’oltretomba che diceva: “Ora salgo il pri-mo scalino, perché sono venuto a riprendere la mia gamba!”.

A causa del chiasso, anche le figlie si svegliarono e, sen-tendo le urla, si precipitarono nella camera dei genitori. E, mentre stavano là insieme, udirono ancora la voce: “ Ora salgo il secondo scalino, per-ché sono venuto a riprendere la mia gamba!”.

L’uomo era immobile dallo spavento e le donne urlavano come agnelli al macello; la madre correva avanti e indietro e la promessa sposa le andava dietro; le altre due urlavano: “Oh ma’! oh pa’!” e correvano da una parte all’altra.

Era passato poco tempo, quando si sentì per la terza volta quella voce che sembra-va venire dai sepolcri: “ Ora salgo il terzo scalino, perché sono venuto a riprendere la mia gamba!”.

Quando l’udirono, tutt’e cin-que corsero verso il balcone e con un salto caddero giù, dove li aspettava, per fortuna, l’erba alta.

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U ngrihën e zurën fill e rrjedhjën si mupra. Ng’u prorën më prapa e mosnjarí i pa ka mos një vendë.

Ditën dhopu, gjitanía bëri meravillë të shihi derën e tirve përdhé, gjith mbiçet e shpís sipër e ndën e shtratin e nuses koçë me këmbe. Trimi çë kish martóhshi ngë kjeti i mir të gjej nusen e sit e gjindravet ngë shihjën e veshët ngë gjegjën mosgjë më.

Mëse aí njërí çë shkoj sembu prëz kamsandit, pa, një her çë sit ja vajëtën sipër atë var, k’ishi i mbuluor me bot e, bashk me aq bar, du-kshi ndonjë lulekuqe.

Si rialzarono e si misero a correre come pazzi. Non si girarono più indietro e nessu-no più li vide in alcun posto.

Il giorno dopo, il vicinato si faceva meraviglia al vedere la porta abbattuta e tutti gli arredi e il letto della sposa sottosopra. Il promesso sposo non riuscì più a sposarsi e gli occhi della gente non videro e gli orecchi non u-dirono altro sull’accaduto.

Soltanto quel tizio che sem-pre passava vicino al cimitero, vide, una volta che lo sguardo gli andò su quella tomba, che era ricoperta di terra e, in mezzo all’erba fitta, si scorgeva qual-che papavero.

2. Çiçikalla e milingona

Çiçikalla sfutiri milin-gonën - çë rriji gjith prima-verën pët vloji t’ngrënt pë dimbrin -, e shkoji dhestave-rën ta kënduor e pa fare pënxier.

Kur erruri dimbri, kërkoji gjagjë të haji, ma maghja ishi vakandu.

Atëherna e mundi putita e, me dëshpëraciunën ka zëmbra, lipi një kole bukë

2. La cicala e la formica

La cicala prendeva in gi-ro la formica – che usava tut-ta l’estate per mettere da par-te provviste per l’inverno -, e passava l’estate cantando spensierata.

Quando venne l’inverno, cercò qualcosa da mangiare, ma la dispensa era vuota.

Allora, vinta dalla fame, in preda alla disperazione, chiese un tozzo di pane alla

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milingones, çë rroji atí prëz, ka gjitanía.

“Milingon e mirë – kjaji ajó – huóm t’ngrënt pët shkonj gjith dimbrin; t’e rrëndonj ka primavera çë vjen, me gjith interesin, kat më kërdhoç!”.

Milingonja, ç’ishi edhé e lodhur pse kish shurbejtur njera ditën mëpari, ja u për-gjegj:

“E ti, zonja ime, çë bëre njera dije?”.

“Ngë dit thom buxhíe – ja u përgjegj çiçikalla – ájëri ishi plot me djell e shtu shkova gjith ditat ta kënduor”.

“Ndë shkove primaverën ta kënduor, ka dimbri mund ec e këcéç ka bora!”

Pas çë ajó tha któ fjal, ja mbuillivi derën ka faqja.

formica, che faceva parte della comunità vicina.

“Buona formica - pia-gnucolava – prestami il cibo per poter passare l’inverno; te lo renderò in primavera, con gli interessi, te lo giu-ro!”

La formica, ancora stanca avendo lavorato fi-no al giorno precedente, le rispose:

“E tu, signora mia, cosa hai fatto fino a ieri?”

In verità – replicò la cica-la – l’aria era piena di sole e così ho trascorso tutti i giorni cantando”.

“Se hai passato la prima-vere cantando, in inverno puoi andar sulla neve ballan-do”.

Dette queste parole, le sbatté la porta in faccia.

3. Ujtë ka vera

Sundinja B. kishi një nëgox, ku shisi ver e kjumsht.

Ajó dit bëj shum e nëgo-xi veji përpara shum mirë; “commercianti si nasce e briganti si diventa”, thoji atirve çë kishën midhje e ktá, kur gjegjën ató fjal, vu-

3. L’acqua nel vino

Assunta B. aveva una bottega, ove vendeva vino e latte.

Era davvero capace e gli affari andavano molto bene; “commercianti si nasce e briganti si diventa”, era so-lita dire agli invidiosi e que-sti, nel sentire quelle parole,

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jën bishtin ndëmest këmbvet e vejën us.

Któ fjal të fërteta ajó Sundinja i kish gjegjur ka jëma e madhes, çë puru kish patur një nëgox e kish zunur fill të bëji e madh shpin e tirve.

Ma sa shum e vrar ishi Sundinja, aq i njomë ishi i shoqi e saj, një burr i mirë e i turpshë.

Një her çë Sundinja kjeti Këmvash me të shoqin, pët bëji ca spizë, kur ishi pët so-si, ja erdhi dërmende një mbashat e, pët mos birjen trenin, tërgovi përpara të shoqin me një fakin çë qeji mbiçet.

Ishën atí di nëgoxje çë shisjën fshes, një përpara tjetrit, të-dí të begata.

Hiri ka i pari e, pse njihi patrunin, ja pjesi:

“Lalzot, patruni nëgoxit çë ke përparna thot k’isht më i begat, pse vjedh ka-shtën”.

“Ng’isht e fërtet – ja u përgjegj patruni çë dish vandohshi - , jam u m’i bë-gati; u vjedh fshest”.

E kjeti shtú çë Sundinja zuri fill e vuji ujtë ka vera e ka kjumshti çë shisi. E kur ndonjarí amëndohshi, lukoj parna ke dish mërihshi.

mettevano la coda fra le gambe e si dileguavano.

Queste parole vere As-sunta le aveva sentite dalla bisnonna, che pure aveva avuto una bottega e aveva cominciato a fare grande la propria casa.

Ma tanto in gamba era Assunta, quanto ingenuo era il marito.

Una volta, durante un viaggio a Campobasso per affari, Assunta, finita la spesa, mandò verso la sta-zione il marito con un fac-chino, perché si ricordò di una cosa.

C’erano due botteghe che vendevano scope; una più ricca dell’altra.

Entrò nella prima di cui

conosceva il proprietario e gli chiese:

“Signor mio, il proprieta-rio della bottega di fronte so-stiene di essere più ricco, perché ruba la paglia”.

“Non è vero – rispose il conoscente, vanitoso – sono più ricco di lui, io rubo le scope”.

E così Assunta incominciò a mettere l’acqua nel vino e nel latte che vendeva. Quando qualcuno osava lamentarsi, ur-lava e fingeva d’offendersi.

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Më ke ndonjarí, kur shi-hjën ke vet dili ka nëgoxi, veji e amëndohshi me të shoqin; e ki i mjeri, çë kishi shum turpë, ja ipi dicá ver e dicá kjumësht pa fare ujë. Shtú, aí rrëndoji atirve atë çë kishën rufunuor.

Mbiçet vejën mirë e Sundinja ng’adënohshi çë suçdhiri ndën hundës e saj.

Ma një dit një lëtí i

vrar çë viji ka Termeni bëri një kuntrat me Sun-dinen e nga dita ja blej kjumshtin; ma ngë paguo-ji. Shkovi një sheku mot e sembu ngë paguoji; bliji e ngë paguoji e ‘shtú aí bëri 75 mijë lira dhëtir; at-herna kjumshti kustoji 45 lirë litrin.

E shtu Sundinja sëriti të shoqin e ja tha t’t veji Ter-men pët mirri soldet e tirve.

Kur aí erruri atí, lëtíu e mblushi me fjal të ligj e i mjeri u bë i bardh e i kuq p’aq turpe çë pati. “Ec ja thoj sat’shoqe” – ja lukovi lëtíu – “ke u ngë jap soldet emí atirve çë më shesnjën ujë ka vendi kjumshtit”.

E ‘shtu ja tha aí kur u turnua ka shpía.

Sundines m’ipari ja hi-pën, ma dhopu, si ja hipën,

Parecchi, quando lei era fuori, si lamentavano con il marito; ed il poveretto, che si vergognava troppo, dava loro un po' di buon vino e di buon latte. Insomma, rende-va loro quel che avevano rimesso.

Le cose andavano bene ed Assunta non s’accorgeva di quel che accadeva sotto il suo naso.

Ma un giorno un forestie-ro furbo di Termoli fece un contratto con lei e tutti i giorni le comprava il latte; ma non pagava. Passò un bel po’ ti tempo e non pagava; comprava e non pagava e co-sì accumulò un debito di 75 mila lire; a quell’epoca il lat-te costava 45 lire al litro.

Allora Assunta chiamò il marito e gli chiese di andare a Termoli a riscuotere i soldi.

Quando egli arrivò là, il forestiero lo assalì a male parole ed il poveretto di-venne paonazzo. “Devi dire a tua moglie” – gli urlò – “che i miei soldi non li do a chi mi vende acqua per latte”.

Così egli riferì alla mo-glie.

Assunta dapprima si ar-

rabbiò molto, ma dopo si calmò, perché si ricordò del

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ja kallovën, pse kapirti atë çë vjen mathën pruverbi: “Aq shum vete maçja ka dhjami, ke ja ngjitet këmba”.

proverbio che recita: “Tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino”.

4. Takarata “a la çëkata”

Kantinja motrës An-xhulinë Z. ishi plot me suldat Kanadez atë nat e ftohtë të 17 Inarit 1944. Ktá, dhopu çë kishën hëngur rranxhin e kum-panjiës – e teta Armat i-shi e prëparohshi të veji drelart e Italjes – shkojën natën ta pijtur ver e de-hshën.

Atë nat ishën edhé më të

dehur e zurën fill e ipjën fa-stidhje të mjers Anxhuline, ç’ishi e ve.

U adënua lal Miklini e bëri sinje motres Anxhuline pët iki jasht ka kantinja. U vuh përpara ders, shuovi dri-tën e – pse kish’kjetur ka Kanadáu e dit’foli merikanin – zuri fill e thoj fjal shum të liga atirve e i mitoji të bëjën me grushte.

Ka një ka një, me grushte e stambata çë ja bjejën sipër atire si breshër, i derdhi ghith jashta teku i prisi gjimsë metër bor. Vet ngë

4. Botte alla cieca

La cantina di Angelina Z. era piena di soldati Ca-nadesi quella fredda notte del 17 gennaio 1944. Que-sti, dopo aver mangiato al-la mensa della Compagnia – l’Ottava Armata si prepa-rava a partire verso il Nord dell’Italia – trascorrevano la notte bevendo e ubria-candosi.

Quella notte erano più u-

briachi del solito e davano fastidio alla povera Angelina, che era vedova.

Se ne accorse zi’ Michele e fece segno all’Angelina di scappare dalla cantina. Si po-se davanti alla porta e – es-sendo stato in Canada e sa-pendo parlare inglese – co-minciò a inveire contro di loro con parolacce, invitan-doli a fare a pugni.

Ad uno ad uno, con pugni e calcioni che fioccavano su di loro come grandine, li but-tò fuori, dove li aspettava mezzo metro di neve. Lui

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gjimsë metër bor. Vet ngë pati mangu një grusht.

Vuxha ç’atë çë suçdhir-ti lestu erruri nga an pse hora ishi e vogël e shtú e zuri puru Kumandi kana-dez.

Atëherna, kapitani kana-dez sërriti lal Miklinin e, ta folur inglez, mipari gjegji si kishën vajtur fatet, dhopu ja lipi të bëji me grushte, box meeting thojën atá, me sul-datët. Lal Miklini i tha ke ejë e ‘shtú, ditën dhopu, pu-pulacjuna e suldatët mund pan atë box meeting sipër borës, ka Kjaca.

Popa, lal Miklini i derdhi gjith përdhé, ka një ka një. Vet puru pati ndonjë grusht, ma mundi.

Ç’atë dit, gjith Kanadezët u bërën miq shum me lal Miklinin e i rrjaojën sigarete e çokolat e e sërrisjën pët bëji interpretin me pupula-cjunën.

non si buscò neanche un pu-gno.

La notizia presto arrivò ad ogni angolo del piccolo paese e l’apprese anche il comando canadese.

Allora, il capitano ca-nadese chiamò Michele Varanese e, in inglese, sa-puto come si erano svolti i fatti, lo invitò ad un in-contro di boxe con i sol-dati. Michele accettò ed il giorno dopo la popolazio-ne poté assistere al box meeting sulla neve, in piazza.

Di nuovo, Michele Va-

ranese li atterrò ad uno ad uno. Anche lui ebbe qual-che pugno, ma vinse.

Da quel giorno, tutti i Ca-nadesi divennero molto amici di zi’ Michele e gli regalavano stecche di sigarette e cioccola-ta e lo chiamavano a far da in-terprete con la popolazione.

5. Di mushqit

Një mushk çë qeji sama-rin plot me karlin t’arta, pë një patrun shum i bëgat, ki-shi ka krinjerja sa aq kam-banjele çë ja i shkundëshën

5. I due muli

Un mulo che trasportava il basto pieno di carlini d’oro, per un ricco padrone, aveva nella criniera così tan-ti campanelli che gli si scuo-

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tekur eci e bëjën rëmur gja tarramut.

E gjegjën brëant e rro-dhën ka udhja ku ishi e shkoji; e zurën e, pët ja vje-djën tëzorin, aq e mblushën me stambata e me takarata, ke njetër kole vdisi.

Mushku naní kishi gjith

kurmin me dhëur e, kur ja prirshën mendët, ngriti sit e pa njetër mushk çë qeji dri-za të thata; rra nëmë e rëko-vi:

“I mjeri u! E i lumi ti çë qen driza; varé mua tekú va-jta e sosa me një shubërtir shtu e aftu!”

“Lalëzot ime – u përgjegj aí – shubërtirat të afta jan aq më të ëmbla sa më të idhura; almenguna drizat, dhopu një kole mot, ng’i gjegjën më”.

tevano camminando, facen-do rumore come terremoto.

Lo sentirono i briganti e corsero sulla strada dove doveva passare; lo presero e, per rubargli il tesoro, gli det-tero botte da orbi, da farlo quasi morire.

Il mulo era tutto indolen-zito e, mentre gli girava la testa, alzò gli occhi e vide un altro mulo che trasporta-va rovi secchi; imprecò e disse:

“Povero me! E felice te che trasporti rovi; guarda dove son finito con il mio lavoro nobile!”

“Signore mio – rispose quello – i compiti alti sono tanto dolci quanto amari; almeno i rovi, dopo un po’, non li senti più”.

6. Ujku e qengji

Një qengjë i trëmbur një dit ishi e piji ujët të njëja përruë, kur erruri një ujëk c’ishi i rajuor pse kish puti-të.

“Kush të dha përmesin të ljehsh ujët t’përrua emí?” – ja lukovi qengjit i trëmbur – naní bite e shohsh!”

6. Il lupo e l’agnello

Un agnello spaventato un giorno si stava dissetando all’acqua di un ruscello, quando sopraggiunse un lupo incavolato perché affamato.

“Chi ti ha permesso di in-

torpidire l’acqua del mio ru-scello?” – urlò all’agnello impaurito – “Adesso ti faccio

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“Zoti ime – ja u përgjegj qengji gjith i dridhur – varéj më mir, ke ngë do të mundja ljenj ujët: ti je lart e u jam posht!”

“Jam e të thom ke je e ljen ujët ime e sidó vjet ti the fjalët kundru mua” – u përgjegj ujëku.

“Ng’ mundjet, pse u vjet

ng’isha edhé i lêr” – tha qengji.

“Rri qet! ndë ngë kjete ti, do të ketë qenë it vullá!” u përgjegj popá ujku.

“Të xhuronj ke ngë kam ne motra ne vullazra!”

“Buxhíe, do të ketë qenë i tat o një gjërí i tuójt; ma naní kat marr gjakun”.

E, kur thoj kto fjal, u-jëku zuri qengjin, pas e qevi ka voscu e e hëngri me gjitj eshtra.

vedere io!”. “Mio signore – gli rispose

tremando l’agnello – guarda meglio, non potrei mai insoz-zarti l’acqua: tu stai sopra ed io sotto!”.

“Ti dico che stai intorbi-dando la mia acqua e comun-que l’anno scorso tu hai parla-to male di me” – rispose il lupo.

“Oh, questo non è possibi-le, perché non ero ancora na-to”, disse l’agnello”.

“Taci, se non sei stato tu, sarà stato tuo fratello!”, replicò il lupo.

“Ti giuro che non ho né sorelle né fratelli!”

“Bugie, sarà stato tuo pa-dre o un tuo parente; ma ora mi vendicherò!”

Mentre diceva queste parole, il lupo ghermí l’agnello, dopo lo portò nel bosco e lo divorò.

7. Qifti e kollëza

Një kollëzë kish shum putitë e, tekúr pa qiftin çë kish zënur një qengjë i la-tand, dish’e imitoj.

Kur pa, me sit plo’ me gjak ka putita, ke delet ishën e hajën barin atí posht, ja u dërvitë sipër e u gjëndë me grikën çë cinoj … qenin

7. Il nibbio ed il corvo

Un corvo era affamato e, quando vide che il nibbio a-veva preso un agnello lattan-te, voleva imitarlo.

Appena notò, con gli occhi

pieni di sangue per la fame, che le pecore brucavano l’erba per terra, gli si è scaraventato

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grikën çë cinoj … qenin ç’ishi e fliji.

U sgjua ki ka dhëuri, zuri dhëbotu kollëzen e e bëri ti-qe tiqe.

addosso e si trovò con il becco che pizzicava …il cane che stava dormendo.

Questo si svegliò, prese svelto il corvo e lo fece a pez-zetti.

8. Kali i çuop 8. Il cavallo zoppo

Ishi një herë një bandit një sheku i vrar.

Aí kish vujtur sitë sipër njëja kali shum i bukur e i fort, çë rridhi si gja faunji ka gushti. Ma ngë kishi kura-xhë t’e vjedhi, pse kali ishi t’e birit e zonjës Lenë, një të fëmijës më të begata e ho-rës.

Ma brëandi kishi koçën e that e ngë dish vej pas kun-xijvet çë ja ipjën ató çë i-shën më t’mdhenja.

Një dit rruovi gjaletin e, kur pa ke kish lunur kalin pët hiji ka një kandinë, ja e vodhi e iku dharasu, njera Lanxhan, tekú ishi e bëhshi ferja, e atije dish shisi kalin.

Kur gjegji fatin, zonjës Lenë ja hipën shum e u zdinjúa me të birin. Pas, sër-riti të kushríun i par çë rriji Shën Pal e i tha: “Ndërjú – ‘shtu ja thojën -, kushriri ime, kat’t lipënj një pjaxher

C’era una volta un bandi-to molto furbo.

Aveva messo gli occhi su un cavallo molto bello e forte, che volava come il vento d’agosto. Non aveva il corag-gio di rubarlo, sapendo che era del figlio di donna Elena, una delle più ricche famiglie del paese.

Ma il brigante aveva la te-sta dura e non ascoltava i consigli dei più grandi di lui.

Un giorno spiò il ragazzo e, quando vide che aveva la-sciato il cavallo per entrare in una osteria, glielo rubò e si diresse velocemente verso la fiera di Lanciano, dove vole-va venderlo.

Saputo il fatto, donna Ele-na andò su tutte le furie e si arrabbio con il figlio. Dopo, chiamò il cugino primo che viveva a San Paolo e gli dis-se: “Andrea – così si chiama-va -, cugino mio, devo chie-derti un favore grande; ci è stato rubato il cavallo del ra-

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shum i madhë; na vodhën kalin e djalit; ec Lanxhan, gjena kalin jone e bierna ka shpía”.

Ndërjuçi erruri ka ferja e pa lestu kalin, çë ishi më i bukuri e gjithve; ja vajti prëz atrunit e i tha: “Kumba’, va-réj che mos do sheç ktë kal i çuop! sa do?”

“I çuop! – ja u përgje-gjë brëandi – ki ikën si gja vendimja, ng’e sheh? “ E mendru foli, stoj kalit dal me stafillin, e kali veji dreq dreq.

“I vrar! – ja tha popà Ndërjuçi – ki kal isht i çuop! Do më qeç dhun?”

“U kam mëse një fjal – ja u përghiegj banditi –; je ti çë ngë kuqón! Hip ngaluór! hip! e naní ec, ec një kole e vareje me sit e tua; isht i çuop? isht i çuop?” – Thoj bëandi i rrajuór … - isht i çuop? – lukoji

“Jo, jo, ki vete si gja vëndimja! ke ligj!” … samzi gjegjshi vuxha, ç’ishi or-maju dharasu …

stato rubato il cavallo del ra-gazzo; va’ a Lanciano, ri-prendi il nostro cavallo e ri-portacelo indietro”.

Andrea arrivò alla fiera e subito vide il cavallo, che era il più bello di tutti; si avvicinò al ladro e gli disse: “Compa-re, che forse vuoi vendere questo cavallo zoppo? quanto vuoi?”

“Zoppo! – gli rispose il brigante – questo fila come il vento, non vedi?” e mentre parlava dava qualche leggero colpo di staffile al cavallo, che andava dritto.

“Tu sei furbo! – di nuovo gli disse Andrea – questo ca-vallo è zoppo! Vuoi prender-mi in giro?”

“Sono uomo di parola – rispose Andrea – sei tu che non connetti! Monta! sali! ed ora va’ un po’ e guarda con i tuoi occhi; è zoppo? è zop-po?” Continuava il brigante arrabbiato …- è zoppo? urla-va ..

“No, no, questo va come il vento! hai ragione tu!” … si sentiva appena la voce, ormai lontana …

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Capitolo VI

Detti e proverbi

1 Ka moti çë kuoret,

ngë kimi ngé pët prëómi

Al tempo della mietitura non c’è tempo per dire le orazioni

2 Qeni kur isht e ha, et’rrie

Cane che mangia, lascialo stare

3 Kush pi vetem e vetem, fukohet

Chi beve da solo, affoga

4 Kush vete e spariqón, merr më t’mirën pjes

Chi divide, si prende la miglior parte

5 Kush ka zjarrin ngrohet e kush ng’e ka këcén

Chi ha il fuoco si scalda e chi non ce l’ha balla

6 Ndë dele bëhe, të ha ujku

Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia

7 Kush peshkun do har, këmbt kat i lagënj

Chi vuol mangiare il pe-sce, deve bagnarsi i piedi

8 Mbuin derën naní çë qet ikën

Chiude la porta ora che i buoi sono scappati

9 Aí çë ngë di isht si aí çë ngë sheh

Colui che non sa è come colui che non vede

10 Vloj bukën e bardh pë ditat e zeza

Conserva il pane bianco per i giorni neri

11 Kurnut! ja thot kau aidhúrit

Cornuto! dice il bue all’asino

12 Ka një fat dallmi ka njetër

Da una cosa all’altra

13 Një të thënë, një të bënë Detto e fatto 14 Krishti i bën e varéja

i kuqon Dio li fa ed il vento li accoppia

15 Ka një vesh të hin e ka tjetri të del

Fai orecchio da mercante

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16 Çumnerja e madhe, shpia e madhe

Focolare grande, casa grande

17 Çumnerja pa pleqë, ngë ka hjé

Focolare senza vecchi, non sta bene

18 Ikë ka njëriu i lig Fuggi da chi è cattivo 19 I hiri pleshti ka

veshi Gli è entrata la pulce nell’orecchio

20 Hëngre misht e naní ha edhé eshtrat!

Hai mangiato la carne, adesso spolpa l’osso!

21 Kali i huojë të lé mbë këmb

Il cavallo forestiero ti lascia a piedi

22 Maçja lan faqen

Il gatto si lava la faccia (pioverà)

23 Buka thatë rruon shpin

Il pane raffermo mantiene la casa

24 Gazi e i kjar jan motër e vullá

Il riso ed il pianto sono fratello e sorella

25 Gjaku ngë bëhet ujë

Il sangue non diventa acqua

26 Fara çë vete ndën dhéut, do t’jet kuortur

Il seme che va sotto terra, vuol essere colto

27 Krishti na bëri me vetëm një grik e na dha di vesh, pët gjegjmi shum e flasmi pak

Il Signore ci ha donati due orecchi ed una bocca sola, per ascoltare molto e parlare poco

28 Gjumi isht i vulláu e vdekjes

Il sonno è il fratello della morte

29 Lisi ngë mund pritet me shpatën

L’albero non può essere tagliato con la spada

30 Ardhuri qen pizin e samari llamëndohet

L’asino porta il peso e il basto si lamenta

31 Dhit ka grurt! ngë më shket!

Le capre nel campo di grano! non mi scappa! (dhit = anche defecare)

32 Ullinjët pa varé, kalben

Le olive senza vento, mar-ciscono

33 Ja i vete pas si një kulish

Lo segue come un cagnolino

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34 Dharasu ka sit, dharasu ka zëmbra

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore

35 Ha bukën jot e mos pënxoj fatet e tjervet

Mangia il tuo pane e non curarti degli altri

36 Isht më mirë t’bëç kapin ka bandarjelja …

Meglio essere capo nella banda piccola ..

37 Derk e lëtí, mos i mësó mbë shpí

Meglio un asino morto in casa, che un marchigiano fuori della porta

38 Më shum të diç, ke shum të keç

Molto tu sappia, piuttosto che molto tu abbia

39 U thom vadhezë e ti thua garricë

Non ci capiamo

40 Mos u bëj gja viku, ku shkon i miri e i ligu

Non fare come il vico, do-ve passa il buono ed il cat-tivo

41 Mos u bëj mjalt, sinó miza të ha

Non farti miele, se no ti mangia la mosca

42 Mos zëj gjarprin ka bishti, pse të cinon ka gishti

Non prendere il serpente per la coda, ché ti punge il dito

43 Pupupupu, çë të bëfshën! Oh cielo!, che ti possino! 44 Kaha priret, digjet Ovunque si gira, si scotta 45 Gur me gur bëhet

mur Pietra su pietra diventa muro

46 Bie shi, bie borë e tarandulla ve kuror!

Piove o nevica, la tarantola si sposa

47 Purkanxhar, koç e çar; Kamarënez, koç e zez!

Porcangiaro, testa rotta; Campomarinese, testa cat-tiva

48 Aq i erdhën i fort të bëç dogjagjë

Prendersela troppo per fare qualche cosa

49 Njëriu i pamësuor, si dheu i papunuor

Qualcuno è senza cultura, come la terra incolta

50 Kur zjen kusía, kat i vuç makarunet

Quando la pentola bolle, devi buttarci i maccheroni

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Parte I - Tradizioni

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51 Aq shume thuhet, sa pak një haróhet

Quanto più si parla, tanto poco si ricorda

52 Atë çë kërkon, gjen Quel che semini, raccogli 53 Derku i mall, shpía

e bëgat Se il maiale è grasso, la casa s’arricchisce

54 Kush mbjell elb, ngë mund shtipënj grur

Se semini orzo, non puoi raccogliere grano

55 Ndë tundën hekurin i nxet, digje

Se tocchi il ferro rovente, ti bruci

56 Pa mbrumë ngë bëhen ku-leçet

Senza impasto non si fanno i taralli

57 Mbuihet një der e hapet një purtun

Si chiude una porta e si apre un portone

58 Vete gja një lop pa kumbor

Si comporta come una mucca senza campanaccio

59 Motër e vulla, kush ka bu-kën e ha

Sorella e fratello, chi ha pane se lo mangia

60 Ec e sbuzaruojt! Va a quel paese!

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Parte II – Canti

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Parte seconda

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Parte II – Canti

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Parte II – Canti

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Capitolo VII

Canti dell’amore materno

e familiare

Ninne nanne

1.

Djali na rëkon Il bimbo si lamenta Nja, nja, nja, 1 Na, na, na, çë shkatoft gjitania! 2 che crepino d’invidia i vicini çë lart njera posht da nord a sud djali jonë roftë e shtoft; il figlio nostro viva e cresca çë posht njera përdhè da cima a fondo djali jonë i vogël jè; bimbo nostro piccolo sei; na, na, na na, na, na çë ka djali çë na kja che ha il bimbo che piange çë na kja e na rëkon piange e si lamenta eren mëma e e kutëndon 3 vien la mamma e lo calma djali, djali, djali il bambino 1 Allegro ma non troppo. Ha una venatura scherzosa, ma anche una nota di malinconia questa ninna nanna che la madre arbëresh canta al suo bimbo, con trasporto semplice e con accenti pittoreschi. Il verbo in ottativo, poi, roftë e shoftë, quest’insolito modo del verbo nella lingua albanese, innalza ad un livello sublime la speranza riposta nel figlio dalla madre, che recita versi affettuosi e nel contempo passionali, ai quali la traduzione in italia-no, lasciata in uno stile rigorosamente letterale per la migliore compren-sione delle parole, non rende il giusto merito. 2 Il vicinato, gjitanja, ha un posto di grande rispetto e considerazione nella comunità arbëreshe, fino a condizionare gli atteggiamenti delle famiglie. Tante scelte, molte decisioni, vengono prese fantasticando sulle reazioni del vicinato; e ciò, nonostante che il soggetto arbëresh non sia dotato di gran voglia associativa, essendo per carattere orgoglioso e riservato. 3 A Ururi manca la “materia prima” per viziare i bambini e, d’altronde, “figlio troppo coccolato, è male allevato”; perciò, più che “accontentati” nei loro capricci, sono calmati, rassicurati con una carezza ed una parola affettuosa.

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Parte II – Canti

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qevi nusen ka bali; ha portato la sposa al ballo; e nxori të këcej l’ha guidata a ballare gjith xhostra e varej. 1 tutta la giostra l’ammirava çë isht i bukur ki gjalet com’è bello questo ragazzo një skartofje me kumbjet 2 un cartoccio di confetti një me kanëline uno di cannellini ç’isht i bukur djali ime! com’è bello il bimbo mio! Nja, nja, nja Nia, nia, nia çë të do mir mëma tija; che bene che ti vuole mamma çë bukura si che begli occhi të dhunovi ajo Sënd uçì 3 te li ha donati Santa Lucia Sënd Uçía t’i dhunovi Santa Lucia te li ha donati Sën Luka t’i pitovi San Luca te li ha dipinti e ndinje shtat vjet e ci ha messo sette anni pët pitoj këtë gjalet. per dipingere questo ragazzo.

2.

I bardhi gja buka 4 O bianco come il pane I bardhi gja buka 5 O bianco come il pane të pitovi Sën Luka 1 ti ha dipinto San Luca 1 L’orgoglio materno non è esclusiva della donna arbëreshe: “ogni scara-fun è bell a’mamma sua”! 2 L’accostamento ai kumbiet è motivata dalla grande considerazione che a Ururi si ha dei confetti, così profumatamente dolci e bianchi da meritare un posto d’onore nelle nozze. 3 La fortuna di Santa Lucia sta nella sua elezione a protettrice degli occhi. Esistono intere regioni del Norditalia, dove i nati del 13 dicembre son chiamati immancabilmente Lucia o Lucio. 4 Allegro con brio. Dopo sette difficili anni finalmente è arrivato questo figlio, vajëtën spiert shtat viet. La similitudine del bimbo con il bianco, il simbolo della purezza, è molto forte nelle donne albanesi, per le quali un bimbo è tanto più bello, quanto più la sua pelle è bianca. È sorprendente come queste immagini si ritrovino nelle giovani generazioni; probabil-mente è tale la simbiosi che si crea tra madre e figlio nei primi mesi di vita, che vi è da pensare che questi messaggi restino incisi nella mente anche da adulto. 5 Il pane bianco è tale perché, ahimè!, non sono state ancora scoperte le proprietà del grano duro, riservato alla pasta fatta in casa. A Ururi il pane nero, buka sezë, è sinonimo di miseria. Ancora oggi il pan di segale, tanto amato dai tirolesi, è guardato con sospetto.

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Parte II – Canti

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I bardhi gja veja O bianco come l’uovo të pitovi Sën Leja ti ha dipinto San Leo I bardhi gja jungata O bianco come il latte të pitovi mëma e tata ti ha dipinto mamma e papà Vajëtën spjert shtat viet Ci son voluti sette anni pët pitoj këtë gjalet per dipingere questo bimbo

3.

I bardhi gja jungata 2 O bianco come il latte I bardhi gja jungata O bianco come il latte të do mir mëma e tata ti vuol bene mamma e papà I bardhi gja veja O bianco come l’uovo ki bir erdhi kaha Navreja

questo bimbo è venuto dalla neve

Çë bukur dor Che bella mano çë ka duminonj hor 3 che deve dominare la città Çë bukur hund Che bel naso çë qen er mbë manund che odora di pane Çë bukur faqe Che bel viso çë qen era mbë manusaqe che odora di violette Çë bukur buz Che bella bocca mund bënjë një përtuz 4 simile ad un’asola Çë bukur miekër Che bel mento si gja ti u dishja njetër come te vorrei un altro Çë bukura lesh ke Che bei capelli hai dot i zëhënj me kallamè

vorrei bruciarli con la stoppia

1 San Luca. Recita un proverbio contadino: “o bagnato o asciutto, per San Luca semina tutto”. 2 Allegro e ritmico. Il volto del bimbo è radiografato in modo completo. Non poteva mancare la viola mammola, manusakja, un fiore probabilmen-te molto comune sui monti della terra delle aquile e che appare spesso nel-le cantate degli arbëreshë quando si vuol indicare una cosa bella e delica-ta. 3 L’orgoglio materno fa del bambino un dominatore; è strana questa parola lëti, visto che A. Leotti nel suo L’albanese parlato del 1915 – che, però, era prettamente Gheg -, traduceva “dominare” con zotënoj. 4 Anche përtuz, ahimè!, viene dal napoletano, o’ përtus;

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Parte II – Canti

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4.

Djali do fler 1 Il bimbo vuol dormire Nina nana kor Ninna nanna cuore djali do fler një par or

il bimbo vuol dormire un par d’ore

një par or e një jurnat due ore e una giornata njera çë mëma vet e vjen ka një mbashat

finchè la mamma finisce un servizio

Nin nin nin Nin nin nin ari, rëgjëndi, açari fin 2 oro, argento e acciaio fino zilja rëgjënd una campanella d’argento kaha vete bën dërdhëng ovunque suona dindon arofaj ka grasta mëma të dhakovi aposta

il garofano nel vaso è stato dalla mamma annaffiato appositamente

Arofaj skrit Garofano screziato Kaha vete bën drit ovunque vai fai luce Arofaj durendë Garofano odoroso Kaha vete bën vendë ovunque vai trovi posto I bardhi gja buka O bianco come il pane të pitovi Sën Luka ti ha dipinto San Luca I bardhi gja veja O bianco come l’uovo të pitovi Sën Leja ti ha dipinto San Leo I bardhi gja jungata O bianco come il latte të pitovi mëma e tata ti ha dipinto mamma e papà Vajëtën spiert shtat vjet Ci son voluti sette anni pët pitoj këtë gjalet per dipingere questo bimbo Tëndija ojë tëndija Tendija oh! Tendija lart e posht ka masaria su e giù per la masseria Ka masaria dreposht 1 Nella masseria in fondo 1 Andante. L’invito al sonno dev’essere espresso con dolce convinzione, mentre il riferimento ad un fiore, il garofano, arofaj, è forse più solido della delicatissima violetta. 2 L’oro. C’è sempre alquanto materialismo nei pensieri arbëresh; corre un detto: “i ricchi, se ci sanno fare, possono essere felici così in terra come in cielo”.

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Parte II – Canti

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djali jone i shëndosht il bimbo nostro sta bene Ka masaria drelart Nella masseria in cima djali kja ke do ver jasht

il bimbo piange ché vuol andare in campagna

5.

I bardhi gja bora 2 Bianco come la neve Na, na, na Na, na, na lëjë e zëjë e mos e nga lascia, prendi, non toccare Ni, ni, ni Ni,ni,ni puthe e lëjë vetëm ti bacia e lascialo solo tu I bardhi si gja bora O bianco come la neve të do mir gjithë hora 3 ti vuol bene tutta la città I bardhi gja jungata O bianco come il latte të do mir mëma e tata ti vuol bene mamma e papà O çë bukur djal O che bel bambino e rijtu borë ka i mal cresci o neve sulla montagna Ka i mal i shkret Sul monte solitario e rijtu bir ke jè gjalet 4 cresci figlio che sei ragazzo O çë bukur djal O che bel bambino e martonjë Poxh Mbërial

si sposerà a Poggio Imperiale

Poxh Mbërialë i ri

Poggio Imperiale ti vede crescere

e mëma do njetër gja ti

e la mamma vuole un altro come te

1 Dreposht e drelart, non solo nord e sud, non solo sopra e sotto; queste due preziose e sobrie parole a volte indicano anche i quartieri; qui, forse la masseria dreposht è in zona più fertile, perché più pianeggiante e quindi la tranquillità del bambino gli deriva dai migliori frutti di quella terra. 2 Veloce e scherzoso. Alla figura della madre viene abbinata, finalmente, quella del padre, tata. 3 È naturale che il proprio bambino sia benvoluto da tutto il paese, perché egli avrà tutte le più importanti virtù. 4 La madre si sorprende a vedere il figlio già ragazzo e addirittura sposo felice, perché va a nozze di sabato sera ed alla sposa che il figlio sceglierà vada lunga vita e buona salute. Fa riflettere che queste ninne nanne siano incentrate soltanto sui figli maschi. Il Kanun vive ancora?

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Parte II – Canti

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Çë bukur djal ka mëma Bel bambino della mamma ka e martonjë të shtunë mbrëma

si sposerà di sabato sera

Të djelën menat La domenica mattina ka t’i jap një namurat devo dargli una fidanzata Namurata ç’i jep mëma

La fidanzata che gli dà la mamma

mos e gjeft të shtunë mbrëma non la trovi il sabato sera Ajo çë merr vet Quella che prenderà lui paft gjellë edhè shëndet abbia vita e buona salute

6.

Pasta fin e koçkaval 1 Pasta fine e caciocavallo O çë bukur djal O che bel bambino pasta fin e koçkaval pasta fine e caciocavallo koçkaval i vjetër caciocavallo stagionato e gja ti na dishëm njetër

e come te ne vogliamo un altro

e koçkaval i ri e caciocavallo fresco e dishëm njetër gja ti e vogliamo un altro come te O çë bukur bir O che bel figlio buk e bardh e ver e mir pane bianco e vino buono Çë bukur gjalet Che bel ragazzo e një skartofje me kumbjet un cartoccio di confetti e një me kanëlin ed uno di cannellini e mëma ka një bukur trim e mamma ha un bel giovane i shkrevi me nënd sita 2 raffinato da nove setacci E djali jone bën drita Il nostro bambino emana luce 1 Profondo e sostenuto. Probabilmente in antico il caciocavallo era consi-derato uno dei formaggi più fini, perché richiedeva pasta raffinata. In que-sto canto non mancano altri richiami originali all’abbondanza ed al benes-sere, che la madre preconizza al figlio tanto amato. 2 Il setaccio. Gli accostamenti sono una costante di queste ninne nanne; il bimbo o le sue virtù sono paragonati sempre a beni essenziali o processi della vita quotidiana; e dunque, qui abbiamo il setaccio, che trattiene le impurità; chi mai potrà essere perfetto come il nostro bimbo, “setacciato” da ben nove setacci diversi? Da chi, se non dal nostro bimbo, verrà ema-nata quella luce virtuale che si estende sugli altri anche nell’oscurità?

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Parte II – Canti

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drit pa lihar luce senza candela ç’isht i bukuri ki djal. com’è bello questo bambino Tëndur ojë tëndur Tëndur oh! tëndur mëma do të martonj Rur

la mamma vuol farti sposa-re a Ururi

Të jep një vëtur 1 Ti dà un cavallo e një fuset plot me grur ed un orcio pieno di grano e një shport me ve ed un cesto di uova e nje vagan me gjith qè ed un vaccaro con i suoi buoi e një shport me fiq ed un cesto di fichi e një purkar me gjth dirq ed un porcaro con tutti i maiali

7.

Tështun mbrëma 2 Sabato sera Nja, nja, nja Na, na, na çë të dish mir mëma tija come ti vuol bene mamma çë bukur djal ka mëma che bel bimbo ha la mamma kat’e martonjë tështun mbrëma

deve sposarlo di sabato sera

Të djelën menat La domenica mattina mëma të gjen një namurat

mamma ti trova una innamorata

Të korë çë të kore Tu cuore che cuore dil ka dera e bëjë amore esci dalla porta e fa all’amore ndë ngë do bëç ti 3 se non lo fai tu hir brënda e mbuì vieni dentro e chiudi 1 Il cavallo. È essenziale nella vita dell’uomo lavoratore; se poi aggiun-giamo grano, uova, fichi, buoi e maiali, abbiamo il benessere autentico, come se lo possono permettere in pochi. 2 I progetti. Il sabato sera è un momento magico, nel quale le speranze per un roseo avvenire hanno più probabilità di riuscita. Per questo la madre si augura in cuor suo che il figlio possa sposarsi di sabato sera. I progetti si tengono in segreto, non c’è nulla di meglio per farli riuscire. Le “forze contrarie” non possono esercitarsi su ciò che è nell’ombra, su ciò che i-gnorano. Mentre, appena scoperti, un’ostilità vaga li uccide. 3 Il sogno a occhi aperti. La madre spera sempre di trasferire al bimbo le sue fantasie oniriche ed i desideri dell’inconscio. A volte ci riesce, però oggi forse anche a Ururi i bambini “nascono con gli occhi aperti”.

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Parte II – Canti

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Na, na, e na Na, na e na çë ka djali çë na kja

che ha il bimbo che ci piange

na kja e na rëkon piange e si lamenta eren mëma e kutëndon giunge la mamma e lo calma

8.

Rrusht engurdhe 1 L’uva dura Na, na, na Na, na, na çe bukur djal kimi na che bel bambino abbiamo noi kimi një bukur gjalet abbiamo un bel ragazzo isht i vogël e ri qet è piccolo e sta quieto isht i vogël e i bukur shum è piccolo e bello assai e djali jone isht një dragun

e il bimbo nostro è un dragone

Nin, nin, nin Nin, nin, nin rrusht engurdhe e magashin l’uva dura e la vite malvasina e rrusht skakaçar e l’uva malvasìa e mëma rin një bukur djal

e la mamma cresce un bel bimbo

9.

Çë na zien prëmë 2 Cosa si cucina stasera Nja, nja, nja Nia, nia, nia të do mir mëma tija ti vuol bene mamma tua të ka shum haré ti vuole bene assai ke ka një bir e ka bënj një re 3

ché ha un figlio e avrà una nuora

1 Sereno e tranquillo. Il dragone è sinonimo di guerriero forte e imbattibi-le. 2 Allegro e brioso. La famiglia è sempre al centro dei pensieri della madre arbëreshe, che finisce per trasmetterne l’humus al bimbo, allettandolo con un interminabile elenco di alberi da frutta e pietanze luculliane, simboli di benessere. 3 La nuora. Nella tradizione arbëreshe, la nuora, e reja, è considerata co-me figlia dalla madre dello sposo e come tale verrà inserita nella nuova

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Parte II – Canti

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Ndëng ojë ndëng Ndëng oh! ndëng çë na zien zonja prëmë 1

cosa ci cucina la padrona stasera

na zien koç e këmb ci cucina testa e piedi di tumac me ca lëng due tagliatelle in brodo di dromsa me undir due lasagne con sugna e di me ca suket 2 e due con un po’ di sugo Ç’isht i bukur ki gjalet

Quant’è bello questo maschietto

Ndele ojë ndele Ndele oh! ndele ti ishe dardh muskarele 3 tu eri pera moscatellina e dardha brutebon e pera brutt’e buona e isht i bukur djali jone e come è bello il bimbo nostro Tëndjia ojë tëndjia Tëndjia oh! tëndjia të bekon mëma tija ti benedice mamma tua sa dega ka gjërshija quanti rami ha il ciliegio aq graxie bën Shë Mëria tante grazie fa Santa Maria e aq graxie të bëft Shë Mëria

e tante grazie ti faccia Santa Maria

famiglia, posto che ella, dopo le nozze, abbandona la casa paterna per abi-tare in quella dei suoceri, krushqit. 1 Zonja e shpis, la padrona di casa è in realtà la donna sulla quale incom-bono la maggior parte delle incombenze familiari. Questo ruolo – se la madre dello sposo non è troppo autoritaria - è acquisito a pieno titolo dalla nuora. 2 Ce’ facimme nu spaghett’? Chi mai non ha avuto voglia, talvolta, di due tagliatelle fatte in casa, di tumac me suket? E dhroqet me rapa? E fusijet me mish? E takocet me diavulil ? Basta solo evocarli, per farsi venire l’acquolina in bocca. 3 La pera moscatellina era piccola, precoce, dal profumo di moscato.

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Parte II – Canti

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Capitolo VIII

Canti dell’amore giovanile

e della gelosia

10.

Zëmbra do t’më flas Il cuore mi dice Mëma mëma zëmbra do t’më flas

Mamma mamma il cuore mi vuol parlare

mua m’u bë njëzet e shtatë pjes mi si è fatto in ventisette parti ajo kapile çë më erdhi pas

quella giovane che mi è venuta dietro

më mori më të mirën pjes mi ha preso la miglior parte u mora udhën e i rodha pas

ho preso la via e le sono corso dietro

I thaç “lëm zëmbrën ke nanì vdes” 1

Le ho detto “lasciami il cuore che ora muoio”

11.

Më dishe e ngë të dua 2 Mi vuoi e non ti voglio

Të kore ojë të kore Cuore oh! cuore namuratin e ze me dor

l’innamorato la prende per mano

të qen ka një përrua ti porta vicino ad un ruscello kor amand do viç me mua?

cuore amante vuoi venire con me?

më dishe e ngë të dua 1 mi vuoi e non ti voglio 1 La passione. “Se vuoi farti amare, lasciati desiderare”, recita un pensiero saggio, ma, si sa, la passione fa sragionare … 2 Una relazione conflittuale. V’è del realismo in questo canto, che affronta con coraggio una situazione probabile: l’aspirante sposo che non ha i “numeri” giusti e che perciò viene respinto dalla giovane. E vero, dunque, che a Ururi i genitori sovrintendono ai matrimoni, ma i protagonisti devo-no essere d’accordo.

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Parte II – Canti

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ti ngë je bur të roç një grua

tu non sei uomo da saper vivere con una donna

12.

Parathirja 2 La finestra

Ç’isht e bukura qo parathire Com’è bella questa finestra isht e ndunakuor me këlqere è intonacata con la calce brënda isht një trim e një kapile

dentro c’è un giovane ed una giovane

jan durnjuor me callarele sono ornati con nastri

13.

Faleja Il nido Dish bëhsha tarandishe Vorrei essere rondine ka dera jote dish bëja falen 3 sulla porta tua vorrei fare il nido Dish shihja kur të’gjshe e të’vishe

Vorrei vedere quando ti spogli e ti vesti

sa e bardh’e kuqe ti më ishe quanto bianca e rossa tu sei Dish beja një manjat ullinjë Vorrei fare una mangiata d’olive sa më pëlqen embri jote Nin quanto mi piace il nome

tuo Nino

14.

Gjërshít Le ciliege Dish beja një manjat gjërshì

Vorrei fare una mangiata di ciliegie

mosnjarì gja Nini ime i’ nessuno come Nino mio è Dish beja një manjat thene

Vorrei fare una mangiata di cornetti

1 Questa ragazza non sa che spesso “una buona moglie fa un buon mari-to”. 2 A’ fenestella. Chissà se Salvatore Di Giacomo, l’autore (siamo nel 1894) di Marechiare e cioè l’inno alla fenestella più famosa del mondo, cono-sceva questi versi arbëreshë! 3 Il nido è la famiglia. Il padre o la madre sono capaci di sacrificare la loro vita per i figli. Un figlio che tradisce il padre, ne decreta la condanna a morte.

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Parte II – Canti

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Nini më vuri amor çë kaha pesmbëdhjet vjet

Nino mi ha dato amore dai quindici anni

Një mac trëndafile Un mazzo di rose Nin ka buzët e kuqe si kapile

Nino ha le labbra rosse come una giovane

Një mac manusaqe Un mazzo di viole kulordhëroz ka ato faqe color di rosa ha quelle gote

15.

Të gjishe e të vishe Lo spogliarello

Dish bëhsha tarandishe Vorrei diventare rondine ka dera jote dish bëja falèn

sulla porta tua vorrei fare il nido

Dish shihja kur të’gjishe e të’vishe 1

vorrei vedere quando ti svesti e rivesti

sa e bardh’e kuqe ti më ishe quanto bianca e rossa tu sei Ti prirshe prap e më shihje mua Ti giravi e vedevi me më thoje “nin eja e fli me mua”

mi dicevi “nino vieni a dor-mire con me”

16.

Palumelja La farfalla

Dish bëhsha palumele Vorrei diventare farfalla ka shapka jote dish bëja falen

nel cappello tuo vorrei fare il nido

Kur nxirje shapkën e më shi-hje mua 2

Quando toglievi il cappello e vedevi me

thoje “Nenele eja ri me mua”

dicevi “Nennella vieni a stare con me”

1 Lo spogliarello. Insiste, il canto, sulle sensazioni erotiche suscitate dallo spogliarello fatto in casa. Del resto, sappiamo che le sue radici trovano riferimento perfino nelle scritture bibliche. 2 Il cappello. Un uomo che porta il cappello, një bur me shapkën, è un a-dulto, maturo e consapevole delle sue responsabilità; è anche un uomo di rispetto.

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Parte II – Canti

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17.

Callarele I nastri Dish bëhsha callarlàr

Vorrei diventare venditore di nastri

e callarèle dish shisja nga hor

e nastri vorrei vendere in ogni paese

më frëndon namurata e par

m’incontra l’innamorata prima

e më nget callarèlet me dor e mi tocca i nastri con mano

18.

Raja La collera Dish dija çë nëmën të bëra 1

Vorrei sapere che diavolo t’ho fatto

çë je e vogël e të mundi raja

ché sei piccola e t’ha vinto la collera

namuratin e kishe edhè m’e ke

l’innamorato l’avevi e ancora l’hai

sembu ka zëmbra tijë aí të ka sempre nel cuore suo egli ti ha

19.

Fiq e rrush Fichi e uva Dish dija çë nëmën të bëra

Vorrei sapere che diavolo t’ho fatto

fiq e rush ka vreshta ngë ti mora

fichi e uva nella vigna non t’ho preso

dardha muscarele ngë ti ngava

pere moscatelle non t’ho toccato

çë të mundi kjo malingunì ché ti ha vinto questa malinconia

1 Il battibecco. Nella vita di coppia il piccolo litigio è normale. Serve per allentare la tensione, per ridurre l’ansietà, per sdrammatizzare le preoccu-pazioni. Dopo la discussione, subentra la riconciliazione, che spesso rige-nera le passioni.

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Parte II – Canti

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20.

Bukura kapile 1 Bella giovane Bukura kapile ku do veç?

Bella giovane dove vuoi andare?

namuratin kuja do ja lëç?

l’innamorato a chi vuoi lasciare?

namuratin u dot e qenj pas

l’innamorato voglio portar dietro

Ka zëmbra do t’e nxier kur të vdes

Dal cuore voglio toglierlo quando morirò

21.

E lumëza ti Beata te

Çë je e bukura, e lumeza ti Quanto sei bella, beata te stanard me lulez më je stendardo con fiori sei Çë të kan hjé atò stali 2

Come sei leggiadra con quei gioielli

të djelën menat çë ti m’i ve domenica mattina che li indossi

22.

Me sikrin ka grika 3 Ca’ sigarett’in vocch’

Ç’isht i bukuri aí trim atí Quant’è bello quel giovane me sikrin ka grika e fare tim col sigaro spento in bocca merr një lumín e m’e piçón

prende un fiammifero e l’accende

1 La fedeltà. Siamo nel 2001 e, secondo l’Istat, le donne sono sempre più fedeli degli uomini. L’omo è omo, l’uomo è uomo, diceva rassegnata la povera Eugenia, una toscana di Pescia, che nella Milano degli anni ’60, morto il compagno di tutta la vita che l’aveva lasciata senza una lira, si arrangiava subaffittando le camere dell’appartamento. 2 La perfezione. Per fare bella la donna – afferma un detto – non bastano tre B, bella, buona e brava; occorre anche una D, la … dote! 3 L’accendino. Lui si accende un sigaro, ed ecco che lei gli si avvicina e soffia sull’accendino o sul fiammifero, spegnendolo; un gesto molto fem-minile, di grande seduzione.

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Parte II – Canti

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eren namurata e ja shuón

giunge l’innamorata e glielo spegne

23.

Çë kè? Che hai?

Dish dija çë kishe e çë më kè

Vorrei sapere che avevi e che mi hai

çë të mundi kjo malangunì 1 che ti ha vinto questa malinconia thom atëherë çë të bëra dimmi allora cosa t’ho fatto ma fiq e rrush ka vreshta ngë ti mora

ma fichi ed uva nella vigna non t’ho preso

Ti namuratin e kishe edhè m’e ke

Tu l’innamorato l’avevi e ancora l’hai

sembu ka sëmbra jote aí të ri

sempre nel cuore tuo quello ti sta

24.

Më mban zëmbrën Mi hai rubato il cor

Ti ngë ka keç mosgjë ka u Tu non devi avere nulla da me e u ka kem shum ka ti ed io devo avere tanto da te më more zëmbrën e më mban ti

mi hai preso il cuore e me lo tieni tu

Si kat’e bënjë pa zëmbër u? Come devo fare senza cuore?

25.

Lumi Il fiume Dish bëja një barkë rami Vorrei fare una barca di rame e të pëskuòr dish veja ka lumi 2

e a pesca vorrei andare nel fiume

1 La malinconia. A volte la malinconia t’aggredisce senza un motivo appa-rente; un po’ è colpa del dna avuto in eredità; più spesso è il prodotto di tante piccole punture di spillo, che alla lunga, addensandosi, inducono a chiudersi in se stessi. 2 Il fiume. È improbabile che il Cigno abbia mai consentito una pesca qualsiasi. Forse il Saccione? Può darsi, anche se un po’ lontano. Magari il

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Parte II – Canti

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Kësana kapile ç’i ka hié djamandi

Di questa giovane cui dona il diamante

kjoft bekuòr jëma kur e tundi

sia benedetta la madre quando l’ha toccata

26.

Imi gjërì Parenti

Ni e ojë Ni Nino oh! Nino u e ti imi gjërì io e te siamo parenti Gjërí edhé gjitón Parenti e anche vicini di casa mos shko ka kjaca jonë non passare per la strada nostra Kur u shkonj ti më drin kumbjete

Quando passo tu mi getti confetti

gja kur bie bora floq floq

come quando la neve cade a fiocchi

27.

Maqaner 1 Macchianera

Nini bën vaganin Maqaner Nino fa il vaccaro a Macchianera isht e punon me një prëtkar sta arando con un aratro Të djel menatë çë vjen Rur

Domenica mattina che viene a Ururi

vjen ka aí tratur si kal kurëtùr

viene per quel tratturo come cavallo corridore

Vagani çe më vjen të djel menatë

Il mandriano che viene domenica mattina

më ka haré ke bie ngaluor grat

è contento di portare a cavallo le donne

fiume pescoso è ancor più remoto, chissà: lo Skumbini o altri, che si per-dono nella notte dei ricordi. 1 Il riposo. La domenica mattina perfino il cow boy si concede un po’ di riposo e “scende in città” con tutta la famiglia, altero nell’esibire le sue donne, la moglie e le figlie. Per esse, è un’occasione per evadere dalla routine e farsi conoscere.

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28.

Mulliri Il mulino Nini ime vajti ka mulliri Nino mio è andato al mulino e pati një qamàt ka mugënàri

ha avuto una chiamata dal mugnaio

Nini ime vajti Koltort Nino mio è andato a Colletorto e pati një qamàt shum e fort

ha avuto una chiamata molto forte

29.

Rripi 1 La stringa

Vajëta të lidhia këpucët e m’u këput rripi

Stavo allacciandomi la scarpa e s’è spezzata la stringa

lëmëni të këndonjë ke më hipi

lasciatemi cantare ché mi son venuti i nervi

si të hipi e’ të kallónj

come ti son venuti fatteli passare

ke prapa ders ime ti ngë këndon

ché dietro la porta mia non canti

30.

Kalashumi 2 La chitarra

Ncën ncën bën kalashumi Nzën nzën fa la chitarra dilni trimaz ke do këndomi

uscite giovani ché vogliamo cantare

1 La lega. Lidhja, che qui è usato come semplice verbo, legare, è in realtà una stupenda parola arbëreshe, che indica i legami, i vincoli, le unioni, le alleanze, qualche volta anche le … combriccole. 2 La parola giusta. Un vecchio detto, appreso a Milano, recita: “Il Signore ci ha fatti con due orecchie ed una bocca sola, acciocché possiamo ascol-tare molto … e parlare poco”. Non è proprio una facezia, perché è un con-siglio che non tutti riescono a seguire. Però capita che, esagerando, non si dice manco quella parola giusta, per aridità d’affetti o anche per pudore o per cattivo orgoglio: “Ti voglio bene”, alla ragazza, alla propria donna, alla madre.

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do t’këndomi këngëzat e ng’e dimi

vogliamo cantare canzoni e non le sappiamo

këto kapile na ngë dimi t’e laudhomi

queste giovani non sappiamo lodare

31.

Ime kushërì Mia cugina Mirë si vjen ime kushërì Benvenuta o mia cugina vjen e të këndon kushëriri i par

vieni a cantare per te il cugino primo

Vjen e të këndon kush të do mir

Vieni a cantare per te chi ti vuol bene

si gja luleza ndë primavèrë come un fiore in primavera

32.

Aq dish thoja 1 Tanto vorrei dir Aq dish bëja, aq dish Thoja

Tanto vorrei fare, tanto vorrei dire

Kush të tha Nin ke ngë të disha mirë 2

Chi t’ha detto o Nino che non t’amavo

shkon e përshkon e të varenj passi e ripassi e ti guardo sa parsh bën, u të pënzonj

per quanti passi fai, io ti penso

33.

Mëmë çë më bëre 3 Madre che mi hai generato Mëmë çë më bëre të bën

Madre che mi hai generata a fare

1 La pazienza. La donna che t’ama ti lascia andare su e giù e con pazienza attende il momento opportuno. 2 “Amore e gelosia si fan sempre compagnia”. 3 La vita. “Anch’io finirò, come tutti, senza sapere perché son venuto al mondo. Ogni tanto passo in rassegna dottrine ed ipotesi e non mi riesce di trovare uno che giustifichi questo strazio. Non c’è nulla che soddisfi que-sto desiderio immenso. Quando il Cristianesimo mi dice di chiedere con umiltà e fervore, sento dentro di me che desidererei davvero di sapere. Ma quelli che credevano di sapere non m’hanno saputo dire nulla di certo”. Così annotava Giuseppe Prezzolini nel 1962.

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ke aí trim më jep shum pen ché quel giovane mi fa soffrire më jep pen e pasjun mi dà pena e passione Trimazët çë paç Rur ng’i paç gjakund

I giovani che ho visto a Ururi non li ho visti altrove

34.

Vemi ka kisha 1 Andiamo in chiesa Vemi ka kisha nga menat

Andiamo in chiesa ogni mattina

pë t’shomi atë namurat per vedere quell’innamorato Vemi ka ajo Shë Mëri Andiamo da quella Madonna e nga dit thomi një Avemarì

e non sappiamo dire un’Avemaria

Vemi ka aj Sën Andon

Andiamo da quel Sant’ Antonio

e “thona ti dëstinin jon” e “dicci tu il destino nostro”

35.

Zilja La campanella Zilja bie ka kisha La campanella suona in chiesa eja koramand ke doj mesha

vieni cuore amante che è iniziata la messa

36.

Dish të puthja 2 Vorrei baciarti Bukur kapile ti më je Bella fanciulla tu mi sei 1 La confessione. Gli arbëreshë di Ururi non hanno fatto in tempo a diven-tare buoni cattolici. Per lungo tempo stanno lontani dalla chiesa, poi, a Natale ed a Pasqua, cercano di recuperare. A Pasqua, il frate confessore venuto da lontano deve fare gli “straordinari” perché davanti al suo con-fessionale c’è la coda degli uomini. Le donne, invece, accettano di confes-sarsi dal parroco, con il quale c’è un’intesa più solida. 2 Il bacio. Quanto tempo è passato dal famoso bacio di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman nel film Casablanca ! Nei film di oggi, più che baciarsi, si vedono due bocche che si aprono e si chiudono come il rostro delle o-che olandesi quando sono ingozzate per ingrassare più in fretta. Un buon bacio non deve trasmettere odori o sapori, ma soltanto il fiore delle sensa-zioni, la dolcezza dei pensieri profondi, il piacere della seduzione.

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Parte II – Canti

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dish të puthja e ngë më le

vorrei baciarti e non me lo permetti

Më thua jo ke jo Mi dici no no ke i mëma e tata çë ngë do 1

che c’è mamma e papà che non vogliono

37.

Një këngë a la qeftana 2 Una canzone alla chieutana Dish thoja një këngë a la qef-tana

Vorrei dire una canzone alla chieutana

dish veja ndë ng’ishi jëma

vorrei andare se non ci fosse sua madre

I thaç: “Te ku vajti njoramama?”

Le dissi: “Dove è andata la signora suocera?”

“Mori gun e linkë e vajti ka mëma”

“Ha preso gonna e camicia ed è andata dalla madre”

38.

Dho’ Manuvej Don Emanuele Dish bëja një kalashum skaeri Vorrei fare una chitarra e kordat dish ja vuja gjith acari

e le corde vorrei mettere tutte d’acciaio

Ka një bijë dho’ Manuvej Karieri

Ha una figlia don Emanuele Cariero

e ndë ngë me dhëft mua ja marrët dialli

e se non la darà a me gliela prenda il diavolo

39.

Di pultrun 3 I due poltroni 1 “Non sempre quel che è giusto ci piace”. 2 Chieuti. V’è una certa predilezione verso le donne di Chieuti, al contra-rio della repulsione verso quelle di altri paesi altrettanto arbëreshë, Porto-cannone, Montecilfone … Difficile risalire all’origine di questi sentimenti, ma qualche cosa dev’essere pure accaduto ! 3 Innamorati ma poveri. Un detto lëti suona così: Dio li fa ed il vento li accoppia; in verità, il termine “poltroni” – equivalente a nullafacenti – è

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Parte II – Canti

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Tëndishe ojë tëndishe Tëndishe oh! tëndishe ti pa linjë e u pa këmishe

tu senza càmice ed io senza camicia

u kuqón di pultrun si sono uniti due poltroni ti pa brek e u pa gun

tu senza calzoni ed io senza gonna

40.

Të dashur i rrajuór 1 Amore e odio

Vajta sipër ka hora Me ne andai sopra il paese e frëndojta të bëkurën e incontrai l’amata tekur krehshi lesht. mentre si pettinava la chioma Gjith shpirti më bëri dritë tutta l’anima mi si illuminò dish’e laudhoja e ng’ dit’e laudhoja;

Volevo lodarla e non sapevo lodarla;

dish’e thoja hënë e re volevo chiamarla luna nuova ish’e re ma ishi me nejë; era nuova, ma era nebulosa; dish’e thoja kalandrore volevo chiamarla calandrella kalandrore çë do har; calandrella affamata; dish’e thoja ftonjë e bardh

volevo chiamarla cotogna bianca

ish’e bardh e e kalbët; era bianca e marcia; dish’e thoja shpat e rëgjënd

volevo chiamarla spada d’argento

e rëgjendë ma e lig; d’argento ma falsa; dish’e thoja vashë e re.

volevo chiamarla fanciulla giovane.

“E lumja gjuha jotë, oj trim,

“Felice la tua lingua, giovane,

çë me dijte të më laudhoje”. che hai saputo lodarmi”. alquanto raffinato. È frequente l’uso di neologismi nel vocabolario arbë-resh, rimasto fermo al sec. XV. 1 L’amante e l’amata. È uno dei canti, liberamente adattati, raccolti da Mi-chele Marchianò, Canti popolari albanesi delle colonie d’Italia, ed. Forni, pag. 15 ). A ben vedere, non si distacca dai canti tramandati a Ururi.

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Parte II – Canti

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Capitolo IX

Canti nuziali

41.

Ra e tretëza kumbor 1 È suonata la terza campana

Ra e tretëza kumbor È suonata la terza campana ngrihu nuse, ec vujë kurorë alzati o sposa, vatti a sposare xha ke nuse ti do veç poiché vuoi andare sposa mallin kuja do ja lëç? l’amore a chi vuoi lasciarlo? Do ja lëç mëmës jote Vuoi lasciarlo a mamma tua o do ja leç atija namurat?

o vuoi lasciarlo a quell’innamorato?

Do ja lë mëmës ime Voglio lasciarlo a mamma mia mëma mallin nge do mamma l’amore non vuole ke do bijën e sana ché vuole la figlia sua

42.

Ç’isht e bardhë 2 Quant’è bianca Ç’isht e bardh kjo shpí Quant’è bianca questa casa na mitomi gjak e gjërí

noi invitiamo consanguinei e parenti

Ç’isht i bardh ki sakun Quant’è bianco questo saccone çë na sbardhi fateza jonë

che ci ha imbiancato la fata nostra

Çë jan të bardha këtò makarnare

Quanto sono bianchi questi materassi

jan të bardha e të plota shum sono bianchi e pieni assai e dhëndri jone isht një ua-

1e lo sposo nostro è

1 La campana. Quando suona la campana per la terza volta, la sposa deve incamminarsi verso la chiesa, ma indugia, perché sa che uscirà per sempre dalla casa che la vide crescere. 2 La nuova dimora. La nuova casa degli sposi è bianca, è linda, è immune dalle impurità che le alterne vicende umane comportano.

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Parte II – Canti

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pùn 1 un guappo Çë jan të bardha këto vënzujë

Quanto sono bianchi questi lenzuoli

jan të bardha e shum fin sono bianchi e fini assai e nusja jone i një sinjurin

e la sposa nostra è una signorina

Ç’isht i bardh ki përmljet

Quant’è bianco questo primo letto

isht i bardh e shum i prer è bianco assai e lavorato E qoft një vajëz çë bëft nder

Possa essere una fanciulla che faccia onore

Ç’isht i bardh ki shtrat Quant’è bianco questo letto isht i lart sa një tur è alto quanto una torre e njera mot një djal bur

e al prossimo anno un bimbo sarà uomo

43.

Gjitanía 2 I vicini

Ç’isht e bukura kjo gjitanía jone Quant’è bella la vicina nostra lume kush e mer pë fqinjë beato chi la prende per vicina këndomi këndomi na gjërí cantiamo cantiamo noi parenti Këndomi na të di çë kimi hjé

Cantiamo noi due che abbiamo grazia

Erémi ka ajo drizë Giungiamo presso quel rovo na ze këmbtë e na derdhën përdhé

Ci prende i piedi e ci butta a terra

1 O’ uapp’e quartiere. Il guappo è il gradasso, l’arrogante, a volte il camorrista. Non è una buona cosa, ma la fantasia popolare ne ha fatto una sorta di eroe, un personaggio da ammirare ed emulare. 2 Il vicinato. In arbëresh è gjitanja, una parola che può indicare una co-munità ma anche una singola persona. A volte è più importante dei parenti stretti.

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Parte II – Canti

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Capitolo X

Lamenti funebri

44.

Mëma ime 1 Madre mia

Mëma mëma ime Mamma mamma mia çë mëmë kishëm na che mamma avevamo noi nani çë ti na lure ora che tu ci hai lasciato si ka t’e bëmi na come dobbiamo fare noi Mëma mëma ime Mamma mamma mia ç’isht e mira kjo fialë quant’è buona questa parola isht e mirë e mirë shum è buona e buona assai na del ka zëmbra me gjith dhëur

ci esce dal cuore con tutto il dolore

45.

Bija ime 2 Figlia mia

Bijë bija ime Figlia figlia mia çë ti bëre mëmës che cosa hai fatto a mamma lure onje e pronje hai lasciato qualsiasi cosa vure shendët e vulòve hai messo le ali e sei volata Bijë bija mëmës Figlia figlia di mamma si kat e bënjë mëma come deve fare mamma më lure këto gjaletëra ci hai lasciato questi ragazzi e bëjë e thojë si do e fa e di’ come vuoi Bijë e bija ime Figlia figlia mia çë bijë kishja u che figlia avevo io 1 La madre. Quando la madre non c’è più, basta una sola parola per ricor-darla con affettuosa nostalgia: mëma, mamma, questa parola tanto magica, da avere lo stesso suono in quasi tutte le lingue. Quando la madre non c’è più si spezza per sempre quell’invisibile cordone ombelicale che ti ha dato sicurezza. 2 La rassegnazione. A volte la “ruota” della vita gira in maniera sbagliata.

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ti ngë kishe një par tu non avevi una pari pë vërtuta e bëlic per virtù e bellezza Bijë e bija ime Figlia figlia mia si ka shuhem mëma come devo spegnermi mamma ki isht dhëur çë ngë haròhet

questo è dolore che non si dimentica

e njera çë vdes ngë kanjohet e finché morirò non cambierà

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Capitolo XI

Poesie buffe e filastrocche

46.

Krëstënelja 1 Cristinella

Një bir çë kish tata Un figlio che aveva papà e spampanovi vareja 2 l’ha spampanato il vento i dha di gra të veja gli ha dato due donne vedove bite i shkovi gjith hareja

gli ha fatto passare tutta l’allegria

Një bijë çë kishi mëma Una figlia che aveva mamma i thojën Krëstënele si chiamava Cristinella ç’ishi ler putanele ch’era nata puttanella Krëstënelja rakamoj Cristinella ricamava e gjlpëra e cinoj e l’ago la pungeva me një bot vëri con un colpo d’ira malkovi kush e bëri 3 ha bestemmiato chi l’ha fatta Ojë më e ojë ta O pa’ o ma’ Krëstënelja do më lër Cristinella mi vuol lasciare vetëm do shkrehem 4 soltanto mi voglio sparare 1 Cristinella. Ed eccoci, finalmente alla lunga filastrocca di Cristinella, la fanciulla chiamata così solo perché fa rima con … puttanella ! Qui, tutta-via, non ci si vuol riferire alla nota figura della “cortigiana”, ma alla si-gnorinella un po’ civettuola e forse un tantino libertina. 2 La spampanata. Quando il vento è forte – cosa piuttosto usuale nel Sud – i pampini si diradano e si spandono nell’aria. A Ururi tutto quel che acca-de ha un riferimento negli eventi della natura, della vita contadina. L’immagine è insieme spiritosa e crudele. 3 La bestemmia. “Chi vuol imparare a bestemmiare, va in vacanza invece di seminare”. Le imprecazioni sono più una reazione ai propri errori che a quelli degli altri. Però, alcune invettive dell’arbëresh antico appartengono più alla serie delle parolacce, che, quando sono sagaci, diventano quasi tollerabili. 4 La disperazione. Quando la ragazza ti vuol piantare … sei disperato. E nella mente ti frullano i pensieri più cattivi, come il suicidio. Poi passa,

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Parte II – Canti

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prapa pojës do dritem dalla loggia mi voglio buttare “Qet tata jote “Zitto papà tuo ke isht ime mbes che è mia nipote e ti e bleve me tures e l’hai comprata con denaro Qet tata jote Zitto papà tuo ke i jat kushërì che è tua cugina e ngë t’e mer mosnjarì” e non te la prende nessuno” Ojë mëma Mele O mamma Mele ti martove një Krëstënele hai maritato Cristinella i dhe një Viçënxin le hai dato Vincenzino ç’isht i lart si pepëdhin 1 che è alto come un peperone Rau ranuqelja Rau la ranocchietta Viçënxini e Krëstënelja Vincenzino e Cristinella egje çë thot Roku senti che dice Rocco “Ranuqelja bëri ranokun” “La ranocchietta ha fatto il

ranocchio” Ojë më e ojë ta O ma’ o pa’ Krëstënelja mua më luri Cristinella m’ha lasciato vetëm kat vritem soltanto devo uccidermi prapa balkunit kat’dritem dal balcone devo buttarmi Krëstënelja rakamoj Cristinella ricamava Viçënxini e cinoj Vincenzino la pungeva i stovi një bot vëri le è venuto un colpo d’ira e malkovi kush e bëri

e ha bestemmiato chi l’ha fatta

Shkojëtën di gra të veja Sono passate due vedove pët e shkoj gjith hareja perché sfumasse ogni allegria Qet tata jote Zitto papà tuo ke ajo isht ime mbes ché quella è mia nipote e kjeti mbler me tures

ed è stata comprata con denaro

Viçënxini e Maria Vincenzino e Maria per fortuna o per l’abilità di chi ti sta vicino: ma perché ti preoccupi, fi-glio? quella l’hai pagata fior di quattrini! e per di più è tua cugina! chi vuoi che la prenda? 1 I peperoni. A Ururi vien da ridere solo a pronunziarne la parola; il pepe-rone è la metafora di chi è un po’ troppo alto e un po’ troppo tonto !

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Parte II – Canti

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lart e posht ka masaria su e giù per la masseria ka masaria Luçerës nella masseria di Lucera sbrëunjatja ri prapa ders

la svergognata sta dietro la porta

Lal Engjëli palunar 1 Zi’ Angelo sbruffone rëvënovi këtë bukur djalë ha rovinato questo bel bambino e qevi Poxhë Mbërialë l’ha portato a Poggio Imperiale i dha një Krëstënele gli ha dato Cristinella çë doj dosarele 2 ché s’è rivelata puttanella

47.

Vashazët të Qeftit Le ragazze di Chieuti

Dish thoja një këngë arbëresh

Voglio cantare una canzone albanese

Qeft jan atò bukura vashaz A Chieuti vi sono belle ragazze kur vunjën a të nder kandush quando mettono quel velo duken gja plakëzat bujëresh sembrano come vecchie nobili

48.

Kapilet çë jan Rur Le ragazze di Ururi

Çë bukura kapile Qeft jan 3

Che belle ragazze a Chieti ci sono

Sa më të bukura jan Këmarin

Quanto più belle sono a Campomarino

Gunkuqe jan Munxhufun

Le gonne rosse son di Montecilfone

1 Il pallonaro. Il millantatore mette nei guai se stesso, ma anche i familiari e gli amici. Egli è tanto più pericoloso giacché non sa valutare le conse-guenze dei suoi atteggiamenti. 2 “Dalla padella nella brace”; më iki kaha shiut e më ra ka breshëri. 3 Ancora Chieuti. Ci risiamo ! c’è proprio un debole per le ragazze di Chieuti. Queste predilezioni non sono un’eccezione. Anche il Masciotta (cfr. Il Molise, vol. I) sostiene che le più belle ragazze del Molise sono a Campochiaro. In questo canto, tuttavia, si parla bene di tutti i paesi, altri-menti come farebbero le ragazze di Ururi ad essere le migliori ? Qui vige il detto: “fuori dal bosco non si fa legna”.

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Parte II – Canti

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e vinjën era mbë spiganard e profumano di rosmarino Brunete jan Porkanun

Le brunette son di Portocannone

Rur çë m’e dredhën atë skarpin

A Ururi quando muovono quella scarpina

Kjeta Bajatë e njera Taven

Sono stato a Palata e anche fino a Tavenna

Ma kapilet çë jan Rur ng’i gjen

Ma le ragazze che sono a Ururi non le trovi

49.

Një thell lardh Una fetta di lardo

Ndë një mot çë bëja vaganin

Un tempo quando facevo il vaccaio

zonja me dha një thell lardh 1

la padrona mi diede una fetta di lardo

e mora e e lura ndën një çëpun

l’ho presa e l’ho lasciata vicino ad un tronco

vaiti qifti e m’e rëzkovi

è arrivato lo sparviero e l’ha rosicchiata

Qifti çë bën rru rru Sparviero che fai ru ru ti hëngre lardhin e mua më dollën sit

hai mangiato il lardo ed a me son usciti gli occhi di fuori

50.

Kapileza mbë Rrusar 2 La giovinetta al Rosario

Kapileza çë vete mbë Rrusar La giovinetta che va al Rosario vete mëson si bëhet va per imparare a far 1 La pancetta. Una fetta di pancetta, lardh, in mezza pagnotta di pane fre-sco produce le giuste calorie per sostenere il duro lavoro nei campi. Quale scherzo più diabolico che il trovarla rosicchiata dal nibbio ? 2 Il Rosario. Si recita il Rosario nel Vespro e per le donne è un’occasione per evadere dalle mura domestiche. Come appare gentile questa giovinetta che s’alza presto la mattina della domenica, per tener pulita la casa nel giorno di festa, che ti pettina con cura, senza dimenticarsi di farti la scrima alla Valentino !

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Parte II – Canti

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amor all’amore Kapileza çë ve nënd linjë

La giovinetta che mette nove camicie

e njetër çë me ve, duket si rëxhin

e se ne mette un’altra, sembra una regina

e meraveje bën horës jone e meraviglia fai al paese nostro

Kapileza çë ngrihet të diell menat

La giovinetta che s’alza la domenica mattina

e gjith mbashatat do bënjë vet e tutti i servizi vuol fare lei fshin a të shpi e më bën a të shtrat

scopa quella casa e mi fa quel letto

krohën atò lesh e më bën a të shtek

pettina quei capelli e mi fa quella scrima

51.

Kapileza e bëgat 1 La giovinetta ricca O ti kapileza bëgat O tu giovinetta ricca ja u namuruove arvurit pa frut

ti sei innamorata di un albero senza frutto

Kishi një kole shpi me qangat

Aveva un po’ di casa imbiancata

Kishi një kole vresht e i vajti shtrut

Aveva un po’ di vigna e gli è andata distrutta

Kishi një skutëlar me kënat

Aveva una credenza con brocche

e mangu një tajur të haj buk 2

e neanche un piatto per mangiare

52.

Lauretja Lauretta

Lauretja sipër shtrat Lauretta sopra il letto 1 Chi troppo presto in alto sale … Quando una ragazza ricca va sposa ad un giovane “spiantato”, spesso questi è anche con “la testa fuori posto”. Ed allora son dolori, perché tanto è duro e difficile costruire una ricchez-za, quanto facile dissiparla. 2 “Nascer povero è una brutta cosa, ma è peggio per chi lo diventa”.

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Parte II – Canti

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e Xhaçindi ndën shtrat e Giacinto sotto il letto Maçja bën miau Il gatto fa miao “Dil Xhaçí ke dolli djalli”

“Esci Giacinto che è uscito il diavolo”

Lauretja laj skutinat Lauretta lavava i panni Xhaçindi drij pështimat Giacinto lanciava sputi i tha “gjalé ecus gli ha detto “ragazzo va via ti çë djallin do ka u?” tu che diavolo vuoi da me?”

53.

Prifti i plak 1 Il prete vecchio Tik e tak Tic e tac na u martua një prift i plak si è sposato un prete vecchio mori një nuse e re ha preso una sposa giovane e bën fëmijë ka di e ka tre e fa figli a due e a tre

54.

Munxhufuni 2 Montecilfone

Çë hor e shumtuor ishtë Munxhufuni

Che paese brutto è Montecilfone

ka aí sordh mal ku mosnjëhe-rë një varé frin

su quel tozzo monte dove mai un vento spira

burrat kan gjith shapkën mbë cip

gli uomini hanno tutti il cappello a punta 3

grat mbulonjën bithën me një skutin

le donne si coprono il sedere con un pannolino

1 Il prete. Questa novella risale probabilmente ad epoca anteriore all’abolizione del rito greco-ortodosso, quando i preti avevano moglie e figli. Senza dubbio, l’accostamento del prete vecchio alla moglie giovane, già di per sé, suscita un’ilarità irrefrenabile. 2 La pagliuzza e la trave. È una satira degli Ururesi verso gli abitanti di Montecilfone, i quali, però, restituiscono la stoccata con i versi successivi ! Ma i poveri Ururesi hanno un bel da dire sulla “pagliuzza nell’occhio” altrui, che è nulla rispetto alla loro trave ! 3 Il berretto a punta. Gli stradioti (cfr. Ururi si trova .. Vol. I, pag. 16 n. 2), famosi guerrieri mercenari, portavano un berretto a punta. Vuoi vedere che i Montecilfonesi ne sono i discendenti?

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Parte II – Canti

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55.

Ujët e Rurit L’acqua di Ururi I mjer kush vete pë nuse Rur

Povero chi va a cercare sposa a Ururi

ngë ka një kole ujë të pije një her

non ha un po’ d’acqua da bere manco una volta

ujët e ngjedhën me një tajur

l’acqua la raccolgono con un piatto

atejë e këtejë nga çimitier qua e là in ogni pozzanghera

56.

Sën Kriq 1 Santa Croce Vajëta të martohsha Sën Kriq

Sono andato a cercare sposa a Santa Croce

bora udhën e vajëta Kazalveq

ho sbagliato strada e sono andato a Casalvecchio

Mora një namurat e më vëdiq

Ho preso un’innamorata e mi è morta

Mora njetër e më ra keq

Ho preso un’altra e mi s’è ammalata

57.

Skumandili Il fazzoletto

Vajëti të martohshi Qeft Anja

È andata a sposarsi a Chieuti Anna

e Xhulit ja prori mala fërtuna

e a Giulio gli si è girata contro la fortuna

trëzorin e gjeti ka qana

il tesoro l’ha trovato nella piana

e skumandilin vuri a la guapuna

e il fazzoletto ha messo come i guappi

1 Scongiuri. Se un ururese, malgrado abbia letto questi versi “satanici”, osa avventurarsi in quel di Santa Croce a cercar moglie, come minimo deve munirsi degli strumenti anti-iettatura più adeguati !

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58.

Pilindáqi ka faleja Il pulcino nel nido Kishi një bir Kolmaría Aveva un figlio Nicolamaria ishi gja pilindáqi ka faleja

era come un pulcino bagnato nel nido

ishi gja rrusht ka drija era come l’uva nel tralcio e dukshi gja furkati ka pareja

e sembrava come forca nella siepe

59.

Më luri namurata 1 Mi ha piantato l’innamorata

I mjeri u çë më luri namurata!

Povero me che mi ha piantato l’innamorata

Ta kjar do vete edhé nga dita

Piangendo voglio andare anche tutti i giorni

Kur më frëndon me bën “shkata shkata”

Quando m’incontra mi fa “crepa crepa”

e më çëmon gja derku ka karíta

e mi stima come fossi un maiale al trogolo

60.

Dhëuri barkut 2 Il mal di pancia

Vajti pë ndër detit Andò per mare Gjeti tre kupez Trovò tre coppe një me kjumsht una con latte një me mjalt una con miele një me zor una con budella Kjumshtin e pivi Il latte lo bevve Mjaltin e lëpivi Il miele lo leccò Zort i vuri ka cipi Le budella le pose in cima 1 Meglio invidia che pietà. È un vecchio detto che non ha latitudini. Il po-vero giovane piantato dall’innamorata suscita pietà e … ilarità. Nel dramma, egli resta solo, come un cane abbandonato dal padrone. 2 Il bambino. Il mal di pancia del bambino è sempre una preoccupazione delle madri. Qui vi sono ben tre metodi, uno più “infallibile” dell’altro.

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draprit alla falce pët’i shkoj dhëuri barkut perché passasse il mal di pancia ksana krjatur a questa creatura

61.

Dhëuri barkut [e dita] Il mal di pancia [n. 2] Ishën tre motra C’erano tre sorelle me drapërin pë ndër dorës con la falce in mano Bërën tre dhamate bar Fecero tre covoni d’erba e dritën pë ndër detit li gettarono in mare Deti u trubua Il mare s’intorbidò e barku djalit u rëqarua

e la pancia del bimbo si rischiarò

62.

Dhëuri barkut [e treta] Il mal di pancia [n. 3] Kur të dhemb barku Se hai mal di pancia ec ka lal Marku va da fratel Marco ke të stonë një bot tamburi che suona un colpo di tamburo e të shkon gjith dhëuri e ti passa ogni dolore

63.

Dhëmbi i vjetër 1 Il dente vecchio Tarandishe hirindhone Rondine di buona volontà të jap dhëmbin e vjetër, eme të re

ti do il dente vecchio, dammelo nuovo

eme të dreqët si qirì

dammelo dritto come una candela

eme të fort si çendrún

dammelo forte come un chiodo

ke ka ha bukën si tërún

ché devo mangiare il pane come fosse torrone

1 Il dentino. Il primo dente che cade dev’essere conservato con cura, altrimenti non potrà rinascere più forte di prima.

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64.

Ka çami e ka puthëmi 1 Romperemo e baceremo Ni e ojë ni Ni e oh! ni ka ngënjomi një lëti 2 inganneremo un forestiero ka i çami ragjén gli romperemo l’orcio ka i puthëmi të ren gli baceremo la nuora ka i çami kënatën gli romperemo la brocca ka i puthëmi namuratën gli baceremo l’innamorata ka i çami butijën gli romperemo la bottiglia ka i puthëmi edhè të biën gli baceremo anche la figlia

65.

Kush hipën e kush kallon 3 Chi sale e chi scende Kush hipën e kush kallon 4 Chi sale e chi scende e dhon Mikej i kumandon è don Michele che comanda i kumandon dharasu comanda da lontano eren mëma e e qen a spasu vien la mamma e lo porta a spasso a spasu ka xhardini a spasso nel giardino me një vest vëlutini con un vestito di vellutino e qen a spasu kaha do lo porta a spasso dove vuole

1 Scherzoso e audace. L’antagonismo con i lëtí vien manifestato anche con la ninna nanna. E così si trasmettono al bimbo i sentimenti di una secolare competizione, che da grande lo coinvolgerà in prima persona. 2 L’inganno. È del tutto normale per un arbëresh ingannare un lëtí, un fo-restiero, che incarna l’avversario per antonomasia. Però, in fondo in fon-do, le diverse “rotture” che gli vengono promesse non sono poi così gravi! 3 Una melodia dall’osservatorio familiare. A volte la chiara coscienza del-le cose della vita è ritenuta un prodotto del carattere fatalista delle civiltà orientali. E tuttavia, diciamolo, quant’è bello rifugiarsi nel libro del desti-no, dov’è tutto scritto, piuttosto che credere che sia il “caso” a dominare gli eventi! Però, la madre arbëreshe non lascia i figli nelle oscure braccia del destino. Li segue sempre e trasmette loro continui messaggi di fiducia. 4 “Il mondo è fatto a scale, chi le scende e chi le sale”.

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66.

Kostandini i vogël Costantino piccolo

Costandini i vogël Costantino piccolo si të prëmten u lé di venerdì è nato si të shtun u pakzua di sabato è stato battezzato si të djel u martua di domenica si è sposato si të hënën i erdhi letra di lunedì gli è giunta la lettera ke kish vej pë suldat 1 per andare a fare il soldato “Eç bir e paç urátën “Va o figlio sii benedetto e tre vjet qofshën tre dit” e tre anni siano tre giorni”

67.

Ullinjët e zeza 2 Le olive nere Rino Rino te ku vajëte? Rino Rino dove sei andato? Vajëta pë ujë e më rodhi vuca

Sono andato per acqua e il barile è colato

Luca bir te ku isht? La pozzanghera figlio dov’è? Mëma ime e terti djelli Mamma l’ha asciugata il sole Djelli bir te ku isht? Il sole figlio dov’è? Mëma ime e zuri reja

Mamma l’ha nascosto una nuvola

Reja bir te ku isht? La nuvola figlio dov’è? Mëma ime i prapa malit Mamma è dietro il monte E çë të miraz jan ka aí mal?

E cosa c’è di buono in quel monte?

Jan ullinjët e zeza si gja sit e dhëndrit jone 3

Ci sono le olive nere come gli occhi dello sposo nostro

1 Il servizio militare. Dura tre anni la coscrizione obbligatoria voluta dal governo piemontese; sono interminabili. 2 La curiosità. Questo ed alcuni altri canti rivelano la mano femminile, perché prevale il sentimentalismo delle espressioni. Quando, invece, do-mina la mano maschile, v’è più ironia. 3 Però “gli occhi neri si fan guardare, quelli verdi fanno innamorare” !

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Parte II – Canti

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68.

Kashandua 1 L’altalena

Kumbora madhe, kumbora vogël

Campana grande, campana piccola

Kush vëdiqi? Ndoni Çangetës

Chi è morto? Antonio Cianghettεs

Kush e kja? Motra Me Chi lo piange? Sorella Filomena Si e kja? Bir, biri motrës Me

Come lo piange? Figlio, figlio di sorella Filomena

Një puat me gjimavé Un piatto di cac’e ov do te hami na të tre vogliamo mangiarlo noi tre Një puat me fërtat Un piatto di frittata do ja qemi zonjës Makulát

vogliamo portarlo a donna Immacolata

Një puat me makarune Un piatto di maccheroni do ja qemi zonjës Sundine

vogliamo portarlo a donna Assunta

Një puat me kanëlin Un piatto di caramellina do ja qemi zonjës Durin

vogliama portarlo a donna Dorina

Një butijë me rësolie Una bottiglia di rosolio do ja qemi zonjës Mundórje

vogliamo portarla alla Signora di Montorio

Një butijë me fërnè Una bottiglia di fernet do ja qemi zonjës Raké

vogliamo portarla a donna Rachele

Një butijë me ferokín Una bottiglia di ferrochina do ja qemi zonjës Karulín

vogliamo portarla a donna Carolina

Një di e tre Un, due e tre 1 Il nonsense. Nessuna bambina al mondo, fuorché quelle d’Ururi e forse degli altri paesi arbëreshë conosce un canto così stupendo, per accompa-gnare il ritmo dell’altalena. Per questo è resistito fino ad oggi. È intramon-tabile. È un nonsense superbo. Quant’è gustosa questa filastrocca, quant’è divertente la puntuale elencazione dei doni alle maestre, che le bambine portano loro a Natale o a Pasqua!

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kalló lestu përdhé scendi subito a terra

69.

Qifti paparúni 1 Sparviero crudele Qifti qifti paparúni Sparviero sparviero crudele 2 Tata vajti ka patrúni Papà è andato dal padrone mëma vajti të skalísi mamma è andata a sarchiare erruri qifti e e cimbísi 3

è giunto lo sparviero e l’ha pizzicata

e cimbísi dal e dal l’ha pizzicata pian piano ti je pel e u jam kal

tu sei giumenta ed io sono cavallo

e cimbísi qet qet l’ha pizzicata quieto quieto ti je mëzë e u jam mulét

tu sei cavallina ed io sono un muletto

e cimbísi ca më fort l’ha pizzicata un po’ più forte ti je ka e u jam lop tu sei bue ed io sono mucca e cimbísi ndën ndën l’ha pizzicata sotto sotto ti je i ngost e u pa ngrën tu sei sazia ed io sono digiuno

70.

Viku i’ngusht Il vico stretto Shkonj e përshkonj ka ki vik i’ngusht 4

Passo e ripasso per questo vico stretto

Shoh di kapile te ku lonjën bashk

Vedo due giovanette che giocano insieme

Një e martomi ndë Pashkvet e një ndë gusht

Una la sposiamo a Pasqua e l’altra in agosto

Njëja e japmi ca kasht e Ad una diamo della paglia ed 1 Il nibbio. Nell’antica terra delle aquile i rapaci dovevano essere proprio molto diffusi, a giudicare dalla frequenza con la quale ritroviamo qifti nei canti. 2 “papas” Antonio Bellusci traduce paparúni con “rosso e bello”. 3 La sarchiatura. Le donne povere vanno a sarchiare, cioè a sminuzzare la terra, estirpando le erbacce. 4 Il vico stretto. Sono parecchi i vichi stretti a Ururi; uno è addirittura de-nominato con questo nome.

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Parte II – Canti

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njetra ca dushk all’altra un po’ di foglie secche

71.

Jëmni të pi Datemi da bere Shkonj e përshkónj ka kjo gjtanì

Passo e ripasso per questo vicinato

shoh di kapilez te ku rinjën ndën hié

scorgo due giovinette che stanno all’ombra

u i lipa xharrën “Jëmni të pi”

ho chiesto la giara:“Datemi da bere”

Më than “Eja ri ca her me ne”

Mi hanno risposto “Vieni a stare un po’ con noi”

72.

Isht o ngisht 1 Incertezza

Tëndan ojë tëndan Tëndan oh! tëndan Vajëtëm pë nuse e ngë na dhan

Siamo andati a cercare sposa e non ce l’hanno data

ngë na dhan ke ng’e kishën

non ce l’hanno data ché non l’avevano

na ng’e morëm ke ng’e di-shem 2

non l’abbiamo presa ché non la volevamo

73.

Katërinia ka balkuni Caterina sul balcone

Rruk, rruk bën piçúni Ruk ruk fa il piccione Katërinia ka balkúni Caterina sul balcone “Ridhë, ridhë lal Savéri “Corri, corri fratel Saverio ke Katërinia çan bukjérin” 3

ché Caterina rompe il bicchiere”

1 Il dubbio. Non sapremo mai se la sposa c’era (e non ce l’hanno data) o non l’abbiamo voluta (perché non era di nostro gusto). 2 Forse “non ogni male viene per nuocere”; u derdh ujët e ra ka lakrat. 3 Il segnale. Qual è il segnale di un bicchiere che viene rotto di proposito? Una decisione? Una ribellione? Una conferma?

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Parte II – Canti

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74.

Vandilja Il grembiule Ojë mëma Cile Oh! mamma Zile Çë qen k’ajò vandile? Che porti in quel grembiule? “Qenjë një trendafile” “Porto una rosa” Dheme mua çë jam kapile Dalla a me che sono giovane

75.

Lesht a la Umberta 1 I capelli alla Umberto Ç’isht i bukuri Xhani Com’è bello Gianni me lulen ka xhaketa con il fiore sulla giacca me lesht a la Umberta con i capelli all’Umberto e Xhani lariolà e Gianni lariolà

76.

Dolli djelli Iesc’ o’sol Dolli djelli kaha Pallata Esce il sole verso Palata me një par këpuce të arta con un paio di scarpe d’oro me një çotu kalamari con una tazza di calamaio pë dhëspjet a tjia masari per dispetto di quel massaro E masar e masarún E massaro e massarone me një zet e pes arxun con venticinque garzoni Kush hipën e kush kaón Chi sale e chi scende e dhën Andóni i kumandón e don Antonio li comanda

77.

Straçalani ve kuror 2 Straccialano si sposa 1 La moda. Farsi tagliare i capelli come re Umberto va di gran moda. Um-berto giovane ha un paio di baffetti leggermente cadenti ed i capelli corti, pettinati con una bella piega all’insù ed una profonda scrima sulla destra, basette corte che lasciano vedere bene gli orecchi piuttosto a sventola. 2 Marzo. È imprevedibile, può esservi un bel sole al mattino e poi alla sera diluvia. Cantava S. Di Giacomo: “torna a chiovere, schiove; ride o’ sole

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Bie shi bie bor Piove o nevica Straçalani ve kuror Straccialano si sposa ve kuror të djel menat si sposa di domenica me një bukur namurat con una bella innamorata

78

Një uì Pari o dispari

Një uì Sì o no Një martì Un martì Gjth njarì Ciascheduno Vete mbë shpì Va a casa sua

79.

Këtù o atì 1 Qua o là Një këtú Uno qua Një atí L’altro là Gjith njarí Ciascheduno Vete mbë shpí Va a casa sua

80.

Viçënxelja 2 Vincenzella

Gruja lidhën flet e buri shtipën is

La donna lega foglie e l’uomo pesta calce

Ojë ti Viçenxele zëmbrën mos me ngjit

Oh! tu Vincenzella il cuore non toccarmelo

Eja malvaxh eja malsór

Vieni malvagio vieni montanaro

cu l’acqua”. Porta con te l’ombrello a marzo, non ti fidare, è un mese an-ticonformista. 1 La fine dei giochi. Quando qualcuno della compagnia decide di cantic-chiare questo refrain, è giunta l’ora di ritirarsi, ognuno nella dimora della propria famiglia. I ritardatari sono chiamati dalle mamme a gran voce e fino a sera si odono i loro nomi urlati dagli acuti femminili, che diventano via via impazienti. Poi, improvvisamente, scende il silenzio. 2 Ritmo alternato. I primi due versi sono leggermente più lenti del ritornel-lo. Chissà perché i Malsi, gli abitanti delle impervie montagne, sono acco-stati ai malvagi!

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Parte II – Canti

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ndë kat’ë jap zëmbrën sembu dor e dor

se devo darti il cuore sempre una mano nell’altra

Ngë m’burton ke mosnjari ngë të kërdhon

Non importa se nessuno ti crede

ke zëmbrën me rufiánin u ngë t’e tërgónjë

che il cuore con il ruffiano non te lo mando

Eja malvaxh eja malsór

Vieni malvagio vieni montanaro

ndë kat’ë jap zëmbrën sembu dor e dor 1

se devo darti il cuore sempre una mano nell’altra

Eja us e lart mos hip vieni via e di sopra non salire ojë Vixënxele zëmbrën mos me ngit

oh! Vincenzella il cuore non toccarmi

Eja malvaxh eja malsór

Vieni malvagio vieni montanaro

zëmbrën kat me japsh sembu dor e dor

il cuore devi darmelo sempre una mano nell’altra

Fare ke vandohe, njari ngë të kërdhon

Senza che ti vanti ché nessuno ti crede

zëmbrën me rufianin u ngë t’e tërgonjë2

il cuore con il ruffiano non te lo mando

Eja malvaxh eja Malsor

Vieni malvagio vieni montanaro

zëmbrën ka me japsh sembu dor e dor

il cuore devi darmelo sempre una mano nell’altra

Gruja ishi e Prerit, buri isht i La donna era di Prerit e 1 La parola data. Per gli arbëresh, come insegna il Kanun di Lek Ducagji-ni, besa, la parola d’onore, è sacra. Il “malsor” non deve essere uno di pa-rola e perciò, a scanso di guai, è meglio non fidarsene. “Se vuoi il mio cuore, una mano nell’altra”, cioè se mi vuoi, sposami. In altre latitudini si suol dire: “mettiamo nero su bianco”; al mercato del bestiame gli allevato-ri concludono i contratti di compravendita con una lunga e vigorosa stretta di mano, che a volte si rivela più valida di un atto notarile; non sempre però. La parola prende valore dalla persona che la dà, come alcuni oggetti, che prendono il loro colore dalla luce che li investe. 2 Il ruffiano. Il “messaggero d’amore” è un ruolo molto antico. A volte può diventare una vera professione. Non v’è nulla di male a facilitare la conoscenza tra due giovani, che da soli forse non riuscirebbero a scoprire i lati in comune. Però a loro va assegnata la decisione finale.

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Parte II – Canti

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Përis l’uomo di Përis Ojë Viçënxele zëmbrën mos me mir

Oh! Vincenzella il cuore non prendermelo

eja malvaxh eja malsor

vieni malvagio vieni montanaro

zëmbrën kat me japsh sembu dor e dor

il cuore devi darmelo sempre una mano nell’altra

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Parte II – Canti

86

Capitolo XII

Poesie religiose

81.

Kalvari 1 Il Calvario

Gurdhi gurdhi cipi gurdhit

Pietra pietra punta della pietra

shkovi zonjëza Shë Mërí è passata la Madonna me tre sheg e tre stalí con tre melograni e tre gioielli “Mos pat birin ime?”

“Per caso avete visto il Figluol mio?”

“Ngë të pam e ngë të gjegjëm”

“Non l’abbiamo visto né sentito”

Mun Kalvari isht të shtun Sul Monte Calvario è sabato e tre gozhda më vurën e tre chiodi mi hanno messo një ndë krie një ndë fund uno sul capo l’altro ai piedi e m’e madheza ndë zëmbra. e il più grande nel cuore. Ra kumbora e u tund dheu

È suonata la campana e s’è scossa la terra

gjith spulket u mbuluón tutti i sepolcri son coperti travëçielet u zumbuluón i travicelli si sono scoperti

82.

Sën Andoni Sant’Antonio

Ç’isht i bukuri aí Sën Andón 2

Quanto è bello quel Sant’Antonio

1 La Madonna. La madre di Gesù è sempre in primo piano. Nell’immagine del Calvario, primeggiano i tre chiodi infissi a Gesù. Secondo la leggenda, il soldato romano che conficcò la lancia nel costato si chiamava Longino ed era di Lanciano. Si pentì ed abbracciò la fede. (v. Longino, soldato ro-mano di Lanciano, nella traduzione di D. Policella, ed. Itinerari - Lancia-no). 2 Sant’Antonio da Padova. Questo Santo, così amato e e insieme temuto a Ururi, è in grande considerazione, tanto che, in segno di devozione, gli

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Parte II – Canti

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gja djelli menatet ku’ spundón

come il sole la mattina quando spunta

do të jápmi meshë e litaní

vogliamo dedicarti messa e litanie

Graxien ka më bëç Sën Andon ti. 1

La grazia devi farmi tu o Sant’Antonio.

83.

Shtat kap lop 2 Sette capi di mucche

Ku vete ti zonjëza Sën Mërì ? Dove vai o Madonna? Vete ka ato shtat kap lop

Vado verso quei sette capi di mucche

Rrufkoja e egër e mërajëza e but

Lattuga acre e finocchio tenero

Sisa të rjedhët si kunut

Il latte ti scorra come una fontana

Ururesi vestono per alcuni mesi i bambini con il saio simile a quello del Santo. 1 I canti e la rapsodie arbëreshë di tono religioso sono rari; ma anche il canto popolare evita di porre l’accento religioso sulla matrice poetica. 2 La nutrice. Si va fino ad Atessa in cerca di una buona nutrice, quando il latte materno manca. E pensare che c’è questa formula così semplice!

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Parte II – Canti

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Capitolo XIII

La diaspora

84.

Dheu jonë sa i ëmbël La nostra terra così dolce

Ojë Morè ojë Morè Oh! Morea oh! Morea zëmbra na u bë si fillë pè

il cuore si è fatto come fil di refe

na do vemi us ka ki lëtí

Vogliamo andar via da questo latino

ke lotët na shkásën ka di ka di

ché le lacrime ci scorrono a due a due

e ndë Krishti vet do e se Dio vuole Turqit kat venjën us ató e ató.

il Turco dovrà andar via per sempre.

Atëherna na vemi us ka dheu jonë

Allora noi andremo nella nostra terra

ku bëmi si na thonjën trut e tonë 1

dove saremo liberi

Eja mirna Zoti jone ka ki dhe

Vieni a prenderci Signore nostro da questa terra

ke zëmbra na u bë si fillë pè

ché il cuore si è fatto come fil di refe

Mos do bite rimi më ka ki lëtí

Non volere che restiamo ancora presso questo latino

ke lotët na shkasën ka di ka di.

ché le lacrime ci scorrono a due a due.

1 La libertà. Non sempre le limitazioni e gli obblighi significano mancanza di libertà. Non possiamo lasciare in libertà i ladri e gli assassini. Non pos-siamo lasciar crescere le mal’erbe nei campi. Non dobbiamo confondere la nostra libertà con quella di tutti.

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Parte II – Canti

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Na do të dajmi përpara me aq haré

Noi ti verremo incontro con tanta gioia

kur isht çë ka vimi popá ka i pari dhé

quando sarà che verremo di nuovo nella terra preferita

e ndë Krishti vet do e se Dio vuole turqit kat venjën us ató e ató

i turchi dovranno andar via per sempre

pse ke na dot vemi us ka dheu jonë

perché vogliamo tornare nella nostra terra

ku bëmi si na thonjën trut e ton

dove saremo liberi

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Parte II – Canti

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Capitolo XIV

Canti della nostalgia

85.

Trendafile të lulëzor 1 Rose fiorite

Ka një kopsht In un giardino ishën aq lule c’erano tanti fiori gjith trëndafile tutte rose të lulëzor fiorite Një manusaqe Una mammola çë kish hjé leggiadra u’ngjata dorën ho allungata la mano e e mora me haré e l’ho colta con piacere Aq tarandishe Tante rondini më dillën përpara mi venivano incontro të më piesën per chiedermi ku i kisha marna dove le avevo prese Kur çë ja thaç Quando ho detto loro ke ng’ishën më che non ve n’erano più ja u mbuíhën shendët chiusero le ali e ran gjith përdhé e caddero per terra Kur çë errura Quando giunsi përpara shpis davanti a casa më pjesi mëma mi chiese mia madre çë lule isht? che fiore è? Një manusaqe Una viola mammola çë bëji hjé che faceva bella figura u’ngjiata dorën ho allungato la mano e t’e prura me haré e te l’ho portata con gioia 1 Rose fiorite. Questo testo e quello successivo Qifti arbëresh, costituisco-no le prime edizioni del leggendario canto della Manusaqja, attribuito, secondo Ettore Frate – che si è valso degli studi eseguiti del tedesco Ma-ximilian Lambertz – al barbiere di Ururi lal Djalli, Nicola Papadopoli, il quale ne avrebbe dettato i versi al Lambertz.

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Parte II – Canti

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86.

Qifti arbëresh 1 Sparviero albanese Ishi një dit të muoit prillit Era un giorno del mese d’aprile me një bukur djellë pa varé con un bel sole senza vento dukshi me si drelart motit si vedeva in alto nel cielo një qift çë flisi gja ne

uno sparviero che parlava come noi

e varéj me ató si e guardava con quegli occhi një tarandishe çë ishi e rí una giovane rondine Ti tarandishe, lule e re Tu rondine, fiore nuovo ti je imja e nëng’e dì tu sei mia e non lo sai e lulëzoke me aqë haré e ti pavoneggi con tanto piacere ke zëmbra ime je ti nani ché il cuore mio sei tu ora e mos njari qaset ka ti e nessuno s’avvicinerà a te Nani çë të pan këta sit e mi

Ora che ti hanno vista quest’occhi miei

ti je drita zëmrës ime tu sei la luce del cuore mio kaha vete u tija atë qenj dove vado, ti porto mos u trëmb ti, zonja ime Non temere, signora mia ke u ngë jam qift çë të ngënjen

ché non sono uno sparviero che t’inganna

Ti e di ke jam qift arbëresh

Lo sai che sono sparviero Albanese

çë kaha vete ngë bënj vresht

non pianto vigna ovunque io vada

1 Molti traducono Qifti con sparviere (o sparviero), altri con falco. Nell’albanese sqiptarë è tradotto con nibbio reale. Tutt’e tre sono della stessa famiglia degli Accipiter. Quel che è certo è che qifti è un rapace co-raggioso, un guerriero che conquista la preda con lealtà, senza inganni e, soprattutto, restando fedele al suo territorio, perché qifti non è una banderuo-la, ngë bën vresht kaha vete, non cambia “vigna” dovunque gli capiti.

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Parte II – Canti

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87.

Manusaqja 1 Viola mammola Ishi një dit të muójit prillit Era un giorno del mese d’aprile ishi një djell pa fare varé c’era un sole senza vento u’ngrijta sitë drelartë motit

alzai gli occhi verso l’alto del cielo

e paç një qift çë flisi gja ne

e vidi uno sparviero che parlava come noi

Ti zonja ime, thome çë ke?

Mia signora , dimmi che cos’ hai?

Ti po më kjà e kurra me harè Sempre piangi e mai con gioia Me mos u trëmb, jam qift arbëresh

Orsù non temere: sono sparviero albanese

çë kaha vete ngë bën vresht

che non pianta vigna ovunque vada

Ishi një kopsht plotë me lule C’era un giardino pieno di fiori gjithë arofaj e trendafile tutto garofani e rose një manusaqe çë bëj hié una violetta leggiadra u ngjata dorën e e mora me haré

allungai la mano e la colsi con gioia

Ti trëndafile, lulez e re Tu rosa, fiore giovane, xha ti je imja, njiarì ng’e di già sei mia, nessuno lo sa nanì çë të pan këtà sit e mi

adesso che t’han guardato quest’occhi miei

mosnjarì më ngë qaset ka ti

nessun altro più oserà avvicinarsi a te

1 Le radici. Ed ecco l’edizione unificata di Manusaqja, la romanza che è cantata da almeno quattro generazioni. Le parole struggenti e le note mu-sicali distribuite con arte sapiente ispirano una malinconica nostalgia, così diversa dalle canzoni italiane e napoletane e, forse, rintracciabile soltanto nella saudade del fado lusitano. Non si può dire d’essere d’Ururi se non si conoscono le note della Manusaqja. Ishi një dit të muoit prillit è anche un segno di riconoscimento, quasi una parola d’ordine, a Milano come a Montreal, a Roma come a Melbourne.

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Parte II – Canti

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E kur errura përpara shpis Quando arrivai davanti a casa më pjesi mëma: “Çë lule isht?”

mi chiese la mamma: “Che fiore è?”

“Një manusaqe, çë bëji hjè “Una violetta leggiadra u’ngjata dorën e e mora me harè

allungai la mano e la colsi con gioia

një manusaqe çë bëji hjè una violetta leggiadra më, u t’e prura me gjithë harè”

ma’, te l’ho portata con tutta la gioia!”

88.

Tarandishja 1 La rondine

Tarandishja çe vete ta vuluor Rondine che vai volando fërmohu do të thom edhè një fjalë

fermati ché voglio dirti ancora una parola

Dish bëja një letër e sukuruor

Vorrei spedire una lettera assicurata

e disha të ja qeje të parit amor

e vorrei che la portassi al primo amore

Dish bëja një manjat qep

Vorrei fare una mangiata di cipolle

e kush ngë mund më shohë i bjert sajet

e su chi non mi può vedere cada una saetta

Dish bëja një manjat gjërshi

Vorrei fare una mangiata di ciliegie

pa ke u e thom ke ti e di senza che te lo dica perché lo sai Dish bëja një manjat sparënjë 2

Vorrei fare una mangiata di asparagi

1 La manfrina. Tra una “magnata” e l’altra … si trova il tempo per presa-gire una “saetta” sul capo dei nemici. L’intercalare dish bëja një manjat, vorrei fare un’abbuffata, crea una specie di suspense sul verso che segue e che, inevitabilmente, è una nota scherzosa, sagace, ironica ed a volte sar-castica. Del resto, il “sense of humor” è comune a molti canti arbëreshë. Questo canto, tarandishjia, è fortemente imbastardito da parole lëtí. 2 Gli asparagi selvatici. Il profumo degli asparagi selvatici è insuperabile. Lessati o in frittata costituiscono un contorno di sapore amarognolo, che esalta l’appetito.

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Parte II – Canti

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kur shkon ki Nin i tundet dheu ndën

quando passa Nino trema la terra sotto

Dish bëja një manjat shkaróa

Vorrei fare una mangiata di scarola

fialën çë më tha Nini u ngë e harova

la parola che mi ha detto Nino non l’ho dimenticata

Dish bëja një manjat ftonjë 1

Vorrei fare una mangiata di cotogne

thome ndë më do ke u të dua

dimmi se mi ami perché io t’amo

Dish bëja një manjat mish 2

Vorrei fare una mangiata di carne

kam një njoramam si kulòn kishës

ho una suocera come colonna di chiesa

Dish bëja një manjat mollë

Vorrei fare una mangiata di mele

Nini isht i lart edhé i hollë Nino è alto e anche sottile Dish bëja një manjat rrush Vorrei fare una mangiata d’uva u pë tija Nin vete us trush io per te Nino esco di senno Dish bëja një manjat kulumbrì

Vorrei fare una mangiata di prugne selvatiche

si gja Nini ime ng’i njarì come Nino mio non c’è nessuno

89.

Lisi i that L’albero secco Dish bëhsha lis i that Vorrei diventare albero secco e qimja bite më qej pë ndën det

e dalla piena farmi portare al mare

1 Le cotogne arrostite. Sono eccellenti quelle di zia Lina, la sposa di lal Mikej Varanes, perché li cuoce nella stupenda cucina domestica che va a legna. La cotogna dev’essere piuttosto grande, rotonda, immune da paras-siti. 2 Gli antichi sapori. A Ururi i pasti si fanno sempre in casa, al massimo nella ristretta cerchia del clan. I maccheroni al sugo mangiati in casa d’altri non avranno mai il sapore ed il profumo di quelli cucinati dalla ma-dre o dalla sposa. I ragazzi d’Ururi non escono dal paese se non per andare a militare. Ed il mangiare diverso aumenta il disagio.

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Parte II – Canti

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ka aí kutin çë ku me lanjën grat

in quell’acqua dove lavano le lavandaie

e ka aì mal çë ngasën gjith varetë

e in quel monte dove spirano tutti i venti

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Parte III – Lule të ligja

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Capitolo XV

I Contemporanei

90.

E çe anat simbjet ! Che annata quest’anno!

(di Anonimo) E çe anat simbjet ! 1 Che annata quest’anno! Lenjë Lacroçit na e lun për-dhet

Il Legno della Croce ce lo hanno lasciato per terra

Aí Toci sbrëunjor Quel Tozzi svergognato luri Lenjë Lacroçin të vej ta nutuor

ha lasciato che il Legno della Croce andasse galleggiando

A’ kuatordhëç dë xhunjë Quel quattordici di giugno Gesù Krist ç’a strut u Mun

Gesù Cristo ha distrutto il mondo

Na u përgjegjë aí Falask Ci ha risposto quel Falasca “Një pizatúr di tumen skars”

“Una pesatura, due tomoli scarsi”

Na u përgjegjë aí Bërké Ci ha risposto quel Berché “Semna ime vajti ra përdhé”

“La semina mia è caduta per terra”

Na u përgjegjë aí Bëkín Ci ha risposto quel Becchino “Çë ruvin t’i vij semëns ime”

“Che rovina è venuta alla semina mia”

E Maqanerja lipi vëndet 2

E Macchianera chiedeva vendetta

1 Le calamità naturali. La grandine è una calamità grave, ma la siccità è peggio della grandine ! 2 La monocoltura. La stragrande maggioranza degli Ururesi pratica la mo-nocoltura, costituita dal frumento. Pochi alternano il granturco e le pianta-gioni di semi di girasole. La diversificazione si è del tutto fermata con il divulgarsi delle assicurazioni, che attenuano i danni e tolgono fantasia per

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Parte III – Lule të ligja

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E dho’ Nicola Tanasit i ra sajet

E a don Nicola Tanassi è caduta una saetta

Na u përgjegjë aí dho’ Matté Ci ha risposto quel don Matteo “Masaria ime ngë ka më hjé”

“La masseria mia non ha più valore”

Na u përgjegjë aí tre dhë kop Ci ha risposto quel tre di coppe “Mora ottantamila lir e pok më mbortë”

“Ho preso ottantamila lire e poco m’importa”

Zonja Luvsele kishi Haré

La signora Luisella aveva piacere

na bëri lesht ala bebé ha fatto i capelli alla bebé E u përgjegjë aí dho’ Manuvé

Ci ha risposto quel don Emanuele

“Më stëriovi Kandaup me gjith Maqaner”

“Mi ha distrutto a Cantalupo e pure a Macchianera”

Dho’ Manuvéj çë ishi i bëgat Don Emanuele era ricco breshari ja u duk një pickat tabak

la grandine sembrava un pizzico di tabacco

Na u përgjegjë aí dho’ Miklin

Ci ha risposto quel don Michelino

“Një pundatur vulláu ime” “Una siringa fratello mio” Na u përgjegjë aj Musëlin Ci ha risposto quel Musolino “Mua më luri vetëm atë kole Çinjë”

“A me ha lasciato solo quel po’ al Cigno”

Na u përgjegjën atò Kandallupar

Ci hanno risposto quelli di Cantalupo:

“Vajëtëm e kuortëm grur e gjetëm bar”

“Siamo andati a mietere grano ed abbiamo trovato erba”

Na u përgjegjë aí Fratiel Ci ha risposto quel Fratello “Më stëriovi gjith atë kole kapjel”

“Mi ha distrutto tutto quel po’ di capello”

Na u përgjegjë aí Mënguç Ci ha risposto quel Domenico “Ngë kam çë t’ jap atire dive mushq”

“Non ho da dare alcunché a quei due muli”

Kazaliqani bëj vëndet Casalpiano voleva vendetta la ricerca di altre colture. Del resto, “carestia prevenuta è per metà evita-ta”.

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Parte III – Lule të ligja

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E Munsiku bëri gjith kjaca net

Ed a Montesecco ha fatto piazza pulita

E ojë ti dho’ Nxhua E oh! tu don Giovanni shi çë ka bëç ke hora kja

vedi che devi fare ché il paese piange

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Parte III – Lule të ligja

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Un grande avvenimento: l’acquedotto

di Michele Tunes

91.

Kënga e akuedotit 1 La canzone dell’acquedotto She ka ki çinkuantún Vedi in questo cinquantuno na rane keq gjth këtò uajun

si sono ammalati tutti i bambini

pë akuedotin çë na mangon

per questo acquedotto che ci manca

kimi gjth dhëurin e stomkut ka hora jon

abbiamo tutti mal di stomaco nel nostro paese

pë këtë ujë çë nëngì per quest’acqua che non c’è pupulaxjuna Rrurit ka faqen si hi

la popolazione di Ururi ha la faccia color cenere

Don Etri isht e bën shum Don Ettore sta lavorando molto pët vinjë akuedoti pë ktë pu-pulaxjun

per far venire l’acqua per la popolazione

Atë çë bën Don Etri pë ne

Quello che fa Don Ettore per noi

e bën me gjth zëmër e haré lo fa con il cuore e con allegria pupulaxjuna Rrurit e mirón shum

la popolazione di Ururi lo ammira molto

e do tërgonjë Don Etrin k’ajo kumún

e vuol mandare Don Ettore in comune

Vejën ka aí pus i lart me kuartáre e kusí

Andavano al pozzo in cima con brocche e pentole

e aí i bëri atë fotografì e lui ha scattato la fotografia e vurën ka gjith xhurnaet e k’aí Mesaxher

l’han pubblicata su tutti i giornali e sul Messaggero

e fati jon alarmovi atë minister

e il nostro caso ha allarmato il ministero

Guverni mbavi një riunjun e Il governo ha tenuto una 1 Su Ettore Frate, ved. Ururi si trova …, vol. I, pp. 269-272

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pë Rurin riunione e per Ururi stanxjovi shtat qind miliún

ha stanziato settecento milioni

Don Etri tërgóvi një telegram Romë

Don Ettore ha mandato un telegramma a Roma

p’të vijën di sënatur ka hora jon

per invitare alcuni senatori nel nostro paese

Don Etri bëri sak e Fuok

Don Ettore ha fatto sacco e fuoco

e një menat bite erruri aí karobót

ed una mattina è arrivata l’autobotte

Kishëm mot çë ishëm pa pir Eravamo da tempo assetati e pë Don Etrin pivëm ca ujë të mir

e per Don Ettore abbiamo bevuto un po’ d’acqua buona

Kapile burra e gra lukoni Fort

Ragazze uomini e donne gridate forte

Viva Don Etri çë na bije atë akuedot

Viva Don Ettore che ci farà portare l’acquedotto

Këtë storje çë këndónj naní Questa storia che ora è cantata e shkruóvi i biri Tunes ç’i thonjën Miklí

l’ha scritta il figlio di Tunes che si chiama Michele

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Scende zi’ Ndonio di Antonio Licursi 1

92.

Kallón ci Ndóni 2 Scende zi’ Ndonio

Kallón ci Ndóni me aidhurín Scende zi’ Ntonio sull’asino Gjegjen traínet sámzi ka karérat

Si odono i carretti appena per le strade

Pas më fort shprishen ka dherat

Poi più forte si spandono per le terre

Kaha mali kallon ci Ndoni me aidhurin

Dal monte scende zi’Ntonio sull’asino

Çuop çuop e dal e dal me dhëurin 3

Zoppicando e piano piano per il dolore

Hin ka hora e kjacë pë kiacë

Entra per il paese e strada per strada

Lukòn “rapa katalonjë e mulunac”

Grida “rape, catalogne e meloncelli”

Djelli samzi kaha Qefti lehet

Il sole appena verso Chieuti appare

Çavi albë “ngriheni ke ka shurbehet!”

È spuntata l’alba: “Alzatevi che si deve lavorare”

1 Nato a Ururi nel 1932, emigrato a Montreal. 2 Il verismo. C’è molto verismo in questo quadretto di Antonio Licursi, che ritrae l’asino di zi’ Ndonio con stile prettamente verghiano. Anche zi’ Ndonio è stato giovane ed ha riempito la sua vita di desideri, di passioni, di speranze e di illusioni. Poi, nonostante tutto, è andato avanti, è invec-chiato senza volerlo, pur sapendo che s’invecchia e che non può fermare il processo della vita. Quanta simpatia c’ispira quest’asino, ritratto della pa-zienza e della tolleranza, della semplicità e della rassegnazione. E quale contrasto con “Don Girolamo”, il capriccioso e insofferente asino di Don Matteo, il prete opportunista, intrigante, cultore di diversi peccati capitali e autore di ingiustizie crudeli, non ultima la cessione dell’asino ribelle ad una tribù di zingari! (cfr. Francesco Jovine, Signora Ava, ed. Einaudi, 1958, pp. 98-100). 3 L’osmosi tra l’asino e zi’Ndonio è il vero snodo di questa lirica. Quest’asino è il ritratto della pazienza; in fondo, di pazienza v’è sempre tan-to bisogno! (cfr. il racconto “L’asino di S. Giuseppe” di Giovanni Verga).

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Kallònjën grat e dheut me shatin ka patelet

Scendono le braccianti con la zappa sulle spalle

me bukën ka stjavoku, me mënestrën ka tjelet

con il pane nel tovagliolo, la minestra nelle scodelle

Një pas njetër ven ta folur e ta ngar

Una dopo l’altra vanno parlando e camminando

E prëz kamsándit kush thot avdhje e kush rrusar

E vicino al Camposanto chi dice litanie e chi rosari

Ujur sipër pastúnit ka rahi Kalvarit

Seduta sui panni da lavare alla salita del Calvario

Lavanaria varén kush vjen e i thot të parit

La lavandaia guarda chi arriva e dice al primo

ndë do e qenjë e ngaluot njera Çinjë

Se può portarla sul carretto fino al Cigno

atë, strukaturën e tinën ku ka bënjë finjën

Lei, la tavolozza e la tinozza ove preparare la liscivia

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Il lirismo di Giovanni Jannacci tra contestazione e pessimismo

93.

Hora ime 1 Paese mio

Hora ime isht e bukura shum Il mio paese è molto bello Pse ka aí spërun isht një shkëmbëlun

Perché in quello spigolo c’è una grossa pietra

Te ku u loja posa isha uajún

Dove giocavo quand’ero bambino

Pë ktë hora ime isht e bukura shum

Perciò il mio paese è bello assai

Psé aí shkembëlun ka aí sperún

Perché quella grossa pietra in quello sperone

Më mban po uajún Mi fa tornare bambino Ma shoku ime çe vajti dharasu

Ma il mio amico che è Emigrato

Pë një kole buk Per un po’ di pane E u vjet pa spërun e pa shkëmbëlun

Ed è rimasto senza sperone e senza pietra

Më dhëshpëlqen, më vjen të kjà

Mi spiace, mi vien da piangere

Ma dot e thom: Ma debbo dirlo: u bë plak shum è invecchiato molto

1 Il ricordo. Quando un emigrato torna a Ururi e rivede il paese natìo rin-novato, esteso, diverso, dice subito: “È cambiato, ora è molto meglio …” E si congratula con quelli che son rimasti: “bravi, avete fatto bene”. E tut-tavia una profonda malinconia lo invade e non sa rendersene conto. Poi comprende: il suo paese, quello lasciato da ragazzo, non c’è più. E allora si sforza di riconoscere almeno qualche volto in quelli vecchi come lui. Nulla. Loro, invece, lo riconoscono e lo compiangono: “Però, com’è in-vecchiato”, pensano, ma non glielo dicono per non mortificarlo. Ma ecco un angolo, una grossa pietra, un segnale inequivocabile, rimasto là immu-tato nel tempo, lo riporta indietro ed egli, finalmente, “ritrova” il suo pae-se e gli si riconcilia.

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Parte III – Lule të ligja

104

94.

Tekur bie bora 1 Quando scende la neve Bie bora përdhé Scende la neve Zëmbra më bëhet e vogël e vogël Il cuore si fa piccolo piccolo Ngë kam haré Non mi esalto kur bora bie përdhé quando scende la neve Ngë kam haré pse pënzonjë Non mi esalto ché penso ata çë gjagjë ngë kan a coloro cui manca qualcosa edhé ndë kan bukën të han anche se han il pane Buka ng’isht gjithë ajo çë duhet Il pane non è tutto duhet edhe zëmbra e mir occorre essere contenti dentro çë kat qeshënj per far contenti pët jeçë mir per star bene pët keçë haré per esaltarsi kur bora bie përdhé quando scende la neve

1 Nevica. Questa seconda lirica di G. Jannacci è inquietante. La prima ne-ve della stagione invernale induce a diversi sentimenti. Il contadino so-stiene che la neve rende fertile la campagna. Ai bambini porta euforia e pure ai grandi, nei quali questo ricordo infantile non si spegne; a volte pe-rò vi sono ben pochi motivi per essere euforici ed allora la neve è più che altro un fastidio in più. Il mistero della vita ha influenzato molto il pensie-ro di Giovanni Jannacci. Noi viviamo in un mondo tenebroso, dove siamo nati senza averlo chiesto, dove viviamo pur non essendo noi ad averlo fat-to, in mezzo ad un mare di guai che risalgono all’origine dell’umanità. Eppure, siamo responsabili di ciò che siamo e non ne capiamo il perché. In queste tenebre, l’unica luce è la nostra ragione, che ci illumina come un fiammifero in una notte fonda. È lei la nostra speranza, è lei la compagna ideale della nostra solitudine.

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Parte III – Lule të ligja

105

Pensieri di un emigrante

95.

Hora ime ng’e harruór Paese mio indimenticato

(di Anonimo) Hora ime ng’e harruor Paese mio indimenticato, të shihja shum e vogël e ‘shtu të lura,

ti ho lasciato perché ti sentivo scialbo,

më dukshe pafat e‘shtu dish’ të haroja,

ti ho snobbato perché ti vedevo scabro,

p’atá vike t’ngushta, per i vicoli stretti e storti, p’ató kjaca t’ljera, per le strade anguste e lerce, p’atë faunj çë frin i ngrohtë ka gushti,

per il libeccio che d’estate ti tortura,

p’atë ujë e pusit çë vjen era,

per il tanfo dell’acqua di pozzo,

pë’djersin jot’ i keqë, per l’afrore delle stalle, pë’dheun i that, pa male e pa det,

per la tua terra senza valli e senza mare,

p’atá rahe, vetëm ca bar e mangu një lis,

per le spente colline pelate,

p’atá të mjert, çë ngë kan një nesër,

per la tua povertà senza futuro,

p’atë disáxhë ‘shtu i madh, ç’isht i bir e monotoníës,

per il disagio della tua monotonia,

p’atá sí çë ng’do varenjën e ató vesh çë ng’do gjegjënjën,

per le meschinità figlie del bisogno,

p’ató qaqra shum t’ngjata, çë ngë kan hjé

per il pettegolìo invadente,

psé më nxirje ajërin … perché mi asfissiavi … e fluturojta aftu, i lir si një qift.

e son volato via in alto, libero come uno sparviero.

Tekur të paç popà, isha Quando ti rividi

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Parte III – Lule të ligja

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edhé trim, ancor giovane ngë kishe më atë kambanár i vetëm,

tu fosti senza l’unico campanile,

ng’ishën më kumbora e ma-dhe e kumbora e vogël

senza la campana grande né quella piccola

e gjithsena më dukshi më t’ shumtuór.

ed ogni cosa pareva più abbrutita.

E fluturojta prap më aftu,

E volai via indietro ancor più in alto,

ikja k’aqë shumë ligjërí kundru kujtojët emí

offeso per tanta ferocia sui miei ricordi

e kërdhoja të t’ kisha harruor.

e credevo di averti dimenticato.

Ma naní çë jam burrë, tekur të shohën kta sit emí

Ma ora che son uomo e ritorno da te

e marr vesh atë gjuhë sa e mirë

e riascolto l’idioma che mi è familiare

e errurënj përpara asaj çë kjeti shpía ime

e indugio davanti a quella che fu la casa avita

atëherna shohë Kjacën e Ma-dhe, çë më duket e bukur

allora il mio sguardo scorre per via Larga, che mi appare amena

e zëmbra më ikën sikur u gjëndsha ndëmesna qerrëvet.

e il cuore mi galoppa come fossi tra i carri in corsa.

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Parte III – Lule të ligja

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Parte terza

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Parte III – Lule të ligja

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Parte III – Lule të ligja

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Lule të ligja

Fiori del male

di

Giuseppe Fiorilli

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Parte III – Lule të ligja

110

Parathanë

Ktá lule të ligja kjetën pënxuor arbërisht, k’ajó

gjuhë folur ka horat arbëreshe të Mulisit e speç-jalmendu të Rurit, tekú shkova të parët pesmbë-dhiet vjet të gjellës ime, çë më bastovën pët mbaja ndër mendë një sheku fjalë.

Pë ktá mutive, prëfërirta një traducjun letëral, çë lé të kapirën vjershit e eviton ke aí çë lixhon kat vur prëz poezin lëtí me atë arbëreshe, çë ng’isht atë çë kisha ka koça.

Ngë kan ç’t shohën me ata Les Fleurs du mal të Baudelaire e ngë gjeni mosgjë çë mund i qaset - mëse, mundjét, psé aí poet të tetqindit shekull i pënzovi mipari ke u - e ashtù ngë më bënjën hjé, ma më japën drit ata vjersh çë lixhoja tekur u i-sha trim.

Ta shkruor ktá Lule të ligja u kuitoja të dhar-rasohshi e keqja e kisha spërënxen të lehshi e mira.

Pët lixhoni vjershet, ju kat mësoni mir alfabe-tin arbëresh e kat kërkoni të flasni ta lixhuor. Qoftë e shkuor!

Giuseppe Fiorilli

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Prefazione

Questi Fiori del male sono stati pensati in ar-

bëresh, secondo il dialetto parlato nei paesi italo-albanesi del Molise e particolarmente in quello di Ururi, dove ho trascorso i primi quindici anni del-la mia vita, sufficienti per memorizzare una gran quantità di parole.

Per questo motivo, si è preferito una traduzio-ne letterale, che consentirà la comprensione dei versi ed eviterà al lettore inutili accostamenti ad un poetare in lëtí fuori luogo e al di là delle inten-zioni che mi hanno indotto a questa ulteriore pic-cola avventura.

Nulla hanno a che vedere con i ben più noti Les Fleurs du mal di Baudelaire e quindi invano se ne cercherebbero le rassomiglianze - se non, forse, per l’idea che appartiene al grande poeta francese dell’ottocento -, anche se ciò mi darebbe non già ombra, ma lustro, con un velo, questo sì, di infinita nostalgia per quelle letture giovanili.

È pacifico che, nel comporre questi Fiori del male, vi è il desiderio di esorcizzarlo e l’augurio che dal male nasca del bene.

La lettura richiede la conoscenza dell’alfabeto arbëresh e la capacità di leggerlo con la corretta accentazione. Auguri!

g. f.

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Të shohur e ngë të varejtur Vete mbë këmbë ka stacjuna, shkon një train me një pel e plak, patruni ngë më sheh me sit ka hëna nget dreq, ikën si një flak. Më hipnjën, gjith shekuin do t’skunxhonj ngas përpara njera kur rahi soset, gjiunjët do t’më lënjën e dhëmbt shtrëngonj, kur ze fill trolli, gjaku më nxehet. Çan albë, zogjët zënjën fill e vulonjën, sa kta u zgjuon, gjenjën xha të hanjën, ka gushti gjith kta sa jan të mir, ju pres ka dimbri kur bëhet lestu arrësir, ndë ngë vdesni ditën ka bora, natën ngë ju gjegjën gjith hora. Del djelli, dharasu shuhen liharet, erren treni, mund ujem e hjati më ngjallet, trut më venjën us, sit më mbuihen, fle ujur e marr ëndrra ke bëgatem.

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Indifferenza Vado a piedi alla stazione passa un carretto con una giumenta vecchia il padrone non mi scorge con gli occhi alla luna; va dritto, fugge come una fiammata. M’arrabbio, tutto il mondo voglio sconvolgere vado avanti fin dove la salita termina, le ginocchia vogliono lasciarmi e i denti stringo, quando inizia la pianura, il sangue mi si riscalda. Albeggia, i passeri cominciano a volare, appena costoro si svegliano, trovano già il cibo, in agosto tutti questi quanto son bravi, vi aspetto d’inverno quando subito fa sera, se non morirete di giorno sulla neve, di notte non vi sentirà tutto il paese. Spunta il sole, lontano si spengono le luci, giunge il treno, posso sedermi e la vita mi riprende, la mente mi abbandona, gli occhi mi si chiudono, dormo seduto e sogno di diventare ricco.

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Të marrur zëmbrën

I lipa një kole miellë e ca suket pët bëja tim bijëve makarunet, bijët më hengrën mëse një dit, ka tjerit vdisjën me putit. Vajëta e ngjata popa dorën, më mori kurmin e më shuovi zëmbrën.

Shega Burri im, sa të kam haré. Zonja ime, u pë tja mund vete përdhé. Hami e pimi ka puati u bashk me tija, e prëomi ke me ne rri Shën Mëria. Sit e tona shohnjën bukën e njom, ja zëmi një muçkë e u haruom.

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L’usura

Gli ho chiesto un po’ di farina e del sugo per offrire ai figli i maccheroni, i figli han mangiato un giorno, negli altri morivano di fame. Sono tornata ed ho allungato di nuovo la mano, mi prese il corpo e mi spense il cuore.

Il melograno ovvero Infedeltà coniugale

Mio signore, quanto mi sei caro. Mia signora, per te potrei andare in rovina. Mangiamo e beviamo nel piatto io insieme con te, e preghiamo che con noi resti la Madonna. I nostri occhi vedono il pane fresco, gli diamo un morso e diventiamo estranei.

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Midhja

Ngrihem nga menat me zëmbrën shum e that, daj pët vete e mble misht, kur turnohem, ka shpija burri ng’isht; vjen nusja e me hié më lipën ca pjetrasin nd’e kam grastën; “e kam, ma samzi m’u lé një flet” ja u përgjegjësh, ma ng’isht e fërtet.

I dehur Ç’isht kjo rrajë çé më zé çë menatet njera kur vet’e flé? Psé do t’më qeç ka shubërtira, ndë gjella ime isht m’e mira? U të lipënj mëse ca ver lëje et’e vritet ki ikërshter.

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Invidia

Mi alzo ogni mattina con il cuore molto arido, esco per andare a comprare la carne, quando torno, a casa lui non c’è; viene la sposa e con cortesia mi chiede un po’ di prezzemolo se ne possiedo la pianta; “ce l’ho, ma appena mi è nata una foglia” le rispondo, ma non é vero.

Alcoolismo Cos’è questa rabbia che mi prende dalla mattina fino a quando vado a dormire? Perché vuoi portarmi a lavorare se la vita mia è la migliore? Ti chiedo solo un po’ di vino lascia che si uccida questo cristiano.

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Vetëm

Ju lura ktë hor e dhopu dizet vjet çë vajta me djers pë shubërtir m’e japni më t’ ligë e pa afet; ç’e bëra të bën gjith ktë ndërsir? Rrojta gjellën ime ta kërkuor një spërënxë, një hjat i mir; ma gjeta lisin im i harruor, vetëm si gja u, plak gja një ullirë.

Ka deti Ikën ka deti si një shquptat, vajza e djali kjan me trëmbasí, mëse ujku ka zëmbrën m’e that. “Mbullini sit e thoni një litaní”, i lukovi një k’ata di pa trëmbur, na u shtrënguon bashk e rrijtën qet. Varka zvërlovi ka një vend i shkëmbur, kur hapëm sit, na rra një sajet.

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Solitudine

Vi ho lasciato questo paese e dopo qua-rant’anni che son andato con fatica a lavorare me lo restituite più cattivo e senza affetto; a cosa è servita tutta questa fatica? Ho vissuto la mia vita cercando una speranza, una parola buona, ma ho trovato il mio albero dimenticato, solo come me, vecchio come un ulivo.

Scafisti Vola sul mare come una schioppettata, la bambina ed il bambino piangono dalla paura, solo il lupo ha il cuore così duro. “Chiudete gli occhi e recitate una litania”, gli urlò uno dei due senza paura, ci si strinsero assieme e stettero zitti. La barca sterzò in un punto roccioso quando aprimmo gli occhi, ci cadde una saet-ta.

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Sfutirtur

Ç’e kur çan albë vete me një parmendë sipër e ndën e dheu më bëhet si brum; jam u çë rruonj bukën, jo ti me atë pendë, çë vandohe ke di tre fjal më shum? Kur soset suketi, çë bën ndë ng’je ngost? Mësój: mund ha sa ngjanj dorën k’ajó kandin, ç’e do’t më japsh ndonjetër rrëspost? O merr bishtin e e bën si frustin?

Marr dhun Hëngra fuzille me mish e ca likëngë, ime shoqe sa dit bënj ka shpíja jon, peshk, bakallá e dhroqe me lëng, më vajti propiu mir ki matërmon. I mjeri im bir, thoj ajó njoramam, sa luke kat dërvinj ghith ditën, pët ket ka trjesa almenguna një mulnjam, di lakra t’nxet, një vend pët fler natën.

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Scherno

Fin dall’alba vado con un aratro su e giù e la terra diventa brulla; sono io che porto il pane, non tu con quella pen-na, cosa ti vanti che sai tre parole in più? Quando il sugo finisce, cosa fai se non sei sazio? Impara: posso mangiare appena allungo la mano a quella cantina, che mi vuoi dare un’altra risposta? oppure prendi la coda e te la dai come un frusti-no?

Falsità Ho mangiato fusilli con carne e un po’ di salsic-cia, mia moglie quanto sa fare in casa nostra, pesce, baccalà e pasta in brodo, mi è andato proprio bene questo matrimonio. Povero figlio mio, diceva la suocera, quante urla deve mandare tutto il giorno, per aver sul tavolo almeno una melanzana, un po’ di verdura calda, un posto per dormire la notte.

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Zonja jone

Zonja jone çë qofshe e bekuor, grua me zëmbrën e madh gja Shën Mëria, motër e art, mëmë sa me dekor, gja një lule ka aftari, rëxhinë ka shpíja. Ngë të njoh më si dhelpër ka karrera, derdhur përdhé si gja një strupjat, zgjeshur ka dimbri si gja ka primavera, me sit ka arrësira si gja një çikat.

Keqja e ligë Hin primavera ka parathirja, sa m’isht i ngroht ajëri pas dhimbrit, sa më pëlqen arofaj e trendafilja, sa më rëkrëon tramondi vespërit. Vete us drita e u shoh pa lihar, trut më dharasohen e zëmbra do t’më shqatonj, rri ndreq, rri ngjall, mirr gjith ktë Kalvar! Kraht m’u lodhën shum e gjella do t’më shkonj.

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Prostituzione

Signora mia che tu sia benedetta, donna dal cuore grande come la Madonna, sorella d’oro, madre con tanto decoro, come un fiore all’altare, regina della casa. Non ti riconosco quale volpe sulla strada, buttata in terra come uno storpio, svestita d’inverno come in primavera con gli occhi nel buio come un cieco.

Malattia inguaribile Entra la primavera dalla finestra, quanto mi è calda l’aria dopo l’inverno, quanto mi piace il garofano e la rosa quanto mi ricrea il tramonto nel vespero. Va via la luce ed io vedo senza lume la mente si allontana ed il cuore vuol scoppia-re sta' su, sta' sveglio, cogli tutto questo Calva-rio! Le braccia sono troppo stanche e la vita vuol lasciarmi.

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Rrajë

Dil ka shpíja, ec us ka sit emí, bëhu si gja nejë kur djelli del, zëhu gja kallamé me ca hi, rri jasht çë t’hënë njera t’djel. Ndë të shoh me lot, ngë të kam dhëur, ndë një të takarjon, u ja vete pas, m’u bë zëmbra e that si një gur, turnohu ka shpíja, si no të vras.

Të vogëlit Ndë do t’bëgaheç pa shubërtirë, kat keç sit e ftohta e duorit e that, pët mos t’marrsh jashta një dhëtir, kat japsh fatjaturvet mëse ca nxallat. E nd’eren ndo një djal çe do t’shurbenj, ipja një stambatë atija ç’isht m’i plak; ngë ja kërdhonj, mangu nd’e varenj, djali të kuston shum më pak.

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Collera

Esci di casa, va’ via dagli occhi miei, diventa come nebbia quando il sole esce, brucia come stoppia con un po’ di cenere, sta’ fuori da lunedì a domenica. Se ti vedrò piangere, non avrò pena, se qualcuno ti picchierà, gli andrò dietro, mi è diventato il cuore duro come una pie-tra. torna a casa, se no ti uccido.

Sfruttamento dei minori Se vuoi arricchirti senza lavorare, devi avere occhi freddi e mani tirate, per non avere fuori un debito, devi dare ai lavoratori solo un po’ d’insalata. E se arriva un bambino che vuol lavorare, da’ un calcio a quello più anziano; non gli crederò, neanche se lo vedo, il bambino ti costa molto meno.

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126

Jat e patrun

Dish loja me strumbijin ka karrera, ma tata im më tha ke kat punonj, dish ikja me shokët ka barrjera, ma tata im më tha ke kat rrëmonj. Rri sembu jasht me ktë malinguní, jo si ikërshter, ma si qen i rrajuor, e trëmbem ke kur vjen ka kjo shpí, ze fill e pi e sosën ta malkuor.

Marr gjakun Kam nje plagë e madhe shum, çë m’u hap sa im vullá kjeti vrar; m’e rruri sipër e më lé pa gjumë, ditën e natën më djeg si zjarr. Shkovi një muoj, u shua besa djemenat hera erruri si gja buk e ngridhur, u ngreva lart e tërhojta një shquptat e lava duorit me gjakun i rrjedhur.

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Padre padrone

Vorrei giocare con il ‘fazzoletto annodato’ sul-la strada, ma mio padre mi ha detto che devo lavorare, vorrei correre con i compagni nella ‘barriera’, ma mio padre mi ha detto che devo zappare. Sta sempre in campagna con quella malinco-nia, non come cristiano, ma come cane arrabbiato, ed ho paura che quando viene in questa casa, comincia a bere e finisce bestemmiando.

La vendetta Ho una ferita molto grande, che si è aperta appena mio fratello è stato ucci-so; mi è cascata sopra e mi lascia senza sonno, giorno e notte mi brucia come fuoco. È passato un mese, la tregua si è spenta ie-rimattina, l’ora è giunta come il pane lievitato, mi sono alzato ed ho tirato una fucilata ed ho lavato le mani nel sangue che scorreva.

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Vete us djelli

Sa shum më djeg djelli ka muoj gushtit, aq pak ja kam harè kur del menatet, pres mëse ke vete us drelart i motit, e ngë më dhëshpëlqen tekur murniret. Te kur erren novembri sa jam bekuor pse ditën më puthën aí djell i ngroht, ma lestu më fshihet shum më radhasuor e ngë m’e ren më ka kta patele të ftohtë.

Pisa “Ngë sheh sa ki shekull isht shum i lig”, ja tha populli Krishtit ka Kalvari, “pse ng’e stërrjon me të madhin kastig, e na lëbëron pë sembu k’aí i vrari!” “Kat rrini atjendu kur skalisni grurt”, Krishti ja u përgjegj , “isht mir ashtú, ndë me ti ligun ngë do vrasni kriaturt; ajó ng’isht drelart i motit, pisa rri ktú”.

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Tramonto

Quanto più scotta il sole nel mese di agosto, tanto meno mi piace quando si leva al matti-no, aspetto solo che tramonti su nel cielo e non mi dispiace quando si fa sera. Ma quando giunge novembre come sono bea-to perché di giorno mi bacia quel sole caldo, ma subito si nasconde molto più lontano e non raggiunge più queste spalle fredde.

Inferno “Non vedi quanto questo mondo è cattivo”, diceva il popolo a Cristo sul Calvario, “perché non lo distruggi col più grande casti-go, e ci liberi per sempre da quel demonio!” “State attenti quando sarchiate il grano”, Cristo gli rispose, “sta bene così, se con il cattivo non volete uccidere anche i bambini; quello non è in cielo, l’inferno abita quaggiù”.

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Pleqët

Bjenjënj lesht si gja flet të thata, gjunjët rrëkonjën me shum dhëur, sit mbulohen me hjé e katërrata e barku ze fill e duket si strukaturë. Të mjert kta tru çë kat më qenjën pas kur këmbt venjën ka nj’an e koçja ka njetër, gjuha më ngjitet e ng’isht e mir t’flas, mbjetet ca buk e njom e ndonjë lakër.

Vdeqja Kumbora madhe, kumbora vogël, kush vdiq? u mbuih njeter der, u hap njetër dhispiaxher, sa vjet kish? pjesnjën grat e bënjën kriq, kallovi brima ka ndonjë shpí e mjer. Zonja me drapërin i zezë ngë t’avizon, kur je e bredh një kole, vet rri radhasuor, ngë të lipen çë je e pënxon, e ndë ti adhënohe, lihari jote i xha shuor.

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Parte III – Lule të ligja

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Vecchiaia

Cadono i capelli come foglie secche, le ginocchia si lamentano per il troppo dolore, gli occhi si coprono di nebbia e cataratta e il ventre comincia a farsi come una tavoloz-za. Povera mente che mi deve seguire dove la gambe vanno da una parte e la testa dall’altra, la lingua si appiccica e non sa parlare, resta un po’ di pane molle e qualche verdura.

La morte Campana grande, campana piccola, chi è mor-to? si è chiusa un’altra porta, si è aperto un altro dispiacere, quanti anni aveva? chiedono le donne e si fanno la croce, è sceso il gelo su qualche casa sfortunata. La signora con la falce in nero non ti avvisa, quando scherzi un poco, ella resta lontana, non ti chiede cosa stai pensando, e se te ne accorgi, il tuo lume è già spento.

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Parte III – Lule të ligja

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Çikat

Kërkonj kullurin e zjarrit ka çumnerja, detit ka primavera, motit kur frin vareja, buzët e tua si trëndafile e re, sit e vajsë si manusaqe çë bën hjé, kuadrin e Shën Mëriës me gjakun i ngroht, qerres e kaltër e tjetrës e kuqe si një gjërshí; u kërkonj brënda kto të mjert sit emí e gjenj mëse ca neje e ftohte.

Mënguoj Rruoj sa shum jan të hapët ktá sí, u jam e të folënj, ngë më merr vesh ti? Mund jet ke ngë ze mangu një fjal ka gjith któ çë më dajën dal e dal? U jam i mir të mbanj nga sëkret, kat më kërdhoç, t’e thom qet qet, varé të hiç ka kto trut emi, të preonj, ndë ti ngë gjegjën, u ngë mund lukonj.

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Cieco

Cerco il colore del fuoco nel focolare, del mare in primavera, del cielo quando soffia la brezza, delle labbra tue come rosa novella, degli occhi della bambina come viola aggrazia-ta, del quadro della Madonna con il sangue cal-do, del carro celeste e dell’altro rosso come una cilie-gia; cerco dentro questi poveri occhi miei e trovo solo un po’ di nebbia fredda.

Sordomuto Bada a quanto sono aperti questi occhi, ti sto parlando, non mi stai ascoltando? Possibile che non afferri manco una parola di tutte queste che mi escono piano piano? Sono bravo a mantenere ogni segreto, devi credermi, te lo dico quietamente, cerca di entrare in questa mia mente, ti pre-go, se non ascolti, non posso urlare.

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Faunj

Ka tre dit çë ki faunj frin ka dherat, sipër botës e xheshur edhe e fler, lukon ka viket të ngushta e të ljer e derdhën ndo një pinxh ka karrerat. Hëna e re ngrihet ka i zezi motit, faunji frin me furje e të hin ka vesht gjith natën njera çë bëhet drit e pas ze fill popa e plëht të vete ka lesht.

Stërriohen liset Sa të bukura ishën ató lise plot me lënde, çë më bëjën hjé ka vapa gushtit, djelli samzi shkoj ka ndo një qand e rëgjënde e korsit vijën e puzojën ka hera vesprit. U zëh gjithsena, ng’i mosgjë më naní, ca grur më shum, ca xhirasole, di solde ka bënka e aq malinguní, zogjët vajëtën us e kollëzat mëse një kole.

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Libeccio

Da tre giorni il libeccio soffia sulle terre, sopra le zolle nude e dormienti, urla nei vichi stretti e sporchi e butta giù qualche tegola sulle strade. La luna nuova si alza nel buio del cielo, il libeccio soffia con furia e t’entra negli orecchi tutta la notte fino a quando si fa giorno e dopo ricomincia e la polvere ti va tra i capelli.

Distruzione di alberi Com’erano belle quelle querce piene di ghiande, che mi facevano ombra nel caldo d’agosto, il sole appena penetrava in qualche pianta d’argento e i mietitori venivano a riposarsi nell’ora del ve-spro. Si è bruciato tutto, non c’è più nulla ora, un po’ di grano in più, un po’ di girasole, due soldi in banca e tanta malinconia, gli uccelli sono scappati ed i corvi solo in parte.

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Ta harruor

Sa më pëlqej pët bëja juve gjagjë, sa ujë ju prura ka aí mullir, ju dhaç shum, ngë duojta maju mosgjë, ma naní çë illëza ime bëhet arrësir duhet shum pak pët më mbani me haré, lëmni ndo një muçkë buk, ndo një drudhez, mos marrni vesh të ligun, mos lipni psé, pres e m’e rrenjën mëse di fjal me hidhez.

Pa bënur mosgjë Vishem e zgjishem tre her e ngë vëllirem, ha e pi kur më vjen ndërmendë, vete sipër e ndën e ngë birem, aq ke më pëlqen ki kumandamend. Kur me thotë koçja façohem ka balkuni, shkon ndonjarí ta ikur e më pjesën gjagjë, ma lestu vete us, sino sdinjohet patruni, ngë mund llamëndohem pa bënur mosgjë.

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Ingratitudine

Quanto mi faceva piacere fare per voi qualcosa, quant’acqua vi ho portato a quel mulino, vi ho dato molto, non ho voluto mai nulla, ma ora che la mia stella diventa buia ci vuole ben poco per tenermi buono, lasciatemi qualche boccone di pane, qualche briciola, non date ascolto al maligno, non chiedetevi perché, aspetto e mi giungono solo due parole all’ortica.

Ozio Mi vesto e svesto tre volte e non mi avvilisco, mangio e bevo quando me ne ricordo, vado su e giù e non mi perdo tanto mi piace questo comandamento. Quando me lo dice la testa m’affaccio al bal-cone, passa qualcuno correndo e mi chiede qualche cosa, ma presto se ne va, se no s’arrabbia il padrone, non mi posso lamentare di non far niente.

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Ngë kërdhonj

Dish dija pse kjo zëmber ng’isht e mir të mundënj kto tru çë më bëhen si spaqir, sa dish gjegja prëfumin çë rëkrëon, sa dish shihja ndonjarí ç’e shuron, sa do t’kam bes ke kja ajó Shën Mërí, sa rrinjën sembu zgjuor kta sit emí, sa fort kjo dhëshpëracjun më lukon, sa dish kërdhoja ndogjagjë çë prëmdon.

Down Bija ime, sa mir të dishi mëma jot, zëmbra ime, kori mëmës çë rron pë tija sa të shoh sembu me gazë e maju me lot, çë krjatur e ëmbël, si buk bënur ka shpija. U e di ke ti më gjegjën e ngë më folën, e kur të puthënj me sit më haristisën, na u bëhe si kapile pse moti na shkon, ma mos u trëmb, ti je sembu vajza jon.

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Preghiera di un miscredente

Vorrei sapere perché la mia anima non è capace di vincere questa mente che mi appare come specchio, quanto vorrei sentire il profumo che ricrea, quanto vorrei vedere qualcuno che ne è guarito, quanto vorrei credere che piange quella Madon-na, quanto stanno sempre attenti questi occhi miei, quanto forte questa disperazione mi urla, quanto vorrei credere a qualcosa che viene promessa.

Down Figlia mia, quanto bene ti vuole la mamma tua, anima mia, cuore della mamma che vive per te quanto ti vedo sempre col sorriso e mai con lacri-me, quale creatura dolce, come pane di casa. Lo so che mi ascolti e non mi parli e quando ti bacio con gli occhi mi ringrazi, sei cresciuta come signorina ché il tempo passa, ma non temere, sei sempre la bambina nostra.

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Krushk padashur

M’erruri ka dera një krushk një her, trjesa ishi e vunur e samzi zjej kusía, ‘hir, hir’ ja tha im shoq, ‘c’isht qo manjer’, e mua xha më dhimbi gjith mëlshía. Brodhi me t’im bij e ja dha një kumbëlmend, morri një sexhe e hëngri e pivi gjithsej, ‘mund rri një par dit?’ më tha si një pëcend; m’erdhi turp e ja thac njera kosdej.

Prefike Kat kja pë një dhëur cë maju ngë shuhet, e mjera u, njera çë ki zjar ngë ja vete us, kat kja e kat lukonj njera çë ngë dihet, njera çë lot ngë mblushënjën ghjith ktë pus. Kur vdes ndonjarí sa isht i idhur, kat shkulënj lesht emi ta paguor, kat zgërvishënj ktë faqe e pritur parna ke më luri një gozhdë ka kto zorr.

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Ospite indesiderato

Mi è giunto alla porta un ospite una volta, la tavola era apparecchiata ed appena bolliva la pentola, ‘entra, entra’ gli ha detto mio marito, cos’è questa maniera’, e già mi doleva tutto il fegato. Scherzò con i miei figli e dispensò un compli-mento, prese una sedia e mangiò e bevve tutto, ‘posso fermarmi un paio di giorni?’ mi chiese come un pezzente; ebbi vergogna e gli ho detto fino a dopodoma-ni.

Prefiche Piangerò per un dolore che mai si spegne, povera me, fino a che questo fuoco non va via, piangerò e urlerò finché non fa giorno, finché le lacrime non riempiranno questo pozzo. Quando muore qualcuno com’è amaro, devo strapparmi i capelli miei a pagamento, devo graffiarmi la faccia tagliata come se mi lasciassero un chiodo nelle budella.

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Kur një vdes

Vejën gjindët ka viku ngusht një pas njetrit, burat me shapkën e zez, grat me facëlutunin, me faqen ka dheu e sit prapa tavutit e dal e dal mushëku tërhiji trainin. Ka Kisha Madh u tha mesha e kënduor e gjegjëshi ke sunoj aftu ajo kumbor, prifti isht sembu vet, mirr mbes, kur një ve kuror isht gjith si vdes.

Karçërat Vetëm, hin pak drit ka parathirja me hekur, ujur ka një taulin, jam e shkruonj një letër, shkruonj një poezí e harronj ke jam si vdekur, trut m’ikënjën ka moti e dukem njëtër. Ktu brënda jam i lir si gja kërcunji ka dardha, ngë mund më kapirni ju çë rrini patej, ju çë fleni sembu ndën vënxujë të bardha; një rëmur ka mashkatura e u sos gjithsej.

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Il funerale

Andava la gente nel vico stretto uno dopo l’altro, gli uomini col cappello nero, le donne col fou-lard, con il volto per terra e gli occhi dietro la bara, e piano piano il mulo tirava il carro. Alla Chiesa Grande si è detta la messa solenne e si sentiva che suonava alta quella campana, il prete è sempre lui, dammi retta, quando uno si sposa assomiglia al funerale.

Carcerato Solo, entra poca luce dalla grata di ferro, seduto ad un tavolino, sto scrivendo una let-tera, scrivo una poesia e dimentico di essere come morto, la mente corre nel cielo e sembro un altro. Qui dentro sono libero come il nocciolo nella pe-ra, non potete capirmi voi che siete di là, voi che dormite sempre sotto lenzuola bianche; un rumore di serratura e tutto è finito.

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Tëmbest

Kallon ka hora një ajër çë të fukon, rejat të zeza cë trëmbënjën sa i varen, shkrehën shkuptima e motin lumnon ka karrera ngë shkon mangu një qen. Rra gja dëluv shi bashk me breshër, Kjaca Madhe u bë si Çinja ka dimbri, pas na u hap moti, kujeta rra ka ki ajër e burrat vejën e shihjën cë bëri Sapistri.

Taramut Ng’adhënohem kur qeni ze fill e bajon, ngë vunj mendjen kur na dridhet parathirja, ma jap një luk kur trjesa më cumbon, e sdërpohem ka shkallët jashta ka shpija. Ikënj ka trolli plot me gjind ta lukuor, gjith prëomi ke t’na rruonj Shën Mëría e na shtrëngohemi prëz ka gjitanía e mbrëmet flemi përdhé dor me dor.

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Uragano

Scende sul paese un’aria che ti soffoca, nuvole nere che fa paura a vederle, spara un lampo e il cielo s’illumina, sulla strada non passa neanche un cane. Cadde come diluvio pioggia con grandine, Via Larga diventò come il Cigno d’inverno, poi si è aperto il cielo, la calma scese in quest’aria e gli uomini andarono a vedere i danni del Sape-stra.

Terremoto Non mi accorgo quando il cane comincia ad abbaiare, non faccio caso quando i vetri tremano alla fine-stra, ma dò un urlo quando il tavolo mi salta e mi precipito nelle scale fuori di casa. Corro verso la piazza piena di gente urlante, tutti preghiamo che ci protegga la Madonna e ci stringiamo insieme nel vicinato e la sera dormiamo per terra mano nella ma-no.

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Pesta

Sa na isht trëmendu, i m’i madhi kastig kur Krishti e tërgon ka faqja shekuillit atë pestë pa rëmedh, vdeqja më e lig, rrëgjëría t’i ligut, hareja djallit. Vullá çë le një vullá, jati të birin gjith iknjën pa tru e shoqja le të shoqin, ka pusi eshtravet i derdhënjën pa fare bekuor o venjën ka kamsandi pa fare kumbor.

Vravën një gjalet Kisha nënd vjet e sit e mbëdhenja më qeshjën, veja sipër e ndën ka kashandua si qurrac e loja me amiqët emi gjithditën ndëmest gjitaniës ka’ajó qacë; vajta një her pas njëja çë kish pupratet, më mbavi kraht e m’e stovi me një shkëmb, u rrijta atí vdëkur njera menatet. Ka vendi ku ish kurmi im, u lé nj gjëmb.

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La peste

Quanto ci è terribile, è il più grande castigo quando Dio manda sulla faccia della terra quella peste senza rimedio, la morte più orribile, il regno del male, la gioia del demonio. Fratello che abbandona fratello, il padre la-scia il figlio, tutti scappano impazziti e la moglie abban-dona il marito, nel pozzo delle ossa li buttano senza benedizione o vanno al cimitero senza il suono della campana.

Pedofilia Avevo nove anni e gli occhi grandi mi ridevano, andavo su e giù nell’altalena come uno scu-gnizzo e giocavo con gli amici miei tutto il giorno in mezzo al vicinato in quella strada; andai una volta dietro ad uno che aveva i dolci, mi tenne le braccia e mi colpì con un macigno, stetti là morto fino alla mattina. Nel posto dov’era il mio corpo, nacque una spina.

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Rra një puás

Një bir e një mëmë hajën bashk një mbrëma, samzi gjegjëshi televizjuna atirve pë ndën, “sa më pëlqen të rri ktú lart!”, thoj mëma, ja u përgjegj djali: “Mëse na shohmi ktë hënë!” I pëndkovi e vajtën të di të flijën; një bumbullimë, një kjas si gja breshër e puási rra k’ajó karrerë pë ndën, i biri ka një kuart, jëma ka njëtër.

Guerrë Djalli ngë dit rronj mir ndë ka ndo një an e shekullit ngë bëhet ditën arrësir, ng’e rrenjën maju Pashqit, ngë pjeken më ka çumnerja qiqrat me rër, ngë krehën më vajza jëmën e lodht, ng’isht më ka manxhatura një kole tërshër, ndë ngë ngrihet zjarri e bora ng’isht e ngroht.

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È crollato un palazzo

Un figlio ed una madre mangiavano insieme una sera, appena si sentiva la televisione di quelli di sotto, “quanto mi piace vivere qui in alto!”, diceva la ma-dre, le rispose il bambino: “Solo noi vediamo questa lu-na!” Gli ha preso sonno e andarono entrambi a dormi-re; un lampo, un fragore di grandine, e il palazzo crollò sulla strada di sotto, il figlio da una parte, la madre dall’altra.

Guerra Il demonio non sa stare bene se in qualche parte del mondo non diventa di giorno sera se non arriva più Pasqua se non cuociono più nel focolare i ceci con la sab-bia se non pettina più la bambina la madre stanca, se non c’è più nella mangiatoia un po’ d’avena, se non si alza il fuoco e la neve non si riscalda.

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I kalbët

Vajti një her një burrë shum i bëgat të rrëfjehëshi pse kish bën dica mëkat, pas lipu të kushuoj me atë munxinjor, pse prifti ngë dish ke të dilli bekuor. “Të jap pesqind miljune si dhunacjun”, ja tha “shtu mund bëç njetër kambanar”; ja u përgjegj qet qet me dhëvëcjun: “lem njëqind mua e ti ve më pak acar”.

Ipokrizí Ka trjesa e dita kat’e rrenj fëmija e mjer, prëomi sembu bashk ka vilja Natallëvet i japmi të ha nj’e engroht buk e zjer e samzi një kole ujë si no barku lahet. Kur ata të mjert na ngrihen e venjën us neve na nget të vemi gjith ka trjesa e par me bukën e ngrohtë çë n’e pruri aí furnar, ngjalat arustu, dhroqe me peshk e ver si pus.

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Corruzione

Andò una volta un uomo molto ricco a confessarsi perché aveva peccato, dopo chiese di conferire con il monsignore, perché il prete non voleva che uscisse benedetto. “Ti do cinquecento milioni come donazione”, gli disse “così puoi fare un altro campanile”; gli rispose zitto zitto con devozione: “dammene cento a me e tu ci metti meno acciaio”.

Ipocrisia Al tavolo numero due deve arrivare la fami-glia povera, preghiamo sempre insieme la vigilia di Natale, diamo loro da mangiare un caldo pan cotto ed appena un po’ d’acqua se no la pancia si lava. Quando quei poveretti s’alzano e se ne vanno ci tocca andare tutti al tavolo numero uno con pane caldo che ci ha portato quel fornaio, anguille arrostite, spaghetti con pesce e vino come pozzo.

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Pëcendarí

‘Mëse një pëcend ndihën njetër pëcend’, tha Krishti e shtu lipa një kole lëmozëm njëja fëmije e mjer, çë mbaja ndërmende çë rriji ka një shpí dharasu e edhé vetëm. Tucuonj derës e i lipënj qet qet e pë pjaxher ndë bënjën ca lëmozëm ktija ikërshter. Del burri e më jep një grusht ka faqja, u bie përdhé e pë gjellën ime rroftë paqja. Errenj përparna Krishtit k’aí Parrjas e sa më sheh më butënjon e më thot pas: “ma ng’e kapirte, bir i bekuor, sa motrat naní jan të kanjuor? ngë vehet më ka pëcendët, sonde vehet ka bëgatët!”.

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Miseria

‘Solo un povero aiuta l’altro povero’, disse Gesù e così ho chiesto un po’ d’elemosina ad una famiglia povera, che ricordavo che abitava in una casa lontana e anche isola-ta. Busso e chiedo loro piano e per piacere se possono fare un po’ d’elemosina a questo cristiano. Esce l’uomo e mi dà un pugno in faccia, cado per terra e per la mia vita viva la pace. Arrivo davanti a Gesù in Paradiso ed appena mi vede mi rimprovera ed aggiun-ge: “ma non hai capito, figlio benedetto, quanto i tempi ora sono cambiati? Non si va più dai poveri, oggi si va dai ricchi!”.

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Rikat

Turnohshi trimi ka shpija ku e prisi jëma, di brëant ja u paruón përpara djembrëma, ja lukovën ka faqja “rri qet, ngë ke rrëpar”, ma aí trim luftovi një kole e u mbjet vrar. “Ndë duoni birin ngjall, duhen njëqind miljun” ja tha një vuxhë t’atirve di maskalxun, vurën bashk lestu soldet e ja dhan, ma trimin etirve maju më ng’e pan.

Zëmi lita Më vjen një rrajë kur shoh faqen e saj, me atë koç si mulunac, me atë hund si qurrac. Ndë të zënj të mblushënj me takarata, ndë të marr të vras me stambata, të nxjerr trut e i bënj gjimavé, zura lita e e harova psé.

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Ricatto

Tornava il giovane a casa dove l’attendeva la mamma, due briganti gli si pararono davanti ieri sera, gli urlarono “sta buono, non hai scampo”, ma quel giovane ha lottato un poco e rimase ucciso. “Se volete il figlio vivo, occorrono cento milio-ni” ha detto loro una voce di quei due mascalzo-ni, misero insieme subito i soldi e glieli diedero, ma il loro giovane mai più rividero.

Litigio Mi viene una rabbia quando vedo la faccia di lei. con quella testa come un meloncello, con quel naso come uno scugnizzo. Se ti afferro ti riempio di botte, se ti prendo ti uccido con i calci, ti cavo le cervella e ne faccio stracciatella, ho litigato ed ho dimenticato perché.

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156

Ngë mund e shoh

Kam një piz i madh brënda zëmbrës, një dhëur ka stomëku çë më zgavón, një ajër i lig më shum ke era hurdrës çë më ze grikën e kurmin më turmëndón. Ngë mund e shoh atë ikershter pa embër, sa dish e vuja ndën ksajë thembër, më dhemb mëlshía pë sa nëmë ja dërvíta pë sa fjal ja thaç kundru ngadíta.

‘Amor’ të bijëvet “Çë di bijë çë më dha Shën Mëria”, thoj jati gjitanís me aq haré, “sa mir më duon, sa më bëgatet shpija” e blevi dherat e di pullase edhé. Tekur vdiqi i luri gjith pë testaménd çë ja duhshi pë një bëkur matërmón e lipi pë tija mëse një monuménd, ma isht edhé e pres, ata xha u haruón.

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Parte III – Lule të ligja

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Odio Ho un peso grande dentro il cuore, un mal di stonaco che mi scava, un’aria cattiva molto più dell’odore di aglio che mi prende la bocca e il corpo mi tormen-ta. Odio quella persona senza nome, quanto vorrei metterla sotto questo tacco, mi fa male il fegato per gli accidenti che le ho mandato per le parole che le ho detto contro ogni gior-no.

‘Amore’ filiale “Che due figli mi ha dato la Madonna”, diceva il padre al vicinato con fierezza, “quanto mi vogliono bene, quanto s’arricchisce la casa” e comprò terreni e due palazzi ancora. Quando morì gli lasciò tutto per testamento quanto gli occorreva per un buon matrimonio e chiese per sé solo un monumento, ma lo sta ancora aspettando, quelli già se ne sono dimenticati.

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Parte III – Lule të ligja

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Mafia

Ndë vjen me ne të japmi një shubërtir çë të bën i bëgat e ngë rri më pë ndën; kjo nacjuna jot ng’isht fare e mir, të merr gjith kto tas e të le pa ngrën. Me ne ha e pi, ti rri sembu ngaluor, turezët na e bjenjën si gja bathët, mëse na dit marrmi me di duor, m’atë manxhin e me dorën e djathët.

Shishja Pët mos ju vinj ka dimbri një rafrëdor, me shalën kat rruoni gurmazin; pët mos mbjeteni ka shishja fukuor, rruheni mir pse kat mbani gazin. Ndë jat motër, jatëm o i tat të bënjën më të madhin kumbëlménd, ngriqësoj gishtat e tund një furkat pse shishja duket kur ng’e mban ndërménd.

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Malavita organizzata

Se vieni con noi ti diamo un lavoro che ti fa ricco e non ti fa stare più sotto: questa nazione tua non è per niente brava, ti prende tutte queste tasse e ti lascia affama-to. Con noi mangi e bevi e stai sempre a cavallo, i denari ci piovono come fave, solo noi siamo capaci di prendere con due mani, con quella mancina e con la mano destra.

Iettatura Per non farvi venire in inverno il raffreddore, con la sciarpa dovete proteggere il collo; per non rimanere dalla iettatura soffocati, state bene attenti perché dovete dominare il ri-so. Se tua sorella, tua madre o tuo padre ti fanno il più grande complimento, incrociate le dita e toccate una forca perché la iettatura appare quando non ci si ricorda.

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Dhëspëracjun

Kur ng’isht mosnjarí çë kat e pënxonj, më mundën dhëspëracjuna e do t’vulonj. Kur një popull isht vënur ka dhëspëracjuna, shpejt o tardu ze fill rëvolucjuna. Ndo një herë të hapen sit pse nga spërënx u bë padrit; ndo një her kur dhëspëracjuna ze fill mund salvohet më ke ndo një fëmijë.

Të vjedhur Vjedhën pak ka një hor e mjer, vjedhën shum ka një hor e bëgat, ktú atrunt i zënjën mëse ndonjëher, të parin kur e zënjën vete lestu karçërat. Ka vendi i ngusht kan grikën e holl e të lipën një hiramer e ca mëskot ka vendi i sgjert kan barkun si saroll e ngë të bastovën di dhuoge të plot.

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Disperazione

Quando non c’è alcuno cui devo badare, mi prende la disperazione e vorrei volare. Quando un popolo è messo nella disperazione, presto o tardi comincia la rivoluzione. A volte ti si aprono gli occhi perché ogni speranza è oscurata; a volte quando la disperazione comincia può salvarsi più di qualche figlio.

Furto Rubano poco in un paese povero, rubano molto in un paese ricco, qui i ladri li prendono solo qualche volta, nel primo quando lo prendono va subito in carcere. Nel posto stretto hanno la bocca sottile e ti chiesero un prosciutto e un po’ di mosto cot-to, nel posto largo hanno la pancia come un or-cio e non ti bastarono due bisacce piene.

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Dhispjet

Më vajëte ka vreshta e më qeve us virlingoket, e morra me pacjenxë pse të pata dhëur, më hijte ka shpija e më qeve us gjith shoket, bëra mosa ke ng’adënuova si gja një aidhur, më vajëte ka kopshti e më shkule gjith qandët, popa prora koçën si bënjën njurandët, dhelpëra u bë plak ma ngë kanjovi lëkur e pë gjith kta dhëspjete u mbjete pa bur.

Të folur i lig Të folur i lig isht si një varé e holle, erren nga an, e ston si një temburallë, shprishet qet qet si vajë k’aí trollë, i mjeri aí ikërshter ndë mbjetet gjallë. Shkovi një javë e gjith hora murmuron drelart njera dreposht, edhé mjeshtri xhuron k’atë mbashat e lixhovi të djel ka gazeta. Isht mëse një buxhíe e duket e fërteta.

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Dispetti

Sei andata nella vigna e mi hai portato via le albicocche l’ho presa con pazienza perché ho avuto pena di te, sei entrata in casa e mi hai portato via tutte le amiche, ho finto di non accorgermi come fossi un asino, sei andata nell’orto e hai strappato tutte le piante, di nuovo ho girato il capo come fanno gli i-gnoranti, la volpe si è invecchiata ma non cambiò la pelle e per tutti questi dispetti sei rimasta senza uomo.

Calunnia La calunnia è come un vento sottile, giunge in ogni angolo e colpisce come un temporale, si sparge in silenzio per tutto il piano, povero quel cristiano se resta vivo. È passata una settimana e tutto il paese mormora dal nord al sud, anche il maestro giura che quella notizia l’ha letta domenica sul giornale. È solo una bugia e sembra verità.

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Mupërí

Ndëmest kësana gjellë rronj u, brënda kësana zëmbër u këndonj, vuxha ime ngë gjegjet ma do t’lukonj, bëhem i madh dit pë dita e rri ashtú. Sit e tjervet çë më radhasonjën, ëndërrat emi çë ju akuzonjën, dal e dal primavera isht e më lé, kërkonj mëse si mund rri me haré.

Penë të vdeqja Sa m’u bë e idhur kjo dëshpëracjun çë kur më zuri gjellën ime e bjerrur; u ngë gjenj ca lëmozëm mosgjakun e pres heren ime ktú i derdhur. Ma ngë varen sa prinjët më kjanjën me lot? Ngë sheh ke ngë kam mangu njëzet vjet? U të shoh e të kja pë ktë dhëstin i jot, ma zembra më thot ‘pjetá’ e mendja vëndet..

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Follia

In mezzo a questa vita ci sono io, dentro quest’anima io canto, la voce mia non si sente ma urla, divento grande giorno per giorno e sto così, Gli occhi altrui mi allontanano, i sogni miei vi accusano, pian piano la primavera sta per lasciarmi, cerco solo come possa vivere contento.

La pena di morte Quanto mi è diventata amara questa disperazio-ne da quando ha preso la vita mia perduta; non trovo un po’ di carità in alcun luogo ed aspetto l’ora mia qui buttato. Ma non vedi i miei genitori piangere con lacri-me? Non ti rendi conto che non ho neanche vent’anni? Ti vedo e ti piango per il destino tuo, ma il cuore mi dice ‘pietà’ e la mente vendet-ta.

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Lurëm shpin

Të dhaç kjumshtin e t’rrijta gja mosnjarí, lojëm e hajëm bashk nga dita. U bëre i madh e i bukur gja drita, naní më vajëte us, lure ktë shpí. Më shkruove: “mëmë, jam mir e kam haré, frëndojta një kapile ç’isht me shum hié, ka muoj prillit do t’vumi kuror, eja me ne ke të presmi me aq amor. Jëma vajtë, ja dha mbes të birit, sa pa të ren, u turnua lestu prap, ta lukuor e ta malkuor pë t’ardhurit, atë gjuhe e huojë, atë ajër me vap.

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Emigrazione

Ti ho dato il latte e ti ho cresciuto come nes-suno, giocavamo e mangiavamo insieme ogni giorno Sei cresciuto bello come il giorno ora sei andato via, ha lasciato questa casa. Mi ha scritto: “madre, sto bene e sono conten-to, ho incontrato una giovane che è molto aggra-ziata, nel mese d’aprile ci sposeremo, vieni a stare con noi ché ti aspettiamo con tanto amore. La madre partì, diede retta al figlio, quando ha visto la nuora, è tornata subito indietro, urlando e maledicendo quell’andata, quella lingua estranea, quell’aria afosa.

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Do ha

Pë ktë putit e madhe ngë me qëllon, ha di o tre her diten ma ngë më baston, nga të djell bënj gjims qengj latand e kur m’eren mbrëmet kam ktë bark vakand. Vajta ka mjethku çë ngë më gjeti fare mir, kolesterolin aftu e zëmbra si mullir, “biri im”, më tha, “ngë të vjen gjumë ndë ngë ha pak mish e ca nxallat më shum.

Breshër Vreshta ime, sa e bukur të bëra, sa u ngre mir grurt e edhé tërshëra, nga qand ulliri, nga lis gjërshí ka shubërtirën të djersit emí. “Simbjet kat nxjer gjith dhëtirt” sa foli, ka motit ja errurën arrësirt; grat e krjaturt ikjën ktej e patej, breshëri rra e sterjovi gjithsej.

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Fame

Per questa fame grande non prendo sonno, mangio due o tre volte al giorno e non mi ba-sta, ogni domenica mi faccio mezzo agnello lattan-te e quando vien sera ho questa pancia vuota. Sono andato dal medico che non mi ha trova-to per niente bene, colesterolo alto e il cuore come un mulino, “figlio mio”, mi disse, “non ti verrà sonno se non mangi poca carne e un po’ d’insalata in più”.

Grandine Vigna mia, quanto bella ti ho fatta, quant’è cresciuto bene il grano e pure l’avena, ogni pianta d’ulivo, ogni albero di ciliegio ha la fatica del mio sudore. “Quest’anno mi toglierò ogni debito”, appena parlò, nel cielo scese la notte; le donne ed i bambini correvano qua e là, la grandine cadde e distrusse ogni cosa.

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Ngë kuqon (“rap” arbërisht)

Bërlik e bërloke prifti me një bëxoke, morri një pishatur e bëri një kole shur, blevi ca kandarall e ehaj pa mësallë, gjeti di gjershí e thoj një litaní, morri ca grandin e e shkanjovi me pepëdhin, zuri një skutin e e vuri pë çëndrin, pështivi ta lukuor ma sipër ja ra bor, vajti pë kulumbrí ma sipër ja ra shi, hengri ca mërluc e ja rruri një stëluc, pivi di ca ver e naní do t’na fler.

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Nonsense (“rap”) Berliche e berloche il prete con una bizzoca prese un pitale e fece un po’ di pipì, comprò un po’ di lardo e lo mangiò senza tovaglia, trovò un po di ciliegie e disse una litania, prese un po’ di mais e lo scambiò per peperone, acchiappò un pannolino e lo mise come centrino, sputò urlando ma sopra gli nevicò, andò per prugne selvatiche ma sopra gli piovve, mangiò un po’ di merluzzo e gli venne il singhiozzo, bevve un po’ di vino ed ora vuol dormire.

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Rrodhi qerrja i tre dhë maj erruri e dita me shum rrajë, lal Mikej qaqarun fshehi prapa një mëcëkun, lal Luvigi porkanxar çë kërdhohshi një këngëtar, kumbà Adholfi karabinjer hëngri vetëm një hiramer, motra Faustine pakuqate bëri samzi di puprate, ndrikua Sundine ka pruçësjuna ja zuri koçën tëndacjuna, dhon Andoni bark i madh mblushi plot atë armadh, dhon Damjani lëtí ngë na thot një litaní, populli Rurit isht arbëresh e kta bërloke do marr vesh.

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Parte III – Lule të ligja

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Corse il carro il tre di maggio arrivò il secondo con molta rabbia, zi’ Michele chiacchierone nascose dietro un mozzicone, zi’ Luigi di Portocannone che si credeva cantante, compare Giacinto carabiniere mangiò da solo un prosciutto, zi’ Faustina scioccherella fece soltanto due croissants, comara Assunta nella processione le prese la tentazione, don Antonio dalla pancia grande riempì pieno quell’armadio, don Damiano forestiero non ci dice una litania, il popolo di Ururi è albanese e queste berloche vuol ascoltare.

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Rime

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Rime

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Appendice

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Rime

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Come poetare in arbëresh

Si bëhet një poezí arbëreshe

Queste brevi note – che provengono da qualcu-no che “poeta” non lo è mai stato e quindi non emanano quell’antipatica saccenteria che caratte-rizza i cosiddetti “esperti” - non vogliono sottrarre estro e creatività alle menti dei potenziali poeti, ma, al contrario, hanno lo scopo d’incoraggiare le giovani generazioni a far emergere quelle qualità potenziali, che ristagnano nelle loro menti e che magari, da giovani inesperti, non riescono a esternare.

Si ritiene che i poeti siano degli esseri un po'

svagati e disordinati, che vivono “più di fantasia che di concretezza”.

Nulla di più errato. I poeti sono esseri estrema-mente ordinati, metodici, determinati, razionali, portati più all’azione che alla pigrizia. Del resto, basta leggere le loro storie per rendersene conto.

Per cominciare a poetare in arbëresh, è neces-

sario seguire alcune regole fondamentali: 1) imparate a trascriverlo correttamente, allenan-

dovi a lungo, meglio se con il computer; fissate un tema (una fiaba, un fatto di cronaca) e tra-scrivetelo interamente; poi controllatene la cor-rettezza;

2) appropriatevi delle principali regole grammati-cali, per consolidare ciò che già conoscete dalla lingua parlata (consiglio la Grammatica Alba-nese di Martin Camaj, ed. Brenner, Cosenza);

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Rime

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3) impossessatevi delle possibili desinenze, con-sultando le Rime che vengono riepilogate in fondo alle presenti note;

4) scegliete un tema specifico, in modo da con-centrare l’attenzione poetica su un determinato argomento; la scelta del tema dei Fiori del ma-le, per esempio, è del tutto casuale; altri temi potrebbero essere quelli del bene, dell’amore, della natura, della scuola, della vita in comuni-tà, degli animali eccetera. I temi, poi, potrebbe-ro avere un contenuto serio, comico o sarcasti-co. Aiutatevi nella ricerca “navigando” su In-ternet.

Per cominciare a comporre, fissate un modello di verso di lunghezza non eccessiva, meglio se un settenario o un senario e proponetevi delle rime baciate o alternate in formazioni di quartine o se-stine. Prendete, ad esempio, la sestina I dehur (lette-ralmente l’ubriaco, tradotto con alcolismo) e cerca-te di “bloccare” il primo e l’ultimo verso, pensando alle motivazioni che possono aver indotto una per-sona all’alcolismo (la rabbia, la protesta verso le ingiustizie della vita) e l’ultimo dei versi, riflettendo su ciò che cerca inconsciamente l’alcolista (la pro-pria distruzione); vengono fuori i due versi: I Ç’isht kjo rrajë çë më zé

(Cos’è questa rabbia che mi prende)

VI lëje et’e vritet ki ikërshter (lascia che si uccida questo cristiano)

A questo punto, bisogna riempire, consultando le Rime e attingendo – è ovvio – alla propria capacità creativa.

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Rime

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Si passa al secondo verso e dopo al quinto: II çë menatet njera kur vet’e flé

(dalla mattina fino a quando vado a dormi-re)

V U të lipënj mëse ca ver

(Ti chiedo solo un po’ di vino)

Per completare la composizione, è necessario, ora, riempire la parte centrale, che deve avere un collegamento tra la prima e la seconda parte ed è la motivazione che manca al protagonista del te-ma. Si parte dal quarto verso, che coincide con il pensiero dell’alcolista e , dopo, lo si collega con il terzo consultando le Rime: III Pse do t’më qeç ka shubërtira

(Perché vuoi portarmi a lavorare) IV ndë gjella ime isht m’e mira?

(se la vita mia è la migliore?) In conclusione, occorre stabilire il punto di arri-vo e dopo creare quello di partenza. Ciò vuol anche dire che il tema dev’essere presente in modo chiaro nella mente. Un ultimo consiglio: evitate assolu-tamente di pensare in italiano, ma sforzatevi (per chi ha imparato la lingua da piccolo è la cosa più naturale) di pensare arbërisht.

Non fermatevi ai primi tentativi, ma insistete e, dopo, affinate le parole, collegatele, alternate me-glio i versi, rileggeteli e fateli rileggere da altri ed infine correggeteli finché non vi sembrano accetta-bili.

Auguri!

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Rimario

Rimat

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á vullá ha ac (aca, aci) kjacë kurac mac matarac mulunac qacë qurrac rracë tumác aç (açi, açja) kulaç llaç maçe sfuáç adh (a-dhe, a-dhi) armadh buxhard kundradë lamadhe

madh mi madh tatamadh ah (aht) krahtë krah mah ngrah aj (aja, ajët) skarçofaj maj pajë parcënaj pëtnaj rrajë saj vajë ajt, alt bajtë mjaltë ak , aq barakë bastunake flakë gjak

më pak pak paqë plak stakë tabak tërrlinxak al (ala, ali) akua sal dal e dal djalë fjalë koçkaval komunal lalë mal marsal ngadalë ngjálë papagal shalë xhal alé falé gjalé

all (alla, alli) animall çiçikallë dall djall gjallë kall kanall kandarall karnuvall kazall mall mballë mërallë mëtrall mësallë sinjáll stallë stuvall shakall shallë shkallë temburall tënall am dhjam falnjam mulnjam

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ram an (ana, ani) çambanë dafan Damjan dhan Kapëdhan kazaliqan llan Milan pan Qeftan rrigan sután tigán tulipan vagán xaxan and, ande djamand kamësand krukande kumand njurand qand trande vakand

ane damixhane patane anj çanj lanj mbanj ndanj sparánj shparlánj ap jap prap prirem prap rap vap aq, aqe aq manusaqe mustaqe pilindaq ar (ari) acár altár ar

avar bar binár cúfar cúkar çar dromëdhár fëlvár frar furnár inár kalamár Kalvár kambanár këngëtar kumbár lihar marënár marr masár paçár par pekurár pépar përpar poçar Porkanxhar prar proletar purdhar

purkar rrëpar rrusar rrëpar samar skutëlar shqiptar tinár vardár vëtërnár vrar xharrë zjarr ard, ardh bardh dardh gardh lardh Duardh spiganárd are fare kuartare makarnare mamare arí masarí

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mosnjarí ars, arsh barsë mars parshë art artë atilart lart mëlart as, aps flas glasë klas laps ngas Parrjas pas pullas ash Këmvash trash asht asht gjashtë jashtë

kasht përjasht asu dharasu qasu at (ata, ate, ati) anát avukat bëgat çikat çitat çokolat djemenat duorthat dhurat fakultat fërtat fumat furkat hjat jat jungatë jurnat karçërat karitat katërratë kazat

kënat kunat kuntrat lapatë malinjitat manétat manjat matunat mbashat menat mëkat mjeznat namurat nat nesërmenat ngjatë numënat nxallat pamëkat pakuqat pat pëdhatë piçkatë puat puprat qamgat qikat rrëtrat sangunat sapatë

somenat soprëshat spatë stambatë strupjat shalát shat shpat shquptat shtat shtrat takarát tat that urát valát vulundát zgulmjat ath bathë djathë axh disaxhë av javë zlavë

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az (aza, azi) gazë gurmazë unázë vastázë ca çjevca dicá dó cilidó çëdó kahadó kushdó é blé (mble) dhé edhé flé gjimavé haré hjé kallamé kamné lé Manuvé përdhé

psé rragjé varé zé ec kalkadhec kutëndec edh bredh dredh hjedh marçapjedh vjedh rrjedh eg, egj Scanderbeg degë regjë shegë ej dejë ejë gjithsej kosdej ktéj kuej

nejë patéj eja eja feja ek (eku) brek shtek el (ela, eli) del djel gjel kambanjel kapjel macmurjel Majel mandjel martjel mjel muzrjel pelë pundarjel rrëbel vanxhél Vardarél xhufjel

ele callarele çirele dele Luvzele maçarele muskarele palumele pastarele patele rafanele ranukele tabele tarantele umbrele ell (elli) djell gjellë koqarell mbjell pjell qell em birem derdhem dërvitem dridhem gjëndem

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josem këputem lodhem masem mbjetem ngosem nguqem ngjallem ngjitem nisem përgjegjem qasem shihem shitem shqitem trëmbem tundem ujem vëllirem vritem zgjidhem en kangaren qen varén vëlén vjen ena, ene

aténa gjithsena ktena mërene end (enda, endi) durendë Endë ndërmend Kuman-damend kum-bëlmend kumend mend monu-mend parmendë pendë pendimend pëcend punend sakraménd shend testamend enj gënjenj

gjenj këcenj ndenj ndjenj nëmërenj gjenj pëlqenj qenj shurbénj varénj zjenj ep grep prezep qep eq dreq herëkeq keq pleq er (era, eri) bler bukjer çëdoher barrjerë der

dhestaver dhispjaxher Enver er fler her hiramer buka zjer ghithsaher ikershter kalimer kandëljer karabinjer karpendjer karrerë kashier manjer Maqanér mjér ndonjëhér nxjérr prérë primavérë statérë ver zjer era ahera blera

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çëdohera dera dhera dhestavera era ghithsahera hera karrera maniera Maqanéra ndonjëhéra njera préra primavéra statéra vera vjen era zjera ere, erre çikuatere çumnere këlqere pulukjere qerre stanjere eri bukjeri dhispjaxheri

jirameri ikershteri kalimeri kandëljeri karabinjeri karpendje-ri kashieri mjéri erk derk njerk es dhjes fshesë kam bes lavanares mbes pjes pres shes shkes trjes thes vdes esh lesh

marr vesh mesh vesh esht (eshtit) lesht plesht vresht esna dramesna mësna est fest ndëmest tëmbest et (accento finale): afet këshet alfabet bëletë ca heret Çangetë çuvetë det

dizet djetë dhispiet dhjet elmet etë fërtet flet gazetë katerzet kumbjet kunet mashket met nxet njëzet njëzet e dhjetë petë përdhét purpetë qet sajet sëkret simbjet sukét shëndét shket tret vet

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vëndét vjet et (altri): dihet arrësiret murniret ditnet dizet dhimbet kalbet bretelet lahet mbarset mbrëma-net menatet natnet niset njómet petë sbárdhet ethe ethe ez (eza) drudhez hidhezë

këmarinezë kuçezë prraezë turéz vádhez vidhez zezë ël arkangjël angël ëmbël vogël ëm (ëma, ëmi) dëm jëm krezëm mbrëm mëmë nëmë prëmë sirëm vetëm ëma djembrëma mëma

ëmb (ëmbi) çëmb pëllëmbë dhëmb gjëmb këmb padhëmb shkëmb ën bënë pë ndën thën ditën natën dhënë gjithditën hënë hinklisën lënë limozën nëmën ngrën sondenatën shën shtënë tumën zën

ënda, ënde brënda lënde përmbrënda rëgjënda ëndrra marr ëndrra mëndra zëmbra ëng këngë lëng likëng mëng ënj bënj borënj cimbisënj derdhënj ecënj folënj fshehënj gjegjënj gërrishtënj hapënj

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haristisënj hipënj këputënj kështënj kuortënj lagënj lënj lipënj masënj mbjedhënj mbledhënj mbushënj mundënj ndahënj ndohënj ndramërxirtënj ndreqënj ngrehënj ngjatënj ngjedhënj nisënj nxënj njohënj përmjerënj pjekënj pjesënj prurënj qeshënj rrënj

sfëutírënj skaòisënj sosënj sparënj shehënj shkrehënj shoshënj shprishënj shtipënj tradhirënj zënj xënj zgrisënj ër (ëra, ëri, ërit) (accento finale): gërshërë gilpërë gjër ngaherë rërë tër tërshër ër (ëra, ëri, ërit) (altri): afër

ajër breshër çipër deçimtër dëçembër dimbër drapër dhelpër dhëndërr egër embër Etër ëndërr gjarpër gjineshtër hurdhër kanistër kaltër katër kilometër krehër lakër letër litër mashkër mëndër mënestër ministër mjekër mjeshtër

motër nesër numër njetër pasnesër qiqër qitër Sapistër sikër thekër thembër urdhër vátër véspër vjehër xingër ësht ligështë qumësht ët lagët lodhët ngrënët siçët ëz (ëza) cekëzë çirëzë

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illëzë kollëzë prëzë lilëzë mënezë mëzë milimangëzë një ditëzë pakëzë pikëz prëz qellëzë tranjëz tretëz thumbëz vájëzë váshëz vújëz hem adënuohem amëndo-hem bashko-hem dehem duhem dukem dhëshpëlqehem

façohem fidhohem fidhuohem frihem fshehem ftohem fukohem gëzohem krihem kruhem lahem lehem zdinjohem lëhem lihem luhem llamëndohem mahem mbahem mbuihem mërihem ndahem ngrihem ngrohem nxihem njihem pëlqehem pihem piqem rruhem

shëróhem sharzíhem shuhem shukohem shkarzi-hem thahem villirem virrem vishem zëhem zgjirohem zgiohem zihem het mbërdhi-het nxehet pakëzohet zvillohet i (ía, ija) dri di emí gjerí gjërshí gjitaní ghithnjarí

gjithsí hí litaní malinguní mëlshí mi naní ndonjarí njërí pi qirí ra shi rri strumbíj shi shpí trëmbasí ia, ja Elnia faqja hareja heja hieja imja jotja kallameja kamneja kja Kriqja

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kusía amja Lauretja lëmoznia Lizja llamja mëlshia nusja Paskarelja Pija piçunerja qimja rroftë paqja Shën Mëría shishja shpíja trëndafilja zilja idhe aguridhe cingaridhe kalidhe ic, icje drigulicje dulçicë garricë

grëndicë pic rrëkicë ie, je bie gjëndje atije dje ktje magje midje mizerikordje mortje Mundorje njé rëzolje jë mosgjë një një ka një gjagjë ig lig kastig ik armik

çamballik Dhonarik fik grik lik mik nëmik qik vik il cil djavulil fitil gril Mil muskil skumandil illë butillë femijë prill vaçill zuri fill fuzillë imb cimb krimb

timb imë bumbullimë çim limë pështimë in Apenín dhestin çëndrin faqefin frin frustin grandin kantin karosin këmarin Kostandin kupin kuqallin kushin lumin Miklin muín Ndin ngrin pepëdhin pjetrasin

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rëqin rrëxhin skutinë stërrmin traín xikín ind gjind lindë e pindë njëqind pesqind prind treqind ine kanëline litorine lupine inj brinjë Çinj frinj frushuinj fshinj hinj linjë mbuinj

ndërsinj ndrinj ngjinj pështinj shtinj shtrinj ullinjë vinj io, jo jo kjo ajó ip cip çip kripë nip rrip iq fiqë pishkuriq Sën Kriq iqe gaviqe skupuliqe tiqe tiqe

ir arrësir bir Epir dhëtir kushërir lir mir mullir ndërsir nxir pir pajadhir spaqir shtrir shubërtir ullirë undirë ire atíre parathire is (isa) fis is Pis sis ish, ishe

këmish kish kulish mish pish shishë tarandishe ishk frishk isht arbërisht bisht gegënisht gisht Krisht it ajërit árdhurit bandit bën drit breshërit búkurit çiprit dhelprit dhëndërrit dimbrit dreprit

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drit embrit Etrit gjarprit gjërit hurdhërit ivendit kanistrit karitë katrit kulumbrit krushqit lakrit litrit mashqrit ministërit mjezdit ngrohurit njetrit numrit padrit Pashqit patritë Pundi Paparallit qiqrit Sapistërit shekullit sikrit sitë

urdhrit vesprit vit vjehrit vrit ita dita ngadita shita iz (iza, i-zi) drizë granariz gjizë kurriz mizë piz jelli djelli mjelli jer barbjer bjerr gilpjerë nzjer

iu, ju ju ndërju junë dëshpëracjiunë tëndacjun ó któ kudó ndo paltó sadó sidó tekudó oç (oçi, oçja) birroç koçë marroç poç odh brodh hodh og dhuogë

zog oh, oht ftohtë ngroht shoh oke, oqe bëxoke shoke virlingóke skunxha-juók zbok dhroqe krokë oj frandoj ngarkoj huoj juoj mëmguój muoj pojë oll foll hollë kollë

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mollë pinjoll saroll shkaroll shkollë troll olle brazholle ole kamëzhole kole xhirasole om çom njom haruom thom omse dromse on, -onj akuzon arnon baston blegëron bushkon

butënjon cëkon cinon cumbon dhakon duron fërkon fluturon frëndon fukon gjiton gjufton huon kallon kanjon kapon kaputon këndon kërdhon kullon kushuon kutëndon Lapon lukon lulëzon lumnon malkon mangon marton matërmon

mbulon mëndon mëshkon mëson milingon miron miton murmuron ndunakuon ngarkon ngëkuqon nxhinjon paguon përshkon piçon piklon piton pizon prëmdon prëon prëparon pruvon punon puzon qëllon radhasuon rakamon rrajon rëkon rëmon

rëzkon rrëkrëon rrëmon rrëndon rrëspëndon shënon shëron shkarkon shkon shpon shqaton shtrëngon shuón shurón spariqon spundon stërrjon stron tëndon tërgon turmëndon vinxhon vlon xhudhëkon zgavon zumbulón zvërlon onj, -on (sostantivi):

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ftonj katalonj zonjë onj, -on (verbi): akaporonj akuzonj arnonj bajonj bastonj bësonj bushkonj butënjonj cëkonj cinonj cumbonj çëmonj duronj dhakonj fërkonj fluturonj frëndonj fukonj gjuftonj huonj kallonj kanjonj kaponj kaputonj

këndonj kërdhonj kruonj kujëtonj kullonj kushuonj kutëndonj luftonj lukonj lulëzonj lumnonj malkonj mangonj martonj mbulonj mëndonj mëshkonj mësonj mironj mitonj murmuronj ndëronj ndunakuonj ngarkonj ngëkuqonj ngjonj nxhinjonj pabësonj paguonj përshkonj

piçonj pitonj pizonj prëmdonj prëonj prëparonj pruvonj punonj puzonj qëllonj radhasuonj rakamonj rëkonj rrëkrëonj rëmonj rrëspëndonj rëzkonj rrëkrëonj rrëmonj rrëndonj spariqonj spasjonj spundonj stërrjonj stronj shënonj shëronj shkarkonj shkonj shponj

shqatonj shtrëngonj shikonj shuónj shurónj tëndonj tërgonj turmëndonj vinxhonj vlonj xhudhë-konj zgavonj zumbulónj zvërlonj op cop çuop shkop opá popá opsht kopsht or bekuor bor

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dekor dor hor fukuor ngaluor horë kumbor kor malsór muçkuor munxinjor ngaluor paguor paharruor përmuor pizuór prëfumuór Purgator qëlluór radhasuór rakamuór ra bor rëqaruór rrajuór rrankor rrëkrëuór rruor sorë stror shëmtuór

shukuór shuór tërguor thuor vluór vuluór sbuluór zdërpuór zgjuór zorr ord, ordh akord kordh pordhë orc forcë skorcë ort duort fort short shport orxh, orx forxhë orxë os, ost

dos karós kuosë ngost propost rrëspost osh, osht dreposht josh koçëdre-posht ngalosh përposht poshtë shosh tatajosh ot akuedot botë dujbot duorplot jot lot luvkót mbuzarot mëskot mot plot

zot ozhd gozhdë ras dërrasë ri bri dimbri dri Dhimitri dhri kulumbri ú kshtú ktú ku ashtú ua, ulla dua grua hua karanjua kashandua kopulla kunua krua

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mua parabua petua setulla simulla uc këpucë mërluc stëluc uçk, uçka fuçkë marr muç-ka ug drugë lug uk bukë luk muk ul capul çotull dhishipull idhul pulë

ule barbab-jetule lule ull, ujë kumbull mërakull ndrikull perikull popull sekull shekull skrupull spingull shekull shpatull tarandull titull trubull uthull vënxújë um brum gjumë lum shqum shum

umb cumb humb pullumbë umsht kjumsht un çaparun çëndrun çëpun dhun dhunacjun facëlëtun dhëvëcjun fërtun furkun gunë hjadhun kardhun kavalun kavçun kërtun lambashun liún llatrún marr dhun mëcëkun mëllun

mosgjakun mundun paparun pastun patrun piçun Porkanun pruçësjun pulmun qaqarun rrënjun sapun spërun spijún spurtun shkëmbëlun shtunë tëndacjun trumbún viçún zgarxavunë und, un-de gjakund hundë katund krunde përgjunde

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une makarune matune unj faunj kërcunj xhunj up grup Kandaupë mup qup uq, uqe faqekuqe kuq lulkuqe ur (accento finale): abazhur agricultur aidhur ardhúr ardúr dhëur furr

grur gur kriatur kullur kur kurrë kushëtur lëkur manxhatur mashkatur mërkurë mur pëkatur pëlhur pishatur pitur predhkatur

pundatur Rur sapúr satúr shur sfëlatúr spiçatúr strukatúr tajur tambur ur vërsúr vëtúr

ur (altri): bënur bjerur bukur dalur dashur derdhur djegur dridhur dritur dhullosur fjalur fshehur gjetur hapur hekur idhur vdekur kapirtur lidhur lipur ndihur ljepur lohur lumtur mbljedhur mbushur mundur

ndërsitur ndinjur ngosur ngridhur ngritur ngrohur nisur nxjerrur ngjetur ngjitur ngjatur njohur pabënur pamëndur panjohur papjekur papritur píhur pjekur pjesur prekur prijtur prëójtur prjerur prisur prurur puthur qéjtur qéshur rrakirtur

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rrjédhur sërrítur sfutírtur sosur shéhur shésur shitur shkasur shkëmbur shohur shoshur tambur tërhejtur tërhekur trëmbur tundur tjerur árdhur

ujur vjelur xáthur xheshur zbardhur zgjeshur zgjidhur zgjohur varéjtur vdékur veshur urc gurc turc uri luri murmuri

Ruri us ec us pus us ush gushë kush rrush ushk, usht dushk mushk ngusht grusht

gusht ran ngusht ut gavutë grut mut patrut tarramut tavut trut vëlut vut uz buzë midhjuzë tërkuzë

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Indice alfabetico dei Canti

(il numero corrisponde alla numerazione progressiva)

Aq dish thoja 32 Bija ime 45 Bukura kapile 20 Ç’isht e bardhë 42 Callarele 17 Çë ke? 23 Çë na zien prëmë 9 Dhëmbi i vjetër 63 Dheu jone sa i ëmbël 84 Dhëuri barkut 60 Dhëuri barkut [e dita] 61 Dhëuri barkut [e treta] 62 Dho Manuvei 38 Di pultrun 39 Dish të puthja 36 Djali do fler 4 Djali na rëkon 1 Dolli djelli 76 E çë anat simbjet! 90 E lumëza ti 21 Faleja 13 Fiq e rrush 19 Gjërshit 14 Gjitanía 43 Hora ime 93 Hora ime ng’e harruor 95 I bardhi gja bora 5 I bardhi gja buka 2 I bardhi gja jungata 3

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Segue Indice dei Canti Ime kushërí 31 Imi gjërí 26 Isht o ngisht 72 Jëmni të pi 71 Ka çami e ka puthëmi 64 Kalashumi 30 Kallon ci Ndoni 92 Kalvari 81 Kapilet çë jan Rur 48 Kapilëza çë vete mbë Rrusar 50 Kapilëza e bëgat 51 Kashandua 68 Katërinja ka balkuni 73 Kënga e aquedotit 91 Këtú o atí 79 Kostandini i vogël 66 Krëstënelja 46 Kush hipën e kush kallon 65 Lauretja 52 Lesht a la Umberta 75 Lisi i that 89 Lumi 25 Manusaqja 87 Maqaner 27 Më dishe e ngë të dua 11 Më luri namurata 59 Më mban zëmbrën 24 Me sikrin ka grika 22 Mëma ime 44 Mëmë çë më bëre 33 Mulliri 28 Munxhufuni 54 Një këngë a la qeftana 37

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Segue Indice dei Canti Një thell lardh 49 Një uí 78 Palumelja 16 Parathirja 12 Pasta fin e koçkaval 6 Pilindaqi ka faleia 58 Prifti i plak 53 Qifti arbëresh 86 Qifti paparuni 69 Ra e tretëza kumbor 41 Raja 18 Rripi 29 Rrusht engurdhe 8 Së Andoni 82 Së Kriq 56 Sën Andoni 82 Shtat kap lop 83 Skumandili 57 Straçalani ve kuror 77 Tarandishja 88 Të dashur i rrajuór 40 Të’gjishe e të’vishe 15 Tëkur bie bora 94 Tështun mbrëma 7 Trendafile të lulëzor 85 Ujët e Rrurit 55 Ullinjët e zeza 67 Vandilja 74 Vashazët të Qeftit 47 Vemi ka kisha 34 Viçënxelja 80 Viku i’ngusht 70 Zëmbra do më flas 10 Zilja 35

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Indice alfabetico di Lule të ligja

(il numero corrisponde alla pagina) ‘Amor’ të bijëvet 156 Breshër 168 Çikat 132 Dhëspëracjun 160 Dhispjet 162 Do ha 168 Down 138 Faunj 134 Guerrë 148 I kalbët 150 I dehur 116 Ipokrizí 150 Jat e patrun 126 Ka deti 118 Karçërat 142 Keqja e ligë 122 Krushk padashur 140 Kur një vdes 142 Lurëm shpin 166 Mafia 158 Marr dhun 120 Marr gjakun 126 Mënguoj 132 Midhia 116 Mupërí 164 Ngë kërdhonj 138 Ngë kuqon 170 Ngë mund e shoh 156 Pa bënur mosgjë 136 Pëcendarí 152

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Segue Indice di Lule të ligja Penë të vdeqja 164 Pesta 146 Pisa 128 Pleqët 130 Praeficae 140 Rikat 154 Rra një pullas 148 Rrajë 124 Sfutirtur 120 Shega 114 Shisha 158 Stërrjohen liset 134 Ta harruor 136 Taramut 144 Të folur i lig 162 Të marrur zëmbrën 114 Të shohur e ngë të varejtur 112 Të vjedhur 160 Të voglit 124 Tëmbest 144 Vdeqja 130 Vete us djelli 128 Vetëm 118 Vravën një gjalet 146 Zëmi lita 154 Zonja ime 122

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Girolamo De Rada Rapsodie di un poema albane-se Ed. Brenner Cosenza, 1964

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Vincenzo Dorsa Su gli Albanesi – Ricerche e pensieri Ed. Brenner Cosenza, 1985

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Indici

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Giulio Varibobba La vita di Maria E. Brenner Co-senza, 1984

Giovanni Verga Storia dell’asino di S. Giuseppe http:// www.citynet.t/ebook/

Giuseppe Vettori (a cura di), I canti popolari ita-liani, Ed. Newton, Roma, 1975

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