LUIGI VIOLA - Overlex15/06/2012, Magliulo, e Sez. 5, n. 30283 del 30/03/2012, Oprea), correlandolo...

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1 LUIGI VIOLA ________________________________________________________________________________ ________________________________________________________________________________ CASI DI DIRITTO PENALE 2014 TRACCE, SOLUZIONI SCHEMATICHE E GIURISPRUDENZA Dispensa esclusiva riservata agli iscritti al corso di preparazione per l’esame forense, tenuto da Luigi Viola su overlex.com _____________________________________________________ _____________________________________________________ _____________________________________________________ _____________________________________________________ _____________________________________________________ Overlex.com editore

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LUIGI VIOLA

________________________________________________________________________________

________________________________________________________________________________

CASI DI DIRITTO PENALE 2014 TRACCE, SOLUZIONI SCHEMATICHE E GIURISPRUDENZA

Dispensa esclusiva riservata agli iscritti al corso di preparazione per l’esame forense,

tenuto da Luigi Viola su overlex.com

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Overlex.com editore

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LUIGI VIOLA, Avvocato (esercita la propria attività professionale tra Lecce, Roma e Milano), docente di diritto processuale civile presso l’Università degli Studi E-Campus sede di Novedrate-Como, Specialista in Diritto civile. Direttore scientifico di Altalex Massimario. Direttore scientifico della rivista bimestrale La Nuova Procedura Civile. Docente in corsi di preparazione per l’esame di avvocato e per il concorso in magistratura ordinaria, nonché in diversi Master (Roma, Milano, Reggio Calabria, Rimini, Ancona) accreditati dal C.N.F. Docente presso la Scuola Superiore dell'Amministrazione dell'interno, in materia di diritto dei contratti. Relatore in vari convegni (in Roma presso la Camera dei Deputati, presso l'Università Gregoriana Pontificia, presso il Campidoglio, presso il Parlamento Europeo, in Milano, in Bari, ecc.), anche inerenti la formazione decentrata dei magistrati. Ha scritto diversi libri e curato Trattati; tra le ultime opere si segnalano i Trattati: Il contratto (Cedam 2009), Prescrizione e decadenza (Cedam 2009), Inadempimento delle obbligazioni (Cedam 2010), nonché Codice di procedura civile commentato (Cedam 2011), La prima udienza di comparizione ex art. 183 c.p.c. (Giuffrè 2011); La semplificazione dei riti civili (Cedam 2011); Le domande nuove inammissibili nel processo civile (Giuffre' 2012); La testimonianza nel processo civile (Giuffre' 2012); Il nuovo appello filtrato (Altalex 2012); Codice di procedura civile commentato (Cedam 2013); Diritto processuale civile (Cedam 2013).

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INDICE

1) Concussione……………………………………………………………………………………………..4

2) Reato commissivio mediante omissione……………………………………………………36

3) Omicidio preterintenzionale………………………………………………………………………51

4) Offerta in vendita di semi di pianta di marijuana……………………………………….55

5) Attenuante della speciale tenuità………………………………………………………………101

6) Atti preparatori e tentativo………………………………………………………………………..118

7) Violenza sessuale e chat……………………………………………………………………………..142

8) Colpa da asssunzione e specializzando………………………………………………………..151

9) Attività sportiva e scriminante non codificata……………………………………………..158

10) Violenza sessuale e consenso putativo…………………………………………………………165

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1) Concussione ed induzione

Michele è un noto imprenditore di Bari, specializzato nella produzione di taralli.

Michele veniva a sapere che la comunità europea erogava euro 50.000,oo in favore dei produttori di taralli, per l’anno 2013, previa istanza da presentare

all’Ispettorato provinciale.

Pertanto, Michele si recava all’Ispettorato, dove i dipendenti Pasquale e Nicola gli chiedevano di avere il 25% del finanziamento per assicurarsi una maggiore

celerità del procedimento. Michele, indotto dalle parole di Pasquale e Nicola, prometteva quanto richiesto.

Il candidato, premessi brevissimi cenni circa il reato di concussione, rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Pasquale e Nicola.

Possibile soluzione schematica caso 1)

Il reato di concussione ex art. 317 c.p. si ha quando: -il soggetto attivo è un pubblico ufficiale;

-vi è un abuso di qualità o poteri finalizzato alla costrizione;

-il soggetto passivo deve dare o promettere. Sussiste nel caso in esame il reato ex art. 317 c.p.?

Poteva rispondersi negativamente perché la condotta che emerge non è di costrizione, ma di induzione; Pasquale e Nicola non hanno imposto la promessa

a Michele (sarebbe stato così se i soggetti attivi avessero impedito il contributo europeo in caso di diniego della percentuale sul finanziamento), ma l’hanno

indotto a promettere chiedendogli una percentuale per ottenere una maggiore celerità.

Pertanto, Michele poteva anche rifiutarsi di promettere la percentuale, ma lo stesso avrebbe avuto il finanziamento.

Alla luce di tali rilievi, si può affermare che al più Pasquale e Nicola potranno rispondere del reato di induzione indebita a dare o promettere utilità, ex art.

319 quater c.p.

Qualora la condotta furtiva riguardi una pluralità di cose di pertinenza

dello stesso detentore, nel medesimo contesto temporale e spaziale, se l'agente si impossessi di alcuni dei beni, senza riuscire, per cause

indipendenti dalla sua volontà, a impossessarsi degli altri, l'azione complessa, essendo progressiva, deve essere considerata unica, in

quanto la parte più rilevante, già posta in essere, assorbe quella in itinere; e realizza un solo e unico reato consumato delle cose sottratte,

restando escluse sia l'ipotesi del furto tentato sia quella del furto consumato in concorso con il tentativo.

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Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 24-04-2014) 18-09-2014, n. 38344

Svolgimento del processo

1. Con sentenza deliberata il 25 maggio 2012 e depositata il 4 giugno 2012, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della impugnata sentenza del 24

febbraio 2009 del Tribunale di Nola, a carico di P.G. e di C.V., imputati, in concorso tra loro, del furto aggravato di alcuni indumenti, generi alimentari e

cosmetici, sottratti dal supermercato Auchan, in (OMISSIS) il (OMISSIS), ha riconosciuto ai giudicabili appellanti l'attenuante del danno di lieve entità; ha

dichiarato la ridetta diminuente prevalente - unitamente alle circostanze attenuanti generiche già concesse in primo grado - sulla aggravante del mezzo

fraudolento; ha ridotto la pena inflitta da quattro mesi di reclusione e 120 Euro di multa a due mesi, venti giorni di reclusione e 80 Euro di multa, ciascuno; ha

elargito alla C. l'ulteriore beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale; e ha confermato nel resto la sentenza

appellata.

I giudici di merito hanno accertato: i giudicabili avevano prelevato la refurtiva

dai banchi di vendita del supermercato; in particolare, mentre la C. gli faceva da schermo, frapponendosi col proprio corpo, P., presa una bottiglia di birra,

aveva consumato la bevanda e, quindi, aveva riposto il contenitore semivuoto sullo scaffale; gli altri oggetti erano stati celati in una borsa, poggiata sul

carrello, o nelle tasche (del P.);

tutta la concorsuale azione delittuosa si era sviluppata sotto il costante e diretto controllo degli addetti alla sorveglianza; costoro erano intervenuti,

subito dopo che gli imputati avevano superato la cassa, senza esibire e senza pagare la merce furtivamente prelevata.

2. Con riferimento ai motivi di gravame e in relazione a quanto serba rilievo

nella sede del presente scrutinio di legittimità, sui punti della definizione

giuridica della condotta furtiva e del diniego della sospensione condizionale della esecuzione della pena al P., la Corte territoriale ha osservato quanto

segue.

2.1. Sebbene l'azione sia avvenuta "sotto la sorveglianza della autorità preposta al controllo", la condotta degli appellanti ha integrato il delitto di furto

consumato, in quanto, secondo il precedente di legittimità in termini, costituito dalla sentenza della Sez. 5, n. 7086 del 19/01/2011, "è sufficiente che il bene

sia passato nella disponibilità anche temporanea dell'agente", sicchè deve essere disattesa la richiesta di entrambi gli appellanti per la derubricazione del

delitto nella ipotesi del tentativo.

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2.2. Neppure merita accoglimento la ulteriore censura del P., per il diniego

della sospensione condizionale della esecuzione della pena.

I precedenti penali ostano alla concessione del beneficio, in quanto l'appellante

ne ha già fruito due volte; mentre - come esattamente considerato dal Tribunale - nulla rileva che, al momento della commissione del furto, fosse

stata depenalizzata la contravvenzione di cui all'art. 116 C.d.S., per la quale il P. era stato in precedenza condannato.

3. Entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione, col ministero

del difensore di fiducia, avvocato P.C., mediante atto recante la data del 3 luglio 2012, depositato il 12 luglio 2012, col quale sviluppano due motivi.

3.1. Col primo motivo il difensore ha denunziato ai sensi dell'art. 606 c.p.p.,

comma 1, lett. b), inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nella applicazione della legge

penale, in relazione agli artt. 56, 110, 624 e 625 c.p..

Il ricorrente, dando atto del contrario arresto di legittimità citato dalla Corte

territoriale, deduce che nella giurisprudenza della Corte di cassazione è presente l'orientamento opposto, secondo il quale, se l'azione furtiva si svolge

sotto il controllo del personale addetto alla sorveglianza, il delitto non deve ritenersi consumato.

Argomenta, quindi, il difensore: neppure "qualora il reo abbia oltrepassato le

casse dell'esercizio commerciale senza pagare la merce sottratta" si perfeziona l'impossessamento; infatti, "a fronte di una situazione (...) monitorata sin

dall'inizio, (...) il corpo di vigilanza (...) del soggetto passivo ha titolo per recuperare il bene dal reo in applicazione della scriminante della legittima

difesa (...) all'interno della sfera di dominio della vittima".

3.2. Col secondo motivo il difensore ha denunziato, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della

motivazione in relazione al diniego dalla sospensione condizionale della

esecuzione della pena nei confronti del P..

Il ricorrente deduce: il delitto contestato è stato commesso quando la contravvenzione di guida senza patente era stata "abolita" e prima che il reato

fosse ripristinato per effetto del D.L. 3 agosto 2007, n. 117, convertito dalla L. 2 ottobre 2007, n. 160; sicchè deve essere applicata la legge più favorevole;

mentre non rileva il ripristino successivo della norma abrogata, come ha stabilito la Corte di cassazione con sentenza n. 23613 del 18/03/2004; il

precedente di legittimità, citato dal giudice di primo grado e, implicitamente fatto proprio dalla Corte di appello (sentenza n. 34682 dell'11/02/1982), non è

pertinente, in quanto nel caso considerato il diniego della sospensione

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condizionale della esecuzione della pena si fondava sulla considerazione del

disvalore "patrimoniale-commerciale" delle condotte.

4. La Quinta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza, in data

22 gennaio 2014, l'ha rimesso alle Sezioni Unite a norma dell'art. 618 c.p.p..

L'ordinanza rileva il contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione, oggetto del primo motivo di ricorso, della qualificazione giuridica della condotta

furtiva consistente nel prelievo di merce dai banchi di un supermercato e nel successivo occultamento della refurtiva all'atto del passaggio davanti al

cassiere, quando tutta la azione delittuosa si sia svolta sotto il controllo costante del personale addetto alla vigilanza, intervenuto solo dopo che il

soggetto attivo ha superato la barriera della cassa.

4.1. Secondo un primo orientamento, cui si è uniformata la Corte territoriale e che è stato da ultimo ribadito con sentenza della stessa Sezione rimettente, n.

20838 del 07/02/2013, Fornella, Rv.

256499, la condotta in parola integra gli estremi del delitto di furto consumato,

nulla rilevando, al riguardo, la circostanza che il fatto sia avvenuto sotto il costante controllo del personale del supermercato incaricato della sorveglianza

(così ex plurimis Sez. 5, n. 7086 del 19/01/2011, Marin, Rv. 249842; Sez. 5, n. 37242 del 13/07/2010, Nasi, Rv. 248650; Sez. 5, n. 27631 del 08/06/2010,

Piccolo, Rv. 248388; Sez. 5, n. 23020 del 09/05/2008, Rissotto, Rv.

240493).

L'indirizzo in parola sostiene che il soggetto attivo del reato nel preciso momento nel quale supera la cassa, senza mostrare (e pagare) la refurtiva

celata, perfeziona la sottrazione del bene del quale consegue istantaneamente il possesso illegittimo.

Peraltro alcuni arresti della Sezione rimettente (non massimati) anticipano,

addirittura, il momento della consumazione del furto (Sez. 5, n. 25555 del

15/06/2012, Magliulo, e Sez. 5, n. 30283 del 30/03/2012, Oprea), correlandolo all'occultamento della refurtiva, prima della presentazione alla

cassa.

4.2. Secondo l'orientamento opposto, invocato dal ricorrente, la concomitante sorveglianza continua dell'azione criminosa da parte del soggetto passivo o dei

suoi dipendenti addetti alla vigilanza impedisce la consumazione del reato di furto, in quanto la refurtiva, appresa e occultata permane nella sfera di

vigilanza e di controllo diretto dell'offeso, il quale può in ogni momento interrompere la condotta delittuosa (così Sez. 5, n. 11592 del 28/01/2010,

Finizio, Rv. 246893; Sez. 5, n. 21937 del 06/05/2010, Lazaar, Rv. 247410; Sez. 5, n. 7042 del 20/12/2010, dep. 2011, D'Aniello, Rv. 249835; Sez. 4, n.

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38534 del 22/09/2010, Bonora, Rv. 248863; e, in tema di rapina impropria,

Sez. 2, n. 8445 del 05/02/2013, Niang, non massimata).

A tale orientamento si riconnette, peraltro, il dictum delle Sezioni Unite, in

tema di configurabilità del tentativo di rapina impropria, nel caso in cui non si sia perfezionata la sottrazione del bene:

"finchè la cosa non sia uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore questi è

ancora in grado di recuperarla, così facendo degradare la condotta di apprensione del bene a mero tentativo" (Sez. U, n. 34952 del 19/04/2012,

Reina).

4.3. In conclusione, sulla base del rilevato contrasto, la Sezione rimettente ha sottoposto la seguente questione:

"Se la condotta di sottrazione di merce all'interno di un supermercato,

avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, sia qualificabile come furto consumato o tentato allorchè l'autore sia fermato dopo il

superamento della barriera delle casse con la merce sottratta".

5. Con decreto del 30 gennaio 2014 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso

alle Sezioni Unite e ha fissato la trattazione per la odierna udienza pubblica. Motivi della decisione

1. Il ricorso dell'imputato merita, nei termini che seguono, parziale

accoglimento, in relazione al secondo motivo di impugnazione.

Il ricorso dell'imputata è totalmente infondato.

2. La questione di diritto, sottoposta all'esame di questo Collegio, non assume, per vero, rilievo nel caso in esame.

I giudici di merito hanno accertato - e il punto risulta affatto pacifico in giudizio

- che, quanto meno per una parte della refurtiva, il perfezionamento

dell'impossessamento e della sottrazione del bene altrui è incontrovertibile.

Infatti, il P., in concorso colla C., che lo spalleggiava, ingerì il contenuto di una bottiglia di birra, prelevata dal banco di esposizione, avendo, quindi, cura di

riporre il contenitore semivuoto sullo scaffale, per dissimulare la sottrazione.

Orbene la consumazione, in senso tecnico, del delitto, perfezionatasi mediante la materiale ingestione del bene sottratto, rende ininfluente la questione della

definizione giuridica della concorrente condotta relativa al compendio costituito dai residui beni, oggetto della furtiva apprensione.

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La Corte di cassazione ha fissato il principio di diritto secondo il quale, qualora

la condotta furtiva riguardi una pluralità di cose di pertinenza dello stesso detentore, nel medesimo contesto temporale e spaziale, se l'agente si

impossessi di alcuni dei beni, senza riuscire, per cause indipendenti dalla sua

volontà, a impossessarsi degli altri, l'azione complessa, essendo progressiva, deve essere considerata unica, in quanto la parte più rilevante, già posta in

essere, assorbe quella in itinere; e realizza un solo e unico reato consumato delle cose sottratte, restando escluse sia l'ipotesi del furto tentato sia quella

del furto consumato in concorso con il tentativo (così Sez. 5, n. 1985 del 07/02/1997, El Bouhtari, Rv.

208667; cui adde Sez. 2, n. 2185 del 03/12/1975, dep. 1976, Salvatore, Rv.

132353; Sez. 5, n. 32786 del 25/06/2013, Craparotta, Rv. 257256).

Corretta risulta, pertanto, la qualificazione del reato operata dalla Corte territoriale.

3. In ordine al diniego della sospensione condizionale della esecuzione della

pena, chiesta dal P., la Corte territoriale è incorsa in vero e proprio errore di

diritto, reputando che la condanna, per reato depenalizzato, in relazione alla quale il ricorrente aveva fruito del beneficio per la seconda volta, costituisse

formale ostacolo per la reiterazione.

Al di là di alcuni arresti in tal senso, risalenti, peraltro, nel tempo (Sez. 2, n. 3377 del 03/02/1997, Bonetta, Rv. 207552; Sez. 6, n. 35176 del 05/07/2001,

Magrini, Rv. 220106 e, da ultimo, Sez. 4, n. 14857 del 27/02/2003, Torchia, Rv. 224823), la giurisprudenza di legittimità si è, ormai, pacificamente

orientata nella affermazione del principio di diritto, secondo il quale le precedenti condanne relative a fatti non più costituenti reato per abolitio

criminis non sono preclusive della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena (Sez. 6, n. 16363 del 05/02/2008, Scaccini, Rv.

239555; cui adde, tra le altre, Sez. 4, n. 21730 del 02/03/2004, Campolo, Rv. 228578; Sez. 5, n. 28714 del 04/07/2005, Savegnago, Rv.

231867; Sez. 5, n. 44281 del 01/07/2005, Scutti, Rv. 232621; Sez. 5, n. 18 del 27/11/2007, dep. 2008, Colombo, Rv. 238876).

Nè, alla luce dei principi della irretroattività della legge penale e, nel caso di

successione nel tempo di leggi diverse, della applicazione di quella più favorevole per il reo, la novella recata dal D.L. 3 agosto 2007, n. 117,

convertito dalla L. 2 ottobre 2007, n. 160 (che ha ripristinato la sanzione penale per la condotta di guida di veicolo senza la prescritta abilitazione)

assume rilievo - nel senso postulato dai giudici di merito - della "reviviscenza degli effetti penali" della condanna infitta per reato poi abolito.

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Esclusa, pertanto, la ricorrenza del divieto formale dell'articolo 164 c.p.,

comma 4, primo inciso, resta, beninteso, impregiudicata la valutazione, ai fini del giudizio prognostico di cui al primo comma del medesimo articolo, anche

delle condotte relative alle precedenti condanne per reati poi depenalizzati

(Sez. 5, n. 34682 del 11/02/2005, Marisca, Rv. 232312, cui adde Sez. 3, n. 15164 del 16/01/2003, Gravano, secondo la quale nel caso di sopravvenuta

abolitio criminis, sebbene "la cessazione di tutti gli effetti penali della condanna non si connette automaticamente al giudizio prognostico di ravvedimento

previsto dalla legge ... appare logica e coerente la considerazione che, ai fini della prognosi per il futuro, il fatto che il soggetto ha più volte violato i precetti

penali, per quanto successivamente interessati da una modifica legislativa che ha abrogato la norma incriminatrice, fa ritenere poco probabile che egli si

astenga dal commettere nuovi reati per l'avvenire").

Ma in proposito non basta la mera prospettazione dell'astratta possibilità di siffatta valutazione (evocata dal giudice di primo grado e richiamata dalla

Corte territoriale); occorre il concreto e motivato apprezzamento della condotta ai fini del giudizio prognostico in ordine alla sospensione condizionale della

esecuzione della pena.

Si rende, pertanto, necessario un nuovo giudizio nei confronti del P. riguardo

alla sospensione condizionale della esecuzione della pena.

4. Conseguono alle considerazioni che precedono l'annullamento della sentenza impugnata nei confronti del P., limitatamente alla sospensione condizionale

della pena, il rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Napoli;

il rigetto, nel resto, del ricorso dell'imputato; il rigetto del ricorso della C. e, ai

sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna di costei al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di P. G., limitatamente alla

sospensione condizionale della pena, e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.

Rigetta nel resto il ricorso di P..

Rigetta il ricorso di C.V. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 24 aprile 2014.

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La condotta di sottrazione di merce dai banchi vendita di un

supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di vigilanza, deve ritenersi qualificabile come furto tentato, allorchè

l'autore sia fermato dopo il superamento delle casse senza aver pagato

la merce prelevata, dovendo ritenersi che, in presenza dei presupposti di fatto indicati, non possa considerarsi realizzata la sottrazione della

cosa, dal momento che il possessore originario conserva una relazione col bene e può in ogni momento interrompere l'azione delittuosa.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 23-09-2014) 09-10-2014, n. 42247

Svolgimento del processo

1. Con sentenza resa in data 4/3/2010, il tribunale di Savona ha condannato

B.V. e B.P. alla pena di quattro mesi e dieci giorni di reclusione ed Euro 120,00

di multa ciascuno, in relazione al reato di furto aggravato in concorso,

consistito nella sottrazione di due videogiochi elettronici per consolle

"Playstation" e di una bottiglia di liquore dagli scaffali di un esercizio

commerciale, commesso in (OMISSIS).

Su appello del procuratore distrettuale e degli imputati, la corte d'appello di

Genova, ritenuta l'insussistenza della circostanza attenuante di cui all'art. 62

c.p., n. 6, (già riconosciuta dal primo giudice), pur confermando il giudizio di

equivalenza tra tutte le circostanze, ha disposto l'aumento della pena inflitta

agli imputati, stabilendola in quella di sette mesi di reclusione ed Euro 140,00

di multa ciascuno, confermando, nel resto, la sentenza di primo grado.

2. Avverso la sentenza d'appello, a mezzo del comune difensore, hanno

proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati.

Con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per -

violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al riconosciuto concorso

di B.V. nella commissione del reato oggetto d'esame, in assenza di alcun

riscontro probatorio idoneo ad attestarne il ricorso.

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Sotto altro profilo, i ricorrenti si dolgono della violazione di legge e del vizio di

motivazione in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nel procedere alla

qualificazione del fatto ascritto agli imputati nella prospettiva del reato

consumato, anzichè in quella del tentativo, essendo stati gli imputati fermati

all'altezza delle casse dell'esercizio commerciale senza aver mai costituito un

autonomo possesso sui beni oggetto di sottrazione.

Da ultimo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di

motivazione in relazione alla riconosciuta recidiva a loro carico, all'omessa

concessione delle circostanze attenuanti generiche e all'ingiusto giudizio di

equivalenza tra tutte le circostanze:

decisioni, tutte, assunte dalla corte d'appello in assenza di adeguata

giustificazione.

Allo stesso modo, gli imputati censurano la sentenza impugnata per avere

escluso la circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 6, avendo la corte

distrettuale erroneamente omesso di riconoscere la volontà, concretamente

manifestata dagli imputati, di risarcire integralmente il danno sofferto dalla

parte lesa, adoperandosi efficacemente per elidere le conseguenze dannose del

reato.

Motivi della decisione

3.1. L'impugnazione proposta dai due imputati è parzialmente fondata nei

termini di cui appresso.

Dev'essere preliminarmente disattesa la censura sollevata dai ricorrenti con

riguardo al contestato riconoscimento della responsabilità di B.V. a titolo di

concorso nella commissione del furto oggetto d'esame, avendo i giudici del

merito correttamente valorizzato, sulla base di una motivazione del tutto

immune da vizi d'indole logica o giuridica, la circostanza costituita dalla

contestuale presenza di B.V. nel momento in cui B.P. ebbe a prelevare i giochi

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dagli scaffali del magazzino, nonchè nel momento in cui quest'ultimo ebbe a

rompere la placca antitaccheggio, successivamente muovendosi insieme alla

volta del reparto alcolici, dove uno degli imputati prelevò una bottiglia di

sambuca da cui tutti gli imputati si servirono.

Al riguardo, del tutto correttamente il giudice di primo grado (sul punto

opportunamente richiamato dalla corte d'appello) ha ritenuto comprovata la

consumazione in concorso del delitto contestato agli imputati, risultando

evidente la condivisione del progetto criminoso da parte di tutti i protagonisti,

oltre al supporto reciprocamente fornito, tanto a livello materiale (tutti gli

imputati erano sempre presenti al momento della commissione delle condotte

furtive, di fatto svolgendo la funzione di "palo", senza avvedersi del sistema di

videosorveglianza presente nel magazzino che permise alle guardie giurate di

controllare e fermare gli imputati dopo la barriera delle casse: cfr. fl. 5 della

sentenza di primo grado), quanto a livello psicologico, tenuto conto del

supporto morale fornito all'autore materiale mediante la consenziente e utile

presenza al momento dell'impossessamento.

Sul punto, costituisce un'ulteriore conferma della partecipazione in concorso di

tutti i protagonisti del fatto la circostanza che tutti gli imputati ammisero

l'addebito dopo esser stati fermati dalle guardie giurate (cfr. loc. ult. cit).

Del pari prive di fondamento devono ritenersi le censure sollevate dai ricorrenti

con riguardo al riconoscimento, a loro carico, della recidiva, all'omessa

concessione delle circostanze attenuanti generiche e al giudizio di equivalenza

tra tutte le circostanze, avendo i giudici del merito sul punto valorizzato, sulla

base di una motivazione da ritenersi coerente e adeguata sul piano logico-

giuridico, lo spessore criminale degli imputati, come desumibile dai precedenti

risultanti dai certificati del casellario giudiziale, di per sè idoneo a sostanziare

in modo concreto il giudizio negativo così espresso, in coerenza con i criteri

indicati dall'art. 133 c.p..

Dev'essere infine disattesa la doglianza dei ricorrenti relativa all'esclusione,

operata dalla corte territoriale, della circostanza attenuante di cui all'art. 62

c.p., n. 6, avendo il giudice d'appello correttamente evidenziato il carattere

solo parziale e incompleto del risarcimento prospettato dagli imputati,

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essendosi gli stessi limitati all'offerta del solo valore economico dei beni

sottratti, del tutto ignorando il danno morale conseguente alla commissione del

reato.

Sul punto è appena il caso di richiamare l'insegnamento di questa corte di

legittimità, ai sensi del quale, ai fini della concessione dell'attenuante del

risarcimento del danno, la riparazione dev'essere integrale, sicchè non possono

giovare all'imputato, in caso di riparazione parziale o inadeguata, la

dichiarazione liberatoria della persona offesa o la considerazione degli sforzi

economici affrontati per effettuarla (v. Cass., Sez. 5^, n. 13282/2013, Rv.

255187).

3.2. Dev'essere viceversa accolta l'impugnazione proposta dagli imputati con

riguardo alla qualificazione giuridica del fatto loro ascritto, avendo la corte

territoriale (sulla scia del giudizio sul punto espresso dal primo giudice)

erroneamente riconosciuto, nella condotta dei ricorrenti, la commissione del

reato di furto consumato (anzichè tentato), senza tener conto della circostanza

che gli stessi ebbero a compiere le condotte furtive (quantomeno dei

videogiochi rinvenuti in loro possesso, attesa la materiale immediata

consumazione dell'alcol sottratto dagli scaffali) sotto il costante controllo della

persona offesa (attraverso il ricorso al sistema di videosorveglianza attivo al

momento del fatto: cfr. fi. 5 della sentenza di primo grado), venendo

successivamente fermati all'altezza delle casse.

Al riguardo, vale richiamare il recente arresto delle sezioni unite di questa

Corte, ai sensi del quale la condotta di sottrazione di merce dai banchi vendita

di un supermercato, avvenuta sotto il costante controllo del personale di

vigilanza, deve ritenersi qualificabile come furto tentato, allorchè l'autore sia

fermato dopo il superamento delle casse senza aver pagato la merce prelevata

(Cass., Sez. Un., 17 luglio 2014, Prevete), dovendo ritenersi che, in presenza

dei presupposti di fatto indicati, non possa considerarsi realizzata la sottrazione

della cosa, dal momento che il possessore originario conserva una relazione col

bene e può in ogni momento interrompere l'azione delittuosa (v., in termini,

Cass., Sez. 5^, n. 2151/2013, Rv. 258871).

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15

Sulla base di tali premesse, dev'essere pronunciato l'annullamento della

sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di

Genova, ai fini della rideterminazione del trattamento sanzionatorio a carico

degli imputati.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, qualificato come furto tentato il fatto

concernente i videogiochi annulla l'impugnata sentenza e rinvia ad altra

sezione della Corte d'Appello di Genova limitatamente alla rideterminazione

della pena.

Rigetta nel resto i ricorsi.

Visto l'art. 624 c.p.p., dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità dei

ricorrenti Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 settembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2014

Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del

danno di speciale tenuità é applicabile anche al delitto tentato quando

sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base

ad un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato riportato al

compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato

di rilevanza minima.

Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 28-03-2013) 28-06-2013, n. 28243

Svolgimento del processo

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1. Z.S.G., giudicato con rito abbreviato, fu condannato dal Tribunale di Torino,

con sentenza in data 24 aprile 2008, alla pena di mesi cinque di reclusione in

quanto riconosciuto colpevole dei delitti di tentato furto aggravato da violenza

sulle cose e dall'uso di mezzo fraudolento (artt. 56 e 624 c.p., art. 625 c.p., n.

2, capo A), nonchè di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p., capo B),

aggravata ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 2, per aver commesso il fatto al fine di

conseguire l'impunità dal delitto di tentato furto.

1.1. Considerato più grave tale secondo delitto, ritenuta la continuazione,

riconosciute le attenuanti generiche, valutate equivalenti alle aggravanti,

tenuto conto della diminuente del rito, la pena è stata determinata come prima

indicato.

2. La Corte di appello di Torino, con sentenza 19 dicembre 2011, ha

integralmente confermato la pronunzia di primo grado, in particolare ritenendo

inapplicabile al delitto tentato l'attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n.

4, cod. pen., pur richiesta con il primo motivo dell'atto di appello.

3. La condotta addebitata a Z.S. con riferimento al delitto del capo A è la

seguente: "avere compiuto, al fine di trarne profitto, atti idonei, diretti in modo

non equivoco, ad impossessarsi delle monete custodite nell'apposito cassetto di

un distributore automatico di bevande, ubicato in un ospedale, mediante la

forzatura di una griglia di protezione, con l'uso di un pezzo di ferro, non

riuscendo nel suo intento per l'intervento di una guardia giurata".

4. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, articolando un

unico motivo e lamentando violazione di legge sostanziale in relazione

all'omesso riconoscimento della attenuante del danno di speciale tenuità, in

relazione al delitto di furto tentato e sostenendo che la giurisprudenza di

legittimità, cui aveva fatto riferimento la Corte di appello per negare detta

attenuante, doveva ritenersi superata, alla luce delle più recenti sentenze della

Corte di cassazione, che hanno riconosciuto che, anche con riferimento al

tentativo di furto, possa sussistere (e debba quindi esser valutata) l'attenuante

comune di cui all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4, in considerazione delle concrete

modalità dell'azione e dei vari indici sintomatici, desumibili dalle stesse

risultanze processuali. Essa dunque ricorrerebbe tutte le volte in cui, se il

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17

delitto fosse stato portato a esecuzione, la vittima avrebbe subito un danno di

speciale tenuità.

5. Il ricorso è stato assegnato alla Seconda Sezione penale, che, ravvisando sul

punto oggetto dell'unico motivo di ricorso un permanente contrasto di

giurisprudenza, ha rimesso, con ordinanza 19 dicembre 2012, il ricorso alle

Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 c.p.p..

6. Il Primo Presidente, con decreto del 20 novembre 2012, ha assegnato il

ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione la odierna udienza.

7. Ha depositato memoria il difensore dell'imputato, con la quale ribadisce e

argomenta la compatibilità dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., comma 1, n.

4, con il delitto di furto tentato.

Motivi della decisione

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite è la seguente: "se, nei reati contro il

patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità

possa, o meno, applicarsi anche al delitto tentato".

2. Sul punto, come si rileva nell'ordinanza della Seconda Sezione,

effettivamente la giurisprudenza di questa Corte non si è mostrata univoca,

pur essendo, a far tempo dagli anni '70 del secolo scorso, nettamente

prevalenti - di certo dal punto di vista quantitativo - le pronunzie ispirate alla

tesi che sostiene la compatibilità della attenuante di cui all'art. 62, comma

primo, n. 4, cod. pen. con i delitti tentati contro il patrimonio, in genere, e con

il delitto di furto tentato, in particolare.

2.1. A fronte di tale orientamento, ne sussiste altro - come si è premesso, di

minor consistenza numerica - che giunge alla opposta conclusione.

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Si sostiene infatti, da parte della "corrente minoritaria" che, non essendo il

danno elemento costitutivo del delitto di furto, l'attenuante in questione non

può trovare applicazione in tema di furto tentato, atteso che, nel tentativo, per

definizione e per presupposto, il danno non è presente (tra le più recenti: Sez.

5, n. 11923 del 27/01/2010, Luongo, Rv. 2465S6, relativa al tentato furto di

una serranda; Sez. 5, n. 11142 del 06/10/2005, dep. 2006, Buonarota, Rv.

233885, relativa al tentato furto di un ciclomotore).

Poichè, in sintesi, si sostiene, l'attenuante in questione presuppone

Indefettibilmente la consumazione del reato e l'esistenza di un danno (effettivo

e non ipotetico), che appunto della sottrazione della cosa è conseguenza, essa

può essere invocata solo in presenza di furto consumato (Sez. 4, n. 14204 del

09/07/1990, Venuti, Rv. 185566).

3. In realtà, sin dall'entrata in vigore del codice Rocco, la giurisprudenza di

legittimità si era interrogata sulla rilevanza delle circostanze nel delitto tentato

(nell'ambito dei delitti contro il patrimonio, in particolare).

Al proposito, la Prima Sezione, aveva avuto modo di sviluppare, sul finire degli

anni '30, una riflessione di carattere generale, sostenendo che "l'oggetto del

tentativo non può non influire sulla punibilità del tentativo stesso; e, inoltre,

quando il danno è elemento imprescindibile della nozione del reato, esso deve

funzionare, tanto in rapporto al reato consumato, quanto in rapporto a quello

tentato" (Sez. 1, 15/02/1939, Fabbri, in tema di tentata concussione, in Giust.

pen., 1939, parte seconda, col. 759).

In tema di furto, tuttavia, proprio in considerazione del fatto che il danno non è

elemento costitutivo del reato di cui all'art. 624 cod. pen., la Seconda Sezione

aveva decisamente escluso l'applicabilità dell'attenuante del danno di speciale

tenuità in relazione a tutti i delitti tentati contro il patrimonio (cfr. sent.

11/04/1938, Aglieri; sent. 21/07/1938, Pellegrini; sent. 14/12/1938,

Abruzzese; sent. 10/02/1939, Barbanti; sent. 01/03/1939, Ronchi;

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sent. 19/06/1939, Schiavini; tutte in Giust pen., 1939, parte seconda, col. 359

ss., nonchè sent. 13/11/1940, Dell'Ara, in Riv.

pen., 1941, p. 27).

4. Nei decenni successivi, la medesima Seconda Sezione ebbe occasione di

ribadire che "l'attenuante prevista dall'art. 62 n. 4 cod. pen. non può trovare

applicazione nel caso di tentativo, essendo basata su elementi che possono

presentarsi soltanto come conseguenza della consumazione perfetta del reato"

(sent. 19/01/1957, Giordani, in Giust. pen., 1957, parte seconda, col. 461).

Si può dunque sostenere che negli anni più lontani l'orientamento prevalente

era nel senso di escludere la compatibilità della attenuante in questione con i

delitti tentati contro il patrimonio.

4.1. Si rinvengono, tuttavia, anche all'epoca, pronunzie in senso contrario della

medesima Sezione: sent. 27/02/1957, Pozzi, in Giust.

pen., 1957, parte seconda, col. 461; sent. 11/12/1957, Nardo, ivi, 1958, parte

seconda, col. 465; sent. 14/07/1955, Badolin, ivi, 1956, parte seconda, col.

134, quest'ultima relativa proprio al delitto di furto tentato, la cui massima

recita "l'attenuante prevista dall'art. 62, n. 4, cod. pen. può essere applicata

anche nel caso di reato tentato, quando però risulti che l'azione, rimasta

incompiuta, ha avuto per oggetto un compendio di valore determinabile con

precisione, in maniera da aversi la matematica certezza che, se essa fosse

giunta a consumazione, avrebbe cagionato alla persona offesa un danno di

speciale tenuità". Tali considerazioni, per altro, erano state anticipate da Sez.

1, sent. 05/03/1948, Manzi (in Giust pen., 1948, parte seconda, col. 808), che

aveva chiarito che l'attenuante de qua non poteva ritenersi ricorrente nel caso

in cui l'agente si fosse introdotto - per rubare - in una abitazione "poichè (...)

l'oggetto del reato era (costituito da) una quantità indeterminata di cose",

atteso che l'attenuante ex art. 62 c.p., n. 4, ricorre, nel caso di furto tentato

"solo quando il tentativo abbia avuto per oggetto una cosa determinata, il cui

valore sia, appunto, di speciale tenuità". Dunque: la possibilità di individuare in

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concreto l'oggetto su cui cade l'azione delittuosa è considerata da parte della

giurisprudenza da ultimo citata condicio sine qua non per la eventuale

applicazione della attenuante del danno di speciale tenuità, per il buon motivo

che, solo in tal caso, appare possibile valutare, sia pure in via ipotetica, l'entità

del danno stesso.

4.2. Anche successivamente, le pronunce favorevoli alla compatibilità,

generalmente, richiederanno che risulti accertato (anche, eventualmente,

attraverso l'esame delle modalità della condotta) che, se l'evento si fosse

realizzato, alla persona offesa sarebbe derivato un danno di speciale tenuità

(cfr., in ordine cronologico, le seguenti sentenze tutte della Seconda Sezione:

n. 313 del 12/02/1968, Indelicato, Rv. 107662; n. 6825 del 17/01/1977,

Gatto, Rv. 136015; n. 12742 del 31/05/1978, Predoti, Rv. 140244; n. 8586 del

03/04/1979, Cricchio, Rv. 143165; contra però ancora Sez. 2, n. 2177 del

24/11/1975, dep. 1976, Turrlsi, Rv. 132351 (che viceversa sostiene che

"riguardo all'applicazione dell'attenuante del danno, (va chiarito che) essa è

incompatibile con il delitto tentato, presupponendo la consumazione del reato e

l'esistenza del danno conseguente alla sottrazione").

Sempre si richiedeva, tuttavia, la prova rigorosa ed univoca che, se l'azione si

fosse realizzata, il danno che ne sarebbe derivato sarebbe stato sicuramente di

speciale tenuità; si vuole, insomma, che le modalità del fatto siano tali da

fornire la certezza che, immaginando che l'agente avesse conseguito il suo

scopo, ne sarebbe derivato un danno patrimoniale particolarmente tenue (in

ordine cronologico, cfr., della Seconda Sezione: sent. n. 11676, 22/02/1980,

dep. 08/11/1980, rie. Passa, Rv. 146527, sent. n. 225, 14/07/1980, dep.

17/01/1981, ric. Genco, Rv. 147303, sent. n. 5045, 28/11/1980, dep.

27/05/1981, ric. Vitale, Rv. 149056, sent. n. 538, 16/06/1981, dep.

23/01/1982, ric. Zampini, Rv. 151711, sent. n. 5642, 22/12/1981, dep.

05/06/1982, ric. Cotrona, Rv. 154113, sent. n. 7686, 09/03/1982, dep.

04/08/1982, ric. Ricciardi, Rv. 154881, sent. n. 9434, 03/03/1982, dep.

16/10/1982, ric. Flora, Rv. 155645, sent. n. 10158, 16/03/1982, dep.

28/10/1982, ric. Vona, Rv. 155870, sent. n. 1634, 23/03/1982, dep.

24/02/1983, ric. Iacobbi, Rv. 157538, sent. n. 9600, 14/04/1983, dep.

15/11/1983, ric. Guercini, Rv. 161188, sent. n. 10679, 01/06/1983, dep.

10/12/1983, rie. Foropat, Rv. 161674, n. 3768 del 11/07/1983, dep. 1984,

Versace, Rv. 163855; n. 9038 del 04/05/1984, Murabito, Rv. 166288; n. 1315

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del 25/10/1984, dep. 1985, Barbagallo, Rv. 167797; n. 4356 del 16/11/1984,

1985, Irrera, Rv.

169067; n. 10452 del 13/06/1985, Macalli, Rv. 171004; n. 3964 del

21/11/1988, dep. 1989, Rubino, Rv. 180823; n. 4767 del 04/12/1989, dep.

1990, De Angelis, Rv. 183915; della Quarta Sezione: n. 8241 del 01/08/1985,

La Piana, Rv. 170474; n. 55 del 19/10/1988, dep. 1989, Cari, Rv. 180074; n.

876 del 14/12/1988, dep. 1989, Manfregola, Rv.

180259; della Quinta Sezione: n. 5170 del 09/02/1983, Cecilia, Rv.

159348; della Sesta Sezione: n. 8163 del 30/04/1982, Pirottina, Rv.

155156).

Va rilevato che sono specificamente relative a fattispecie di tentato furto le

decisioni n. 11676 del 1980; n. 5642 del 1982; n. 7686 del 1982; n. 8163 del

1982, n. 9600 del 1983; n. 9038 del 1984; n. 1315 del 1985; n. 55 del 1989;

n. 876 del 1989; è relativa a fattispecie di tentata rapina la sentenza n. 3964

del 1989; è relativa a fattispecie di tentata truffa la sentenza n. 4767 del 1990.

4.3. Il giudice, dunque - secondo questo, ormai prevalente, orientamento

giurisprudenziale - deve prendere in esame le concrete modalità del fatto,

concentrando la sua attenzione sull'oggetto materiale preso di mira; e ciò allo

scopo di accertare l'entità del nocumento patrimoniale che il reato - se portato

a consumazione - avrebbe cagionato alla persona offesa (in ordine cronologico,

cfr.

Seconda Sezione: n. 39837 del 22/05/2009, De Luca, Rv. 245258; Quinta

Sezione, n. 8413 del 04/06/1992, Leo, Rv. 191491; n. 2063 del 12/01/1994,

Calvanico Rv. 197273, n. 2335 del 19/01/1994, Vaccaro, Rv. 197278; n. 648,

05/02/1999, Gerlini, Rv. 214875; n. 32467 del 12/07/2004, Gurrieri (non

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massimata sul punto); n. 44153 del 30/09/2008, Chiarcesio, Rv. 241688; n.

35827 del 04/06/2010, Borgia, Rv. 248500; n. 43268 del 19/10/2011,

Termine, Rv. 251711; Sesta Sezione: n. 10355 del 16/02/1992, Vestita, Rv.

192098).

Va notato, in particolare che la sentenza Chiarcesio, appena citata, utilizza

l'espressione: "occorre avere riguardo al danno ipotetico che il reato, se

consumato, avrebbe causato".

5. Le sentenze, viceversa, che, in numero ormai nettamente minore, negano la

compatibilità con il tentativo di furto della attenuante in questione (cfr. le già

citate sentenze Sez. 4, Venuti, Rv.

185566; Sez. 5, Buonarota, Rv. 233885; Sez. 5, Luongo, Rv. 246566)

insistono, come si è visto, sulla estraneità alla struttura del delitto di furto del

concetto di danno, dovendosi intendere, comunque, come tale quello diretto e

immediato, subito dalla persona offesa.

6. Orbene, riassunto come sopra lo sviluppo e le "linee di tendenza" della

giurisprudenza di legittimità dall'entrata in vigore del codice Rocco ad oggi, si

deve riconoscere che un'accorta riflessione sulla problematica che ha

determinato l'assegnazione del ricorso a queste Sezioni Unite non può non

prendere le mosse da considerazioni che, avendo riguardo alla struttura stessa

del delitto tentato, approfondiscano, innanzitutto, il tema della ipotizzabilità di

un delitto tentato circostanziato.

7. Sul punto, la dottrina non è unanime.

7.1. Alcuni Autori, infatti, escludono in radice la compatibilità tra tentativo e

circostanze. Si sostiene al proposito, da un lato, che l'art. 56 c.p., fa

riferimento ai soli delitti, senza alcuna ulteriore specificazione, dall'altro, che le

circostanze attengono al solo momento sanzionatorio, senza dar luogo a una

autonoma fattispecie astratta.

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Le circostanze "tentate", si afferma, non esistono nel nostro sistema penale,

atteso che l'art. 59 c.p., ha prefigurato un meccanismo di imputazione delle

circostanze fondato sul presupposto dell'effettiva esistenza delle stesse.

7.2. Vi è anche chi esclude la configurabilità del delitto circostanziato tentato

con riferimento alle sole circostanze attenuanti. A sostegno di tale conclusione

si è fatto rilevare che la modifica (ad opera della L. 7 febbraio 1990, n. 19),

dell'art. 59 c.p. ha riguardato le sole circostanze aggravanti, rendendo così

ammissibile il delitto circostanziato tentato, ma esclusivamente in relazione a

esse, mentre per le attenuanti, sarebbe sempre valido il principio della

operatività di circostanze obiettivamente realizzate e non meramente

ipotizzate, atteso il testo vigente dell'art. 59 c.p..

7.3. Per quanto poi specificamente riguarda la compatibilità dell'attenuante di

cui all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4, con il delitto tentato, vi è chi, pur non

negando - in astratto e in generale - la possibilità di un delitto tentato cui

ineriscano (possano inerire) alcune circostanze, sostiene che l'attenuante de

qua dovrebbe comunque essere esclusa, in quanto il danno rilevante ai fini

della sua integrazione, avuto riguardo alla lettera della disposizione, è solo

quello effettivo ("avere cagionato (...) un danno patrimoniale di speciale

tenuità") e che la assenza del danno connota, appunto, il delitto tentato e

costituisce la ratio della più blanda punizione rispetto al delitto consumato.

L'assenza di danno (lieve, lievissimo, grave, gravissimo, che sia), dunque, in

quanto già valutata - in linea generale - dal legislatore, da ragione del

differente trattamento sanzionatorio, rispetto al delitto consumato.

7.4. Viene inoltre posto in campo anche un argomento testuale, comparando il

testo dell'art. 62 c.p., n. 4, che fa riferimento al danno cagionato, con quello

dell'art. 61 c.p., n. 8, che, viceversa, attribuisce espressamente rilievo alla

condotta consistente, non solo nell'"aver aggravato", ma anche nell'aver

"tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso".

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8. Altri Autori sostengono, invece, la configurabilità del delitto circostanziato

tentato e, nello specifico, la sua compatibilità con l'attenuante di cui all'art. 62

c.p., comma 1, n. 4.

Si assume al proposito, innanzitutto, che il delitto semplice e il delitto

circostanziato costituiscono fattispecie incriminatici autonome, fattispecie che

disegnano differenti titoli di reato. Non vi è ragione di non "ibridare" il disposto

dell'art. 59 c.p., con la disciplina del tentativo (e ciò a maggior ragione dopo la

riforma operata dalla L. n. 19 del 1990). Nel testo attualmente vigente, infatti,

l'art. 59 si limita a escludere la rilevanza di circostanze meramente supposte.

Per altro, la compatibilità è stata anche ritenuta, da una parte della dottrina,

sul presupposto che il divieto di configurabilità del delitto circostanziato tentato

opererebbe solo con riferimento alle aggravanti e non anche alle attenuanti;

ciò in coerenza con la funzione di garanzia che assume il principio di legalità-

tipicità nel nostro ordinamento.

9. In realtà, è indubbio che alcune circostanze siano oggettivamente

incompatibili con il tentativo. Certamente lo sono quelle relative a una attività

che neanche parzialmente sia stata posta in essere.

Proprio in dottrina, d'altra parte, si è distinto il delitto circostanziato tentato

(ovvero il tentativo di delitto circostanziato), dal delitto tentato circostanziato

(ovvero il tentativo circostanziato di delitto).

Il primo (delitto circostanziato tentato) è il tentativo di un delitto che, se fosse

giunto a consumazione, sarebbe apparso qualificato da una o più circostanze.

Il secondo (delitto tentato circostanziato) si realizza quando, nella fase

esecutiva del tentativo, risultino integrate circostanze attenuanti o aggravanti,

anche se il delitto avuto di mira non giunge a consumazione.

Dunque: nel primo caso, la circostanza non si è, di fatto, è realizzata, ma, per

così dire, è rimasta assorbita nel tentativo (es. art. 61 c.p., comma 1, n. 7, e,

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appunto, art. 62 c.p., comma 1, n. 4, cod. pen.); nel secondo gli elementi

costitutivi della circostanza si sono effettivamente realizzati (es. art. 61 c.p.,

comma 1, n. 6, art. 62 c.p., comma 1, n. 2).

9.1. Ebbene riesce difficile, per non dire impossibile, sostenere che, nella

seconda ipotesi (delitto tentato circostanziato), la circostanza - aggravante o

attenuante - non sia applicabile, dal momento che essa, indubitabilmente,

sussiste in rerum natura.

9.2. Il problema, evidentemente, rimane, allora, circoscritto alla prima ipotesi:

quella in cui la circostanza, pur inerente alla condotta dell'agente, non è stata

posta in essere, in quanto detta condotta si è arrestata prima che la

circostanza potesse essere realizzata. Il che accade sempre quando "il venire al

mondo" della circostanza coincide con la consumazione del delitto. Trattasi, ad

evidenza, del caso in esame, in quanto, come è ovvio, il danno patrimoniale (di

speciale tenuità) postula la consumazione del furto: evidentemente, se la res

non viene sottratta, il soggetto passivo non subisce alcun danno patrimoniale

diretto. Il che però è insito nel concetto stesso di delitto tentato, in quanto

reato senza evento (in senso naturalistico). Da questo punto di vista, dunque,

il delitto tentato può essere assimilato - come pure è stato fatto - ai reati di

pura condotta o anche a quelli a consumazione anticipata, reati per i quali,

come è noto, il legislatore ha previsto la punibilità prima del (o a prescindere

dal) verificarsi dell'evento.

Invero, sia nel delitto tentato che in quello a consumazione anticipata è

richiesta tanto la idoneità dell'atto, quanto un principio di esecuzione, dal quale

si possa desumere la unidirezionalità della condotta (cfr. Sez. 1, n. 11344 del

10/05/1993, Algranati, Rv. 195753; Sez. 1, n. 11394 del 11/02/1991, Abel,

Rv. 188642). D'altra parte, nei reati di pura condotta, come è noto, la

consumazione coincide con il compimento di quell'azione (ovvero di

quell'omissione) descritta nella norma incriminatrice.

9.3. Orbene, tali categorie di reati (di pura condotta e a consumazione

anticipata) pacificamente ammettono la forma circostanziata, come può

desumersi, tra le altre, dalla sentenza per ultima citata che, pur

disconoscendo, nel caso specifico, la sussistenza della attenuante di cui all'art.

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61 c.p., comma 1, n. 1, ciò fa per motivi attinenti alla fattispecie concreta e

non per una ritenuta - astratta e generale - incompatibilità tra la predetta

circostanza e i delitti di attentato.

9.4. In realtà, la natura esclusivamente dolosa del delitto tentato comporta che

determinate circostanze (aggravanti o attenuanti) ben possano essere presenti

nel momento ideativo e volitivo del delitto, come modalità e/o finalità

dell'azione che si intende compiere.

Naturalmente è richiesto che la volontà criminosa non rimanga allo stadio di

semplice intendimento, ma si manifesti attraverso condotte significative, cui

sia collegata una apprezzabile probabilità di "successo" (appunto: atti idonei,

diretti in modo non equivoco a commettere un delitto). Anche le circostanze

non realizzate dunque (è l'ipotesi del tentativo di delitto circostanziato, cioè del

delitto circostanziato tentato), contribuiscono a integrare e a caratterizzare il

proposito criminoso.

Per quel che si è detto prima, tuttavia, deve trattarsi di circostanze riconoscibili

in base a quel frammento di condotta che il soggetto ha effettivamente posto

in essere. E la riconoscibilità, va da sè, costituisce il riflesso nella mente

dell'interprete della inequivocità dell'azione. Invero, da un punto di vista logico,

il giudizio sulla inequivocità degli atti (e dunque sulla direzione dell'azione)

sembra precedere quello sulla loro idoneità, in quanto solo un atto

riconoscibilmente diretto a uno scopo può essere valutato sotto il profilo della

sua (potenziale) efficacia. Vero è, tuttavia, che solo un atto (sia pure

astrattamente) idoneo si presta a un giudizio di tipo teleologia), essendo la

potenziale efficacia dello stesso un presupposto per individuarne la finalità. Di

talchè idoneità e univocità si pongono come due connotazioni dell'agire

volontario che, congiuntamente apprezzate, rendono - ad un tempo -

riconoscibile (dai terzi) e raggiungibile (potenzialmente) lo scopo perseguito

dall'agente.

9.5. Ma l'azione diretta a uno scopo - questo è il punto - ben può inglobare

quella che l'ordinamento considera una circostanza del reato, in quanto

caratterizzante, come si è premesso, le modalità della condotta, ovvero in

quanto inerente all'oggetto della attività criminosa.

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Il problema, allora, si risolve, da un lato, nel vagliare la compatibilità logica e

giuridica della circostanza (di quella circostanza) con il tentativo di delitto,

dall'altro, in una mera questione di prova, vale a dire nella valutazione della

compatibilità in concreto, cioè nel verificare la ravvisabilità, nell'ambito del

singolo episodio criminoso e sulla base delle evidenze raccolte, della

circostanza in questione. In tal senso, non a caso, si è espressa quella

giurisprudenza che ha esaminato funditus il problema (cfr. Sez. 5, n. 16313 del

24/01/2006, Cartillone, Rv. 234424; Sez. 4, n. 4098 del 17/01/1989, Lamusta,

Rv.

180846).

9.6. La soluzione, dunque, non può essere ricercata in linea meramente

astratta e non può essere univoca; in realtà essa dipende, da un lato, dalla

tipologia della particolare aggravante in questione, dall'altro, dallo sviluppo

dell'azione posta In essere dall'agente. E invero, In determinati casi, è

indubbiamente necessaria la realizzazione dell'evento che costituisce oggetto di

quella determinata circostanza, ovvero occorre il perfezionamento dei relativi

presupposti costitutivi nel frammento di condotta posta in essere dal soggetto

agente; in altri casi non è necessario che ciò si verifichi.

9.7. E allora, anche con specifico riferimento alla problematica sottoposta alle

Sezioni Unite, occorrerà procedere con la metodica sopra evidenziata, cui

sembra esattamente conformarsi il dictum della già citata sentenza Sez. 2, n.

39837 del 22/05/2009, De Luca, Rv.

245258, in base alla quale, ai fini dell'applicabilità della diminuente di cui

all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4, il giudice deve avere riguardo alle concrete

modalità del fatto e deve accertare che il reato, ove fosse stato consumato,

avrebbe cagionato, in modo diretto e immediato, un danno di speciale tenuità;

deve cioè aversi riferimento al danno ipotetico che il reato avrebbe cagionato,

qualora fosse stato consumato.

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Ciò, ovviamente, sul presupposto (già sopra evidenziato) in base al quale "la

norma dell'art. 56 c.p., non fa esclusivo riferimento alla figura tipica del reato,

ma anche a quella del reato circostanziato, per cui l'estensione al tentativo

delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato comporta un

problema di semplice compatibilità logico-giuridica, che non tocca il principio di

legalità. Infatti, al fini della configurazione del tentativo di delitto aggravato,

oltre al criterio della idoneità e della univocità degli atti e dei mezzi che

possono indicare un proposito criminoso riferibile a un delitto aggravato,

acquistano rilevanza e sono compatibili - e, dunque, estensibili al tentativo -

tutte le circostanze, aggravanti o attenuanti, che attengono ai fini dell'azione

criminosa" (così testualmente la appena citata sentenza De Luca).

E su tale principio di carattere generale converge gran parte della

giurisprudenza di legittimità, affermando con nettezza che l'estensione al

tentativo delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato non

contrasta con il principio di legalità (cfr. Sez. 1, n. 5717 del 16/12/1987, dep.

1988, Nugnes, Rv. 177420; Sez. 1, n. 1154 del 03/03/1986, Oliva, Rv.

172378; Sez. 2, n. 2355 del 05/07/1976, dep. 1977, Serrane, Rv. 135275;

Sez. 1, n. 2596 del 09/11/1971, dep. 1972, De Colombi, Rv. 120865 e

120866).

9.8. Invero, come ha osservato da Sez. 4, n. 2631 del 23/11/2006, dep. 2007,

Aquino, Rv. 235937, (in tema di stupefacenti e di applicabilità al tentativo di

importazione della aggravante ex art. 80 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), "la

disciplina del reato tentato si riferisce a tutti gli aspetti della tipicità, ivi

compresi quelli inerenti alle circostanze. Dagli artt. 56 e 59 cod. pen. non si

trae alcun argomento, diretto o indiretto, da cui possa inferirsi che la disciplina

del tentativo sia inerente al solo reato base".

A ben vedere, il tentativo stesso è configurabile, come è pacifico, in base alla

"combinazione" di due norme: la norma incriminatrice speciale e la norma

estensiva di cui all'art. 56 c.p.. Trattasi di una metodica tipica del codice penale

e che si applica, ad esempio, in ipotesi di concorso di persone nel reato (norma

incriminatrice speciale e norma estensiva dell'art. 110), nonchè, ovviamente,

in tema di reato caratterizzato da circostanze comuni (norma incriminatrice

speciale, cui ineriscono le circostanze di cui agli artt. 61 e 62 c.p.). Non vi è

dunque ragione di non ammettere, in linea generale e salva, come si è detto,

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la verifica di compatibilità logico-giuridica, un doppio "meccanismo

combinatone)", che veda agire sulla norma incriminatrice tanto l'art. 56,

quanto gli artt. 61 e/o 62 c.p.).

9.9. Nè ha pregio l'obiezione - sopra anticipata - in base alla quale le

circostanze hanno rilievo ed effetto solo in campo sanzionatorio. L'assunto,

invero, prova troppo, in quanto anche le "semplici" norme incriminatrici hanno,

ovviamente, rilievo sul versante sanzionatorio; non di meno, esse descrivono

una condotta (e indicano la relativa connotazione psicologica), così come fanno

le circostanze, tanto che talune condotte, a volte, sono considerate dal

legislatore ipotesi autonome di reato, altre volte, elementi costitutivi di altri

reati, o ancora - appunto - circostanze (es. la violenza sulle cose, cfr. artt. 635

e 392 c.p., art. 614 c.p., comma 4).

10. Il ragionamento appena sviluppato non riceve smentita - in relazione al

tema specifico oggetto della presente decisione - dall'assunto che caratterizza

tutte le sentenze espressive dell'orientamento minoritario, vale a dire quello in

base al quale, non essendo il danno elemento costitutivo del delitto di furto,

l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, non potrebbe trovare applicazione in

tema di furto tentato, atteso che, nel tentativo, ovviamente, il danno manca

(così da ultimo la già ricordata decisione della Sez. 5, n. 11923 del

27/01/2010, Luongo, Rv. 246556, che, in verità, si è limitata a recepire una

massima tralascia, ignorando l'ormai sedimentato contrasto di giurisprudenza).

In merito è appena il caso di osservare che è del tutto ovvio che la circostanza

sia attinente a un fatto che non integra alcun elemento costitutivo del reato, in

quanto, se così non fosse, ovviamente, non di una circostanza si tratterebbe

(cioè di un quid che eventualmente accede a un reato in sè perfetto), ma -

appunto - di una componente del reato stesso. La circostanza, per sua stessa

definizione, è un satellite del reato (circum stat) e, come la sua eventuale

mancanza non incide sulla esistenza dello stesso, così la sua presenza non

postula necessariamente (e sempre) che il reato sia stato consumato, ben

potendo esso essersi arrestato allo stadio del tentativo.

10.1. Al proposito, non sembra pertinente l'osservazione circa la irrilevanza

delle circostanze erroneamente ritenute sussistenti (art. 59, comma terzo, cod.

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pen.), perchè, nel caso del tentativo di delitto circostanziato (delitto

circostanziato tentato), la circostanza non è supposta, ma voluta e - per quel

che si è detto - riconoscibile sulla base di quel frammento di condotta

effettivamente posto in essere. L'agente, in altre parole, non è in errore circa

la sussistenza di una circostanza, ma vuole agire realizzando (anche) una

determinata circostanza.

10.2. Occorre dunque che l'Interprete verifichi la compatibilità della circostanza

con la condotta concretamente posta in essere dall'agente, allo scopo di

desumere se, sulla base della predetta condotta (della sua idoneità e della sua

inequivocità, come manifestatesi nei fatti), la predetta circostanza sia

riscontrabile.

Si tratta certamente di una valutazione ipotetica, ma, non per questo, di una

valutazione inibita al giudice, atteso che, ad esempio, del tutto ipotetico è il

così detto giudizio controfattuale, cui lo stesso è chiamato in tema di reato

omissivo (cfr.: Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv 222138) e

ipotetico, in ultima analisi, è il giudizio in tema proprio di delitto tentato (o dei

delitti a consumazione anticipata), posto che al giudicante è richiesto di

valutare, non la condotta - in sè - tenuta dall'agente, ma tale condotta in

relazione all'obiettivo che l'agente si proponeva di raggiungere, di valutare

detta condotta, vale a dire, "come se" l'evento voluto si fosse, in realtà,

realizzato.

Ed è proprio per tale ragione che la menzionata sentenza Sez. 4, n. 2631 del

23/11/2006, rie. Aquino, Rv. 235937, ha ritenuto configurabile l'aggravante di

cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, allorchè vi sia la prova che, se

l'operazione illecita di traffico di droga fosse riuscita, essa avrebbe riguardato

un quantitativo ingente di sostanza psicotropa.

10.3. Ebbene, oltre alle già ricordate considerazioni in ordine al principio di

legalità, la sentenza in questione svolge anche considerazioni in ordine al

principio costituzionale di eguaglianza, per quel che riguarda il riconoscimento

di circostanze (attenuanti o aggravanti) in tema di tentativo; ciò fa prendendo

come termine di riferimento proprio il tentativo di furto e sostenendo che "è

razionale che la ponderazione della gravità dell'illecito sia rapportata anche alla

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configurazione che il fatto e l'offesa avrebbero assunto nel caso in cui il delitto

fosse stato portato a compimento. Una diversa soluzione porterebbe a risultati

contrari al principio di uguaglianza, determinando l'irrogazione della medesima

pena, sia nel caso in cui fosse tentato un furto semplice, sia in quello in cui la

sottrazione riguardasse un bene di grande valore".

10.4. D'altra parte, con riferimento alla circostanza aggravante del danno

patrimoniale di rilevante gravità (art. 61, comma primo, n. 7, cod. pen., che

ovviamente costituisce il "reciproco" della attenuante ex art. 62, comma primo,

n. 4. stesso codice), la giurisprudenza - precedente e successiva alla ricordata

sentenza Aquino e altri - non dubita della sua applicabilità al tentativo (cfr.

Sez. 5, n. 17275 del 26/11/2008, dep. 2009, Stendardo, Rv. 244632, in tema

di furto;

nonchè Sez. F, n. 33408 del 13/08/2009, Hudorovic, Rv. 244353 (in tema di

truffa).

11. Le conclusioni sopra esposte ricevono conferma testuale, dalle modifiche

(recenti e meno recenti) introdotte dal legislatore nel codice penale di rito e in

quello sostanziale.

Invero, l'art. 380 c.p.p. (arresto obbligatorio in flagranza), come è noto, fa

obbligo agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria di procedere all'arresto di

chiunque sia colto in flagranza di una serie di delitti non colposi - consumati o

tentati - individuati in base alle pene edittali, ovvero specificamente elencati.

Ebbene, detto articolo ha subito modifica, ad opera della L. 15 luglio 2009, n.

94, nel suo comma 2, che, attualmente, recita:

"anche fuori dei casi previsti dal comma 1, gli ufficiali e gli agenti di polizia

giudiziaria procedono all'arresto di chiunque è colto in flagranza di uno dei

seguenti delitti non colposi, consumati o tentati: (...) e) delitto di furto, quando

ricorre la circostanza aggravante prevista dall'art. 4 della legge 8 agosto 1977,

n. 533, o quella prevista dall'art. 625 c.p., comma 1, n. 2, prima ipotesi, salvo

che, in quest'ultimo caso, ricorra la circostanza attenuante di cui all'art. 62

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c.p., comma 1, n. 4; e-bis) delitti di furto previsti dall'art. 624 bis del codice

penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p.,

comma 1, n. 4".

Ne consegue che, dalla lettura coordinata dei vari commi, si deduce

necessariamente che le circostanze - aggravanti o attenuanti - debbano essere

valutate (quantomeno ai fini dell'arresto in flagranza), sia con riferimento ai

delitti consumati, sia ai delitti tentati.

11.1. D'altra parte, la Corte costituzionale, più di un decennio prima, con la

sentenza n. 54 del 1993, aveva avuto modo di occuparsi dell'arresto

obbligatorio in flagranza, dichiarando la parziale incostituzionalità dell'art. 380

c.p.p. - nel testo, ovviamente, all'epoca vigente - nella parte in cui prevedeva

l'arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di furto, tanto consumato,

quanto tentato, aggravato ai sensi dell'art. 625, comma 1, n. 2, prima ipotesi

(violenza sulle cose), proprio nel caso in cui ricorresse, insieme con

l'aggravante di cui sopra, la circostanza attenuante prevista dall'art. 62,

comma 1, n. 4, dello stesso codice.

Il Giudice delle leggi, a seguito di ricognizione del "diritto vivente", rilevava

allora che la circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n. 4, cod.

pen. risultava applicabile anche al furto tentato; ciò anche in considerazione

del fatto che "una più incisiva considerazione, in via generale, della speciale

tenuità del danno emerge dall'ampliamento dell'originario art. 62, n. 4,

effettuato con la L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 2".

E in effetti, con il predetto testo normativo, il legislatore ha notevolmente

ampliato l'ambito di applicazione della circostanza attenuante della "speciale

tenuità", estendendola, dai delitti contro il patrimonio o che comunque

offendono il patrimonio, ai delitti determinati da motivi di lucro. In tale ultimo

caso, tuttavia, sembra avere esplicitamente previsto, accanto all'ipotesi in cui il

lucro sia stato effettivamente conseguito, quella in cui esso sia solo sperato,

ma non anche raggiunto ("(...) nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere

agito per conseguire, o l'avere comunque conseguito, un lucro di speciale

tenuità, quando anche l'evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità").

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33

11.2. Tale essendo la lettera della legge dopo "l'innesto" operato dal legislatore

del 1990, sembra inevitabile chiedersi se, per quel che riguarda l'attenuante in

questione, il regime relativo ai delitti determinati da motivi di lucro si differenzi

da quello relativo ai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il

patrimonio, nel senso che, solo nel primo caso, e non anche nel secondo, la

diminuente sarebbe applicabile anche al tentativo, secondo il criterio dell'ubi

voluit dixit ("aver agito per conseguire, o avere comunque conseguito");

ovvero se si debba ritenere che il legislatore abbia semplicemente introdotto la

nuova disposizione in un contesto nel quale la diminuente in questione doveva

già ritenersi applicabile al tentativo, redigendo un testo più articolato, per la

necessità di assicurare la tutela degli altri beni giuridici protetti dalle fattispecie

qualificabili come "delitti determinati da motivi di lucro".

11.3. In questi termini si è espressa la già ricordata sentenza Sez. 2, De Luca,

per la quale nessuna incidenza ostativa alla applicazione della attenuante ex

art. 62 c.p., comma 1, n. 4al delitto tentato può derivare dalla riforma del

1990, atteso che "l'aggiunta apportata all'art. 62 c.p., n. 4, dalla L. n. 19 del

1990, (...) ha solo esteso l'ambito applicativo della suddetta norma anche ai

delitti determinati da motivi di lucro".

11.4. D'altronde, vi è più di una ragione per scartare la prima opzione

interpretativa, atteso che, non solo i delitti contro il patrimonio o che

comunque offendono il patrimonio, in quanto manifestazione dell'istinto

predatorio, sono ispirati, secondo l'id quod plerumque accidit, da motivi di

lucro (di talchè essi si pongono, nei confronti di tali ultimi delitti in rapporto di

specie a genere), ma anche perchè la pretesa differenziazione introdurrebbe

una ingiustificata disparità di trattamento.

Disparità di trattamento che, come messo in luce da attenta dottrina,

determinerebbe conseguenze davvero paradossali, sia sul versante sostanziale,

che su quello procedurale.

Invero, considerando inapplicabile al furto tentato l'attenuante in questione,

ben potrebbe, in ipotesi, tale delitto esser punito più gravemente di un furto

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consumato, se, in tale secondo caso, l'attenuante ex art. 62 c.p., comma 1, n.

4, dovesse trovare ingresso (eventualmente insieme con altre attenuanti).

"Aberranti" poi sono state definite le conseguenze in tema di applicazione di

specifiche discipline clemenziali; in particolare è stato richiamato ciò che

sarebbe potuto accadere in applicazione dell'amnistia prevista dal D.P.R. 12

aprile 1990, n. 75, art. 4, per la quale un furto (consumato) pluriaggravato,

attenuato dalla circostanza del danno patrimoniale di speciale tenuità, sarebbe

rientrato nell'amnistia, mentre da questa sarebbe stato escluso il tentativo di

furto dello stesso oggetto, nel caso in cui si ritenesse l'attenuante inapplicabile

al delitto tentato.

11.5. E, d'altra parte, ancora in tema di arresto obbligatorio in flagranza, se si

ipotizzasse che il legislatore, nel modificare l'art. 380 c.p.p., comma 2, non

avesse inteso riconoscere l'applicabilità della diminuente in esame al tentativo,

si arriverebbe a un risultato ermeneutico altrettanto assurdo. Sarebbe infatti

obbligatorio procedere "all'arresto nel caso di flagranza di tentato furto

aggravato dalla violenza sulle cose, di tentato furto in abitazione o di tentato

furto con strappo, pur se il danno in concreto ipotizzabile fosse di speciale

tenuità, mentre, se il danno effettivamente causato fosse, appunto, di speciale

tenuità, tale dovere non sussisterebbe, in caso di furto consumato, aggravato

dalla violenza sulle cose, di furto in abitazione o di furto con strappo.

12. In conclusione, per tutte le ragioni sopra esposte, deve affermarsi che "nei

reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di

speciale tenuità, di cui all'art. 62 c.p., n. 4, può applicarsi anche al delitto

tentato, sempre che la sussistenza della attenuante in questione sia desumibile

con certezza dalle modalità del fatto, in base a un preciso giudizio ipotetico

che, stimando il danno patrimoniale che sarebbe stato causato alla persona

offesa, se il delitto di furto fosse stato portato a compimento, si concluda nel

senso che il danno cagionato sia di rilevanza minima".

13. La sentenza impugnata che ha escluso in radice - ritenendola incompatibile

con il tentativo di furto - l'applicabilità dell'attenuante in questione all'Imputato

che aveva tentato di impadronirsi del denaro contenuto in un distributore

automatico di bevande, deve dunque essere annullata sul punto, disponendosi

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35

rinvio per nuovo esame, in merito ad esso, ad altra sezione della Corte di

appello di Torino.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente

l'applicazione della circostanza attenuante dell'art. 62 c.p., n. 4, in relazione al

capo A della imputazione e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di

Torino.

Così deciso in Roma, il 28 marzo 2013.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2013

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2) Reato commissivio mediante omissione

Francesco (psichiatra) è primario presso l’ospedale Risk di Gioia Tauro.

Michele, responsabile del reparto di psichiatria, informava Francesco che di notte, spesso, gli infermieri Gatto e Volpe violentavano i pazienti, dopo averli

imbottiti di psicofarmaci; gli stessi poi, sempre di notte, lasciavano che la paziente Istinct, affetta da una gravissima forma di ipersessualità,

intrattenesse con loro rapporti sessuali fino a procurarsi ferite. Francesco decideva di non prendere alcun provvedimento, dimostrando

indifferenza per l’eventuale perpetrarsi della condotta di Gatto e Volpe. Dopo diversi mesi, Francesco si recava presso lo studio dell’avv. Eroe a cui

chiedeva lumi circa l’eventuale presenza di un reato a lui riferibile. Il candidato, assunte le vesti dell’avv. Eroe, rediga motivato parere sulla

questione posta alla sua attenzione, dopo aver premesso brevi cenni sul tema del reato commissivo mediante omissione.

Possibile soluzione schematica caso 2)

Bisognava iniziare premettendo brevi cenni sul reato commissivo mediante

omissione; si concretizza quando: -tramite un’omissione viene realizzato un reato;

-in capo al titolare deve sussistere la titolarità di una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, tale che

omettere equivalga a cagionare, ex art. 40 cpv c.p. Nel caso in esame il Gatto e la Volpe poneva in essere condotte integranti il

reato di violenza sessuale. Francesco concorre nel reato citato (concorso omissivo in reato commissivo)?

Sul piano causale, si poteva rispondere positivamente perché: -sul primario grava una posizione di garanzia, ex art.7 comma 3 d.P.R.

128/1969; -l’obbligo di attivarsi per tutelare la salute, ex art. 32 Cost., grava su ciascun

medico.

Del pari, sul piano psicologico, si poteva rispondere positivamente perché: - sussiste una forma di accettazione del rischio (dolo eventuale), in

considerazione del fatto che, Francesco, seppur informato, decide di non intervenire;

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- emerge a maggior ragione il dolo eventuale, in considerazione del fatto che

Francesco dimostra indifferenza circa l’eventuale perpetrarsi della condotta, così concretizzando una condotta “caricata” di disvalore; non vi è l’esclusione

mentale della possibilità di verificazione del reato (colpa cosciente o cono

previsione). Pertanto, alla luce di tali rilievi, Francesco potrà rispondere di concorso

omissivo in reato commissivo, concretizzando con dolo eventuale, ex artt. 110-609 bis comma 2 c.p. (oppure ex art. 609 octies c.p.).

Era sostenibile il reato ex art. 361 c.p.; tuttavia, considerando che Francesco

manifestava indifferenza per la perpetuazione della condotta antigiuridica, era preferibile ipotizzare un concorso, in quanto sembrava emergere una continuità

della condotta di Gatto e Volpe: Francesco fornisce un contributo causale alla continuità; se, diversamente, la traccia fosse stata intesa come condotta

isolata di Gatto e Volpe, allora l’art. 361 c.p. avrebbe trovato più facile applicazione.

Il dolo è "decisione per l'illecito"; laddove la colpa è rimproverabilità

della violazione di una regola cautelare che può essere anche totalmente ignota all'autore del fatto.

Il criterio dell'accettazione del rischio, stabilmente utilizzato dalla giurisprudenza quanto variamente inteso, non può valere ad indicare

la struttura del dolo. Piuttosto, esse serve ad indirizzare l'accertamento dell'esistenza di quella "decisione per l'illecito" che

davvero caratterizza il comportamento doloso.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 23-05-2013) 05-09-2013, n. 36399

1. All'esito di rito abbreviato celebrato a carico di una pluralità di imputati, in

data 23.2.2009 il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Lamezia giudicava M.M.A. responsabile di esser concorsa negli abusi sessuali e

nei maltrattamenti compiuti tra l'anno (OMISSIS) e l'anno (OMISSIS) in danno

di alcune degenti da personale dell'SPDC, dalla stessa diretto in qualità di primario, non avendo impedito la commissione dei medesimi, pur avendone

l'obbligo. Il Giudice dell'udienza preliminare giudicava la M. responsabile anche del reato di falso in atto pubblico e la condannava, per entrambi i reati

ascrittile, alla pena ritenuta equa. Solo in relazione ad alcuni dei fatti originariamente contestati all'imputata, segnatamente quelli indicati ai capi sub

10 (atti sessuali continuati commessi da C.D. in danno di P.G.), 24 e 31 (atti sessuali commessi da Ma.

G.F.M. rispettivamente in danno di P. M.L. e di Co.Pa.), la responsabilità della

M. veniva esclusa, essendo stati mandati assolti i coimputati C. e Ma. dai relativi addebiti.

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38

La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza emessa il 5.2.2010, riformava la condanna pronunciata in primo grado pronunciando l'assoluzione

dell'imputata dal reato plurisoggettivo per non aver commesso il fatto e dal

reato monosoggettivo perchè il fatto non sussiste.

Proposta impugnazione, tra gli altri dal P.G. (nei confronti della M. e del coimputato R.), pronunciando in data 11.8.2011 la Corte di cassazione

annullava con rinvio la sentenza di secondo grado, ritenendo - quanto alla posizione della M. - che la stessa presentasse vizi motivazionali in ordine alla

ritenuta mancanza di prova della sussistenza del profilo soggettivo del reato concorsuale ascritto all'imputata e della efficacia impeditiva del comportamento

doveroso omesso.

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Catanzaro, quale giudice del rinvio, ha riformato la decisione di primo grado, escludendo la

responsabilità della M. anche in relazione al fatto descritto sub 37 della rubrica (violenza privata commessa da R.V. in danno di T.E.) e, ritenute prevalenti le

attenuanti generiche sulle contestate aggravanti, ha rideterminato la pena in

anni due mesi sei di reclusione, con la revoca delle pene accessorie disposte dalla sentenza di primo grado, che ha confermato nel resto.

2. La vicenda che viene all'esame di questa Corte concerne una nutrita serie di

abusi sessuali, violenze private, molestie e maltrattamenti perpetrati da un medico e da alcuni infermieri del reparto psichiatrico dell'ospedale di

(OMISSIS) in danno di alcune pazienti; illeciti che vennero disvelati a seguito di indagini avviate sulla scorta delle dichiarazioni che Ce.Ma., una di quelle

pazienti, aveva rilasciato ad alcuni medici. Alla M. venne contestato di non aver impedito la commissione dei reati, pur avendone l'obbligo in ragione del ruolo

svolto di primario del reparto.

Con la sentenza qui impugnata i giudici di secondo grado hanno ritenuto che la consapevolezza da parte della M. della commissione di quei reati sia dimostrata

dalle lamentele che le vennero portate dai familiari di alcune delle vittime;

dall'atteggiamento di inerzia assunto di fronte alle segnalazioni provenienti da

più parti, compresi alcuni medici; da talune affermazioni dalla stessa fatte; dalla conoscenza delle annotazioni scritte degli infermieri, nelle quali si

menzionava l'occultamento di alcuni farmaci e anomalie nella somministrazione della terapia ad una paziente. La Corte distrettuale ha anche affermato che

l'imputata era del tutto consapevole di quale fosse la condotta doverosa da assumere, individuata nell'approfondimento dei fatti mediante istruttoria

interna, segnalazione degli stessi al capo dipartimento, assunzione di provvedimenti per una maggiore vigilanza sulle pazienti, promozione di azioni

disciplinari, denuncia di fatti di rilevanza penale. Quanto all'efficacia impeditiva di siffatte condotte, la Corte di Appello ha richiamato le statuizioni del giudice

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di legittimità per il quale, ove si assolva ai doveri imposti dal ruolo, non si può

essere chiamati a rispondere se l'evento lesivo si verifica ugualmente per ragioni indipendenti dall'operati del preposto. Sul versante soggettivo,

risultando sufficiente "la coscienza che il proprio mancato intervento

contribuisca al protrarsi del fatto commissivo altrui, accettandone quanto meno il relativo rischio di verificazione nelle forme del dolo eventuale", il Collegio

territoriale ha ritenuto che il dolo ha ad oggetto la propria condotta omissiva e non il fatto illecito che il terzo può commettere in conseguenza dell'inerzia, e

pertanto ha ritenuto sussistente il dolo richiesto dalla norma, posto che la M. era "nelle condizioni di prospettarsi il rischio del verificarsi di fatti illeciti" per la

presenza di segnali perspicui e peculiari e l'anormalità di detti sintomi. In ragione della propria posizione avrebbe avuto il potere di attivare le procedure

necessarie, con la concreta possibilità di evitare il protrarsi delle condotte illecite.

3. Ricorre per cassazione l'imputata a mezzo dei difensori di fiducia, avv.

Vincenzo Nico D'Ascola e Francesco Gambardella.

3.1. Con un primo motivo si deduce la violazione degli artt. 40 cpv., 42 cpv.,

43 e 110 c.p., anche in relazione all'art. 530 c.p.p., comma 2.

La Corte di Appello, nel connettere la responsabilità della M. alla presenza di segnali di allarme perspicui e peculiari che ella avrebbe dovuto vagliare e in

ragione dei quali avrebbe dovuto attivarsi, ha affermato che il grado di consapevolezza richiesto dai reati omissivi impropri non coincide con la volontà

dei fatti ma si identifica nella coscienza che la propria inerzia contribuisca al protrarsi dell'altrui fatto illecito, accettandone il rischio. L'affermazione della

Corte distrettuale è che il dolo ha ad oggetto solo la condotta omissiva e non anche il delitto del terzo.

Gli esponenti censurano che il giudice di seconde cure abbia però considerato

sufficiente la conoscenza di una generica situazione di rischio piuttosto che la percezione di un evento determinato.

Percezione che è esclusa da una condizione di incertezza in ordine alla tipologia di evento. Inoltre, si lamenta che la Corte abbia desunto l'esistenza

dell'elemento volitivo dalla prova della sussistenza dell'inerzia, mentre accanto alla prova della rappresentazione occorre altresì la prova della volizione del

fatto tipico altrui.

Anche il concetto di dolo eventuale viene ritenuto malamente utilizzato dalla Corte di Appello, avendo questa ritenuto sufficiente ad integrarlo l'accettazione

di "una generica situazione di pericolo di commissione di reati da parte di terzi" piuttosto che della probabilità concreta di verificazione dell'evento.

Quest'ultima richiede il superamento in termini positivi del dubbio sulla verificazione dell'evento. Richiamando quanto statuito da Cass. S.U. n. 12433

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40

del 30.3.2010, si afferma che il giudice di seconde cure "avrebbe dovuto

indicare quali siano stati gli elementi dimostrativi di un atteggiamento così pregnante in termini volontaristici";

indicazione che invece sarebbe mancante. Peraltro, il contenuto della condotta che si sarebbe dovuta tenere (approfondimento dei fatti mediante indagine

interna, apprestamento di maggiore vigilanza e sorveglianza dei pazienti) documenta che la situazione in cui versava l'imputata era ancora quella del

dubbio; di per sè incompatibile con il dolo eventuale.

Si assume, ancora, che avendo la Corte di Appello individuato quale comportamento doveroso quello di denunciare fatti di rilievo penale, per i fatti

antecedenti all'(OMISSIS) alla M. si potrebbe contestare unicamente il reato di cui all'art. 361 c.p.. Distinguendo tra questi gli illeciti conosciuti dopo il loro

compiersi e quelli appresi in itinere, si afferma che per i primi non è concepibile alcun concorso nel reato da parte della M.; per i secondi, sulla scorta di quanto

già evidenziato, si ribadisce che occorre "una indicazione puntuale dello specifico reato nel quale si afferma che l'odierna ricorrente sia concorsa" per

concludere che tale indicazione è, nella motivazione, mancante.

Infine, rispetto all'ipotesi che venga ritenuta una condotta colposa della M., si

segnala come non possa ipotizzarsi il concorso colposo nel reato doloso perchè il reato del partecipe non è previsto anche nella forma colposa.

3.2. Con un secondo motivo si lamenta violazione dell'art. 476 c.p., e

motivazione meramente apparente ed illogica, in ordine all'affermazione di responsabilità dell'imputata per il reato di falsità materiale in atti pubblici.

Invero, si lamenta, la condanna è fondata sulla circostanza della sostituzione della cartella clinica originale, avanzata però come mera ipotesi dalla teste F..

L'assenza di certezza al riguardo avrebbe dovuto imporre l'assoluzione della M. per il reato in parola.

3.3. Con un terzo motivo ci si duole dell'omessa motivazione, in relazione al

motivo di appello attinente al trattamento sanzionatorio. Con il gravame si era

chiesta una pena più mite, alla luce dell'art. 133 c.p.. La sentenza di secondo grado nulla afferma al riguardo.

4. Con atto pervenuto a questa Corte il 9.5.2013, denominato "Motivi nuovi", si

rileva:

- che avendo la M. dato corso all'indagine con la denuncia presentata il 28.10.2006, ella non può essere chiamata a rispondere dei fatti successivi a

tale data per l'impossibilità concreta di evitare il verificarsi degli stessi, come dimostrato dalla circostanza che essi furono commessi nonostante il costante

monitoraggio eseguito dalla Polizia di quanto accadeva nel reparto;

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inoltre va considerato che la M. sporse una seconda denuncia il 2.4.2007,

poichè ciò dimostra che ella non ebbe alcun atteggiamento omissivo quando venne a conoscenza di dati e circostanze certe;

- la M. non può essere chiamata a rispondere di fatti occorsi nell'anno (OMISSIS), perchè all'epoca non era primario del reparto in questione;

- la M. non ebbe alcuna conoscenza dei fatti commessi in danno delle persone

offese Pi. ed I.; più in generale, si lamenta che la sentenza della Corte di Appello abbia omesso "di accertare, relativamente ad ogni singola accusa se ed

all'epoca di commissione del fatto illecito: a) il primario fosse effettivamente a conoscenza, in quel determinato momento storico, di una situazione di

fibrillazione degenerata nella perpetrazione di reati specifici da parte dei medici e degli infermieri...".

Motivi della decisione

5. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.

5.1. Il primo motivo di ricorso, sotto diversi angoli visuali, mette a fuoco la

tenuta della motivazione quanto all'accertamento dell'elemento soggettivo dell'illecito contestato alla M.. Non è in discussione l'esistenza degli illeciti che,

da altri commessi, sono stati ascritti alla M. in forza della previsione degli artt. 40 cpv. e 110 c.p.. Inoltre, salvo quanto sarà appresso precisato in ordine

all'arco temporale entro il quale l'imputata assunse la qualità di primario del reparto, non vi è contestazione sull'esistenza di una posizione di garanzia

dell'imputata, in forza della quale ella era in astratto tenuta ad impedire che si compissero atti in pregiudizio della libertà sessuale, della salute e della dignità

delle pazienti ricoverate nel reparto.

Si contesta, per contro, la motivazione resa con la pronuncia impugnata quanto alla consapevolezza da parte della M. della concreta possibilità di

verificazione dell'evento-reato. Tema già trattato da questa Corte in occasione del giudizio rescindente, con l'esito di annullamento della sentenza di

assoluzione dell'imputata.

5.2. Senza alcuna pretesa di approfondimento teorico o di esaustività - che

implicherebbe la trattazione di temi non essenziali ai fini della decisione delle questioni poste con il ricorso -, ma solo per una migliore intelligenza delle

cadenze della presente motivazione, è opportuno rammentare che la responsabilità penale per reato omissivo improprio (o reato commissivo

mediante omissione) presuppone la titolarità di una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, dalla

quale deriva l'obbligo di attivarsi per la salvaguardia di quel bene; obbligo che si attualizza in ragione del perfezionarsi della c.d. situazione tipica. In presenza

di tali condizioni la semplice inerzia assume significato di violazione dell'obbligo giuridico (di attivarsi per impedire l'evento) e l'esistenza di una relazione

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causale tra omissione ed evento apre il campo all'ascrizione penale, secondo la

previsione dell'art. 40 cpv.

c.p..

Mentre quando il garante non impedisce la verificazione di un evento

"naturalisticamente inteso", tipico rispetto alla corrispondente fattispecie di natura commissiva, la responsabilità penale che ne consegue ha forma

monosoggettiva, quando il mancato impedimento concerna l'altrui condotta criminosa lo schema giuridico che si prospetta è quello del concorso di persone

nel reato. La responsabilità del garante omettente trae origine dal combinato disposto agli artt. 40 cpv. e 110 c.p..

5.3. Il profilo di tal ultima fattispecie di maggiore interesse in questa sede è

quello soggettivo.

La giurisprudenza di legittimità in tema di concorso mediante omissione nel reato commissivo, in presenza dell'obbligo giuridico di impedire l'evento,

afferma che, perchè possa aversi responsabilità del garante, occorre che questi

si sia rappresentato l'evento, nella sua portata illecita; tale rappresentazione può consistere anche nella prospettazione dell'evento come evenienza solo

eventuale. Detto altrimenti, la giurisprudenza - in ciò avversata da parte minoritaria della dottrina - riconosce che il garante possa rispondere anche a

titolo di dolo eventuale per non aver impedito la commissione di un reato da parte di altri. In tal senso, tra le ultime, Sez. 3, n. 28701 del 12/05/2010, Pg

in proc. A. e altri, Rv.

248067, per la quale "la responsabilità penale per omesso impedimento dell'evento può qualificarsi anche per il solo dolo eventuale, a condizione che

sussista, e sia percepibile dal soggetto, la presenza di segnali perspicui e peculiari dell'evento illecito caratterizzati da un elevato grado di anormalità"

(per Sez. 5, Sentenza n. 9736 del 10/02/2009, Cacioppo e altri, Rv. 243023, "la responsabilità del mero consigliere d'amministrazione di società per fatti di

bancarotta fraudolenta, materialmente posti in essere dal presidente,

presuppone la rappresentazione dell'evento, nella sua portata illecita, desunta da segnali perspicui e peculiari, e la volontaria omissione nell'impedirlo, sì che

possa affermarsi che egli abbia quanto meno accettato il rischio di verificazione dello stesso").

Invero, l'aspetto maggiormente problematico non concerne tanto la

persuasività di tale interpretazione - non si vede perchè il dolo eventuale, cui si riconosce legittima cittadinanza fuori dal perimetro del reato omissivo

improprio plurisoggettivo, dovrebbe vedersi negato analogo riconoscimento in quest'ultima provincia - quanto le cadenze dell'accertamento di una simile

forma di dolo.

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43

Se in linea di principio si può convenire e si conviene sulla tesi che sussiste la

responsabilità penale dell'omittente quando, pur essendosi questo rappresentato la concreta possibilità di verificazione dell'evento, si è sottratto

consapevolmente all'adempimento dei propri doveri di controllo, accettando il

rischio che l'evento si verificasse, il punctum dolens si rinviene lì dove si formula il giudizio di concreta sussistenza del dolo eventuale, che a fronte di

indubitabili difficoltà di accertamento, corre il rischio di scivolare verso l'evocazione di schemi tipici della responsabilità per colpa.

Al fine di evitare un simile esito non può farsi a meno di rifiutare concetti quali

"prevedibilità" o "conoscibilità", che rimandano alla struttura della colpa, ed accordare preferenza alla reale "previsione" dell'evento che, in quanto in

itinere, si è ancora in condizioni ed in dovere di impedire.

Perchè ciò si realizzi non è certo sufficiente che si accerti la violazione dell'obbligo di attivarsi, poichè l'oggettivo inadempimento non dice ancora

nulla in ordine al profilo soggettivo dell'autore del fatto (omissivo) (ma tende all'equazione Sez. 3, n. 6208 del 09/04/1997, Ciciani e altro, Rv. 208804, per

la quale, anche per i reati imputati ai sensi dell'art. 40 cpv., in forza dei principi

generali, per l'elemento soggettivo è sufficiente che il "garante" abbia conoscenza dei presupposti fattuali del dovere di attivarsi per impedire l'evento

e si astenga, con coscienza e volontà, dall'attivarsi, con ciò volendo o prevedendo l'evento (nei delitti dolosi); sicchè risponde del reato

l'amministratore titolare che conosceva i suoi doveri giuridici di vigilare sul comportamento dell'amministratore di fatto e aveva coscientemente omesso di

esercitarli, con ciò accettando il rischio che l'amministratore effettivo commettesse i reati tributari che egli aveva il dovere di impedire).

Neppure è sufficiente che siano "oggettivamente" rinvenibili quei "segnali

perspicui e peculiari in relazione all'evento illecito", aventi un grado di anormalità (non in senso assoluto ma in relazione al soggetto garante di cui

trattasi) che la giurisprudenza di legittimità ha elevato a guida nell'accertamento già a partire da Sez. 5, n. 23838 del 04/05/2007, P.M. in

proc. Amato e altri, Rv.

237251, essendo comunque necessario dare dimostrazione che quei segnali

siano stati colti nel loro compiuto significato descrittivo dal garante in questione. Anche su questo punto si dissente da Sez. 3, n. 28701 del

12/05/2010, Pg in proc. A. e altri, Rv. 248067, che pare ammettere la sufficienza di una "possibilità di consapevolezza e di prevedibilità del rischio" di

comportamenti censurabili. Ad avviso di questa Corte, il rilievo dell'esistenza di segnali noti non può non essere accompagnato dall'accertamento della

elaborazione che degli stessi è stata fatta: quei segnali possono essere stati sottovalutati, malamente interpretati. Ciò indirizza verso un comportamento

colposo; non certo doloso.

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44

Va quindi data la prova di una corretta elaborazione dei segnali;

essa è legata alla valutazione delle capacità intellettive del soggetto, anche alla

stessa evidenza e significatività dei segnali;

il giudice deve dimostrare con adeguata motivazione di aver analizzato come

quei segnali sono stati elaborati.

Nè può essere sufficiente che detti segnali rivelino una indistinta condizione di rischio per il bene tutelato, poichè se la responsabilità vuoi essere per il

concorso, in ipotesi, nel reato di "abuso sessuale", non può essere idoneo a sostenere l'ascrizione penale il dolo, ad esempio, del reato di minaccia o di

ingiurie. Non sembra seriamente dubitabile che l'evento di cui si discorre, in quanto oggetto del dolo, ancorchè eventuale, debba essere proprio lo specifico

reato che andava impedito. Mentre per quanto concerne il quesito se la consapevolezza deve investire anche i singoli episodi illeciti, si può convenire

con quanto affermato in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale: che, ad integrare il dolo dell'amministratore di diritto rispetto agli illeciti commessi

dall'amministratore di fatto è sufficiente la generica consapevolezza che il

secondo compia una delle condotte indicate nella L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1, senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi

delittuosi (Sez. 5, n. 29896 del 01/07/2002 - dep. 20/08/2002, Arienti ed altri, Rv.

222389). Detto altrimenti, è necessario che si abbia la rappresentazione

caratteristica del dolo eventuale di un evento-reato tipologicamente coincidente con quello del quale si è chiamati a rispondere; non però delle

specifiche caratteristiche fattuali del reato commesso dal concorrente (in tal senso Sez. 5, n. 38712 del 19/06/2008, Prandelli e altro, Rv. 242022, per la

quale "In tema di bancarotta fraudolenta, in caso di concorso "ex" art. 40 c.p., comma 2, dell'amministratore di diritto nel reato commesso

dall'amministratore di fatto, ad integrare il dolo del primo è sufficiente la generica consapevolezza che il secondo compia una delle condotte indicate

nella norma incriminatrice, senza che sia necessario che tale consapevolezza

investa i singoli episodi delittuosi, potendosi configurare l'elemento soggettivo sia come dolo diretto, che come dolo eventuale; e così sembra potersi

interpretare anche Sez. 5, n. 44293 del 17/11/2005, Liberati, Rv. 232816, laddove afferma che, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, la

responsabilità dell'amministratore, che risulti essere stato soltanto un prestanome, nasce dalla violazione dei doveri di vigilanza e di controllo che

derivano dalla accettazione della carica, cui però va aggiunta la dimostrazione non solo astratta e presunta ma effettiva e concreta della consapevolezza dello

stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o, per le ipotesi con dolo specifico, di procurare un ingiusto profitto a

taluno").

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5.4. D'altro canto, l'approccio al tema del dolo eventuale del garante omittente

non può non tener conto dell'elaborazione che la medesima giurisprudenza di legittimità sta svolgendo quanto alla più generale questione della definizione

della linea di demarcazione tra il dolo eventuale e la colpa con previsione.

Anche in questo caso non vi può essere alcuna pretesa di esaurire il panorama

delle opinioni in campo. E' quindi sufficiente ricordare che la giurisprudenza fa proprio il criterio dell'accettazione del rischio, per il quale ricorre il dolo

eventuale quando l'agente/omittente abbia tenuto la condotta tipica nella previsione dell'evento ed accettando la sua verificazione (quale evenienza

accessoria al conseguimento dell'obiettivo prefissato), laddove nella colpa cosciente alla previsione dell'evento si accompagna la mancata accettazione

dello stesso.

Tuttavia, la declinazione del criterio è invero piuttosto variegata.

Ora si afferma che sussiste il dolo eventuale quando "chi agisce non ha il proposito di cagionare l'evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità - od

anche la semplice possibilità - che esso si verifichi e ne accetta il rischio"

(Cass., Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3428/1992); ora si rimarca il fatto che "l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti

la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciononostante agisca accettando il rischio di cagionarle" (Cass.,

Sez. Un., 14 febbraio 1996, n. 3571); oppure si evoca "la consapevolezza che l'evento, non direttamente voluto, ha la probabilità di verificarsi in

conseguenza della propria azione nonchè dell'accettazione volontaristica del rischio" (Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2003, n. 748/1994).

In alcune decisioni si pone l'accento sull'alternativa astrattezza/concretezza

della previsione dell'evento: nel dolo eventuale l'evento viene previsto come concretamente possibile mentre nella colpa cosciente la verificabilità

dell'evento rimane un'ipotesi astratta, percepita dal reo come non concretamente realizzabile (Cass. sez. 4, 10.2.2009, n. 13083, P.M. Trib.

Salerno in proc. Bodan; cfr. Cass. sez. 5, 17.9.2008, n. 44712; Cass. sez. 1,

14.6.2001, n. 30425, e la giurisprudenza in esse richiamata).

In altre si enfatizza il mancato superamento del dubbio circa la verificazione dell'evento quale connotato essenziale del dolo eventuale (Cass. Sez. 4, sent.

n. 11222 del 18/02/2010, P.G. e p.c. in proc. Lucidi, rv. 249492; criterio al quale sembra contiguo, se non coincidente, quello della "previsione negativa"

circa la possibilità che l'evento si verifichi).

Il dato che merita di essere sottolineato è che dolo eventuale e colpa cosciente non si pongono come concetti limitrofi, tanto che si può trascorrere dall'uno

all'altro al variare di un particolare fattore, identificato come elemento scriminante. E' ormai una consapevolezza radicata della cultura penalistica

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italiana, e non solo, che dolo e colpa sono strutturalmente diversi e non hanno

una matrice comune, per quanto elementi della colpa si possano rinvenire anche nel dolo. Si tratta di un'osservazione tanto banale quanto utile, perchè

chiarisce che non sono le forme che possono riconoscersi alla previsione

dell'evento (astratta/concreta; evento probabile/possibile/certo) a poter assurgere di per sè a canone distintivo. Come è stato già affermato, la

previsione assume rilievo quale indice di quella particolare volizione che si presenta nelle forme dell'accettazione del rischio: quanto più la previsione

dell'evento è "concreta" o propone come certo il verificarsi dell'evento, tanto più potrà dirsi che l'agente/omittente ha accettato e quindi voluto l'evento.

E' evidente che ogni concezione che propugni o sottenda una sorta di

continuum tra dolo e colpa - con dolo eventuale e colpa cosciente a rappresentare le aree ove si manifesta la contiguità di trarne diverse ma

appartenenti ad un medesimo ininterrotto tessuto - appare fallace e origine di affermazioni non condivisibili.

La differente struttura deve far dubitare che la previsione dell'evento si atteggi

in ambo le aree (quella della condotta dolosa e quella della condotta colposa)

allo stesso modo.

Com'è stato scritto da autorevole dottrina, il dolo è "decisione per l'illecito"; laddove la colpa è rimproverabilità della violazione di una regola cautelare che

può essere anche totalmente ignota all'autore del fatto.

Il criterio dell'accettazione del rischio, stabilmente utilizzato dalla giurisprudenza quanto variamente inteso, non può valere ad indicare la

struttura del dolo. Piuttosto, esse serve ad indirizzare l'accertamento dell'esistenza di quella "decisione per l'illecito" che davvero caratterizza il

comportamento doloso.

Come è stato osservato, l'accettazione del rischio non è un vero processo mentale; potrebbe dirsi che essa è la parafrasi della genesi e della persistenza

di una decisione per l'illecito che giunge sino all'esaurimento della condotta con

la produzione dell'evento. In questa prospettiva dovrebbe essere ancor più evidente che la ricerca di opposizioni concettuali che dovrebbero connotare in

modo caratteristico la differenza strutturale tra il dolo eventuale e la colpa cosciente rischia di condurre lungo la via dell'errore.

L'alternativa previsione concreta/previsione astratta dell'evento illecito; come

quella possibilità di verificazione/elevata probabilità di verificazione dell'evento illecito; etc, possono solo offrire l'accesso alla ricostruzione dell'atteggiamento

mentale del soggetto.

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Il canone della "persistenza di una decisione per l'illecito che giunge sino

all'esaurimento della condotta con la produzione dell'evento" permette di operare una puntualizzazione quanto all'oggetto del dolo eventuale.

Come è stato spiegato, l'accettazione non deve riguardare solo la situazione di pericolo posta in essere, ma deve estendersi anche alla possibilità che si

realizzi l'evento non direttamente voluto, pur coscientemente prospettatosi... altrimenti si avrebbe la (inaccettabile) trasformazione di un reato di evento in

reato di pericolo". L'esemplificazione portata a sostegno dell'affermazione appare piuttosto calzante: se bastasse l'accettazione di una situazione di

pericolo cagionata dalla propria condotta trasgressiva di una regola cautelare, "il conducente di un autoveicolo (che) attraversi col rosso una intersezione

regolata da segnalazione semaforica, o non si fermi ad un segnale di stop, in una zona trafficata, risponderebbe, solo per questo, degli eventi lesivi

eventualmente cagionati sempre a titolo di dolo eventuale". Tale posizione risponde appieno al rilievo dottrinario secondo il quale "perchè sussista il dolo

eventuale, ciò che l'agente deve accettare è proprio l'evento - proprio la morte -; è il verificarsi della morte che deve essere stato accettato e messo in conto

dall'agente, pur di non rinunciare all'azione che, anche ai suoi occhi, aveva la

seria possibilità di provocarlo" (Cass. sez. 4, sent. n. 11222 del 18/02/2010, P.G. e p.c. in proc. Lucidi, rv. 249492).

La necessità che l'accettazione del rischio concerna in realtà proprio l'evento

tipico (e in ciò si assume consapevolmente una posizione opposta a quella espressa da questa Corte in occasione del primo giudizio rescindente)

riconduce l'accertamento giudiziario al rispetto del principio di legalità e del principio di colpevolezza.

5.5. Ricondotte simili considerazioni nella vicenda che qui occupa, esse

convincono ulteriormente circa il fatto che i segnali perspicui non possono che riguardare lo specifico evento che si intende porre a carico del garante

omittente; essi devono essere stati percepiti ed assunti nel loro reale significato dal soggetto di cui trattasi; una condizione di dubbio circa la loro

significatività non è di per sè incompatibile con l'accettazione dell'evento.

Il dubbio descrive una situazione irrisolta, perchè accanto alla previsione della

verificabilità dell'evento vi è la previsione della non verificabilità. Il dubbio corrisponde ad una condizione di incertezza, che appare difficilmente

compatibile con una presa di posizione volontaristica in favore dell'illecito, ad una decisione per l'illecito; ma che ove concretamente superato, avendo

l'agente optato per la condotta anche a costo di cagionare l'evento, volitivamente accettandolo quindi nella sua prospettata verificazione, lascia

sussistere il dolo eventuale (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 30472 del 11/07/2011, Rv. 251484, Braidic).

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6. La sentenza qui impugnata (unitamente a quella di primo grado, stante la

sostanziale coincidenza) è in aperta contraddizione con le linee interpretative sin qui descritte.

E' bene puntualizzare alcune caratteristiche delle imputazioni.

Nell'ambito dei capi di imputazione ai quali si collegano gli addebiti sub 38), quelli ai capi 5 e 6 (p.o. Y., salvo per il fatto del (OMISSIS)), 11, 12 (pp.oo. Pi.

e I.), 19 (p.o. T. E., salvo per il fatto del (OMISSIS)), 23 (p.o. m.), 35 (p.o. Ta.) si collocano prima dell'(OMISSIS), descrivendo un arco temporale che

tocca gli anni dal (OMISSIS) con i fatti concernenti la Y., il (OMISSIS) con gli illeciti in danno della m., e poi il (OMISSIS) con gli altri fatti; i restanti (13,

p.o. Ce.; 14, p.o. Ro.; 15, p.o. r.; 17, p.o. c.; 25, p.o.

Ro.; 27, p.o. Ce.; 36 e 37, p.o. T.) sono successivi a tale data.

Poichè la Corte di Appello ha confermato la condanna pronunciata dal Giudice dell'udienza preliminare per tutti i reati che questi aveva ritenuto (che, rispetto

all'originaria contestazione, non contemplavano il concorso nei fatti descritti ai

capi 10, 24 e 31), salvo che per il reato di cui al capo 37, va rilevato come la condanna della M. concerna fatti che si pongono in un arco temporale che va

dall'anno (OMISSIS) sino all'anno (OMISSIS).

Nonostante ciò, la sentenza impugnata non reca alcuna esplicazione delle ragioni per le quali si è ravvisata la responsabilità della M. anche per fatti

risalenti ad un periodo addirittura anteriore rispetto a quello dagli stessi giudici di merito individuato come quello in cui emersero indicatori che avrebbe

dovuto essere significativi per la M..

Infatti, secondo la ricostruzione operata dal giudice di primo grado (e fatta propria dalla Corte di Appello in sede di rinvio) le prime notizie la M. le ebbe in

relazione all'episodio che coinvolse il Ma. nel (OMISSIS) (capo 22, fatto non contestatole).

Avuta notizia dell'approccio abusivo operato dal Ma. in danno della degente S., la M. convocò entrambi;

nell'occasione il medico negò di aver baciato la giovane, che dal canto suo

confermò di essere stata vittima della indebita "attenzione" del medico (cfr. pg. 39 s.). A fronte di ciò la M. non assunse alcun provvedimento.

Un secondo viene indicato nell'episodio che coinvolse la T. (capo 19). Tuttavia,

senza specificare in quale tempo i parenti della donna informarono la M. dell'accaduto; e nell'evidenziare gli elementi di prova a carico del C., non si da

alcuna collocazione temporale ai fatti (cfr. pg. 46 s.).

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Si citano poi le lamentele fatta alla M. da P.D., padre di G., a proposito di un

rapporto sessuale avuto dalla figlia nel reparto. Il capo 10 imputa toccamenti ed altri atti sessuali abusivi a C. in danno della P.; i fatti sono del (OMISSIS).

Vengono ancora evocate le lamentele dei parenti della Ta.;

fatti antecedenti all'(OMISSIS).

La dr.ssa G. ha riferito che la M. venne messa al corrente della vicenda L. (capi 8 e 9, del (OMISSIS)).

Si cita poi quanto detto dalla F., relativamente ad una "situazione generale del

reparto".

Pertanto, la condanna della M. per fatti occorsi in epoca anteriore all'emergere dei primi segnali che si ritiene siano stati posti all'attenzione dell'imputata non

da conto degli elementi che, resi disponibili dall'accertamento processuale, ha assunto varrebbero a dare prova del dolo di reato; ed anzi appare evidente che

il tema non è stato all'attenzione della Corte di Appello, la quale parla

esplicitamente di una "situazione allarmante" a partire dal (OMISSIS) (pg. 12); senza peraltro chiarire quale posizione avesse assunto rispetto all'affermazione

della ricorrente, di aver assunto le funzioni di primario solo dopo l'anno (OMISSIS).

Più sopra si è richiamata l'attenzione sulla data del (OMISSIS).

E' incontroverso che in tale data la M. presentò una denuncia avente ad

oggetto gli atti sessuali commessi in danno di C. M. la notte del (OMISSIS) dall'infermiere C. D..

Ciò rende evidente che almeno da quel tempo la M. ebbe consapevolezza che

alcuni dipendenti del reparto avevano commesso fatti di abuso sessuale, o quanto meno che si erano verificati fatti che imponevano la denuncia ai sensi

dell'art. 361 c.p.. In ogni caso, fatti che ella avrebbe, da allora in avanti, avuto

l'obbligo di impedire, una volta acquisiti elementi di natura omologa a quella che era stata ritenuta in grado di far scattare l'obbligo di denuncia.

Tuttavia la Corte di Appello ha reclutato una pluralità di circostanze, non

puntualmente collocate nel tempo, assunte cumulativamente e indistintamente rispetto ai fatti reati contestati;

in tal modo rendendo impossibile valutare se si sia fatta corretta applicazione

della criteriologia alla quale ha inteso richiamarsi.

Ma per quanto sopra esplicato, non è sufficiente verificare che il soggetto è stato consapevole di causare con il proprio comportamento una situazione di

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pericolo per beni di altrui appartenenza, senza distinguere di quali beni (nella

rappresentazione dell'autore) si trattasse. Ponendo sul medesimo piano la previsione della minaccia e la previsione dell'abuso sessuale.

La sentenza impugnata merita quindi di essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro, che provvedere a nuovo esame,

facendo applicazione dei principi di diritto posti da questa Corte al superiore paragrafo 5.

7. Parimenti fondato è il secondo motivo di ricorso. L'affermazione della

responsabilità della M. per il delitto di falso in atto pubblico risulta invero argomentata solo apparentemente. La Corte di Appello, infatti, si è limitata a

trascrivere in forma pedissequa la motivazione resa al riguardo dal Giudice dell'udienza preliminare, non palesando l'avvenuto, concreto, pur essenziale

ma puntuale vaglio autonomo dei punti specifici devoluti dall'impugnazione ed il percorso argomentativo che l'ha accompagnata.

8. Le motivazioni dell'annullamento assorbono le censure concernenti il

trattamento sanzionatorio formulate con il terzo motivo di ricorso.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro per l'ulteriore corso.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità o gli

altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2013

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3) Omicidio preterintenzionale

Tizio è un ferroviere, che espleta la sua attività in Varese. Tizia era un’anziana signora disabile, che girava per la città tramite la propria

carrozzella. Tizia era madre di Pasquale. Un giorno, nei pressi della stazione di Varese, la signora Tizia fermava Tizio

chiedendogli di cercare suo figlio Pasquale, in quanto da quasi due giorni non tornava a casa.

Tizio rispondeva freddamente di andare altrove a chiedere aiuto. Tizia, però, non si allontanava e tirava la gamba di Tizio.

Quest’ultimo prendeva a schiaffi Tizia e la spingeva con forza verso i gradini. Tizia cadeva dai gradini e la carrozzella le finiva in testa, causando un grave

trauma facciale; veniva ricoverata in ospedale in stato comatoso e, dopo circa due mesi, decedeva.

Il candidato rediga motivato parere circa la posizione giuridica di Tizio.

Possibile soluzione schematica caso 3)

In premessa si poteva schematizzare il fatto. Successivamente il discorso poteva essere inquadrato nell’ambito dell’art. 584

c.p.c, visto che si concretizza il segmento causale lesioni/morte come conseguenza non voluta.

La condotta posta in essere da Tizio è inquadrabile nell’art. 584 c.p.? Si poteva rispondere positivamente per le seguenti ragioni:

-Tizio, schiaffeggiando Tizia, concretizza una fattispecie ex art. 581/582 c.p.; -Tizio, spingendo Tizia con forza verso i gradini, concretizza una condotta

diretta a cagionare lesioni; -dalla condotta di Tizio derivano lesioni, ex art. 582 c.p., intese come “malattia

nella mente o nel corpo”, visto che Tizia cade in coma; -la morte di Tizia è conseguenza non voluta, ma comunque

prevedibile/evitabile; se si spinge con “forza” una signora in carrozzina verso i

gradini, è prevedibile la morte. Al più, in un’ottica difensiva, sarebbe sostenibile l’assenza di prevedibilità in

concreto della morte, così sfuggendo dalla perimetrazione applicativa dell’art. 584 c.p.

Il caso è aperto a più soluzioni.

Il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre, con riguardo

all'elemento psicologico, anche quando gli atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582 c.p., dai quali sia derivata,

come conseguenza non voluta, la morte, siano stati posti in essere con dolo eventuale.

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Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 16-07-2013) 20-09-2013, n. 38976

1. Con sentenza dell'11 giugno 2012 la Corte d'Assise d'appello di Cagliari,

Sez. dist. di Sassari, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, condannava L.A.Q.A. alla pena di giustizia ed al risarcimento del danno per il

reato di omicidio preterintenzionale, così riqualificata l'originaria contestazione di omicidio volontario, commesso nei confronti di S.G. A., soggetto disabile di

cui cagionava la morte spingendo la carrozzella sulla quale era costretto lungo una discesa e provocando la sua caduta, a seguito della quale lo stesso

riportava un grave trauma facciale che ne determinava il ricovero in stato comatoso e, dopo circa due mesi di degenza, il decesso per le complicazioni

polmonari subentrate.

2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato a mezzo del difensore deducendo vizi motivazionali del provvedimento e l'errata applicazione degli artt. 40, 41, 43,

584, 586 e 589 c.p., sostanzialmente lamentando l'errata qualificazione dei fatti, al più sussumibili nel paradigma di cui all'art. 586 c.p., e carenze

argomentative in ordine alla prevedibilità dell'evento ed all'attendibilità delle

dichiarazioni del teste S., poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità dell'imputato.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile.

1.1 In proposito deve osservarsi innanzi tutto come i motivi formulati dal ricorrente, per la maggior parte, si esauriscano nella disordinata riproposizione

di alcuni brani estrapolati dalla motivazione della sentenza accompagnati da generici interrogativi sulla loro tenuta argomentativa o addirittura dalla mera

evocazione delle fattispecie contemplate dall'art. 606 c.p.p. che implicitamente integrerebbero, evidenziando in tal modo la loro manifesta inidoneità ad

esprimere quell'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, necessaria, ai sensi dell'art. 581 c.p.p.,

lett. c), per l'ammissibilità di qualsiasi impugnazione e risolvendosi invece in un

coacervo di retoriche ed assertive doglianze nelle quali non è possibile rinvenire una critica argomentata effettivamente correlata al reale contenuto

del provvedimento impugnato.

1.2 Deve ancora evidenziarsi come la Corte territoriale abbia invece reso ampia e articolata motivazione in merito alla ricostruzione dei fatti accolta, alla

sussistenza del collegamento causale tra la condotta ascritta all'imputato e l'evento mortale, nonchè a quella del dolo di lesioni in capo all'imputato.

Motivazione che appare coerente al compendio probatorio di riferimento e scevra da vizi logici che ne compromettano la tenuta logica e che peraltro ha

confutato in maniera minuziosa le obiezioni sollevate con i motivi d'appello dalla difesa dell'imputato. Motivazione con la quale, come detto, il ricorrente ha

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omesso un effettivo confronto, limitandosi per lo più a decontestualizzare solo

alcune frasi utilizzate dai giudici dell'appello, senza tenere conto della complessiva linea argomentativa in cui le stesse erano inserite.

2. Ciò detto deve osservarsi che tre soli sono i rilievi svolti dal ricorrente che necessitano di ulteriori precisazioni, in quanto dalla confusa formulazione dei

motivi emergono con una qualche definizione.

2.1 Il primo riguarda la confutazione della qualificazione giuridica dei fatti ai sensi dell'art. 584 c.p.. La Corte territoriale ha ritenuto di aderire

all'orientamento interpretativo per cui l'elemento psicologico dell'omicidio preterintenzionale sarebbe costituito dalla sommatoria del dolo di percosse o di

lesioni con la colpa dell'evento morte in realtà non voluto dall'agente. Il ricorrente contesta l'alternatività tra dolo e colpa e conseguentemente assume

come più correttamente il fatto avrebbe dovuto essere inquadrato nel paradigma dell'art. 586 c.p..

2.2 La doglianza è manifestamente infondata atteso che, secondo il costante

insegnamento di questa Corte, il delitto previsto dall'art. 586 c.p. (morte come

conseguenza di un altro delitto) si differenzia dall'omicidio preterintenzionale perchè nel primo delitto l'attività del colpevole è diretta a realizzare un delitto

doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni personali, mentre nel secondo l'attività è diretta a realizzare un evento che, ove non si verificasse la morte,

costituirebbe reato di percosse o lesioni.

Nella preterintenzionalità quindi è necessario che la lesione si riferisca allo stesso genere di interessi giuridici (incolumità della persona), mentre

nell'ipotesi di cui all'art. 586 la morte o la lesione deve essere conseguenza di delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni (Sez. 5, n. 3262 del 13

febbraio 1999, PG in proc Giorgione, Rv. 213028).

2.3 La qualificazione giuridica accolta dalla sentenza è dunque corretta, giacchè l'evento morte è conseguito alla consumazione del delitto di lesioni, la

cui volontarietà è stata accertata dalla Corte territoriale, senza che in proposito

possa rilevare l'apparente configurazione del relativo dolo come eventuale assunta dalla medesima, atteso che, come pure costantemente ribadito in

questa sede, il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre, con riguardo all'elemento psicologico, anche quando gli atti diretti a commettere uno dei

delitti previsti dagli artt. 581 e 582 c.p., dai quali sia derivata, come conseguenza non voluta, la morte, siano stati posti in essere con dolo

eventuale (ex multis Sez. 1, n. 40202 del 13 ottobre 2010, Gesuito, Rv. 248438).

2.4 Ciò non toglie che la motivazione resa dai giudici d'appello sulla struttura

dell'elemento psicologico del delitto di cui all'art. 584 c.p. debba essere corretta, giacchè questa Corte ha oramai da tempo precisato che lo stesso non

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è costituito da dolo e responsabilità oggettiva, nè dal dolo misto a colpa, ma

unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all'art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità di un evento più grave nell'intenzione di

risultato. Pertanto, la valutazione relativa alla prevedibilità dell'evento da cui

dipende l'esistenza del delitto in questione è nella stessa legge, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa

derivare la morte della stessa (Sez. 5, n. 791/13 del 18 ottobre 2012, Palazzolo, Rv.

254386; Sez. 5, n. 35582 del 27 giugno 2012, Tarantino e altri, Rv.

253536; Sez. 5, n. 16285 del 16 marzo 2010, Baldissin e altri, Rv.

247267). 2.5 Le altre due censure che meritano di essere affrontate in maniera

specifica sono quelle relative all'imprevedibilità dell'evento morte ed all'effettiva causa delle lesioni riportate dal S..

Peraltro, nonostante il maggior sforzo connotativo profuso dal ricorrente in

proposito, anche queste doglianze si rivelano irrimediabilmente generiche, non

tenendo conto dell'effettivo contenuto della motivazione della sentenza.

La Corte territoriale ha infatti ben spiegato le ragioni dell'inconferenza degli esperimenti condotti dal consulente della difesa sulla possibilità per una

persona che in carrozzella scenda per la rampa su cui si è consumata la vicenda di cui si tratta di frenare la corsa del mezzo e di evitare dunque di

cadere sul terreno una volta giunto al suo termine, rilevando in proposito come tali esperimenti non abbiano tenuto conto delle peculiari condizioni in cui è

avvenuto il fatto in contestazione. Ed analogamente i giudici d'appello hanno diffusamente argomentato sull'eziologia delle lesioni che hanno

successivamente portato al decesso della vittima del reato e sul reale contenuto e significato delle conclusioni del consulente medico legale in merito

alla stessa, non limitandosi alla frase riportata in ricorso per obiettare che sussisterebbero dubbi sull'effettiva serie causale che ha determinato la morte

del S..

3. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue ai sensi dell'art. 616

c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle

ammende. P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle

spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 16 luglio 2013.

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55

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2013

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4) Offerta in vendita di semi di pianta di marijuana

Michele è appassionato di piante di marijuana. La passione lo portava a studiare approfonditamente tali piante.

Michele diffondeva online i suoi studi sulla pianta; altresì apriva un negozio on line tramite cui vendeva semi di piante di marijuana, unitamente ad un volume

in cui spiegava come farle crescere. Un giorno, Michele incontrava Francesco, studente di giurisprudenza;

quest’ultimo avvertiva il primo che l’attività di vendita di semi poteva costituire un reato.

Michele si recava da un legale. Il candidato, assunte le vesti del legale, rediga motivato parere chiarendo

l’eventuale configurabilità: -del reato ex art. 414 c.p.;

-del reato ex art. 82 T.U. stupefacenti (D.P.R. 9.10.1990, n. 309).

Possibile soluzione schematica caso 4)

In premessa si poteva schematizzare il fatto. Successivamente, bisognava rispondere ai quesiti posti.

Relativamente al primo quesito: sussiste il reato ex art. 414 c.p.? Si poteva rispondere negativamente perché:

-Michele non pone in essere una condotta finalizzata ad istigare a commettere reati, ma si limita a mettere in vendita i semi ed il volume; non vi è, cioè,

un’induzione a compiere un reato, ma la vendita di un bene; -l’art. 414 c.p. deve porsi comunque come idoneo, sul piano causale, a

determinare la volontà di altri a commettere reati tale che, in assenza di istigazione, il reato non si verificherebbe; sotto questo profilo, la vendita di

semi non sembra porsi come antecedente logico/causale di un’eventuale

condotta criminale di altri. Pertanto, sembra doversi negare spazio applicativo all’art. 414 c.p.

Relativamente al secondo quesito: sussiste il reato ex art. 82 T.U. stupefacenti che punisce chiunque pubblicamente istiga all'uso illecito di sostanze

stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze, ovvero induce una persona

all'uso medesimo? Si poteva rispondere negativamente in quanto:

-Michele non ha agito con il dolo rivolto all’istigazione, ma rivolto alla vendita; -la condotta di Michele è, al più, un’attività preparatoria non punibile;

-nell’istigazione bisognerebbe provare che la condotta è stata tale che, in sua assenza, nessun reato di verificherebbe del medesimo tipo; ciò appare

impossibile nel caso in esame. Pertanto, alla luce dei rilievi esposti, Michele non dovrà rispondere del reato ex

art. 414 c.p. e neanche di quello ex art. 82 d.p.r. 309/1990.

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La mera offerta in vendita di semi di pianta dalla quale siano ricavabili

sostanze stupefacenti non è penalmente rilevante, configurandosi

come atto preparatorio non punibile perché non idoneo in modo

inequivoco alla consumazione di un determinato reato, non potendosi

dedurne l'effettiva destinazione dei semi.

Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 18-10-2012) 07-12-2012, n. 47604

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 1 giugno 2011, il Giudice della udienza preliminare del

Tribunale di Firenze, in esito a giudizio abbreviato, ha assolto gli imputati B.L. e G.M., con la formula perchè il fatto non sussiste, dai reati previsti dagli artt.

110, 81 e 414 cod. pen., art. 82 T.U. stup. (D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) loro contestati per avere istigato all'uso illecito, o alla coltivazione, di marijuana

offrendo e pubblicizzando via internet la vendita di semi delle piante unitamente ad un opuscolo recante precise indicazioni per la loro coltivazione.

Per giungere a tale conclusione, il Giudice ha osservato, in punto di fatto, che

l'addebito faceva riferimento alla sola commercializzazione dei semi con indicazioni botaniche relative esclusivamente alla loro crescita.

Indi, il Giudice ha scartato le ipotesi della configurabilità del reato previsto dall'art. 414 cod. pen. (essendo più specifico quello di istigazione ex art. 82,

cit. T.U. stup.) e della sussunzione della condotta nel concetto di proselitismo, contemplata dall'art. 82, per il mancato coinvolgimento di più persone ad un

determinato stile di vita caratterizzato dalla assunzione di stupefacenti.

Il Giudice ha rilevato che, nel caso di specie, mancavano consigli per estrarre dalle piante il principio attivo, per cui difettava quella spinta emotiva o morale

all'uso di sostanze stupefacenti che distingue la condotta di istigazione penalmente rilevante, prevista dall'art. 82, T.U. stup., dalla semplice

propaganda, che configura un illecito amministrativo a sensi del successivo art. 84.

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2. Per l'annullamento della sentenza, ha proposto ricorso per cassazione il

Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, deducendo, con un unico motivo, erronea applicazione di legge.

Lamenta che la sentenza si sia discostata dal principio, affermato da varie

pronunce della Cassazione, secondo cui la vendita di semi di cannabis o marijuana su un sito internet liberamente accessibile, con corredo di indicazioni

per la coltivazione delle specie offerte, integra il reato dell'art. 82, cit. T.U. stup. e non la meno grave fattispecie prevista dall'art. 84.

Gli imputati hanno presentato una memoria rilevando, in particolare, che, in un caso del tutto sovrapponile al presente, essi erano stati assolti dal giudice di

merito e la Corte di cassazione (Sez. 4, n. 6973 del 17/01/2012) aveva

respinto il ricorso del pubblico ministero.

3. Il processo è stato assegnato alla Terza Sezione penale, che alla udienza del

29 maggio 2012, rilevando come il caso fosse stato risolto in modo difforme in sede di legittimità, ha provveduto a rimettere il ricorso alle Sezioni Unite a

sensi dell'art. 618 cod. proc. pen..

4. Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali con decreto del 5 luglio 2012, fissandone per la trattazione l'odierna udienza.

Motivi della decisione

1. La questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite è la seguente: "Se integra il reato di istigazione all'uso di sostanze stupefacenti la pubblicizzazione

e la messa in vendita di semi dì piante idonee a produrre dette sostanze con la indicazione delle modalità di coltivazione e della resa".

2. Sul tema, la giurisprudenza di legittimità si è espressa in modo

contrastante.

2.1. Un primo orientamento (rappresentato dalle sentenze Sez. 4, n. 26430 del

20/05/2009, Pesce, Rv. 244503; Sez. 4, n. 23903 del 20/05/2009, Malerba Rv.

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244222; Sez. 4, n. 2291 del 23/03/2004, D'Angelo, Rv. 228788) interpreta

l'art. 82, comma 1, cit. T.U. stup. nel senso che la condotta istigatoria in esso delineata comprende l'attività di pubblicizzazione di semi di piante idonee a

produrre sostanze stupefacenti con precisazioni sulla coltivazione delle stesse.

L'argomentazione posta alla base della conclusione si incentra nel rilievo che, anche in mancanza di pubblicità volta ad esaltare la qualità del prodotto e l'uso

dello stupefacente che si ricava dalle piante, la normale finalità della coltivazione è l'ottenimento e l'utilizzo della droga. Sussiste, pertanto, una

interconnessione tra pubblicizzazione di semi, coltivazione degli stessi e utilizzo di sostanze stupefacenti. Conforme alle ricordate decisioni è quella della Sez.

4, n. 15083 del 08/04/2010, Gracis, non massimata.

2.2. Ad analogo risultato, pervengono due sentenze con un iter motivazionale

più articolato.

Si afferma, in particolare, che il reato di istigazione all'uso di sostanze stupefacenti si configura quando la condotta dell'agente, per il contesto in cui

si realizza e per le espressioni usate, sia idonea ad indurre i destinatari delle esortazioni all'uso delle dette sostanze; consegue che la condotta di istigazione

può astrattamente consistere nel fornire agli acquirenti dettagliate notizie sulle modalità di coltivazione di piante dalle quali sono ricavabili sostanze

stupefacenti.

L'apprezzamento di fatto relativo alla efficacia ed idoneità in concreto delle modalità di pubblicizzazione è riservato al giudice di merito, il quale può

desumere la condotta concretamente antigiuridica anche dal fatto che l'offerta sia indirizzata ad una platea indeterminata dì soggetti (Sez. 6, n. 38633 del

24/09/2009, Barsotti, Rv. 244559).

Un'altra decisione, quella della Sez. 5, n. 16041 del 05/03/2001, Gobbi, Rv. 218484, è stata in tale modo massimata: "Ai fini della configurabilità del reato

di istigazione all'uso di sostanze stupefacenti occorre che l'agente, per il contesto in cui opera e per il contenuto delle sue esortazioni, abbia, sul piano

soggettivo, l'intento di promuovere tale uso e, dal punto di vista materiale, di fatto si adoperi, con manifestazioni verbali, con scritti o anche con il ricorso al

linguaggio simbolico affinchè l'uso di stupefacenti da parte dei destinatari delle sue esortazioni sia effettivamente realizzato (fattispecie nella quale la Corte ha

escluso il reato nel caso di volantinaggio da parte di studenti favorevoli alla liberalizzazione di droghe leggere)".

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60

2.3. Una diversa opinione (espressa da Sez. 4, n. 6972 del 17/01/2012,

Bargelli, Rv.251953) si discosta dalle precedenti, movendo dal principio giurisprudenziale secondo il quale la vendita di semi di piante dai quali sono

ricavabili sostanze stupefacenti non costituisce reato perchè riconducibile agli

atti preparatori privi di potenzialità causale rispetto alle attività vietate. Alla luce di tale principio, la sentenza interpreta il rapporto tra la fattispecie penale

dell'art. 82, comma 1, riferita a chi pubblicamente istiga all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, e l'illecito amministrativo, di cui al successivo art.

84, concernente la propaganda pubblicitaria di sostanze o preparazioni comprese nelle tabelle previste dall'art. 14. In particolare, rileva che la

condotta dell'art. 84 non possa consistere in un propaganda finalizzata alla vendita, ma semplicemente in un'opera di diffusione senza induzione

all'acquisto; nella condotta dell'art. 82, invece, si riscontra un qualcosa di aggiuntivo che spinge all'uso del prodotto da parte del destinatario della

propaganda. Ne consegue che, nei casi in cui la pubblicità si soffermi solo sulla illustrazione delle caratteristiche delle piante che nascono dai semi e sulle

modalità della loro coltivazione, il reato dell'art. 82 non può ritenersi sussistente perchè l'azione non è idonea a suscitare consensi ed a provocare il

concreto pericolo dell'uso di stupefacenti da parte dei destinatari del

messaggio.

3. Innanzi tutto, è opportuno precisare che ogni tipo di inserzione pubblicitaria

avente per oggetto prodotti droganti deve essere oggetto di divieto.

Il principio ha un fondamento sovrannazionale nell'art. 10, comma 2, della Convenzione di Vienna del 1971, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. del

25 marzo 1981, n. 385, che stabilisce: "Ciascuna parte, tenendo debito conto delle norme della sua Costituzione, proibirà le inserzioni pubblicitarie

riguardanti le sostanze psicotrope e destinate al grosso pubblico".

Il nostro ordinamento, nell'alveo della lotta alla droga, colpisce, con una forte

anticipazione della tutela penale, ogni forma di propaganda degli stupefacenti ed ogni condotta di stimolo alla creazione, diffusione o al consumo degli stessi.

Non è, tuttavia, ineludibile nel settore della inibita propaganda la mera offerta

in vendita di semi dalla cui pianta sono ricavabili sostanze stupefacenti; l'attività che ha tale oggetto, di per sè, non è vietata configurandosi come atto

preparatorio non punibile perchè non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato per la considerazione che non è dato

dedurre la effettiva destinazione dei semi (sentenze Sez. 2, n. 10496 del

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01/09/1988, Lanzuisi, Rv. 179539; Sez. 4, n. 13853 del 04/12/2008, Kurti, Rv.

243194; Sez. 4, n. 6972 del 22/02/2012, Bargelli, Rv.

251953).

4. Poichè la sentenza impugnata incentra il suo apparato argomentativo sulla

applicabilità al caso dell'art. 84 e non sul contestato art. 82 (mentre il Pubblico Ministero nel suo ricorso ed il Procuratore Generale nella sua requisitoria

opinano il contrario), si ritiene puntualizzare la distinzione tra le due norme

anche se, come si dirà, la risoluzione del caso sottoposto alle Sezioni Unite si rinviene altrove in un diverso referente normativo.

5. Il fondamentale elemento discretivo tra le due fattispecie (i residui sono di minore significatività in rapporto al quesito in esame) deve essere reperito

nella tipologia delle condotte; una loro precisa individuazione esclude già che in certe ipotesi nascano problemi di conflitto.

La pubblicità è in genere concisa, non mira a proporre modelli di

comportamento ed a persuadere il pubblico facendo leva sulle presunte ragioni ideologiche che stanno alla base della scelta suggerita;

quindi, non è conciliabile con la nozione di proselitismo.

Il messaggio pubblicitario non implica un rapporto personale tra il propagandista ed il destinatario con opera di diretto influenzamento dell'uno

sull'altro, per cui è da scartare che possa essere classificato nel novero della induzione.

Rimane la condotta di istigazione effettuata pubblicamente (secondo la

disposizione definitoria dell'art. 266 c.p., u.c.) che presenta un labile confine con quella di propaganda; dato che il Legislatore ha usato nello stesso contesto

normativo termini diversi, occorre che l'interprete non li omologhi e cerchi di individuare i rispettivi ambiti di applicazione, si da rendere ragionevole la scelta

della differente risposta punitiva.

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6. Sul punto, la citata sentenza della Sez. 4 n. 6972 del 2012 ha focalizzato la

distinzione, ponendo l'accento sulle caratteristiche del messaggio pubblicitario che, nell'art. 84, deve essere asettico e non deve indurre i destinatari

all'acquisto o all'uso del prodotto stesso.

La Corte condivide questa impostazione, anche se sono eccezionali le ipotesi di propaganda pubblicitaria che non invoglino all'acquisto;

tuttavia, il criterio individuato nella sentenza è l'unico reperibile che, sul piano

strutturale, diversifichi le condotte, incida significativamente sul livello della offesa ed abbia come ricaduta di condurre la previsione dell'art. 84 nell'alveo di

una ipotesi marginale e di scarsa lesività.

Si ritiene, pertanto, che rientri nella propaganda pubblicitaria la condotta di chi

si limita in modo asettico e neutro a rendere noto al pubblico la esistenza della sostanza veicolando un messaggio non persuasivo e privo dello scopo

immediato di determinare all'uso di stupefacenti.

7. La delineata esegesi del rapporto tra norme trova riscontro nella clausola di riserva dell'art. 84, comma 2, non valutata dalla giurisprudenza che si è

occupata dell'argomento. Il Legislatore si è reso conto che il termine propaganda può essere interpretato con parametri non bene definiti e che tra

le sue previsioni non sussiste un rapporto di specialità risolvibile a sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9 bensì di gravità crescente, ed ha fornito

una chiave per risolvere il conflitto apparente di norme.

8. Occorre ora prendere in considerazione la fattispecie concreta e verificare se, come sostenuto dal ricorrente, sia corretto il suo inquadramento nella

ipotesi di reato dell'art. 82, sotto la previsione della istigazione all'uso di stupefacenti; sul tema, la Corte non condivide la opinione delle sentenze che

hanno risposto positivamente, perchè la condotta contestata solo indirettamente ed eventualmente conduce al consumo di sostanze droganti.

Non è possibile equiparare la nozione di stupefacente a quella di pianta dalla

quale, con determinati procedimenti chimici neppure menzionati nella pubblicità, è ricavabile una sostanza drogante che, allo stato naturale, è

compresa nelle tabelle; una simile esegesi non rientra nel novero di una plausibile interpretazione estensiva perchè travalica l'ambito dei possibili

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significati letterali, sia pure amplificati all'estremo, del termine stupefacente e

dilata il fatto tipico integrandolo con una ipotesi non espressamente inclusa con palese violazione del principio di tassatività e del divieto di analogia nel diritto

penale.

Inoltre, se si fosse trattato di offerta in vendita di sostanze stupefacenti, la condotta sarebbe sussumibile nella previsione dell'art. 73, comma 1, cit. TU.

stup..

9. Quanto precisato sul divieto della analogia (valevole anche per le sanzioni amministrative per il principio di legalità inserito nella L. n. 689 del 1991, art.

1, comma 2) non è trasferibile anche all'art. 84 per il quale la propaganda può essere effettuata anche indirettamente, cioè, facendo sorgere nel pubblico - in

modo obliquo, dissimulato o per associazioni di idee - il riferimento implicito alla sostanza stupefacente.

La citata norma, tuttavia, non è applicabile perchè la offerta del prodotto da parte degli imputati era correlata da ulteriori, allettanti specificazioni. La

precisazione rende il caso non inquadratane nella previsione dell'art. 84,

perchè il messaggio non era neutro ed asettico: indicando i metodi botanici più appropriati per la resa dei semi, la pubblicità invitava i destinatari all'acquisto

dei semi come attività prodromica al successivo comportamento consistente nella coltivazione di piante dalle quali è estraibile una sostanza stupefacente.

Questa ultima condotta è vietata dall'art. 26, cit. T.U. stup. e prevista come delitto dal successivo art. 73, comma 3, perchè accresce la disponibilità di

droghe con conseguente pericolo di diffusione illecita delle stesse.

10. Poichè gli imputati istigavano a commettere un reato con le modalità esecutive dell'art. 266 c.p., comma 4, il caso può rientrare nella previsione

dall'art. 414 cod. pen.; tale fattispecie si pone come norma generale e non è applicabile in presenza di reati di istigazione più specifici.

In virtù di questo principio, il Giudice ha rilevato che il delitto previsto dall'art.

82 sarebbe una specie rispetto alla previsione codicistica; la tesi non è condivisibile perchè raffronta il reato di istigazione a delinquere con quello di

istigazione all'uso di sostanze stupefacenti che deve essere escluso per la già detta ragione (al paragrafo 8).

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La esatta comparazione tra norme, rapportata alla ipotesi che ci occupa, porta

a concludere che l'art. 82 non è strutturato come species rispetto al genus dell'art. 414 cod. pen., perchè non annovera tra le condotte punibili la illegale

coltivazione di stupefacenti.

11. Tanto premesso, è appena il caso di osservare come, al fine della possibile sussunzione del fatto in esame nel delitto di istigazione a delinquere, non rilevi

che la pubblicità fosse carente di indicazioni circa le modalità con le quali è estraibile lo stupefacente perchè la mera coltivazione (sia pure alla condizione

specificata al paragrafo 13) è punita dall'art. 73, cit. T.U. stup..

E', pure, ininfluente che il comportamento suggerito fosse privo della sua

qualificazione penale essendo sufficiente il requisito della indicazione degli

elementi fattuali della condotta suggerita (ed il delitto evocato aveva un inequivoco livello di determinatezza).

12. E', anche, inconferente, per il perfezionamento della fattispecie dell'art. 414 cod. pen., l'esito della azione istigatrice, in virtù della clausola di

indifferenza inserita nel comma 1 (che costituisce una deroga al generale principio contenuto nell'art. 115 cod. pen.), ma è necessaria la potenziale

offensività della condotta che è richiesta per tutti i reati anche quando il precetto tenda ad evitare la messa in pericolo del bene oggetto di tutela

penale.

Occorre, pertanto, una ponderazione - riservata al magistrato di merito e da effettuarsi con giudizio ex ante - circa la reale efficienza della azione

stimolatrice a spronare le persone con modalità tali da persuaderle a passare alla azione e da porsi come antecedente adeguato per indurle a commettere il

fatto illecito (sulla natura di delitto di pericolo concreto della fattispecie dell'art. 414 cod. pen,, v. tra le altre, Sez. 1, n. 26907 del 05/06/2001, Vencato,

Rv.219888).

13. Si evidenzia, inoltre, che, per la configurabilità del delitto ex art. 414 cod. pen., non è richiesta la punibilità in concreto della condotta istigata, ma è

necessario che la stessa sia prevista dalla legge come reato.

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Sul punto, occorre tenere nel debito conto il principio enucleato dalle Sezioni

Unite che (dopo avere precisato come costituisca un reato di pericolo astratto qualsiasi attività di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali è estraibile

una sostanza stupefacente) hanno ricordato il canone nullum crimen sine

iniuria sotteso a tutti i reati che, secondo la giurisprudenza costituzionale, opera per il Legislatore in astratto e per gli interpreti in concreto quale criterio

ermeneutico.

Consegue che necessita verificare, con una valutazione di fatto improponibile

in sede di legittimità, se la condotta contestata all'agente ed accertata sia assolutamente inidonea a mettere a repentaglio il bene giuridico protetto

risultando in concreto inoffensiva; tale ipotesi ricorre quando la sostanza ricavabile dalla coltivazione non produca un effetto drogante rilevabile (Sez. U,

n. 28605 del 24/04/2008, Di Silvia, Rv. 239920).

14. Da quanto esposto, emerge che la risoluzione del caso implica, anche, questioni di fatto che esulano dai limiti cognitivi della Cassazione che può solo

osservare come, allo stato, non emerga in modo palese che la pubblicità degli imputati fosse inoffensiva;

deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di

appello di Firenze trattandosi di ricorso immediato a sensi dell'art. 569 c.p.p., comma 1.

15. In relazione a questa statuizione, non rileva la circostanza che il ricorso del Pubblico Ministero non contiene un riferimento specifico alla fattispecie di

istigazione a delinquere perchè questa limitazione non interferisce con il principio devolutivo della impugnazione; la esatta qualificazione giuridica dei

fatti è questione di diritto la cui risoluzione compete a questa Corte che non è

vincolata alle prospettazioni delle parti.

Si precisa che la contestazione dell'art. 414 cod. pen. era stata correttamente

effettuata dal Pubblico Ministero nel capo di imputazione sia con la indicazione della norma sia con la precisazione della condotta materiale posta in essere;

pertanto la conclusione non pone problemi sulla fattiva possibilità degli imputati di comprendere l'accusa e di difendersi.

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16. Nel giudizio di rinvio, la Corte di appello si confermerà al seguente principio

di diritto: "La offerta in vendita di semi di piante dalle quali è ricavatole una sostanza drogante, correlata da precise indicazioni botaniche sulla coltivazione

delle stesse, non integra il reato dell'art. 82, cit. T.U. stup., salva la possibilità

di sussistenza dei presupposti per configurare il delitto previsto dall'art. 414 cod. pen. con riferimento alla condotta di istigazione alla coltivazione di

sostanze stupefacenti".

17. Inoltre, i nuovi Giudici dovranno effettuare, quanto alla idoneità della

condotta, la valutazione concreta rapportata alle peculiarità del caso, inerente alla reale attitudine della azione istigatrice a porsi come antecedente adeguato

per influire sulla altrui volontà e fare sorgere, o rafforzare, il proposito di coltivare illecitamente piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti;

dovranno verificare, sul piano della lesività, se la pubblicità non solo inducesse

alla coltivazione, ma se fosse articolata in modo tale da sollecitare gli acquirenti del semi a porre in essere un comportamento penalmente rilevante,

cioè, atto a determinare una germinazione dalla quale fosse ragionevolmente prevedibile il ricavo dì un prodotto finito con effetto drogante.

In merito alla volontà degli imputati di determinare altri a commettere il reato, i Giudici del rinvio dovranno analizzare la indicazione, contenuta nella

inserzione pubblicitaria (che segnalava come la coltivazione necessitasse di previa autorizzazione) e considerare se l'ammonimento fosse serio ed il suo

rispetto controllato al momento della vendita dei semi al fine di valutare la sua

efficacia deterrente per i destinatari ed esimente per gli imputati.

Per costoro, l'assoluzione per un fatto identico a quello in esame non rileva ai

fini del dolo perchè successiva alla inserzione pubblicitaria per cui è processo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al capo a) della imputazione e

rinvia alla Corte di Appello di Firenze.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2012

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In tema di sostanze stupefacenti, si ritiene che il cd. consumo di

gruppo di droghe, sia nel caso di acquisto in comune sia in quello del

mandato all'acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nell'originaria

conoscenza dell'identità degli altri, continua a costituire, anche a

seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 49 del 2006 agli artt.

73 e 75 del T.U. degli Stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 1990), un'ipotesi

di uso esclusivamente personale dei partecipanti al gruppo, sì da

integrare l'illecito amministrativo di cui all'art. 75 del citato T.U. degli

Stupefacenti e non già il reato previsto dall'art. 73, comma 1-bis, del

medesimo testo normativo.

Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 31-01-2013) 10-06-2013, n. 25401

Svolgimento del processo

1. Ad G.A. vennero contestati i reati di cui: A) al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309,

art. 73, comma 1 bis, come modificato dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, per

avere, dopo l'acquisto di eroina in comune con P.A., proceduto al consumo di

gruppo dello stupefacente con il P., in tal modo detenendo sostanza

stupefacente destinata ad un uso non esclusivamente personale (destinata al

consumo comune) e per averla comunque ceduta ai P.; B) all'art. 586 c.p., in

relazione all'art. 589 c.p., perchè dal fatto-reato di cui al capo A), era derivata,

come conseguenza non voluta, la morte di P.A., deceduto per edema

polmonare acuto conseguente all'assunzione dell'eroina acquistata in comune

con G.A..

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Avellino, con sentenza del

28 giugno 2011, dichiarò non luogo a procedere per i reati di cui ai capi A) e

B), perchè il fatto non sussiste, condividendo l'orientamento giurisprudenziale

secondo il quale, anche a seguito delle modifiche apportate al D.P.R. n. 309 del

1990, dalla legge n. 49 del 2006, l'uso di gruppo di sostanze stupefacenti non

assume rilevanza penale allorquando ricorrano alcune condizioni, che nella

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specie erano presenti, sussistendo una comune ed originaria finalità dei due

soggetti di acquisto dello stupefacente per destinarlo al proprio fabbisogno

personale; la partecipazione di entrambi alla spesa occorrente; la previsione

delle modalità di consumo; la qualità di assuntore in capo all'acquirente e la

cessione della droga direttamente all'altro. Venuta meno la configurabilità del

delitto di cui al capo A), mancava il presupposto del reato di cui all'art. 586

c.p..

2. La parte civile G.C. moglie del P. (costituita anche quale esercente la

potestà genitoriale sui due figli minorenni), propone ricorso per cassazione

denunciando inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e

deducendo, in particolare, che il c.d. uso di gruppo di sostanze stupefacenti,

nella duplice ipotesi del mandato all'acquisto e dell'acquisto in comune, risulta

ora penalmente sanzionato a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 49

del 2006. Osserva che con l'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" nel testo

del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, lett. a), il legislatore, in

coerenza con la ratio legis della riforma diretta a contrastare la diffusione della

droga, ha inteso circoscrivere l'area del penalmente irrilevante a quei limitati

casi in cui l'acquisto e la detenzione sono finalizzati al solo, esclusivo, uso di

chi sia trovato in possesso di un minimo quantitativo di stupefacente. Di

conseguenza, si imporrebbe oggi una interpretazione più restrittiva di quella

affermatasi in precedenza, in quanto il c.d. uso di gruppo ontologicamente non

può essere un uso esclusivamente personale. Aggiunge che la tesi

dell'irrilevanza penale potrebbe, al più, valere per l'ipotesi di acquisto e di

successivo consumo in comune di sostanze stupefacenti, ma non anche per

quella, ricorrente nella specie, di mandato ad acquistare, che produce

un'indebita diffusione della sostanza stupefacente da chi materialmente

acquista la droga a chi si limita ad assumerla.

3. La Quarta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza del 16

ottobre 2012, ha rimesso alle Sezioni Unite la risoluzione della questione,

oggetto di contrasto giurisprudenziale, relativa alla rilevanza penale del c.d.

"uso di gruppo di sostanze stupefacenti" a seguito della novella legislativa

introdotta dalla L. n. 49 del 2006.

L'ordinanza ricorda che la questione era già stata risolta dalla sentenza delle

Sezioni Unite n. 4 del 28/05/1997, Iacolare, con l'affermazione del principio

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che "non sono punibili e rientrano nella sfera dell'illecito amministrativo di cui

al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, l'acquisto e la detenzione di sostanze

stupefacenti destinate all'uso personale che avvengano sin dall'inizio per conto

e nell'interesse anche di soggetti diversi dall'agente, quando è certa fin

dall'inizio l'identità dei medesimi nonchè manifesta la loro volontà di procurarsi

le sostanze destinate al proprio consumo".

Questa soluzione si fondava sulla omogeneità teleologia della condotta del

procacciatore e degli altri componenti del gruppo, che caratterizza la

detenzione nel senso di una comune codetenzione idonea ad impedire che il

primo si ponga in rapporto di estraneità e quindi di diversità rispetto ai

secondi, con conseguente impossibilità di connotare la sua condotta quale

cessione.

Il nuovo testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, come

modificato dalla L. n. 49 del 2006, però, ora punisce penalmente chi

illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope che, sulla base dei

parametri indicati, "appaiono destinate ad un uso non esclusivamente

personale", mentre il novellato art. 75 sottopone a sanzioni amministrative chi

detiene tali sostanze fuori dall'ipotesi di cui all'art. 73, comma 1 bis, ossia chi

le detiene per un uso "esclusivamente personale". Sono quindi mutate sia la

struttura normativa sia quella semantica, perchè, nell'art. 73, è stato

introdotto l'avverbio "esclusivamente" che non esisteva nel previgente art. 75.

L'ordinanza ricorda che alcune decisioni hanno ritenuto che il legislatore ha così

inteso reprimere in modo più severo ogni attività connessa alla circolazione,

vendita e consumo di sostanze stupefacenti e che l'introduzione dell'avverbio

"esclusivamente" deve condurre ad un'interpretazione più restrittiva di quella

in precedenza data al sintagma "uso personale", con la conseguenza che la

fattispecie del c.d. uso di gruppo non può più farsi rientrare nell'ipotesi di

consumo esclusivamente personale, stante la quantità e le modalità di

presentazione dello stupefacente acquistato.

Altre decisioni hanno invece confermato il precedente indirizzo, ribadendo che

il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, conseguente al mandato

all'acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nella certezza originaria

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dell'identità degli altri, continua a non essere punibile penalmente. Ciò perchè

l'avverbio "esclusivamente" costituisce un'aggiunta ridondante, superflua e

pleonastica. Inoltre, la preliminare adesione dei partecipanti al progetto

comune di fare dello stupefacente un uso esclusivamente personale, esclude

che chi acquista su incarico degli altri si ponga in una posizione di estraneità

rispetto ai mandanti.

4. Con decreto in data 12 novembre 2012, il Primo Presidente ha assegnato il

ricorso alle Sezioni Unite penali, fissandone per la trattazione l'odierna udienza.

Motivi della decisione

1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni

Unite è la seguente: "se, a seguito della novella introdotta dalla L. n. 49 del

2006, il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nella duplice ipotesi di

mandato all'acquisto o dell'acquisto comune, sia o meno penalmente

rilevante".

2. La questione si risolve, in sostanza, nello stabilire se il precedente diritto

vivente, per come affermato dalla unanime e costante giurisprudenza a seguito

della sentenza delle Sezioni Unite ric. Iacolare del 1997, abbia subito modifiche

per effetto delle norme recate dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49. E' quindi

necessario richiamare, sìa pur brevemente, l'evoluzione normativa e

giurisprudenziale sul punto.

E' stato esattamente rilevato che la locuzione "consumo o uso di gruppo" è

fuorviante, sia perchè eccessivamente generica e comprensiva di situazioni

eterogenee, sia perchè si incentra sul momento finale del consumo della

sostanza stupefacente, mentre l'aspetto rilevante è quello iniziale dell'acquisto,

oltre a quello successivo della detenzione. In realtà, quando si parla di

consumo di gruppo, si fa di solito riferimento a due diverse situazioni: a) a

quella in cui due o più soggetti acquistino congiuntamente sostanza

stupefacente per farne uso personale e poi la detengano (in modo indiviso o

meno) in una quantità necessaria a soddisfare il fabbisogno di tutti; b) a quella

in cui un solo soggetto acquisti, a seguito di mandato degli altri, sostanza

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stupefacente destinata al consumo personale suo e dei mandanti, fra i quali poi

la ripartisca.

Peraltro, come si vedrà, alle due situazioni non può darsi un trattamento

differenziato sotto il profilo qui in esame.

3. Il testo originario del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, prevedeva un

reato a condotta plurima, che puniva chi "senza l'autorizzazione coltiva,

produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o

riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta,

importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per

qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste

dagli artt. 75 e 76, sostanze stupefacenti o psicotrope". Il successivo art. 75,

poi, estrapolava tre di queste condotte - l'importazione, l'acquisto e la

detenzione della sostanza stupefacente - caratterizzate dalla finalità specifica

dell'agente di farne un uso personale e, nell'ambito delle stesse, operava una

distinzione tra illecito penale e illecito amministrativo sulla base del criterio

quantitativo della dose non superiore a quella media giornaliera.

Nella vigenza di questa disposizione, la giurisprudenza assolutamente

prevalente riconosceva la punibilità di entrambe le ipotesi rientranti nel c.d.

uso di gruppo, ritenendo che esso integrasse gli estremi del concorso nel reato

in relazione all'intero quantitativo acquistato da o per il gruppo, e non invece la

detenzione di una quota ideale da parte di ciascun componente del gruppo, e

che la ripartizione dello stupefacente tra i codentori importasse una reciproca

cessione di parti del quantitativo codetenuto, simile ad ogni altra forma di

cessione. Ciò in quanto la condotta del singolo codentore era considerata priva

di autonomìa, perchè avente ad oggetto gli obiettivi comuni perseguiti dagli

altri (Sez. 6, n. 900 del 19/09/1992, Tognali, Rv. 192060; Sez. 6, n. 7230 del

22/04/1992, Bolognini, Rv. 190709; Sez. 4, n. 9552 del 04/02/1991, Aloisi,

Rv.

188196).

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72

4. Per effetto dell'esito referendario sancito dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171

(con il quale, tra l'altro, furono eliminate dall'art. 75 cit., la parole "in dose non

superiore a quella media giornaliera") venne meno questa limitazione

quantitativa, sicchè le tre condotte contemplate dall'art. 75, ove finalizzate

all'uso personale, vennero interamente attratte nell'area dell'illecito

amministrativo divenendo estranee a quella del penalmente rilevante.

La Corte costituzionale, con le sentenze n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996,

sottolineò che l'intervento popolare aveva comportato anche una parziale

modifica della stessa strategia di contrasto della diffusione della droga, nel

senso che era stata isolata la posizione del tossicodipendente e del tossicofilo

rispetto ai veri protagonisti del mercato degli stupefacenti, rendendo tale

soggetto destinatario unicamente di sanzioni amministrative, significative

peraltro del perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione di

sostanze stupefacenti. Ciò non sulla base della situazione soggettiva

dell'agente, ma sulla base oggettiva della condotta e dell'elemento teleologia)

della destinazione dello stupefacente all'uso personale. La Corte precisò che in

tal modo il legislatore aveva tracciato "una cintura protettiva del consumo,

volta ad evitare il rischio che l'assunzione di sostanze stupefacenti possa

indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale"; e che in

"quest'area di rispetto ricadono comportamenti immediatamente precedenti

essendo di norma la detenzione (spesso l'acquisto, talvolta l'importazione)

l'antecedente ultimo dell'assunzione; ed è l'elemento teleologia) della

destinazione della droga all'uso personale ad assicurare (secondo l'id quod

plerumque accidit) tale nesso di immediatezza" tra detenzione e consumo.

4.1. Dopo l'abrogazione referendaria, sulla questione oggi in esame si sviluppò

un contrasto giurisprudenziale simile a quello attuale.

Un primo orientamento sosteneva che l'esito del referendum non aveva avuto

alcuna conseguenza sulla punibilità del c.d. consumo di gruppo. Si osservava -

con argomentazioni che non appaiono dissimili da molte di quelle poste ancora

oggi a sostegno della tesi più restrittiva - che l'art. 75, riferendosi all'"uso

personale", lascia ben intendere la volontà di circoscrivere, in modo rigoroso,

l'illecito amministrativo soltanto alla persona del "consumatore", al di fuori di

qualunque forma di rapporto con altro o con altri soggetti, che avesse

comunque ad oggetto sostanze stupefacenti (Sez. 6, n. 2441 del 25/05/1994,

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73

Corba, Rv. 199566); che l'uso di gruppo implica la cessione sia pur parziale

della droga a terzi e quindi esclude almeno in parte l'uso personale (Sez. 4,

18/01/1994, Trainito, non mass.); che la cessione, anche se conseguente ad

un acquisto per uso personale proprio e del cessionario, rientra comunque nelle

ipotesi di reato del procurare o del consegnare droga ad altri (Sez. 4,

02/10/1996, Granata, non mass.; Sez. 4, Trainito, cit); che ogni situazione di

acquisto comune o di codetenzione determina un vincolo solidale tra i membri

del gruppo, con una gestione di fatto societaria, inerente all'acquisto e

all'utilizzazione della sostanza, che esula dalla esclusiva sfera personale a base

dell'ipotesi di illecito amministrativo; ciò perchè il coinvolgimento degli altri

soggetti del gruppo conferisce alla detenzione un carattere ultra-individuale,

attraverso una socializzazione della stessa detenzione e del consumo, tale da

dover essere apprezzata penalmente (Sez. 1, n. 5548 del 06/11/1995,

Cavessi, Rv. 202938); che tutt'al più la destinazione all'uso di gruppo potrebbe

far ravvisare l'attenuante del fatto di lieve entità (Sez. 4, n. 6895 del

31/01/1994, Tofani, Rv. 198665).

4.2. Un opposto, e più consistente, orientamento affermava invece che, in base

al testo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, quale risultante a seguito

dell'abrogazione referendaria, l'acquisto congiunto o su mandato e la

codetenzione di sostanze stupefacenti destinate all'uso personale di ciascuno

dei detentori non erano più previsti dalla legge come reato (Sez. 6, n. 1324 del

04/11/1996, dep. 13/02/1997, Deminicis, Rv. 208182; Sez. 6, n. 20692 del

04/11/1994, dep. 28/02/1995, Bertolani, Rv. 200552; Sez. 6, n. 1948 del

29/11/1993, Molin, Rv. 197092).

Si osservava che tale codetenzione riguarda una situazione di fatto unitaria,

caratterizzata da un rapporto intimo che si stabilisce e si esaurisce fra i

soggetti, codetentori di singole quote ideali, dalla quale non può derivare a

priori un concorso nel reato di detenzione di droga a fine di spaccio, nel

presupposto astratto di una presunta cessione reciproca di quote oppure per

effetto di una possibile disponibilità, da parte di ciascun codetentore, dell'intero

quantitativo della sostanza stupefacente; che, infatti, per aversi concorso

occorre una prova certa che, travalicando il fatto unitario e le ragioni specifiche

della codetenzione della sostanza, dimostri, in modo concreto ed inequivoco,

che tale situazione, di per sè neutra, sia finalizzata all'attività di spaccio

all'interno del gruppo dei codetentori oppure nei confronti di terzi (Sez. 6, n.

215 del 30/10/1996, dep. 15/01/1997, Lorè, Rv. 207111; Sez. 4, n. 776 del

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27/05/1994, Gomiero, Rv. 199553); che la prova certa della destinazione allo

spaccio non può essere desunta nè dal solo quantitativo della sostanza (la cui

rilevanza non è incompatibile con la destinazione all'uso personale), nè dalla

consegna ai componenti del gruppo, dal momento che fin dall'acquisto

ciascuno di essi ottiene il possesso e la disponibilità del quantitativo secondo la

quota di spettanza (Sez. 6, n. 1620 del 18/04/1997, Miccoli, Rv.

208289). In particolare, si affermava che la fattispecie deve qualificarsi fin

dall'inizio come acquisto e possesso per uso personale ad opera dei vari

interessati della porzione di sostanza destinata al proprio consumo, rimanendo

irrilevante il successivo atto concreto di divisione (Sez. 4, n. 1990 del

12/01/1996, Villani, Rv. 204461; Sez. 4, n. 6994 del 04/05/1994, Bonsignore,

Rv. 198676;), il quale non costituisce una cessione, ma semplice operazione

materiale con cui ciascuno viene in possesso del quantitativo destinato fin

dall'inizio al suo uso personale (Sez. 6, n. 10749 del 05/11/1996, Consoli, Rv.

206334; Sez. 4, n. 1113 del 23/11/1995, dep. 01/02/1996, Matrone, Rv.

204055; Sez. 4, n. 8938 del 14/07/1995, Residori, Rv. 202926; Sez. 4, n.

6483 del 01/03/1995, Muralo, Rv.

201703); che dunque non è punibile chi acquisti o detenga droga su incarico di

altri che intendano farne uso esclusivamente personale quando il soggetto sia

anch'egli uno degli assuntori, poichè la sua azione è intesa all'utilizzo diretto

del gruppo, come longa manus del quale egli agisce (Sez. 6, n. 4658 del

21/03/1997, Franzè, Rv.

207486; Sez. 4, n. 199 del 19/12/1996, dep. 15/1/1997, Di Stefano, Rv.

207157). Si precisava, peraltro, che per configurare questa ipotesi e non una

cessione, eventualmente gratuita, a terzi, occorre che ciascun partecipante al

gruppo abbia sin dall'inizio coscienza e volontà di acquistare la propria parte di

sostanza stupefacente per destinarla al suo uso personale (Sez. 6,

09/01/1993, Gradi, non mass.) e che la stessa sia destinata al consumo

esclusivo dei partecipanti (Sez. 4, n. 8013 del 12/07/1996, Del Conte, Rv.

205830).

5. Il contrasto, com'è noto, venne risolto a favore dell'orientamento meno

restrittivo da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 4 del 28/05/1997,

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Iacolare, Rv. 208216, la quale affermò il principio che non sono punibili, e

rientrano pertanto nella sfera dell'illecito amministrativo di cui al D.P.R. 9

ottobre 1990, n. 309, art. 75, l'acquisto e la detenzione di sostanze

stupefacenti destinate all'uso personale che avvengano sin dall'inizio per conto

e nell'interesse anche di soggetti diversi dall'agente, quando è certa fin

dall'inizio l'identità dei medesimi nonchè manifesta la loro volontà di procurarsi

le sostanze destinate al proprio consumo.

Le Sezioni Unite, dopo avere richiamato quanto evidenziato dalle sentenze n.

360 del 1995 e n. 296 del 1996 della Corte costituzionale in relazione alla

"cintura protettiva" riservata al consumo personale contro i rischi di sanzione

penale, osservarono che non ha rilievo penale il consumo personale e quanto lo

precede immediatamente, sempre che si esaurisca nella sfera personale

dell'assuntore e quindi non riguardi la condotta del trafficante o del cedente.

Sennonchè, "anche nell'ipotesi del gruppo la detenzione comunque costituisce

l'antecedente del consumo, ed inerisce al rapporto tra assuntore e sostanza in

vista dell'uso personale, con esclusione dell'intermediazione di soggetti diversi

(Corte Cost. n. 296 del 1996), non potendo essere considerati tali quanti

detengono per se stessi e per colui che sin dall'acquisto ha titolo per

conseguire l'utilità relativa alla parte della sostanza a lui destinata". Ciò

sempre che l'acquisto e la detenzione avvengano fin dall'inizio per conto anche

degli altri soggetti di cui sia certa l'identità e manifesta la volontà di procurarsi

la sostanza destinata al consumo personale.

La sentenza evidenziò poi che ciò che consente di considerare l'acquisto e la

detenzione da parte di alcuni come antecedente immediato del consumo degli

altri è la presenza di una omogeneità teleologica nella condotta dei primi

rispetto allo scopo degli altri:

"solo questa omogeneità impedisce che il procacciatore si ponga in un rapporto

di estraneità e quindi di diversità rispetto agli altri componenti del gruppo, con

conseguente connotazione della sua condotta quale cessione". Dunque, quando

l'acquisto avviene per il consumo di ciascun componente del "gruppo", e quindi

dello stesso procacciatore, sulla base di una comune volontà iniziale,

l'omogeneità teleologica caratterizza necessariamente anche la detenzione

quale codetenzione, la quale, in quanto antecedente immediato del consumo di

ciascun soggetto, si presta ad una immediata "dissoluzione" in autonomi

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76

rapporti tra singolo soggetto e sostanza, corrispondenti all'utilità prò quota che

ciascuno sin dall'inizio si riprometteva di conseguire.

Di conseguenza, è irrilevante distinguere tra l'ipotesi di acquisto contestuale da

parte di più soggetti, che insieme detengono e poi suddividono la sostanza, e

l'ipotesi in cui un componente di un gruppo acquisti anche per conto degli altri

e poi suddivida la sostanza. Ciò perchè entrambe le ipotesi "attengono pur

sempre ad una codetenzione quale antecedente immediato rispetto al consumo

da parte dei componenti del gruppo; con la sola differenza che nel secondo

caso l'acquirente-assuntore agisce sulla base di un mandato ricevuto dagli altri,

con effetti però equivalenti quanto ad acquisto ed a disponibilità della sostanza

(vedi: artt. 1388 e 1706 c.c.)". Poichè quindi chi riceve la sostanza ne è

sostanzialmente già proprietario per averla già acquistata come quota di un

quantitativo indiviso, la consegna non costituisce cessione o spaccio, ma mera

attività esecutiva della divisione del quantitativo comune. Qualora invece

l'acquirente non sia anche assuntore oppure non abbia avuto alcun mandato, la

sua condotta si pone in rapporto di diversità teleologica rispetto agli altri

soggetti, cosicchè egli assume la qualità di cedente e il suo comportamento

rientra nello schema del traffico di droga.

Le Sezioni Unite osservarono altresì che una diversa interpretazione

comporterebbe una illogica disparità di trattamento perchè lo stesso soggetto

rimarrebbe esposto a sanzione amministrativa per la quota destinata al

consumo personale ed a sanzione penale per la parte consegnata agli altri

comproprietari assuntori cui era destinata fin dall'inizio. Sottolinearono infine

che l'irrilevanza penale riguarda una condotta incentrata sul consumo

personale ed attinente ai "comportamenti immediatamente precedenti" e

strumentali all'assunzione, e perciò da ritenersi estranea "alla diffusione della

droga ovvero all'incremento ed all'incentivo del mercato relativo, proprio

perchè circoscritta alla persona del consumatore", sicchè non è destinatala di

quel giudizio di disvalore comportante l'applicazione della sanzione penale. Il

dato quantitativo può essere assunto quale indice sintomatico di una

destinazione ad un uso, in tutto o in parte, non personale, ma non quale

discrimen dell'ipotesi depenalizzata; il che deve valere non solo nel caso di

singolo detentore-assuntore, ma anche "in caso di codetenzione di sostanza

destinata ad uso personale da parte di ciascuno dei detentori".

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La soluzione della sentenza Iacolare è stata poi unanimemente condivisa,

diventando così vero e proprio diritto vivente, dalla giurisprudenza successiva,

la quale in sostanza, si è limitata a precisare, nei singoli casi concreti, gli

elementi occorrenti per dare luogo al c.d. consumo di gruppo, escluso

dall'ambito penale.

In particolare, è stato, tra l'altro, ribadito che "se l'acquisto e il consumo

rimangono circoscritti all'interno del gruppo degli assuntori, è irrilevante che la

sostanza sia detenuta da uno solo di essi, in quanto l'intero quantitativo è

idealmente divisibile in quote corrispondenti al numero dei menzionati

partecipanti, mentre, in difetto, sussiste il reato di cessione, sia pure gratuita,

a terzi di sostanza stupefacente" (Sez. 4, n. 35682 del 10/07/2007, Di Riso,

Rv. 237776); e che il c.d. uso di gruppo è ravvisabile quando l'acquisto e la

detenzione della droga, destinata all'uso personale, avvengano sin dall'inizio

per conto e nell'interesse anche di soggetti di cui fin dall'inizio sia certa

l'identità e manifesta la volontà di procurarsi la sostanza per il proprio

consumo (Sez. 6, n. 31456 del 03/06/2004, Altobelli, Rv. 229272), sicchè la

consegna delle rispettive quote rappresenta l'esecuzione di un precedente

accordo tra l'agente e gli altri soggetti, che non si pongono quindi in posizione

di estraneità rispetto al cedente, bensì come codetentori fin dall'acquisto,

eseguito anche per loro conto (Sez. 5, n. 31443 del 04/07/2006, Roncucci, Rv.

235213; Sez. 4, n. 34427 del 10/06/2004, Inglese, Rv. 229693; Sez. 4, n.

10745 del 29/11/2000, dep. 16/03/2001, Catania, Rv. 218778; Sez. 6, n.

9075 del 04/06/1999, De Carolis, Rv. 214070). Occorre dunque la prova che la

sostanza sia acquistata da uno dei partecipanti al gruppo su preventivo

mandato degli altri, in vista della futura ripartizione, "di talchè possa affermarsi

che l'acquirente agisca come longa manus degli altri e che il successivo

frazionamento della sostanza acquisita sia solo una operazione materiale di

divisione" (Sez. 6, n. 37078 del 01/03/2007, Antonini, Rv. 237274; Sez. 4, n.

4842 del 02/12/2003, dep. 06/02/2004, Elia, Rv. 229368).

Si afferma generalmente che l'accordo deve avvenire attraverso una

partecipazione di tutti alla predisposizione dei mezzi finanziari occorrenti (Sez.

4, n. 7939 del 14/01/2009, D'Aniello, Rv. 243870;

Sez. 6, n. 37078 del 01/03/2007, Antonini, Rv. 237274; Sez. 4, n. 12001 dell'I

1/05/2000, Acqua, Rv. 217893). Diverse decisioni hanno peraltro precisato che

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ciò non richiede anche che la raccolta del denaro sia antecedente rispetto

all'acquisto, dal momento che ciò che rileva è la "dimostrazione dell'esistenza

di un preventivo incarico all'acquisto dato dal gruppo ad uno dei partecipanti,

in vista della futura materiale divisione e apprensione fisica della quota di

ognuno, dovendo escludersi sia l'ulteriore condizione del previo versamento

della somma necessaria all'acquisto da parte di tutti, sia la sussistenza di una

precedente intesa in ordine al luogo e ai tempi del successivo consumo" (Sez.

6, n. 28318 del 03/06/2003, Orsini, Rv. 225684); essendo invero necessario

che la sostanza sia destinata al comune consumo personale e non anche alla

fruizione contestuale (Sez. 4, n. 37989 del 07/07/2008, Gazzabin, Rv.

242015).

Ciò in quanto il preventivo accordo può anche essere tacito ed implicito,

potendosi desumere la volontà comune da elementi sintomatici altri rispetto

alla preventiva raccolta del denaro, "quali il rapporto di amicizia tra l'acquirente

e gli altri consumatori, l'effettiva consumazione della sostanza da parte di tutti

quanti nelle stesse circostanze di tempo e di luogo, l'unicità della confezione

contenente la sostanza" (Sez. 6, n. 29174 del 10/03/2008, Del Conte, Rv.

240580; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, dep. 06/02/2004, Elia, Rv. 229368,

cit; Sez. 6, n. 43670 del 18/09/2002, Di Domenico, Rv. 222811; Sez. 6, n.

9075 del 04/06/1999, De Carolis, Rv. 214070).

Se invece il procacciatore non agisca per conto altrui sulla base di un

preventivo accordo, o agisca su mandato di terzi senza essere a sua volta

assuntore, viene allora meno quella omogeneità teleologia che rende

assimilabile la codetenzione per uso di gruppo alla detenzione per uso

personale.

6. Come è noto, la legge 21 febbraio 2006 n. 49, di conversione, con

modificazioni, del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272 (recante "Misure urgenti per

garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali,

nonchè la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per

favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi") ha apportato alcune

modifiche al t.u.

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sugli stupefacenti di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ed in particolare, per

quanto qui interessa, agli artt. 73 e 75. Il nuovo testo dell'art. 73, comma 1,

sanziona ora senz'altro come reato il fatto di chi, senza autorizzazione,

"coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita,

cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o

spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o

psicotrope". E' stato poi introdotto un comma 1 bis, dell'art. 73, il quale, alla

lett. a), punisce "chiunque, senza autorizzazione, importa, esporta, acquista,

riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:... sostanze

stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti

massimi indicati con decreto del Ministro della salute..., ovvero per modalità di

presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento

frazionato, ovvero per altre circostanze dell'azione, appaiono destinate ad un

uso non esclusivamente personale". Il previgente testo dell'art. 73, invece,

puniva tutte le medesime condotte poste in essere al di fuori dell'ipotesi di cui

all'art. 75, il quale configurava come illecito amministrativo la condotta di chi,

"per farne uso personale, illecitamente importa, acquista o comunque detiene"

sostanza stupefacente (anche in dose superiore a quella media giornaliera, per

effetto dell'esito del referendum). Il nuovo testo dell'art. 75 ora punisce con la

sanzione amministrativa "chiunque illecitamente importa, esporta, acquista,

riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope

al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 73, comma 1 bis.

Pertanto, attualmente, l'acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti

integrano un illecito amministrativo quando le stesse, sulla base dei criteri

indicati, non "appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale",

dovendo perciò ritenersi destinate ad un uso esclusivamente personale.

E' opportuno ricordare che, per effetto di tali modifiche, non è stata ripristinata

la situazione antecedente al referendum abrogativo e non è cambiata l'opzione

di fondo dell'assetto repressivo delle attività illecite in materia di stupefacenti,

consistente nel rinunciare alla sanzione penale per contrastare il consumo

personale (Sez. 6, n. 3513 del 12/01/2012, Santini, Rv. 251579). Invero, il

superamento dei limiti quantitativi massimi detenibili, previsti ora dall'art. 73,

comma 1 bis, lett. a), non inverte l'onere della prova a carico dell'imputato, nè

introduce una presunzione, assoluta o relativa, in ordine alla destinazione della

sostanza ad un uso non esclusivamente personale, bensì impone soltanto al

giudice un dovere di rigorosa motivazione quando ritenga che dagli altri

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parametri normativi si debba escludere una destinazione ad un uso non

esclusivamente personale, pur in presenza del superamento dei suddetti limiti

massimi (Sez. 6, n. 12146 del 12/02/2009, Delugan, Rv. 242923; Sez. 6, n.

39017 del 18/09/2008, Casadei, Rv. 241405;

Sez. 4, n. 31103 del 16/04/2008, Perna, Rv. 242110; Sez. 6, n. 27330 del

02/04/2008, Sejjal, Rv. 240526; Sez. 6, n. 17899 del 29/01/2008, Cortucci,

Rv. 239933).

6.1. A seguito di queste modifiche legislative si sono sviluppati, nella

giurisprudenza di questa Corte, due opposti orientamenti interpretativi.

Un primo orientamento è stato espresso dalla sentenza della Sez. 2, n. 23574

del 06/05/2009, Mazzuca, Rv. 244859, la quale ritiene che il nuovo testo

legislativo avrebbe ora reso penalmente rilevante il c.d.

consumo di gruppo, sia nell'ipotesi del mandato all'acquisto sia nell'ipotesi

dell'acquisto in comune. Ciò perchè sono mutate sia la struttura normativa

della disposizione (in quanto ora l'ambito della non punibilità penale non è

indicato dall'art. 75, ma si desume dal combinato disposto dell'art. 73, comma

1 bis, e art. 75), sia la struttura semantica della frase, in quanto nell'art. 73,

comma 1 bis, è stato introdotto l'avverbio "esclusivamente" che non esisteva

nel previgente art. 75. La sentenza rileva poi che il legislatore ha inteso

reprimere in modo più severo ogni attività connessa alla circolazione, vendita e

consumo di sostanze stupefacenti, tante che ha equiparato ogni tipo di

sostanza. In particolare, l'introduzione dell'avverbio "esclusivamente"

assumerebbe "un significato particolarmente pregnante proprio sotto il profilo

semantico perchè una cosa è l'uso personale di sostanze stupefacenti, altra e

ben diversa cosa è l'uso esclusivamente personale, frase che, proprio in virtù

dell'avverbio, non può che condurre ad un'interpretazione più restrittiva

rispetto a quella che, sotto la previgente normativa, veniva data del sintagma

uso personale". Di modo che l'uso di gruppo non potrebbe più farsi rientrare

nell'ipotesi di consumo esclusivamente personale in quanto presuppone, per

assioma, l'acquisto di un quantitativo di stupefacente che, per quantità o per

modalità di presentazione, appare necessariamente destinato ad un uso non

esclusivamente personale. Inoltre, la ratio legis, che è chiaramente quella di

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rendere più difficile l'acquisto, la diffusione ed il consumo della droga,

porterebbe a ritenere che l'area di esenzione penale sia stata circoscritta a quei

limitati casi in cui l'acquisto e la detenzione siano finalizzati al solo esclusivo

uso di chi è trovato in possesso di un minimo quantitativo di stupefacente. Gli

altri casi, come il consumo di gruppo, restano esclusi da detta area perchè le

modalità di acquisto, non essendo esclusivamente personali, servono a

facilitare il consumo e la diffusione della droga, ossia ciò che la legge ha inteso

vietare. Il baricentro della normativa sarebbe stato perciò spostato dal

consumo personale al consumatore, nel senso che sfugge alla sanzione penale

solo chi detenga un quantitativo di stupefacente che appare destinato ad

essere consumato solo ed unicamente dallo stesso possessore.

Questa interpretazione è stata poi seguita da altre sentenze successive, ma

senza ulteriori considerazioni (in ordine di anteriorità temporale: Sez. 3, n.

7971 del 13/01/2011, Tanghetti, Rv. 249326; Sez. 3, n. 26697 del

02/03/2011, Simonetti, non mass.;

Sez. 4, n. 46023 del 07/06/2011, Richelda, Rv. 251734; Sez. 4, n. 6374 del

6/12/2011, dep. 16/2/2012, El Janati, non mass.; Sez. 1, n. 33022 del

10/7/2012, Gallone, non mass.; Sez. 4, n. 49820 del 22/11/2012, Bellelli, non

mass.).

E' interessante rilevare che tutte le suddette decisioni hanno anche precisato

che la novella legislativa avrebbe in sostanza introdotto in parte qua una vera

e propria nuova incriminazione, e quindi non si applica alle condotte poste in

essere prima della sua entrata in vigore (in questo senso, anche Sez. 4, n.

37989 del 07/07/2008, Gazzabin, Rv. 242015).

6.2. Il medesimo orientamento è stato ribadito da altra decisione, con un più

articolato apparato motivazionale (Sez. 3, n. 35706 del 20/04/2011, Garofalo,

Rv. 251228). In primo luogo, questa sentenza sostiene che deve farsi ricorso

ad una interpretazione letterale secondo la volontà del legislatore ed osserva

che le modifiche introdotte dalla L. n. 49 del 2006, ed in particolare l'aggiunta

dell'avverbio "esclusivamente" all'art. 73, comma 1 bis, sono indice di una ratio

legis diretta alla repressione con maggiore severità degli illeciti connessi allo

spaccio ed all'uso di stupefacenti. La novella, quindi, oltre ad introdurre

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trattamenti sanzionatori più rigorosi, avrebbe anche voluto contrastare tutte le

forme di diffusione degli stupefacenti, ivi compreso l'acquisto finalizzato all'uso

collettivo. L'introduzione in questo modo di una nuova fattispecie incriminatrice

non sarebbe in contrasto con l'art. 25 Cost., per difetto dei requisiti di

determinatezza, perchè è stata tipizzata la condotta monosoggettiva di

acquisto di sostanza stupefacente destinata ad uso "non esclusivamente

personale", sicchè sarebbe evidente la criminalizzazione dei comportamenti

aventi per oggetto sostanza stupefacente destinata all'uso "altrui".

In secondo luogo, viene richiamata la sentenza della Corte costituzionale n.

360 del 1995, la quale aveva escluso una irragionevole disparità di trattamento

tra la condotta, penalmente rilevante, della coltivazione finalizzata all'uso

personale e le condotte di detenzione e di acquisto orientate al medesimo fine,

per la ragione che queste ultime sono collegate immediatamente e

direttamente all'uso personale, il che giustifica un trattamento meno rigoroso.

Questa sentenza offrirebbe dunque un argomento a favore di una

interpretazione restrittiva della locuzione "uso esclusivamente personale", la

quale risponderebbe ad una ratio del tutto speciale e specifica e andrebbe

perciò posta in riferimento solo con il singolo autore della condotta tipica.

In terzo luogo, si osserva che la tesi favorevole all'uso di gruppo presuppone

una sorta di mandato di acquisto collettivo, conferito dagli assuntori dello

stupefacente ad un appartenente al gruppo, anche nel suo interesse. Si

tratterebbe tuttavia di un mandato in rem propriam avente oggetto illecito (la

cessione di sostanza stupefacente) e, come tale, affetto da nullità radicale,

rilevabile d'ufficio, ed improduttivo di effetti. A siffatto contratto non potrebbe

essere attribuito alcun effetto nemmeno sul versante penale, tanto meno

quello di escludere la rilevanza penale per il fatto commesso dai partecipi al

negozio illecito. Tutt'al più il precedente accordo fra gli appartenenti al gruppo

potrebbe avere rilievo sotto il profilo dell'intensità del dolo o ad altri aspetti ex

artt. 62 bis e 133 c.p..

In quarto luogo, si sottolinea che il preventivo accordo fra gli assuntori di

avvalersi di un solo intermediario incaricato dell'acquisto, consentirebbe il

"frazionamento ideale" dell'intera quantità di stupefacente, acquistata dal

mandante al fine dell'uso collettivo, per il numero di partecipanti all'accordo

criminoso, facendo diventare il mandatario soggetto esponenziale del gruppo e

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legittimandolo ad acquistare droga per il consumo personale del gruppo stesso.

Ciò però creerebbe uno sfasamento con l'istituto del concorso di persone nel

reato, in quanto, a fronte di possibili condotte di concorso nell'acquisto e nella

detenzione della sostanza, l'accordo criminoso finirebbe per porre nel nulla sia

l'acquisto sia la cessione, soltanto in forza di un successivo consumo collettivo,

facendo assurgere il gruppo al ruolo di soggetto collettivo di un'azione

scriminata per tale ragione, in contrasto con la disciplina del concorso di

persone nel reato e delle cause di esclusione dell'illecito. Inoltre, l'operazione

di "frazionamento ideale" della quantità detenuta "risulta scardinare l'elemento

espressamente indicato nella disposizione di legge, laddove il giudice deve

valutare proprio le quantità, le modalità di presentazione, ivi compreso il

frazionamento, che è invece radicato sul piano strettamente materiale

dell'esame della res".

6.3. Questa interpretazione restrittiva è stata peraltro oggetto di argomentate

critiche da parte di un opposto orientamento, che ha invece sostenuto la

perdurante validità, anche dopo le modifiche recate dalla L. n. 49 del 2006,

della precedente consolidata interpretazione ed ha riaffermato il principio che il

consumo di gruppo di sostanze stupefacenti conseguente al mandato

all'acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nella certezza originaria

dell'identità degli altri non è punibile ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309,

art. 73, comma 1 bis, lett. a), (Sez. 6, n. 8366 del 26/01/2011, D'Agostino,

Rv. 249000).

Questa sentenza sottolinea innanzitutto la non decisività del criterio che si

fonda sulla ratio della modifica legislativa, dal momento che l'esame dei lavori

preparatori non consente di chiarire univocamente il contesto che ne ha

connotato l'approvazione, emergendo dagli interventi dei parlamentari due

antipodiche interpretazioni sul valore e la portata delle modifiche normative in

discussione. In secondo luogo, la sentenza rileva che la modifica della struttura

normativa delle ipotesi di non punibilità e l'introduzione dell'avverbio

"esclusivamente" non possono avere portata innovativa della fattispecie penale

e non sono idonee a far ritenere superato il diritto vivente. Nella novella,

infatti, l'avverbio è stato usato due volte (art. 73, comma 1 bis: "destinate ad

un uso non esclusivamente personale"; e art. 75: richiesta dell'interessato di

visione o copia degli atti "che riguardino esclusivamente la sua persona") ed è

evidente che in entrambi i casi tale avverbio, di modo o qualità, è stato usato

con funzione e finalità affermativa rafforzativa e non già innovativa. Per

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paralizzare la consolidata interpretazione sull'uso di gruppo non era sufficiente

l'inserzione dell'avverbio, ma era invece essenziale una esplicita e non

equivoca indicazione, tanto più necessaria tenuto conto dell'esito del

referendum abrogativo del 1993 e tenuto altresì conto che l'espressione "non

esclusivamente personale" ha il medesimo intercambiabile significato di

"tassativamente personale", risolvendosi così in una aggiunta ridondante,

superflua e pleonastica. Inoltre, l'utilizzo della forma indeterminativa "un uso

esclusivamente personale" consente "inquadramenti nell'area di rilevanza

meramente amministrativa delle condotte finalizzate all'uso esclusivamente

personale (anche) di persone diverse". Si verserebbe quindi in un "deficit di

determinatezza e di sicurezza ermeneutica" con violazione del principio

costituzionale di precisione, dal momento che se davvero la finalità fosse stata

quella di sanzionare l'uso di gruppo, in entrambe le variabili, essa è stata male

espressa, con la conseguenza che, a fronte di un dubbio interpretativo, deve

prevalere l'opzione più favorevole al reo. In altre parole, la norma non è dotata

di un grado di determinatezza sufficiente ad indicare il diverso preteso

percorso interpretativo mentre una eventuale ipotetica intenzione del

legislatore di escludere la legittimità, nei termini indicati dalle Sezioni Unite,

del consumo di gruppo, avrebbe dovuto essere affermata in modo esplicito e in

termini percepibili da tutti, e "non certo mediante sintagmi, variamente

interpretabili, e con sequenze lineari (sostantivo - negazione - avverbio -

aggettivo) in grado di produrre equivoci ed incertezze che, come tali, vanno

necessariamente valutati pro reo". La sentenza quindi ricorda che l'adesione

preliminare al progetto comune e l'originaria destinazione al consumo esclusivo

dei partecipanti rendono inequivoca l'unicità della condotta ed escludono

frammentazioni determinate da ulteriori passaggi.

L'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" non fa venir meno la validità di

questa ricostruzione, poichè anche il consumo di gruppo, così inteso, è una

forma di consumo "esclusivamente personale". L'avverbio ha pertanto il solo

significato di confermare che hanno rilevanza penale le altre condotte di

consumo di gruppo in cui più persone, in assenza di un preventivo mandato,

decidano di consumare droga detenuta da uno di loro, in quanto in tale ipotesi

il cedente è originariamente in posizione di estraneità rispetto agli altri

assuntori e, quindi, non si concretizza un "uso esclusivamente personale".

Questo orientamento è stato successivamente confermato da altre decisioni

(Sez. 6, n. 17396 del 27/02/2012, Bove, Rv. 252499; Sez. 6, n. 3513 del

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12/01/2012, Santini, Rv. 251579; Sez. 6, n. 21375 del 27/04/2011, Masucci,

Rv. 250064; e altre non massimate) sulla base di analoghe considerazioni.

Alcune di queste sentenze hanno peraltro precisato che l'avverbio

"esclusivamente" non riferisce l'uso personale al solo soggetto che detiene la

sostanza, ma ha il significato di segnalare che la non punibilità penale riguarda

solo i casi in cui la sostanza non è destinata a terzi, ma ad un utilizzo

personale di coloro che intendono farne uso, come appunto gli appartenenti al

gruppo. Pertanto, poichè il consumo di gruppo è caratterizzato da una unitaria

e genetica finalizzazione ad un consumo personale di più soggetti previamente

definiti, l'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" non impedisce di apprezzare

tale ipotesi come una forma di consumo "esclusivamente personale"

dell'agente e dei suoi individuati mandanti, come tale priva del carattere

dell'offensività.

7. Ritengono le Sezioni Unite che fra i due contrapposti orientamenti debba

senz'altro preferirsi il secondo, che sostiene che il c.d.

consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nel caso di acquisto in comune

sia in quello del mandato all'acquisto collettivo ad uno degli assuntori e

nell'originaria conoscenza dell'identità degli altri, continua a costituire, anche

dopo le modifiche apportate dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, una ipotesi di uso

esclusivamente personale dei partecipanti al gruppo, e quindi integra l'illecito

amministrativo di cui all'art. 75, e non già il reato di cui all'art. 73, comma 1

bis. Non può infatti ritenersi che tali modifiche, ed in particolare, per quanto

qui interessa, l'equivoca e non risolutiva aggiunta dell'avverbio

"esclusivamente", possano essere intese nel senso che abbiano addirittura

introdotto una nuova fattispecie incriminatrice punendo un fatto in precedenza

pacificamente integrante, secondo il diritto vivente, un illecito amministrativo o

abbiano comunque determinato la necessità del superamento della univoca e

consolidata giurisprudenza.

Si è invero già rilevato che tutte le decisioni che seguono l'orientamento più

rigoristico, precisano anche che, in forza dei principi sulla successione di leggi

penali di cui all'art. 2 c.p., deve escludersi la retroattività della norma

incriminatrice ricavata dalla riformulazione legislativa, facendo quindi salva,

per i casi anteriori alla sua entrata in vigore, la precedente disciplina. Il

presupposto di questo orientamento è quindi che si tratterebbe della vera e

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propria introduzione, per effetto delle modifiche legislative, di una nuova

incriminazione di condotte in precedenza penalmente irrilevanti.

8. Ciò posto, deve innanzitutto osservarsi come non appaiono decisive tutte

quelle argomentazioni che non si fondano, direttamente o indirettamente, sulle

modifiche legislative del 2006, ma ripropongono in sostanza considerazioni già

prospettate precedentemente alla sentenza Iacolare e da questa ampiamente

superate, con motivazioni che non sono incise da tali modifiche e che restano

pienamente condivisibili.

Ciò vale, innanzitutto, per l'argomento della nullità, per illiceità, del c.d.

mandato collettivo all'acquisto, conferito dagli assuntori dello stupefacente ad

un appartenente al gruppo, anche nel suo interesse, il quale, avendo ad

oggetto una condotta penalmente rilevante, sarebbe illecito e quindi nullo, ai

sensi dell'art. 1418 c.c., comma 2, e art. 1346 c.c., ed improduttivo di ogni

effetto. Con questo argomento si vuole di nuovo mettere in discussione la tesi,

già recepita dalla sentenza Iacolare, che valuta gli effetti di tale mandato alla

stregua degli artt. 1388 e 1706 c.c., concernenti l'efficacia diretta, nei confronti

del rappresentato, del contratto concluso dal rappresentante in nome e

nell'interesse del primo e la rtvendicabilità, da parte del mandatario, delle cose

acquistate per suo conto dal mandante. L'argomento, però, non si basa

evidentemente sulle modifiche legislative e pertanto non può comunque

costituire indice della introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice.

Esso, inoltre, appare di per sè non decisivo nemmeno ai soli fini ermeneutici,

perchè si svolge interamente sul piano civilistico e non incide, dal punto di

vista penalistico, sulla materialità e finalità delle condotte considerate. D'altra

parte, la stessa sentenza Garofalo, che ha riproposto l'argomento, pur

rigettando qualsiasi interpretazione del mandato all'acquisto di gruppo di

sostanza stupefacente che consenta alle parti di giovarsi degli effetti di un

contratto nullo per illiceità dell'oggetto, alla fine suggerisce di attribuire

rilevanza ed effetti all'accordo illecito sotto il profilo della intensità del dolo e

del riconoscimento delle attenuanti generiche o della determinazione della

pena. Il che appunto mostra che, se il mandato all'acquisto è nullo ed

inefficace sul piano civilistico, così come del resto è nullo ed inefficace anche il

contratto di vendita dello stupefacente, tuttavia la presenza di un accordo per

un acquisto comune non è indifferente sul piano penale perchè concorre ad

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individuare e qualificare la finalità della detenzione della sostanza (comunque

illecita, penalmente o amministrativamente). Quel che rileva, invero, non è se

il mandato all'acquisto sia o meno valido ed efficace civilmente, ma se, qualora

l'acquisto e la detenzione avvengano anche su incarico e per conto di altri

soggetti, vi sia o meno una omogeneità teleologica delle condotte fra mandanti

e mandatario e quindi se possa o meno configurarsi la destinazione ad un uso

(esclusivamente) personale dei componenti il gruppo.

8.1. Un secondo argomento proposto dalla sentenza Garofalo - anch'esso

peraltro non indotto dalla modifica legislativa e già avanzato dalla

giurisprudenza precedente alla sentenza Iacolare - si basa su una pretesa

contraddittorietà tra la rilevanza data all'acquisto su mandato del gruppo e i

principi che sono alla base del concorso di persone nel reato. Ciò perchè il

frazionamento ideale della quantità di stupefacente, acquistata dal mandante

al fine dell'uso collettivo del gruppo, per il numero dei partecipanti all'accordo

illecito, utilizzato quale espediente per ripartire l'intera sostanza acquistata dal

mandante in singole dosi ad uso esclusivamente personale, costituirebbe uno

sfasamento dell'istituto del concorso di persone. In questo caso, invero, la

disciplina del concorso di persone, che consente di attribuire rilevanza penale a

condotte che rappresentano anche solo una frazione del fatto tipico descritto

dalla norma incriminatrice, purchè causalmente orientate alla commissione del

reato, verrebbe invece utilizzata per frazionare il fatto commesso tra i

partecipanti all'accordo criminoso, ma al fine di escluderne la rilevanza penale.

E' stato però esattamente osservato che questo argomento è perfettamente

speculare alla interpretazione offerta dalla sentenza D'Agostino del 2011,

utilizzando i medesimi argomenti e gli stessi istituti di riferimento al fine di

giungere a conclusioni diametralmente opposte, peraltro già superate dalla

sentenza delle Sezioni Unite Iacolare del 1997. Non può quindi essere

certamente tale argomento a far ritenere che la riforma del 2006 abbia

introdotto una nuova ipotesi di reato che attribuisce rilevanza penale a

comportamenti prima costituenti solo illeciti amministrativi. D'altra parte,

l'interpretazione che qui si preferisce si fonda sulla qualificazione della attività

concorsuale del mandatario e dei mandanti come penalmente non rilevante

appunto in quanto condotta connotata da una "omogeneità teleologia" che

rende la sostanza acquistata dal mandatario come sin dall'origine codetenuta

da tutti i membri del gruppo esclusivamente per il loro rispettivo uso

personale. Inoltre, l'ipotesi che sembrerebbe prospettata dalla sentenza in

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esame di un concorso di persone nel reato confligge anche con la costruzione

della condotta del mandatario come quella (monosoggettiva) di colui che

procurerebbe ad altri la sostanza, in cui i mandanti svolgerebbero un ruolo

equivalente a quello degli acquirenti, nell'ipotesi di spaccio o cessione.

8.2. Certamente non decisivo è poi l'argomento che si basa sul tenore dei

lavori parlamentari relativi alla legge di conversione del D.L. 30 dicembre

2005, n. 272, dai quali si dovrebbe evincere con chiarezza una volontà del

legislatore storico non solo di reprimere con maggiore severità i fenomeni

criminali connessi all'uso di sostanze stupefacenti, ma anche, in particolare, di

introdurre la previsione della illiceità penale del mandato collettivo ad

acquistare. L'argomento - a prescindere da ogni considerazione sulla rilevanza

del criterio ermeneutico storico con riferimento a disposizioni penali - è però di

scarso momento sol che si consideri la non usuale velocità di approvazione del

nuovo testo normativo e la notevole ristrettezza della discussione

parlamentare, ridotta a soli diciannove giorni tra l'inizio della discussione in

aula al Senato (19 gennaio 2006) e la successiva approvazione definitiva alla

Camera (8 febbraio 2006). Com'è noto, la riformulazione del D.P.R. n. 309 del

1990, fu operata per mezzo di un emendamento governativo al testo del D.L.

n. 272 del 2005, introdotto in sede di conversione e sul quale inoltre il Governo

pose la fiducia. Ne derivò la mancanza di un approfondito dibattito

parlamentare che possa consentire di trarre argomenti univoci sull'intenzione

del legislatore storico, considerata anche la diversità di vedute emergenti dalla

limitata discussione. In realtà, tenuto anche conto del tipo di procedimento

legislativo adottato, dai lavori parlamentari potrebbe desumersi solo un

generico intendimento di natura restrittiva circa le condotte di spaccio. Sulla

specifica ipotesi del c.d. consumo di gruppo si riscontrano però limitatissimi

interventi, in cui o si è ritenuto che questo sarebbe rientrato nell'ambito penale

mediante la previsione di soglie quantitative rigide per la detenzione (v.

relazione al disegno di L. n. 2953 e intervento sen. Tredese, seduta Senato 26

gennaio 2006), ovvero si è esplicitamente affermato che l'illecito

amministrativo avrebbe dovuto essere limitato al solo consumo "individuale",

nel quale non rientrerebbe il c.d. consumo di gruppo (v. intervento ministro

Giovanardi nella stessa seduta). Pertanto, se pure può ammettersi che

l'intenzione emergente da questi limitati atti fosse quella di criminalizzare

l'acquisto e la detenzione per un uso di gruppo, quel che rileva in questa sede

però è soltanto la circostanza che, indiscutibilmente, questa soggettiva

intenzione di alcuni parlamentari non si è tradotta in una espressa ed

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oggettivamente univoca norma di legge, sebbene il consolidato diritto vivente

escludesse pacificamente la rilevanza penale della fattispecie.

D'altra parte, nel testo definitivo approvato della legge di conversione, da un

lato, le nuove soglie quantitative non hanno assunto un carattere rigido ai fini

della distinzione tra illecito amministrativo e illecito penale e, da un altro lato,

la disposizione continua a parlare di "uso personale", sia pure con l'aggiunta

dell'avverbio, e non di "uso individuale".

Va inoltre osservato che anche la ritenuta generica intenzione dei legislatore di

inasprire ed estendere la reazione punitiva verso quaisiasi condotta legata alle

sostanze stupefacenti non è di per sè trasparente, tenuto conto delle

antitetiche disposizioni normative che ne sono scaturite. Ed infatti, se da un

lato sono state modificate le preesistenti cornici edittali previste,

rispettivamente, per lo spaccio di droghe pesanti e di droghe leggere,

equiparando le due condotte con la previsione di una cornice edittale unica ed

indifferenziata, dall'altro lato è stata attenuata la risposta punitiva proprio per

le condotte più gravi relative alle c.d. droghe pesanti, riducendo il minimo

edittale da otto a sei anni, in contrasto con una pretesa volontà di generale

inasprimento punitivo.

8.3. L'argomento principale su cui si basa l'orientamento restrittivo resta

dunque quello letterale, che muove dalla portata innovativa delle modifiche

recate con la L. n. 49 del 2006, e precisamente dal mutamento della struttura

normativa delle ipotesi di non punibilità penale (ora desumibili dal combinato

disposto dei novellati art. 73, comma 1 bis, e art. 75) e soprattutto

dall'introduzione, nel testo della prima disposizione, dell'avverbio

"esclusivamente", non presente nella disposizione precedente. Si sostiene che

la locuzione "uso non esclusivamente personale", al posto della precedente

dizione di "uso personale", dovrebbe essere interpretata nel senso che le

ipotesi scriminate penalmente si riducano ora ai soli casi in cui la sostanza

detenuta possa ritenersi destinata all'uso esclusivo, ossia individuale,

dell'autore della condotta. In altre parole, all'aggiunta dell'avverbio

"esclusivamente" dovrebbe attribuirsi l'inequivoco significato di far considerare

l'aggettivo "personale" come sinonimo di "individuale" e quindi di restringere i

confini del penalmente irrilevante. Di conseguenza, l'uso di gruppo

integrerebbe il reato in quanto presuppone un acquisto ed una detenzione che,

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per quantità e modalità di presentazione, appaiono immancabilmente destinati

ad un uso "non individuale", e pertanto "non esclusivamente personale".

L'argomento non è però convincente perchè non può ritenersi che questi

semplici ritocchi testuali, e in particolare la sola aggiunta dell'avverbio

"esclusivamente" per caratterizzare la nozione di uso personale, siano

sufficienti per determinare un allargamento dell'area delle condotte

penalmente rilevanti con la previsione di una nuova ipotesi di reato e,

comunque, per fare venir meno il presupposto su cui si fondava il diritto

vivente, ossia che nell'acquisto finalizzato all'uso di gruppo non si verifica alcun

tipo di cessione a terzi, ma una mera divisione interna (di cui la consegna non

è altro che una fase esecutiva), che consente a ciascuno di venire in possesso

del solo quantitativo di reciproca pertinenza fin dall'inizio e già da quel

momento destinato al rispettivo uso personale.

Deve quindi convenirsi con l'osservazione che l'aggiunta dell'avverbio

"esclusivamente" non ha affatto, di per sè, un significato particolarmente

pregnante sotto il profilo semantico, ma ha, al contrario, un significato quanto

meno non univoco, ben potendo il termine essere inteso in una accezione che

permette di continuare a ricomprendervi la codetenzione per uso di gruppo.

Non può invero ritenersi che l'espressione "uso personale" avrebbe un

significato completamente differente da quella di "uso esclusivamente

personale", e in particolare che la semplice aggiunta di questo avverbio

comporterebbe che per "uso personale" dovrebbe ora intendersi una cosa

diversa, e precisamente un "uso individuale". In realtà, l'avverbio

oggettivamente ha un significato rafforzativo e pleonastico, e comunque non è

idoneo a mutare addirittura il significato assunto in quel contesto dall'aggettivo

cui accede. Nel precedente testo della disposizione con l'espressione "uso

personale" si sono escluse dall'ambito penale e ricomprese in quello

amministrativo le ipotesi in cui lo stupefacente non è destinato, nemmeno in

parte, alla cessione a terzi, ma è finalizzato per intero al consumo personale.

Nel caso di uso di gruppo, secondo il diritto vivente, non è ravvisarle in realtà

una cessione a terzi, neppure parziale, e pertanto non sussiste il reato.

L'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente", allora, sembra avere avuto

l'oggettivo significato di sottolineare che per escludere il reato è necessario che

la droga sia destinata totalmente, per intero, ossia appunto "esclusivamente",

all'uso personale e neppure in parte alla cessione a soggetti terzi estranei

all'acquisto ed alla detenzione. L'avverbio, però, non ha modificato il significato

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e l'ambito dell'espressione "cessione a terzi" e pertanto non è univocamente

idoneo a modificare l'area di ciò che non è cessione ma "uso personale"

secondo la giurisprudenza unanime, e cioè a fare entrare nell'area della

cessione a terzi, sottraendola da quella dell'uso personale, una fattispecie che,

per il diritto vivente, non è qualificabile come cessione a terzi, bensì, stante

l'omogeneità ideologica delle condotte, come una specie del genere "uso

personale", e precisamente un "uso personale di gruppo".

E' dunque condivisibile il rilievo che, qualora il legislatore del 2006 avesse

davvero voluto in modo non equivoco punire penalmente condotte fino ad

allora non rientranti nelle ipotesi di "cessione" a terzi dello stupefacente,

avrebbe dovuto introdurre la nuova fattispecie di reato in termini espliciti,

chiari, univoci, eventualmente modificando l'ambito della nozione di "cessione",

e non limitarsi invece all'aggiunta di un avverbio non idoneo a mutare il

significato proprio che nella disposizione aveva ed ha, di per sè, l'aggettivo

"personale". L'avverbio, dunque, non connota diversamente l'uso personale nel

senso di riferirlo ora al solo soggetto che detiene la sostanza stupefacente, ma

ha il significato di evidenziare che la non punibilità riguarda solo i casi in cui la

sostanza non è destinata a terzi ma all'utilizzo personale degli appartenenti al

gruppo che la codetengono (Sez. 6, n. 3513 del 12/01/2012, Santini, Rv.

251579).

Ciò, del resto, sembra implicitamente ammesso anche dalla tesi secondo cui

l'uso di gruppo sarebbe ora punibile perchè l'espressione "uso non

esclusivamente personale" dovrebbe intendersi nel senso di "uso non

individuale". Con ciò, invero, si finisce per riconoscere, appunto, che se si fosse

voluto introdurre una nuova fattispecie di reato si sarebbe dovuta mutare la

disposizione in modo inequivoco, eventualmente sostituendo quanto meno il

termine "personale", e non invece riprodurre il medesimo aggettivo

aggiungendovi un avverbio rafforzativo, non idoneo a mutarne il significato che

pacificamente aveva in quel contesto. Nemmeno può condividersi la tesi

secondo cui con l'aggiunta dell'avverbio il termine "uso personale" andrebbe

ora inteso come equipollente di "uso individuale", perchè con una tale

interpretazione si verrebbe in sostanza ad estendere l'ambito di applicazione di

una fattispecie penale ad ipotesi che in essa non erano prima comprese, in

contrasto con i principi di tassatività e di legalità e con il divieto di analogia in

malam partem.

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D'altra parte, e sotto altro profilo, è stato esattamente osservato che il nuovo

avverbio è inserito in una struttura ellittica ed oggettiva, che non connota

soggettivamente l'uso da parte del detentore bensì oggettivamente la condotta

detentiva, sicchè, se si considera l'intera locuzione, ben può ritenersi che

esistano casi di detenzione per uso non esclusivamente personale sia

individuale, sia anche di persone diverse. In altre parole, poichè la disposizione

non parla di uso individuale e non limita la caratteristica denotativa della

condotta detentiva all'autore singolo, il sintagma "uso non esclusivamente

personale" non è concettualmente incompatibile con il consumo di gruppo,

anche nella forma specifica del mandato ad acquistare. La locuzione può

pertanto essere legittimamente riferita all'uso collettivo che risulti

esclusivamente personale, ossia anche alle ipotesi in cui la droga detenuta da

una singola persona sia destinata ad un uso "esclusivamente personale in

comune" da parte di tutti i componenti del gruppo per conto e su mandato dei

quali è stata acquistata.

Nello stesso senso, si è anche rilevato che il ricorso alla forma indeterminativa

"un uso esclusivamente personale" consente l'inquadramento nell'area di

rilevanza meramente amministrativa della condotta finalizzata alla destinazione

esclusivamente personale anche di soggetti diversi dall'acquirente, e quindi,

non strettamente limitata all'azione monosoggettiva, ma obiettivamente estesa

anche alle sostanze destinate al consumo altrui.

Non può infine ritenersi che la posizione di una nuova fattispecie penale possa

desumersi dal fatto che il nuovo testo legislativo ha ricostruito l'illecito

amministrativo in termini di residualità rispetto all'area di rilevanza penale, con

inversione del rapporto logico precedente, essendo ora la fattispecie penale

descritta in modo positivo e quella amministrativa individuata in via sussidiaria.

Invero, la norma penale continua a punire la destinazione ad un uso non

(esclusivamente) personale, ossia ad un uso non personale neppure in parte,

mentre nell'ipotesi in esame la detenzione è immediatamente collegata all'uso

(esclusivamente) personale dei singoli mandatari appartenenti al gruppo.

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93

8.4. Non è decisivo nemmeno l'assunto che, nel caso di acquisto su mandato

del gruppo, il mandatario sarebbe comunque punibile penalmente perchè la

sua condotta integrerebbe comunque la fattispecie del "procurare ad altri"

prevista dall'art. 73, comma 1.

Si tratta peraltro di un vecchio argomento che non trova fondamento nelle

modifiche legislative apportate con la L. n. 49 del 2006, dato che la

disposizione già in precedenza puniva la condotta di chi "procura ad altri". La

previsione di questo specifico reato è già stata condivisibilmente ritenuta

irrilevante dalla sentenza delle Sezioni Unite Iacolare, che ha,

appunto,evidenziato come l'acquisto su previo mandato dei componenti il

gruppo esuli dalla fattispecie del procurare ad altri, stante la qualificazione

della condotta come attività immediatamente prodromica al consumo

personale di gruppo.

Le modifiche legislative non hanno specificamente modificato l'ambito della

condotta del procurare ad altri penalmente rilevante e, di conseguenza, non vi

sono motivi per disattendere il precedente orientamento. Inoltre, si è sempre

generalmente ritenuto che l'ipotesi del procurare si riferisce precipuamente alla

attività di intermediazione di chi mette in collegamento lo spacciatore con

l'acquirente (cfr. Sez. 6, n. 37177 del 08/07/2008, Mosca, Rv.

241205; Sez. 4, n. 4458 del 02/12/2005, dep. 03/02/2006, Chimienti, Rv.

233240), ossia ad una condotta diversa da chi acquista per il consumo comune

proprio e di altri, su mandato di costoro. Del resto, se il c.d. uso di gruppo

avesse rilevanza penale, esso rientrerebbe nell'ambito della cessione a terzi o

del concorso nella detenzione a fine di spaccio, senza necessità di ricorrere alla

figura del procacciare ad altri.

8.5. Parimenti non condivisibile è l'assunto secondo cui, poichè sarebbe

pacifica l'intenzione del legislatore del 2006 di sanzionare penalmente tutte le

condotte dirette alla propalazione della droga a terzi, di conseguenza anche

l'ipotesi del mandato ad acquistare per uso collettivo di gruppo integrerebbe

ora il reato, perchè anche con questa condotta si finisce col realizzare una

diffusione a terzi della sostanza stupefacente. Con ciò però si esprime una

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valutazione di politica criminale, irrilevante ai fini di una esegesi corretta e

costituzionalmente orientata del quadro normativo penale.

Per il resto, può rinviarsi a quanto si è dianzi osservato sulla circostanza che la

volontà obiettiva del legislatore è stata tutt'altro che univoca ed evidente e che

comunque non è stata idonea ad introdurre una nuova fattispecie penale non

essendosi manifestata con la posizione di una chiara e specifica nuova norma

incriminatrice. Si è già ricordato, del resto, che la sentenza Iacolare aveva

evidenziato come la condotta rientrante nel c.d.

consumo di gruppo, essendo incentrata sul consumo personale dei componenti

e circoscritta alle persone dei consumatori, è estranea alla diffusione della

droga ed all'incremento del relativo mercato, e quindi non può essere oggetto

del medesimo giudizio di disvalore riconosciuto allo spaccio.

8.6. Un ulteriore argomento, utilizzato dalla sentenza Garofalo, fa richiamo alla

sentenza n. 360 del 1995 della Cotte costituzionale, la quale aveva escluso una

irragionevole disparità di trattamento nell'attribuzione di rilevanza penale alla

sola coltivazione di sostanza stupefacente finalizzata all'uso personale e non

anche alla detenzione ed all'acquisto orientati al medesimo fine. Ciò perchè

non può provarsi che il raccolto sia destinato all'uso personale del soggetto

attivo e, comunque, perchè la coltivazione non è condotta necessariamente

prodromica all'uso personale, penalmente irrilevante, il che spiega

l'attribuzione alla stessa della medesima offensività del c.d. spaccio, mentre le

condotte di acquisto e di detenzione sono collegate immediatamente e

direttamente all'uso personale, il che giustifica un trattamento meno rigoroso.

Questa pronuncia, secondo la sentenza Garofalo, affermerebbe implicitamente

che dovrebbe attribuirsi rilevanza penale a qualsiasi forma di diffusione di

sostanze stupefacenti, con la conseguenza che la nozione di uso personale

dovrebbe essere interpretata come frutto di una norma eccezionale e specifica,

e come tale insuscettibile di applicazione analogica e di interpretazione

estensiva.

Questo argomento - anch'esso peraltro estraneo alle modifiche apportate dalla

legge n. 49 del 2006 - era stato però già superato dalla sentenza delle Sezioni

Unite Iacolare ed è comunque non decisivo. Invero, dalle sentenze n. 360 del

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1995 e n. 296 del 1996 della Corte costituzionale non si desume che la norma

che esclude la rilevanza penale dell'uso personale dovrebbe essere qualificata

come norma eccezionale. Inoltre, l'ipotesi del c.d. uso di gruppo non può

equipararsi a quella della coltivazione, esaminata dalle sentenze costituzionali,

dal momento che l'acquisto e la detenzione al fine del c.d. consumo di gruppo

costituiscono condotte necessariamente ed immediatamente prodromiche

all'uso personale dei soggetti mandatari.

In ogni modo - a parte l'irrilevanza di generiche finalità repressive non

tradottesi in puntuali norme incriminatrici - si è appena ricordato come,

secondo la sentenza Iacolare, la presenza di una omogeneità teleologia delle

condotte porta ad escludere che questa specifica ipotesi contribuisca ad

incentivare immediatamente la diffusione dell'uso di droghe negli stessi termini

della coltivazione o dello spaccio.

9. Deve al contrario osservarsi che la considerazione di norme e principi

costituzionali offre invece più di un argomento in favore della tesi che qui si

segue della non incidenza delle modifiche normative del 2006 sulla perdurante

esclusione dall'ambito penale di entrambe le ipotesi che si fanno rientrare nella

nozione di consumo di gruppo.

In primo luogo, invero, la sentenza delle Sezioni Unite Iacolare del 1997, le cui

conclusioni vengono qui pienamente condivise e confermate, si era fondata,

come dianzi ricordato, proprio sulle valutazioni ed i principi espressi dalla Corte

costituzionale con le sentenze n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996, con le quali

si era appunto definito l'ambito delle condotte non rilevanti penalmente e si era

precisato che nell'area della "cintura protettiva" riservata al consumo personale

rientrano anche i comportamenti immediatamente precedenti dell'acquisto e

della detenzione. Dal che poi si è logicamente desunto che anche nell'ipotesi di

consumo di gruppo, l'acquisto e la detenzione finalizzati a tale consumo

costituiscono antecedenti immediati e necessari del consumo stesso, e quindi

ineriscono al rapporto del singolo assuntore con la sostanza per l'uso

personale, con esclusione della intermediazione di terzi. Tali considerazioni,

relative alla protezione del consumo personale e dei comportamenti

"immediatamente" propedeutici allo stesso, non possono ritenersi superate

dalle modifiche normative del 2006, non potendo incidere sotto questo profilo

la previsione di limiti massimi tabellari non aventi natura rigida.

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In secondo luogo, l'interpretazione restrittiva delle modifiche portate dalla L. n.

49 del 2006 - ed in particolare dell'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" e

della diversa struttura normativa dei casi di non punibilità penale - nel senso di

escludere che con esse si sia prevista la configurabilità come reato delle ipotesi

rientranti nel c.d. consumo di gruppo, prima pacificamente costituenti illeciti

amministrativi, è l'interpretazione che - stante l'indiscutibile significato quanto

meno equivoco delle espressioni utilizzate - appare più conforme al principio

costituzionale di precisione della norma penale, ed anche ai principi di

tassatività, di legalità e di riserva di legge, evitando che sia in definitiva

rimessa al giudice l'enucleazione della norma incriminatrice. E può inoltre

ricordarsi che la Corte costituzionale, già con la sentenza n. 364 del 1988,

aveva evidenziato come il principio di legalità dei reati e delle pene (art. 25

Cost., comma 2) e quello di previa pubblicazione della legge (art. 73 Cost.,

comma 3), richiedono che la formulazione, la struttura ed i contenuti delle

norme penali siano tali da rendere le stesse precise, chiare e contenenti

riconoscibili direttive di comportamento. A questi principi non sembra invero

corrispondente una interpretazione che desuma una nuova fattispecie

incriminatrice unicamente dall'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" o da

una generica volontà restrittiva del legislatore non esplicitatasi in specifiche

norme punitive.

In terzo luogo, va ricordato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 22

del 2012 (v. anche ord. n. 34 del 2013), ha evidenziato come "l'esclusione

della possibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto-legge

emendamenti del tutto estranei all'oggetto e alle finalità del testo originario

non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta

dallo stesso art. 77 Cost., comma 2, che istituisce un nesso di interrelazione

funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente

della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di

approvazione peculiare rispetto a quello ordinario" (punto 4.2), anche sotto il

profilo della particolare rapidità e della necessaria accelerazione dei tempi del

procedimento. La Corte costituzionale ha riconosciuto che le Camere ben

possono, "nell'esercizio della propria ordinaria potestà legislativa, apportare

emendamenti al testo del decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina

normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari difformi nei

merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime

finalità", ma ha specificato che "l'innesto nell'iter di conversione dell'ordinaria

funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia

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procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione

d'urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene interrotto, la

violazione dell'art. 77 Cost., comma 2, non deriva dalla mancanza dei

presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte (...) ma

per l'uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione

gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di

convertire, o non, in legge un decreto-legge".

In sostanza, secondo questa sentenza costituzionale, le norme inserite nel

decreto-legge nel corso del procedimento di conversione che siano "del tutto

estranee alla materia e alle finalità del medesimo", sono costituzionalmente

illegittime, per violazione dell'art. 77 Cost., comma 2.

Ora, se fosse esatta l'interpretazione che qui non si condivide, si avrebbe che

con la legge di conversione n. 49 del 2006 sarebbe stata inserita nei testo del

D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, una nuova norma penale (che trasforma da

illeciti amministrativi a illeciti penali le condotte di acquisto e detenzione di

sostanze stupefacenti finalizzate al c.d. uso collettivo o di gruppo), la quale

però potrebbe apparire estranea alla materia e alle finalità del testo originario

del medesimo decreto legge, che aveva ad oggetto "Misure urgenti per

garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali,

nonchè la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per

favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi"; che nel preambolo

individuava a propria giustificazione "la straordinaria necessità ed urgenza di

prevenire e contrastare il crimine organizzato ed il terrorismo interno ed

internazionale, anche per le esigenze connesse allo svolgimento delle prossime

Olimpiadi invernali, nonchè di assicurare la funzionalità dell'Amministrazione

dell'interno e di garantire l'efficacia dei programmi terapeutici di recupero per

le tossicodipendenze anche in caso di recidiva"; e che conteneva solo due

disposizioni sul recupero di tossicodipendenti recidivi.

Ne deriva che l'interpretazione che qui è stata adottata, nel senso di escludere

che con l'aggiunta dell'avverbio "esclusivamente" sia stata introdotta una

nuova fattispecie incriminatrice, appare anche quella più corrispondente allo

speciale procedimento legislativo prescelto.

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10. Deve pertanto concludersi nel senso che le modifiche portate dalla Legge di

conversione n. 49 del 2006, al testo del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e 75,

non abbiano inciso sulla correttezza e validità dei principi affermati dalle

Sezioni Unite con la sentenza n. 4 del 1997, Iacolare, in relazione al c.d.

consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, in quanto non hanno nè introdotto

una nuova norma penale incriminatrice di questa ipotesi nè determinato una

restrizione, rispetto a quella previgente, dell'area dei comportamenti rientranti

nell'"uso personale", trasferendo nell'area dell'illecito penale le condotte

qualificate come finalizzate al consumo personale dei componenti il gruppo.

Va pertanto confermata la ricostruzione del sistema sanzionatolo su cui si

fonda la sentenza Iacolare e va riaffermato, pur a seguito delle modifiche

normative portate dalla L. n. 49 del 2006 al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73 e

75, che non sono punibili penalmente, e rientrano pertanto nella sfera

dell'illecito amministrativo di cui all'art. 75, l'acquisto e la detenzione di

sostanze stupefacenti destinate all'uso personale che avvengano sin dall'inizio

anche per conto di soggetti diversi dall'agente, quando è certa fin dall'inizio

l'identità dei medesimi nonchè manifesta la loro volontà di procurarsi le

sostanze destinate al proprio consumo.

Ciò in sostanza perchè l'omogeneità teleologia della condotta dell'acquirente

rispetto allo scopo degli altri componenti del gruppo caratterizza la detenzione

quale codetenzione ed impedisce che il primo si ponga in rapporto di estraneità

e quindi di diversità rispetto ai secondi, con conseguente impossibilità di

connotare la sua condotta quale cessione.

Vanno evidentemente confermate le condizioni enucleate dalla sentenza

Iacolare ed occorrenti per dare luogo ad una ipotesi di consumo di gruppo, dal

momento che qualora l'acquirente non sia anche uno degli assuntori oppure

abbia effettuato l'acquisto senza averne ricevuto mandato dagli altri, non

sarebbe ravvisabile una omogeneità teleologia tra le condotte e la consegna

della droga sarebbe qualificabile come cessione, sia pure gratuita, o spaccio.

Occorre quindi, in sostanza, che l'acquirente sia uno degli assuntori; che

l'acquisto avvenga sin dall'inizio per conto degli altri componenti il gruppo, al

cui uso personale la sostanza è destinata; che quindi sia certa sin dall'inizio

l'identità di questi altri soggetti i quali abbiano in un qualunque modo

manifestato la volontà sia di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei

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compartecipi sia di concorrere ai mezzi finanziari occorrenti all'acquisto. Ricorre

invece una normale ipotesi di cessione qualora tutte queste condizioni non si

verifichino, come nel caso in cui il soggetto abbia ceduto per il consumo in

comune sostanza di cui era autonomamente in possesso per averla acquistata

senza alcun mandato degli altri, ovvero abbia acquistato su mandato di terzi

ma senza essere a sua volta assuntore, ovvero abbia ceduto parte della droga

a soggetti estranei al gruppo dei mandanti.

11. Appare opportuno anche precisare che le ragioni che inducono a preferire

questa interpretazione riguardano entrambe le situazioni che si fanno rientrare

nel c.d. consumo di gruppo, e cioè sia l'ipotesi di acquisto congiunto sia quella

di acquisto da parte solo di uno (o alcuni) dei futuri consumatori su mandato

degli altri. Del resto già la sentenza Iacolare aveva evidenziato come entrambi

i casi attengano pur sempre ad una codetenzione quale antecedente immediato

rispetto al consumo da parte dei componenti il gruppo.

Non è quindi condivisibile la tesi che propone una soluzione di compromesso,

differenziando le due ipotesi e limitando l'illecito amministrativo al solo caso in

cui i soggetti acquistino congiuntamente e materialmente la droga. Questa

differenziazione potrebbe anzi, nei diversi casi concreti, dar luogo ad incertezze

nell'individuazione del confine tra illecito penale ed amministrativo e comunque

determinare irragionevoli disparità di trattamento.

12. In conclusione, va ritenuta corretta l'interpretazione in base alla quale il

giudice del merito ha dichiarato non luogo a procedere per insussistenza del

fatto non essendo ravvisabile nella specie una condotta di cessione a terzi,

mentre, per le ragioni indicate, non può condividersi l'opposta tesi della

punibilità del c.d. consumo di gruppo sostenuta dalla ricorrente. Il giudice ha

altresì accertato, con adeguata motivazione, la presenza (del resto non

contestata con il ricorso) delle condizioni occorrenti per escludere la punibilità.

Il ricorso deve dunque essere rigettato, con conseguente condanna della

ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

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Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese

processuali.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2013

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5) Attenuante della speciale tenuità

Gigi e Andrea si recavano spesso in ospedale per dei controlli all’addome. Una sera, Gigi e Andrea restavano in ospedale a lungo, fino a tarda sera, ed

anche dopo il controllo medico. Notavano, vicino la stanza 13hG, un distributore automatico a pagamento di

bevande e merende. Decidevano di forzare il distributore per impadronirsi delle monetine.

Dopo aver forzato l’apparecchio, però, venivano sorpresi da una guardia che impediva la sottrazione delle monetine.

Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Gigi e Andrea, precisando l’eventuale applicabilità della circostanza attenuante ex art. 62,

comma primo, n. 4.

Possibile soluzione schematica caso 5)

In premessa si poteva schematizzare il fatto.

Nel caso in esame, Gigi e Andrea saranno chiamati a rispondere del reato di tentato furto visto che:

-hanno posto atti diretti in modo non equivoco finalizzati ad impossessarsi delle monetine, ex artt. 56-624 c.p.;

-l’evento non si verificava per l’intervento di una guardia. Chiarito ciò, bisognava chiedersi: è predicabile l’attenuante ex art. 62 comma

2, n. 4? In senso negativo depongono i dati che:

-la previsione della citata attenuante si riferisce ad un danno di speciale tenuità, che non può sussistere nella fattispecie tentata; in effetti, nel tentativo

non sussiste il danno, soprattutto nei casi di offese al patrimonio; in difetto di danno, allora l’attenuante de qua non opererà;

-l’art. 56 c.p. punisce solo il tentato delitto, nulla dicendo circa la “tentata

circostanza”, con la conseguenza che non è predicabile in quanto sfornita di copertura normativa;

-se il legislatore avesse voluto estendere l’attenuante de qua anche ai casi di tentativo rispetto a reati che offendono il patrimonio, l’avrebbe fatto

espressamente com’è avvenuto all’art. 61 n. 8 c.p. laddove è scritto “tentato di aggravare”; vale, dunque, il brocardo/principio si lex voluit dixit.

Tuttavia, si ritiene di optare per una risposta positiva a tutto vantaggio di Gigi e Andrea che potranno fruire dell’attenuante dell’art. 62 comma 2 n.4 c.p.

Nel senso favorevole depongono i dati che: -bisogna sempre distinguere tra tentativo di delitto circostanziato ed il

tentativo circostanziato di delitto perché nel secondo caso le circostanze si realizzano nella fase esecutiva del delitto tentato e, dunque, almeno in questo

caso in cui, cioè, le circostanze sono integrate, bisognerà ritenerle sussistenti; -il tentativo è un reato di pura condotta ed a questi, solitamente, si applicano

le circostanze;

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-c’è il dolo anche sulle circostanze in quanto ben può l’agente volere il delitto

circostanziato; -non vi è il rischio di vulnerare il dictum normativo dell’art. 56 c.p. perché

questo pone l’accento sugli atti diretti in modo non equivoco, senza nulla dire

circa la riferibilità al fatto principale ovvero alle circostanze; -la circostanza non è elemento costitutivo del reato, pertanto è fisiologico che

può anche non essere integrata; -tutto il tentativo è imperniato su un discorso di idoneità dei fatti a cagionare il

reato, così che l’idoneità dovrà estendersi anche alle circostanze; in pratica, bisognerà provare che la condotta, per come posta in essere fino al tentativo

compiuto, se fosse stata proseguita, avrebbe avuto apprezzabili possibilità di integrare anche l’attenuante in oggetto;

-infine l’art. 380 c.p.p. laddove al comma 2 utilizza l’inciso “consumati o tentati”, nonché alla lettera e) del med.esimo comma laddove è scritto

“circostanza attenuante” depone nel senso che, almeno nei casi di flagranza di reato, il reato compiuto è parificato a quello tentato per le relative circostanze.

Alla luce dei citati rilievi, si ritiene – conformemente alla recente giurisprudenza – che Gigi e Andrea potranno fruire della citata attenuante.

Nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del

danno di speciale tenuità é applicabile anche al delitto tentato quando sia possibile desumere con certezza, dalle modalità del fatto e in base

ad un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato riportato al compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato

di rilevanza minima.

Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 28-03-2013) 28-06-2013, n. 28243

Svolgimento del processo

1. Z.S.G., giudicato con rito abbreviato, fu condannato dal Tribunale di Torino,

con sentenza in data 24 aprile 2008, alla pena di mesi cinque di reclusione in

quanto riconosciuto colpevole dei delitti di tentato furto aggravato da violenza sulle cose e dall'uso di mezzo fraudolento (artt. 56 e 624 c.p., art. 625 c.p., n.

2, capo A), nonchè di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p., capo B), aggravata ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 2, per aver commesso il fatto al fine di

conseguire l'impunità dal delitto di tentato furto.

1.1. Considerato più grave tale secondo delitto, ritenuta la continuazione, riconosciute le attenuanti generiche, valutate equivalenti alle aggravanti,

tenuto conto della diminuente del rito, la pena è stata determinata come prima indicato.

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2. La Corte di appello di Torino, con sentenza 19 dicembre 2011, ha

integralmente confermato la pronunzia di primo grado, in particolare ritenendo inapplicabile al delitto tentato l'attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n.

4, cod. pen., pur richiesta con il primo motivo dell'atto di appello.

3. La condotta addebitata a Z.S. con riferimento al delitto del capo A è la

seguente: "avere compiuto, al fine di trame profitto, atti idonei, diretti in modo non equivoco, ad impossessarsi delle monete custodite nell'apposito cassetto di

un distributore automatico di bevande, ubicato in un ospedale, mediante la forzatura di una griglia di protezione, con l'uso di un pezzo di ferro, non

riuscendo nel suo intento per l'intervento di una guardia giurata".

4. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, articolando un unico motivo e lamentando violazione di legge sostanziale in relazione

all'omesso riconoscimento della attenuante del danno di speciale tenuità, in relazione al delitto di furto tentato e sostenendo che la giurisprudenza di

legittimità, cui aveva fatto riferimento la Corte di appello per negare detta attenuante, doveva ritenersi superata, alla luce delle più recenti sentenze della

Corte di cassazione, che hanno riconosciuto che, anche con riferimento al

tentativo di furto, possa sussistere (e debba quindi esser valutata) l'attenuante comune di cui all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4, in considerazione delle concrete

modalità dell'azione e dei vari indici sintomatici, desumibili dalle stesse risultanze processuali. Essa dunque ricorrerebbe tutte le volte in cui, se il

delitto fosse stato portato a esecuzione, la vittima avrebbe subito un danno di speciale tenuità.

5. Il ricorso è stato assegnato alla Seconda Sezione penale, che, ravvisando sul

punto oggetto dell'unico motivo di ricorso un permanente contrasto di giurisprudenza, ha rimesso, con ordinanza 19 dicembre 2012, il ricorso alle

Sezioni Unite, ai sensi dell'art. 618 c.p.p..

6. Il Primo Presidente, con decreto del 20 novembre 2012, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione la odierna udienza.

7. Ha depositato memoria il difensore dell'imputato, con la quale ribadisce e argomenta la compatibilità dell'attenuante di cui all'art. 62 c.p., comma 1, n.

4, con il delitto di furto tentato. Motivi della decisione

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite è la seguente: "se, nei reati contro il

patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità possa, o meno, applicarsi anche al delitto tentato".

2. Sul punto, come si rileva nell'ordinanza della Seconda Sezione,

effettivamente la giurisprudenza di questa Corte non si è mostrata univoca, pur essendo, a far tempo dagli anni '70 del secolo scorso, nettamente

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prevalenti - di certo dal punto di vista quantitativo - le pronunzie ispirate alla

tesi che sostiene la compatibilità della attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n. 4, cod. pen. con i delitti tentati contro il patrimonio, in genere, e con

il delitto di furto tentato, in particolare.

2.1. A fronte di tale orientamento, ne sussiste altro - come si è premesso, di

minor consistenza numerica - che giunge alla opposta conclusione.

Si sostiene infatti, da parte della "corrente minoritaria" che, non essendo il danno elemento costitutivo del delitto di furto, l'attenuante in questione non

può trovare applicazione in tema di furto tentato, atteso che, nel tentativo, per definizione e per presupposto, il danno non è presente (tra le più recenti: Sez.

5, n. 11923 del 27/01/2010, Luongo, Rv. 2465S6, relativa al tentato furto di una serranda; Sez. 5, n. 11142 del 06/10/2005, dep. 2006, Buonarota, Rv.

233885, relativa al tentato furto di un ciclomotore).

Poichè, in sintesi, si sostiene, l'attenuante in questione presuppone Indefettibilmente la consumazione del reato e l'esistenza di un danno (effettivo

e non ipotetico), che appunto della sottrazione della cosa è conseguenza, essa

può essere invocata solo in presenza di furto consumato (Sez. 4, n. 14204 del 09/07/1990, Venuti, Rv. 185566).

3. In realtà, sin dall'entrata in vigore del codice Rocco, la giurisprudenza di

legittimità si era interrogata sulla rilevanza delle circostanze nel delitto tentato (nell'ambito dei delitti contro il patrimonio, in particolare).

Al proposito, la Prima Sezione, aveva avuto modo di sviluppare, sul finire degli

anni '30, una riflessione di carattere generale, sostenendo che "l'oggetto del tentativo non può non influire sulla punibilità del tentativo stesso; e, inoltre,

quando il danno è elemento imprescindibile della nozione del reato, esso deve funzionare, tanto in rapporto al reato consumato, quanto in rapporto a quello

tentato" (Sez. 1, 15/02/1939, Fabbri, in tema di tentata concussione, in Giust. pen., 1939, parte seconda, col. 759).

In tema di furto, tuttavia, proprio in considerazione del fatto che il danno non è elemento costitutivo del reato di cui all'art. 624 cod. pen., la Seconda Sezione

aveva decisamente escluso l'applicabilità dell'attenuante del danno di speciale tenuità in relazione a tutti i delitti tentati contro il patrimonio (cfr. sent.

11/04/1938, Aglieri; sent. 21/07/1938, Pellegrini; sent. 14/12/1938,

Abruzzese; sent. 10/02/1939, Barbanti; sent. 01/03/1939, Ronchi;

sent. 19/06/1939, Schiavini; tutte in Giust pen., 1939, parte seconda, col. 359 ss., nonchè sent. 13/11/1940, Dell'Ara, in Riv.

pen., 1941, p. 27).

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4. Nei decenni successivi, la medesima Seconda Sezione ebbe occasione di ribadire che "l'attenuante prevista dall'art. 62 n. 4 cod. pen. non può trovare

applicazione nel caso di tentativo, essendo basata su elementi che possono

presentarsi soltanto come conseguenza della consumazione perfetta del reato" (sent. 19/01/1957, Giordani, in Giust. pen., 1957, parte seconda, col. 461).

Si può dunque sostenere che negli anni più lontani l'orientamento prevalente

era nel senso di escludere la compatibilità della attenuante in questione con i delitti tentati contro il patrimonio.

4.1. Si rinvengono, tuttavia, anche all'epoca, pronunzie in senso contrario della

medesima Sezione: sent. 27/02/1957, Pozzi, in Giust.

pen., 1957, parte seconda, col. 461; sent. 11/12/1957, Nardo, ivi, 1958, parte seconda, col. 465; sent. 14/07/1955, Badolin, ivi, 1956, parte seconda, col.

134, quest'ultima relativa proprio al delitto di furto tentato, la cui massima recita "l'attenuante prevista dall'art. 62, n. 4, cod. pen. può essere applicata

anche nel caso di reato tentato, quando però risulti che l'azione, rimasta

incompiuta, ha avuto per oggetto un compendio di valore determinabile con precisione, in maniera da aversi la matematica certezza che, se essa fosse

giunta a consumazione, avrebbe cagionato alla persona offesa un danno di speciale tenuità". Tali considerazioni, per altro, erano state anticipate da Sez.

1, sent. 05/03/1948, Manzi (in Giust pen., 1948, parte seconda, col. 808), che aveva chiarito che l'attenuante de qua non poteva ritenersi ricorrente nel caso

in cui l'agente si fosse introdotto - per rubare - in una abitazione "poichè (...) l'oggetto del reato era (costituito da) una quantità indeterminata di cose",

atteso che l'attenuante ex art. 62 c.p., n. 4, ricorre, nel caso di furto tentato "solo quando il tentativo abbia avuto per oggetto una cosa determinata, il cui

valore sia, appunto, di speciale tenuità". Dunque: la possibilità di individuare in concreto l'oggetto su cui cade l'azione delittuosa è considerata da parte della

giurisprudenza da ultimo citata condicio sine qua non per la eventuale applicazione della attenuante del danno di speciale tenuità, per il buon motivo

che, solo in tal caso, appare possibile valutare, sia pure in via ipotetica, l'entità

del danno stesso.

4.2. Anche successivamente, le pronunce favorevoli alla compatibilità, generalmente, richiederanno che risulti accertato (anche, eventualmente,

attraverso l'esame delle modalità della condotta) che, se l'evento si fosse realizzato, alla persona offesa sarebbe derivato un danno di speciale tenuità

(cfr., in ordine cronologico, le seguenti sentenze tutte della Seconda Sezione: n. 313 del 12/02/1968, Indelicato, Rv. 107662; n. 6825 del 17/01/1977,

Gatto, Rv. 136015; n. 12742 del 31/05/1978, Predoti, Rv. 140244; n. 8586 del 03/04/1979, Cricchio, Rv. 143165; contra però ancora Sez. 2, n. 2177 del

24/11/1975, dep. 1976, Turrlsi, Rv. 132351 (che viceversa sostiene che "riguardo all'applicazione dell'attenuante del danno, (va chiarito che) essa è

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106

incompatibile con il delitto tentato, presupponendo la consumazione del reato e

l'esistenza del danno conseguente alla sottrazione").

Sempre si richiedeva, tuttavia, la prova rigorosa ed univoca che, se l'azione si

fosse realizzata, il danno che ne sarebbe derivato sarebbe stato sicuramente di speciale tenuità; si vuole, insomma, che le modalità del fatto siano tali da

fornire la certezza che, immaginando che l'agente avesse conseguito il suo scopo, ne sarebbe derivato un danno patrimoniale particolarmente tenue (in

ordine cronologico, cfr., della Seconda Sezione: sent. n. 11676, 22/02/1980, dep. 08/11/1980, rie. Passa, Rv. 146527, sent. n. 225, 14/07/1980, dep.

17/01/1981, ric. Genco, Rv. 147303, sent. n. 5045, 28/11/1980, dep. 27/05/1981, ric. Vitale, Rv. 149056, sent. n. 538, 16/06/1981, dep.

23/01/1982, ric. Zampini, Rv. 151711, sent. n. 5642, 22/12/1981, dep. 05/06/1982, ric. Cotrona, Rv. 154113, sent. n. 7686, 09/03/1982, dep.

04/08/1982, ric. Ricciardi, Rv. 154881, sent. n. 9434, 03/03/1982, dep. 16/10/1982, ric. Flora, Rv. 155645, sent. n. 10158, 16/03/1982, dep.

28/10/1982, ric. Vona, Rv. 155870, sent. n. 1634, 23/03/1982, dep. 24/02/1983, ric. Iacobbi, Rv. 157538, sent. n. 9600, 14/04/1983, dep.

15/11/1983, ric. Guercini, Rv. 161188, sent. n. 10679, 01/06/1983, dep.

10/12/1983, rie. Foropat, Rv. 161674, n. 3768 del 11/07/1983, dep. 1984, Versace, Rv. 163855; n. 9038 del 04/05/1984, Murabito, Rv. 166288; n. 1315

del 25/10/1984, dep. 1985, Barbagallo, Rv. 167797; n. 4356 del 16/11/1984, 1985, Irrera, Rv.

169067; n. 10452 del 13/06/1985, Macalli, Rv. 171004; n. 3964 del

21/11/1988, dep. 1989, Rubino, Rv. 180823; n. 4767 del 04/12/1989, dep. 1990, De Angelis, Rv. 183915; della Quarta Sezione: n. 8241 del 01/08/1985,

La Piana, Rv. 170474; n. 55 del 19/10/1988, dep. 1989, Cari, Rv. 180074; n. 876 del 14/12/1988, dep. 1989, Manfregola, Rv.

180259; della Quinta Sezione: n. 5170 del 09/02/1983, Cecilia, Rv.

159348; della Sesta Sezione: n. 8163 del 30/04/1982, Pirottina, Rv.

155156).

Va rilevato che sono specificamente relative a fattispecie di tentato furto le decisioni n. 11676 del 1980; n. 5642 del 1982; n. 7686 del 1982; n. 8163 del

1982, n. 9600 del 1983; n. 9038 del 1984; n. 1315 del 1985; n. 55 del 1989; n. 876 del 1989; è relativa a fattispecie di tentata rapina la sentenza n. 3964

del 1989; è relativa a fattispecie di tentata truffa la sentenza n. 4767 del 1990.

4.3. Il giudice, dunque - secondo questo, ormai prevalente, orientamento giurisprudenziale - deve prendere in esame le concrete modalità del fatto,

concentrando la sua attenzione sull'oggetto materiale preso di mira; e ciò allo scopo di accertare l'entità del nocumento patrimoniale che il reato - se portato

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a consumazione - avrebbe cagionato alla persona offesa (in ordine cronologico,

cfr.

Seconda Sezione: n. 39837 del 22/05/2009, De Luca, Rv. 245258; Quinta

Sezione, n. 8413 del 04/06/1992, Leo, Rv. 191491; n. 2063 del 12/01/1994, Calvanico Rv. 197273, n. 2335 del 19/01/1994, Vaccaro, Rv. 197278; n. 648,

05/02/1999, Gerlini, Rv. 214875; n. 32467 del 12/07/2004, Gurrieri (non massimata sul punto); n. 44153 del 30/09/2008, Chiarcesio, Rv. 241688; n.

35827 del 04/06/2010, Borgia, Rv. 248500; n. 43268 del 19/10/2011, Termine, Rv. 251711; Sesta Sezione: n. 10355 del 16/02/1992, Vestita, Rv.

192098).

Va notato, in particolare che la sentenza Chiarcesio, appena citata, utilizza l'espressione: "occorre avere riguardo al danno ipotetico che il reato, se

consumato, avrebbe causato".

5. Le sentenze, viceversa, che, in numero ormai nettamente minore, negano la compatibilità con il tentativo di furto della attenuante in questione (cfr. le già

citate sentenze Sez. 4, Venuti, Rv.

185566; Sez. 5, Buonarota, Rv. 233885; Sez. 5, Luongo, Rv. 246566)

insistono, come si è visto, sulla estraneità alla struttura del delitto di furto del concetto di danno, dovendosi intendere, comunque, come tale quello diretto e

immediato, subito dalla persona offesa.

6. Orbene, riassunto come sopra lo sviluppo e le "linee di tendenza" della giurisprudenza di legittimità dall'entrata in vigore del codice Rocco ad oggi, si

deve riconoscere che un'accorta riflessione sulla problematica che ha determinato l'assegnazione del ricorso a queste Sezioni Unite non può non

prendere le mosse da considerazioni che, avendo riguardo alla struttura stessa del delitto tentato, approfondiscano, innanzitutto, il tema della ipotizzabilità di

un delitto tentato circostanziato.

7. Sul punto, la dottrina non è unanime.

7.1. Alcuni Autori, infatti, escludono in radice la compatibilità tra tentativo e

circostanze. Si sostiene al proposito, da un lato, che l'art. 56 c.p., fa riferimento ai soli delitti, senza alcuna ulteriore specificazione, dall'altro, che le

circostanze attengono al solo momento sanzionatorio, senza dar luogo a una autonoma fattispecie astratta.

Le circostanze "tentate", si afferma, non esistono nel nostro sistema penale,

atteso che l'art. 59 c.p., ha prefigurato un meccanismo di imputazione delle circostanze fondato sul presupposto dell'effettiva esistenza delle stesse.

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7.2. Vi è anche chi esclude la configurabilità del delitto circostanziato tentato

con riferimento alle sole circostanze attenuanti. A sostegno di tale conclusione si è fatto rilevare che la modifica (ad opera della L. 7 febbraio 1990, n. 19),

dell'art. 59 c.p. ha riguardato le sole circostanze aggravanti, rendendo così

ammissibile il delitto circostanziato tentato, ma esclusivamente in relazione a esse, mentre per le attenuanti, sarebbe sempre valido il principio della

operatività di circostanze obiettivamente realizzate e non meramente ipotizzate, atteso il testo vigente dell'art. 59 c.p..

7.3. Per quanto poi specificamente riguarda la compatibilità dell'attenuante di

cui all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4, con il delitto tentato, vi è chi, pur non negando - in astratto e in generale - la possibilità di un delitto tentato cui

ineriscano (possano inerire) alcune circostanze, sostiene che l'attenuante de qua dovrebbe comunque essere esclusa, in quanto il danno rilevante ai fini

della sua integrazione, avuto riguardo alla lettera della disposizione, è solo quello effettivo ("avere cagionato (...) un danno patrimoniale di speciale

tenuità") e che la assenza del danno connota, appunto, il delitto tentato e costituisce la ratio della più blanda punizione rispetto al delitto consumato.

L'assenza di danno (lieve, lievissimo, grave, gravissimo, che sia), dunque, in

quanto già valutata - in linea generale - dal legislatore, da ragione del differente trattamento sanzionatorio, rispetto al delitto consumato.

7.4. Viene inoltre posto in campo anche un argomento testuale, comparando il

testo dell'art. 62 c.p., n. 4, che fa riferimento al danno cagionato, con quello dell'art. 61 c.p., n. 8, che, viceversa, attribuisce espressamente rilievo alla

condotta consistente, non solo nell'"aver aggravato", ma anche nell'aver "tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso".

8. Altri Autori sostengono, invece, la configurabilità del delitto circostanziato

tentato e, nello specifico, la sua compatibilità con l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4.

Si assume al proposito, innanzitutto, che il delitto semplice e il delitto

circostanziato costituiscono fattispecie incriminatici autonome, fattispecie che

disegnano differenti titoli di reato. Non vi è ragione di non "ibridare" il disposto dell'art. 59 c.p., con la disciplina del tentativo (e ciò a maggior ragione dopo la

riforma operata dalla L. n. 19 del 1990). Nel testo attualmente vigente, infatti, l'art. 59 si limita a escludere la rilevanza di circostanze meramente supposte.

Per altro, la compatibilità è stata anche ritenuta, da una parte della dottrina,

sul presupposto che il divieto di configurabilità del delitto circostanziato tentato opererebbe solo con riferimento alle aggravanti e non anche alle attenuanti;

ciò in coerenza con la funzione di garanzia che assume il principio di legalità-tipicità nel nostro ordinamento.

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9. In realtà, è indubbio che alcune circostanze siano oggettivamente

incompatibili con il tentativo. Certamente lo sono quelle relative a una attività che neanche parzialmente sia stata posta in essere.

Proprio in dottrina, d'altra parte, si è distinto il delitto circostanziato tentato (ovvero il tentativo di delitto circostanziato), dal delitto tentato circostanziato

(ovvero il tentativo circostanziato di delitto).

Il primo (delitto circostanziato tentato) è il tentativo di un delitto che, se fosse giunto a consumazione, sarebbe apparso qualificato da una o più circostanze.

Il secondo (delitto tentato circostanziato) si realizza quando, nella fase esecutiva del tentativo, risultino integrate circostanze attenuanti o aggravanti,

anche se il delitto avuto di mira non giunge a consumazione.

Dunque: nel primo caso, la circostanza non si è, di fatto, è realizzata, ma, per così dire, è rimasta assorbita nel tentativo (es. art. 61 c.p., comma 1, n. 7, e,

appunto, art. 62 c.p., comma 1, n. 4, cod. pen.); nel secondo gli elementi costitutivi della circostanza si sono effettivamente realizzati (es. art. 61 c.p.,

comma 1, n. 6, art. 62 c.p., comma 1, n. 2).

9.1. Ebbene riesce difficile, per non dire impossibile, sostenere che, nella

seconda ipotesi (delitto tentato circostanziato), la circostanza - aggravante o attenuante - non sia applicabile, dal momento che essa, indubitabilmente,

sussiste in rerum natura.

9.2. Il problema, evidentemente, rimane, allora, circoscritto alla prima ipotesi: quella in cui la circostanza, pur inerente alla condotta dell'agente, non è stata

posta in essere, in quanto detta condotta si è arrestata prima che la circostanza potesse essere realizzata. Il che accade sempre quando "il venire al

mondo" della circostanza coincide con la consumazione del delitto. Trattasi, ad evidenza, del caso in esame, in quanto, come è ovvio, il danno patrimoniale (di

speciale tenuità) postula la consumazione del furto: evidentemente, se la res non viene sottratta, il soggetto passivo non subisce alcun danno patrimoniale

diretto. Il che però è insito nel concetto stesso di delitto tentato, in quanto

reato senza evento (in senso naturalistico). Da questo punto di vista, dunque, il delitto tentato può essere assimilato - come pure è stato fatto - ai reati di

pura condotta o anche a quelli a consumazione anticipata, reati per i quali, come è noto, il legislatore ha previsto la punibilità prima del (o a prescindere

dal) verificarsi dell'evento.

Invero, sia nel delitto tentato che in quello a consumazione anticipata è richiesta tanto la idoneità dell'atto, quanto un principio di esecuzione, dal quale

si possa desumere la unidirezionalità della condotta (cfr. Sez. 1, n. 11344 del 10/05/1993, Algranati, Rv. 195753; Sez. 1, n. 11394 del 11/02/1991, Abel,

Rv. 188642). D'altra parte, nei reati di pura condotta, come è noto, la

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consumazione coincide con il compimento di quell'azione (ovvero di

quell'omissione) descritta nella norma incriminatrice.

9.3. Orbene, tali categorie di reati (di pura condotta e a consumazione

anticipata) pacificamente ammettono la forma circostanziata, come può desumersi, tra le altre, dalla sentenza per ultima citata che, pur

disconoscendo, nel caso specifico, la sussistenza della attenuante di cui all'art. 61 c.p., comma 1, n. 1, ciò fa per motivi attinenti alla fattispecie concreta e

non per una ritenuta - astratta e generale - incompatibilità tra la predetta circostanza e i delitti di attentato.

9.4. In realtà, la natura esclusivamente dolosa del delitto tentato comporta che

determinate circostanze (aggravanti o attenuanti) ben possano essere presenti nel momento ideativo e volitivo del delitto, come modalità e/o finalità

dell'azione che si intende compiere.

Naturalmente è richiesto che la volontà criminosa non rimanga allo stadio di semplice intendimento, ma si manifesti attraverso condotte significative, cui

sia collegata una apprezzabile probabilità di "successo" (appunto: atti idonei,

diretti in modo non equivoco a commettere un delitto). Anche le circostanze non realizzate dunque (è l'ipotesi del tentativo di delitto circostanziato, cioè del

delitto circostanziato tentato), contribuiscono a integrare e a caratterizzare il proposito criminoso.

Per quel che si è detto prima, tuttavia, deve trattarsi di circostanze riconoscibili

in base a quel frammento di condotta che il soggetto ha effettivamente posto in essere. E la riconoscibilità, va da sè, costituisce il riflesso nella mente

dell'interprete della inequivocità dell'azione. Invero, da un punto di vista logico, il giudizio sulla inequivocità degli atti (e dunque sulla direzione dell'azione)

sembra precedere quello sulla loro idoneità, in quanto solo un atto riconoscibilmente diretto a uno scopo può essere valutato sotto il profilo della

sua (potenziale) efficacia. Vero è, tuttavia, che solo un atto (sia pure astrattamente) idoneo si presta a un giudizio di tipo teleologia), essendo la

potenziale efficacia dello stesso un presupposto per individuarne la finalità. Di

talchè idoneità e univocità si pongono come due connotazioni dell'agire volontario che, congiuntamente apprezzate, rendono - ad un tempo -

riconoscibile (dai terzi) e raggiungibile (potenzialmente) lo scopo perseguito dall'agente.

9.5. Ma l'azione diretta a uno scopo - questo è il punto - ben può inglobare

quella che l'ordinamento considera una circostanza del reato, in quanto caratterizzante, come si è premesso, le modalità della condotta, ovvero in

quanto inerente all'oggetto della attività criminosa.

Il problema, allora, si risolve, da un lato, nel vagliare la compatibilità logica e giuridica della circostanza (di quella circostanza) con il tentativo di delitto,

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dall'altro, in una mera questione di prova, vale a dire nella valutazione della

compatibilità in concreto, cioè nel verificare la ravvisabilità, nell'ambito del singolo episodio criminoso e sulla base delle evidenze raccolte, della

circostanza in questione. In tal senso, non a caso, si è espressa quella

giurisprudenza che ha esaminato funditus il problema (cfr. Sez. 5, n. 16313 del 24/01/2006, Cartillone, Rv. 234424; Sez. 4, n. 4098 del 17/01/1989, Lamusta,

Rv.

180846).

9.6. La soluzione, dunque, non può essere ricercata in linea meramente astratta e non può essere univoca; in realtà essa dipende, da un lato, dalla

tipologia della particolare aggravante in questione, dall'altro, dallo sviluppo dell'azione posta In essere dall'agente. E invero, In determinati casi, è

indubbiamente necessaria la realizzazione dell'evento che costituisce oggetto di quella determinata circostanza, ovvero occorre il perfezionamento dei relativi

presupposti costitutivi nel frammento di condotta posta in essere dal soggetto agente; in altri casi non è necessario che ciò si verifichi.

9.7. E allora, anche con specifico riferimento alla problematica sottoposta alle Sezioni Unite, occorrerà procedere con la metodica sopra evidenziata, cui

sembra esattamente conformarsi il dictum della già citata sentenza Sez. 2, n. 39837 del 22/05/2009, De Luca, Rv.

245258, in base alla quale, ai fini dell'applicabilità della diminuente di cui

all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4, il giudice deve avere riguardo alle concrete modalità del fatto e deve accertare che il reato, ove fosse stato consumato,

avrebbe cagionato, in modo diretto e immediato, un danno di speciale tenuità; deve cioè aversi riferimento al danno ipotetico che il reato avrebbe cagionato,

qualora fosse stato consumato.

Ciò, ovviamente, sul presupposto (già sopra evidenziato) in base al quale "la norma dell'art. 56 c.p., non fa esclusivo riferimento alla figura tipica del reato,

ma anche a quella del reato circostanziato, per cui l'estensione al tentativo

delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato comporta un problema di semplice compatibilità logico-giuridica, che non tocca il principio di

legalità. Infatti, al fini della configurazione del tentativo di delitto aggravato, oltre al criterio della idoneità e della univocità degli atti e dei mezzi che

possono indicare un proposito criminoso riferibile a un delitto aggravato, acquistano rilevanza e sono compatibili - e, dunque, estensibili al tentativo -

tutte le circostanze, aggravanti o attenuanti, che attengono ai fini dell'azione criminosa" (così testualmente la appena citata sentenza De Luca).

E su tale principio di carattere generale converge gran parte della

giurisprudenza di legittimità, affermando con nettezza che l'estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato non

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contrasta con il principio di legalità (cfr. Sez. 1, n. 5717 del 16/12/1987, dep.

1988, Nugnes, Rv. 177420; Sez. 1, n. 1154 del 03/03/1986, Oliva, Rv. 172378; Sez. 2, n. 2355 del 05/07/1976, dep. 1977, Serrane, Rv. 135275;

Sez. 1, n. 2596 del 09/11/1971, dep. 1972, De Colombi, Rv. 120865 e

120866).

9.8. Invero, come ha osservato da Sez. 4, n. 2631 del 23/11/2006, dep. 2007, Aquino, Rv. 235937, (in tema di stupefacenti e di applicabilità al tentativo di

importazione della aggravante ex art. 80 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), "la disciplina del reato tentato si riferisce a tutti gli aspetti della tipicità, ivi

compresi quelli inerenti alle circostanze. Dagli artt. 56 e 59 cod. pen. non si trae alcun argomento, diretto o indiretto, da cui possa inferirsi che la disciplina

del tentativo sia inerente al solo reato base".

A ben vedere, il tentativo stesso è configurabile, come è pacifico, in base alla "combinazione" di due norme: la norma incriminatrice speciale e la norma

estensiva di cui all'art. 56 c.p.. Trattasi di una metodica tipica del codice penale e che si applica, ad esempio, in ipotesi di concorso di persone nel reato (norma

incriminatrice speciale e norma estensiva dell'art. 110), nonchè, ovviamente,

in tema di reato caratterizzato da circostanze comuni (norma incriminatrice speciale, cui ineriscono le circostanze di cui agli artt. 61 e 62 c.p.). Non vi è

dunque ragione di non ammettere, in linea generale e salva, come si è detto, la verifica di compatibilità logico-giuridica, un doppio "meccanismo

combinatone)", che veda agire sulla norma incriminatrice tanto l'art. 56, quanto gli artt. 61 e/o 62 c.p.).

9.9. Nè ha pregio l'obiezione - sopra anticipata - in base alla quale le

circostanze hanno rilievo ed effetto solo in campo sanzionatorio. L'assunto, invero, prova troppo, in quanto anche le "semplici" norme incriminatrici hanno,

ovviamente, rilievo sul versante sanzionatorio; non di meno, esse descrivono una condotta (e indicano la relativa connotazione psicologica), così come fanno

le circostanze, tanto che talune condotte, a volte, sono considerate dal legislatore ipotesi autonome di reato, altre volte, elementi costitutivi di altri

reati, o ancora - appunto - circostanze (es. la violenza sulle cose, cfr. artt. 635

e 392 c.p., art. 614 c.p., comma 4).

10. Il ragionamento appena sviluppato non riceve smentita - in relazione al tema specifico oggetto della presente decisione - dall'assunto che caratterizza

tutte le sentenze espressive dell'orientamento minoritario, vale a dire quello in base al quale, non essendo il danno elemento costitutivo del delitto di furto,

l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., n. 4, non potrebbe trovare applicazione in tema di furto tentato, atteso che, nel tentativo, ovviamente, il danno manca

(così da ultimo la già ricordata decisione della Sez. 5, n. 11923 del 27/01/2010, Luongo, Rv. 246556, che, in verità, si è limitata a recepire una

massima tralascia, ignorando l'ormai sedimentato contrasto di giurisprudenza).

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In merito è appena il caso di osservare che è del tutto ovvio che la circostanza

sia attinente a un fatto che non integra alcun elemento costitutivo del reato, in quanto, se così non fosse, ovviamente, non di una circostanza si tratterebbe

(cioè di un quid che eventualmente accede a un reato in sè perfetto), ma -

appunto - di una componente del reato stesso. La circostanza, per sua stessa definizione, è un satellite del reato (circum stat) e, come la sua eventuale

mancanza non incide sulla esistenza dello stesso, così la sua presenza non postula necessariamente (e sempre) che il reato sia stato consumato, ben

potendo esso essersi arrestato allo stadio del tentativo.

10.1. Al proposito, non sembra pertinente l'osservazione circa la irrilevanza delle circostanze erroneamente ritenute sussistenti (art. 59, comma terzo, cod.

pen.), perchè, nel caso del tentativo di delitto circostanziato (delitto circostanziato tentato), la circostanza non è supposta, ma voluta e - per quel

che si è detto - riconoscibile sulla base di quel frammento di condotta effettivamente posto in essere. L'agente, in altre parole, non è in errore circa

la sussistenza di una circostanza, ma vuole agire realizzando (anche) una determinata circostanza.

10.2. Occorre dunque che l'Interprete verifichi la compatibilità della circostanza con la condotta concretamente posta in essere dall'agente, allo scopo di

desumere se, sulla base della predetta condotta (della sua idoneità e della sua inequivocità, come manifestatesi nei fatti), la predetta circostanza sia

riscontrabile.

Si tratta certamente di una valutazione ipotetica, ma, non per questo, di una valutazione inibita al giudice, atteso che, ad esempio, del tutto ipotetico è il

così detto giudizio controfattuale, cui lo stesso è chiamato in tema di reato omissivo (cfr.: Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv 222138) e

ipotetico, in ultima analisi, è il giudizio in tema proprio di delitto tentato (o dei delitti a consumazione anticipata), posto che al giudicante è richiesto di

valutare, non la condotta - in sè - tenuta dall'agente, ma tale condotta in relazione all'obiettivo che l'agente si proponeva di raggiungere, di valutare

detta condotta, vale a dire, "come se" l'evento voluto si fosse, in realtà,

realizzato.

Ed è proprio per tale ragione che la menzionata sentenza Sez. 4, n. 2631 del 23/11/2006, rie. Aquino, Rv. 235937, ha ritenuto configurabile l'aggravante di

cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 80, allorchè vi sia la prova che, se l'operazione illecita di traffico di droga fosse riuscita, essa avrebbe riguardato

un quantitativo ingente di sostanza psicotropa.

10.3. Ebbene, oltre alle già ricordate considerazioni in ordine al principio di legalità, la sentenza in questione svolge anche considerazioni in ordine al

principio costituzionale di eguaglianza, per quel che riguarda il riconoscimento di circostanze (attenuanti o aggravanti) in tema di tentativo; ciò fa prendendo

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come termine di riferimento proprio il tentativo di furto e sostenendo che "è

razionale che la ponderazione della gravità dell'illecito sia rapportata anche alla configurazione che il fatto e l'offesa avrebbero assunto nel caso in cui il delitto

fosse stato portato a compimento. Una diversa soluzione porterebbe a risultati

contrari al principio di uguaglianza, determinando l'irrogazione della medesima pena, sia nel caso in cui fosse tentato un furto semplice, sia in quello in cui la

sottrazione riguardasse un bene di grande valore".

10.4. D'altra parte, con riferimento alla circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61, comma primo, n. 7, cod. pen., che

ovviamente costituisce il "reciproco" della attenuante ex art. 62, comma primo, n. 4. stesso codice), la giurisprudenza - precedente e successiva alla ricordata

sentenza Aquino e altri - non dubita della sua applicabilità al tentativo (cfr. Sez. 5, n. 17275 del 26/11/2008, dep. 2009, Stendardo, Rv. 244632, in tema

di furto;

nonchè Sez. F, n. 33408 del 13/08/2009, Hudorovic, Rv. 244353 (in tema di truffa).

11. Le conclusioni sopra esposte ricevono conferma testuale, dalle modifiche (recenti e meno recenti) introdotte dal legislatore nel codice penale di rito e in

quello sostanziale.

Invero, l'art. 380 c.p.p. (arresto obbligatorio in flagranza), come è noto, fa obbligo agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria di procedere all'arresto di

chiunque sia colto in flagranza di una serie di delitti non colposi - consumati o tentati - individuati in base alle pene edittali, ovvero specificamente elencati.

Ebbene, detto articolo ha subito modifica, ad opera della L. 15 luglio 2009, n. 94, nel suo comma 2, che, attualmente, recita:

"anche fuori dei casi previsti dal comma 1, gli ufficiali e gli agenti di polizia

giudiziaria procedono all'arresto di chiunque è colto in flagranza di uno dei seguenti delitti non colposi, consumati o tentati: (...) e) delitto di furto, quando

ricorre la circostanza aggravante prevista dall'art. 4 della legge 8 agosto 1977,

n. 533, o quella prevista dall'art. 625 c.p., comma 1, n. 2, prima ipotesi, salvo che, in quest'ultimo caso, ricorra la circostanza attenuante di cui all'art. 62

c.p., comma 1, n. 4; e-bis) delitti di furto previsti dall'art. 624 bis del codice penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p.,

comma 1, n. 4".

Ne consegue che, dalla lettura coordinata dei vari commi, si deduce necessariamente che le circostanze - aggravanti o attenuanti - debbano essere

valutate (quantomeno ai fini dell'arresto in flagranza), sia con riferimento ai delitti consumati, sia ai delitti tentati.

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11.1. D'altra parte, la Corte costituzionale, più di un decennio prima, con la

sentenza n. 54 del 1993, aveva avuto modo di occuparsi dell'arresto obbligatorio in flagranza, dichiarando la parziale incostituzionalità dell'art. 380

c.p.p. - nel testo, ovviamente, all'epoca vigente - nella parte in cui prevedeva

l'arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di furto, tanto consumato, quanto tentato, aggravato ai sensi dell'art. 625, comma 1, n. 2, prima ipotesi

(violenza sulle cose), proprio nel caso in cui ricorresse, insieme con l'aggravante di cui sopra, la circostanza attenuante prevista dall'art. 62,

comma 1, n. 4, dello stesso codice.

Il Giudice delle leggi, a seguito di ricognizione del "diritto vivente", rilevava allora che la circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n. 4, cod.

pen. risultava applicabile anche al furto tentato; ciò anche in considerazione del fatto che "una più incisiva considerazione, in via generale, della speciale

tenuità del danno emerge dall'ampliamento dell'originario art. 62, n. 4, effettuato con la L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 2".

E in effetti, con il predetto testo normativo, il legislatore ha notevolmente

ampliato l'ambito di applicazione della circostanza attenuante della "speciale

tenuità", estendendola, dai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ai delitti determinati da motivi di lucro. In tale ultimo

caso, tuttavia, sembra avere esplicitamente previsto, accanto all'ipotesi in cui il lucro sia stato effettivamente conseguito, quella in cui esso sia solo sperato,

ma non anche raggiunto ("(...) nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere agito per conseguire, o l'avere comunque conseguito, un lucro di speciale

tenuità, quando anche l'evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità").

11.2. Tale essendo la lettera della legge dopo "l'innesto" operato dal legislatore del 1990, sembra inevitabile chiedersi se, per quel che riguarda l'attenuante in

questione, il regime relativo ai delitti determinati da motivi di lucro si differenzi da quello relativo ai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il

patrimonio, nel senso che, solo nel primo caso, e non anche nel secondo, la diminuente sarebbe applicabile anche al tentativo, secondo il criterio dell'ubi

voluit dixit ("aver agito per conseguire, o avere comunque conseguito");

ovvero se si debba ritenere che il legislatore abbia semplicemente introdotto la nuova disposizione in un contesto nel quale la diminuente in questione doveva

già ritenersi applicabile al tentativo, redigendo un testo più articolato, per la necessità di assicurare la tutela degli altri beni giuridici protetti dalle fattispecie

qualificabili come "delitti determinati da motivi di lucro".

11.3. In questi termini si è espressa la già ricordata sentenza Sez. 2, De Luca, per la quale nessuna incidenza ostativa alla applicazione della attenuante ex

art. 62 c.p., comma 1, n. 4al delitto tentato può derivare dalla riforma del 1990, atteso che "l'aggiunta apportata all'art. 62 c.p., n. 4, dalla L. n. 19 del

1990, (...) ha solo esteso l'ambito applicativo della suddetta norma anche ai delitti determinati da motivi di lucro".

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11.4. D'altronde, vi è più di una ragione per scartare la prima opzione interpretativa, atteso che, non solo i delitti contro il patrimonio o che

comunque offendono il patrimonio, in quanto manifestazione dell'istinto

predatorio, sono ispirati, secondo l'id quod plerumque accidit, da motivi di lucro (di talchè essi si pongono, nei confronti di tali ultimi delitti in rapporto di

specie a genere), ma anche perchè la pretesa differenziazione introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento.

Disparità di trattamento che, come messo in luce da attenta dottrina,

determinerebbe conseguenze davvero paradossali, sia sul versante sostanziale, che su quello procedurale.

Invero, considerando inapplicabile al furto tentato l'attenuante in questione,

ben potrebbe, in ipotesi, tale delitto esser punito più gravemente di un furto consumato, se, in tale secondo caso, l'attenuante ex art. 62 c.p., comma 1, n.

4, dovesse trovare ingresso (eventualmente insieme con altre attenuanti).

"Aberranti" poi sono state definite le conseguenze in tema di applicazione di

specifiche discipline demenziali; in particolare è stato richiamato ciò che sarebbe potuto accadere in applicazione dell'amnistia prevista dal D.P.R. 12

aprile 1990, n. 75, art. 4, per la quale un furto (consumato) pluriaggravato, attenuato dalla circostanza del danno patrimoniale di speciale tenuità, sarebbe

rientrato nell'amnistia, mentre da questa sarebbe stato escluso il tentativo di furto dello stesso oggetto, nel caso in cui si ritenesse l'attenuante inapplicabile

al delitto tentato.

11.5. E, d'altra parte, ancora in tema di arresto obbligatorio in flagranza, se si ipotizzasse che il legislatore, nel modificare l'art. 380 c.p.p., comma 2, non

avesse inteso riconoscere l'applicabilità della diminuente in esame al tentativo, si arriverebbe a un risultato ermeneutico altrettanto assurdo. Sarebbe infatti

obbligatorio procedere "all'arresto nel caso di flagranza di tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose, di tentato furto in abitazione o di tentato

furto con strappo, pur se il danno in concreto ipotizzabile fosse di speciale

tenuità, mentre, se il danno effettivamente causato fosse, appunto, di speciale tenuità, tale dovere non sussisterebbe, in caso di furto consumato, aggravato

dalla violenza sulle cose, di furto in abitazione o di furto con strappo.

12. In conclusione, per tutte le ragioni sopra esposte, deve affermarsi che "nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di

speciale tenuità, di cui all'art. 62 c.p., n. 4, può applicarsi anche al delitto tentato, sempre che la sussistenza della attenuante in questione sia desumibile

con certezza dalle modalità del fatto, in base a un preciso giudizio ipotetico che, stimando il danno patrimoniale che sarebbe stato causato alla persona

offesa, se il delitto di furto fosse stato portato a compimento, si concluda nel senso che il danno cagionato sia di rilevanza minima".

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13. La sentenza impugnata che ha escluso in radice - ritenendola incompatibile con il tentativo di furto - l'applicabilità dell'attenuante in questione all'Imputato

che aveva tentato di impadronirsi del denaro contenuto in un distributore

automatico di bevande, deve dunque essere annullata sul punto, disponendosi rinvio per nuovo esame, in merito ad esso, ad altra sezione della Corte di

appello di Torino. P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto concernente

l'applicazione della circostanza attenuante dell'art. 62 c.p., n. 4, in relazione al capo A della imputazione e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di

Torino.

Così deciso in Roma, il 28 marzo 2013.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2013

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6) Atti preparatori e tentativo

Tizio e Caio decidevano di uccidere la bellissima Amanda.

Il programma prevedeva lo stordimento tramite la somministrazione di acqua contenente barbiturici e poi l’iniezione di un’overdose di eroina.

I due portavano in auto Amanda presso la propria abitazione e le facevano bere acqua con dentro barbiturici; Amanda restava profondamente stordita,

così che Tizio e Caio la trasportavano in auto per condurla in una zona isolata di Milano, dove solitamente si riunivano i tossicodipendenti, al fine di

concretizzare il programma criminale. Durante il tragitto, un’auto dei carabinieri fermava i due, rendendo così

impossibile l’omicidio di Amanda. Il candidato, premessi brevi cenni sugli atti preparatori, rediga motivato parere

in ordine alla questione posta alla sua attenzione.

Possibile soluzione schematica caso 6)

In premessa si doveva partire dagli atti preparatori.

Gli atti preparatori sono quelli che vengono posti in essere dall’agente prima di iniziare la realizzazione del reato e non sono considerati punibili; sono quelli,

cioè, precedenti al tentativo punibile (secondo una certa impostazione). L’art. 56 c.p. si occupa del delitto tentato, affermando che sussiste laddove

emerga la compresenza di: -idoneità degli atti;

-direzione inequivoca verso un delitto; -azione non compiuta o evento non verificatosi (si dissimula l’elemento positivo

del pericolo in concreto). Veramente gli atti preparatori di delitto non sono punibili? Sussiste sul serio

nell’ordinamento la previsione della non punibilità dell’atto preparatorio?

Se si ritiene che gli atti preparatori non sono mai punibili, allora Tizio e Caio potrebbero non essere puniti per tentato omicidio, ma eventualmente per altro

reato; diversamente, se si ritiene che possa essere punita anche la condotta preparatoria come tentativo, allora Tizio e Caio (in concorso) potrebbero anche

essere chiamati a rispondere per il reato di tentato omicidio. In favore della tesi della non punibilità degli atti preparatori, si dice che:

-difettano della univocità; -deve essere punita solo la condotta che inizi l’esecuzione del reato

programmato. Diversamente, in questa sede, si ritiene, in conformità alla giurisprudenza più

recente, che anche gli atti preparatori possano essere punti come fattispecie tentata; ciò in quanto:

-l’art. 56 c.p. non prevede tale distinzione tra atti preparatori non punibili ad etti di esecuzione (punibili), oltre ad essere troppo fumosa;

-alcuni atti preparatori possono porre in pericolo il bene giuridico tutelato.

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Pertanto, alla luce di tali rilievi, Tizio e Caio potranno rispondere di tentato

omicidio visto che: -sono stati posti in essere atti idonei, ovvero dotati di astratta probabilità di

verificazione dell’evento antigiuridico;

-gli atti sono anche unidirezionali nel senso che, se non vi fosse stato l’intervento dei carabinieri, l’omicidio sarebbe stato consumato.

Il criterio legale per la qualificazione del tentativo punibile è quello dell'individuazione nello sviluppo assunto dalla condotta degli elementi

distintivi del delitto consumato attraverso l'univocità della direzione degli atti compiuti verso la commissione di tale delitto e la

contemporanea idoneità degli atti stessi a commetterlo.

L'idoneità degli atti - valutata ex ante e non con riferimento alle circostanze impreviste che abbiano impedito il verificarsi dell'evento o

il compimento dell'intera azione necessaria per la consumazione del delitto, tenendo conto delle circostanze in cui opera l'agente e delle

modalità dell'azione - è criterio di determinazione dell'adeguatezza

causale, intesa come attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma

incriminatrice.

Cass. pen. Sez. I, (ud. 15-12-2006) 02-02-2007, n. 4359

Con sentenza del 23 febbraio 2006 la Corte d'Appello di Milano, Sezione per i Minorenni, in parziale accoglimento dell'appello proposto dal Procuratore della

Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Milano condannava M.M.R. per concorso nell'omicidio pluriaggravato ai danni di M.C. e T.F.; confermava

l'assoluzione dello stesso M.M.R. e di M.M. dai reati di tentato omicidio ai danni degli stessi M.C. e T.F..

Il presente processo è lo stralcio di un più ampio processo nei confronti delle

cosiddette "Bestie di Satana", un gruppo di numerosi adepti dediti a riti

satanici che a partire dal 1996 operò nella zona del milanese: i fatti presi in esame con la sentenza impugnata riguardano i due minorenni che facevano

parte del gruppo, M. M. e M.M.R..

Le indagini presero avvio dalla morte di P.M., in data 24 gennaio 2004, per la quale furono arrestati V.A., B.E. e S.N.. L'episodio fu subito messo in relazione

con la sparizione di T.F. e di M. C., risalente al 17 gennaio 1998, i quali avevano frequentato gli stessi personaggi coinvolti nell'uccisione della P..

Alcuni mesi dopo l'arresto il V. decideva di collaborare con gli inquirenti e

forniva dettagliati elementi sulla uccisione della M.C. e del T. indicando i personaggi che avevano preso parte al delitto, tra i quali erano il M.M. e il M.M.

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120

R.; sulla scorta delle dichiarazioni rese dal V. erano stati rinvenuti i cadaveri

dei due giovani.

Il M.M. confessava di aver preso parte al delitto; anche un altro partecipante al

rito satanico e quindi alla duplice uccisione, G.P., confessava le proprie responsabilità e forniva nuovi elementi a carico del M.M. e del M.M.R.. Si

ricostruivano in tal modo altri due episodi avvenuti poco tempo prima dell'uccisione: il primo, avvenuto nel dicembre 1997 era consistito nel tentativo

di uccidere M.C. prima somministrandole una bevanda a base di barbiturici per stordirla e quindi iniettandole una potente dose di eroina. L'impresa era stata

interrotta per il casuale passaggio nella zona di una pattuglia dei Carabinieri. Il secondo episodio, avvenuto nella notte di Capodanno tra il 1997 e il 1998

prevedeva l'uccisione della M.C. e del T.F. facendo esplodere l'auto a bordo della quale i due erano stati indotti ad appartarsi, mediante l'inserimento di un

petardo acceso nel tubo di scappamento. La vicenda si era però conclusa con l'incendio dell'auto, senza alcuna esplosione e quindi i due giovani erano

riusciti ad abbandonare l'auto incendiata.

La Corte d'Appello riteneva che tali ipotesi di reato non consentissero una

dichiarazione di responsabilità, in quanto nel primo caso gli atti posti in essere dagli imputati si interruppero nella fase preparatoria (la somministrazione dei

barbiturici) e gli stessi abbandonarono volontariamente il progetto.

Nel secondo caso gli atti posti in essere per sopprimere i due ragazzi non furono idonei a provocarne la morte in quanto erano privi della potenzialità

letale necessaria: in altre parole, secondo le valutazione di un perito di ufficio, era impossibile che attraverso la introduzione di un petardo acceso nel tubo di

scappamento si potesse verificare una deflagrazione e in ogni caso l'incendio che si sarebbe verificato sarebbe avvenuto all'esterno dell'auto e quindi non

avrebbe compromesso la possibilità degli occupanti dell'auto di allontanarsi.

Quanto alla responsabilità del M.M.R. in ordine al duplice omicidio, la sentenza impugnata, riformando la sentenza assolutoria del G.U.P., ritiene sia

sussistente il concorso morale nell'omicidio, avendo egli contribuito a rafforzare

il proposito criminoso degli altri compartecipi sia partecipando alle riunioni nel corso delle quali fu assunta la decisione di uccidere i due, sia perchè egli fu

tenuto al corrente dei preparativi che precedettero l'uccisione e in particolare dello scavo della fossa. La sera del delitto gli fu affidato l'incarico di coadiuvare

l'azione del gruppo dando una mano a controllare il T. e la M.C. mentre si trovavano presso il locale (OMISSIS) e quindi di fornire un'azione di copertura

rimanendo nello stesso locale mentre gli altri componenti del gruppo si occupavano di eseguire materialmente gli omicidi. Successivamente si doveva

occupare di sviare i sospetti, facendo in modo che il motorino della M.C. non fosse rinvenuto all'esterno dello stesso locale e quindi andando a passare il

resto della notte a casa di uno dei compartecipi, L.P.; la mattina seguente si sarebbe poi attivato assieme agli altri per fingere di cercare il T. di cui era

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121

stata denunziata la "scomparsa" dal padre, sempre allo scopo di sviare ogni

sospetto.

Sulla base di tali elementi si era quindi riscontrata la prova della colpevolezza

del M.M.R., avendo egli preso parte in veste non soltanto passiva, ma avendo fornito un rilevante contributo causale in tutte le fasi dell'impresa, in quella

preparatoria, in quella esecutiva e in quella di depistaggio delle indagini.

Propone ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Milano sul punto della assoluzione degli imputati in ordine

ai due tentativi di omicidio contestati.

Quanto all'episodio della somministrazione alla M.C. di barbiturici, alla quale avrebbe dovuto seguire la iniezione di una dose letale di eroina si rileva la

violazione di legge e la illogicità della motivazione in quanto anche gli atti preparatori possono integrare il tentativo, quando siano idonei, diretti in modo

non equivoco alla consumazione di un reato. Nella specie, il passaggio in zona di un'auto dei Carabinieri non avrebbe avuto alcun rilievo nella determinazione

volitiva dei compartecipi; per altro verso la assunzione di una dose pari ad un

grammo si eroina avrebbe una elevatissima probabilità di essere letale nei riguardi un soggetto non assuefatto. Nè si comprende per quale motivo

sarebbe stata sminuita solo in questo frangente la attendibilità delle dichiarazioni rese dal V., ritenuto in ogni altra occasione pienamente affidabile.

Quanto all'episodio dell'incendio dell'auto sulla quale si trovavano il T. e la

M.C., il ricorrente rileva come nella specie fossero presenti tutti i presupposti necessari allo sviluppo di un grave incendio che avrebbe dovuto

compromettere ogni possibilità per i due ragazzi di mettersi in salvo. Infatti il serbatoio della benzina era stato riempito solo a metà (condizione ritenuta

indispensabile per l'innesco dell'incendio); nell'auto erano stati posti alcuni petardi; gli occupanti dell'auto sarebbero stati intossicati dai fumi tossici

prodotti dall'incendio e dalla deflagrazione dei petardi; i due ragazzi si sarebbero trovati in uno stato di scarsa vigilanza, essendo essi intenti a

consumare un atto sessuale.

Tali elementi contribuirebbero a realizzare quella idoneità degli atti compiuti,

con valutazione da effettuare in astratto ed ex ante, a provocare la morte dei due giovani.

Propone ricorso il difensore di M.M.R. rilevando, con il primo motivo,

l'inappellabilità ai sensi della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 10, comma 2 da parte del P.M. della sentenza di proscioglimento emessa dal G.U.P. del

Tribunale per i Minorenni di Milano.

Con il secondo motivo si è rilevata l'assenza dei servizi minorili nell'udienza preliminare, ai fini di valutare la necessità di un eventuale aggiornamento delle

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122

relazioni sulla personalità del ragazzo (D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, artt.

31 e 28).

Con il terzo motivo si rileva la violazione di legge in relazione alla mancata

acquisizione in sede di incidente probatorio delle trascrizioni integrali degli interrogatori resi dagli imputati detenuti, essendo stati acquisiti,

semplicemente i verbali riassuntivi; ai sensi dell'art. 141 bis c.p.p. tale omissione comporterebbe la inutilizzabilità di dette dichiarazioni.

Con il quarto motivo si rileva la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo

stesso M.M.R. in data 14 giugno 2004, interrotte ai sensi dell'art. 63 c.p.p..

Con il quinto motivo si rileva la carenza della motivazione sul punto della individuazione di elementi di responsabilità a carico del M.M.R., posto che il

G.U.P. l'aveva assolto dallo stesso reato e non si dà conto in modo completo e approfondito, delle ragioni della diversa valutazione degli elementi acquisiti.

Con il sesto motivo si censura la sentenza impugnata per la contraddittorietà di

taluni aspetti della motivazione, quale quello in cui da un lato si afferma che

tutti gli adepti erano tra loro "pari", e da un altro si prospetta un gruppo di componenti dotati di carisma e gli altri più deboli, che sarebbero stati succubi

dei primi. Si richiamano quindi studi relativi a sette sataniche, senza approfondire la vera natura del gruppo preso in esame. Superficiale e

incompleta sarebbe poi la valutazione sulla attendibilità delle dichiarazioni rese dai coimputati V.A. e G.P., sulla base delle quali era stata ritenuta la

responsabilità del M.M. R..

In relazione alle dichiarazioni del V.A., non sarebbe mai stato precisato il ruolo che il M.M.R. avrebbe rivestito nel momento decisionale delle azioni da

compiere: in realtà il V. si è limitato ad affermare che il M.M.R. era a conoscenza delle decisioni assunte, senza fornire alcun elemento dal quale

ritenere una sua partecipazione attiva alla fase decisionale. Peraltro la credibilità di dette chiamate in correità sono evidente sminuite dalla

circostanza che il V. avrebbe indicato il M.M.R. come partecipe alla

deliberazione di uccidere la P. nel 2004, quando questi si era già allontanato dal gruppo da ben sei anni.

Analoghi rilievi andavano quindi mossi alla valutazione della attendibilità

dell'altro chiamante in correità, G.P., il quale non avrebbe fornito significativi elementi per la configurare la responsabilità del M.M.R.; nè sarebbero state in

qualche modo riscontrate le notizie già riferite dal V.A..

Anche le dichiarazioni del M.M. apparirebbero quanto mai vaghe e sfumate in relazione alla posizione del M.M.R..

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123

Quanto infine alle dichiarazioni rese dallo stesso M.M.R., fermi restando rilievi

già illustrati sulla inutilizzabilità di quanto dichiarato in assenza di difensore, la sentenza d'appello avrebbe omesso ogni seria valutazione sulla loro

attendibilità e sulla loro efficacia; nè si sarebbe curata di comparare le varie

dichiarazioni, soprattutto per quanto riguarda la partecipazione delle stesso alle varie riunioni preparatorie tenute prima del duplice omicidio.

Con il settimo motivo si censura la sentenza per violazione di legge e illogicità

della motivazione sul punto della sussistenza degli elementi richiesti per la configurabilità del cosiddetto concorso morale. In realtà si tratterebbe di

semplice connivenza, e non di volontà di concorrere assieme agli altri, al raggiungimento del fine criminoso; e tale atteggiamento non sarebbe di per sè

punibile.

Con l'ottavo motivo si censura la sentenza impugnata per carenza di motivazione sul punto della riqualificazione del fatto di aver passato la notte

successiva al duplice omicidio presso l'abitazione del L.P. come favoreggiamento personale.

Con il nono motivo si rileva l'assoluta assenza di motivazione sul punto della sussistenza della imputabilità del M.M.R. al momento della commissione del

fatto, trattandosi di imputato minorenne.

Con il decimo motivo si censura la sentenza impugnata sul punto della mancata sospensione di cui al D.P.R. n. 448 del 1988, art. 28 in assenza di un

progetto educativo attualmente in esecuzione e tenuto conto della età del M.M.R., in realtà la relazione dei Servizi minorili avrebbe fatto riferimento ad

un progetto educativo.

Con l'undicesimo motivo si censura infine la sentenza sul punto della assenza di motivazione sulla determinazione della pena applicata, senza peraltro

applicare la diminuente di cui all'art. 114 c.p.. Motivi della decisione

Nell'esaminare i ricorsi nello stesso ordine seguito sopra, si deve che il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Milano è fondato.

Quanto al capo D, ossia il tentato omicidio ai danni di M. C. nel dicembre 1997,

erroneamente il Tribunale aveva ritenuto che gli atti preparatori (come descritti nel capo di imputazione, ossia nei confronti dei due imputati all'epoca

minorenni e in concorso con altri soggetti appartenenti al gruppo, tra i quali V.A. e G.P., consistiti nello stordire la stessa facendole bere acqua nella quale

era stata sciolta una sostanza a base di barbiturici - Valium - e nel predisporre una siringa contenente una overdose di eroina - circa un grammo - nel

trasportare la stessa in stato di incoscienza in zona periferica, frequentata da tossicodipendenti e non riuscendo nell'intento per cause indipendenti dalla loro

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124

volontà) non avevano raggiunto la soglia del tentativo punibile. Su tale capo D

il P.M. deduce la mancanza e contraddittorietà della motivazione in rapporto all'affermazione della Corte d'Appello secondo cui non si sarebbe raggiunta la

soglia del tentativo punibile non essendo mai andata la condotta degli indagati

oltre agli atti preparatori, perchè costoro avevano predisposto il delitto nei dettagli ed erano già stati predisposti gli atti successivi da compiere.

L'impugnazione del P.M. è fondata. Ritiene il Collegio che la sentenza

impugnata non abbia esaurientemente vagliato, in ogni suo aspetto, le modalità organizzative e operative del gruppo criminale:

la ricostruzione della vicenda, negli stessi termini con cui risulta precisata nella

sentenza impugnata, dimostra che l'omicidio della M.C. era stato non solo deliberato dal gruppo criminale, ma era stata predisposta un'adeguata

organizzazione per eseguirlo. In particolare, era stato predisposto un modo per stordire la ragazza, il suo accompagnamento in zona appartata e notoriamente

frequentata da tossicomani, era stata acquistata e preparata la siringa contenente l'overdose di eroina. Nella ricostruzione analitica della vicenda in

base a prove attendibili e concordi la Corte d'Appello ha ravvisato lo

svolgimento di un'attività meramente preparatoria, ritenendo che non vi sia stato neppure l'inizio della condotta tipica. Nell'esprimere tale valutazione la

sentenza non affronta il problema della distinzione in concreto fra atti deliberativi dell'omicidio progettato dai concorrenti e gli atti organizzativi, che

hanno assunto una specificità e un'imponenza tali da non poter non rappresentare un inizio di esecuzione. A prescindere da questo, occorre tener

presente che l'istituto del delitto tentato, nel sistema adottato dal codice penale, non prevede una distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi, in

quanto la struttura del tentativo si fonda sul compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto (Cass., Sez. 6^, 13 aprile 1992 n.

7446; Sez. 2^, 11 gennaio 1985 n. 4982; Sez. 2^, 8 febbraio 1985 n. 3692; Sez. 2^, 11 aprile 1985 n. 3326; Sez. 2^, 18 maggio 1983 n. 10957; Sez. 5^,

22 aprile 1983 n. 5186; 14 aprile 1983 n. 3111); ne deriva che non si richiede che l'azione esecutiva sia già' iniziata (Cass., Sez. 2^, 25 giugno 1987 n.

10362; 5 marzo 1980 n. 9776;

Cass., Sez. 2^, 7 febbraio 1992 n. 2791) e che anche un atto preparatorio può

integrare gli estremi del tentativo quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco a commettere un delitto (Sez. 2^, 8 novembre 1985 n. 1058; Sez.

2^, 28 marzo 1984 n. 6439; Sez. 5^, 10 febbraio 1984 n. 3939; Sez. 2^, 1 marzo 1984 n. 1813; 18 aprile 1983 n. 3265).

In altri termini, il criterio legale per la qualificazione del tentativo punibile è

quello dell'individuazione nello sviluppo assunto dalla condotta degli elementi distintivi del delitto consumato attraverso l'univocità della direzione degli atti

compiuti verso la commissione di tale delitto e la contemporanea idoneità degli atti stessi a commetterlo (Cass., Sez. 6^, 9 ottobre 1996 n. 11022; 10 marzo

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125

1995 n. 295; Sez. 1^, 3 febbraio 1992 n. 7938; Sez. 2^, 1 settembre 1988 n.

10496; Sez. 6^, 17 febbraio 2004 n. 25040).

L'idoneità degli atti - valutata ex ante e non con riferimento alle circostanze

impreviste che abbiano impedito il verificarsi dell'evento o il compimento dell'intera azione necessaria per la consumazione del delitto (Cass., Sez. 2^,

25 giugno 1987 n. 10362;

Sez. 2^ 11 aprile 1985 n. 3326; Sez. 2^, 24 febbraio 1984 n. 8997; 26 aprile 1983 n. 7451), tenendo conto delle circostanze in cui opera l'agente e delle

modalità dell'azione - è criterio di determinazione dell'adeguatezza causale, intesa come attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di

lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice (Cass., Sez. 1^, 5 febbraio 1998 n. 1365; Sez. 1^, 28 giugno 1995 n. 9273; 13 aprile 1995 n. 7317;

Cass., Sez. 2^, 12 gennaio 1994 n. 151; Cass., Sez. 6^, 22 febbraio 1985 n. 5405). L'univocità degli atti è espressa dal riferimento di essi al delitto

consumato, riferimento che deve essere non equivoco, cioè tale da non consentire la possibilità di ritenere leciti gli atti stessi in quanto vi è già

ravvisabile, sia in base all'essenza di essi, sia in base alla prova specificamente

acquisita, la finalità della commissione di un determinato delitto.

Per converso, l'inidoneità dell'azione, che rende impossibile l'evento dannoso o pericoloso (art. 49 c.p.) esige che l'incapacità di essa di produrre l'evento sia

assoluta, intrinseca e originaria e tale risulti secondo una valutazione oggettiva da compiersi risalendo al momento iniziale del suo compimento; deve cioè

tradursi in inefficienza causale rispetto alla produzione dell'evento, indipendentemente da ogni cautela predisposta dalla parte offesa o intervento

successivo che abbia impedito la realizzazione (Sez. 5^, 22 febbraio 1983 n. 3315; Sez. 3^, 10 dicembre 1982 n. 1588; Sez. 5^, 20 maggio 1982 n. 5946;

Sez. 3^, 1 ottobre 1981 n. 10571; Sez. 5^, 3 febbraio 1981 n. 4624). Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali qui esposti non v'è dubbio che la

condotta dei componenti di un gruppo criminale che allo scopo di eliminare uno dei componenti del gruppo deliberano di ucciderlo e predispongono

l'organizzazione necessaria per l'esecuzione del delitto configura un tentativo di

omicidio.

Sussiste, infatti, in questa ipotesi l'idoneità dell'azione, da valutare ex ante in base alle prospettive di realizzazione che gli atti esecutivi di per sè

posseggono, indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei, nonchè in base all'efficienza causale che l'azione stessa dimostra.

E' altresì presente l'univocità degli atti compiuti, i quali sono

inequivocabilmente diretti a commettere il delitto di omicidio in danno della vittima designata.

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126

Ai suddetti principi di diritto deve uniformarsi la decisione e per conseguenza la

sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio sui capi impugnati.

Analoghi rilievi debbono essere mossi alla pronunzia di assoluzione dei due imputati minorenni in ordine al capo C, ossia al tentato omicidio di M.C. e di

T.F. al (OMISSIS), nella notte tra il (OMISSIS). In quella occasione, secondo il capo di imputazione i due imputati, in concorso con altri componenti del

gruppo, avevano appiccato il fuoco all'auto a bordo della quale si trovavano i due ragazzi da uccidere, collocando materiale esplodente nel condotto di

iniezione del carburante e non riuscendo nell'intento per cause indipendenti dalla loro volontà.

In relazione a tale episodio la Corte d'Appello aveva ritenuto che gli atti

compiuti non fossero idonei a provocare una deflagrazione tale da provocare la morte degli occupanti dell'auto, ovvero ad appiccare un incendio tale da

compromettere ogni possibilità di salvezza degli stessi occupanti.

Su tale capo C il P.M. deduce la mancanza e contraddittorietà della motivazione

in rapporto all'affermazione della Corte d'Appello secondo cui non si sarebbe raggiunta la soglia del tentativo punibile.

L'impugnazione del P.M. è fondata. Ritiene il Collegio che facendo uso degli

stessi principi sopra richiamati e riferiti all'episodio di cui al capo D la sentenza non ha approfondito in modo completo il tema dell'idoneità dell'azione, da

valutare ex ante in base alle prospettive di realizzazione che gli atti esecutivi di per sè posseggono, indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori

estranei, nonchè in base all'efficienza causale che l'azione stessa dimostra. Su tale punto, il ricorso della pubblica accusa ha richiamato non soltanto le

risultanze della perizia predisposta dall'ing. Ba., ma tutte le circostanze predisposte dai correi per ottenere il successo dell'agguato e cioè il

riempimento solo parziale del serbatoio del carburante, allo scopo di consentire la diffusione dei vapori di benzina e facilitare quindi la propagazione

dell'incendio; il posizionamento di petardi all'interno della vettura; la

conseguente emissione di fumi tossici che avrebbero provocato un serio impedimento per i due occupanti di potersi mettere in salvo; la induzione a

compiere un rapporto sessuale, allo scopo attenuare la vigilanza delle due vittime designate.

Anche su tali aspetti la sentenza impugnata non fornisce adeguate risposte e

merita quindi di essere annullata con rinvio per nuovo giudizio.

In relazione al ricorso nell'interesse di M.M.R., si osserva: quanto al primo motivo di ricorso, i provvedimenti da assumere in relazione alla inammissibilità

della impugnazione del P.M. sono precisati nella parte finale della presente sentenza, in funzione dell'accoglimento del presente ricorso.

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127

In relazione alla questione dell'assenza dei servizi minorili all'udienza avanti alla Corte d'Appello, si tratta di questione ritenuta superata dalla sentenza

impugnata dalla circostanza che nel frattempo il M.M.R. diventato

maggiorenne; sul punto, si tratta di valutazione in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto che la misura della sospensione

del processo e la messa alla prova di cui alla L. n. 448 del 1988, art. 28, in funzione della quale è richiesta la presenza al processo dei servizi sociali, è

applicabile anche nei riguardi degli imputati infradiciottenni al momento della commissione del reato, che siano divenuti maggiorenni alla data del

provvedimento di sospensione (Cass. Sez. 4^, 4 aprile 2003, ric. P.M. in proc. Orlati, RV 225587).

Si ritiene in ogni caso che la assenza dei servizi sociali alla udienza non dia

luogo a nullità, in conformità al principio di carattere generale della tassatività delle nullità e potendo in ogni caso il giudice avvalersi dei poteri di cui agli artt.

422 e 507 c.p.p. quando ritenga indispensabile la presenza dei servizi sociali.

La censura sul punto deve essere quindi disattesa.

I successivi rilievi riguardanti la mancata acquisizione dei verbali integrali degli

interrogatori degli imputati detenuti (terzo motivo) non hanno pregio: questa Corte ha già avuto modo di affermare il principio che "in tema di

documentazione dell'interrogatorio di persona detenuta, la sanzione di inutilizzabilità ex art. 141 bis cod. proc. pen. consegue alla mancata

riproduzione fonografica o audiovisiva dell'atto, ovvero alla ipotesi in cui, pure avvenuta tale riproduzione, manchi sia la sua trascrizione, che la redazione del

verbale in forma riassuntiva. La semplice mancata trascrizione del contenuto dell'interrogatorio registrato o filmato, in presenza della verbalizzazione

riassuntiva, non implica inutilizzabilità, anche nel caso in cui la suddetta trascrizione, in quanto richiesta dalla parte, costituisca obbligo per il giudice."

(Cass. Sez. 5^, 31 gennaio 2000 ric. Carboni, RV 215970).

Quanto al merito del ricorso, riguardante la valutazione degli elementi di

responsabilità a carico del M.M.R., il ricorso è fondato. La sentenza impugnata dà atto della esistenza di elementi di responsabilità anche a carico del M.M.R.,

sotto il profilo del concorso morale. Tali elementi sarebbero costituiti in primo luogo della presenza del M.M.R. alle riunioni nel corso delle quali fu assunta la

decisione di uccidere la M.C. e il T.; egli fu tenuto al corrente anche dello stato dei preparativi relativi al progetto e in particolare dello scavo della fossa dove i

due sarebbero stati sepolti. In secondo luogo egli avrebbe coadiuvato gli altri partecipi sia per intrattenere i due giovani sin tanto che si trovavano presso il

locale dove ebbe inizio la tragica serata (il (OMISSIS)), sia prestandosi alla successiva azione di copertura sino a passare il resto della notte a casa del L.P.

e simulare di attivarsi per cercare il T. dopo che i genitori si erano resi conto della sua scomparsa.

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128

La sentenza impugnata assume che tali elementi valgano a ritenere una presenza non soltanto passiva del M.M.R. all'interno del gruppo, ma che essa

abbia contribuito a rafforzare la volontà criminale degli altri compartecipi sia

nella fase preparatoria che in quella esecutiva, che in quella successiva di depistaggio delle indagini.

In realtà, secondo la linea assunta dalla difesa, dai risultati delle indagini

effettuate, la presenza del M.M.R. alle riunioni del gruppo criminale sarebbe stata soltanto occasionale e saltuaria, essendo egli coinvolto nella vicenda solo

in quanto legato al M.M. e al T., con i quali condivideva la passione per la musica e con i quali partecipava ad un gruppo musicale. La presenza del

M.M.R. ad alcune delle riunioni avrebbe consentito a questi di conoscere alcuni dei programmi criminali deliberati, ma non avrebbe prestato alcun contributo

per l'assunzione di tali decisioni. Anche le chiamate in correità del M.M., del V. e del G. sarebbero quanto mai vaghe e prive di indicazione di singoli elementi

individualizzanti ai fini della sua partecipazione al duplice omicidio.

Tali aspetti, sui quali era stata fondata la sentenza di primo grado, non hanno

trovato adeguato e soddisfacente approfondimento da parte di giudici dell'appello, soprattutto in relazione all'aspetto fondamentale della sussistenza

del comportamento non semplicemente passivo, di semplice connivenza, ma di contributo cosciente e volontario al fine di realizzare l'evento.

Nè risulta che la sentenza impugnata abbia sottoposto a critica le valutazioni

che avevano indotto il giudice di primo grado di decidere per l'assoluzione del M.M.R.: in relazione a tale aspetto è evidente la violazione del principio più

volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 2^, 12/12/2002, P.G. in proc. Contrada, rv. 225564; Sez. 4^, 29/11/2004, P.G. in proc.

Marchiorello, rv. 231136), per il quale il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, caratterizzata come nella specie da un

solido impianto argomentativo, "ha l'obbligo non solo di delineare con chiarezza le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio ma

anche di confutare specificamente e adeguatamente i più rilevanti argomenti

della motivazione della prima sentenza e, soprattutto quando all'assoluzione si sostituisca la decisione di colpevolezza dell'imputato, di dimostrarne con

rigorosa analisi critica l'incompletezza o l'incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente giustificata la riforma." (Cass, SS. UU. 12 luglio 2005 ric.

Mannino, RV 33748).

In relazione a tale aspetto il ricorso del M.M.R. deve essere quindi accolto, restando assorbiti gli altri motivi di ricorso.

A seguito della novella legislativa introdotta con L. 20 febbraio 2006, n. 46,

deve essere dichiarata, ai sensi della norma transitoria di cui all'art. 10, comma 4, l'inammissibilità dell'appello del P.M., con la conseguente notifica

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129

della presente sentenza al P.M. appellante, ai fini dell'eventuale ricorso per

Cassazione previsto dallo stesso art. 10, comma 3 (in tal senso: Cass. Sez. 1^, 10 maggio 2006, ne. Nardo e altri, RV 234096).

Si designa per il giudizio di rinvio relativo alla posizione di M.M. sui capi C e D la Corte d'Appello di Brescia, Sezione per i Minorenni, ai sensi dell'art. 623

c.p.p.. Detta norma non consente, infatti, di disporre il rinvio alla stessa sezione in diversa composizione e ai sensi dell'art. 58 dell'Ordinamento

giudiziario approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 in nessuna Corte d'Appello è prevista più di una Sezione per i Minorenni: ne deriva la necessità

di ordinare il rinvio alla Corte d'Appello più vicina, nella specie, la Corte d'Appello di Brescia.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Prima Penale, annulla nei confronti di

M.M.R. la sentenza impugnata; dichiara inammissibile l'appello del Pubblico Ministero e dispone la trasmissione del presente provvedimento, ai sensi della

L. n. 46 del 2006, art. 10, commi 2 e 4, al Procuratore della Repubblica presso

il Tribunale per i Minori di Milano e al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Milano.

Annulla la sentenza impugnata, limitatami ai capi c) e d), nei confronti di M.M.

e rinvia per nuovo giudizio sui capi predetti alla Sezione per i Minorenni presso la Corte d'Appello di Brescia.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2007

Il tentativo è punibile, ai sensi dell'art. 56 c.p., non solo quando l'esecuzione è compiuta, ma anche quando il soggetto agente ha posto

in essere uno o più atti, non necessariamente esecutivi, che indichino,

in modo non equivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto.

Cassazione penale, sez. II, sentenza 04.12.2012 n° 46776

Ritenuto in fatto

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130

1. Con sentenza in data 23/11/2011, la Corte di appello di Roma, confermava

la sentenza emessa dal Tribunale di Roma, in data 31/3/2011, a conclusione di

giudizio abbreviato, che aveva condannato D.F. alla pena di anni 2 e mesi 6 e

giorni 10 di reclusione ed Euro 1.060,00 di multa, nonché D.R.M. e D.S.A. alla

pena di anni 2 e mesi 6 di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa per concorso

nel reato di tentata rapina aggravata ed il D., altresì per porto ingiustificato di

coltello.

2. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l'atto d'appello, in

punto di sussistenza degli estremi della condotta punibile per il delitto di rapina

tentata e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la

penale responsabilità degli imputati in ordine ai reati loro ascritti ascritti, ed

equa la pena inflitta

3. Avverso tale sentenza propongono ricorso tutti e tre gli imputati per mezzo

dei rispettivi difensori di fiducia.

4. D.F. deduce violazione di legge, con riferimento agli artt. 56 e 628 cod. pen.

e vizio della motivazione. Al riguardo si duole che la Corte d'appello abbia

ritenuto sussistenti gli estremi della condotta punibile per il reato di rapina

tentata sulla base di mere congetture, poiché l'azione criminosa a cui si

accingevano i prevenuti al momento del loro arresto era finalizzata alla

realizzazione di un furto, non essendo contemplata la violenza.

5. D.R.M. solleva tre motivi di gravame con i quali deduce:

5.1 Violazione di legge con riferimento agli artt. 56 e 628 cod. pen. e vizio

della motivazione. Al riguardo eccepisce che nella fattispecie non sussistono gli

estremi della condotta punibile in ordine al tentativo di rapina poiché dagli atti

non emerge una chiara dimostrazione della direzione teleologia della volontà

dell'agente per l'assenza del requisito dell'univocità dell'azione. In particolare

eccepisce che dal posizionamento del furgoncino a diversi metri di distanza

dalla vetrina dell'ufficio postale non si può desumere sulla base di un giudizio,

ex ante, che l'azione del conducente del furgoncino fosse inequivocabilmente

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131

diretta all'immediato sfondamento della vetrina e non fosse invece diretta a

scardinare l'apparecchio bancomat, una volta usciti gli impiegati dall'ufficio

postale, e a caricarlo sul furgoncino.

5.2 Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio della motivazione

in ordine agli elementi integranti la fattispecie di cui all'art. 628 cod. pen. In

proposito eccepisce che non emergono elementi da cui si possa dedurre che

l'eventuale azione violenta mirante allo sfondamento della vetrina dell'ufficio

postale fosse destinata ad operare violenza contro le persone presenti,

piuttosto che contro le cose. Avendo la Corte d'appello precisato che l'intento

degli imputati era quello di: “lanciare a tutta velocità il furgone contro la

vetrata dell'ufficio ed approfittare dello sconcerto determinato da tale gesto”,

tale condotta non può integrare gli estremi dell'art. 628 cod. pen.

5.3 Con il terzo motivo deduce vizio della motivazione per travisamento del

fatto con riferimento a prove decisive. Al riguardo eccepisce che è priva di

fondamento la considerazione svolta dalla Corte territoriale che il furgone Fiat

fiorino era stato posizionato “in direzione delle vetrate dell'ufficio”, dal

momento che i rilievi fotografici mostrano che l'autoveicolo non era "puntato"

verso la vetrina. Eccepisce, inoltre che il D.R. non ha rimosso la transenna

tubolare che sbarrava l'accesso al vialetto che conduceva alla vetrata

dell'ufficio, poiché dai rilievi fotografici la transenna non risulta rimossa.

6. D.S.A. solleva tre motivi di gravame con i quali deduce:

6.1 Erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 56 cod. pen.

nonché in relazione alla mancata sussunzione della fattispecie concreta

nell'ipotesi di furto aggravato. Al riguardo eccepisce che nella fattispecie

concreta è del tutto assente il presupposto della minaccia o della violenza e che

non vi sono dati fattuali dai quali si possa desumere che i prevenuti fossero in

procinto di commettere una azione violenta.

6.2 Erronea applicazione della legge penale in relazione al mancato

riconoscimento della scriminante della desistenza volontaria, avendo il D.S.

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132

volontariamente rinunciato a portare avanti l'azione criminosa prima

dell'intervento dei Carabinieri.

6.3 Erronea applicazione della legge penale in relazione alla mancata

concessione delle attenuanti generiche.

Considerato in diritto

1. La questione centrale, posta alla base di tutti e tre i ricorsi, riguarda la

configurabilità come tentativo di rapina dell'azione degli imputati, interrotta

dall'intervento dei Carabinieri che hanno tratto in arresto i tre soggetti.

2. In punto di diritto, in ordine ai principi applicabili in tema di tentativo,

l'argomento è stato compiutamente esaminato da questa Sezione con la

sentenza n. 28213/2010, Rv. 247680 e, da ultimo, con la sentenza n.

36536/2011, (Rv. 251145) che ha testualmente rilevato quanto segue:

“L'art. 56 c.p., disciplina il tentativo nei delitti e, essendo una fattispecie

autonoma rispetto al reato consumato (ex plurimis Cass. 13/6/2001 riv

220330), richiede, come tutti i reati, la sussistenza sia dell'elemento soggettivo

che oggettivo.

L'elemento soggettivo è identico al dolo del reato che il soggetto agente si

propone di compiere.

L'elemento oggettivo, invece, presenta spiccate peculiarità in quanto ruota

intorno a tre concetti:

- l'idoneità degli atti;

- l'univocità degli atti;

- il mancato compimento dell'azione o il mancato verificarsi dell'evento.

3. La linea di demarcazione fra la semplice intenzione non punibile (secondo il

vecchio brocardo cogitationis poenam nemo patitur) e quella punibile si snoda

proprio attraverso l'esatta comprensione dei suddetti principi.

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133

4. Una premessa di natura sistematica: sebbene l'art. 56 c.p. sia l'unica norma

che disciplini espressamente il tentativo, tuttavia, utili argomenti si possono

trarre, ai fini sistematici, anche dall'art. 115 c.p. a norma del quale "qualora

due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non

sia commesso, nessuna di essa è punibile per il solo fatto dell'accordo".

5. La suddetta norma, evidenzia, quindi, in modo plastico, il principio secondo

il quale anche un semplice accordo a commettere un delitto (e, quindi, a

fortiori, il semplice averlo pensato) non è punibile (salva l'applicazione della

misura di sicurezza) ponendosi all'estremo opposto del delitto consumato.

6. Ma è proprio fra questi due estremi, ossia fra la semplice cogitatio o accordo

(non punibile) ed il delitto consumato che si colloca la problematica del delitto

tentato che consiste, appunto, nello stabilire quando un'azione, avendo

superato la soglia della mera cogitatio, pur non avendo raggiunto il suo scopo

criminoso, dev'essere ugualmente punibile.

Il codice penale del 1889 (cd. codice Zanardelli), influenzato dal codice

napoleonico, all'art. 61, punendo "colui che, al fine di commettere un delitto,

ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione", poneva la soglia di punibilità del

delitto programmato nel momento in cui l'agente avesse cominciato

l'esecuzione dell'azione: da qui, la distinzione fra atti preparatori non punibili

ed atti di esecuzione punibili.

7. La distinzione, però, creò notevoli problemi interpretativi tanto che il

legislatore del 1930 - peraltro anche per precise ragioni ideologiche -

abbandonò espressamente il suddetto criterio, introducendo l'attuale art. 56

c.p. che ruota intorno a due criteri:

l'idoneità e la inequivocità degli atti compiuti dall'agente, nel senso che solo

ove l'azione presenti le suddette caratteristiche, l'agente può essere punito a

titolo di tentativo.

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134

8. Il dibattito (dottrinale e giurisprudenziale), però, si è riacutizzato perché,

mentre prima la domanda era quali fossero i criteri per stabilire la differenza

fra atti preparatori (non punibili) ed atti di esecuzione (punibili), ora la

questione consiste nell'individuare la linea di confine che separa il semplice

accordo (o la mera cogitatio), non punibile, dagli atti idonei inequivoci, punibili.

In ordine al concetto di idoneità degli atti (e non del mezzo come prescriveva il

codice Zanardelli), l'opinione maggioritaria sia della dottrina che della stessa

giurisprudenza di questa Corte, è alquanto compatta nel ritenere che un atto si

può ritenere idoneo quando, valutato ex ante ed in concreto (cd. criterio della

prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e

conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (ed

criterio di valutazione su base parziale: ex plurimis Cass. 9/12/1996, Tansino,

rv 206562), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio,

possa ritenere che quegli atti - indipendentemente dall'insuccesso determinato

da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene

giuridico tutelato dalla norma violata: ex plurimis Cass. 40058/2008 riv

241649 (in motivazione) - Cass. 43255/2009 riv 245721 - Cass. 27323/2008

riv 240736 - Cass. 34242/2009 riv 244915. Tanto risulta confermato anche

dall'art. 49 c.p., comma 2 che è la norma speculare dell'art. 56 c.p. nella parte

in cui dispone la non punibilità per l'inidoneità dell'azione. Più controversa è la

nozione di univocità degli atti. Secondo una prima tesi: anche gli atti

preparatori possono configurare l'ipotesi del tentativo, allorquando essi

rivelino, sulla base di una valutazione ex ante e indipendentemente

dall'insuccesso determinato da fattori estranei, l'adeguatezza causale nella

sequenza operativa che conduce alla consumazione del delitto e l'attitudine a

creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene

protetto, dimostrando contemporaneamente, per la loro essenza ed il contesto

nel quale s'inseriscono, l'intenzione dell'agente di commettere il delitto (Cass.

27323/2008 riv. 240736 - Cass. 43255/2009 Rv. 245720). L'atto preparatorio

può integrare gli estremi del tentativo punibile, quando sia idoneo e diretto in

modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la

capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" e in relazione alle circostanze

del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente

diretto (Cass. 40702/2009 Rv. 245123).

9. È la cd. tesi soggettiva in base alla quale, appunto, la prova del requisito

dell'univocità dell'atto può essere raggiunta non solo sulla base dell'atto in sé

considerato ma anche aliunde e, quindi, anche sulla base di semplici atti

preparatori qualora rivelino la finalità che l'agente intendeva perseguire.

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135

10. Ad avviso, invece, di un'altra tesi: gli atti diretti in modo non equivoco a

commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli

atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di

esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o

vincolata, in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio,

ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; ne

consegue che non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori

(Cass. 9411/2010 Rv. 246620 - Cass. 40058/2008 cit. - Cass. 36283/2003 riv

228310 - Cass. 43406/2001 riv 220144). Se è vero, infatti, che il legislatore

del 1930, obbedendo a sollecitazioni politiche dell'epoca, aveva ritenuto di

allargare l'area del tentativo punibile redigendo il testo dell'art. 56 c.p., non è

men vero che gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno

dimostrato l'illusorietà del proposito che, con quel mezzo, si intendeva attuare.

Ciò perché atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto

possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto se l'idoneità di un atto

può denotare al più la potenzialità dell'atto a conseguire una pluralità di

risultati, soltanto dall'inizio di esecuzione di una fattispecie delittuosa può

dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato

criminoso voluto dall'agente (Corte Cost. 177/1980). È la cd. tesi oggettiva

secondo la quale gli atti possono essere considerati univoci ogni qualvolta,

valutati in quel singolo contesto, rivelano, in sé e per sé considerati,

l'intenzione dell'agente (cd. criterio di essenza). Per questa tesi, quindi, "la

"direzione non equivoca" indica, infatti, non un parametro probatorio, bensì un

criterio di essenza e deve essere intesa come una caratteristica oggettiva della

condotta, nel senso che gli atti posti in essere devono di per sé rivelare

l'intenzione dell'agente. L'univocità, intesa come criterio di "essenza", non

esclude che la prova del dolo possa essere desunta aliunde, ma impone

soltanto che, una volta acquisita tale prova, sia effettuata una seconda verifica

al fine di stabilire se gli atti posti in essere, valutati nella loro oggettività per il

contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura, siano in grado di rivelare,

secondo le norme di esperienza e l'id quod plerumque accidit, l'intenzione, il

fine perseguito dall'agente (Cass. 40058/2008 Cit).

11. È evidente il punto di frizione fra le due tesi. Infatti, mentre per la tesi

soggettiva, l'univocità va valutata sulla base delle circostanze concrete (con la

conseguenza che si determina, sul piano della repressione penale, un

arretramento della soglia di punibilità, in quanto anche gli atti in sé

preparatori, possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci), al

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contrario per la tesi oggettiva, l'univocità coincide con l'inizio degli atti tipici di

un determinato reato (con conseguente spostamento in avanti della soglia di

punibilità, escludendosi l'univocità negli atti meramente preparatori).

12. Questa Corte ritiene che la tesi cd. oggettiva non sia condivisibile perché,

riproponendo, di fatto, l'antica problematica di cui si discuteva sotto il codice

Zanardelli, opera un'interpretazione abrogans della nuova normativa, lasciando

insoluti, in specie per i reati a forma libera, quegli stessi interrogativi che

avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere radicalmente l'intera

normativa.

Infatti, nella Relazione al progetto definitivo al codice penale, si trova scritto:

"innovazioni radicali sono state introdotte nella disciplina del tentativo,

sopprimendo la distinzione tra atti preparatori e atti esecutivi".

Si ritiene, quindi, che la tesi più corretta sia quella soggettiva per i motivi di

seguito indicati.

13. Il punto di partenza, per una corretta esegesi dell'art. 56 c.p., non può che

essere il dato storico: come si è detto, fu proprio per evitare le incertezze

interpretative derivanti dall'individuare quali fossero i mezzi che potevano

essere considerati inizio dell'esecuzione criminosa (problema che diventava

quasi irresolubile nei reati a forma libera) che il legislatore del 1930 s'indusse

ad abbandonare la formula che parlava di "cominciamento" "mezzi"

"esecuzione".

Nel nuovo art. 56 c.p., infatti, non si parla più di mezzi ma di atti idonei (in

contrapposizione agli atti inidonei di cui all'art. 49 c.p., comma 2) e di azione

che non si compie o di evento che non si verifica. La terminologia adoperata

dal legislatore è molto importante: una cosa è parlare di cominciamento

dell'esecuzione con mezzi idonei, altro è parlare di azione non compiuta e di

atti idonei a commettere il delitto.

14. È evidente, infatti, l'arretramento della soglia di punibilità, laddove si

consideri che i termini "azione" ed "atti", indicano, proprio a livello semantico,

una maggiore estensione rispetto alla più ristretta categoria degli atti esecutivi.

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In altri termini, il legislatore ha focalizzato la sua attenzione non solo

sull'esecuzione ma anche sull'azione.

15. Ora, siccome l'azione è quell'attività umana composta da uno o più atti, ne

deriva, proprio sul piano logico (oltre che semantico) che il tentativo è punibile

non solo quando l'esecuzione è compiuta ma anche quando l'agente ha

compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo

inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto. Sul punto,

è lo stesso art. 56 c.p. che offre utili spunti di riflessione nella parte in cui

dispone che il delitto tentato si verifica in due ipotesi: 1) quando l'azione non si

compie (cd. tentativo non compiuto); 2) quando l'evento non si verifica (cd.

tentativo compiuto). Sebbene si sia soliti attribuire poca importanza alla

suddetta distinzione, in quanto la si assimila a quella del codice Zanardelli fra

"delitto tentato" e delitto mancato" (peraltro sanzionato più gravemente), il

dato di fatto semanticamente rilevante è che non si parla di "delitto tentato o

mancato" ma di azione non compiuta e di evento non verificatosi.

16. Il suddetto dato non può non avere una sua rilevanza giuridica. Infatti,

quando la legge adopera la locuzione "evento che non si verifica" è chiaro che

ipotizza il caso dell'agente che ha compito l'esecuzione degli atti tipici del

delitto programmato, ma che questo non si è verificato per un fatto

indipendente dalla sua volontà (ad es. l'agente ha sparato a Tizio ma questi,

all'ultimo momento, casualmente, si è spostato, facendo, quindi, fallire

l'attentato). Se, quindi, la legge ha già previsto la punibilità dell'esecuzione

degli atti di un delitto, quando prevede la punibilità anche dell'azione,

necessariamente non può che far riferimento ad un qualcosa che precede

l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che,

sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiamo l'astratta attitudine a

produrre il delitto programmato. L'azione, lo si ripete, è un termine molto

ampio ed indica il risultato finale del compimento di un atto o più atti, e

contiene, in sé, tutti gli elementi che consentono di affermare, sia pure ex

post, che quell'azione era idonea, ove portata a termine (rectius: eseguita) a

perpetrare il delitto programmato. Ciò, quindi, permette di affermare che ci si

trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia

approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia

iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e

propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma

incriminatrice.

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17. Quanto appena detto, trova una conferma negli speculari commi terzo e

quarto dell'art. 56 che, ancora una volta, confermano i due livelli del tentativo

punibile (sanzionati in modo differente): la desistenza dell'azione nel senso

sopra specificato, nel quale caso, la norma prevede che l'agente risponde degli

atti compiuti solo se questi costituiscano un reato diverso; l'impedimento, da

parte dell'agente, dell'evento determinato dal compimento degli atti esecutivi

veri e propri, nel quale caso, l'agente risponde pur sempre del tentativo,

sebbene con una diminuzione della pena.

18. È evidente, quindi, che, anche a livello sanzionatorio, la legge ha voluto

distinguere le due tipologie di tentativi che, se non vengono attuati per cause

indipendenti dalla volontà dell'agente, vengono puniti allo stesso modo (primo

comma), mentre se il delitto non si verifica per la resipiscenza dell'agente,

vengono sanzionati diversamente rendendo, pertanto, palese che l'azione che

non si compie (o dalla quale l'agente desiste) è un qualcosa che precede

l'evento che non si verifica (o compie).

19. Ed ulteriore conferma può trarsi dall'art. 49 c.p., comma 2 (che

rappresenta, per così dire, il lato speculare e contrario dell'art. 56 c.p.) che

esclude la punibilità per "l'inidoneità dell'azione" non degli atti esecutivi: il che

significa che, per stabilire se ci si trova di fronte ad un tentativo punibile, a

parte l'ipotesi del compimento degli atti esecutivi veri e propri (ipotesi

considerata espressamente, come si è detto, dall'art. 56 c.p., comma 1, ultima

parte), occorre aver riguardo più che all'idoneità dei singoli atti, all'idoneità

dell'azione valutata nel suo complesso così come appare cristallizzata in un

determinato momento storico, tenuto conto di tutti gli elementi esterni ed

interni, conosciuti e conoscibili. Solo se l'azione viene valutata unitariamente,

può aversi un quadro d'insieme dei singoli atti che, se valutati singolarmente,

possono anche sembrare in sé inidonei, ma che se inseriti in un più ampio

contesto, appaiono per quelli che sono, ossia dei singoli anelli di una più

complessa ed unica catena, l'uno funzionale all'altro per il compimento

dell'azione finale destinata a sfociare nella consumazione del delitto

programmato.

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20. Si può, quindi, concludere affermando che il legislatore del 1930,

arretrando la soglia di punibilità del tentativo, ha completamente ribaltato

l'impostazione del codice Zanardelli in quanto ora sono punibili non solo gli atti

di esecuzione veri e propri ma anche gli atti ad essi antecedenti che, per

comodità descrittiva, si possono continuare a chiamare ancora atti preparatori,

a condizione però che posseggano quelle caratteristiche si cui si è detto. Si

deve, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: "ai fini del tentativo

punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri propri del

delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti

preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo - di tempo - di mezzi

ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme dei

suddetti atti - abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo

programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno

dall'imminente progettato delitto e che il medesimo sarà commesso a meno

che non risultino percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità,

dovendosi, a tal fine, escludere solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti

dalla volontà del soggetto agente atteso che costui ha solo un modo per

dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza

volontaria (art. 56 c.p., comma 3) o il recesso attivo (art. 56 c.p., comma 4)”.

21. Tanto premesso in diritto, richiamata la dinamica dei fatti così come

accertata dai giudici del merito, le censure risultano infondate. In particolare

deve escludersi che vi sia stata violazione del principio di correlazione fra

l'accusa contestata ed il fatto ritenuto in sentenza. Infatti nel capo di

imputazione si contesta agli imputati che: “il D.R. si accingeva, alla guida del

veicolo Fiat Fiorino tg (omissis) a sfondare il vetro del predetto Ufficio, davanti

al quale si era posizionato lui nonché il D.S. ed il D., al fine, tutti, di minacciare

successivamente A.G., De.Ma.Ro. e N.G., addetti a tale ufficio postale che si

trovavano all'interno del medesimo, per farsi consegnare il denaro”. La Corte

territoriale ha preso in considerazione proprio il comportamento descritto nel

capo di imputazione, vaie a dire il fatto che gli imputati si apprestavano a

sfondare con il furgone, che aveva la mascherina appositamente rinforzata con

alcuni segmenti di tubi metallici, le vetrine dell'ufficio postale, osservando -

esattamente - che tale comportamento, anche se risolventesi in un danno alle

cose, costituiva obiettivamente una forma di intimidazione verso gli impiegati

presenti all'interno dell'ufficio postale, e specificando che si trattava di

un'azione preordinata: “ad incutere, in ragione delle sue eclatanti modalità di

manifestazione, un timore destinato a determinare una significativa

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intimidazione delle persone fisiche presenti nell'Ufficio, tale da indurle a

sottomettersi al volere degli imputati”.

Tali argomentazioni sono perfettamente logiche e danno ragione della

infondatezza della tesi difensiva che punta a riqualificare il fatto come tentativo

di furto aggravato per la violenza sulle cose. Le conclusioni assunte dalla Corte

d'appello sono coerenti con l'indirizzo giurisprudenziale di questa Corte che in

un caso simile (Cass. Sez. 7, Ordinanza n. 35619/2006) ha statuito che per la

configurabilità del reato di rapina (art. 628 cod. pen.), ad integrare l'elemento

della minaccia è sufficiente qualsiasi comportamento o atteggiamento verso il

soggetto passivo idoneo ad incutere timore e a suscitare la preoccupazione di

un danno ingiusto. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha

ritenuto correttamente configurato il reato di rapina in un caso in cui gli agenti,

allo scopo di impossessarsi del danaro custodito in un ufficio postale, vi si

erano introdotti sfondando un lucernaio e calandosi quindi con irruenza

all'interno, sì da indurre alla fuga, con tale condotta spavalda e dal preciso

significato intimidatorio, gli impiegati presenti).

22. Sono inammissibili, inoltre, le ulteriori censure sollevate dal ricorrente

D.R., in ordine a pretesi travisamenti della prova, sia in ordine alla direzione

del furgone che al fatto che costui avesse rimosso la sbarra che bloccava il

vialetto di accesso, trattandosi di censure in fatto che presuppongono una

rivalutazione degli elementi di prova non consentita in sede di ricorso per

cassazione.

23. Infine è inammissibile l'ulteriore censura sollevata da D.S. in punto di

mancata concessione delle attenuanti generiche, dal momento che la Corte

territoriale ha motivatamente respinto tale richiesta, richiamando “gli eloquenti

certificati penali degli imputati, tutti gravati da numerosi e gravissimi

precedenti per reati contro il patrimonio”.

24. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara

rigetta i ricorsi, gli imputati che li hanno proposti devono essere condannati al

pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

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Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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7) Violenza sessuale e chat

Michele è un signore di 42 anni. Michele spiava, con appostamenti e telecamere nascoste, la vita della

tredicenne Asia. Una sera, Michele dal proprio computer, contattava via chat Asia, chiedendole

di inviargli foto di nudo integrale in posizioni pornografiche; in difetto, Michele faceva presente che avrebbe comunicato ai genitori le sue uscite segrete, i

tatuaggi nascosti e l’utilizzo di spinelli. Asia, intimorita, inviava foto porno a Michele.

Il candidato, assunte le vesti di un legale, rediga motivato parere in ordine alla posizione giuridica di Michele.

Possibile soluzione schematica caso 7)

In premessa si poteva schematizzare il fatto.

Successivamente il discorso andava focalizzato sulla posizione giuridica di Michele:

costui è responsabile del reato di violenza sessuale? Si ritiene di poter rispondere positivamente, affermando l’integrazione della

fattispecie ex art. 609 bis e 609 ter, co.1, n. 1 c.p. perché: -vi è stata minaccia posta in essere da Michele, in quanto costui ha manifestato

l’intenzione di porre in essere una certa condotta, lesiva per la vittima, in caso di mancato ottemperamento alle richieste; pertanto, le affermazioni di Michele

hanno “costretto” la vittima a compiere atti sessuali; -sussistono gli atti sessuali, con riferimento alle posizioni pornografiche;

-il mezzo della chat diviene irrilevante, ai fini della fattispecie, visto che non vi è una precisa previsione nel codice, così che è sufficiente una qualsiasi forma.

E’ responsabile del reato di violenza sessuale aggravata, di cui agli

artt. 609 bis e 609 ter, co.1, n. 1 c.p. colui che dopo aver contattato via internet, mediante MSN, due minori, celando la sua vera identità, le

costringe con minaccia ad inviare foto e video dove sono ritratte nude ed in pose oscene.

Difatti al fine della configurazione della violenza può essere sufficiente

anche una semplice minaccia o intimidazione psicologica, attuata in situazioni particolari, tali da influire negativamente sul processo

mentale di libera determinazione della vittima.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

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Sentenza 26 marzo - 2 maggio 2013, n. 19033

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 18.6.2012, ha confermato la

decisione con la quale, in data 8.11.2011, a seguito di giudizio abbreviato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma aveva riconosciuto

F.L. responsabile dei reati di cui agli artt. 81 cpv, 609-bis, 609-ter comma 1 n. 1, 61 n. 11 e 600-quater cod. pen. perché, dopo aver contattato via internet,

mediante MSN, due minori infra-quattordicenni, celando la sua vera identità, le costringeva con minaccia ad inviare foto e video che le ritraevano nude ed in

pose oscene (atti masturbatori, inserimento nei genitali e nell'ano di dita ed oggetti, quali un piccolo rotolo di carta, un pennarello, il manico della spazzola

del wc) ed, inoltre, perché deteneva su supporto magnetico materiale video di contenuto pedo-pornografico.

Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione.

2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, rilevando che le frasi nelle quali i giudici del merito hanno

ravvisato la minaccia non avrebbero effettiva idoneità intimidatoria, tenuto conto del contenuto delle stesse e della assenza di contatto fisico, visivo o

verbale in ragione del mezzo telematico utilizzato.

3. Con un secondo motivo di ricorso lamenta che i giudici del merito avrebbero erroneamente negato il riconoscimento dell'attenuante di cui all'ultimo comma

dell'art. 609-bis cod. pen., disattendendo le specifiche doglianze difensive ed erroneamente valutando i mezzi, le modalità esecutive e le circostanze

dell'azione, stante la minore persuasività, immediatezza e capacità di intrusione nell'altrui sfera comunicativa del mezzo utilizzato per il compimento

dei fatti oggetto di contestazione.

4. Con un terzo motivo di ricorso denuncia la violazione dell'art. 600-quater

cod. pen., rilevando che il materiale pornografico rinvenuto sarebbe stato inconsapevolmente scaricato via internet e che mancherebbe comunque la

prova della minore età dei protagonisti dei filmati rinvenuti e del fatto che l'imputato li abbia effettivamente visionati.

5. Con un quarto motivo di ricorso rileva la violazione di legge in relazione alla

mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, che assume immotivata ed assunta senza considerare alcuni elementi positivi di

valutazione, quali modalità e ambito dei fatti, tenore delle ritenute minacce, corretto comportamento processuale, reiterata ammissione degli addebiti,

sostanziale incensuratezza ed invio di una richiesta di perdono manoscritta.

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Parimenti ritiene non giustificato il trattamento sanzionatorio in ragione delle

modalità di svolgimento dei fatti.

6. Con un quinto motivo di ricorso deduce l'erronea applicazione della disciplina

del reato continuato, non avendo i giudici del merito giustificato, nel determinare l'aumento, la corrispondenza della pena al singolo episodio

criminoso cui si riferisce ed avendo omesso ogni riferimento temporale ai singoli fatti, ritenuto rilevante perché alcuni video e foto sarebbero stati inviati

contestualmente o “per piacere”.

7. Con un sesto motivo di ricorso denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione al riconoscimento della circostanza aggravante di cui

all'art. 61 n. 11 cod. pen., dovendosi escluderne la sussistenza in assenza di una violenza fisica diretta consumatasi in un contesto reso possibile dalla

relazione domestica ed essendo smentita dalle risultanze istruttorie l'utilizzazione di riferimenti personali per favorire la commissione dei reati.

8. Con un settimo motivo di ricorso lamenta l'inosservanza di norme

processuali con riferimento alle costituzioni di parte civile, per essere le stesse

connotate da carenza di legittimazione ad agire dei difensori, ai quali sarebbe stato conferito il solo potere a costituirsi parte civile ai sensi degli art. 76 e 122

cod. proc. pen. e non il potere di rappresentanza processuale di cui all'art. 100 cod. proc. pen., potendosi rilevare, dal tenore degli atti, la mancanza di

volontà delle parti civili di conferire ai procuratori speciali il potere di farsi rappresentare anche processualmente.

Aggiunge che su uno degli atti mancherebbe anche la sottoscrizione del

difensore, non potendovi sopperire, come ritenuto dalla Corte territoriale, quella apposta per autentica, in quanto finalizzata solo a tale scopo.

9. Con un ottavo motivo di ricorso deduce, infine, l'inosservanza dell'art. 539

cod. proc. pen. in relazione alla quantificazione della provvisionale concessa alle parti civili.

Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.

10. In data 21.3.2013 la difesa dell'imputato ha depositato in cancelleria una memoria ad ulteriore conferma di quanto dedotto in ricorso. Altrettanto ha

fatto la difesa delle parti civili con memoria dell'11.3.2013, con la quale si evidenziano l'inammissibilità o l'infondatezza del ricorso.

Considerato in diritto

11. Il ricorso è infondato.

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Va preliminarmente rilevato che le censure mosse alla decisione impugnata

risultano sostanzialmente ripetitive rispetto alle questioni sollevate con l'atto di appello e puntualmente confutate dai giudici del gravame.

12. Quanto al primo motivo di ricorso, il ricorrente pone in discussione la idoneità delle minacce rivolte alle minori.

La decisione impugnata, pur legittimamente richiamando i contenuti della

decisione del primo giudice, ripropone un'accurata ricostruzione della vicenda, analizzando anche l'aspetto concernente le minacce rivolte alle minori per

indurle al compimento di atti sessuali, particolarmente mediante la diretta analisi del tenore delle conversazioni intercorse tra l'imputato e le minori, che

risulta integralmente documentato grazie al mezzo utilizzato e che viene frequentemente riprodotto testualmente in motivazione.

Evidenzia la Corte territoriale come l'imputato abbia ripetutamente mostrato,

nel corso delle conversazioni, di essere a conoscenza di informazioni personali sulle minori, rivolgendo ad una delle due, durante i numerosi contatti

telematici, precisi riferimenti sulle parentele ed il luogo di abitazione, lasciando

intendere che se non fossero state assecondate le sue richieste vi sarebbero state spiacevoli conseguenze, seppure genericamente rappresentate e che il

materiale già in suo possesso sarebbe stato divulgato.

Osservano a tale proposito i giudici del gravame che, in ragione della giovane età e dell'inesperienza delle vittime, è certa l'efficacia intimidatoria delle

espressioni utilizzate e che le stesse hanno effettivamente raggiunto lo scopo, tanto che le minori hanno ripetutamente assecondato le richieste loro rivolte.

Del resto, il tenore delle frasi riportate in sentenza è inequivoco e consente anche, come pure osservato in sentenza, di verificare come le riprese video e

le fotografie siano il risultato della coartazione della volontà conseguente alle minacce.

13. Le argomentazioni sviluppate dai giudici del gravame appaiono del tutto

adeguate, assistite da coerenza e scevre da contraddizioni oltre che

giuridicamente corrette.

Invero, costituisce principio consolidato quello secondo il quale per la minaccia è sufficiente che il male prospettato sia idoneo a incutere timore nel soggetto

passivo, menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale e che questi si sia sentito effettivamente intimidito (Sez. V 46528, 17 dicembre 2008; Sez.

VI n. 14628, 23 dicembre 1999 ed altre prec. conf.).

Con specifico riferimento al delitto di violenza sessuale, si è altresì specificato che l'elemento oggettivo del reato può consistere in qualsiasi intimidazione

psicologica che si ponga quale mezzo di pressione morale sull'animo della vittima e sia in grado di provocare la coazione della stessa a subire gli atti

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146

sessuali, cosicché la minaccia può ritenersi integrata dalla prospettazione di un

qualunque male che, in relazione alle circostanze che l'accompagnano, sia comunque tale da far sorgere nella vittima il timore di un pregiudizio concreto

(così Sez. III n. 37251, 1 ottobre 2008, ove si riteneva l'efficacia della

minaccia di esercitare un diritto e, segnatamente, un'azione di sfratto).

Si è affermato anche che, sempre nel reato di violenza sessuale, l'idoneità della minaccia a coartare la volontà della vittima deve esaminarsi non secondo

criteri astratti aprioristici, ma tenendosi invece conto, in concreto, di ogni circostanza oggettiva e soggettiva, con la conseguenza che anche una semplice

minaccia o intimidazione psicologica, attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della

vittima, può esser sufficiente ad integrare, senza necessità di protrazione nel corso della successiva fase della condotta tipica dei reati in esame, gli estremi

della violenza (Sez. III n. 35863, 25 ottobre 2002; Sez. III n. 1911, 21 febbraio 2000).

È stata inoltre ritenuta minaccia idonea anche quella di diffusione di materiale

compromettente costituito da un fotomontaggio ritraente la vittima in pose

oscene (Sez. III n. 34128, 12 ottobre 2006).

14. Quanto al secondo motivo di ricorso deve ricordarsi come questa Corte abbia avuto modo di osservare che l'attenuante di cui all'ultimo comma

dell'articolo 609-bis cod. pen. può essere applicata allorquando vi sia una minima compressione della libertà sessuale della vittima, accertata prendendo

in considerazione le modalità esecutive e le circostanze dell'azione attraverso una valutazione globale che comprenda il grado di coartazione esercitato sulla

persona offesa, le condizioni fisiche e psichiche della stessa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all'età, l'entità della lesione alla libertà

sessuale ed il danno arrecato, anche sotto il profilo psichico (Sez. III n. 45604, 6 dicembre 2007; Sez. III n. 1057, 17 gennaio 2007; Sez. III n. 40174, 6

dicembre 2006).

Ciò posto, deve ricordarsi che, per l'applicazione dell'attenuante in questione,

non è sufficiente la mancanza di congiunzione carnale tra l'autore dei reato e la vittima (Sez. III n. 10085, 6 marzo 2009; Sez. III n. 14230, 4 aprile 2008) ed

è pertanto evidente che anche la circostanza di una eventuale comunicazione a distanza senza alcun contatto fisico tra autore del reato e soggetto passivo non

assume, di per sé, rilievo determinante, ma deve essere valutata unitamente agli altri elementi che la richiamata giurisprudenza individua tra quelli da

considerare.

15. Nella fattispecie, i giudici del gravame, nel valutare la specifica doglianza dell'appellante sul punto, riproposta in ricorso, hanno opportunamente tenuto

conto delle modalità di svolgimento dei fatti, connotati da particolare insistenza ed invasività e chiaramente indirizzati anche ad ottenere contatti fisici diretti

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con una delle minori, indicando testualmente i brani di conversazione dalle

quali detto intento era immediatamente percepibile.

Hanno inoltre giustamente escluso che il mezzo utilizzato per realizzare il reato

dovesse ritenersi scarsamente intrusivo come sostenuto dall'appellante.

16. Tale rilievo appare del tutto corretto, atteso che il mezzo informatico e le comunicazioni mediante “chat” o “social network”, rendono particolarmente

agevole l'approccio anche con soggetti con i quali il contatto diretto o attraverso altri mezzi di comunicazione sarebbe senz'altro più difficoltoso, non

essendo necessario disporre, ai fini di tale contatto, di dati personali (identità, indirizzo, numero telefonico etc.) e potendosi raggiungere l'interlocutore anche

attraverso una semplice ricerca o l'utilizzazione dei sistemi utilizzati dalle singole piattaforme per mettere in contatto tra loro gli utenti. Rilievo non

minore assume, inoltre, la velocità delle comunicazioni e la possibilità di inviare fotografie e riprese video, anche contestualmente alla loro realizzazione,

attraverso dispositivi portatili.

Di ciò ha tenuto conto la Corte territoriale, evidenziando come alcuni filmati di

contenuto osceno siano stati realizzati dalle minori all'interno dell'istituto scolastico da loro frequentato.

Altri elementi correttamente valutati nel provvedimento impugnato, ai fini

dell'esclusione dell'attenuante, riguardano l'età adolescenziale delle vittime, l'uso di un linguaggio particolarmente esplicito, la reiterazione nel tempo dei

reati e la evidente compressione della libertà sessuale delle persone offese. Il diniego appare, pertanto, pienamente giustificato.

17. Quanto al terzo motivo di ricorso, deve rilevarsi che esso è genericamente

formulato e si fonda sull'apodittica affermazione che i file di contenuto pedo-pornografico sarebbero stati erroneamente scaricati da internet, che non vi

sarebbe la prova della minore età dei protagonisti e della loro effettiva visualizzazione da parte del detentore.

Anche in questo caso i giudici del merito non sono incorsi nella violazione denunciata, avendo correttamente valutato il materiale probatorio acquisito e

risultando dal provvedimento impugnato che i filmati, opportunamente conservati e catalogati, avevano un titolo inequivocabile, riportato nel capo di

imputazione, ove si rileva anche l'indicazione dell'età dei soggetti ripresi, constatata dai giudici mediante diretta visione. Tra questo materiale, inoltre,

era anche presente una cartella contenente 11 foto e 15 video realizzati da una delle persone offese.

Risultava dunque provata la consapevole detenzione idonea a configurare il

reato.

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18. Parimenti infondato risulta il quarto motivo di ricorso.

Occorre ricordare che la concessione delle attenuanti generiche presuppone la

sussistenza di positivi elementi di giudizio e non costituisce un diritto

conseguente alla mancanza di elementi negativi connotanti la personalità del reo, cosicché deve ritenersi legittimo il diniego operato dal giudice in assenza

di dati positivi di valutazione (Sez. III n. 19639, 24 maggio 2012; Sez. I n. 3529, 2 novembre 1993; Sez. VI n. 6724, 3 maggio 1989; Sez. VI n. 10690,

15 novembre 1985; Sez. I n. 4200, 7 maggio 1985).

Inoltre, riguardo all'onere motivazionale, deve ritenersi che il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli,

dedotti dalle parti o risultanti dagli atti, ben potendo fare riferimento esclusivamente a quelli ritenuti decisivi o, comunque, rilevanti ai fini del

diniego delle attenuanti generiche (v. Sez. II n. 3609, 1 febbraio 2011; Sez. VI n. 34364, 23 settembre 2010), con la conseguenza che la motivazione che

appaia congrua e non contraddittoria non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, neppure quando difetti uno specifico apprezzamento per ciascuno

dei reclamati elementi attenuanti invocati a favore dell'imputato (Sez. VI n.

42688, 14 novembre 2008; Sez. VI n. 7707, 4 dicembre 2003).

Nella fattispecie, i giudici del gravame hanno affermato di condividere le valutazioni del primo giudice, il quale aveva escluso la concedibilità delle

invocate attenuanti sulla base della quantità di materiale pedo-pornografico detenuto, del comportamento tenuto in concreto e rilevando che la dedotta

incensuratezza risultava smentita da due precedenti penali, ancorché non specifici, mentre, al fine della valutazione della condotta successiva al reato

posta in evidenza dalla difesa, doveva tenersi conto anche del tempo trascorso dalla commissione dei fatti.

Si tratta, ad avviso del Collegio, di motivazione perfettamente aderente ai

principi richiamati.

19. Parimenti corretta risulta l'applicazione della disciplina del reato continuato,

oggetto di contestazione nel quinto motivo di ricorso.

In tema di determinazione della pena nel reato continuato non vi è alcun obbligo di autonoma e specifica motivazione per gli aumenti di pena a titolo di

continuazione, dovendosi fare riferimento alle ragioni poste a sostegno della quantificazione della pena base (Sez. V n. 27382, 13 luglio 2011; Sez. V n.

11945, 19 ottobre 1999; Sez. III n. 3034, 10 novembre 1997).

Nella fattispecie, la Corte di appello ha fatto specifico riferimento alla determinazione della pena nel suo complesso operata dal primo giudice,

peraltro non limitandosi ad un mero richiamo, ma ribadendo la valutazione di

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congruità sulla base della gravità dei fatti e del pregiudizio materiale e

psicologico subito dalle persone offese.

20. Per quanto riguarda, invece, il sesto motivo di ricorso, deve osservarsi che

l'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 cod. pen. deve ritenersi sussistente allorquando l'abuso della relazione agevoli comunque la commissione del reato.

Con specifico riferimento ad una ipotesi di violenza sessuale, questa Corte ha

già avuto modo di rilevare che nell'abuso di relazioni domestiche rientri anche il rapporto di abituale frequentazione dell'abitazione della vittima da parte del

reo (Sez. III n. 27044, 13 luglio 2010, citata anche nella sentenza impugnata).

Sostiene il ricorrente che l'assenza, nella fattispecie, di violenza fisica diretta e la mancanza di prova in ordine alla utilizzazione di riferimenti personali

sarebbero ostative all'applicazione dell'aggravante.

L'assunto risulta, tuttavia, infondato, avendo i giudici del merito chiarito che l'imputato intratteneva una relazione sentimentale con la sorella del padre di

una delle minori e ne frequentava l'abitazione ed ha utilizzato per la

commissione del reato, come emerge dal tenore delle conversazioni documentate, le informazioni di cui disponeva in ragione di tale frequentazione

al fine di rafforzare le minacce utilizzate per vincere la resistenza delle giovani vittime, facendo così riferimento ai nomi dei familiari, alla scuola frequentata,

all'ubicazione delle loro abitazioni.

Tali circostanze pacificamente evidenziano come la relazione intrattenuta con la famiglia di una delle persone offese abbia senz'altro facilitato la commissione

del reato, favorendo i primi contatti e rendendo maggiormente credibili le minacce rivolte alle minori.

21. Infondato è pure il settimo motivo di ricorso come emerge dalla semplice

lettura della documentazione allegata, seppure solo in parte, al ricorso.

Lamenta il ricorrente che ai difensori di parte civile sarebbe stata conferita

procura speciale ma non sarebbero stati investiti del potere di rappresentanza processuale di cui all'art. 100 cod. proc. pen., tuttavia il conferimento del

mandato emerge chiaramente dal tenore della procura speciale, laddove, in un caso, si afferma “... conferisce al nominato procuratore e difensore ogni più

ampia facoltà di legge” e, nell'altro “...con ogni facoltà di legge, ivi compresa quella di essere rappresentati e difesi, nominare sostituti processuali, redigere

e depositare i motivi di impugnazione...”.

Del tutto correttamente, pertanto, l'eccezione è stata respinta dai giudici del merito, i quali non sono incorsi nel vizio denunciato neppure con riferimento

alla ulteriore eccezione concernente la mancata sottoscrizione di uno degli atti di costituzione di parte civile il quale, come osservato nella sentenza

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impugnata, reca invece la sottoscrizione per autentica delle firme che, apposta

in fondo all'atto, può pacificamente ritenersi estesa al suo intero contenuto.

22. Anche con riferimento all'ottavo motivo di ricorso deve pervenirsi ad un

giudizio di infondatezza.

Il ricorrente pone infatti in discussione l'assegnazione della provvisionale e la sua quantificazione, ma, come si è ripetutamente affermato, il provvedimento

di condanna generica al risarcimento del danno e di assegnazione alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva non è impugnabile

per cassazione in quanto non suscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (Sez. IV n.

34791, 27 settembre 2010; Sez. V n. 5001, 7 febbraio 2007; Sez. V n. 40410, 15 ottobre 2004; Sez. IV n. 36760, 17 settembre 2004; Sez. V n. 4973, 31

gennaio 2000).

23. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili

costituite nel grado che liquida in complessivi Euro 3.000,00 oltre ad accessori di legge.

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8) Colpa per assunzione e specializzando

Francesco è medico specializzando in chirurgia presso l’ospedale Alfa. Francesco assisteva ad un’operazione chirurgica difficile, che effettuava il

primario Enzino, sul paziente Asterix. Durante l’operazione, Enzino aveva un “attacco di stanchezza” e chiedeva a

Francesco di proseguire da solo il difficile intervento. Francesco immaginava di poter proseguire l’operazione su Asterix.

Enzino si fidava e si allontanava per prendere un caffè. Francesco poneva in essere una condotta errata, cagionando la morte di

Asterix. Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Francesco.

Possibile soluzione schematica caso 8)

In premessa poteva essere schematizzato il fatto.

Successivamente bisognava chiedersi: è responsabile Francesco per la morte di Asterix?

L’eventuale responsabilità concorsuale di Enzino doveva passare in secondo piano perché la traccia pretende di esaminare la posizione giuridica di

Francesco. Potrebbe ipotizzarsi un’assenza di colpa in capo a Francesco che, in quanto

specializzando, non è tenuto ad eseguire direttamente operazioni e neanche a saperle tutte eseguire.

Tuttavia, sussiste il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p. perché: -sul piano oggettivo, la condotta errata di Francesco ha causato la morte di

Asterix; -sul piano soggettivo, Francesco ha agito con colpa, consistita nell’aver

accettato un incarico che “immaginava di poter proseguire” diversamente da

quello che concretamente ha fatto; una colpa per negligenza/imperizia da assunzione.

Pertanto, si poteva concludere predicando la responsabilità suddetta in capo a Francesco, eventualmente precisando che in via concorsuale potrebbe

risponderne anche Enzino, sub specie di culpa in eligendo.

Il medico specializzando non è presente nella struttura per la sola

formazione professionale, la sua non è una mera presenza passiva nè lo specializzando può essere considerato un mero esecutore d'ordini

del tutore anche se non gode di piena autonomia; si tratta di un'autonomia che non può essere disconosciuta, trattandosi di persone

che hanno conseguito la laurea in medicina e chirurgia e, pur tuttavia, essendo in corso la formazione specialistica, l'attività non può che

essere caratterizzata da limitati margini di autonomia in un'attività

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152

svolta sotto le direttive del tutore. Ma tale autonomia, seppur

vincolata, non può che ricondurre allo specializzando le attività da lui compiute; e se lo specializzando non è (o non si ritiene) in grado di

compierle deve rifiutarne lo svolgimento perchè diversamente se ne

assume le responsabilità (c.d. colpa per assunzione ravvisabile in chi cagiona un evento dannoso essendosi assunto un compito che non è in

grado di svolgere secondo il livello di diligenza richiesto all'agente modello di riferimento). Pertanto sussiste la responsabilità

professionale sia per i medici strutturati che per gli specializzandi.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 17-01-2012) 22-02-2012, n. 6981

Svolgimento del processo

V.G. e G.A.S., venivano condannati alla pena di mesi tre di reclusione per

ognuno, con i benefici di legge, oltre al pagamento delle spese di costituzione di parte civile ed al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede, fatta

eccezione per una provvisionale di Euro 50.000,00 posta a carico di ciascuno

degli imputati, con sentenza del Tribunale di Isernia, in composizione monocratica, in data 6 aprile 2010 (che al contempo assolveva il Professor Gu.,

capo dell'equipe nella quale prestava servizio la G.), per avere ciascuno concorso, con condotte colpose indipendenti ex art. 113 c.p., alla produzione di

lesioni personali gravissime a danno del minore T.A., nato il giorno (OMISSIS). Il primo imputato, in particolare, nella qualità di medico radiologo in servizio

presso l'ospedale di (OMISSIS), sottopose a TAC il minore medesimo, in data (OMISSIS), redigendo un referto secondo cui non si riscontravano

"...alterazioni apprezzabili densitometriche nè processi espansivi dei parenchima cerebrale", nonostante la radiografia effettuata, mostrasse con

evidenza la presenza di un processo espansivo intracranico, nella regione immediatamente sovrastante la sella turcica, ovvero un tumore del tipo

craniofaringioma, che si trovava allo stadio iniziale.

Alla seconda imputata, invece, quale sanitario dell'equipe guidata dal Dr. Gu.,

che ebbe in cura il paziente con visite ambulatoriali dal (OMISSIS) al (OMISSIS) presso il Centro Cefalee del Policlinico di Roma, veniva contestato di

non avere svolto i necessari approfondimenti diagnostici nè esaminato i precedenti referti, nonostante lo strabismo e le persistenti cefalee lo

rendessero opportuno, in tal modo formulando per il piccolo T., diagnosi improprie e prescrivendo cure inadeguate.

Il concomitante apporto di tali condotte testè riassunte aveva determinato,

secondo l'impostazione accusatoria, un accrescimento considerevole della massa tumorale, quando, a ben a tre anni di distanza dalla TAC effettuata dal

V., il T., per qualche mese in cura dalla G. nell'istituto di (OMISSIS), dovette essere sottoposto a ripetuti delicati e difficili interventi chirurgici, presso la

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153

"Neuromed" di (OMISSIS); interventi i quali, pur correttamente eseguiti,

proprio per le notevoli dimensioni raggiunte dalla massa tumorale (accresciutasi dal (OMISSIS) al (OMISSIS) da 1 a circa 6 centimetri),

cagionavano al minore le lesioni gravissime rubricate in imputazione ex art.

590 c.p., e consistite in danni neurologici costituiti dalla perdita del senso della vista e dall'indebolimento permanente dell'organo della deambulazione e di

quello della prensione.

La Corte di Appello di Campobasso, con sentenza in data 7.7.2011, parzialmente riformava quella predetta, riducendo la pena inflitta ai due

imputati a mesi due di reclusione per la G. e a mesi due e giorni 15 di reclusione per il V..

Avverso tale sentenza ricorrono per cassazione i rispettivi difensori di fiducia di

V.G. e G.A.S..

Nell'interesse della G. si deducono, in sintesi, i seguenti motivi.

1. Il difetto ed illogicità della motivazione circa la ritenuta differenziazione della

posizione della prevenuta da quella del coimputato V. solo per il grado della colpa ritenuto minore per la G., atteso che la sentenza aveva poi rinviato per la

G. alla motivazione svolta per la posizione del V..

2. L'inosservanza della legge penale per violazione degli artt. 40 e 41 c.p. attesa l'erronea formulazione del giudizio controfattuale con riferimento alla

condotta dell'imputata, non tenendo affatto conto delle dichiarazioni testimoniali di tutti i medici della Neuromed di (OMISSIS) che avevano

affermato che un intervento chirurgico effettuato qualche mese prima non avrebbe cambiato nulla circa le conseguenze riportate dalla parte offesa, a

differenza di un intervento operato qualche anno prima e della circostanza, riferita sempre dagli stessi, relativa allo sviluppo del tumore come ad

evoluzione lenta.

3. La violazione di legge in relazione al D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368 che,

all'art. 38, prescrive che l'attività formativa e assistenziale dei medici in formazione specialistica si svolge sotto la guida di tutori. Essendo stato

prosciolto il tutor, la condanna del medico specializzando obbligava alla stesura di una motivazione congrua che la Corte territoriale aveva omesso.

4. Rappresenta, infine, il decorso del termine prescrizionale.

Nell'interesse del V. si articolano, in sintesi, le seguenti censure.

1. La violazione di legge per inosservanza dell'art. 129 c.p.p., per la tardività

della querela e conseguente improcedibilità del giudizio.

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2. La mancanza o insufficienza della prova con richiamo all'art. 606 comma 1

lett. b) e d). Assume che nel caso di specie, trattandosi di atto medico di rilevante complessità la colpa per imperizia ascrivibile al dr. V. risultava

configurabile solo se riguardante un livello di inadeguatezza per così dire

qualificata, secondo quanto prescritto dall'art. 2236 c.c. e che, quanto al nesso causale, era stata totalmente elusa dalla sentenza impugnata l'eventuale

esistenza di eventuali fattori alternativi, la cui riscontrata presenza impediva di ritenere dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, il nesso causale della

condotta.

3. La contraddittorietà ed erronea valutazione dei fatti, essendosi basata sulle affermazioni del Prof. Z. consulente dette parti civili, che si era dovuto

rivolgere ad neuroradiologo di fiducia per individuare nella TAC effettuata dal V. la rilevabilità del tumore, mentre il dr. C. (teste indicato dalle parti civili)

aveva ammesso che il neuroradiologo ha una competenza in materia specifica e superiore a quella del comune radiologo, quale il V..

4. Si ribadisce l'eccepita nullità originaria ex art. 546 c.p.p., lett. e) per difetto

di motivazione della sentenza di primo grado ed in via derivata della sentenza

di appello. Motivi della decisione

I ricorsi sono infondati e vanno respinti.

Preliminarmente, si deve rilevare che il termine prescrizionale per il reato

contestato, di sette anni e sei mesi, di cui è stato eccepito l'avvenuto decorso dalla difesa della G., a causa del periodo di sospensione di mesi 5 e giorni 2,

non è ad oggi spirato (venendo, infatti, a compimento il 12.2.2012).

Inoltre, quanto alla pretesa tardi vita della querela, dedotta dalla difesa del V., la censura è aspecifica essendosi limitata a riproporre in questa sede

pedissequa mente la medesima doglianza già rappresentata sia in sede di appello sia finanche in primo grado e da entrambi i giudici di merito disattesa

con motivazione ampia e congrua, immune da vizi ed assolutamente plausibile

(pagg. 13-15 della sentenza del Tribunale e pagg. 11-12 di quella impugnata) che hanno ricondotto al 21.6.2004, data della chiara relazione del Prof. C., il

momento in cui i genitori esercenti la potestà sulla persona offesa hanno avuto piena e completa conoscenza del fatto reato astrattamente ascrivibile al V.

nella sua "dimensione soggettiva ed oggettiva". Onde correttamente è stata ritenuta la tempestività della querela del 29.7.2004. Ed è stato affermato che

nè inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute Infondate dal giudice del gravame,

dovendosi gli stessi considerare non specifici.

La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di

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155

correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle

poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità

conducente, a mente dell'art. 591, comma 1 lett. c), all'inammissibilità" (Cass.

pen. Sez. 4, 29.3.2000, n. 5191).

Quanto alle censure di carenza motivazionale si rammenta che il nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio

2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la

fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva,

non è tuttora consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove

acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il novum normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo

della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova", finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale:

cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere ad una inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere

in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all'interno della

decisione (Cass. pen. Sez. 5, n. 39048 del 25.9.2007, Rv. 238215).

Ciò peraltro vale nell'ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell'ipotesi di doppia pronunzia conforme, come nel caso di

specie per quel che concerne la ritenuta penale responsabilità, il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità,

salva l'ipotesi in cui il giudice d'appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non

esaminati dal primo giudice (Cass. pen., sez. 2, 15.1.2008, n. 5994; Sez. 1, 15.6.2007, n. 24667, Rv. 237207; Sez. 4, 3.2.2009, n. 19710, Rv. 243636),

evenienza non verificatasi nel procedimento in esame. Ancora, va rammentato

(con particolare riguardo alle censure sub 2 di entrambi i ricorsi), che "nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere

un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che,

anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo

convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive

che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata e ravvisare, quindi, la superfluità delle deduzioni

suddette" (Cass. pen. Sez. 4, 24.10.2005, n. 1149, Rv. 233187).

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Per il resto, nettamente infondate s'appalesano le censure sub 2) e 3)

nell'interesse della G. e quelle sub 3) e 4) nell'interesse del V., tenuto conto delle esaurienti argomentazioni addotte in ordine al ravvisato nesso eziologico

tra condotte ed evento sulla scorta dei principi della nota sentenza c.d.

"Franzese" ed in particolare del corretto giudizio controfattuale svolto alla luce

delle deposizioni dei dottori Ca. e C. della Neuromed che operarono il T., essendo pacifico l'andamento ingravescente della patologia riscontrata e la

possibilità di successo terapeutico dipendente dalla tempestività dell'intervento chirurgico.

E' palese, inoltre, il contenuto prettamente generico del riproposto motivo sub

4) nell'interesse del V. (v. pag. 14 sent. impugnata), escludendosi in radice la ricorrenza nel caso di specie della ventilata Ipotesi della c.d. "motivazione

apparente", ravvisabile soltanto quando sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere o di asserzioni

apodittiche o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata

sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente (Cass. pen. Sez. 5, n.

24862 del 19.5.2010, Rv. 247682). Si evidenzia, ancora, l'infondatezza delle censure sub 2) e 3) del ricorso del V., dal momento che il Giudice a quo, sulla

scorta della non meno attenta ed approfondita motivazione della sentenza di primo grado e della relazione del Prof. C., ha non solo evidenziato che il dr. V.

aveva omesso di diagnosticare al piccolo T. "lo slargamento della regione sellare all'interno della quale era presente un tessuto con pareti calcifiche ed a

contenuto pseudo cistico con la componente posteriore più voluminosa..." (pag. 15 sent.) ma altresì evidenziato che la detta omissione diagnostica

andava ritenuta sicuramente macroscopica, secondo quanto correttamente rilevato dal consulente di parte civile Z.P. ed escluso che l'eventuale rarità

della patologia potesse confondersi con la difficoltà della diagnosi. E, sulla scorta dei rilievi dello stesso consulente della difesa, dr. F., i giudici di merito

sono giunti ad affermare che il V. disponeva di tutte le cognizioni necessarie per l'effettuazione di una corretta diagnosi, in tal modo escludendo la necessità

a tal fine di una peculiare ed ulteriore specializzazione. Peraltro, la Corte

territoriale ha puntualizzato come nel caso di specie non possa trovare applicazione in sede penale il principio civilistico della colpa grave sancito

dall'art. 2236 c.c. (Cass. pen. Sez. 4, n. 46412 del 28.10.2008, Rv.

242251).

Analoghe considerazioni (pagg. 19-25, non meno approfondite e puntuali di quelle svolte dal Tribunale nella sentenza di 1^ grado a pagg. 19-31, dalle

quali si evince il grado macroscopico dell'errore della G., laddove trascrisse in modo del tutto difforme la diagnosi oculistica della dr.ssa Cr., particolarmente

significativi delle implicazioni che comportano le vantazioni prettamente neurologiche di competenza della ricorrente che neppure valutò correttamente

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- senza nutrire il minimo sospetto di anomalie in atto, come dalla stessa

sostanzialmente ammesso - quegli ulteriori dati dalla medesima imputata annotati in cartella clinica circa la sintomatologia - cefalee, risvegli notturni e

vomito - lamentata dal piccolo paziente) sono state correttamente svolte in

relazione alla G., che, ormai prossima alla specializzazione, non aveva rifiutato l'incarico affidatole: di qui la "c.d. colpa per assunzione". In proposito è stato

affermato che "Il medico specializzando non è presente nella struttura per la sola formazione professionale, la sua non è una mera presenza passiva nè lo

specializzando può essere considerato un mero esecutore d'ordini del tutore anche se non gode di piena autonomia; si tratta di un'autonomia che non può

essere disconosciuta, trattandosi di persone che hanno conseguito la laurea in medicina e chirurgia e, pur tuttavia, essendo in corso la formazione

specialistica, l'attività non può che essere caratterizzata da limitati margini di autonomia in un'attività svolta sotto le direttive del tutore. Ma tale autonomia,

seppur vincolata, non può che ricondurre allo specializzando le attività da lui compiute; e se lo specializzando non è (o non si ritiene) in grado di compierle

deve rifiutarne lo svolgimento perchè diversamente se ne assume le responsabilità (c.d. colpa per assunzione ravvisabile in chi cagiona un evento

dannoso essendosi assunto un compito che non è in grado di svolgere secondo

il livello di diligenza richiesto all'agente modello di riferimento). Pertanto sussiste la responsabilità professionale sia per i medici strutturati che per gli

specializzandi" (Cass. pen., Sez. 4, 10.12.2009, n. 6215, non massimata nel CED e richiamata in sentenza).

Consegue il rigetto del ricorsi e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei

ricorrenti al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese di questo giudizio in favore delle parti civili liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese in favore delle parti civili che liquida in

complessivi Euro 3.500,00 oltre accessori come per legge.

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9) Attività sportiva e scriminante non codificata

Tizio giocava spesso a calcetto. Tizio è fidanzato con Michela.

Tizio veniva a sapere che Troglodito aveva intrattenuto un rapporto sessuale con Michela.

Una sera, Tizio e Troglodito si trovavano a giocare una partita di calcetto, in squadre diverse.

A Tizio veniva concesso un tiro di punizione; nella “barriera” veniva collocato Troglodito.

Tizio, volontariamente, prendeva di mira il viso di Troglodito; tirava la punizione - con una violenza inaudita - e colpiva in faccia Troglodito, che

cadeva a terra battendo la testa. Troglodito andava in coma e ne usciva dopo un mese.

Tizio si recava da un legale per avere lumi circa la sua posizione giuridica.

Il candidato rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla sua attenzione.

Possibile soluzione schematica caso 9)

In premessa si poteva schematizzare il fatto. Successivamente si poteva accennare al problema della scriminante

dell’esercizio dell’attività sportiva: -per l’orientamento minoritario si tratta di una scriminante codificata rientrante

nel consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p., oppure nell’esercizio del diritto ex art. 51 c.p.;

-per l’orientamento prevalente si tratta di una scriminante non codificata

rientrante nell’accettazione del rischio consentito (una sorta di teoria mista tra consenso dell’avente diritto ed esercizio del diritto); non è possibile riferirsi

solo all’art. 50 c.p., perché sarebbe inutilizzabile alla luce dell’art. 5 c.c., così come non sarebbe possibile riferirsi solo all’art. 51 c.p.c, in quanto

resterebbero punibili le condotte lesive attuate in contesti non formali (al di fuori di competizioni sportive) nonché quelle poste in essere con mera

violazione delle regole del gioco (si pensi al fallo volontario, attuato per evitare un goal in una partita di pallone).

Nel caso in esame, la condotta di Tizio è scriminata? Si poteva rispondere negativamente, con la conseguenza di rendere predicabile

l’art. 582 c.p. -Tizio ha agito con dolo, così superando volontariamente i limiti del rischio

consentito; -la partita di pallone è la mera occasione del fatto, ma non la causa.

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159

In nome della rilevanza sociale generalmente riconosciuta all'attività

sportiva, l'elemento dell'antigiuridicità insito nei fatti tipici penalmente

sanzionati commessi nello svolgimento di essa (quali: percosse, lesioni

od anche omicidio) resti escluso (con il conseguente venir meno della

punibilità) in conseguenza del riconoscimento, in applicazione

dell'analogia in bonam partem, di una causa di giustificazione non

codificata, che trova titolo nel c.d. rischio consentito. In tale ottica

conclusivamente deve rilevarsi che se permane la responsabilità, a

titolo di dolo, per la condotta volontariamente lesiva dell'incolumità

dell'avversario in relazione alla quale l'occasione del gioco può dirsi

solamente pretestuosa (come nel caso, per restare sempre nell'ambito

del gioco del calcio, di colpo inferto a gioco fermo ovvero

deliberatamente diretto ad attingere l'avversario al volto od

all'addome sia pure in un'azione di contrasto per il possesso del

pallone), non può tuttavia dirsi scriminata una responsabilità a titolo

di colpa qualora la condotta di gioco, pur finalizzata allo sviluppo di

un'azione di gioco, ma in cosciente e volontaria violazione del

regolamento sportivo, si appalesi come assolutamente sproporzionata

ed estranea alle finalità del gioco e contraria ai principi base di lealtà e

correttezza. In tal caso si esorbita dall'area di non punibilità in ragione

dell'operatività della scriminate non codificata del c.d. rischio

consentito.

Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 21-10-2011) 28-02-2012, n. 7768

Svolgimento del processo

T.C. ricorre per cassazione, per tramite del difensore, avverso la sentenza

emessa in data 7 aprile 2011 dalla Corte d'appello di Firenze a conferma della

sentenza 8 maggio 2009 del Tribunale di Firenze, con cui era stato condannato

alla pena di UN anno di reclusione - pena sospesa - nonchè al risarcimento dei

danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede

eccezion fatta per una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad Euro

50.000,00, perchè ritenuto responsabile del delitto di cui all'art. 590 c.p.,

comma 2 (così modificata l'originaria contestazione ex art. 582 c.p., ex art.

583 c.p., comma 1, n. 1 e comma 2, n. 3, ex art. 585 c.p., comma 1, ex art.

577 c.p., comma 1, n. 4 in relazione all'art. 61 c.p., n. 1) commesso in

(OMISSIS) in danno di I.F. che, colpito con una violenta gomitata all'addome

nel corso di una partita di calcio amatoriale, aveva subito lesioni personali

consistite nella rottura della milza ed in ematoma al pancreas sì da rendere

necessario ed urgente un intervento chirurgico di splenectomia; dalle quali era

derivata una malattia giudicata guaribile in 110 giorni nonchè la perdita

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160

dell'uso dell'organo della milza. All'esito dell'istruttoria espletata nel corso del

giudizio di primo grado, era rimasto accertato che, mentre lo I. stava correndo

- palla al piede - lungo la linea laterale destra sulla tre quarti della metà -

campo avversaria, era intervenuto, sulla sinistra l'imputato (difensore

dell'opposta compagine che, durante tutta la partita, aveva attinto lo I. con

ripetuti falli) colpendolo con una violentissima gomitata al fianco sinistro, di

fatto disinteressandosi del pallone.

Il Tribunale, con argomentazioni condivise dalla Corte d'appello, aveva ritenuto

che il gesto, sicuramente volontario, assolutamente contrario alle regole del

gioco e del tutto sproporzionato alla natura amichevole della partita, scevra da

contenuti di esasperato agonismo e di aspettativa di vittoria per coloro che vi

prendevano parte, era tuttavia connesso ad un'azione di gioco volta ad

acquisire il controllo del pallone dall'avversario. Sicchè la condotta

dell'imputato, benchè non connotabile in termini dolosi (non essendo il gioco

un mero pretesto od una studiata occasione per colpire proditoriamente ed

immotivatamente lo I.) aveva tuttavia travalicato i limiti della scriminante non

codificata del c.d. rischio consentito, ricostruita dalla giurisprudenza in

applicazione del combinato disposto degli artt. 50 e 51 cod. pen. restando

quindi configurabile una responsabilità dell'imputato a titolo di lesioni colpose

gravissime. Deduce la difesa, con il proposto ricorso:

1. Violazione della legge penale in tema di scriminanti non codificate. La Corte

d'appello avrebbe erroneamente obliterato l'applicazione, nel caso concreto in

cui si era accertato che la gomitata inferta dall'imputato allo I. trovava

giustificazione nell'azione di gioco ed era volta ad impedire il controllo del

pallone all'avversario, della c.d. scriminante del rischio consentito, essendosi il

T. reso responsabile della violazione della regola n. 12 del regolamento del

gioco del calcio.

2. Contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Nel momento in

cui i Giudici di secondo grado, richiamando la giurisprudenza di legittimità,

hanno statuito che, in linea di principio, la violazione della regola di gioco,

anche se volontaria, non è sufficiente ad integrare una responsabilità per

colpa, avrebbero poi dovuto assolvere l'imputato posto che in sentenza si era

ritenuto che la condotta, pur decisa e violenta dell'imputato, rientrava

comunque in una situazione di gioco.

3. Violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 4, lett. a, artt.

52 e 63. La Corte distrettuale avrebbe omesso di considerare che, rientrando il

reato di lesioni colpose gravissime (comunque procedibile a querela) tra quelli

di competenza del Giudice di pace, non ricorrendo i casi di esclusione previsti

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dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 4, lett. a) non poteva esser comminata la pena

della reclusione, ma solo quella della multa anche qualora il reato sia giudicato

da diverso giudice. Sicchè la pena irrogata risultava illegale.

Conclusivamente insta il ricorrente per l'annullamento della sentenza

impugnata.

Motivi della decisione

Infondati risultano il primo ed il secondo motivo di ricorso, da trattarsi

congiuntamente siccome intimamente connessi.

Va premesso che, secondo consolidati orientamenti giurisprudenziale e

dottrinali, le pratiche sportive possono suddividersi in due categorie

concettuali, a seconda che escludano o meno il contatto fisico e quindi l'uso

della violenza nei confronti dell'avversario.

Questa seconda categoria si suddivide ulteriormente in due partizioni a

seconda che le forme di applicazione della violenza fisica risultino meramente

eventuali (come nel caso del calcio c.d. a cinque o "calcetto") oppure

necessarie, coessenziali alla natura stessa della specifica attività sportiva

(come il pugilato). E' quindi del tutto pacifico che nella pratica degli sports a

"violenza eventuale" ben possono prodursi effetti anche lesivi dell'incolumità

degli atleti, essendo il c.d. rischio sportivo fisiologicamente coessenziale alla

partecipazione alla gara stessa (in cui rivestono un ruolo rilevante sia la

prestanza fisica che le capacità di soverchiare l'avversario, ai fini del

mantenimento più a lungo possibile del possesso del pallone fino a giungere

alla meta, come ad esempio accade nel gioco del calcio). Detto rischio viene

invero contenuto entro limiti non pregiudizievoli dall'imposizione di regolamenti

specifici disciplinanti le medesime pratiche sportive, con i quali in buona

sostanza sj pongono regole cautelari scritte, la cui violazione implica la

responsabilità per colpa ex art. 43 cod. pen. Ora, quanto alle lesioni personali

derivanti dalla pratica sportiva, si è ritenuto in dottrina ed in giurisprudenza

che dette condotte restino all'interno del semplice illecito sportivo (penalmente

irrilevante) pur costituendo infrazione alla disciplina dello svolgimento della

stessa attività sportiva, "in quanto non superano la soglia del c.d. rischio

consentito" (cfr. Cass. pen. Sez. 5 n. 19473 del 2005). Ed invero nella

partecipazione ad una gara è insita l'accettazione (e quindi la prestazione del

consenso) del rischio che, da determinate azioni precipuamente connotate

dall'impeto o dalla concitazione agonistica (si pensi in particolare alle "azioni"

del gioco del calcio "violentemente" contrastate dai giocatori avversari,

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162

nell'intento di evitare di subire il goal), possano derivare eventi pregiudizievoli

per l'incolumità personale.

Come peraltro ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità (cfr.

Sez. 5 n. 19473 del 2005, teste citata), non si fuoriesce - ciononostante - dal

perimetro del c.d. rischio consentito (ed assentito) qualora si travalichino le

regole scritte preordinate alla disciplina dell'uso della violenza nel gioco del

calcio, ad esempio, (e si realizzi quindi l'illecito sportivo) nel caso in cui la

condotta "non sia volontaria, ma rappresenti piuttosto lo sviluppo fisiologico di

un'azione che, nella concitazione o nella trance agonistica (ansia del risultato)

può portare alla non voluta elusione delle regole anzidette", ben potendo, al

contrario, ricorrer l'ipotesi di lesioni personali dolose, in caso di accertata

volontarietà o di preventiva accettazione del rischio di pregiudicare l'altrui

incolumità, ovvero di lesioni personali semplicemente colpose, allorchè la

violazione consapevole della regola cautelare risulti finalizzata "al

conseguimento - in forma illecita e dunque, antisportiva - di un determinato

obiettivo agonistico".

A conclusione della concisa esposizione dei surrichiamati principi applicabili in

subiecta materia, (che non possono non esser condivisi dal Collegio) deve

esser ribadito che la regola di giudizio cui è necessario attenersi implica

l'imprescindibile, preliminare accertamento se l'evento lesivo si sia o meno

verificato nel corso di una tipica azione di gioco specificamente ricostruita in

punto di fatto.

Ciò posto ed acquisita pacificamente la ricostruzione della dinamica

dell'incidente di gioco, in esito ad entrambi i gradi del giudizio di merito (di cui

in narrativa), la Corte d'appello di Firenze, seguendo il consolidato indirizzo

interpretativo della giurisprudenza di legittimità, ha correttamente ritenuto

sussistere a carico dell'imputato, una responsabilità a titolo di colpa, desunta

dal fatto che la gomitata fu volontariamente inferta dal T. allo I., pur nel corso

ed a causa di un'azione di gioco, al fine di sottrarre a quest'ultimo il controllo

del pallone, nell'ambito di una condotta ed. di gioco pericoloso, per la indubbia

capacità lesiva derivante dal colpo infetto con intensa forza a livello

dell'addome dell'avversario, mediante "una parte del corpo rigida e penetrante

quale è senza dubbio il gomito piegato". Da ciò l'indubbio travalicare dei limiti

della scriminante del c.d. rischio consentito, in contrasto con il carattere

amatoriale e ludico e non esasperatamente agonistico, della partita cui

avevano preso parte numerosi ultraquarantenni ed anche cinquantenni. Nelle

partite amatoriali il livello di accettazione preventiva del rischio alla incolumità

fisica dei partecipanti è invero limitato, com'è appare intuitivo, a pregiudizi di

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163

scarso rilievo quali semplici ematomi od ecchimosi, concettualmente e

prevedibilmente non "ineludibili" nel gioco del calcio. Ora è ormai jus receptum

secondo la richiamata l'elaborazione giurisprudenziale di legittimità, (cfr. Sez.

4 n. 20595/2010) che, in nome della rilevanza sociale generalmente

riconosciuta all'attività sportiva, che l'elemento dell'antigiuridicità insito nei

fatti tipici penalmente sanzionati commessi nello svolgimento di essa (quali:

percosse, lesioni od anche omicidio) resti escluso (con il conseguente venir

meno della punibilità) in conseguenza del riconoscimento, in applicazione

dell'analogia in bonam partem, di una causa di giustificazione non codificata,

che trova titolo nel c.d. rischio consentito. In tale ottica conclusivamente deve

rilevarsi che se permane la responsabilità, a titolo di dolo, per la condotta

volontariamente lesiva dell'incolumità dell'avversario in relazione alla quale

l'occasione del gioco può dirsi solamente pretestuosa (come nel caso, per

restare sempre nell'ambito del gioco del calcio, di colpo inferto a gioco fermo

ovvero deliberatamente diretto ad attingere l'avversario al volto od all'addome

sia pure in un'azione di contrasto per il possesso del pallone), non può tuttavia

dirsi scriminata una responsabilità a titolo di colpa qualora la condotta di gioco,

pur finalizzata allo sviluppo di un'azione di gioco, ma in cosciente e volontaria

violazione del regolamento sportivo, si appalesi come assolutamente

sproporzionata ed estranea alle finalità del gioco e contraria ai principi base di

lealtà e correttezza. In tal caso si esorbita dall'area di non punibilità in ragione

dell'operatività della scriminate non codificata del c.d. rischio consentito (cfr

Sez. 5 n. 19473 2005). Deve invece trovare accoglimento il terzo motivo di

ricorso. Il reato di lesioni colpose, cosiccome ascritto all'imputato, risulta

ricompreso D.Lgs. n. 274 del 2000, ex art. 4 tra quelli rimessi alla cognizione

del Giudice di pace, non ricorrendo, nel caso di specie, le ipotesi dello stesso

reato, espressamente escluse. Qualora tale reato sia giudicato da un giudice

diverso dal giudice di pace, questi è tenuto ad applicare le sanzioni applicabili

dal giudice di pace; ciò a norma del combinato disposto del D.Lgs. n. 274 del

2000, artt. 52 e 63 con esclusione della pena della reclusione invece

illegalmente irrogata nel caso di specie con la sentenza di primo grado,

confermata in grado d'appello.

Attesa la statuizione "contra legem", censurata dal ricorrente, ritiene il Collegio

di accogliere, ai sensi dell'art. 609 c.p.p., comma 2 ed in applicazione

analogica dell'art. 129 cod. proc. pen. - trattandosi comunque di applicazione

della legge processuale in bonam partem - la doglianza, benchè non proposta

con i motivi d'appello, facendo proprio quell'orientamento della giurisprudenza

di legittimità di cui alle sentenze: Sez. 5 n. 3945/2002; Sez. 4 n. 39631/2002,

non ignorando peraltro la diversa posizione interpretativa resa da altre

pronunzie di questa Corte (Sez. 5 n. 36293/2004; Sez. 5 n. 24926/2003). Ne

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discende che l'impugnata sentenza va annullata, limitatamente al punto

concernente il trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della

Corte d'appello di Firenze.

P.Q.M.

Annulla l'impugnata sentenza limitatamente al trattamento sanzionatorio con

rinvio alla Corte d'appello di Firenze.

Rigetta nel resto.

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165

10) Violenza sessuale e consenso putativo

Tizio è titolare dello studio legale-commerciale Tizio&Partners. Tizia è segretaria presso il suddetto studio.

Una sera, Tizio restava in studio fino a tarda ora, insieme alla segretaria Tizia. Quella sera, Tizia indossava una gonna cortissima che lasciava intravedere

calze autoreggenti. Tizio chiedeva a Tizia se fosse fidanzata e questa rispondeva che era un

periodo in cui cercava solo “avventure”. Tizio, allora, interpretava la risposta di Tizia come consenso e si avvicinava per

baciarla; la fermava per la testa e baciava con la lingua. Tizia si ribellava e scappava via dallo studio.

La mattina seguente, Tizio si recava dal suo collega avvocato Sempronio. Il candidato, assunte le vesti di Sempronio, premessi brevi cenni sul c.d.

consenso putativo, rediga motivato parere sulla questione giuridica proposta.

Possibile soluzione schematica caso 10)

Il caso proposto impone di premettere brevi cenni sul consenso putativo:

-l’art. 50 c.p. afferma la non punibilità dell’agente, laddove la vittima abbia prestato il consenso;

-il consenso putativo nasce da una lettura combinata dell’art. 50 con l’art. 59 c.p.;

-è predicabile solo laddove emerga che l’agente ritenga di aver agito con il consenso della vittima; se l’errore è determinato da colpa, allora può sorgere

una responsabilità per reato colposo se prevista. E’ applicabile al caso in esame la figura del consenso putativo?

Si ritiene di rispondere negativamente perché: -la risposta data da Tizia era equivoca, e nel dubbio Tizio avrebbe dovuto

astenersi;

-Tizio ha posto in essere una condotta violenta, in quanto fermava la testa di Tizia;

-il bacio con la lingua senza consenso è configurabile come violenza sessuale, ex art. 609 bis c.p.

Pertanto, Tizio ben potrà essere accusato del reato di violenza sessuale.

L'esimente putativa del consenso dell'avente diritto non è

configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l'errore

sul dissenso si sostanzia pertanto in un in errore inescusabile sulla legge penale.

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166

Cassazione penale, Sez. III, 10.3.2011, n. 17210

Svolgimento del processo

Il giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Santa Maria Capua

Vetere, con sentenza del 23 febbraio del 2009, dichiarava non doversi procedere nei confronti di I.V., in ordine al delitto ascrittogli, con la formula

"perchè il fatto non costituisce reato".

Al predetto si era addebitato il delitto di cui all'art. 61 c.p., n. 11, artt. 81 cpv. e 609 bis c.p. perchè, con più azioni esecutive di un medesimo disegno

criminoso, aveva costretto M.A. a subire atti sessuali consistiti nell'afferrarla per le spalle, immobilizzarla, stringerle il collo e baciarla sulla bocca,

palpandola ed accarezzandola in varie parti del corpo contro la volontà della stessa nonchè per avere tentato di avere un rapporto sessuale con la stessa

non riuscendo nell'intento per la reazione della donna. Fatto commesso con abuso della relazione professionale in (OMISSIS).

La contestazione ha preso origine dalla denuncia sporta dalla M. il 6.5.2008 ai CC della stazione di Villa Literno nel corso della quale la giovane aveva

raccontato che da circa due settimane collaborava, come "volontaria", presso la biblioteca comunale di Villa Literno, della quale era responsabile lo I., amico

del padre, e con il quale i rapporti erano sempre stati educati. Il pomeriggio del (OMISSIS), verso le ore 18,00, aveva iniziato il proprio turno trovando lo I.

intento a lavorare al computer. Il predetto aveva cominciato a parlarle invitandola a pranzo con una certa insistenza, raccomandandole di non

raccontare niente a nessuno e proponendole di recarsi a prenderla direttamente all'uscita dell'università di Napoli. Essa, prima aveva informato lo

I. che non v'era nulla di male ad andare a pranzo con colleghi di lavoro e poi, avendo rilevato che la conversazione stava prendendo una piega che non le

piaceva, aveva invitato lo I. a riprendere il lavoro. Invece, dopo pochi minuti, l'imputato si era avvicinato e, con veemenza, le aveva afferrato il collo dalle

spalle facendo forza con il braccio ed era così riuscito ad immobilizzarla e a

baciarla lascivamente sulle labbra con la lingua. In preda al panico, aveva reagito strattonando ed allontanando l'imputato al quale rivolgeva la seguente

frase ": sei scemo?" Lo I. aveva replicato dicendo:

"cosa mai è un bacio". La denunciante aveva precisato di aver preso il telefono cellulare ed essere fuggita per raggiungere il suo fidanzato e poi sporgere

denuncia. La M. aveva aggiunto che era la prima volta che lo I. aveva manifestato "effusioni sessuali" e che all'episodio non avevano assistito testi

oculari.

Nell'immediatezza erano sentiti il fidanzato della M., U. G. ed i genitori della stessa, i quali, sostanzialmente riferivano l'episodio da loro appreso dalla

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giovane. Sulla scorta di tali elementi, i CC procedevano all'arresto in flagranza

dello I..

Acquisite le chiavi della biblioteca, i militari verificavano, sia che v'era ancora il

giubbotto lasciato dalla denunciarne nella fuga, sia che la presenza della giovane quel pomeriggio risultava dal registro.

Nell'interrogatorio di garanzia l'imputato ammetteva di avere baciato la M.,

spiegando che in varie occasioni la giovane gli aveva proposto di offrirle il pranzo e che in un'altra circostanza gli aveva chiesto di scriverle una dedica su

un suo biglietto da visita, condotte queste che lo avevano indotto a ritenere che potesse baciarla senza urtare la sua suscettibilità. Spiegava, pertanto, la

sua sorpresa nel vedersi allontanare dalla giovane quando l'aveva baciata e precisava che, dopo il rifiuto della ragazza, non aveva insistito nè aveva

tentato di trattenerla. Negava sia di averla palpeggiata che di avere tentato di avere un rapporto sessuale.

Il GIP non convalidava l'arresto e rigettava la richiesta di misura cautelare

personale ritenendo che non ricorressero gravi indizi di colpevolezza.

Tanto premesso in fatto, il giudice a fondamento del proscioglimento, dopo

avere premesso che la valutazione doveva essere limitata alla condotta del bacio, posto che le altre condotte contestate al prevenuto nel capo di

imputazione non erano mai state denunciate dalla parte offesa, ha osservato che le dichiarazioni rese dallo I. sia sulle modalità dell'approccio, ossia senza

ricorrere alla violenza, sia sulla convinzione del consenso della M., erano assolutamente credibili in ragione del comportamento successivo al rifiuto

tenuto dallo stesso imputato, il quale non ha nè tentato un nuovo approccio, nè ha impedito alla giovane di allontanarsi, nè ha rivolto alla stessa minacce o

avvertimenti. Ha aggiunto che tale comportamento emergeva, non solo da quanto riferito dallo stesso imputato, ma anche da quanto raccontato agli

investigatori dalla denunciate; che la condotta tenuta dall'imputato dopo il bacio rendeva verosimile e credibile che lo stesso non avesse posto in essere

alcuna violenza nei confronti della giovane per costringerla a subire il bacio e

rendeva plausibile la convinzione in ordine al consenso della vittima. Ha conclusivamente osservato che trattatasi di errore che escludeva la punibilità

dello I. non essendo alla sua condotta sotteso il dolo generico inteso come coscienza e volontà di coartare o indurre la vittima a subire un atto sessuale e

che non aveva alcun rilievo l'indagine sulla colposità o meno di tale errore non essendo prevista accanto alla violenza sessuale dolosa una corrispondente

fattispecie colposa.

Avverso la sentenza ha proposto appello il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere denunciando contraddittorietà della

motivazione e travisamento della prova, posto che la dichiarazione della

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persona offesa era pienamente credibile e che immotivatamente il giudice

aveva escluso la configurabilità del reato. Motivi della decisione

Il ricorso va accolto.

Anzitutto va precisato che, secondo autorevole dottrina e la giurisprudenza (Cass. 21 gennaio 1982, Maglione RV 152899) non rientrano nella scriminante

invocata dal tribunale i casi in cui la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie (artt. 614 o 609 bis c.p.) perchè in tali casi

l'errore sul dissenso ossia su un elemento costitutivo della fattispecie spesso si risolve in errore sulla legge penale, che non può essere invocato a norma

dell'art. 5 c.p.. Quindi il tribunale per escludere il reato non avrebbe potuto richiamare la possibile sussistenza di un consenso putativo o presunto.

In ogni caso, anche a volere ammettere in questa materia la ricorribilità di un

consenso putativo o presunto, si deve trattare comunque di casi in cui si possa ragionevolmente presumere che il titolare del diritto, se avesse potuto,

avrebbe espresso il proprio consenso. D'altra parte l'esimente putativa (nella

specie consenso dell'avente diritto) può trovare applicazione solo quando sussista un'obiettiva situazione - non creata dallo stesso soggetto attivo del

reato - che possa ragionevolmente indurre in errore tale soggetto sull'esistenza delle condizioni fattuali corrispondenti alla configurazione della scriminante.

Nella fattispecie la motivazione del tribunale su tale punto è alquanto lacunosa,

in quanto dalle dichiarazioni rese dalla parte offesa non emerge in maniera palese la sussistenza di un possibile errore sul consenso della vittima. Invero la

parte lesa, allorchè aveva intuito le intenzioni dello I., lo aveva invitato a pensare al lavoro, come risulta dalla ricostruzione del fatto contenuta nella

stessa sentenza. L'invito della ragazza a pensare solo al lavoro non si concilia con l'esistenza di un consenso ancorchè putativo o erroneamente supposto. Gli

elementi indicati dal tribunale per giustificare la sussistenza di un consenso reale o putativo non trovano quindi puntuale riscontro nelle dichiarazioni della

parte lesa richiamate nella stessa sentenza.

Per le considerazioni dianzi esposte nella fattispecie era doverosa la verifica

dibattimentale anche in base alla nuova regola di giudizio introdotta con la L. n. 479 del 1999. Pertanto la sentenza impugnata va annullata con rinvio al

tribunale di Santa Maria Capua Vetere per un nuovo esame.

La liquidazione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile va rimessa al giudice del rinvio.

P.Q.M.

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La Corte letto l'art. 623 c.p.p. annulla la sentenza impugnata con rinvio al

Tribunale di Santa Maria Capua Vetere cui demanda la liquidazione delle spese tra le parti.

Tentato bacio come violenza sessuale.

Cass. pen. Sez. III, Ord., (ud. 10-05-2012) 19-07-2012, n. 29152

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Roma in data 4 novembre 2011 ha rigettato l'appello proposto avverso l'ordinanza con la quale il G.I.P. presso il Tribunale di Velletri in data

29 luglio 2011 ha respinto la richiesta di sostituzione con la misura degli arresti domiciliari di quella della custodia in carcere disposta, a far data dal 17 maggio

2011, nei confronti di U.G., indagato per i delitti di violenza sessuale continuata e stalking in danno di D.M., in (OMISSIS) (condotta perdurante),

per avere posto in essere varie condotte vessatorie dopo l'interruzione della relazione extraconiugale da parte di costei, nonchè di averne sessualmente

abusato. Il Tribunale aveva ritenuto che gli atti allegati dalla difesa all'esito di

indagini difensive (verbali di sommarie informazioni testimoniali di D.L.A.), non offrivano nuovi elementi di valutazione in punto di esigenze cautelari.

2. L'indagato, tramite il proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione,

precisando di avere già inoltrato richiesta di sostituzione della misura custodiale, respinta dal G.I.P. in data 2 luglio 2011, reiezione confermata dal

Tribunale della libertà di Roma con ordinanza del 6 ottobre 2011, ed ha chiesto l'annullamento per provvedimento per i seguenti motivi: 1) Contraddittorietà

manifesta della motivazione, travisamento del fatto, in quanto era stato considerato sussistente la violenza sessuale (capo b), fatto la cui esistenza

doveva ritenersi esclusa sulla base delle risultanze processuali, che venivano indicate in dettaglio nel ricorso.

2) Violazione degli artt. 152 e 612 bis c.p. e art. 273 c.p.p., comma 2: il

Tribunale avrebbe confermato la misura sulla base di fatti configuranti il reato

di atti persecutori contenuti in una querela successivamente rimessa; il Tribunale, in sede di riesame, aveva limitato l'annullamento ad un solo fatto di

violenza sessuale, mentre avrebbe dovuto comprendervi tutti gli episodi rientranti nell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 612 bis c.p., commessi fino alla

data della querela che era stata rimessa. 3) Violazione di legge, in quanto il Pubblico Ministero avrebbe dovuto immediatamente richiedere l'archiviazione

per i fatti narrati nella querela oggetto di rimessione, per cui gli atti di indagine non erano utilizzabili nella valutazione del Tribunale, che invece ha basato la

decisione sugli elementi di cui alla querela del 7 giugno 2010, rimessa in data 11 giugno 2010;

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4) Violazione di legge per inosservanza dell'art. 273 c.p.p., attesa

l'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza: non sarebbe vero che l'indagato ha ricattato la D. e la teste C. ha reso dichiarazioni su suggestione della D.

stessa, mentre non sarebbe stato dato rilievo al fatto che la D.L.A. aveva

riferito con chiarezza l'episodio del mercato, per cui emergerebbe l'inattendibilità della D. e le ragioni di astio della stessa nei confronti di esso

indagato. 5) Violazione degli artt. 62 e 191 c.p.p., e art. 350 c.p.p., comma 6, con riferimento all'utilizzazione, da parte dei giudici del riesame, di

dichiarazioni che si assumono da lui rese ai Carabinieri il 7 giugno 2010. 6) Violazione di legge, in quanto nell'informazione di garanzia conseguente al

sequestro di alcune fotografie ritraenti la persona offesa non erano stati indicati gli estremi dei fatti per cui si procedeva, con conseguente nullità del

sequestro. 7) Illogicità della motivazione del provvedimento impugnato laddove, riconosciuta la improcedibilità di uno dei reati rubricati al capo b)

dell'imputazione, non aveva analogamente delimitato l'ambito dell'imputazione di cui al precedente capo a). 8) Violazione dell'art. 274 c.p.p. ed il vizio di

motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelari, in quanto il Tribunale avrebbe fornito motivazione apparente, senza indicare gli

elementi posti a fondamento della prognosi di recidivale avrebbe indicato quali

tra le condotte oggetto di imputazione possano essere reiterate ed avrebbe illogicamente considerato la presunta "sistematica persecuzione", che è

elemento costitutivo del reato di cui all'art. 612 bis c.p., quale dato significativo per l'applicazione della misura. 9) Violazione dell'art. 274 c.p.p.,

lett. c), in quanto il Tribunale non avrebbe evidenziato gli elementi dai quali deduceva la pericolosità dell'indagato. 10) Violazione dell'art. 274 c.p.p., lett.

a), rilevando la insussistenza del pericolo di inquinamento probatorio. 11) Inosservanza dell'art. 612 bis c.p., Violazione della clausola di sussidiarietà, in

quanto il reato di violenza sessuale dovrebbe essere espunto dall'imputazione di stalking. 12) Manifesta contraddittorietà della motivazione e travisamento

del fatto, quanto alla insussistenza del grave e perdurante stato di pericolo e del fondato timore per la propria incolumità in capo alla querelante.

13) Violazione dell'art. 192 c.p.p., contraddittorietà della motivazione,

travisamento del fatto quanto all'attendibilità della persona offesa, in

particolare il Tribunale non avrebbe dato considerazione alle dichiarazioni rese dalla teste D.L., intima amica della D., che avrebbero invece dovuto indurre il

Tribunale a dubitare della sincerità della persona offesa, le cui dichiarazioni vengono esaminate nel dettaglio nell'articolato motivo di ricorso. 14)

Inosservanza dell'art. 275 c.p.p. In considerazione della palese sproporzione della misura applicata rispetto alle esigenze cautelari, implicitamente

riconosciuta dalla stesa persona offesa che richiedeva l'applicazione della meno afflittiva cautela del divieto di avvicinamento ai luoghi dalla stessa frequentati.

15) Violazione di legge in relazione all'art. 275, e art. 1 c.p.p. per la mancata valutazione di adeguatezza rispetto al fatto della misura cautelare applicata.

16) Inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 272 e art. 275 c.p.p., comma 2, in quanto, poichè l' U. ha chiesto il rito abbreviato con conseguente

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sconto di pena, ed alla violenza sessuale (tentativo di bacio) dovrebbe essere

riconosciuta la diminuente del fatto di lieve entità, che lo stesso è incensurato, è ragionevole ipotizzare che la pena finale non dovrà essere scontata.

Motivi della decisione

1. Osserva la Corte che il ricorso è manifestamente infondato.

Innanzitutto, per quanto riguarda i limiti di sindacabilità in questa sede dei

provvedimenti "de liberiate", si deve ricordare che la Corte di Cassazione non ha alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende dei

giudizi a quibus, ivi compreso lo spessore degli indizi, nè di rivalutazione delle condizioni soggettive dell'indagato in relazione alle esigenze cautelari ed alla

adeguatezza delle misure, trattandosi di apprezzamenti di merito rientranti nel compito esclusivo dei giudici del merito. Il controllo di legittimità è quindi

circoscritto all'esame del contenuto dell'atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall'altro, l'assenza di

illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (cfr, da ultimo, Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011,

dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv. 251760).

Inoltre è stato precisato che il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza

emessa in sede di appello cautelare è proponibile solo per violazione di legge, per cui non possono essere dedotti con tale mezzo di impugnazione vizi della

motivazione, quali la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione, separatamente previste come motivo di ricorso dall'art. 606 c.p.p., lett. e) (cfr.

Sez. 1, n. 40827 del 27/10/2010, Madio, Rv. 248468).

In particolare, il controllo di legittimità in relazione alle esigenze cautelari ed alla adeguatezza delle misure non può infatti riguardare l'apprezzamento del

giudice di merito sulle condizioni soggettive dell'imputato, per cui non sono consentite le censure, che pur investendo formalmente la motivazione, si

risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate (cfr. ex multis Cass. sez. 1 n. 1769 del 23/3/1995, dep. 28/4/1995,

Ciraolo, Rv. 201177).

2. Il Tribunale della libertà di Roma, dopo avere sintetizzato la vicenda, ha

tenuto conto dei provvedimenti già assunti (la conferma dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta con ordinanza del 7 giugno 2011 e la

reiezione dell'appello avverso la richiesta di sostituzione già avanzata al G.i.P. in precedenza, di cui all'ordinanza in data 6 ottobre 2011), ed ha concentrato

la propria attenzione sulla istanza di revoca o sostituzione della misura che l'indagato aveva presentato al G.I.P. In data 22 luglio 2011, con la quale aveva

allegato le dichiarazioni rese da D.L. A., istanza respinta dal G.I.P. con il provvedimento sottoposto all'esame del Tribunale quale giudice di appello. I

giudici dell'appello cautelare, esaminando nel dettaglio le dichiarazioni testimoniali allegate dall'indagato sotto il profilo della sussistenza dei gravi

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indizi di colpevolezza, hanno ritenuto che il contenuto delle stesse, lungi da

rappresentare "elemento nuovo" in grado di scardinare il quadro di gravità indiziaria, non potesse neppure mettere in dubbio i presupposti applicativi della

misura cautelare, che erano stati ritenuti nella consistenza della gravità

indiziaria e nella sussistenza delle esigenze cautelari già nelle precedenti ordinanze relative allo stesso procedimento e che dovevano essere del pari

confermati. Quanto alla proporzionalità ed adeguatezza della misura della custodia in carcere, i giudici dei Tribunale hanno confermato il giudizio di

esclusiva idoneità di tale restrizione a soddisfare le sussistenti esigenze cautelari, che non potevano dirsi scalfite od attenuate, per i motivi esposti in

dettaglio nel corpus motivazionale dell'ordinanza, dalla circostanza che fosse stato emesso decreto di giudizio immediato (poi convertito su istanza

dell'imputato in giudizio abbreviato, come dallo stesso evidenziato nel ricorso).

3. Orbene non si ravvisa, dalla motivazione dell'ordinanza del Tribunale di Roma, alcuna carente esplicazione circa il permanere dei presupposti di

applicazione della misura cautelare della custodia cautelare in carcere, avendo i giudici dell'appello cautelare esaminato le dichiarazioni della teste D.L.,

offerte quale elemento di rivalutazione sia della gravità indiziaria che del

diverso atteggiarsi delle esigenze cautelari.

Di fatti quasi tutti i motivi di ricorso dell' U., risultano inammissibili in quanto non fanno altro che riproporre questioni già oggetto del giudizio di riesame dei

7 giugno 2011, avverso l'ordinanza generica di applicazione della misura cautelare, questioni risolte in tale sede ed ormai coperte da giudicato

cautelare, giusta sentenza di questa Corte, Sez. 3, n. 187 dell'1/12/2011, depositata il 10/1/2012, che ebbe a dichiarare inammissibile il ricorso per

cassazione avverso tale ordinanza.

Infatti è stato chiarito che "l'effetto preclusivo di un precedente giudizio cautelare viene meno soltanto in presenza di un successivo, apprezzabile,

mutamento del fatto; ne consegue che, in difetto di nuove acquisizioni probatorie che implichino un mutamento della situazione di fatto sulla quale la

decisione era fondata, le questioni dedotte a sostegno di una richiesta di

revoca presentata dall'interessato restano precluse" (in tal senso Sez. 5, n. 17986 del 9/1/2009, dep. 30/4/2009, Massone Brega, Rv. 243974).

4. Altri motivi risultano del pari inammissibili, proprio perchè volti a sollecitare

una diversa valutazione dei dati acquisiti al processo, propria del giudizio di merito, ovvero a considerare diversamente le stesse esigenze cautelari al fine

di ottenere una valutazione più favorevole in relazione ai requisiti dell'adeguatezza e proporzionalità delle stesse. Tale giudizio, come già

evidenziato, non è consentito in questa sede di legittimità.

Nel caso si specie, invece, questo Collegio osserva che l'ordinanza oggetto della presente impugnazione è sorretta da logica e corretta argomentazione

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motivazionale circa le ragioni giuridicamente significative che hanno sorretto la

decisione.

6. Nè possono in questa sede essere esaminati i profili prognostici circa la

futura sanzione che potrà essere comminata all'imputato all'esito del giudizio di merito e per quanto attiene alla irrilevanza sotto il profilo della sussistenza

delle esigenze cautelari della conclusione delle indagini preliminari, l'ordinanza impugnata ha fornito esaustiva risposta alla censura, facendo corretto richiamo

alla giurisprudenza di legittimità. Per cui anche tali restanti motivi di ricorso risultano manifestamente Infondati.

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile con conseguente

condanna dei ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p. e della somma di Euro mille in favore della cassa delle ammende. Inoltre

la Corte dispone che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell'Istituto penitenziario competente, a norma dell'art. 94 disp. att.

c.p.p.. P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle

ammende. La Corte dispone inoltre che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell'Istituto penitenziario competente, a norma dell'art.

94 disp. att. c.p.p..