Lucy Dillon - La Libreria degli Amori Inattesi

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Lucy Dillon

La libreria degli amori inattesi

Traduzione dall'inglese di Sara Caraffini

Titolo originale dell'opera:

The Secret of Happy Ever After

© Lucy Dillon 2011

© 2013, Garzanti Libri s.p.a., Milano

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Presentazione

Michelle ha deciso di ricominciare e vuole dare una svolta alla sua vita. Rilevare una libreria con l'amica Anna è il primo passo. Un giorno, mentre è intenta a riordinare gli alti scaffali, all'improvviso dietro uno scatolone colmo di libri spunta un buffo musetto. È Tavish, il cane del vecchio libraio: nessuno può più occuparsi di lui e il negozio è ormai la sua casa. In cerca di un padrone, non ha dubbi e sceglie Michelle. Proprio lei che, dopo il fallimento del suo matrimonio, ha chiuso le porte delle emozioni e ha paura di un nuovo legame. Prendersi cura di un cane è l'ultima cosa di cui ha bisogno ora che l'attività di libraia stenta a decollare. Eppure, dire di no a quei grandi e dolci occhi scuri è impossibile: non c'è altra scelta che tenerlo.

Quando il passato torna a bussare alla sua porta, Michelle scopre la forza di questa nuova amicizia. Perché l'uomo che l'ha fatta soffrire ha deciso di tormentarla ancora e lei sta per sprofondare di nuovo nelle proprie insicurezze. Ma la zampa di Tavish è lì pronta a portarla in salvo. Ormai non è più sola a risanare le ferite del suo cuore.

Giorno dopo giorno l'allegria e la vitalità del cagnolino l'aiutano a non arrendersi e a riscoprire una sensazione che non provava da tempo: la felicità. Michelle deve trovare il coraggio di riprendere in mano la sua vita. Ad attenderla dietro l'angolo c'è qualcosa di inaspettato che ha il sapore dell'amore. E solo Tavish conosce la strada...

Appena uscito, La libreria degli amori inattesi è subito schizzato ai primi posti in classifica nel Regno Unito. Dopo il successo del Rifugio dei cuori solitari e di Piccoli passi di felicità, Lucy Dillon torna ad affascinare il suo pubblico che non può più fare a meno dei piccoli protagonisti dei suoi romanzi, e lo fa con una storia che unisce due dei più cari amici dell'uomo: i libri e i cani. Il potere degli animali di regalare sorrisi incontra il fascino indiscusso della lettura.

Lucy Dillon divide la sua vita fra Londra e la Wye Valley, dove ama passeggiare con i suoi basset hound Violet e Bonham. Con Garzanti ha pubblicato con successo anche Lezioni di ballo, Il rifugio dei cuori solitari e Piccoli passi di felicità.

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Prima parte

C'era una volta...

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Prologo

Michelle era ferma al centro del suo nuovo negozio. Tentava di sceglierne il nome (Domestic Goddess? Nightingale's? Home Sweet Home?) mentre se lo raffigurava pieno di sacchettini di lavanda cuciti a mano e grosse candele di cera d'api ma, soprattutto, privo del persistente aroma di sgombro affumicato.

Fu assalita, per la quinta volta quel giorno, dalla consapevolezza dell'enormità dell'impresa in cui si stava imbarcando, completamente sola, ma si accigliò e si disse – anche in questo caso per la quinta volta – che stava facendo la cosa giusta. Nuovo inizio, nuovo negozio. Nuova Michelle.

In un mondo ideale non avrebbe aperto un negozio di articoli per la casa in una pescheria e sicuramente non su quella strada principale, in una cittadina sede di mercato situata a metà strada fra «Nel bel mezzo del nulla» e «In capo al mondo»; tuttavia, Michelle sembrava nata per vendere e sapeva che le caratteristiche principali del negozio erano quelle giuste. La trasandata Longhampton, con le sue case a schiera di mattoni rossi e la deprimente zona commerciale di cemento, implorava un pizzico di leggiadria. I locali erano a buon mercato (probabilmente a causa del puzzo di pesce), luminosi, ampi e situati sulla via centrale, proprio accanto a uffici pieni zeppi di persone pronte a curiosare durante la pausa pranzo fra gli articoli esposti. Inoltre – e quello era l'aspetto più importante – il particolare esercizio commerciale che interessava a Michelle si trovava a duecentoventi chilometri da Harvey Stewart.

Quella era l'unica parte della sua nuova vita che lei aveva programmato. Lontano dieci chilometri dal raccordo anulare intorno a Londra il cervello di Harvey cominciava già a soffrire di carenza di ossigeno, quindi lì, dove persino i cani portavano giacche trapuntate, Michelle immaginava che sarebbe stata al sicuro da lui e dai suoi modi sottili per indurla a odiarsi.

Il pensiero di Harvey le fece pizzicare le ascelle. Riuscì a distrarsi lanciando ripetutamente in aria e afferrando al volo il suo grosso mazzo di chiavi, concentrandosi sul suo nuovo spazio: immaginò di eliminarne le scaffalature in plastica, tinteggiarne le pareti di color crema e riempirlo di oggetti belli e utili, finché non sentì di avere riacquistato l'autocontrollo. Se non fosse stato per i poteri consolatori della ristrutturazione edilizia dubitava che il suo matrimonio sarebbe durato davvero cinque anni. La loro casa avrebbe potuto rivaleggiare con

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il Forth Road Bridge scozzese: non appena terminati i lavori, Michelle aveva ricominciato da capo, tanto per distrarsi da tutto il resto.

Harvey aveva sempre sostenuto che soffriva di un dom, un «disordine ossessivo-modificante», che le impediva di ritenersi soddisfatta finché non avesse raggiunto la perfezione. «Sempre che tu abbia una seppur vaga idea di cosa questo significhi.»

Per un attimo Michelle vacillò sui suoi tacchi alti, come se si trovasse sul ciglio di una scogliera che si stava sgretolando. Si sentiva la testa troppo leggera, staccata dal suo corpo. Non si era concessa di riflettere troppo a fondo su quanto stava facendo, mentre succedeva, ma il panico aveva continuato a guizzare alla periferia dei suoi sensi. Alla fine se n'era andata mentre era ancora furibonda – nessuna programmazione, nessuna lista di priorità, nessuno dei suoi consueti puntelli – e adesso eccola lì, sola in una cittadina piena di perfetti sconosciuti, ma libera. Il resto dei suoi beni terreni sarebbe arrivato il venerdì con un furgone, ma per il momento si sentiva priva di qualsiasi legame, come un palloncino lasciato andare per errore.

Sentì una puntura sul palmo della mano e si accorse che stava stringendo le chiavi talmente forte che l'affilata ala metallica del portachiavi della Aston Martin le stava tagliando la pelle. Allargò lentamente le dita e guardò l'ultima traccia rimasta della sua vecchia vita, già così lontana che sembrava appartenere a qualcun altro.

La sua Aston Martin db9 Volante, di un colore verde brillante, si trovava attualmente in un piazzale di Birmingham, venduta per poter versare la caparra sul negozio e sul fatiscente cottage a schiera in cui si era trasferita, ma Michelle aveva tenuto il portachiavi per rammentare a sé stessa cosa poteva fare quando ci si metteva d'impegno. Aveva adorato la sua Aston. Non solo perché attirava gli sguardi, soprattutto se al volante sedeva una donna minuta e in occhiali da sole invece di un tizio di mezza età, ma perché lei se l'era guadagnata dimostrandosi la miglior venditrice della concessionaria paterna. Non erano molte le ventottenni abbastanza determinate per ottenere simili risultati, soprattutto se non erano particolarmente appassionate di auto.

Quando sentì la fitta di rimpianto saettarle nel petto rifletté che alcune persone rimanevano adolescenti fino a trent'anni, figurarsi iniziare una nuova vita. Aveva un sacco di tempo per guadagnarsi un'altra auto.

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Si guardò intorno, osservando il poco promettente materiale che aveva a disposizione per realizzare il suo sogno, e vacillò di nuovo. Non desiderava continuare a fissare quello spettacolo ancora a lungo, ma nemmeno aveva voglia di tornare alla malconcia casetta sul bordo del canale, con le pareti rivestite di carta da parati sgargiante e chiazze di umidità. Il negozio puzzava di pesce e la strada principale era deserta, ma era pur sempre meglio del trasalire ogni qual volta squillava il telefono al cottage.

«Prenditi un caffè e scrivi un elenco», si disse, facendo echeggiare la sua voce nella stanza vuota, e si sentì un po' meglio.

Accanto alla futura ex pescheria c'era un caffè che, contrariamente alla maggior parte dei negozi vicini, era aperto e stava facendo buoni affari, quella domenica pomeriggio.

Michelle ordinò un doppio espresso e una fetta di torta al bancone e prese posto, con la sua lista di cose da fare, a un tavolino accanto alla vetrina, da dove poteva esaminare la concorrenza sulla via principale. Qualcosa nel locale – la pulizia impeccabile? Le torte fatte in casa? – la rendeva più rilassata, ma accanto alle coppiette e alle famiglie intente a chiacchierare agli altri tavoli si sentiva a disagio, sbirciata da tutti, quasi che la sua solitudine le aleggiasse intorno come un cattivo odore. In quale modo potevi farti degli amici, da adulto, se non lavoravi in un ufficio o non accompagnavi i bambini a scuola? Non semplici conoscenze legate al mondo degli affari, come il suo nuovo avvocato o l'agente immobiliare – quello era facile, lei sapeva che ruolo interpretare in quei casi –, ma amici. Come...

Si accigliò. Come chi? Owen, il fratello minore, era l'unica persona con cui si confidasse davvero; le sue amiche, in realtà, erano solo le mogli dei compagni di poker di Harvey. Dopo il matrimonio si era inserita nella vita sociale del marito nello stesso modo in cui a diciotto si era inserita nell'attività di famiglia. Nessun ex compagno o compagna di università, nessun ex fidanzato, nessun amico conosciuto a scuola...

La porta del bar si spalancò senza preavviso e un enorme dalmata si fiondò all'interno, con gli occhi neri scintillanti e le orecchie maculate drizzate per l'eccitazione. Si fermò accanto al portaombrelli, dimenando la coda mentre si guardava intorno nel caffè come se stesse cercando di decidere chi fosse più meritevole di attenzione, poi posò lo sguardo su Michelle e si lanciò verso di lei.

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Con profondo stupore Michelle si accorse che nessuno dei presenti reagiva e per un attimo si chiese se fosse l'unica che riusciva a vedere l'animale. Il dalmata la guardò scodinzolando e lei si intenerì finché si rese conto che in realtà lui voleva fare amicizia con la sua fetta di torta alle carote. Aveva già la testa piegata di lato per arraffare il dolce, con una zampa posata sulla sedia accanto per stabilizzarsi, ma lei lo prese per il collare rosso e lo tirò giù.

«A cuccia!» gli intimò severamente e, quando l'unica reazione del cane fu un divertito ciondolare della lingua, ripeté l'ordine con maggior fermezza. «Cuccia!»

Il dalmata si accovacciò a terra, obbediente, picchiando ritmicamente la coda a pois contro le gambe del tavolo come se Michelle lo stesse facendo giocare. Intorno a lei i clienti continuavano a non mostrarsi minimamente turbati dall'ingresso dell'animale. Era sbalordita. L'unica volta in cui aveva tentato di portare nel caffè di quartiere il suo springer spaniel, Flash, i presenti avevano reagito come se fosse entrata spargendo in giro antrace.

Flash. Flash con il suo sguardo da tenerone e le grosse zampe morbide. Le si contrasse lo stomaco. Di tutto quanto aveva lasciato dietro di sé, a Harvey – denaro, vestiti, anelli cosiddetti «eternity» –, l'unico che rimpiangeva di non avere caricato sulla sua auto era Flashie. Chissà se si stava chiedendo dov'era andata? Stava aspettando accanto alla porta, struggendosi per lei? Non l'aveva portato con sé solo perché questo avrebbe fornito a Harvey il pretesto ideale per suonare alla sua porta un fine settimana su due, vantando il proprio «diritto di visita» e interpretando il ruolo del marito perfettamente ragionevole, che ha perso tutto.

«Oddio, mi dispiace tanto. Pongo! Smettila, no! Ha strappato il guinzaglio!»

Una donna bionda più o meno dell'età di Michelle e apparentemente alta il doppio di lei urtò il suo tavolino, sforzandosi di riavvolgere un guinzaglio estensibile con una mano mentre con l'altra staccava il cane da un tavolo vicino sotto il quale si era rifugiato. Sembrava scarmigliata, agitata, e la sua autorevolezza appariva ulteriormente minata dal fatto che stesse stringendo l'impugnatura del guinzaglio fra le ginocchia nel tentativo di districare il nodo che si era formato. Mentre armeggiava vanamente, i suoi occhi azzurri scrutarono nervosamente il locale cercando eventuali tracce di danni.

«Ha rotto qualcosa? Le ha rovesciato il caffè? Lasci che gliene ordini un altro. La prego, non lo dica a Natalie. Gli ha già dato l'ultimatum.» Le parole le sgorgarono di bocca a ritmo serrato. Quando Pongo si alzò e, inevitabilmente, la sua coda fece cadere la ciotola dello zucchero dal tavolo nell'ampia borsa di

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Michelle, rivestendola di granellini bianchi, la padrona di Pongo si coprì il viso con una mano che, Michelle notò, era arrossata dal guinzaglio che la donna stringeva in pugno, con le unghie rosicchiate fino alla carne viva; alcune parole scribacchiate a biro spiccavano sul dorso: «Cane a spasso. Stirare. Premi/ragazze?».

«Maledizione!» La voce rivelava che la giovane donna era vicina alle lacrime. «Mi dispiace tanto. Non è colpa di Pongo, è colpa mia.»

Michelle era stata pronta a urlarle contro per non avere tenuto sotto controllo il suo cane, ma qualcosa nelle spalle curve della donna le rammentò la propria soverchiante stanchezza.

«È tutto a posto», disse invece. «Non è successo niente di grave. Lei sta bene?»

L'altra si scoprì gli occhi e tentò di sorridere, ma il risultato non fu un granché. Aveva un viso aperto, bianco e roseo; una maestra elementare o una mungitrice di un libro di fiabe, pensò Michelle. Semplice e tenera. Non adatta a esercitare l'inflessibile disciplina necessaria con i dalmata.

Gli altri avventori stavano cominciando a voltarsi, e le osservavano con la particolare curiosità riservata a cani e bimbi disobbedienti.

«Oh, no, la sua splendida borsa...» cominciò a dire la donna, ma Michelle scostò la sedia dal tavolo, tentando di non urtare il dalmata che le si era già accovacciato ai piedi, con la testa posata sulla sua borsa di Marc Jacobs.

«Venga, si sieda», la invitò. «Il suo cane l'ha già fatto. Riprenda fiato.»

Colma di gratitudine, la sconosciuta abbandonò il suo corpo snello sulla sedia e fece una smorfia guardando Michelle da sotto lunghe ciglia dorate, con un'espressione ormai più imbarazzata che sconvolta. «Mi stanno guardando tutti?»

«Sì», rispose Michelle, «ma non si preoccupi. Circa cinque minuti fa stavano fissando me.»

«Davvero? Anche il suo cane ha fatto qualcosa di imbarazzante?»

«No. Era me che stavano osservando», aggiunse l'altra, a disagio. «Mi sono appena trasferita qui in città. Nuova arrivata. Immagino di avere un accento bizzarro.»

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La padrona di Pongo sorrise e il volto le si illuminò. «Nooo. Non lo pensi nemmeno! Dipende più probabilmente dal fatto che non ha un amico a quattro zampe. Questo è il “caffè dei cani”», aggiunse quando vide l'aria sconcertata dell'interlocutrice. «Le persone sono invogliate a venire qui con i propri animali, che non sono ammessi in nessun altro locale. Natalie dà loro un biscottino, se fanno i bravi.»

Michelle si girò sulla sedia e si chiese perché diamine non se n'era accorta prima. Sotto il tavolo di fronte, dove la coppia anziana si stava dividendo una teiera di tè fumante e una focaccina, c'era uno scottish terrier nero acciambellato intorno a un west highland white terrier con un cappottino scozzese coordinato al suo. Avevano accanto una famigliola con un labrador color cioccolato e grassottello steso scompostamente ai loro piedi, addormentato. Di fianco alla porta c'erano ciotole sistemate su tappetini di plastica, e i dolcetti che lei aveva notato dentro i grossi vasi di vetro accanto alla Gaggia si rivelarono, a un esame più attento, biscotti per cani.

«È quello che chiamo marketing di nicchia», affermò Michelle. «Geniale. Davvero geniale.»

Quando si voltò nuovamente verso il suo tavolo, la padrona del dalmata si era ricomposta e le stava rivolgendo un cordiale sorriso di benvenuto.

«Mi chiamo Anna», disse, tendendole la mano al di sopra del menu. «Lui è Pongo. Il nome è preso dal libro, naturalmente. Be', dal film, nel suo caso. Dubito che i suoi proprietari abbiano mai saputo dell'esistenza di un libro.» Parve irritata con sé stessa. «Scusi, è stata una battutaccia. Finga che io non abbia detto nulla.»

«Io sono Michelle, dammi del tu», replicò lei. «Ho appena comprato il negozio qui accanto.»

«Davvero?» Anna parve interessata. «Vendi pesce?»

«Dio, no! Il mio sarà un negozio di articoli per la casa. In realtà», continuò Michelle, cogliendo al volo l'opportunità di fare un'indagine di mercato, «puoi aiutarmi dandomi informazioni... Ehm, quella signora ci sta guardando?»

La brunetta che l'aveva servita al bancone si stava avvicinando con la fronte aggrottata, e la coda di Pongo ricominciò subito a muoversi avanti e indietro.

«Il problema di questo cane è che vuole troppo bene a tutti. Ciao, Natalie!» disse Anna. «Scusami per Pongo. Stavolta farà il bravo, te lo prometto.»

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Natalie sospirò e incrociò le braccia sopra il grembiule ornato di gale. «Anna, sai che adoro Pongo, ma qui abbiamo la politica del “tre strike e sei eliminato”. E qualcuno considererebbe due strike il rubare due fette di torta durante la stessa visita.»

«Mi sono avvolta il suo guinzaglio intorno alla caviglia. Si comporterà in modo irreprensibile!»

«Torna quando lo avrai abituato a fare il bravo nei luoghi pubblici», proseguì lei, «se disturba gli altri clienti...» Lanciò un'occhiata a Michelle.

«È tutto a posto», dichiarò lei, sentendosi chiamata in causa. Non aveva voglia di tornare al suo cottage in Swan's Row, non ancora, e Anna sembrava felice di chiacchierare. «Guardi, si è calmato.»

Abbassarono tutte e tre lo sguardo su Pongo, sdraiato sotto il tavolo con aria indifferente. Michelle notò, troppo tardi, che lui aveva delle briciole di torta alle carote sul muso e che il suo piattino era vuoto.

«Mi sta aiutando con alcune ricerche», aggiunse, assumendo il suo tono sicuro da venditrice. «Vorrei avere un'altra tazza di caffè, per favore. Anna? Vuoi un caffè?»

Anna si tolse il berretto fatto a maglia e annuì, mentre ciocche di capelli color oro le ricadevano intorno al viso arrossato. «Ehm, sì. Magnifico. Se sei proprio sicura...»

Una volta che Natalie tornò verso il bancone, lei si allungò sopra il tavolo e sussurrò: «È molto gentile da parte tua, ma dovresti lasciarmi pagare i caffè. Ti prego. Dopo quello che ha combinato Pongo...».

«Niente affatto, ho bisogno di sondare il terreno a livello locale, se hai un minuto.» Michelle ingoiò l'ultimo sorso di espresso rimasto. Si sentiva già più concentrata. «Allora, Longhampton. Stando a quanto ho visto finora si direbbe il posto ideale per proprietari di cani e attraenti mammine alla moda, vero? Puoi ragguagliarmi?»

Anna fece una smorfia. «Non sono sicura di essere la persona più adatta a cui chiedere di quelle due categorie.»

Michelle si immobilizzò, la tazzina bloccata a mezz'aria. Aveva appena fatto una gaffe? La sua interlocutrice aveva il cane, giusto? Ed era nella fascia d'età

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canonica per avere dei figli: il berretto che portava sembrava preso in prestito da una teenager.

Con suo profondo orrore, vide dei grossi lacrimoni riempire gli occhi azzurri di Anna.

«Scusami», disse lei, asciugandoseli con il dorso della mano. «È così stupido. Starai sicuramente pensando di esserti imbattuta nella pazza del villaggio cinofila. Perdonami!»

«Non lo penso affatto.» Michelle infilò una mano nella borsa ed estrasse un fazzoletto di cotone a pois. Fu costretta a scrollarlo per liberarlo dallo zucchero, il che strappò un gemito ad Anna. «Scusami, ho forse detto qualcosa...»

Anna si soffiò automaticamente il naso, poi guardò in tralice il fazzoletto.

«Tienilo pure», disse Michelle. «Ne ho a bizzeffe.»

«Dovresti venderli nel tuo negozio, sono carini.» Anna batté energicamente le palpebre e si costrinse a sorridere. «Hai toccato un punto dolente, tutto qui. Faccio la mamma solo nei fine settimana. Mio marito, Phil, ha avuto con la prima moglie tre figlie che in questo momento sono a casa nostra. Le ospitiamo un fine settimana su due e una notte alla settimana.»

«Giusto», commentò Michelle. I bambini non rientravano nella sua gamma di esperienze. Non le dispiacevano, ma in fondo lo stesso si poteva dire delle zebre o del Marmite. «Ti trovi qui... perché loro sono a casa tua?»

«In un certo senso. Le sto lasciando un po' di tempo a tu per tu con il padre. Come richiestomi dalla loro madre. Siamo sposati solo da un anno e mezzo, stiamo ancora procedendo a tentoni, per così dire, in questa faccenda della matrigna.» Anna serrò strettamente le labbra. «È... impegnativo per tutti, ma ci stiamo provando.»

«E il cane?»

«Appartiene a loro. Credo sia stato l'ultima goccia, per me.» Lei abbassò lo sguardo su Pongo. «Non è colpa sua se nessuno si è curato di addestrarlo. Vede la sua dog-sitter più spesso di quanto non veda le ragazze, poverino. Ho proposto di uscire tutti insieme per una passeggiata di famiglia, oggi pomeriggio, ma quando sono arrivata alla porta d'ingresso si è scoperto che ero l'unica a volerla fare.»

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«Preferisci Pongo a loro?» Michelle si chiese se fosse quello il motivo delle lacrime. Dovendo scegliere, lei avrebbe certamente preferito un cane alle tre rancorose figlie di qualcun altro.

«No, no! Voglio bene alle ragazze. Adoro i bambini», ribadì Anna, apparentemente stupita della domanda. «Ma mi è più facile portare a passeggio Pongo quando loro non stanno litigando su chi può tenere il suo guinzaglio o lanciare la pallina...» Smise di parlare quando Natalie ricomparve e posò loro davanti due caffè e un'altra fetta di torta per Anna.

Quando rimasero di nuovo sole, Anna sospirò. «Il fatto è che la situazione non è esattamente come l'avevo immaginata. Ma in fondo non lo è mai, vero?»

«Cosa ti immaginavi?» Michelle era brava a porre domande in modo tale da sviare l'attenzione da sé. Non voleva che la conversazione si spostasse sul suo matrimonio, che non si era certo rivelato all'altezza delle aspettative, sue o di chiunque altro.

«Una via di mezzo fra Mary Poppins e Tutti insieme appassionatamente?» Anna rise dolcemente di sé stessa. «Insomma, sono figlia unica, desidero una famiglia numerosa sin da quando ero piccola. E quando ho sposato Phil ho letto tutti i libri su come essere genitori, sai, non volevo diventare la matrigna cattiva, non volevo cercare di rimpiazzare nessuno, ma alla fine...» Si strinse nelle spalle e assunse un'aria triste. «Se si potesse usare una bacchetta magica per indurre le persone a volerci bene, saremmo tutti lì ad agitarla come forsennati, vero?»

Michelle avvertì un inaspettato groppo alla gola.

Anna zuccherò il caffè e lo mescolò, facendo scomparire la schiumetta. «Scusa, sto parlando troppo, vero? Una noia mortale! Parlami di questo nuovo negozio. Come lo chiamerai?»

«Non ho ancora deciso.» Michelle sentì il tiepido raggio luminoso dell'attenzione di Anna puntato su di lei e ricominciò a sentirsi eccitata per il locale. Nella sua mente il puzzo di pesce si fece meno intenso. «Mi serve qualcosa di... confortante e un po' magico. Felice. Suggerimenti?»

«Home Sweet Home, allora. Non è quello che tutti stiamo cercando di creare?» Anna sorrise e spinse verso di lei il piattino della torta. «Aiutami a mangiare questa», disse. «Avrà il cinquanta per cento di grassi in meno, se ce la dividiamo.»

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La mattina dopo, quando Michelle arrivò al negozio con il muratore, il metro a nastro e il fascicolo del progetto, trovò davanti alla porta una scatola di cartone, legata grossolanamente con della rafia e corredata di un'etichetta su cui era scritto semplicemente Michelle.

Per un nauseante momento si chiese se Harvey fosse riuscito a trovarla, ma non era nel suo stile: lui non sceglieva di scrivere a mano se era disponibile la placcatura in oro. Slegò la rafia: trovò un pacchetto di biscotti squisiti e un biglietto di ringraziamento realizzato a mano, su cui spiccavano indirizzo e numero di telefono di Anna scritti con una grafia tondeggiante e un invito di Pongo a unirsi a loro per una passeggiata nel fine settimana, «quando farò il bravo, lo prometto». Anna aveva aggiunto un suo messaggio, sollecitando Michelle a passare a trovarla nella biblioteca in cui lavorava: durante la pausa pranzo, avrebbe potuto portarla a vedere le attrattive di Longhampton. «Non ci vorrà molto!» aveva precisato.

Michelle rimase ferma davanti al suo nuovo negozio e in quel preciso istante il sole fece capolino da dietro le nuvole illuminando la High Street di Longhampton. Si sentiva già meglio ancora prima che iniziassero i lavori di ristrutturazione.

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Seconda parte

Due anni e mezzo più tardi...

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Capitolo 1

1.

«Adoravo la magica vigilia di Natale descritta nelle pagine di Ciò che fece Katy: desideri spediti su per il camino e famiglie grate e affettuose. Un Natale perfetto!»

Anna McQueen

Anna McQueen aveva programmato il suo Natale fino all'ultimo pettirosso di pan di zenzero fatto in casa da appendere all'albero, ma la sua visione meticolosamente calcolata di bonomia festiva non aveva certo incluso lo scappare da casa sua usando il cane come pretesto per la fuga.

“Non è così che funziona nei libri”, pensò, lasciando che un Pongo estasiato la conducesse oltre il cancello di ferro battuto del parco e giù verso il canale, o provando un'umiliazione e un risentimento che rendevano particolarmente lunghe le sue falcate. Tradizione voleva che fosse la matrigna cattiva a spedire le figliastre fuori sotto la neve, dopo averle fatte sgobbare, mentre lei si scaldava le dita dei piedi davanti a un fuoco scoppiettante, non viceversa.

Be', si corresse, per essere giusti le ragazze non si stavano esattamente scaldando le dita dei piedi. Stavano chattando su Skype con la madre Sarah, che si trovava nella sua enorme nuova casa di Westchester, nello stato di New York. Lei si stava probabilmente scaldando le dita dei piedi davanti al fuoco. Oppure si stava facendo fare la french pedicure dagli elfi estetisti di Babbo Natale.

Era proprio quello il motivo per cui Anna aveva finito per massacrarsi di fatica nel tentativo di offrire loro il più bel Natale di sempre: voleva compensare il fatto che la loro madre avesse accettato, in luglio, un contratto di lavoro di due anni negli Stati Uniti. Davvero ironico, visto che in casa la presenza di Sarah si percepiva ben più della sua.

Batté con forza le palpebre rivedendo mentalmente Chloe, Becca e Lily assieparsi intorno al portatile con gridolini di felicità nel momento esatto in cui lei aveva tentato di dare inizio a una nuova tradizione familiare con una teglia piena di tortine farcite di frutta secca e rivestite di foglia d'oro che le avevano causato una scottatura al dito e un'indigestione da stress. Le tortine, o meglio il fatto che

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l'intera famiglia le avesse ignorate, erano state l'ultima goccia, suggellata da un commento pronunciato dalla madre di Phil, con il suo consueto inesorabile tempismo.

«Le hai preparate tu?» aveva chiesto Evelyn, le sopracciglia disegnate con la matita che si inarcavano fino alla massima e più sprezzante altezza. Era il primo commento diretto che le avesse rivolto in tutta la mattinata, e quando Anna aveva risposto con un modesto cenno del capo, Evelyn aveva fatto una pausa di un secondo per poi ribattere, raggelante: «Oh. In tal caso passo la mano».

Le vecchie streghe, d'altra parte, non mancano mai.

Pongo le saltellava di fronte, legato al suo nuovo guinzaglio natalizio, eccitatissimo nel potersi godere il tipo di energico esercizio fisico che normalmente assaporava solo quando Michelle lo portava a correre. Era felice quanto lei di essere uscito di casa. Se Anna non avesse inviato un sms a Michelle dal bagno in cui si era chiusa durante la lite per l'iPad, l'avrebbe fatto lui, ne era sicura.

Il cellulare le ronzò nella tasca e lei sorrise quando lesse il messaggio: «Vino versato, cioccolatini aperti, orecchie drizzate. Sbrigati! M».

In fondo alla via principale svoltò verso il reticolo di casette a schiera vittoriane che digradavano dolcemente fino a Swan's Row, una serie di piccoli cottage georgiani affacciati sulle rive del canale di Longhampton. Erano rimasti in stato di abbandono per anni, ma ora stavano rapidamente diventando le proprietà immobiliari più ambite della zona. In pratica Pongo la trainò fino all'ultima porta, di un rosso brillante e con una ricca ghirlanda di agrifoglio e edera collocata intorno al batacchio di ottone a forma di testa di leone, e lei sentì una fitta di invidia: Michelle festeggiava il Natale come da manuale. Anzi, come da rivista. Se Anna doveva essere sincera, la sua visione del Natale in fatto di decorazioni si era ispirata al principio «Cosa farebbe Michelle?». Oltre alla splendida ghirlanda, che era quasi sicura che l'amica avesse realizzato con le proprie mani, riuscì a distinguere, dietro la finestra del piano di sotto, un albero perfettamente simmetrico, costellato di lucine a forma di minuscole candele e palloncini di vetro rosso rubino.

L'albero di Natale a casa sua era leggermente storto perché Phil si era ricordato di passare dal vivaio solo quando ormai mancavano pochi minuti all'orario di chiusura, dopo di che Chloe aveva chiuso il bagagliaio dell'auto sopra la punta dell'abete; inoltre i palloncini si trovavano prevalentemente sulla metà inferiore,

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visto che Anna era riuscita a convincere soltanto la figliastra più piccola, Lily, ad aiutarla con gli addobbi. Ma quell'albero era amato, si disse. Era quella la cosa più importante.

Bussò con il batacchio, assaporandone il peso piacevole. Sentì che la sua irritazione cominciava già a stemperarsi, come sempre le succedeva quando andava da Michelle. La casa dell'amica era come la stanza che ti aspetti di visualizzare quando l'ipnoterapista ti sollecita a «pensare a un posto tranquillo».

La porta si aprì di colpo e un grosso bicchiere di vino venne allungato verso di lei.

«Spicciati», disse Michelle, simile a un elfo iperefficiente con il suo gilet di pelle di montone chiaro e gli stivali. «Bevi questo. Quanto tempo ho per rimetterti in sesto?»

«Tre quarti d'ora? Posso fingere che Pongo sia scappato per un po'.»

«Ti sei già preparata una scusa. Mi piace.» Le sorrise e spalancò la porta della veranda. «Entra, su.»

Anna fece un passo, poi si fermò. «Anche Pongo?»

Nonostante il profondo amore di Pongo per Michelle e il riluttante affetto di quest'ultima per lui, di solito gli veniva permesso di aspettare insieme a cappotti e stivali sulla veranda, il confine fra il sudicio mondo esterno e l'immacolata dimora di Michelle. La zona al di là delle piastrelle della veranda era vietata a scarpe e zampe.

«È dalle otto di stamattina che Chloe cerca di fissargli sulla schiena delle ali da angelo con il nastro adesivo», continuò Anna, «per poterlo usare come oggetto di scena durante la telefonata alla madre con Skype. Per cantare. Per cantare, Michelle. Non poteva augurarle semplicemente un buon Natale come chiunque altro? No, doveva esibirsi.» Si interruppe per un attimo. «Ci ha fatto canticchiare a bocca chiusa. Phil che canticchia, te lo immagini?»

Michelle alzò le mani. «In tal caso dovrò fare un'eccezione per le feste. Tienilo stretto, ho una cosa che può testare per me...» Mise a cuccia Pongo puntando un unico dito, poi scomparve dentro casa.

Anna sorseggiò il vino e fu assalita, come sempre, dalla magica sensazione di varcare una comunissima porta che conduceva a qualcosa di inaspettato. Dall'esterno il cottage al numero 1 di Swan's Row sembrava minuscolo. Soltanto

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le sfere di bosso gemelle sui gradini all'ingresso fornivano un indizio su quanto si trovava oltre la soglia: un interno incredibilmente arioso, dove lo sguardo poteva spaziare su stanze in tinte pastello costellate di enormi vasi in vetro pieni di vaporosi fiori bianchi, divani chiari ed enormi specchi dalla cornice dorata che riflettevano avanti e indietro la luce in un'interminabile parata di splendidi oggetti.

Visto che era Natale, Michelle aveva reso più caldo il suo schema cromatico includendo alcune ghirlande di pino che scendevano lungo la balaustrata della scala e teli bordeaux sulle poltrone, ma l'effetto complessivo era quello desiderato di sempre: un senso di pulito, accogliente, tranquillo, delicatamente profumato da giacinti invisibili e candele speziate. Anna lo adorava. Nulla era troppo ricercato o costoso; si trattava semplicemente dell'aspetto che lei avrebbe tanto voluto dare a casa sua, se avesse avuto il tempo di fare tutte le cose suggerite dalla sezione Stile delle riviste. E se avesse avuto un occhio infallibile per i colori, un muratore espertissimo, un gusto sopraffino, la capacità innata di trovare begli oggetti alle aste e un negozio di articoli per la casa nella via principale.

Si guardò intorno. Era difficile credere che fosse lo stesso cottage pieno di muffa in cui Michelle l'aveva invitata per la prima volta a bere un caffè quasi tre anni prima, dopo che Pongo le aveva trascinate entrambe lungo il sentiero riservato ai cani. Be', no, era facile crederlo, una volta che conoscevi Michelle. Era la persona più determinata e organizzata che lei avesse mai incontrato. Aveva un elenco giornaliero, uno mensile e uno annuale di cose da fare, e raggiungeva tranquillamente tutti gli obiettivi lì annotati, senza clamore. Una volta che Michelle aveva appuntato qualcosa, lo concretizzava sempre.

Anna avvertì uno spasmo di senso di colpa da compiti non fatti: quell'anno l'amica le aveva consigliato di stilare una lista contemporaneamente a lei, «così da incitarsi a vicenda», espressione con cui in realtà intendeva dire «incitare Anna». Ma Anna non aveva avuto nemmeno il tempo di iniziarla. Era stata troppo impegnata a restare indietro con la sfilza di incombenze parentali della settimana in corso, con in più alcuni extra quali liti con la suocera e fiaschi clamorosi con le tortine di frutta secca.

Michelle ricomparve con un enorme sacchetto verde e la sorprese a fissare la più recente aggiunta al tavolo dell'ingresso, una grossa cesta di vimini piena di giacinti che, a casa loro, Pongo avrebbe fatto cadere a terra nel giro di dieci minuti.

«Cosa c'è che non va?» chiese subito, un cipiglio che le increspava la fronte liscia. «Troppo grande? Sto pensando di venderle in negozio, questa primavera.»

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«No, è perfetta. Perfetta. Tutta la casa è perfetta.» Anna bevve un bel sorso di vino e si sfilò lo stivale destro con la punta del piede sinistro, senza curarsi di abbassare la cerniera. «Anche se io togliessi dalla nostra mio marito, le tre ragazze, il cane e ogni singolo mobile, non avrebbe comunque questo aspetto.»

«Be', non avere un marito, tre ragazze e un cane aiuta sicuramente.» Michelle si chinò e cominciò a fare qualcosa a Pongo con il sacchetto, ma ad Anna non importava più. Il vino e i giacinti le stavano diffondendo nell'organismo una benevolenza tipicamente festiva: il primo barlume di spirito natalizio della giornata.

La vigilia di Natale era stata piuttosto festosa, pensò malinconicamente. Prima che le ragazze aprissero i regali, quando lei era ancora convinta di avere comprato loro qualcosa di magnifico e intelligente, qualcosa grazie a cui si sarebbe creato un legame fra loro. Sentì formicolare la pelle per l'imbarazzo che aveva provato.

«Ecco fatto.»

Anna abbassò lo sguardo per scoprire Pongo avvolto in quello che sembrava una tutina per neonato. Lui dimenò la coda, o almeno qualcosa si mosse all'interno del sacchetto.

«Cosa diamine è quell'affare?» domandò.

«Una tutina a sacco per cani. Le sto testando per il negozio. Se hai dei tappeti e un cane, te ne serve una», continuò Michelle, con profondo spasso dell'amica. «Cosa c'è di tanto divertente?»

«Non chiedo alle persone di togliersi le scarpe, a casa nostra: i loro calzini cambierebbero colore a causa di tutti i peli di cane sparsi in giro.»

«Puoi prendere un accessorio per l'aspirapolvere che...» cominciò a spiegare Michelle, poi accettò di buon grado il gemito «Non-ti-sto-ascoltando!» di Anna. Fece schioccare la lingua e Pongo la seguì in casa, strascicando le zampe ed esibendo un'attenzione devota che non si prendeva mai il disturbo di riservare a nessuno dei suoi proprietari.

«Perché non prendi un cane?» chiese ad alta voce Anna mentre gli altri due scomparivano in cucina. «Uno che non perda il pelo. Qualcosa di beige, in modo che si intoni all'arredamento?» Allineò i suoi stivali accanto alle scarpe da jogging di Michelle sul portastivali in ferro battuto, pensando che tutte le suppellettili in

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cui riporre oggetti hanno un aspetto più gradevole quando in realtà non vi hai riposto granché.

«Ti farebbe compagnia», aggiunse, a voce non così alta.

Anna e Phil avevano tentato di accasare Michelle con tutti gli amici single che avevano, solo per vederli andare tutti incontro a un garbato rifiuto. Finché le ragazze non si erano trasferite da loro, Michelle aveva rappresentato una presenza fissa al tavolo dei McQueen ma, ora che le agende erano più difficili da coordinare, le cene da paraninfa si erano perse per strada e Anna si sentiva in colpa per questo.

Phil invece no. «Michelle non soffre certo di solitudine», aveva ribadito in risposta al suo suggerimento di invitarla da loro, il giorno di Natale. «Ha la sua famiglia numerosa e viaggia continuamente in aereo, nel weekend. Dov'è che è andata la settimana scorsa? A Parigi? E quella prima a Stoccolma.»

«Erano viaggi di lavoro», spiegò lei. «E sai cosa pensa della sua famiglia.»

«Viaggi di lavoro?» Lui parve sorpreso. «A me ha detto che era una minivacanza.»

Anna si era stupita, non certo per la prima volta negli ultimi tempi, di come un uomo sposato due volte, con tre figlie e una madre potesse avere tanta difficoltà nel capire le donne, e le famiglie.

«Compagnia?» Michelle comparve sulla soglia della cucina con un'espressione diffidente sul viso. «Non dirmelo. Phil ha un altro amico divorziato di fresco che ha bisogno di una donna che gli faccia funzionare la lavatrice? Non ho dimenticato l'incidente con Ewan.»

«Ewan non era... Si è trattato di un semplice malinteso.» Anna pensò di fare dietrofront: Michelle poteva dimostrarsi permalosa riguardo al proprio status di single e, ora che le veniva in mente – stupida che non era altro –, quello non era certo il giorno più adatto per sollevare l'argomento. Ma odiava pensare alla sua amica divertente e generosa tutta sola nella sua incantevole casa.

«Pensavo soltanto, sai, ai propositi per l'anno nuovo. Potresti adottare uno dei cani del canile, portarlo a spasso insieme a me e Pongo.» Tentò di sorridere. «È così difficile vederti, ora che faccio parte del gruppo di genitori che portano i ragazzi a scuola e vanno a riprenderli. E io ho bisogno delle nostre conversazioni.

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Sei il mio unico legame con quella parte di mondo che non impazzisce per Justin Bieber.»

L'espressione di Michelle si addolcì. «Posso ancora venire a passeggiare insieme a te. Dobbiamo trasformarla in una priorità. Senti, vieni in cucina, sto scaldando delle tortine di frutta secca.»

Prima che lei operasse la sua magia sulla casa, la cucina e il tinello erano due anguste stanzette sul retro. Strati di tappezzeria spugnata anni Ottanta erano stati rimossi e sostituiti da vernice grigio tortora della Farrow&Ball e credenze artigianali su cui facevano bella mostra porcellane svedesi. In onore del Natale – che Michelle, essendo sola, non stava festeggiando –, grandi stelle d'oro erano collocate fra i piatti. Questi ultimi non erano mai stati usati, per quanto Anna potesse ricordare: a dispetto della sua magnifica casa, l'amica non vi invitava mai nessuno.

Anna si lasciò cadere su una sedia accanto al tavolo della cucina e sentì scomparire le ultime tracce di tensione mentre guardava Michelle spostarsi da un credenzino all'altro, radunando piattini e forchette. I suoi tre quarti d'ora stavano passando troppo in fretta.

«Perché non mi hai detto che saresti rimasta qui da sola? Pensavo che andassi dai tuoi, il giorno di Natale», disse, prendendo un cioccolatino alla rosa dalla scatola aperta, come promesso nell'sms, sul tavolo. «Non organizzano un megaraduno?»

«Sì. Ed è proprio per questo che non ci andrò.» Michelle portò la bottiglia di vino fino al tavolo per rabboccare i bicchieri. «Diventano talmente competitivi con Trivial Pursuit che se all'ora del tè qualcuno non sta già piangendo iniziano a discutere su chi ha l'automobile più costosa, così da offrire a tutti l'occasione per deprimersi. Prima o poi dovrò andarci, solo... non oggi. Comunque, cosa diamine è successo dai McQueen per spingerti a venire a nasconderti qui alle tre e mezzo? Phil ha litigato di nuovo con sua madre?»

«Non ancora. Può darsi benissimo che lo stia facendo adesso, però.» Anna posò i gomiti sul tavolo e premette gli occhi sui palmi delle mani. «Si tratta di me. Dovevo assolutamente uscire.»

«Be', hai passato gli ultimi tre mesi a preparare il Natale...»

«Non è questo il problema.» Lei si sforzò di disporre nel giusto ordine i suoi sentimenti, così da non suonare egoista. «È solo che mi sento un po' un pezzo di

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ricambio nella mia stessa casa. È successa una vera catastrofe con i miei regali, tanto per cominciare. Ho sentito le ragazze riderne con Sarah.» Alzò gli occhi. «Non dirlo a Phil. Non lo sa.»

«Cosa? Non glielo dirò, se non vuoi, ma lui dovrebbe saperlo. È indice di una tale maleducazione! Cosa hai preso? Un set di pennelli da trucco di Bobbi Brown per Chloe, come ti ho consigliato? E per Becca il corso di scuola guida?»

Anna si strinse il viso fra le mani in un urlo silenzioso. «No. Ho comprato dei libri per tutte e tre. I libri che più amavo quando avevo la loro età.»

Michelle rimase a bocca aperta. «Oh, non dici sul serio.»

«Certo che dico sul serio. Libri sufficienti per un anno! Io avrei adorato un regalo del genere. Pensavo che avrei potuto leggere a Lily i suoi, prima di dormire.» Anna si accorse che il viso le si scaldava e arrossava. «Adoravo le storie della buonanotte di mia madre. Nessuno ha mai letto qualcosa a quelle ragazze, è un tale peccato, si stanno perdendo così tanti ricordi magnifici!»

«Anna, non fraintendermi, ma tu hai trentun anni e fai la bibliotecaria. Lily ne ha otto. E Becca sta per affrontare gli A-levels, che decideranno del suo ingresso o no all'università: dopo questi esami, probabilmente, non vorrà più vedere un altro libro in vita sua. Quanto a Chloe... Be', non è esattamente un'accanita lettrice, giusto?»

Anna bevve un altro sorso di vino e cercò di non pensare all'espressione sul viso delle ragazze quando avevano scartato i pacchi più grandi. Com'era possibile che Michelle avesse indovinato come avrebbero reagito quando invece lei, che passava tutto il giorno a preoccuparsi per loro, non c'era riuscita?

Becca aveva tentato di mostrarsi educata, ma era rimasta palesemente delusa, Chloe era parsa sprezzante, Lily sconcertata. Per fortuna – o forse no – era arrivato Phil con l'enorme sacco di regali ordinati su Internet in base alle loro numerose liste dei desideri, e Anna era rimasta sola con il paternalistico spasso di Evelyn e una montagna di carta da regalo strappata. E trentasei dei suoi libri per l'infanzia preferiti, rintracciati sul web: prime edizioni, copie autografate, tutte speciali.

Deglutì, ma l'umiliazione continuò a riempirle la gola come bambagia. «Non girare il coltello nella piaga, capisco che non era ciò che desideravano, e so che è stato difficile abituarsi alla sottoscritta in veste di matrigna invece che di qualcuno che vedono soltanto a weekend alterni ma...» Alla fine si arrese al suo dolore.

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«Sei l'unica persona a cui posso dirlo, Michelle, ma cosa ne è stato del fingere di apprezzare i regali? Così come io ho finto di essere felice del dannato siero elisir-di-giovinezza?»

«Carino. Immagino che tu le abbia ringraziate profusamente, per quello», disse Michelle, secca.

«Certo.» Anna infilò il naso nel bicchiere di vino. La scatola del siero diceva per pelli mature. Lei aveva solo tredici anni più di Becca!

«Ritiro tutto: devi parlarne a Phil», affermò la sua amica, aprendo di scatto lo sportello del forno per estrarre una teglia. «Lui deve assumersi una parte di responsabilità per il modo in cui ti trattano. Non sei una governante che ha casualmente sposato il loro padre. Sei la loro matrigna e loro abitano a casa tua. Tieni. Assaggia una di queste.»

Spinse verso di lei un vassoio di tortine ripiene di frutta secca. Anna ne prese una e notò tristemente come fosse leggera, profumasse d'arancia e si sciogliesse in bocca.

«Arrivano dalla gastronomia», spiegò Michelle vedendo la sua espressione addolorata. «Le scorciatoie sono ammesse. Smettila di tentare di essere Wonder Woman.»

«Ma è davvero così strano regalare libri?» chiese lei in tono lamentoso. «Io adoravo passare il giorno di santo Stefano a leggere. Lo facevamo tutti. Io, mamma e papà, seduti lì a leggere i nostri libri di Natale con un'arancia di cioccolato e una tazza di tè.»

«Dipende da quali libri hai tentato di rifilare alle ragazze.»

«Non erano istruttivi, se è questo che intendi. Ho regalato a Lily alcuni libri che conosce grazie ai suoi dvd Disney, come Mary Poppins e La carica dei 101, mi sembrava un modo astuto per destare il suo interesse. Lei ha davvero un dalmata che si chiama come il protagonista della storia.»

«Fintanto che non cominci a dire a quella povera bambina: “Il libro è di gran lunga migliore”.» Michelle prese una tortina, tagliandola a metà. «E cosa mi dici della primadonna McQueen? Cosa diamine hai scelto per lei? Scarpette da ballo? È ambientato in una scuola di teatro, vero?»

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Anna sollevò il mento. «A Chloe ho regalato tutti i romanzi di Judy Blume che ricordo di aver amato a quindici anni. Per sempre e Deenie. E alcuni della serie Malory Towers...»

«Malory Towers?» Le sopracciglia di Michelle scomparvero nella sua folta frangia scura. «Cosa ti è passato per la testa?»

«Io adoro quella serie», protestò Anna. «La leggo ancora, ogni tanto, quando ho bisogno di tirarmi su. La trovo confortante.»

«La trovi confortante solo perché l'hai letta quando avevi sette anni e pensavi che in tutti i collegi ci fossero banchetti di mezzanotte e ragazze che portavano in classe il proprio pony. E hai regalato quei libri a una ragazza che non riesce a decidere se fare un'audizione per X Factor o per American Idol?»

«Sì», rispose Anna con un filo di voce.

«Buon Dio.» Michelle prese nuovamente il bicchiere. «È questo che tengono nella sezione di libri per adolescenti? Non stupisce che i ragazzi non vadano in biblioteca.»

Anna si adombrò. La biblioteca era un punto dolente. Il suo posto di vicedirettrice di quella di Longhampton era stato eliminato, nell'ambito di una politica selvaggia di tagli, tre settimane prima della partenza di Sarah per gli States. La liquidazione non era male e Phil guadagnava più che abbastanza per pagare le bollette, ma per lei dirigere una biblioteca era stato ben più di un lavoro. Aveva organizzato gruppi di lettura serali, sessioni di lettura ad alta voce in case di riposo, club del libro per neomamme... qualunque cosa pur di introdurre i libri nella vita delle persone.

«Non ero io la responsabile della letteratura per bambini», precisò freddamente. «Era una sezione a sé stante. Un posto di lavoro che non è stato eliminato.»

«Scusa», ribatté Michelle, «ma non avevamo concordato che era ora di pensare positivo? Ora di lasciarselo alle spalle?» Fece alcuni tipici gesti motivazionali con il pugno chiuso. «Non volevamo stilare l'elenco volto a focalizzare la tua mente sull'anno nuovo?»

«Dobbiamo proprio?»

«Facciamolo adesso», propose lei, tirando verso di sé il suo onnipresente taccuino. «Avanti.»

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«Non ho nemmeno un foglio.»

«Te ne trovo subito qualcuno. Consideralo un regalo di Natale extra.» Michelle andò in salotto e lei la sentì aprire la ribaltina della scrivania per prendere uno dei taccuini rilegati in pelle di cui possedeva una scorta illimitata.

Anna osservò mestamente il suo bicchiere. Si era aspettata che Chloe si mostrasse sprezzante, era tipico dell'adolescenza; era stata Lily quella che aveva sperato di rendere felice. Lily che aveva un'aria così triste quando pensava che nessuno la stesse guardando, che sembrava così sola accanto al cancello della scuola, senza amiche con cui stare. Lily che tentava così strenuamente di dare l'impressione che andasse tutto bene quando ovviamente non era affatto così. Anna non si era mai sentita sola, una volta imparato a leggere e, anche se la bambina rifiutava le favole della buonanotte lei aveva sperato che potesse trovare un amico in Michael Morpurgo o in Mr Gum.

«Su col morale, Anna», la sollecitò Michelle, mettendole davanti un taccuino. «Domani partiranno per New York e tu ti godrai una settimana a tu per tu con Phil, e quando tornano saranno una miniera di aneddoti su come la mamma non sappia cucinare e come il cioccolato americano sappia di vomito, e di: “Dov'è la mia ricerca per la scuola che hai promesso di aiutarmi a fare”?».

Anna si ficcò in bocca un'altra tortina e cercò di ignorare l'espressione implorante di Pongo. «Non sarà affatto così. Sarah si è trasformata in una di quelle mamme “le-mie-figlie-sono-le-mie-migliori- amiche”. Saranno in perenne modalità shopping. Adesso lei lavora alla sede centrale e non più in un remoto avamposto di Longhampton, quindi è tutta incontri al vertice e manicure. E un sacco di contanti per i regali, cosa che noi non abbiamo più.»

«Faccia pure.» Michelle la guardò dritta negli occhi. «Cosa intendi fare tu, mentre sono via? Per te stessa?»

Lei buttò fuori il fiato dal naso. «Rimanere a letto fino a tardi?»

Non si era mai sentita così esausta. I mesi immediatamente successivi alla partenza di Sarah erano stati un vortice senza fine: nuove scuole, una nuova auto su cui far stare tre persone in più, nuovi vestiti, nuova routine, nuovi pasti per tre commensali schizzinose in modi diversi. Nella loro reciproca confusione se l'erano cavata discretamente, soprattutto perché Anna si era fatta in quattro, se non in otto, per alleviare lo shock per chiunque altro. Soltanto ora che il gusto della novità si era completamente esaurito cominciavano a emergere i veri problemi.

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Problemi che non le era consentito ammettere di avere, per esempio l'impressione di venire al sesto e ultimo posto, dopo il cane.

Michelle spinse il taccuino verso di lei. «Avanti. Fallo subito: hai venti minuti per scrivere tutti gli obiettivi che ti prefiggi di raggiungere quest'anno. Con le tue forze soltanto. Coraggio, lo farò anch'io.»

«Tu sai già quello che vuoi», protestò Anna. «Probabilmente hai già la tua lista stampata in testa.»

L'amica le passò una penna. «Vuoi che ti scriva io l'elenco? Puoi cominciare con: “Dare un bel calcio nel sedere a mio marito”.»

«No.» Anna fissò la pagina bianca che aveva di fronte. Non le serviva così tanta carta: aveva soltanto un unico obiettivo primario per quell'anno, uno a cui aveva aspettato di potersi dedicare per tutta la sua vita adulta. Il solo pensiero la colmava di un'eccitazione sfavillante, ma era un traguardo estremamente delicato. Non voleva privarlo della sua magia mettendolo per iscritto, accanto a: «Sbrinare il freezer», o: «Costringere Chloe a stabilire una tabella di marcia per il ripasso».

Alzò gli occhi sull'amica, intenta a scrivere a gran velocità, creando titoli e sottotitoli con vivaci frecce da diagramma di flusso. Anche se in casa non c'era nessuno che potesse vederla, Michelle si era comunque truccata di tutto punto, con tanto di eyeliner nero. “Forse imparare a mettermi l'eyeliner in quel modo dovrebbe essere uno dei miei obiettivi”, pensò Anna, ammirando i tratti ben delineati agli angoli dei tondi occhi castani. Apparivano ordinati e perfetti come quelli della bambolina Bratz di Lily.

«Forza», disse Michelle senza alzare lo sguardo. «Scrivilo e si avvererà, è questo il mio motto.»

Lentamente, Anna scrisse in cima al foglio: «Nuovo anno», lo sottolineò due volte e poi aggiunse: «Avere un bambino».

Michelle alzò gli occhi, ormai a metà della seconda pagina. «Hai finito? Di già?»

La sua amica annuì.

«Fammi vedere.»

Anna spinse il taccuino sul tavolo, verso di lei, e la guardò in faccia, non sapendo bene come avrebbe reagito.

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Sapeva che i bambini non figuravano sicuramente sulla lista di cose da fare di Michelle. Longhampton sembrava vantare il più alto tasso di natalità delle Midlands, e prima che le figlie di Phil si trasferissero da loro lei e Michelle avevano trascorso ore a lamentarsi al Ferrari's, l'enoteca locale, delle seducenti mammine alla riscossa, della serie: «Non capisci davvero la vita finché non hai un figlio», che spendevano una fortuna allo Home Sweet Home e si trovavano d'accordo nell'elencare i cento e uno motivi per cui diventare madre non ti rendeva seduta stante più preziosa, comprensiva o saggia.

Michelle trovava irritanti le ipotesi che le persone formulavano sul fatto che non aveva figli: gli uomini d'affari locali insinuavano che fosse «una di quelle energiche donne in carriera», mentre le donne in carriera pensavano che avesse la vita facile. Il brontolio di Anna circa la maternità, tuttavia, aveva rappresentato soprattutto un mezzo di difesa. Desiderava un figlio suo, eppure doveva mostrarsi enormemente grata per «le figlie bonus» di Phil, essere una «madre eppure non una madre»: il peggiore di tutti i mondi possibili.

«Wow», disse Michelle. «È questo il tuo principale obiettivo per il nuovo anno? Insomma, è uno scopo magnifico da prefiggersi, ma... nient'altro? Non trovare un nuovo lavoro? O riarredare la casa?»

Anna scosse il capo. «Ho già aspettato abbastanza a lungo. È l'unica cosa che io desideri davvero sin da quando ero piccola, avere una famiglia numerosa come quella dei March di Piccole donne. Tormentavo sempre mia madre chiedendole quando avrei avuto fratelli e sorelle.» Si morsicò il labbro. «Una volta le ho domandato se avessero voluto soltanto un figlio e mi ha risposto di no, che avrebbero adorato riempire la casa di bambini. Deve averle spezzato il cuore sentirmi giocare con i gatti fingendo che fossero bebè.»

«Credimi», replicò Michelle, «non ti sarebbe piaciuto avere dei fratelli.»

«Sì, invece», ribatté lei. «Avevo fratelli immaginari, sorelle immaginarie, cavalli, cani... il servizio completo. Dubito che Chloe, Becca e Lily si rendano conto della fortuna che hanno.»

«Allora perché i tuoi genitori non hanno avuto altri figli?»

«Hanno rimandato troppo a lungo. A quanto pare in famiglia c'è una storia di menopausa precoce... non che all'epoca la mamma lo sapesse. In pratica mi ha detto di rassegnarmi, quindi è un'idea con cui ho sempre fatto i conti.» Anna giocherellò con il bicchiere di vino. «È una delle questioni su cui Phil e io

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eravamo d'accordo, quando ci siamo sposati: avremmo lasciato alle ragazze il tempo di abituarsi a tutto, ma avremmo iniziato a tentare di avere un figlio nostro a partire dal quarto anniversario di matrimonio, che cade il mese prossimo.»

«Caspita», commentò Michelle. «Quindi devo cominciare a tenere in negozio pagliaccetti da neonato con su scritte citazioni letterarie, in vista di ottobre?»

Anna sorrise e le mostrò le dita incrociate.

«Phil è pronto per tutto questo?» Michelle inarcò di nuovo le sopracciglia e lei capì cosa stava per arrivare. «Se è troppo sfinito per portare a spasso Pongo, come riuscirà quel poveretto ad affrontare l'idea della messa in cantiere di un bambino, per non parlare del resto della faccenda? Dovrà cominciare a fare la propria parte. Tu stai sgobbando più adesso di quando avevi un lavoro a tempo pieno.»

Il suo regalo di Natale tipicamente generoso per la migliore amica era stato un buono per dieci ore di stiratura, cinque uscite con il cane e un intero giorno in una spa insieme a lei, ma si era assicurata che Phil fosse presente quando Anna lo apriva. Lui aveva avuto il buon gusto di assumere un'aria imbarazzata e, una volta uscita Michelle, si era detto pronto a offrire ad Anna le stesse ore. Ma non era quello il punto. Phil le aveva regalato un nuovo ferro da stiro, invece della biancheria di seta avvolta nella carta velina degli ultimi anni.

«Be', il contratto di Sarah dura soltanto due anni», sottolineò Anna. «Lei potrebbe persino tornare prima della nascita del bambino, quindi a quel punto potremmo benissimo non avere più le ragazze a casa nostra.»

«Non è questo che ti ho domandato.»

«Phil sa quanto sia importante per me. E lo è anche per lui. Non che io non voglia bene alle sue figlie, perché le amo, e molto. Ma non mi è permesso di amarle incondizionatamente, se capisci cosa voglio dire. Il nostro bambino sarà parte di me quanto...»

Si costrinse a fermarsi e trasalì, a disagio. «Non riferire a nessuno che l'ho detto. Anzi, dimentica che io l'abbia mai detto. È uno di quei grandi tabù.»

«A me puoi raccontare qualsiasi cosa, lo sai», asserì Michelle. «A chi mai potrei riferirlo?» aggiunse, indicando con un cenno del capo il salotto deserto.

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«Phil mi ha promesso che avremmo tentato di avere un figlio molto presto», dichiarò Anna, «e se devo riconoscergli un pregio è che mantiene sempre le promesse. È tipico dei padri, a quanto pare.»

Mentre udiva le proprie parole avvertì un senso di tepore natalizio alla bocca dello stomaco che poi le si propagò dentro come una fiamma calda, eliminando le tracce di risentimento causato da Evelyn e dai libri. Gli ultimi anni erano stati come un percorso di guerra, ma aveva imparato a mordersi la lingua e tenuto fede alla propria parte dell'accordo, e adesso, finalmente, sarebbe arrivato il suo turno.

«E tu?» chiese, prendendo il taccuino dell'amica. «Cosa hai scritto? Wow. “Nuovo negozio”? “Raddoppiare le vendite via Internet.”» Alzò gli occhi. «Michelle, non credi che tu dovresti figurare su questa lista?»

«Infatti ci sono.» Michelle indicò la scritta: «Essere eletta nell'associazione commercianti» sotto l'intestazione: «Obiettivi personali». «E anche qui», aggiunse, mostrando: «Correre la mezza maratona di Longhampton».

«Non intendevo questo. Mi riferivo a te. Cosa mi dici della tua vita al di fuori del lavoro? Detesto pensarti qui da sola, sera dopo sera. Questa casa è di gran lunga troppo bella per non dividerla con qualcuno.»

Lei sgranò gli occhi fingendosi orripilata. «Cosa? E vedermi costretta a pulire dopo il passaggio di qualcun altro? No, grazie.»

«Dimentica la casa. Tu sei troppo bella per non dividerti con qualcun altro.» Anna allungò una mano per afferrare quella dell'amica. Quando era con Michelle doveva dominare il suo impulso innato a distribuire pacchette e abbracci – all'amica non piaceva che si invadesse il suo spazio personale –, ma a volte non riusciva a trattenersi. «So che Harvey era un bastardo e gli amici di Phil non sono... il tuo tipo, ma questo non significa che tu debba mettere una pietra sopra tutti gli uomini. Là fuori c'è la persona giusta per te, se soltanto sei disposta a cercarla.»

Michelle le strinse forte la mano a sua volta, poi prese il bicchiere. «Anch'io sono sicura che ci sia, ma non ho ancora voglia di incontrarla. Voglio guadagnare una montagna di soldi, vendere questa casa e poi trovare un bell'uomo dai capelli grigi, un ex gestore di fondi speculativi della City in pensionamento anticipato con uno yacht nel Principato di Monaco.» Sorrise, un rapido sorriso tirato delle labbra scarlatte. «Dopo di che staremo a vedere come va.»

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«Non trasferirti a Montecarlo», la implorò tristemente Anna. «Sentirei la tua mancanza.»

«Potresti venire con me. Tu e la tua nidiata alla Van Trapp di piccoli McQueen, tutti in magliette coordinate della Petit Bateau. Porta la chitarra.»

Sotto il tavolo, Pongo emise un profondo sospiro e si lasciò scappare un rumore sospetto.

«E su questa gaia nota», disse Anna, «mi conviene levare le tende. Dobbiamo riportare Evelyn alla casa di riposo e credo di avere bevuto giusto abbastanza per evitare l'incombenza di riaccompagnarla.» Spinse indietro la sedia e si passò le mani fra i ricciuti capelli biondi, raccogliendoli in una coda di cavallo.

Il telefono squillò e lei guardò istintivamente verso il tavolino su cui era sistemato, ma Michelle lo ignorò e si versò un altro bicchiere di vino.

«Non hai intenzione di rispondere?»

«No. Tu sei qui, quindi all'altro capo del filo possono esserci solo due persone: mia madre, che mi chiama per cercare di farmi sentire in colpa, oppure Harvey. Non mi va di parlare con nessuno dei due.»

«Cosa? Oggi non hai parlato con tua madre?»

«Certo che sì! Per chi mi prendi? Li ho chiamati stamattina, prima che andassero tutti in chiesa.» La fronte di Michelle si aggrottò leggermente, in mezzo alle sopracciglia. «Li ho ringraziati per le pantofole di pelo di montone e il kit per liberare l'auto dal ghiaccio, e la mamma si è lamentata dei regali inadatti che ho mandato ai figli dei miei fratelli, poi ha lasciato cadere qualche pesante allusione su un'anziana zia sola e non sposata a cui ieri hanno fatto una visita di dovere. E alla fine mi ha detto più o meno che dovrei rimettermi con Harvey, altrimenti diventerò come la suddetta zia.»

«Ma perché proprio lui? Siete separati da più di tre anni. Non è l'unico uomo sulla terra. Potresti avere chiunque.»

«La mamma adora Harvey. E da quando me ne sono andata lui è il venditore di maggior successo, nella concessionaria di papà. Credo che segretamente preferirebbero tenere lui piuttosto che me.» Michelle distolse lo sguardo e Anna sospettò che stesse celando una reazione meno irriverente. «Inoltre... be', è complicato. Lui ha trascorso il Natale da loro. Continuo a ripetere alla mamma che dovrebbe limitarsi a adottarlo e chiuderla lì.»

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Vedendo che l'amica stava per ribattere, la bloccò con un'occhiata. «Comunque ho detto loro che stavo facendo la volontaria in una casa di riposo. Quella faccenda del leggere ad alta voce che organizzi tu.»

Anna rimase a bocca aperta; Michelle la imitò alla perfezione e risultò così buffa, gli occhi castani sgranati come quelli di un personaggio da cartone animato nel viso a forma di cuore, che per la prima volta quel giorno una risata genuina sgorgò dalle sue labbra. L'idea di Michelle nell'ambiente squallido e pervaso dall'odore di cavolo della Butterfields Residential Home – e intenta a leggere un libro, per di più – era davvero assurda.

«Per punizione ti costringerò a partecipare alla prossima sessione. Oh!» disse, mentre si rammentava di una cosa. «Volevo proprio raccontartelo... Chi pensi che abbiamo visto comodamente seduto nel salotto, quando siamo andati a prendere Evelyn, stamattina?»

«La principessa Anna? Il presentatore Terry Wogan?»

«Cyril Quentin. Sai, il proprietario della libreria. Questo spiegherebbe come mai sia rimasta chiusa, la settimana scorsa.» Anna si infilò il montgomery e cominciò ad avvolgersi la sciarpa intorno al collo.

«È sempre molto difficile stabilire se quella libreria sia aperta o chiusa.» Michelle serrò le labbra.

«Oh, no.» Il viso di Anna si raggrinzì per il senso di colpa. «Ho tentato di comprare lì metà dei libri per le ragazze, ma...»

«Li hai presi su Internet, invece. Così è la vita. Oggigiorno le librerie sono soltanto duro lavoro, soprattutto quando in vetrina hai ancora oggetti ricordo del matrimonio reale, risalenti al gran giorno della Ferguson.»

Anna sapeva che l'amica aveva ragione, ma la cosa la rattristava comunque. «Non è stato sempre così. Adoravo fare un salto là per curiosare sugli scaffali, quando Agnes Quentin era ancora viva. Evidentemente si occupava lei di quasi tutti gli acquisti. L'ultima volta in cui ci sono entrata ho dovuto aprirmi un varco fra montagne di testi di storia militare per trovare qualcosa, e c'era uno strano odore di...»

Il suo cellulare ronzò, bloccandola a metà frase. «Phil», disse con un sospiro. «Sua madre si è svegliata e le ragazze stanno litigando per la Wii. Vuole riavere Pongo così può portarlo a fare una passeggiata.»

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Sentendo fare il suo nome, il dalmata emerse da sotto il tavolo con la sua tutina a sacco verde. «È davvero Natale per te, vecchio mio», commentò Michelle. «Doppia razione di passeggiate rispetto al solito.»

«Forza, andiamo a rituffarci nella mischia», disse Anna.

«Tieni pure la tutina», disse Michelle, accarezzando con affetto le orecchie del dalmata. «Considerala parte del suo regalo di Natale, ho in serbo per lui altre cose. Ma lasciagliela addosso finché non uscite.»

«Grazie.» D'impulso Anna la abbracciò, sentendone il corpo minuto ma robusto premere contro il suo, più allampanato. «Sei sicura di non voler venire da noi? Almeno per la cena? Detesto lasciarti qui da sola.»

«Sto benissimo. Ho comprato un costosissimo pasto per una sola persona. Ora lasciami andare, mi stai sbavando il trucco.» La voce di Michelle suonò smorzata contro il cappotto di Anna che, quando si ritrasse, vide che l'amica, pur sfoggiando un eyeliner ancora impeccabile, aveva gli occhi lucidi.

«Sarà un buon anno», insistette.

«Lo so», replicò Michelle. «Smettila di sforzarti tanto e lascia che succeda.»

Anna lo giudicò un commento davvero buffo, visto che arrivava da Michelle, ma lasciò perdere.

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Capitolo 2

«Ho letto Le cronache di Narnia in fondo all'armadio dei miei genitori, sperando che le pareti di quercia si trasformassero in rami carichi di neve.»

Francine Toon

Fisicamente Michelle non era la tipica podista: era minuta e aveva gambe leggermente più corte di quanto avrebbe desiderato. Tuttavia possedeva una determinazione che trasformava ogni giro della cittadina in una gara con sé stessa.

Non aveva rinunciato alla sua routine solo perché era Santo Stefano, o forse proprio perché lo era: corsa mattutina seguita da una doccia, una caffettiera a pressofiltro di caffè keniano e due bicchieri d'acqua, porridge, lista di cose da fare e poi una furtiva sbirciatina ai siti web di pettegolezzi. Amava attenersi a una tabella oraria rigida come quella ferroviaria, ma quel giorno voleva essere in piedi e fuori casa di buon'ora nel caso la madre avesse richiamato per tentare di farla sentire tanto in colpa da guidare fino al Surrey, così da poter rincarare la dose un altro po'.

Corse lungo l'alzaia deserta del canale, oltre le acque grigio argento dove tre anatre marroni nuotavano in silenzio, e svoltò a sinistra sul sentiero che portava in città. Il suo fiato creava nuvolette bianche nella fredda aria mattutina e lei sentiva il sangue pomparle nel corpo, ripulito e bollente. Vide alcune persone intente a portare a spasso il cane e salutò con un cenno del capo quelle che conosceva: Juliet, la dog-sitter di Anna con il terrier bianco e il labrador color cioccolato, e una coppia anziana insieme a un bassotto brizzolato, tutti e tre in giacca cerata.

Il consueto tragitto la condusse giù fino alla fila di villette georgiane bianche in perenne ascesa sociale e verso le casette a schiera vittoriane più vicine al centro, dove i suoi occhi spuntavano la lista di strade intitolate a poeti: Tennyson Avenue, Wordsworth Road, Donne Gardens. Erano le sue aree clienti ideali e le piaceva monitorare quello che vi succedeva. Mentre passava davanti alle finestre delle abitazioni sbirciò dentro e notò un paio delle sue stelle di filigrana d'argento e alcune delle lucine per l'albero di Natale che erano andate esaurite in un'unica settimana. Questo le fornì una scarica di energia supplementare quando svoltò su per la collina, diretta verso il settore principale di Longhampton.

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In fondo a Worcester Street si ritrovò a dover scegliere se svoltare a destra per scendere poi fino alla strada principale oppure a sinistra per girare in tondo accanto al parco. Normalmente non avrebbe corso fin giù nella via centrale, ma la vide molto tranquilla; inoltre, un pensiero la stava assillando sin da Milton Grove, dove ogni finestra della facciata rivelava una libreria piena zeppa, con volumi che, in alcuni casi, andavano dal pavimento al soffitto. Non era un'amante dei libri, a meno di considerare quelli d'arte di grande formato e ricchi di illustrazioni, che adorava e sistemava in ordine di altezza sul suo poggiapiedi. Ma l'interesse di Anna per la libreria di Quentin l'aveva indotta a chiedersi se non si stesse lasciando sfuggire qualcosa che magari gli abitanti delle vie dei poeti sarebbero stati interessati ad acquistare.

Sulla strada principale c'erano alcune anime solitarie che fuggivano dalla mattinata postnatalizia, ma pochi negozi erano aperti. Due donne stavano osservando le vetrine festive dello Home Sweet Home, ma erano già passate oltre prima che Michelle superasse quella di Boots. Rallentò davanti alla libreria e sbirciò attraverso la vetrina buia, con il cuore che ancora le martellava nel petto mentre faceva stretching per alleviare il bruciore ai tendini del ginocchio.

Dentro, la stanza principale era immersa nella penombra, con libri impilati ovunque, e bastò il disordine per farle desiderare di forzare la serratura ed entrare a rassettare. Il negozio vacillava sull'orlo della chiusura ormai da settimane; in alcuni giorni il cartello con la scritta aperto non veniva nemmeno girato. Michelle aveva fatto un salto lì un paio di volte per salutare, ma non ci andava da mesi, soprattutto perché Cyril Quentin, da tipico maniaco dei libri qual era, sapeva fiutare un «non lettore» a un chilometro di distanza e la faceva sentire a disagio. L'impressione che aveva ricavato dalla sua ultima visita era stata quella di una sorta di quiete da club privato che, secondo lei, non rispettava l'unico mandato di un negozio: sedurre ed entusiasmare il cliente inducendolo a separarsi da alcuni contanti per portare a casa con sé parte di quell'entusiasmo.

Una strana malinconia la assalì mentre tentava di distinguere dove terminasse la facciata della libreria e iniziasse il retrobottega. Si chiese se i Quentin avessero mai rinnovato i locali. Gli scaffali, che si allineavano come costole nell'intera stanza, avevano l'aria di trovarsi lì sin dal giorno dell'apertura. Il buio era tanto fitto che Michelle non riusciva a capire da dove potesse mai arrivare della luce.

Ma quel negozio aveva del potenziale. Un potenziale enorme. Se si raschiavano le assi del pavimento con la carta vetrata, pensò, si tinteggiava tutto di un tenue color corda con qua e là particolari dipinti con una tinta accesa, si

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aggiungeva un sistema di illuminazione intelligente e si toglievano quelle scaffalature immerse nell'ombra, avrebbe potuto trasformarsi nell'emporio di biancheria da letto ideale. Lo Home Sweet Home ii.

La biancheria da letto si sarebbe venduta come il pane, di lì a breve; Michelle lo sapeva grazie al suo ossessivo navigare su Internet alla ricerca di coprimaterassi di piuma e morbidissime coperte. I suoi clienti abituali si lamentavano di avere dovuto rinunciare all'abbonamento alla palestra o alle uscite serali a causa della crisi, ma continuavano a voler stare comodi dentro casa, soprattutto nella fredda Longhampton, con le sue piovigginose primavere che sembravano non sbocciare fino all'ultimo momento possibile e gli umidi autunni pieni di foglie che iniziavano a cadere il giorno dopo la conclusione del torneo di Wimbledon.

Osservò l'interno della libreria con la sua vista da arredatrice a raggi x. Immaginò di sostituire i cumuli di tascabili con letti matrimoniali dal telaio d'ottone coperti di fresco cotone bianco e trapunte di piume d'oca, sistemati sull'assito levigato e costellato di tappeti in stoffa cremisi e color crema. Vide gli scaffali riempiti con coperte ordinatamente ripiegate, lana d'agnello irlandese a strisce in tinte pastello, sacchettini di lavanda a forma di cuore, il nastro viola, il suo marchio di fabbrica, che legava completi da letto disposti in base al colore. Il suo cuore accelerò i battiti, ma non a causa dell'esercizio fisico. Non aveva fatto altro che scrivere sulla sua lista: «Nuovo negozio» ed eccolo lì, il locale proprio accanto al suo, con Anna che le dava la dritta prima che chiunque altro lo venisse a sapere. Era destino che succedesse. Qualcuno lassù aveva deciso di offrirle una chance, una volta tanto.

Tirò fuori il cellulare, si appuntò di rintracciare gli avvocati – ricordava vagamente che era lo studio legale Flint and Cook a curare gli interessi dei commercianti più anziani –, poi riaccese la musica e tornò di corsa fino a casa, con la mente invasa da tavole colori, applique da parete e morbidi teli di mohair.

Era talmente impegnata a pianificare la mossa seguente che non si accorse dell'uomo seduto sul gradino davanti alla sua porta finché lui non si alzò e per poco non la fece sbandare e finire nel canale.

«Ciao, Michelle», disse Owen, poi fece lampeggiare il sorriso sfacciato che funzionava con qualsiasi donna al mondo tranne lei.

«Okay, ragazze. Avete preso tutto?» chiese Phil per la ventesima volta.

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Anna la giudicò una domanda decisamente superflua visto che, a giudicare dagli enormi bagagli impilati accanto alla porta d'ingresso, non c'era granché che le ragazze non avessero messo in valigia. Non aprì bocca, però.

«Regali per vostra madre?» chiese invece, nel tono più neutro possibile. Sarah, lo sapeva, avrebbe ricevuto un fantastico cesto di doni che lei aveva aiutato Chloe e Lily a incartare. Vi avevano dedicato ore e ore.

«Sì», rispose Becca.

«Regali per Jeff?»

Jeff era il boyfriend di Sarah, anche se, considerando che aveva quasi cinquant'anni ed era un direttore anziano nella società di management per cui lei lavorava, «boyfriend» non sembrava un termine molto appropriato. Quando le pareva che le toccasse il peggio degli atteggiamenti delle ragazze, Anna era costretta a rammentarsi del povero Jeff, l'americano in tutto e per tutto piacevole conosciuto da Sarah quando era andato a ristrutturare la sede inglese, macchiatosi del gravissimo peccato di non essere né Phil né il sosia di George Clooney, che secondo le figlie di suo marito la madre avrebbe dovuto sposare dal momento che Phil non era più disponibile.

Chloe si buttò alcune ciocche di capelli dietro una spalla. Aveva una chioma magnifica, lunga, bionda e dalle striature naturali come un gatto tricolore, e la usava come interpunzione quando non riusciva a rendere sufficientemente sarcastico il proprio tono di voce. «Continuo a non capire perché dobbiamo regalare qualcosa a Jeff.»

«Perché sì», intervenne con fermezza Becca, sovrastando la voce della sorella. «Condimenti inglesi. La mamma dice che gli manca la senape inglese.»

Chloe finì di buttare i capelli dietro l'altra spalla e borbottò: «Avremmo dovuto prendergli delle mentine per l'alito».

«Piantala, Chloe», le intimò la sorella maggiore, controllando la propria valigia.

Becca, quasi diciottenne, aveva soltanto due anni più di Chloe, ma a volte Anna aveva l'impressione che fosse uscita dall'adolescenza da parecchio tempo. Anche lei aveva lunghi capelli biondi, ma li teneva raccolti in una treccia perché non le dessero fastidio; negli ultimi mesi l'aveva portata avvolta intorno alla sommità della testa, in stile Heidi.

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«Mentine per l'alito? Perché mai?» Quando Phil alzò gli occhi dal suo numero di equilibrismo con le valigie, Anna colse un'ombra di soddisfazione balenare sul viso di Chloe e capì per chi fosse stato lanciato il commento.

«Oddio, papà, hai presente quelle patatine al gusto formaggio e cipolla? Be', Jeff è come il mostro dal fiato puzzolente di formaggio e cipolla, ed è...» Gli enormi occhi di Chloe sembravano pronti a schizzarle fuori dalle orbite, tanto inesprimibile era il suo disgusto.

«Jeff è okay», la interruppe Becca. «E la mamma lo considera chiaramente tale ed è lei quella che deve sentire il suo alito ogni mattina. Possiamo darci una mossa, per favore? Non voglio arrivare tardi.»

«Avete... qualcosa da leggere sull'aereo?» suggerì con titubanza Anna. Aveva preferito non infilare romanzi nelle loro valigie, ma il pensiero di un viaggio di otto ore senza un buon libro era per lei una tortura. Nella sua selezione natalizia aveva incluso alcuni volumi di una lunghezza commisurata alla durata del volo proprio per quel motivo.

«Più che abbastanza», rispose Becca con una smorfia, indicando la propria borsa di pelle, rigonfia di materiale per ripassare in vista degli esami. «Passaporti, contanti per il taxi, stampata del check-in fatto via Internet, numeri di telefono, spazzolini da denti, disinfettante per le mani...» Per un attimo parve preoccupata, poi diede qualche pacchetta sulla valigia. «Adattatori internazionali per il caricabatterie.»

«Manca forse qualcuno?» chiese ad alta voce Phil. «Oppure possiamo partire subito?»

«No! Aspettatemi!» Lily arrivò di corsa in ingresso, tallonata da Pongo. Il cane stava saltellando per l'eccitazione e Anna rimpianse di non avere avuto il tempo di portarlo a passeggio fino a casa di Michelle, negli intervalli della preparazione dei bagagli. Sarebbe indubbiamente impazzito, mentre loro erano fuori.

Controllò l'orologio. C'era il tempo di farlo correre intorno all'isolato? No. Maledizione.

Non riusciva a ricordare l'ultima volta in cui si era limitata a mettersi la borsa a tracolla, afferrare le chiavi e uscire dalla porta d'ingresso. Sembrava una vita completamente diversa. Ormai uscire di casa le imponeva di occuparsi, prima, di un'infinità di altre cose, un terzo delle quali cambiavano mentre affrontava le restanti.

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«Lily!» Phil si finse scioccato. «Abbiamo rischiato di dimenticarti qui!»

«Stavo salutando Pongo. Perché lui non può venire?» piagnucolò la bambina.

«Perché gli hanno vietato l'ingresso negli Stati Uniti», rispose Chloe. «Hanno scoperto cosa ha combinato con i narcisi gialli del parco e gli hanno messo un timbro sul passaporto. Non supererebbe mai i controlli dell'immigrazione.»

Gli occhi castani di Lily si sgranarono. «Come l'hanno scoperto?» sussurrò.

«Gliel'ho detto io», spiegò Chloe. «E gli ho anche detto che tu lo hai aiutato. Quindi ti conviene prepararti una storiella convincente da raccontare al tizio del controllo passaporti.»

«Chloe!» Lily aveva l'aria sconvolta. «Non puoi averlo fatto davvero!»

«Certo che no», intervenne Becca, risparmiando così il disturbo ad Anna. Lanciò un'occhiataccia a Chloe. «Non metterle in testa queste scemenze, altrimenti poi ti occupi tu degli incubi a casa della mamma.»

Delle tre figliastre, Becca era quella con cui Anna trovava più facile andare d'accordo, perché più quieta e pragmatica delle altre due, ma era Lily quella che più si avvicinava ai propri sogni segreti sulla sua futura famiglia. Era dotata di una fervida immaginazione: aveva la tendenza a preoccuparsi, come Becca, ma in modo più creativo, drammatico. Si chiedeva se a Pongo non dispiacesse non saper parlare. Per un po' si era rifiutata di mangiare pane, dopo avere scoperto che il lievito era un organismo vivente che veniva «arrostito a morte». E il suo volto sembrava uscito da uno dei libri delle fate dei fiori: grandi occhi castani in un visino bianco come il latte, naso appuntito, boccuccia espressiva che talvolta tremava prima di aprirsi in un sorriso che ti scioglieva il cuore.

«Sul serio, possiamo andare?» supplicò Becca. «Le strade saranno sicuramente caotiche, intorno all'aeroporto. Papà, sbrigati.»

«Spero sarete più educate con i portabagagli del jfk», borbottò Phil mentre arrancava sotto il peso della valigia di Chloe.

La valigia non era completamente chiusa e, laddove parte della cerniera era rimasta aperta, Anna notò una chiazza argentea familiare: il suo top in jersey preferito, di Vivienne Westwood. L'ultimo capo di vestiario elegante che aveva comprato prima che le ragazze arrivassero, lei restasse senza lavoro e il nuovo regime di budget entrasse in vigore.

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Per un attimo lottò con il consueto dilemma senza via d'uscita: se avesse detto qualcosa avrebbe scatenato una lite che non poteva vincere, li avrebbe fatti arrivare in ritardo e avrebbe lasciato un retrogusto sgradevole nel tempo da trascorrere con Phil, oltre a fornire a Chloe un motivo per lagnarsi con Sarah; se non avesse aperto bocca, però, Chloe avrebbe avuto nuovamente la sensazione di avere vinto. E doppiamente, considerando l'epico tour di shopping che Anna, su insistenti preghiere, aveva dovuto portarla a fare prima di Natale.

Chloe era specializzata in incidenti futili ma irritanti come quello: piccoli test della capacità di sopportazione di Anna, di per sé insignificanti, ma che facevano progredire inesorabilmente la situazione verso il momento in cui lei sentiva di non poter dire o fare alcunché senza sembrare la classica matrigna cattiva. La cosa peggiore era che, se Chloe le avesse chiesto in prestito il top, lei avrebbe probabilmente acconsentito – seppur riluttante, certo –: se però le avesse imposto di restituirlo in quel momento avrebbe dato l'impressione di agire solo per fare sentire in colpa la ragazzina.

“Oddio”, pensò disperata. “Perché avere a che fare con le adolescenti ti spinge a comportarti come una di loro? Almeno le madri biologiche hanno dieci anni per prepararsi a questo genere di cosa.”

Becca la sorprese a fissare la valigia e la guardò con aria solidale, ma non vi infilò dentro una mano per estrarre il top. Le crisi emotive di Chloe erano tristemente famose, e messe in atto come se lei fosse circondata da telecamere nascoste.

«Pensavo che stessimo andando», disse Phil, nuovamente accanto alla porta e pronto per un altro carico di bagagli. «Stiamo facendo tardi.»

«Siamo pronte», replicò Anna. “Mostrati distaccata”, si disse. “Concentrati.” La cosa più importante era portarle all'aeroporto, non assecondare il bisogno di Chloe di trovarsi al centro dell'attenzione generale, nel bene o nel male. «Vieni, Lily.»

Allungò la mano verso la bambina, che vi infilò garbatamente il manico della sua valigetta.

All'aeroporto gli addii lacrimosi vennero dimezzati grazie a un surplus di soldi natalizi da spendere nei negozi duty-free. Come al solito, Phil era quello che sembrava più turbato.

«Telefonatemi se vi serve qualcosa», disse, abbracciandole. «Qualsiasi cosa.»

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«Non è quello che hai detto quando ho perso l'ultimo autobus, il weekend scorso», replicò Chloe, parlando contro la sua spalla.

«In quell'occasione non ti trovavi quasi in capo al mondo.» Phil sembrava preoccuparsi per le figlie solo quando si trovavano al di fuori della sua portata, notò Anna; quando invece erano a casa, palesava una relativa indifferenza in merito a possibili rapimenti, stupratori sotto l'effetto di droghe, superalcolici, ritardi con i compiti eccetera. Era lei a preoccuparsi di tutte quelle cose.

Chloe si dimenò per sottrarsi alla stretta paterna. Con un paio di occhiali scuri incuneati fra i capelli biondi, somigliava già di più a una comparsa di Gossip Girl, carica com'era di riviste, frutta che aveva insistito per farsi comprare dal padre ma probabilmente non avrebbe mangiato e l'immancabile bottiglia di acqua minerale. «Calmati, papà. Staremo benissimo.»

«Papi, prenditi cura di Pongo.» Lily sollevò il visino per farsi dare un bacio. «Digli che sentiamo la sua mancanza ogni giorno, la mattina e prima di andare a letto.»

«Lo farò. Becca, ti prego, non trascorrere tutto il tempo a ripassare, okay? Cerca anche di divertirti. Rilassati.»

«Rilassarmi?» Becca alzò gli occhi al cielo. Sembrava già stanca, ancor prima del volo. «Con la mamma e Chloe nei paraggi? Magari!»

«Dico sul serio», insistette lui. «Ormai hai ricevuto l'offerta che volevi. Prenditi qualche giorno di riposo, okay? Avrai tutto il tempo di stressarti quando sarai titolare di uno studio legale tutto tuo.»

Becca desiderava diventare avvocato sin da quando aveva l'età di Lily, cosa di cui Phil e Sarah andavano parimenti fieri, e la prima settimana di dicembre le era stato proposto di studiare legge al King's College di Cambridge. Anche Anna era orgogliosa di lei, ma non sapeva mai bene come esprimerlo né se «aveva il diritto» di esserlo. Preparava invece un sacco di sandwich e li lasciava davanti alla porta della ragazza quando la luce era ancora accesa, dopo mezzanotte.

«Stammi bene, papà.» Becca lo abbracciò e poi, dopo una brevissima pausa, abbracciò anche lei, scatenandole nel cuore una grata pioggia di scintille. «Non abituatevi alla quiete e al silenzio. Torneremo prima che ve ne rendiate conto.»

Si girò di nuovo verso le sorelle e cominciò a spingerle verso il cancello d'imbarco.

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«Andiamo», disse Anna, dando colpetti sul braccio di Phil. «Non guardarle allontanarsi, non siamo in un film con catastrofe finale. Torneranno fra una settimana. E siamo quasi al limite con il parcheggio.»

Lui sospirò. «Lo so. È solo che... ogni volta che se ne vanno mi chiedo se torneranno.»

“Certo che torneranno”, avrebbe voluto gridare lei. “Sarah le tiene soltanto per sei giorni perché deve andare a Reno per una ‘conferenza vitale'.”

Inspirò a fondo. C'erano un sacco di cose che non diceva a Phil, per amore del quieto vivere. Le si stavano accumulando dentro come rifiuti riciclabili non ritirati. Sospettava che, se non si fosse confidata con Michelle, avrebbe finito per parlare molto di più al cane.

«Bene, se non tornano», affermò, «ho intenzione di spedire Pongo a Sarah con la FedEx, passaporto canino o no.»

Phil si girò a guardarla, il bel volto pervaso da un profondo avvilimento. «Credi che io sia un padre orrendo?» chiese, formulando una domanda solo in parte retorica.

«No», rispose lei. «Credo che tu sia un ottimo padre. È uno dei motivi per cui ti ho sposato.»

Lui le cinse le spalle con un braccio e la strinse a sé, e Anna sentì che le sue vacanze natalizie stavano finalmente cominciando.

Anna sintonizzò l'autoradio riportandola da Radio 1 a Radio 4 e, mentre si allontanavano dall'aeroporto senza il suono di continui battibecchi che echeggiava sul sedile posteriore, ebbe l'impressione che le avessero tolto un peso dalle spalle.

Un'intera settimana da sola con Phil, e senza preoccuparsi di liste, valigie o possibili gaffe. “E perché aspettare gennaio per dare inizio al progetto del bambino?” si chiese, fremendo di eccitazione. “Perché non infilarvi qualche giorno di pratica extra? I bambini nati in settembre sono sempre fra i primi della classe.”

«Phil», disse in tono seducente, nello stesso istante in cui lui diceva: «Ehm...».

«Prima tu», lo sollecitò Anna.

«Ho preferito non discuterne di fronte alle ragazze, ma ho riflettuto su mia madre», affermò lui.

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“Oddio, no”, pensò lei. «In che senso?» chiese, con la massima pacatezza possibile.

«Credo che dovrebbe rimanere un altro po' nella casa di riposo. Non sono sicuro che stia abbastanza bene per tornare a casa sua.»

Anna si voltò a guardarlo, tentando di decifrarne l'espressione. Il tono di voce del marito suonava disinvolto, ma era una faccenda davvero seria. Erano stati necessari gli sforzi combinati di Phil, del medico della donna, di uno specialista e di Becca, la sua nipote preferita, per convincere Evelyn a trasferirsi alla Butterfields Residential Home mentre si rimetteva dall'intervento di artroprotesi al ginocchio. Anna conosceva il personale grazie al suo programma di lettura ad alta voce e, dopo una sua parolina discreta, loro avevano colmato di particolari attenzioni l'anziana signora quando era andata a «visionare» l'istituto. Era per quel motivo che sua suocera aveva finalmente deciso di entrarvi: Evelyn reagiva bene alle attenzioni.

«Ma secondo lo specialista si è ripresa perfettamente», sottolineò Anna. «Non ce la vedo a volersi trattenere più del dovuto con il “branco di similvegetali sbavanti”, come lei chiama quasi tutti là dentro. Se sia in grado o no di mandare avanti la casa da sola è tutta un'altra faccenda, ma possiamo chiedere a Magda di andarci più spesso.»

«Non si tratta di questo, è solo che io...» Phil esitò, come se non fosse sicuro di dover dire quello che pensava.

«Cosa?» chiese Anna.

«Ieri mia madre mi ha chiamato Ron. Mi ha guardato dritto in faccia e ha detto: “Ron, perché ti sei messo quegli orrendi mocassini? Sai che non li sopporto”.»

Ron era il padre di Phil, un perito edile di successo morto quando lui era molto piccolo. Phil non ne serbava alcun ricordo ma, a giudicare da quanto Anna aveva saputo o intuito, l'uomo aveva sposato in età matura Evelyn, la sua ben più giovane segretaria, uno schianto di bionda con un handicap al golf pari al suo. Golf a parte, le foto con i sorrisi tirati nella soffocante abitazione di Evelyn suggerivano che il matrimonio non fosse stato del tutto felice. Phil era nato quando lei aveva trentanove anni, «uno shock totale», come ancora amava definirlo Evelyn, e due anni dopo Ron era morto all'improvviso per un attacco di cuore.

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«Quindi tua madre ti ha chiamato con il nome sbagliato», commentò Anna, tentando di suonare rassicurante. «Probabilmente ha trascorso la sua intera vita matrimoniale iniziando ogni frase con le parole: “Ron, perché diamine eccetera eccetera”. Si era appena svegliata?»

«No, era sveglissima. È stato soprattutto il modo in cui mi ha guardato, come se cercasse la lite.» Phil trasse un bel respiro. «La cosa mi ha messo molto a disagio. Mi è sembrato che lei stesse vedendo lui e non me.»

«Be', le persone anziane possono confondersi», dichiarò Anna. «La metà degli ospiti della Butterfields mi chiama con il nome della propria figlia, quando arrivo. Si ricordano la trama di romanzi d'amore che hanno letto mezzo secolo fa, ma non rammentano il mio nome.»

«Non sapevo neppure che mio padre portasse i mocassini», aggiunse Phil, la voce che si incrinava quasi impercettibilmente.

Anna stentava a immaginare come dovesse essere stato difficile crescere senza un padre. Voleva molto bene al suo, che era una fonte di calore, amore e silenzi complici. Odiava il fatto che Evelyn rifiutava di parlare del marito ma al contempo lanciava saltuarie frecciatine a Phil quali: «Non hai certo preso la testardaggine da me».

«Evelyn gode di una salute di ferro, per avere quasi ottant'anni», sottolineò. «Sono sicura che è stato solo un temporaneo calo di concentrazione.»

«È proprio questo che mi preoccupa. Non la voglio sana e arzilla ma che dà i numeri, appiccando il fuoco alla casa o lasciando le porte aperte per i ladri.» Lui strinse con forza il volante. «Becca ha trovato il telecomando nel frigo. Ci abbiamo scherzato sopra, ma deve avercelo messo la mamma. Non è un segno di demenza senile, quello? Mettere le cose nel posto sbagliato, intendo.»

Anna scosse automaticamente il capo. Era impossibile associare la suocera dai capelli acconciati in un casco di zucchero filato, dal piglio autoritario e dagli artigli scarlatti, ancora capace di pronunciare un commento tagliente solo per divertirsi, alle vittime della demenza senile a cui lei leggeva ad alta voce, che avanzavano a tentoni cercando un appiglio nell'ambiente circostante come bimbetti che si sforzino di camminare. E nella sua testa una vocina più fioca chiese se anche Evelyn sarebbe diventata una sua responsabilità, come le figlie di Phil.

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«Forse stai ingigantendo le cose.» Allungò una mano per accarezzarlo dietro il collo, dove i capelli, tagliati corti per esigenze di lavoro, stavano crescendo durante le vacanze. «Questa settimana vado là per una sessione di lettura e scambierò due parole con Joyce. Vede continuamente questo genere di cose.»

«Lo faresti?» Lui le lanciò un'occhiata. Aveva uno sguardo preoccupato e Anna provò il desiderio di consolarlo e scacciare la sua ansia.

«Certo.»

«Grazie.» Phil riuscì a sorridere. «Ora, per i prossimi sette giorni saremo soltanto tu e io. Proprio come ai vecchi tempi, vero? Dove vuoi andare a pranzo?»

«A casa», rispose lei. «Di nuovo a letto. Ti preparerò un panino più tardi, se ti sarà venuta fame.»

«No, sul serio. Simon, il mio collega, dice che il Bridge Inn è stato ristrutturato; prima di Natale ci ha mangiato una bistecca fantastica. Ti andrebbe?»

Anna sentì lo stomaco contrarsi. «È Santo Stefano, Phil. Sarà sicuramente chiuso. Comunque, forza, abbiamo la casa tutta per noi! E mi devi un massaggio, per tutto il mio cucinare di ieri.»

«Lo so, ma è a questo che servono i pomeriggi, giusto? È da così tanto che non mangiamo fuori, solo noi due.» Lui scrollò ripetutamente le spalle. «Voglio andare in un posto che non abbia le altalene in giardino né un menu per bambini. Un posto con un laghetto pericoloso. Non ti piacerebbe? Un lungo pranzo, i giornali, nessun bisogno di affrettarsi in modo da potere tornare in tempo per la lezione di danza.»

«Be'...»

Phil la guardò in tralice. «Non capita spesso che io porti fuori per un appuntamento la mia bellissima moglie. Non negarmi questo piccolo piacere.»

Lei si scoprì sempre più incline a dargli ragione. Non riusciva a ricordare l'ultimo pasto che avevano consumato da soli. Pranzo à deux, conversazione intelligente, vino... Poteva rivitalizzare comunque il pomeriggio.

«Okay», disse, abbandonandosi contro lo schienale. «Ma prenderò solo il dolce. E saremo fuori dal ristorante prima delle tre.»

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«Affare fatto.» Phil alzò il volume della radio e cominciò a cantare in una maniera che Chloe non avrebbe assolutamente approvato, se fosse stata lì.

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Capitolo 3

«E se tutto quello che disegni e desideri prendesse vita? Marianne Dreams attinge al timore di ogni bambino (e adulto) di risvegliarsi all'interno dei propri sogni.»

Anna McQueen

«Buon Natale!» esclamò Owen da dietro il mazzo di rose bianche più gigantesco che Michelle avesse mai visto al di fuori di una convention commerciale.

«Da parte tua?» ansimò lei, ancora affannata per la corsa. «Perché avrei... preferito... un acconto sui tuoi... debiti non ancora saldati.»

«Davvero carino! E “buon Natale anche a te, Owen”», disse lui, fingendosi offeso.

Michelle reagì stringendolo in un rapido abbraccio sudato e arruffandogli i riccioli scuri con la mano libera, poi si piegò in avanti per riprendere fiato mentre tentava di capire se avrebbe dovuto essere contenta che lui le avesse portato delle rose quando le doveva ancora tre mesi d'affitto della sua ultima casa.

Owen era il fratello minore e di gran lunga preferito di Michelle. Fra lei e i due più vecchi, Ben e Jonathan, c'era una differenza di sette anni ma avrebbe potuto benissimo trattarsi di un'intera generazione. Owen ne aveva ventiquattro, era il figlio inatteso e quello che aveva ereditato tutto il fascino, la bellezza e la fortuna in eccedenza della famiglia. Riusciva a fare qualsiasi cosa volesse con chiunque tranne che con Michelle. La sorella, che aveva passato l'adolescenza a dargli quelle cure che la loro madre era stata troppo indaffarata per dedicargli, aveva sviluppato una certa immunità alle ciarle di Owen, mentre lui aveva imparato da lei alcune utili lezioni su come parlare alle ragazze, dote che aveva successivamente sfruttato ogni qual volta ne aveva avuta l'opportunità.

«Che bella sorpresa», disse lei, aprendo la porta. «È da molto che aspetti?»

«No. Mi sono fatto dare uno strappo da un amico che andava a Birmingham. Tieni, ti spiace prenderle tu?» aggiunse lui, spingendole le rose fra le mani. «Mi sento come una damigella nuziale. E non so dire bugie: non te le ho comprate io. Le ho trovate sul gradino davanti alla porta quando sono arrivato.»

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Michelle indicò i piedi del fratello e la rastrelliera accanto all'uscio, e lui cominciò a togliersi con riluttanza le scarpe da tennis alla moda. Mentre Owen era distratto lei aprì la busta con il biglietto, e la gola, ancora irritata dalla corsa, le si contrasse ulteriormente.

«Mi spiace di non averti visto a Natale, piccola», recitava con tono disinvolto Harvey attraverso l'innocua calligrafia del fiorista. «Mi manchi. Trasformiamo il 2012 nel nostro anno. Con tutto il mio amore, Harvey.»

Lei rispinse il biglietto fra i fiori e li lasciò cadere sul tavolo come se avesse trovato un serpente al centro del mazzo. Non voleva nemmeno vederle quelle rose in casa sua: erano in puro stile Harvey, perlacee e perfette ma del tutto prive di profumo, cresciute forzatamente e recapitate in aereo nel periodo sbagliato dell'anno, consegnate in un giorno supercostoso perché se pagavi abbastanza potevi sempre ottenere ciò che volevi. Eppure in superficie era un regalo affettuoso in cui soltanto una carogna intrattabile e perennemente insoddisfatta avrebbe potuto trovare dei difetti.

Riusciva a immaginarsi i commenti altrui. “Povero Harvey.” “Si faceva sempre in quattro.” “Non voleva che Michelle lo piantasse, sai.” “Stravedeva per lei.”

“Vuole rammentarmi che sa dove abito”, pensò Michelle.

«Le manda Harvey?» chiese Owen.

Lei annuì. Una vocina paranoica nella sua testa si chiese se non fosse stato Harvey «l'amico che andava a Birmingham». “No”, si disse. “Harvey prenderebbe l'aereo.”

«Ha chiesto di te, ieri dalla mamma», continuò Owen, guardandosi intorno nell'ingresso. «Credo sperasse di vederti lì. Ehi! Perché non hai nessuna nostra foto qui dentro?»

Il corridoio di Carole Nightingale era orgogliosamente gremito di fotografie dei suoi figli che conseguivano brillanti risultati oppure esibivano la prole. Nel caso di Owen ce n'erano altrettante di lui che appariva semplicemente bello e diabolico. Compensavano la mirata assenza di foto di laurea di Michelle, l'unica a non averne conseguita una.

«Perché non mi piace spaventare i miei ospiti quando arrivano. Com'è che Harvey ha finito per passare il Natale con voi?» aggiunse lei, slacciandosi le scarpe da ginnastica per non far vedere al fratello che le tremavano le mani.

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«Era tutto solo, poveretto», rispose Owen. «L'ha invitato la mamma. Più siamo e meglio è. A lei Harvey piace. Piace a tutti noi.»

«Tu non lo conosci, Owen.» Michelle aveva rinunciato ormai da tempo al tentativo di spiegarlo agli altri familiari, ma Owen la capiva un po' meglio di loro.

«Davvero?» Il fratello la guardò con aria di rimprovero. «Non puoi biasimare la mamma per averlo invitato, Shell. È stato suo genero per anni. Papà gli ha appena dato l'ennesima promozione. E tu sei ancora sposata con lui...»

«Solo tecnicamente», sbottò lei. «Fra diciotto mesi non lo sarò più, che gli piaccia o meno. Per la separazione non consensuale servono cinque anni. Non è colpa di nessuno.»

Owen alzò le mani. Non si trovava a casa quando la sorella aveva lasciato Harvey: stava viaggiando in giro per l'India, intento a fumare marijuana e a farsi un tatuaggio di cui Carole non sapeva ancora. Si era perso anche la maggior parte del loro matrimonio, perché era al college. «Sei stata tu ad andartene, non Harvey. Non sono affari miei, lo so, ma...»

«Giusto. Non sono affari tuoi.» La voce di Michelle suonò brusca, ma lei non riuscì a impedirselo. Il suo battito cardiaco era più accelerato che non durante la corsa su per la collina. «So che è affascinante con la mamma e che papà stravede per lui, ma la situazione non è altrettanto gradevole quando sei sposata con qualcuno che non ti lascia nemmeno...»

«Okay!» Owen sembrava leggermente spaventato. «Okay! Ho capito. Non sono venuto qui per litigare. Sono arrivato troppo tardi per la colazione?»

Lei trasse un bel respiro e tentò di concentrarsi su casa sua. La sua bellissima casa tranquilla, che era tutta sua. Il suo porto sicuro. Nessuno la soppesava, lì. Né controllava le sue e-mail o il suo cellulare.

«No, sei ancora in tempo», rispose, costringendosi a sorridere. «Uova strapazzate?»

«In tutta sincerità, preferirei mangiare qualcosa che non hai cucinato tu», affermò Owen.

Owen sistemò il suo corpo allampanato accanto al tavolo della cucina mentre Michelle si aggirava per la stanza, tentando di riunire gli avanzi rimasti nelle vaschette della gastronomia e ricavarne una forma di colazione accettabile per uno studente troppo cresciuto. Prima che lei avesse anche solo abbassato il filtro

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della caffettiera alla francese, si era già sbafato metà filone di pane, lasciandole tracce di marmellata e bucce di clementine su tutta la tovaglia pulita.

«La tua è una visita lampo mentre vai a Dublino?» chiese lei. «Oppure ti serviva semplicemente una scusa per lasciare la casa della mamma? Giù i piedi dal tavolo, per favore.»

Owen li tolse dal piano. «Avevo voglia di vedere la mia sorellona. Mi mancano i tuoi modi autoritari. E volevo controllare che non fossi stata divorata dai gatti, vivendo da sola.»

«Chiudi il becco.» Michelle nascose il bagliore di affetto che provava per lui sotto un'occhiataccia di simulata indignazione. «E cos'altro ti ha spinto qui?»

«Ho bisogno di un pretesto?» Lui si finse offeso, poi smise di recitare. «Ehm, Shell, in realtà... devo chiederti un favore.»

“Dev'essere una cosa grave”, pensò lei, “se la sta chiedendo a me invece che alla mamma.” «Quanto, stavolta?»

«No, non si tratta di soldi. Benché le donazioni siano sempre ben accette.» Owen la guardò attraverso le ciglia nere incredibilmente lunghe per un uomo. «In realtà mi serve un posto in cui dormire per un po'.»

Michelle trasalì involontariamente, come sempre faceva all'idea che qualcuno abitasse in casa sua, invadendo il suo spazio organizzato alla perfezione. Sapeva che era irrazionale, e voleva bene al fratello, ma non riusciva a evitarlo. Ragni invisibili le zampettarono in giro per la pancia.

«Cosa ne è stato del lavoro a Dublino?»

«Sono arrivato al termine del contratto. Ho finito il loro sito web e...» Lui si strinse nelle spalle. «Be', alla mamma ho raccontato che là non c'era altro lavoro, ma a dire il vero la situazione era un po' imbarazzante.»

«Denaro o donne?»

«Entrambe le cose?» Di nuovo l'occhiata supplichevole da sotto le ciglia inverosimilmente lunghe.

«Sai che il tuo atteggiamento non mi fa né caldo né freddo», dichiarò Michelle. Incrociò le braccia. «Hai ventiquattro anni, Owen. Le ragazze smettono di apprezzare quel tipo di comportamento scapestrato più o meno a questo punto. Dai solo l'impressione di avere dei problemi.»

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«Lo so.» Owen punzecchiò ripetutamente l'omelette che lei aveva messo insieme. «Solo che... detesto scaricarle con gentilezza. Non posso evitare di fare il bel tenebroso. È una croce che devo portare, nello stesso modo in cui tu devi pulire qualsiasi cosa su cui posi gli occhi. Questa roba cos'è, di preciso?»

«Un'omelette», rispose lei. «Perché non puoi stare dalla mamma? A Londra c'è sicuramente più lavoro, giusto?»

«Sta cambiando di nuovo l'arredamento. E ha detto che tu hai un sacco di spazio e che un po' di compagnia ti avrebbe fatto comodo.»

Michelle tradusse il tutto nella sua testa: Carole amava Owen ma non la sua abitudine di rincasare alle tre di notte senza i soldi per il taxi. E l'ultima volta in cui lui era stato ospite di Ben, il fratello maggiore, la loro ragazza alla pari era tornata in Lettonia senza preavviso e il figlio minore di Ben, Hugo, se n'era uscito con tutta una serie di domande imbarazzanti e due nuove imprecazioni.

«Ho dato un'occhiata al tuo sito web, venendo qui», continuò il giovane. «Fa schifo. Potrebbe darsi che tu abbia bisogno che un web designer esperto e pluripremiato gli faccia un controllino e dia nuovo impulso al tuo commercio via Internet, no?»

«Perfetto», replicò lei. Era tipico della consueta fortuna di Owen che «Ridisegnare il sito» fosse la terza voce della sua lista di cose da fare nel nuovo anno. «Ma non puoi dormire qui. Al momento l'appartamento sopra il negozio è vuoto: puoi sistemarti lì mentre decido se metterlo nuovamente in affitto. Nella stanza principale ho riposto la merce per la nuova stagione, ma dovrebbe essere rimasto abbastanza spazio per te.»

«L'appartamento con gli scatoloni delle scorte? È l'equivalente dell'ottenere la stalla con la mangiatoia, l'asino e il bue?»

«È meglio di quello», sottolineò lei, versandosi un caffè. «Ha il seagrass e il bagno in camera.» Spinse una tazza verso il fratello, lanciandogli un'occhiata ammonitrice. «Ma se si verifica qualche concepimento miracoloso, Owen...»

«Non capisco cosa vuoi dire», replicò lui, serissimo.

Quando accompagnò Owen in auto all'appartamento, Michelle diede un'altra occhiata dentro la libreria di Quentin e appena tornò a casa cominciò a fare qualche telefonata.

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Due giorni più tardi era seduta in un ufficio vuoto dello studio legale Flint and Cook, nel suo tailleur più elegante e in attesa di parlare con l'avvocato che curava gli interessi di Cyril Quentin.

Era seduta e aspettava. Michelle odiava aspettare, soprattutto quando aveva da gestire una svendita, evento che generava una coda di donne impazienti a caccia di affari.

Stava esaminando, irritata, una cartina vittoriana di Longhampton (varie concerie, una fabbrica di marmellate, più pub che chiese) quando sentì qualcuno tossicchiare alle sue spalle e si girò di scatto.

Un uomo altissimo, con i capelli lunghi sulla fronte, giacca di tweed e maglione verde dallo scollo rotondo – le ultime tre cose le diedero subito sui nervi – si era fermato un po' troppo vicino a lei.

Quattro cose che le diedero sui nervi.

«Salve», disse lo sconosciuto, indietreggiando leggermente per tenderle la mano. La frangia di un biondo rossastro gli cadde sugli occhi e lui la spinse indietro. «Rory Stirling.»

La stretta di mano risultò salda e l'accento scozzese, il che significava due punti a suo favore, ma poi Michelle gli notò delle briciole sul maglione, cosa che lo ridimensionò di parecchio. Lei non sopportava i rimasugli di cibo addosso.

«Michelle Nightingale», disse. E mentalmente, in preda allo stupore, si chiese come fosse possibile che un uomo raggiungesse i trenta e passa anni senza sapere che con la cravatta si mette uno scollo a V. «Grazie di avermi ricevuto nonostante il breve preavviso.»

«Non c'è di che», replicò lui, indicandole la sedia di fronte mentre prendeva posto dietro la sua scrivania ingombra. «È un bel cambiamento rispetto alle cause per ubriachezza molesta e alla consueta ondata di consultazioni postnatalizie in vista di un divorzio.»

«È bello essere impegnati», commentò Michelle.

«Oh, lo si è ancora di più dopo Capodanno», ribatté cupamente Rory. «È a quel punto che si fanno sentire i veri effetti di una settimana con i suoceri. Ho quasi sempre un paio di testamenti da riscrivere o gente che entra qui alla chetichella per parlare di cessioni. E naturalmente sono le persone che non hanno una

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famiglia a venire coinvolte perché si occupino dei litigi di tutte le altre. Comunque ora basta parlare delle mie delizie festive...»

Normalmente Michelle sarebbe stata solidale con quel sentimento, abituata com'era a gestire da sola il negozio mentre le sue assistenti si recavano a riunioni di parenti e feste di compleanno, ma era intirizzita e impaziente.

«Mi è parso di capire che rappresentiate voi Cyril Quentin», disse. «La libreria sulla strada principale.»

«Infatti.»

Rory spostò alcune carte da una pila disordinata all'altra. Lei odiava le scrivanie disordinate.

L'uomo la sorprese a osservare una pianta morta posata sulla vaschetta per la posta in entrata e la spostò enfatizando il gesto, lasciandola cadere nel cestino dietro di sé senza guardare. «Ha parlato con il signor Quentin?» aggiunse.

«No, ho notato che il negozio era chiuso. Sono proprietaria di quello accanto. Lo Home Sweet Home, il negozio di arredi e articoli per la casa.»

«Ah! Sì, certo. Il negozio di chincaglierie. Allora, come posso aiutarla, signora...» Lui picchiettò sugli appunti posati sopra la scrivania come se stesse suonando una batteria invisibile, poi gettò la spugna quando i dati personali di Michelle mancarono di saltare fuori spontaneamente.

Con un sorriso tirato lei si allungò in avanti per trasferire il perfettamente leggibile Post-it con il suo nome e indirizzo dalla sommità dell'antiquato telefono all'angusto spazio vuoto di fronte all'uomo. «Signorina Nightingale. Michelle Nightingale. Come Florence, la “signora con la lanterna”.»

Prese mentalmente nota di non avvalersi mai della Flint and Cook se si facevano pagare a ore e decise di prendere l'incontro per le corna, visto che evidentemente Rory Stirling non intendeva farlo. «Ho saputo che il signor Quentin sta per ritirarsi dall'attività e mi piacerebbe molto affittare i locali», spiegò. «O persino comprarli, se lui è interessato a vendere.»

Alla menzione dell'ultima parola una luce parve accendersi negli occhi dell'avvocato, che si spinse in su gli occhiali con rinnovata concentrazione.

“Era ora”, pensò Michelle.

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«Possiede lui il negozio, certo, ma dubito che al momento progetti di venderlo», affermò Rory. «Ci ha dato specifiche istruzioni di cercare un locatario.»

«In tal caso sarei molto interessata ad affittarlo. Posso fornire referenze, un anticipo sul canone d'affitto, qualunque cosa vi serva.» Il sorriso di Michelle divenne più largo e più cordiale. «Gestisco il negozio adiacente da quasi tre anni, ormai.»

«La gente ha sempre bisogno di chincaglierie», disse lui.

Voleva essere una battuta? Lei lo guardò. Il viso allungato di Rory non le fornì alcun indizio ma in fondo, a giudicare dalla sua scrivania, lui sembrava del tutto disinteressato alle suppellettili in cui riporre oggetti. E alla cancelleria elegante. E ai prodotti per la pulizia organici, alla maggior parte degli articoli venduti da Michelle, in realtà.

«Sì, se si tratta degli oggetti giusti», sottolineò lei, sollevando il mento appuntito. «Ho stipulato diversi accordi di esclusività con alcuni fornitori internazionali e spero di ampliare ulteriormente il mio giro d'affari, quest'anno.»

«Bene, è davvero encomiabile», commentò lui con un marcato accento scozzese. «La via principale ha bisogno di essere vivacizzata.»

«Miglior negozio del quartiere nel 2010 e nel 2011», replicò vivacemente lei. «Ha visto i nostri cesti di fiori appesi, quest'estate? Abbiamo vinto dei premi con le nostre vetrine. Potrei fare la stessa cosa per il negozio accanto.»

Rory si allungò in avanti, posando un gomito sulla scrivania. Dovette spostare leggermente una cartellina per farlo, il che guastò l'effetto disinvolto, ma non distolse mai gli occhi dal viso di Michelle. Se lei non fosse stata impegnata a lottare contro la crescente irritazione avrebbe fatto maggiormente caso al loro insolito colore grigio. «Ma, a parte i cesti di fiori appesi, cosa apporterebbe al mondo delle librerie?»

«Librerie?»

«Mmm.» Lui le rivolse una fredda occhiata indagatrice e a un tratto Michelle ebbe la disturbante sensazione che il cervello di Rory Stirling non fosse caotico come suggeriva la sua scrivania. «Le librerie.»

«Ma io non...» Lei si interruppe e modificò la propria linea di attacco, vedendo le sopracciglia dell'uomo inarcarsi.

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“Oh, per l'amor del cielo”, pensò, seccata. Lui era palesemente uno di quei tipi «I libri sono la linfa vitale della nostra civiltà», come Anna. Per quanto Anna le piacesse, poteva rivelarsi cattedratica sull'importanza del retaggio letterario e sembrava non accorgersi mai di come lo sguardo di Michelle si facesse vitreo ogni qual volta cominciava a sproloquiare su come un certo adattamento televisivo si fosse lasciato sfuggire l'essenza del relativo romanzo. Rory Stirling era probabilmente andato a protestare contro i tagli al budget della biblioteca; ora che lei lo guardava meglio, il suo era proprio il tipo di maglione indossato dai tipici frequentatori della biblioteca. Alle due riunioni del club del libro a cui aveva partecipato con Anna persino le donne avevano sfoggiato maglioni come quello.

«Attualmente, a livello nazionale, le librerie stanno attraversando un momento molto difficile», dichiarò lei. «Come lo stesso signor Quentin deve avere notato. Credo che sarebbe arduo per chiunque fare in modo che i libri siano di per sé redditizi.»

«Non così per le chincaglierie.» L'uomo sfoggiava un'espressione seria, ma i suoi occhi scintillavano divertiti. «Il loro mercato è fiorente.»

Michelle serrò a pugno la mano che lui non poteva vedere finché le unghie non le si conficcarono nel palmo. Era in grado di affrontare i negoziatori tosti, ma se c'era una cosa che non sopportava era venire presa in giro. Le ci era voluto parecchio tempo per ricostituire la fiducia in sé stessa, dopo che Harvey l'aveva intaccata in maniera sottile ma costante. «Mi prefiggo di tenere aperto un negozio locale, gestito da persone del posto e capace di vendere oggetti utili che la gente desidera invece di lasciare che l'ennesimo esercizio commerciale della nostra via principale venga fagocitato da una compagnia telefonica o da una catena di bar.»

Rory si appoggiò allo schienale della poltroncina e unì le dita a campanile come un allampanato cattivo nei film di James Bond. «Be', non lo desideriamo forse tutti? Ma il signor Quentin vuole che rimanga una libreria per almeno un anno. Ha dedicato tutta la vita alla vendita di libri qui in città ed è irremovibile nel sostenere che preferirebbe vedere il negozio vuoto piuttosto che permettere che Longhampton perda una così essenziale risorsa culturale.»

«Preferirebbe vederlo vuoto?» Lei non riuscì a impedire all'incredulità di trapelarle dalla voce.

Rory sembrava davvero orgoglioso della folle presa di posizione dell'anziano libraio. «Si dà il caso che io sia pienamente d'accordo con lui. Una cittadina senza una libreria è una cittadina senz'anima.»

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«Lo ha detto Shakespeare?» si informò lei, in tono più sarcastico del voluto.

«Sir Walter Scott», replicò Rory, serissimo. «No, naturalmente. È semplice buonsenso.»

«Capisco.» Michelle incrociò le braccia, irritata dal suo atteggiamento. «E finora avete trovato molte persone interessate a far sì che rimanga una libreria?»

L'avvocato esitò, poi incurvò verso l'alto un angolo della sua larga bocca. «Finora non ho nemmeno pubblicizzato che il negozio è disponibile per l'affitto. In realtà, a parte me e il signor Quentin, credo che lei sia l'unica persona ad avere notato che è chiuso. Sono davvero colpito dalla sua velocità ai blocchi di partenza, signorina Nightingale. Non stupisce che il suo negozio riscuota un tale successo, se lei tiene così accuratamente sotto controllo il resto della via. Oppure ha più tempo libero di quanto non stia dando a vedere?»

Lei si prese mentalmente a calci. Aveva voluto attivarsi subito, non essendo riuscita a pensare ad altro da quando Anna aveva menzionato la cosa, e ora appariva di gran lunga troppo ansiosa. Comunque, se il vecchio signor Quentin intendeva prendere platealmente posizione sull'affittare il negozio solo a un altro libraio, non sarebbe certo stato sommerso dalle offerte.

Stirling era ancora appoggiato allo schienale della sua poltroncina in pelle, e osservava la reazione di Michelle con un irritante compiacimento. La stava prendendo in giro oppure parlava sul serio? Se lei non avesse desiderato così tanto quel negozio lo avrebbe mandato a quel paese.

“Forse se parlassi io con il signor Quentin...” pensò. “Questo tizio non perorerà mai la mia causa in maniera adeguata. Forse posso riuscire a convincerlo. Quella casa di riposo deve costare parecchio. Lui avrà bisogno di tutte le entrate che può ottenere.”

«Be', è un vero peccato», disse, radunando le sue cose per andarsene prima che la sua espressione potesse tradirla. «Non credo che il negozio possa rivelarsi redditizio come libreria, e sinceramente dubito che chiunque vanti una minima esperienza nel settore commerciale la pensi diversamente. Ma spero che troviate qualcuno disposto a rischiare.»

Si alzò, aspettandosi che lui facesse altrettanto per accompagnarla fuori. Dopo una pausa sgarbata l'uomo parve rendersi conto che lei era in attesa e spinse indietro la sedia, facendo cadere una pila di cartelline.

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«Troveremo qualcuno», disse. «È un incantevole vecchio negozio, con molto carattere. Un sacco di atmosfera. Odierei vedere Longhampton perdere una simile gemma. È già abbastanza brutto che la biblioteca sia stata costretta a fare dei tagli.»

“Ah, avevo ragione. Un dimostrante pro biblioteca”, pensò lei. «Immagino che se più persone fossero andate a comprare libri dal signor Quentin invece di prenderli in biblioteca la sua libreria sarebbe ancora aperta», affermò con disinvoltura.

«Non è esattamente la stessa...» cominciò a ribattere Rory, poi si accorse che lei stava scherzando, più o meno. «Oh. Touché.»

Si fissarono al di sopra della scrivania, soppesandosi a vicenda, e Michelle assaporò un fugace senso di trionfo che si dissolse non appena lei uscì e notò che della polvere del sudicio ufficio di Rory le aveva macchiato il tailleur fresco di tintoria.

Il telefono squillò a casa McQueen proprio mentre il film stava raggiungendo una fase interessante, così come Anna e Phil. Le labbra di Phil le stavano carezzando l'incavo del collo, nel punto esatto che la faceva sciogliere, e lei pensò di ignorare il telefono; poi però si ricordò della volta in cui l'aveva fatto e Chloe aveva passato dieci minuti ad aspettare alla fermata dell'autobus, senza soldi per il biglietto. La nube di biasimo aveva quasi inglobato il sole.

Con un gemito allungò dietro la testa un braccio nudo e sollevò il ricevitore.

«Pronto», disse, con un tono che avrebbe potuto trasformare in un messaggio registrato, se necessario.

«Ciao, Anna, sono Michelle.»

Anna si raddrizzò faticosamente sul divano e si avvolse nella coperta. Sopra di lei, Phil gemette e lasciò cadere la fronte sulla sua spalla nuda.

«Non sto interrompendo niente, vero?» chiese Michelle.

«Sì», rispose Phil. «Dille che sì, sta interrompendo uno dei nostri rarissimi momenti di intimità.»

Lei coprì il ricevitore e scoccò al marito la sua occhiataccia “È da sola, sii comprensivo”.

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«Phil e io stavamo giusto... guardando un film», disse. «Pensavo che potessero essere le ragazze.»

Benché sul divano dei McQueen fossero le dieci passate, nello stato di New York era tardo pomeriggio, l'ora di punta per una telefonata a casa. Chloe, Becca e Lily erano partite solo da due giorni – due inebrianti giorni senza orari durante i quali lei e Phil si erano a malapena alzati da letto, se non per portare a spasso Pongo –, ma chiamavano comunque almeno una volta al giorno per assicurarsi che papà stesse bene. O, come diceva Chloe, «per assicurarsi che stesse sentendo adeguatamente la loro mancanza».

Anna si chiese se vi fosse una differenza di fuso orario anche con Michelle, perché quest'ultima sembrava di gran lunga troppo concentrata per la sera di un giorno feriale postnatalizio.

«Ascolta, quando andrai a trovare la madre di Phil? Alla Butterfields, intendo.»

«Cosa? In tutta sincerità, Michelle, al momento non sto certo pensando a Evelyn.»

«Dille di richiamarti domattina.» Phil le fece scivolare la mano intorno alla vita. «Di qualsiasi cosa si tratti, può aspettare. Io no.»

«Ho sentito», replicò Michelle. «Digli che non mi ci vorrà molto.»

«Neanche a me.»

Anna lo guardò in cagnesco per zittirlo ma, scorgendo la sua aria tragica, non riuscì a impedire a una risata di arcuarle la bocca.

La prima volta in cui lo aveva visto, Phil sfoggiava la stessa espressione, che le aveva fatto venire voglia di prenderlo fra le braccia. Ironia della sorte lui si trovava insieme a Pongo e a tutte e tre le figlie – quindi non la si poteva certo accusare di non avere saputo in quale impresa si stesse imbarcando – e si stava lasciando trascinare malvolentieri in giro per la fiera di Longhampton nel giorno più caldo dell'anno. Era stato difficile stabilire chi di loro si stesse divertendo meno, visto che Phil, Becca e Lily avevano la faccia truccata da muso di tigre. Chloe invece era una farfalla, con il doppio di brillantini di chiunque altro.

Anna, impegnata a gestire una bancarella di dolci per conto della biblioteca, aveva osservato l'uomo bruno vessato da quelle tre bambine che si avvicinavano bisticciando. Mentre lei aiutava Becca a scegliere il biscotto con più gocce di cioccolato, Chloe aveva affondato le manine direttamente nelle tortine glassate

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giganti, spalmando glassa alla crema di burro rosa su Pongo: il cane era indietreggiato per lo shock e aveva rovesciato l'intero tavolo, disseminando torte ovunque e aggiungendo indirettamente due chilogrammi extra allo stand «Indovina il peso del labrador», lì accanto, quando il quattrozampe Coco aveva approfittato della merenda anticipata.

Phil era parso così impotente e orripilato di fronte a quel caos, e ancor più in preda al senso di colpa, che Anna si era ritrovata a chiedere scusa a lui mentre tentavano di dare una sistemata. Era difficile arrabbiarsi con un padre single con la faccia da tigre in via di scioglimento, soprattutto quando aveva occhi così scuri e belli da farle quasi dimenticare che sfoggiava dei baffi da felino. Durante la pausa pranzo dell'indomani era comparso in biblioteca, mostrando un'aria adulta e sexy con il completo scuro e il viso non pitturato; recava fiori e una donazione in contanti «per le torte che abbiamo spiaccicato», e le aveva chiesto se poteva offrirle un caffè per scusarsi.

Ogni tanto Anna rivedeva quella faccia da cane bastonato, di solito quando Michelle passava a trovarla.

Premette il pulsante muto sul telefono. «Due secondi. Lei non ha la normale concezione della giornata lavorativa di otto ore. Ha passato tutto il giorno festivo in negozio.»

«In tal caso ha bisogno di sistemare la sua vita sentimentale.» Phil inarcò un sopracciglio. «Solo perché non riesce a trovare un uomo abbastanza ordinato con cui vivere...»

Anna puntò un dito. «Non è andata affatto così.»

«No? Sei la sua migliore amica e nemmeno tu sai perché se n'è andata.»

«Perché non vai a preparare una tazza di tè o qualcosa del genere?»

Brontolando, Phil rotolò giù dal divano e si diresse in cucina, a piedi nudi.

Lei riprese a parlare al telefono. «Domani vado là per la lettura ad alta voce», spiegò. «Alle undici.»

«Posso venire?»

Anna tentò di non lasciar trapelare l'incredulità dalla propria voce e fallì miseramente. «Vuoi offrirti volontaria per leggere Jean Plaidy in una stanza piena

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di vecchietti? Stai cercando di rendere veritiero l'alibi natalizio che hai rifilato a tua madre?»

«No! È il mio proposito per l'anno nuovo: restituire qualcosa alla comunità. Ho pensato di cominciare con le tue sessioni di lettura per il gruppo di nonnini.»

«Sei sicura? Voglio dire che sarei davvero felice se tu leggessi – ne traggono davvero un enorme giovamento – ma se vuoi restituire qualcosa potresti donare candele profumate o fiori per la sala comune. Un pizzico di Home Sweet Home farebbe miracoli, là.»

«Be', vedremo», replicò Michelle. «Passa dal negozio alle undici meno un quarto. Ti darò un passaggio io.»

«Okay», disse Anna. Phil era comparso sulla soglia con una bottiglia di champagne avanzata da Natale e un paio di bicchieri. «Devo...»

Lui attraversò la stanza con un paio di lunghi passi e le tolse di mano il telefono. «Ora deve andare. Ciao, Michelle.»

Mentre Anna stava ancora ridendo, lui staccò nuovamente il ricevitore e lo spinse dietro un cuscino del divano.

«Tu vieni con me», disse, mettendole in mano bottiglia e bicchieri. «A letto.»

E con un gemito la sollevò, barcollando leggermente, poi se la posò sulla spalla e la portò di sopra.

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Capitolo 4

«Ricordo ancora la pelle d'oca che mi è venuta quando ho letto Il giardino di mezzanotte, così magnificamente malinconico, e come mi rattristava che la nostra casa appena costruita non fosse abbastanza antica per ospitare dei fantasmi.»

Becca McQueen

Anna sapeva che era stato un errore accettare di incontrarsi con Michelle allo Home Sweet Home invece che a casa sua. Era già abbastanza tentata di curiosare nel negozio in circostanze normali, ma con una cartolina stampata a mano con la dicitura svendita speciale che le bruciava nella borsetta, lei e il suo budget postnatalizio «tiriamo la cinghia» erano spacciati.

Mentre si avvicinava spinse risolutamente il portafoglio in fondo alla borsa, cosa che probabilmente non le avrebbe impedito di voler comprare qualsiasi cosa su cui avesse posato gli occhi, ma poteva quanto meno farle guadagnare qualche vitale secondo salva-carta-di-credito.

Lo Home Sweet Home era unanimemente considerato il motivo per cui la High Street di Longhampton stava cominciando a riprendersi, un robusto germoglio verde dei bei vecchi tempi fra le bottegucce di enti benefici e i discount. La prima cosa che Michelle aveva fatto era stata staccare le insegne di plastica della pescheria e tinteggiare di un color miele chiaro l'esterno trascurato, dando risalto con pittura oro e cremisi alle rose di pietra intagliata lungo la vetrina. Ormai da decenni nessuno notava quelle rose. Nel giro di un mese altri tre negozi sullo stesso lato della strada erano stati ristrutturati.

Anna posò la mano sulla maniglia della porta, si fece forza visualizzando la stratosferica bolletta telefonica ricevuta quella mattina ed entrò. Il suo sguardo si posò subito su un magnifico ammasso di palloncini di vetro in una cesta e le sue resistenze si sciolsero come un Babbo Natale di cioccolato.

Il locale era già gremito di acquirenti che reggevano cestini pieni zeppi di decorazioni in filigrana per l'albero e cuori di pan di zenzero. Phil diceva scherzosamente che Michelle immetteva nello Home Sweet Home qualche tipo di gas nervino che induceva a comprare, ma la verità era che lei aveva semplicemente la capacità di vendere ciò che le donne desideravano: gli oggetti più belli, utili, originali, graziosi; alcuni costosi, altri economici, ciascuno

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presentato come se fosse prezioso e assolutamente indispensabile per rendere casa tua accogliente come il negozio. Non importava che tu avessi otto anni e l'ossessione per i nastri come Lily oppure trentun anni e l'assoluta incapacità di resistere a un balsamo per labbra di cera d'api organica come Anna: su ogni tavolo c'era qualcosa che sussurrava: «Comprami».

Prese un palloncino di vetro, immaginandone tutta una serie in camera di Becca, magari appesi a nastri dorati intorno alla finestra, poi lo posò. Adesso vivevano con un solo stipendio e le ragazze, a New York, stavano facendo shopping sfrenato. Ma a metà prezzo quei palloncini erano un vero affare e lei aveva visto Becca ammirarli.

«Oh, non sono splendidi?» chiese una voce ansimante. «Ma, ehm, non avresti paura che Pongo possa mangiarne una? Non sto scherzando, somigliano a pomodori. Non riuscivo a capire cosa ci fosse di natalizio nei pomodori finché Michelle non mi ha spiegato che erano destinati all'albero.»

Alzando gli occhi Anna vide Kelsey, l'assistente di Michelle, indugiare accanto al tavolo e posò il palloncino. Kelsey era incantevole, come ogni altra cosa lì nel negozio, ma utile come i palloncini di vetro quando si trattava di vendere sul serio. Era prevalentemente confinata a occuparsi degli ordini via Internet, visto che non era mai riuscita a far funzionare la cassa da sola, e in passato aveva gentilmente dissuaso Anna da un paio di acquisti avventati, per fortuna non mentre Michelle era nei paraggi. Somigliava a una top model dalle sopracciglia dorate o a un angelo a cui fossero cadute le ali, e spesso faceva impazzire Michelle con la sua sciagurata abitudine di lasciarsi sfuggire dei taccheggiatori perché stava sviscerando la sua complicata vita sentimentale al telefono con le amiche.

Se Gillian, la regina delle vetrine, non fosse stata così efficiente, Kelsey sarebbe stata spietatamente eliminata dall'impero di Michelle ormai da tempo ma, al pari delle candele al fico verde che ardevano in alte nicchie e della colonna sonora di Ella Fitzgerald, aggiungeva una certa atmosfera ispiratrice.

«Ciao, Kelsey, c'è Michelle?» chiese Anna. «Ha detto che mi avrebbe aspettato qui alle undici meno un quarto.»

«È di sopra.» Kelsey abbassò la voce con aria da cospiratore. «Con un ragazzo!»

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«Un ragazzo?» Anna non aveva avuto intenzione di dirlo così forte, ma il modo in cui Kelsey le stava strizzando l'occhio le rese difficile non farlo.

«Già. Un ragazzo bellissimo. Un po' giovane per lei, se proprio vuoi saperlo, ma se hai quel certo non so che... Vero?» Smise di strizzarle l'occhio per fare una faccia che indicava che secondo lei Michelle lo aveva ancora.

«Sei sicura che non sia un rappresentante?» le domandò Anna.

Kelsey rispose con una sbuffata derisoria: «Sì, a meno che non venda articoli sexy».

«Michelle è di sopra a sistemare il sito web», gridò una voce dalla stanza dietro il locale principale; una voce competente, quella di una donna più matura. «È collassato di nuovo, non chiedetemi come o perché. Ed è con suo fratello. Arriverà fra un secondo.»

«Suo fratello?» chiese Kelsey muovendo solo le labbra, scioccata.

«Ha tre fratelli», spiegò Anna mentre Gillian compariva con la sua tenuta da saldi natalizi, un cardigan rosso sopra il consueto abitino nero e una guaina extrarigida che appiattiva il risultato dei suoi eccessi natalizi. Nessuna traccia delle corna da renna. «Qual è?»

«Quello fico», rispose Gillian. «Scusate l'ardire.»

Anna sentì due serie di passi scendere rumorosamente le scale che portavano all'appartamento e, prima che Kelsey avesse il tempo di fare qualcosa di più del ravviarsi i capelli, Michelle e Owen si fermarono davanti a un comitato di accoglienza formato da tre donne.

«Cosa c'è?» chiese Michelle, notando la lampante curiosità sui loro volti. «Oh, capisco. Owen, lasciami fare le presentazioni in maniera adeguata. Questa è Gillian, che gestisce il negozio. Questa è Kelsey, che si occupa degli ordini arrivati sul sito, e questa è Anna, che mi impedisce di impazzire. Signore, questo è il mio fratellino, Owen. È il nostro nuovo cervellone addetto al sito.»

«Preferisco “consulente informatico”», precisò lui con un sorriso che gli raggiunse gli occhi castani, raggrinzendone piacevolmente gli angoli.

Anna notò la somiglianza fra loro due. Owen aveva la stessa capigliatura castano scuro di Michelle e lo stesso mento affilato, ma laddove i capelli di lei erano tagliati in un caschetto geometrico, a lui si arricciavano intorno alle

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orecchie e sopra il colletto. E i suoi occhi castani sfavillavano – Anna fece per correggere quel tipico termine da romanzo rosa, ma poi dovette ammettere che, in realtà, in questo caso era piuttosto azzeccato –, mentre quelli di Michelle erano più guardinghi, e notavano ogni cosa senza però rivelare nulla.

Owen torreggiava sulla sorella, con sottili braccialetti di cuoio ai polsi e lunghe gambe fasciate da jeans stretti. “Ha l'aspetto che dovrebbe avere il membro di una band”, pensò Anna, invidiandogli le lunghe ciglia. “Una di quelle che piacciono a Becca, con un nome che significa qualcosa che io sono troppo poco aggiornata per capire.”

«Owen creerà le nuove pagine primaverili per il nostro sito e ha un mucchio di cose di cui cominciare a occuparsi, quindi non lasciate che vi distragga», aggiunse Michelle, controllando la sua lista di priorità e cancellando alcune voci mentre lui rivolgeva loro un sorriso radioso. «Owen, neanche tu lasciati distrarre da Kelsey. Ha parecchio da fare quaggiù.»

Kelsey assunse un'aria frustrata e chiuse la bocca. Lui le strizzò l'occhio e Anna, benché il gesto non fosse rivolto a lei, avvertì una sorta di sfarfallio nello stomaco.

«Okay.» Michelle premette il tappino della penna che teneva in mano. «Tu di sopra. Tu», disse indicando Kelsey, «vai a servire le signore laggiù. Tu invece», aggiunse indicando Anna, «vieni con me, andiamo a leggere ad alta voce.»

«Sei sicura di poterti prendere il tempo di farlo?» chiese Anna mentre altre due clienti facevano tintinnare la campanella all'ingresso e puntavano direttamente verso l'espositore di grembiuli cuciti a mano con sopra stampate delle ciliegie.

«Purché io sia di ritorno per l'ora di punta pomeridiana», replicò Michelle. Si avvolse una sciarpa intorno al collo e si infilò la giacca di pelle di montone, morbidissima e, come tutti i suoi indumenti, non contaminata da peli di cane o accidentali sbaffi di pennarello. Anna invidiava la facilità con cui l'amica riusciva a far cadere in modo perfetto le sciarpe.

«Dove andate?» domandò Kelsey.

«Alla Butterfields.» Anna approfittò dell'occasione per tentare di reclutare qualche nuovo volontario. «Immagino che non ti andrebbe di dedicare alla cosa qualche ora al mese, vero? Non devi fare altro che leggere ad alta voce per una mezz'oretta e magari discutere del libro, raccontare un paio di aneddoti su...»

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«No, mi spiace. Non sono affatto un'amante dei libri», dichiarò risolutamente Kelsey. «Preferisco aspettare che esca il film.»

«Ma è così bello leggere ad alta voce. Molto rilassante. Finisci per apprezzarlo tanto quanto le persone per cui leggi», insistette Anna. «Non ricordi quando ti leggevano qualcosa a scuola oppure lo faceva tua mamma? Non ricordi quale straordinaria sensazione si prova nel lasciare che la storia prenda vita nella tua testa?»

«No.» Kelsey parve orripilata al pensiero che qualcosa prendesse vita nella sua testa.

«È un'attività organizzata dal consiglio comunale?» chiese Gillian, che monitorava attentamente le spese di quest'ultimo.

«No, se ne occupa un gruppo di volontari che abbiamo formato in biblioteca per raggiungere persone che hanno perso i contatti con parole e storie. Magari non riescono a concentrarsi oppure non sono in grado di leggere o vedere... motivi di ogni genere. Io lo faccio nella casa di riposo, la mia assistente Wendy organizzava sessioni per il gruppo di sostegno all'apprendimento a scuola, e ce n'è un altro all'ospedale.»

«E vi limitate a... leggere?» si informò Gillian.

Anna annuì. Era difficile spiegare come risultasse appagante il programma senza suonare pedante, un'attività che le dava l'impressione di avere fornito qualcosa di utile, che sarebbe durato ancora per ore, dopo la sua partenza. «A volte leggono loro, a volte ci fermiamo per discutere di un determinato passaggio oppure loro parlano di un ricordo che la lettura ha fatto riaffiorare. Devo ammettere che talvolta le persone anziane mi fanno venire voglia di piangere. È come se si stessero svegliando e all'improvviso vedi i loro occhi sembrare di nuovo giovani. Tutto a causa di un'idea che qualcuno ha avuto e poi ha scritto per condividerla, e che ora viene piantata in memorie sparse per il mondo. È come se potesse far tornare indietro il tempo. Non è straordinario?»

Kelsey non sembrava convinta ma ad Anna parve che Gillian avesse gli occhi lucidi. “La prossima volta verrà anche lei”, intuì.

Michelle picchiettò un dito sul suo orologio. «Stiamo rubando tempo alla loro ora su Jean Plaidy. Andiamo!»

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E Anna, voltandosi a lanciare un'unica occhiata a una borsetta di seta coperta di minuscole farfalline di chiffon, si lasciò trascinare fuori dal caldo abbraccio dello Home Sweet Home e sulla fredda strada principale.

Anna si era sbarazzata con riluttanza della sua auto sportiva per pagare la più spaziosa monovolume, ma aveva mantenuto lo stesso energico stile di guida. Michelle si sentì invadere dal sollievo quando l'amica inserì finalmente la freccia per imboccare il viale alberato di una grande villa edoardiana davanti alla quale spiccavano un ampio spiazzo e ordinate siepi di bosso a delimitare il prato. Niente archetti del croquet, solo un'insegna discreta che indicava butterfields residential home e un minibus adattato per le sedie a rotelle parcheggiato lì di fronte.

«Non sapevo nemmeno che qui ci fosse questo edificio», disse Michelle, ammirando la facciata rivestita di edera e le lunghe finestre. «Ai tempi d'oro doveva essere magnifico.»

«Apparteneva all'unico capitano d'industria della città», spiegò Anna mentre parcheggiava accanto alla sola altra auto presente. «Alcuni degli ospiti più anziani rammentano la famiglia. Non farli cominciare a parlare dei Parry. Ho dovuto evitare qualsiasi romanzo di Catherine Cookson in cui figurino dei domestici perché alcune delle antenate degli attuali residenti erano cameriere scontente al loro scenario.»

Michelle rimase indietro mentre l'amica percorreva spedita il viale ghiaioso con i suoi stivali senza tacco e annunciava il loro arrivo attraverso il citofono di sicurezza. Formavano una ben strana coppia, come un duo comico: la spigolosa Michelle in jeans e stivali di pelle e l'aggraziata Anna con gonna lunga, capelli biondi infilati sotto un berretto di maglia e borsa dei libri appesa alla spalla.

I loro riflessi indugiarono sul vetro, in un punto intermedio tra la frizzante aria invernale all'esterno e le tetre pareti da istituto all'interno. “Come fantasmi”, pensò Michelle. Preferiva non confessarlo all'amica, ma le case di riposo le mettevano i brividi. Se non fosse stata decisa ad ammaliare il signor Quentin per fargli cambiare idea sulla libreria, non avrebbe mai e poi mai varcato quella soglia.

Mentre Anna apriva la porta e la scortava nell'atrio un tempo imponente, la maestosa prima impressione dell'esterno si dissolse in una zaffata di verdure bollite e liquido detergente. Michelle girò urgentemente lo sguardo tutt'intorno cercando eventuali brandelli di eleganza rimasti. Non c'era granché su cui basarsi.

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“È tutto così grigio”, pensò, “grigio e opprimente. Dove sono i colori, i profumi confortanti, qualche striscia di carta da parati graziosa?”

Ignara della sua reazione, Anna spinse una massiccia porta antincendio e sorrise all'inserviente fasciata da una vestaglietta da casa in nylon che stava spingendo lungo il corridoio un uomo in sedia a rotelle dallo sguardo vitreo.

«Quello è Albert», disse sottovoce. «L'unica volta in cui l'ho sentito parlare è stato dopo che avevamo letto alcuni capitoli di Espiazione. Alla fine, di punto in bianco, ha detto: “Ho conosciuto la mia Noreen in un rifugio antiaereo di Solihull e l'ho scambiata per sua sorella. Dopo ho dovuto sposarla”. Per poco le infermiere non sono stramazzate al suolo.»

«E in seguito non siete più riusciti a farlo chiacchierare?»

«Be', no.» Anna si fermò davanti a un'altra porta antincendio e la spalancò lasciando passare per prima Michelle. «Ma ha offerto uno spunto di riflessione a quanti si occupano di lui, la volta seguente in cui i familiari sono venuti a trovarlo.»

Avevano raggiunto l'ambiente principale, un'imponente sala ricevimento dal soffitto alto, con poltrone a orecchioni rivestite di chintz disposte in cerchio che ospitavano uomini e donne anziane ricurvi. Alcuni si voltarono per vedere chi era entrato, gli altri continuarono semplicemente a fissare il vuoto, le mani serrate ad artiglio sui braccioli.

Nel percepire il senso di solitudine che regnava nella stanza, a dispetto di tutte le persone che vi si trovavano, Michelle fu attraversata da un brivido freddo. Adorava vivere da sola, non sopportava l'idea di dividere con qualcuno la sua bellissima casa, ma quello, come sua madre continuava a rammentarle, poteva essere l'approdo finale. Lente giornate tutte uguali trascorse in una stanza insieme ad altre persone prive di affetti, costrette in celle per anziani single, senza nemmeno un'orda di gatti a divorarli.

Il fatto che un tempo anche quella dimora fosse stata amata la rendeva più triste degli edifici costruiti per essere case di riposo, pensò. Butterfields sembrava abbandonata come i suoi residenti. Le modanature in stucco erano parzialmente coperte da assi che nascondevano le poche decorazioni presenti nella stanza. Un tempo la mensola sopra il caminetto di marmo doveva essere stata ingombra di biglietti d'invito e fotografie. Un tempo quelle anziane signore dalla gonna piena di grinze ballavano con giovani pieni di speranze, portavano calze con la riga,

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prendevano cotte e raccontavano barzellette. E ora se ne stavano semplicemente sedute, ognuna chiusa nel proprio mondo, ad aspettare cosa? Che arrivasse qualcuno per costringerle, volenti o nolenti, ad ascoltare la dannata Jane Austen?

Era tutto così silenzioso. Nessuno parlava, non c'era musica né un televisore a borbottare incessantemente, nessuna radio a spiattellare bollettini sul traffico... niente. Solo il fioco ticchettio dei termosifoni e l'occasionale fruscio di calzoni in poliestere contro i cuscini.

Michelle serrò le labbra per impedirsi di commentare le orrende pareti giallo senape; sapeva di suonare superficiale, ma era anche conscia che quella sarebbe stata la prima cosa a rischiare di farla impazzire.

“Potrei finire così anch'io”, pensò, in preda alla nausea da panico. “Harvey aveva ragione. La mamma aveva ragione. Potrei finire così anch'io.”

«Dov'è tua suocera?» sussurrò invece.

Anna stava frugando nella borsa per cercare il libro. «Non c'è ancora. Farà la sua entrata in grande stile appena prima che cominciamo, per assicurarsi che tutti la stiano guardando.»

«E il signor Quentin?»

L'astuto piano di Michelle appariva ora piuttosto strampalato, persino ai suoi stessi occhi. Lì non c'erano libri, notò. Niente scaffali, niente riviste, niente carte. L'anziano libraio stava sicuramente rischiando la follia. Sarebbe stato ancora più deciso a tutelare il proprio negozio.

Anna si guardò intorno. «Credo che non sia ancora arrivato nemmeno lui. Perché?»

«Oh, pensavo di fare due chiacchiere con lui riguardo al suo negozio.»

«Davvero?» Anna sgranò gli occhi, troppo fiduciosa per sospettare un secondo fine. «Come mai?»

Prima che Michelle potesse escogitare una risposta adeguata, una signora di mezza età in tunichetta e leggings le raggiunse in fretta. La donna aveva con sé un portablocco a molla e una penna che le penzolava come un filo a piombo dall'enorme petto e rivolse un sorriso felice ad Anna.

«Anna, mia cara! Hai portato un'aiutante?»

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«Sì, ti presento Michelle», replicò lei. «Michelle, Joyce è il capo animazione della Butterfields.»

«Ahimè sì!» confermò la donna, agitando il braccio con aria modesta. «Mi tengono impegnata, questi piccolini.»

Michelle e Anna non poterono fare a meno di osservare con incredulità la silenziosa stanza piena di silenziosi anziani.

«Allora, cosa ascolteremo questa settimana?» si informò Joyce, alzando la voce per coinvolgere i residenti più vicini. «Qualcosa di natalizio?»

«Pensavo di leggere qualche passaggio di Cranford.»

«Ooh, ma è magnifico! L'hanno trasmesso di recente in tv, vero?»

«Sì», rispose Anna.

«È d'aiuto», spiegò Joyce a Michelle. «Anche se a volte loro si confondono con i personaggi. Sono convinti che l'attrice Joanna Lumley sia venuta a trovarli.»

Joyce e Anna cominciarono a sollecitare gentilmente gli ospiti, radunandoli come chiocce e disponendoli in cerchio. Michelle si sentì a disagio ma spostò alcune poltrone e si sedette accanto ad Anna, che si presentò con una disinvolta gaiezza e poi cominciò a leggere.

La sua voce melodiosa riempì agevolmente lo spazio intorno alle poltrone e Michelle rimase stupita nel sentirla così diversa dal suo consueto tono colloquiale. Anna parlava in maniera più lenta e accurata, conferendo a ogni frase un ritmo capace di darle vita e animazione, costruendo un'immagine dopo l'altra, distinguendo la voce di ogni personaggio.

Aveva letto forse una pagina quando una donna canuta comparve sulla soglia, spingendo con palese disgusto un deambulatore a rotelle. Contrariamente a quasi tutti gli altri, portava con una sorta di feroce sfrontatezza degli indumenti colorati: una sciarpa di un acceso rosso corallo intorno al collo e un paio di pantaloni gialli con bottoni di plastica. La bocca era uno sfregio orizzontale di rossetto scarlatto che formava una linea risoluta, seria.

«Avete cominciato senza di me», affermò, guardando in cagnesco Anna.

«No, Evelyn», mentì lei.

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«Sì, invece», ribatté la donna. «Ho subito un'operazione al ginocchio, non una lobotomia. Ti sentivo fino in fondo al corridoio. Puoi benissimo smettere finché non mi siedo, grazie.»

Quindi questa era la suocera arrivata direttamente dall'inferno.

Tutti gli sguardi si appuntarono su di lei mentre si spingeva verso la poltrona libera più lontana dalla porta. “Può anche essere una vecchia strega”, pensò Michelle, “ma di certo si sa lavorare il pubblico.”

«Non mi serve aiuto», disse Evelyn, liquidando con un gesto i tentativi di Joyce di aiutarla a sedersi. Se la prese comoda mentre si sistemava, e Michelle vide vacillare l'autocontrollo di Anna. Si arrabbiò per conto dell'amica; non stupiva che fosse fuggita da casa sua il giorno di Natale, se aveva dovuto sopportare per ore quell'atteggiamento, oltre ai capricci delle ragazze.

«Anna», annunciò briosamente Joyce, «credo che siano tutti pronti, adesso.»

Lei girò la pagina, abbozzò un sorriso e ricominciò a leggere. Quando iniziò, alcuni degli ospiti più vigili avevano gli occhi fissi su di lei, pendevano dalle sue labbra. Evelyn McQueen si premurò di fissare le lunghe finestre, apparentemente affascinata da qualcosa in giardino. A parte la voce di Anna e l'occasionale fruscio di una pagina che veniva voltata, nella sala non si udiva alcun suono, ma era un tipo di silenzio diverso dalla monotonia dell'isolamento che aveva permeato l'aria in precedenza. Adesso c'era una sorta di tensione che sgorgava fra le poltrone, e lentamente altri occhi si volsero verso Anna, si chiusero e poi si riaprirono con interesse.

Persino Michelle si ritrovò ad ascoltare. Era come se ci fosse qualcun altro nella stanza insieme a loro, qualcuno di confortante e familiare. Si scoprì a rilassarsi sulla poltrona, dimentica della fodera consunta che la ricopriva mentre la vicenda si dipanava.

Poi le balenò in mente l'idea.

Anna. Anna poteva gestire la libreria per un anno.

L'idea risultò talmente nitida da farle pensare che un servizievole angelo custode le avesse sussurrato concretamente le parole all'orecchio.

Era così ovvio: Anna vantava parecchia esperienza con i libri e, cosa più importante, li amava. Si animava quando parlava di romanzi e parole e la magia del narrare storie e bla bla bla. La sua passione avrebbe garantito il successo del

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negozio, proprio come la passione di Michelle per casa sua aveva fatto funzionare così bene lo Home Sweet Home.

Si sforzò di dominare l'eccitazione. Non aveva bisogno di convincere il signor Quentin a lasciarle modificare la natura del negozio, alla fin fine. Quell'altezzoso avvocato aveva detto che era solo per un anno; lei non avrebbe dovuto fare altro che mettere Anna a vendere la merce che già si trovava nella libreria, e che sembrava parecchia. Se di lì a sei mesi i conti non tornavano – e, anche con la miglior buona volontà del mondo, Anna non era una taumaturga –, be', ecco pronta l'argomentazione: lei ci aveva provato ma la cosa non aveva funzionato.

“Dovrei chiamare subito la Flint and Cook”, pensò. “Prima che lo faccia qualcun altro.”

Chiese permesso ma, con la voce di Anna che saliva e scendeva nell'aria, nessuno si accorse che lei usciva.

Sgattaiolando in un corridoio estrasse il cellulare, chiamò lo studio legale e chiese di parlare con Rory Stirling, tentando di non leggere l'avviso sul diabete di tipo 2 appeso alla parete mentre sentiva la musichetta da attesa.

Di colpo Yesterday si interruppe e Stirling fu in linea.

«Ah, la regina delle chincaglierie della High Street di Longhampton.» Dal suo tono di voce si sarebbe detto che lui stesse mangiando alla scrivania e Michelle si sforzò di dominare l'irritazione. «Come posso aiutarla?»

«La libreria di Quentin», rispose lei. «È ancora disponibile?»

«Sì. Ho qui davanti l'annuncio ma nell'ufficio inserzioni della “Gazette” non c'è ancora nessuno a cui io possa dettarlo.» Stirling suonava divertito. «Pensavo che fossimo piuttosto efficienti, qui, ma lei ci sta facendo vergognare.»

«Bene. Vorrei affittarla, se non le dispiace.»

«Come libreria?»

«Come libreria.» Michelle si allontanò dal cartellone con gli avvisi per guardare invece fuori dalla finestra, verso quello che un tempo era stato una sorta di giardino formale. Un pettirosso stava saltellando lungo il sentiero, in direzione di una vaschetta per gli uccelli la cui acqua era gelata. «Ho già pronto un direttore che sono sicura il signor Quentin sarebbe soddisfatto. Qualcuno che è un vero appassionato di libri.»

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«“Di cui sono sicura il signor Quentin sarebbe soddisfatto”», la corresse Rory, suonando divertito più che diffidente, ma lei intuì che stava morendo dalla voglia di aggiungere: “Avanti, è solo una battuta”.

«Comunque sia, ho riflettuto su ciò che ha detto», aggiunse Michelle, «sul fatto che ogni città ha bisogno di una libreria. Ha ragione.»

Vi fu una sbuffata derisoria, poi una pausa di silenzio stupito, e infine Stirling riacquistò un atteggiamento professionale.

«Be', è una splendida notizia», replicò. «Vorrebbe venire qui a parlare delle scartoffie?»

«Passerò nel pomeriggio», disse Michelle.

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Capitolo 5

«Ho deciso che volevo fare la pasticciera dopo avere letto, a otto anni, La fabbrica di cioccolato. Riuscivo a sentire il profumo del fiume di cioccolato reso schiumoso dalla cascata, della gomma da masticare vitello-arrosto-e-torta-di-mirtilli e della nave di caramelle!»

Juliet Falconer

Anna allungò la gamba sinistra sotto il piumone e mosse le dita del piede destro sotto il peso morto di Pongo, che stava russando. Sapeva che avrebbe dovuto spostarlo ma stava comoda quanto lui. Una teiera di tè bollente, del pane tostato e il nuovo libro rilegato di Kate Atkinson che Phil le aveva regalato per Natale: quel lusso che si concedeva una volta l'anno valeva bene una gamba addormentata. Non aveva la minima intenzione di alzarsi prima dell'ora di pranzo e sospettava che nemmeno Pongo fosse troppo ansioso di farlo.

Il telefono squillò e lei si sporse in avanti per inserire il vivavoce, così da non dover posare il libro.

“Scommetto che è Phil”, pensò, “che vuole sapere se mi sto godendo la colazione a letto mentre lui è tornato in ufficio.” Aveva cercato di convincerlo a recarsi al lavoro un po' più tardi – così che potessero assaporare un pizzico di rara privacy mattutina –, ma lui aveva insistito per arrivare al lavoro entro le nove. Era un capo molto ligio al dovere.

«Pronto», disse, con un tono di raffinata efficienza. «Parla la McQueen Dog-Sitters.»

«Cosa?» domandò una voce che non era decisamente quella di Phil.

«Oh, Michelle», replicò lei, rischiando di far cadere il libro sul piatto pieno di briciole e di sporcarsi le dita di marmellata.

«Puoi venire al negozio?» La sua amica suonava eccitata. Suonava anche decisamente alzata e vestita di tutto punto.

Sentendo la voce di Michelle Pongo drizzò le orecchie, pur non muovendosi. Di solito non era autorizzato a salire sul letto, soprattutto mentre Phil era nei paraggi.

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«Quando?» chiese Anna, vedendo svanire la sua sessione di lettura mattutina. Ghermì il ricevitore per evitare ulteriori reazioni di Pongo all'invisibile Michelle presente nella stanza. «Non ho ancora portato fuori il cane e...»

«Vieni subito! Porta anche lui.»

«Dici davvero? Nel tuo negozio pieno di cestini e oggetti fragili?»

«Be', prima fagli fare due giri di corsa intorno al parco per stancarlo un po'.»

Le orecchie del dalmata avevano captato il cambio di situazione e lui aveva cominciato a darle colpetti al ginocchio con il naso, passando poi a usare la zampa quando lei non reagì.

«Di cosa si tratta?» chiese Anna, capitolando e infilando il segnalibro nel capitolo appena iniziato.

«È una sorpresa», rispose Michelle. «Ora sbrigati. Pongo!» gridò. «Si va a spasso! A spasso!»

Il cane saltò giù dal letto, eccitato, e Anna si rassegnò ad alzarsi, in fretta.

Quando raggiunsero la strada principale trovarono Michelle ad aspettarli davanti al negozio con una sporta di iuta sulla spalla e un paio di cappuccini da asporto del bar di Natalie su un vassoio di carta. «No, non entrare!» disse, proteggendo la porta dello Home Sweet Home dal naso curioso di Pongo. «No, il negozio accanto, Pongo!» Fece oscillare un piccolo mazzo di chiavi. «La libreria.»

Anna arricciò il naso, in procinto di chiederle come diamine si fosse procurata quelle chiavi, ma la sua amica stava già entrando.

Pongo uggiolò e tirò il guinzaglio per seguirla. «Può venire?» gridò Anna.

«Certo.» La voce di Michelle indicò che lei si trovava già ben dentro il negozio.

Lanciando un'occhiata ammonitrice a Pongo perché facesse il bravo, Anna varcò la soglia.

Il locale era umido e freddo, ma si trattava pur sempre di una libreria incustodita e lei provò un brivido di eccitazione mentre scrutava gli scaffali con occhi bramosi. Le biblioteche non erano esattamente la stessa cosa, aveva scoperto; qualcosa, nell'odore prosaico di tante case e dita che filtrava dalle

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pagine, diluiva quella sensazione di mondi magici, mentre i volumi intonsi, non letti, inesplorati erano tutto un altro paio di maniche.

Avanzò lentamente, piegando la testa di lato per leggere i titoli rimasti sulle scaffalature parzialmente sgombrate: il signor Quentin poteva anche essersene andato, ma la sua collezione di testi di storia militare occupava ancora il posto d'onore accanto alla porta. Era strano vedere il negozio privo della volubile presenza dell'uomo e senza altri clienti intenti a curiosare sugli scaffali. Sembrava più piccolo di quanto lei ricordasse, e più triste.

Pongo stava annusando il cestino della carta straccia accanto alla scrivania. Lei controllò che dentro non vi fosse nulla che lui potesse mangiare, poi legò il suo guinzaglio estensibile a una delle massicce gambe della scrivania e andò a cercare Michelle.

La trovò in piedi nel retrobottega, dove gli scaffali erano nascosti da pile di volumi usati. Il signor Quentin non riusciva mai a dire di no a chi voleva svuotare una casa o a un mercatino dell'usato. I libri erano disseminati senza cerimonie intorno ai piedi di Michelle, ora che lei aveva staccato una scaffalatura dal muro e stava osservando con aria critica due pennellate di pittura beige che aveva applicato sopra lo sbiadito color magnolia.

«Cosa te ne pare?» chiese Michelle, voltandosi per vedere la reazione di Anna. «Color corda o color crema?»

«A me sembrano identici. Hai il permesso di farlo in un negozio altrui? Devi ristrutturarlo per conto di qualcuno?»

«No. E no.» Michelle prese un altro barattolo di pittura dalla borsa di iuta e cominciò a spennellare sotto i due rettangoli, stavolta usando un rosso intenso. «Cosa ne dici di un'atmosfera da autentica sala di lettura? Troppo simile all'interno del fegato di qualcuno?»

«Vuoi spiegarmi cosa sta succedendo?»

«Fra un minuto.»

Anna non sopportava di vedere dei libri sparsi in giro. Si chinò per raccoglierli e provò una fitta di nostalgia riconoscendo uno dei romanzi che più aveva amato da bambina: la stessa edizione anni Settanta della Fabbrica di cioccolato che aveva avuto su uno scaffale della sua cameretta, con tanto di magica macchina del cioccolato che spruzzava schiuma color arcobaleno da un intrico di tubi stampata

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in copertina. Lo aprì e le illustrazioni tratteggiate e ricche di particolari la riportarono subito nel suo lettino, con il padre seduto, simile a un gigante, sulla sedia grande la metà del normale accanto a lei, in maniche di camicia, a leggere «solo un altro capitolo» prima che lei si addormentasse. Roald Dahl era anche il suo autore preferito e il papà cambiava accento per ogni personaggio: Veruca Salt, l'avido Augustus e gli Umpa-Lumpa canterini, questi ultimi interpretati con una sorprendente gaiezza sudamericana.

Le pagine consunte parvero vellutate mentre le sfogliava; la testa le si colmò di ricordi di coperte tiepide, dell'odore di ufficio che aveva il padre dopo il lavoro e della cena in forno al piano di sotto, e nella mente di Anna presero vita fiumi di cioccolata calda e caramelle che non finivano mai e la sensazione di essere totalmente al sicuro: libera di vagabondare in mondi fantastici, in pericoli e battaglie e case stregate, ma con papà al suo fianco, la familiare voce di lui nell'orecchio.

Aveva sognato sin da piccola di leggere storie ai suoi figli, e il cuore le si dilatò di impaziente bramosia quando pensò al bimbo che la aspettava, che attendeva di iniziare il viaggio nella sua vita. Quando lei e Phil avessero avuto un figlio, lei avrebbe assaporato una vita diversa. Una vita in cui si sarebbe sentita necessaria, desiderata, non semplicemente tollerata come una supplente dotata di una certa competenza.

La voce di Michelle si insinuò nei suoi pensieri: «...cappuccino?».

Anna alzò gli occhi. Michelle le stava porgendo uno dei contenitori da asporto e, a giudicare dall'eccitazione che irradiava – e dalla nuova lista di cose da fare che stringeva in mano –, quella non doveva essere la sua prima dose di caffeina della giornata. Michelle non doveva mai preoccuparsi di come si poneva, pensò Anna con una fitta di invidia. Aveva un lavoro, un'attività fiorente, una vita basata su ciò che lei era e non su ciò che non era.

«Anna? Cosa c'è?» Michelle si voltò a guardare il muro, poi di nuovo l'amica. «Il colore è davvero orrendo? Avanti, puoi dirmelo.»

«No, non si tratta di quello.» Anna prese il bicchiere di carta e tentò di ricomporsi. «Sono entrambi... carini. Ma perché vuoi ritinteggiare?»

«Ho affittato la libreria», rispose Michelle, facendo un ampio gesto con le braccia. «La fase due della conquista Nightingale della strada principale.»

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«Congratulazioni! Hai intenzione di abbattere la parete per creare un unico negozio?» Anna assunse un'espressione allegra pur rammaricandosi, in cuor suo, per i libri rimasti senza casa e per il lavoro di tutta una vita di Cyril, ora diretti verso il riciclaggio per fare posto a spiritose teste di cervo fatte di cartoncino.

«No, venderò libri.»

«Libri?»

Michelle annuì. «Voglio farla restare una libreria.»

«Ma questo è il peggior periodo possibile per le librerie», sottolineò Anna, orripilata. «E lo dico in veste di unica acquirente di libri rimasta a Longhampton. Insomma, è magnifico che tu progetti di tenerla aperta, ma non voglio vederti finire in rovina.»

«Be', vedremo. Dimmi cosa te ne pare delle mie idee.» Michelle girò un'altra pagina del taccuino, ricoperta dalla sua calligrafia decisa, dove frecce e cerchi schizzavano in ogni direzione. «Ristrutturazione e marketing sono gli elementi chiave. Stavo pensando ai regali che hai fatto alle ragazze. Potremmo chiamarli “bouquet di libri” e offrirlo come servizio: una pila di romanzi rosa spediti a una parente bloccata in ospedale, diciamo? A quanto pare non puoi spedire fiori in alcuni reparti, io mando sempre mazzi di fiori di seta.»

«Be', io li comprerei, è ovvio», concesse Anna. «Ma chi è che li assemblerà? Kelsey?»

Preferì non aggiungere: “Tu?” perché sapeva che non sarebbe riuscita a pronunciare la parola in modo educato. Michelle era l'unica persona di sua conoscenza che disponesse i propri libri nell'ordine dei colori dell'arcobaleno.

Ma l'amica, che stava ancora illustrando le sue idee, non era evidentemente dell'umore adatto per accettare commenti negativi.

«E stavo pensando a confezioni di libri assortiti, come una cassetta di verdure miste. Per dieci sterline potremmo mandare una selezione di titoli mentalmente stimolanti, alcuni nuovi e altri usati. Alcuni facili libri “patata” e alcuni più impegnativi libri “rapa”. Hai presente come cerchi sempre di cucinare qualcosa di nuovo, quando ti mandano una bella verza? Be', la scatola di libri sarebbe qualcosa di simile. Le persone si sentirebbero virtuose a provare la traduzione di un libro svedese insieme al nuovo romanzo di Marian Keyes, e a noi non costerebbe nulla perché – ecco la parte geniale – il materiale si trova già qui.»

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Anna si stupì di come Michelle facesse suonare tutto così fattibile. «È davvero una splendida idea. Dovresti aggiungere una guida, però, suscitare l'interesse per i libri rapa. Ma chi si occuperà di...»

«Magnifico!» Michelle le puntò contro la penna e annotò l'idea sul taccuino. «E gruppi di lettura, diurni invece che serali? Nel mio negozio vedo sempre le stesse facce durante l'orario di ufficio; sai, le affascinanti mammine alla moda con figli piccoli e nient'altro da fare. Da me non riescono a far entrare il passeggino ma qui potrebbero farlo, se lasciassimo parecchio spazio fra i tavoli. Ho pensato che con alcune sedie qui... accendendo il camino... tinteggiando le pareti del colore giusto...» Si picchiettò la penna sui perfetti denti bianchi. «Cos'altro?»

«Del caffè sul fuoco?» suggerì Anna, un po' per scherzo.

«Caffè, sì, giusto. E pasticcini. In un posto come questo gli extra sono molto importanti. Vedrò se riesco ad accordarmi con la gastronomia...»

Anna si guardò intorno nel tentativo di vedere ciò che stava visualizzando Michelle, ma non vi riuscì; la stanza senza finestre era ingombra di scatoloni di libri usati che Cyril Quentin non aveva mai avuto il tempo di vagliare e men che meno sistemare sulle mensole. Le scaffalature erano malconce e il linoleum talmente lacero da mostrare, qua e là, il nudo assito sottostante. Nessuno si avventurava mai nel retrobottega. Persino lei si era limitata a infilare dentro la testa un paio di volte prima di rinunciare, sopraffatta dalla merce in disordine.

«I libri per bambini si vendono bene», disse, chinandosi a raccogliere James e la pesca gigante, un altro dei suoi beniamini di quando era piccola. La pesca vellutata e succulenta che sfiorava la superficie del mare in tempesta, sorretta da migliaia di gabbiani. Lei era sempre stata un po' intimorita dai gabbiani e aveva costretto il padre a leggerle il libro tenendolo piatto sulle ginocchia, così da non vedere in sogno i loro becchi aguzzi mentre si assopiva. «I bambini li finiscono così in fretta, se sono lettori veloci», aggiunse. «Magari potresti far venire qui le mamme perché leggano ad alta voce ai più piccini, come nel progetto di cui mi occupavo io? Hanno dovuto cancellarlo per motivi economici, alla biblioteca, ma era sempre molto frequentato.»

«Ma certo!» Michelle scribacchiò sul taccuino, voltando rapidamente la pagina.

«Non voglio sembrarti invadente», disse con cautela Anna, «ma se ti serve aiuto con i libri sarei felice di darti una mano.»

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«Speravo facessi qualcosa di più di quello», replicò lei. Alzò gli occhi, sorridendo, e ad Anna parve quasi di vedere le scintille del suo entusiasmo punzecchiare l'aria polverosa. «Speravo di poterti assumere. Che gestissi l'intera faccenda.»

«Io?»

Michelle annuì, come se la cosa fosse troppo ovvia per doverla spiegare. «Voglio vedere i clienti identici agli ospiti della Butterfields.»

«Cioè vecchi?»

«No!» Lei le diede uno schiaffetto sul ginocchio. «Incantati. Ammaliati dalle storie che racconti. Hai esperienza con la biblioteca, al momento non stai lavorando... Puoi cominciare subito, vero?» Si interruppe per la prima volta e le rivolse un'occhiata indagatrice. «So che stai rispondendo a delle inserzioni, ma hai sostenuto qualche colloquio?»

«No», ammise Anna. «Sinceramente avrei maggiori probabilità di entrare in un programma spaziale che di trovare lavoro in una biblioteca, al momento.»

Non sapeva cosa dire, era commossa dalla fiducia che Michelle le stava dimostrando ma si sentiva tutt'a un tratto timida. Michelle era un'amica ma prendeva molto sul serio la sua attività e lei non voleva deluderla. Odiava deludere le persone.

Ma una libreria... La sua libreria...

Un lento sorriso le comparve sul volto. «Veramente?»

«Veramente.» Michelle sorrise. «Non mi viene in mente nessuno che lo farebbe meglio di te. Devi credere un po' di più in te stessa. Non ti ho detto che quando scrivi le cose su una lista poi si avverano?»

Sollevò il suo bicchiere di carta e brindarono: due amiche che intraprendevano un'avventura insieme.

Ma, mentre Anna sorseggiava il cappuccino, il suo entusiasmo cozzò contro una parete di mattoni da cartone animato. Come avrebbe funzionato la routine quotidiana delle ragazze, se lei rimaneva fuori casa durante l'orario di apertura del negozio? Il trasporto, lo shopping, il cucinare, il lavare... era come gestire un albergo.

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E Pongo? Ecco un'altra responsabilità. Si era abituato ad averla intorno e a uscire più volte al giorno per incontrare i suoi amici giù al parco. Avrebbero dovuto ingaggiare nuovamente Juliet, la dog-walker, sempre che avesse qualche buco libero.

Posò il cappuccino e si infilò le mani fra i capelli. «Michelle, desidero davvero farlo, ma prima dovrò consultare Phil.»

«Perché?» Michelle tentò di celare la sua irritazione, ma Anna la notò comunque. «Phil dovrebbe esserne entusiasta. Hai passato l'ultimo anno a fargli da governante, è ora che ti lasci ricominciare a usare il cervello. Gli farebbe bene rendersi conto di quanto sgobbi in casa.»

«Be', non è così semplice», replicò Anna. «Abbiamo delle routine precise, delle responsabilità. Non posso più fare semplicemente quello che voglio. È così che funziona, quando sei sposata.»

Si rese conto troppo tardi di non avere dimostrato molto tatto.

Michelle fece ruotare parzialmente il taccuino per richiuderlo e la fissò con lo sguardo freddo e limpido da cui Anna rimaneva talvolta turbata. In talune occasioni la concentrazione di Michelle riusciva a rasentare il sovrumano; era difficile immaginarla a preoccuparsi troppo di qualcosa, una volta presa una decisione. Anna si chiese – molto quietamente, nel caso l'amica riuscisse a leggerle nel pensiero – se fosse una conseguenza del suo divorzio o qualcosa che aveva contribuito a provocarla.

Dopo tre anni conosceva ancora solo i dettagli più nebulosi del suo matrimonio naufragato. Mentre Michelle conosceva a fondo Anna, c'erano settori della sua vita che l'amica le teneva gelosamente nascosti.

«È così che funziona quando sei sposata?» chiese. «Questo è uno dei motivi per cui ho deciso che non volevo più esserlo. Dover sottoporre qualsiasi cosa all'approvazione di qualcun altro, solo per sentirmi dire che non potevo farlo.»

Pongo, liberatosi per l'ennesima volta del collare, la raggiunse con le unghie che ticchettavano sull'assito e le premette la testa sul ginocchio.

«Vai via, pelosone», disse lei, ma intanto gli accarezzò le orecchie vellutate.

Anna si sentì combattuta, come spesso le succedeva. Phil non era come Harvey, per quanto le fosse possibile giudicare. Non cercava di controllarla né si mostrava sprezzante verso il suo lavoro, ma senza discuterne apertamente erano

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giunti al tacito accordo che le ragazze sarebbero venute al primo posto. Era la mancanza di discussione quello che più la angustiava.

«Gli parlerò», asserì.

Anna pensò alla libreria per tutto il pomeriggio mentre si affaccendava in giro per casa, riponendo il bucato nei cassetti, rimettendo libri sugli scaffali, impilando riviste e passando l'aspirapolvere fra un lavoro e l'altro.

Per anni aveva sognato la sua libreria ideale: come l'avrebbe rifornita, gli strambi rappresentanti che avrebbero approvato i suoi originali assortimenti e spettegolato dei nuovi autori, le cartoline di consigli con scelte non scontate, la caffettiera che sibilava costantemente in sottofondo, i clienti regolari che tornavano a dire: «Oh, Anna, questo libro mi ha cambiato la vita!». E, ora che tutto ciò poteva avverarsi, lei non era nella condizione di poterlo realizzare senza scatenare il caos a casa loro, proprio quando la situazione stava tornando tranquilla.

Spinse l'aspirapolvere sotto il tavolino da toeletta di Chloe ed ebbe un tuffo al cuore notando una cosa: i dodici libri che le aveva regalato erano tutti impilati in un angolo, pericolosamente vicini al cestino della spazzatura. Si fece forza e si chinò per prenderli. Altro che: «Oh, Anna, questo libro mi ha cambiato la vita!». Infilò i cosmetici sparsi ovunque negli appositi contenitori che le aveva procurato, sistemò i volumi nello spazio sgombro così ottenuto e continuò a riordinare la stanza.

“Calma. Calma. Calma.”

L'aspirapolvere ronzò perché ostruito da qualcosa e lei strappò via un calzino ramingo con più energia di quanta non fosse strettamente necessaria, perché cominciava pian piano a rendersi conto che forse, alla fine, sarebbe stata costretta a rifiutare l'offerta di Michelle. Perché, che l'amica approvasse o no, lei aveva delle responsabilità: i figli che aveva sempre sognato di avere, la famiglia già pronta, che era sembrata un dono, ma adesso doveva venire al primo posto.

Essere genitori consisteva in quello, si disse; ma i figli non amavano forse i genitori? Non li sopportavano con quell'amore incondizionato che li portava a esclamare: «Oh, mamma!»? Lei però non otteneva quello. Lei otteneva il: «Tu non sei mia madre!».

Si fermò davanti allo specchio di Chloe bordato di lampadine in stile hollywoodiano e si guardò: i capelli le si stavano sfilando dallo chignon quasi

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sfatto, il naso era lucido, il viso tirato. “Smettila”, disse alla sua immagine riflessa. “Parli più come Chloe che come una donna adulta. Hai intenzione di metterti a cantare di come siano stronzi tutti gli altri?”

Il suo riflesso ricambiò l'occhiataccia: le borse sotto gli occhi divennero più evidenti perché il correttore era sparito. Anna si rese conto che il malumore che le avviluppava il petto era troppo profondo per poterlo estirpare con l'ironia. Il tempo passava. Lei aveva conosciuto Phil a ventiquattro anni. Ormai aveva superato la trentina. Aveva i pori dilatati e le prime avvisaglie delle zampe di gallina. Avrebbe compiuto quarant'anni prima che Lily terminasse la scuola.

Pensò alla scatola di pillole contraccettive nel bagno, un'unica minuscola perla rimasta nel contorto rettangolo di carta stagnola. Non era passata dall'ambulatorio per farsi rinnovare la prescrizione. Da quel momento in poi era tutto nelle mani del destino. E lei lo aveva scritto. Sarebbe successo.

Con un nuovo formicolio nello stomaco, puntò l'aspirapolvere verso la camera di Lily, l'ultima sulla sua lista e la più disordinata.

Il letto della bambina, così come quasi tutto il pavimento, era coperto di peluche. Essendo la più piccola, Lily aveva finito per ritrovarsi con gli orsacchiotti, le tartarughe e i gattini scartati da Becca e Chloe oltre ai suoi, tutti controllati da una regale creatura rosa chiamata Mrs Piggle. Dopo il divorzio Phil aveva ecceduto con la compensazione, regalandole un nuovo giocattolo a ogni visita, e ora Sarah aveva iniziato a fare la stessa cosa. Il risultato era un'orda di creature di peluche che la sera andavano tutte sistemate in una posizione comoda: Lily stava infatti attraversando una fase di angoscia esistenzialista riguardo alla possibilità che avessero dei sentimenti e, di conseguenza, un eventuale mal di schiena se lasciati premuti l'uno contro l'altro.

Visto che la piccola non era lì a vederla, Anna li buttò tutti sul letto senza tante cerimonie e cominciò a tracciare strisce pulite sulla moquette.

Lily era la più facile sotto molti punti di vista. Possedeva l'affabilità di Phil e uno spiccato senso dell'umorismo, e non l'aveva mai incolpata di avere rubato il suo papà alla sua mamma perché non serbava alcun autentico ricordo di quando i suoi genitori stavano insieme. Ogni sera, quando era ora di andare a letto, Anna ascoltava i suoi interminabili racconti sulle quotidiane tribolazioni di Mrs Piggle e sperava di riuscire a trasformarli in un momento di lettura condivisa.

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“Scarpette da ballo, quando torna”, pensò, sperando che Lily avesse cominciato a leggere La carica dei 101 che le aveva nascosto nel bagaglio a mano. “Cominceremo con Scarpette da ballo se è stanca di cani, e lascerò salire Pongo per le storie della buonanotte come premio speciale.”

Sentì l'umore migliorare e spinse l'aspirapolvere sotto il letto con rinnovata energia. L'apparecchio incontrò una certa resistenza e lei, chinandosi per vedere di cosa si trattava, riuscì a distinguere una pila di ombre a forma di libro accatastate contro la parete.

Si inginocchiò e le prese lentamente, con il cuore pesante.

Scarpette da ballo.

Ciò che fece Katy.

La tela di Carlotta.

Il giardino di mezzanotte.

Babe maialino coraggioso.

La carica dei 101…

Eccoli lì, tutti e dodici i libri che aveva regalato a Lily per Natale, incluso quello che la bambina aveva evidentemente sfilato con cura dal bagaglio a mano, con la stessa meticolosità con cui toglieva i piselli celati nello stufato. Nascosti per non ferire la sensibilità di Anna, ma decisamente abbandonati, indesiderati.

Anna si sedette sui talloni e si morsicò il labbro, annientata. Almeno Lily li aveva nascosti. Almeno non li aveva lasciati accanto al cestino dell'immondizia come Chloe.

“Le stai deludendo”, disse la vocina nella sua testa. “Vivono qui da sei mesi e tu non hai ancora la minima idea di come comportarti con loro.”

Tutti sottolineavano che se la stava cavando egregiamente, ma c'era una bella differenza fra il far arrivare tre ragazze a scuola con i vestiti a posto e l'instaurare un autentico legame con loro. Lei non aveva mai tentato di fare loro da madre: ne avevano già una di mamma, molto visibile, che aveva messo ben in chiaro fin dall'inizio che Anna era in eccedenza rispetto al fabbisogno; tuttavia lei aveva sperato che con il tempo avrebbero trovato un posto per lei nella loro vita. Un posto affettuoso, caloroso, da sorella maggiore. Ma persino quella speranza sembrava ingenuamente ottimistica.

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“Voglio solo essere desiderata”, pensò, con una fitta al cuore. Quando le ragazze si aggrappavano a Phil e lui si fingeva infastidito dal loro affetto da cuccioli ma in realtà lo adorava, le succedeva molto spesso di sentirsi completamente invisibile. Utile ma invisibile nella sua stessa casa.

Sollevò la copertina della Tela di Carlotta e un empito di bramosia le pervase il ventre. Il suo bambino avrebbe adorato leggere. Avrebbe ereditato i suoi sogni di foreste e pepiere e gabbiani magici, insieme al suo dna. Il suo bambino avrebbe adorato vedersi rincalzare le coperte da lei – e dalle sorelle maggiori –, dopo di che sarebbero rimasti tutti seduti lì nella penombra, ad ascoltare le sue storie su pesche giganti e tappeti magici, come una vera e propria famiglia.

“E succederà”, si disse con improvvisa ferocia. “Quest'anno. Succederà.”

Al piano di sotto la porta si chiuse con un tonfo e le chiavi della macchina di Phil tintinnarono sul tavolino all'ingresso, seguite dal tonfo della sua ventiquattrore sul pavimento.

«Anna? Anna?»

Lei si asciugò gli occhi con il dorso della mano e si tirò su, stringendo ancora i libri mentre Phil saliva le scale di corsa. Si guardò rapidamente intorno e li posò sul tavolino da toeletta. Avrebbe pensato in seguito a dove riporli.

«Ciao!» Il marito le andò incontro mentre lei usciva dalla stanza di Lily. Allungò le braccia per afferrarla per un bacio, poi la vide sforzarsi di celare il dispiacere. «Cosa succede?»

«Niente! È solo che...» Lei si spremette le meningi. «Solo che ho trovato Mrs Piggle stesa bocconi. Pessima posizione per il suo collo.»

«Chiamerò Lily», annunciò lui in tono serio. «E la avviserò che hai salvato Mrs Piggle appena in tempo.»

«Non dirle che era stesa lì insieme a Grasso Anatroccolo, però.» Anna riuscì a fare un sorriso storto. «Potrebbe causare delle liti.»

Il marito la tenne a distanza di braccia e la scrutò in volto. «Hai pianto, tesoro?» chiese dolcemente. «Hai il mascara sparso ovunque.»

Aveva un'aria così tenera che Anna parlò di getto.

«Hanno lasciato qui i loro libri», gemette. «Quelli che ho regalato loro per Natale. Ne ho infilato uno nella borsa di Lily, ma lo ha tirato fuori.»

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«Quali libri? Oh, quelli... Anna, non prenderla così sul personale.» Phil la strinse forte e le carezzò i capelli, come carezzava quelli di Chloe dopo qualche istrionico litigio con un'amica. «Sono in vacanza. Non avranno il tempo di leggere!»

«Durante un viaggio aereo di sette ore?»

«Sono ragazzine. Guarderanno il film, daranno fastidio al personale di bordo. Nemmeno io leggo sugli aerei, e ho quasi quarant'anni.»

Phil prendeva sempre le loro difese, pensò Anna. Non intendeva contraddirla, la sua era solo un'automatica reazione paterna, nello stesso modo in cui lei difendeva l'«entusiasmo» di Pongo quando Michelle borbottava qualcosa sul corso di addestramento. Aveva senso sviscerare l'argomento? Cercare di spiegare che non si trattava dei libri, ma di lei? Del suo perenne timor panico di non dare alle ragazze quello di cui avevano bisogno?

Lui la stava guardando come se si stesse dimostrando irrazionale, e Anna si accorse di non voler troncare lì la discussione. Ormai non avevano mai il tempo di parlare senza interruzioni.

«Avrei dovuto spiegare meglio i regali. Volevo... condividere con loro alcune cose che amavo», tentò di dire. «Qualcosa di più significativo del semplice spuntare voci su una lista dei desideri.»

Il marito inarcò un sopracciglio. «Ti riferisci all'iPad di Chloe?»

«No!» Solo che era così. In un certo senso. Phil aveva infranto il proposito che si erano ripromessi di non rimpiazzare l'ultimo, rotto da Chloe durante una gita scolastica. Anna non aveva nemmeno un iPhone.

Lui la baciò sul capo. «Ascolta, è stato un regalo magnifico, ma non tutti sono appassionati lettori come te. Temo che dovrai imparare a convivere con i nostri gusti un po' rozzi. Parlerò con le ragazze quando...»

«Oddio, no», lo interruppe Anna. «Non farlo. “Dio. Papiii. Cerchi di peggiorare la situazione o cosa?”» Lo disse con la tipica voce da improvvisa e acuta indignazione di Chloe, e lui rise di nuovo, stringendola brevemente a sé e poi allontanandola quel tanto che bastava per scrutare la sua espressione. «Come non detto, ci conosci già troppo bene. Cosa ne dici di un film, stasera? O di andare a cena fuori?»

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Phil era un vulcano di energie e di buoni propositi quando le ragazze erano via, come se dovesse stipare in un'unica settimana l'attività di un intero anno. Anche ad Anna piaceva, di solito, ma aveva dimenticato come fosse eccitante rimanere sola con lui. Non voleva dividere con il pubblico di un cinema il marito in quella fase di grazia.

«Sono stanca», disse. «E ho bisogno di una doccia.»

Phil le strizzò scherzosamente l'occhio. «In tal caso infilati sotto la doccia mentre io mi tolgo questo completo. Raccontami cosa hai combinato oggi. Pongo ha sbattuto contro qualcuno, nel parco?»

«In realtà mi hanno offerto un lavoro», ribatté Anna. Lo seguì in camera loro e indugiò mentre lui si toglieva la cravatta e poi sistemava sulla sedia la giacca del completo. Phil aveva le spalle larghe. Lei adorava sentirle sotto una sottile camicia da ufficio, avvertire i suoi muscoli sodi sotto il cotone.

Il marito smise di sbottonarsi la camicia e si voltò. «Non sapevo nemmeno che avessi spedito domande di lavoro, ultimamente.»

«Non l'ho fatto. È stata una cosa del tutto inaspettata. Michelle ha affittato la libreria sulla via principale e vuole che la diriga al posto suo.»

«Anna!» Lui sgranò gli occhi. «Sarai bravissima! Vieni qui e fatti abbracciare.»

Lei sorrise e lui l'attirò nuovamente fra le sue braccia.

«La mamma riderà, quando glielo racconterò», gli disse. «A quanto pare, da piccola ero solita tirare fuori i miei libri per l'infanzia Ladybird, sistemarli nella nostra casetta per bambini e poi venderli alle mie amiche.»

«È proprio da te», commentò Phil. «Qual era il tuo margine di utile lordo?»

«E questo è proprio da te», ribatté Anna. «Da te e da Michelle.»

«Allora, quando succederà?»

«Sta già succedendo. Gli imbianchini arrivano domani e si presume che io la aiuti a vagliare la merce. Non ho...» Lei esitò. «Non ho ancora accettato. Prima volevo parlarne con te.»

Phil si bloccò a metà fibbia della cintura. «Perché?»

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«Be', chi porterà Lily a scuola e andrà a riprenderla, se io lavoro al negozio? E chi andrà a prendere Chloe alle lezioni di danza? E Pongo? Avrà bisogno di qualcuno che lo porti fuori.»

«E io non troverò più la cena pronta in tavola come succedeva un tempo.»

«Bene, questo non è...» Anna si rese conto che lui la stava prendendo in giro. «Dico sul serio, Phil. Tenersi al passo con le loro agende mondane è come dirigere una compagnia di taxi e un albergo. Presumo che Michelle vorrà adottare lo stesso orario di apertura del suo negozio, ossia dalle nove alle sei.»

«Escogiteremo qualcosa», replicò lui, levandosi i pantaloni e lanciandoli sopra la sedia senza alcuna cura. «Io posso accompagnare le ragazze a scuola per metà della settimana. Michelle può lasciarti fare una scappata fuori per andare a riprendere Lily e poi riportarla là con te. Stare per qualche ora in una libreria potrebbe farle bene. Anche a Chloe, se è per questo.» La guardò. «Potrebbe anche fornirti un argomento di cui parlare con loro, se vuoi condividere un'esperienza. Sai come Chloe sia interessata al mondo della shopping-terapia. Potrebbe essere un modo più facile dei libri per attirare la sua attenzione.»

«Forse», concesse lei.

«Forse? Sicuramente, se riesci a farle ottenere uno sconto nel negozio di Michelle. Ora, vogliamo fare questa doccia oppure no?»

“Michelle ha ragione: lui non ha davvero la minima idea di quanto io sgobbi in questa casa”, rifletté Anna, in parte divertita e in parte disperata, mentre Phil correva nel bagno. “Tutto succede con facilità, dal suo punto di vista. Succede perché io finora mi sono fatta in quattro per sistemare le cose in modo che lui non debba preoccuparsene e le ragazze non abbiano motivo di lamentarsi con Sarah.”

«Quindi non ti dispiace pagare qualcuno che porti a spasso il cane? E richiamare Magda a fare un po' di pulizie?» gridò, tanto perché venisse messo agli atti.

«Certo che no.» Vi fu una breve pausa di silenzio mentre lui apriva l'acqua. «Preferisco comunque il modo di stirare di Magda al tuo. Venga qui dentro con me, signora McQueen. Oggi ho sentito la sua mancanza.»

Anna sentì formicolare il ventre e, mentalmente, spinse da parte i libri abbandonati. Una volta tanto la realtà era più allettante.

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Capitolo 6

«Le avventure di viaggio nel tempo di Charlotte Sometimes mi hanno insegnato che devi essere felice di ciò che sei, perché potrebbe andarti molto peggio. Pochissimi libri per bambini sembrano racchiudere quel messaggio.»

Charlotte Allen

Anna trovò davvero notevole, ma non sorprendente, che Michelle avesse la capacità di indurre una squadra di muratori a ristrutturare un negozio in un periodo dell'anno in cui la maggior parte della gente non riusciva nemmeno a convincere un idraulico a lasciare il suo divano natalizio per sgorgare un raccordo a u intasato.

E non sapeva bene cosa stesse facendo lei, immersa fino al ginocchio in romanzi rosa il 31 dicembre, ma eccola lì comunque, a prendere ordini da una Michelle dagli occhi scintillanti mentre Owen bighellonava sullo sfondo, in attesa di eseguire tutti i sollevamenti di oggetti pesanti da loro richiesti.

Il giovane sembrava già in preda ai postumi di una sbornia: i capelli scuri gli ricadevano sulla faccia, e indossava una vecchia maglietta del college e jeans che gli lasciavano visibili i primi due-tre centimetri dei boxer a scacchi; Michelle, però, sosteneva che era pronto a lavorare. Sempre che smettesse di inviare sms.

«Allora, la merce nuova sul davanti, quella usata sul retro. E buttare circa quattro quinti di quello che abbiamo qui?»

Michelle fu costretta ad alzare la voce per sovrastare il chiasso prodotto nella stanza principale dalla squadra di operai edili vestiti di tessuto denim capeggiata da Lorcan il muratore. Erano soltanto le nove appena passate e loro stavano già scartavetrando, sabbiando e producendo tonfi sordi con l'accompagnamento dei Deep Purple; Anna non sapeva bene cosa stessero facendo, ma l'amica aveva una lista di controllo e varie copie del suo «piano d'azione», quindi presumibilmente almeno lei doveva saperlo.

«Perché non mettere insieme nuovo e usato?» suggerì Anna. «Spostare i libri usati sul davanti del negozio, farli sembrare vintage invece che di seconda mano. Darebbe agli studenti la chance di procurarsi una copia più economica di un certo titolo, e a qualcuno piacciono le vecchie edizioni.»

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Michelle aggrottò la fronte con aria scettica. «Davvero?»

«Sì. Hanno quel pizzico di carattere in più. Come questo.» Prese una vecchia edizione Penguin di L'amante di Lady Chatterley con la copertina arancione dai bordi consunti. «Guarda come sono splendide e morbide le pagine. Non ti viene voglia di leggerlo e immaginare di trovarti in un caffè della Swinging London? Adoro i vecchi libri come questi. Daranno un che di eclettico agli scaffali.»

La parola «eclettico» parve placare Michelle: era una delle sue preferite. «Okay. L'esperta sei tu. Voglio che questa libreria abbia quella particolare... capacità di ripresa.» Sollevò una mano sfregando le dita fra loro mentre tentava di trovare le parole giuste. «Voglio...»

«Scoperta. Avventura. Magia. Lo so.» Anna sorrise. «Capisco benissimo. Ho visto i tuoi schizzi per l'insegna.»

Michelle inarcò le sopracciglia, dilatando i tratti fumettistici del suo eyeliner in un'ampiezza alla Betty Boop. «Ti piace?»

Owen aveva ricavato dagli schizzi la nitida immagine di un cane maculato che superava con un balzo una pila di romanzi, sormontato da un nastro con la scritta longhampton books.

«Sì», rispose Anna. «Cani e libri, come puoi non amarli? A Pongo piace ancora di più. Ma sai che la gente rimarrà delusa scoprendo che qui non c'è un dalmata?»

«Ne sarà sollevata.» Michelle sorrise. «Owen, potresti cominciare a sgombrare la zona intorno al caminetto.» Indicò l'angolo della stanza. «Voglio che venga pulito e risistemato. Lo spazzacamino arriva alle due per controllare che lo si possa usare senza rischi.»

Lui si mise in tasca il cellulare. «Sì, signorina. Vuole anche che mi ci infili dentro?»

Era sufficientemente magro per riuscirvi, pensò Anna. I suoi massicci stivali da motociclista erano l'unica cosa che avrebbe rischiato di restare incastrata nella canna fumaria.

Lei si riscosse: Michelle le stava rivolgendo un'altra raffica di istruzioni da direttrice.

«Lorcan ha le chiavi, quindi se devi uscire per il pranzo o qualsiasi altra cosa ti basta dargli una vaga idea di quando tornerai. Cos'altro? Oh, sì, la mia intenzione

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è di far levigare questo assito entro domani sera, quindi dobbiamo spostare alcuni di questi scatoloni, ma non so ancora dove.»

«Non c'è un appartamento al piano di sopra, come qui accanto? Non potresti usare quello?»

«C'è ma è occupato.» Michelle si lasciò cadere su una cassa di legno e parve frustrata per la prima volta da quando aveva dato il via al progetto. «Sarebbe molto più facile prendere in affitto l'intero edificio, ma a quanto pare non è disponibile. Ci sto lavorando.» Diede un colpetto sul taccuino e Anna ebbe paura sia per l'avvocato sia per l'inquilino che stavano al piano di sopra, che non avevano ancora incontrato, cosa davvero sorprendente, visto il frastuono che stavano facendo i muratori.

«Immagino che nel frattempo potremmo usare il mio appartamento», continuò Michelle.

«Ehm, no che non potremmo», replicò Owen. «Praticamente lassù sto già dormendo sopra gli scatoloni, grazie.»

«Ma non ci rimarrai per sempre, vero?» ribatté lei.

«Dipende da quanto a lungo mi costringi a fare bricolage invece di procedere con il tuo sito web.»

«Dipende se anche mentre sei impegnato con il bricolage passi il tempo a inviare sms alle fidanzate e tacchinare il mio staff come sei solito fare quando dovresti essere intento a creare il mio sito.»

«Sbaglio, Michelle, o un sinonimo di bricolage è fai-da-te?»

«Taci, Owen.»

Anna li guardò bisticciare e provò una sorta di invidia per la disinvolta scontrosità tra fratelli che esibivano. Era una cosa che aveva notato anche con le ragazze: le loro liti raggiungevano livelli di isterismo che la scioccavano, ma poi le sorelle si calmavano all'istante perché sapevano che, sotto, c'era un legame più forte di qualsiasi disaccordo. Lei odiava il conflitto, le causava una profonda tensione interiore. A volte non era nemmeno riuscita a costringersi a imporre agli utenti della biblioteca più indisponenti le sanzioni previste dal regolamento.

«Devo preparare il caffè per i muratori?» chiese prima che Owen potesse controbattere.

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«No, se hai da fare. Puoi avvisarli che ci sono caffè e biscotti nella cucina sul retro, così dovranno passarti accanto per fare la pausa caffè, il che dovrebbe ridurne al minimo la durata.»

Michelle picchiettò nuovamente un dito sul suo portablocco a molla, stavolta in modo più definitivo. «Bene, vado. Sarò qui accanto, se dovesse servirvi qualcosa fatemi un fischio.» Sorrise radiosamente. «Se sistemiamo questa faccenda, domani potrò iniziare con un po' di decorazione vera e propria!»

«Michelle, domani è Capodanno», sottolineò Anna, stupita. «Non avrai intenzione di lavorare anche domani, vero? Non vai dai tuoi genitori? Non sarai almeno in pieno doposbornia?»

Anche Owen la guardò. «Non intendo lavorare a Capodanno», affermò. «Stasera vado a Londra, te l'ho detto. E la mamma ha invitato di nuovo tutti da lei per il primo dell'anno. Non dicevi che saresti venuta anche tu?»

«È stato prima che decidessi di affittare la libreria.» Michelle assunse un'aria leggermente sfuggente. «Domani lavorerò», asserì. «È questa la mia priorità.»

«Ma Harvey...» cominciò a dire Owen.

«Domani io vengo qui», affermò Michelle in tono risoluto. «Se voi due non potete farlo, nessun problema.»

Anna lanciò un'occhiata a Owen, che sembrava sinceramente stupito. Se non ci fosse stato lui, avrebbe potuto insistere ancora con l'amica, tentare di convincerla ad andare da loro invece di rimanere lì da sola.

«D'accordo, allora», disse allegramente Michelle. «Se volete scusarmi, ho una svendita da gestire nel negozio accanto!»

Nel negozio accanto, lo Home Sweet Home, si stava formando una coda davanti al registratore di cassa mentre Kelsey ne pigiava con titubanza i tasti. Michelle percepì la sgradita increspatura del dubbio che tentare di aprire un nuovo esercizio mentre teneva in piedi la sua attività principale potesse non essere una buona idea, ma lo accantonò energicamente.

Niente dubbi. Da quel momento in poi avrebbe solo guardato avanti. Era una cosa che le aveva inculcato il padre, in modo alquanto ironico, quando lei aveva cominciato a lavorare nella sua concessionaria invece di iscriversi all'università. «Non preoccuparti di ciò che hai fatto ieri», diceva spesso lui, «preoccupati di quello che non hai ancora fatto oggi.»

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Le sembrò di sentirgli pronunciare quella frase, con il sorriso pronto e la cravatta spiritosa che celavano la sua acuta mente commerciale. Lui l'aveva detta anche a Harvey, il suo principale protetto, compagno di golf e collega nello sfoggiare cravatte divertenti. C'erano alcune somiglianze fra suo padre e Harvey, sufficienti a convincerla che forse uscire con lui, e in seguito sposarlo, non fosse poi una cattiva idea; la gentilezza, però, non figurava fra esse. Lei aveva ben presto capito che Harvey non era gentile. Non faceva mai nulla da cui non potesse trarre un beneficio, per quanto esiguo o nascosto.

Sentì il cellulare ronzarle nella tasca posteriore mentre stava convincendo una cliente a comprare un servizio di tazzine decorato con rametti di agrifoglio, e trasalì quando vide chi la chiamava.

Sua madre.

Sicuramente con una domanda assai tendenziosa su quando prevedeva di arrivare per il pranzo di Capodanno.

«Risponda pure, io aspetto», disse la cliente, e Michelle scosse rapidamente il capo.

«No, no. Ora, ha visto i piattini da dolce coordinati? Sono anch'essi in saldo.»

Un paio di minuti dopo Kelsey le si avvicinò con il cordless e un'aria molto contrita. «Tua madre.» Teneva il telefono come fosse incandescente. Evidentemente si era già presa una bella strigliata in merito.

«Sono impegnata», affermò Michelle.

«Immaginava che avresti risposto così. Mi ha detto di riferirti che ha bisogno di parlarti di una cosa molto urgente.»

Michelle fece per chiederle se all'altro capo del filo sentiva delle sirene o il rumore della casa divorata da un incendio, ma non ne aveva la forza. Allungò invece la mano per prendere il cordless e fece per premere il pulsante muto per riattivare la comunicazione, scoprendo però che Kelsey non l'aveva mai schiacciato.

Magnifico.

«Ciao, mamma.»

«Finalmente», disse Carole. «Cominciavo a pensare di dover venire lì al negozio per parlare con mia figlia.»

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Michelle si schiarì la voce e si costrinse a sorridere in modo che il suo tono suonasse più allegro. «Be', in questo periodo ho parecchio da fare. Stai bene? Kelsey ha detto che era urgente.»

«Lo è. Ho bisogno di sapere se vieni a pranzo da noi domani. I ragazzi ti stanno aspettando. Tutti ti stiamo aspettando. Non hai nemmeno visto il tuo nuovo nipotino. C'è qualche problema, Michelle? È di questo che si tratta?»

Lei si guardò intorno; nel negozio c'erano sei clienti, due intente a esaminare la carta da regalo a metà prezzo, una che teneva in equilibrio sulla mano troppi palloncini fragili e tre che ciondolavano intorno alla bacheca dei gioielli. Impaziente, incrociò lo sguardo di Kelsey e fece un gesto: “Cestino!” in direzione della donna con i palloncini, poi un cenno d'assenso a Gillian perché aprisse la bacheca.

«Possiamo parlarne più tardi? Il fatto, mamma, è che per me non è un buon momento, ho il negozio pieno di gente.»

«Alcune cose sono più importanti del lavoro, Michelle. La famiglia, per esempio. Se tu fossi venuta qui a Natale...»

«Mamma, ti ho già spiegato di Natale. E ho anche affittato il negozio accanto, quindi...»

«Quando?» All'altro capo del filo sua madre trattenne bruscamente il fiato. «Non l'hai menzionato a me o a tuo padre. È una buona idea, vista l'attuale congiuntura economica?»

«In realtà sì, credo che lo sia», replicò lei. «L'affitto era basso e ho dei progetti precisi, progetti a lunga scadenza per...» Si arrese e raggiunse a grandi passi l'ufficio sul retro, dove non sarebbe stata distratta dal bisogno di rimettere in ordine o di servire clienti.

Carole stava ancora parlando. «Credo proprio che avresti dovuto farti consigliare, Michelle. Ti butti nelle cose senza riflettere adeguatamente. Perché non hai chiesto a tuo padre? O a Harvey?»

“E Anna si domanda come mai non ho voglia di andare dai miei.”

«Perché sono una negoziante esperta», dichiarò, «che è perfettamente in grado di ottenere un prestito e rendere proficua un'attività. Mamma, ormai lo sto facendo da parecchio tempo e non ho bisogno di chiedere l'autorizzazione di papà.»

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Si astenne volutamente dal menzionare Harvey. Con ogni probabilità era stato lui a instillare in Carole il seme del dubbio sulle sue capacità. Era sempre stato bravo in quello. «Non stupisce che tu abbia venduto così tante auto, con le gambe che ti ritrovi» era stata una delle sue frasi preferite. Nessun accenno alla sua conoscenza enciclopedica della gamma di veicoli.

«Ma a quanto pare non riesci a reggere la gestione di una sola attività, se non puoi nemmeno prenderti una giornata libera per venirci a trovare», disse Carole. «Non potresti mettere in stand-by la cosa finché non mostri a papà i tuoi piani d'affari e...»

«No, fermati, mamma. Non dici certo a Owen di telefonare a casa prima di accettare l'incarico per un nuovo sito web.» Michelle prese la sua pallina antistress dal vassoietto per la posta in arrivo e cominciò a stringerla con forza. «Ben ti ha forse chiamato prima di mettere incinta Heather del loro quarto figlio? Direi che quello rappresenta un azzardo ben più grosso, vista l'attuale congiuntura economica. Come mai sono soltanto io a dover consultare prima i genitori?»

Qualsiasi menzione dei suoi nipotini faceva sempre infuriare Carole.

«Non assumere quell'atteggiamento quando io mi limito a esprimere preoccupazioni più che legittime», replicò l'altra, brusca. «Se tu venissi a casa più spesso non faremmo queste conversazioni al telefono. E se con quest'altro negozio va tutto a rotoli immagino che ti limiterai a fuggire di nuovo, vero? Lasciando che sia qualcun altro a raccogliere i cocci.»

L'aria uscì con un sibilo dai polmoni di Michelle, che sentì la pelle raggrinzirsi sotto i vestiti. Sapeva che la madre non stava parlando solo di Harvey. Harvey era il risultato finale di un problema di gran lunga antecedente ma che rimaneva sospeso sullo sfondo, appena al di fuori del campo visivo, mai menzionato eppure mai dimenticato. Sentì un gusto metallico rivestirle il retro della gola e allentò la stretta sulla pallina antistress, che però le rimase appiccicata al palmo della mano umido.

“Quando finirà?” si chiese tristemente. “Per quanto tempo devi vederti rammentare errori che hai commesso quando eri troppo giovane persino per capire che erano errori?”

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«Povero Harvey», disse infine Carole, vedendo che la figlia non intendeva abboccare all'amo. «Abbiamo dovuto invitarlo qui per Natale, altrimenti lo avrebbe trascorso solo soletto con un pasto scaldato nel microonde.»

Il pensiero di Harvey seduto da solo davanti a una monoporzione di lasagne strappò quasi una risata a Michelle. Impossibile che succedesse, quando c'erano ristoranti e vecchie fidanzate, e il club del golf.

«Non avrebbe mai fatto nulla del genere», replicò in tono sprezzante. «Qualsiasi cosa ti abbia detto, mirava solo a suscitare la tua compassione in modo che lo invitassi da voi.»

«È ancora tuo marito, Michelle!» sottolineò Carole, arrivando palesemente allo scopo della telefonata, alla fine. «Ed è ancora mio genero. È orgoglioso, ma sono convinta che ti riprenderebbe, se solo tu venissi a casa e ti scusassi. Secondo me dovresti farlo. Lasciati alle spalle quella vecchia sciocchezza e cerca di rappezzare la situazione. Non troverai mai nessun uomo migliore di Harvey, se è questo che pensi.»

«Dovrei scusarmi io?» Lei rimase talmente stupita che la voce le uscì stridula.

“Ma perché me ne stupisco?” si chiese. “La mamma pensava che i miei tagli di capelli alla marine fossero un tenero segno del suo affetto. Pensava che Harvey si dimostrasse davvero premuroso a non lasciarmi mai uscire da sola, a insistere per comprarmi lui i vestiti (sempre di una taglia in meno). E questa è solo la roba di cui è al corrente.” C'erano molte altre cose di cui Michelle si vergognava troppo per parlarne con chicchessia.

«Certo che dovresti! Dovresti chiedere scusa a quel poveretto fino alla fine dei tuoi giorni. Non conosco molte donne che pianterebbero in asso, senza mai voltarsi indietro, un uomo gentile, affidabile e che le mantiene. Non donne dotate di almeno un briciolo di cervello, comunque.»

«Mamma», disse Michelle, la voce strozzata per lo sforzo di non sbattere giù il telefono. «Non intendo rimettermi con Harvey. Mai e poi mai. E se lui sta per diventare un ospite fisso a casa tua, digli per favore di smetterla di mandarmi fiori. Mi danno l'impressione di avere uno stalker.»

«Ti stai lamentando perché qualcuno ti manda dei fiori?» Sua madre riuscì a suonare sbigottita, con un'intensa nota di testa di disapprovazione. «Vorrei tanto avere i tuoi problemi, Michelle, davvero!»

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“Ecco”, rifletté lei, “è proprio quello che Harvey voleva che tutti pensassero, ossia che mi sto comportando in maniera irrazionale. Missione compiuta. E la mia stessa madre mi considera troppo ottusa per capire di avere trovato la gallina dalle uova d'oro. Grazie tante.”

Il senso di costrizione al petto si accentuò finché non le riuscì difficile respirare in modo adeguato.

«Sono davvero molto indaffarata», tagliò corto, costringendosi a parlare. «Mi spiace. Non riuscirò a venire, domani.» Sapeva che avrebbe dovuto finirla lì, ma la figlia obbediente dentro di lei non riuscì a impedirsi di aggiungere: «Pago i muratori a giornata, quindi prima apro il negozio e prima posso cominciare a guadagnare. Insomma, forse posso cercare di prendermi un giorno verso la fine del mese, quando la svendita sarà terminata...».

Mentre parlava si rese conto che non diceva sul serio. Anche sua madre lo capì.

«Oh, avanti, lascio dormire Owen nell'appartamento sopra il negozio perché tutti gli altri si sono ovviamente stancati delle sue pagliacciate», sbottò. «Non dire che non faccio mai niente per la famiglia.»

Quando Michelle tacque, Carole lasciò che la pausa di silenzio si prolungasse, un silenzio che grondava disprezzo. Poi sospirò. «Be', è davvero generoso da parte tua, Michelle. Forse lui ti incoraggerà a pensare a qualcun altro oltre che a te stessa, tanto per cambiare.»

«Cosa? Owen? Owen è il più egoista dei...» cominciò a ribattere lei, indignata, ma sua madre aveva già riagganciato.

“Scommetto che ha provato e riprovato il suo discorsetto per giorni”, pensò, tentando di sminuire scherzosamente la cosa nella sua testa, ma dentro di sé si sentiva ustionata da un'antica vergogna che non scompariva mai. Qualunque brillante risultato lei conseguisse nella sua vita adulta – i premi per le vendite, il matrimonio con il golden boy di suo padre, la sua attività – non si sarebbe mai sovrapposto all'immagine che, lo sapeva, la madre conservava nella sua galleria mentale: l'immagine di una Michelle adolescente che arrivava a casa sul sedile posteriore della Jaguar paterna a metà trimestre, caduta in disgrazia e silenziosa, mentre il viso del padre era pietrificato dallo sconcerto.

“Non mi importa”, si disse, serrando le mani a pugno. “Sono ciò che sono ora.”

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Ma si sentiva ancora piccola. Piccola e sola, come se tutt'a un tratto si trovasse all'estremità sbagliata di un telescopio.

Sentì bussare alla porta e si ricompose il più in fretta possibile, battendo con forza le palpebre per assumere nuovamente la sua solerte e sicura espressione da svendita.

Kelsey infilò dentro la testa. «Ehi.»

«Sì, sto arrivando», disse Michelle. «C'è il pienone?»

«Cosa? Dove? Oh, ehm, sì, ci sono parecchie clienti. Sono arrivati questi per te.» La ragazza tolse la mano da dietro la schiena mostrando un altro enorme mazzo di fiori legato a mano, stavolta rose multicolori. Gli occhi le si sgranarono in un silenzioso: “Ta-da!”.

«Ta-da!» aggiunse, nel caso Michelle non avesse afferrato. «Chi li manda?»

Il caffè della colazione riaffiorò nella gola di Michelle, che dovette deglutire con forza per contrastare un conato di vomito. “Sono soltanto fiori. Soltanto fiori.”

«Grazie.» Allungò una mano per prendere le rose, poi disse: «Ti dispiacerebbe dividerle per colore e infilarle nei vasi a forma di bottiglia del latte sulle mensole in fondo e...».

Si interruppe. Non voleva i fiori di Harvey nel suo negozio. Ogni volta che li avesse guardati avrebbe avuto l'impressione che lui si stesse insinuando lentamente nella sua vita, di nuovo. Prima casa sua, adesso il suo negozio. E poi pensò ai commenti: “Oh, Michelle, sei così fortunata!” Le sembrò quasi di vederlo, Harvey le braccia robuste incrociate in quel modo sottilmente aggressivo, il sorriso trionfante che gli si apriva sul volto ma non gli raggiungeva gli occhi. Occhi che non smettevano mai di valutarla, nemmeno per un attimo.

«Kelsey, le vuoi?» chiese di getto.

«Io?»

«Sì. Prendile. Portale a casa. In segno di ringraziamento per tutto il duro lavoro svolto durante i saldi!» Gliele spinse fra le mani.

«Wow, grazie!» Gli occhi di Kelsey si illuminarono e lei uscì dalla stanza quasi danzando.

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Michelle si rese conto che ora avrebbe dovuto trovare un regalo anche per Gillian, onde evitare qualsiasi screzio fra il personale, ma il suo cervello stava girando in tondo.

Perché adesso? Perché Harvey stava facendo una cosa del genere proprio ora, dopo più di tre anni? Se lo figurò a dare il via al suo piano con Carole; ne immaginò l'espressione mesta mentre asciugava i piatti a casa di sua madre come a casa sua non aveva mai fatto quando erano sposati, le allusioni e i sussurri. Preferiva non pensare nemmeno a come Harvey avrebbe spinto suo padre a preoccuparsi, tirando i fili sempre più forte finché tutti non lo avessero aiutato a riportarla indietro. Ma perché? Perché lui odiava perdere il controllo di qualsiasi cosa. Di chiunque.

Afferrò il taccuino, quello su cui scriveva ambizioni per l'anno in corso e cose da fare, e lo aprì sugli obiettivi a lungo termine.

Voleva scrivere: «Chiedere il divorzio».

Mentre la penna vergava la c, la sua mano esitò. Il viso di Harvey le fluttuò nella mente. Così bello in superficie – zigomi pronunciati, bocca larga, capelli biondi –, tutto tranne gli occhi, che erano piccoli e glaciali, simili a minuscole finestre sulla sua piccolezza e freddezza. Ma apparentemente solo lei se ne accorgeva. Chiunque altro vedeva soltanto il venditore affascinante, socievole, simpatico. Harvey teneva da parte la piccolezza e la freddezza per lei, sua moglie.

Era ironico che Michelle avesse deciso di aspettare i cinque anni di separazione piuttosto che citare il comportamento irragionevole. Avrebbe potuto scegliere fra quelli di un'intera vita, ma era proprio quello il motivo per cui l'idea di sfidarlo con un'accusa del genere la colmava di gelido terrore. Harvey si fingeva così ragionevole – ed era un venditore così abile – da poter convincere chiunque che era lei ad avere un problema. E non si sarebbe mai fermato.

“Non ho bisogno di scriverlo”, pensò, reinfilando il cappuccio sulla penna. “Ma lo farò. Quest'anno. Sicuramente.”

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Capitolo 7

«Il fantasma verde è il primo e unico libro che io abbia letto tutto d'un fiato, perché avevo troppa paura per posarlo e andare a dormire.»

Phil McQueen

«Sei molto taciturna», disse Phil mentre superavano la prima indicazione stradale per l'aeroporto. «È colpa della seconda bottiglia di vino di ieri sera? Non reggi più l'alcol?»

«No!» Anna gli diede uno schiaffetto sul ginocchio. «Parla per te. Mi stavo solo godendo la quiete e il silenzio.»

«Ah, la quiete e il silenzio», replicò Phil in tono saputo, poi sorrise. «E dire che pensavo di averti finalmente sfiancato. Almeno durante la luna di miele insistevi per passare quattro ore al giorno a leggere. Ho bisogno di un'altra vacanza per rimettermi da questa.»

«Be', ora stai parlando davvero solo per te.» Lei si appoggiò allo schienale e sorrise fra sé e sé. Non voleva vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso ma, se ci si poteva fidare dei siti web, c'erano buone probabilità che un bebè fosse già per strada. Per fortuna, visto che, una volta che fossero andati a prendere Becca, Chloe e Lily all'aeroporto, non avrebbero avuto un solo altro momento di privacy per settimane.

Phil distolse momentaneamente gli occhi dalla strada per lanciarle un'occhiata sfrontata, e lei sostenne il suo sguardo. Lui le metteva ancora sottosopra lo stomaco. Sempre che si trattasse davvero di quello.

«Sono molto fortunato», disse Phil.

«Lo so. Lo sei davvero.»

«Voglio dire che sì, ho sentito la mancanza delle ragazze, ma sono felice che abbiamo avuto questo tempo tutto per noi. Soltanto noi due. Avevo dimenticato come sia piacevole leggere i giornali senza interruzioni. E poter stappare la seconda bottiglia di vino senza chiedersi se uno di noi due verrà convocato a casa di Bethany per recuperare la signorina McQueen.»

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«Lo so», replicò Anna. «Non sento certo la mancanza del servizio taxi. Non mi dispiace nemmeno farmi venire il doposbornia. Anzi, lo trovo piacevole.»

«Domenica mattina ho semplicemente pensato: “Quanto sono felice?”» continuò lui. «Stare con te, portare fuori il cane, prendere il caffè... credo che invecchiare non sia poi così male, e tu?»

Anna rimase di stucco. «Di cosa stai parlando?» chiese. «Noi non stiamo invecchiando!»

Phil indicò l'autoradio. «Stiamo ascoltando Radio 2.»

«I giovani adorano Radio 2. A volte anche Becca la ascolta.»

«La ascolta perché pensa che questo la faccia apparire sofisticata. Sai una cosa? L'altro giorno mi sono ritrovato a guardare uno di quei capanni da giardino di lusso. E a pensare: “Mmm, mi piacerebbe averne uno. Mi piacerebbe rilassarmici, con Pongo sdraiato ai miei piedi, e leggere i miei libri di Jeremy Clarkson”. Questo è decisamente da vecchi.»

Suonava un po' troppo compiaciuto dell'idea. E non era nemmeno la prima volta in cui parlava del sentirsi vecchio. Anna sperava non fosse un modo indiretto di dirle qualcos'altro: il marito aveva l'abitudine di farla ridere per distoglierla dalle conversazioni serie, stendendo un velo di brevi commenti spiritosi sulla questione centrale finché il nocciolo della discussione non era ormai passato in secondo piano.

«Non hai nemmeno quarant'anni», sottolineò lei.

«Li compio quest'anno, però. E pantofole. Non mi dispiacerebbe un paio di pantofole di velluto di ottima qualità, il prossimo Natale. Ne ho visti alcuni tipi nel negozio di Michelle. Con un monogramma oppure con qualcosa di bizzarro, come teschio e tibie incrociate.»

«Non ti regalerò mai delle pantofole, a Natale. Mai e poi mai. Nemmeno quando sarai vecchio.»

«E la birra fatta in casa? Posso cominciare a distillarla? Non sono costretto a farmi crescere la barba.»

Anna avrebbe voluto ridere ma sapeva che in tal caso si sarebbe ritrovata a dargli ragione. «Vuoi smetterla di parlare come se fossi a un passo dalla residenza per anziani Golden Moments?»

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«Ma abbiamo una figlia che quest'anno comincia a votare. Questo significa essere vecchi.»

«Vuoi dire che tu hai una figlia», replicò Anna senza riflettere, poi si rese conto di cosa aveva detto e si prese mentalmente a sberle. «Non intendevo... volevo dire che abbiamo una figlia, ma io sono troppo giovane per averne una diciottenne... cioè, tu sei troppo giovane, davvero...»

Ma le sue prime parole rimasero sospese fra loro. Calò il silenzio, tranne che nella testa di Anna, dove si stava scatenando l'inferno.

Il cartello indicante l'uscita per l'aeroporto sfrecciò dietro il suo finestrino, come un avvertimento.

«Cosa?» chiese lui, accorgendosi che la moglie lo stava fissando.

Se n'era accorto? A volte Anna era molto più sensibile di lui, riguardo a quel genere di cose.

«Quello che intendevo è che sono ancora troppo giovane per avere una figlia diciottenne, e in realtà lo sei anche tu. Ma è questo il bello di essere un uomo: è perfettamente possibile avere una figlia in età di voto», disse cautamente, «e uno appena nato, tutto nello stesso anno.»

«Questo sì che mi fa sentire vecchio», replicò Phil, ma il suo tono era cambiato e non suonava più scherzoso.

«Perché?»

«Il pensiero di pannolini fradici, notti insonni, vomito e il sentirsi uno zombi per mesi… e ho già menzionato i pannolini? Se pensi che Pongo faccia puzzare la casa, aspetta di avere un incontro ravvicinato con venti pannolini al giorno.»

«Avresti il tuo capanno», tentò di dire lei in tono disinvolto.

«Oh, capisco. Adesso va bene anche il capanno.» Lui inserì la freccia per imboccare l'uscita per l'aeroporto e lanciò un'occhiata alla moglie mentre si infilava in uno spazio fra due auto. Il suo sguardo appariva cauto e le sue dita avevano smesso di tamburellare sul volante a ritmo con la musica.

Anna si fece forza. «Phil, non hai dimenticato di cosa abbiamo parlato quando ci siamo sposati, vero? Mi riferisco all'avere un figlio dopo quattro anni di matrimonio.»

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«Non l'ho dimenticato.»

Non era la risposta che lei aveva sperato di sentire.

«Be', il quarto anniversario cade questo mese!» Si interruppe, tentando di evocare un pizzico di gaiezza in modo che lui non si sentisse vessato. «E non intendo farti fretta, solo non voglio che tu finisca per trincerarti nella mentalità da Radio 2 e capanno, vecchio caprone che non sei altro.»

Il traffico si era quasi bloccato mentre le auto si incolonnavano per imboccare le corsie dei terminal. Phil si voltò a guardarla e le posò la mano sul ginocchio: un ultimo, carezzevole tizzone ardente dell'intimità che avevano condiviso negli ultimi giorni. «Anna», disse, poi sospirò.

Lei sentì contrarsi il petto vedendo la sincerità sul viso del marito. Lui appariva calmo ma preoccupato, e i suoi occhi cercarono quelli di Anna come se sapesse già che le sue parole non sarebbero state quelle che lei voleva sentire.

«Sarei felice che noi due avessimo un bambino», affermò. «Ma non sto scherzando quando dico come siano dirompenti i figli. È un'esperienza straordinaria, certo, e molto appagante, ma la tua vita cambia completamente. È come venire rapiti da un minuscolo alieno. Niente è più come prima.»

Lei trasalì. «Ne sono consapevole, sì.»

Se anche un solo altro genitore le avesse detto quelle cose – che non capisci davvero cosa sia l'amore finché non tieni tuo figlio fra le braccia, che soltanto un genitore comprende davvero quali siano gli orrori del mondo eccetera eccetera – lei gli avrebbe lanciato addosso la custodia del violino di Becca, la montagna di indumenti da palestra e la dannata cesta di Pongo. La sua vita era già cambiata completamente, e se mai lei accennava a com'era stato difficile, a com'era stressante avere tutta la responsabilità senza la magica medicina dell'amore parentale, veniva bollata come una rovinafamiglie egoista e rubapadri che avrebbe dovuto capire in cosa stava andando a ficcarsi.

Phil parve non notare l'improvviso pallore delle sue labbra. «Lo so. E stai facendo un lavoro fantastico. Ma la situazione è cambiata, vero? Nessuno di noi si aspettava che Sarah andasse negli States. Non voglio destabilizzare Becca quando è già stressata per gli esami, e Chloe...» Finse di stringersi la fronte per la disperazione. «Ogni qual volta mi parla della sua band vedo mentalmente le Pussycat Dolls e mi viene voglia di spedirla in un collegio femminile. E Lily...»

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«Quindi cosa stai dicendo?» chiese Anna. Il suo stomaco stava cavalcando le montagne russe. «Che non possiamo avere un bambino adesso?»

«No.» Lui si passò una mano fra i capelli. «Non sto dicendo questo. Sto dicendo che il terreno di gioco è cambiato. Se non ci fossi stata tu non sarei mai riuscito ad affrontare tutto questo. Non avevo idea di come potessero rivelarsi stressanti quelle tre. Sono solo...» Trasse un bel respiro. «Sono solo più cauto, rispetto a quando avevamo le ragazze solo a weekend alterni, davanti alla prospettiva di aggiungere un neonato al miscuglio.»

«Ma Sarah tornerà in Inghilterra l'anno prossimo», sottolineò Anna, tentando di suonare calma e razionale benché dentro di sé stesse urlando con una furia inaspettata, illogica. «Potrebbero volerci alcuni mesi perché io rimanga incinta, può darsi benissimo che il bambino arrivi solo dopo di lei.»

«Giusto. Anna, questo è davvero il momento più adatto per discuterne? È un argomento importante. Non voglio dire la cosa sbagliata e poi vederti rimuginarci sopra per giorni solo perché ho usato un termine inappropriato visto che nel frattempo stavo tentando di cambiare corsia.»

Il traffico stava riprendendo lentamente a muoversi e a lei sembrò quasi di vedere il loro tempo insieme da soli scivolare via come un pugno di granelli di sabbia in una clessidra.

«Non so quando potremo affrontare di nuovo l'argomento», disse, affrettandosi a ingoiare tutta l'amarezza che provava prima che giungessero a destinazione. «Credevo che avremmo iniziato questo mese. Non ho pensato ad altro. Non vedevo l'ora di...» Scelse le parole con cura. «Di allargare la nostra famiglia.»

Phil allungò una mano per prendere la sua. «Anna. Ti amo. Risolveremo tutto, lo prometto. Solo che ricordo cosa vuole dire ritrovarsi schiavo di pannolini e pupù verde, e sinceramente gli ultimi giorni sono stati una finestra su come potrebbe essere piacevole la vita una volta che spediremo Lily al college. Soltanto noi due. Non voglio dividerti con qualcun altro.»

Lei lo guardò senza ricambiare il sorriso affabile che gli inghirlandava il volto. “Al diavolo il dannato capanno. E le dannate pantofole”, pensò. «Stai dicendo che non vedi l'ora di non essere più un genitore prima ancora che io abbia avuto anche solo la chance di diventarlo?»

«Ecco fatto», ribatté lui, ritraendo la mano per cambiare marcia. «Ho detto la cosa sbagliata.»

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«Non se la pensavi davvero.»

«Ci rimane ancora un sacco di tempo. Non continui forse a rammentarmi che hai solo trent'anni?»

Adesso stava scherzando, ma Anna non intendeva permettergli di svicolare, stavolta. Non quando mancava meno di un chilometro al parcheggio per la sosta breve.

«So di non essere vecchia, ma nella mia famiglia le donne raggiungono presto la menopausa. Ricordi che ti ho detto che mia madre non ha potuto avere altri figli, dopo di me? Non era molto più vecchia di quanto lo sia adesso io.»

«La scienza ha fatto progressi, però. E mia madre aveva trentanove anni, quando mi ha avuto. »

«Ma guarda com'è finita!» Anna si morsicò il labbro. Normalmente avrebbe voluto sprofondare sotto terra per la vergogna, dopo un commento così indelicato, ma era una questione troppo importante perché lei non insistesse. «Ti voglio accanto ancora per secoli. Voglio che corriamo in giro per il parco insieme e facciamo cose da mamma e papà.»

«Non so quanto fosse stressato mio padre, ma dubito che lo fosse meno di me», asserì caparbiamente Phil. «E con un solo figlio.»

Vi fu una pausa di silenzio imbarazzato. «Mi dispiace», disse Anna. Gli prese di nuovo la mano. Dopo un attimo di esitazione, lui le permise di ripiegare le dita sopra le sue.

«Non vedo l'ora di sentire come fosse fantaaastica New York», aggiunse lei, tentando di colmare il baratro che si era aperto fra loro. «Credi che i capelli di Chloe saranno dello stesso colore? Credi che abbiano sentito almeno un po' la nostra mancanza?»

«Scommetto che hanno sentito la tua», replicò Phil mentre inseriva la freccia per raggiungere la corsia del parcheggio. «Sarah è una pessima cuoca.»

Lei gli lanciò un'occhiata e notò che gli brillavano gli occhi alla prospettiva di rivedere le figlie. Con sua profonda vergogna avvertì una punta di gelosia per conto del loro bambino, che aspettava che le sorellastre si spostassero per fargli spazio.

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L'aereo da New York era in ritardo e Anna rimase a guardare mentre Phil camminava nervosamente avanti e indietro e borbottava. Trasse vari respiri profondi, tentando di mettere una pietra sopra la preoccupante conversazione che avevano appena avuto. Si disse che sarebbe stato magnifico rivedere le ragazze, sentire le caustiche postille di Becca ai racconti melodrammatici di Chloe, ascoltare la sommessa cronaca di Lily sul mondo intorno a lei. Era persino arrivata a sentire la mancanza dell'abitudine di Chloe di cantare insieme ai jingle pubblicitari come se ci fossero dei talent scout nascosti lì in casa.

Ma sapeva che loro non avevano sentito la sua mancanza neppure per un secondo e non si sarebbero nemmeno prese il disturbo di fingere altrimenti. Be', forse Becca sì. Era abbastanza sensibile per notare i momenti in cui il sorriso di Anna si spegneva.

«Credo siano arrivate», disse Phil, alzandosi in punta di piedi per guardare al di sopra della folla.

Un paio di uomini in viaggio d'affari uscirono dal cancello, tirando il bagaglio a mano su rotelle, e presero subito a controllare il cellulare, scrutando i volti radunati dietro il cordone per cercare il loro autista.

Phil si spinse un po' più in avanti, inutilmente, visto che non c'era questa gran ressa. Anna aveva pensato di dirgli come fosse bello quel giorno, con la felpa di Paul Smith che gli aveva regalato per Natale, ma si rese conto che mentre lei faceva una scappata in bagno il marito se l'era tolta, tanto che sotto la giacca gli si vedeva la camicia regalatagli da Becca e Chloe.

Phil si voltò a guardarla e sorrise, e lei ricambiò con un sorriso fugace, tirato, vedendo scomparire suo marito e riaffiorare il padre delle sue figliastre. E si sentì terribilmente meschina per averlo notato.

“È per questo che voglio un figlio”, pensò, conficcandosi le unghie nei palmi delle mani. “Per poter condividere quel sentimento. Per potermi sentire anch'io desiderata, e rimpianta, e amata. È così irragionevole?” Non esisteva una quantità limitata di amore da diffondere nella famiglia, che quindi il suo bambino avrebbe rubato ad altri.

Trovandosi più indietro riusciva a vedere l'uscita da un'angolazione diversa e scorse Chloe per prima: era difficile non notarla, visto che la sua folta chioma bionda appariva più voluminosa e più bionda che non alla partenza, e lei sembrava camminare nell'alone di luce del suo riflettore personale. Portava inoltre

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gli occhiali da sole e fissava il pavimento, ma quando svoltò l'angolo diventando perfettamente visibile si spinse gli occhiali sulla testa e un'espressione diversa le balenò sul volto non appena scorse Phil ritto fra la folla.

«Papà!» gridò, poi si mise a correre in puro stile cinematografico verso le transenne, con una mano che stringeva il trolley e l'altra protesa verso di lui. Phil le andò incontro e la attirò in un abbraccio.

«Ciao, Chloe-oey!» disse. «Ci sei mancata!»

«Anche tu mi sei mancato!» replicò lei, la voce smorzata contro la spalla paterna.

Anna fendette risolutamente la folla in movimento per piazzarsi accanto a Phil, dove indugiò a disagio, aspettando il momento adatto per stringere anche lei Chloe.

L'abbraccio continuò a lungo. Lei preferiva non farsi avanti rischiando così di intromettersi nel loro momento privato, ma nemmeno desiderava sembrare scostante. Era tutto così difficile!

Nel frattempo l'alta sagoma di Becca era comparsa nel gruppetto di passeggeri seguente; la ragazza stava tirando un grosso trolley e teneva per mano Lily, che appariva piccola e stremata e si stava sfregando un occhio con un pugno chiuso. Anna salutò con la mano, attirando l'attenzione di Phil su di loro, e colse al volo l'occasione di spalancare le braccia a Chloe.

«Ciao, Chloe!» disse con un enorme sorriso. «Bentornata!»

La ragazzina si era girata a cercare le sorelle, ma si voltò per lanciarle un'occhiata. «Ciao, Anna.» Il suo accento era diventato molto americano nel breve periodo da loro trascorso all'estero.

Imbarazzata, Anna iniziò a lasciare ricadere lungo i fianchi le braccia protese proprio mentre Chloe decideva palesemente di dover fare un gesto. Il risultato fu un bacio un po' plateale da una parte e un mezzo abbraccio dall'altra.

“Ahia”, pensò Anna, ma riaccese il proprio sorriso. «Com'è andato il volo? Hanno proiettato dei bei film?»

«No. Orrendi.» Chloe lanciò un gridolino e raggiunse Phil mentre lui le si avvicinava insieme a Lily e Becca; la bambina era seduta sulle sue spalle, con le mani affondate nei capelli del padre e un'espressione beata che le rischiarava il

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visino stanco. Persino con le borse violacee sotto gli occhi somigliava a una fatina dei boschi che avesse perso il suo fungo a cappello.

La coppia dietro Anna disse: «Ah, che incanto!» abbastanza forte perché tutti loro sentissero.

«Eccovi qui tutte! Volete andare a bere un caffè prima di salire in macchina?» chiese lei, troppo solerte. «Oppure vado a prendervelo io? Un caffelatte? Chloe? Becca?»

«Papà, siamo andate nello shopping mall più grande del mondo, ed era pieno di macchine così grandi che serviva un panchetto per salirci, e la macchina della mamma è enorme. Lei dice che non ci starebbe, nel nostro garage», stava raccontando Lily mentre Chloe cominciava a mostrare a Phil un nuovo passo di danza insegnatole «dal personal trainer della mamma».

Becca guardò Anna e alzò gli occhi al cielo con aria solidale. «Buon anno, Anna», disse, e lei avrebbe voluto abbracciarla per la gratitudine. «Dubito che abbiano bisogno di altra caffeina.»

Anna si prese mentalmente a calci. «No, certo.» Un altro errore parentale. Il caffè era ciò che offrivi alla tua migliore amica, dopo un volo. Non a delle ragazzine. Persino Becca lo sapeva.

La conversazione proseguì ininterrotta mentre tornavano al parcheggio; Phil tirava i bagagli più ingombranti, mentre Chloe e Lily gli stavano attaccate e Becca e Anna li seguivano con il guazzabuglio di borse supplementari. Becca rispose alle domande di Anna con la consueta cortesia, ma si esprimeva a monosillabi per la stanchezza. La cosa non era certo sorprendente, pensò Anna, se Chloe aveva avuto quell'atteggiamento durante tutto il viaggio di ritorno.

Si stiparono sull'auto e Chloe insistette per collegare il suo iPod allo stereo così da ascoltare il nuovo album di una boy band che aveva scaricato mentre era via.

Il chiacchiericcio proveniente dal sedile posteriore iniziò ancor prima che Phil uscisse dal parcheggio.

«Papà, mi serve un lavoretto nel fine settimana», annunciò Chloe sovrastando le domande di Lily sugli esatti movimenti di Pongo durante la sua assenza.

«A che pro? Ti do già la paghetta.»

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«Ho bisogno di extension ai capelli. Io e Bethany abbiamo già organizzato tutto: ci faremo assumere il sabato al Kit e poi, se entro Pasqua avremo risparmiato abbastanza, io posso aggiungere i soldi del regalo di Pasqua e magari farmi anche sbiancare i denti.»

«Hai parlato con Bethany mentre eri in America?» chiese Phil, con il panico che trapelava dal suo tono. «Non al cellulare, spero.»

«No. Su Facebook.» Anna colse il borbottio: «Quasi sempre», ma non era sicura che anche lui avesse sentito.

«Perché le extension, Chloe?» chiese girando la testa. «Hai dei capelli magnifici.»

Chloe aveva formato una band femminile chiamata Apricotz con tre amiche, cheerleader come lei. Cantavano su basi registrate collegandosi a Spotify nel garage mentre si esibivano in una meticolosa coreografia, e avevano un loro logo che il padre di Bethany aveva stampato su adesivi che ormai ricoprivano ogni superficie disponibile. A parte la migliore amica di Chloe, Bethany, le altre due componenti del gruppo cambiavano con cadenza quasi settimanale.

Al momento, il principale obiettivo di carriera di Chloe, oltre a vincere alla lotteria, era sfondare nel mondo dello spettacolo.

«Sarà il nostro look. Tyra, la nostra stylist, dice che ci serve un elemento distintivo, quindi avremo tutte una lunga treccia ma ognuna con mèche di colore diverso. La mia sarà blu. Non agitarti, papà, è per questo che useremo le extension, per non tingerci davvero i capelli.»

Anna guardò nello specchietto posteriore: Lily si era addormentata, e la sua testolina ciondolava in avanti come un fiore pesante su uno stelo sottile, ma Becca era perfettamente sveglia e stava guardando fuori dal finestrino, con le labbra che si muovevano come se stesse recitando qualcosa fra sé e sé. L'attenzione di Chloe era concentrata sulla nuca di Phil, ma nel frattempo la ragazzina stava anche scrivendo un sms senza nemmeno guardare il cellulare.

“È come se non fossero mai state via”, pensò Anna.

«Chi è Tyra?» chiese Phil, scegliendo per prima la domanda più facile. «La conosco?»

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«Tyra del gruppo di cheerleader», rispose lei. «Quella che è stata espulsa per non essersi messa i pantaloncini sotto il gonnellino per la partita dei Longhampton Leopards e avere quindi screditato la scuola.»

Le mani di Phil si serrarono con forza sul volante.

Becca parve riprendere vita. «Kit è il negozio con le scarpe di perspex in vetrina?» domandò all'improvviso. «Non sapevo che a Longhampton le spogliarelliste fossero così numerose da avere bisogno di un loro negozio.»

«Cosa?!»

«Stai zitta, Becca, tu non te ne intendi. Compri i vestiti alla Oxfam perché nessuno dei veri negozi vende noiosi abiti da bibliotecaria. Senza offesa, Anna.»

«Figurati», replicò Anna, con tutta la mitezza possibile.

«Non so se voglio che tu lavori in quel negozio», disse Phil. «Non c'è qualche altro posto?»

«Prova a immaginare la divisa del personale», continuò Becca. «Finiresti per avere addosso meno vestiti di quando sei arrivata, invece che di più.»

«Chiudi il becco», sbottò Chloe, poi piagnucolò: «Papiii, è davvero importante per la band avere un look distintivo. La mamma dice che conosce qualcuno che lavora per American Idol e che secondo lei possiamo ottenere un'audizione anche per quel programma e che ci adorerebbero perché abbiamo un accento inglese e Bethany somiglia un po' a Kate Middleton».

«Ma i tuoi esami cominciano fra...»

«E dice che ci gioverebbe avere un lavoretto nel fine settimana. Ha detto che dobbiamo cominciare a pensare alle domande di iscrizione all'università, e un lavoro dimostra che siamo responsabili e concentrate sugli obiettivi.»

«E come è riuscita a conciliare la cosa con la sua ultima direttiva secondo cui dovevi studiare sodo e utilizzare i weekend per il ripasso?»

Chloe mise il broncio. «Lo sapevo che avresti detto così.»

«Non mi piace fare il guastafeste, solo che non voglio vederti passare l'intero weekend in un negozio di vestiti pacchiani», cominciò a spiegare Phil, e Anna sentì l'atmosfera nell'auto permearsi di cariche statiche pre-litigio.

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«Bene, conosco un posto in cui potresti riuscire a ottenere un lavoretto, il sabato», disse lei, prima di aver avuto il tempo di valutare adeguatamente la cosa.

«Dove?» chiesero in coro Chloe e Phil.

«Be', Michelle sta per aprire un nuovo negozio...»

«Oh mio Dio!» strillò Chloe, premendosi una mano sul petto. «Sta per aprire lo Home Sweet Home ii? Adoro quel negozio. È letteralmente il mio posto preferito al mondo.»

«Dopo il mall gigantesco», intervenne Lily. «E quel bar karaoke in cui ci ha portato la mamma. E...»

Chloe la ignorò. «Perché non me l'hai detto?»

Adesso anche Becca parve interessata. «Davvero? Dove?»

«Non è un altro Home Sweet Home», chiarì Anna. La sua amicizia con Michelle era uno dei pochi titoli di merito che avesse acquisito agli occhi delle ragazze. «È una libreria.»

«Oh», disse Chloe, afflosciandosi sul sedile.

«Che gestirò io», proseguì Anna. «Si trova accanto allo Home Sweet Home e sarà straordinaria. Abbiamo un sacco di progetti, incontri con autori e gruppi di discussione, e credo ci farebbero comodo un paio di ragazze zelanti e motivate che lavorino lì per qualche ora nel fine settimana.»

«Preferirei lavorare allo Home Sweet Home, se proprio devo», affermò Chloe. «Non puoi farmi assumere lì?»

«No», rispose lei. «E comunque finiresti solo per spendere la paga in altre ali per il cane.»

«Non è molto probabile che Chloe spenda la sua paga in una libreria», cinguettò Lily, suonando talmente simile a Becca che Anna sobbalzò nel proprio specchietto.

«Papà?» disse Becca. «Nemmeno a me dispiacerebbe trovare un lavoretto per il weekend.»

«E il tuo ripasso?» Phil assunse un'aria preoccupata. «Stai lavorando così sodo. Hai già rinunciato a suonare nell'orchestra, e cinque A-levels sono parecchi.»

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«Posso farcela.» Becca guardò fuori dal finestrino. «È da un po' che sto pensando a rette universitarie e prestiti studenteschi, tutta quella roba. Penso che dovrei avere un fondo per le emergenze. Per sicurezza.»

«Per sicurezza» era il motto di Becca. Anna si chiedeva spesso se la ragazza si fosse sempre preoccupata così tanto o se il divorzio dei suoi l'avesse indotta ad aspettarsi una catastrofe dietro ogni angolo. Forse voler diventare avvocato sin da quando era piccola aveva modificato le sue aspettative di un futuro pieno di incognite. Da tempo Anna era convinta che Becca lavorasse un po' troppo duramente. Più il padre ripeteva com'era fiero di lei e più a lungo la luce in camera sua sembrava rimanere accesa.

«Becca, non devi preoccuparti per i soldi», le disse Phil. «È tutto sotto controllo. Tu concentrati unicamente sull'ottenere buoni voti.»

«Ma se vuoi lavoricchiare per staccare dal ripasso, sono sicura che potremmo trovarti qualcosa di utile da fare.» Anna tentò di mantenere un tono disinvolto. «Trovo che potrebbe essere davvero terapeutico passare un po' di tempo a impilare libri, vendere e spazzare il pavimento senza doversi concentrare.»

Phil si voltò a guardarla, aggrottando la fronte in un no silenzioso. «Non credi che...»

Lei la aggrottò a sua volta. «Inoltre potresti tenere d'occhio Chloe.»

«Grazie, Anna», disse Becca. Smise di guardare fuori dal finestrino per rivolgerle un improvviso sorriso radioso. «Mi piacerebbe.»

«Quanto frutterà questa esibizione?» chiese Chloe.

«Esibizione?» ripeté Phil. «Esibizione?»

«Possiamo parlarne», rispose Anna. «Potete venire a dare un'occhiata in negozio. Magari anche esaminare la merce?»

«Mmm!» disse Becca, ma Chloe non si prese il disturbo di replicare. Mentre canticchiava fra sé e sé stava già spedendo un sms, probabilmente a Tyra la stylist o a Bethany la corista. «Sono tornata», cantò sottovoce. «Tornata nel mio quartiere, tornata con le mie ragazzeeeee...»

«Dacci un taglio, Beyoncé», disse Lily, e Becca soffocò una risata.

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Capitolo 8

«Da piccola volevo fare parte dei Cinque, a tal punto che mi inventavo continuamente dei “misteri” solo per poterli risolvere e poter dare ordini a mia sorella durante l'“indagine”.»

Louise Davies

Soltanto dieci giorni dopo essere entrata con Anna nella sudicia e trascurata libreria, Michelle aprì la porta e assaporò un momentaneo senso di orgoglio perché lei, Anna e Lorcan il muratore l'avevano resa identica a come se l'era prefigurata. Adesso la Longhampton Books era un posto in cui i clienti avrebbero voluto ciondolare. Gli scaffali dipinti di color crema facevano sembrare lo spazio grande il doppio e la mercanzia doppiamente invitante, e l'assito appena levigato manteneva un tocco di tradizione fra i lindi arredi nuovi.

Michelle aveva appeso un antico orologio da stazione ferroviaria fra il primo locale accessibile al pubblico e le stanze sul retro e fissato alle semplici pareti intonacate alcune lettere dorate prese dalla vetrina di un negozio per indicare le varie sezioni. I lampadari d'ottone che l'elettricista di Lorcan aveva comprato e installato la sera precedente sembravano già trovarsi lì da sempre, e lei prese mentalmente nota di chiedergli se poteva procurargliene altri da vendere allo Home Sweet Home.

Anche Anna dava l'impressione di trovarsi lì da sempre, appoggiata al bancone a leggere un'edizione rilegata di Piccole donne. Portava i suoi occhiali da bibliofila invece delle lenti a contatto e non sollevò lo sguardo finché gli stivali di Michelle non ebbero attraversato ticchettando metà stanza. Quando lo fece assunse un'aria così colpevole che i capelli le si sfilarono quasi dalla crocchia che aveva improvvisato con una matita.

«Scusa, Michelle, ero lontana anni luce.» Indicò il libro. «È così bello. Devo averlo letto un centinaio di volte, da bambina. Fingevo sempre di avere anch'io tre sorelle. E dei lunghi capelli da poter vendere in caso di emergenza.»

«Non ci sono libri per l'infanzia che parlino di ragazzine che crescono con dei fratelli esasperanti?» Michelle estrasse il taccuino e annotò: «Procurarsi campanella per la libreria così da mantenere Anna sempre attenta ai clienti».

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«La serie con I Cinque di Enid Blyton», rispose subito Anna. «Julian e Dick erano i fratelli di Anne. E George voleva essere un maschio. Chi volevi essere delle sorelle March?» continuò. «Io mi sono sempre vista nei panni di Jo, amante dei libri e impulsiva ma fondamentalmente buona.»

«Dubito di averlo mai letto. Ne hanno tratto un film?»

«Michelle! Non hai letto Piccole donne?» Anna sembrava scioccata.

«No. Continuo a ripeterti che non ho avuto un'infanzia all'insegna della lettura. Avevo dei fratelli. La casa era piena di scatole di modellini di aerei e raccolte di riviste sul calcio.»

«Devi assolutamente leggerlo. Lo adorerai.» Anna le tese il libro. «Forza, lo pago io. Consideralo un regalo.»

«Non ho tempo di leggere», ribatté Michelle. «Non sto scherzando, Anna, davvero.»

«Non posso crederci», disse lei. «A volte mi chiudo in bagno, se non riesco a trovare dieci minuti.»

«Ricordami di non chiederti mai dei libri in prestito, allora», replicò Michelle, spostando l'attenzione sull'espositore di penne sopra il bancone. Sapeva che era inutile tentare di spiegare a un amante dei libri perché non avevi il tempo o la voglia di sederti per insinuarti a forza in un mondo di fantasia per ore e ore.

«Allora cosa fai quando torni a casa, ultimamente?» volle sapere Anna, come se fino a quel momento non le fosse mai venuto in mente di chiederlo. «Ora che non porti a spasso il mio cane né sei costretta a cenare con i colleghi di lavoro di mio marito?»

«Io...» Michelle esitò. Era stata lì lì per dire: “Sistemo la contabilità”, ma si rese conto di come suonasse triste. Le opzioni seguenti furono: “Faccio un po' di pulizie o stiro” e: “Vado a correre”, ma nessuna delle due rappresentava un gran passo avanti.

Scosse il capo, come se avesse semplicemente troppe cose da elencare. «Cerco nuove linee di articoli da vendere, esploro boutique on line, esamino blog di design, faccio programmi per il negozio, e anche per la libreria, adesso...»

Vide che Anna la stava fissando e per un orribile secondo le parve di scorgere una traccia di compassione dietro gli occhiali dalla montatura nera.

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Quello andava stroncato sul nascere. Non voleva che l'amica la compatisse.

«Dobbiamo occuparci dei nostri bouquet di libri.» Infilò una mano nella borsa ed estrasse il taccuino con le liste di cose da fare e un sacchetto di nastri e fiocchi di satin presi dal tavolo per i pacchi dono dello Home Sweet Home. «Ne sto magnificando le doti con il redattore responsabile dei servizi speciali del giornale. Sceglimi cinque libri per qualcuno costretto a letto da una malattia di lieve entità per la quale manderesti normalmente dei fiori. Una donna più o meno della nostra età. Un bel libro corposo, per cominciare.»

«Corposo in che senso?» chiese Anna. «Corposo come un romanzo serio oppure nel senso che copre un lungo lasso di tempo?»

«No. Semplicemente corposo nel senso di “grosso”.»

«Tieni.» Anna le offrì di nuovo Piccole donne. «Non conosco nemmeno una donna che non amerebbe leggerlo. Sorelle, scena commovente sul letto di morte, proposte di matrimonio...»

Non era voluminoso come Michelle aveva sperato, ma era pur sempre un inizio. «Okay, bene. Il prossimo. Leggermente più piccolo. Argomento consolatorio. Portami lontano da Longhampton.»

«Ehm... Anna dai capelli rossi? Ti trasporta nella quiete rurale di Prince Edward Island, in Canada. Molto accogliente in questo periodo dell'anno.»

«Okay.» Michelle prese il libro passatole dall'amica e si accigliò vedendo la sovraccoperta: una ragazzina dai capelli rossi con un grembiule che rideva accanto a un melo. «È un altro libro per ragazzi?»

«Sì, ma talmente bello che puoi rileggerlo in età adulta e provare... un senso di calore. Parla di un'orfanella adottata da un fratello e una sorella che in realtà volevano un maschietto; lei però riesce ad ammorbidire la loro scontrosità con il suo amore per la vita, il suo desiderio di imparare e il suo nasino lentigginoso. Ero orgogliosa di chiamarmi come lei.» Si interruppe e guardò Michelle socchiudendo gli occhi. «Sei sicura di non avere letto Anna dai capelli rossi?»

«Sì», rispose Michelle. «Ho passato la maggior parte dell'infanzia a tirare fuori dai guai Owen e a ricavare dritte sul makeup dalle riviste per teenager.» Posò il volume sopra il precedente e tese la mano. «Un altro. Un libro per adulti, grazie.»

Anna si guardò intorno. Il bancone, notò Michelle, era ingombro di tascabili, quasi tutti romanzi per ragazzi, a giudicare dalla copertina. Anna allungò una

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mano prima verso un romanzo di Dahl e poi verso un altro, ma la ritrasse vedendo l'occhiata ammonitrice dell'amica. Alla fine raggiunse la sezione Umorismo e afferrò una copia della Fattoria delle magre consolazioni.

«Ecco», disse. «L'ho regalato a Becca per Natale, ma lei l'ha lasciato accanto al letto. L'ho scelto perché sta studiando per gli esami e questo è una spassosissima parodia di quel genere di romanzi incentrati su campagnoli perennemente intenti a rimuginare. La protagonista è una ragazza intelligente e anticonformista a cui piace comandare, un'altra orfana che cala su un gruppo di cugini e comincia a migliorarli, che lo vogliano o meno. L'ho letto quando avevo circa tredici anni e lo rileggo ancora adesso, ogni qual volta ho bisogno di tirarmi su di morale.»

«Tirarti su di morale? Con tutte queste orfane? Da piccola leggevi solo romanzi su famiglie disfunzionali?»

«Certo che no!» replicò Anna, poi ebbe un attimo di esitazione. «Per quanto anche Il giardino segreto abbia per protagonisti degli orfani, così come Scarpette da ballo, James e la pesca gigante e Pippi Calzelunghe, più o meno, e...» Fece una smorfia, come se avesse stabilito il collegamento soltanto ora. «Se non sono menomati da una qualche malattia tendono a essere privi di un genitore o due.»

«E non trovi che questo faccia paura ai bambini?»

«Parecchia della narrativa per l'infanzia fa paura, a ben pensarci», ribatté Anna. «Tutti quei bambini abbandonati che affrontano la vita a modo loro rendono normali le sfide del mondo adulto, inoltre...» Non concluse la frase.

«Cosa c'è?» chiese Michelle.

«Mi... mi chiedo se sia per questo che Lily non ha letto i libri che le ho regalato. Magari ha pensato che io volessi sollevare la questione della loro mancanza di una famiglia tradizionale? Credi che abbia potuto avere questa impressione? O che magari Chloe abbia detto qualcosa?» Si tappò la bocca con una mano e assunse un'aria mortificata.

Michelle avrebbe tanto voluto che Anna non si assumesse la responsabilità di tutto quello che succedeva nella famiglia McQueen, come se fosse l'unica a poter commettere errori. «Non direi. Scommetto che Chloe non si è presa il disturbo di leggere nemmeno la quarta di copertina dei suoi libri, figuriamoci di quelli di Lily. Anna, devi smetterla di rimuginare troppo sulla questione dell'essere genitore.»

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«Perché non stavo cercando di sollevare nessuna questione. Non ho mai nemmeno pensato alla cosa in quel modo.»

«Nessuno pensa questo. Credono solo che tu abbia fatto loro dei regali noiosi», affermò risolutamente Michelle. «Senti, sei l'adulta in questa situazione. Se vuoi che Lily legga insieme a te non puoi dirle semplicemente: “Bene, stasera leggeremo un libro, prima che tu dorma. È Scarpette da ballo. Drizza le orecchie!”?»

«Posso tentare», rispose Anna, incerta. «Non amo mostrarmi troppo autoritaria sul...»

«I bambini hanno bisogno dell'autorità. Lily ha otto anni, non diciotto. Ora, mi serve un altro libro. Stesso formato o più piccolo? Ehi, forza. Concentrati!»

Anna si riscosse. «Non può essere molto più piccolo, La fattoria delle magre consolazioni è un tascabile.»

«Be', allora un colore diverso.»

Lei si avvicinò nuovamente alla sezione Umorismo e le porse un altro tascabile, con una sgargiante copertina in stile art deco, stavolta. «Cosa ne dici di Perfetto, Jeeves? Oh.» Piegò all'ingiù gli angoli della bocca. «Forse no.»

«Perché?»

«Orfano. Benché ricco e fornito di un maggiordomo onnisciente.»

Michelle alzò gli occhi al cielo. «Dai qua, è nuovo, possiamo far pagare il prezzo intero. L'ultimo, per favore. Breve.»

«Michelle, ti rendi conto che quasi tutti i libri di narrativa hanno solo due formati? Peter Coniglio?» Anna le porse un minuscolo tascabile di Beatrix Potter.

«Sul serio? Per una donna adulta?»

«Sono splendidi. I disegni sono ricchi di dettagli e riesci a distinguere le espressioni sulle faccine dei coniglietti. E alla fine sono tutti felici. È questo che desideri quando hai la schiena conciata male: coniglietti felici.»

«L'esperta sei tu.» Michelle accatastò i libri con un agile movimento e vi fece scivolare sotto il nastro animato lilla. Con poche rotazioni della mano lo usò per legare la pila e lo annodò sulla sommità, arrotolandolo poi in un fiocco increspato. Srotolò un nastro color argento, aggiunse dei riccioli extra e osservò la piccola

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torre di volumi con aria critica. «Cos'altro possiamo aggiungere per farlo sembrare un regalo da trenta sterline?»

«Dei fazzoletti in cui piangere?» Anna sollevò una confezione di fazzoletti di carta con stampati dei delicati fiori di ciliegio presa dalla ciotola accanto alla cassa e una scatolina di bonbon di cioccolato biologico presa da un'altra ciotola nella sezione Cucina.

Non erano le sole cose che fossero strisciate fin lì dallo Home Sweet Home; sui tavoli erano sparsi tutti gli oggetti regalo legati ai libri che Michelle fosse riuscita a trovare. Graziosi segnalibri, lampade da lettura, fermalibri intagliati a forma di civette... tutti creati per mettere nello stato d'animo adatto a comprare. E – benché non lo avesse detto ad Anna – anche per fornire loro qualcosa da acquistare se non riuscivano a trovare il libro giusto. La sua missione era assicurarsi che nessun cliente lasciasse il negozio a mani vuote. Non si fidava della capacità dei libri di farlo succedere autonomamente.

«Va bene.» Strinse e tirò il nastro e infine indietreggiò, osservando l'articolo finito. «Il nostro bouquet di libri. Migliore dei dolci, dura più a lungo di un mazzo di fiori.»

«Regala la nostalgia», disse Anna, adattandosi subito a quel trend di marketing. «La tua infanzia in un pomeriggio. Selezionati in base ai gusti del destinatario e consegnati a mano per... cinque sterline?»

«Sette. Fai in modo che per Gillian valga la pena di tirare fuori lo scooter.»

«Preparerò dei volantini da lasciare accanto alla cassa.» Anna se lo appuntò sul taccuino. «È uno splendido regalo.»

«Infatti», concordò Michelle, concedendosi un sorriso. Allungò una mano per toccarle il braccio. «Complimenti per averci pensato.»

«Be', in realtà tu...» cominciò a precisare Anna, con la consueta modestia.

«No», disse enfaticamente lei. «L'idea è stata tua. Accetta la medaglia.»

Anna parve compiaciuta, e commossa. «Grazie», replicò. «Sono davvero felice che il mio inutile tentativo di fare doni graditi abbia avuto una specie di lieto fine.»

«Ora, cosa ne dici di un caffè della macchina che hai definito così essenziale?» Anna riempì due tazze, ne passò una a Michelle e sorrise: il suo viso gentile

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brillava di entusiasmo. Sembrò tutt'a un tratto più giovane e Michelle si rese conto che non la vedeva così rilassata da mesi. Da prima che le ragazze arrivassero a casa sua, in realtà.

Anna vendette il bouquet di libri meno di dieci minuti dopo la partenza di Michelle, a una donna che cercava qualcosa da regalare a un'amica costretta a letto durante le ultime due settimane di gravidanza.

«Lauren non ha il permesso di fare niente se non leggere e andare in bagno», spiegò, lanciandosi con un tubare deliziato sulla pila di volumi esposta accanto alla porta. «Ed è stufa marcia di riviste, ma non riesce a concentrarsi su niente di troppo serio. Questo è assolutamente perfetto... Oh mio Dio, Anna dai capelli rossi! Ne ha altre copie?»

«Sì», rispose lei, e gliene vendette una, insieme a Ciò che fece Katy.

«Desideravo così tanto essere Clover», ammise la cliente con un sospiro, sfogliando il libro mentre Anna usava la sua carta di credito per pagare. «Lei no? Adoravo la parte in cui vengono autorizzate per la prima volta a mettere la gonna lunga e raccogliere i capelli sulla nuca. Mi fissavo delle salviette intorno alla vita con delle spille da kilt e piroettavo in giro per casa con gli stivali di mio fratello, chiamando tutti “madame”.»

Anna annuì. «A parte il brano sull'altalena. Mi ha fatto passare la voglia di salirvi. Mio padre ne aveva appena montata una in giardino e per anni non mi ci sono voluta nemmeno avvicinare.»

«È successo anche a me!» La cliente sgranò gli occhi. «Il brano in cui il perno si sfila con quel terribile crac...» Assunse un'espressione orripilata nello stesso istante in cui lo faceva Anna.

Era quello il bello dei libri per l'infanzia, pensò lei dopo che la donna uscì, promettendo di tornare quando avesse avuto «più tempo per curiosare adeguatamente sugli scaffali». Non erano come i romanzi per adulti, con le persone che fingevano di aver letto i finalisti del Booker Prize senza averlo mai fatto davvero; tutti avevano realmente divorato gli stessi libri di Dahl e della Blyton, e parlarne dava loro quell'istantanea sensazione di condividere qualcosa, quell'emozione da «società segreta» che in realtà poi molto segreta non era, perché quasi tutti quelli che conoscevi avevano letto le stesse cose, invitato gli stessi personaggi nella propria testa e intrecciato a quei visi immaginati segreti brandelli di sé stessi e dei loro sentimenti e timori.

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Ripensò a quanto affermato da Michelle riguardo a Scarpette da ballo e Lily, e decise che l'amica aveva ragione. Non aveva senso aspettare gli altri, era quello il suo motto per l'anno in corso. E avrebbe dato inizio alla lettura quella sera stessa.

Ispirata dalla vendita e dai due clienti entrati per esaminare il nuovo look e usciti rispettivamente con un thriller vintage e con Le opere complete di Shakespeare, iniziò ad assemblare altri bouquet: un “mazzo di detective” da domenica pomeriggio con Miss Marple, lord Peter Wimsey, Hercule Poirot e I Cinque; un “mazzolino di romanticismo” con romanzi rosa e bianchi di Georgette Heyer, Barbara Cartland e Jilly Cooper, coronati da Inseguendo l'amore e una confezione di caramelle a forma di cuore, legati con un nastro color argento.

Stava infilando un sacchetto di caramelle toffee nel bouquet poliziesco quando un uomo in completo entrò nella libreria e raggiunse direttamente il bancone senza prendersi il disturbo di curiosare in giro.

Lei alzò gli occhi, pronta a sorridere, e si bloccò. A differenza di quasi tutti i clienti lui non si era fermato per guardarsi intorno, con l'aria di ammirare lo schema cromatico sobrio ma accogliente scelto da Michelle. Aveva invece l'aria seccata.

«Posso aiutarla?» gli chiese Anna, studiandolo. Sembrava troppo giovane per far parte della lamentosa compagine che entrava domandando: «Dove avete messo i libri sui carrarmati?» di cui lei aveva già visto tre membri, ma il suo completo, ora che lei lo osservava con più attenzione, era in realtà una giacca di tweed su pantaloni diversi. «Sta cercando qualcosa in particolare?»

L'uomo aprì la bocca per parlare, poi guardò da una parte come se avesse appena notato qualcosa. «Cosa ne è stato della sezione militare?» domandò. «Era qui accanto al bancone.»

«L'abbiamo spostata. È nella saletta laterale.»

Lui fece un grugnito. «E la storia navale?»

«Anche quella nella saletta laterale. Insieme alla poltrona comoda. Abbiamo pensato che per gli appassionati di storia sarebbe stato più piacevole potersi sedere.»

L'uomo continuò a guardarsi intorno, con l'atteggiamento padronale già sfoggiato da molti vecchi clienti. «Mi piace quello che avete fatto con le

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scaffalature», ammise. «Bella etichettatura nitida. Riesci a capire subito dove ti trovi. Avete anche rimpinguato le scorte?»

«Abbiamo riorganizzato la merce già presente», rispose Anna, felice che lui lo avesse notato. «Ce n'era parecchia.»

«Bene.» Lui fece qualche passo verso la sezione di interesse locale per dare un'occhiata, poi si costrinse a indietreggiare. «Sto cercando la signorina Nightingale», disse invece. «È qui?»

«Si trova nel negozio accanto, lo Home Sweet Home, ma al momento è molto occupata.»

Anna si spremette le meningi cercando di capire chi potesse essere quel tizio leggermente pomposo e come dovesse reagire lei. Immaginò che fosse un rappresentante, o magari qualcuno mandato dal consiglio comunale: aveva più o meno la sua età, era alto e piacente, con un viso spigoloso e capelli di un biondo rossiccio che gli ricadevano sugli occhi. Li spinse indietro con un ampio gesto automatico.

«Posso aiutarla?» aggiunse Anna. «Sono la direttrice della libreria.»

«In tal caso sì, può», replicò lui. «Si tratta degli scatoloni accatastati nel corridoio comune fra il negozio e l'appartamento del piano di sopra. Bloccano l'accesso.»

«Mi dispiace tanto», disse lei, sentendosi parzialmente sollevata ma anche parzialmente in colpa. «Verranno spostati entro stasera. È solo che siamo a corto di spazio per lo stoccaggio: il sigillante sul pavimento nel retrobottega non si è asciugato con la rapidità sperata dal muratore, così non abbiamo potuto montare l'ultima scaffalatura, e Michelle ha detto che se li avessi impilati lì per qualche giorno saremmo...»

«È una violazione del regolamento antincendio», spiegò l'uomo. «Già fai comunque fatica a portare un passeggino su per quelle scale, in più sono pericolosi. Mi sono scorticato una gamba nel tentativo di ripiegare il dannato passeggino e di renderlo abbastanza piccolo per poter passare.»

Anna vacillò leggermente. Un passeggino? Non aveva notato nessun bambino al piano di sopra. Non aveva nemmeno notato alcun occupante adulto.

«Mi dispiace tanto, signor... ehm...» disse. «Non ho afferrato il suo nome.»

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«Rory Stirling.» Lui le tese la mano. «E lei si chiama...?»

«Anna McQueen. Sono sicura che possiamo risolvere rapidamente questa faccenda», affermò lei, stupita che il bimbo non fosse stato svegliato dai lavori. Non che intendesse sollevare l'argomento, se lui non se n'era accorto. «Adesso potrebbe essere più facile fare un salto nel negozio accanto e ghermire Michelle.»

L'uomo parve atterrito dalla prospettiva. «Ho guardato attraverso la vetrina. Sembra che là dentro sia in corso un mercatino dell'usato. Non intendo frappormi tra quelle donne e l'ultima candela profumata a metà prezzo.»

«Telefono a Michelle», annunciò Anna, allungando la mano verso l'apparecchio. «E le chiedo scusa, dev'essere già abbastanza difficile portare un passeggino su per quelle scale.»

«È una forma di punizione.» Rory si passò una mano sul viso e, quando gli occhi tornarono visibili, lei notò che erano contriti e iniettati di sangue. «Scusi, non intendevo urlare», disse lui. «Sono reduce da un paio di giornate davvero impegnative. Non mi intendo affatto di passeggini.»

«Sono ancora peggio delle sedie a sdraio, quando non ci sei abituato», dichiarò Anna.

«Sinceramente, in circostanze normali quei libri non mi creerebbero alcun problema, sempre che avessi il diritto di prelazione. Avvisatemi se intendete buttarne via qualcuno. Soprattutto qualsiasi testo tipo Bebè per principianti.»

Aggiunse un sorriso stanco, alla fine. Fu un sorriso schietto, come quello a forma di u di un bambino. Risultò teneramente in contrasto con il suo abbigliamento un po' sorpassato.

«Perché non si siede?» gli propose Anna, percependo uno spirito bibliofilo affine al suo. «Michelle arriverà presto. Un caffè?»

«Latte, due cucchiaini di zucchero», rispose Rory, girandosi a guardare la macchina che gorgogliava a più non posso. «Di certo, quello è già un netto miglioramento.»

Michelle aveva perfezionato da tempo l'arte di servire tre clienti contemporaneamente senza far sentire trascurata nessuna di loro, il che era essenziale nei momenti clou del caos da saldi come quello, con le linee intasate sul lettore per le carte di credito, un'emicrania da stress che le martellava nelle

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tempie e ora il telefono che suonava. Una cassa indaffarata era una cassa felice, come ripeteva lei al personale, ma quel giorno non aveva l'energia necessaria.

Non era certo d'aiuto il fatto che Owen continuasse a scendere dal suo studio per fotografare nuovi articoli, provocando un'immediata interruzione del servizio da parte di Kelsey e adesso – grazie al suo averle gentilmente riparato il cellulare nuovo – anche di Gillian. Michelle era assai meno impressionata. Lui era tornato dalla sua gita di san Silvestro a Londra con i postumi di una sbornia, un succhiotto e un minuscolo tatuaggio nuovo sul polso raffigurante un'unica ala d'angelo. Il nuovo sito web era ancora realizzato solo per metà.

E lei aveva appena scoperto che Harvey si era iscritto nuovamente alla mailing list, dopo che lo aveva escluso da quella vecchia. L'ombra dell'uomo era ricomparsa nel suo negozio.

«Kelsey, il telefono!» disse bruscamente non sopportandone gli squilli, poi riacquistò l'autocontrollo. Non era giusto prendersela con Kelsey. Sollevò il ricevitore. «Pronto.»

«Michelle, potresti fare un salto qui?» L'unica cosa che lei riuscì a sentire, oltre alla voce di Anna, fu il delicato battito d'ali di un quartetto d'archi di Bach. «C'è un uomo che vuole vederti.»

«Ha un appuntamento?» Michelle rivolse un sorriso di scusa alla cliente e ne strisciò nuovamente la carta di credito nel lettore. «Se è un rappresentante digli di tornare la settimana prossima.»

«Si chiama Rory Stirling. È per i libri nel corridoio al piano di sopra. Gli impediscono di entrare in casa.»

Le dita le scivolarono sul tastierino numerico e lei addebitò per sbaglio alla cliente 9376,99 sterline per due foulard di seta Liberty e un portauova placcato d'argento. L'invisibile banda di metallo che le cingeva la testa si strinse.

Rory Stirling. Magnifico. Proprio quello che le ci voleva: probabilmente era solo un pretesto per andare lì a dirle come avrebbe dovuto gestire la libreria. Lei aveva già ricevuto via e-mail alcuni suoi «suggerimenti» sui volumi che avrebbe dovuto tenere in negozio. Li aveva cancellati tutti.

Premette con forza il pulsante per annullare l'operazione. «Mi dispiace tanto... Mi lasci riprovare. Anna, limitati a spostare gli scatoloni e a chiedergli scusa. Digli che era solo una soluzione temporanea. Qui non ho un attimo di tregua.»

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«Michelle, secondo me sarebbe preferibile se gli parlassi di persona.»

«D'accordo, due minuti.» Passò le sue clienti a Gillian e Kelsey, si aprì un varco fra la ressa zigzagando e poi uscì in strada.

L'aria fredda non aiutò certo la sua testa, ma l'atmosfera confortante della libreria sì. Fu come entrare in un giardino nascosto accanto alla via centrale, con musica dolce e profumo di caffè. Ma quando vide Rory Stirling sentì l'irritazione accentuare nuovamente la sua morsa.

Era appoggiato alla parete accanto alla grande scrivania che fungeva anche da bancone e chiacchierava con Anna, con una gamba magra incrociata sull'altra. Lei notò che indossava dei calzini gialli, il che portava a sette le cose di quell'uomo che la irritavano profondamente. Non sopportava i calzini «divertenti». Harvey era un appassionato di calzini con disegni, il che – le aveva spiegato un avvocato – rappresentava un motivo sufficiente per chiedere il divorzio, in alcune zone del Surrey. Inoltre, Rory stava raccontando ad Anna qualcosa di tedioso su un autore che Michelle non aveva mai sentito nominare, e la sua amica sorrideva con indulgenza.

«Salve, signorina Nightingale, tandem», disse lui, voltandosi. Quando si alzò, lei notò che la sua camicia, sotto la giacca, non era stirata.

«Tandem?»

«È latino. Significa: “Finalmente”. Anna e io stavamo giusto parlando dell'esame di latino della maturità. Di come si riveli utile nella vita di tutti i giorni.»

«Se fai il giardiniere», aggiunse Anna. «O sei un appassionato di bird-watching.»

“Magnifico”, pensò Michelle, “Anna ha finalmente trovato qualcuno fissato come lei sul suo dannato esame di latino.”

«Mi spiace di averla fatta aspettare, ma mi trovo nel bel mezzo del periodo di attività più frenetico», affermò. «Come si dice in latino: “Non avere il tempo di respirare”?»

«Mi coglie impreparato», replicò Rory. «Vedo chiaramente che ha da fare. Sembra che le chincaglierie stiano volando via dagli scaffali, nel negozio accanto. Alcune sono persino arrivate fin qui.» Indicò la pila di morbide coperte di lana

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che lei aveva sistemato nella sezione dei romanzi d'amore, proprio accanto al punto in cui si trovava adesso.

«Sì», confermò Michelle. «Fa parte dell'esperienza del leggere. Tazza di tè, coperta tiepida, romanzo rosa. Non c'è niente di male in questo.»

Lo vide inarcare un sopracciglio come se ci fosse qualcosa di male e si inalberò. «Vendita incrociata», spiegò. «È così che si fanno funzionare i prodotti a basso margine come i libri, oggigiorno.»

«Ne abbiamo vendute parecchie», confermò Anna. «Ne ho presa una anch'io. Sono molto confortevoli. Di quel confortevole che invoglia a leggere un capitolo dietro l'altro.»

«Bene, spero non abbiate spostato la sezione militare per fare posto a delle coperte», disse Rory.

«E degli speroni, invece?» chiese Michelle. «Quelli sarebbero andati bene? O magari delle pistole giocattolo?»

«Rory stava giusto dicendo com'è rimasto colpito da quante cose siamo riuscite a fare in così poco tempo», si affrettò a dichiarare Anna, vedendola rannuvolarsi in volto. «È stato fuori città.»

«È vero. Quando sono partito questa libreria era solo un guscio vuoto mentre adesso è la nuova Waterstone's. Mischiata con Liberty.»

Michelle lo fissò, tentando di capire se fosse uno di quegli uomini a cui hanno detto che le signore amano un pizzico di battibecchi o se fosse davvero lì a criticare il suo negozio solo perché lei guadagnava. Era arduo decifrare Rory Stirling, soprattutto dietro gli occhiali. Somigliavano un po' a quelli di Anna, rettangolari e con la montatura di tartaruga: in entrambi suggerivano un'aria da imbranato, che però nel caso di Anna era solo ironicamente accennata, mentre in Rory pareva descrivere genuinamente la sua personalità. Per sua fortuna non gli facevano apparire gli occhi tutti strani e distorti, e Michelle riuscì a distinguere che aveva le ciglia di un biondo rossiccio come i capelli.

«Si direbbe che lei abbia trovato una vera appassionata di libri», aggiunse Rory, e Anna sorrise tutta felice.

«Rory mi stava giusto dicendo che era iscritto anche lui al Puffin Club.» Anna indicò l'onnipresente pila di libri per l'infanzia sul bancone.

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«Il Puffin Club?» Michelle finse di non conoscere la celebre associazione per piccoli lettori. «Non ho idea di cosa sia. Somigliava al Tufty Club? O al Pony Club?»

«Michelle! Non dirmi che non eri...» cominciò a chiedere Anna, ma Michelle non era dell'umore adatto per sopportare altre sue reminiscenze infantili tinte di rosa.

«No, non ero socia del Puffin Club. Frequentavo club reali con amici reali», disse. «Non leggevo di ragazzine che avevano un pony, cavalcavo dei pony. Non leggevo di maschiacci sempre in cerca di avventure, ero un maschiaccio sempre in cerca di avventure. E il collegio non è affatto come nei libri di Enid Blyton, lasciatevelo dire.»

Anna parve scioccata dalla violenza del suo sfogo, ma Rory incrociò le braccia, divertito.

«Ho la sensazione che la signora protesti troppo, non ti sembra, Anna?» chiese, picchiettandosi le lunghe dita sulla manica. «Credo che nasconda un set completo di libri di Amandina Imbranandà.»

«Niente affatto. Non tutti hanno passato l'infanzia al chiuso, con il naso affondato in un libro», ribatté lei. «Questo non fa di me un'ignorante né mi rende la persona meno adatta per gestire una libreria, se è lì che vuole andare a parare.»

Una vocina più flebile e quieta sottolineò che forse stava reagendo in modo eccessivo, ma Michelle non riuscì a trattenersi.

«Certo che no!» asserì Anna nel suo tono concilante. «Nessuno sta dicendo questo.»

«Tutt'altro», disse Rory. «A quanto pare ha reso davvero perfetta questa libreria. Sembra...» Fece oscillare un lungo braccio verso gli articoli sistemati da Michelle sui vari tavoli.

Aveva braccia simili a zampe di ragno, pensò lei con stizza. Inarcò un sopracciglio, aspettando che lui scegliesse l'aggettivo.

«...Più simile a un negozio di quanto io l'abbia mai vista.»

«Abbiamo spostato gli scatoloni?» chiese Michelle, rivolgendosi ad Anna.

«Vi do una mano», si offrì Rory.

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«No, non ce n'è bisogno.» Michelle si rimboccò le maniche. «Può pensarci mio fratello. Sono sicura che lei ha una miriade di dissidi familiari postnatalizi di cui occuparsi.»

«Veramente sono in vacanza», precisò lui. «Mi sto occupando da alcuni giorni di questioni personali e mi sono preso il resto della settimana libero.» Si voltò verso Anna. «Fortunatamente per il momento il passeggino è andato, ma probabilmente tornerà, presto o tardi. E ho comunque bisogno di portare lassù la mia attrezzatura da pesca.»

Michelle, che si era incamminata verso la porta per chiamare Owen, si voltò di scatto. «Aspetti un attimo. Lei vive qui sopra?»

«Con la... famiglia?» si informò innocentemente Anna.

«No, per lo più sono da solo», rispose Rory.

Ma Michelle non prestò attenzione a quelle ultime parole; una grossa lampadina le si era appena accesa nella testa. Ciò spiegava perfettamente come mai lui si mostrasse tanto irremovibile sulla necessità che la libreria non si trasformasse in un bar rumoroso o in un trafficato negozio di cellulari. Semplice tornaconto personale. Rory Stirling era più interessato alla possibilità di restare a letto il sabato mattina che alla cosiddetta eredità di Cyril Quentin.

«Oh. Ora capisco perché era tanto preoccupato che questo locale restasse una libreria», commentò lei in tono eloquente.

«No che non capisce», replicò lui, decifrando subito la sua espressione cinica. «Il fatto che io abiti in questo palazzo non c'entra assolutamente nulla. Vivo qui da circa un anno e sì, sono diventato un buon amico di Cyril, essendo io stesso un amante dei libri, e...»

«Non c'è bisogno di scendere in dettagli strappalacrime.» Michelle alzò una mano. «Provvedo a spostare i libri, così lei può stare certo che non avrà più alcun problema a entrare in casa.»

«Mi permetta di aiutarla.»

«No, grazie. Non mi piacerebbe che mi citasse per lesioni personali.»

Raddrizzò il più possibile la schiena e lo guardò in cagnesco. Si sentiva spiazzata. Stirling avrebbe dovuto dirle qualcosa. Non era stato professionale.

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Inoltre il pensiero che lui fosse al piano di sopra, a tenerla d'occhio, era molto, molto destabilizzante.

«Non succederà più», gli assicurò in fretta Anna, ansiosa come sempre di eliminare ogni eventuale attrito. «E torna presto a comprare qualche libro! Abbiamo un intero scatolone di volumi speciali del Puffin Club. Magari potresti prendere qualcosa per il bimbo.»

Lui scoccò un'occhiata divertita a Michelle, poi sorrise più prontamente ad Anna. «Forse. Grazie per il caffè», affermò mentre raggiungeva la porta a lunghe falcate.

«Gli hai offerto un caffè?» sibilò Michelle dopo che l'uscio gli si chiuse alle spalle.

«Sì! Abbiamo cominciato a chiacchierare e avevo appena messo su il bricco... Perché? Non avrei dovuto?» Anna la fissò socchiudendo gli occhi. «Perché sei stata così acida con lui? Cosa ti ha fatto? Io l'ho trovato simpatico.» Assunse un'aria pensosa. «Un po' strana la faccenda del passeggino, però, se vive da solo. Di chi sarà il bebè, secondo te?»

«Non mi interessa il bebè. Lui avrebbe dovuto dire che abita qui sopra.»

«L'ha fatto. In quel momento.»

Un tarlo cominciò a rodere Michelle. Quando era andata a parlargli, lui non aveva forse sostenuto di non avere una famiglia? Che si trovava lì nello studio perché non aveva legami familiari?

Anna la guardò con maggiore attenzione. «Avanti, Michelle, cosa succede? Stamattina non avevi alcun problema. Rory mi sembra un tipo a posto, sinceramente. Sono sicura che non farà storie.»

Michelle sapeva che in realtà il problema non era Rory Stirling bensì Harvey. Dopo tre anni di quiete, di colpo lui le occupava stabilmente un angolino del cervello come una perenne emicrania da stress. Continuava a chiedersi quando sarebbe comparso il successivo indesiderato memento floreale, che cosa sua madre gli stesse «consigliando» di fare e quali dettagli Harvey stesse raccontando alla suocera del loro matrimonio. Era persino peggio dell'eventualità che lui bussasse semplicemente alla sua porta.

«Sono un po' stressata», ammise. «Harvey... sta parlando con mia madre. Vuole riprovarci.»

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«Cosa?» Anna si indignò per interposta persona, in modo istantaneo e gratificante. «Non ha alcun diritto di farlo, siete divorziati!»

Michelle trasse un bel respiro. «In realtà no, Anna. Non ancora.»

«Pensavo che lo foste.» La fronte di Anna si increspò. «Come mai ne ero convinta?»

«Perché io non ho mai detto il contrario. Non è una cosa di cui vada molto fiera», confessò lei.

«Allora chiedi il divorzio.» Anna girò i palmi delle mani all'insù, come se fosse la cosa più facile del mondo. «Forza.»

«Non è così semplice», disse Michelle. «Harvey ha rifiutato di concedermelo, quando gliel'ho chiesto, persino dopo che mi ero detta disposta a passare io per la parte irragionevole. Odia perdere. Avevo intenzione di aspettare i cinque anni di separazione, trascorsi i quali non avrebbe avuto altra scelta. Ma ora a quanto pare ha deciso che non succederà nemmeno questo. E se dietro di lui c'è mia madre, per di più...»

Anna aprì la bocca per ribattere, ma evidentemente fu fermata dagli occhi dell'amica. Rimase scioccata nel vederla così abbattuta.

«Non aggiungere altro», la ammonì Michelle. «Non puoi dire nulla che io non mi sia già ripetuta un milione di volte.»

Anna le prese la mano. «Sai cosa riesce sempre a risollevarmi il morale?»

«Se dici: “Winnie the Pooh” sarò costretta a ucciderti.»

«No! Un giro intorno al parco e una grossa meringa presa nel caffè di Natalie. Farò a metà con te, se vuoi.»

Michelle riuscì a fare un sorriso forzato. «Preferisco un po' di esercizio fisico. Sposterò io stessa quei libri per Rory.»

Muovere gli scatoloni pesanti le fece dolorare i muscoli, ma eliminò quasi completamente la sua emicrania. Quello che non le riuscì di fare, tuttavia, fu liberarsi dalla sensazione di instabilità che avvertiva dentro di sé, la sensazione che la sua vita i cui pezzi erano incastrati alla perfezione stesse cominciando a sfuggirle di mano.

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Capitolo 9

«Vorrei potere regalare La carica dei 101 a tutti i miei nuovi clienti proprietari di cani, così capirebbero: a) di quanto esercizio fisico abbia bisogno un dalmata, e b) in quali pasticci gli esseri umani possono far finire i loro cani.»

George Fenwick

Anna non si era mai considerata una vera organizzatrice, ma i piani di ritiro/consegna che aveva elaborato per far fronte ai vari impegni di Lily, Chloe e Becca e, contemporaneamente, al suo nuovo lavoro e al bisogno di esercizio di Pongo faceva sembrare la FedEx un manipolo di meri dilettanti.

Michelle o Gillian coprivano la prima ora in libreria per permetterle di accompagnare le ragazze a scuola e portare a passeggio Pongo; poi la mamma di Jack accompagnava a piedi Lily in negozio il lunedì e il mercoledì mentre quella di Isabel andava a prenderla il martedì; il giovedì Becca aveva il pomeriggio libero dallo studio, così sostituiva Anna in libreria per un'ora mentre lei andava a prendere Lily, e il venerdì Phil usciva prima dal lavoro per passare a riprendere la bambina a scuola, tra le moine di ammirazione e solidarietà delle altre mamme, a cui lui attingeva spudoratamente.

Lily non sembrava infastidita dal vedersi passare di mano in mano come un pacco; la sua maggiore preoccupazione era come Pongo stesse reagendo all'«abbandono» ogni giorno.

«Aveva l'aria triste quando lo hai lasciato stamattina?» chiese ad Anna mentre percorrevano la strada principale, dirette alla libreria. La borsa le appesantiva una spalla ma lei non voleva lasciarla portare ad Anna: conteneva Mrs Piggle e la sua nuova maialina americana, Piggy-Jo, un regalo di Sarah. «Quanto sembrava triste, in una scala da uno a dieci?»

«Due. Stava benissimo», rispose Anna. «Lo aspettava una giornata densa di impegni: giretto nel parco all'ora di pranzo, film alla tv oggi pomeriggio, di ritorno da noi per la cena.»

«Pongo ha un letto tutto suo a casa di Juliet? E chi preferisce fra Minton e Coco? Ha un amico del cuore, là?»

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Minton e Coco erano i cani di Juliet; Pongo non mostrava una particolare predilezione per nessuno dei due, poiché amava entusiasticamente chiunque, ma Lily era ossessionata dall'idea delle amicizie del cuore. Anna era dolorosamente consapevole del fatto che lei sembrasse non averne.

«Sei tu la sua amica del cuore.» Non era sicura di dover incoraggiare la mania di Lily di antropomorfizzare qualsiasi creatura, da Pongo a Mrs Piggle, ma almeno serviva a farla parlare. Di solito qualsiasi domanda sulla scuola sfociava in una risposta di preoccupante vaghezza.

«Lo so», ribatté la bambina, «ma gli è concesso avere anche un amico del cuore cane.»

«Magari ha una fidanzata come Peggy?» suggerì Anna.

«No», affermò con decisione Lily. «Non ci sono altri dalmata da queste parti. Dovrebbe cercarne una su Internet. Su uno speciale sito di appuntamenti per dalmata.»

«Peggy è semplicemente arrivata, vero? Nel libro, intendo.»

Lily arricciò il naso. «Non ricordo quella parte, nel film.»

«Perché viene raccontata nel libro. Vedi, Peggy stava semplicemente vagabondando in giro quando Pongo e Missis hanno avuto bisogno di aiuto con i cuccioli. Potremmo leggere quella parte insieme», propose, poi giocò un asso davvero subdolo. «Magari a Pongo piacerebbe unirsi a noi? Potrebbe ascoltare anche lui.»

Erano quasi arrivate alla libreria, ormai, e Lily si fermò. Anna pensò che avesse visto qualcosa di carino nella vetrina dello Home Sweet Home, ma non era così. La bambina voleva solo attirare la sua attenzione.

«Sarebbe carino per lui», disse con estrema serietà. «Credo che senta la nostra mancanza. Probabilmente gli piacerebbe passare un po' di tempo con noi e ascoltare una storia. Povero Pongo. Magari non parla la stessa lingua di Coco e Minton. E se lui parla il francese dei cani e loro l'italiano dei cani?»

Anna ebbe una stretta al cuore vedendo la malcelata tristezza negli enormi occhi azzurri, ma il fatto che Lily avesse accettato la sua proposta rappresentava un enorme passo avanti. I suoi tentativi di leggerle Scarpette da ballo erano caduti nel vuoto: Lily non aveva avuto nessuna voglia di sentire i racconti su ragazze «che si mettevano in mostra come Chloe» sul palcoscenico.

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«Allora cominciamo stasera», disse Anna, tentando di non suonare troppo eccitata. «Organizzeremo una festicciola di lettura! Tu, io, Mrs Piggle e Pongo.»

«Bene», replicò la piccola, il volto che le si illuminava di nuovo con la repentinità tipica dei rapporti familiari che Anna trovava così sconcertante. «Ooh, chi è il ragazzo che sta parlando con Becca?»

«Quale ragazzo?» Anna seguì la direzione dello sguardo di Lily attraverso la grande vetrina della libreria e vide Becca che, dietro il bancone, chiacchierava animatamente con Michelle e Owen.

Sembrava molto più vivace di quanto Anna l'avesse mai vista negli ultimi tempi e continuava a far roteare l'estremità della treccia mentre parlava, lanciando occhiate in su e in giù con aria timida.

“Dev'essere venuta per parlare dell'impiego part-time nel weekend”, pensò. Chloe aveva più o meno smesso di assillarli in proposito dopo che Phil aveva ceduto e le aveva aumentato la paghetta settimanale invece di farle rischiare un brutto voto agli esami, ma Becca sembrava ansiosa di dare una mano. Probabilmente l'atmosfera tranquilla la attirava ancor più dei contanti.

Anna strizzò gli occhi. In quel momento la ragazza appariva impaziente di cominciare. Davvero molto impaziente. Owen, intento a sfogliare un tascabile, stava ridendo, e anche Becca appoggiata al bancone rideva mentre tentava di farlo smettere e di fargli leggere i brani che gli stava indicando.

«Quello è il fratello di Michelle, Owen», cominciò a spiegare, ma Lily si stava già catapultando nel negozio, spingendo energicamente la porta per fare tintinnare il più forte possibile la campanella.

Michelle sembrò felice di vederla e Becca si rialzò di scatto dal bancone, arrossendo. L'atteggiamento di Owen rimase invariato: affascinante e rilassato.

«Ah, Anna, proprio la donna che cercavo», disse Michelle. «Ti presento la tua nuova assistente del sabato.»

«Esatto!» confermò Becca, sollevando parzialmente le mani in un imbarazzato gesto celebrativo. Mentre lo faceva guardò in tralice Owen, e Anna rammentò di colpo la complessa formula adolescenziale per sembrare disinvolta davanti a ragazzi ancor più disinvolti. Fu felice di non doverla più applicare, ormai.

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«Era un colloquio di lavoro quello che mi sono appena persa?» chiese. «Perché volevo porre alcune domande pregnanti per scoprire se intende tenere il negozio più in ordine della sua camera e così via.»

«Tutto fatto. Non avrei potuto scegliere un'assistente migliore. Becca darà anche una mano a Owen con il sito, nei momenti di scarsa affluenza», spiegò Michelle. «Lo Home Sweet Home ha bisogno di alcuni testi scritti e ho pensato che potremmo mettere on line anche qualcosa su questo posto. Tanto per dargli un marker, sai.»

«Un marker? Finché non avremo un sito vero e proprio, vuoi dire?» chiese Anna. Intendeva fare altre domande ma dietro di lei si udì un fruscio e Lily li raggiunse di corsa.

«Ciao», disse, tendendo la mano a Owen. «Io sono Lily Rose McQueen. Tu chi sei?»

All'improvviso Anna avvertì un empito di istinto protettivo: di solito Lily era la più timida delle tre e Owen non sembrava il tipo di ragazzo abituato a parlare con le bambine. Trattenne il respiro ma, con profondo stupore, lo vide afferrare solennemente la mano di Lily e stringerla, guardandola sempre negli occhi.

Lei parve ipnotizzata.

«Ciao, Lily», disse. «Io sono Owen Bristol Nightingale. E vi prego di non ridere.»

«Bristol?» farfugliò Becca. «È lì che i tuoi genitori...»

«Becca», la ammonì Anna.

«No. Mio padre ha una concessionaria e Bristol è la marca di un'auto. Avete mai chiesto a Michelle qual è il suo secondo nome?»

Anna si voltò verso l'amica. «No!»

«È una cosa privata», protestò Michelle, arrossendo. «Owen, non...»

«Michelle Lotus Corniche», concluse lui con palese godimento.

«Non lo sapevo.» Anna si mise le mani sui fianchi e, scherzando solo in parte, aggiunse: «Ci sono così tante cose che non so di te, Michelle».

«Non a caso», borbottò lei.

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«La maggior parte dei parenti l'ha scoperto solo durante il suo matrimonio», raccontò Owen. «È una fortuna che il secondo nome di Harvey sia Neville: questo ha bilanciato le risate.» Prese una mentina dalla ciotola sul bancone, ignorando l'occhiata furibonda della sorella, e strizzò l'occhio a Becca, che arrossì di nuovo.

«Allora, il sito per la libreria», si affrettò a dire Anna. «Cosa posso fare? E se ci mettessimo una manciata delle nostre cartoline: “Noi amiamo...”? Ne ho compilate io stessa un paio, e ne sto infilando alcune nei sacchetti insieme agli acquisti, con una busta preaffrancata, quindi credo che ne riceveremo un po'.»

Sperava che Michelle avesse notato quante ce n'erano, sparse qua e là sulle scaffalature. Adorava attaccarle, le sembrava che rendessero più vivo il negozio.

«Non mi dispiace scrivere qualche altra recensione», disse Becca.

«Neanche a me!» esclamò Lily.

«Questo significherà leggere qualche libro, prima», le rammentò la sorella.

«Non mi dispiace», ribadì la bambina, che aveva gli occhi sgranati per l'entusiasmo. «Pongo e io ne leggeremo uno stasera, vero, Anna? Possiamo scrivere una recensione insieme, per il sito?» Si voltò a guardare Owen, che annuì.

«Le riserverò il posto d'onore in prima pagina», promise. «Come se la cava Pongo con la dattilografia? Becca mi dice che è un vero testone.»

Anna si chiese quanto a lungo avessero chiacchierato, lui e Becca, perché quest'ultima cominciasse a ragguagliarlo sul suo cane. Tentare di farla parlare generalmente era come cavare sangue da una rapa. Ma in fondo nella libreria c'era qualcosa che sembrava indurre la gente a chiacchierare, non solo nel piccolo gruppo di lettura da loro avviato, ma anche tra le persone che si trovavano in fila e nel retrobottega.

«Lo aiuterò io», disse Lily.

«Bene, se me le spedisci per e-mail posso metterle sul sito di prova», replicò Owen. «Vuoi darmi il tuo indirizzo e-mail?»

Si stava rivolgendo a Becca e Anna vide un fugace cipiglio guizzare sulla fronte di Michelle mentre il fratello prendeva il cellulare per annotarvi i dati. Temeva forse che Becca potesse distrarlo dal suo lavoro? Era più probabile che succedesse il contrario.

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«Owen, ricordati solo che è Anna la responsabile di questa libreria», disse Michelle, indicandola. «Fatti consegnare tutto da lei, così potrà fungere da moderatore.»

«Oh, non temere, sono sicura che le recensioni di Becca saranno perfette», intervenne Anna. «Migliori delle mie, probabilmente. Ha preannunciato il massimo dei voti nell'A-level di inglese.»

Becca borbottò qualcosa e fissò la catasta di libri di Harry Potter sul bancone.

«Sono colpito», commentò Owen. E lo sembrava davvero. «Quindi presto andrai all'università?»

«Becca ha ottenuto un posto alla facoltà di legge di Cambridge», spiegò Michelle, guardandolo di nuovo con aria eloquente. «Ha già abbastanza da fare con il ripasso e il suo lavoro qui, perciò... niente distrazioni.»

Becca si esibì nel consueto alzare gli occhi al cielo per l'imbarazzo misto a un segreto orgoglio e ad Anna venne voglia di abbracciarla.

«Possiamo parlare subito del sito, se vuoi», suggerì la ragazza raggiungendo la macchina del caffè. «Rimango qui fino alle sei. A quanto pare non ci sono molti clienti e io ho un sacco di idee.»

«Sarebbe magnifico», replicò Owen, ma Michelle non lo lasciò finire.

«Magari domani», disse, guidandolo con decisione verso la porta. «Voglio che Owen finisca il sito dello Home Sweet Home, prima. Gillian ci sta preparando dei possibili regali di San Valentino da fotografare, usando articoli della nuova stagione.»

«Gillian vi sta preparando della merce da fotografare?» Anna inarcò le sopracciglia. Di solito Gillian affidava d'autorità a Kelsey le mansioni di poco conto come quella.

«È molto servizievole», spiegò Owen. «Dice che le ricordo suo figlio.»

«Suo nipote», lo corresse Anna. «Darren. Si occupava lui del sito, prima di te.»

«È abbastanza vecchia per avere dei nipoti?» chiese Owen, sbalordito.

Vedendo la studiata immobilità delle sopracciglia di Michelle, Anna capì che si stava sforzando strenuamente di dominare il proprio viso: Owen aveva ammaliato con il suo fascino anche Gillian, impresa non da poco visto che «l'eroe

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intramontabile» della donna era il cantante pop Cliff Richard e lei era convinta che gli uomini non dovessero portare nessun gioiello a parte la fede nuziale.

«Bene, se vi serve qualcosa, io rimarrò qui fino alle sei», disse Anna.

«E io anche», dichiarò con disinvoltura Becca.

«Magnifico!» Owen alzò la mano in un gesto di saluto mentre Michelle lo scortava fuori dal negozio, girandosi per indirizzare loro un'occhiata di scusa.

«Posso prendere un biscotto dalla scatola speciale?» chiese Lily, distogliendo così l'attenzione di Anna da Owen.

«Serviti pure.» Mentre la bambina rovistava rumorosamente nella scatola di latta riservata al personale, Anna guardò Becca impilare e reimpilare distrattamente i libri che aveva di fronte. «Becca, non sei obbligata a ciondolare qui intorno, torna pure a casa, se vuoi. Sbaglio o stasera devi uscire con Josh?»

Josh era il ragazzo di Becca, un futuro scienziato dai capelli rossi che era passato sotto le forche caudine di un paio di cene dai McQueen eppure non era stato dissuaso dal tentare di portarla nei limitati ritrovi mondani di Longhampton. Phil aveva da poco deciso di fidarsi di lui, appena appena, sulla base del fatto che era troppo timido per combinare granché, non giocava a football e suonava l'oboe nell'orchestra della scuola.

«So che tipi sono i giocatori della squadra di football», le aveva borbottato nell'orecchio mentre lavavano i piatti, «e non ricordo che fra loro vi fosse alcun suonatore di oboe.»

Becca si torse l'estremità della treccia. «Ehm.... Ho una tesina da finire. Io e Josh siamo... Lo sai.»

«Va tutto bene?» si informò Anna. Non le piaceva immischiarsi, ma a volte Becca le chiedeva cose che preferiva non domandare alla madre, soprattutto ora che Sarah, nella sua nuova vita, sembrava avere assunto una modalità di eccessiva condivisione di dettagli privati.

«Benissimo», rispose Becca. «Be', no...» Sospirò. «Non lo so. A volte Josh sa essere un po'...» Non concluse la frase nemmeno stavolta e assunse un'espressione disperata. «Irritante?»

«Sono tutti così», affermò Anna. «Non cambiano mai. Imparerai a gestirli meglio.» Si interruppe pensando al marcato silenzio vagamente da martire che

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Phil aveva adottato sulla questione del bambino. E ai depliant sui capanni di lusso comparsi sul suo comodino. «Anche se ci vuole un po' di tempo.»

Becca prese un libro dal bancone – I bambini della ferrovia – e Anna, mentre si versava un caffè, pensò che era una vera fortuna per lei che la sorella maggiore fosse Becca e non Chloe. La situazione avrebbe potuto essere ben più difficile.

Becca faceva del suo meglio, a scuola e a casa, perché voleva accontentare tutti. Portava sulle sue spalle, senza mai lamentarsi, il peso delle enormi aspettative di Phil e Sarah. Sopportava l'autocelebrazione canterina di Chloe e restava seduta a guardare le riproduzioni di scene di Glee allestite da Lily con i suoi giocattoli. I suoi unici veri difetti erano il furtivo utilizzo dei costosi prodotti per la pelle di Anna e l'ossessione per il formaggio cremoso a basso contenuto di grassi.

«Perché non ti rilassi un po'?» le chiese Anna. «Dai un occhio a Lily sul retro e scrivimi una recensione. Tieni, prendi questo caffè.»

Becca afferrò la tazza con un sorriso e si diresse verso il retro del negozio, totalmente inconsapevole di come apparisse aggraziata, con la treccia che le oscillava sulla schiena mentre camminava. Poi si voltò e tornò da lei, posando il caffè per stringerla in un rapido abbraccio.

«Grazie, Anna», disse. «Grazie per il lavoro e grazie per avere convinto papà a lasciarmelo fare. Te ne sono davvero grata.»

«Non c'è di che», replicò lei. Era così piacevole fare qualcosa per le ragazze che fosse soltanto suo. «Davvero.»

Quella sera, Anna portò in camera di Lily la sua copia della Carica dei 101 e lasciò che Pongo la seguisse.

Lui rimase di stucco vedendosi consentire l'accesso al piano superiore senza opposizioni di sorta e annusò in giro nella stanza di Lily, esaminando i pupazzi di peluche uno a uno. Anna ebbe un tuffo al cuore – se la bambina avesse deciso di presentare il dalmata a tutti, avrebbero rischiato di rimanere lì fino a notte fonda –, ma Lily invece picchiettò la mano sullo spazio accanto a sé sul letto.

«Vieni ad ascoltare, Pongo», lo incitò mentre lui, salito sul letto, continuava a girare su sé stesso tentando di mettersi comodo e intanto lanciava occhiatine nervose verso Anna. «Anna ci leggerà una storia su dei cani.»

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La guardò sollecitandola tacitamente a unirsi alla conversazione con il dalmata.

«Ehm, sì. Mettiti tranquillo, Pongo», disse lei. «Hai intenzione di lasciarmi un po' di spazio? Bene. Ora, il modo migliore per fare sì che le immagini vi entrino in testa è chiudere gli occhi e ascoltare.»

«Okay», replicò Lily. Si dimenò sotto il piumone rosa da principessa e chiuse gli occhi. Anna non sapeva quanto sarebbe durato, ma cominciò a leggere comunque. Pongo posò la testa sulle zampe anteriori ed entrò in modalità stand-by.

Nei teneri sogni a occhi aperti in cui lei leggeva storie ai suoi figli immaginari, loro non interrompevano tanto quanto Lily («Perché lui è sposato con Missis e non con Peggy?» «Perché la signora Dearly non ha un lavoro?» «Dov'è Regent's Park? È più grande del parco di qui? Ci sono delle anatre?» e così via). Ci volle parecchio per ingranare, ma dopo un po' Lily smise di sembrare irrequieta e si lasciò coinvolgere nella vicenda dalla voce sommessa di Anna che si alzava e si abbassava nella penombra. Anche Anna si smarrì nella storia, desiderando di trovarsi nella perfezione di casa Dearly, con Nanny Cook e Nanny Butler e la loro intelligente coppia di dalmata, di cui erano padroni amorevoli.

Fu felice che Lily avesse gli occhi chiusi quando arrivò alla parte in cui nascevano i cuccioli di Missis e la povera e affamata Peggy veniva presa dalla strada per contribuire ad allattarli. Da adulta non era mai riuscita a finire quel brano senza scoppiare in lacrime. Non sapeva se Lily fosse ancora sveglia o no ma continuò a leggere comunque di Peggy che teneramente badava a due dei cuccioli di Missis come fossero suoi, e poi cercò di trattenere le lacrime, troppo emozionata per proseguire.

«Stai piangendo?» chiese una vocina assonnata.

«No», rispose lei. Una grossa lacrima le scivolò giù dalla punta del naso.

«Sì, invece. Perché piangi? Non è carino che Peggy abbia trovato dei cuccioli a cui badare?»

«Sì», disse Anna. «Certo.»

«Come te. Tu devi badare a noi.» Lily sembrava soddisfatta della soluzione. Sbadigliò, la bocca rosa e larga come quella di un cucciolo.

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«Credo che basti, per stasera», affermò Anna. «Buonanotte, Lily. Ci vediamo domattina.»

«Pongo può rimanere qui?»

«Starà più comodo nella sua cesta», dichiarò con fermezza lei, indicando il pavimento quando il cane aprì un unico occhio. Lui scivolò giù dal letto e si diresse verso la porta. «Buonanotte.»

Lily si era addormentata.

Anna accostò l'uscio e per poco non fece un salto quando vide Chloe sul pianerottolo dietro di lei; stava uscendo con andatura dinoccolata dal bagno sfoggiando una vecchia vestaglia di Phil e stivali Ugg. Non si intonavano affatto al suo meticoloso makeup.

Aveva palesemente trascorso la serata a perfezionare la tecnica per sfumare il contorno occhi invece di finire la tesina di storia, ma Anna decise di non discutere con lei. Fino a quel momento era in vantaggio con due delle ragazze McQueen: era un'ottima media e preferiva non rovinarla.

«Anna», gemette Chloe. «Ho mal di testa e non c'è più Nurofen nel bagno.» Si strinse con forza la fronte. «Ho così tanto lavoro da fare stasera. Non ho nemmeno iniziato.»

«Hai provato a bere mezzo litro d'acqua? E a staccarti da Facebook?»

Lei emise un tipico verso da adolescente. «Ho bisogno di droghe. Droghe medicinali.»

«Perfetto. Ce ne sono un po' nel mio bagno», disse Anna. «Vado a prenderle. Rimani qui.»

Chloe attivò il fascino McQueen abbastanza a lungo perché un dolce: «Grazie» emergesse dal buio tinto dal kohl, poi riscivolò nella sofferenza adolescenziale.

In camera sua Anna ignorò l'ammasso di indumenti che Phil aveva lasciato accanto – invece che dentro – la cesta dei panni sporchi e aprì il mobiletto del bagno attiguo. Infilò dentro una mano per prendere il paracetamolo e l'occhio le cadde sullo spazio vuoto in cui normalmente lasciava il blister di pillole anticoncezionali. La clinica le aveva spedito una lettera per ricordarle che doveva rinnovare la prescrizione e prendere appuntamento per un check-up ma lei, tenendo fede al suo recente proposito, aveva deciso di ignorarla.

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Fissando però lo spazio vuoto nell'armadietto dei medicinali avvertì una fitta di senso di colpa. In un angolino della sua testa una vocina le disse che avrebbe dovuto parlarne di nuovo con Phil, ma una voce più sonora, proveniente da un luogo meno razionale, ribadì che in effetti loro due ne avevano parlato. Ne avevano parlato a lungo ed erano giunti a una decisione concorde. Lui aveva brontolato un po', ma non aveva detto categoricamente di no. Sapeva quali fossero i piani della moglie.

Se davvero Phil non voleva altri figli, argomentò lei, poteva occuparsi lui della contraccezione. Del resto, sotto quel punto di vista, le sue figlie e le loro sfiancanti routine stavano già facendo un ottimo lavoro.

Chiuse lo sportello dell'armadietto e intravide il proprio riflesso nello specchio. Gli occhi, ancora macchiati di mascara da quando aveva letto di Peggy che faceva da madre ai cuccioli di un'altra, brillavano di una determinazione che la fece apparire diversa persino a sé stessa.

Sbatté le palpebre e il suo viso assunse l'espressione che le era più familiare: un'aria stanca.

«Anna», gemette Chloe dalla sua camera, abbastanza forte per svegliare Lily. «La mia testa. Sbrigati.»

Almeno, quando fosse finalmente arrivato il suo bambino, lei sarebbe già stata abituata all'incessante piagnucolare.

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Capitolo 10

«Danny il campione del mondo è la storia di un padre e un figlio così tenera che riesci quasi a perdonare il bracconaggio illegale.»

Rory Stirling

Durante la pausa pranzo Rory Stirling faceva spesso un salto in libreria per curiosare sugli scaffali ma, per quanto fosse felice di chiacchierare con Anna di libri e latino, non menzionava mai la famiglia, una fidanzata o il misterioso passeggino che aveva trovato così arduo ripiegare. Anna lasciò quindi briglia sciolta all'immaginazione, riguardo all'avvocato; a suo parere lui aveva il tipo di viso di una persona meditativa, con i capelli che continuavano a cadergli sugli occhi. Quando si trovava nel negozio e sapeva che lui era al piano di sopra teneva drizzate le orecchie per captare eventuali suoni tipici di un bebè, ma non sentì mai nulla, a parte l'occasionale raffica di sonori commenti sul cricket.

Un giorno, tuttavia, mentre durante la pausa pranzo sostituiva Anna impegnata nella sessione di lettura ad alta voce alla Butterfields, Kelsey aveva visto Rory insieme a un bimbetto.

«Una scena così dolce! Lui non sapeva cosa fare», le riferì poi la ragazza, gli occhi sgranati per l'indulgenza. «Sembrava uno di quei padri a cui hanno appena passato il bimbo perché se ne prenda cura e che è tutto un: “Wow! Come va tenuto?”. Un vero tesoro. Ed era un vero tesoro anche il piccolo. Un amore, con quelle grosse guanciotte rosee che ti veniva voglia di pizzicare.»

«Il bambino era suo, secondo te?» Anna era affascinata.

«Lui non pare tipo da rubarne uno», ribatté Kelsey, stupita.

«Non è questo che intendevo», precisò lei. «Hai avuto l'impressione che se ne stesse occupando al posto di un amico oppure che fosse suo? Di solito lo si capisce.»

Non le era parso che Rory emanasse le vibrazioni da neopapà che captava intorno ad altri uomini diventati da poco genitori. Ormai il suo cervello divideva automaticamente le persone in genitori e non genitori, il che era stupido, lo sapeva, visto che lei stessa si trovava in una zona intermedia, ma il desiderio di maternità cominciava ad avere strani effetti sulla sua psiche.

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«Non lo so. È entrato qui e ha chiesto qualcosa tipo: “Quale libro mi serve per un bambino di questa età?”.» Kelsey mimò qualcuno che, in preda al panico, indica un frugoletto alto circa un metro. «Non ne avevo la minima idea. Ha finito per prendere uno di quei grandi libri sull'esercito con un sacco di foto. Non so proprio che tipo diventerà quel povero piccolo, crescendo.»

«Dev'essere un figlioccio o un nipote», ipotizzò Anna in tono meditabondo. «Chissà se gli serve una mano.»

«Sinceramente direi che ha bisogno di tutto l'aiuto che riesce a trovare», replicò Kelsey. «Non so dire chi sembrasse più stravolto, fra lui e il bambino.»

Pochi giorni dopo, come per un fenomeno di sincronicità, Anna incontrò Rory davanti alla Butterfields, senza alcun passeggino o bimbo al seguito.

L'uomo stava uscendo mentre lei entrava: aveva le spalle incurvate per ripararsi dal turbinoso vento di febbraio e lo sguardo fisso a terra. Sembrava perso in un mondo tutto suo, come capitava spesso anche ad Anna, dopo avere trascorso con gli anziani della casa di riposo un'ora che induceva a profonde riflessioni.

«Rory!» esclamò, spingendo indietro il cappuccio bordato di pelliccia del suo giaccone per mostrargli chi lo chiamava.

Lui alzò la testa di scatto e parve stupito di vederla lì.

«Ehilà», disse, spingendosi indietro i capelli con un gesto familiare, e lei rimase colpita dal suo marcato accento scozzese. Se lo si fosse sentito parlare al telefono, pensò, ci si sarebbe immaginati un vigoroso nobile in kilt, scarmigliato e avvenente. Non che Rory non fosse avvenente. Sfoggiava un certo fascino spigoloso, e occhi intelligenti. Anna passò mentalmente in rassegna il suo elenco di eroi della narrativa e lo inserì nella casella «Doctor Who»: infagottato nelle sue sciarpe, pasticcione e troppo intelligente per relazionarsi granché bene con le persone. Il che rendeva ancora più difficile immaginarselo con un bimbetto, ma nella vita erano successe anche cose più strane.

«Cosa ci fai qui?» gli chiese. «Sempre che non sia una domanda indiscreta.»

«Non lo è affatto. Un cliente voleva consultarmi a proposito di un testamento, e già che ero qui ho fatto un salto anche da Cyril Quentin. Avevo alcuni libri da dargli.» Indicò Anna come se stesse collegando le cose. «Sei venuta per la lettura che si stanno preparando ad ascoltare?»

Lei annuì. «Vengo tutte le settimane.»

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«Non vedono l'ora che inizi.» Lui sorrise, strizzando gli occhi per proteggerli dal vento. «Cyril si stava conquistando una poltrona. C'è stata un po' una corsa per accaparrarsi un posto. Be', nei limiti in cui si può correre con un deambulatore. Diciamo un lento strascicare i piedi per accaparrarsi un posto.»

«Davvero?» Anna ne fu felice. «Sono perennemente in cerca di nuovi volontari, se ti interessa. È soltanto una volta alla settimana, per un'ora al massimo. Meno, se lo fai dopo pranzo e loro sono tutti un po' assonnati.»

Rory ci pensò su per un secondo, poi replicò: «Perché no? Faccio comunque un salto qui per vedere Cyril, tanto vale che intrattenga le truppe».

«Potresti formare un gruppetto scissionista per gli uomini. Un po' di Hornblower o un romanzo di Len Deighton. Diventano un po' irrequieti con Maeve Binchy.» Lei stava scherzando, almeno in parte, ma lui annuì per dirsi d'accordo.

«Sono un fan della serie con protagonista Hornblower. Sarebbe un piacere, per me. Scegli tu il libro o esiste qualche elenco centralizzato?»

«Ci sono dei suggerimenti, ma io tendo a lasciarmi guidare da quello che loro vogliono sentire. Quasi nessuno di loro si tira indietro quando si tratta di avanzare proposte.» Anna fece una smorfia. «Ti indicherò mia suocera. È lei quella da cui guardarsi.»

«Magnifico», replicò lui. «Quale avvocato non ama il suono della propria voce?»

Anna sorrise. Rory era leggermente scontroso, ma chiunque avesse un proprio sistema peculiare per archiviare i romanzi in base allo stato d'animo, come lui le aveva detto che faceva, non poteva essere totalmente malvagio, a dispetto di quanto aveva borbottato Michelle. Del resto Michelle provava una strana e istantanea antipatia per alcune persone e Anna sapeva che odiava sentirsi dire cosa fare nell'ambito del suo lavoro.

«Non voglio sembrare un'impicciona», disse, infilandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli biondi, «ma era il tuo figlioccio quello che è venuto a trovarti l'altro giorno? Perché, vedi», aggiunse, cercando affannosamente un valido motivo per porre una domanda così personale, «abbiamo formato un gruppo di lettura di neogenitori con bebè al seguito, che si riunisce sul retro, e se tu volessi portarlo, chiedere qualche dritta alle nostre mamme, sono sicura che ti accoglierebbero con gioia.»

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Sperava che lui la interpretasse come l'offerta sincera che era, ma Rory si accigliò, facendosi comparire due lievi solchi fra le sopracciglia di un biondo rossiccio.

«Ehm, in realtà era mio figlio», spiegò.

«Davvero?» La parola le uscì di bocca in tono troppo sonoro e sorpreso, e il vento non la portò via con sé come lei aveva sperato. Il suo stupore rimase sospeso nell'aria in mezzo a loro.

«Si chiama Zachary.» Le labbra di Rory formarono una linea sottile. «Non vive con me, ovviamente. Lo vedo soltanto quando sua madre scende in questa zona del paese, il che non capita molto spesso.»

«Oh.» Anna si sforzò di dare un senso a quelle informazioni. Lui non sembrava disposto a fornire ulteriori dettagli. «Scusa, non mi ero resa conto che fossi spos...» cominciò a dire, poi capì che neanche quello era un commento adeguato.

«Non lo sono. Non ci siamo mai sposati.» Lui inarcò un sopracciglio. «Esther e io ci siamo lasciati qualche mese prima che nascesse Zachary.»

“Hai troncato la relazione mentre la tua fidanzata era incinta?” Stavolta fu Anna a serrare le labbra, per impedire alla domanda di uscirle di bocca. Trovava difficile crederci. Non era una delle cose peggiori che si potesse fare? Rory non sembrava tipo da abbandonare la fidanzata. Sembrava...

Un lettore forte?

«Altre domande?» aggiunse lui, sulla difensiva.

Lei scosse il capo. Non erano affari suoi, eppure si sentiva delusa. Come potevi concepire un figlio e poi andartene semplicemente? Lasciar perdere così?

Rory la salutò con un cenno del capo e tornò verso la sua auto. Anna lo osservò e poi si voltò in fretta, prima che lui si accorgesse che lo stava guardando, e si avviò spedita verso la casa di riposo, nel vento pungente.

“Anche le persone che amano Wodehouse possono essere dei bastardi”, si disse mentre Cyril Quentin incrociava il suo sguardo e le sorrideva attraverso il cerchio di sedie.

Ma non le piaceva quando lo erano.

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Le Apricotz provavano nella zona insonorizzata dello scantinato sin da quando Chloe era tornata da New York con la sua scorta di cd e i nuovi cosmetici da drugstore. Dapprima con l'amica di Chloe, Paige, poi sostituita dall'amica di Tyra, Ellie (che, enorme punto a suo favore, vantava una Wii dotata di quattro controller per giocare con loro a Just Dance 2), il bisogno di sguinzagliare il gruppo musicale contro il pubblico ignaro era diventato una forza trainante nella vita di Chloe.

Quel giorno le suppliche erano iniziate in auto, in direzione della scuola, erano riprese non appena lo zaino di Chloe aveva colpito il terreno accanto alla portiera anteriore e stavano raggiungendo un crescendo durante la cena in cui era riunita tutta la famiglia, durante la quale Anna sperava di scoprire cosa avessero fatto le ragazze a scuola. Quella sera, però, la cena si stava dimostrando più che altro un'utile piattaforma che consentiva a Chloe di provare e riprovare il discorso: «Dovete ammettermi al campo reclute, al mio coniglietto rimangono solo tre settimane di vita, darò il mille per cento», con cui si proponeva di convincere Simon Cowell, il giudice solitamente più severo.

«Devo partecipare alle audizioni», ripeté per la terza volta in dieci minuti. «Il prossimo mese si terranno a Birmingham. Oh, e ho bisogno che tu firmi il modulo.»

«No», rispose Phil, per la terza volta. «Ora passami le verdure che ho impiegato parecchi minuti a cuocere nel microonde.»

«Mi spiace, papà, non te lo sto chiedendo, te lo sto dicendo.» Chloe gli rivolse un'occhiata perplessa perfettamente modulata che la fece sembrare assai più vecchia dei suoi sedici anni. «I genitori di tutte le altre hanno acconsentito. Le audizioni sono fissate per il mese prossimo, il ventuno. Se ti andasse di accompagnarci sarebbe fantastico.»

«Non ho forse detto di no?» chiese Phil, ma stavolta suonò meno convinto. «Sono sicuro di aver appena detto di no. Becca, mi hai sentito dire di no?»

Becca non alzò gli occhi dal testo di storia, posato accanto al suo piatto, che stava leggendo. «Io ho sentito un no, papà, ma quel suono non ha lo stesso significato nella lingua di Chloe.»

«Qual è il suono che dovrei emettere per indicare un no?»

«Non esiste. Hai provato con il linguaggio dei segni?» Becca girò una pagina.

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Chloe fece il suo sorriso felino e si gettò una ciocca di capelli dietro una spalla.

«Possiamo riprendere a gridare?» implorò Phil. «Almeno in quel caso sapevo che mi stavi ascoltando davvero, per potermi contraddire.»

«Sto cercando di dimostrarmi matura, al riguardo», ribatté Chloe. «Credevo fosse questo che volevi, che mi comportassi da adulta. Sei tu quello che non si impegna nella discussione.»

Anna era costretta ad ammirare le tattiche di Chloe, che sospettava lei avesse imparato da Sarah: ripetere più e più volte le sue richieste in tono pacato e leggermente condiscendente, come se stesse negoziando l'assegnazione delle ferie con un impiegato appena assunto, finché non otteneva il risultato voluto. Anna non era stata presente durante il divorzio di Phil e Sarah, ma dalle occasionali conversazioni fra Phil e il suo avvocato sentite durante i primi passaggi di consegne aveva ricavato l'impressione che quello fosse l'approccio di comprovata efficacia utilizzato da Sarah.

Il metodo stava riscuotendo un successo sorprendente contro l'altrettanto irritante tattica di Phil di fare lo spiritoso finché l'interlocutore non gettava la spugna. Non per la prima volta, lei si chiese quanto del primo matrimonio del marito vedesse riflesso nel modo di comportarsi delle sue figlie.

«È solo che non credo sia una buona idea che tu...» cominciò a dire Phil, ma Chloe era già passata alla fase seguente.

«Anna, potresti portarmi tu, se papà non può», dichiarò all'improvviso, proprio mentre lei stava prendendo dell'altra verdura. «Papà, e se mi accompagnasse là Anna? Questo permetterebbe di aggirare l'imprecisato enorme problema che ti crea l'eventualità che io faccia questa cosa che desidero così tanto fare?»

«Io...» Il cervello di Anna si paralizzò mentre lei tentava di capire cosa avrebbe dovuto dire.

Phil la guardò torvo, come tentando di comunicarle telepaticamente qualcosa, ma era già troppo tardi. Vedendola esitare, Chloe si lanciò istintivamente sulla preda per sferrare il colpo di grazia.

«Forse Anna è comunque la persona più adatta per accompagnarci. Insomma, non diventerai tutta strana e iperprotettiva, vero? Non sei mia mamma. Inoltre sei giovane, capisci perché è davvero, davvero importante per me e la band ottenere questo tipo di visibilità.»

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Adesso Becca e Lily la stavano guardando, interessate a scoprire quale sarebbe stata la sua reazione. Lei sapeva che quest'ultima sarebbe stata inserita nel «grande database delle reazioni di Anna», che avrebbe funzionato come termine di paragone e codice di riferimento per future richieste irragionevoli.

Era dannatamente ironico, pensò, che qualcuno che non teneva a Chloe quanto Phil e Sarah fosse ora determinante per la ragazza. Mentre, al contempo, favori di quel tipo – fungere da taxi, preparare torte, fare interminabili spedizioni di shopping – venivano richiesti come prova del fatto che ci tenesse, che fosse pronta ad affrontare lo sforzo extra perché non aveva l'obbligo genetico di farlo. E quando la cosa le veniva presentata come una sorta di speciale ricompensa volta a rinsaldare i rapporti, lei come poteva rifiutare?

«Non puoi pretendere che Anna lasci perdere tutto per stare dietro ai tuoi comodi», affermò Phil, passando a un nuovo filone di discussione. «Nel weekend deve stare in libreria.»

«Cos'è più importante?» chiese Chloe, esaurendo infine la gentilezza. «Il suo lavoro o la sua figliastra? Non significo niente per nessuno di voi due? Volete che passi tutta la vita in questo porcile e muoia qui? Facendo qualche lavoro noioso?»

«Prima dovrai procurartelo, il lavoro», sottolineò Becca. «Dubito che qualcuno assuma imitatrici di Christina Aguilera, al momento.»

«Stai zitta, Becca», ruggì Chloe. «Papà, dille di stare zitta.»

Lily non aprì bocca ma osservò la discussione con gli occhi sgranati, girando la testa ora a destra e ora a sinistra come lo spettatore di una partita di tennis, mentre le frecciatine saettavano da una parte all'altra.

«Scommetto che la mamma ci accompagnerebbe.» Chloe gettò indietro i capelli e sfidò chiunque a contraddirla. «Ha detto – non è vero, Lily? – che mi avrebbe portato ad American Idol. Anna dovrebbe accompagnarci. È suo dovere. È quello che una vera madre farebbe per sua...»

«Chloe!» disse seccamente Phil, ma non prima che tutte le persone sedute intorno al tavolo fossero trasalite all'unisono.

«Be', è vero», dichiarò lei in tono di sfida.

Anna tentò di celare l'inaspettata sensazione di bruciore alla gola. «Possiamo parlarne», disse con tutta la calma possibile. «Perché non mi dai il numero della madre di Tyra, così posso chiederle quali sono i programmi?»

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«Anna! È, insomma...» La luce tornò sul viso di Chloe.

«Il mio non è un no», si affrettò a precisare lei. «Ma nemmeno un sì.»

«È un: “Parleremo con la madre di Tyra”», affermò Becca, traducendo senza alzare gli occhi dal suo libro. «Dovreste dire ai giudici di X Factor che possono usare questa formula.»

Chloe scrollò la frangia e spinse indietro la sedia. «Vado nello scantinato a provare», annunciò. «Non disturbatemi, okay?»

«Non lo faremo», ribatté Phil. Adesso suonava conciliante, di nuovo il padre che stravedeva per le figlie. «Mandaci un sms se ti serve qualcosa.»

Anna osservò la sua espressione mentre gli occhi di lui seguivano Chloe fuori dalla stanza e desiderò che, soltanto per una volta, il marito le dicesse di smettere di fare i capricci in quel modo. Ma Phil non lo faceva mai.

Lui non aveva alcun problema a stabilire le regole con Lily e Becca, ma quando si trattava di Chloe sembrava avere paura tanto di negare quanto di concedere. Anna si chiese se fosse perché Chloe somigliava così tanto a Sarah. Perché le somigliava davvero, finanche nel mento appuntito. Forse dipendeva dal fatto che lei fosse quella più traumatizzata dal divorzio dei genitori? O forse solo dal suo essere un'adolescente? Qualunque cosa Phil dicesse, Chloe voleva l'esatto contrario; i libri segreti di Anna su come crescere i figli confermavano che Chloe era proprio in quel tipo di età.

Lei riusciva a ricordarsi quegli anni solo facendo riferimenti incrociati alle raccolte dei grandi successi del momento e ai libri. I quindici anni per lei erano stati Douglas Adams, tutte le sorelle Brontë, i Pulp e i Blur, e non continue discussioni con il padre, voli negli States ogni tre mesi per andare a trovare la madre e audizioni per dei talent show. Come poteva dare a Chloe quello di cui aveva bisogno se non sapeva cos'era? Phil conosceva meglio la figlia. Perché non poteva farlo lui?

Il marito la sorprese a fissarlo e fece una smorfia.

«È in questo che si trasformano quei graziosi frugoletti», disse. Il suo tono era disinvolto, ma i suoi occhi stavano raccontando una storia diversa.

Lei sapeva cosa lui stesse pensando. “Prova a immaginare di riaffrontare tutto questo da capo, quando avrò abbondantemente superato la cinquantina.”

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«Non necessariamente», interloquì Becca, ancora assorbita dal suo libro. «Pronto?»

«No», confermò Anna. «Non necessariamente.»

Becca andò a studiare portandosi dietro una mela mentre Lily si rifugiava in soggiorno; Pongo le si raggomitolò furtivamente accanto sul divano e lei cominciò a giocare con il Nintendo ds posato sulla sua schiena.

Anna sparecchiò mentre Phil versava sugli avanzi della torta di mele la crema pasticciera rimasta e rimaneva seduto lì a piluccare nel piatto di portata con aria sconsolata.

«Potresti darti una mossa?» chiese lei. «Ho bisogno del tavolo per programmare le prossime attività del negozio.»

Lui la guardò. «Avresti potuto spalleggiarmi», borbottò, volgendo lo sguardo verso lo scantinato.

«Io avrei potuto spalleggiare te?» Anna continuò a riempire la lavastoviglie. «Come? Cosa avrei dovuto dire?»

«È evidente, non trovi?» A quanto pareva le rotelline del cervello di Phil avevano girato a pieno ritmo. «Non voglio che mia figlia saltelli seminuda davanti alle telecamere, permettendo a un branco di idioti di farla apparire ridicola.»

Anna si appoggiò al tavolo, di fronte a lui. Ignorò la puntualizzazione: Mia figlia. «Avanti, Phil, sai quanti tipi strambi fanno i provini per quel programma?» sibilò. «Migliaia. Lei dovrebbe essere molto, molto scadente per arrivare ad apparire ridicola.»

Lui fece una smorfia e abbassò la voce. «Sappiamo quanto è scarsa?»

«Non intendevi dire: “Quanto è brava?”» domandò Anna. «L'hai ascoltata di recente? Canta durante l'intero tragitto da e per la scuola. Fa la radiocronaca. In forma di canzone. E a volte i versi sono persino in rima.»

Phil assunse un'aria addolorata. «Anna, non amo il canto, lo sai. C'è un motivo se ho fatto insonorizzare quello scantinato dai muratori. Amo Chloe più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma persino io mi accorgo che non è Mariah Carey. A parte le richieste assurde. Di quale gradazione di scadente stiamo parlando?»

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«È... piuttosto brava», affermò Anna, tentando di essere obiettiva. «Inoltre non sarà da sola», aggiunse. «Ci saranno anche le altre tre, chiunque esse siano in quel momento.»

Phil lasciò cadere il cucchiaio sul piatto vuoto. «Ma non è questo il punto, vero?» chiese con aria frustrata. «Si comporta come se avesse vent'anni, ma alla fin fine è ancora la mia bambina. Se la accompagno finirò solo per comparire io stesso in tv per avere picchiato i giudici se non la incoronano vincitrice seduta stante. In tutta sincerità preferirei essere il padre crudele che non le lascia fare le audizioni, piuttosto che vederla in lacrime. Non potrei sopportarlo.»

Anna lo abbracciò e gli diede un bacio sulla testa. «Tenerone che non sei altro. Non dipende affatto dalla tua riluttanza a passare l'intero fine settimana in fila con migliaia di altre Chloe?»

«Non dirlo nemmeno.» Phil chiuse gli occhi e fece oscillare la mano nel gesto tipico di un cantante soul talmente convincente da indurla a chiedersi se lui avesse detto la verità sostenendo di non guardare mai i talent show.

Anna si lasciò cadere sulla sedia accanto alla sua. «Neanch'io voglio vederla in lacrime, ma Chloe non parla letteralmente d'altro. Se non la lasci andare chiederà di volare negli States per American Idol. Non permetterle di ritrasformare la faccenda in: “La mamma mi vuole più bene del papà”, con contorno di: “Papà mi considera una pessima cantante, ma la mamma crede in me e nel mio talento”.»

«Tipico di Sarah.» Phil alzò gli occhi al cielo. «Gli esami di Chloe sono ormai imminenti. Sarah dovrebbe sollecitarla a concentrarsi su quelli.»

«Allora dille che può andarci se prende buoni voti. Oppure se viene con me a leggere ad alta voce per sua nonna o dà una mano in libreria o altro.»

«Sei così saggia.»

«È tutto relativo.»

«Sì, bene, scommetto che è stata Sarah a convincerla a fare questa cosa. Era esattamente come Chloe, alla sua età, recitava in tutti i musical della scuola. È stata Sandy in Grease. Passava tutto il giorno a passeggiare in giro per la scuola con i suoi pantaloni di pvc “per entrare nella parte”. L'unica cosa a cui pensassimo noi ragazzi era come se li infilava e sfilava.» Si interruppe e parve colpito da un pensiero sgradevole. «Spero che Chloe non indossi niente del genere.»

Anna mise in lavastoviglie l'ultimo piatto e non fiatò.

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Le riusciva difficile immaginare Sarah con dei pantaloni di pvc, o a quindici anni, se per quello. L'aveva incontrata solo una manciata di volte, ma la donna era sempre apparsa curatissima, la perfetta addetta alle risorse umane. Era quella la cosa strana: Anna non era mai gelosa del matrimonio di Sarah e Phil. A causarle fitte di dolore erano gli accenni di Phil all'essere stati genitori insieme, prima del divorzio. Le nascite, i primi passi, la fatina dei denti. Cose che lei non sarebbe mai riuscita a condividere, anche se le ragazze facevano ormai parte della sua vita.

«Spero che canti meglio della madre», affermò Phil, insinuandosi nei suoi pensieri. «Sarah non ha azzeccato una sola nota durante l'intero spettacolo, ma non se ne è accorto nessuno. Portò i pantaloni di pvc per settimane. Ottennero la parte prima di lei.»

Non c'era granché che Anna potesse ribattere, e si stava sforzando di escogitare una risposta che non risultasse indelicata né ispirata dalla gelosia quando Lily la chiamò dal soggiorno.

«Anna!»

«Sì?»

«Pongo vuole la sua storia adesso, per favore.»

«Digli di prepararsi per andare a letto, prima», replicò lei. «Poi leggeremo un capitolo. Due se si assicura che tu ti lavi bene i denti.»

Phil la guardò a bocca aperta. «Pongo vuole una storia?» ripeté. «Mi stai prendendo in giro. Come sei riuscita a convincere Lily a farsi leggere qualcosa prima di dormire?»

«Non ne sono sicura», ammise Anna. «Ma a quanto pare Pongo lo adora.»

E anche Lily. Ormai avevano quasi finito La carica dei 101 e Anna aveva persino scoperto la piccola a leggere da sola, una mattina.

«Vuoi unirti a noi?» domandò.

La bocca di Phil si incurvò e lei si accorse che lui voleva dire di sì, ma poi scosse delicatamente la testa.

«No, è tutto a posto», disse. «È una cosa tua. E io non faccio le voci bene come te.»

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Più tardi, al piano di sopra, quando lei era ormai vicina alla fine del capitolo e le palpebre di Lily si stavano abbassando diventando sempre più pesanti mentre Pongo già russava al suo fianco, Anna alzò gli occhi e sorprese il marito a osservarla dal vano della porta socchiusa.

Lui sorrise e accostò un dito alle labbra perché lei non si fermasse, poi rimase ad ascoltare mentre Anna terminava la parte sui cuccioli che si rotolano astutamente nella fuliggine per celare le loro macchie rivelatrici. Quel pezzo la commuoveva sempre, quindi stava facendo parecchi sforzi per non piangere.

Lily premiò la performance con un sonoro russare.

Anna posò il libro, accese la luce notturna della bambina e tirò il collare di Pongo per portarlo al piano di sotto. Sentiva lo sguardo di Phil su di lei e si tenne stretto quel momento, sperando che potesse in qualche modo bilanciare il recente malumore per Chloe.

“Vedi”, avrebbe voluto gridare mentre indicava la scena tranquilla, “potrebbe essere così!”

Phil non disse nulla ma la cinse con le braccia mentre lei socchiudeva la porta della camera di Lily lasciando la fessura di tre centimetri esatti su cui la bambina insisteva. La strinse a sé e le diede un bacio sulla fronte con una tenerezza che Anna trovò quasi insopportabilmente dolorosa.

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Capitolo 11

«Un cucciolo abbandonato, un cane campione nella corsa e un compagno fedele – Best Mate, Brighteyes, Paddywack, ovunque lui sia, qualsiasi sia il suo nome – in Born to Run insegna a ogni lettore che c'è sempre speranza, appena dietro l'angolo...»

Laura West

A livello personale Michelle odiava il giorno di San Valentino – che riteneva roba esclusivamente per adolescenti e persone la cui relazione durava da meno di un anno –, ma dal punto di vista delle vendite era uno dei suoi appuntamenti preferiti.

Comprò parecchio spazio pubblicitario per entrambi i negozi sul giornale locale e i risultati furono soddisfacenti. Lo Home Sweet Home esaurì qualsiasi cosa rossa e a forma di cuore con una settimana di anticipo, costringendola a tirare fuori la nuova gamma di trapunte che aveva depositato nell'appartamento al piano di sopra. Andarono esaurite anche quelle, il che riuscì solo ad accentuare il suo entusiasmo per l'intuizione avuta in merito alla biancheria da letto.

Ma in libreria Anna ebbe un giorno di San Valentino persino migliore. I bouquet di libri «Senza calorie» andarono esauriti, così come i kit «Leggi il tuo eroe romantico» per single. Lei e Michelle decisero di mettere in vetrina dei cuori di cioccolato che i clienti potevano comprare per i rispettivi innamorati. Ognuno di essi invitava poi a uno speciale regalo di San Valentino all'interno del negozio, il che consentì loro di sbarazzarsi di parecchi libri di poesia usati, oltre che di un sacco di libri per bambini tipo Indovina quanto bene ti voglio e Winnie the Pooh.

Tutto sommato fu una buona settimana per Michelle, guastata solo da un grosso biglietto d'auguri imbottito mandato da «un ammiratore» che non si prese il disturbo di camuffare la propria calligrafia o cancellare il timbro postale di Kingston. Lei fu costretta a trascinarsi fino all'ufficio di smistamento per ritirarlo perché non passava dalla porta, e poi a rispondere a una telefonata della madre che voleva sapere se aveva «ricevuto dei biglietti, quest'anno».

Pensò di mentire negando, ma sapeva che l'unico risultato sarebbe stato l'invio di un altro biglietto. Non osò nemmeno rispondere: «Ne ho ricevuti parecchi», nel caso anche quello venisse riferito a Harvey. Disse invece alla madre che sì, il

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biglietto di Harvey era arrivato e lo aveva aperto Owen, insieme alla pila di quelli indirizzati a lui.

L'ultima parte era vera. A Owen ne erano arrivati circa sette, quasi tutti acquistati allo Home Sweet Home.

Dopo una breve esplosione di romantica luce solare quasi primaverile, nelle settimane successive il clima si fece tetro e le ombre parvero tornare in tutti gli angoli. Un giorno Kelsey si rifiutò di sostituire Anna che andava a prendere le ragazze a scuola nel pomeriggio, quando una nuova malinconia calava sul negozio.

«Là dietro c'è qualcosa che mi mette i brividi», spiegò, entrando con riluttanza nella libreria. «Ho sentito dei rumori. Sul retro.»

«Che tipo di rumori?» Michelle smise di sistemare fiori di seta su una pila di bouquet di libri per rivolgerle un'occhiata che ammoniva: “Non fare la furba con me”. Kelsey aveva la tendenza a provare sensazioni bizzarre, di solito quando sentiva approssimarsi del lavoro pesante.

«Non saprei. Come se là ci fosse qualcuno. A osservarmi.»

«Sei sicura che non si tratti di Rory che si muove al piano di sopra?» chiese Anna, recuperando le tazze di caffè vuote nell'angolo riservato ai bambini. Il gruppo di amiche e neomamme era appena andato via, ma non prima che lei le convincesse a comprare una pila di libri di Christine Pullein-Thompson sostenendo che erano più economici di un vero pony. «Magari è suo figlio.»

«Già, può darsi che lui stia montando un box per il piccolo», commentò Michelle in tono sardonico.

Anna le scoccò un'occhiata di rimprovero. Da quando era tornata di corsa con l'inaspettata notizia che «Rory il topo da biblioteca» era in realtà «Rory il traditore», lui era diventato una sorta di argomento di conversazione fisso nei momenti di quiete. Visto che né Michelle né Kelsey volevano partecipare al gioco «Cosa sono diventati i Cinque in età adulta» proposto da Anna, avevano preso invece a riflettere su quali tragiche o drammatiche circostanze potevano aver indotto un uomo altrimenti rispettabile come lui a piantare in asso la fidanzata incinta.

Michelle non mostrava la minima compassione; le sembrava evidente che Rory era il tipo d'uomo capace di leggere un libro sull'allattamento per poi dire

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alla moglie che lo stava facendo nel modo sbagliato. Kelsey gli riservava una limitata comprensione («Ho visto un programma in tv su uomini che non sono pronti a diventare padri perché fondamentalmente sono ancora dei bambini...»). Soltanto Anna ipotizzava validi motivi per cui una persona tanto gentile per andare a trovare un anziano signore in una casa di riposo poteva lasciare una donna incinta, e persino in quel caso Michelle si accorgeva che l'amica lo diceva solo perché era fondamentalmente incapace di essere cattiva.

«I rumori arrivavano decisamente del retrobottega, non dal piano di sopra», insistette Kelsey. «Li ho sentiti e sono andata a controllare, ma non c'era niente.»

«Quando è successo?» chiese Anna, preparandosi ad assumere un atteggiamento forense con la ragazza.

«L'altro ieri, nel pomeriggio, dopo che sei andata a prendere Lily. Ho sentito muoversi qualcosa là, ma quando sono andata a vedere non c'era nessuno. Soltanto una copia del Giardino di mezzanotte per terra. Proprio al centro della stanza.» Kelsey aveva gli occhi sgranati.

«No», disse Anna fiocamente. «Il giardino di mezzanotte?»

Michelle si voltò a guardarla, in cerca di chiarimenti. «Il libro è significativo?»

«Vuoi dire che non... No, certo che non l'hai letto. Parla di un fantasma», replicò Anna. «E di un bambino che attraversa un giardino stregato e incontra una bambina che... Non voglio rovinarti la sorpresa», concluse. «Dovresti leggerlo.»

«Lo segnerò sulla mia lista. Senti, Kelsey», disse Michelle, «se c'è un fantasma dev'essere quello di Agnes Quentin, e lei lascerebbe in vista dei volumi su come gestire una libreria.»

«Non voglio rimanere là da sola.» Kelsey assunse un'aria ostinata. «Anche se sono disposta a farlo nel caso Owen mi faccia compagnia...»

«No», replicarono in coro le altre due.

«Preferisco che Owen stia dove posso vederlo», aggiunse Michelle.

Kelsey incrociò le braccia. «Be', allora dovrai chiedere a Gillian: lei sta dicendo di voler chiamare il prete della sua parrocchia perché spruzzi dell'acqua santa o faccia qualsiasi altra cosa vada fatta.»

Michelle sospirò. «Magnifico.» Cosa aveva detto a Gillian? Se Kelsey non fosse stata una così perfetta bacchetta da rabdomante per la base clienti nella

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fascia d'età 15-24, lei avrebbe riflettuto molto attentamente su quel comportamento da diva. Soprattutto quando Becca si stava rivelando una studentessa così sagace nell'arte della vendita al dettaglio.

«Devo andare, Michelle», tagliò corto Anna, guardando ansiosamente l'orologio. «Devo portare Lily all'appuntamento con il medico e sai come reagiscono se arrivi in ritardo.»

«Vai pure», replicò lei. «Non preoccuparti di tornare. Chiudo io, stasera. E tu», aggiunse indicando Kelsey, «vai nell'altro negozio.»

La ragazza sorrise e uscì vacillando sui tacchi altissimi.

«Arrivederci!» Anna ghermì la borsa e corse fuori.

«Mi aspetto come minimo un cavaliere senza testa!» gridò loro dietro Michelle.

Quando rimase sola si aggirò per la libreria, dando una raddrizzata ad alcuni oggetti in mostra e facendo ordine qua e là sugli scaffali.

Non le dispiaceva affatto passare un paio d'ore lì. Ormai era uno spazio gradevole in cui stare, certo, ma la quiete le forniva soprattutto l'occasione di elaborare piani segreti per la successiva sistemazione del negozio senza rischiare un sermone di Anna sulla sacralità del leggere.

Aveva pensato alla Longhampton Books per tutta la settimana. Dedicava quasi sempre il venerdì sera all'esame dei libri contabili, cercando di individuare eventuali fluttuazioni, articoli che si vendevano in fretta e rami secchi, con la stessa fascinazione che a scuola aveva sempre riservato alla Top 40, e, per quanto le cifre relative alla libreria fossero di gran lunga migliori del previsto, continuavano comunque a indicare un attivo molto risicato. Non sufficiente per giustificare la scelta di tenerla aperta dopo il termine dell'anno preventivato, e forse nemmeno fino ad allora.

L'entusiasmo contagioso di Anna, con i suoi poster fatti a mano, le sue discussioni improvvisate sui libri e le sue raccomandazioni la stava facendo funzionare e ciò dipendeva in parte dalla basilare curiosità locale. Ma l'istinto diceva a Michelle che le conveniva trovare il modo di puntellare i libri, se voleva continuare a tenere il negozio. Se la libreria chiudeva prima del previsto, Rory poteva benissimo decidere di fare il moralista e riaffittarla ad altri.

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Sprimacciò la pila di teli di mohair – le «coperte per leggere» – sistemata accanto alla porta e si mordicchiò il labbro. Le coperte stavano fornendo un utilissimo picco nei profitti della libreria. La settimana precedente lei era stata a una fiera commerciale a York e aveva quasi comprato l'intero stock di un fabbricante di tappeti che creava splendidi scendiletto con scarti riciclati. Non le sarebbe stato facile fare sì che un articolo del genere sfuggisse all'occhio di falco di Anna. Poteva stenderne qualcuno sull'assito levigato, magari riempire con degli altri una cesta accanto al bancone.

Il tavolino espositore riservato ai libri di poesia sarebbe dovuto sparire. Lei tentò di escogitare un modo per giustificare la modifica agli occhi di Anna, poi prese la decisione manageriale di farlo di persona. Seduta stante. Magari la sua amica non se ne sarebbe nemmeno accorta.

Radunò i libri e si accingeva a spostare il tavolino quando sentì un rumore sul retro e si fermò. Sembrava il suono di un volume che cadeva dallo scaffale.

Posò il tavolo e si guardò intorno per cercare eventuali tracce di un cliente imbarazzato. Da quando era lì aveva visto entrare un solo cliente, che poi se n'era andato palesemente deluso dal fatto che lei non fosse Anna, sempre disponibile a elargire suggerimenti, ma ciò non significava che non potesse esserci qualcuno a ciondolare nel retro. Era colpa delle comode poltrone piazzate là dietro: incoraggiavano le persone a sprofondarvisi e a restarvi sedute per ore, a leggere.

Di solito Michelle non era una persona nervosa e spesso, dopo la chiusura, rimaneva a lungo allo Home Sweet Home a risistemare la merce esposta, ma l'idea di qualcuno appostato in quel negozio con lei la turbava. Dipendeva dai libri, forse. Il negozio accanto era così pulito e tranquillizzante, come casa sua, ma lì nella libreria si respirava un'atmosfera diversa. Più meditabonda, più... stratificata, in un certo senso. Meno sua. Con maggiori probabilità che vi fossero scaffali dotati di vita propria, che gettavano a terra dei volumi per attirare la sua attenzione.

Si intimò di non essere ridicola e si avviò lentamente verso la sezione dei libri per l'infanzia, facendo ticchettare i tacchi sull'assito di legno per permettere a chiunque si trovasse là di sentirla avvicinarsi. L'ultima cosa al mondo che desiderasse era causare uno shock a un povero vecchietto. Negli ultimi minuti il crepuscolo era calato rapidamente e a un tratto il negozio si ritrovava quasi immerso nel buio.

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Ma quando sbirciò nel retrobottega non vide nessuno. Le due malconce poltrone in pelle erano vuote, i cuscini con la Union Jack schiacciati e alcuni grandi libri illustrati sparsi sul tavolino fra di esse.

Dovevano essere state le tubature, valutò, risistemando i libri nelle casse da frutta e sprimacciando i cuscini con colpi rapidi ed energici. Qualcosa che era caduto giù dalla canna fumaria, un nido d'uccello, magari. Prese mentalmente nota di parlare con Rory dell'ultima perizia. Era quello il guaio di affittare un posto del genere: non eri mai sicuro delle condizioni dell'edificio come quando lo avevi invece comprato e ristrutturato di persona.

In realtà, si disse, probabilmente era soltanto lui che faceva rumore al piano di sopra. Magari teneva la fidanzata abbandonata nascosta in un armadio. Come Barbablù.

Soddisfatta da quella gamma di risposte razionali, tornò al bancone e prese il taccuino dalla borsa per riesaminare la lista di cose da fare del giorno e annotare le sue riflessioni sulle coperte di lana d'agnello.

Si udì nuovamente il rumore. Qualcosa che cadeva sul pavimento e poi lo grattava.

Il cuore cominciò a martellarle nel petto e la pelle a formicolarle. Quel suono arrivava dalla stanza sul retro, non dal piano di sopra.

E nella stanza sul retro non c'era niente. Proprio come aveva detto Kelsey.

«Oh, avanti», disse ad alta voce. Chi intendeva chiamare? Gli acchiappafantasmi? Una ditta di disinfestazione?

Si alzò di nuovo e avanzò con passo pesante, sperando di spingere la fonte del rumore a sgattaiolare via. Mentre camminava premette l'interruttore e inondò di luce il retrobottega, ma questo servì solo a enfatizzare l'assai inquietante fatto che fosse completamente deserto.

Posato però a terra, a faccia in su, c'era un libro. Il giardino di mezzanotte.

Michelle si sentì attraversare da un brivido freddo e l'adrenalina prese a scorrerle nelle vene.

Alle sue spalle la campanella della porta tintinnò e lei rischiò di farsi venire il torcicollo girandosi di scatto per vedere chi era. Quando scorse una figura ferma

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sulla soglia le si serrò la gola per il panico, ma poi la sagoma tossicchiò e Michelle fu pervasa da un sollievo irrazionale. I fantasmi non tossicchiano.

Tuttavia, prima che il sollievo svanisse, fu assalita da una seconda ondata di panico, più viscerale. Era Harvey? Era rimasto appostato fuori dal negozio, aspettando che si svuotasse? Aspettando che lei rimanesse da sola?

«Mi spiace, sto per chiudere», disse, con un timbro di voce molto più alto del solito mentre si avviava a grandi passi verso la porta, pronta a sbattergliela in faccia, se necessario. Lui non avrebbe messo piede in casa sua, e nemmeno nel suo negozio.

«Chiudere? Credevo ti ispirassi al credo: “Tieni aperto finché non hanno comprato qualcosa”», replicò una voce dall'accento scozzese. «Ti spiace se entro?»

Quando l'uomo si infilò nell'alone di luce, lei vide che si trattava di Rory, che portava la sciarpa avvolta intorno al collo in stile studente di college e la malandata ventiquattrore stretta in una mano. Le stava sorridendo speranzoso. “Probabilmente a caccia di caffè gratis”, pensò lei. “Avrà finito il latte.”

«Sto per chiudere comunque», spiegò. Le tremò la voce. «Volevi qualcosa in particolare?»

Lui scrutò il tavolo più vicino come se avesse tutto il tempo del mondo. «Sto cercando qualcosa da leggere agli anziani su alla casa di riposo, qualcosa di divertente e relativamente breve. Cosa consiglieresti?»

«La guida tv?»

«Forse sto interpellando la persona sbagliata... Pensavo che magari avrei potuto ottenere uno sconto in cambio di alcune recensioni...» Lui inarcò un sopracciglio nel modo tipico di un giovane professore. «Contanti in cambio di critiche?»

«Da queste parti è solo contanti in cambio di complimenti.» Michelle aveva ancora il battito cardiaco accelerato dallo sgradito afflusso di adrenalina e, pur morendo dalla voglia di chiudere il negozio, trovava piuttosto rassicurante la pragmatica presenza di Rory. Come potevano esserci dei fantasmi nella stanza sul retro quando lui era fermo lì con la sua giacca di tweed a fare patetici giochi di parole? «Ti ci vorrà molto?»

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«Dipende dalla tua capacità di vendermi qualcosa. C'è del caffè pronto? Di solito Anna me ne prepara una tazza, il che aiuta enormemente l'iter della selezione.»

«Lo immaginavo», replicò lei. «Sei venuto solo per il caffè gratis.» Versò due tazze dalla caraffa con il filtro, la mano scossa da un lieve tremito, facendo cadere inavvertitamente alcune gocce sul tavolo che aveva appena pulito.

«Mi hai colto in flagrante. Biscotto?» Lui alzò gli occhi da un'Agatha Christie vintage, mentre i capelli gli cadevano sugli occhi.

“Che faccia tosta”, pensò Michelle.

«Il bar è qui accanto», disse.

«Intendevo chiederti se ne vuoi uno.» Lui aprì la ventiquattrore per estrarre dai suoi abissi un pacchetto di biscotti allo zenzero. «Ho bevuto così tanti caffè gratuiti, qui, che mi è parso più che giusto ricambiare con dei biscotti decenti. Visto che sei la proprietaria ho pensato di doverli offrire a te.»

«Ehm, grazie.» Lei si sentì un po' una zoticona: quelli erano costosi biscotti «artigianali» presi al Waitrose, non i digestive che offrivano loro. Benché di solito non mangiasse biscotti, ne prese uno e lo mordicchiò.

Pensò che sarebbero finiti sicuramente sulla lista «Rory non è un bastardo» di Anna mentre lo guardava leggere la quarta di copertina di un romanzo di Dorothy L. Sayers, la fronte aggrottata per la concentrazione. “Come fa un uomo che spende cinque sterline in biscotti da gourmet per cancellare il suo debito da caffè ad abbandonare una donna incinta?” si chiese.

Sulla stanza calò un silenzio rilassato; lei riordinò mentre Rory curiosava fra i libri, ma poi la tranquilla musica corale ebbe fine. Michelle stava andando a rimetterla su quando udì nuovamente il rumore nel retrobottega.

«Non l'hai sentito?»

«Sentito cosa?» Rory alzò gli occhi dal tavolo dei polizieschi.

«Quel rumore.» Mentre lei parlava si udì un altro fruscio, come se qualcuno si stesse sfregando contro del legno.

«Non fare quella faccia spaventata», le disse Rory. «Questo è un edificio vecchio, è normale che scricchioli di continuo. Presumo che tu abiti in una favolosa casa moderna con doppi vetri nuovi di zecca, vero?»

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«Vivo giù accanto al canale, grazie tante», sibilò Michelle. «E non sono affatto spaventata.»

«Lo sembri un po'.»

«Non lo sono.»

«Vuoi che vada a dare un'occhiata?» Lui assunse un'espressione da soldato coraggioso.

«Se vuoi.»

«Voglio. Ho sperato più di una volta che questo posto fosse infestato dagli spettri.» Rory si sfregò le mani, tutto contento. «Magari è Agnes, tornata per tenerti d'occhio. Un fantasma sarebbe un accessorio davvero prezioso. Potreste organizzare notti di Halloween stregate in ottobre, o letture di Canto di Natale in...»

«Vai semplicemente a dare un'occhiata e dimmi che è un uccello intrappolato nella canna fumaria», lo esortò lei, spazientita.

«Vieni con me», replicò lui. Le indicò di seguirlo ripiegando un lungo dito, poi le porse la mano. «Mi servirà un testimone che avvalli la mia versione, se dobbiamo finire sul notiziario della sera con la prima libreria stregata delle Midlands.»

Michelle ignorò la mano offertale ma lo seguì verso il retro, tentando di tacitare la parte del suo cervello che tutt'a un tratto stava valutando i possibili vantaggi di una libreria stregata.

Giunta in fondo alla stanza principale, laddove si era abbattuta una parete per creare un unico lungo spazio, esitò. Rory invece proseguì a grandi passi.

«Non è...» cominciò a dire lei ma poi, mentre parlava, vide qualcosa di nero sfrecciare attraverso la stanza e strillò.

Era enorme. Un enorme... ratto nero? Adesso Michelle desiderava quasi che si trattasse di un fantasma perché, qualsiasi cosa fosse, era davvero gigantesco. Sembrava il tipo di ratto gigante che dicevano si fosse riprodotto nel sistema fognario londinese. Fu assalita da un senso di nausea. Lo scopo di lasciare la grande città avrebbe dovuto essere proprio quello di allontanarsi da cose del genere.

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Con profondo orrore vide che Rory si era inginocchiato e stava strisciando verso la creatura.

«Prendo una scatola», gli disse, restando a distanza di sicurezza. «Possiamo intrappolarlo e poi chiamare qualcuno del municipio ad abbatterlo.»

«Non ce n'è bisogno», replicò lui. Si drizzò a sedere e infilò una mano nelle tasche della giacca, tastandone l'interno fino a trovare quello che stava cercando. «Ah. Bene.»

«Cosa diavolo stai facendo?» Michelle stava svuotando freneticamente un espositore di cartone pieno di tascabili. «Devo andare a prendere dei guanti qui accanto? Probabilmente è pieno di pulci.»

«Possibile, ma ne dubito.» Rory scartò le prime due caramelle Polo del pacchetto e le allungò verso lo scaffale più in basso dei libri ambientati in un collegio, nella sezione Bambini.

Lei fissò orripilata le sue lunghe dita, che aspettavano che la misteriosa creatura balzasse fuori e le rosicchiasse con i suoi denti aguzzi.

«Vieni qui», disse lui, in tono tranquillizzante e cantilenante. «È tutto a posto, sono io. Vieni.»

Lentamente, molto lentamente, un musetto nero spuntò da sotto lo scaffale. Una massa di peli neri lo seguì e Michelle sentì lo stomaco sottosopra perché la creatura era davvero lurida e le sembrava ancora molto simile a un enorme ratto.

«Non toccarla! Non toccare quella cosa!» gridò di getto mentre la mano di Rory depositava le Polo nella bocca della creatura e poi le accarezzava le orecchie nere.

«Non è una cosa», disse Rory. «Ed è un maschio.»

Lei sistemò un tavolo di cartine topografiche della zona fra sé stessa e l'animale. «Cosa diavolo è?»

«È affascinante. Tavish, ti presento Michelle Nightingale, la tua nuova padrona di casa. Michelle, questo è Tavish, il tuo cane da negozio.»

«Il mio cane da negozio?»

«Be', non tuo, tecnicamente.» Rory allungò una mano e afferrò il collare sepolto sotto il pelo arruffato. «Di Cyril.»

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«Non c'era nessun accenno a un cane, sul contratto. Da quanto tempo si trova qui?» Lei si spremette le meningi. «Siamo aperti da quasi due mesi, non dirmi che è rimasto nascosto sotto l'assito per tutto quel tempo. Cos'ha mangiato?»

«Dubito che si trovi qui da così tanto. È ospite del canile Four Oaks sin da prima di Natale, quello lo so per certo.» Adesso il cagnolino gli stava annusando le tasche della giacca, quando non gli leccava con gratitudine le mani. La sua lingua continuava a saettare fuori dal pelo ingarbugliato, una chiazza di rosa contro il nero. Lei non riuscì a distinguere nessun occhio.

«Sei conciato male, vero, ragazzo?» cantilenò Rory, più scozzese che mai. «Non potresti prendergli un biscotto, Michelle? Questo povero piccolo è terribilmente affamato.»

Per un attimo lei valutò l'ipotesi di dirgli cosa fare con il suo cane, e il suo biscotto, ma era tardi e si sentiva stanca e impaurita. Suo malgrado, era pervasa dal sollievo perché non si trattava di un fantasma né di un super ratto, nessuno dei quali avrebbe minimamente giovato alla sua attività.

E benché la voce nella sua testa si stesse lagnando, irritata, Michelle non poteva fare a meno di compatire la povera bestiola inzaccherata. Sembrava esausta e più spaventata di lei.

«Portalo nella stanza del personale», disse a Rory. «E smettila di fare quell'orribile voce alla Braveheart.»

L'uomo si alzò in piedi, si infilò il cagnolino sotto il braccio e gli rivolse un sorriso storto. Apparentemente non si curò del fatto che Tavish gli stesse depositando polvere e saliva sulla giacca di lana. In realtà sembrava piuttosto contento di vederlo, e la bestiola parve reagire bene al fatto di venire ficcata sotto il suo braccio come una borsetta.

«Gli scottish terrier non dovrebbero avere il pelo più corto di così?» domandò Michelle prima di riuscire a trattenersi.

Rory le rivolse il suo sorriso storto. «Una domanda intelligente. Di solito infatti lui lo ha più corto. Siamo degli esperti in fatto di cani, vero?»

«No», rispose Michelle, e attraversò la libreria per chiudere il negozio.

Quando tornò in cucina, trovò sia Rory sia Tavish totalmente assorbiti da un pacchetto di biscotti digestive. Posò davanti all'uomo una tazza di caffè bollente, che aveva appena preparato, e lui lo sorbì rumorosamente, il che le diede sui

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nervi. Aggiunse una voce alla sua lista personale di tic irritanti di Rory, per bilanciare gli squisiti biscotti.

«Allora, com'è che lui si trova qui invece che su al canile?» chiese, indicando la bestiola con un cenno del capo. «Questo sarebbe il momento adatto per vuotare il sacco, sai. Lo hai tenuto su nell'appartamento? Insieme al tuo occasionale bambino?»

«Come, scusa?» Rory la fissò, stupito.

«Anna ha menzionato che hai un figlio. Il passeggino, l'altro giorno. Di sopra. Non hai mai detto che era tuo figlio, quando ci hai chiesto di spostare i libri.»

Nella sua testa la frase era suonata meno sgarbata. Rimpianse che le fosse sfuggita di bocca, ma ormai non poteva rimangiarsela. Vivere da sola l'aveva resa molto spiritosa per e-mail, ma non altrettanto brava con la conversazione non riveduta e corretta, in tempo reale.

«Avrei dovuto?» Rory continuò a fissarla e lei trovò la sua espressione difficile da decifrare. Non sembrava imbarazzato ma palesemente seccato nel vedersi messo in discussione. «Ho un figlio, sì, con la mia ex. E cos'altro ha detto Anna?»

«Niente. Be'...» Michelle si rese conto di trovare irritante la sua mancanza di imbarazzo. Piantare in asso una donna incinta era quanto di più ignobile si potesse fare. Era un gesto da codardi. «Non ha detto altro, solo che tu e la madre del bambino vi siete separati prima che lui nascesse.»

«Infatti. Ho chiuso io la storia, a dire il vero.» Rory sorseggiò il caffè e la guardò dritta in faccia da sopra l'orlo della tazza. «Mi spiace, avrei dovuto fornirti qualche tipo di comunicato stampa in proposito? Non mi ero reso conto che gestissi una sorta di consultorio per le relazioni, oltre a una libreria.»

La frase rimase sospesa fra loro, insieme allo sdegno ribollente di Michelle e all'atteggiamento difensivo di lui. Aria calda e aria fredda, che si mischiavano. Lei non riusciva a capire fino in fondo come mai si sentisse così furibonda per conto di una donna che non aveva mai incontrato, ma era così. Fumava di rabbia.

«La vita è complicata», affermò lui in risposta al suo cipiglio. «Sono sicuro che nella tua vita ci sono cose che non hanno funzionato come speravi.»

Michelle aprì la bocca per ribattere, ma qualcosa di saputo nel tono di Rory la bloccò. Era così palese, il fallimento del suo matrimonio? Lui ne era al corrente? Sua madre aveva ragione quando sosteneva che le donne che scappano da

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matrimoni perfettamente riusciti, cercando erba più verde, hanno «quella tipica aria disperata»?

«Hai ragione», disse fredda. «Non sono affari miei.»

Rory parve sorpreso, come se si fosse aspettato una maggiore combattività.

«Cosa c'è?» Lei alzò le mani. Il suo rifiutarsi di discutere spiazzava sempre Harvey; era una tattica che le ci era voluto parecchio tempo per imparare. «Sono sicura che avevi degli ottimi motivi per farlo.»

Lui fece una pausa meditabonda, poi disse tristemente: «Infatti».

«Bene. Li avevo anch'io.»

«Per cosa?» Gli occhi grigi si appuntarono subito sul volto di lei, leggendole dentro.

Michelle trovava incredibile che lui fosse riuscito a metterla con le spalle al muro. «Per... le cose che non hanno funzionato.» Persino quel poco era più di quanto avesse avuto intenzione di ammettere.

Rory non rispose ma lasciò che la tensione si dissolvesse lentamente, cosa a cui contribuì l'annusare curioso del cagnolino.

«Quindi questo era il cane di Cyril?» chiese lei, tanto per dire qualcosa. «Non l'ho mai notato, al parco. Lo portava a passeggio?»

Rory gli aveva spazzolato il pelo e adesso Michelle riuscì a distinguere un paio di lucidi occhietti simili a bottoncini, sopra la barba nera. Tavish la stava fissando con la stessa irritante franchezza sfoggiata poco prima da Rory.

«Non più, dopo la morte di Agnes. Lei aveva una piccola west highland white terrier di nome Morag. Avresti dovuto vederli insieme. Andavano sempre nel caffè per cani sulla via principale.»

«Oh», disse lei, ricordandosene. «Anna li chiamava i cagnolini sale e pepe. Avevano cappottini coordinati?»

«Sì. Agnes e Morag sono morte più o meno nello stesso periodo, dopo di che Tavish è rimasto semplicemente in casa con Cyril. Ogni tanto lo portavo a fare una rapida trottata intorno all'isolato, una volta che mi sono trasferito al piano di sopra. Ti stupirebbe scoprire con quale rapidità riusciva a muoversi quando

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arrivava vicino a quel caffè; mi sono sempre chiesto se non pensasse che loro fossero là ad aspettarlo.»

Mentre parlava accarezzò le lunghe orecchie ritte del cane che gli si appoggiava contro, confortato. Michelle sentì tirare le corde del suo cuore, ma resistette. Sapeva per esperienza come fosse facile permettere ai cani di infilarsi furtivamente sotto le tue barriere difensive, e al momento non aveva posto per uno di loro. Le si stringeva ancora il cuore per Flash ogni qual volta notava uno spaniel nel parco e più di una volta, di notte, aveva architettato un folle piano per rapirlo da casa mentre Harvey era al lavoro.

Forse in un momento successivo, dopo avere reso fiorenti entrambe le attività, aver venduto la casa di Swan's Row con un ampio margine di profitto e aver conosciuto un attraente signore dai capelli argentati, sarebbe tornata a prenderlo. Quando non avesse più temuto che Harvey potesse bussare alla sua porta, esigendo di vederlo.

«Sei tornato qui per cercare il tuo padrone?» domandò Rory al terrier, solleticandogli la barba. «Lo hai cercato in giro per tutta la città?»

«Smettila!» Per mesi era stata tenuta sveglia dalla straziante immagine di Flash che scappava per cercarla, perdendo la strada, affamato, solo. «Ora sta benissimo», disse quando Rory la guardò, sconcertato dalla sua veemenza. «Non possiamo portarlo semplicemente da Cyril, se è una bestiola così tranquilla?»

«No. Alla Butterfields vige una severa politica niente-animali. Ecco perché abbiamo dovuto portarlo nel ricovero per cani sulla collina. Be', io ho dovuto farlo.»

«Tu? È un servizio che offri a tutti i tuoi clienti?»

Rory parve adeguatamente seccato. «Suo figlio non ne aveva il tempo e Cyril non se la sentiva di consegnare Tavish – di “abbandonarlo”, come lo definiva lui –, così mi sono offerto di pensarci io. Non è stata un'esperienza piacevole.» Tavish gli leccò la mano. «Avevo sperato che a questo punto qualcuno gli avesse già offerto una bella casetta per la pensione. Lo avrei preso io, ma non possiamo tenere cani, allo studio. Rischio di citazioni. Un vero peccato, perché lui si limiterebbe a dormire tutto il giorno sotto la scrivania. Non si accorgerebbero nemmeno della sua presenza.»

«Tutti i proprietari di cani dicono così», commentò tetramente Michelle. «Ti accorgi sempre della loro presenza. Riescono a fartela percepire.»

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Lui spezzò in due un biscotto, ne offrì metà a Tavish e inarcò le sopracciglia.

«E quello non aiuta di certo», dichiarò lei senza riflettere. «Gli verrà la placca.»

Rory diede il biscotto al cane. «Dobbiamo prendere i nostri piccoli piaceri dove possiamo, alla sua età.»

Le corde del cuore di Michelle emisero un potente suono metallico e lei si fece coraggio. «Chiama il canile, avvisali che lo abbiamo noi», disse. «Stanotte può dormire qua, se non riescono a venire a prenderlo fino a domani.»

Temendo palesemente di venire abbandonato di nuovo, il cagnolino seguì Rory mentre tentava di andarsene, ma lui si chinò e lo prese in braccio, depositandolo poi sulle ginocchia di Michelle.

«Ecco», disse. «Forse ti conviene tentare di fare amicizia con la strega cattiva. È la tua nuova padrona di casa per stanotte.»

«Solo per stanotte», sottolineò lei, mostrando a entrambi l'indice alzato.

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Capitolo 12

«La tela di Carlotta è una storia coraggiosa, splendida, sulla vera amicizia, la vita, la morte e la scrittura. Dopo averlo letto non ho mai più mangiato un panino al bacon né ucciso un ragno.»

Anna McQueen

Quando, la mattina seguente, Anna arrivò davanti alla libreria dopo avere lasciato Lily a scuola con la promessa di chiedere a Pongo se adesso voleva leggere il seguito della Carica dei 101, rimase stupita di vedere Michelle e Rory fermi accanto al bancone, apparentemente impegnati in un'accesa discussione.

Rory stava parlando con fare deciso mentre Michelle continuava a tentare di interromperlo mulinando le braccia e indicando cose, soprattutto una accanto agli scaffali di polizieschi più in basso.

Anna si incuriosì. Quale poteva mai essere l'argomento della loro conversazione? Non certo i libri. Era più probabilmente qualcosa legato al negozio. Michelle sfoggiava la sua espressione da lavoro. Quella severa.

“Non guardarlo così torva, Michelle”, pensò, con un empito di eccitazione da paraninfa. “Sii gentile con lui!” Rory era single – a dispetto della complicazione del figlio – e non c'erano molti uomini single carini, a Longhampton. Non molti che fossero abbastanza intelligenti per Michelle, comunque. Lei li aveva scartati quasi tutti davanti agli antipasti, dai McQueen, solo perché amavano il football o le camicie a maniche corte.

Il linguaggio corporeo di Rory era molto più incoraggiante di quello di Michelle: lui si stava sforzando strenuamente di attirare la sua attenzione. Non solo stava sorridendo e assumendo espressioni divertite, infilò anche una mano nella ventiquattrore per poi porgerle un libro che lei, prevedibilmente, fece del suo meglio per non prendere.

Poi alzò gli occhi rispondendo a una domanda, e anche se Anna si abbassò di scatto lo fece troppo tardi. Michelle la vide e la indicò da dietro la vetrina, poi puntò il dito verso il bancone e infine verso il suo orologio.

Lei aprì la porta con una spinta ed entrò, tutta sorrisi disinvolti.

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«Bene, sei arrivata», disse Michelle, sfregandosi vivacemente le mani come se fosse stata sorpresa a fare qualcosa di illecito. «Tanto perché tu lo sappia, Rachel del canile passerà prima delle dieci a recuperare Tavish...»

«Tavish!»

Anna si accosciò tutta contenta mentre il tarchiato terrier nero slittava sul pavimento raggiungendola, con la lingua rosa che gli spuntava dalla testa squadrata. Lei tenne le dita a una prudente distanza; ricordava Tavish come un anziano imperatore «dal carattere spiccato» piuttosto che come una spugna d'amore quale Pongo, addestrato fin dalla più tenera età a sopportare abbracci senza fine. «Cosa ci fai tu qui?»

«Ha scavato un tunnel per fuggire dal campo e tornare a casa», disse Rory. «Come il piccolo terrier Greyfriars Bobby.»

«Oh, non parlarmene. Abbiamo letto la sua storia a scuola quando ero piccola e non mi sono mai ripresa completamente. La mamma dice che ho abbracciato tutte le statue di cani, ogni volta che ne incontravamo una.» Anna accarezzò con prudenza le orecchie della bestiola. «Dove vive Tavish, adesso? Non dirmi che è tornato qui dall'imprecisato luogo in cui abita il figlio del signor Quentin.»

«No, è stato lasciato al canile come un vecchio divano», spiegò Michelle. «E non fare quella faccia triste, Barbara Woodhouse; se il signor Quentin tenesse tanto al suo cane si sarebbe dato da fare per lui come ha fatto per la sua preziosa libreria.» Scoccò un'occhiata eloquente a Rory, ma non gli lasciò il tempo di replicare. «Quindi il cane dovrebbe essere fuori di qui entro l'ora di pranzo, e ho controllato la lista di ordini che hai lasciato ieri sera. Ho autorizzato il pagamento al magazzino, quindi procedi pure e controlla che vengano consegnati quelli a cui ho dato l'okay. Preferisco non esagerare», aggiunse, alzando le mani per parare le proteste dell'amica, «so che stiamo andando bene, ma prima dobbiamo concentrarci sul tentativo di vendere quello che è già qui.»

Anna diede un'occhiata all'elenco e trasalì. Michelle si era data parecchio da fare: ogni pagina era coperta dalla sua nitida calligrafia, ovunque c'erano annotazioni e consigli. Per essere una persona che non leggeva aveva idee molto precise su quali libri dovessero trovare posto nel negozio e quali no.

«Bene, allora, io vado qui accanto. A più tardi.» Michelle si avvolse la sciarpa intorno al collo e rivolse un'ultima occhiata attenta a Tavish. «Dai una spazzata al pavimento, dopo che lui se ne va», chiese ad Anna. «Peli. Finiscono ovunque.»

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«Allora lo leggerai quel libro o no?» intervenne Rory.

«Può unirsi alla fila, dietro tutti quelli che le ho consigliato di leggere io», dichiarò Anna prima che la sua amica potesse inventarsi qualcosa.

«Ah ah», disse Michelle, e uscì accompagnata dal tintinnio della campanella.

«Che libro è?» chiese con disinvoltura Anna mentre lasciava cadere la sua sacca sulla sedia e controllava l'agenda.

«La libreria di Penelope Fitzgerald. È corto. Include persino un poltergeist, mi è venuto in mente ieri sera.» Rory sembrava un po' seccato. «È sempre così permalosa quando le si offre della roba da leggere? I proprietari di librerie non dovrebbero entrare in contatto con i libri, di tanto in tanto?»

«Non c'è niente di personale», spiegò Anna. «È convinta che stiamo tramando un complotto fra topi di biblioteca per minare il suo status di non lettrice.»

«Come fa una persona intelligente come Michelle a non leggere?»

«Non chiederlo a me. Credo che abbia un po' il complesso di non essere andata all'università, il che conta ben poco, quando guardi i brillanti risultati che ha ottenuto.» Anna si accorse che si stava forse addentrando in acque a lei interdette. «Quindi avete trovato Tavish ieri sera?» Si appoggiò alla parete mentre la macchina del caffè prendeva vita sputacchiando.

«Già. La libreria non è infestata, mi spiace dovertelo dire», affermò Rory. «Crediamo che sia rimasto nascosto nel retro per un paio di giorni. C'è voluto parecchio per togliergli la polvere dal pelo. Tavish non ama granché la toelettatura. Ora fai il bravo con Anna, ometto.»

Lei rimase a guardare mentre Rory si tirava leggermente su i pantaloni e piegava il corpo allampanato per salutare Tavish con una grattatina, rivelando un improvviso e inatteso lampo di calzino di un giallo brillante fra la gamba dei calzoni e la scarpa robusta. L'animale sollevò la testa per accettare il gesto con dignitosa fierezza e Anna si sentì sciogliere come neve al sole.

C'era qualcosa di rassicurante in un uomo che va d'accordo con i cani, pensò. Phil fingeva che Pongo fosse la cosa più stupida che Sarah avesse mai regalato alle ragazze e creasse più problemi di un altro figlio, ma lei lo aveva sorpreso più di una volta addormentato con la grossa testa del dalmata posata sulla spalla, entrambi che russavano a ritmo alternato.

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«Durante la pausa pranzo vado su alla Butterfields», affermò d'impulso. «Devo dire al signor Quentin che Tavish è venuto a cercarlo qui? Credi che riuscirei a convincerli a modificare la regola sul divieto di tenere animali?»

Rory la guardò: voleva palesemente dirsi d'accordo, ma lottava al contempo con la logica avvocatesca. «Non saprei. Lui potrebbe restare turbato, se loro rifiutano. E continua a chiedermi se, che io sappia, Tavish ha già trovato una nuova casa o no, quindi la sua fuga sarebbe solo un motivo di preoccupazione in più.»

«Hai ragione», replicò Anna. «Meglio non dirgli niente.»

«Basta scappare, Tavish», disse lui, poi si alzò. «Bene, parto per il fronte della giustizia. A presto, Anna.»

Sorrise, ma a lei sembrò che i suoi occhi sardonici avessero perso il loro consueto scintillio. Non erano proprio tristi come quelli di Tavish ma quasi.

Tavish rimase sotto il bancone così silenziosamente che Anna si dimenticò quasi della sua presenza. Aveva servito solo un paio di clienti, una signora venuta a ritirare un libro ordinato la sera prima e un signore che era entrato senza un motivo particolare ma se n'era andato con un set di romanzi di Sherlock Holmes, dopo una lunga conversazione sul motivo per cui tutti sembravano scoprire Holmes mentre erano a letto con questa o quella malattia.

Tavish drizzava le orecchie ogni qual volta la campanella della porta tintinnava, ma poco dopo si rimetteva a sonnecchiare, sistemandosi infine sul piede di Anna come fosse un cuscino tiepido.

Il cagnolino rappresentava una perfetta rifinitura per il negozio, pensò lei mentre sfogliava la copia da bancone del Libro della giungla e mangiava in anticipo il panino del pranzo intanto che lui rincorreva conigli in sogno. Un tipico cane da negozio. Michelle poteva anche infuriarsi per i peli, ma Tavish aggiungeva un fascino stravagante al posto, come il pavese fissato con le puntine sopra i romanzi. Solo che si trovava lì da molto più tempo. Lei sbirciò sotto il bancone e lo guardò dormire. I peli argentei intorno a occhi e naso gli conferivano un'aria occhialuta e dotta, facendolo somigliare a un burbero professore scozzese.

Rachel non era ancora arrivata quando Kelsey andò a darle il cambio durante la pausa pranzo, e Anna le impartì rapidamente le istruzioni mentre la ragazza e Tavish si occhieggiavano a vicenda, diffidenti. Kelsey, per sua stessa ammissione, «non ci sapeva fare con gli animali».

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«Non masticherà nessun libro, vero?» chiese. «Né aggredirà qualcuno solo perché entra qui?»

«Secondo te?» ribatté lei, mettendosi a tracolla la borsa piena di libri da leggere ad alta voce. «Lavora qui da più tempo di noi. Chiamami se Michelle ha qualche problema e non dimenticare di farlo uscire per la pipì.»

Il signor Quentin era già seduto insieme ad altri ospiti del ricovero nel cerchio di poltrone per la sessione di storie quando lei entrò nella grande sala comune con Joyce e due sue assistenti.

Anna gli rivolse un sorriso ma lui non lo ricambiò subito. Ormai c'era un leggero ritardo in tutte le sue reazioni, come se dovesse riflettere prima di ognuna di esse. La vivace mente da libraio che un tempo racchiudeva intere biblioteche di romanzi e testi di riferimento, dettagli di carrarmati e dati del club del cricket di Longhampton disposti in ordinate file con riferimenti incrociati, era adesso immersa nel caos: i fatti erano ancora tutti presenti, ma su fogli sciolti che svolazzavano in giro, in disordine, come la stanza sul retro prima che loro la risistemassero.

Inoltre lui era apparso sempre lindo e azzimato, in libreria, con un rettangolino di fazzoletto rosso che gli spuntava dal taschino della giacca e un cappello di feltro per uscire a passeggio con i cani e la moglie. Anna si accorse di avere rammentato solo un attimo prima quell'immagine: i signori Quentin che passavano davanti al municipio con i loro due cani appena tosati, come personaggi usciti da una commedia fine anni Quaranta. Due coppie coordinate simili a fantasmi giunti da una diversa epoca di Longhampton, sovrimpressa a una via più caotica, meno elegante.

Avvertì un groppo in gola notando lo spiegazzato colletto della camicia del signor Quentin sotto il maglione pieno di bitorzoli, ma Joyce la fece avanzare rapidamente con le sue briose istruzioni di «controllare che tutti abbiano l'apparecchio acustico acceso e le orecchie pronte ad ascoltare».

«Magnifico, ci sono tutti. Tranne la tua mamma acquisita», le disse poi, quando furono pronti.

«Non chiamarla “mamma”», borbottò lei di rimando. «Lo odia.»

«Davvero? Be', ha alcuni modi di fare davvero strani, poveretta... Ah, signora McQueen!» disse ad alta voce Joyce quando la porta si aprì per lasciar entrare Evelyn.

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«Sono in ritardo?» chiese lei, suonando più speranzosa che dispiaciuta. Aveva finalmente abbandonato l'odiato deambulatore e camminava con un bastone che le conferiva un'aria leggermente minacciosa, regale. «Quella stupida ragazza, la parrucchiera, sta facendo il tirocinio qui? Ho dovuto spiegarle io cosa fare. E dovreste dirle qualcosa per il suo linguaggio.»

«La tua pettinatura è magnifica», disse Anna. L'ossessione di Chloe per i capelli era un'eredità genetica trasmessale da Evelyn, insieme al costante bisogno di attenzione.

«No, invece», sbottò l'anziana donna. «Sembra che io sia stata assalita da un branco di scimmie. Scimmie armate di lacca.»

Joyce ridacchiò, il che non era certo la reazione che Evelyn desiderava.

«Mi rendo conto che la cura dei capelli è probabilmente sprecata, con la maggior parte delle donne qui presenti, sempre che le si possa ancora definire tali», cominciò a dire senza curarsi di abbassare la voce, ma fortunatamente per Joyce l'apparecchio acustico di qualcuno cominciò a fischiare e Anna afferrò al volo l'occasione di iniziare mentre la donna lo sistemava.

Evelyn si avviò a grandi passi verso la poltrona più lontana e mise il broncio. Le sue labbra, messe in risalto da un rossetto di uno sgargiante rosso corallo, avevano un'aria letale.

«Ho pensato di leggere qualcosa di P.G. Wodehouse», annunciò Anna, ignorando il sospiro annoiato della suocera. «Abbiamo ricevuto una richiesta.»

«Un bel cambiamento rispetto a tutti quei libri da donne», affermò un attempato signore, con veemenza. Lui e il signor Quentin erano gli unici uomini presenti, circondati da donne anziane come due scoraggiati galletti in un granaio pieno di galline.

Finalmente il signor Quentin le sorrise e lei ricambiò il sorriso, poi cominciò.

La sua voce si sollevò e serpeggiò lungo il cerchio di poltrone mentre leggeva la storia – l'ennesima sui problemi di Bertie con la sua «zia meno preferita», Agatha –, ma fu solo quando raggiunse la parte sul west highland white terrier di zia Agatha che Anna vide l'espressione del signor Quentin passare dal quieto godimento alla tristezza.

Si prese mentalmente a calci. Ormai aveva iniziato e non poteva certo fare marcia indietro. Continuò a leggere, ottenendo alcune sommesse risatine da parte

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dell'uditorio, e al termine Joyce intervenne subito con le domande per la discussione volte a mantenere attive le menti degli ospiti per un altro po', mentre i ricordi erano ancora scompigliati di fresco.

Il signor Quentin, notò Anna, era rimasto al suo posto, fissando il vuoto.

«Ooh, scommetto che la lettura ha fatto riaffiorare dei ricordi, vero?» li sollecitò Joyce. «Chi aveva una zia come quella? Florence? Non avevi una buffa zietta che faceva la cameriera in una Lyons Cornerhouse?»

«Ce l'ho ancora!» affermò Florence, e la conversazione prese piede in quella bizzarra dimensione fra il passato e il presente, un misto di nebulose rimembranze e commenti sbalorditivi, alcuni dei quali, quando sgorgavano dalla bocca dell'interlocutore, lo lasciavano di stucco quanto la persona seduta al suo fianco.

Di solito ad Anna piaceva rimanere ad ascoltare le storie, ma preferiva non lasciare Kelsey a gestire la libreria troppo a lungo. Rimise il libro nella borsa e raggiunse in fretta il signor Quentin: non sapeva bene cosa avrebbe detto, ma voleva dire comunque qualcosa.

«Signor Quentin», cominciò, «mi spiace, non intendevo...»

Lui la batté sul tempo, alzando gli occhi acquosi con un sorriso triste. «La lettura ha fatto riaffiorare dei ricordi, mia cara. Si rammenta di Morag? La nostra westie? Era davvero una gran dama.»

«Era un vero tesoro», riuscì a replicare lei, sentendo già gli occhi umidi.

«Agnes è sempre stata molto più brava di me con i cani, si affannava a preparare il pollo lessato e chissà cos'altro, ma ti mancano quando non ci sono più. Io mi guardo ancora intorno aspettandomi di vedere il vecchio Tavish.» Il signor Quentin sospirò e il suono espresse più di quanto avrebbero potuto fare le parole. Era il rimpianto di un uomo che non avrebbe dovuto sentire così tanto la mancanza di un essere privo di favella. Ma la sentiva, eccome.

«Io...» La voce di Anna le si bloccò in gola.

«Farebbe una cosa per me, mia cara?» domandò lui, e lei capì che non sarebbe stata una richiesta legata alla libreria.

Annuì.

«Chiederebbe a quella signora gentile su al canile se non potrebbe tenere lei Tavish? È da un po' che penso a lui, sa, in quel posto solitario, a vedersi preferire

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cani più giovani che possono correre in giro e giocare e cose simili. Non mi dispiace pagargli vitto e alloggio, fintanto che so che è con una persona gentile, che non è costretto a cercare di abituarsi a degli estranei che non conoscono le sue abitudini.» Gli si incrinò la voce. «È un vecchietto scontroso, proprio come me, capisce, e non sopporto l'idea che qualcuno sia impaziente con quella sciocca bestiola. Alla sua età.»

Anna batté le palpebre. Aveva visto alcuni dei cani abbandonati più anziani in attesa nei recinti, quando aveva portato là Pongo per le vacanze. Alcuni di loro sollevavano lo sguardo speranzosi ogni qual volta un umano entrava nel canile, per poi lasciarsi cadere di nuovo a terra, avviliti, quando venivano ignorati. Alcuni non alzavano nemmeno più gli occhi. Ogni volta lei rischiava di andarsene con un animale in più. Gli prese la mano di scatto e serrò con forza le labbra, cercando di non piangere. «Lasci fare a me», replicò, e quando il signor Quentin girò il viso dall'altra parte dovette uscire rapidamente dalla stanza prima che lui vedesse le lacrime rigarle il volto.

Aveva ancora la vista leggermente offuscata quando percorse spedita la strada principale, diretta verso la libreria, e sbatté contro Rory davanti al suo studio legale.

«Piano!» disse lui, afferrandole le braccia. «Tutto bene?»

Lei scosse il capo. «Rachel è già venuta a prendere Tavish?»

«Non lo so. Ho appena fatto un salto fuori per mangiare qualcosa. Cosa succede?»

Anna non si prese il disturbo di nascondere l'eyeliner sbavato mentre lui la fissava. Rory aveva un viso gentile, vecchio stile, con la mascella accuratamente rasata. Avrebbe dovuto portare il cappello, pensò lei: aveva un'aria da film in costume.

«Rory, dobbiamo fare qualcosa riguardo a Tavish», farfugliò. «Dobbiamo tenerlo in qualche modo, non so come, ma il povero signor Quentin... mi ha offerto dei soldi per assicurarsi che lui finisca in una buona casa. Inoltre è già scappato una volta per cercare il suo padrone, e ho visto quanta strada ha fatto dal canile a qui. È vecchio. Dev'essere sfinito, dopo avere dormito all'addiaccio e avere sofferto la fame...»

Si rese vagamente conto che ormai stava mischiando La carica dei 101 con la vera storia di Tavish, ma non vi badò.

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«Hai letto troppi libri», replicò lui, ma le strinse con forza le spalle. «Senti, neanch'io voglio vedere quella vecchia bestiola passare di mano in mano. Cerchiamo di riflettere lucidamente. Tu puoi prenderlo?»

«Vorrei tanto, ma non so se andrebbe d'accordo con Pongo. Lui è sempre un uragano di energia. Sarebbe come mettere il principe Filippo a vivere con i Rolling Stones.»

«Be', lo prenderei io, se non rimanessi fuori casa tutto il giorno.»

Anna scosse il capo. «Rachel non ti permetterebbe mai di ospitarlo, se lavori a tempo pieno.»

«Giustissimo. E Michelle?»

«No», disse subito lei. «Odia i peli di cane in casa sua. Non lascia entrare nemmeno Pongo a meno che non sia infilato nella sua tutina a sacco.»

«Tutine a sacco per cani. Come mai la cosa non mi stupisce?» Rory aggrottò la fronte come se stesse riflettendo, poi chiese: «Perché non andiamo comunque a fare due chiacchiere con Michelle?».

«Dirà semplicemente di no.»

«Laddove c'è un avvocato c'è un piano.» Lui sorrise, e il suo buffo viso assunse un'aria da ragazzino. «Magari riesco a convincerla.»

Michelle sapeva che non avrebbe dovuto esporsi alla tentazione prima di avere elaborato fino in fondo il progetto per il negozio, ma un fornitore le aveva mandato per e-mail un'anteprima delle coperte di lana merino più splendide che lei avesse mai visto e le riusciva molto difficile non sfoderare la sua carta di credito per piazzare subito un sostanzioso ordine.

“Potrei comprarne qualcuna per lo Home Sweet Home e vedere come vanno”, pensò, facendo scrolling lungo l'e-mail e impilando mentalmente le coperte di un rosa fiore di ciliegio sul cassettone sopra cui teneva attualmente le fodere lavorate ai ferri per le boule dell'acqua calda.

L'immagine nella sua testa si trasformò in quella del grande letto d'ottone che progettava di sistemare nella zona della libreria attualmente occupata dalla sezione dei libri per l'infanzia e in seguito divenne un'esposizione molto più sontuosa, con quilt coordinati realizzati dalla cooperativa artigianale della Pennsylvania che aveva trovato su Internet e stivaletti di pelle di montone della

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Cornovaglia allineati sugli scaffali retrostanti. Le scaffalature potevano restare: avevano le dimensioni ideali per confezioni di saponette alla cera d'api e pochi tascabili squisitamente appropriati. Tascabili lilla e color crema: perfetti. Magari qualcuno di quei libriccini vintage arancioni della Penguin.

Scribacchiò: «A Book at Bedtime?» sul taccuino, ipotizzando un nome per il nuovo negozio, e infilzò la forchetta negli avanzi della pasta fredda presa in gastronomia.

A metà gennaio era già venuta meno al suo proposito per il nuovo anno di non lavorare durante la pausa pranzo, ma c'era talmente tanto da fare con i due negozi che non le restava altra scelta. Adesso si trovava nell'ufficio imbiancato a calce sul retro dello Home Sweet Home perché non voleva lasciare Gillian sola nel negozio mentre Kelsey era in quello accanto a sostituire Anna.

Anna che – guardò l'orologio – sarebbe dovuta tornare da un momento all'altro dalla sua missione di misericordia da bibliofili.

Annotò qualche altra idea sulla biancheria da letto, con un orecchio drizzato per captare l'eventuale suono di un'emergenza di vendita dall'altra parte del muro, poi sentì dei passi avvicinarsi all'ufficio.

“Ti prego, fa' che non sia Owen”, pensò. Il fratello aveva già cominciato ad accennare al bisogno di un «prestito temporaneo» per coprire alcune spese. Michelle non capiva quali potessero essere, visto che lui sembrava presentarsi a casa sua per la cena almeno una sera su due e ciondolava nel suo salotto più a lungo di quanto lei avesse previsto. Non le dispiaceva: dopo lo spavento provato nella libreria era segretamente sollevata di avere lì qualcuno, nel caso Harvey si facesse vivo. Ma continuava a non esserci traccia del nuovo sito web, nonostante le sue frequenti sollecitazioni.

Cerchiò: «Sito web – Owen!» sulla lista di cose da fare, poi lo sottolineò.

«Michelle?»

Alzò gli occhi. Anna era ferma sulla soglia, rossa in volto e con l'aria eccitata, ciocche di capelli biondi che le si erano sfilate dal berretto di lana. Aveva gli occhi lucidi come se avesse appena pianto, ma sembrava felice, non sconvolta.

Il viso di Anna era come una vetrina affacciata sulla sua anima, pensò lei. Nessuna tendina, nulla. Non stupiva che quelle ragazze le dessero dei punti.

«Cosa c'è?»

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«Ehm, potresti venire nella libreria? Ho bisogno di parlarti di una cosa.»

«È legata al negozio?»

«In un certo senso.» Anna saltellò da un piede all'altro. «E no, non posso farlo qui.»

Michelle sospirò e rimise nel sacchetto di carta da asporto quanto restava del suo pranzo per dopo.

Rory e Anna non impiegarono molto a esporre il loro suggerimento e Michelle impiegò ancora meno a dire di no.

«Non voglio un cane», ripeté, nel caso l'affermazione non si fosse ancora aperta una breccia nel loro muro di suppliche.

«Ma perché? Non si può dire che tu salti su un aereo tutti i weekend per andare a fare una minivacanza.» Il cuore tenero come burro di Anna era in bella mostra. «Hai detto tu stessa che ami stare in casa. Tavish potrebbe rimanervi insieme a te.»

«Potrei voler fare delle minivacanze.» Michelle lanciò un'occhiata in tralice a Rory, nel caso stesse ridendo di lei sotto i baffi. «E comunque sono via quasi tutti i fine settimana, alle fiere.»

«Potresti portarlo con te. È piccolo. Potresti prendergli un trasportino di stoffa.»

«Non voglio un cane che entri in una borsetta», affermò lei. «Non è una cosa da cani.»

«Ha vissuto in un negozio per tutta la vita», sottolineò Rory. «Voi due siete fatti l'uno per l'altra. Tu sei stata addestrata a vendere. Sei la sua proprietaria ideale, lo saresti anche se non avessi preso in affitto la sua vecchia casa. Cosa che hai fatto.»

Michelle lottò contro il senso di costrizione al petto. Non si trattava solo della sensazione di dover affrontare due persone che avevano fatto comunella e letto troppi libri di Lassie e nemmeno del senso di colpa all'idea di tradire Flash, in un certo senso, ma di un panico più cupo che le stava montando dentro, simile a un palloncino che si gonfiava. Non le piaceva che altre persone, altre cose, interferissero con il quieto ordine che si era costruita intorno. Era troppo difficile

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spiegarlo senza sembrare pazza, quindi forse era più semplice lasciare pensare agli altri due che il problema fossero i suoi tappeti.

«Un cane rappresenta un legame di cui al momento non ho bisogno», sbottò, in tono improvvisamente brusco. «Mi riferisco al dover pensare continuamente a qualcos'altro. Sfamarlo, addestrarlo... E, prima che possiate anche solo suggerirlo, no, quel cane non può andare a stare con Owen nell'appartamento. È già abbastanza brutto preoccuparsi di cosa sta facendo lui al tappeto.»

«Tavish non ha bisogno di addestramento», affermò Rory. «Ha quasi undici anni, non potrà mai essere più addestrato di così. È un cane anziano.»

Michelle inarcò un sopracciglio. «Nemmeno questo rende più allettante la prospettiva, ai miei occhi. So come sono i cani anziani. Inaffidabili. Anna, con quanta frequenza passi l'aspirapolvere?» Le puntò contro un dito accusatore. «E non fingere di non farlo due volte al giorno.»

«Due volte al...» Anna assunse un'aria colpevole. «Ehm, giusto, sì. Ma lui non ne perderà tanti come Pongo. Ho dato un'occhiata su Internet.»

«No.»

«Ma Michelle...» Lei indicò Tavish, accucciato dentro una cassa da arance vuota, a osservare il negozio con un'aria da imperatore. «Guardalo. Guardalo. Nessuno adotterà mai un cane della sua età. È stato amato per tutta la vita e adesso morirà probabilmente in una gabbia, sul nudo cemento. Tutto solo. Non stupisce che voglia disperatamente tornare a casa.»

«No.»

«Cosa ne dici della custodia congiunta?» chiese Rory.

«Non farmi ridere.» Michelle spostò l'attenzione su di lui. «Pensavo che tu rappresentassi il versante razionale.»

«Infatti. Tavish starebbe benissimo qui in libreria durante il giorno. E io lo terrei di notte. O durante alcuni weekend, dato che in vita mia non ho mai fatto una sola minivacanza.» Inserì l'ultima parola fra virgolette tracciate nell'aria, cosa che irritò Michelle. «Non pensavo che qualcuno le facesse, se non nelle pagine di Bridget Jones.»

«Non sono la dannata Bridget Jones», sbottò lei.

«Hai letto Il diario di Bridget Jones?» domandò Anna, speranzosa.

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«No, ho visto il film», rispose Michelle. «Cliente», aggiunse, felice del diversivo quando vide una donna entrare faticosamente con un passeggino.

Anna corse a tenerle aperta la porta e cominciò subito a chiacchierare dell'imprecisato argomento di cui chiacchierano gli amanti dei libri, il che di solito li portava a comprare qualcosa da lei.

Rory prese Michelle per il gomito e la guidò con discrezione fino agli scaffali dei libri di interesse locale.

«Non cominciare», lo ammonì lei. «Pensavo che ormai avessi capito che quando dico no è no.»

«Come quando hai detto che non volevi gestire questa libreria come tale e poi hai cambiato idea?» Lui la fissò con il suo irritante mezzo sorriso. «Senti, il signor Quentin è molto affezionato a quel cagnolino. Molto, molto affezionato.»

Lei lo fissò a sua volta. Non le piaceva la tenue nota di rimprovero nel tono di Rory. «Il contratto d'affitto non mi impone di ospitare i suoi animali domestici oltre alla sua invendibile collezione di libri di storia militare.»

«Non a chiare lettere.» Lui lanciò un'occhiata in tralice verso Anna per accertarsi che fosse ancora occupata con la cliente. «Ma una donna d'affari del tuo calibro capisce sicuramente che potrebbero esserci notevoli vantaggi nel fare un piacere personale al padrone di casa. Potrebbe magari spingerlo a farti a sua volta un favore, non credi?»

Il cervello di Michelle prese a funzionare freneticamente, provando a vagliare tutte le possibili ipotesi come fossero serrature. Non voleva scegliere quella sbagliata.

Lui stava dicendo che, se lei avesse preso il cane, il signor Quentin avrebbe potuto rinunciare alla sua assurda pretesa che il negozio rimanesse una libreria in perdita invece di diventare un redditizio paradiso della biancheria da letto?

Si trattava davvero di quello? Rory era un adoratore dei tascabili quasi fanatico come Anna e il signor Quentin. Quel cane era davvero così importante? Oppure Rory era semplicemente incapace di gettare la spugna?

L'opinione che Michelle aveva di lui peggiorò di nuovo, per quanto irrazionale sembrasse la cosa.

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Il suo sguardo si spinse fino a Tavish, che stava accettando pazientemente le attenzioni di Anna e della donna appena entrata; Anna gli aveva messo un cuscino nella cassa di legno e lui dava già l'impressione di trovarsi lì dal 1954 circa. Doveva ammetterlo: Tavish aggiungeva una certa atmosfera libresca al locale. Era un Kelsey canino.

Rifletté a fondo. Era già marzo. Anche se la libreria avesse continuato a realizzare il minuscolo profitto attuale, lei avrebbe comunque dovuto tenerla aperta per altri nove mesi; non c'erano soldi per coprire eventuali riparazioni d'emergenza o altri stipendi. Riusciva a stento a fare giochi di destrezza con le cifre per dare ad Anna fondi sufficienti per ordinare un costante livello base di articoli, ma se si fosse riusciti a convincere il signor Quentin che A Book at Bedtime era praticamente identico a una libreria, solo con l'aggiunta di alcuni letti...

Avvertì una fiammata di senso di colpa, ma la smorzò rapidamente. Libri e letti. Si intonavano gli uni agli altri, si sarebbe trattato solo di regolare... le proporzioni. Non ci sarebbero stati tanti libri come ora.

«Stai pensando di accettare?» la incalzò Rory.

«Fine settimana o sere feriali?»

«Gli uni e le altre. Possiamo fare a turno.»

«E chi lo porterà a spasso?»

«Non avrà bisogno di molto esercizio. Posso portarlo io a giorni alterni, durante la pausa pranzo.»

«Cibo?»

«Dubito che mangi granché. Possiamo fare cassa comune versando un contributo mensile. Diciamo venti sterline?»

Le risposte di Rory erano rapide e professionali, diverse dai modi pasticcioni da lui esibiti nel suo studio. Quella trattativa conferiva un'espressione lucida e sicura al suo viso che, lei doveva ammetterlo, era piuttosto attraente. Per essere quello di un mascalzone abbandona-bebè.

«E tu lavorerai sull'eventuale possibilità di eliminare anticipatamente la clausola sulla libreria?»

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«Parlerò al signor Quentin sia in veste di suo esecutore sia in quella di co-tutore del suo cane.»

Michelle si chiese se si fosse mostrato altrettanto accomodante o bramoso quando si era trattato della custodia del figlio. «Affare fatto», disse.

Anna li raggiunse di corsa. «Michelle», sibilò. «È Rachel, del canile. È venuta a prendere Tavish. Cosa devo dirle?»

Rory e Anna la fissarono con aria di aspettativa. Fra gli stupidi capelli flosci di lui e la biondezza di lei sembravano due dei Sette di Enid Blyton, pensò Michelle. “Com'è successo?”

Era colpa del negozio? In tal caso preferiva non sapere in cosa si stava trasformando lei.

«Dille che... Tavish può restare», rispose, sperando di non commettere un grosso errore.

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Capitolo 13

«C'è una corroborante schiettezza nei libri delle vecchie serie ambientate in collegi femminil,i come Malory Towers e Chalet School; essere ricca o bella non è mai importante come essere gentile o coraggiosa. E tutti hanno sempre quel che si meritano. E si fanno festicciole a mezzanotte.»

Rachel Fenwick

«Sai, non avevo mai pensato di dire una cosa del genere a un potenziale nuovo proprietario», affermò Rachel del canile, guardandosi intorno nell'elegante salotto di Michelle con un'espressione invidiosa sul volto, «ma credo che la tua casa sia quasi troppo bella per portarvi un cane.»

«Grazie», replicò Michelle con un sorriso fiero.

Benché Rachel, tecnicamente, facesse parte della similmafiosa compagine cinofila di Longhampton, visto che era proprietaria del canile e moglie del veterinario locale, non portava un gilet trapuntato né abbinava il cappotto a quello del suo cane. Era una delle migliori clienti di Michelle allo Home Sweet Home e l'unica persona di sua conoscenza che non parlasse di Londra come se fosse una meta immaginaria al pari di Narnia o del paradiso.

Se lei avesse avuto più tempo libero per socializzare o Rachel avesse fatto jogging, probabilmente loro due sarebbero andate d'amore e d'accordo, pensò Michelle.

«Non riesco a credere che tu non ti sia rivolta a un arredatore.» Rachel si guardò intorno, osservando il parquet e le modanature restaurati. Il portablocco a molla con la lista di controllo preaffido le penzolava dalle mani, con tutte le caselle spuntate e la maggior parte dello spazio extra riempito da indirizzi di siti web e dritte sull'arredamento avuti da Michelle mentre visitavano la casa.

«Oh, è solo che sono tutte cose che amo.» Lei si strinse nelle spalle con aria modesta, ma sapeva che quel giorno il salotto appariva particolarmente elegante, con la luce del sole primaverile che si rifletteva sull'acqua del canale proiettando increspature luminose sulle pareti blu Cina. Ovunque c'erano spettacolari mazzi di narcisi di un giallo acceso, e lei aveva portato a casa un'intera scatola di candele profumate per prepararsi a mascherare con impegno l'odore di cane.

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Tavish era tornato al canile per un paio di notti di coccole – in realtà, le confidò Rachel, perché il personale voleva salutarlo in maniera adeguata – e intanto lei e Rory si erano attrezzati per il suo arrivo nelle rispettive case.

Non era sicura di cosa avesse fatto Rory, ma lei aveva riservato alla bestiola un'area in fondo alla cucina e comprato l'unica cuccia semielegante che fosse riuscita a trovare nel megaemporio di prodotti per animali. Aveva resistito alla tentazione di scatenarsi con cuscini e giocattoli vari: Tavish era un pensionante, non un inquilino.

Rachel prese una colomba di vetro soffiato e sospirò. «Vorrei avere il tempo di modificare casa mia. Un tempo leggevo tutte le riviste, sai, “Elle Decor” e “House Beautiful”...» Scoppiò a ridere. «Quei giorni di tappeti bianchi minimalisti sono ormai acqua passata, passata, passata.»

«Perché? Cos'è successo?» In cuor suo Michelle non riusciva a capire chi lasciava piombare la propria casa nel caos. Non serviva altro che una routine fissa, un briciolo di disciplina e un'adeguata sistemazione degli oggetti. «Non ti ci vedo a vivere in una discarica», aggiunse, notando la perfetta messa in piega e le unghie rosso scuro di Rachel. «Ti immagino invece con un tavolo di cucina ben strofinato e una miriade di biancheria di lino irlandese.»

L'altra scoppiò in una sonora risata, un suono generoso venato da giusto un pizzico di rimpianto. «Magari! No, mi sono trasferita da un monolocale molto chic in un'enorme vecchia casa, e ho avuto un bambino, e preso un cane, e ho finito per vivere con un uomo secondo cui l'ordine è un segnale del fatto che non hai abbastanza da fare... Le tue priorità cambiano, no?» Rimise al suo posto la colomba di vetro. «Per mia fortuna, di solito i sopralluoghi nelle case mi convincono che non sono l'unica ad avere roba accatastata in ogni angolo. Non oggi, però!»

Michelle fece un sorrisetto tirato ma provò un pizzico di risentimento per il commento sulle «priorità», tanto più perché fino a quel momento aveva provato una sorta di cameratismo nei confronti di Rachel, come se loro due fossero eleganti outsider e compagne d'armi. Come mai avere figli ti forniva una sorta di asso morale che trasformava una casa elegante in un segnale che non avevi «abbastanza da fare»? Rendere il più rilassante possibile l'ambiente in cui si vive non era una specie di fallimento.

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«Comunque mi hai fatto venire voglia di andare a casa a rassettare», aggiunse Rachel con un'ultima occhiata ai mobiletti su misura. «Diamo un'occhiata al tuo giardino posteriore?»

Dopo aver approvato («Steccati, magnifico – non che Tavish avrà voglia di andare lontano...») e ammirato («Quei vasi! Dove li hai trovati?»), le passò una serie di fogli graffettati.

«È il nostro set di istruzioni standard per i proprietari novelli», spiegò. «Le ha scritte mio marito, il veterinario più autoritario del mondo, e si dilunga parecchio, ma è pur sempre meglio che sentire la ramanzina direttamente dalle sue labbra.»

«Ho già avuto dei cani», precisò Michelle. «Avevo...» Si interruppe, consapevole che nemmeno Anna sapeva ciò che si accingeva a rivelare a Rachel. Non aveva mai menzionato la cosa perché si vergognava di avere abbandonato Flash, di non essersi battuta più strenuamente per tenerlo con sé quando Anna si sforzava tanto di amare Pongo insieme alle ragazze. Inoltre l'accenno avrebbe portato a imbarazzanti domande su Harvey, e lei non voleva dover rispondere nemmeno a quelle.

«Avevo uno spaniel insieme al mio ex marito», confessò. «Flash. Un cane adorabile, un working cocker bianco e nero. Naso macchiettato.»

«Ahia.» Rachel assunse un'aria comprensiva. «L'ex ha ottenuto la custodia?»

«In un certo senso. Io volevo trasferirmi qui per ricominciare da capo e Flash passava un sacco di tempo con i cani dei miei genitori, così...» Michelle si strinse nelle spalle. «Il mio ex ha proposto le visite durante il weekend, ma ho preferito non confonderlo.»

L'ultimo termine si riferiva a Flash e a Harvey.

«Dev'essere difficile», commentò Rachel. «Scommetto che ti manca.»

Quando vide Michelle annuire senza parlare, interpretò il suo silenzio come rimpianto, riprendendo a parlare con confortante gaiezza.

«Comunque è magnifico che ora tu stia offrendo una casa a Tavish. È poco ortodossa, questa condivisione del cane, ma credo che per lui sia meglio che restare in canile. A proposito», disse guardando l'orologio. «Devo fare un salto nell'appartamento di Rory per esaminarlo.»

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«Ti do un passaggio», si offrì Michelle. «Ha lasciato le chiavi nella libreria per consentirti di entrare da sola, se non è ancora arrivato. Hai bisogno di intervistarlo?»

«Rory? No.» Rachel sorrise. «Lo conosciamo, su al canile. È uno dei volontari che portano a passeggio i nostri cani nel fine settimana. Accompagnava sempre la signora Quentin, quando ha cominciato a essere un po' malferma sulle gambe e non riusciva a farcela da sola. Un tipo simpatico.»

Il cervello affaristico di Michelle si chiese di colpo cosa un vicino preoccupato come Rory potesse sperare di ereditare alla morte del signor Quentin. Era già il suo esecutore testamentario. Forse c'era stato un obiettivo ben preciso, nel suo portare a spasso i cani. O meglio una strategia a lungo termine.

«Sì», concordò. «Un tipo simpatico.»

Nella libreria Anna posò la borsa sul bancone e fissò Kelsey, ma la ragazza aveva il telefono incastrato fra orecchio e spalla e si stava spingendo indietro le cuticole delle unghie. Sentendone il tono di voce Anna dedusse che stesse parlando con la sua migliore amica, l'assai paziente Shannon, che lavorava nella gastronomia lì di fronte.

«Non c'è Michelle?» chiese, ma non ebbe risposta.

Si domandò se poteva trovare un libro sul linguaggio dei segni, così Kelsey e Shannon avrebbero potuto restarsene semplicemente sedute sul davanti dei rispettivi negozi e parlarsi a gesti attraverso le vetrine. Le loro mani sarebbero state chiazze indistinte, pensò, in perenne movimento come quelle delle donne francesi che un tempo sferruzzavano accanto alle ghigliottine.

«...e io ho detto: “Posso vedere Ethan se voglio, Jake, non sono una tua proprietà”, e lui ha detto: “Ascolta, Kelsey, la cosa non mi piace granché...”.»

Anna tossicchiò e fissò la ragazza finché lei non si voltò e disse: «Senti, Shannon, dovrò richiamarti, sì, sono al lavoro», poi riagganciò.

«Non c'è Michelle?» ripeté Anna. Erano quasi le dieci e un quarto, e lei stessa era in ritardo.

«No, la responsabile del canile sta controllando casa sua.» Kelsey dava l'impressione di avere pianto o fatto le ore piccole. Forse entrambe le cose. I suoi grandi occhi azzurri erano lucidi e corredati di borse del colore dei funghi. Anna

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non sapeva se a causarle fosse stato Ethan o Jake. Era troppo difficile tenersi al passo con gli sviluppi.

“Grazie a Dio non devo affrontare una cosa del genere con Becca”, pensò, provando un empito di sollievo per le figliastre studiose. “E terrò le dita incrociate perché Chloe rimanga totalmente fissata sul tentativo di fare colpo su Simon Cowell invece che su uno dei suoi compagni di classe.”

«Stai bene?» chiese.

«Benissimo.» Kelsey tirò su con il naso.

«Bene. Ascolta, puoi fare una cosa per me.» Anna prese dalla borsa alcune cartoline e delle penne d'argento. «Credo che tu non abbia ancora raccomandato nessun libro, vero?»

«Io non leggo libri», affermò lei, allarmata.

«Scommetto di sì, invece. Cosa mi dici di Harry Potter? O qualcosa di divertente, come I love shopping? Voglio delle letture consolatorie. Libri che ti danno un senso di tepore, libri da leggere quando fuori piove.»

«Potrei parlare di Harry Potter, credo», replicò Kelsey in tono dubbioso. «Il primo della serie era breve, giusto?»

«Esatto! È questo lo spirito giusto. Devi solo compilare questa cartolina. Non mi serve una dissertazione.»

Kelsey guardò il pezzo di carta con aria indecisa. «Quanto grande posso scrivere?»

«Quanto vuoi. Ecco una penna d'argento. Avanti!» la incoraggiò Anna.

La campanella all'ingresso tintinnò e Michelle entrò, seguita da Rachel. Stavano parlando tutte e due al cellulare, anche se Rachel interruppe la chiamata quando si avvicinò al bancone e sorrise.

Kelsey diede un'unica occhiata a Michelle, impegnata in una conversazione molto tesa con qualcuno, e corse subito nella stanza sul retro.

«Ciao!» disse Anna a entrambe. Aveva riordinato il negozio per farlo apparire il più possibile adatto a un cane e aveva infilato alcuni biscotti di Pongo nel cassetto, per sicurezza.

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«Buongiorno», replicò Rachel. «Se hai le chiavi facciamo un salto di sopra, così posso controllare che l'appartamento di Rory non sia pieno di animaletti di peluche e tagliole.»

«Di cosa sarà mai pieno?» si chiese ad alta voce Anna. «Cosa c'è nell'appartamento di Rory» era un altro gioco che facevano lì nella libreria nei momenti di calma. Persino Becca vi partecipava. «Spadoni scozzesi e set di scacchi? Oppure radio a galena e Dalek del Doctor Who a grandezza naturale?»

«Manuali di giurisprudenza e vecchie copie di riviste sul modellismo ferroviario, direi.» Rachel sorrise e cominciò a rovistare nello scatolone di libri per bambini «Quattro al prezzo di tre.»

«Io me lo immagino simile all'appartamento di lord Peter Wimsey, l'investigatore nato dalla penna di Dorothy Sayers», affermò Anna. «Libri e manufatti da scapolo.»

Michelle aveva finito di telefonare e le rivolse un'allibita occhiata, della serie: “Non credo proprio”.

Anna ricambiò lo sguardo torvo. Non riusciva a capire perché la sua amica ce l'avesse tanto con Rory. Dipendeva dal figlio di lui? Lei aveva tentato di spiegarle che le famiglie sono complicate, ma Michelle sembrava tenersi semplicemente aggrappata a quella storia, come se le servisse un motivo per non fidarsi di lui.

«Rory non può venire», disse ora, infilandosi in tasca il cellulare. «Ma è felice che ti mostri io la casa. Vogliamo andare?» Indicò il piano di sopra.

Anna guardò le due donne avviarsi verso l'uscita con le chiavi, poi la sua innata curiosità ebbe la meglio su di lei e la spinse a gridare verso la stanza sul retro: «Puoi occuparti tu del bancone, Kelsey? Faccio un salto di sopra anch'io».

L'appartamento di Rory aveva le stesse dimensioni e la stessa pianta di quello in cui era attualmente spaparanzato Owen, ma le somiglianze finivano lì.

Ogni parete era occupata da scaffalature, e i pochi spazi non gremiti di libri erano tinteggiati di uno scialbo color magnolia. Evidentemente non veniva ristrutturato da anni e in alcuni punti Anna riuscì a distinguere carta da parati di diverse epoche: sgargianti motivi anni Settanta nel bagno, frondosi disegni floreali anni Cinquanta nell'ingresso.

C'erano una spada laser di Guerre Stellari fissata al muro, una ruota di bicicletta nell'ingresso e due enormi scatoloni di «ciarpame maschile assortito»

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rimasti evidentemente arenati lì sin dal giorno del trasloco. L'aria odorava di bucato messo ad asciugare sui termosifoni; un odore non sgradevole ma inusuale in una casa. Quello era, molto palesemente, l'«appartamento d'emergenza post relazione» in cui Rory non si era mai insediato fino in fondo. Anna sentì crescere la solidarietà nei suoi confronti quando vide il lettino nuovo di zecca ancora imballato, posato contro la porta. Comprato ma mai usato.

Lanciò un'occhiata in tralice a Michelle e capì dal suo naso arricciato che non solo aveva visto il lettino ma, per di più, stava morendo dalla voglia di rassettare e applicare qualche mano di emulsione sopra la pacchiana carta da parati.

«Dio, quanti ricordi», confessò Rachel. «La casa di mio marito era identica a questa, quando l'ho conosciuto. Gli scapoli si limitano a riempire la casa di... roba. Ogni corridoio è come un lago, pronto a sbarrare l'accesso a intere stanze.»

Con la coda dell'occhio Anna vide Michelle raccogliere uno strofinaccio da terra e poi, non trovando un gancio a cui appenderlo, far schioccare la lingua e posarlo sulla maniglia della porta.

«Conosci Rory da molto?» chiese a Rachel.

«Da un po'», rispose lei, spuntando alcune caselle. «Inizialmente portava a spasso i cani con la sua ragazza; dopo la rottura con Esther, lui ha continuato ad aiutare Agnes. Lei e Cyril gli hanno permesso di trasferirsi qui. Probabilmente è la casa dei suoi sogni, dato che si trova sopra una libreria.»

«Ma non la casa dei sogni di Esther?»

Rachel alzò gli occhi. «Presumo che tu non l'abbia mai incontrata, vero?»

Anna scosse il capo.

«Questa non è certo la sua casa ideale», affermò l'altra in tono risoluto. «Credimi.»

«Abita ancora qui in città?» In maniera alquanto seccante, nell'appartamento di Rory, come in quello di Michelle, non c'era alcuna foto che potesse consentire ad Anna di associare un viso al nome. «Con Zachary?» aggiunse, nel caso il dettaglio inducesse Rachel ad aprirsi maggiormente.

Ottenne l'effetto desiderato. «No, si sono trasferiti altrove. Poco dopo la separazione da Rory lei ha sposato un altro. Povero Rory.»

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Anna guardò fugacemente Michelle per vedere se stava ascoltando, ma l'amica era troppo impegnata a osservare con disgusto la scatola piena di custodie per cd crepate.

«Perché “povero Rory”?» chiese. «È stata una rottura complicata?»

Rachel fece una smorfia. «Puoi ben dirlo. Non è sempre così, quando sono coinvolti dei bambini? Ma a quanto pare hanno trovato una soluzione, quindi la cosa migliore è che Rory si lasci tutto alle spalle.» Si interruppe. «Scusa, non voglio suonare bigotta, ma so cosa vuol dire quando una vecchia relazione continua a seguirti. Questa è una città così piccola!»

«Rory ha bisogno di ricominciare da capo», affermò Anna.

«Sì!» Rachel picchiettò un dito sul portablocco. «Speriamo che Tavish diventi parte integrante della cosa. Incredibile quale efficace catalizzatore per le storie d'amore possa essere un cane.»

Anna annuì, pensando al modo in cui Rory aveva guardato Michelle in libreria, e si chiese se lui avesse detto qualcosa a Rachel. Michelle rappresentava una bella sfida, come nuovo inizio, ma lei e Rory avevano molto in comune. Erano entrambi single, reduci da esperienze sentimentali negative, professionali... Forse non condividevano l'interesse per l'arredamento, però.

«Si direbbe che abbia iniziato a prepararsi», disse, indicando il cucinino.

Rory aveva posato su un giornale due ciotole metalliche per cani; accanto a esse aveva scritto a lettere maiuscole con un pennarello nero per mangiare! e aveva piazzato un grosso sacco di cibo per cani di alta qualità di fianco alla lavatrice. C'erano anche un guinzaglio, un collare a scacchi e un berretto da Babbo Natale preso nel supermercato per animali, con ancora attaccato l'adesivo dello sconto del cinquanta per cento, e una brandina per cani a scacchi, per dormire! Rachel rise e spuntò qualche altra casella sulla sua lista di controllo.

Anna si voltò per scoprire Michelle intenta a fissare una pila di riviste automobilistiche sormontata da un pupazzo Thunderbird e a borbottare fra sé e sé. Tossicchiò per attirare la sua attenzione sul grosso acquerello raffigurante una tempesta marina appoggiato al muro.

Michelle fece una smorfia che sottintendeva un: “Sì? Allora?” e cominciò a sprimacciare i cuscini appiattiti che vedeva in giro.

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«C'è un accesso esterno a questo appartamento, vero?» domandò Rachel, con la penna pronta a scrivere.

«Sì, Rory ha un cortiletto in comune con la libreria.» Anna preferì non rivelarle che Michelle si era detta intenzionata a trasformarlo in un'area caffè. «Ma Tavish verrà portato al parco durante la pausa pranzo e dopo che chiudiamo. Per lo più rimarrà dove stava sempre un tempo, sotto il bancone.»

«Perfetto.» Rachel appose una firma svolazzante in calce alla lista di controllo. «Si direbbe che sia caduto in piedi, o meglio sulle zampe.» Si interruppe un attimo prima di aggiungere: «E per Rory sarà piacevole avere un po' di compagnia».

«Buffo», commentò Anna. «È esattamente quello che ho detto io a Michelle.»

Si guardarono per un attimo, poi Michelle comparve dietro di loro.

«Tutto a posto?» Il suo sguardo perlustrò la piccola cucina, molto più in ordine del resto dell'appartamento.

«Sì», rispose Anna. «Tutto magnifico. Ooh! Quella è una macchina per la pasta? Rory dev'essere di bocca buona.» Guardò in tralice l'amica per vedere se avesse colto l'allusione. «E adoro queste grandi foto di... ehm, orologi. Chissà se le ha scattate lui.»

«Probabilmente sì. È un po' un artista», ribatté Rachel, annuendo con una foga giusto un pizzico eccessiva. «Si è occupato lui delle foto per il mio ultimo open day al canile.»

Michelle si voltò a guardarle come se fossero matte. «Un artista alla Tracey Emin, magari», ironizzò. «Abbiamo finito? Perché temo che alla mia giacca stiano per spuntare delle toppe di cuoio sui gomiti.»

Al piano di sotto Rachel puntò direttamente verso il tavolo di romanzi ambientati in un collegio che Anna aveva allestito in un angolo del locale di accesso al pubblico, il suo preferito e di gran lunga il più popolare fra adulti e bambini indiscriminatamente. Aveva aggiunto alla pila di libri sottili alcuni righelli, mele e distintivi da capoclasse, e realizzato «pagelle» per vari personaggi familiari: Pat e Isabel O'Sullivan, Mary-Lou Trelawny, Marmalade Atkins.

«Queste sono le copertine che ricordo!» Rachel le mostrò un volume di seconda mano accanto all'edizione moderna appena ordinata nuovamente da

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Anna. «È così che ricordo Darrell Rivers, non come è raffigurata lì. Darrell non avrebbe mai messo il lucidalabbra.»

«Certo che no! Anche se Gwendolyn lo avrebbe fatto.»

«Gwendolyn sarebbe stata una di quelle ragazze da burrocacao», disse Rachel. «Sai, di quelle che non fanno che metterselo.»

«Non c'era una ragazza americana arrivata alla Malory Towers tutta fascinosa, con capelli arricciati e belletto? Fui costretta a chiedere a mia madre cosa fosse il belletto.» Anna sospirò con aria nostalgica. «Suonava così esotico. Così affascinante. Probabilmente quello che desideravo davvero era tornare indietro nel tempo.»

«Io volevo avere un pony a scuola», ammise Rachel. «E festicciole di mezzanotte e due insegnanti di francese e gessetti magici. Ho pianto quando i miei genitori si sono rifiutati di mandarmi in collegio. Ho pianto quando hanno detto che mi volevano troppo bene per mandarmi via.»

«Tu non sei andata in collegio, Michelle?» chiese Anna. «E i pony a scuola?»

Michelle stava raddrizzando apertamente i tappetini arrotolati nella cesta accanto alla cassa. Per un attimo Anna pensò che l'amica le stesse bellamente ignorando.

«Michelle?» ripeté.

Lei alzò lo sguardo: il suo viso era una maschera di indifferenza. «Niente pony nella mia scuola. No.»

«Dove sei andata?» Rachel si voltò, interessata. «Mi rifiuto di credere che non ci fosse una piscina all'aperto incassata fra le rocce.»

«Non era una scuola famosa. Nessuna piscina all'aperto. Nessuna festicciola di mezzanotte. Ammettevano le ragazze solo all'ultimo anno delle superiori, per paura che distogliessero i ragazzi dal latino.»

Anna si chiese se Michelle si stesse solo dimostrando timida, preferendo non ostentare la sua educazione raffinata. Facendo due più due in base al poco che l'amica le aveva raccontato della sua famiglia – e all'aneddoto che Owen aveva riferito a lei e Becca sull'avere imparato a guidare su una Jaguar – sembrava che fossero circolati parecchi soldi. Avrebbe voluto dire a Michelle che non aveva

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importanza, ma non riusciva a escogitare un modo per farlo senza attirare ancor più l'attenzione sulla cosa.

«Michelle», disse, sollevando un altro titolo di Enid Blyton, e poi agitandolo con fare accusatore. «Eri: “L'alunna più birichina della scuola”? Scommetto di sì. Sei stata espulsa per avere gestito il negozio di dolciumi in modo proficuo e avere intascato la differenza?»

«Ooh», intervenne Rachel, dandole manforte, «hai forse tagliato la treccia di un'altra ragazza per darle una lezione? Sei stata sorpresa a fare gite al chiaro di luna lungo il sentiero sulla scogliera e fino all'ufficio postale... ma con dei ragazzi?»

Due chiazze di un rosso acceso comparvero sugli zigomi di Michelle, sotto l'impeccabile fondotinta. «In realtà», disse, «sono stata espulsa davvero. Non è esattamente lo spasso di cui leggi nei libri. Soprattutto quando hai dei genitori come i miei. Mia madre non mi ha ancora perdonato del tutto.»

«Starai scherzando!» esclamò Rachel. «Scusa, ma a quanto pare la cosa non ti ha nuociuto, vero? Sei la donna d'affari dell'anno, qui nella zona.»

Anna non si riprese prontamente come Rachel ma fu assalita da una dolorosa ondata di senso di colpa retrospettivo per tutte le cose stupide che doveva avere detto. L'espulsione avrebbe spiegato perfettamente come mai Michelle aveva un simile complesso riguardo all'università e ai libri, mentre Anna aveva semplicemente dedotto che lei avesse scelto di iniziare a lavorare nella concessionaria paterna. Dentro di sé si fece piccola per la vergogna. Ma Michelle si era già stampata in faccia un sorriso alquanto forzato e si stava mettendo la borsa a tracolla. «Secondo mio padre è stata la mia fortuna. Lui è quello che mi ha dato un lavoro, però, quindi è logico che dica così. Lieta di averti conosciuto, Rachel», concluse, tendendole la mano. «Se ci sono problemi con Tavish mi avviserai, vero? Ti spedirò subito la donazione.»

«Oh, non ne chiediamo una a chi adotta quelli anziani.»

«No, sul serio», replicò Michelle. «Voglio farlo.»

«E io ho pensato che potremmo dedicare un angolo speciale ai libri sugli animali, qualcosa tipo: “La scelta di Tavish”», spiegò Anna. «Michael Morpurgo, Dodie Smith e Dick King-Smith...»

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Michelle fece lampeggiare di nuovo il suo sorriso tirato. Non le rischiarava il volto come il suo vero sorriso, pensò Anna. Somigliava più a una maschera, volta a impedirti di vedere cosa lei stesse pensando davvero. «Splendido. Come preferisci. Tira fuori una ciotola per cani. Comunque, signore, ora devo scappare!» E se ne andò.

Rachel guardò Anna con una smorfia contrita. «Ooops. Ho forse fatto una gaffe? Pensavo stesse scherzando.»

«Non ne avevo idea.» Anna fissò la porta, laddove la campanella stava ancora vibrando. «Mi aveva detto che aveva frequentato un collegio, ma non sapevo assolutamente che fosse stata espulsa. Non l'ha mai menzionato.»

«Tutti abbiamo i nostri punti dolenti», affermò Rachel. «Forse il problema è più sua madre che non l'espulsione.»

«Forse», ribatté Anna. Cominciava a pensare che la donna fosse davvero perspicace. Oppure era solo che lei era stata troppo indaffarata per notare quelle cose?

«Devo andare a riprendere mio figlio dalla babysitter.» Rachel posò con palese riluttanza i libri di Enid Blyton. «Ma avrei una gran voglia di rimanere qui a sfogliare questi e parlare con te di sardine in scatola e latte condensato...»

«Torna quando vuoi», disse Anna. «Porta delle amiche. Abbiamo sedie, caffè e molti, moltissimi libri. Non ti obblighiamo a dibatterne la rilevanza letteraria.»

«Sembrerebbe proprio il mio genere di club del libro», asserì Rachel. Sventolò verso di lei un volume della serie Chalet School. «Stai in guardia. Le neomamme affamate di nostalgia stanno per arrivare.»

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Capitolo 14

«Harry Potter e la pietra filosofale è molto meglio di quanto mi aspettassi, solo che non ho capito perché lui non si procurasse risultati d'esame e biglietti della lotteria usando la magia.»

Kelsey Maguire

Mentre le mattinate primaverili diventavano più luminose e l'aria più mite, Michelle notò tracce dell'estate incipiente che si insinuavano furtive nella sua corsa intorno alla città. Il suo sguardo acuto non andava in cerca di boccioli sui cespugli di rose nei parchi o degli spumosi fiori di ciliegio che facevano brillare l'alzaia del canale, bensì dei primi barbecue riciclati che comparivano nei giardini e della messe di suoi ombrelli pieghevoli superleggeri che sbocciavano come papaveri alla fermata dell'autobus. Vederli le risollevò il morale, facendole affrontare il tratto finale con una particolare elasticità nel passo.

Aveva dovuto accelerare leggermente l'andatura durante i suoi giri perché se non rincasava nel giro di quaranta minuti Tavish glielo faceva notare. Palesava la sua contrarietà nel vedersi costretto ad aspettare per la colazione salendo sul davanzale e abbaiando a qualunque cosa gli passasse davanti, con la lunga barba grigia che tremolava per lo sdegno. Poiché la sua vista non era più quella di un tempo, aveva già fatto cadere un'orchidea in vaso sullo schienale del divano color crema e, di conseguenza, Michelle migliorava i suoi tempi di giorno in giorno per paura di quello che avrebbe potuto trovare al suo ritorno.

Tavish amava la routine quanto lei. Sonnecchiava tutto contento finché Michelle non tornava dalla corsa mattutina, poi usciva per una pipì e un'annusatina in giardino mentre lei era sotto la doccia, dopo di che facevano colazione insieme mentre lei rivedeva la sua lista di promemoria. Poi andavano in libreria, dove lui controllava Anna e i clienti fino alle sei quando, dopo una dura giornata trascorsa a ricevere pacchette e vedersi passare biscottini furtivi, tornava a casa con Michelle e si sistemava nella sua cesta sotto il tavolo mentre lei navigava su Internet cercando nuovi fornitori e aggiustava il proprio piano di battaglia per l'anno in corso.

Nessuno dei due amava granché le coccole. Tavish sfoggiava quasi sempre una riservata indipendenza che rasentava la scontrosità, a parte un unico breve

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sonnellino in grembo a Michelle che si concedeva mentre lei guardava l'ultimo notiziario prima di andare a letto. A quel punto la testa del cagnolino le restava posata sulla mano per pochi minuti, ma non appena iniziavano le previsioni del tempo lui scivolava giù, raggiungendo la cesta. Tavish aveva la sua dignità – digrignava i denti quando Owen tentava di trattarlo con condiscendenza passandogli una leccornia – e Michelle lo rispettava per questo. In ogni caso, decise, viziarlo sarebbe stato sleale nei confronti di Flash. Lei e Tavish avevano un accordo, e ne erano entrambi soddisfatti.

Rory teneva Tavish dal venerdì sera fino alla domenica e, dopo tutte le storie che Michelle aveva fatto definendo i suoi weekend pieni zeppi di viaggi per comprare merce e di potenziali minivacanze, come da legge di Murphy lei si ritrovò bloccata in casa da sola durante i primi fine settimana.

Dovette fingere di essere fuori quando Anna la chiamò sul cellulare («Oh, sono appena uscita per pranzare con degli amici a... ehm, Oxford») e di nuovo quando Rory telefonò per sapere a che ora poteva portarle Tavish («No, sono a... ehm, Londra. Earls Court. Non senti il rumore del traffico perché non sono vicina a una strada»). Un paio di volte andò fuori a pranzo, ma non aveva nessuna vera amica tranne Anna e non voleva intromettersi nel tempo che quest'ultima trascorreva con la famiglia. Alla fine passò la maggior parte dei suoi weekend senza cane aggirandosi per i due negozi, stirando al piano di sopra dove nessun passante poteva vederla e risistemando l'armadio per i cambi di stagione.

Per la prima volta da quando aveva lasciato Harvey la sua routine includeva qualcun altro oltre a lei, e quasi senza accorgersene adattò il proprio orologio interno alla tabella oraria di Tavish, facendo scivolare scatolette supplementari di stufato di manzo nel suo cestello al supermercato e guardando con trepidazione l'orologio, la domenica pomeriggio, in attesa del ritorno serale del cagnolino. In segreto apprezzava la cosa. Tutti adoravano Tavish, nella libreria, e lei era l'unica autorizzata a portarselo a casa. Questo la faceva sentire parte di una squadra o come se fosse tornata a scuola. Non riusciva a definirlo con chiarezza, ma lo trovava più piacevole del previsto.

L'ultima domenica di aprile aveva delle lasagne da gourmet che si stavano scaldando nel forno e una scatoletta di supreme di pollo pronta per Tavish quando, alla consueta ora fissata per la riconsegna, sentì suonare il campanello.

«Non farti prendere dal panico», la avvisò Rory quando lei gli aprì la porta. «Non è grave come sembra.»

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Le balzò il cuore in gola. Tavish era avvolto in una vecchia felpa sopra il lungo braccio di Rory, con il muso brizzolato che ciondolava tristemente da sotto una manica e i peli della barba ingrigita incollati insieme da saliva e sangue secco.

«Cos'è successo?» boccheggiò lei. «Sta bene?»

«Benissimo. Venerdì sera ha smesso di mangiare, così sabato mattina l'ho portato dal veterinario e George ha dato un'unica occhiata ai suoi denti e gli ha fissato subito un intervento chirurgico.» Rory sbirciò sotto la felpa e con un gesto delicato levò la manica dagli occhi di Tavish. «Ne hai dovuti togliere parecchi, vero, Sdentatone?»

Tavish sbavò e lui gli asciugò la bocca con la felpa, poi riportò lo sguardo su Michelle. «Ha salivato per quasi tutto il weekend, quindi dovrai tirare fuori i tuoi teli protettivi per divani e poltrone. Tienilo lontano da qualsiasi cosa beige. Quindi forse è il giardino la scelta migliore, giusto?»

Michelle ignorò il suo tentativo di prenderla in giro – Rory cercava continuamente di dirle come ci si prende cura dei cani, come se lei non lo sapesse – e allungò una mano per accarezzare le lunghe orecchie di Tavish. Lui glielo lasciò fare senza brontolare, segno che non era del tutto in sé. «Ora sta bene?»

Vedendola così preoccupata, Rory assunse un'aria più tenera e abbandonò il tono di scherno. «George ha detto che per un po' dovrà mangiare solo pappette, ma sarà meno scontroso, ora che non ha più mal di denti. Niente digestive, d'ora in poi. Né tè.»

«Povero Tavish.» Michelle provò una fitta di senso di colpa. «Non avevo idea che i denti gli stessero dando noia.»

«Be', neanch'io, quindi ecco fatto, siamo entrambi dei genitori negligenti.»

Erano fermi sulla porta d'ingresso e dal canale arrivava una brezza fredda. Tavish rabbrividì e Michelle allungò istintivamente le braccia per portarlo dentro.

Rory glielo sistemò goffamente fra le braccia. Non fu certo facile, con loro due che tentavano di non toccarsi e Tavish che, tutt'altro che servizievole, si riduceva a un floscio peso morto. Quando lei ebbe saldamente fra le braccia il fagottino sbavante, Rory indugiò come se non fosse ancora pronto a lasciarlo. Il suo sguardo lo seguì con una premura che Michelle non gli aveva mai visto prima sul volto sardonico, e lei si sentì chiedergli: «Vuoi entrare?».

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«Ho bisogno di sapere cosa devo dargli da mangiare e quali medicine ha preso», aggiunse quando Rory fu sulla veranda, ma la verità era che non le dispiaceva rimandare ancora per un po' il controllo della sua lista settimanale. Non soltanto non aveva parlato con anima viva per tutto il giorno, ma la settimana entrante includeva un anniversario che lei non stava certo aspettando con ansia, seguito da un'inevitabile capatina in seno alla famiglia Nightingale per festeggiarlo, il giorno dopo.

Michelle avrebbe compiuto trentun anni il venerdì seguente. Preferiva non pensare a cosa Harvey poteva avere programmato per quel giorno. Qualcosa di più teatrale dei fiori che arrivavano ogni settimana nel negozio e andavano a casa ogni volta con un membro diverso del personale. Non si trovavano in casa sua, ma ogni qual volta Gillian o Kelsey la ringraziavano lei percepiva l'incombente presenza dell'uomo. Aveva perso quasi due chili dall'inizio dell'anno, solo per il nervosismo.

«Non sto interrompendo qualcosa?» chiese Rory, tornando al consueto tono canzonatorio. «Non è che sei appena rientrata da un weekend a Praga e devi ancora disfare le valigie?»

«Le ho già disfatte», mentì Michelle. «E tu? Non devi tornare di corsa a un cocktail con il bel mondo di Longhampton?»

«Potrebbe benissimo darsi.»

«Ho visto il tuo appartamento», disse lei.

«Allora avrai notato la mia collezione di padelle per saltare che non sono mai state lavate con acqua», scherzò lui.

«Buffo quanti uomini ne abbiano una. Nulla a che vedere con la paura di lavare i piatti, presumo.» Michelle raggiunse la cucina, consapevole di Rory che si guardava intorno in casa sua. L'uomo non aveva mai oltrepassato quella veranda, prima. Lei si chiese cosa stesse pensando, se l'abitazione fosse come se l'era immaginata. Gli ricordava la casa che un tempo aveva diviso con Esther? Quest'ultima gli aveva lasciato appendere al muro la sua spada laser oppure l'aveva bandita?

“Piantala”, si disse, costringendosi a smetterla subito. “Stai diventando tremenda come Anna, sempre pronta a immaginare storie in ogni dove.” Ghermì la borsetta posata su un mobile, cercando il portafoglio.

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«Quanto è costato l'intervento?» chiese. «Voglio darti metà dei soldi.»

Ma Rory la liquidò con uno sventolio della mano. «Non preoccuparti, ha pagato il signor Quentin. Ha un conto aperto con lo studio veterinario.»

«Certo, certo. Fammi indovinare: hai pagato tu perché credi che, se dai l'impressione di essere l'unico che è gentile con Tavish, lui ti lascerà l'appartamento. So a che gioco stai giocando.»

Era il loro abituale modo di scherzare, o meglio una specie. Rory adorava rammentarle le sue motivazioni non esattamente nobili nell'accogliere in casa «il cane dalle uova d'oro» e lei nutriva dei sospetti sui suoi piani a lungo termine per accaparrarsi l'attuale alloggio. Le accuse sfrecciavano avanti e indietro con leggerezza, ma le piume avevano un bordo affilato.

«Se stessi mirando a quello», ribatté Rory, «non pensi che terrei sempre io Tavish?»

«Perché fare tu tutto il lavoro quando puoi indurmi a svolgerne metà?»

«Mi piacerebbe tenerlo sempre», affermò lui, stupito. «Te lo lascio durante la settimana solo perché ti faccia un po' di compagnia. Rachel ha detto che la tua casa è splendida ma che le serve un cane che le dia un po' di vita, che la renda una vera casa.»

Mentre Michelle stava ancora cercando di riprendersi da una frecciatina che aveva colpito più nel profondo di quanto lui immaginasse, Rory sorrise, un ampio sorriso che conferì una luminosità adolescenziale al suo viso spigoloso. «Posso avere una tazza di tè? Dovendo fare da infermiere al cane non ho comprato il latte, questo weekend, quindi ho continuato a bere quell'abominevole tè alla menta che si presume uno debba tenere per gli ospiti.»

Lei aprì la bocca per replicare che il suo tè alla menta doveva essere scaduto da tempo, se lui lo teneva da parte per gli ospiti, ma quello che le uscì di bocca fu: «Questa è una vera casa. È la mia casa. Il semplice fatto che non sia caotica o piena di bambini e animali non implica necessariamente che non sia una vera casa».

Il sorriso di Rory si paralizzò. «Cosa? Non intendevo...»

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«E sono stufa marcia di sentirmi dire che ho bisogno di compagnia», aggiunse lei, spinta dallo stress represso che aveva accumulato mentre si preparava psicologicamente al sermone materno di compleanno, che anche quest'anno avrebbe attaccato con il consueto: «Non stai certo ringiovanendo». «Se avessi bisogno di compagnia ospiterei uno studente di lingue giovane e sexy. Oppure un giardiniere-massaggiatore che risieda qui in casa, non un cane che mi sparge peli su tutta la moquette. “Compagnia” è quello che si offre ad anziani parenti costretti in casa. O quello per cui pagano gli uomini d'affari!»

«Okay.» Lui sollevò le mani, sembrando sinceramente mortificato. «Mi dispiace. Non sono molto bravo a... capire quando fermarmi. Me l'hanno già fatto notare. Di solito le cose suonano meglio, nella mia testa.»

Michelle si bloccò di colpo, imbarazzata. Lo sproloquio sul non avere bisogno di compagnia era un discorso che aveva provato e riprovato nella sua testa, pronto da scagliare contro sua madre, e benché al momento fosse suonato efficace lei aveva la spiacevole sensazione che la facesse appariva leggermente folle, quando pronunciato ad alta voce. “‘Giardiniere-massaggiatore.' Santo cielo, Michelle, parli come una pensionata affamata di sesso.”

«Ricominciamo da capo?» gli propose, aggrottando la fronte in un gesto di scusa.

«Possiamo?»

«Certo. Vieni in cucina.»

Accese la radio e desiderò che Rory l'avesse sorpresa ad ascoltare questa o quella sinfonia, poi si chiese perché diamine lo desiderava quando la musica classica nemmeno le piaceva poi tanto. Era il genere di cosa che faceva sempre a scuola, costringersi ad ascoltare i Pixies nel caso arrivasse uno dei ragazzi interessanti. E Rory era un tipo interessante, nonostante la sua imbranataggine.

«Weekend fitto di impegni?» gli chiese con disinvoltura.

Fece roteare dell'acqua bollente nella teiera e tentò di ricordare cosa aveva detto di avere in programma parlando con Anna, nel caso Rory facesse un controllo incrociato.

«Non proprio. Ho portato a fare una passeggiata alcuni dei cani abbandonati di Rachel mentre Tavish era dal veterinario. Se fai due giri del parco lei ti dà un sandwich al bacon, quindi il problema del pranzo è risolto.»

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«Lo si direbbe un gesto molto bello.»

«È divertente. E i panini sono squisiti.» Prese un contaminuti che Michelle non aveva mai usato, con la forma di una pesca perfetta. «Dovresti venire», disse con nonchalance. «Quando non stai facendo una minivacanza, nel weekend.»

«Passi i fine settimana a portare a spasso dei cani e tutto ciò in cambio di un semplice panino al bacon? Ne ricavi sicuramente qualcosa di più», affermò Michelle. Avrebbe voluto dire: “È una cosa davvero dolce”, come avrebbe fatto Anna, ma il loro rapporto sembrava radicato in quell'atmosfera di continue celie e lei non riusciva a trattenersi.

Rory posò il contaminuti a forma di pesca e le rivolse un'occhiata per metà seccata e per metà divertita. «Sei molto cinica, vero? No, si dà il caso che io ci vada perché mi dà la sensazione di avere fatto qualcosa di utile al termine di una settimana in cui di solito l'unico mio compito è spostare una pila di fogli dalla mia scrivania a quella di qualcun altro. Se avessi visto come i cani erano pieni di gratitudine, oggi, solo per il rapido lancio di una pallina in un campo... forse verresti anche tu. Non è poi questo grosso impegno, davvero.»

Stavolta fu lei ad avere l'impressione di avere toccato un nervo scoperto. «Hai mai avuto un cane?»

«No. Esther ne ha sempre voluto uno, ma non riuscivamo a impegnarci con...» Si interruppe per poi correggersi, imbarazzato. «Io non volevo impegnarmi con un cane, così facevamo i volontari su al canile, invece. Ho conosciuto Cyril e Agnes proprio tramite il Four Oaks, e loro hanno avuto pietà di me e mi hanno offerto il loro appartamento quando Esther e io abbiamo rotto, quindi immagino che, se proprio vuoi essere cinica, potresti dire che ne ho ricavato dei discreti benefici. Se vuoi essere più filosofica, invece, potresti definirla una ricompensa karmica. Comunque», concluse, «mi piace fare una passeggiata, la domenica, e non è questa gran fatica portare a passeggio un paio di cani, nel frattempo.»

Riprese in mano il contaminuti e lo fece ruotare fin sul numero trenta. «Dovresti davvero venire, una volta o l'altra. Potresti conoscere persone nuove. Nuovi clienti, persino. Usa Tavish come modello per qualche collare griffato.»

Michelle posò la teiera sul sottopentola. Rory le stava proponendo di accompagnarlo là? Era un appuntamento? Lei non riuscì a stabilirlo. Qualcosa le si raggomitolò dentro, riluttante e al contempo smanioso. «Perché stai caricando quel contaminuti? Sai che farà un frastuono del diavolo, scattando.»

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«Bene. Indica fino a quando ho intenzione di trattenermi. Non appena suona, io scappo via.»

Lei spinse una tazza e il bricco del latte verso di lui. «Pensi che ti fermerai così tanto?»

«Dipende da quanto sarai sgarbata con me.» Rory sorseggiò il tè. «Già che sono qui, ho avuto un'idea per la libreria. Un mio amico ha scritto un romanzo e gli ho consigliato di organizzare lì la festa per il lancio...»

Lei si costrinse a non dirsi subito d'accordo con l'iniziativa, ma si ritrovò suo malgrado ad ascoltare e poi a cercare di non sorridere davanti allo sdegno di Rory per come il novello scrittore aveva coinvolto forzatamente tutti gli amici nella stesura del suo terribile romanzo, le telefonate a tutte le ore del giorno e della notte per chiedere la loro opinione su metodi per ammazzare qualcuno sempre più assurdi, la lista dei suoi conti in sospeso che aveva deciso di saldare con i nomi dei protagonisti. Mentre parlava le sopracciglia gli si inarcavano e riabbassavano, e le sue mani svolazzavano in giro rischiando di far cadere oggetti dal tavolo mentre spostava varie suppellettili per illustrare come fossero arrivati vicini a ucciderlo con le loro stesse mani.

Quando arrivò alla parte in cui l'amico lo costringeva a sdraiarsi sul pavimento del pub per tracciare il contorno della sua sagoma con un gessetto, onde accertare come sarebbe dovuto cadere per lasciare un «profilo interessante», Michelle scoppiò in un'involontaria risata talmente sonora che Tavish si destò di scatto nella sua cesta e abbaiò. O meglio, il suo non fu tanto un abbaiare quanto un gracchiare spaventato. Quel patetico suono li indusse a fermarsi.

«È stato intubato», spiegò Rory. «Per un po' potrebbe avere la gola irritata.»

Michelle guardò l'orologio e proprio in quel momento il contaminuti scattò con un trillo spaccatimpani e lui vi picchiò sopra la mano, smorzando il suono. Lei si chiese come mezz'ora avesse potuto passare tanto in fretta. Il tempo trascorso non era sembrato così tanto. Non stupiva che Tavish avesse l'aria seccata, visto che lo avevano costretto ad aspettare per la cena.

«Questo coso è preciso?» domandò Rory, con un sorriso che la colse alla sprovvista. «Non possono essere già passati trenta minuti.»

«Stai dicendo che la mia mercanzia è difettosa?» ribatté subito lei.

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“Chiedigli di fermarsi a cena”, strillò una vocina nella sua testa, ma Michelle non poteva farlo. E se lui avesse rifiutato? Oppure se avesse accettato per poi giudicarla una pessima cuoca? Harvey si era sempre lamentato della sua cucina e aveva insistito per portare gli amici a mangiare fuori «per far restare gli amici tali».

Prima che lei riuscisse a trovare qualcosa da dire, Rory si era alzato e aveva cominciato a infilarsi il cappotto. Michelle avvertì di nuovo il senso di costrizione al petto. Lui voleva palesemente andarsene, aveva altri programmi da rispettare. Forse aveva compagnia, al contrario di lei. L'idea di trattenerlo a casa sua si sfaldò e lei fu felice di non averlo invitato a restare.

«Avvisami se Tavish sembra diverso dal solito», disse Rory. «Ho promesso a Cyril che lo avremmo tenuto aggiornato sulle condizioni del giovanotto.»

«Ci scommetto», replicò Michelle, afferrando al volo la chance di prenderlo in giro. «Sei un vero eroe. Gli hai detto che hai sacrificato la tua felpa lacera?»

«Cosa? Oh, capisco. Stai insinuando di nuovo che io faccia tutto questo per motivi scellerati. Credevo che ormai ce lo fossimo lasciati alle spalle.»

Rory sostenne il suo sguardo e Michelle ebbe l'impressione di avere superato il limite. Rimpianse di non potersi rimangiare tutto.

Fece per dire: “Infatti”, ma lui stava parlando e lei si morse la lingua.

«Naturalmente gli dirò anche che tu stai permettendo a Tavish di sbavarti su divani e poltrone», asserì lui, poi aggiunse: «È contento che tu ne condivida la cura. In realtà ha sottolineato che hai bisogno di compagnia».

«Cosa?» chiese lei.

«Scherzavo, naturalmente. Ciao, Tavish», aggiunse Rory in tono serio. Fece un cenno di saluto con la mano in direzione della cesta. «Ciao, Michelle.»

«Ti accompagno alla porta.» Lei si alzò e lo seguì fuori, sentendosi sovrastata dalla sua alta statura. L'uomo svettava sopra di lei, soprattutto visto che Michelle calzava le sue scarpe da casa senza tacco. Si accorse troppo tardi che aveva dimenticato di chiedergli di togliersi le sue e che Rory le aveva lasciato una scia di fango all'ingresso.

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Capitolo 15

«La principessa Alanna mi ha dimostrato che puoi fare qualsiasi cosa tu desideri, purché ti ci applichi. Alanna è forte, coraggiosa e proprio il tipo di ragazza che ti piacerebbe essere.»

Angie Willocks

Nei giorni seguenti Tavish cominciò pian piano a riprendersi e approfittò pienamente della sua convalescenza a base di riso bollito, merluzzo e altre prelibatezze adatte a gengive doloranti. Michelle era costretta a rammentare a sé stessa il quadro generale mentre, ogni mattina, gli controllava schifiltosamente le gengive e gli nascondeva i medicinali in pallottoline di formaggio cremoso, ma la cosa servì a distrarla e lei si ritrovò di colpo alla fine della settimana e faccia a faccia con il suo trentunesimo compleanno.

Quando lei e Tavish raggiunsero la libreria per aprirla, Anna la stava aspettando, raggiante di entusiasmo per essersi ricordata del suo compleanno nonostante gli strenui sforzi di Michelle di far passare sotto silenzio la cosa.

«Buon compleanno! Volevo offrirti una colazione speciale, quindi è stato Phil a portare le ragazze a scuola.» Le spinse in mano un mazzo di tulipani di un bianco perlaceo, seguiti da un sacchetto di brioche della pasticceria e da un pacchetto regalo piatto e rettangolare, che Michelle sapeva già essere un libro. Fece seguire al tutto un forte abbraccio e un bacio. «Ti auguro un anno magnifico», disse fra i capelli appena lavati dell'amica.

Tavish abbaiò e Anna la lasciò subito andare per grattargli delicatamente un orecchio.

«Mi spiace che non sia più eccitante», aggiunse, «ma è solo un libro breve che potresti trovare il tempo di leggere.»

«Anna, sei troppo gentile», replicò Michelle, sentendosi sopraffatta dalla sua premura. «Non riesco a credere che tu abbia trovato il tempo di farlo con tutto quello che sta succedendo a casa tua. E sai che adoro i tulipani bianchi. Non avresti dovuto...» continuò, scartando il regalo.

Era una vecchia copia di un libro di Dodie Smith. Il biglietto diceva: «Da parte di Anna e Lily e Pongo. Baci».

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«È il seguito della Carica dei 101», spiegò con foga Anna. «Racconta cosa succede quando i cani assumono il comando e cominciano a gestire le cose. Ho pensato che ti avrebbe fatto vedere Tavish sotto una nuova luce.»

«Lo vedo già come un cagnolino convinto di gestire lui le cose», affermò Michelle.

Lanciarono entrambe un'occhiata verso la cassa di legno di Tavish, che si era messo comodo e guardava fuori, aspettando i clienti con le orecchie drizzate.

«Come sta oggi?» chiese Anna nello stesso modo in cui si sarebbe informata su un anziano parente. «Come ti senti, Tavish?» aggiunse, in una burbera voce da cane. Il suo pessimo accento scozzese ricordava un po' quello di Rory.

«Molto meglio.» Michelle accese la macchina del caffè.

«Oh, Michelle. Unisciti a noi cinofili!»

«No», disse lei. «È una china pericolosa. Ancora un po' e lui avrà una sua pagina sul sito... Non pensarci nemmeno!» Alzò un dito quando vide una lampadina accendersi negli occhi dell'amica. «Dico sul serio, Anna.»

La campanella tintinnò mentre stavano divorando i croissant e spettegolando dell'ultimo violento litigio di Kelsey con Shannon, poi un enorme mazzo di rose rosa, fresie gialle e gigli rosso ciliegia comparve nel vano della porta, riempiendolo quasi completamente con un forte contrasto di colori.

Michelle ebbe un tuffo al cuore. A reggerli era Owen, ma lei sapeva chi li aveva mandati.

«Owen, sei davvero il fratello ideale!» esclamò gioiosamente Anna. «Ti dispiacerebbe passare nell'ufficio di Phil a spiegargli quanto le donne amino ricevere fiori per il loro compleanno?»

«Ehm, non li ho presi io.» Lui appuntò nervosamente lo sguardo fra le due donne. «Non oserei mai. Sono ancora in debito con lei per la bolletta telefonica. Buon compleanno.» Infilò una mano nella tasca posteriore e le passò un pacchetto avvolto nella semplice carta marrone che lo Home Sweet Home usava per avvolgere gli articoli fragili. «È una spazzola Furminator per il cane. Impedisce alla tua moquette di riempirsi così di peli.»

«Grazie», replicò Michelle. «Stai dicendo che ho una moquette piena di peli?»

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Anna ridacchiò e poi parve seccata con sé stessa. «Scusa. Troppo tempo passato con delle teenager.»

«I fiori sono arrivati al negozio», aggiunse lui, passandoglieli. «Gillian ha detto che rovinavano lo schema cromatico della nuova esposizione primaverile.»

Anna si voltò verso l'amica e inarcò le sopracciglia. «Da parte di un ammiratore?»

«Un ammiratore che non sa abbinare i colori», dichiarò Michelle, cercando il biglietto fra il fogliame solo per impedirle di arrivarvi per prima. Le rose erano del tutto inodori, anche se i gigli compensavano ampiamente la cosa con una fragranza troppo intensa, quasi da mal di testa.

«Scommetto che le manda il signor Quentin!» Anna allungò una mano verso il biglietto ma Michelle lo ghermì. «Per ringraziarti del tuo prenderti cura di Tavish. Oppure Rory?»

Michelle ignorò le sue «innocenti» occhiate in tralice. «Lui non sa che è il mio compleanno. Voi due siete gli unici al corrente, quindi tenetelo per voi, grazie.»

«Perché?» chiese Anna. «Come faranno gli altri a sapere che devono farti un regalo?»

«La nostra famiglia fa le cose davvero in grande, con i compleanni.» Owen si servì di un croissant. «Smettono di torturarti solo quando ne compi ottanta. Shell dovrà andare a pranzo giù nel Surrey, domani, lasciare che tutti le consegnino regali scherzosi...»

«E facciano orrende battute su come non dimostro nemmeno un giorno in più di trent'anni in modo che mio fratello possa aggiungere: “No, infatti dimostri trecentosessantacinque giorni in più di trent'anni, oh oh oh...”.»

Michelle si interruppe quando aprì il biglietto. La tonda calligrafia del fiorista diceva: «Buon compleanno, tesoro. Non vedo l'ora di vederti al tuo pranzo di compleanno. Con affetto, Harvey».

Un brivido le si propagò sulla pelle. La calligrafia non collimava con la voce che lei sentiva nella testa: «Ciao, tesoro» – Harvey chiamava tutti «tesoro» – «qual è il mazzo più grosso che puoi procurarmi per cento sterline? Devo fare colpo su una signora».

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«Allora?» Anna la stava fissando, gli occhi che scintillavano di romanticismo. «Chi li manda?»

«Harvey», rispose lei in tono piatto.

«Be', davvero gentile da parte sua», commentò Owen. «È un bravo ragazzo, Michelle. Non è obbligato a mandarti dei fiori per il tuo compleanno, eppure lo fa ancora.»

«Ma io non voglio che lo faccia. Ho pregato la mamma di dirgli di smettere», ribatté lei, sentendo un nodo allo stomaco. Uno dei due la stava ignorando. Probabilmente, entrambi.

«Non mi hai detto che tutte le donne amano i fiori?» Suo fratello sembrava confuso. «Dio, le donne sono davvero impossibili.»

«Smettila», sbottò la sorella. «È il genere di commento idiota che farebbe Harvey.»

«Davvero? Sei troppo severa con quell'uomo», commentò Owen. «Cerca solo di esserti amico.»

Michelle avvertì un guizzo di frustrazione all'idea che Owen, il suo unico alleato in famiglia, non conoscesse l'intera storia. Avrebbe potuto raccontargliela, ma questo avrebbe significato rivelargli anche un sacco di altre cose, e stentava tuttora a costringersi anche solo a pensarvi.

Owen si alzò e portò con sé quanto restava del croissant. La sorella pensò di richiamarlo ma era già uscito dalla libreria, facendo tintinnare la campanella dietro di sé.

Michelle si lasciò cadere sulla sedia, sentendo le spalle contrarsi per la tensione.

«Harvey non è il tipo d'uomo che “vuole semplicemente esserti amico”», spiegò in risposta all'espressione sconcertata di Anna. «Vuole il controllo totale. Magari adesso che ho guadagnato un po' di soldi ha deciso che non sono la stupida figlia di papà che amava dirmi che ero. Magari si è finalmente reso conto che voglio davvero il divorzio. Non ha importanza, in realtà. Lui non si fermerà finché non torno a Kingston, e nulla di ciò che dico o faccio farà la minima differenza.»

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«Ma se tu non vuoi tornare indietro?» domandò Anna. «Non puoi dirglielo semplicemente? Tuo padre non può spiegargli come stanno le cose?»

Le persone come Harvey non esistevano, nell'universo di Anna. Michelle scosse il capo, restia a introdurlo nel suo nuovo, fresco e scintillante mondo attuale. Persino parlare di lui in negozio le dava la sensazione di sporcare la vernice pulita sugli scaffali alle sue spalle.

«Ai miei genitori piace», affermò. «Harvey piace a chiunque non lo conosca davvero.»

«Ti picchiava?» La voce di Anna era quasi un sussurro.

«A volte ho desiderato che lo facesse», replicò Michelle.

Appallottolò il sacchetto dei croissant e lo lanciò verso il cestino, centrandolo. Esservi riuscita in modo così pulito la fece sentire maggiormente padrona della situazione. «Anna, posso dirti in tutta sincerità che è stata la più bella sorpresa di compleanno che mi abbiano fatto da parecchi anni a questa parte. Grazie.» Si alzò per abbracciarla e vide che Anna – la premurosa, compassionevole Anna – aveva le lacrime agli occhi.

«Su», disse, «non fare così!»

«Perché non mi hai mai detto niente?» Anna la strinse forte. «Perché non l'hai detto a me? Pensavo che...»

«Perché è finita. È acqua passata. Non tornerò indietro.» Michelle girò la testa per guardare dietro di sé. «Mi lascio le cose alle spalle, okay?»

«Puoi farlo davvero?»

«Posso», dichiarò lei. «Posso e l'ho fatto.»

Non era quello il suo problema. Il suo problema era che apparentemente nessun altro, nella sua famiglia, voleva che lei lo facesse.

Quando Owen arrivò a Swan's Row, domenica mattina, era in ritardo di soli quindici minuti, il che rappresentava un notevole miglioramento rispetto ai suoi tempi consueti, ma fece comunque sì che Michelle si sentisse in dovere di recuperare, quando imboccarono l'autostrada.

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«Smettila di sorpassare tutti, Shell», disse lui, alzando gli occhi dal cellulare mentre superavano l'ennesimo camion. Aveva continuato a spedire sms per quasi tutto il viaggio. «Mi sembra di essere in macchina con Jenson Button.»

«Arriveremo tardi. Se arriviamo in anticipo loro non possono cominciare a cantare in coro Tanti auguri a te quando entriamo, costringendo tutti i presenti a fissarci.»

«Non preferiresti essere in ritardo? Passare meno tempo possibile con la tua famiglia adorante?»

«Non si tratta di questo.» Lei mise la freccia e sorpassò l'ennesimo camper. «Ho delle cose da fare più tardi. A casa.»

Owen smise di scrivere il messaggio per guardarla. «La mamma è preoccupata per te, sai. Mi ha chiesto se ultimamente ti aveva fatto qualcosa, visto che non chiami mai.»

Quella era davvero bella, pensò lei: Carole usava Owen – il figlio che aveva spedito in collegio a dieci anni perché ne aveva abbastanza di crescere dei pargoli – per fare sentire in colpa lei per la sua mancanza di senso della famiglia. «Non chiamo perché sono impegnata con il lavoro. Se lo fosse anche lei non si accorgerebbe nemmeno del fatto che non chiamo.»

«È preoccupata per te», ripeté lui.

«Non è vero, Owen. È solo irritata perché mi aveva organizzato meticolosamente la vita, con un marito scelto da lei, mentre adesso tutto è di nuovo incasinato. Concedile altri sei mesi e comincerà con te. “Owen, quando hai intenzione di sposarti? Owen, quando mi darai dei nipotini belli come te? Owen, sei uscito a cena con Jennifer Lawson, ultimamente?”» Lui fece una smorfia. «Se volessi uscire con la figlia del commercialista di papà lo avrei fatto quando ho avuto quel diverbio con il fisco, l'anno scorso.»

«Oh-oh, queste sono parole pericolose, Owen. Stai attento, ancora non abbiamo un commercialista in famiglia.»

Lui guardò fuori dal finestrino e tamburellò con le dita contro il lato della portiera, poi parlò di colpo. «Sul serio, Shell, se lei comincia a cianciare di Jennifer puoi farle cambiare discorso?»

«Perché? Esci con qualcuno?»

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«In un certo senso.» Owen si corresse. «Sì. Sì, sto uscendo con qualcuno.»

Michelle, incuriosita, gli lanciò un'occhiata. «Chi è? La conosco?»

Lui non incrociò il suo sguardo ma parve insolitamente timido. «Siamo ancora agli inizi. Preferisco non parlarne.»

Lei scoppiò in una sonora risata. «Preferisci non parlarne? Sul serio? Questa sì che è una novità, Owen.»

«Già. Forse.» Lui giocherellò con il cellulare e Michelle si rese conto che lo aveva tenuto in mano durante l'intero tragitto, come se non sopportasse l'idea di infilarselo in tasca, nel caso squillasse. “Dev'essere una cosa seria”, pensò. La tattica consueta di Owen era rendersi «molto difficile da rintracciare», seguita da un «impossibile da rintracciare» e dal trasferimento in un altro paese.

«È carina? Mi piacerebbe?»

«Sì», rispose lui e subito dopo, non riuscendo a resistere, aggiunse: «È Becca».

In un unico movimento Michelle sterzò entrando in una piazzola di sosta, e l'auto dietro di loro suonò il clacson mentre la superava velocemente. «Cosa?» chiese, tirando con forza il freno a mano e girandosi di scatto sul sedile.

Owen aveva l'aria terrorizzata. «Perché diavolo l'hai fatto?»

«Becca. Stai uscendo con Becca? La Becca di Anna?»

«Sì! Pensavo che ne saresti stata felice.»

Lei si ficcò le mani nei capelli. «Owen, Becca è una bella ragazza dolce e talentuosa. Mi piace davvero. Non voglio vederla con il cuore spezzato e scaricata prima degli importantissimi esami che decideranno la sua ammissione nell'università dei suoi sogni. Che è anche l'università dei sogni dei suoi genitori.»

«Non ho intenzione di scaricarla!»

«Davvero? Questa sì che sarebbe una novità.» Lo guardò con occhi molto limpidi. «Sono tua sorella, Owen. Ho fatto certe telefonate per te. Non voglio doverne fare una alla mia migliore amica per spiegarle come mai la sua amatissima figliastra sta piangendo sul cuscino e si rifiuta di mangiare appena prima degli esami più importanti della sua vita. E hai visto com'è alto e grosso Phil? Te lo immagini a darti la caccia quando Becca scoprirà su Facebook che la sua relazione è finita?»

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«Non ho dodici anni», sottolineò Owen in tono beffardo.

«No, infatti. Ne hai ventiquattro, e lei diciotto. Diciotto.»

Lui aprì la bocca, poi la richiuse e subito dopo la riaprì.

«Oddio. Dimmi che non ci stai andando a letto», aggiunse Michelle.

«Michelle!»

«Allora? Ci stai andando?»

«No», ammise Owen. «Le cose non stanno così. Parli come se io fossi uno scopatore seriale...»

«Cosa che sei.»

«Stavolta è diverso. Non direi nemmeno che stiamo uscendo insieme. È... diverso. Lei mi piace davvero, non voglio affrettare le cose. Non avrei detto niente se tu non avessi chiesto.» Sembrava veramente offeso. «Comunque non si può dire che tu sia esattamente un'esperta di relazioni sentimentali.»

L'affermazione toccò un nervo scoperto, ma lei tentò di non darlo a vedere. «No, ma Anna è mia amica e ha già abbastanza problemi a far funzionare le cose in quella famiglia, non voglio assolutamente che la sua vita diventi ancora più complicata di quanto non sia già.»

«Mi stai dicendo di chiudere con Becca perché la tua amica è indaffarata?» Nello sguardo di Owen c'era del sarcasmo ma anche qualcos'altro, pensò lei, senza riuscire a stabilire chiaramente cosa fosse.

Le auto sfrecciavano a pochi centimetri da loro, facendo oscillare la macchina.

Michelle trasse un bel respiro. Non poteva dirgli di rompere. Suo fratello non era un cattivo ragazzo, solo un tipo sconsiderato, sventato. Due cose che Becca non era. Poteva anche essere più giovane di Owen, ma sotto molti punti di vista lei era notevolmente più matura.

«No», disse. «Ma ti sto chiedendo di stare attento. E di essere gentile.»

«Quello posso farlo», replicò lui. «Perché non dovrei?»

«Bene», commentò lei. Ingranò di nuovo la marcia. «Ora aiutami ad affrontare questo incubo di festa di compleanno.»

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A dispetto dei suoi strenui sforzi sulla a3, quando Michelle entrò nel parcheggio capì, vedendo la distesa di auto della concessionaria Nightingale posteggiate lì, che i suoi genitori, più i suoi fratelli e rispettive famiglie, erano già arrivati, ma non c'era traccia della targa personalizzata di Harvey, il che le procurò un breve istante di sollievo.

Si stampò in faccia un sorriso per il chiassoso coro di Tanti auguri a te che risuonò non appena fece la sua entrata – facendo girare teste in tutto il gastropub –, dopo di che vennero accompagnati nella saletta privata, appositamente prenotata per accogliere tutti i Nightingale, inclusi sei bambini e i loro vari ammennicoli.

L'emicrania da stress di Michelle iniziò subito dopo l'arrivo dei menu e si accentuò a ritmo costante durante le interminabili celie sulla sua età, l'incipiente calvizie di Ben e le pause per consentire ai vari nipoti ambosessi di esibirsi nei loro più recenti giochetti da party. Si era seduta il più lontano possibile dalla madre, tra la cognata Emma e il padre, ma Carole aveva rapporti così stretti con le sue «care figlie acquisite», come definiva le nuore, che passò l'intero pasto allungata al di sopra del tavolo per esprimere le sue opinioni su qualunque argomento di cui stessero parlando, e Michelle faticò a schivare i sospiri e le occhiate che sfrecciavano nella sua direzione ogni qual volta veniva sollevato l'argomento dei figli e delle famiglie.

Persino Emma parve imbarazzata e tentò di cambiare il più possibile discorso.

«Michelle», disse dopo che ebbero parlato della nuova insegnante di pianoforte di suo figlio per quelli che a Michelle parvero nove anni, «sei passata direttamente dalla scuola al lavoro, vero?»

«Ehm, sì», rispose lei, le sue difese che si alzavano automaticamente.

«La mia miglior impiegata di sempre», dichiarò subito suo padre, Charles, con un'occhiata orgogliosa. «Vorrei tanto averla ancora nella mia squadra.»

«Il mio miglior insegnante», ribatté Michelle, non perché fosse dovuto ma perché era vero. Lei e il padre non parlavano molto di questioni emotive ma potevano discorrere per ore sul ridurre al minimo le spese di esercizio, e quello la faceva sentire più vicina a lui di quanto non facesse un sermone materno di un'ora sui figli di chiunque altro.

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«È solo che mia sorella sta attraversando una fase un po' ribelle», aggiunse Emma, arrossendo, «e ci hanno avvisato che potrebbe non superare gli esami, così mi stavo chiedendo...»

«Potrebbe imboccare il tragitto Michelle Nightingale: farsi espellere, prendersi un'estate di vacanza, poi farsi assumere per lucidare auto», intervenne suo fratello Ben, seduto due posti più in là. «Da reietta della scuola privata a regina dei casalinghi. Come Richard Branson con sporte di iuta.»

Ben aveva una voce molto stentorea. Michelle vide che le labbra di Carole erano sbiancate e lei si stava guardando intorno per scoprire se i camerieri avevano sentito.

“Per l'amor del cielo, mamma. Ancora?” pensò rabbiosamente. Quella era stata l'unica preoccupazione di sua madre, all'epoca: «Oh, Michelle, cosa dirà la gente? Ti credono tutti una ragazza così assennata». Carole era rimasta chiusa in casa per un'intera settimana e aveva rifiutato di discutere del motivo dell'inaspettato ritorno a casa di Michelle, tanto era schiacciante il peso della vergogna. Michelle era stata felice della cosa, all'epoca, perché nemmeno lei voleva parlare dei dettagli spinosi, ma ora sospettava che fosse dipeso più dalla determinazione di Carole di cancellare l'intero incidente dalla memoria collettiva della famiglia che dal desiderio di aiutarla.

«Fa sempre un figurone sul curriculum, un'espulsione», continuò Ben, non notando l'improvvisa inespressività del viso della sorella. «Dimostra che sei una party girl sotto il tailleur da ufficio, eh?»

«Chiudi il becco, Ben», disse lei. «Vuoi che passiamo a parlare del trapianto di capelli? O della inversione della vasectomia?»

Charles tossicchiò, a disagio. «Non è ora della... cosa, Carole?» chiese, sbattendo il tovagliolo.

«Cosa c'è? Cosa ho detto?» chiese Ben, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

Carole guardò con disapprovazione il marito, inarcando ripetutamente le sopracciglia. «No, non ancora, Charlie. Non ci siamo ancora tutti.»

«Sì che ci siamo, invece», replicò Michelle.

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Mentre parlava, tre camerieri entrarono con una lucida torta al cioccolato coperta di stelle filanti sibilanti. Lei le riconobbe come quelle vendute allo Home Sweet Home e si chiese se le avessero ordinate sul suo sito web.

Provò il forte impulso di tornare nell'elegante quiete del suo negozio, o sul divano di casa sua, o persino nella libreria con Tavish che sbavava e Rory che le teneva una conferenza sul modo giusto di ridurre in poltiglia il cibo per cani. Ovunque tranne che lì.

«Tanti auguri a te...» cominciarono a intonare i camerieri, ma un'unica voce sonora li interruppe, leggermente incerta, e Carole si voltò a guardare la figlia con un sorriso trionfante, come se le avesse appena fatto la sorpresa più grande e splendida di tutte.

Michelle trasalì. Un'enorme nube di palloncini da compleanno color metallizzato apparve sopra i camerieri e Carole applaudì con palese contentezza, i suoi braccialetti tennis che tintinnavano mentre una figura spuntava da dietro di loro.

Una figura robusta con un elegante gessato del tipo che qualcuno potrebbe indossare se fosse un ammiratore di Al Capone e dei gangster del proibizionismo, pur avendo frequentato una costosa scuola privata. La mano che teneva i palloncini esibiva un anello con sigillo sul mignolo, e il relativo braccio sfoggiava un massiccio orologio d'oro e sottili peli dorati che venivano saltuariamente eliminati con la ceretta, in gran segreto, da una donna molto discreta di nome Wendy, a Cobham.

Lei si concentrò su questi particolari perché non voleva guardare quel viso, non ancora. Non fino all'ultimo momento consentito dalla buona educazione.

«Harvey!» gridò sua madre. «Ce l'hai fatta! Oh, che bei palloncini! Guarda che magnifici palloncini, Bella! Ti piacerebbe averne uno?»

«Perché la mamma lo ha invitato?» chiese Michelle al padre, sottovoce, cercando di non farla sembrare un'accusa. «Siamo separati. Perché pensa di potermi costringere a tornare insieme?»

Suo padre parve a disagio. «Lui è il mio direttore, tesoro. Tua madre gli ha chiesto di venire, vuole che i rapporti siano amichevoli.»

Per l'ennesima volta lei si chiese, con un vago senso di nausea, se sua madre si fosse presa una bella cotta per Harvey.

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«Invita tutto il tuo personale ai compleanni di famiglia?» domandò, il tono di voce che si alzava istericamente.

Si interruppe quando Ben si voltò per vedere quale fosse il problema. Harvey le si stava avvicinando con i palloncini e ormai non le restava altra scelta che guardarlo.

La madre di Michelle aveva attraversato un'irritante fase in cui lo chiamava Orso a causa del «suo adorabile grosso viso da Winnie the Pooh!» I lineamenti di Harvey erano molto bonari; lui aveva una folta chioma bionda, una bocca larga che si spalancava facilmente e delle grosse orecchie. Ma i suoi occhi non erano da orso come il resto di lui: erano azzurro chiaro, e piccoli come le mani e i piedi, e registravano ogni cosa con la rapida occhiata valutatrice di un serpente a sonagli.

Adesso Harvey teneva quegli occhi puntati su di lei, e Michelle si sentì gelare mentre lo vedeva avvicinarsi.

«Buon compleanno, tesoro», disse lui, dandole un bacio umido sulla guancia. Lei si ritrasse dall'intimità della mano di Harvey posata sul suo fianco. Lui odorava ancora di troppo dopobarba e di cera per auto, i capelli erano ancora folti e meticolosamente cosparsi di gel, il naso era ancora arrossato e la cravatta ancora decorata da buffe tartarughine.

Per tutta risposta lei emise un verso indistinto. Sembrò uno squittio.

«Guardati!» esclamò lui, strizzandole la vita mentre Michelle tentava di spostarsi al di fuori della sua portata. «Non dimostri un giorno in più di trent'anni!»

«No, dimostra trecentosessantacinque giorni in più di trent'anni!» ruggì Ben seguendo l'imbeccata, trattenendosi a stento dal darsi una pacca sulla coscia.

«Hai un aspetto favoloso», disse con galanteria Harvey e poi, in tono abbastanza sommesso perché solo lei lo sentisse, aggiunse: «Soprattutto ora che hai perso un chiletto o due. Dev'essere tutto quel correre in giro al lavoro. Continua così!».

Michelle si sentì come se le avessero abbassato di scatto il vestito: in preda alla vergogna, imbarazzata. Sentimenti che da secoli non provava riguardo a sé stessa. Quando girò la testa vide la madre guardarli con un'espressione di supremo compiacimento, prima di dare di gomito al marito come per dire: “Guarda cosa ho fatto!”.

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Quando lei e Harvey si erano conosciuti, dieci anni prima – o meglio quando lei aveva infine ceduto e consentito alla madre di organizzarle un appuntamento al buio con il venditore di maggior successo del padre –, Michelle aveva vent'anni e stava ancora lottando con quella che nessuno aveva voluto definire una depressione clinica. Non era un'emarginata per natura. Nel mondo parallelo in cui le cose non erano andate storte stava frequentando il secondo anno del corso di laurea come progettato, allacciando nuove amicizie e avendo incontri ravvicinati con scienziati naturalisti e godendosi altri divertimenti spensierati.

Invece si era trovata a Kingston, a nascondersi dal mondo. Harvey l'aveva trasformata nel suo progetto personale, e Michelle non riusciva a credere che un uomo così bello (all'epoca i suoi standard erano spettacolarmente bassi) e di successo potesse desiderare una fallita come lei. Lui era tendenzialmente d'accordo, ma con il suo sostegno lei aveva smesso di fare quindici chilometri di corsa ogni giorno ed era tornata molto lentamente a qualcosa che rasentava la normalità, sempre che guardare qualcun altro giocare a golf e partecipare a lanci regionali di nuovi modelli della Ford fosse normale. Era stata felice di lasciare che Harvey assumesse il controllo delle conversazioni, felice di lasciare che la portasse da Selfridges con la sua carta di credito e la vestisse «in modo appropriato». Harvey era un adulto. Si intendeva di quelle cose. E la sua attenzione era un balsamo per l'assai scorticata sicurezza di sé di Michelle.

Lei imparava in fretta e suo padre mostrava un commovente desiderio di insegnarle tutto quello che sapeva, visto che i figli maschi laureati non mostravano alcun interesse per il suo impero di autosaloni. Michelle era brava a indovinare cosa le persone desiderassero e poi a offrirla a un certo prezzo. Sviluppò anche una personalità alternativa e sicura di sé, quando era nella sua modalità venditrice, distante anni luce dalla Michelle che era a casa. Ma mentre cominciava a ricostruire sé stessa iniziò a rendersi conto che Harvey non era poi così ansioso di vederla guarire. La preferiva quando faceva quello che le si diceva. Ormai era troppo tardi. La sua famiglia era vistosamente sollevata di avere visto concludersi, finalmente, quell'imbarazzante episodio; la pecora nera era stata tinta di biondo e riportata sulla retta via, verso un ulteriore successo familiare.

Adesso rimase a guardare mentre Harvey baciava sua madre e stringeva la mano ai suoi fratelli e baciava le loro mogli e faceva buffe smorfie ai loro figli, e provò la familiare sensazione di contorcimento interiore. Aveva lasciato che il matrimonio venisse celebrato perché, con il suo cuore ancora intorpidito, non era riuscita a trovare una sola ragione convincente per non sposarlo, a parte la

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sensazione che Harvey non fosse l'uomo giusto per lei, e la cosa sembrava vergognosamente da ingrati – e lui avrebbe rifiutato di crederci –, così non aveva detto niente. Negli anni che seguirono trovò un'intera serie di motivi estremamente convincenti.

«Porta qui una sedia, amico.» Era Ben che tentava di fare il simpatico: suo fratello non si era mai rassegnato alla propria mancanza di fascino in confronto al carisma innato di Harvey e Owen. «Cosa posso offrirti da bere? Ne avrai bisogno, con questo gruppo!»

«Mi siedo qui», replicò con disinvoltura lui. «Accanto alla mia signora, se mi ha lasciato abbastanza spazio. Fatti in là, Shelley.»

Si stava già infilando a forza nel minuscolo varco fra lei ed Emma, e Michelle sapeva che se non si fosse mossa lui le si sarebbe seduto sul ginocchio. Si spostò di lato. Non aveva altra scelta. Owen le lanciò un'occhiata e lei capì che il suo sguardo acuto aveva registrato ogni cosa. La sua espressione era un misto di sconcerto e solidarietà, ma Michelle non avrebbe saputo dire per chi.

A volte, come in quell'occasione, aveva una gran voglia di prenderlo da parte per raccontargli tutto, spiegargli fino in fondo perché tutti erano così. Owen si era perso talmente tante cose! Ma temeva che questo modificasse l'opinione che il fratello aveva di lei, e non poteva sopportarlo.

Il resto del pasto trascorse in un'atmosfera di forzato buonumore, benché lei fosse sicura di essere l'unica ad accorgersi dell'artificiosità del tutto. Harvey continuava ad avvicinarsi sempre più e alle tre e mezzo, dopo la torta e i regali (un set da pedicure e un gatto giocattolo che faceva le fusa quando lo accarezzavi, «per tenerti compagnia»), lei decise di scappare in bagno con il cellulare, pronta a mandare un sms ad Anna perché la chiamasse fingendo un'emergenza al negozio.

«Te ne vai così presto?»

Harvey apparve dietro la sua sedia nell'istante esatto in cui Michelle la spinse indietro, e lei capì che dovevano conversare brevemente. Meglio concedergli almeno quello. Il ritmo del suo respiro accelerò e lei si sforzò di suonare normale.

«Temo di sì. Devo tornare a casa», disse, facendo oscillare il cellulare. «Un'emergenza di stock.»

«Che tipo di emergenze hanno le librerie? Fammi vedere.» Lui fece per prenderle scherzosamente il cellulare, ma lei lo tirò indietro di scatto. Si

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trovavano fuori dal campo visivo della sua famiglia, quindi Harvey le ghermì il polso con forza per sfilarglielo dalle dita, ma in quel momento passò un cameriere e mentre lui gli stava sorridendo lei liberò con uno strattone il braccio e indietreggiò. Ormai il cuore le martellava nel petto.

«Owen dice che sta andando a gonfie vele.» Lui inarcò le sopracciglia, enfatizzando la sua abbronzatura da sciatore. «Non ho mai saputo che ti piacesse leggere. Ma in fondo sei sempre riuscita a vendere qualsiasi cosa. So che ami dare alla gente ciò che vuole.»

«Sono una brava venditrice, sì.» Michelle sapeva che non era quello ciò che l'uomo aveva appena insinuato. «Grazie dei fiori», continuò con garbo, «ma non mandarne più, per favore.» Si appellò al suo ultimo briciolo di baldanza. «Mi spiace, ma tra noi è davvero finita. Ho voltato pagina. Spero riesca a farlo anche tu.»

«È così che intendi giocarla? Okay, benissimo. Sono un romanticone, lo sai.» Harvey sorrise con aria indulgente; il sorriso non gli raggiunse gli occhi. «Ma non farlo troppo a lungo. Non stai certo ringiovanendo, sai. Sei assediata da uomini che ti assillano per avere un appuntamento?»

Lei non riuscì a rispondere. Aveva la gola contratta.

Lui sorrise, trionfante. «Lo immaginavo.»

«Scusate se mi intrometto.» Charles posò una mano sulla spalla della figlia e una su quella di Harvey, allontanandoli leggermente l'una dall'altro. «Stiamo sgombrando il solaio per questo ampliamento che tua madre sta organizzando e ho alcuni scatoloni di cose tue sul retro dell'auto. Se mi dai le tue chiavi te li metto nel bagagliaio.»

Normalmente Michelle impediva al ciarpame di entrarle in casa, ma adesso fu felice di avere una chance di andarsene da lì. «Vengo... ehm, vengo con te. Ciao, Harvey.»

«Ciao, tesoro. Ci vediamo presto.»

Non era una domanda. Harvey si allungò in avanti per salutarla con un bacio e lei si costrinse a restare ferma mentre lui le premeva le labbra sulla guancia, sperando che non la sentisse trasalire.

“Gliel'ho detto”, pensò. “Gliel'ho detto. Devo solo continuare a ripeterglielo.”

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Sopra la massiccia spalla di Harvey intravide la madre che li guardava con gli occhi scintillanti e capì con un cupo senso di claustrofobia che Carole stava vedendo qualcosa di totalmente diverso.

Fuori nel parcheggio, Michelle aspettò che il padre le caricasse due enormi scatoloni sul retro della Golf prima di fare un bel respiro e affrontare un argomento di cui sapeva che lui desiderava parlare esattamente quanto lei.

«Papà», disse, «so che a te e alla mamma piace Harvey, ma non intendo rimettermi con lui. È finita. Non voglio rimanere sposata con lui. L'unico motivo per cui non ho divorziato è che... preferirei restare separata per cinque anni e lasciar credere alla gente che ci siamo allontanati l'uno dall'altra restando amici, piuttosto di indurla a incolpare qualcuno.» Era quanto di più simile alla verità sopportasse di dire.

Charles parve imbarazzato, le guance rosee arrossate dallo sforzo di sollevare gli scatoloni. «Tua madre pensa semplicemente che siate una splendida coppia. Ed è vero. Non capisce perché abbiate dovuto rompere, se non stavate litigando.»

«Non sempre sappiamo cosa succede in un matrimonio.» Michelle si sfregò la fronte. Quello dimostrava quanto a fondo la sua famiglia la conoscesse o volesse conoscerla. «Papà, mi è sembrato di fare la cosa giusta, tirandomene fuori mentre eravamo ancora abbastanza giovani per poter ricominciare da capo. Ecco perché mi sono trasferita: per poter avere un nuovo inizio. Se la mamma sta incoraggiando Harvey, questo non lo aiuterà certo a voltare pagina.»

«Quindi non c'è... ah, nessun giovanotto all'orizzonte?»

Per un attimo lei pensò di inventarsene uno, tanto per levarseli dal groppone, ma non aveva senso mentire a suo padre. Lui vedeva ogni giorno bugiardi ben più abili di lei. «No, non c'è. Non ne sto cercando uno. Ho i miei progetti e il mio negozio da gestire, ed è su questo che intendo concentrarmi nel prossimo paio d'anni. Ne ho solo trentuno e possiedo una bella scorta di creme antietà», aggiunse con una smorfia. «Mi rimane ancora qualche anno prima di dovermi preoccupare di restare zitella.»

Si chiese perché avesse detto una cosa del genere. Non le era nemmeno mai venuta in mente, a Longhampton. L'ansia di diventare madre di Anna le era estranea come l'ossessione di Gillian per il cucire trapunte.

“L'hai detto perché te l'ha messo in testa Harvey”, affermò una vocina nella sua mente, e lei capì che era vero.

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Charles posò sul bordo del bagagliaio l'ultimo scatolone. Osservò la figlia da sopra di esso e parve farsi forza per dire qualcosa di cui non era troppo sicuro, come gli capitava negli hypermarches francesi.

Anche lei si fece coraggio.

«Michelle, tesoro, accetteresti un consiglio dal tuo vecchio genitore?»

«Ho forse altra scelta?»

Lui rispose con un ironico cenno di diniego con la testa. «Non proprio. Ascolta, non lasciare che nella tua vita ci sia solo il lavoro. Non potrei essere più orgoglioso di tutto ciò che hai fatto con quel tuo negozio, ma nessuno rimpiange di non avere trascorso più tempo in ufficio, quando è in punto di morte.»

«È davvero bella, detta da te», replicò lei. «Chi mi ha inculcato questa etica del lavoro, eh? Non certo la mamma.»

«Lo so. E so che non è la cosa giusta da dire, ma se tu avessi una graziosa famigliola sarei fiero di te quanto lo sarei se tu assumessi la direzione dell'intera rete di concessionarie. In un mondo ideale, certo, avresti entrambe le cose.» Lui tentò di sorridere per addolcire le proprie parole. «Saresti una splendida mamma, Michelle. L'ho sempre pensato, vedendo come hai preso Owen sotto la tua ala quando... quando tua madre non aveva abbastanza tempo. Non lavorare fino allo sfinimento solo per farmi contento, tesoro. So già che sei più in gamba di tutti i tuoi fratelli messi insieme. Ma non sei mai stata felice come loro, e questa è l'unica cosa che tua madre e io desideriamo davvero, vederti felice.»

Michelle ricacciò indietro una lacrima vedendo l'ansia sul volto paterno. Ansia per lei e allo stesso tempo ansia di non turbarla. Benché ci fossero parecchie cose che il padre non sapeva del suo matrimonio, e probabilmente ancora più cose che preferiva non sapere, lei si rese conto che doveva essere davvero preoccupato, per dire quanto aveva appena detto. La differenza fra lui e la moglie, però, era che sarebbe stato pronto a sentire che lei era infelice e avrebbe voluto fare qualcosa al riguardo.

“Forse dovrei dirglielo”, pensò Michelle, ma poi si ritrasse davanti alla prospettiva di farlo. Harvey era radicato troppo saldamente nel mondo di suo padre. Non poteva rischiare che lui non le credesse.

«Sto benissimo, papà», riuscì a pronunciare.

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Lui la osservò per un lungo istante, mentre erano completamente soli nel parcheggio, e anni di pensieri inespressi rimasero sospesi fra loro due.

«Sono felice di vederli scomparire», disse, sistemandole sull'auto l'ultimo degli scatoloni. «Possiamo finalmente dare il via alla ristrutturazione del solaio.»

«Cosa contengono?»

«Di tutto. Roba che arriva dalla tua vecchia camera, credo. Ci siamo limitati a infilarla negli scatoloni. Abbiamo preferito non buttarla, nel caso fosse importante.»

«Se ne ho fatto a meno negli ultimi dieci anni, non può essere poi così importante», replicò Michelle. «Con ogni probabilità dovrei semplicemente gettarla.»

Charles le posò una mano sul braccio. «No, non farlo», disse. «Prima esaminala.»

Lei lo guardò e d'impulso lo abbracciò, sorpresa di scoprire con quanta facilità riusciva a cingerlo completamente con le braccia, adesso. Un tempo era riuscita a stento a toccarsi le punta delle dita dietro l'ampia schiena paterna. Ora gli sentiva quasi le ossa.

“Sta invecchiando”, pensò sussultando. “E io anche.”

«Buon compleanno, pulcino», disse lui, quando la figlia lo lasciò andare. «I trenta sono i nuovi ventun anni!»

Michelle valutò l'ipotesi di dirgli che era rimasto indietro di un anno, ma decise di non farlo.

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Capitolo 16

«La trilogia Twilight è il primo amore all'ennesima potenza; compiango la generazione di ragazzi che devono dimostrarsi all'altezza della cogitabonda magnificenza di Edward Cullen.»

Anna McQueen

Uno degli aspetti dei viaggi in America delle ragazze che Anna aspettava con più ansia – oltre all'occasione di rimanere sola con Phil, il non dovere fare così tanto bucato e il potersi godere più di trenta secondi di acqua calda – era la chance di leggere in santa pace.

L'essere una vicemamma aveva drasticamente ridotto il tempo che dedicava alla lettura. Prima del matrimonio la sua agenda era stata imperniata sulle vacanze e i libri che progettava di portare con sé, e sul dubbio di riuscire ad avere abbastanza bagaglio per infilarvi tutto quello che aveva accumulato.

Per la luna di miele a Venezia aveva preso solo una minuscola sacca per la lettura (quattro libri, due sul tema del matrimonio e due ambientati in Italia) e ormai Phil la conosceva abbastanza per rendersi conto che quattro volumi significavano una quasi totale concentrazione su di lui. Durante le vacanze successive erano giunti a un compromesso: lei avrebbe letto mentre lui nuotava in piscina. Il fatto che Phil glielo consentisse la rendeva sicura di avere scelto l'uomo giusto.

Adesso le vacanze avevano dovuto essere ridimensionate, ma non le dispiaceva passarle a casa. Persino mentre piegava una pila di magliette per la valigia di Becca stava programmando febbrilmente l'elenco di letture d'evasione per le festività pasquali come un buongustaio che pianifichi un luculliano banchetto di nove portate. Per una volta non stava scorrendo i giornali domenicali in cerca di recensioni, bensì selezionando con cura dei titoli sugli scaffali del negozio. Riscoprire come fosse in realtà cupo Roald Dahl aveva suscitato in lei l'impulso di rileggere tutti i libri che più aveva amato da bambina, soprattutto ora che Lily sembrava interessata a condividere quelle letture con lei.

Magari l'intera serie di Narnia, pensò mentre le copertine dei vari tascabili le balenavano nella mente. Era di grande attualità, con il leone Aslan e la Pasqua e via dicendo. La sua immaginazione rievocò all'istante le scene innevate: il Turkish

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Delight e la bevanda magica nel calice che sapeva di qualcosa di squisito. Nella testa di Anna era succo Ribena caldo.

Oppure Miss Marple? Sarebbe stato perfetto, se c'era bel tempo. In giardino, con un vassoio di panini dolci pasquali e una teiera piena, addentrandosi fra vicari e cameriere di St Mary Meads dagli istinti omicidi. Miss Marple che parlava come l'attrice Joan Hickson. Tutto così terribilmente inglese. Pura beatitudine.

Sapeva che probabilmente avrebbe dovuto dedicare l'intera settimana al tentativo di risolvere la questione del bambino con Phil mentre godevano di un po' di privacy, ma qualcosa la tratteneva. Paura. Stanchezza. Non sopportava di pensarci.

Becca e Chloe si trovavano in camera di Becca insieme a lei, a bisticciare su qualcosa mentre riempivano le rispettive valigie con la pila di indumenti puliti che Anna stava sollevando dalla cesta del bucato, ma lei non le ascoltava. Aveva sviluppato un metodo per non sentirle finché il litigio non raggiungeva una determinata tonalità che l'avrebbe costretta a intervenire. Oppure finché non c'era una pausa di silenzio.

Come in quel momento.

Alzò gli occhi dalla cesta, ormai quasi vuota, e vide che le sorelle si stavano guardando in cagnesco. Nessuna delle due stringeva un capo di vestiario conteso, quindi non poteva trattarsi della solita lite.

«Cosa c'è?» chiese.

Chloe la guardò strabuzzando gli occhi. «Dovrei esserci io sul sito web, non lei.»

«Non è vero.» Becca tornò alla sua trousse per il trucco, di cui stava meticolosamente risistemando il contenuto per renderla il più piccola possibile. Aveva anche parecchi libri per il ripasso da portare e aveva già pesato le sue valigie con l'apposita bilancia da casa. «Tutte le recensioni e i commenti sul blog sono opera mia. Tu cosa hai fatto?»

Chloe si gettò i capelli dietro la spalla. «Chiudi il becco. Ho scritto una recensione.»

«Davvero?» chiese Anna, sorpresa ma compiaciuta. Il suo obiettivo era avere una cartolina «Noi amiamo...» dai bordi dorati su ogni scaffale della libreria; fino a quel momento Becca aveva fornito la metà di quelle presenti, tutte

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ordinatamente compilate con il suo corsivo uniforme. «Non l'ho vista. L'hai appesa? Se finiamo le copie di scorta del titolo di cui hai scritto avvisami, ne riordinerò qualcuna.»

Chloe si dimenò. «Non per la libreria, per il sito. L'ho mandata a Owen per e-mail.»

«Be', io non l'ho vista», disse Becca. «Lui non me ne ha parlato.»

Qualcosa rimase impigliato nel sistema d'allarme mentale di Anna. Perché mai Becca avrebbe dovuto vedere le mail di Owen? Le cose si erano forse spinte più in là di un innocuo flirtare da lavoretto del sabato? Lei aveva notato un fremito fra loro due ma, visto che Owen era in grado di suscitarne uno anche negli oggetti inanimati, non aveva dato troppo peso alla cosa.

“Questo sarebbe il momento adatto per chiederlo a Becca”, rifletté. “Lo farò non appena Chloe si annoia e va a telefonare a Tyra per lamentarsi dell'apparecchio.” Ottenere informazioni da una delle ragazze senza che le altre due sentissero e ridacchiassero era come uno di quei rompicapi che includono pecore e lupi e cavoli.

«Allora, come procede il sito?» domandò, sperando di annoiare Chloe e di indurla ad andarsene.

«Benissimo», rispose subito Becca. «Owen sta creando questa cosa geniale: puoi inserire un libro che ti piace e poi ottenere altre due o tre indicazioni su quel genere di lettura. Si chiama: “Nuovo generatore di letture preferite”.» Arrossì leggermente. «Il titolo è provvisorio, ovviamente.»

«Lo spero», replicò Chloe, sarcastica. «Sembra il nome di una band davvero schifosa. Del tipo che piacerebbe a te.»

«Owen ha fatto tutto da solo? Pensavo fosse più appassionato di musica che di libri. Avrei potuto chiedergli di scrivere qualche recensione.»

«L'ho aiutato io. Un po'.» Il rossore di Becca si accentuò e sua sorella alzò gli occhi al cielo.

«Probabilmente più di un po'. Hai intenzione di addebitare a Michelle tutte le ore di lavoro che hai svolto per il sito? Che consiste, fondamentalmente, nel dire a Owen cosa scrivere.»

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«Non mi dispiace aiutarlo», si affrettò a replicare Becca. «Non ho fatto poi granché», aggiunse prima che Anna potesse intervenire. «Soprattutto quando sono comunque là a lavorare.»

«Non ti dispiace perché puoi restartene seduta con lui su nel suo appartamento durante tutte le tue ore buche, dicendo: “Ooh, Owen, lascia che ti parli di Francis Scott Fitzgerald”», borbottò Chloe, lanciando un'occhiata furtiva ad Anna per assicurarsi che l'avesse sentita.

«Hai passato le ore buche là?» domandò Anna. I conti cominciavano a tornare. Becca non lasciava mai la libreria se non era costretta a farlo.

«No!» Becca lanciò occhiate assassine alla sorella. «Una sola. Un'unica ora buca la settimana scorsa, quando Owen mi ha chiesto per sms qualcosa su una mia recensione e mi era più facile andare là a spiegarglielo di persona, visto che mi trovavo comunque su High Street per prendere qualcosa da mangiare. Nella gastronomia. Abbiamo uno sconto del dieci per cento con la scuola, quindi è più economico della mensa.»

Anna era parecchio perplessa e notò che a Becca stavano diventando rosse le orecchie. Rivolse una domanda a Chloe per essere sicura di ottenere una risposta sincera. «Siete autorizzate a lasciare la scuola durante il giorno?»

Chloe si accigliò. «Gli studenti dell'ultimo anno sì. Siamo soltanto noi a dover rimanere in quella stupida biblioteca. La maggior parte dei suoi amici emo viene in libreria. Non riesco a credere che tu non li abbia notati.»

«Be', quasi ogni giorno porto il cane a fare il giro dell'isolato, durante la pausa pranzo. Quindi tutti quei dark nella stanza sul retro vengono dalla scuola?» disse Anna. Kelsey si era particolarmente risentita per la loro abitudine di bere tutto il caffè e poi andarsene dopo avere comprato un solo tascabile fra tutti quattro o cinque, sempre di seconda mano e di solito con un vampiro fra i protagonisti.

«Ehi, Sherlock», disse Chloe, «non lo capisci dall'odore di lacca? E dall'aria di tragedia?»

Anna le rivolse un'alzata di sopracciglia di avvertimento.

«Comunque sei tu la responsabile della libreria, dovresti poter decidere tu di chi è la faccia sul sito», continuò Chloe in tono più suadente: fioriva visibilmente sotto il tepore dell'attenzione diretta, di qualunque natura fosse quest'ultima. «Io ho bisogno di visibilità più di Becca. Poi, quando diventerò famosa e apparirò in

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televisione, loro potranno mostrare il sito della libreria come un buffo flashback di prima che fossi famosa e questo significherà più pubblicità per te.»

Aggiunse un istantaneo sorriso radioso che Anna trovò in parte affascinante e in parte terrificante.

«Sarà persino più buffo di quanto tu creda», la schernì Becca. «La commessa di libreria che ha bisogno che le dicano che Moby Dick è un libro e non un autore.»

«E tu credi che il sito avrà più successo con una secchiona sciatta che lo pubblicizza con i suoi sciatti occhiali da secchiona?»

«Basta!» esclamò Anna. C'erano troppe informazioni da vagliare tutte in una volta. Aveva l'inquietante sensazione di essersi lasciata sfuggire qualcosa di essenziale. A Miss Marple non sarebbe sfuggito. E neanche a Michelle.

«Quelli sono i miei jeans?» chiese all'improvviso Becca. «Chloe? Non provare nemmeno a tirarli fuori dalla cesta di nascosto, sono miei!»

Si mosse per andarli a prendere e Chloe li ghermì per impedirglielo.

«Smettetela!» Anna tese una mano per contrastare l'inizio di un tiro alla fune.

«Cosa importa chi li prende?» domandò Chloe. «Ti sto risparmiando dei grammi preziosi sul peso che sei autorizzata a portare. Ti sto facendo un favore.»

«Non puoi infilarci nemmeno le caviglie», sottolineò Becca. «Sono taglia dieci.»

«Io porto la dieci», urlò sua sorella.

«In America.»

Chloe inspirò in modo talmente sonoro e melodrammatico che Anna si stupì di non vedere il contenuto della cesta del bucato risucchiato come da una tromba d'aria.

«Sai una cosa, Becca? Chloe ha ragione», dichiarò rapidamente, scorgendo un modo per rimanere sola con la ragazza. «Io lascerei che sia lei a portarteli.»

Becca li lasciò andare come fossero incandescenti e Chloe spense sul nascere lo strillo sdegnato.

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«Dovrai essere più astuta di così, se vuoi diventare un affermato avvocato di Cambridge.» Chloe fece un compiaciuto gesto di trionfo della serie “Uno a zero per me” e uscì in fretta dalla stanza.

Dopo alcuni secondi Becca e Anna sentirono gli accordi iniziali di I Kissed a Girl uscire a tutto volume dall'apparecchio per il karaoke in camera sua, solo che lei stava cantando: «Ho rubato i jeans a qualcuno (e mi è piaciuto)... I jeans della mia sorella sfigata...»

«Becca», disse Anna, chiudendo la porta con un calcio, «c'è qualcosa fra te e Owen? A me puoi dirlo.»

La ragazza si esaminò le frastagliate unghie da ripasso. «No», rispose. «Siamo solo amici.»

«Davvero?»

Anna preferiva non insistere troppo e nemmeno voleva mettere in imbarazzo Becca se l'infatuazione era leggermente unilaterale. Conosceva anche quella sensazione.

«...ho rubato dei jeans e mi vanno bene...»

Becca fissò il vuoto, senza riuscire a celare il sorriso che non aveva nulla a che fare con la canzone di Chloe, poi riportò lo sguardo su Anna, gli occhi che scintillavano per il bisogno di dirlo a qualcuno. «Abbiamo fatto un picnic nel parco. Owen mi ha portato fuori a pranzo. Parliamo molto di tutto. È un ragazzo così interessante: ha passato del tempo in India, e in Irlanda, e vuole lavorare a New York...»

«È un po' più vecchio di te», sottolineò lei.

«C'è una differenza d'età maggiore fra te e papà», disse Becca, con una repentinità che suggeriva che si fosse preparata in anticipo quella particolare argomentazione.

«La differenza fra ventiquattro e diciotto non è come quella fra trentatré e ventiquattro.» Mentre Anna lo diceva capì – e lo capì anche la ragazza – che stavano discettando di mera matematica; lei era stata molto più ingenua di Becca persino a ventiquattro anni, con una laurea e un lavoro.

«Ma ho più cose in comune con Owen che con i ragazzi a scuola», affermò Becca. «Loro sono così fissati su stupidaggini! Owen invece ha fatto delle cose.

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Ha delle sue idee, non solo una miriade di magliette delle band. Potrei restarmene stesa lì a parlargli per ore e ore.»

Stesa lì. Il tono sognante in cui lo disse fece lampeggiare un'unica domanda nella mente di Anna, una domanda che non poteva porre. Gli uomini come Owen non rimanevano certo stesi per ore soltanto a parlare. Non a lungo.

«Becca, voi due andate...» Nemmeno quello figurava sui libri sull'essere genitori. Ma Owen aveva un suo appartamento e nessuna tabella di marcia per il ripasso, a differenza di Josh l'oboista. Phil non l'avrebbe chiesto. Lei doveva proseguire, per quanto faticosamente. «Andate a letto insieme?»

Becca arrossì. «Anna! No.»

«Bene», replicò lei. Era suonato più come un «Non ancora» che come un «No». Il linguaggio del corpo di Becca era più eloquente. Ora che disponeva dell'informazione desiderata, Anna non era sicura di essere più felice.

«Lo dirai a papà?» chiese Becca, e l'espressione estatica le scomparve dal viso. «È solo che... Ricordi come si è comportato con Josh. Quell'orrenda cena. Non voglio che Owen si debba sorbire il discorsetto: “Che intenzioni hai?”. Non ancora, almeno. Non fino a quando non correrò più il rischio di smettere di piacergli perché la mia famiglia è composta da un branco di svitati.»

«No», ribatté Anna. «Nessuno lo vuole.» Lottò interiormente con sé stessa, mettendo su un piatto della bilancia la fiducia appena concessale da Becca e sull'altro la propria responsabilità verso Phil. Il guaio era che si sentiva fortemente tentata di prometterle di mantenere il loro segreto. Le sembrava la prima cosa davvero da matrigna che faceva.

«Ti prego, non dirglielo, non ancora», la supplicò Becca, vedendola titubante.

«Okay.» Lei avrebbe dovuto parlare con Michelle, però. Come se quella conversazione promettesse di essere meno imbarazzante. «E se glielo dicessi tu, una volta che sei sicura che a Owen non dispiacerà venire a cena? Puoi invitarlo qui da noi. Magari può venire anche Michelle, per farlo sembrare meno un interrogatorio?» Se Owen era simpatico e amava parlare come sosteneva Becca, l'interrogatorio non sarebbe durato a lungo, si disse.

La ragazza parve soddisfatta. «Benissimo.»

«Ma presto, Becca», la avvisò lei. «Sarebbe terribile se tuo padre lo venisse a sapere da qualcun altro.»

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Dalla parte opposta del pianerottolo giunse un'altra esplosione canora, come se qualcuno avesse aperto la porta di una camera per fare una stentorea dichiarazione.

«...le ho rubato i jeans e sono elasticizzati, spero che al suo ragazzo non dispiaccia... Un culo sformato, un ginocchio sformato...»

Becca strinse gli occhi. «Promettimi che taglierai il filo di quell'aggeggio mentre siamo via.»

«Portami del gel sbiancante della Duane Reade», replicò Anna, «e possiamo accordarci.»

Si strinsero la mano.

Più tardi quella sera, mentre esaminava la sua agenda sul tavolo di cucina riempiendo le settimane seguenti con i turni al lavoro e le sessioni di lettura ad alta voce, Anna si accorse di qualcosa che fino a quel momento era stata troppo indaffarata per notare.

Il suo ciclo sarebbe dovuto iniziare due giorni prima.

Sfogliò le pagine a ritroso, attraverso le caselle occupate da lezioni di danza, turni in libreria e consegne del supermercato, e si accigliò. No, aveva decisamente avuto le ultime mestruazioni il cinque; aveva preso talmente tanti analgesici per i suoi terribili crampi da leggere tre volte la stessa pagina di Perfetto, Jeeves, alla Butterfields, prima che uno dei cari vecchietti glielo facesse notare.

«Sono un autentico schifo», annunciò Chloe dal divano. Le ragazze e Phil stavano guardando Britain's Got Talent e assegnavano severamente un voto a ogni concorrente. «Non riesco a credere che queste sceme abbiano superato le audizioni e noi no.»

«Avresti dovuto addestrare Pongo a ballare con te», asserì Lily, autorizzata a rimanere alzata per prendere parte all'attività critica. Pongo era sul divano al suo fianco, drappeggiato in parti uguali su di lei e su Chloe, la testa posata affettuosamente sul grembo di Lily. «A quel punto avreste vinto.»

«Avrebbero fatto passare Pongo e non le Apricotz», dichiarò Becca. «Sempre che fossero riusciti a distinguere il loro cantare dal suo.»

«Anna? Non pensi che siano una vera schifezza?» chiese Chloe, girando la testa.

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«Almeno riesci a sentire cosa stanno cantando. E non dire “schifezza”», la ammonì Phil. «Usa un termine più intelligente.»

«Non trovi che siano delle autentiche merde? Cosa c'è? È una parola usata da Chaucer. Anna, digli come sono orrende. Lui è troppo anziano per accorgersene, povero vecchietto.»

Anna continuò a fissare la sua agenda. Era vero? Si sbagliava? No, i conti tornavano. Il cuore prese a martellarle nel petto. Era davvero incinta? Senza essersene accorta? Esisteva anche solo la possibilità che lo fosse?

«Ehm, non sono molto brave», disse senza riflettere. «Di certo non brave come le Apricotz.»

Incinta. Per una volta le parole parvero inadeguate, troppo distanti da quanto le stava succedendo dentro in quel preciso istante. Non era mai stata incinta. Non aveva la minima idea di cosa avrebbe dovuto provare oltre al debilitante, violento vomitare, o al radioso fiorire delle future madri della fiction, che riteneva un po' esagerato.

Anche se, ora che ci pensava, si sentiva leggermente... nauseata. Nauseata ed eccitata.

«Eliminatele!» gridò Chloe dal divano. «Per me è un “non ci siamo”!»

«Ed è un “non ci siamo” anche per me!» disse Lily.

«Anna, perché non vieni a guardarlo insieme a noi?» Phil girò la testa, seduto sulla sua poltrona reclinabile, parte della coppia che aveva comprato quando erano soltanto loro due. «Ho bisogno di commenti intelligenti per bilanciare tutto questo strillare.»

«Ehm, sì, fra un minuto.»

Lei ricontrollò le date più e più volte, e quando le pagine cominciarono a ondeggiarle davanti agli occhi si costrinse a raggiungere il divano. Le sembrava di camminare sulle nuvole oppure sulla luna, sentendo le ginocchia leggere e incorporee.

“Sono incinta”, continuava a pensare. Ancora e ancora. “Sono incinta.”

Riuscì ad affrontare il bagnetto e l'ora di dormire e un capitolo della nuova storia di Lily, e poi a tormentare Chloe perché salisse in camera, prima di riuscire finalmente a restare sola con Phil.

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«Phil, c'è una cosa di cui dobbiamo parlare», annunciò, osservando la schiena del marito intento a riempire la lavastoviglie.

«Se è permettere a Chloe di ripetere le audizioni per Britain's Got Talent, la risposta è ancora no. Nemmeno se insegna a Pongo a ballare il paso doble con lei.»

«No, è...» Anna deglutì a fatica, guardandolo incastrare la pentola della pasta nel settore sbagliato del cestello. Era quello il modo giusto di dirglielo? Nel corso degli anni, nella sua immaginazione, aveva scelto ogni genere di tattica scaltra: la scarpina di lana nel portatorta, il test di gravidanza positivo sotto il cuscino di lui. Ora che il momento era arrivato voleva semplicemente dirlo di getto. «Non si tratta di Chloe. Si tratta di me.»

Phil parve percepire il suo nervosismo e posò lo strofinaccio. «Cosa c'è? È qualcosa che hanno fatto le ragazze?»

«No! No, con loro è tutto a posto. È...»

Lui alzò gli occhi, poi vide la tensione mescolata all'eccitazione sul suo volto. «Anna?»

«Siediti», gli disse lei, indicando il tavolo. «So che è un orrendo cliché, ma preferirei che fossimo seduti.»

Phil scostò una sedia dal tavolo e vi scivolò sopra. Il solco fra le sopracciglia gli si era fatto più profondo. «Okay», replicò. «Ti prego, non dirmi che vuoi andartene. Non ho letteralmente la minima idea di come funzionino le cose in questa casa. Qualsiasi cosa io abbia fatto, ti chiedo scusa.»

«Come? No!» Per poco Anna non rise di come lui fosse fuori strada. Si sedette e gli prese le mani, e quando il marito ripiegò le dita sulle sue disse quietamente: «Phil, il mio ciclo è in ritardo. Non è mai successo».

«Di quanto?»

«Due giorni.»

Per alcuni lunghi istanti lui non fiatò, poi chiese: «Hai fatto un test?». Un muscolo gli si contrasse nel collo.

«Non ancora», rispose Anna. Sorrise, non riuscì a evitarlo. «Preferivo non sfidare la sorte.»

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«In che senso? Non dipende davvero dalla sorte, no? Insomma, o sei incinta o non lo sei, non è che si possa... Scusami.» Si passò una mano sul viso. «Scusa, non è la cosa giusta da dire.»

«No, non lo è», concordò lei. Si appoggiò allo schienale della sedia e lo guardò.

Non era la reazione che si era aspettata. Non aveva contato sull'euforia, visto cosa aveva detto Phil tempo prima su come fossero puzzolenti e sfiancanti i neonati, ma sull'eccitazione sì. Magari una simulata delusione perché il capanno sarebbe stato fuori questione per un po'. Non questo. Non... l'irritazione.

«Mi rendo conto di non essere un'esperta come te, ma so contare», cominciò a dire, ma lui alzò le mani per fermarla.

«Scusa. È solo che... be', ho dovuto affrontare alcuni falsi allarmi, diciamo.»

«Be', io no», ribatté lei, ferita. «Quindi sii indulgente se sono un po' agitata. Phil, può darsi che io aspetti un bambino. Questo non ti fa sentire... elettrizzato?» Si interruppe. Lui non sembrava molto elettrizzato. «Come ti senti?»

«Be', una metà di me sarebbe piuttosto colpita dal fatto che tutto funzioni ancora», replicò lui con una mezza risata. «Ma l'altra metà sarebbe un po' spaventata.» Inarcò un sopracciglio. «E telefonerei subito all'ambulatorio, chiedendomi chi potremmo citare riguardo alla pillola. Non la si definisce efficace al novantanove per cento? Cos'è successo? Hai vomitato? Ne hai saltata una?»

Eccolo. Il bivio in cui il loro matrimonio poteva imboccare l'una o l'altra direzione. Anna non riusciva a capire come si fosse passati dall'eccitazione spumeggiante al panico nel giro di pochi secondi.

«È affidabile, sì», spiegò. «Se la prendi. Ma io non la sto prendendo.»

«Cosa?» Lui la fissò. «Stai scherzando, vero?»

«No. Sapevi che avevo smesso di prenderla. Ho smesso dopo il nostro anniversario, come avevamo deciso quando ci siamo sposati. Non fingere di averlo dimenticato.»

Phil non rispose, e il cuore di Anna le rimase sospeso nel petto. Le sembrava che tutto fosse in sospeso: per quel secondo lui era ancora il suo avvenente e fidato marito, il suo uomo ideale, la sua famiglia complicata ma appagante. Nell'istante successivo tutto questo poteva essere spazzato via. Sapeva che

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suonava melodrammatico – riusciva a sentire il tono stridulo della sua vocina interiore –, ma era colpa della sua tensione. Era talmente tesa da non avere nemmeno considerato nessun'altra possibile reazione.

«Non l'avevo dimenticato», affermò lentamente Phil, a bassa voce, «ma non pensavo che avresti preso e messo in atto una decisione così seria per tutti noi come sospendere la contraccezione senza prima discuterne.»

«Ne abbiamo discusso in macchina», puntualizzò lei. «Mentre andavamo in aeroporto.»

«Non è stata una discussione, solo una chiacchierata generica sulle famiglie! Hai davvero detto: “Oh, a proposito, solo perché tu lo sappia, d'ora in poi ogni volta che facciamo sesso potresti ricevere un regalo di Natale anticipato”? No!» gridò lui, poi deglutì per dominare la rabbia. «Anna. Hai ascoltato qualcosa di quanto ho detto su come le ragazze siano scombussolate dal fatto che Sarah se la sia svignata lasciandole qui? O su come mi piacerebbe che avessimo un po' di tempo per noi due e basta?»

«Ho sentito tutto.» Lei si stava sforzando di non assumere un tono lacrimoso. «Ma tu mi hai sentito dire quanto desidero un figlio? Non soltanto quella volta, ma negli ultimi quattro anni? Non capisco perché questo sia un momento tanto sbagliato. Sarah tornerà fra un anno, inoltre più rimandiamo e maggiore sarà la differenza d'età fra Lily e un altro bambino e più vecchi diventiamo noi due.»

«E gli esami che le ragazze stanno per affrontare?»

«Non siamo costretti a dirglielo, ancora. Dopo quanto tempo si può presumibilmente annunciare una gravidanza senza correre rischi? Dopo i primi tre mesi? A quel punto i loro esami saranno conclusi già da tempo.»

«Hai organizzato tutto, vero?» chiese lui, e nella sua voce risuonò una spensieratezza forzata che la fece trasalire. «Da quanto tempo ci stai pensando senza prenderti il disturbo di parlarmene?»

«Non è una cosa che ho fatto d'impulso», affermò Anna, arrabbiata perché Phil stava dando l'impressione che lei lo avesse ingannato. «Sapevi che volevo una famiglia numerosa. Non ho pensato ad altro negli ultimi quattro anni. Al nostro bambino. Alla nostra famiglia.» Sentì le lacrime salirle in gola, un'ondata di marea di ormoni che le si scatenava in tutto il corpo, impregnando il minuscolo fagottino di cellule di tutte le emozioni fondamentali. Stress. Politiche familiari. L'onnicomprensivo amore di Anna per lui.

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Nel profondo del cuore sapeva che si stava dimostrando irrazionale e ingiusta, che aveva lasciato che quel potente cocktail di ormoni e straripante desiderio di maternità soverchiasse il suo consueto buonsenso. Si vergognava del proprio egoismo ma al contempo non se ne pentiva affatto. Lì non si trattava di lei ma di qualcun altro. Qualcos'altro che contava su di lei perché lo facesse succedere.

Phil si era preso la testa fra le mani. «Io, io, io... Per l'amor del cielo, Anna. Il succo dell'essere genitore è che non conti più nulla», bofonchiò tristemente, ma poi alzò gli occhi e vide com'era rimasta traumatizzata dalla sua reazione.

Lei trovava difficile respirare.

Lui spinse subito indietro la sedia e in un attimo le si inginocchiò accanto, cingendola con le braccia. «Non intendevo in quel senso. Non che io non voglia che abbiamo un bambino, solo che...»

«Non dirlo.»

Phil rimase in silenzio per alcuni istanti, cullandola mentre lei cercava di capire cosa stava pensando.

“Non importa cosa pensi tu”, disse una vocina nella sua testa, “o cosa pensa lui. Se il bambino è qui, è qui.”

«Staremo benissimo», affermò Anna, accarezzandogli la testa. «Andrà tutto bene.»

Non sapeva bene a chi si stava rivolgendo – se al marito, alle cellule che le turbinavano dentro o a sé stessa –, ma l'unica reazione di Phil fu stringerla forte senza parlare, e nemmeno quella era la reazione che si era aspettata.

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Capitolo 17

«La povera Chicca Pasticca ha la sciagurata abitudine di rimpicciolire nei momenti meno opportuni, dopo di che è costretta a escogitare il modo di tirarsi fuori dai guai usando solo il suo considerevole ingegno. Ci siamo passati tutti.»

Anna McQueen

La mattina dopo Anna si svegliò aspettandosi che il mondo fosse diverso, ma provò una deludente sensazione di normalità. Pongo abbaiava ancora alle sette meno venti precise perché lo facessero uscire e Chloe restava ancora chiusa nel bagno per venticinque minuti mentre tutti si accalcavano lì davanti come aerei in circuito d'attesa. L'unico vero ronzio di eccitazione dipendeva dal fatto che quel giorno segnava l'inizio della vacanza delle ragazze e della settimana di riposo di Anna.

Stavolta, per andare a trovare Sarah, le tre sorelle avrebbero preso un volo notturno per New York quindi, invece della consueta corsa in aeroporto con gli occhi cisposi e Becca che si affrettava e si faceva prendere dal panico lungo tutto il tragitto, fu un sabato quasi normale. Phil portò Lily alla lezione di nuoto e Chloe andò a prendere la lista delle cose che avrebbe dovuto comprare a New York da Tyra e Paige, attualmente reinsediata nel ruolo di Apricot grazie all'investimento della sua famiglia in una pedana vibrante. Becca insistette per fare il proprio turno in libreria, benché Anna avesse previsto che si prendesse la mattinata libera.

«Non mi dispiace, davvero», spiegò Becca, già sulla porta con indosso la giacca di jeans quando lei prese la borsa per andare.

«Ma hai la casa tutta per te.» Anna non riusciva a credere che la ragazza fosse disposta a rinunciare alla chance di passare un paio d'ore in santa pace. «Rimani qui. Guarda la televisione. Recupera le tue cose dalla valigia di Chloe mentre lei non c'è. Hai bisogno di rilassarti, Becca. Stai ripassando senza sosta.»

La ragazza non lo negò, aveva davvero studiato fino a tardi ogni sera. «Se rimango qui, però, non farò altro che sentire che dovrei ripassare.» Si interruppe per darle di gomito. «Mi piace la tua libreria. Ci starei anche se non avessi un lavoro. Forza, andiamo là a piedi passando dal chiosco del caffè e prendiamoci una pasta.»

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«Okay», disse Anna, commossa dal fatto che Becca stesse scegliendo spontaneamente di trascorrere del tempo con lei. Aveva progettato di passare da Boots a prendere un test di gravidanza, lungo la strada, ma quello poteva aspettare. Non le dispiaceva protrarre l'eccitazione per un altro po'; voleva concedersi quante più chance possibili di ottenere un risultato positivo.

Si incamminarono verso il centro, chiacchierando della tabella oraria degli esami di Becca e dell'irritante nuovo vezzo di Chloe di parlare di sé stessa in terza persona come se fosse la voce narrante del proprio reality show. Becca era interessata alla quotidiana storia della buonanotte di Lily e si offrì di leggergliela lei mentre erano a New York, cosa che fece sfavillare di felicità il cuore di Anna. Era una tiepida giornata primaverile e lei sentiva il corpo leggero e colmo di possibilità. Riusciva quasi a percepire gli ormoni sfrecciarle attraverso l'organismo come il cioccolato che schizzava fuori dalle tubature variopinte sulla sovraccoperta del vecchio libro con Willy Wonka della Fabbrica di cioccolato.

«Strano come una cosa porti a un'altra, vero?» chiese Becca, passando le mani fra il caprifoglio che si arrampicava sulla cancellata del parco. «Se tu non avessi conosciuto Michelle nel caffè con Pongo non sareste diventate amiche, e lei non ti avrebbe chiesto di gestire la libreria, e tu non mi avresti procurato un lavoro, e io non avrei conosciuto Owen...»

«Giusto», confermò Anna in tono ironico. «È tutta colpa mia.»

«Dico sul serio», replicò Becca. Sembrava felice, e lei si rese conto di non vederla così felice da parecchio. Lo stress da ripasso le aveva inciso un solco fra gli occhi tuttora visibile. «Credo di avere già trovato il mio lavoro ideale.»

«Be', puoi lasciarlo in sospeso per un po', quando gli esami iniziano sul serio», le consigliò Anna. «Avrai bisogno di quel tempo per rilassarti.»

Becca non fiatò. Fece sobbalzare il palmo della mano lungo la sommità della cancellata.

«E se posso fare qualcosa per aiutarti me lo dirai, vero?» aggiunse Anna. Persino adesso provò un empito di sollievo all'idea che non avrebbe mai più dovuto affrontare un altro esame; a causa dell'ansia le capitava di sognare di scrivere una tesina sui demoni interiori di Amleto completamente nuda, sotto un gigantesco orologio. «La mamma mi portava del tè ogni novanta minuti per impedire al mio cervello di disidratarsi. Quando ho sostenuto gli esami, in pratica soffrivo di intossicazione da tannino.»

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«I tuoi genitori sono andati all'università?» chiese Becca.

Lei scosse il capo. «No, sono stata la prima della famiglia. Papà faceva il muratore come suo padre, la mamma l'infermiera. Dopo il diploma lei ha frequentato l'istituto di formazione professionale, ma al giorno d'oggi l'avrebbero probabilmente incoraggiata a laurearsi in medicina.»

«Quindi il tuo aver frequentato l'università è stata una cosa importante.»

«Immagino di sì.» Anna ricordò l'espressione sul volto dei genitori quando erano arrivati i risultati dei suoi esami: era come se fossero orgogliosi di lei e allo stesso tempo ne avessero un po' paura. Il massimo dei voti in tutte e cinque le materie. La loro figlia, una «cervellona». «Volevano che facessi tutte le esperienze che a loro erano mancate. Ma è tipico dei genitori, desiderano il mondo intero per te.»

«Tu volevi andare all'università?»

«Oh, sicuramente. Ho sempre desiderato trovarmi circondata dai libri. Se fossi stata un po' più intelligente mi sarebbe piaciuto restarvi in eterno, come ricercatrice.» Anna sospirò. «Ma credo che il lavoro che ho adesso sia quasi altrettanto bello. Forse anche di più. Dubito che mi avrebbero lasciato conseguire un dottorato in storie per bambini. A meno che sia questo che indica l'espressione “laurea Mickey Mouse”», disse, citando il soprannome assegnato ai corsi universitari di non eccelso livello.

Becca rispose con una via di mezzo fra una risata e un gemito. «Anna, è il genere di battuta scadente che farebbe papà. Ti sta contagiando.»

«Davvero?» Lei si finse orripilata.

“Questo è davvero piacevole”, pensò, spostando sull'altra spalla la pesante borsa con i libri. La loro era una vera e propria conversazione, ricca di confidenze, del tipo che aveva sempre sperato che facessero. Forse la confessione su Owen aveva rappresentato un punto di svolta.

«Dove sei andata all'università?» le domandò Becca.

«A Manchester. Avrei tanto voluto andare a Cambridge», rispose Anna. «Nessuno nella mia scuola venne davvero incoraggiato a presentare la domanda di iscrizione, così non me ne curai. Se potessi tornare indietro lo farei. Senza ombra di dubbio. E ti avviso, verrò a trovarti.»

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Becca si mordicchiò il labbro, poi disse di getto: «So che tutti pensano che per me sarà una passeggiata, ma se invece arrivo là e scopro che tutti sono molto più intelligenti di me? Insomma, non è difficile sembrare intelligente qui a Longhampton, quando metà dei miei compagni sono in preda al doposbornia, il lunedì mattina – non dirlo a papà, a proposito –, ma a Cambridge... saranno tutti dei geni. E se ottengo voti sufficienti per andare all'università ma non riesco a frequentarla? E se arrivo là e scopro di non volerlo fare?».

Anna non l'aveva mai sentita dire nulla di seppur lontanamente negativo sui propri progetti per la facoltà di legge e rimase stupita. Si chiese da quanto tempo Becca si stesse angustiando, al riguardo, senza rivelarlo ad anima viva.

La ragazza aveva accelerato, come se camminare fosse l'unico modo per farsi uscire le parole di bocca. «Papà pensa che per me sia facile, che si tratti solo di leggere i libri e presentarmi agli esami. Come pensi che reagirebbe, se io non venissi ammessa?»

«Ti vorrebbe bene comunque», rispose Anna. «Qualsiasi cosa tu faccia.»

Becca non replicò, e lei le afferrò un braccio per costringerla a fermarsi.

«Becca?» disse, piegandosi in avanti per guardarla negli occhi bassi. «Dico sul serio. Qualsiasi cosa tu faccia continueremo tutti a volerti bene e a sostenerti. Tuo padre è fiero di te, ma non considerarla una pressione supplementare, perché non lo è. Lui vuole soltanto che tu faccia tutto il possibile. L'università non è come la scuola. È incentrata sul crescere e imparare a porti delle sfide, sullo scoprire chi sei. Conoscerai una miriade di persone diverse e sì, alcune saranno più intelligenti di te, altre meno. Ma sarai tu quella che si trova là, a divertirsi come non mai. A fare cose straordinarie e cose stupide e cose che non rifarai mai più.»

Avevano raggiunto la sommità della strada principale, nei pressi della libreria.

«E noi saremo sempre qui», aggiunse Anna. «Orgogliosi di te. So che hai una madre e un padre, ma hai anche me. Di riserva. Se ti serve una spalla diversa.» Riuscì a stento a spingere le parole oltre il groppo in gola. «Anch'io sono fiera di te.»

Becca le rivolse un sorriso tremulo. «Lo so», replicò. Le tremarono le labbra. «Grazie.»

«Oh, vieni qui», disse lei, e la strinse a sé, sentendone il corpo sottile appoggiarsi al suo. Rimasero abbracciate sulla strada, dimentiche dei passanti.

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Quando aprirono con una spinta la porta della libreria, Michelle e Owen erano appoggiati al bancone, intenti a osservare attentamente il portatile del giovane.

«Ciao!» disse lui, con gli occhi che si illuminarono quando vide Becca. Si alzò, svettando sopra la sorella, e anche Becca raddrizzò la schiena invece di tenere le spalle curve come quando era con Josh, che le arrivava a stento all'orecchio.

Il crepitare nell'aria fra loro due era davvero palese, pensò Anna. Se avesse conosciuto un po' meglio Owen avrebbe potuto essere più contenta della situazione. Stando così le cose, invece, poteva basarsi soltanto su un paio di indulgenti aneddoti di Michelle in merito alle stupidate da lui fatte in Irlanda, che non la ispiravano certo molto.

Tentò di bilanciarle con la sua esperienza di Owen, che le era parso affascinante, servizievole, cordiale, non molto puntuale. Ma Becca era una ragazza in gamba, argomentò. Non avrebbe certo tollerato un tipo non a posto.

«Ho finito il sito», annunciò lui. «Venite a vedere.»

«Non è male», disse Michelle, da sopra il computer. «Ovviamente c'è ancora del lavoro da fare...»

«Non sei mai contenta», commentò il fratello. «È questo il tuo problema.»

Anna andò a guardare e rimase debitamente colpita. Owen era riuscito chissà come a catturare l'atmosfera cordiale della libreria, con gli stessi colori tenui, la musica di sottofondo e le scaffalature virtuali decorate da cartoline «Noi amiamo...» riempite con l'artistica calligrafia di Becca. Sullo sfondo figurava proprio lei – non Chloe – che accompagnava dei clienti in giro per il negozio, e ogni tanto, se spostavi il cursore in determinati punti, saltava fuori Tavish.

«Lo adoro», disse Anna. «È magnifico.»

«A parte me», intervenne Becca, contorcendosi in preda a una mortificazione tipicamente adolescenziale. «Sono orrenda. Perché non mi hai detto che avresti usato queste foto? Il mio naso sembra enorme.»

«Sei bellissima», affermò Owen con un po' troppo entusiasmo, poi mascherò la propria reazione rivolgendosi ad Anna. «Non è vero?»

Lei gli scoccò un'occhiata diretta con cui sperava di comunicargli che sapeva cosa stava succedendo. «Sì.»

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Il sorriso sicuro del ragazzo tremolò. «Posso... ehm, metterci anche te, se vuoi.»

«No, è perfetto così.»

«Bene, ora che è arrivata la cavalleria posso tornare qui accanto», disse Michelle. «Owen, puoi continuare a lavorare sul sito al piano di sopra? Vorrei metterlo on line entro stasera.»

Lui fece per contraddirla ma poi vide la sua espressione e chiuse il portatile. «Nessun problema. Sarò... qui accanto. Di sopra.»

Becca lo seguì con lo sguardo, osservando i suoi fianchi snelli fasciati dai jeans stinti, poi parve riprendere vita di scatto quando si rese conto che sia Anna sia Michelle la stavano fissando. «Oh. Ehm, caffè? Devo accendere la macchina?»

«Buona idea», rispose Michelle, poi si sedette al bancone, scribacchiando qualche appunto sull'agenda di Anna.

Anna aspettò che Becca portasse il bricco del caffè in cucina per lavarlo, poi si sporse in avanti per sussurrarle qualcosa all'orecchio. «Michelle, non so se sai...» cominciò a dire, ma la sua amica alzò gli occhi prima che lei potesse terminare la frase.

«Cosa, che Owen e Becca escono insieme?»

«Sì.» Anna era stupita. «Perché non me l'hai detto?»

«Dirti cosa?» Michelle riabbassò lo sguardo sulla lista e cancellò un paio di cose da fare. «Sono sua sorella, Anna, non sua madre.»

Qualcosa, nella sua nonchalance, irritò Anna. «Be', io sono in effetti la madre di Becca. Di solito non mi piace spiare le ragazze, ma visto che lui è tanto più vecchio di lei e tu sai che Becca sta per affrontare gli esami, mi stupisce che tu non abbia menzionato la cosa.»

I suoi ormoni in subbuglio fecero suonare la frase più drammatica di quanto avrebbe desiderato, e Michelle sollevò la testa di scatto. Sembrava sulla difensiva.

«Avevo intenzione di dirti qualcosa. Dubito che la faccenda vada avanti da molto... e prima che tu me lo chieda, sì, ho spiegato molto chiaramente a Owen come siano importanti gli esami di Becca e come gli taglierò personalmente le palle per usarle come centrotavola se non si dimostrerà un perfetto gentiluomo. Ma se fossi venuta da te a dire: “Ooh, Becca sta uscendo con Owen”, cosa avresti

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fatto? Le avresti impedito di vederlo? Perché simili iniziative vengono accolte sempre molto bene dagli adolescenti.»

Anna dovette ammettere, piuttosto di malavoglia, che l'amica aveva ragione ma questo non alleviò comunque l'irritazione dovuta al fatto che Michelle non le avesse detto niente. Chi meritava maggiore lealtà, in quel caso?

«Sai che Phil andrà su tutte le furie se la situazione... si complica?» chiese. Preferiva non riflettere troppo a fondo su cosa intendeva con «si complica».

«Quanto può complicarsi? Senti, non è poi così difficile tenerli d'occhio, se Becca è a scuola e ogni giorno Gillian rimane nel negozio sotto l'appartamento dalle nove alle sei», dichiarò ragionevolmente Michelle. «Ed è più facile riuscirci se non fanno le cose di nascosto.» Tentò di abbozzare un sorriso. «Scommetto che quando eri adolescente non hai fatto molte cose di nascosto, vero?»

«No», ammise Anna.

«Bene, io ho fatto parecchia pratica nel tenere d'occhio Owen e, credimi, è molto più facile quando lui pensa di non essere osservato.»

Anna assunse un'aria orripilata e si lasciò cadere su una sedia. «Questo dovrebbe farmi stare più tranquilla?»

Michelle emise una risata mista a gemito. «Mi dispiace, ma è vero. Qualsiasi adolescente maschio sarebbe uguale. Sei fortunata a non aver ancora dovuto affrontare nulla del genere. Considerala un'ottima occasione di fare pratica preparandoti per Chloe.»

«Becca non è tipo da fare le cose di nascosto», asserì lei. «Ma è stata piuttosto rapida nel rammentarmi che non sono nella posizione di farle la ramanzina sui fidanzati più vecchi.» Si prese la testa fra le mani. «Come mai ho una brutta sensazione riguardo a questa faccenda?»

«Stai dicendo che mio fratello ti dà una brutta sensazione?» Il tono di Michelle era scherzoso, le sue parole no.

«Non esattamente.»

Aveva davvero una brutta sensazione. Sentiva già un sottile strato di complicazioni posarsi sul bancone fra loro due. Di solito Michelle mostrava una tonificante sincerità in merito al fascino di Owen, ma adesso sembrava sulla

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difensiva. Anna sapeva che le avrebbe sentito dire cose ben diverse, se il fratello avesse cominciato a uscire con Kelsey.

«Devo dirlo a Phil», dichiarò, capendo di avere sbagliato nel promettere a Becca il contrario. «Oddio. Si è appena rassegnato al fatto che la sua principessa esca con quell'oboista foruncoloso.»

«Owen non è esattamente un maniaco fissato con le ragazze molto più giovani di lui. Ha un lavoro», sottolineò Michelle. «E una laurea.»

«Verissimo. E non ha una moto. Né un tatuaggio.»

«In realtà un tatuaggio ce l'ha. Piccolo. Forse due.»

«Cosa? No...»

Michelle controllò che Becca non stesse tornando e abbassò la voce. «Ascolta, Anna, ho riflettuto anch'io sulla cosa: nella peggiore delle ipotesi avranno una sorta di flirt estivo, poi in ottobre lei andrà all'università e la cosa si affievolirà. Becca è una ragazza giudiziosa. Sa come siano importanti i suoi esami.»

«E Owen? Pensi che possa dimostrarsi giudizioso?» Anna la guardò con aria interrogativa. «Prima di rispondere non dimenticare che mi hai raccontato determinate cose su di lui e le sue poco affidabili abitudini con il gentil sesso.»

Michelle esitò. «Owen mi dà l'idea di essere piuttosto infatuato, sinceramente.»

«Sembri stupita.»

Lei stava scegliendo le parole con cura. «In circostanze normali, a questo punto si sarebbe già praticamente trasferito a casa della ragazza oppure dato alla macchia, invece è rimasto qui. Da solo. Rory dice di averlo visto passare la serata in casa; l'altra sera è andato a farsi prestare un goccio di latte.» Trovavano entrambe sbalorditivo quel dettaglio domestico.

«Allora, Becca quando te l'ha detto?» chiese Michelle.

«Ieri.»

Michelle inarcò un sopracciglio. «Se lo ritieni un tale problema.»

Anna si rese conto, di nuovo, che la sua superiorità morale poggiava su un terreno leggermente più sdrucciolevole di quanto avesse creduto. Non le piacque affatto l'espressione con cui Michelle reagì. La metteva a disagio.

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Si fissarono in silenzio.

Fortunatamente Becca ricomparve prima che una qualsiasi di loro dovesse pensare a cosa aggiungere senza peggiorare la situazione.

«Chi vuole del caffè?» La ragazza fece oscillare il bricco nella loro direzione, il viso fresco e giovane ed eccitato. «Ho anche dei biscotti!»

«Io, grazie», rispose Anna. «Bello forte.»

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Capitolo 18

«Are You There, God? It's Me, Margaret ha risposto a tutte le domande che ero troppo timida per fare. Judy Blume fa sembrare eccitante e affascinante il diventare grandi, senza mai suonare paternalistica.»

Becca McQueen

Una volta che le ragazze vennero sistemate sul volo notturno, armate di frutta e acqua – e, nel caso di Lily, di un vero libro – Anna si concentrò sulla propria lista delle vacanze.

La prima voce era rappresentata dal pranzare, l'indomani, con i genitori, che non vedeva sin dalla rapida visita che aveva fatto loro prima di Natale per consegnare e prelevare doni come un elfo-corriere impazzito.

Le mancavano le amichevoli passeggiate con il padre e il suo ansante vecchio labrador, e le tranquille chiacchierate con la madre nella sua angusta cucina. Pur parlando al telefono con lei due o tre volte la settimana, non era come vedere i genitori e frequentare la casa di famiglia in cui aveva vissuto per tutta la sua vita, piena di libri e ricordi. Sapeva che anche loro sentivano la sua mancanza, la mancanza della loro unica figlia, e si preoccupavano del suo ruolo nella complicata famiglia di Phil, pur essendo di gran lunga troppo educati per dirlo.

Guardò verso il lato opposto della macchina. Phil, il gomito che sporgeva dal finestrino, stava cantando insieme alla voce di Blondie, alla radio, senza mai azzeccare le parole e lei sentì un sommovimento nel petto. Erano riusciti a parlare ancora e lui, pur non essendo ancora propriamente felice della possibilità di un bambino, non era in preda al panico come la prima sera. Anna pensava di poterne descrivere l'attuale stato d'animo come «speranzoso a titolo sperimentale».

Il suo ciclo mestruale era ufficialmente in ritardo di quattro giorni, ormai. Pur non avendo ancora ottenuto un chiaro risultato positivo nel test, le sue ossessive ricerche su Internet suggerivano che quello non era inusuale. Non l'aveva detto a nessun altro, preferendo tenersi ben stretta la cosa finché non era definitiva. Il segreto suo e di Phil. Era come il mese che precede il Natale o il termine del quadrimestre. Le spumeggiava dentro la squisita certezza che stesse succedendo qualcosa di nuovo. Stavano facendo un passo avanti, tutti insieme, correttamente, come non era mai accaduto.

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Per una volta non paventava le velate e ansiose domande della madre sui futuri nipotini, di solito poste mentre loro due preparavano dei sandwich in cucina, ben al di fuori della portata d'orecchio di Phil e del padre di lei, perché adesso poteva fare un sorriso enigmatico e rispondere: «Mamma, è tutto sotto controllo».

Lì sull'auto un cellulare emise il bip indicante l'arrivo di un messaggio. Dovevano incontrarsi per pranzo con i genitori di Anna in un albergo appena fuori Ledbury, e la nuova padronanza del telefonino vantata da suo padre faceva sì che ogni appuntamento richiedesse molteplici aggiornamenti sui progressi.

«È il mio?» Lei si guardò intorno. La sua borsetta era posata sul sedile posteriore. «Potrebbe essere papà che vuole sapere l'ora di arrivo prevista. Sai com'è fatto, probabilmente preferisce ordinare in anticipo.»

«No, credo sia il mio», disse Phil, girandosi per cercare la giacca. «Tieni gli occhi sulla strada, per favore. Spero che non insegnerai a Becca a guidare in questo modo.»

«Non glielo insegnerò affatto, a meno che tu non prometta di stipularmi un'ingente assicurazione sulla vita», replicò lei tutta contenta. «E mi prenda un'auto migliore.»

«Oddio», ribatté Phil. «L'auto. Sai cosa sembrano quelle a sei posti? Dei minibus. Tutti penseranno che stiamo gestendo un club giovanile.»

«Stai zitto», disse Anna. «Becca non sarà qui ma all'università. Cinque posti andranno benissimo.»

Quando Phil non rispose, lei gli lanciò un'occhiata e vide che stava fissando il cellulare, accigliato. «Cosa c'è?» chiese. «Per favore non dirmi che è l'ufficio. Non sanno che cos'è un weekend?»

«È Becca», spiegò Phil. «Vuole che accendiamo Skype.»

«Adesso?» La richiesta non era certo insolita: le ragazze si collegavano quotidianamente via Skype con qualunque genitore con cui non si trovassero al momento, o meglio lo faceva Lily; spesso le altre due si limitavano a salutare con la mano mentre lei raccontava la sua giornata con una mortalmente noiosa dovizia di dettagli. «Pensavo che dovessero chiamare con Skype verso le sette. Non vogliamo tornare indietro per questo, vero?»

«Infatti erano quelli i piani. Le dico che siamo fuori», affermò Phil. «Probabilmente Sarah vuole solo che io dica a Chloe che non può fare una cosa

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assurda come il piercing al naso. Sai com'è fatta Chloe, continua a chiedere qualcosa di totalmente folle in modo che ci arrendiamo lasciandole fare, invece, qualcosa di semplicemente stupido. Gestione delle aspettative. Scommetto che ha imparato da Sarah anche quello.»

Giocherellò con il cellulare e Anna continuò a guidare, felice di avere lei la priorità, una volta tanto.

Ma il telefonino emise quasi subito un altro bip.

«Se è Lily preoccupata per i peluche perché fa troppo caldo, dille che li metteremo all'ombra.»

Phil borbottò sommessamente qualcosa. «A quanto pare dobbiamo andare a casa subito per collegarci con Becca via Skype. “Subito”, a lettere maiuscole.»

Lettere maiuscole. Non suonava affatto da Becca, pensò Anna, e le prime increspature d'ansietà cominciarono ad agitare la superficie del suo buonumore. «Sei sicuro che non sia Chloe che manda sms con il cellulare della sorella?»

«Ci sono anche dei punti esclamativi. Parecchi.»

Lei mise la freccia, scrutando il ciglio della strada per cercare un parcheggio. «Occupatene prima di avere il tempo di esserne irritata» era una delle sue infallibili tattiche da matrigna. I genitori non pensano, si limitano ad agire. Era stata costretta a impararlo, sapeva che altrimenti si sarebbe trasformata in una sfera di furia incandescente parecchi mesi prima.

«Cosa stai facendo?» chiese Phil.

«Parcheggio. Chiamala. Se è così importante telefonale subito.» Anna si infilò in uno spazio vuoto, tirò il freno a mano e guardò il marito. Cercò di non arrendersi all'irritazione. «Avanti, fallo, dopo di che potrai risolvere il problema, quale che sia, e noi potremo pranzare tranquilli.»

Phil aggrottò la fronte. Spesso rimaneva paralizzato dall'incertezza, quando si trattava di decisioni riguardanti le figlie. Ecco come Chloe riusciva a fargli fare così facilmente quello che voleva. «Dovrei? Insomma, e se si tratta solo di una stupida lite fra Becca e Sarah? Sai cosa succedeva quando vivevano con lei: si provocavano a vicenda, poi telefonavano a me perché fungessi da arbitro. Non voglio che ricomincino a farlo. Insomma, non voglio che tu...» Si interruppe. «Non sarebbe giusto nei tuoi confronti. Questo avrebbe dovuto essere un periodo riservato a noi due.»

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«Non è questo il succo dell'avere dei figli, secondo te?» domandò Anna. «Il tempo non ti appartiene più.»

«Non cominciare», replicò lui. «Stavamo passando una bella giornata, finora.»

Lei trasse un bel respiro. «Se non richiami Becca riuscirai solo a far impazzire me per la preoccupazione che stesse chiamando dal fondo di un pozzo o simili. Altrimenti Becca ci telefonerà a casa di mia madre. Chiamala.» Spense il motore e incrociò le braccia. «Altrimenti la chiamo io.»

Phil parve considerare l'ipotesi di discutere, ma poi sospirò e digitò il numero.

Anna fissò le proprie mani serrate con forza sul volante e si concentrò sugli anelli di diamanti sul suo anulare. Due splendidi anelli di diamanti: un bellissimo anello di fidanzamento e una veretta eternity che Phil le aveva regalato poco dopo il trasferimento delle ragazze a casa loro, per ringraziarla del suo occuparsi di tutto. Meglio risolvere la questione subito piuttosto che a casa dei suoi genitori, dove l'occhio di falco di sua madre sarebbe stato posato su di lei e suo padre avrebbe finto di non notare la sommessa conversazione telefonica di Phil nell'altra stanza.

«Becca, sono papà», disse lui. «Cosa succede?»

Anna drizzò le orecchie per sentire cosa stesse rispondendo la ragazza, ma Phil teneva il cellulare premuto contro l'orecchio.

“Capiterebbe esattamente la stessa cosa con i nostri figli”, si disse, poi capì subito che non era vero. Con i loro figli lei sarebbe stata autorizzata a prendere la telefonata e occuparsi del problema. Avrebbe desiderato farlo. Sarebbe stata disperatamente ansiosa di scoprire cosa stava sconvolgendo tanto Becca. Non sarebbe rimasta seduta lì a sentirsi coinvolta ma non necessaria.

Chiuse gli occhi e si posò una mano sul ventre. Il fatto che Phil apparisse così preoccupato e paterno non faceva che accentuare la sua ansia. Lui avrebbe amato tutti i suoi figli esattamente nello stesso modo. Ma un nuovo pensiero aveva cominciato a sviluppare minuscoli germogli insidiosi: e se lei avesse amato il proprio figlio giusto un pizzico di più delle tre ragazze? E se avesse avuto meno voglia di continuare a fare incessanti salti mortali? Sapeva che si sarebbe imposta di farlo, perché non avrebbe mai voluto che loro se ne accorgessero, ma se...

«Dimmelo per telefono e basta», stava dicendo Phil. «Anna e io siamo in macchina, stiamo andando a pranzare con i suoi genitori.» Si accigliò. «Becca,

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non parlarmi in quel modo. Dimmelo e basta... Sarah! Le hai strappato di mano il telefono? Cosa diavolo sta succedendo?»

«Cosa c'è?» gli chiese Anna muovendo solo le labbra, incuriosita dagli strilli che uscivano dal cellulare.

Lui si premette il telefonino contro il petto e si voltò a guardarla, la fronte aggrottata. «Sono tutte impazzite. Non riesco a capire una sola parola di quello che dicono perché stanno tutte urlando contemporaneamente. Becca parla al telefono, poi Sarah le urla contro in sottofondo, e qualcuno sta piangendo...»

«Niente cantare?»

«Nemmeno questo... Okay. Chloe. Cosa sta succedendo?»

Phil cominciò a rimproverare la figlia, ma qualunque cosa intendesse dire gli morì in gola e il suo volto si fece prima inespressivo e poi preoccupato.

«Be', non succederà. Stai solo facendo la tragica. Sai che non è... Chloe, non influisce affatto sul rapporto... Chloe! Ripassami tua madre. Anzi, no, passami Becca. Passami Becca. Ciao, Becca. Ora dimmi soltanto una cosa, con parole semplici: perché vuoi tornare a casa domani?»

Anna gemette silenziosamente. “Vi prego, non tornate già a casa”, pensò. Aveva parecchie cose in programma per i sei giorni seguenti: un misto di tutte le attività divertenti di cui Phil sosteneva di sentire la mancanza, più alcuni importanti test e preparativi riguardanti il bambino che, idealmente, avrebbe condiviso solo con lui. Non poteva dirlo ad alta voce, certo, ma l'ultima cosa al mondo che desiderasse era che le ragazze rientrassero subito, se non a causa di un grave problema.

Per esempio che la casa di Sarah era bruciata.

Anche se, persino in quel caso, esistevano pur sempre gli alberghi.

Stava cominciando a fare a Phil dei gesti per suggerirgli “Lascia che le parli io”, quando lui si schiarì la voce e disse qualcosa che le trasformò in ghiaccio secco il fiato nel petto.

«Becca», affermò Phil, in tono lento e troppo calmo, «il fatto che tua madre aspetti un altro figlio non significa assolutamente che non vi voglia più bene.»

La data del volo delle ragazze poteva essere cambiata e il primo che riuscirono a prenotare rientrava a Birmingham alle dieci del mattino seguente. Sarah

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insistette per andare con loro, «per un summit di famiglia», così Phil si prese la giornata libera per gestire il tutto.

«Non sei costretta a addentrarti in tutto questo», aveva detto dopo che Anna gli aveva chiesto cosa poteva fare. «A meno che tu lo desideri.»

A quel punto c'era stato un momento di imbarazzo, quando lei non aveva davvero saputo cosa dire né capito se il marito la voleva accanto o no. Da una parte sentiva che probabilmente avrebbe dovuto essere presente per ribadire il suo status di autentico membro della famiglia, dall'altro non era sicura di poter sopportare il dolore di vedere la reazione delle ragazze alla gravidanza della madre, sapendo che qualsiasi cosa stessero provando adesso sarebbe semplicemente raddoppiata quando avessero saputo la sua novità. Triplicata, addirittura.

Alla fine fu l'auto a decidere per lei. Non c'era posto per le tre sorelle più Sarah e Anna. Non era certo un viaggio a cui desiderasse disperatamente partecipare, non prima che le ragazze esaurissero il primo giro di isterismo: il ricordo di Chloe «delusa» in uno spazio angusto dopo il viaggio di ritorno dalle audizioni per Britain's Got Talent era ancora fresco nella sua mente.

Quando Phil si diresse verso l'aeroporto, senza essere riuscito a mangiare altro che un pezzetto di pane tostato dopo la loro notte insonne di tortuosa conversazione protrattasi stancamente nel buio, Anna andò a casa di Michelle con Pongo per una camminata mattutina e una razione di buonsenso.

«Non riesco a credere che tu non ti sia pigiata su quell'auto», affermò Michelle mentre portavano a spasso i cani nel parco, nella luce mattutina giallo limone. «Mi piacerebbe essere una mosca sul muro, in casi come questo. Chloe che entra in pieno melodramma? Scommetto che Sarah rimpiange di non averle informate via Skype.»

Anna staccò Pongo dalla weimeraner per cui si era preso una cotta. «Chloe si è già esibita nel suo pezzo “Annie l'Orfanella” per telefono. Nessuno le vorrà bene. Lei non verrà mai al primo posto per nessuno. Nessuno capisce. Ormai sarà probabilmente passata alla furia cieca. Ti assicuro che Phil rimpiange amaramente i giorni: “Voglio i capelli azzurri e i denti sbiancati”.»

«Cosa ha promesso di comprarle per compensare questo? Un pony?»

«Ah! Il senso di colpa l'ha trasformato in un intero catalogo Argos ambulante. Anche se presumo che questa sia solo una reazione ritardata alla partenza di

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Sarah, più che al bebè», aggiunse Anna in tono cupo. «Sono state così brave finora. Niente accessi d'ira sul doversi trasferire da noi, sul dover affrontare la lontananza della madre... avrei dovuto immaginare che a un certo punto sarebbe finita. Sapevo che era tutto troppo facile.»

Le bastava pensare alla reazione delle ragazze per trasalire. Avrebbero reagito esattamente nello stesso modo, quando le avesse informate della sua novità? Il fatto che Sarah fosse la loro vera madre rappresentava un'aggravante o un'attenuante? Il problema non sarebbe stata lei, però, sarebbe stato Phil.

«Hai sgobbato come un dannato mulo!» Michelle le rivolse un'occhiata risoluta. «È ragionevole che si arrabbino per la partenza della madre, ma non che lo facciano per qualcosa che non è affar loro. Chloe ha sedici anni, non sei. Pensavano davvero che Sarah non avrebbe voluto un altro figlio?»

«Sono ragazzine, non amano nemmeno pensare che i loro genitori facciano sesso.» L'emicrania di Anna pulsò. Aveva progettato di fare un altro test quella mattina, ma non aveva avuto il coraggio di fare pipì sullo stick, per paura di una risposta negativa. Per paura che, in qualsiasi momento dato, nel cosmo ci fosse posto per la gravidanza di soltanto una delle mogli di Phil. Il che era ridicolo. «Neanch'io me l'aspettavo. Sarah è andata là solo per far avanzare il più possibile la sua carriera, recuperando il tempo perduto a livello lavorativo per avere Chloe e Becca, o almeno così mi ha detto quando ha portato a casa nostra tutte le loro cose.»

«Quanti anni ha?»

«Un anno meno di Phil. A quanto pare», disse Anna, mimando le virgolette nell'aria come meglio poteva mentre stringeva il guinzaglio di Pongo, «“non era programmato”, ma lei e Jeff sono al settimo cielo. Credo che Sarah speri in un maschietto.»

«Buon per lei.» Michelle tirò via Tavish dal cestino dell'immondizia che stava annusando. Anna notò che il suo pelo nero sembrava molto più ordinato del solito, quasi come se Michelle lo avesse portato da un toelettatore per la tosatura. «E cosa mi dici di Phil? Come ha preso la cosa? Si è già rifugiato nel suo capanno immaginario? Oppure lo hai costretto a tenere fede alla sua promessa?»

«Cosa vuoi dire?» Anna sentì le guance scaldarsi sotto lo sguardo diretto dell'amica.

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«Be', potrebbe avere un maschietto tutto suo, vero? Se si desse una mossa e la piantasse di anteporre chiunque alla propria moglie.»

«Non saprei», rispose sinceramente lei. «Alterna entusiasmo e indifferenza riguardo all'intera faccenda. Io, ehm...» Si chiese quanto Michelle fosse in grado di capire dalla sua espressione: era sempre riuscita a leggerle dentro, persino quando lei pensava di avere una perfetta faccia da pokerista.

«Sei incinta?» chiese Michelle, e Anna guardò di lato, timidamente.

«Forse. Non lo so. Lo spero. Non dire niente. Sono soltanto i primi giorni», la avvisò. «I primissimi giorni. È ancora troppo presto.»

«Congratulazioni!» Michelle esitò per una frazione di secondo, poi infilò un braccio sotto il suo, stringendole la vita in un abbraccio laterale, il massimo che potessero fare con un guinzaglio in mano. «Un tempismo davvero magistrale. Loro non possono lamentarsi, se spuntano fratellastri ovunque.»

«Be', è un modo come un altro di vedere le cose.»

Michelle guidò Tavish – e Anna – verso il chiosco del caffè del parco, già aperto e intento a servire altre persone a passeggio con i propri cani.

«Chloe e Becca staranno benissimo, ma onestamente sono più preoccupata per Lily», aggiunse Anna. «Si è abituata solo da poco alla lontananza di Sarah. Può essere molto ciarliera, poi si zittisce di colpo e tu non hai la minima idea di cosa le stia succedendo nella testa finché non riprende a parlare, e sempre di un argomento totalmente diverso. Ti ho raccontato che adesso mi lascia leggerle qualcosa, la sera? Credo che questo ci stia aiutando a stabilire un legame. Non voglio che pensi che la si stia escludendo di nuovo.»

«Anna», disse Michelle, fermandosi per tirare fuori il portafoglio. «Perché hai l'aria così colpevole? Nulla di tutto questo è colpa tua.»

«Sì, invece. È questa l'impressione che ho. Sarah e Jeff sembrano davvero eccitati per il bambino e io non so se Phil...» Si interruppe, poi si costrinse a dirlo. «Non so se Phil desideri davvero degli altri figli. Sotto sotto.»

Le parole le erano uscite di bocca e Anna ne rimase scioccata. Aveva parlato sul serio? Credeva veramente che Phil potesse chiederle di rinunciare al bambino? Impossibile. Ma lei come faceva a saperlo? Come potevi mai prevedere cosa avrebbe fatto qualcuno, quando tutte le regole venivano spazzate via di colpo in quel modo e tu eri l'unica che continuava a seguirle?

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«Sul serio?» Michelle sembrava sbalordita. «Mai, intendi?»

«Non lo so. Più rimanda e meno avrà voglia di affrontare tutto quello sconvolgimento.»

«E se si trattasse di scegliere fra i tuoi figli e Phil? Phil e le figlie che hai già?» Si interruppe. «E il bambino che stai per avere?»

Anna tentò vanamente di decifrare l'espressione di Michelle: sfoggiava una strana specie di neutralità da lei già notata in precedenza quando si toccava l'argomento figli, come se fosse tutto un po' astratto.

«Non lo so», confessò. «In realtà, probabilmente non dovrei bere caffè.»

Senza fiatare, Michelle fece un'inversione a u dando le spalle al chiosco davanti a cui si era formata una breve coda e guidò Pongo e Tavish verso l'area riservata ai cani, dove una coppia di terrier stava già saltellando gioiosamente nella sabbia.

«Hai mai parlato con le ragazze dell'eventualità di avere delle sorelle? Sai come reagirebbero al fatto che tu e Phil abbiate un figlio?»

«In un certo senso.» C'era stata una conversazione con Becca, quando avevano discusso di Piccole donne nella libreria, e lei aveva commentato scherzosamente che avevano una sorella in meno della famiglia March... Anna si rimproverò. No, lei aveva pensato che sarebbe stato il momento adatto per cominciare a tastare il terreno e scoprire cosa avrebbe provato Becca riguardo a un fratellino o una sorellina, ma non ne aveva fatto parola. Aveva solo pensato di farlo, e nella sua testa quella era diventata una conversazione.

Michelle la guardò da sopra le lenti scure, i suoi occhi acuti che si socchiudevano nel bagliore del sole. «Non si può mai dire, magari a Lily piacerebbe avere un fratellino. Potrebbe comandarlo a bacchetta.»

«Dubito che sarà così semplice», commentò Anna. «È Phil il problema. Vuole solo una vita tranquilla. E se decide che dobbiamo aspettare? Oppure decide che non vuole altri figli? Non posso semplicemente abbandonare le ragazze quando già tutti gli altri le stanno deludendo, ma...»

«Ma cosa? Anna, levati il peso dallo stomaco. Smettila di tenerti tutto dentro!»

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«Ho trentun anni.» Lei non sapeva come continuare e guardò verso le aiuole piene di cespugli di rose, le labbra serrate con forza contro la marea di panico e amarezza che minacciava di tracimare.

«Hai trentun anni», la imbecco Michelle.

«Voglio questo bambino», affermò Anna. «Quante chance si hanno a disposizione? Anche se ricominciassi da capo adesso, potrebbe volermici un anno per trovare qualcun altro. Un anno per fidarmi abbastanza di lui da potere rischiare di rimanere incinta. Un altro anno per rimanere incinta, sempre ammesso di riuscirvi. E amo Phil. Desidero dei figli suoi, non di qualcun altro.» Alzò lo sguardo verso l'amica e gli occhi le si riempirono di lacrime per l'ingiustizia della situazione. «Non voglio tradire nessuno, ma... e io? Non si può chiedere a qualcuno di scegliere fra le tre figlie che ha accettato di accogliere e il suo bambino non ancora nato.»

«Phil non ti chiederebbe certo di fare una scelta del genere», sottolineò Michelle, orripilata. «Anna... non si arriverà a questo.»

«Non voglio tradirle», ripeté lei, ma sembrava che stesse soprattutto cercando di autoconvincersi. Pongo tirò il guinzaglio, non riuscendo a capire perché si fossero fermati quando erano a portata d'olfatto dalla zona riservata ai cani. Anna chiuse gli occhi e cercò di non piangere, e sentì un dolore sordo alla bocca dello stomaco. «Pensavo che questo sarebbe stato il momento più bello della mia vita, invece si sta trasformando nel più brutto.»

«Anna.» La voce di Michelle suonò gentile ma determinata. «Non sono figlie tue. Le ami, lo so, ma non sono tue, alla fin fine. Qualcun altro ha la responsabilità di amarle.»

Anna non aprì gli occhi ma sentì la mano dell'amica sul braccio. «Sono mie», insistette. «Ho sposato Phil, sono mie.»

Ma non lo erano. Non quando era davvero importante. Non stavano correndo da lei perché Sarah era incinta. Non stavano piangendo al telefono con lei, bisognose di rassicurazioni.

Michelle le cinse delicatamente la spalla con un braccio, stringendola a sé. Anna la sentì toglierle di mano il guinzaglio di Pongo e si concesse di piegarsi in avanti, gli occhi bagnati premuti sulla spalla dell'amica. Udì i cani abbaiare tutti contenti mentre saltellavano liberi sulla sabbia, e captò l'aroma di caffè appena

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fatto e dei cespugli di lillà e del familiare profumo di Michelle, e desiderò di poter rimanere lì finché tutto non si fosse risolto.

Solo che non poteva farlo. Non consisteva in quello, l'essere un genitore, persino quando non lo eri davvero. Toccava a te risolvere i problemi.

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Capitolo 19

«Lo Hobbit è un libro magnifico da leggere prima di dormire. I mondi misteriosi, magici, si trasmettono dalla pagina alla tua immaginazione mentre scivoli nel sonno. I regni e le regole della ricerca sembrano avere un senso, sul limitare di un sogno.»

Rory Stirling

Il cambiamento dentro casa risultò evidente nell'istante esatto in cui Anna inserì la chiave nella porta ed entrò, quella sera. Non si trattava solo del vociare in cucina, era una tensione nell'atmosfera, la fragranza del profumo di qualcun altro che tutt'a un tratto le fecero sembrare estraneo il posto.

Pongo rimase indietro, annusando l'aria come se sapesse che stava per succedere qualcosa, poi le restò incollato alle gambe invece di correre a cercare le ragazze come faceva di solito. Lei si fermò davanti allo specchio dell'ingresso a esaminare il suo riflesso, lisciandosi sulla testa le ciocche bionde ribelli in modo da sembrare solo scarmigliata dal vento invece che totalmente arruffata.

“Non sto posponendo l'entrata nella mia stessa casa, sto solo... preparandomi”, si disse mentre le sue orecchie si sforzavano di captare cosa stava accadendo in cucina. Era rimasta sulle spine per tutto il giorno, alla libreria, ma non aveva sentito squillare il telefonino né visto comparire Phil o le ragazze. Immaginava che avessero parecchio di cui parlare.

Esitò, poi prese un lucidalabbra chiaro dalla borsa e lo applicò in fretta. “Ma niente di più”, aggiunse mentalmente. “Non ha senso apparire più truccata quando torno a casa di quando sono uscita. Phil si chiederà semplicemente cosa ho combinato.”

Sarah era sempre impeccabile e Anna, con il suo stile svolazzante, creativo, non aveva mai visto l'utilità di competere con i tailleur eleganti e le borse status-symbol della donna. Si chiese se Sarah cominciasse a sembrare incinta, se sfoggiasse la tipica radiosità da gravidanza di cui tutti cianciavano o se invece stesse vomitando in ogni dove.

“Smettila.”

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Abbassò lo sguardo per scoprire Pongo appostato accanto ai suoi piedi e gli diede una spintarella. «Avanti», disse. «Lily è tornata! Vai a salutarla!»

Ma lui si accucciò a terra, la coda tra le gambe e un'espressione guardinga negli occhi brillanti. Riusciva a sentire l'odore di Sarah? Era confuso dal non sapere dove sarebbe andato?

Anna si fece forza, tentando di arginare il sommovimento nel suo stomaco. “Se hanno sentito la porta si chiederanno perché non li hai ancora raggiunti. Non devi mostrare quello che provi. Limitati a... mostrare la faccia.”

Inspirò a fondo, si ravviò i capelli e imboccò il corridoio che portava in cucina. Persino la concentrazione di McQueen era inquietante. Normalmente le ragazze si disperdevano in giro per casa per allontanarsi l'una dall'altra – Chloe nello «studio di danza» dello scantinato, Becca in camera sua, Lily a guardare la televisione con accanto Pongo – ma dal rumore si sarebbe detto che al momento si trovassero tutte intorno al tavolo della cucina a gridare mentre Phil cercava vanamente di fare da arbitro.

Anna lo sentì tentare di fare breccia nel muro di voci femminili con la tattica «Avanti, su... cercate di ragionare...» che in genere riusciva solo ad alimentare il fuoco melodrammatico di Chloe. Non stava funzionando nemmeno quella volta. Lui suonava disperato e leggermente patetico.

Udì anche Sarah, che cercava di assumere il controllo della situazione come fosse una causa per licenziamento ingiustificato. «Potranno parlare tutti, a turno», stava dicendo, sovrastando Phil.

Chloe, intanto, stava sfruttando tutti gli insegnamenti ricevuti sull'impostazione della voce per sovrastare quella di Becca, che stava gridando per la prima volta da quando Anna la conosceva. «Non ci stai ascoltando... non ti importa di noi!» continuavano a ripetere le due sorelle, a un tratto più sonoramente quando la porta si socchiuse e Lily sgusciò fuori come un'anguilla, con il viso ridotto a una maschera di turbamento.

Anna le tese le braccia e la bambina corse da lei, piangendo. Pongo arrivò al trotto per leccare il poco di faccia che riusciva a raggiungere adesso che Lily la teneva premuta sul maglione di Anna. Un po' guidandola e un po' trasportandola, lei allontanò la piccola dalla porta della cucina, preferendo che non sentisse alcune delle cose che Chloe stava strillando, e raggiunse la scala, dove la tenne fra

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le braccia e le carezzò i capelli mentre Lily tremava per i singhiozzi e lo sfinimento da jet-lag.

Posò le labbra sopra i suoi capelli morbidi come il pelo di un coniglietto e le parlò piano con dolcezza, facendola dondolare avanti e indietro e desiderando sapere qual era la cosa giusta da dire. Mentre Lily singhiozzava, lei fissò senza vederle le foto delle tre sorelle da piccole appese alla parete accanto alla scala, cominciando da Becca, già seria e con una vestina da battesimo bianca, poi Chloe che sorrideva radiosamente come una star bambina con una fascia per capelli. Sarah ne aveva un set uguale a casa sua; le copie facevano parte dell'accordo di divorzio.

Anna compariva per la prima volta di fianco al penultimo gradino, nella foto natalizia di quattro anni prima. Le era stato concesso lo speciale privilegio di tenere in braccio Pongo con il suo berretto natalizio rosso. Appendere quella fotografia aveva rappresentato una pietra miliare, ma ora lei si sentiva inadeguata, come se l'avessero sorpresa a frequentare l'università senza nessuna qualifica precedente, il che, per una triste coincidenza, era uno dei suoi incubi ricorrenti.

Mentre il pianto di Lily si quietava sciogliendosi in singhiozzi, si spremette le meningi per cercare la cosa giusta da dire e non trovò nulla. Le era stato inculcato che non si deve mentire ai bambini, fare loro promesse che non puoi mantenere, soprattutto quando nemmeno conosci la situazione, ma non sopportava di vedere la piccola così turbata.

Si chiese quanto avrebbero impiegato Phil e Sarah ad accorgersi che era scivolata fuori dalla cucina.

La bambina trasse un paio di lunghi sospiri tremuli e alzò lo sguardo verso Anna, aspettando che dicesse qualcosa, con i grandi occhi velati di lacrime.

In un attimo concitato, disperatamente ansiosa di rassicurarla e scacciare la sofferenza, Anna si sentì dire quello che aveva nel cuore invece di quello che la sua mente stava preparando. «Qualsiasi cosa succeda, andrà tutto bene. Ti vogliamo tutti bene, Lily. Si sistemerà tutto.»

«E se la mamma rimane in America? Vuole una famiglia là invece che qui? Adesso verremo lasciate qui per sempre?»

Lei le infilò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, tentando di non sentirsi ferita dall'implicazione che le ragazze stessero aspettando la fine del soggiorno in casa sua come cani in quarantena. «Non so quali programmi abbia, ma sono

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sicura che non farà niente senza averne prima discusso a fondo con te, Becca e Chloe.»

«E se non piacciamo al nuovo bambino?»

«Lily?» La porta della cucina si spalancò e Anna vide Sarah ferma sulla soglia, illuminata da dietro dalle forti luci. I faretti erano stati accesi tutti insieme, invece di usare le soffuse combinazioni sapientemente mischiate che lei e Michelle avevano progettato. Phil non riusciva mai a regolarli nel modo giusto.

Sarah portava un costoso abito di jersey che rivelava solo un vaghissimo accenno di pancia e sembrava stanca, gli zigomi più appuntiti del solito nel suo viso spigoloso. I capelli non sfoggiavano la consueta elasticità e il volto era arrossato e tirato dall'esasperazione; prima di vedere Anna sulle scale si portò una mano al viso e si premette con forza gli occhi.

Anna sentì Phil dire: «Sarah, vado io a...» ma lei replicò brusca: «No, lascia fare a me», girando la testa, e nel voltarsi notò Anna che teneva fra le braccia la sua bambina e il viso le diventò totalmente inespressivo.

Anna immaginò che non facesse una buona impressione – lei che consolava Lily, probabilmente dicendo cose di ogni genere, senza la supervisione di Sarah –, ma una volta tanto non le importava di come sembrassero le cose. Si sentiva ferita per conto di Lily. Che genere di madre era troppo impegnata a urlare per accorgersi che la sua bimba era corsa via in lacrime?

Sarah non reagì mettendosi sulla difensiva come avrebbe fatto lei al posto suo. Lasciò invece trapelare la sua spossatezza, lontano dalla vista di Phil, e le rivolse un sorriso stanco.

«Ciao, Anna», disse, più rilassata in casa di Anna di quanto fosse quest'ultima. «Non ti ho sentito entrare.»

«Là dentro c'è un bel chiasso», replicò lei con tutta la pacatezza possibile. «Va tutto bene?»

«Benissimo.» L'espressione di Sarah si addolcì mentre tendeva le braccia a Lily. «Vieni, tesoro, dobbiamo fare una bella chiacchierata», disse. «Da sole. Soltanto tu e io.»

Lily non si mosse. Non si aggrappò più energicamente ad Anna ma nemmeno si alzò.

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Anna abbassò lo sguardo sulla sua testolina. Il naso affilato di Lily era puntato verso la balaustrata mentre la piccola fissava con ferocia la scala. Lei sapeva che avrebbe dovuto levarsi di torno, ma qualcosa la rendeva restia a lasciare Lily, sapendo che il suo mondo di peluche organizzato con cura stava per essere messo nuovamente sottosopra.

«Vieni, Lilybella», aggiunse con disinvoltura Sarah, con il tono del genitore esperto. «Cosa mi dici di Mrs Piggle? Perché non andiamo a dare la mia supernotizia a Piggy-Jo? Vediamo cosa risponde?»

Fu sufficiente. Lily si dimenò sfilandosi dall'abbraccio di Anna e corse lungo il corridoio fino a Sarah, avvolgendosi intorno a lei come una stella marina. «Ti voglio bene mammina, ti voglio bene mammina, ti voglio bene mammina», farfugliò, e Sarah si chinò in avanti per baciarla sulla testa, riuscendo a stento a celare le lacrime.

«Sarai sempre la mia bambina, Lily», continuò a ripetere, ancora e ancora, mentre si fondevano in un'unica sagoma madre-e-figlia di amore complesso, istintivo, incondizionato.

Anna si sentì un'intrusa. Si alzò dal gradino e percorse con passo malfermo il corridoio, sentendosi bersagliata da troppe emozioni diverse. Quella era l'unica cosa che bramasse: essere così potentemente necessaria per un'unica persona, qualcuno per cui lei rappresentava il mondo intero, per cui avrebbe smosso il mondo intero, pietra dopo pietra. Prese Pongo per il collare e lo portò in cucina, dove Chloe, Becca e Phil stavano fissando il vuoto in silenzio, ognuno in una direzione diversa.

Il mascara di Chloe le era colato lungo le guance ma Becca aveva un'espressione distaccata negli occhi, come se stesse calcolando gli effetti, elaborando il tutto nella sua mente da avvocato in erba. Phil alzò gli occhi sentendola entrare, pronto per un altro round, ma quando vide che era lei il suo sguardo si rilassò, palesando un sollievo tormentato.

“Si aspetta che sistemi io le cose”, capì di colpo Anna. “È felice che sia arrivata perché si aspetta che me ne occupi io. Non gli è nemmeno venuto in mente come questo potrebbe farmi sentire, dove lascia me, e noi... e il nostro bambino.”

Per un attimo trattenne il fiato, sospendendo nella testa il suo silenzioso grido di dolore.

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Poi lo mandò giù, deliberatamente, e si costrinse a voltarsi verso i visi esausti, abbattuti, intorno al tavolo.

«Metto la teiera sul fuoco?» chiese.

Molto più tardi, quella sera, Anna rimase sdraiata con la testa sul petto di Phil, ascoltandolo respirare. Lui stava fingendo di essere sul punto di addormentarsi, ma lei sapeva che non era vero perché il marito non stava iniziando a russare.

«Quanto si fermerà?» sussurrò.

Sarah stava dormendo nel letto matrimoniale di Becca, temporaneamente abbandonato da quest'ultima, che adesso divideva quello a due piazze di Chloe con il filo di lucine bianche tutto intorno al letto. Pongo era insieme a Lily e ai suoi trecento peluche, contravvenendo a tutte le regole ufficiali della casa. Lily aveva insistito perché Sarah le leggesse la storia della buonanotte, con Phil come spettatore. Anna non era richiesta.

«Deve tornare in America domani. Un imprevisto al lavoro.»

«Peccato», mormorò di rimando lei. «Avrebbe potuto fermarsi per il weekend. Portare Chloe a qualche audizione. Mettere alla prova la conoscenza del francese di Becca. Fare un po' di bucato.»

Phil si girò su un fianco per guardarla. Anna si rannicchiò contro il suo corpo tiepido per non dover incrociare il suo sguardo, perché non era ancora sicura di come si atteggiasse il suo viso quando lei non si concentrava sul tentativo di fargli esprimere comprensione e tranquillità.

Sapeva che erano i sentimenti che ci si aspettava proiettasse. Quelli che provava davvero erano ben diversi. Dopo una breve e dolorosa chiacchierata con Sarah su acido folico e congedo per maternità, si era scusata per andare a fare una doccia anticipata e aveva affrontato shock, rabbia, frustrazione e infelicità con la massima velocità possibile durante i venti minuti in cui poteva restare chiusa nel bagno. Poi era scesa al piano di sotto e aveva preparato la cena per tutti perché questo le consentiva di rimanere lontana dal salotto mentre Chloe e Becca stroncavano espertamente sul nascere i tentativi di Sarah di avviare un'amichevole conversazione sulla loro tabella di marcia per il ripasso. Lily poteva anche avere perdonato la madre, ma loro no. Non ancora.

Erano riusciti ad arrivare in fondo alla cena senza altri litigi solo perché Anna aveva posto ogni singola domanda a cui riuscisse a pensare sulla vita americana,

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gli uffici, i cosmetici da drugstore... qualunque cosa pur di tenere viva la conversazione. Qualsiasi cosa era preferibile al silenzio furibondo delle due ragazze. Dopo avere spinto per un po' in giro sul piatto la torta di mele di Anna, erano andate entrambe «a ripassare».

«Non riesco proprio a capire come gli adulti possano definire egoisti gli adolescenti quando sono loro i primi a comportarsi come ragazzini egoisti», aveva affermato solennemente Chloe prima di precipitarsi in camera sua, risentita.

Becca l'aveva seguita in silenzio, stringendosi al petto una manciata di libri.

Anna aveva sollevato un paio di volte il telefono per vedere se si stavano lagnando con le amiche ma, visto che disponevano tutte e due di cellulare e portatile, non avevano alcun motivo di rendere passibile di ispezione il proprio scontento, contrariamente a tutte le volte in cui Chloe le aveva permesso di sentire «accidentalmente» conversazioni con Sarah su come lei si dimostrasse ingiusta riguardo all'ora in cui andare a letto.

Quella era una rabbia seria. Una rabbia privata, familiare, «carne della mia carne e sangue del mio sangue». Faceva sentire Anna ancora più marginale di prima. Le ragazze volevano talmente bene a Sarah da potersi permettere di essere davvero furibonde con lei; erano arrabbiate proprio perché la amavano così tanto. Ecco perché lei sfoggiava una calma così irritante, al riguardo: era la loro madre e niente avrebbe potuto cambiare la cosa.

«Anna?» Phil la fece girare per costringerla a guardarlo in faccia. Era la prima volta in cui rimanevano soli da quando il maelstrom di estrogeni aveva raso al suolo la casa. “È stato solo stamattina che è andato all'aeroporto?” si chiese lei. Sembravano passati giorni, da allora.

«Cosa?»

«Almeno è venuta e abbiamo potuto fare una chiacchierata di famiglia, faccia a faccia», sussurrò lui.

«Io faccio parte di questa famiglia, Phil.» Anna si sforzò di tenere bassa la voce. «Questo influirà anche su di me. Influirà su di noi.»

Il marito tentò di stringerla con forza a sé. Lei resistette, volendo punire più sé stessa di lui.

«Credi che reagiranno bene alla cosa? All'avere un fratellastro o una sorellastra?»

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Phil non rispose. Il suo viso risultava più eloquente di quanto potesse essere lui, e Anna si spaventò vedendolo sembrare di colpo così poco familiare. Rimasero stesi lì a guardarsi, troppo impauriti per rendere reali i propri pensieri esprimendoli ad alta voce.

Si sentì assalire dalla disperazione. Phil non aveva detto niente ma lei percepiva che era cambiato, e maledì la propria ingenuità per avere creduto che fosse tutto così facile. Fino a quel momento era stata semplicemente fortunata.

La radio trasmetteva in sottofondo: venti minuti di rumore che sovrastavano i suoni della casa e le permettevano di addormentarsi con il russare di Phil, ogni sera. Non ascoltava mai davvero, ma stavolta c'era un programma con le telefonate degli ascoltatori su «chi viola i patti» nelle relazioni, e una donna di Droitwich stava inveendo contro gli uomini che rifiutano di impegnarsi e ingannano le compagne che si scoprono a non avere più chance.

Tentò di non ascoltare ma non vi riuscì. La radio si trovava sul lato del letto di Phil, quindi per spegnerla sarebbe stata costretta ad allungarsi sopra di lui, attirando così la sua attenzione su di essa. Phil non ascoltava mai le parole delle canzoni o i rumori di fondo, mentre lei non riusciva a impedire al cervello di catturare parole in una rete, come fossero farfalle.

“Non voglio diventare una di quelle donne folli, amareggiate”, pensò. “Quanto tempo posso concedere alle ragazze per superare la cosa? E anche se loro lo fanno, Phil ci riuscirà?”

Chiuse gli occhi, tentando di reprimere gli strani impulsi bramosi che la rendevano una matrigna terribile, egoista, ma comunque ancora una donna normale che desiderava mettere al mondo un bambino con l'uomo che amava. Per la prima volta in vita sua, il suo magazzino strapieno di parole rifiutava di aiutarla, lasciandole i nudi pensieri esposti e sgradevoli nella testa.

“Desidero un figlio più di quanto desidero Phil?”

«Come ti senti?» sussurrò lui. «Sai...» Inarcò ripetutamente le sopracciglia.

«Benissimo.» Lei aveva sperato di provare qualcosa di più, a quel punto. In precedenza aveva avvertito un lieve senso di nausea e dei leggeri crampi, tutte cose citate come forti indicatori nella sua lista di sintomi su Internet.

«Hai fatto il test vero e proprio? Quello che dice “incinta” o “non incinta”? In lettere?»

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«È nel bagno. Non... Non mi sembrava il momento appropriato.»

«Vallo a fare adesso», sussurrò Phil. «Sei in ritardo di cinque giorni, abbastanza perché il risultato sia positivo, ormai.»

«E poi?»

«E poi...» Lui si interruppe. «Avremo delle certezze.»

Si guardarono per un lungo istante, nell'oscurità.

«Sono soltanto un maschio», affermò Phil. «Ho bisogno di fatti.»

«Okay.» Anna moriva dalla voglia di fare pipì, altro indizio di una gravidanza, lo sapeva, benché probabilmente favorito dalle infinite tazze di tè alla menta bevute quella sera. Scivolò giù dal letto e si infilò la vestaglia, il cuore che cominciava già a martellarle nel petto per l'eccitazione.

“Andrà tutto bene”, si disse, recuperando il test che aveva nascosto nell'armadietto. “È uno di quegli esempi di serendipità: il tempismo è talmente orrendo da essere perfetto. Michelle ha ragione. Metti immediatamente fine alla situazione drammatica per le ragazze.”

Non accese la luce perché il chiarore lunare immergeva il bagno in un bagliore romantico, ma quando strappò l'involucro del test, si abbassò gli slip e si accinse a fare pipì si accorse che non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.

Il suo ciclo era iniziato.

Lì in casa continuava a esserci solo una futura madre, alla fin fine.

Si lasciò cadere sul bordo della vasca e pianse.

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Capitolo 20

«I bambini della ferrovia è la storia di tre bambini dell'epoca edoardiana che crescono in fretta. Se non desideri un grembiule rosso da sventolare nei momenti di crisi o non vuoi versare una lacrimuccia quando papà torna a casa, devi avere il cuore di pietra.»

Anna McQueen

L'ossessione di Michelle per la programmazione e i conti settimanali le consentiva normalmente di tenere sotto controllo l'anno, ma quello attuale sembrava scivolare via di gran lunga troppo in fretta.

Forse dipendeva dal dover lavorare il doppio per mantenere in ordine redditività, contabilità, merce e personale di due negozi, o forse dal sentirsi più legata alla routine dalla minuta ma autoritaria presenza di Tavish, che tollerava soltanto una mezz'oretta di lavoretti in giro per il negozio dopo la chiusura prima di cominciare a darle colpetti sulle gambe per andare a casa. Ogni giorno sembrava passare a velocità doppia del normale, portandola rapidamente verso la fine di ogni settimana prima che lei avesse avuto il tempo di spuntare metà delle voci sulla sua sempre più lunga lista di cose da fare. Non puliva il forno da settimane e gli scatoloni portati a casa dopo il pranzo di compleanno si trovavano nella sua camera degli ospiti, ancora chiusi.

Se la vita di Anna era incentrata sulla tabella oraria degli esami delle ragazze, quella di Michelle ruotava intorno a tempi di immissione sul mercato, ordini per il reintegro scorte e dichiarazioni fiscali, altrettanto esigenti. Ormai si era a maggio e lei cominciava a sentirsi in ansia riguardo ad alcuni articoli che aveva progettato di introdurre nella libreria come parte della sua discreta e graduale trasformazione. Si era imbattuta in una sarta della zona che era pronta a garantirle una fornitura in esclusiva di morbidissimi pigiami di cotone ispirati ai mutandoni di pizzo edoardiani, se avesse fatto un'ordinazione per la consegna autunnale, versando una congrua caparra in contanti.

Michelle sapeva che era una cosa positiva, ma significava dover trovare altri soldi, il che a sua volta significava fare giochi di destrezza con le cifre, ed esaminare queste ultime la domenica sera non rappresentava più la consolazione di un tempo. La libreria continuava a cavarsela meglio del previsto e lo Home

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Sweet Home aveva avuto un'ottima primavera, ma il suo istinto commerciale mordeva il freno per ogni settimana trascorsa con un profitto irrisorio quando avrebbe potuto essercene uno nettamente maggiore.

Mordicchiò la penna e fissò il suo piano annuale, aperto sul tavolo di cucina accanto alla quarta tazza di caffè della serata. Si era quasi a metà anno e ancora lei non si era nemmeno avvicinata al volume d'affari a cui mirava.

Naturalmente, sottolineò una vocina nella sua testa, la risposta ovvia sarebbe stata affittare l'appartamento soprastante, oltre al negozio, e usarli entrambi. Libri al piano di sotto, letti al piano di sopra. Lasciò penzolare la penna dalle dita e si chiese oziosamente quanto sarebbe stato facile convincere il signor Quentin a sfrattare Rory.

Si intimò di non essere così cattiva. Rory cominciava a piacerle, nonostante i suoi orrendi calzini. Quando Owen si fosse trasferito – e ora che aveva finito il sito web avrebbe dovuto pensare al suo ritorno a Londra, per poi trovare un vero lavoro – lei avrebbe magari potuto offrire a Rory l'appartamento sopra lo Home Sweet Home, levandoselo quindi di torno? Non si poteva dire che il fratello avesse apportato modifiche alla casa; non avrebbe nemmeno avuto bisogno di svuotare quegli scatoloni da scapolo.

Ma Owen non sembrava avere alcuna fretta di trasferirsi altrove. Michelle aveva tenuto d'occhio come un falco lui e Becca, e sapeva che anche Anna li stava osservando, e stava osservando lei mentre osservava loro. La cosa era... imbarazzante, a volte. Pur avendo assicurato ad Anna che Owen era degno di fiducia (cos'altro poteva dire?) non aveva il dono dell'ubiquità, e il comportamento del fratello non stava seguendo gli schemi consueti. Talvolta lei si interrogava sulla possibilità che fosse davvero innamorato.

In ogni caso, ammise, ormai conosceva Rory abbastanza per sapere che non avrebbe certo traslocato per fare posto a quelle che continuava a definire, benché più scherzosamente, chincaglierie. Senza che Michelle se ne rendesse conto, lui aveva riempito le sacche di vuoto lasciate da Anna quando aveva dovuto dedicare il proprio tempo alle ragazze. La domenica pomeriggio. Una saltuaria passeggiata con il cane, il sabato. Nessuno dei due era molto loquace, ma badare a Tavish aveva portato l'uno dentro e fuori dalla vita dell'altro come una marea, e ogni visita spingeva fino a riva un dettaglio personale qua e uno là, quasi per caso: Esther aveva insistito per leggergli l'oroscopo, cosa che lui, come Michelle, odiava. Non aveva scelto lui il nome Zachary. A entrambi piaceva il porridge preparato con l'acqua.

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Michelle sentì bussare alla porta e capì che si trattava di Rory: era sempre puntuale, quando si trattava di Tavish. Spinse indietro la sedia e chiuse il computer, scompigliandosi i capelli perché dessero l'impressione che lei fosse appena tornata da un luogo più interessante.

«Ciao!» disse lui quando gli aprì la porta. Tavish gli stava accanto, scodinzolando. Rory aveva i giornali della domenica sotto il braccio, benché fossero le sei del pomeriggio.

Lei li fece entrare e Tavish trotterellò lungo il corridoio, annusando l'aria come se disapprovasse le pulizie di fino a cui si era dedicata per passare il pomeriggio. «Una tazza di tè?»

«Non stai per correre fuori?»

«Non devi andare da qualche parte?»

Rory finse di riflettere, poi disse: «No, non credo».

«Allora metto il bollitore sul fuoco.»

Michelle era in grado di indicare esattamente la prima volta in cui lui era arrivato con i giornali della domenica – era stato quando le aveva chiesto se poteva leggerli lì a casa sua, visto che non poteva tornare nel suo appartamento perché stavano «rifacendo il manto stradale della via principale» e lei non era riuscita a trovare un modo educato per rifiutare, ma non ricordava quando la cosa fosse diventata parte della sua routine del weekend. Nelle ultime settimane lui li aveva portati con sé insieme a Tavish, ed erano rimasti seduti a leggere in silenzio per un'ora prima che, alle sette meno cinque in punto, tornasse a casa. Rory leggeva la cronaca e le sezioni di recensioni e borbottava contro gli articoli mentre lei scorreva la sezione sugli immobili e strappava pagine dei supplementi per le sue moodboards.

La prima settimana Michelle aveva trovato alquanto invadente il modo in cui Rory si toglieva le scarpe scalciando, le appiattiva i cuscini e non piegava le pagine dei giornali come le aveva trovate, ma la stanza era sembrata vuota quando lei l'aveva finalmente rimessa in ordine. Le piaceva il fatto che lui non parlasse molto e se ne andasse esattamente quando preannunciato.

«Aah», disse Rory, togliendosi una scarpa da ginnastica con la punta dell'altra mentre spiegava la sezione Affari del «Sunday Times» e si lasciava cadere sul divano. «Che cretino.»

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Lei lo lasciò lì a disseminare i giornali sul pavimento e lo guardò dalla cucina mentre il bollitore si scaldava.

Quando si convinse che lei non potesse vederlo, Rory si rivolse sottovoce a Tavish – Michelle vide muoversi le sue labbra – abbastanza sommessamente per non farsi sentire. Il cagnolino diede l'impressione di ascoltarlo: tenne drizzate le orecchie nere e la sua coda tozza oscillava lentamente, facendogli vento al lungo pelo.

“Che cosa ridicola”, pensò, divertita. “Come se io non potessi capire quanto stravede per quel cane dal modo in cui Tavish torna sempre spazzolato con cura.”

«Come mai quella bestiola è così in ordine?» gli chiese ad alta voce. «Gli hai fatto la toeletta?»

«No! Be', solo un po'. Oggi pomeriggio l'ho portato a trovare il signor Quentin. Si sono divertiti un mondo entrambi. Tutti hanno dato pacchette a Tavish e parlato del loro bisbetico bastardino che adorava i bambini e uccideva solo gatti neri. Ho ricevuto istruzioni da Anna di portarlo là, la prossima volta che lei legge ad alta voce agli ospiti della Butterfields.»

«Magnifico.» Michelle lasciò cadere le bustine di tè nella teiera e prese mentalmente nota di accompagnare l'amica al ricovero. Magari con una coperta per le gambe del signor Quentin. Non c'era niente di male nel tirarlo nel campo della biancheria da casa.

«Dovresti venire anche tu», affermò Rory, leggendole nel pensiero con inquietante disinvoltura. «Non hai un romanzo preferito che potresti condividere con loro?»

«No. E non cominciare. Già c'è Anna che mi sta addosso perché scriva una di quelle cartoline di consigli per la libreria.»

«E perché non l'hai ancora fatto?»

«Perché non ne ho il tempo.» Lei aprì e richiuse i credenzini, cercando il vassoio giusto su cui sistemare i biscotti. «Sto già pensando a Natale.»

«Non farmi ridere. Non è ancora estate.» Rory era entrato in cucina mentre lei aveva la schiena voltata. «Questo che cos'è?»

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Michelle girò la testa e lo scoprì a sfogliare il suo raccoglitore per il nuovo negozio, con pagine strappate da riviste di stile e cataloghi e moduli d'ordine di varie ditte.

«Biancheria da letto», spiegò. «Il mio progetto per l'inverno.»

«Sembra roba carina.» Lui sfogliò qualche altra pagina. «Calda.»

«Infatti», confermò lei. Non sapeva bene cosa pensare del fatto che Rory esprimesse pareri sulle camere. Presumibilmente la sua era piuttosto spoglia, monacale, con scaffali di narrativa letteraria e una bottiglia d'acqua accanto al letto. Lui era un tipo da lenzuola e coperte? Oppure un amante del piumino? La porta era chiusa, il giorno in cui lei aveva curiosato nel suo appartamento con Rachel e Anna, e adesso rimpianse di non avere dato una sbirciatina.

«È tutto magnifico, soprattutto le trapunte. Sono autentici cimeli di famiglia.» Si sentiva più sicura di sé, parlando della sua idea per il negozio; persino suo padre l'aveva giudicata una mossa astuta. «È risaputo che, nei periodi difficili, la gente riduce le spese per uscire e spende un po' di più per la casa, invece. Fra poco diventerà di gran moda farsi il nido. La gente ha sempre bisogno di un posto in cui dormire, e le donne adorano la propria camera da letto.»

Rory le rivolse un'occhiata perplessa. «È tutto molto... ordinato.»

«Cosa intendi dire?»

«Be', insomma, è tutto molto pudico, con questa miriade di cuscini sul letto. E piccoli cuscini di pizzo piuttosto virginali. Non è esattamente sexy, vero? Per una camera da letto. Non riesco a immaginare che questa possa diventare la scena di un qualsivoglia incontro passionale.» Indicò il perfetto bozzolo simile a una nube sulla pagina. «Ti ci vorrebbero dieci minuti solo per levare di torno i cuscini decorativi, prima di poter fare l'amore con qualcuno.»

Michelle lo fissò. L'immagine mentale di Rory che gettava cuscini sul pavimento e scagliava la sua donna sul letto, tentando di slacciare bottoni e abbassare cerniere, la turbava. Non se l'era mai raffigurato in quel modo, ma lui stava parlando come se i crimini passionali fossero una componente fissa della sua vita.

“Ha un figlio”, rammentò a sé stessa.

«Ma io cosa posso saperne», aggiunse Rory, vedendo la sua faccia. «Non sono certo il tipo di cliente a cui miri.»

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«No.» Lei deglutì a fatica. Era la sua camera da letto, quella di cui Rory stava parlando. Lei aveva otto cuscini decorativi, e nessuna storia passionale, per scelta. «Comunque ho svolto qualche ricerca di mercato sulla mia base clienti e da queste parti un sacco di gente riceve i cataloghi di The White Company e Cologne and Cotton ma...» Si sfregò le dita come se stesse toccando il più pregiato cotone egiziano. «Ma metà del piacere consiste nel tastare le lenzuola, e con un catalogo non lo puoi fare, vero?»

Batté le palpebre per il modo sensuale in cui stava sfregando le dita fra loro e si fermò.

«Già, hai ragione.» Rory girò la pagina ed esaminò le coperte di lana d'agnello. «E quanta parte dello Home Sweet Home intendi dedicare a questi articoli da boudoir?»

«Credo che biancheria da letto come questa meriti un negozio tutto suo, non trovi?»

«Un negozio tutto suo! Perbacco.» Lui alzò gli occhi. «Non fai certo le cose a metà, vero?»

«Be', una volta che hai disposto un paio di letti e montato delle scaffalature per le coperte... Ti serve un po' di spazio. Devi ricreare un'intera camera che al cliente venga voglia di comprare.» Michelle versò il tè e ignorò Tavish che, accanto ai suoi piedi, stava implorando per avere un biscotto. «Gli hai dato nuovamente da mangiare mentre eri a tavola?»

«No, vostro onore.»

«Come mai mi sta dando la zampa?»

Rory alzò lo sguardo e fece schioccare la lingua per rimproverare il cagnolino. «Non ne ho idea. Deve averlo imparato da qualche altra parte. Allora, su cosa hai messo gli occhi? Quella vecchia agenzia di scommesse all'angolo che sta per chiudere? È come a Monopoli: quando hai tre negozi puoi costruire un albergo sopra uno di essi?»

Lei aggrottò la fronte, stupita che si stesse dimostrando così ottuso. «Sveglia, Rory. Sarà il negozio alla porta accanto. La libreria.»

«La libreria?» Lui smise di versarsi il tè.

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«Oh, non fare così», disse Michelle. «Hai sempre saputo che era questa la mia intenzione. Non è per questo che mi hai consigliato di prendere Tavish, per cercare di convincere il signor Quentin a lasciarmi trasformare il negozio in anticipo?»

«Non è quello il vero motivo per cui hai preso Tavish», sottolineò Rory in tono di rimprovero e con un raffinato accento scozzese. «Lo hai accolto in casa perché non volevi vedere un povero cane anziano restare fuori al freddo. Lo hai fatto per pura bontà d'animo.»

«No! Non è per questo che mi hai consigliato di prenderlo.» Lei aprì la bocca in una O di sorpresa. «Non tentare di fingere di non avere escogitato tu quel piano astuto.»

Rory sorseggiò il tè, poi posò la tazza con gesti molto deliberati. Quando parlò lo fece in tono misurato e ragionevole ma Michelle capì che, sotto sotto, era seccato. «Pensavo che la libreria stesse andando così bene che ti avremmo convinto a tenerla aperta.»

Ti avremmo convinto. Al plurale. I bibliofili contro la rozza Michelle.

«Ho intenzione di tenere alcuni libri», affermò, irritata. «Il negozio si chiamerà A Book at Bedtime e ci saranno...» Modificò la frase nella sua testa, preferendo non mentire spudoratamente. «Ci saranno dei libri. Insomma, andare bene è diverso dall'ottenere un profitto. Per quella libreria andare bene significa non essere in perdita.»

«Se consideri perdita e profitto in termini puramente finanziari.»

«Cosa che faccio. Sto gestendo un'attività commerciale, non qualche tipo di progetto di solidarietà sociale per lettori del ceto medio.»

Rory non aveva alzato la voce e nemmeno aveva palesato una particolare disapprovazione, ma lei si sentiva molto più sulla difensiva che se lui le avesse urlato contro. Nemmeno Harvey era tipo da urlare.

«Non pensi che ciò che fai ti stia dando qualcosa di più di un semplice profitto?»

«In che senso?»

«Ti sei procurata una nuova base clienti. Hai conseguito un primato morale migliorando la comunità. Stai sostenendo attività culturali nella zona con le visite

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degli autori, i club del libro e i gruppi di lettura per bambini. Questo non potenzia il tuo marchio in generale? Non ha effetti positivi sullo Home Sweet Home?»

«Forse.» Lei prese un biscotto e lo spezzò in due. «Quelli sono progetti di Anna, però.» Sapeva che lui ne era al corrente.

Sentì una scheggia di risentimento forare il suo gradevole stato d'animo. Adesso Rory faceva parte del gruppo di lettura ad alta voce di Anna e persino Owen aveva iniziato a scrivere recensioni dei libri, cedendo alle delicate pressioni di Becca. Persino Kelsey ne aveva scritta una. Ma era lei quella che pagava i conti, che faceva circolare il denaro.

«Oh, tu adori quella libreria, ammettilo», dichiarò Rory, cambiando tattica. «È un successo, ed è merito tanto tuo quanto di Anna.»

«Non è vero.»

«Sì, invece. Il modo in cui l'hai arredata, riportata in vita. I colori. La... roba che c'è dentro.» Lui si accigliò e prese un terzo biscotto. «Non riesco a definirlo con precisione perché, come ho già detto, sono un maschio. So solo che prima, quando l'aveva il signor Quentin, mi piaceva ma non mi ci trattenevo mai. Non come la gente vi si trattiene adesso. Ciondola lì per ore. Si incontra lì.»

Michelle fissò il proprio caffè, avvertendo un improvviso senso di gelo. Quello non era il complimento in cui aveva sperato benché, razionalmente, non avesse la minima idea di quale fosse il complimento da lei desiderato. «Non è merito mio, ma di Anna.»

«È anche tuo, sciocchina. Tu lo fai succedere, come dicono nei programmi televisivi. Ascolta, potresti trovare agevolmente un altro negozio a buon mercato.» Rory prese un altro biscotto e lei allontanò il vassoio. «La via principale è piena di negozietti benefici in attesa di locatari adeguati. Potrei tenere aperte le orecchie per conto tuo.»

«Non posso permettermi un altro negozio.»

«Non dipende dall'ammontare dell'affitto?» Lui inarcò ripetutamente le sopracciglia. «Io sono un osso duro come negoziatore. Per clienti speciali.»

Lei scosse il capo. Ormai l'ostinazione l'aveva pervasa, trincerandola saldamente nell'imprecisata posizione presa all'inizio nei riguardi di Rory. Non si concesse nemmeno di prendere atto del favore che lui le stava offrendo. «No, Rory, ho elaborato un piano preciso. Mi piace attenermi ai piani.»

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«Tutti i principali magnati nel campo degli affari non si limitano a seguire la corrente?»

«Fingono di farlo. In realtà hanno quattro o cinque diversi piani d'emergenza. Tutti infallibili. Dovresti saperlo, sei un avvocato.»

Lui la guardò come se stesse valutando l'opportunità di dire o no qualcosa. Poi parlò. «Allora, quando?»

«Quando cosa?»

«Quando hai intenzione di dire ad Anna che la sua libreria chiuderà?»

«Pensavo fosse la mia libreria.»

«La vostra, allora. La nostra. Parlo a nome dei lettori del ceto medio di Longhampton.»

«Non cercare di farmi sentire in colpa.» Michelle si rifiutò di incrociare il suo sguardo. «Sto monitorando le vendite. Se scendono sotto un ragionevole livello operativo, non mi rimarrà altra scelta che staccare la spina. Pensavo di introdurre, in autunno, alcune nuove linee come le coperte, forse quelle garantiranno qualche profitto. Ma, resti fra noi, rimarrò molto stupita se la libreria sopravvivrà per l'intero anno. Il che è l'unica condizione che ho accettato all'inizio.»

«Benissimo.» Rory spinse indietro la sedia. «Ti spiace se leggo il giornale?» L'argomento era palesemente chiuso.

«Fai pure», replicò lei, altrettanto concisa. «Porto di là il tè.»

Lui si mise comodo sulla poltrona grande e Michelle si sedette, con le ginocchia unite, sul divano, sfogliando i supplementi senza vedere granché. Di tanto in tanto Rory leggeva qualcosa ad alta voce ed emetteva un brontolio, ma dopo pochi minuti lei fu assalita dalla stanchezza e tirò su i piedi.

«Non dormirò», disse. «Sto solo chiudendo gli occhi. Non lasciare salire Tavish sul divano perché me ne accorgerò.»

«Nessun problema», ribatté lui.

Lei affondò la testa nei cuscini e permise al suo corpo di rilassarsi. La casa di Swan's Row era silenziosa come nessun'altra sua abitazione precedente; niente sirene, niente auto, solo un fioco cinguettio di uccelli e il ronzio della lavastoviglie. E il fuoco e fiamme fatto da Rory che leggeva il giornale.

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«Ah ah ah!» disse lui. «Senti questa. È la recensione su un ristorante di Islington. “Abbiamo passato talmente tanto tempo ad ascoltare il cameriere descrivere il ciclo di vita organico di ciò che avevamo nei piatti che il mio agnello si è trasformato in montone prima che mi venisse consentito di infilzarvi la forchetta.”»

«Davvero buona», mormorò lei, lottando contro il sonno.

Rory continuò a leggere e lei non aveva voglia di chiedergli di smettere. Era sorprendentemente confortante ascoltare l'andamento altalenante della sua voce. L'accento scozzese era piuttosto soporifero, pensò Michelle mentre le immagini le danzavano e indietreggiavano nella mente e gli uccellini cinguettavano in giardino.

Quando si svegliò c'era buio e qualcuno stava russando. Lei era coperta da un panno di ciniglia.

«Che ore sono? Rory?» Si drizzò rapidamente a sedere e spinse via il panno.

Lui se n'era andato, lasciandosi dietro solo una scia di fogli di giornale in disordine, un pacchetto di biscotti svuotato per metà che si era andato a prendere in cucina e infossature nella poltrona laddove non si era curato di sprimacciare i cuscini. Però aveva tirato le tende e steso sopra Michelle il panno in origine sistemato con cura sull'altra poltrona.

Lei arricciò il naso. Il panno era un po' ruvido. Non se n'era mai accorta, prima. E Tavish si era arrampicato sul divano, al suo fianco, e stava russando trionfante.

«Perché gli uomini non vedono il disordine?» chiese ad alta voce, ma non poté ignorare la disturbante sensazione che, a dispetto del caos, qualcosa avesse lasciato la stanza. Per un attimo desiderò ardentemente che non l'avesse fatto.

Accese le lampade da tavolo dalla luce soffusa e cominciò a rassettare.

«Sei molto taciturna», disse Phil mentre, di ritorno dall'aeroporto, svoltavano imboccando l'autostrada.

«Ho tante cose a cui pensare», replicò stringatamente lei.

La sensazione di déjà vu non era piacevole. L'ultima volta che lui le aveva fatto quella domanda si era all'inizio di un anno nuovo di zecca, colmo di possibilità. Adesso sembrava che tutto avesse fatto marcia indietro. Be', marcia indietro per lei. Non per chiunque altro.

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«Sarah è parsa rattristata dal fatto che le ragazze non abbiano voluto accompagnarla in aeroporto», aggiunse Phil. «Ma non è certo sorprendente, credo.»

«La domenica sera hanno parecchio da fare.» Normalmente Anna sarebbe rimasta in casa per controllare i compiti e portarsi avanti con la stiratura, ma le era scattato qualcosa dentro e non le andava di farlo. Perché essere una «super matrigna» quando la «super mamma» aveva appena lasciato l'edificio? Somigliava già fin troppo a una gara che lei non aveva alcuna possibilità di vincere.

«Lo so.»

Altra pausa di silenzio. Altri chilometri macinati rapidamente.

«Mi dispiace, Anna.»

«Per cosa?»

«Per questo weekend. So che è stata dura. Le liti.»

«Non mi infastidiscono le liti.» Lei si morsicò il labbro. «Quello che ho trovato difficile era vedere te e Sarah fare i genitori in casa nostra. Come se io non ci fossi.»

Lui si passò una mano sul viso. «Non è andata così. Sarah ha fatto ogni sforzo possibile per non pestarti i piedi. Le ha chiesto Lily di leggerle la storia della buonanotte. Avrebbe detto di no, se tu glielo avessi chiesto.»

«Non mi riferisco a quello.» Invece era proprio così. Sapeva di apparire stizzosa, e sapeva che dipendeva soprattutto dalla cocente delusione per avere scoperto di non essere incinta, ma era inutile tentare di spiegarlo a Phil. Lui semplicemente non capiva.

Altro silenzio. Altri chilometri.

«Va tutto bene fra Becca e... ehm, Jake?» domandò lui.

«Josh. E no, hanno rotto.»

«Davvero? Quando? Non me l'ha detto. Be', forse non è il genere di confidenza che fai a tuo padre.»

Anna provò un minuscolo fremito di trionfo nel sapere qualcosa di personale, qualcosa di confidenziale.

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«Presumo che questo sia l'inizio della fase fidanzato-non-appropriato», disse lui con un sospiro, assumendo un'aria triste. «Cos'altro non so?»

Lei valutò l'ipotesi di tenere per sé l'informazione, ma il buonsenso le disse che sarebbe stato solo controproducente. Almeno in quel modo poteva riferire a Becca che gliel'aveva chiesto lui invece di doverle confessare di avergli fornito spontaneamente l'informazione. «Sta uscendo con il fratello di Michelle, Owen.»

Phil la guardò. «Non lo conosco. È simpatico? Dovrei preoccuparmi? Quanto assomiglia a Michelle? Mette paura?»

«È... okay», rispose Anna.

«Okay?» Lui parve preoccupato. «Ma tu stai tenendo d'occhio la cosa?»

«Le è consentita un po' di privacy, Phil.»

«Non finché non arriva la cintura di castità... Sto scherzando. Sono felice che parli con te. L'ha detto a Sarah?»

«Non lo so. Probabilmente sì.»

Calò di nuovo il silenzio, stavolta meno teso, e l'atmosfera si era scaldata fino a ridiventare quasi normale quando Phil imboccò la strada principale per Longhampton e disse: «Mi dispiace davvero che tu ti sia illusa inutilmente».

Era la prima volta in cui prendeva atto della sua lacrimosa delusione, e ad Anna si contrasse la gola. Si aspettava che lui dicesse: «Riproviamoci», ma non lo fece.

«Forse è meglio così», aggiunse Phil. «Non è un buon momento. Noi non ne abbiamo parlato abbastanza, vero?»

Anna si girò di scatto, senza parole. Noi? Noi?

Lui interpretò il suo silenzio come un tacito consenso e le strinse forte il ginocchio. «Ho riflettuto su una cosa. Perché non prenoti una settimana in un posto davvero carino in cui possiamo andare mentre Sarah tiene le ragazze, questa estate? Un posticino da seconda luna di miele, un sacco di cocktail accanto alla piscina, niente scivoli acquatici.»

«Un posto da adulti», disse sarcasticamente lei.

«Esatto!»

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Anna fissò la strada, guardando sfrecciarle accanto i familiari segnali della sua vita quotidiana. Scuola, supermercato, ospedale, centro città. La risucchiavano nuovamente nella sua routine genitoriale.

Avrebbero dovuto parlarne. Molto presto. Ma non quella sera. Quella sera lei non sapeva cosa avrebbe potuto uscirle dalla bocca.

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Capitolo 21

«Mi piacerebbe dirvi come il sottotesto psicanalitico del Paese dei mostri selvaggi sia stato rivelatore, per me, ma in realtà mi sono semplicemente piaciute le illustrazioni.»

Matt Dunn

Era davvero ironico, pensò Anna, ma alla fine l'enorme stress per gli esami di Chloe e Becca si rivelò positivo, nel senso che diede all'intera famiglia una ragione per cui lagnarsi e lamentarsi che non fosse il bambino di Sarah.

Questo inoltre le permise di adottare un approccio più irrazionale e istintivo alla sua perenne lista di cose da fare. Qualsiasi cosa le fosse scattata dentro durante la visita di Sarah non era tornata al suo posto dopo la partenza della donna, e Anna, pur avendo riletto tutti i testi assegnati a Becca perché potessero discuterne durante la cena e accettato di attenersi alla speciale dieta di cibo-stimola-cervello trovata da Chloe su Internet, non si era presa il disturbo di infilare le calze delle ragazze nelle apposite tasche individuali appese dietro la porta delle camere come faceva di solito né di stirare alcunché indossato sotto la vita.

Nessuno parve dispiacersene, a parte Phil, ma lei gli aveva detto di aggiungere quegli indumenti alla lista per la tintoria e lasciare dieci sterline in più.

«Non riesco a credere che tu lo stia leggendo per diletto», disse Becca una sera tardi, quando si trascinò giù in cucina per versarsi un ultimo bicchiere di latte e la trovò assorta nella lettura di Jane Eyre invece che a suddividere il bucato. «Stai ripassando più tu di me.»

«È più piacevole quando non devi scrivere le relative tesine», ribatté lei. «Davvero. Rileggilo fra cinque anni circa.»

«Hai controllato in soffitta per vedere se ci sono prime mogli folli?» chiese Becca, aprendo il frigo. Sotto il tavolo le orecchie di Pongo si contrassero sentendo il rumore dello sportello. «Ho saputo che è il posto migliore in cui tenerle. Avrei dovuto menzionare la cosa a papà.»

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«Sono sicura che anche tua madre preferirebbe tenere il suo primo marito in soffitta», affermò Anna, prendendo i biscotti al cioccolato che durante il giorno teneva nascosti. «Ti va di parlare di Jane Eyre?»

«Non proprio.» Becca spostò svogliatamente gli yogurt biologici di Chloe per cercare del cibo. Non aveva mangiato niente, a cena, nonostante i tentativi di Anna di farle mandare giù qualcosa. Chloe aveva finito le crocchette di pesce («Ho bisogno degli oli omega-3 supplementari. Per il cervello»).

«O... di qualcos'altro?»

Becca richiuse lo sportello e tornò verso il tavolo con il bicchiere di latte. Le trecce le penzolavano ai lati della testa e aveva profonde borse sotto gli occhi azzurri. I suoi piedi nudi color alabastro che spuntavano dagli sformati «pantaloni da ripasso» ricordarono ad Anna la fanciulla-oca in un libro di favole europee, a parte lo smalto per unghie verde.

«Anna», replicò Becca, sedendosi, «mi diresti sinceramente una cosa?»

«Se posso.» Anna posò il libro e si tenne forte.

«Io e Owen.» La ragazza parve a disagio, poi parlò di getto. «È un problema, per te e Michelle, che noi due usciamo insieme?»

«Cosa?» Lei non si era aspettata quella domanda. «Ehm, no, certo che no, è... Be'...»

Becca continuò a guardarla con l'espressione penetrante che, sospettò Anna, le avrebbe senza dubbio giovato in un'aula di tribunale. Non poteva negare che, ultimamente, i rapporti fra lei e Michelle non fossero cordiali come un tempo, ma non dipendeva soltanto da Owen. Non era sicura che l'amica capisse fino in fondo quanto la delusione per la mancata gravidanza l'avesse annientata, così non gliene aveva parlato. Per lei non era normale non condividere qualcosa che la sconvolgeva tanto.

Non poteva confessarlo a Becca, però.

«Be'», rettificò, «non è un problema. Solo che Owen è un po' più vecchio di te, ovviamente, e Michelle sa cosa ha combinato in passato, e ci preoccupiamo del rischio che...»

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«Perché non voglio che influisca sulla vostra amicizia», la interruppe Becca. «È una cosa tra Owen e me. Ho notato che ti irrigidisci quando lui è in libreria con me. E sono secoli che Michelle non viene a cena qui.»

«È perché siamo molto indaffarate.»

«Quando è stata l'ultima volta in cui avete portato a spasso Pongo insieme? Un tempo lo facevate sempre.» La ragazza aveva l'aria seria. «Il modo in cui qualcuno si comporta in veste di fratello minore o figliastra non corrisponde a ciò che è come persona, quando è insieme a un'altra. Quindi se tu ti preoccupi per me, e Michelle per lui... non fatelo.» Si accigliò, come se non fosse sicura di essersi espressa chiaramente. «Non è come pensate.»

«È normale che mi preoccupi per te», affermò Anna. «E se Michelle lo trova offensivo, è un suo problema; mi preoccuperei per te anche se stessi uscendo con...» Rovistò nella propria mente cercando un ragazzo attuale ma innocuo e si rese conto di non conoscerne. «Con Justin Bieber?»

«Ma dai!» Becca allungò una mano per stringere la sua. Anna non sapeva bene se il «Ma dai!» si riferisse al sentimento o alla scelta disperatamente sbagliata della celebrità. «Non ce n'è alcun bisogno. So che Owen è un po' più vecchio di me, ma siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Mi sembra di conoscerlo da sempre.»

«Allora quando hai intenzione di invitarlo a cena qui, in modo che possiamo conoscerlo tutti?» chiese Anna. “E in modo che io possa nascondere sotto il tappeto il fatto di averlo già detto a tuo padre”, aggiunse mentalmente, sentendosi in colpa.

«Presto. Mi accompagnerà lui al prom», rispose Becca, riferendosi al ballo studentesco di fine anno.

«Al prom», ripeté Anna. «Siamo tutti in America, adesso?»

La ragazza alzò lo sguardo. Le occhiaie c'erano ancora, ma gli occhi brillavano di un'eccitazione che causò ad Anna una fitta di nostalgia al cuore. Ricordava quando aveva provato quella disorientante prima ondata d'amore, sfavillante e leggero come se nessun altro l'avesse mai sperimentato, era stata la rivelazione dell'emozione più profonda. Ricordava anche quanto si sentisse sciocca.

«Lui è straordinario, Anna. È... come se io avessi scritto le caratteristiche del mio uomo ideale e tutt'a un tratto lui si fosse materializzato.»

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Anna la guardò bere il latte e si disse che sarebbe andato tutto bene. Informare Phil era stato un gesto responsabile. E facendolo non aveva tradito la confidenza di Becca, si era limitata a riferire quanto stava succedendo. Non gli aveva parlato dell'espressione di lei o delle cose dolci che diceva di Owen, o del fatto che il sito della libreria fosse in realtà un'unica grande lettera d'amore che si spedivano a vicenda. Aveva tenuto tutto questo per sé, e in cambio di quella confidenza stava sorvegliando la situazione. Era l'utile cuscinetto fra figlia e genitore che consentiva a Becca di diventare adulta.

Sotto il tavolo Pongo si mosse, posandole la testa su un piede.

Erano secoli che lei e Michelle non lo portavano a spasso insieme, pensò Anna. “Dovrei proprio porvi rimedio. Non appena riuscirò a trovare un po' di spazio sulla mia agenda.”

Dalla parte opposta della città Michelle stava finalmente scaricando alcuni scatoloni dal bagagliaio dell'auto, mentre Tavish la osservava con la coda che si muoveva avanti e indietro sul gradino davanti alla porta e la testa piegata di lato.

Non erano volumi per la libreria ma lei si chiese se potessero diventarlo, una volta che li avesse vagliati. Non intendeva certo rileggerli: rappresentavano il contenuto della sua vecchia camera a casa dei suoi, con in più un paio di scatoloni chiusi da tredici anni e passati direttamente dalla scuola alla soffitta dopo la sua ignominiosa espulsione e, adesso, dalla soffitta alla sua stanza degli ospiti.

Trasferì gli oggetti contenuti nei primi tre in sacchetti destinati alla libreria, al negozietto benefico adiacente, alla stazione di riciclaggio e alla discarica, poi si bloccò arrivando a quelli ancora sigillati dal nastro adesivo recante lo stemma della scuola.

Trasse un bel respiro, poi tagliò il nastro e aprì gli scatoloni. Quando guardò dentro, il passato la riassalì di colpo, con violenza.

In cima c'erano i suoi testi scolastici dell'ultimo anno, che le risultarono subito familiari per colore e consistenza, se non per il contenuto. Il colore viola, i drammi di Shakespeare dalla copertina azzurra, il libro di storia dell'arte grigio ferro. Non ricordava di averli messi via lei, ma chiunque l'avesse fatto si era limitato a ghermire e lanciare, ghermire e lanciare, finché ogni traccia di Michelle Nightingale, alunna dell'ultimo anno del corso di arte, non era stata eliminata dalla stanza e chiusa nello scatolone con il nastro adesivo.

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Non li aveva mai aperti perché non aveva mai avuto bisogno di ripassare. «Ci rincresce, ma sarà impossibile per Michelle tornare per sostenere i suoi esami A-levels. È possibile prendere accordi perché li sostenga altrove.» Solo che non si era preso nessun accordo. A quel punto lei si trovava molto lontano da lì, prima a casa della zia in Nuova Zelanda, poi nuovamente dai suoi nel Surrey: ovunque tranne che in una palestra, a rammentare i temi drammatici centrali nell'Otello.

Aprì ancor più il lembo superiore dello scatolone e vide gli astucci infilati negli spazi vuoti, le cartoline staccate energicamente dalla parete del suo studio con l'adesivo riutilizzabile ancora raggrumato sul retro, il calendario di ripasso per gli esami con soltanto tre giorni cancellati da una crocetta. I suoi cd erano stipati sul fondo: Blur, Pulp, Nick Drake, musica che non aveva riascoltato mai più, ma che adesso sentiva nella testa, come un jukebox che si accendeva di colpo.

Il 1999 chiuso in uno scatolone. I suoi diciotto anni, congelati e in attesa che lei li tirasse fuori, gli ansiti e i sussurri di quei mesi pronti a essere liberati dalle pagine dei libri. Persino ora – era uno scherzo della sua immaginazione? – riusciva a percepire l'acre odore di disinfettante che aveva permeato ogni angolo dei dormitori.

Riabbassò con forza il lembo di cartone, richiudendo con dita goffe lo scatolone.

Avrebbe portato gli altri sacchetti alla discarica e nei vari negozi, ma quegli scatoloni sarebbero finiti direttamente in soffitta. C'erano alcune cose che lei non aveva nessuna intenzione di tirare fuori.

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Capitolo 22

«Ho divorato i libri della serie Sweet Valley High, da adolescente. Immaginavo di avere una gemella che era una versione più stravagante della sottoscritta, con la patente presa a sedici anni, un ballo studentesco e un accompagnatore sexy con una giacca alla Miami Vice.»

Natalie Hodge

Michelle non era abituata a dover affrontare le resistenze del responsabile dei rapporti commerciali della sua banca, quindi le ci volle un po' per capire che Martin Leonard, che l'aveva sempre definita la sua cliente preferita, le stava dicendo, benché in modo alquanto tortuoso, che lei non poteva estendere la sua apertura di credito e molto probabilmente loro non avrebbero approvato un mutuo per «un possibile immobile aggiuntivo».

Era giugno e Longhampton si stava godendo un'ondata di caldo, ma il sudore che imperlava la fronte di Martin non aveva nulla a che fare con l'efficacia dell'impianto di aria condizionata della banca: dipendeva dallo sguardo diretto di Michelle e dalla presentazione da lei approntata. Lui continuava a risistemarne le pagine ma non stava accogliendo la sua richiesta.

Quando Michelle finalmente capì, più o meno al limite dei nove minuti, avvertì un senso di pesantezza alla bocca dello stomaco. I soldi non sarebbero stati la risposta alle sgradevoli scelte che si trovava di fronte.

La libreria non chiudeva nemmeno in pareggio, ora che il gusto della novità si era esaurito e l'estate era iniziata. Si erano liberate di alcuni tascabili da vacanza, ma non tanti quanti aveva sperato; come Anna spiegava nel suo modo generoso, per la maggior parte i loro clienti attenti al budget facevano scorta di libri per le vacanze al supermercato, «e non puoi certo biasimarli». La sua soluzione, che consisteva nel promuovere «classiche letture da ombrellone» invece di nuovi titoli, non si stava rivelando molto redditizia. Michelle aveva trascorso diverse afose notti insonne ripensando alle parole di Rory su Anna e sul valore di riflesso del marchio, e aveva tentato di escogitare una soluzione diversa che potesse accontentare tutti. La sua idea più recente, e forse più folle, era accettare l'offerta di Rory di trovarle un'altra sede e affittare anche quella, ma Martin Leonard si

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stava dimostrando irremovibile sulla nuova «cauta visione d'insieme finanziaria» della banca.

«Se dipendesse da me, Michelle, sai che investirei subito nella tua impresa», aveva affermato, con una nuova stilla di sudore che gli compariva sulla fronte. «Ma la banca sta dando un giro di vite. Torna l'anno prossimo, vedremo cosa sta succedendo a quel punto.»

Lei aveva risposto con un sorriso tirato, e dopo aver accettato di mettere da parte per la moglie di Martin una delle caraffe di vetro Pimm's in edizione limitata aveva percorso la via principale con un passo talmente energico da perdere il salvatacco in gomma di uno dei suoi tacchi alti. Quando raggiunse la libreria lo sfrigolio nel suo stomaco non era ancora cessato e il suo cervello era ancora completamente sgombro così, con profondo stupore di Anna, ghermì Tavish e le sue scarpe da ginnastica e lo portò a fare un giretto improvvisato. Non voleva farsi vedere in quelle condizioni da nessuna delle sue dipendenti.

Arrivarono solo fino al parco, dove Michelle si sedette su una panchina, a fissare la media distanza. Se fosse riuscita a farsi una notte di sonno decente ne avrebbe tratto un indubbio giovamento, ma da settimane non dormiva più di un paio d'ore di fila, girandosi e rigirandosi nel letto fino alle quattro del mattino. Non ricavava più lo stesso piacere dalla sua moodboard di biancheria da letto bianco-nube – e nemmeno dal suo stesso letto – dopo il commento di Rory sui cuscini. Commento che non era stato solo sbagliato e irrilevante, ma anche oltraggiosamente maleducato, e per di più proveniente da un uomo con una spada laser. Michelle rimpiangeva di non avere avuto la presenza di spirito di dirglielo subito.

Era molto più facile sentirsi offesi da Rory rimuginando sulle sue parole che non in sua presenza. In carne e ossa lui appariva stranamente ragionevole.

Michelle guardò attraverso il parco, costellato di anziane coppie dai movimenti lenti che venivano trainate dal loro cane e di mamme che guidavano passeggini e labrador pazienti lungo il vialetto che portava alla zona giochi.

Accanto a lei – non sulla panchina, sarebbe stato poco igienico – Tavish ruttò senza palesare il minimo imbarazzo. Da quando gli avevano tolto i denti sembrava vivere una seconda briosa giovinezza e mangiava le cose più disgustose del mondo quando Michelle gli voltava la schiena. Dio solo sapeva cosa trovasse da ingollare nel porcile da scapolo di Rory.

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“Ho trentun anni”, pensò, e per la prima volta avvertì una fitta di solitudine. “Ho trentun anni e mi sembra di averne cinquanta. Quand'è che la situazione migliorerà?”

Sapeva qual era la risposta: quando avesse trovato il coraggio di liberarsi definitivamente di Harvey. I documenti, infilati in una spessa busta legale, si trovavano sul suo tavolo di cucina ormai da una settimana. Durante quella settimana, però, lei aveva sofferto degli incubi più orrendi che avesse da anni, culminati in un terribile e nitido flashback della festa per il suo ventiseiesimo compleanno, quando Harvey aveva avuto un accesso di rabbia irrazionale per l'abito «da sgualdrina» da lei comprato nell'unica boutique che lui approvasse e l'aveva chiusa a chiave in garage per sette ore, raccontando ai loro amici in attesa al ristorante che Michelle era reduce da un taglio di capelli disastroso ed era troppo vanitosa per farsi vedere. Lei aveva scoperto quest'ultimo dettaglio solo in seguito, quando lui era tornato a casa ammantato della loro solidarietà per la sua stupida moglie-bambina e le aveva tagliato personalmente i lunghi capelli neri, «così la tua scusa è credibile».

Non sapeva come avrebbe reagito Harvey una volta ricevuti i moduli. Benché i fiori avessero smesso di arrivare, Rachel aveva chiamato dal canile per «ringraziarla» per un suo amico che aveva adottato a distanza un cane a nome suo.

«Ha chiesto quale animale si trovasse qui da più tempo, così ho suggerito Minty, la staffordshire con un occhio solo», aveva spiegato. «Lui ha detto di voler adottare qualsiasi cane che nessuno voleva. La maggior parte della gente chiede solo i cuccioli carini.»

Non era un segno di premura. Michelle sapeva che era il modo di Harvey per dirle che lei era merce avariata, che nessun altro l'avrebbe degnata di una seconda occhiata. Ma come al solito la cosa era travestita da gesto gentile che lei non poteva trovare offensivo, e questo la faceva sentire come un topo in trappola.

Fissò il parco, sentendosi più sola che mai.

In circostanze normali si sarebbe rivolta ad Anna, che sarebbe stata al suo fianco, impegnata a staccare faticosamente Pongo da una cocker spaniel di passaggio, e ne avrebbero riso insieme. Anna avrebbe detto che lei era single per un solo motivo, ossia che «l'uomo giusto» capisse che era disponibile. Poi avrebbero trascinato Pongo e Tavish fino al caffè dei cani per una fetta di torta alle carote.

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Ma Anna non c'era. Si trovava con la sua famiglia.

«È ora di andare, Tavish», disse Michelle, e si alzò.

Nella libreria c'erano un brusio di voci che arrivava dal retro e due passeggini ripiegati accanto alla porta. Anna non si trovava dietro il bancone e Michelle, entrando, la vide nella stanza sul retro, assorta nella conversazione con alcune donne, due delle quali avevano un bimbo sulle ginocchia e un libro in mano. Altri due piccini erano seduti sul pavimento a giocare con giocattoli presi dall'apposito scatolone. Era una scena davvero idilliaca, dovette ammettere Michelle, anche per la pila di libri «sul-punto-di-essere-comprati» che le donne stavano stringendo.

Vide Anna chiacchierare tutta contenta, il che la rese felice, ma mentre si voltava per tornare alla cassa uno dei bimbi emise uno strillo, svegliandosi, e trasformò le manine minuscole in stelle marine. Michelle vide l'amica chiudere gli occhi con forza e serrare le mani a pugno, stretta che non fece che rafforzarsi quando la madre riportò alla calma il bebè ninnandolo e zittendolo dolcemente. La nuda angoscia sul viso di Anna le mozzò il fiato in gola.

Quando si accorse di lei, Anna si bloccò e cambiò espressione troppo in fretta, come chi venga sorpreso con i pantaloni abbassati in una sitcom scadente. Ma ormai era troppo tardi. Aveva rivelato fugacemente qualcosa di ipersensibile, qualcosa di nascosto.

Michelle si sentì ferita. Sapeva che l'amica desiderava un figlio, ma non che lo desiderasse così ardentemente. “Perché non me l'ha detto?” si chiese. “Crede che non capirei?”

«Stai bene?» domandò quando l'altra la raggiunse.

Anna cominciò a fingere che fosse così, poi fece una faccia che significava: “Non proprio”. «Adoro i bebè. E non sopporto di averli vicino. Pura follia.»

Michelle non sapeva bene quale fosse la cosa giusta da dire, vista la tristezza e la rabbia che si mescolavano sul volto di Anna.

«Non sempre succede subito», azzardò, ripetendo quanto letto su uno dei supplementi domenicali di Rory. «Non scoraggiarti se ci vuole qualche mese.»

La bocca di Anna si contrasse in una linea sottile che non si accordava con il suo viso dolce. «È molto improbabile che succeda, punto e basta, a meno di un intervento dell'arcangelo Gabriele. Non ho mai visto Phil così ansioso di comprare dei preservativi. E se qualcuno ha il terrore di mettere incinta la moglie,

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a Madre Natura piace intervenire per dare una mano, tanto per andare sul sicuro.» Abbassò lo sguardo, palesemente arrabbiata per la sua indelicata confessione, ma incapace di impedirsi di farla.

«Ma le ragazze non ce l'hanno più con Sarah, vero? L'altro giorno Chloe è passata in negozio a comprare qualcosa per il nascituro.»

«Sì, sono venute a patti con la gravidanza di Sarah, ma con la mia? Non figura sull'agenda. A tempo indeterminato. La decisione è di Phil, comunque. Le ragazze non sono state consultate.»

«Anna, è ingiusto. Ed egoistico.» Michelle si sentiva su un terreno meno infido, quando si trattava delle carenze di Phil. «Lui non può decidere della tua fertilità al posto tuo.»

Lei sventolò una mano. «No, va benissimo così. Mi fa sentire meno in colpa riguardo a tutto il resto. Ieri sera ho buttato nel bidone le piantine di fragole morte di Chloe. Non sono un orticoltore. E se Phil vuole che le orecchie di Piggy-Jo vengano ricucite, può pensarci lui.»

«Non capisco di cosa tu stia parlando, ma hai tutto il mio sostegno se ti concedi un po' di tregua a casa», affermò Michelle. Strinse le mano a pugno in un gesto di solidarietà e vide Anna abbozzare faticosamente un sorriso.

«Di cosa discutono le “mammine Malory Towers”, questa settimana?» chiese, felice di avere strappato una reazione all'amica.

«Del Giardino segreto e di come sembri nettamente migliore quando lo rileggi e noti tutto il magnifico simbolismo su giardini chiusi a chiave e i bambini indesiderati che vengono nutriti con amore proprio come i fiori e...» Si interruppe notando lo sguardo vitreo di Michelle. «Io l'ho adorato.»

«Bene», disse lei, rimettendosi le scarpe con il tacco. «Hai un sacco di copie che possano comprare?»

«Sì. Ne ho trovate tre sul retro, sono pronte sugli scaffali. Hai ricevuto l'e-mail?» aggiunse Anna. «Quella di Nicky Oliphant della “Longhampton Gazette”? Vuole intervistarci per la sezione Tempo libero.»

«Pensavo che potessi occupartene tu. Dirigi tu la libreria.»

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«Ci vogliono entrambe, per la faccenda che siamo amiche. Tu devi dire qual è il tuo libro preferito.» Anna le scoccò un'occhiata rassegnata. «Cioè, posso inventarmi qualcosa per te, se vuoi. Immagino che non sia poi così importante.»

«No», replicò Michelle, sentendosi improvvisamente in colpa. Se ormai l'amica rinunciava al tentativo di farla leggere, quello era davvero un brutto segno. «È importante. Gestiamo questo negozio insieme, vero? Solo non ho tempo.»

«E se mettessi un audiolibro sul tuo iPod?» Anna si illuminò in volto. «Potresti ascoltarlo mentre corri.»

«Buona idea.» Sarebbe bastata un'ora o poco più. Michelle ci sapeva fare con le parole.

«Cosa ti piacerebbe? Qualcosa che hai letto nell'adolescenza? Jilly Cooper? Shirley Conran? Posso chiedere a Becca di scaricarti qualcosa.»

«Jilly Cooper», rispose lei. «Ecco il mio iPod. Di' a Becca di darci dentro. Ma non se ha da fare, è ovvio.»

Anna prese l'apparecchio e Michelle captò una lieve tensione. «Sta andando tutto bene... con gli esami?» chiese cautamente.

«Credo di sì.» Anna giocherellò con i comandi. «Sto cercando di assicurarmi che ripassi a casa e non nel... Be', sai cosa voglio dire.» Si interruppe e alzò lo sguardo. «Insomma, siamo state tutte e due adolescenti. E ricordo come sono fatti gli uomini di ventiquattro anni.»

Michelle era combattuta. «Gli ho detto che Becca è speciale, e che deve rispettarla se non vuole dover affrontare la tua ira e quella di Phil. E la mia.»

«E quella di Sarah. Questo non è un momento facile per loro, per nessuno di loro. Non voglio...» Anna sembrò imbarazzata ma risoluta, in un modo tipicamente da chioccia che in circostanze diverse Michelle avrebbe ammirato ma che adesso trovava doloroso. «Non voglio che senta il bisogno di cercare affetto altrove. Al momento sono dannatamente furiosa con Phil, ma per quanto riguarda le ragazze sto facendo il possibile per mantenere un certo equilibrio, in casa. Voglio solo che lei ottenga i risultati che merita.»

«Credimi, Anna, se c'è qualcuno che sa come sia facile mandare a monte gli A-levels, quel qualcuno sono io», affermò Michelle, tesa.

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«Becca non li manderà a monte», dichiarò Anna. «Credo solo che potresti parlare con Owen, assicurarti che se ne renda conto. È andato all'università, no?»

Michelle alzò le mani. «D'accordo. Comincerò a passare più spesso nell'appartamento», disse. «E, se vuoi, ti darò le chiavi perché tu possa… fare qualche visita a sorpresa per ritirare della merce? Andare là negli orari più da scopata? Dovrei cercare di procurarmi una tabella oraria? Almeno questa faccenda con Sarah farà loro capire come sia concreto il rischio di un bambino e quale immane casino possa scatenare. Francamente non riesco a pensare a nulla che possa togliermi la voglia di fare sesso imprudente con il mio ragazzo più del pensiero della mia madre quarantenne che lo fa.»

Il viso di Anna espresse orrore, poi stanchezza. «Dio. Lo spero tanto.»

«Comunque, se lui la porta lassù, almeno questo lo costringe a tenere in ordine. Non ho mai visto così pulita una sua stanza.»

«Becca è molto realista», affermò Anna, come se stesse rassicurando sé stessa. «Oggigiorno i ragazzi sono ben più... blasé, riguardo alle cose, di quanto fossimo noi. Forse parlare è il nuovo sesso. Forse stanno solo facendo appassionate discussioni sull'Unione europea.»

«Le ragazze assennate sono quelle di cui bisogna prendersi più cura.»

A Michelle era sfuggito di bocca e Anna la guardò con aria interrogativa. «In che senso?»

«Nel senso che...» In circostanze normali Michelle avrebbe lasciato perdere, ma per il bene di Becca aggiunse: «Essere assennate può diventare noioso. Ma parlerò di nuovo con Owen. Accennerò esplicitamente al passato di giocatore di rugby di Phil». Prese la borsa. «Ascolta, avvisami se c'è qualcosa che posso fare, per Becca, intendo. Avevo intenzione di darle una gratifica per tutto il lavoro extra che ha svolto per il sito.»

«In realtà», replicò lei, «una cosa ci sarebbe. A fine giugno avrà il ballo studentesco e mi chiedevo se tu avessi qualche contatto nel settore delle auto vistose. Phil si rifiuta di noleggiarle una limousine, dice che non vuole dare l'impressione che lei stia partecipando a un reality.»

«Lascia fare a me», ribatté Michelle, felice che fosse qualcosa di così facile.

«Grazie», disse Anna, e le toccò il braccio.

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Michelle percepì un tepore dolceamaro. Il fatto che stesse notando la piacevolezza di quel momento, soltanto lei e Anna nella loro libreria, era un triste riflesso di come, ultimamente, quei momenti si fossero fatti rari e molto distanziati fra loro.

Anna sperava che il clima cambiasse per rendere meno difficoltoso il ripasso per Chloe e Becca, ma il caldo sembrava aumentare di giorno in giorno. L'incessante ronzio dei ventilatori non contribuiva granché ad alleviare il malumore che già aleggiava sopra casa McQueen, e l'annuncio di Sarah che lei e Jeff si sarebbero sposati durante le vacanze estive, con le ragazze a fare da damigelle d'onore a Las Vegas come parte di una grande vacanza di famiglia, servì solo ad alimentare il fuoco portandolo fino a livelli vulcanici.

«Può andare a quel paese se pensa che io voglia restarmene in piedi lì come qualcosa uscito da un talk show spazzatura a fare da damigella a mia madre incinta», annunciò Chloe durante la cena, gettandosi le nuove extension dietro le spalle così energicamente da colpire Lily in un occhio.

La bambina lanciò un urlo e corse fuori, rovesciando il suo bicchiere e spingendo Pongo a saltare giù dal divano con latrati allarmati.

«Smettila di piangere, frignona che non sei altro!» gridò sprezzantemente Chloe. «Lo fai solo per attirare l'attenzione!»

Anna guardò Phil perché rimproverasse la figlia, ma lui stava già spingendo indietro la sedia e seguendo Lily prima che potesse farlo lei. «Vado io.»

Anna serrò le labbra per l'irritazione. Phil aveva esaurito i modi per affrontare la ribollente rabbia di Chloe e adesso scaricava totalmente su di lei la responsabilità di smorzarla. Nel frattempo insisteva per leggere lui la storia della buonanotte a Lily – l'unica parte gradevole della giornata di Anna – così da consentirle di occuparsi del ripasso di Chloe. Quello che Phil non sapeva era che lei stava concedendo a Chloe un download da iTunes per ogni ora studiata, dal conto del padre.

«Cosa c'è?» chiese la ragazza. «Cosa ho detto che non stiate tutti pensando? È disgustoso.»

«Niente», replicò Becca. «Continua pure così. Ma cominci a far sembrare che sia la mamma quella ragionevole.»

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«Sarà una vacanza fantastica, attraversare la California in auto», disse Anna. Attenersi ai fatti era la sua unica tattica; se rifletteva troppo attentamente sull'ingiustizia dell'insieme rischiava di farsi esplodere la testa. «Avrete tutte bisogno di una pausa, dopo gli esami. E verranno anche i vostri nonni, non sarà carino passare un po' di tempo con loro?»

«Io mi fermo solo la prima settimana», annunciò Becca. Girò una pagina del suo libro e Anna rimase stupita vedendo che era la copia di Scarpette da ballo di Lily. Becca aveva un esame di francese il pomeriggio seguente: avrebbe dovuto essere intenta a leggere ben altro.

«Cosa?» domandò Chloe, alzando un dito. «Impossibile.»

«Posso benissimo farlo. Mi trattengo solo per una settimana. Ho parecchia roba da leggere e devo fare qualche ora extra nella libreria e...»

«Non sopporto di restare lontana da Ooooweeeeen», disse Chloe in tono cantilenante.

«Stai zitta, cicciona... Ahia!»

«Chloe, non dare calci», la ammonì automaticamente Anna. «Non hai otto anni. Becca, non puoi fermarti là solo per una settimana. Tua madre ci rimarrà male.»

«Non si è chiesta se noi ci saremmo restate male, quando è rimasta incinta senza parlarcene», ribatté Chloe con un'altra brusca torsione della testa. «Oppure se avremmo avuto voglia di partecipare al suo imbarazzante matrimonio. Vorrei solo poter lasciare questa topaia per trasferirmi a Londra e... avere una vita vera e propria.»

Anna si chiese se nella testa di Chloe vi fosse un'orchestra completa che erompeva in numeri di canto e ballo ogni qual volta lei faceva dichiarazioni di quel tipo.

«Supera gli A-levels, fra due anni, e potrai andare dove vuoi», disse invece.

«Dovresti proprio leggere questo libro, Chloe», intervenne Becca. «Parla delle alunne di una scuola di spettacolo che si montano la testa. Solo che studiano Shakespeare, sono gentili con i loro saggi e vecchi genitori affidatari e non esigono extension per i capelli né lasciano nella doccia la crema per schiarire i baffetti.»

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«Stai zitta, Becca, non capisci.» Il viso di Chloe era scarlatto; Anna sapeva che lei stava cercando di apparire drammatica ma, sotto l'eyeliner, aveva negli occhi la stessa travolgente stanchezza che esibiva Lily quando la scuola diventava troppo impegnativa. «Nessuno di voi capisce, e io vorrei tanto non dover vivere in questa casa!»

E, con un possente squillo di trombe invisibili, si catapultò anche lei fuori dalla cucina.

La porta dello scantinato sbatté e Becca e Anna si guardarono al di sopra del tavolo. Dopo dieci secondi si udirono le battute iniziali di Toxic, con il volume della Wii alzato al massimo.

«Sta smaltendo la sofferenza ballando», disse Becca. «Proprio come, a questo punto, farà l'attrice che un giorno la interprerà nel film sulla sua vita.»

Anna ricacciò indietro un sorriso. «Quindi siamo a due ragazze fuori gioco. Per cosa ti piacerebbe correre fuori dalla stanza?»

«Io? Sto benissimo», replicò Becca. «Non ho alcun problema con il matrimonio della mamma. Se lei vuole riguardare le foto delle sue nozze e trasalire, sono affari suoi. Solo che non ho intenzione di trattenermi per la luna di miele.»

«Okay, allora rischierò», ribatté Anna con un sospiro. «Hai già detto a tuo padre che andrai al ballo studentesco con Owen? Perché non hai organizzato quella cena, come ti avevo chiesto? Lui vuole sapere cosa sta succedendo.»

Era un meticoloso sfilettare tutt'intorno alla verità.

«Gliel'hai detto?» chiese Becca.

«Gli ho solo dato un nome. Cosa c'è? Ho dovuto farlo, lui ha chiesto di Josh!» protestò Anna. «Non mi piace avere dei segreti in questa casa, con chiunque. Avanti, Becca.»

La ragazza posò il libro, le rivolse un'occhiata colma di rimprovero e poi, senza proferire parola, prese la borsa della scuola e salì al piano di sopra. Pongo uscì furtivamente da sotto il tavolino e la seguì.

“Magnifico”, pensò Anna, rabboccandosi il bicchiere di vino. “Il mio lavoro come genitore qui è concluso.”

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Mentre il matrimonio di Sarah si avvicinava e un esame dopo l'altro veniva cancellato da una crocetta, il clima si fece ancora più torrido, l'irascibilità si accentuò e soltanto Lily parve ignara delle tensioni che si intersecavano al tavolo della cena. Questo perché era persa nel suo piccolo mondo, altra cosa per cui Anna sentiva che avrebbe dovuto preoccuparsi. Alla fine, dopo ore di bronci, lacrime improvvise, attacchi di panico a mezzanotte e innumerevoli tazze di cioccolata calda lasciate ogni sera da Anna davanti alla porta della camera delle due ragazze arrivò e passò il giorno dell'esame finale di Chloe e poi di quello di Becca, e giunse la serata del ballo del diploma di quest'ultima.

Le preoccupazioni di Phil riguardo a Owen affiorarono debitamente soltanto la sera prima.

«È un tipo fidato?» sussurrò lui sovrastando il ronzio del ventilatore elettrico, che invece di rinfrescarli stava spostando l'aria calda intorno al letto. «Ha una sua auto? E di che tipo? Becca c'è salita?»

«L'ossessione per l'auto di Owen dice più su di te che su di lui», sibilò di rimando Anna. «Che tipo di adolescente eri?»

«Un adolescente opportunista con una Mini Clubman. Era la mia arma segreta.» Lui appoggiò la schiena ai cuscini con aria mesta. «La mia bambina. Lascia la scuola. Puoi chiedere a Michelle di dire a Owen di tenere le mani a posto?»

«E come mi consigli di formulare quella richiesta davanti al mio principale, di preciso?» chiese Anna, seccata, e lui si zittì.

Lei rotolò fin sul proprio lato del letto e lui sul suo. La sezione più fresca del letto, pensò Anna mentre tentava di fare uscire il caldo dal suo cuscino sprimacciandolo, era la sempre più ampia trincea al centro.

Va detto a suo credito che, quando Owen bussò alla porta di casa McQueen, interpretava il ruolo dell'accompagnatore «affascinante-ma-affidabile» a un punto tale da rasentare l'autoparodia.

I suoi capelli scuri apparivano più in ordine di quanto Anna li avesse mai visti, benché ancora arruffati, e lui aveva scovato uno smoking di velluto verde foresta che gli conferiva un'eleganza alla James Bond anni Settanta, ben al di là di quella che avrebbero sfoggiato i giovani di Longhampton con indosso il vecchio smoking del padre. Si era rasato e, per quanto un paio di braccialetti di cuoio risultassero ancora visibili sotto i polsini della camicia bianca appena lavata,

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profumava di pulito e di fresco, e trasudava un'ansia che colmò Anna di nostalgia per la sua vita universitaria, quando lo stile di chiunque si mettesse in ghingheri rappresentava una trasformazione da fiaba rispetto al loro look diurno sapientemente trasandato.

Aveva anche portato dei fiori che Becca poteva appuntarsi al vestito, e dei fiori per Anna, che le consegnò con un sorriso impudente.

«Ho ritenuto preferibile andare sul sicuro», spiegò, seguendola in cucina dove lei aveva tenuto in fresco una bottiglia di champagne per brindare a loro. «Michelle mi ha sempre detto che è meglio regalare fiori senza un motivo preciso.»

«Aveva ragione.» Anna lo osservò, sperando che la sorella gli avesse dato anche altri consigli. Owen si stava dimostrando affascinante. Troppo affascinante?

Phil comparve dietro di lei, seguito da Becca, tutt'a un tratto timida e intenta a osservare il viso di Owen per vedere la sua reazione.

Anna sapeva che la ragazza era bellissima nel suo semplice e liscio abito rosso, comprato su eBay e modificato dalla sarta segreta di Michelle, ma l'espressione sul volto di Owen fu meglio di uno specchio. Lui sgranò gli occhi per l'ammirazione ma poi batté in fretta le palpebre, presumibilmente quando notò la reazione di Phil alla sua.

«Sei splendida», disse quietamente, e Becca si illuminò. Anna fu costretta ad asciugarsi una lacrima furtiva.

Preparare Becca aveva rappresentato un pomeriggio felice per Anna e le ragazze, con una miriade di cosmetici e Diet Coke e musica pop e smalto per unghie per tutte. Chloe aveva offerto generosamente in prestito le sue extension di riserva e il blush in perle, ma Becca aveva rifiutato con garbo – senza ferire la sensibilità della sorella minore, una volta tanto – e optato invece per un'eleganza molto semplice. Aveva i lucidi capelli castani raccolti in una crocchia disordinata e portava la collana Tiffany con il ciondolo a forma di cuore regalatale da Phil per il suo diciottesimo compleanno. Si muoveva cautamente con i tacchi alti e l'abito lungo, come se stesse procedendo a tastoni in un lato di sé poco familiare tanto quanto l'abbigliamento, e il cuore di Anna scoppiò di orgoglio quando Becca le chiese se poteva truccarla lei. Stavano condividendo qualcosa di nuovo, loro quattro, e lei trovava commovente farne parte.

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«Ora, Owen», disse Phil mentre Anna distribuiva flûte di champagne. «Ti prenderai cura di lei, vero? Io sono suo padre. Becca potrebbe avere menzionato il sottoscritto e la sua cintura nera in karate.»

«Papaaaà», gemette la ragazza.

Lo sguardo di Owen guizzò nervosamente verso di lei – Anna non lo aveva mai visto nervoso –, ma Becca scosse il capo.

«Ti sta prendendo in giro», disse. «Non ha una cintura nera nemmeno... nei jeans.»

«Bene.» Owen tese una mano. Phil la strinse, e sembrò colto leggermente alla sprovvista dal risoluto entusiasmo della presa del giovane e dalla comparsa di un braccialetto di cuoio. «Non si preoccupi, la riporterò a casa prima che l'auto si trasformi in una zucca.»

«Ossia a che ora?» domandò Phil. «Mezzanotte?»

«Una e mezzo», rispose Becca.

«Una in punto», disse Anna.

«Ma il ballo non finisce prima dell'una...»

«Una in punto», disse Owen, lanciando una rapida occhiata ad Anna.

«Salute! Al tuo primo ballo, Becca!» disse lei, sollevando il suo flûte, ma il momento venne spezzato dall'arrivo di Chloe e Lily, che chiesero a gran voce un loro bicchiere «per provare».

Chloe stava anche cantando My Heart Will Go On, ma con versi piuttosto sospetti.

«Ora, Owen, con che auto la porterai là?» chiese Phil, come se quello fosse l'elemento più importante della serata.

Lo strombazzare di un clacson davanti alla casa impedì a Owen di rispondere.

«Vado io», disse Chloe, anch'ella vestita per uscire, notò all'improvviso Anna.

«Chloe, dove stai...» cominciò a chiedere, ma la ragazza se n'era già andata. Quando Anna lo fissò, il marito evitò di incrociare il suo guardo e lei capì che l'autorizzazione era già stata data. Si irritò: il fatto che Chloe uscisse implicava

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che la si sarebbe dovuta andare a riprendere da qualche parte. Phil avrebbe potuto almeno consultarla, prima.

Owen, Becca, Phil e Anna rimasero in piedi lì a guardarsi, non sapendo bene cosa dire.

«Io ho un ballo studentesco, stasera», annunciò Lily. «È molto esclusivo. Tutti dovevano trovarsi un accompagnatore e Mrs Piggle ne ha due perché non vuole deludere nessuno.» Si rivolse ad Anna. «Va bene che abbia due accompagnatori, vero?»

«Sì», rispose lei. «Magari uno è il suo primo marito. E il secondo è il suo bell'amante.»

Becca rise e trasformò la risata in un colpo di tosse quando Phil la guardò di traverso.

«Oh mio Dio!» strillò Chloe dalla porta d'ingresso. «Dio santissimo, non crederete mai a cosa c'è qua fuori!»

«Che cos'è?» Phil guardò direttamente Owen. «Spero sia qualcosa di adatto...»

«Ha organizzato Michelle i mezzi di trasporto per stasera», spiegò Owen. «Ha detto che offre lei. Ha parlato con papà e lui ha promesso di trovare qualcosa di adeguato, quindi sinceramente non so cosa ci sia là fuori.»

«Spero tanto che non sia una limousine stretch Hummer», affermò cupamente Phil. «O qualcosa con i finestrini oscurati. O con un minibar.»

Fece per prendere il bicchiere di Owen, ma Anna lo bloccò con la massima discrezione possibile.

Chloe tornò di corsa, gli occhi strabuzzati per l'eccitazione. «Anna, devi venire a vedere! Faranno schiattare di invidia tutti gli altri, quando vedranno su cosa viaggiano. Penseranno che sia arrivata Cheryl Cole.»

Owen porse il braccio a Becca e lei lo prese, rivolgendo solo un'occhiata molto fugace al giovane. Anna non poté evitarlo: a dispetto di ogni apprensione nella sua testa, il suo cuore stava gridando che erano una gran bella coppia.

Parcheggiata davanti a casa loro, con il motore in folle che emetteva un rombo roco, c'era una lunga e lucida auto sportiva, verde scuro con sedili rosso sangue. In mezzo alla loro Espace e alla vecchia Land Rover dei vicini sembrava un ghepardo nel parchetto per i cani.

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Anna sentì Phil emettere un fioco verso di bramosia adolescenziale.

«Ti conviene dirmi che cos'è», commentò, «perché non ne ho la minima idea.»

«È una Aston Martin Rapide», disse lui in tono lamentoso. «Non sapevo nemmeno che le si potesse comprare. Pensavo fossero come gli unicorni o simili.»

«Chi c'è al volante?» chiese Chloe mentre la portiera del guidatore si apriva per lasciar scendere un uomo con un berretto. «È, tipo, lo chauffeur?»

«Immagino di sì», rispose Anna. «È una cosa molto responsabile. In questo modo siete liberi di bere, intendo... non troppo, naturalmente...»

«Oh, perfetto!» gridò Owen. «So chi è! Harvey, vecchio burlone!» Raggiunse a grandi passi lo chauffeur con la mano già protesa e gli diede una pacca sulla schiena. «Non riesco a crederci! È davvero gentile da parte tua!»

«Be', ho dato un'occhiata a quello che voleva mandare Charlie e ho pensato: “No, no, no. Non posso permettere che il mio cognato preferito arrivi su qualcosa di meno di una Aston”.» La voce dell'uomo suonò pastosa e sicura, con una punta di accento londinese. Lui si tolse il berretto con un ampio gesto per rivelare una folta capigliatura bionda e un viso affabile, benché con una riga rossa lasciata dal copricapo.

Anna lo fissò, cercando di registrare il maggior numero di dettagli possibile senza dare l'impressione di osservarlo. Quindi quello era Harvey? Non era come se l'era immaginato. Aveva pensato, chissà perché, che fosse magro e famelico, un venditore d'auto con parecchia ambizione e un completo elegante, tutto gergo e sexy mentre parlava di soldi. Quest'uomo somigliava invece a un habitué del club del rugby, il tizio che beve sempre il boccale di birra alto una iarda in meno di due minuti. Non sembrava il tipo d'uomo capace di intimorirti. Non nel modo in cui Michelle sembrava farsi piccina ogni qual volta lo menzionava.

Non riusciva affatto a immaginarlo con Michelle. Eppure per quanto tempo erano rimasti insieme? Sette anni? Questo suscitò in lei la strana, formicolante sensazione di non conoscere l'amica bene come aveva pensato, forse.

Phil la stava guardando con l'espressione: “È lui?” che si cancellò dal viso non appena Owen si voltò, sorridendo.

«Phil, Anna, vi presento Harvey, mio cognato», disse. «Harvey, questi sono Phil, Anna, e la mia bellissima accompagnatrice per stasera, Rebecca.»

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«Ragazzo fortunato! Lieto di conoscervi.» Harvey strinse le varie mani con una presa decisamente troppo energica, il segno distintivo di un venditore d'auto, pensò Anna. «La macchina è mia, a proposito», aggiunse, come se non vi fosse alcun bisogno di spiegazioni. «Voglio bene a questo giovanotto come a un fratello, ma non gli lascerei mai e poi mai guidare la mia Rapide!»

«Perché? È pericoloso, al volante?» si informò Phil.

«No, no. Solo che quell'auto è il mio orgoglio e la mia gioia. Vi andrebbe di fare un giro, più tardi?»

«Be', non abbiamo in programma di uscire...»

L'atteggiamento da padre autorevole di Phil stava avvizzendo molto rapidamente, in presenza dell'auto. Anna gli diede di gomito. «Vogliamo lasciarli andare?» propose. «Comincia a essere tardi.»

«Cosa? Oh, ehm, certo. Tornate entro l'una. Fatemi uno squillo in caso di problemi. E mi riferisco a qualsiasi problema.» Lanciò un'occhiataccia eloquente a Owen, che mostrò il suo sorriso ammaliante e cinse con un braccio il vitino sottile di Becca.

Anche lei sorrise, con il viso sufficientemente radioso anche senza la speciale e costosa cipria compatta prestatale da Anna per la serata. Be', regalata. «Lo faremo. A più tardi.»

«Divertiti», disse Anna. «Te lo sei guadagnato.»

«Grazie.» Becca si piegò in avanti e le diede un bacio sulla guancia che la fece quasi piangere. La ragazza si era guadagnata quella serata, pensò Anna: le ore di ripasso, il lavoro nella libreria, la pazienza dimostrata quando tutti gli altri erano stati una spina nel fianco. Si meritava un momento da Cenerentola.

Chloe e Lily rimasero a guardare mentre la sorella maggiore si allontanava in auto.

«Sembrava una principessa», disse Lily. «Una principessa felice.» Poi girò sui tacchi e corse dentro casa, inseguita da Pongo.

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Capitolo 23

«Da bambina adoravo avere paura e ho letto Christine: la macchina infernale di Stephen King a circa dodici anni (scusami, mamma, ma l'ho fatto). Non dimenticherò mai quel primo sobbalzo da montagne russe nell'avere troppa paura per continuare a leggere senza però riuscire a staccare gli occhi dalla pagina.»

Emer Kelly

Michelle era seduta al tavolo di cucina, circondata dai conti, ma non riusciva a concentrarsi sulle cifre. Stava pensando a Becca e Owen al ballo studentesco, il che stava facendo riaffiorare alcuni ricordi sgraditi.

Quando lo aveva visto quella mattina, Owen era parso nervoso ed eccitato anziché sfoggiare l'atteggiamento spavaldo e vanitoso per lui consueto prima di un appuntamento. Aveva persino chiesto il parere di Michelle sulla propria tenuta e si era fatto tagliare i capelli.

Almeno lui aveva avuto un ballo studentesco. Lei non aveva potuto dargli alcun consiglio, essendosi vista escludere dal proprio. “Spero che si mostri giudizioso”, pensò.

Da qualche parte, a casa dei suoi, c'era un abito da sera bianco con sandali d'argento a fascette coordinati. Provato spesso, mai indossato davvero. In una diversa dimensione, una in cui le cose avevano funzionato nel modo giusto, Michelle ed Ed Pryce avevano avuto la serata romantica da lei meticolosamente programmata nei suoi sogni a occhi aperti, dopo di che avevano cominciato a uscire insieme, erano andati all'università insieme, in seguito erano probabilmente rimasti separati per alcuni anni per poi incontrarsi per caso in un bar di Londra rendendosi conto di essere fatti l'uno per l'altra; si erano sposati, avevano avuto due figli chiamati Ivo e Clare e...

Il campanello suonò e lei sobbalzò, come se potesse trattarsi di Ed.

«Non essere ridicola», si disse ad alta voce. Molto più probabilmente era Rory, che aveva bisogno di un goccio di latte o voleva leggerle il giornale.

Si passò comunque il rossetto sulle labbra per dare l'impressione, quando apriva la porta, di essere diretta in un posto più interessante. Ma la persona che si

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trovò di fronte rappresentò uno shock quasi quanto quello che avrebbe causato Ed Pryce; era Harvey, in completo scuro e berretto con visiera.

«Cosa ci fai qui?» sbottò lei, le mani serrate a pugno.

«Davvero carino», disse Harvey. I suoi occhi scintillarono nella luce della lampada solare appesa alla porta. «Faccio tutta questa strada per portarti fuori a cena e questo è il ringraziamento che ottengo?»

«Non hai fatto più di duecento chilometri solo per portarmi fuori a cena», replicò lei, notando com'era vestito. «Perché hai un berretto in testa?»

«Okay, lo ammetto», disse lui, entrando benché lei non lo avesse invitato a farlo. «Gran bel posticino hai qui, a proposito. Abiti sempre da sola, vero? Ora, stasera ho fatto lo chauffeur, accompagnando il tuo fratellino e la sua ragazza al prom, come credo lo si chiami adesso. Avevo un paio d'ore di tempo da ammazzare, così ho pensato di venire qui, per scoprire se avevi già mangiato. Fare due chiacchiere. Visto che tu sembri così restia a tornare nella grande città.»

Michelle sentì formicolare la pelle quando il massiccio corpo di Harvey sfiorò il fragile ornamento in vetro appeso alla parete. Lui aveva un tono affabile, eppure lei era già tesa. Accantonò che lui non le aveva chiesto se voleva uscire a cena e si concentrò sulla parte del piano di cui era stata informata.

«Ma perché sei venuto tu? Ho chiesto a papà se poteva prestare a Owen la sua E-type per stasera. Gli avrebbe permesso di guidarla fin qui, poi gliela avrei riportata io...»

«Lo so, lo so. Un'idea davvero dolce, ma avanti, Shelly, credo converrai con me che nella superclassifica delle auto la mia Aston Martin batte di parecchie lunghezze la malconcia vecchia Jaguar di tuo padre. Un'intenditrice come te lo sa sicuramente. E ho pensato che potesse farti piacere vederla.»

«Becca non si intende di automobili. Non le sarebbe importato.»

«A tutte le ragazze piace una macchina potente», affermò Harvey con un sorriso lascivo, e lei si sentì male.

Lì non si trattava di Becca o di Owen. Si trattava di sua madre, quella vecchia strega impicciona, che diceva a Harvey: «Ooh, ecco una chance per entrare nelle grazie di Michelle», e lui lo sapeva.

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«Inoltre, lo ammetto, avevo voglia di vedere mia moglie», aggiunse, e sorrise. «È così riprovevole?»

Michelle lo fissò e lottò contro l'impulso di urlare. La cosa doveva finire. Il suo unico desiderio, adesso, era far uscire Harvey da casa sua.

«Prendo il soprabito», disse.

Rory poteva parlare per ore e ore, ma almeno una parte di quanto aveva da dire era interessante, pensò Michelle mentre Harvey ordinava un'altra acqua minerale, chiamando il cameriere durante una delle rare pause nel suo resoconto delle attuali condizioni del mercato delle auto usate nella cerchia periferica londinese. Continuò a cianciare, ignorando i tentativi di Michelle di intervenire, finché lei non rinunciò per osservargli invece i denti. Si era fatto applicare delle faccette di ceramica. Tipico della sua vanità.

La sua voce stentorea, l'orologio d'oro e l'atteggiamento spavaldo di Harvey spiccavano, lì al Ferrari's. Il cameriere si era decisamente ringalluzzito quando gli aveva sentito ordinare un Barolo dalla sezione inferiore della lista dei vini, benché lei fosse l'unica a berlo.

«Allora, come vanno le cose con il tuo negozio?» chiese lui. «O forse dovrei dire “con i tuoi negozi”?»

«Alti e bassi», rispose lei, guardinga. C'era sempre una risposta giusta, con Harvey, e non sempre era quella più ovvia. «Cosa ti ha detto mia madre?»

«Solo che sei talmente indaffarata da non avere tempo per loro. Il che è un vero peccato. Buffo che tu sia finita a occuparti proprio di una libreria. Non ti ho mai vista con un libro in mano, durante tutto il tempo in cui siamo stati sposati», affermò Harvey in tono saputo, come se lei fosse un'analfabeta. «Hai qualcuno che si occupa del vero e proprio versante librario mentre tu ti concentri sulla tinteggiatura delle pareti e simili?»

«No», rispose Michelle. «Sono coinvolta a fondo nella libreria. La direttrice e io la gestiamo insieme. Organizziamo gruppi di lettura, attività locali e incontri con gli autori. Lo trovo molto appagante. È una cosa che giova alla comunità.»

«Buon per te. Buon-per-te. È redditizio, però?»

«Non posso lamentarmi», replicò lei, poi si morsicò il labbro. “Non fornirgli dettagli”, si disse. Era così che lui lavorava, strisciando furtivo fino ai dettagli per immagazzinarli.

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Arrivò la portata principale e Michelle fu felice dell'interruzione. Sentiva i muscoli indolenziti dalla tensione pur non avendo fatto altro che rimanere seduta per mezz'ora sulla sedia elegantemente scomoda. Non notava mai le sedie quando mangiava lì con Anna.

«Si direbbe che tu veda spesso i miei genitori», aggiunse mentre Harvey cominciava a sezionare il pesce, rimuovendone chirurgicamente la carne con un po' troppo gusto.

«Be', qualcuno deve pur farlo.» Lui usò un tono disinvolto, ma diceva palesemente sul serio. «Sai che tuo padre non sta poi così bene?»

«No. Non lo sapevo.» Michelle posò forchetta e coltello. L'appetito era completamente scomparso. «La mamma non l'ha menzionato.»

«Oh, ha fatto qualche check-up. Sono sicuro che Carole non voleva che ti preoccupassi, dal momento che sei così impegnata.» Lui torse la bocca. «In realtà non sono sicuro che Carole sappia tutto. Charlie non vuole che lo riempia di premure.»

«Magari lei vuole riempirlo di premure. Quale genere di check-up?» Il padre le era sembrato un po' stanco, al suo pranzo di compleanno, ma non malato. Più magro del solito, forse. Lei tentò di riesaminare mentalmente quella giornata in cerca di indizi, sentendosi in colpa per non avere notato che qualcosa non andava. «È la sua asma?»

«No, secondo i medici è solo stress. Lui passa ancora sei giorni su sette nella concessionaria. Troppi per un uomo della sua età, ma sai com'è fatto, Shelley. Non riusciamo a tenerlo lontano. Controlla le auto per vedere se ci sono ditate sulla carrozzeria, interviene per soffiarti una vendita ogni volta che può, la vecchia carogna. Tu eri l'unico venditore a cui non rubasse clienti. E soltanto perché non osava frapporsi tra te e una vendita.»

Harvey parlò palesando un sincero affetto per suo padre e Michelle ricambiò il sorriso, colta alla sprovvista dagli sprazzi di bontà d'animo che lui talvolta mostrava.

«Bada bene, nessuno di noi osava farlo», aggiunse. «E questo non c'entrava niente con il tuo essere la figlia del capo.»

«Quindi è per questo che mi hai sposato», scherzò lei. «Per tutelare il tuo obiettivo di vendita.»

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«Quello è stato sicuramente un fattore determinante, insieme alla chiave del bagno per i dirigenti.»

Si interruppe, sembrando di colpo avvilito, e anche Michelle si fermò. L'avvilimento non era una condizione naturale per lui; non si intonava al suo completo e al suo atteggiamento sicuri. Harvey non era del tutto malvagio. Forse lei era solo troppo permalosa. Capitava, quando stavi da sola.

Oppure poteva dipendere dal terzo bicchiere di vino che aveva cominciato a bere.

«Avvisami... se c'è qualcosa che dovrei sapere. Su papà, intendo. So che a te rivela cose che non dice alla mamma, riguardo al lavoro. Con me non ammetterebbe mai che non sta bene. Per lui è come un distintivo d'onore, mai un giorno di malattia.»

«A volte è più facile, quando non sei un parente», dichiarò Harvey. «I tuoi fratelli...»

«Meglio che io non cominci nemmeno a parlare di loro.» Lei alzò gli occhi al cielo. «Be', a parte Owen.»

«Ma lui non diventerà certo un venditore d'auto, giusto?» chiese Harvey. «Non ho mai conosciuto nessuno privo di talento commerciale come lui. Spero tu non l'abbia aggiunto alla tua assicurazione.»

«No», replicò Michelle. «Ho bisogno dell'automobile per lavorare.»

«Cosa guidi, adesso?» Lui sorseggiò la sua acqua e la guardò da sopra il bicchiere, gli occhi azzurri fissi su di lei, attenti, come se fosse la cosa più affascinante nella stanza.

«Una Golf.» Lei non voleva scendere nei dettagli, ma non riuscì a impedirsi di aggiungere: «Motore fsi».

«Ah, la combinazione turbo/supercharger. Interessante.» Lui annuì. «Economica eppure vigorosa nelle marce più basse, con quella spinta extra del turbo in quelle più alte. Non hai avuto nessun problema di ritardo di reazione del turbo?»

«Non è interessante, Harvey», lo interruppe Michelle prima che si lanciasse in un sermone sulla tecnologia dei motori moderni. Tentò di non trovare spassosa

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l'aria stupita che lui assunse vedendosi bloccare così. «Solo per squallidi fanatici delle auto.»

Harvey alzò una mano con fare solenne. «Presente. Mi dichiaro colpevole. E le donne che conoscono la differenza fra un turbo e un supercharger sono il massimo del sexy, dal mio punto di vista.»

Il complimento le echeggiò dentro pur essendo schifosamente falso. Era da così tanto tempo che nessuno flirtava con lei; di solito Michelle stroncava sul nascere qualsiasi cosa del genere. Harvey, però, ignorava ogni segnale di avvertimento.

Lei posò il bicchiere. Si sentiva già vulnerabile. “Stupida”, si disse. “Sei una stupida a trovarlo ancora...”

Non si permise di concludere la frase, nemmeno mentalmente.

«Posso dirti una cosa in confidenza?» mormorò lui.

«Purché non sia nulla di personale.» Lei si accorse di avere usato un tono secco. Strinse con forza lo stelo del bicchiere.

«Tuo padre mi ha fatto una proposta d'affari», spiegò Harvey. Mise in fila le posate, allineando con pignoleria i rebbi della forchetta alla lama del coltello. «I tuoi fratelli non sono interessati alla concessionaria.»

Quello era un dato di fatto. «No», concordò lei.

«E lui è molto ansioso di vederla rimanere in famiglia. Puoi immaginarlo.»

«Sì, certamente. Ma no, non mi va di dirigere una concessionaria auto, se questa è la tua prossima domanda.»

Harvey alzò gli occhi. «Sei il miglior venditore che lui abbia avuto negli ultimi venticinque anni, compreso anche il sottoscritto, Shelley. Credo che tuo padre sarebbe al settimo cielo se tu e io riuscissimo a rilevare l'attività. Un graduale passaggio delle consegne, diciamo, nel corso di alcuni anni.»

«Tu e io?» ripeté Michelle.

Lui annuì. «Tu e io. Siamo una buona squadra. Lo sai. Potremmo raddoppiare i profitti. E questo permetterebbe a tuo padre di rilassarsi andando in pensione, di prendersi un po' cura di sé.»

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Michelle si sentì male e la sua mente cominciò a lavorare a pieno ritmo. I tortuosi modi machiavellici di Harvey erano molto difficili da decifrare. Cosa voleva? Lei o l'attività? Aveva manipolato suo padre inducendolo a fare l'offerta in modo che lei tornasse? Oppure mirava solo ai soldi e aveva bisogno di averla accanto per riuscire nel suo intento?

«E tua madre potrebbe smettere di preoccuparsi per te», aggiunse lui, mancando di decifrare la sua espressione. «Sai come sarebbe felice se noi due ci lasciassimo il passato alle spalle e cominciassimo a darle dei nipotini. Piacerebbe anche a me, se proprio vuoi saperlo.» Le fece l'occhiolino, il viso una maschera di intima affabilità da orsacchiotto. «Avanti, Shelley. Siamo persone adulte. Quando hai fatto un errore puoi ammetterlo, giusto? Ti sei presa un po' di tempo per spiegare le ali. Il negozio è una cosa carina ma non ti sta offrendo le stesse opportunità che ti offrirebbe una rete di concessionarie. Torna a casa.»

All'improvviso Michelle riuscì a raffigurarsi il tutto: Harvey nell'ufficio di suo padre, vestito di un completo ancora più costoso, che dava ordini a tutti; lei a casa in grembiule e assillata dall'idea di perdere i chili di troppo accumulati in gravidanza, «perché detesto vedere che ti lasci andare».

«E quale sarebbe il mio ruolo?» chiese in tono teso. Mettendolo alla prova. «Codirettore? Coproprietaria?»

Il sorriso di Harvey vacillò. «Stai negoziando? La solita vecchia Shelley, eh?»

«Non la solita vecchia Shelley», dichiarò lei. «La nuova Michelle.»

Si umettò le labbra, appellandosi a tutto il suo autocontrollo. Quello non era il momento in cui aveva progettato di farlo, ma doveva decidersi adesso, mentre provava quell'empito di sdegno.

«Era questo lo scopo di tutti i fiori: convincermi a tornare per consentirti di mettere le mani sull'attività di papà?» domandò. «E il trovatello al canile? Quello è stato un colpo basso. Hai adottato un cane sapendo quanto mi manchi Flash?»

Come al solito, Harvey finse che lei lo avesse volutamente frainteso. «Stai parlando di Flash? Volevo che tu tornassi perché sei mia moglie e io ti amo!» ribatté rabbiosamente. «E perché tengo alla tua famiglia, che, a proposito, si preoccupa della tua salute mentale, visto come ti comporti. Gesù, sei incredibile.»

Michelle lo fissò: stava respirando dal naso come un toro.

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Una vocina nella sua testa glielo aveva sussurrato sin dall'inizio che un uomo come Harvey, bello e di successo, avrebbe potuto interessarsi a qualcuno come lei solo a causa della sua famiglia. Non per ciò che lei era.

«Credo sia arrivato il momento di mettere la parola “fine”», affermò, con una voce che non era la sua. «Vorrei avviare le pratiche per il divorzio.»

«Cosa?» L'affabilità scomparve dal viso dell'uomo, sostituita dallo sbalordimento. Un gelido sbalordimento.

«Non intendo tornare, Harvey. È giunto il momento di affrontare la cosa, mentre siamo ancora abbastanza giovani per ricominciare da capo con persone con noi più compatibili.» Le si era azzerata la salivazione.

«Ti stai scopando qualcun altro?»

«No!» Lei si ritrasse davanti alla volgarità del tono di Harvey dopo la sua precedente gentilezza.

Lui si sporse in avanti: «Perché sei ancora mia moglie».

«Continui a ripeterlo.» Michelle sentì riaffiorare l'antica paura, ma si costrinse a proseguire. In quel ristorante era lei quella di zona. Non c'erano camerieri pronti a ignorare qualsiasi comportamento imbarazzante da parte del «buon vecchio Harvey», che lasciava mance così generose ogni qual volta rimandava indietro il piatto della moglie prima che lei avesse avuto il tempo di finire. «Non sono tua moglie ormai da anni. Non c'è niente di vergognoso in un divorzio. Significa solo che ci siamo allontanati. Non è colpa di nessuno. Eravamo troppo giovani.»

Avrebbe voluto aggiungere: “Be', io lo ero”, ma non osò.

Harvey distolse lo sguardo come se non sopportasse di vedere la sua faccia, e lei si chiese se si era spinta troppo in là e l'aveva ferito. Ma poi lui si voltò e disse con cattiveria: «Se pensi che gli uomini faranno la fila davanti alla tua porta per portarti fuori, ti sbagli di grosso. Uomini rispettabili, intendo. Uomini che si preoccupano del tipo di donna con cui stanno».

Michelle trasalì.

«Ci hai riflettuto?» continuò lui. «Hai pensato alla necessità di informarli del tuo passato? Perché sarai costretta a farlo. Dovrai rivivere di nuovo l'intera faccenda, fino all'ultimo dettaglio.»

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«No. È irrilevante. Non c'entra nulla con la persona che sono ora.» Lei si accorse che le tremava la voce e si conficcò le unghie nei palmi.

«Ah, ma non è affatto vero.» Harvey unì le mani, gongolante ora che aveva riassunto il controllo della situazione. «Le donne sono come le auto, Michelle. Hanno una storia di manutenzione a cui gli uomini vogliono dare un'occhiata, prima di comprare. Tagliandi ordinati, tutto controllato. Graziosa e pulita. Chi vuole un macinino che ha fatto parecchia strada? Che è uscito da un'autofficina nascosta in un vicolo?»

Teneva gli occhi fissi nei suoi e lei non li aveva mai visti così crudeli.

«Puoi glissare sui dettagli, se vuoi», continuò lui, senza alcun rimorso, «ma gli uomini se ne accorgono. Riconoscono a un miglio di distanza quelle rappezzate alla bell'e meglio. Ed è questo che sei. A me non dava fastidio perché ti amavo. Ero disposto a passare sopra alla tua follia e ai tuoi sporchi segretucci. Ma qualcun altro lo farà?»

Alzò le mani e le rivolse un freddo e fintamente mesto sorriso. «Ne dubito. Soprattutto alla tua età.»

Passò il cameriere e Michelle, vedendo l'occhiata di approvazione che rivolse loro, immaginò che li considerasse fidanzati. Due persone di bell'aspetto che gustavano una cenetta romantica.

Le sembrava di avere perso per sempre la voglia di mangiare. Di certo non avrebbe più mangiato lì. “Mi spiace, Silvio.”

«Preferirei rimanere sola per il resto della vita che vivere con te», affermò. Non sapeva da dove le arrivasse la forza ma non riusciva a vedere altro che suo padre, che la abbracciava davanti al pub, desiderando che la sua bambina fosse felice, sconcertato dal motivo per cui non lo era. E questo bastardo che gli rifilava panzane fingendo di avere il cuore spezzato. La rese più furiosa di quanto non avessero mai fatto, nel corso degli anni, le sue pungenti battutine che non lasciavano lividi.

Spinse indietro la sedia e lasciò cadere il tovagliolo sul tavolo. «Grazie per la cena. Ora vado a casa.»

«Siediti», le intimò bruscamente lui.

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«No», ribatté Michelle. Lo guardò. Dentro di sé era terrorizzata ma non poteva darlo a vedere. «Lasciami in pace. Ho assunto un ottimo avvocato. Avrai presto sue notizie.»

Lasciò lì la giacca e uscì dal ristorante davanti al quale, una volta tanto, c'era un taxi in attesa di clienti. Non ricominciò a respirare davvero finché non fu a casa, poi corse in giro per l'appartamento, chiudendo a chiave tutte le porte, facendo scorrere il chiavistello delle finestre e tirando tutte le tende fino a raggomitolarsi infine sul divano, formando una palla ben stretta.

“Vorrei che Tavish fosse qui”, pensò. A volte la compagnia silenziosa e incondizionata di un cane era l'unica cosa di cui avevi bisogno.

Anna era stesa sul letto, sveglia, e ascoltava Phil russare a una sessantina di centimetri da lei mentre il ventilatore, ronzando, spostava aria calda e stantia da un lato della stanza all'altro. Non riusciva a dormire. Non assaporava una nottata di sonno decente sin da prima che Sarah annunciasse la sua gravidanza. Se in casa ci fosse stata una camera per gli ospiti, vi sarebbe sgattaiolata furtivamente mentre tutti dormivano, ma persino così le ragazze lo avrebbero notato. Notavano tutto. A una parte di lei non importava, ma il suo lato tenero, materno, non voleva aggiungere un'altra silenziosa preoccupazione sulle spalle già sovraccariche di Lily.

Non riusciva a capire come Phil potesse restarsene sdraiato lì, russando come un rinoceronte con una bronchite cronica, quando Becca e Owen non erano ancora tornati e ormai erano le due. Era stato lui a fare tante storie perché rincasassero all'una ma poi, dopo un bagno caldo, si era appisolato sul letto ascoltando la radio.

Anna si girò su un fianco per guardare la sveglia, sul lato opposto della bocca spalancata di Phil.

Le due e tredici.

“Dovrei chiamare Michelle?” si chiese. “Oppure la polizia? O limitarmi a un'irruzione antelucana nell'appartamento di Owen?”

In alternativa c'era sempre il computer. Si era iscritta a Mumsnet nei cinque giorni durante i quali si era creduta incinta, e da allora non riusciva a staccarsene. Quasi ogni notte, quando tutti gli altri dormivano o erano altrimenti occupati, si sedeva davanti al suo vecchio portatile e faceva una scorpacciata di gravidanze,

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sintomi, figliastri di altre persone, talvolta dibattendo con una voce che non era la sua, dietro il sicuro paravento del suo username.

Sapeva che non era sano, ma quello era l'unico posto in cui poteva confessare quanto pensava al bambino che la aspettava e come si infuriava con ogni ciclo mestruale che arrivava e se ne andava, segno di un altro ovulo sprecato.

Mentre passava mentalmente in rassegna le varie possibilità sentì un rumore all'esterno e scivolò giù dal letto per vedere di cosa si trattasse.

Un minitaxi – probabilmente senza licenza, “Oh, Becca” – si stava staccando dal cordolo davanti alla casa mentre Owen e Becca erano fermi accanto alla cassetta della posta, a baciarsi.

Lei trattenne il fiato. Erano bellissimi nel chiarore lunare, sembravano usciti da un film, ignari della loro levigatezza giovanile, della morbidezza dei loro visi. Becca portava la giacca di velluto di Owen sopra l'abito lungo e i capelli le si erano sfilati dalla crocchia, coprendole la schiena e scintillando come acqua. Lui si era slacciato il papillon e alcuni bottoni della camicia e aveva fra i capelli i coriandoli di qualche festeggiamento finale. Si baciarono in maniera lenta, reverenziale – più romantica del sordido limonare di fine serata –, poi Owen si ritrasse per guardare Becca negli occhi, sorridendo come se non riuscisse a credere alla propria fortuna.

Anna scostò leggermente il viso dalla finestra della camera per paura che potessero vederla, ma non riuscì a staccare gli occhi dalla scena.

Con un gesto cavalleresco, Owen sollevò bene in alto la mano destra di Becca, le fece scivolare un braccio intorno alla vita e in silenzio, a ritmo con una melodia che forse si stavano canticchiando a bocca chiusa, cominciarono a ballare un valzer lento e sinuoso sul marciapiede deserto. Becca reclinò la testa all'indietro, i capelli che scendevano a formare una cortina lucida, e sorrise verso le stelle, gli occhi chiusi, ebbra ed estasiata dall'amore.

Poi Owen si piegò in avanti a baciarle la lunga gola bianca, e lei lasciò ricadere la tendina.

Si sentiva strana: in colpa per avere spiato ma felice e invidiosa e malinconica, tutto contemporaneamente.

A letto, Phil emise un possente grugnito e si girò su un fianco.

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Anna lo osservò per un lungo, lunghissimo istante, poi scese al piano di sotto, accendendo tutte le luci perché Becca sapesse che qualcuno l'aveva aspettata in piedi.

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Capitolo 24

«Piccole donne fornisce un quadro accurato di cosa significhi avere delle sorelle: possono esasperarti, sgraffignarti i tuoi guanti migliori e farti desiderare di poterle scambiare con un fratello. Ma alla fine le ami più di qualsiasi altra cosa. Persino se sono un'autentica scocciatura.»

Chloe McQueen

Né Becca né Chloe scrissero giorno dei risultati sul calendario della cucina, ma l'intera casa sapeva esattamente quando dovevano arrivare.

I risultati di Becca sarebbero giunti per primi, la terza settimana di agosto, quelli di Chloe la settimana successiva. Con cocente delusione di Chloe, il giorno fissato per l'annuncio degli esiti delle sue prove loro tre si sarebbero trovate a Las Vegas per il matrimonio di Sarah, il che «mandava completamente a monte» il piano suo e di Tyra per far apparire tutte e quattro le Apricotz sulla «Longhampton Gazette» mentre spiccavano un fotogenico salto verso l'alto sventolando le rispettive buste.

«Se la squadra delle cheerleader finisce sul giornale al posto nostro non rivolgerò più la parola a Paige», disse imbronciata quando la reietta delle Apricotz rivelò via Facebook il suo piano di contrattacco.

La mattina in cui dovevano arrivare i risultati di Becca, Anna si trascinò fino alla libreria come al solito, pur dovendo fare appello a tutto il suo autocontrollo per non rimanere a casa in attesa di notizie. Lei e Phil avevano concordato di tenere tutto il più sotto tono possibile, a dispetto dei loro nervi sfrigolanti; persino Sarah aveva accettato di aspettare che Becca la contattasse via Skype.

Becca ostentò una totale nonchalance facendo tranquillamente colazione mentre Anna e Phil spiluccavano nervosamente pane tostato e caffè, prima di dirigersi da sola verso la scuola.

Stava ancora cercando di sembrare disinvolta quando, subito prima di pranzo, aprì la porta della libreria, ma gli occhi brillanti la tradirono.

«Allora?» chiese Anna con voce stridula, non riuscendo a trattenersi.

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La ragazza sorrise e le passò il foglio. Aveva preso il massimo dei voti in tutte le materie. L'insegnante che coordinava la classe le aveva persino incollato scherzosamente una stellina d'oro sul modulo. Becca ce l'aveva fatta. Sarebbe andata a Cambridge.

«Sono così fiera di te!» boccheggiò Anna, abbracciandola di scatto. «Così fiera!»

«Sei la prima persona a cui lo dico.» La voce di Becca suonò smorzata contro il suo collo. «Ho pensato che, sai, dopo tutto quello che hai fatto quest'anno...»

Non concluse la frase, ma Anna capì. Era una cosa minuscola, e per lei significava moltissimo.

«Grazie.» Strinse più forte Becca, tentando di non piangere in maniera troppo evidente. «Non dimenticherò mai questa giornata.»

La campanella della porta tintinnò e Michelle infilò dentro la testa, le sopracciglia inarcate in una domanda garbata. Nascondeva qualcosa dietro la schiena e quando vide le lacrime di felicità di Anna fece un gran sorriso e mostrò una bottiglia di champagne. «Quindi è okay aprire questa?»

Anna annuì, con la vista annebbiata, e Michelle fece cenno a qualcuno che non si vedeva. Owen, Kelsey e Gillian entrarono in fila indiana con bicchieri e sparacoriandoli, accompagnati da Tavish che aveva del filo argentato natalizio intorno al collare.

Mentre il pomeriggio passava e i clienti regolari si univano ai festeggiamenti – tutti volevano bene a Becca – Anna si sentì pervadere da un senso di calore che non aveva nulla a che fare con la bottiglia di champagne di Michelle, capace di riempirsi magicamente. Chloe era tornata dalla sua spedizione di shopping con una lozione abbronzante graduale in vista del matrimonio e stava sfogliando un annuario vintage della rivista Jackie commentando con sbuffate sprezzanti la moda del passato. Lily era sotto il tavolo con Tavish mentre Becca, appollaiata sul ginocchio di Owen, era rischiarata dall'interno da una frivolezza che rendeva Anna nostalgica e protettiva in egual misura.

Incrociò lo sguardo di Michelle e le due si scambiarono un cauto sorriso, il primo vero sorriso che condividessero da giorni. Addirittura da settimane. Quello di Anna si ampliò. Forse sarebbe andato tutto bene.

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I risultati delle prove di Chloe arrivarono la settimana seguente, mentre lei faceva da damigella d'onore alla madre sfoggiando un vestito da ballo studentesco di un rosa acceso con sotto del tulle verde menta e, sul bicipite destro, dei falsi tatuaggi a forma di ancora a fare da pugno in un occhio.

Non era certo l'abito più bello che Anna avesse mai visto. Persino Phil aveva faticato a trovare qualcosa di positivo da dire al riguardo, e di solito si poteva sempre contare su di lui per un complimento insincero. Chloe si era quasi rifiutata di metterlo, sostenendo che quei vestiti le facevano sembrare tutte e tre delle bomboniere pacchiane, ma visto che l'intero matrimonio di Sarah era imperniato sul tema Elvis Presley Anna tentò di convincerla che sarebbe potuta andare molto peggio. Non erano previsti ciuffi a banana. Il tatuaggio sarebbe venuto via con l'acqua.

Chloe portava ancora il vestito da bomboniera quando si collegò via Skype per la grande rivelazione dei risultati, che lei stava facendo sembrare una finale di X Factor. Lily e Becca erano visibili sullo sfondo – o almeno, ondulazioni di altro satin rosa continuavano a muoversi dietro Chloe – e Sarah e Jeff guizzavano dentro e fuori dall'inquadratura.

Anna riuscì a scorgere il pancione di Sarah, fasciato da un abito da sposa in pizzo con spalline sottili. Una sgradita invidia le pizzicò il cuore, soprattutto visto che Sarah sembrava non aver accumulato nemmeno un grammo di grasso sulle gambe tonificate dalla palestra. Le sue scarpe con il tacco, notò Anna, vantavano le imprescindibili suole rosse e sembravano rendere quasi impossibile la deambulazione.

«Sembra una mela caramellata appiccicata a un fazzolettino di carta», sussurrò Phil, passandole la busta che conteneva i risultati. Era andato a ritirarla a scuola e, come promesso a Chloe, non l'aveva aperta.

Anna sorrise, grata per la solidarietà, ma meno grata per non avergli sentito dire: «Presto verrà il tuo turno, tesoro». Ormai lui non parlava nemmeno di bambini, e sembrava che Longhampton fosse appena stata teatro di un perfido baby boom, proprio mentre il desiderio di un figlio di Anna raggiungeva nuove vette. Lei aveva cominciato a addurre pretesti per andare a controllare in magazzino quando le «mammine Malory Towers» andavano in libreria a parlare di Enid Blyton perché non riusciva a nascondere l'improvvisa marea di disperazione e tristezza che la travolgeva. Persino Michelle se n'era accorta, e negli ultimi tempi Michelle era così stranamente preoccupata da notare a stento quando lei arrivava in ritardo.

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«Cosa?» gridò Chloe nel portatile. «Cos'ha detto papà?»

«Niente. Bene, sei pronta?»

Lei aveva insistito affinché fosse Anna a leggere i risultati, non al fine di ricompensarla educatamente per gli aiuti forniti con il ripasso e la cioccolata calda d'emergenza, ma perché aveva «meno probabilità di andare su tutte le furie, rispetto a papà».

«Oddio, adesso sono davvero nervosa.» Si portò una mano alla bocca, rivelando unghie finte color fucsia. «Non voglio saperlo. Non voglio saperlo. Avete prenotato una bella vacanza senza di noi?» chiese, prolungando la suspense come una vera professionista. «Non vedete l'ora di partire?»

«Sì», mentì Anna. Come da istruzioni di Phil, aveva sforato il budget e prenotato una settimana alle Maldive; l'indomani mattina avrebbero raggiunto in aereo un albergo di lusso, probabilmente pieno di coppiette in luna di miele. Quando lo aveva informato, lui non si era nemmeno curato di alzare gli occhi dal cellulare, limitandosi a un grugnito. Quello che lei aspettava davvero con ansia era la possibilità di leggere i sette libri messi in valigia, nessuno dei quali era un romanzo d'amore.

«Non lasciarci in sospeso così», disse la voce di Sarah, fuori campo. «Non posso continuare a tenere le dita incrociate ancora a lungo. Mi si stanno staccando le unghie finte.»

«Stai zitta, mamma», gemette Chloe. «Qui si decide solo della mia intera vita! Credo che dovrebbe esserci della musica... musica d'atmosfera, magari.»

«Dan dan dan dan dan dan», intonò Phil, sul tema musicale dello Squalo. «Dan dan dan dan dan dan.»

«Okay, ecco qui», disse Anna. «I risultati di Chloe McQueen sono arrivati e...» Spiegò il foglio ed ebbe un tuffo al cuore.

Phil guardò da sopra la spalla della moglie e la sua brusca inspirazione fu molto eloquente. Chloe aprì gli occhi di scatto.

«Bene», si affrettò ad aggiungere Anna, «hai preso una b in teatro!»

«Hanno sbagliato il voto», replicò Phil. «Non può aver preso solo b. È impossibile.»

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«... e una b in letteratura inglese. E c in francese. E d in musica, e in inglese, e in storia...»

La smorfia orripilata di Chloe si accentuava con ogni sua parola e ormai lei appariva decisamente sconvolta.

“Perché sono io a dover dare le brutte notizie?” pensò Anna, impotente. “Non è compito di Phil?” Ma ormai era troppo tardi. Doveva proseguire.

«E una e in matematica e una in tedesco. Quanto a scienze... insufficiente.» Piegò il foglio.

«Dev'esserci un errore, faremo riassegnare i voti, Chloe», disse la voce di Sarah, e Anna vide la ragazza voltarsi e correre fuori dalla stanza. Le gambe di Sarah la seguirono.

Becca comparve nello spazio vuoto lasciato dalla sorella. Aveva i capelli acconciati in un enorme alveare cotonato e l'eyeliner nero dal tratto finale arcuato riusciva solo a farle sembrare più cinici gli occhi. «Tanto perché lo sappiate, torno a casa dopodomani. Non preoccupatevi di venirmi a prendere all'aeroporto, passerà Owen.»

«Ciao, Anna!» Il viso di Lily si infilò lateralmente nell'inquadratura. «Ciao, papà! Sto per farmi fare i capelli metà bianchi e metà neri, come Crudelia de Mon! La mamma mi porta dalla sua parrucchiera! E mi sono fatta i buchi nelle orecchieeee!»

Anna guardò Phil e capì, prima ancora che lui aprisse bocca, che non aveva niente di utile da dire.

Sin dalla sua cena con Harvey, Michelle aveva ancora più difficoltà a dormire, pur avendo rifornito la sua camera con parte della nuova biancheria da letto, trasformandola in un'oasi di calma e serenità di un bianco latte.

Non era soltanto il caldo a scombussolarla. Da diversi giorni Anna arrivava in libreria con le borse sotto gli occhi e rifiutava di dire quale fosse il problema. Michelle sapeva che doveva trattarsi di una questione di famiglia e la addolorava che l'amica non la ritenesse in grado di capire. Le loro chiacchierate sembravano diventare ogni giorno più brevi e orientate sul lavoro, e lei si sentiva irrazionalmente gelosa dell'imprecisata persona con cui Anna si stava confidando adesso.

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Inoltre c'era la libreria. Anna aveva esibito una sorprendente nuova ondata di sicurezza riguardo alla sua campagna «classici da ombrellone», ma con la maggior parte degli abitanti della zona in vacanza o impegnati a tagliare le spese era una battaglia persa in partenza e a Michelle riusciva difficile trovare dei validi motivi per proseguire. Sapeva che avrebbe dovuto ascoltare il suo audiolibro di Jilly Cooper così che potessero farsi intervistare dal giornale sulle loro «letture estive», ma l'istinto le stava dicendo di smetterla di risistemare le sedie a sdraio sul Titanic: bisognava chiamare il Carpathia il prima possibile.

Tavish aveva perso interesse per il cibo. Lei aveva provato con ogni genere di leccornia tentatrice, ma lui mangiava pochissimo e sembrava imbronciato, nei limiti in cui poteva sembrarlo un cane simile a una spazzola da lavaggio auto nera. Rory non aveva menzionato la cosa, quindi o non l'aveva notata o Tavish preferiva vivere con lui, il che sarebbe stata davvero l'ultima goccia.

E Harvey. Dio. Si era quietato, il che non significava niente. Indicava solo che lui stava riflettendo. Non si sarebbe arreso, Michelle lo sapeva. Stava aspettando che lei tenesse fede alla sua minaccia e spedisse i documenti. Cosa avrebbe scatenato, facendolo? Lui cosa avrebbe detto a suo padre? Fin dove si sarebbe spinto?

Harvey aveva fatto affiorare anche altre riflessioni più cupe, su di lei e su ciò che era. Lui aveva ragione nel dire che nessuno la conosceva davvero. Nemmeno Anna, non fino in fondo. Michelle era stata così meticolosa nel costruirsi una nuova vita, nel ristrutturare sé stessa proprio come aveva ristrutturato la sua casa e il suo negozio, che a volte se ne dimenticava persino lei. La ricomparsa dell'uomo aveva smosso gli strati di polvere e adesso le si stava agitando dentro qualcosa che la spaventava.

La sua mente girò intorno al pensiero più terribile, poi lo tastò, esitante. Come poteva avere provato ancora quel barlume di attrazione per lui, quando Harvey la guardava in quel modo? Odiava Harvey, ma lui la conosceva. E la voleva ancora.

L'unica piccola consolazione era che suo padre non era malato. Per quanto lei potesse stabilire, comunque. Una mattina era salita in macchina e aveva fatto una visita a sorpresa ai suoi, scovandoli da soli prima che Harvey potesse captare l'odore della sua presenza. Quando sua madre era andata a rispondere alla telefonata di uno dei suoi fratelli, Michelle aveva chiesto al padre, in maniera indiretta, cosa avesse fatto ultimamente, come si sentisse; lui era parso stupito e le aveva parlato della giornata all'autodromo che stava progettando per il suo compleanno. Non sembrava certo un'iniziativa da un uomo «fragile».

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Cosa più rilevante, quando Michelle aveva portato la conversazione sul lavoro, il padre non aveva accennato alla prospettiva che lei e Harvey rilevassero la rete di concessionarie. Il pensiero che Harvey, oltre a lei, manipolasse suo padre, che si fidava del genero, la colmava di rabbia e senso di nausea. Fissò la rosa di stucco perfettamente intonacata sul soffitto sopra il letto. Erano le cinque passate. Ormai non avrebbe più chiuso occhio.

“Cosa posso fare di concreto, nelle prossime ore?” pensò.

“Quando sei preda del dubbio, corri.”

Michelle accese l'iPod e uscì di casa; costeggiò il canale, acquisendo cautamente il consueto ritmo nella corsa mentre il cuore cominciava a martellarle nel petto. Correre la faceva sentire meglio, maggiormente legata alle cose. Si rese conto che quello poteva essere il momento adatto per ascoltare l'audiolibro per la sua intervista insieme ad Anna e premette l'interruttore senza rallentare il passo.

All'inizio non ascoltò propriamente, sperando che le parole le penetrassero nel subconscio da sole ma, mentre lasciava le frecce gialle del sentiero pedonale lungo il fiume e risaliva le vie dei poeti puntando verso il centro, la storia cominciò ad attirare la sua attenzione e il suo cervello si concentrò.

I nomi le suonarono familiari come quelli di amici sul suo vecchio registro scolastico. Rupert Campbell-Black. Jake Lovell. Helen. Con la comparsa di ogni personaggio, che acquistava gradualmente nitidezza nella sua testa, cominciò ad avere bizzarri flashback della scuola, dei posti in cui si era trovata quando aveva letto Passione e quei personaggi erano entrati per la prima volta nella sua immaginazione, con i loro calzoni da equitazione, i jack russell e la loro bocca crudele che lasciava segni sulle ragazze mediante baci dal vago sentore di Marlboro.

Non ripensava mai alla sua vita passata, che però adesso la riassalì con dettagli perfettamente nitidi.

La biblioteca. Nella mente le balenò un improvviso ricordo quasi sensoriale del profumo fresco, di vegetazione, che d'estate aleggiava nella biblioteca scolastica dai pannelli di quercia, dove lei aveva letto qualche capitolo illecito quando invece avrebbe dovuto ripassare. La fragranza troppo dolce dei gigli tigrati posti nella nicchia gotica sopra il suo posto consueto. Nel momento in cui la voce del narratore descrisse carezzevole i fianchi del cavallo di Rupert, e poi quelli di quest'ultimo, Michelle risentì il profumo dei fiori e seppe dove erano

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seduti i suoi compagni del corso d'inglese, anch'essi nei soliti posti. Ricordò il disorientante ma squisito imbarazzo di leggere qualcosa di tanto sexy mentre era così vicina ad altre persone.

Scosse il capo e perse il ritmo della corsa, rischiando di inciampare sui propri piedi mentre tentava di riprendere il passo.

Ma, ora che stava ascoltando il libro, tutto cominciò a tornarle in mente in due flussi paralleli: la vicenda con le sue appassionate infatuazioni e i suoi colpi di scena, e struggenti triangoli amorosi e cavalli sudati, e il ricordo di quando l'aveva letta per la prima volta, in un luogo che aveva spinto talmente in fondo a un recesso del suo cervello da avere quasi dimenticato che era esistito davvero.

Quando raggiunse il parco, deserto a quell'ora della domenica mattina, la narrazione era proseguita implacabilmente e lei non aveva più modo di sfuggirle. Un'onda di emozione la investì, talmente violenta da darle la sensazione di soffocare sotto il peso del proprio bisogno.

“Volevo essere amata in quel modo”, rifletté. “È così che pensavo sarebbe stato, una volta che fossi diventata adulta. Invece non lo è. Non lo è.”

Si fermò incespicando e si aggrappò alla cancellata, fingendosi impegnata ad allungare i tendini del ginocchio ma in realtà chinando la testa per poter ricacciare indietro le lacrime. Si strappò gli auricolari dalle orecchie, ma la voce continuò, nella sua testa; adesso lei ricordava come finisse la storia, e si sentì nel petto il graffiante desiderio di un lieto fine come quello.

Un tempo aveva davvero pensato che l'amore si trovasse giusto dietro l'angolo. Rammentava di avervi creduto, seduta in biblioteca, sicura che quel genere di sentimento allegro, facile, vigoroso stesse per comparire nella sua vita.

Fissò senza vederla la cancellata del parco, la cui vernice nera scrostata rivelava il sottostante ferro vittoriano. Perché non era arrivato? Come aveva fatto lei a compiere trentun anni, sposata e quasi divorziata, senza avere mai provato la passione da ginocchia molli che persino la trasandata e scialba Tory Maxwell aveva assaporato?

Si conosceva abbastanza per sapere quale fosse la risposta. Era perché lei non l'aveva lasciato arrivare. Era più facile tenere tutto a distanza di braccia, sotto controllo, perché la nuova Michelle, la brillante e coriacea Michelle, non era il tipo di ragazza che lasciava che le cose le capitassero, a differenza della tremenda, romantica Tory.

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La vecchia Michelle, la ragazza che era rimasta seduta in biblioteca senza scarpe, leggendo quando avrebbe dovuto ripassare, leggendo quando avrebbe dovuto esercitarsi, leggendo quando avrebbe dovuto ascoltare i buoni consigli invece di credere al facile lieto fine... Quella Michelle lasciava che le cose le succedessero.

Avvertì una stretta al cuore come se una mano invisibile stesse cercando di strizzarlo, prosciugandolo. “Voglio essere amata”, pensò con un'unica, improvvisa e chiara fitta di dolore. “Voglio essere abbracciata. Voglio perdere la testa per qualcuno. Quand'è stata l'ultima volta in cui qualcuno mi ha baciato e io ho provato qualcosa del genere?”

Tredici anni prima. L'ultima volta in cui aveva sentito tutto il corpo farsi leggero per il desiderio risaliva a tredici anni prima. Ed Pryce.

Chinò il capo e lasciò che il dolore sfrecciasse attraverso di lei, tenendosi aggrappata alla cancellata mentre sentiva il petto pulsare. Non sapeva assolutamente da dove arrivasse tutta quella sofferenza, ma aveva il corpo dolorante tanto quanto il cuore, e forti singhiozzi le stavano squassando il petto: erano il genere di violenti singhiozzi da bambino che non sperimentava da anni, il genere di singhiozzi che non cessavano finché il dolore non si esauriva completamente.

Si tirò più vicino alla cancellata, tentando di confondersi con la siepe di bosso potata.

«Stai bene?»

Sentì una mano sulla spalla e si girò di scatto.

Rory, fra tutti i possibili abitanti di Longhampton, era fermo appena dietro di lei, troppo vicino come al solito, con accanto Tavish senza guinzaglio. Il cagnolino sembrava felice di vederla, Rory meno.

Con sua profonda vergogna, Michelle non riuscì a frenare i singulti. «Sto benissimo», singhiozzò, tentando di nascondere il viso.

«No, invece.» Lui la osservò. «Ti sei fatta male? Ti sei stirata un tendine?»

«No!» I singhiozzi resero quasi inintelligibile la parola, ma lei non riusciva a fermarli. Adesso il dolore al petto raddoppiò, con una fitta lacerante.

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«Vuoi che dia un'occhiata?» insistette lui, come se fosse davvero ansioso di esaminare le sue lesioni. «Sono l'addetto al pronto soccorso, al lavoro. Ho seguito un corso per...»

«Vattene», boccheggiò Michelle. «Ti prego!»

Rory indietreggiò di un passo, rendendosi evidentemente conto che stava piangendo e non gemendo per il dolore. Lei sventolò la mano, sperando che lui lo considerasse un invito ad andarsene, e per un attimo pensò che forse Rory l'avrebbe fatto.

Poi lui le tornò accanto e le posò una mano sulla spalla, con una delicatezza che per poco non la fece ricominciare a piangere. «Non stai affatto bene. Ti prego, lascia che ti accompagni a casa.»

Non era un ordine come quello che avrebbe impartito Harvey. Era premura, e per un attimo lei pensò di permettergli di portarla a casa come un cagnolino smarrito. Poi riagguantò la sua dignità.

«Sto benissimo», singhiozzò, e si asciugò il volto con una mano, sbalordita da quanto era bagnato. Inspirò faticosamente, riempiendosi i polmoni. L'unica soluzione era smaltire il tutto correndo, correre lontano da Rory e costringere il suo corpo a cominciare a fare qualcos'altro.

“Correre lontano da te, vuoi dire”, disse una vocina distaccata nella sua testa, ma lei la ignorò, si spinse via dalla cancellata e si avviò nella direzione opposta senza mai voltarsi.

Piangere e correre allo stesso tempo risultò difficile, ma riuscì a distrarla; quando Michelle fece dietrofront tornando verso il canale erano quasi le otto e il suo viso era sufficientemente normale per non destare preoccupazioni nei proprietari di cani usciti di buon'ora che incontrò lungo il tragitto.

Scese lungo Swan's Row correndo lentamente, mettendo in fila le incombenze di un'intera mattinata per cancellare il persistente imbarazzo, e rallentò ancor più quando vide una figura seduta sul gradino davanti alla sua porta.

Rory, e Tavish. Rory stava mangiando un croissant da un sacchetto di carta e Tavish aspettava pazientemente delle briciole. Un ammasso di giornali domenicali era posato al suo fianco, accanto a un sacchetto della Sainsbury's con tutto l'occorrente per la colazione.

«Oddio», disse Michelle con un fil di voce mentre lui si alzava per accoglierla.

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«'giorno», disse Rory, togliendosi scagliette di pastafrolla dai pantaloni con un rapido gesto della mano. «Oggi devo riportare Tavish in anticipo, così ho pensato che potessimo condividere brunch e giornali...»

«Non hai considerato l'eventualità che io preferissi rimanere sola?»

«Cosa potevo fare?» Rory indicò il cagnolino. «Sono ai suoi ordini. Noi due siamo le sue ancelle.»

A malincuore lei infilò una mano sotto la colombaia di terracotta, recuperò la chiave e li fece entrare.

Rory insistette per preparare la colazione mentre lei faceva la doccia, e quando Michelle tornò con dei jeans puliti e i capelli umidi non phonati, il profumo di una tipica colazione inglese stava riempiendo la casa e lui era indaffarato davanti ai fornelli, con uno strofinaccio poggiato su una spalla.

Lei valutò i danni causati alla sua cucina pulita. Rory aveva usato quattro padelle, cinque ciotole e diversi piatti, ed era comunque riuscito a far cadere delle briciole sul piano di lavoro. Tavish era seduto giusto accanto ai suoi piedi, e sfoggiava l'aria colpevole ma trionfante di un cane a cui abbiano dato da mangiare dalle superfici di lavoro di una cucina.

Michelle lo guardò più attentamente e notò che aveva delle briciole fra l'arruffata barbetta nera. «Rory», cominciò a chiedere, «Tavish ha forse...»

«Siediti», disse lui senza voltarsi. «Sto dando l'ultima rifinitura. Il tempismo è essenziale.»

Con riluttanza Michelle si sedette al tavolo e si versò una tazza di tè, poi posò la teiera su un sottopentola e infilò preventivamente dei sottobicchieri sotto le tazze.

«Ecco. Mangia.» Rory le fece scivolare davanti un piatto pieno e ne posò uno di fronte a sé, per poi coprire di salsa di pomodoro e salsa barbecue il suo bacon. «Forza», aggiunse, vedendo che lei non cominciava.

Michelle mangiò un pezzetto di salsiccia e dovette ammettere che lui preparava delle ottime uova strapazzate. Il suo stomaco in subbuglio cominciò a sentirsi meglio man mano che lei mandava giù del bacon.

Quando Rory ebbe svuotato il piatto e lei era a metà del suo, lui spinse indietro la sedia e la osservò con il suo sguardo tranquillo, limpido.

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«Bene, mentre siamo tutti e due qui voglio raccontarti di me ed Esther e Zachary», annunciò.

«Perché?» Michelle continuò a mangiare per celare la sua sorpresa. «Non sono affari miei.»

«Sì che lo sono. Non fai che tranciare giudizi sul mio essere un padre egoista e assente. Non negarlo. Tutte le tue insinuazioni, per esempio che faccio il volontario nella casa di riposo solo per ampliare il mio giro d'affari, il tuo pensare che io non sappia prendermi adeguatamente cura di Tavish...»

«Non è vero.»

Lui inarcò un sopracciglio. «Sì che è vero. Comunque voglio raccontarti tutto, non perché io ami spettegolare o vada in cerca di compassione ma perché non è come credi. Posso capire perché pensi che mi sia comportato un po' da stronzo, ma che tu ci creda o no non è così. Se dopo la mia spiegazione continuerai a considerarmi uno stronzo va benissimo, ma leviamoci di torno il problema.»

Michelle si strinse nelle spalle. La riservatezza di Rory era una delle caratteristiche che più apprezzava di lui: era una strada a doppio senso. Questo cambiava la situazione, e lei non sapeva bene come. «Racconta pure, se ti fa stare meglio.»

Rory si sporse sul tavolo, unendo la punta delle dita, e la guardò negli occhi. «Esther Wiseman è stata la mia prima fidanzata. Era impiegata al tribunale, ci siamo conosciuti quando sono comparso in aula con l'accusa di rapina a mano armata e incendio doloso. No, naturalmente non è vero», aggiunse quando le vide alzare la testa di scatto per lo stupore. «L'ho conosciuta durante una noiosissima mattinata trascorsa a perseguire telespettatori che non avevano pagato il canone, mentre facevo il tirocinio. Abbiamo comprato una casa non lontano da qui, a Milton Road.»

«Le vie dei poeti», commentò lei. «Molto carino.»

«Davvero?» Rory aveva l'aria di non capire dove lei volesse andare a parare, ma proseguì. «Comunque, stavamo insieme da un po' quando Esther ha cominciato a parlare di sposarsi e mettere su famiglia – non necessariamente in quest'ordine –, ma io non mi sentivo pronto. Mi preoccupavo per i soldi, prima volevo essere promosso e avere una casa più grande, le solite cose. Per esempio il cane, lei ne voleva uno ma io non ero sicuro, da cui l'attività di volontario al canile che tu trovi così sinistra. È stata un compromesso. Per farla breve, Esther si

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è stancata di aspettare e alla fine ha avuto una relazione con un nostro amico della squadra di quiz al pub – Adam, un tipo simpatico, mi piaceva – ed è rimasta incinta.»

«Oh», disse Michelle, stupita. Non si era affatto aspettata una storia di quel genere. Aveva immaginato più qualcosa tipo Rory che veniva sorpreso a tradire, anche se più lo conosceva e meno riteneva probabile quell'eventualità.

«Esther ha deciso, visto che aveva trentasette anni, di tenere il bambino, ma non sapeva se fosse di Adam o mio. Questo era un po' un problema, così le ho detto che volevo vendere la casa e mi sono trasferito nell'appartamento sopra la libreria.» Si massaggiò il mento. «Non vado particolarmente fiero di quella parte ma... puoi immaginare che la situazione fosse un po' turbolenta su entrambi i versanti.»

«Da quanto tempo stavate insieme, quando è successo?»

Rory giocherellò con la teiera. «Ehm, da nove anni.»

«Nove anni?» Michelle sgranò gli occhi. «Vivevate insieme da nove anni e tu non sapevi con sicurezza se volevi sposarti oppure no?»

«Lei era libera di troncare con me», sottolineò lui.

«Non sto dicendo che uno qualsiasi di voi due abbia fatto la cosa giusta, ma nove anni...»

Rory mimò il gesto di picchiare un martelletto sul banco. «Entrambi colpevoli. Bam. Il prossimo. È la tua decisione definitiva?»

Lei lo ignorò. «Quindi di chi era? Lui, Zachary, intendo. Chi è il papà?»

«Be', Esther era quasi sicura che fosse di Adam e aveva una relazione con lui quando Zachary è nato, quindi per parecchio tempo si è rifiutata di fare il test del dna. Qualche mese fa, però, abbiamo scoperto che è mio. Ecco il perché delle visite. L'ho visto tre volte, da quando è nato. È molto dolce, come bimbetto. Non sono certo un esperto. Ovviamente.»

Michelle si morsicò il labbro. Soltanto tre volte da quando era nato. Non stupiva che Rory fosse apparso lunatico, il giorno in cui il passeggino era rimasto incastrato; che tipo di giornata era stata quella? Un intero mondo di goffaggine.

«Cosa provi al riguardo?» chiese.

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«Non so bene cos'è previsto che provi, sinceramente», rispose con cautela lui. «Stiamo ancora procedendo a tentoni per scoprire quale sia la cosa giusta da fare.»

Il discorsetto iniziale era sembrato frutto di varie prove, ma le ultime parole suonarono titubanti, come se lui non le avesse mai pronunciate davvero ad alta voce, prima. Rory la guardò come se desiderasse la sua opinione ma fosse restio a chiederla.

Michelle si rese conto che forse lui non aveva nessuno da interpellare, che forse tutto il suo ciondolare nella libreria – parlando della facoltà di legge con Becca, discutendo di storie norvegesi per bambini con Anna – non dipendeva dal desiderio di sfoggiare la sua vasta cultura, bensì dal non avere molti amici. Forse stava cercando di imparare, per osmosi, qualcosa sulle donne e l'essere genitori.

Provò un'improvvisa solidarietà nei suoi confronti. Durante il tempo libero, in jeans e camicia da weekend, Rory non sembrava così di mezza età come con il suo completo infrasettimanale. Sentì un empito di qualcosa, ma lo soffocò all'istante.

«Non puoi fare altro», affermò. Anna non le aveva detto qualcosa di molto simile, quando si erano conosciute? Ossia che stava ancora procedendo a tentoni? «Oggigiorno la maggior parte delle famiglie presenta qualche tipo di complicazione. Questo non significa che tu non possa instaurare un rapporto con Zachary. Più persone che li amano hanno intorno i bambini e meglio è, non è vero?»

«Non lo so», ammise Rory. «Continuo a leggere di come le madri provino questo potente impulso d'amare, quando vedono il figlio. Io ho visto Zachary tre volte. Non sono del tutto sicuro che riuscirei a riconoscerlo, in un confronto all'americana di bimbetti.» Parve mortificato. «Sai, sei l'unica persona al mondo a cui io possa dirlo. È un sacrilegio fare una simile dichiarazione.»

«Grazie», replicò lei. «Quindi sono anch'io un mostro che non ama i bambini? Sto scherzando», aggiunse quando lui cominciò a scusarsi.

Per un attimo rimasero in silenzio.

«Lo rimpiangi?» chiese Michelle. «Avere perso Esther, intendo.»

«No.» Rory sembrava triste ma imburrò un'altra fetta di pane tostato freddo, intingendo il coltello nella marmellata di agrumi. «Credo sapessimo entrambi che

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la cosa aveva fatto il suo corso molto tempo prima che lei avesse la relazione. Nessuno dei due voleva dire basta. Sai, era semplicemente... finita? Esther ha potuto ricominciare da capo e io ho ritenuto preferibile lasciarla andare, e sì, adesso sta con Adam, e sì, sono molto felici, e sì, Zachary lo chiama “papà”.»

«Tu ne sei contento?»

Una lunga pausa. «Non proprio», rispose lentamente Rory. «Be', non lo so. È un gran casino. Non mi piace il casino. Stiamo discutendo di quale potrebbe essere un assegno per il mantenimento adeguato, visto che lei sta per sposare Adam. Credo che le piacerebbe molto fingere che tutto questo non sia mai successo. Non so se fingere che non sia successo sia la cosa più gentile nei confronti di Zachary o se si rivelerebbe invece un errore.»

«Chissà», replicò Michelle. «Ma cosa mi dici di quando avrà ventun anni e scoprirà che il padre se n'è andato senza mai voltarsi indietro? Una simile rivelazione richiede una psicoterapia di alto livello. Suppongo che la cosa migliore che tu possa fare sia mantenere dei rapporti civili. Come quelli fra Anna e Sarah e Sarah e Phil. Be'», rettificò, «nei limiti del possibile. È difficile.»

«Infatti.»

Rory masticò rumorosamente il pane tostato e la guardò con attenzione. «Mi giudichi ancora un bastardo abbandona-neonati?»

«No. Uno incasinato e prepotente, forse.» Lei prese una fetta di pane tostato e la tagliò a metà. «Vuoi che ti dia qualche tipo di assoluzione? Dieci Ave Maria e un romanzo di Dan Brown?»

«Avrei potuto gestire meglio la cosa», ammise Rory. «Avrei dovuto avere il coraggio di troncare la relazione, invece di mettere Esther in una posizione tale da indurci entrambi a un comportamento errato. Ma è come ha detto una volta la mia ex padrona di casa, che Dio l'abbia in gloria: a volte le brave persone fanno cose terribili perché non vogliono commettere un'unica piccola cattiveria. Questo non le trasforma necessariamente in persone malvage in eterno.»

«Verissimo», concordò Michelle. «Anche se suona come una frase che hai pronunciato più di una volta in tribunale.»

«Ah ah. Molto divertente. Allora», ribatté lui, «tocca a te. Cosa ne diresti di raccontarmi la vera storia del tuo divorzio?»

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«Cosa intendi con “la vera storia”?» chiese lei, scossa. «Non ricordo nemmeno di averti detto che sono divorziata.»

Rory sventolò il suo pane tostato con aria sprezzante. «È di dominio pubblico. Non ricordo chi me l'ha detto, se Anna o Rachel. In un certo senso ho immaginato che tu lo avessi fatto scappare con la tua perenne pignoleria riguardo ai cuscini ornamentali e la tua fissazione per le liste, ma tu puoi raccontarmi una storia diversa e confutare così le mie errate convinzioni.»

Michelle aprì la bocca per protestare, poi la richiuse. Era quella l'impressione che dava? Era così che si era sentito Rory, sapendo che lei, Anna e Kelsey stavano discutendo dei suoi problemi con il passeggino?

Lui la stava guardando e Michelle fu tentata di mandarlo al diavolo, ma era appena stato molto sincero con lei. E la sua rabbia nei confronti di Harvey era ancora abbastanza ribollente per soverchiare la vergogna.

Trasse un bel respiro. «Be', non c'è molto da dire. Mi sono sposata molto giovane – troppo giovane, probabilmente – con un uomo che lavorava per mio padre. Contrariamente a te, ho capito piuttosto in fretta che non avevamo molto in comune, e quando ho cominciato a mentire al medico sostenendo di avere nuovamente bisogno di antidepressivi perché era morta mia nonna, mi sono resa conto che forse avrei dovuto andarmene, invece.»

Rory la stava fissando e lei si sentì a disagio. Non si era spiegata bene. Quali parti poteva raccontargli senza rivelare le cose peggiori?

«Harvey mi costrinse a lasciare il lavoro», continuò. «Non gli piaceva che lavorassi perché pensava che tutti i clienti di sesso maschile ci provassero con me, così alla fine ho smesso e sono rimasta a casa. Non si è rivelata la scelta ideale per nessuno dei due, perché non sono tipo da fare la casalinga. Ho cominciato a occuparmi di arredamento perché mi annoiavo. Lui aveva l'abitudine di tornare a casa e mettere in disordine “per darmi qualcosa da fare”. E spostava oggetti durante la notte, dicendo poi scherzosamente che cominciavo a perdere qualche rotella.»

Rory non fiatò. Quegli esempi erano abbastanza terribili? Forse erano solo normali cose da coppia sposata. Lei strinse con forza la tazza. «Aveva anche l'abitudine di pesarmi, cosa che non mi piaceva affatto, considerando che lui era tre volte me. E mi diceva che non desiderava dei figli, poi raccontava ai miei genitori che ero io quella che non voleva perdere la sua snellezza. Quando in

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realtà era lui a non volere che io...» Michelle mandò giù il resto. Troppe informazioni.

«Allora perché l'hai sposato?»

«Sembrava la cosa giusta da fare. Con chiunque altro, Harvey era sempre adorabile.» Lei strinse ancora più forte la tazza; erano cose che non aveva rivelato nemmeno ad Anna, per paura di suscitare la sua pietà a tal punto da non piacerle più. Harvey aveva ragione quando le diceva che la compassione rovina le amicizie. «In più, la mamma voleva un pretesto per organizzare il sontuoso matrimonio regale che lei non aveva avuto a causa di quella che definisce la sua maternità in grembiule scolastico. Ha avuto i miei fratelli maggiori quando aveva solo vent'anni. C'è una notevole differenza d'età fra loro e me e poi Owen.»

«Scusa se te lo dico», ribatté lui, «non voglio sembrarti inopportuno, ma cosa ci faceva una donna indipendente e professionale come te con un bullo manipolatore come quello?»

«Non sono sempre stata indipendente», dichiarò lei. «Quando l'ho conosciuto, Harvey mi ha aiutato a uscire da una grave depressione e credo pensasse di avermi trasformato lui in ciò che ero diventata. Come se gli appartenessi.»

«Quale depressione può valere una cosa del genere?» chiese Rory. Sembrava arrabbiato, per conto di Michelle.

Lei lo guardò al di sopra del tavolo e, senza riflettere, aggiunse: «Sono stata espulsa da scuola a diciassette anni e alla fine ho avuto un crollo nervoso. Ho impiegato anni per rimettermi in sesto, perché mia madre rifiutava di parlarmi, e ho lasciato che succedessero un sacco di cose perché non sapevo più chi ero. Mi ero trasformata da secchiona borghese a emarginata senza futuro. Ho sopportato che Harvey mi controllasse perché tutti continuavano a ripetermi com'ero felice. Pensavo che lo stesse facendo per me. Lo diceva sempre, comunque».

«Cos'ha provocato il tuo crollo nervoso?» chiese Rory.

La mano di Michelle tremò. «Non è questo il punto. Ormai è acqua passata.»

«Be', hai sollevato tu la questione. Era legato al collegio? Non hai superato degli esami? Oppure si trattava di qualcosa a casa?»

«È irrilevante.» Lei cominciò a riordinare il tavolo e Tavish spuntò da sotto la sedia di Rory, sperando palesemente in un pezzetto di pane tostato. «È qualcosa che ho superato e mi sono lasciata alle spalle.»

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Sapeva che lui la stava fissando ma evitò di incrociarne lo sguardo, impilando piatti e raccogliendo briciole.

«Piangi sempre mentre fai jogging?» domandò Rory. «Oppure oggi è successo qualcosa? Ti confesso che sembravi così sconvolta che ho creduto che tu avessi litigato con il tuo ex. Non avevo intenzione di raggiungerti e peggiorare le cose, solo che detestavo pensarti a correre in giro da sola in quelle condizioni.»

Michelle smise di riordinare e affondò la mano fra i capelli, tentando di mandare giù il groppo che le si era formato in gola.

«Non sono propriamente divorziata», disse, «ma lo sarò. Presto.»

Prima che lui potesse ribattere andò in cucina e infilò uno dopo l'altro i piatti nella lavastoviglie. Guardò torva il suo riflesso sul vetro della finestra, tentando di costringersi a vedere la trentunenne dal naso diritto e dalla pelle chiara, indipendente e di successo, ma una Michelle diversa era scappata fuori dallo scatolone di libri scolastici e le stava fluttuando in un angolino della mente come un fantasma finito fuori rotta: una speranzosa teenager con gli occhiali che sognava giocatori di polo. Una versione di lei che esisteva prima di Harvey. Una versione che lui non aveva nemmeno conosciuto.

Vide nel riflesso che Rory la stava ancora osservando, la consueta espressione sicura sostituita dal nervosismo. Lui non riusciva a stabilire se l'aveva turbata o no. Ed era stato molto sincero con lei riguardo a Zachary, nella speranza di scambiare confessioni così da poterla legittimamente consolare. Nel gesto c'era un che di cavalleresco.

Qualcosa che arrivava dal romanzo di Jilly Cooper le echeggiò dentro. Se Rory era davvero la brava persona che sembrava, quello era un motivo in più per non raccontargli tutta la volgare storia. Michelle preferiva che lui si limitasse a compatirla perché aveva sposato un prepotente.

«Il divorzio è difficile, ma rappresenta un nuovo inizio...» cominciò a dire lui.

Lei si voltò. «Non stavo piangendo per quello. Sono anche preoccupata per il negozio», affermò, perché era vero. «Sono preoccupata per la mia migliore amica e la sua famiglia, e per come farò ad accontentare tutti. Sono preoccupata del fatto che tu non sia esattamente l'idiota che pensavo, perché questo significa che il mio rilevatore di idioti va ricalibrato.»

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Rory parve sollevato. «Bene», disse. «Ora devi solo dimostrarmi di non essere la tesissima fanatica del controllo che io penso che tu sia mettendoti seduta a leggere i giornali con me senza raccogliere i cuscini quando li tolgo dal divano.»

Michelle rispose con un sorriso tirato. «Un passo alla volta.»

Dopo l'uscita di Rory lei sfogliò i supplementi domenicali, ma non riusciva a tranquillizzarsi. La sua mente continuava a tornare su Jilly Cooper e sugli scatoloni al piano di sopra. La sua copia originale di Passione si trovava probabilmente là dentro; avrebbe potuto darle una rapida scorsa quel pomeriggio, sarebbe stato più veloce che non aspettare di ascoltare l'audiolibro durante la corsa seguente. Ma anche se una parte di lei desiderava svuotare quegli scatoloni e scoprire cosa contenevano, una parte più grande voleva che scomparissero semplicemente senza che dovesse toccarli di nuovo.

Posò la rivista con un tonfo che svegliò di soprassalto Tavish, acciambellato accanto a lei sul divano. Era assurdo. In fondo erano solo libri. Libri e matite e paccottiglia assortita. Ecco perché non lasciava mai entrare cianfrusaglie in casa sua. Generavano polvere e rimpianti e disordine.

Prima di poter riflettere oltre si costrinse ad alzarsi dal divano e salire nella camera degli ospiti.

Gli scatoloni erano impilati contro il suo armadio, i lembi superiori piegati laddove lei li aveva richiusi in fretta, energicamente. Aprì il primo e cominciò a estrarre i libri che conteneva.

«Sorpresa, sorpresa», disse ad alta voce quando saltò fuori una copia piena di orecchie di Passione, inserita fra Il colore viola e Otello.

Fu l'odore a riassalirla con maggiore violenza, insieme all'ordine esatto in cui erano stati riposti all'epoca i libri, che avevano conservato la stessa disposizione della sua mensola, da sinistra a destra. I suoi volumi odoravano dell'Anaïs Anaïs che la sua compagna di studi Katherine spruzzava generosamente ogni qual volta fumava una sigaretta fuori dalla finestra del bagno, e di caffè.

“Questi potrebbero finire nella libreria”, pensò. “Anna potrebbe venderli come edizioni vintage.”

Ne estrasse tre alla volta, e nel mezzo ce n'era uno dalla rilegatura di tessuto, chiuso da laccetti di cuoio. Quando lo toccò, un altro ricordo le montò nel petto; quello era un oggetto che aveva completamente dimenticato, ma talmente

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familiare che lei si sentì scaraventare all'indietro, in un'epoca diversa, come se non l'avesse mai lasciata.

Lo fissò. Com'era possibile che si trovasse lì? Non se n'era sbarazzata? E, cosa più importante, chi lo aveva infilato in quello scatolone? Suo padre aveva impacchettato tutta quella roba, quando era andato a prenderla? Lo aveva letto? Il pensiero le causò un senso di nausea.

Posò i dizionari che lo circondavano e lo strinse con mani tremanti, rammentando la sensazione di toccare la stoffa indiana a motivi cashmere che lo ricopriva. Il regalo di una compagna di scuola che durante l'estate aveva viaggiato. Pagine fatte a mano, perfette per i tristi sfoghi di angoscia adolescenziale.

Di tutti i libri presenti nello scatolone, era l'unico scritto da lei. “Il mio diario”, pensò. Ancora nascosto fra i volumi sulla sua mensola, il dorso spinto in dentro affinché nessuno lo notasse.

Cominciò a provare un senso di vuoto allo stomaco quando aprì le pagine e vide la sua tondeggiante calligrafia da teenager, l'inchiostro viola, e pur non volendo leggere non riuscì a impedirsi di farlo.

15 settembre

Il mio primo giorno di scuola e mi sembra di essere entrata in una versione maschile di Malory Towers...

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Capitolo 25

«Il mio “misuratore d'amore” aveva parametri assurdamente alti perché avevo letto Uccelli di rovo a dodici anni. Mi innamorai follemente di padre Ralph ma soprattutto dell'idea che un giorno avrei conosciuto qualcuno e il tempo si sarebbe fermato.»

Anna McQueen

I diari di Michelle iniziavano quando lei aveva cominciato a frequentare la Black Monk School al penultimo anno delle superiori e originariamente raccontavano – in maniera piuttosto ossessiva – le routine quotidiane, con quale frequenza lei telefonasse ai genitori, la nostalgia di casa provata da Owen nella scuola preparatoria attigua al suo istituto, poi la conquista da parte di Owen di tutte le compagne del suo anno e via dicendo.

Fino ad allora Michelle aveva frequentato la scuola locale, a Kingston, ma un'improvvisa impennata nell'attività paterna, abbinata alla determinazione di sua madre di ritagliarsi un po' di «tempo per me stessa», aveva significato un avanzamento sociale per lei e Owen. Quest'ultimo, un atleta per natura, si era ambientato in fretta; per Michelle invece era stato più difficile, visto che la scuola accettava ragazze solo nell'ultimo biennio delle superiori, e le sue compagne sembravano molto più donne di mondo di lei, più abili nel reagire alle attenzioni maschili.

L'amore entrò ben presto in scena. Michelle si prese una cotta per Ed Pryce il primo giorno in cui fu incaricata di sorvegliare insieme a lui gli alunni in fila durante la pausa pranzo. La sua calligrafia diventava quasi illeggibile per il timore reverenziale mentre ogni dettaglio della loro conversazione veniva riportato con precisione forense, e le tornò subito in mente tutto: l'odore di patatine bollenti del refettorio e il tanfo stantio di duecento adolescenti maschi che facevano la coda all'esterno. Ed aveva fatto trattenere per punizione due ragazzi del quarto anno che erano stati sfacciati con lei, e il cuore di Michelle era stato conquistato.

“Non ricordavo di essere stata così svenevole”, pensò, scorrendo con lo sguardo le sue infatuate annotazioni su ogni dettaglio dell'«espressione meditabonda» di Ed mentre tentava di tradurre dei testi in francese e sulle sue «magnifiche lunghe ciglia». Non rammentava poi così bene il viso di Ed, solo la

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sensazione provata quando lo guardava in tralice. Ma la fitta metallica di desiderio balzò fuori dalla pagina, e le balenò alla mente il ricordo di pomeriggi trascorsi a masticare una matita e guardare fuori dalla finestra della sua stanza sperando di vedere il lampo di capelli biondi sopra lo steccato che indicava che lui stava andando a trovare qualcuno nel suo pensionato.

Persino nelle liste minuziosamente «teoriche» delle caratteristiche del suo uomo ideale, scritte perché Katherine aveva letto sulla rivista Company che se lo visualizzavi lui compariva nella tua vita, lei descriveva palesemente Ed.

Il mio uomo ideale è alto, probabilmente un giocatore di rugby o di cricket, con capelli biondi e occhi verdi, con un'auto (non una Vauxhall).

Si lasciò ricadere indietro sui talloni mentre il suo penultimo anno di superiori si dipanava in una serie di esami, meschini litigi con le altre ragazze, atroci angosce per il suo peso, trionfi e sconfitte della squadra di rugby di cui Ed Pryce era un membro chiave. Rivivere tutto non risultò traumatico come aveva previsto ritrovando il quaderno, e si ritrovò a sorridere di alcuni dei suoi commenti più maligni.

“Ero così noiosa”, pensò, divertita dall'abitudine di misurarsi quotidianamente le cosce per vedere se la dieta a base di zuppa di cavolo stava funzionando. “E un po' una carognetta.”

Fu colta alla sprovvista da una particolare annotazione, verso la fine del primo anno.

La mamma è di nuovo via durante le vacanze di metà trimestre, quindi Owen e io staremo da Ben a Londra. Non so se papà andrà con lei. Non ne sapeva niente, quando ho telefonato.

Ricordava di essere stata ospite di Ben ed essersi trascinata in giro per il planetario con Owen, ma non rammentava che la cosa fosse dipesa dall'assenza della mamma. Buffo come avesse rimosso quel dettaglio; era un così palese espediente per sbolognare i figli. “Dovrei chiedere chiarimenti a Ben, se soltanto se lo ricorda”, pensò.

“Forza, forza”, si disse, scorrendo infiniti resoconti di malignità in classe per cercare commenti più succosi su Ed Pryce. Non era riuscita a ottenere nemmeno un'unica pomiciata? Ma poi, quando raggiunse la cronaca dell'ultimo anno, le parole cominciarono a farsi più familiari e lei rallentò, provando un'improvvisa apprensione alla bocca dello stomaco quando arrivò al trimestre primaverile.

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15 marzo

Will Taylor organizza una festa dopo gli esami, quindi dobbiamo segnare la data sulla nostra agenda e procurarci tutto l'alcol possibile a metà trimestre, prima degli esami. La si terrà sulla spiaggia o a casa di suo padre, se riusciamo a convincere Danno a lasciarci tutti uscire per il weekend. Ho chiesto a Ed se ci andrà e mi ha detto...

Michelle chiuse il diario di scatto, il viso di colpo in fiamme. Una strana sensazione di déjà vu le riempì la testa, simile al trovarsi in cima alle montagne russe e percepire già la discesa vertiginosa benché non sia ancora iniziata, e si sentì combattuta fra il bisogno di continuare a leggere e quello di scagliare il quaderno talmente lontano da non doverlo guardare mai più.

Lo tenne in mano per un istante e poi, senza nemmeno riflettere, lo ficcò fra il materasso e la base del letto per gli ospiti, dopo di che iniziò a rimettere i libri nello scatolone.

Le onde d'urto dei disastrosi esami di Chloe impiegarono parecchio a disperdersi, in casa McQueen. Chloe era sconvolta ma sprezzante e continuava a sostenere che «tanto valeva» che lasciasse la scuola per diventare una pop star internazionale, a questo punto. Phil era furioso con gli insegnanti, con la commissione d'esame, con Sarah, con sé stesso, con chiunque tranne che con Chloe e Anna. Non osava arrabbiarsi con Anna, visto che lei stentava già così a mantenere il controllo, prevalentemente portando Pongo a fare lunghe passeggiate mentre ascoltava audiolibri. Wonder Woman era stata accantonata, per il momento; non puliva a fondo la casa sin da maggio, e non le importava. Se a Phil questo creava dei problemi, era troppo spaventato per dirlo. Lo stato d'animo generale di Chloe era una furia operistica verso tutto e tutti, inframmezzata da alcune scioccanti esibizioni di malignità che ad Anna ricordavano Evelyn. La scuola non si stava dimostrando comprensiva, in merito ai suoi voti, come tutti avevano sperato nonostante i disperati colloqui di Anna e Phil con il corpo insegnante, e quando il padre e la matrigna convinsero l'istituto ad ammetterla al biennio finale lei li accusò di «spingere la scuola a trattarmi come uno scherzo di natura».

Non aiutava il fatto che i testi adottati nella facoltà di giurisprudenza di Becca si trovassero ora in uno scatolone accanto alle scale che aspettava solo di essere aperto. La stessa Becca era molto taciturna sull'argomento Cambridge, come se non volesse girare il coltello nella piaga della sorella, ma Lily scatenava

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ingenuamente almeno una lite spettacolare al giorno chiedendo se poteva prendere la stanza di Becca quando lei fosse andata «all'università».

La reazione di Phil all'irritante tensione in seno alla sua famiglia consistette nell'ordinare il capanno così a lungo sognato. Arrivò nel giardino lo stesso giorno in cui la madre di Tyra riportò a casa Chloe che ridacchiava istericamente, ubriaca di sidro, e Anna dovette appellarsi a tutta la sua energia per non chiudervisi dentro lei.

Il compleanno di Evelyn a fine agosto rappresentava una dura prova annuale per l'intera famiglia ma soprattutto per Anna, costretta a trovare un regalo oltre che a organizzare un pranzo e fare sentire in colpa le ragazze perché fossero gentili con la nonnina, che festeggiava il proprio genetliaco mostrandosi doppiamente sgarbata con tutti, come godesse di una sorta di speciale impunità.

«Michelle, mi serve il tuo aiuto», annunciò Anna, facendo un salto nel negozio accanto durante una pausa pranzo. «Cosa regali a una settantanovenne che non solo ha già tutto ma odia tutto?»

«Budget?» Michelle smise di sfogliare distrattamente un catalogo. Non sapeva resistere a una sfida-regalo, proprio come Anna non riusciva a resistere alla tentazione di consigliare dei libri.

Lei schiaffò la carta di credito di Phil sul bancone. «Qualunque cifra sia necessaria. Più cinquanta sterline di indennità di rischio per me, visto che dovrò subire io l'urto del sarcasmo quando lei scoprirà di detestare il regalo.»

Michelle rise. «Per quando?»

«Compie gli anni domenica. La portiamo fuori a pranzo, e io devo organizzare quello e il regalo. Ovviamente.»

«E Phil non può farlo perché...»

«Perché Evelyn spaventa più lui di me. Lo incolpa dei voti di Chloe, dell'altezza di Becca e dell'apparecchio di Lily.» Anna alzò gli occhi al cielo. «E l'irascibile vecchia megera non è geneticamente responsabile, in alcun modo, di nulla di tutto ciò.»

«Wow! Non hai più paura di nessuno, vero?»

«No. A quanto pare sono una pessima matrigna, quindi cosa può dirmi che io non sappia già?» disse con noncuranza Anna. «Tanto varrebbe che passassi

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semplicemente il weekend a letto con Lily leggendo Anna dai capelli rossi. Almeno due di noi sarebbero felici, a quel punto. Tre, se lascio salire Pongo.»

«Anna, sai benissimo di non essere una pessima matrigna.»

Lei giocherellò con la carta di credito. «È questa l'impressione che ho. Avrei dovuto controllare meglio Chloe. Avrei dovuto metterla alla prova.»

«Come? È abbastanza grande per capire quando non sta studiando abbastanza. Senti, se tu fossi una matrigna scadente, anche Becca avrebbe fatto fiasco in tutto, vero? Inoltre», aggiunse Michelle, senza tante perifrasi, «abbi la gentilezza di dire a Phil che deve smetterla di comportarsi come se una bocciatura agli esami fosse la fine del mondo. Non è vero, ed è piuttosto offensivo nei confronti di chi tra noi è riuscito a trascinarsi fuori dai bassifondi anche senza una laurea.»

Anna la guardò. «Ottima argomentazione. La menzionerò senz'altro.»

«Grazie», ribatté Michelle. «Ora, cosa ne diresti di un foulard di seta Liberty? Puoi sempre usarlo per strangolare Evelyn, se ti provoca. Un modo molto elegante di andarsene.»

Domenica le ragazze impiegarono ore e ore a prepararsi. Chloe dovette essere trascinata giù dal letto mentre Becca era già sparita a casa di Owen e fu necessario chiamarla. Mentre Phil faceva fare il giro dell'isolato a Pongo per stancarlo, Anna controllò il contenuto del frigo per vedere se dovevano passare dal supermercato, mentre erano fuori.

Sbirciò nelle profondità dell'elettrodomestico e si accigliò. L'ingente ordine della Sainsbury's era arrivato venerdì, come al solito, ma sembrava che lì dentro ci fossero meno cose di quelle che lei ricordava di avere tirato fuori dai sacchetti.

«Chloe, hai mangiato tu il mascarpone?» chiese quando la ragazza entrò come una ventata d'aria, furibonda nel suo unico vestito adatto all'occasione.

«No. Perché sono sempre io a venire accusata delle cose?» Sembrava sdegnata. «È così ingiusto!»

«Non è ingiusto, è una deduzione ragionevole basata sui fatti», replicò Anna. Adottò lo stile da tribunale di Becca, visto che otteneva risultati così immediati con Chloe. «Dove sono finiti i due barattoli di gelato Ben and Jerry's, il weekend scorso?»

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«Neanche quello è giusto!» gridò Chloe. «C'era qui la band! Non ci hai dato abbastanza da mangiare a cena!»

«Bene, su tale base hai mangiato tu il mascarpone?»

«Oddio. È come uno stato di polizia.» Chloe strabuzzò gli occhi e aggiunse, con voce volutamente bassa: «Non so nemmeno cosa sia il mascarpone».

«Una specie di formaggio cremoso bianco. Intendevo preparare un tiramisù per dopo, quindi peggio per te.» Anna la osservò più attentamente. Quella sul suo labbro superiore era la prova di un'abbuffata segreta? Oppure crema schiarente per i baffetti?

Chloe si buttò indietro i capelli. «Non ho la minima idea di cosa tu stia dicendo. Sei sicura che non l'abbia mangiato Pongo? Gli piace il formaggio.»

«Ce n'erano due barattoli interi. E non è rimasta traccia di nessuno dei due.»

«Sei sicura di averli infilati nel sacchetto della spesa? Ultimamente sei stata sottoposta a parecchio stress, Anna. Magari ti stai dimenticando le cose.»

Lei cominciò a informarla che, in tal caso, forse avrebbe dovuto dimenticarsi della sua paghetta, ma Phil entrò rapidamente in cucina, facendo tintinnare con aria ansiosa le chiavi dell'auto.

«Andiamo», disse, sollecitandole a gesti a raggiungere la macchina. «Non voglio fare tardi. Sapete com'è la mamma, quando arriviamo in ritardo.»

«Identica a quando arriviamo in anticipo, solo leggermente più sgarbata?»

Phil e Chloe fissarono Anna. Di solito era lei quella che li rimproverava perché malignavano su Evelyn.

«Anna!» esclamò Chloe in tono ammirato. «Stai facendo una terapia ormonale sostitutiva o altro?»

Phil le rivolse un'occhiata stizzita. «Non siamo così vecchi. Senti, vai a chiamare Lily.»

Anna salì al piano di sopra per scoprire Lily seduta sul letto con Mrs Piggle, Piggy-Jo e un assortimento di altri giocattoli disposti in ordine di altezza. La bambina parve felice di vederla.

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«Anna, Anna», disse. «Stiamo giocando a Malory Towers. Mrs Piggle e Piggy-Jo sono le insegnanti di francese e stanno per espellere qualcuno. A chi dovrebbe toccare? Chi ha l'aria più birichina?»

«Non è un gioco molto carino», commentò lei, pensando con un certo disagio a Michelle.

«Sono molto tristi.» Lily assunse un'aria mesta. «Darrell supplicherà perché possano restare.»

«Molto gentile da parte sua. Una vera amica. Forza, dobbiamo andare. La nonna sta aspettando.» Anna tese la mano.

La bambina la guardò dal letto, circondata dal suo esercito di peluche. «Anna. Ho pensato a te e a papà.»

«Davvero?» Lei cominciò a prendere lo zainetto rosa di Lily: di solito la prospettiva di riempirlo la faceva muovere più in fretta. «Vuoi portare Mrs Piggle fuori a pranzo con noi?»

«Sì. Anna... Sai, quando Becca e Chloe e io andiamo via, ti manchiamo?»

«Certo. Papà dice che la casa è talmente silenziosa che riesce a sentire Pongo...» Anna stava per dire “scoreggiare” ma pronunciò «pensare».

«Sarà molto silenziosa quando noi torneremo a vivere con la mamma, vero? E probabilmente tu ti sentirai sola.»

Anna rimase ferita nel sentirsi rammentare così che, agli occhi di Lily, quella non era davvero la loro casa, ma mentalmente accantonò la questione. «Be', manca ancora un po' di tempo, vero?»

«Penso che dovresti avere un bambino anche tu.»

Lei si immobilizzò, poi si girò lentamente, il cuore che accelerava i battiti. Tentò di mantenere un'espressione perfettamente neutra. «Davvero?»

«Sì. Ti annoierai parecchio, quando Becca, Chloe e io ce ne andremo. Sarai qui da sola con papà. Non avrai nemmeno Pongo da coccolare. È più che giusto.»

Al momento Lily era fissata con il giusto. Quasi tanto quanto Chloe con l'ingiusto.

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«E a te non dispiacerebbe se papà e io avessimo un altro fratellino o una sorellina?» domandò cautamente Anna. «Pensavo fossi un po' turbata dal bambino della tua mamma.»

«Lo ero, ma poi ho pensato che anche lei si sentiva sola, in America senza di noi.» Lily parve compiaciuta della propria logica. «Quindi è stato giusto. Magari potresti avere un maschietto. O un maialino.» Sorrise, l'improvviso sorriso «sole-fra-le-nubi» che faceva vibrare le corde delle ovaie di Anna.

«Be', vedremo», disse lei, e sentì migliorare il suo umore come se qualcuno le avesse depositato un inaspettato milione di sterline sul conto corrente.

Evelyn era già arrivata al ristorante in taxi e aveva deciso che non le piacevano il menu, l'acqua servitale dal cameriere e il tavolo che loro avevano prenotato. Anna lo capì vedendo l'espressione sul suo viso quando vennero accompagnati ai loro posti, ma nemmeno quello riuscì a smorzare il suo buonumore.

«Buon compleanno, Evelyn!» disse, dandole un bacio sulla guancia scavata e sistemando le ragazze intorno a lei.

L'anziana signora la ignorò e focalizzò la sua disapprovazione sul figlio, per prima cosa.

«Philip, sei identico a tuo padre», lo informò. «Lui era sempre in ritardo.»

«Tranne che nel morire», replicò Phil, tentando di cancellare l'imbarazzo con una battuta.

Anna passò il regalo a Lily, visto che lei si stava dimenando per l'eccitazione all'idea di consegnarlo; Michelle era andata in città, non mettendo limiti alla fantasia per quanto riguardava l'impacchettamento del dono.

«Un foulard», disse Evelyn, spingendo da parte carta velina e nastri arricciati. «La prossima volta che salgo sulla mia decappottabile sportiva o pranzo con la principessa Anna mi assicurerò di averlo al collo. L'avete scelto voi, ragazze?»

«No, Anna», rispose Lily, senza cogliere il sarcasmo. «È brava con i colori.»

«Che cosa utile», commentò Evelyn. Ma Anna non vi badò. Aveva qualcosa da abbracciare, dentro di sé, che addolciva qualsiasi goccia di acido Evelyn potesse lanciarle contro quel giorno.

Più tardi quella sera, a letto, Anna si raggomitolò contro la schiena di Phil mentre lui era steso su un fianco a controllare se c'erano e-mail sul suo telefonino.

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«Mi è davvero piaciuto, quel ristorante», disse tutta contenta. «È stato un pranzo piacevole.»

«Sì. Ho trovato la mamma in forma, tutto sommato.»

«Ho parlato con Joyce della sua smemoratezza, l'ultima volta in cui sono salita là per la lettura. Secondo il medico si tratta di semplice stress più che di sintomi di una concreta demenza senile. Cercano di tenerli il più possibile attivi, quindi è contento che lei legga e prenda parte ai successivi dibattiti. È quando smetterà di trattare tutti con cattiveria che dovremo cominciare a preoccuparci, a quanto pare.»

«Bene.»

«A dir poco!»

Phil alzò gli occhi dal cellulare. «Sì, hai ragione, è fantastico. Grazie di avere parlato con Joyce. E di avere comprato il regalo e avere impedito a tutti di attaccare briga, a pranzo.» Sospirò. «Ci siamo tolti il pensiero per un altro anno. Be', fino a Natale.»

«Non c'è di che. Sai cosa mi ha detto oggi Lily?» Anna gli si rannicchiò contro la schiena.

Lui posò il cellulare, tirò su il piumino e spense la luce sul comodino. «Qualcosa sui superpoteri di Mrs Piggle? È questa l'ultima novità che ho saputo io. A volte mi interrogo sulla sua immaginazione. Insomma, è possibile avere troppa fantasia?»

«No!» Lei gli diede una gomitata. «Ha detto che secondo lei dovremmo avere un bambino. Tu e io.»

«Cosa?»

«Hai capito bene.» Anna si allungò in avanti per mordicchiargli scherzosamente una spalla. «Sono andata su a chiamarla e mentre stavamo chiacchierando ha detto: “Credo che tu e papà dovreste avere un bambino, perché sentirai la nostra mancanza quando torniamo a casa”.»

«E tu cosa hai risposto?» Phil non si voltò, ma lei non vi fece caso, troppo assorta nella sua felicità.

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«Ho detto che vedremo. Ho preferito non fare promesse, è ovvio, ma non è una cosa dolce? Lily ha detto di essere rimasta turbata dal bambino di Sarah, all'inizio, ma adesso che ha avuto modo di abituarsi all'idea non vede l'ora che nasca...»

Phil si girò e lei si interruppe quando vide la fosca espressione nei suoi occhi.

«Non riesco a credere che tu l'abbia fatto», sibilò lui.

«Fatto cosa?»

«Mettere le parole in bocca a una bambina. Insomma, Anna, so che desideri un figlio, ma coinvolgere le ragazze è inaccettabile. Assolutamente inaccettabile.»

«Non ho fatto nulla del genere!» Anna lo fissò a occhi socchiusi nella penombra. «E la tua è un'accusa offensiva.»

«Lily sta solo dicendo quello che pensa tu voglia sentire perché teme che la abbandoni anche tu», sussurrò rabbiosamente lui. «Ha otto anni. I soli che dovrebbero parlare dell'opportunità che noi due abbiamo un bambino siamo tu e io. Nessun altro. E di certo non le mie figlie.»

Erano sdraiati vicinissimi e Anna riusciva a sentire l'odore del suo respiro accelerato e rabbioso dal profumo di dentifricio. Una parte di lei sapeva che Phil aveva ragione, ma non aveva costretto Lily a dire nulla. Lui stava usando la cosa come scudo morale per la propria riluttanza.

«Allora parla», lo sollecitò. Si drizzò a sedere e accese la lampada sul comodino, battendo le palpebre a causa della luce. «Avanti. Che ti piaccia o meno, le ragazze si stanno abituando all'idea. Sarah sta mostrando loro le immagini delle ecografie via Skype; e a proposito, come pensi che questo mi faccia sentire?»

«Non è la donna più sensibile del mondo...»

«Dammi un arco di tempo», sussurrò lei, sforzandosi strenuamente di impedirsi di urlare. Sentì il suo folle io bramoso di maternità che contrattava, tentava di tradurre in un linguaggio razionale la sua scomposta emozione. «Sei stato felice di parlare di quattro anni di attesa, quando ci siamo sposati. Okay. Aspetterò un altro po', capisco che per loro sia difficile. Ma quanto? Sei mesi? Un anno?»

Lui rimase raggomitolato dov'era. Non incrociò nemmeno il suo sguardo.

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«Phil? Non mi dispiace aspettare, ma voglio avere la certezza di aspettare qualcosa», disse lei, disperata.

«Non so se posso indicarti dei tempi», affermò lui, rivolto verso il cuscino.

«Cosa? Mai?»

Il silenzio si protrasse e Anna, in preda alla nausea, desiderò di poter tornare indietro nel tempo per iniziare tutto in modo diverso.

«Phil?»

«Non so se posso affrontare di nuovo un neonato», ammise il marito. «Potrebbe essere diverso una volta che le ragazze non saranno più qui a tempo pieno. Non lo so. Ma mi manca il mio spazio. Non voglio altri vent'anni di questo, quando potrei avere più tempo da solo con te. Già così ti vedo a malapena. Rimpiango com'erano le cose prima. Non puoi prenderlo come un complimento?»

«No, non posso», rispose lei. «Quando mi sono sposata l'ho fatto con l'accordo che avremmo messo su famiglia insieme. Ora mi stai dicendo che invece non lo faremo?»

«Non è il momento adatto per parlarne», affermò Phil. «Pranzo con la peggior madre del mondo e tutto il resto...»

Anna diede una manata sul cuscino, non riuscendo a credere alle sue orecchie. «Mi stai dicendo che non posso avere un bambino? Mai?»

«Non... mai. Non lo so. Smettila di essere così egoista!»

«Io?!»

«Sì, tu! Dici di voler essere una madre... be', qui ci sono già tre ragazze che a quanto pare necessitano di più cure parentali di quelle che stanno ricevendo.»

Anna lo fissò. «È la cosa più orribile, ingiusta, irragionevole che mi abbiano mai detto.»

«Buon per te.» Lui si girò su un fianco per non doverla guardare, ma lei sapeva che non stava dormendo bensì fissando il muro.

Aveva una gran voglia di tirargli un pugno, ma Chloe aveva la camera accanto alla loro e il sonno leggero.

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L'umiliazione e la rabbia le ricoprirono di pelle d'oca le braccia nude. Allungò una mano per prendere la vestaglia posata sulla sedia accanto al letto e si alzò. Phil non le chiese nemmeno dove stava andando.

Anna non permise alle lacrime di inondarle il volto finché non fu seduta con Pongo sul divano dove sapeva che nessuno poteva sentirla.

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Capitolo 26

«Winnie the Pooh è tanto affascinante da leggere per gli adulti quanto da ascoltare per i bambini, pur sembrando più pregnante a un orecchio adulto. Le disavventure di Pooh sono un'introduzione divertente ma meditata alla scempiaggine, avidità e misericordia della vita adulta.»

Evelyn McQueen

L'ondata di caldo agostana che aveva proiettato Longhampton in una sgradevole parata di calzoncini e piedi pelosi infilati nei sandali si esaurì in un temporale di due giorni agli inizi di settembre. Tutti i sogni di un'estate indiana – e, per Anna, di leggere Edith Nesbit durante serate tiepide, sotto il pisello odoroso – vennero infradiciati da bui pomeriggi di aria afosa e pioggia battente che appiattiva l'erba e faceva cadere i petali rimasti sui cespugli di rose del parco.

Quando la pioggia cessò, le serate erano già fredde e a lei sembrava che la penombra fosse penetrata nell'anima della cittadina così come dentro le sue finestre e e i tetti che perdevano. Impermeabili e stivali ricomparvero su coloro che portavano a spasso il cane, Pongo rimediò un nuovo cappottino grazie a zia Michelle e gli ombrelli dei clienti sgocciolavano sul pavimento in legno della libreria.

Tutta l'energia di Anna era adesso convogliata sulla libreria, visto che a casa l'atmosfera era tetra e silenziosa. Lei e Phil vi si muovevano come pezzi degli scacchi, accompagnando le ragazze, andandole a riprendere, portando Becca a fare shopping in vista dell'università e Lily alle lezioni di danza, svolgendo il maggior numero possibile di incombenze pur di evitarsi a vicenda. Lei si sentiva come un ingranaggio in una macchina ben oliata: troppo preziosa ai fini dell'adeguato funzionamento del motore McQueen per andarsene, ma invisibile e priva di importanza. In altre parole, in trappola. Non riusciva nemmeno a prendere in considerazione l'eventualità di sconvolgere ulteriormente le ragazze; la sua unica speranza era che Phil cambiasse idea.

Sistemare il negozio, aggiornare il sito web e affiggere agli scaffali le proposte dei clienti riuscivano quasi a compensare la sua tristezza interiore. La piccola comunità intorno alla libreria stava fiorendo, e i clienti regolari aumentavano di settimana in settimana, facendo un salto lì per ritirare la loro «scatola di libri» o

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per ordinare altri bouquet di volumi. Anna imparò a evitare la sezione dedicata ai bambini ogni qual volta il desiderio di maternità minacciava di fagocitarla. E la pioggia rispecchiava perfettamente il suo stato d'animo.

«Questa è la fine del nostro commercio estivo», disse con un sospiro a Michelle, smantellando l'esposizione con la sedia a sdraio che aveva rimpinguato quotidianamente, quando c'era bel tempo. I libri nei secchielli intorno alla sdraio erano stati arraffati, ma erano quasi tutti classici di seconda mano, quindi il margine di profitto non era stato cospicuo.

«Fine dell'estate, inizio dell'inverno», commentò Michelle. «È ora di accendere il caminetto sul retro, credo. Stavo pensando che potremmo cominciare a vendere la cioccolata calda. A meno che esista una bevanda calda legata ai libri che potremmo trasformare nella nostra specialità. Oh, e sgombra uno di quei tavoli per esporre questi.»

Accatastò sul bancone una morbila pila di plaid di ciniglia.

«Cosa sono?» chiese Anna. «Non dovrebbero trovarsi nel negozio accanto?»

«Sono per le ginocchia delle persone», spiegò Michelle, prendendo quello in cima e drappeggiandolo sul lato della poltrona di pelle comparsa all'improvviso. «Accogliente. Alla gente piace l'accogliente. Cioccolata calda, più atmosfera accogliente, più libri. Un sicuro successo.»

«Ma abbiamo già le coperte accanto allo scaffale», sottolineò Anna. «E tu continui a portare sempre più cuscini. E le tazze sull'espositore dei polizieschi... ormai sono più numerose quelle dei libri.»

Lo disse con nonchalance, ma cominciava a preoccuparsi. Ogni giorno, prima che lei arrivasse, Michelle spostava cose al fine di creare altro spazio per oggetti il cui posto legittimo era allo Home Sweet Home, non lì. La parte di accesso al pubblico, in particolare, cominciava a somigliare più a un ampliamento del negozio accanto che a una libreria. Vicino alla vetrina c'era una poltrona foderata di velluto corredata di cartello si prega di non sedersi, che Anna aveva tolto quando l'amica non guardava.

«È così che funziona il commercio. Dobbiamo mantenere alti i margini di profitto.» Mentre parlava, Michelle stava sistemando i plaid, spingendo da parte i libri di Anna per creare spazio. «Sai come sono belle queste coperte. Ne hai una anche tu.»

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«Lo so, sono magnifiche ma... non sono libri. E questa è una libreria!»

«Benissimo. Puoi tenere qui solo dei libri e chiudere il mese prossimo. Vuoi che questo negozio rimanga aperto oppure no?»

Anna rimase sbalordita dal tono brusco di Michelle ma non cedette terreno. «Certo che voglio che resti aperto. Ma se continui a portare altra roba, la gente non penserà più che sia una libreria. Tutti dicono quanto la amano adesso. Possiamo fare altre cose. Possiamo organizzare più promozioni, coinvolgere di nuovo la biblioteca...»

«Ascolta, so quello che faccio.» Michelle sembrava diversa dal solito: suonava tesa e stressata. «Non cominciare con tutte quelle scempiaggini “i libri sono preziosi”. Fai questo lavoro da otto mesi. Io sono nel settore vendite da quando avevo diciannove anni.»

«Si può sapere che problema hai?» sbottò Anna.

Si fissarono, poi Michelle si massaggiò il viso. Sembrava sul punto di piangere. In circostanze normali Anna sarebbe stata la prima a scusarsi, ma quel giorno non voleva farlo. La libreria era la sua creatura e lei l'avrebbe difesa. Era l'unica cosa che le rimaneva, ormai.

«Ho avuto una mattinata orrenda», ammise Michelle. «Avevo appuntamento con il mio avvocato.»

«Rory?»

«No. Il mio vero avvocato.» Michelle si lasciò cadere sulla poltrona si prega di non sedersi. «Ho intenzione di chiedere il divorzio.»

«Hai finalmente avviato le pratiche?» La preoccupazione spazzò via la sua rabbia e lei si accosciò di fianco all'amica. «Brava. Brava, Michelle. Hai preso la decisione giusta.»

Michelle alzò gli occhi, rivelando uno sguardo tormentato. Non somigliava affatto alla sua consueta espressione sicura. Persino i suoi tratti di eyeliner apparivano sotto tono. «Non ho questa impressione. Ho il terrore di cosa farà Harvey quando riceverà la lettera. Temo che dica ai miei genitori che ho avuto un qualche genere di crollo nervoso. Loro gli crederanno.»

«Sei la donna più coraggiosa che conosco», affermò Anna, e diceva sul serio. «E la più coriacea.»

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Michelle riuscì a fare una breve risata mesta. «Be', non sono esattamente la persona che tu pensi che io sia. È quasi tutta apparenza.»

«Non credo proprio», ribatté Anna. La cosa spiegava almeno in parte il malumore dell'amica: se il suo divorzio poteva sfuggire al suo controllo, almeno il suo negozio non doveva farlo. Anna tentò di dimostrarsi ottimista per lei. «Non sarà piacevole, ma finirà tutto nel giro di pochi mesi. A quel punto sarai libera. Concentrati su questo. Non hai figli da smistare, e le proprietà dovrebbero essere abbastanza facili da dividere.»

«Non voglio soldi», dichiarò Michelle.

«Avanti», disse Anna, «qual è la cosa peggiore che lui possa fare?»

Michelle scosse lentamente il capo. «E se ha ragione? Se è davvero l'unico uomo al mondo capace di sopportarmi? E se sto commettendo un madornale errore?»

«Non lo stai commettendo. E se pensi una cosa del genere, allora non sei in te», replicò Anna. «Inoltre mi viene in mente almeno un altro uomo che...»

Michelle alzò una mano. «Non dirlo.»

Anna aveva pensato di raccontarle della lite con Phil, ma quando vide la sua espressione impaurita preferì non farlo. Non tanto perché la sua notizia non era altrettanto brutta, ma perché Michelle non sembrava in grado di ascoltare nient'altro.

Anna si accorse di avere dimenticato a casa il cellulare subito prima di dover andare alla Butterfields per la sua sessione di lettura ad alta voce, così tornò a prenderlo portando con sé Tavish per la sua visita settimanale alle persone anziane.

Il cane aspettò pazientemente in macchina mentre lei correva in cucina a prendere il telefonino. Lì trovò Becca ferma davanti al frigo a mangiare il mascarpone direttamente dal barattolo e a scrutare gli scomparti come per scoprire cosa le sarebbe piaciuto subito dopo, senza curarsi dell'aria fredda che ne stava uscendo.

«Oh, sei tu», disse Anna. «È un vero sollievo. Temevo che Chloe avesse sviluppato un imprecisato disturbo alimentare.»

Becca prese un'aria colpevole. «Cosa te l'ha fatto credere?»

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«A quanto pare non riesco a mantenere pieno il frigo, e sapevo che non si trattava di Lily, di me o di tuo padre. Non credevo fossi tu perché mangi solo fiocchi di latte, così ho dedotto che fosse Chloe. E lei non stava affatto ingrassando, quindi...» Anna si interruppe. Non aveva bisogno di accennare al suo forsennato cercare i sintomi della bulimia su Google o alle spirali di senso di colpa che terminavano con Chloe, attaccata a una flebo in un centro di cura, che la incolpava di non essersi accorta delle sue grida di aiuto a base di latticini. «Non mi dispiace che voi mangiate, solo che quando nessuno ammette di averlo fatto mi chiedo se magari non sto impazzendo e lasciando sacchetti della spesa pieni a marcire dietro il divano o simili.»

Becca abbassò lo sguardo sul barattolo di mascarpone. «Scusami. Non avevo considerato la cosa sotto questo punto di vista.»

«Ci penserai presto, quando dovrai riempirti il frigo da sola», replicò Anna. «Hai già pronto il pennarello per tracciare tacche sul succo d'arancia? Ti piacerebbe avere un tuo bauletto con la chiave? Posso procurartelo.»

«Mi farò prestare quello di Lily.»

Lily stava attraversando una fase Chalet School, ora che aveva chiuso con Malory Towers; fino a quel momento vantava un bauletto, una trousse da toeletta con pezzuola per lavarsi e due bottiglie di birra di zenzero nel frigo che sarebbero rimaste lì per anni, visto che tutti la odiavano.

Becca esitò un attimo, poi riprese a mangiare il mascarpone, infilandosi le cucchiaiate in bocca con una compulsione ritmica, come se non ne sentisse nemmeno il gusto.

«Non stai cercando consolazione nel cibo perché sei infelice, vero?» domandò Anna, con il timore paranoico che Becca avesse notato la freddezza fra lei e Phil. «Se tu lo fossi me lo diresti, vero? È meglio parlare delle cose, Becca. Non tenertele dentro.»

«Non voglio far preoccupare nessuno.»

«Non ci farai preoccupare! Io mi preoccuperò solo se non dici niente!» protestò Anna. «Mi mancherai, lo sai. Sei la voce della ragione, da queste parti. Non canti mai né esprimi le tue più intime riflessioni con il tramite di una maialina di peluche.»

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«Mi mancherai anche tu», replicò Becca. «Posso restare, se vuoi.»

«No, devi andare», dichiarò lei. «Hai lavorato sodo. Ti meriti tutto.»

Becca la guardò con grandi occhi che preannunciavano pioggia. «Anna...»

Lei non aspettò che aggiungesse altro. Spalancò le braccia e la attirò a sé, stringendola forte.

«Andrà tutto bene», asserì, carezzandole i capelli. «Ricordati solo che puoi sempre tornare a casa. È quello che mi ha detto mio padre, quando mi ha accompagnato a Manchester. “Se la situazione si fa troppo tremenda e non riesci più a sopportarla, puoi sempre tornare a casa.” E sai una cosa? La terza sera telefonai a casa per supplicarli di venirmi a riprendere, e lui rispose: “Certo, Annie, verremo durante il weekend”. E sai cosa successe nel weekend?»

«No», ribatté Becca con voce sorda.

«Ero a una festa e mi sono persa il loro arrivo.» Anna la lasciò andare e la guardò negli occhi. «Chiamami se vuoi tornare a casa. Chiamami se hai bisogno di qualsiasi cosa.»

La ragazza sorrise, a labbra serrate.

«Ascolta, sto andando su alla Butterfields per leggere qualcosa a quei cari vecchietti», spiegò Anna. «Ti andrebbe di accompagnarmi?»

«Non proprio.»

«Avanti. Avrai l'occasione di vedere tua nonna prima di partire. E mi piacerebbe sentirti leggere», aggiunse lei. «Una mezz'oretta di relax gioverebbe anche a me.»

«Okay», rispose Becca. «Ma niente libri di testo, per favore.»

Se Anna sperava in un tenero atteggiamento da nonnina da parte di Evelyn, alla vigilia della partenza di Becca per l'università, rimase delusa.

Lei e Becca stavano aspettando nella sala comune, parlando con il signor Quentin che aveva Tavish seduto allegramente sulle sue ginocchie, quando Evelyn raggiunse a grandi passi la sessione di lettura ad alta voce, perlustrò la stanza con lo sguardo e sospirò di delusione vedendo Anna. Riuscì a rivolgere un sorriso gelido a Becca.

«Ciao, Evelyn», disse Anna. «Non hai messo il tuo foulard nuovo?»

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«Quando troverò nel mio armadio qualcosa che gli si intoni, sarà la prima cosa che prenderò», replicò l'anziana signora, fulminandola, poi spostò l'attenzione sulla nipote. «Hai un'aria emaciata», la informò. «Troppe notti a fare le ore piccole?»

«Sto leggendo i testi universitari», spiegò lei. «Ho ancora parecchio da fare, prima di partire.»

«Il troppo studio non ti renderà certo più affascinante. Le sapientone non piacciono a nessuno. Soprattutto non agli uomini.»

«Sbagliato», affermò il signor Quentin dalla sua poltrona. «Non c'è nulla di più interessante di una signora con cui puoi parlare di un buon libro. Tanto meglio se è una sapientona.»

Fece l'occhiolino ad Anna e Becca, che risposero con un sorriso. Lui sembrava sempre ringalluzzirsi quando arrivava Tavish, pensò Anna, come se il suo cane e una storia letta ad alta voce gli rammentassero tempi più felici.

Evelyn inarcò le sopracciglia. «Quel coso rimarrà qui durante la nostra ora letteraria?» domandò, enunciando ogni parola con cura. Le piaceva insinuare che tutti, a parte lei, fossero sordi o dementi. «È igienico tenere animali sopra i mobili?»

«Non è certo più antigienico dell'avere vecchie signore incontinenti in giro per l'edificio», replicò il signor Quentin.

«Si riferisce a me?» cominciò a dire Evelyn, furibonda, ma Anna la interruppe.

«Oggi Becca leggerà per noi», annunciò. «Sarà la sua ultima sessione di lettura prima che vada all'università, quindi sono sicura che vorrete augurarle buona fortuna!»

Vi fu uno scroscio di applausi e mormorii da parte dei residenti lì riuniti, e Becca incurvò timidamente le spalle sotto il peso dell'attenzione generale.

«Cosa vuoi leggere?» chiese Anna.«Credo che non abbiamo richieste, sul registro di Joyce.» Le passò l'antologia che usavano e Becca sfogliò l'indice, poi si fermò.

«Leggerò questo», disse, lanciandole un'occhiata. «Per te. È uno dei tuoi libri preferiti. Piccole donne.»

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Lei si mise comoda sulla poltrona mentre Becca cominciava. Nel leggere sfoggiava una voce sicura, con le lunghe vocali tipiche della zona e un'intonazione sonora. Anna si chiese quanta parte di quelle caratteristiche sarebbe stata ancora presente quando la ragazza fosse tornata da loro, dopo un trimestre.

Becca scelse il capitolo in cui Beth entra di soppiatto nel palazzo delle meraviglie, come i March chiamavano la grande villa dei Laurence, per suonare il piano, uno dei preferiti di Anna. Nella modesta ma talentuosa Beth, con i suoi grandi occhi timidi, c'era qualcosa che le ricordava Lily; lei riusciva a immaginarsi facilmente Lily che suonava per sé stessa in una casa vuota senza notare i domestici che la osservavano in gran segreto.

Immaginava anche il nonno di Laurie che ordinava a tutti di mantenere il massimo silenzio perché Beth si credesse sola, così da potere suonare liberamente. Anna amava il severo ma gentile signor Laurence, e quel capitolo la faceva spesso piangere mentre pensava a quale splendido nonno sarebbe stato suo padre. Quando lei aveva l'età di Lily, lui aspettava sempre che suonasse il piano, pestando maldestramente i tasti durante gli esercizi, poi entrava e, fingendosi sbalordito, chiedeva: «La radio non è accesa? Mi è sembrato di sentire un disco suonare!».

Le si velarono gli occhi di lacrime e rischiò di non notare il brusio che si propagò nella stanza. Batté le palpebre. Becca aveva smesso di leggere e le lacrime le stavano rigando il volto. Lanciando un'unica occhiata ad Anna, le spinse il libro fra le mani e corse fuori dalla stanza.

«Non era poi così commovente», commentò Evelyn, sprezzante. «Non era nemmeno il capitolo in cui la bambina rischia di morire.»

Anna impiegò un po' per trovare Becca, ma quando aprì la porta della toilette del personale sentì dei singhiozzi arrivare dal cubicolo per disabili.

Bussò delicatamente sull'uscio chiuso a chiave. «Becca? Sono io. Vieni fuori, tesoro.»

I singhiozzi cessarono per un attimo, poi ricominciarono, ancora più violenti.

«Becca? È per il college?» Anna non intendeva certo metterle altre preoccupazioni in testa, ma voleva farle sapere che capiva. «È perché devi lasciare Owen? Perché i trimestri non sono lunghissimi. Passano in un lampo,

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prima che tu te ne accorga.» Dopo una breve pausa aggiunse: «E se lui torna a Londra disterà solo circa un'ora da te».

Non ebbe risposta. «Non si tratta di questo?»

Appoggiò la fronte alla porta, tentando di rammentare cosa si provasse ad avere diciotto anni e pensare di essere la prima persona al mondo a innamorarsi. «So che è difficile lasciarlo. Lo so. Ma i prossimi anni saranno davvero splendidi. Così tante opportunità e cose nuove. Le persone, le lezioni e le feste...»

L'uscio si aprì lentamente e comparve il volto chiazzato di lacrime di Becca, che sembrava una dodicenne, sfinita e spaventata. Anna provò un empito di compassione nei suoi confronti; sicuramente il problema non era abbandonare Longhampton per andare nell'università che lei aspettava da così tanto tempo di frequentare. Dovevano essere gli strascichi di tutto lo stress legato agli esami, della novità di Sarah e della spossatezza. Becca aveva retto così bene a tutto. Troppo bene. Anna conosceva anche quella sensazione.

Allungò le braccia e la ragazza si lanciò fra esse.

«Cosa è stato a turbarti?» chiese mentre Becca, quasi di una testa più alta di lei, le si teneva aggrappata. «È perché hai pensato a tuo nonno?»

«Stavo pensando a... papà.»

Anna non riusciva a vedere il suo viso ma poteva raffigurarselo. Becca adorava Phil e lui adorava lei, la sua primogenita priva di complicazioni e che si era sempre fatta onore. Non la abbracciava come le altre due ragazze che gli erano sempre appiccicate, ma il suo intenso amore per lei si irradiava in altri modi, nelle loro battute private e nell'orgoglio quasi sbigottito di Phil per tutto quello che Becca faceva.

«Sarai sempre la sua bambina», disse, carezzandole i capelli. «Persino quando sarai una donna adulta e pronta a farti strada nel mondo. È così fiero di te.»

Questo provocò un altro turbine di singhiozzi disperati. Anna si stava congratulando con sé stessa per avere diagnosticato correttamente il motivo del turbamento di Becca quando quest'ultima si staccò dalla sua spalla e la guardò dritta negli occhi, per poi abbassare subito lo sguardo sul pavimento del bagno.

«Anna.» La sua voce era a malapena un sussurro e apparentemente lei stava testando con cura ogni parola, come se avesse paura di sentirsele uscire dalla bocca. «Anna, devo dirti una cosa, ma non puoi riferirla a papà.»

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Lei ebbe un tuffo al cuore. «Sai che non posso prometterti una cosa del genere», cominciò a spiegare, ma Becca insistette.

«Devi farlo», disse spasmodicamente. «Devi prometterlo.»

Anna le tenne strette le braccia, cercando di apparire più calma di quanto non fosse. «Non ti sei fidanzata con Owen, vero?»

Becca scosse il capo, e Anna sentì il sollievo pervaderle il petto.

«Grazie a Dio. Insomma, è un ragazzo simpatico, un ragazzo adorabile, ma tu sei molto giovane e...»

“Chiudi il becco, Anna.”

«Allora cosa c'è? Cos'è tanto grave da non poterlo dire a tuo padre?»

Becca sollevò gli occhi colmi di lacrime, implorandola di capire. «Non posso andare all'università.»

«Perché no? Si tratta del corso? Dopo un anno puoi sempre cambiare indirizzo, se proprio non ti piace. Sono sicura che con dei voti come i tuoi ti lascerebbero volentieri studiare qualcos'altro. Cosa ne dici di inglese?»

Il labbro di Becca tremolò. «Papà rimarrà così deluso!»

«Niente affatto! Vuole solo quello che vuoi tu e pensava che tu avessi sempre desiderato studiare legge. Non dirglielo, ma io sarei felicissima se tu studiassi inglese. Lo adorerei! Il fatto che ti ho spinto a cambiare facoltà lasciandoti lavorare nella libreria rimarrebbe un nostro segreto, d'accordo?» Le sorrise con fare incoraggiante.

Becca riuscì ad abbozzare un sorriso tremulo, poi il viso le si contorse di nuovo in una smorfia. Lei la abbracciò di nuovo, sentendosi più sicura, adesso.

«Le cose cambiano», le disse Anna fra i capelli. «È la vita. A tutti noi è concesso cambiare idea, e non deludi nessuno scegliendo di fare qualcosa di diverso. Insomma, non sei una bambina di dieci anni che pesta il piede perché non diventerà il giudice Judy dell'omonimo programma tv. Mmm? Ma ti sei conquistata un posto all'università, che è a tua disposizione. E dovresti accettarlo.»

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«Non posso andarci», affermò Becca, stavolta più enfaticamente, e si ritrasse dall'abbraccio, fissando il pavimento come se si stesse appellando a tutte le sue riserve.

«Owen capirà», cominciò a dire Anna, ma Becca la fermò.

«No», dichiarò risoluta. «Anna, non posso andare a Cambridge, la settimana prossima.» Deglutì a fatica, poi la guardò negli occhi e aggiunse: «Sono incinta».

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Capitolo 27

«Rileggendo ai miei nipotini uno dei libri che più amavo da bambina,Scarpette da ballo, sono rimasta colpita da come quelle tre ragazze abbiano reagito al rifiuto e al successo, tutte con una lodevole forza d'animo. Si sono limitate a raddrizzare stoicamente la schiena e andare avanti.»

Gillian Knight

In seguito, quando Anna rivisitò mentalmente quel momento, sperò tanto di non avere lasciato trapelare la sua prima reazione perché non ne andava certo fiera. Sarebbe finita direttamente nella scatola di cose terribili che teneva chiusa a chiave in un recesso del suo cervello, per stuzzicarle masochisticamente con un dito durante le notti insonni.

Il pensiero amareggiato, incandescente, che le era balenato nel cervello come un lampo diffuso era stato: “Com'è che chiunque riesce ad avere un figlio tranne me?”.

Lo rispinse subito giù, vergognandosi di sé stessa per averlo anche solo formulato, ma ebbe la terribile sensazione che Becca fosse riuscita a intravederlo fugacemente mentre le sfrecciava dietro gli occhi, e si odiò.

Ma eccolo lì. Un altro bambino. Un altro motivo inconfutabile, per Phil, per dire di no al loro.

Cominciò subito a parlare per spazzare via il pensiero – «Di quante settimane? Sei sicura? Hai fatto un test? Owen lo sa?» – ma le domande furono troppo per entrambe. Becca ricominciò a piangere e Anna sentì una diga crollarle nel cuore, poi piansero e si abbracciarono finché una voce aspra non fendette l'aria dietro di loro.

«Per l'amor del cielo, cosa sta succedendo? Questo è un luogo pubblico, potrebbe entrare chiunque! Mostrate un po' di dignità!»

Anna si voltò di scatto, scoprendo Evelyn ferma accanto alla porta del cubicolo con un'espressione di curiosità mista a disapprovazione che le raggrinziva la bocca in un'increspatura scarlatta. Dovette premersi le mani sui fianchi, tanto risultò forte l'impulso di schiaffeggiarla.

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«Becca è sconvolta», disse in tono teso. «Non è evidente?»

«Molto evidente. Fino in fondo al corridoio. Di cosa si tratta, stavolta?» Evelyn piegò la testa di lato come un uccellino. «C'entra di nuovo Sarah? È sempre stata una combinaguai, sin dal giorno in cui si è fatta mettere incinta quando aveva a stento finito la scuola. L'ho detto a Philip, una madre se ne accorge sempre, quando una ragazza non ha fibra morale, ma...»

«Non ha nulla a che vedere con Sarah», sbottò Anna, sentendo Becca trasalire sotto il suo braccio.

«Rebecca?» Evelyn la fissò con i suoi occhietti tondi. «Il gatto ti ha mangiato la lingua? Non sei un po' cresciutella per questo genere di scenate? È un comportamento che mi aspetterei da quella tua sciocca sorella minore, correre fuori dalle stanze come una regina del melodramma. Avanti, di cosa si tratta? Ne stanno parlando tutti, sai», aggiunse, come se fosse un affronto personale. «Sarà l'unico argomento di conversazione, a cena...»

«Basta!» Anna rimase sbalordita dalla sua stessa rabbia. Non riusciva assolutamente a capire come Phil – il premuroso, accomodante, affettuoso Phil – potesse essere imparentato con quella vecchia megera egocentrica. Evelyn non meritava una famiglia. Non meritava dei nipoti.

«Evelyn», disse con voce tremante, «non sono tua parente quindi non ho alcuna remora a dirti di farti gli affari tuoi.»

«Lei è mia nipote e tu, come giustamente dici, non sei una parente», ribatté Evelyn. «Quindi, date le circostanze, in veste di unico suo vero familiare presente, credo di avere tutti i diritti di sapere cosa sta succedendo.»

«Becca, vieni», disse Anna, prima di perdere davvero la calma. Cinse la ragazza con un braccio e cominciò ad accompagnarla fuori.

«Ti credevo migliore», disse Evelyn mentre lei passava. «Davvero.»

Anna non riuscì a stabilire se si riferisse a lei o a Becca, ma era troppo furibonda per chiederlo.

Chiamò Phil al lavoro e quando lei e Becca parcheggiarono davanti alla casa lo videro in cucina, intento a guardare ansiosamente fuori dalla finestra.

«Oddio», mormorò sommessamente Becca. Si fece piccola sul sedile. «Rimarrà così deluso da me.» L'ultima parola svanì in un nuovo singhiozzo.

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Anna si voltò e le afferrò la mano. «Ascolta, ricordati che, qualsiasi cosa lui dica all'inizio, ti vuole bene», asserì in tono concitato. «Te ne vorrà sempre, qualsiasi cosa tu faccia. In un primo momento potrebbe buttare fuori alcune cose di cui si pentirà, ma...»

«Non puoi dirglielo tu? Puoi entrare per prima e dirglielo?»

«No.» Il tono di Anna era risoluto. «Sarò subito dietro di te, ma se vuoi che ti tratti da adulta devi fare questa cosa di persona. La faremo insieme.»

Becca annuì come se le facesse male la testa a muoverla.

«E io ti aiuterò a fare tutte le telefonate necessarie, e prometto di non farti la ramanzina, e...» Si interruppe, lei stessa vicina alle lacrime. Erano telefonate che aveva sperato di fare lei, con novità più liete di quella. «Becca, so che non è come avere qui tua madre, ma finché non arriva farò tutto il possibile. Te lo prometto. Sei tutto per me. Se potessi assumermi io parte del tuo dolore, sai che lo farei.»

Becca la guardò. «Lo so. E ho bisogno di averti qui perché non sei mia madre», affermò. «Non suona come dovrebbe, ma lo intendo in senso positivo.»

La strinse in un breve abbraccio maldestro e subito dopo, prima di poter cambiare idea, scese dall'auto con la mascella contratta dalla determinazione.

Anna la osservò mentre percorreva il vialetto d'accesso, con gli stivali da motociclista enormi in fondo alle sue gambe sottili e la giacca di pelle di Owen gettata sulle spalle. Sembrava già una persona diversa.

“È la fine della sua infanzia”, pensò Anna, guardando le borchie degli stivali di Becca scintillare nel freddo sole autunnale mentre lei copriva il breve tragitto dalla macchina alla cucina. “È l'inizio della fine del ruolo di genitore di Phil; e io sarò una nonna surrogata prima di avere l'occasione di diventare davvero una madre. Ed è impossibile, ormai, che Phil accetti di avere un bambino.”

Chiuse gli occhi contro la fitta di amarezza che quasi le fermò il cuore. Era talmente ingiusto. Non riusciva a inquadrare quanto fosse ingiusta tutta la situazione, ma solo un particolare: il minuscolo bambino fra le braccia di Becca e Owen.

Poi, con la stessa rapidità con cui Becca era smontata dall'auto, aprì la portiera e la seguì in fretta.

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Fece giusto in tempo a vedere la faccia di Phil mentre la ragazza diceva: «...incinta».

Prima lui parve confuso, poi orripilato. E infine, quando Becca si abbandonò contro il suo petto, singhiozzando e cingendolo con le braccia come una bambina, gli si riempirono gli occhi di lacrime e sollevò il mento quanto più poteva sopra la testa della figlia per impedirle di sentire anche un solo singulto.

«Becca», continuava a ripetere, «la mia bambina. La mia bambina.»

«Non essere arrabbiato», singhiozzò lei. «Ti prego, non essere arrabbiato con me.»

«Non sono arrabbiato. Come potrei?»

Anna esitò sulla soglia, non sapendo se lui preferisse rimanere solo con la figlia, ma gli occhi di Phil le dissero che doveva entrare. Lei trovò insopportabile lo spettacolo del marito in lacrime. Non l'aveva mai visto piangere, non in quel modo.

Li raggiunse lentamente e anche lei abbracciò Becca, avviluppandola in tutta la consolazione che poteva offrire. E Phil parve felice del suo abbraccio quanto la ragazza.

Michelle guardò Owen, seduto al suo tavolo di cucina a divorare la cena come se non mangiasse da una settimana e si chiese quando avesse cominciato a sembrare così... «in tiro».

«Owen, ti sei fatto tagliare i capelli?» chiese, incuriosita.

«Sì. Avevo appuntamento con i tizi della palestra che cercano qualcuno che gli tenga aggiornato il sito, e Becca ha detto che dovevo andare dal parrucchiere.» Smise di ingozzarsi e assunse un'aria mite. «Anche Rory ha detto che poteva essere una buona idea, così, sai...»

«Rory?»

«Sì. Creerò io il nuovo sito per la Flint and Cook. Dovevo andare a conoscere il grande capo e secondo Rory lui non apprezza granché i tizi con i capelli lunghi.» Si toccò la nuova chioma, più corta ma tuttora arruffata. «Ricresceranno. A Becca piacciono. Così come il completo.»

Michelle si stupì di essersi lasciata sfuggire tutto questo. Quale completo? Da quando in qua Rory stava aiutando Owen a trovare lavoro? Da quando in qua, in

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effetti, Owen era abbastanza motivato da cercare nuovi contatti senza che lei gli desse il tormento dall'alto?

Forse avevano avuto torto a temere che Owen potesse avere un'influenza negativa su Becca. Apparentemente era lei a esercitare un'assai più significativa influenza su di lui. Ancora un po' e Owen avrebbe cominciato a leggere dei libri.

«Quand'è che Rory te l'ha detto?» chiese, cercando di non sembrare un'impicciona.

«L'ho visto nella libreria. È spesso là, a curiosare. A spiegare ad Anna come esporre in modo più efficace la merce.» Owen assunse un'aria insolente. «A fare commenti su quello che dai da mangiare a Tavish.»

«Cosa?» cominciò a dire Michelle, ma il cellulare di Owen, accanto al suo piatto, emise un bip e lui vi appuntò subito lo sguardo.

«Scusa, posso leggere solo questo?» chiese, allungando la mano per prenderlo. Le sue labbra carnose si incurvarono in un sorriso automatico e Michelle capì che l'sms doveva essere di Becca mentre lui premeva il pulsante con un pollice esperto.

«Non dirmelo, stasera avresti dovuto cenare con lei?» Michelle tentò di non sentirsi gelosa del modo in cui una nuvoletta di stelle da cartone animato circondava praticamente la testa del fratello ogni qual volta lui mandava un messaggio a Becca. Per alcune persone era reale. Apparentemente per Owen stava succedendo.

Lui non rispose e Michelle cominciò a sparecchiare per distrarsi. Per quanto volesse bene al fratello e fosse affezionata a Becca, per lei quello non era il momento più adatto per osservare il graziosissimo scambio di sms. Ora che lo aveva liberato, il dolore per il suo perduto decennio fra i venti e i trent'anni si era acuito, negli ultimi giorni, e soltanto un attento studio della sua contabilità riusciva a impedirle di pensarvi.

«Owen, puoi venire ad aiutarmi?» chiese. Quando non ottenne risposta si voltò a guardare il tavolo. Il fratello stava fissando il cellulare. «Cosa c'è?»

Lui non fiatò ma spinse il telefonino sopra il tavolo. Aveva il volto stranamente inespressivo e lei si chiese per un attimo se Becca lo avesse scaricato.

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“Sarebbe un po' crudele farlo con un sms”, pensò. “Non è nello stile di Becca.” Magari era qualche altra ragazza, l'avventura di Dublino che arrivava lì e voleva ricominciare? Brutta situazione.

Prese il cellulare. Il messaggio era di Becca ma diceva: «Sono incinta. Puoi venire a casa mia stasera alle 7?».

«Oh mio Dio», disse lei.

La punteggiatura era perfetta, niente abbreviazioni da sms per Becca. Eppure il minuscolo messaggio era esplosivo. Cambiava la direzione di tutto, con i caratteri appena necessari a riempire un display di cellulare. Lei fu costretta a leggerlo tre volte solo per assimilare quanto la ragazza stava dicendo.

Fu assalita da un senso di vertigini da adrenalina. «Oddio, Owen. Cosa ti è saltato in mente?»

Lui scosse il capo, incapace di parlare.

«Ha solo diciotto anni! È una bambina! Perché mai, in nome di tutto ciò che è sacro, non hai usato nessun tipo di precauzione?» Il tono di voce di Michelle si stava alzando, man mano che il nodo nel suo stomaco si stringeva. «Stupido, stupido idiota incosciente! Cosa farà adesso Becca? E il suo posto all'università? Quella povera ragazza, sei abbastanza grande per sapere che non bisogna...»

«Stai zitta!» Owen spinse indietro la sedia di scatto e si appoggiò al tavolo, guardandola in cagnesco. «Concedimi una chance!»

«Oddio, povera Becca», disse lei, coprendosi la bocca mentre assimilava fino in fondo la portata del tutto. «Ha sempre voluto fare ciò che gli altri si aspettavano da lei. Povera Anna. Oddio, povera Anna... E Phil, sarà devastato...»

«Smettila di cianciare di tutti gli altri», gridò Owen. «Cosa dovrei fare io?»

«Tu farai qualsiasi cosa lei ti chieda di fare.»

«E non ho voce in capitolo?»

«Sinceramente?» Gli occhi di Michelle mandarono lampi. «No. No, non ce l'hai. Qui si tratta di Becca, non di te. Che lei decida di andare avanti e avere un figlio oppure no, la sua vita è cambiata. Tu rimarrai la stessa persona, che lei abbia o non abbia un bambino, tu puoi andartene da tutto questo, ma Becca dovrà conviverci in eterno, in un modo o nell'altro. Quindi tu farai qualsiasi cosa lei desideri.»

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Si rendeva a malapena conto di cosa stava dicendo; le parole le stavano sgorgando dalla bocca più in fretta di quanto riuscisse a pensarle. Persino la voce non sembrava più la sua, più alta e più acuta. Lei stava parlando di Becca, ma una vocina sottostante il flusso di parole la avvisò che il tutto aveva una provenienza diversa. Quelle erano parole che aveva meditato a lungo, riponendole in uno scrigno chiuso a chiave nella sua testa, e a un tratto stavano uscendo, sotto forma di frasi compiute.

Owen la fissò senza capire.

«Anche la mia vita cambierebbe!» obiettò, dandosi una manata sul petto. «È impossibile che io abbandoni Becca. Per chi mi prendi?»

«Per qualcuno che ho dovuto trarre d'impiccio un sacco di volte?»

«In quei casi si trattava dell'affitto! Qui stiamo parlando di una vita! Non posso credere che tu mi ritenga capace di una cosa del genere.»

Michelle liquidò le sue proteste con un gesto. «Non è lo stesso, per gli uomini. E nemmeno hai la minima idea delle cose bizzarre che lei penserà... non solo: “Oh, no, ho deluso la mia famiglia e mandato all'aria la mia carriera, e tutti a scuola parleranno di me”. Tutte queste riflessioni sono già abbastanza brutte. Penserà: “Come ho potuto lasciare che succedesse? Quale genere di donna diventerò, se decido di non avere questo bambino?”. E tutti le forniranno soluzioni e consigli, che lei lo voglia o no, e le diranno cosa pensare, come se adesso fosse una persona diversa, e il tuo compito, il tuo preciso dovere, è farle sentire che è ancora lei. Ancora lei.»

Inspirò a fondo mentre un pensiero terribile le si affacciava alla mente. Quel messaggio era stato molto stringato. «Owen, questo non è il punto in cui mi dici che avete già rotto, vero?»

«No.» Lui si interruppe per un lungo, lunghissimo secondo. «La amo, Michelle. Non ho mai conosciuto nessuno come Becca. La sposerò, se è questo che Phil vuole.»

«Se è questo che Phil ti permetterà di fare, più probabilmente. Non sempre il matrimonio è una soluzione. A volte peggiora tutto.»

Michelle si lasciò cadere sul divano. Le sue parole feroci rimasero sospese nell'aria fra loro due come il fumo dopo i fuochi d'artificio, e lei capì di avere

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parlato troppo vedendo l'aria sbigottita ma curiosa con cui Owen la stava guardando, temendo che potesse riesplodere da un momento all'altro.

Lui le si sedette accanto e fissarono il caminetto restaurato alla perfezione che Michelle non aveva mai acceso. Era pieno di pigne, tutte esattamente della stessa grandezza, verniciate d'oro.

Il silenzio si protrasse, rotto solo dal suono di Tavish che, appena comparso, raggiunse ondeggiando il divano e salì a sedersi di fianco a lei. Michelle glielo permise. Poi Owen chiese: «Michelle, ho detto qualcosa che ti ha turbato in particolar modo? C'è forse qualcosa che mi è sfuggito?».

Lei scosse il capo. «No. No.»

«Tu e Harvey non avete avuto figli. C'è forse stato qualche tipo di...»

«Harvey non c'entra», replicò lei. Si sforzò di esprimersi mentre tetri pensieri le saettavano nella testa, troppo veloci per poterli afferrare. «Ho avuto anch'io diciotto anni. Pensavo di sapere tutto e, quando sono stata espulsa, è stato come svegliarsi una mattina nella vita di qualcun altro. So come si sente Rebecca, tutto qui. E ho promesso ad Anna che questo non sarebbe successo. Aveva il terrore che succedesse qualcosa del genere e io le ho assicurato che sei un tipo responsabile.»

«Lo sono stato», affermò mestamente Owen. «Te lo giuro, è successo solo due volte.»

«Non insegnano più un'educazione sessuale terrorizzante, a scuola? Basta anche una volta sola.»

«Lo so. E sai, la responsabilità non è tutta del maschio.» Owen parve ferito. «Stai dando l'impressione che io l'abbia costretta, e non è vero. Non è affatto vero. Non ho mai provato per nessun'altra quello che provo per Becca. Ero disposto ad aspettare fintanto che...»

«Be', a quanto pare non l'hai fatto», replicò Michelle.

Oddio. Povera Anna. Le faceva una gran pena. Quando sarebbe arrivato il suo bambino, adesso? Sarebbe stato tipico di Anna insistere per contribuire a crescere il figlio di Becca invece di averne uno suo. E probabilmente Phil glielo avrebbe permesso.

Owen si alzò dal divano facendo leva sulle braccia.

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«Dove vai?» chiese lei. «Non abbiamo ancora finito di parlare.» Non poteva certo sprangare la porta ma, per quanto lui apparisse razionale, in quel momento la tentazione di tagliare la corda doveva essere soverchiante.

E Owen aveva dei precedenti, rammentò a sé stessa: era sempre animato da buone intenzioni, ma non sempre andava fino in fondo. Quella era una faccenda davvero grossa.

«A fare una passeggiata. Poi andrò da Becca a dirle che andrà tutto bene. Qualsiasi cosa lei desideri.» Lui si interruppe, poi la guardò con una tristezza rabbiosa. «Non so cosa ti sia successo che non mi stai dicendo, ma non tutti gli uomini sono dei completi bastardi, sai. Salti sempre alle conclusioni peggiori. Lo fai con me, con Rory, con Harvey, con tutti. Non sarai mai felice se ti aspetti perennemente il peggio. Pensaci, Michelle.»

Si voltò e se ne andò, lasciandola a fissare il caminetto, la mano posata sull'ispido pelo di Tavish.

Lei sapeva che avrebbe dovuto pensare a Becca, ma la voce di Owen rifiutava di uscirle dalla testa.

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Capitolo 28

«Adoravo i miti greci, da bambino. Mi piaceva la logica brutale delle punizioni divine e l'astuta spiegazione di fenomeni naturali. Davvero rassicurante.»

Rory Stirling

Sarah arrivò con il primo volo disponibile, dopo aver estorto al suo costoso ginecologo un «permesso di volare» scritto. La sua reazione alla telefonata di Becca sarebbe bastata di per sé a spingerla fino a metà dell'Atlantico. Nel giro di un'ora passò dall'incredulità alla delusione alla rabbia (verso Owen, «che nemmeno conosco!»), alla felicità (in un certo senso), all'angosciato colpevolizzarsi e nuovamente alla rabbia (stavolta verso Phil), all'incoraggiamento e infine a un sacco di lacrime.

Si scoprì che il timor panico di Becca su cosa dire era del tutto superfluo, visto che lei riuscì comunque a riempire solo il cinque per cento circa del tempo di trasmissione, sopraffatta dalla madre. Quando la telefonata si concluse, il taccuino con annotate le cose che voleva dire era ancora aperto davanti a lei, coperto di ansiosi scarabocchi di cerchi inscritti in altri cerchi.

«Almeno ora sai con chi se la prenderà tua madre quando arriva», la rassicurò Anna, mettendole una tazza di tè fra le mani tremanti.

«Le verranno in mente altre cose, sull'aereo», asserì tristemente Becca. «Tu sei l'unica persona che lei non abbia attaccato con violenza, Anna.»

«E non le conviene iniziare a farlo quando arriva», affermò Phil, parlando per la prima volta. «Altrimenti gliene canto quattro con le ultime energie rimastemi.»

Phil e Anna erano rimasti seduti accanto a Becca mentre lei telefonava, usando l'antiquato apparecchio invece di Skype «perché non voglio vedere la sua faccia quando si rende conto che non andrò a Cambridge, alla fin fine». Fino a quel momento Phil non era stato certo di grande aiuto – il suo shock iniziale si era trasformato in un tipo di disperazione silenzioso che Anna sospettava celasse sentimenti a cui lui non osava dare voce – ed era stata lei ad assumere il controllo, aprendosi un varco a tentoni nella crisi familiare. Bisognava pensare a chi dirlo, in quale ordine e fino a che punto.

«Grazie», disse Becca. Si sfregò il viso. «Vado in camera.»

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«Sicura di non voler mangiare qualcosa?»

La ragazza scosse il capo. «Non ho appetito, sinceramente. Ho un po' di nausea. A quanto pare le nausee mattutine possono proseguire fino al terzo trimestre.»

«Giusto.» Anna si prese mentalmente a calci. Ma certo. C'erano così tante cose che non sapeva. Ormai era costretta a prendere atto della sua ignoranza in quel settore.

Dopo il loro arrivo a casa aveva lasciato con discrezione in camera di Becca la sua scorta segreta di libri sulla puericultura; in caso di domande da parte della ragazza avrebbe finto di averli presi nella libreria. Becca non aveva chiesto niente. Si era limitata a iniziare a studiarli con la stessa intensità che aveva riservato ai libri di testo.

«Fatemi sapere, se la mamma richiama», aggiunse, poi uscì dalla stanza strascicando i piedi e senza voltarsi a guardare Phil.

“Avrei dovuto intavolare una conversazione”, pensò Anna, rimproverandosi per il suo cervello lento. La distanza fra Phil e Becca la stava uccidendo; Becca riusciva a malapena a guardare il padre da quando gli aveva dato la notizia e lui sembrava senza parole. E se la cosa stava uccidendo lei, non riusciva nemmeno a immaginare come doveva essere dolorosa per loro.

Fece scivolare la mano in quella del marito e la strinse. «Andrà tutto bene», sussurrò.

«Davvero?» chiese lui in tono tetro. «Come fai a saperlo?»

«I problemi si risolvono.»

«Sul serio? Come si sono risolti per me e Sarah? Incinta a venti, sposata a ventuno e divorziata a trentatré? È proprio quello che mia madre ha detto che sarebbe successo. La storia si ripete. Solo che io ho sempre pensato che sarebbe stata Chloe a deviare dalla retta via e...»

«Phil», lo avvisò Anna in tono sommesso, ma era troppo tardi.

Chloe entrò in cucina a grandi passi, lanciando occhiate assassine a entrambi. «Perché smettete di parlare?» chiese, le mani sui fianchi. Il suo canticchiare era cessato. «Non è che io conti qualcosa, qui. Cosa stavi per dire? Hai sempre

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pensato che sarei stata io quella che non passava gli esami e restava incinta? Che delusione dev'essere per te il fatto che finora io abbia solo cannato gli esami!»

«Chloe, non è questo che tuo padre stava per dire...»

«Ti odio», affermò molto distintamente la ragazza, guardando Phil e ignorando Anna. «E appena la mamma arriva le dirò quanto odio vivere qui con te e le chiederò di portarmi in America con lei. Ho controllato su Internet le scuole superiori nella sua zona, e tu non puoi fermarmi.»

Si voltò e si catapultò fuori, soffocando un singhiozzo o un urlo – Anna non avrebbe saputo dire quale dei due – che comunque si protrasse finché Chloe non arrivò giù nello scantinato, dove la porta sbatté violentemente dietro di lei.

Anna si voltò verso Phil, aspettandosi di vederlo seguire la figlia, ma lui si limitò ad alzare le mani per poi lasciarsele ricadere stancamente in grembo.

«Valle dietro!» lo sollecitò lei.

«Cosa posso dire?» chiese Phil. «L'ho delusa. L'abbiamo delusa tutti. Qui sarà un vero caos, se Becca ha il bambino...» Si interruppe; quella particolare conversazione non era stata ancora affrontata adeguatamente. «O non ha il bambino, qualsiasi cosa decida di fare. Forse per Chloe sarebbe meglio passare un anno negli States con Sarah. Forse otterrà l'attenzione di cui ha bisogno.»

Anna non riusciva a credere che il marito pensasse una cosa simile, ma ultimamente cominciava a rendersi conto che lui imboccava spesso la strada meno impegnativa.

«Con Sarah?» ripeté. «E il suo bambino appena nato? Pensi che Sarah avrà voglia di gestire un'adolescente riottosa oltre a poppate notturne, una nuova routine e Jeff? Insomma, certo, non dubito che abbia fatto l'offerta prima di rimanere incinta, ma adesso... Vuoi che Chloe si senta dire dalla sua stessa madre che al momento non ha il tempo di occuparsi di lei?»

Phil si accigliò, poi parve capire cosa intendesse dire. «Dio, hai ragione.» Sospirò. «Forse potresti... Cioè, sembrano prendere meglio queste cose, quando le sentono da te.»

Anna si morse la lingua. Era sicura di non avere sposato quest'uomo senza spina dorsale. L'uomo che aveva scelto era stato molto più deciso.

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«Quindi sono utile per alcune attività materne? Pur non avendo un figlio con te», aggiunse, e non appena le parole le uscirono di bocca si odiò perché sapeva che non erano vere.

Se fosse rimasta incinta per prima, la cosa non avrebbe fatto alcuna dannata differenza per Sarah o Becca, mentre i loro bambini avevano spinto il suo fuori dall'agenda, forse per sempre, e a lei cosa restava? La scelta fra crescere il figlio di Becca come una penitenza e abbandonare le figlie che aveva accettato volentieri di tenere per poterne avere uno suo? Non era affatto una scelta.

«Anna», cominciò a dire Phil, ma lei stava già uscendo in fretta dalla cucina. Per principio non si permetteva di precipitarsi rabbiosamente fuori dalle stanze in presenza delle ragazze, ma la sua pazienza era ormai appesa a un filo sottilissimo e lei non sapeva cosa avrebbe potuto fare, se rimaneva lì.

Prese il guinzaglio di Pongo dal gancio accanto alla porta e lui le fu accanto in un attimo, la coda simile a una frusta che saettava avanti e indietro, sempre felice di poter passare un'oretta con lei.

«Vieni, Pongo», disse. «Andiamo a fare una passeggiata. Una passeggiata molto, molto lunga.»

Se Anna aveva cominciato a sentirsi più simile a una madre, con Becca, l'illusione venne subito spazzata via quando arrivò Sarah. Lei venne relegata sullo sfondo mentre liti e crisi di pianto scoppiavano ovunque. Gli unici intervalli di quiete scaturivano da Becca che, con un viso simile a quello di una Madonna rinascimentale, affermava insistentemente che voleva tenere il bambino, che rifiutava di tradirlo. La sua pacata sicurezza riusciva solo a rendere ancora più straziante l'intera faccenda.

Anna correva in giro preparando panini e tenendo Lily e Chloe fuori da tutto mentre Sarah, Phil e Becca discutevano e piangevano, e poi discutevano e piangevano anche in presenza di Owen e Michelle. Phil pronunciò qualche minaccia puramente formale di inculcare un pizzico di buonsenso in Owen, ma Becca si rifiutò di lasciarglielo fare, e la rabbia di lui si stemperò nello sbigottimento mentre i due bellissimi ragazzi restavano seduti in cucina tenendosi per mano, più composti di chiunque altro.

Anna sapeva che avrebbe dovuto alzarsi in piedi per sottolineare qual era il suo posto nella faccenda, visto che la sua vita stava per essere dirottata, ma non riusciva a trovare le parole giuste per esprimersi. Era sopraffatta dalla forza della

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presenza gravida di Sarah, il cui ventre teso non faceva che enfatizzarne il ruolo nella casa: quello della madre. La madre di Becca, l'unica persona qualificata per aiutarla durante una gravidanza.

Anna era disorientata nel suo stesso mondo. L'unico posto in cui si sentisse completamente a casa e al sicuro era la libreria, dove poteva perdersi, benché solo temporaneamente, in mondi in cui esistevano lieto fine e ricompense per l'abnegazione.

«Ancora qui?» chiese Michelle quando arrivò per trascorrere nella libreria l'ora che mancava alla chiusura. Fuori la luce solare aveva cominciato ad affievolirsi nel crepuscolo e le lampade da tavolo nel negozio creavano un'intima atmosfera autunnale.

Anna tolse dal bancone una pila di romanzi di Roald Dahl e sperò che Michelle non l'avesse vista leggere James e la pesca gigante da dietro la vetrina. Persino i gabbiani sulla copertina risultavano consolatori, adesso. I venti minuti che aveva appena trascorso ascoltando Bach e lo scoppiettare del fuoco nel caminetto sul retro, immaginando di trovarsi nell'accogliente centro di un frutto gigantesco, erano stati il momento migliore della sua giornata, benché non fosse entrato nemmeno un cliente.

“Almeno la pesca è arrivata a New York”, continuava a ripetersi. “C'è sempre una fine.” Anche se le due donne malvage erano zie senza figli che badavano al povero James. Al momento le zie senza figli e avvizzite le saltavano parecchio agli occhi.

«Vai pure a casa, se vuoi», aggiunse Michelle. «Ho bisogno di fare alcune cose qui. Kelsey mi sta sostituendo allo Home Sweet Home. Ha bisogno degli straordinari.»

«No, è tutto a posto, oggi posso rimanere fino alla chiusura», disse lei. «Sarah ha portato le ragazze a fare shopping, poi al cinema. Ho pensato di lasciare loro un po' di privacy.»

«Davvero?» Un sopracciglio di Michelle schizzò verso l'alto. «Che gentile. Non vuoi approfittarne per stare un po' da sola con Phil?»

«A fare cosa? A riesaminare tutti i motivi per cui Becca sta commettendo un grosso errore nel voler tenere il bambino? No, grazie.»

«Phil cambierà idea, quando lo vedrà.»

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«Non ne sono così sicura», replicò Anna. «Una volta presa una decisione tende ad attenervisi.»

Michelle cominciò a piegare le coperte sul tavolo da esposizione più grosso. «Quanto si trattiene Sarah? Quando avrà il bambino?»

«Il termine è fine novembre. Lei è enorme. Credo che questo abbia aperto gli occhi di Becca sulla situazione più di quando siamo andate alla clinica per il suo primo check-up.»

Uno dei motivi per cui non voleva tornare a casa era che non sopportava di guardare l'enorme pancia di Sarah. Lei se la accarezzava senza sosta, lisciandosi le attillate maglie premaman, parlandole, insistendo perché le ragazze si rivolgessero al loro «fratellino che sta per nascere». Anna era contenta per loro, vedendo che si stavano abituando all'idea del nuovo arrivato – Lily, in particolare, sembrava affascinata e aveva deciso che anche Mrs Piggle era incinta, il padre per il momento ignoto –, ma quella sembrava solo l'ennesima cosa che lei doveva superare sorridendo, e la tensione si stava facendo insopportabile.

«Poveretta te», disse Michelle, vedendo la sua espressione.

«È come avere le “mammine Malory Towers” nella mia cucina, ma almeno qui non devo unirmi alla cosa e fingere che non mi crei alcun problema», replicò Anna. Michelle era l'unica persona a cui poteva dirlo. «Sarah si sta dimostrando molto affettuosa riguardo al pancione di Becca e ha promesso di spedirle questo fenomenale burro di cacao contro le smagliature. Non parlano d'altro che di piano del parto e di come riuscire a coinvolgere Chloe e Lily perché non si sentano escluse. È tutto positivo, il che è fantastico, ma Phil si è rifugiato nel suo capanno e io mi limito a...» Si morsicò il labbro. «Mi limito a preparare i pasti e annuire un sacco.»

«E a organizzare la vita di Becca al posto suo», sottolineò Michelle. «Ti occupi di tutti i noiosi dettagli amministrativi in modo che lei sia libera di essere una mammina-studentessa.»

Anna aveva aiutato Becca ad affrontare il sistema per posporre l'inizio dei suoi studi e fare domanda per l'asilo nido nel suo college, tentando di mantenerla concentrata e ottimista riguardo al futuro quando si lasciava prendere dal panico al pensiero di tutto quello che la aspettava. Anna non lo dava a vedere, ma accumulare fatti concreti risultava altrettanto rassicurante per lei, come un corrimano posto lungo un sentiero di montagna da cui non osava guardare giù.

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«Sì: non sei stata tu a parlarmi del potere curativo di una valida lista di cose da fare?» Riuscì a sorridere, e Michelle rispose con un sorriso mesto.

«Sarah torna in America domani», aggiunse Anna. «L'autorizzazione scritta del suo medico le consente di volare solo per altre quarant'otto ore, quindi ce l'ha fatta per un soffio già all'inizio.»

«Porterò dei pasticcini. Te li sei guadagnati.»

Ormai non condividevano più molti momenti piacevoli come quello, rifletté Anna. Erano entrambe preoccupate per cose che preferivano non rivelare: il suo desiderio di maternità, che Anna sapeva far spazientire Michelle, e il divorzio di Michelle, che lei non aveva più menzionato. Non aveva raccontato a Michelle delle date fissate per le ecografie o dell'ostetrica conosciuta da Becca, convinta che quei dettagli dovessero giungerle via Owen, ma aveva anche la sensazione che l'amica non le stesse raccontando tutto in merito alla libreria. Non le aveva ancora dato una risposta circa gli ordini per le loro grandi promozioni natalizie, e il sito non veniva aggiornato da diverse settimane, benché attraverso di esso Anna stesse ricevendo ordini regolari per i libri usati più specialistici.

Era stato tutto più facile quando parlavano di caffè e foulard, del talent show The Apprentice, del capanno di Phil, dei clienti abituali di Anna, e di Pongo. Adesso non ce n'era più il tempo.

«Mi mancano le nostre chiacchierate», disse Anna all'improvviso, allungando la mano per prendere quella dell'amica. «E anche a Pongo. Lily dice che lui le racconta che Juliet non lo porta a spasso bene come te.»

«Davvero?» Michelle parve compiaciuta. «Be', forse potrei portarlo a correre un po', un weekend di questi.» Abbassò lo sguardo sulla cassa di legno di Tavish, dove lui era raggomitolato, gli occhi invisibili nel pelo nero come la pece. «Non si può dire che questo cane esiga molto input atletico. Nelle ultime settimane ha fatto a malapena il giro del mio giardino. Persino Rory l'ha notato, e l'unica cosa che faccia di sopra è dormire, comunque.»

«È stato molto tranquillo per tutto il giorno», spiegò Anna. «Davvero molto.»

«Tranquillo come un cane malato?»

«No, solo... Mi ricorda alcuni dei vecchietti su alla Butterfields. Rimane semplicemente steso lì ad aspettare qualcosa.» Anna sentì un groppo in gola

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quando Tavish alzò leggermente la testa per poi accasciarsi di nuovo nella sua cassa.

«Se n'è accorto anche il signor Quentin, quando ho portato Tavish lassù, l'altro giorno», aggiunse. «Lui gli è rimasto seduto sulle ginocchia, calmissimo. Credi che stia per andarsene?»

«Non lo so.» Michelle si chinò per accarezzargli la testa. Il cagnolino tollerò la cosa con dignità. «L'ho portato dal veterinario, e George ha detto che sta solo invecchiando, non ha trovato nulla che non andasse. Ma quando un cane non mangia pollo in camicia sminuzzato su un letto di riso al vapore, c'è qualcosa sotto.»

«Michelle! Gli hai dato da mangiare una cosa del genere?» Anna lo trovò divertente, nonostante la tristezza. «Rory sa che stai preparando pasti canini da gourmet?»

«No. E non dirglielo», ribatté Michelle. «Mi fa già abbastanza sermoni su come ci si prende cura di un cane, come se non ne avessi mai avuto uno.»

«Non sapevo che lo avessi avuto.»

Lei assunse un'aria leggermente sfuggente. «Harvey e io avevamo uno spaniel di nome Flash.»

«Non me l'avevi mai detto!» Ultimamente sembrava che le cose che Anna non sapeva di Michelle diventassero sempre più numerose. Le informazioni continuavano a uscire fluttuando come piume da un cuscino.

«Mi sentivo in colpa ad averlo abbandonato. Mi è mancato per secoli. Mi manca ancora.»

«Non mi stupisce», commentò Anna. «A volte i cani ti amano più delle persone. Sono anche più facili da amare.»

Michelle parve sul punto di aggiungere qualcosa, poi toccò ripetutamente, con aria distratta, un rotolo di nastro di satin rosa avanzato da un recente bouquet di libri. «Ascolta, mi dispiace di non essere stata questa grande amica, ultimamente. Sai che puoi sempre venire da me per un caffè, se la situazione diventa insopportabile. Non siamo costrette a parlare di bambini o lavoro o altro. Possiamo parlare di libri, se vuoi.»

«Oh», replicò Anna. «Possiamo davvero parlare di libri? Hai finito Passione?»

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«Sì.»

«E ti è piaciuto?» sondò lei, decisa a costringerla ad ammettere che aveva apprezzato un libro. «Non negarlo. Sfido chiunque a non amare Jilly.»

«Ha... fatto riaffiorare una miriade di ricordi», ammise Michelle.

«Magnifico! Allora dovrò ordinarne degli altri. In effetti, cosa ne diresti se ordinassi un intero set di romanzi di Jilly Cooper e organizzassimo una promozione “Ottobre di fuoco”?» Anna si illuminò in volto al pensiero della sua esposizione seguente. «Oppure... “Novembre malizioso”? Potremmo far apparire davvero torrida la vetrina e creare cataste di best-seller con scene di sesso – “Chi ha bisogno del riscaldamento centralizzato?” Non abbiamo in programma granché per l'autunno. Avevo intenzione di parlartene comunque.»

«Lo so, anch'io avevo bisogno di parlarti», ribatté lei, ma Anna stava aspettando già da un po' di pronunciare il suo discorsetto da imbonitore per l'autunno e voleva dire tutto prima che l'amica la interrompesse. Lo aveva pianificato mentalmente durante le sue fughe con Pongo.

«Se riporti quelle coperte allo Home Sweet Home e liberi il mio tavolo migliore», aggiunse, «potremmo allestire un'incredibile esposizione di libri sui pony! Tutti amano i libri sui pony in autunno. Oggi Rachel mi ha chiesto se intendevamo rimpinguare la sezione Pullein-Thompson...»

Michelle si stava arrotolando il nastro rosa intorno alle dita, troppo stretto.

«Cosa c'è?» chiese Anna. L'unico lato positivo degli ultimi avvenimenti era che lei non aveva più paura delle brutte notizie. Come poteva peggiorare la situazione? «Continua.»

«I libri non stanno fornendo alcun profitto. Abbiamo già fatto questa conversazione. Ho tentato di fare quadrare i conti ma non funzionerà, senza qualche drastica rivalutazione. Voglio essere sincera con te, dubito che possiamo andare avanti così. Ben presto dovrò prendere una decisione.»

«Una decisione? Cosa intendi dire?» Anna ebbe un tuffo al cuore.

«Ho intenzione di trasferire qui dell'altra biancheria da letto, nelle prossime settimane.»

«Quanta? Dove la metterai?» Lo sguardo di Anna saettò in giro per la libreria, posandosi su tutti gli angoli e gli scaffali a cui non poteva rinunciare: la variopinta

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sezione Bambini, i consunti Penguin verdi sulle mensole dei polizieschi vintage, le svenevoli copertine guanti-bianchi-e-sigarette dei romanzi d'amore anni Cinquanta che qualcuno aveva regalato loro dopo avere svuotato una casa. La credenza con alzata e ripiani che ospitava la macchina del caffè e le tazze. Il cavallo a dondolo.

Lei amava ogni cosa. Era proprio quello il punto: la libreria era finalmente ridiventata il posto accogliente e pieno di vita che aveva bisogno di essere, e Anna avrebbe voluto abbracciare l'insieme. Era il cuore di tutto ciò in cui credeva: il lieto fine e i bambini distrutti riportati alla vita con l'amore. Tutto quello su cui appuntava le sue speranze. Se la libreria scompariva, lei come avrebbe potuto continuare a credere nei suoi sogni di avere una famiglia, nonostante tutto?

«Non riesco ad accettare che tu voglia cambiare tutto questo», disse di getto. «Lo abbiamo reso perfetto. Tutti adorano questo negozio. Sai quanti clienti regolari abbiamo, oggigiorno.»

Michelle sospirò. «Sai che lo amo anch'io. Davvero. Ma l'attività commerciale non consiste nel fare qualcosa per sé stessi, è per questo che Cyril è fallito. Consiste nel proporre qualcosa che la gente compri.»

«Questa sì che è bella, detta da qualcuno il cui negozio è identico a casa sua!»

«E questa non è forse la libreria dei tuoi sogni?» ribatté Michelle. «Ascolta, hai creato la perfetta reggia dei libri, proprio come io ho creato il salotto perfetto qui di fianco, ma devi guardare in faccia la realtà, Anna: questa non è un'incantevole libreria magica. Non c'è una grossa cassa piena di dobloni in cantina. Non ci sono nemmeno delle comode e inestimabili prime edizioni! Bisogna pensare agli affari.»

«Perché tutt'a un tratto sei così dura?» chiese Anna, scioccata nel sentirla parlare così del sogno a cui avevano dato vita insieme. «Perché adesso?»

Michelle sospirò come se fosse troppo ovvio e fastidioso da spiegare, il che irritò ancora di più Anna. «Perché ci sono tempi di consegna di cui tenere conto e ordini da fare adesso per Natale. Questo non implica certo una critica a quanto hai fatto. Hai venduto più libri tu negli ultimi tre mesi che Cyril in un anno. Ma non basta. È solo colpa dell'andamento attuale del mercato librario. Negozi più grandi e forniti di questo sono stati costretti a chiudere. Questa è la mia fonte di sostentamento e ho bisogno di farla funzionare. Tu hai Phil e le ragazze. Adesso

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hanno bisogno della tua energia. Non lasciarti distrarre da qualcosa contro cui non puoi combattere.»

«E tu non stai usando questo negozio come diversivo per non pensare ai tuoi problemi?» sbottò Anna.

«No! Niente affatto. Tu sì? Perché ti converrebbe più persuadere Phil ad avere un figlio che non tentare di rendere redditizio questo posto solo con i libri. Sul serio.»

Anna fissò l'amica da sopra il bancone e si rese conto che fino a quel momento non aveva mai visto la Michelle Schiacciasassi di cui Gillian e Kelsey avevano così paura. Questa Michelle aveva un modo di parlare che faceva apparire futile qualsiasi resistenza, come se le sue decisioni venissero messe in atto tutt'intorno a loro, mentre stavano parlando. Se delle coperte si fossero materializzate sugli scaffali dietro di lei, Anna non ne sarebbe rimasta stupita.

«Non dire a me come gestire i rapporti.» Un accesso di furia difensiva la spinse a parlare senza riflettere. «Forse se tu avessi passato meno tempo a pensare alle coperte e più tempo a tenere d'occhio Owen, io sarei nella posizione di avere un bambino invece di trovarmi davanti la prospettiva di badare a quello della mia figliastra per i prossimi diciotto anni!»

Michelle rimase a bocca aperta. «Come, scusa? Lo stai dicendo perché ti senti in colpa per non avere spiegato i fatti della vita a Becca o lo pensi davvero? Perché in tal caso spero che non ti farai mai sentire da lei.»

«Non sei nella posizione adatta per montare in cattedra in fatto di relazioni umane, Michelle, e lo sai.»

«E questo cosa vorrebbe significare?»

«Significa quello che significa.» Anna era in preda a una rabbia incandescente. «Ho condiviso tutto con te. Tutte le mie preoccupazioni per Phil e le ragazze e quanto desidero un figlio. Ma tu tieni nascoste le cose! E non soltanto a me. Tieni tutti a distanza perché così non devi lasciarti coinvolgere, perché così puoi essere totalmente razionale, al riguardo. È per questo che non tieni alla libreria tanto quanto tieni al tuo negozio? Perché i clienti entrano qui e parlano? Non si limitano a comprare un paralume, condividono emozioni. Ecco perché significa più del mero denaro. Ma questo non conta, per te, perché non l'hai mai capito.»

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Ecco. Erano usciti allo scoperto, i tarli che avevano lavorato così a lungo sotto la superficie. Per un attimo Anna si sentì meglio per averli portati alla luce, ma stava già provando un orrore strisciante al pensiero di cosa poteva aver appena fatto alla loro amicizia.

«Non stai ascoltando nulla di quello che dico.» L'espressione di Michelle era gelida e distaccata.

«Ho sentito tutto», replicò Anna, e corse fuori.

Anna non ricevette nessun sms o messaggio telefonico di scuse da parte di Michelle, dopo essere rincasata. E nemmeno la mattina seguente. Non raccontò a Phil della loro discussione – suonava troppo meschina, e comunque loro due avevano smesso di parlarsi, a colazione – ma andò al lavoro con il cuore pesante, psicologicamente pronta a trovare un modulo di licenziamento sul bancone.

Quando arrivò, Kelsey stava facendo il primo turno, solitamente appannaggio di Michelle, e la sezione di interesse locale era stata spostata nello spazio precedentemente occupato dal gigantesco orso Paddington. Una scala a libretto color crema coperta di camicie da notte orlate di pizzo era sistemata accanto alla porta.

Se lo avesse visto allo Home Sweet Home, le sarebbe venuta voglia di comprare l'intero lotto, ma adesso percepiva quegli oggetti come un'invasione. Persino un messaggio che le offriva l'orso di peluche per la nursery del bimbo di Becca non attenuò l'effetto della cosa.

Durante tutta la settimana si verificarono altri piccoli cambiamenti e, sempre di notte, quando Anna non c'era. La merce più esoterica sparì nel magazzino al piano di sopra e ricomparve in forma virtuale sul sito web, e al suo posto giunsero borse color lavanda e calzettoni da letto in cashmere. Alcuni clienti adorarono le nuove aggiunte – soprattutto le «mammine Malory Towers» – ma alcuni degli avventori regolari vollero sapere cosa stava succedendo, visto l'improvviso afflusso di pantofole in pelle di montone.

«A cosa toccherà poi? Piumoni nella sezione dei thriller?» chiese Rory, passando a ritirare del materiale di lettura durante una pausa pranzo. Stringeva al petto una pila di vecchi libri con Horatio Hornblower da leggere alla Butterfields; Anna inoltre gli aveva consigliato The Very Hungry Caterpillar di Eric Carle per Zachary, e lui teneva in mano anche quello, con aria meno sicura.

«Lei dice che abbiamo bisogno di incrementare i profitti.»

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«Ma davvero?» Rory fece una sbuffata derisoria. «Credo di doverle parlare, a quel proposito. Se vuole sbarazzarsi di qualcosa può far sparire quella terribile sezione dedicata alle tortine glassate, ma eliminare la fiction storica...»

Scosse il capo, disgustato. Ad Anna la cosa parve più personale che professionale.

«Puoi parlarle tu?» chiese lei. «A te dà ascolto.»

«Non ne sono così sicuro», replicò lui, e Anna notò il rossore punteggiargli le guance.

Rory le piaceva di più, adesso che Michelle le aveva confidato la verità su Zachary ed Esther. Ma le era sempre piaciuto; era caustico come Michelle ma non così secco. Anche Kelsey aveva cominciato a trovarlo simpatico, e persino Gillian si era interrogata sulla possibilità che Tavish facesse mettere insieme lui e Michelle, visto «che hanno entrambi bisogno di compagnia».

Anna aveva sempre creduto, romanticamente, che al cuore ferito di Michelle servisse solo un'ondata di marea di vera passione, per riprendere vita; ultimamente, però, si domandava se non si fosse sbagliata. Forse Michelle stava meglio con Tavish. Forse Rory, la sua ironia pungente e la sua furia per gli apostrofi fuori posto meritavano qualcosa di più.

«Pensa alla libreria, Rory», gli disse. «Fallo per noi.»

Lui le rivolse un sorriso mesto e si spinse indietro la lunga frangia. «Sei cose impossibili prima di colazione, eh? Farò quel che posso, ma non ti prometto niente.»

«Nessuno di noi può farlo», ribatté Anna. «È proprio questo il problema.»

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Capitolo 29

«Fuga al museo è geniale. Ho adorato l'idea di fuggire per andare a vivere in un museo, mi è sempre sembrato che li avrei trovati molto più magici, senza nessun altro intorno.»

Allison Hunter

Un vento sottile e freddo sferzava gli alberi, piegandoli verso la casa come creature in ascolto mentre, un mercoledì all'ora di pranzo, Anna e Tavish percorrevano il vialetto ghiaioso che portava alla Butterfields. Era un'immagine piuttosto sinistra che lei ricordava vagamente di avere letto in un libro di favole, pur non riuscendo a rammentare quale, e rabbrividì, avvolgendosi meglio la sciarpa intorno al collo. Tavish camminava ancora più lentamente del solito, le corte zampette irrigidite sotto la cortina di pelo, così lei lo prese in braccio e lo portò dentro l'edificio.

L'atrio parve particolarmente silenzioso quando vi mise piede, con il riscaldamento alzato al massimo e un forte odore di stufato nell'aria. Tavish si dimenò per liberarsi e imboccò rapidamente il corridoio, diretto verso la sala comune; vista la mancanza di traffico di deambulatori, lei lo lasciò andare a cercare il signor Quentin mentre firmava il registro degli ingressi.

«Anna?»

Joyce la raggiunse in fretta, il viso già contratto in una maschera d'avvertimento «cattive notizie in arrivo», un dito premuto sulle labbra. Anna la osservò con maggiore attenzione e vide che aveva le guance bagnate di lacrime e gli occhietti arrossati. Joyce non era tipo da piangere, di solito sfoggiava un corroborante pragmatismo.

«Joyce? Stai bene?» chiese, toccandole il braccio.

«Oh, sono un po' a pezzi, sinceramente. Si tratta del povero signor Quentin.» La donna estrasse un fazzoletto dalla manica e si asciugò gli occhi. «Se n'è andato circa un'ora fa. Era pronto per te, sulla sua solita poltrona. Non vedeva l'ora di vedere te e il giovanottino. Continuava a chiedere quando sareste arrivati e se avevamo preparato il biscotto per il cane. Poi ha chiuso gli occhi – per un rapido

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sonnellino, ha detto, prima della storia – e...» Le si incrinò la voce. «Non si è più svegliato.»

«Oh, no.» Anna si portò la mano alla bocca, di scatto. «Oh, no.»

«Se devo essere sincera, non stava molto bene già da un po'. Il cuore.» Joyce si picchiettò il palmo della mano sul petto, coprendo una vasta gamma di diagnosi. «Il dottor Harper non riteneva necessario farlo ricoverare, ma ci ha avvisato che Cyril avrebbe potuto andarsene all'improvviso.»

Si udì un suono stridulo arrivare dal salotto e Anna corse giù per il corridoio. Quello che vide ingrossò il groppo nella sua gola.

Tavish era saltato sulla poltrona a orecchioni del signor Quentin e stava girando freneticamente in tondo, tentando di captare un odore sui cuscini e continuando a emettere un suono di gola sommesso e straziante mentre dimenava la coda che li colpiva con lenti tonfi.

Gli altri ospiti lo osservavano in silenzio, alcuni premendosi un fazzoletto sul viso contratto in una smorfia, ma nessuno di loro lo allontanò a gesti dalla poltrona del padrone.

Anna corse a prenderlo in braccio ma lui si divincolò sottraendosi alla sua stretta e tornò sulla poltrona, girando in tondo e annusando e guaendo, e a lei non rimase che guardarlo. Lo aveva intuito. In qualche modo Tavish lo aveva intuito prima di loro.

Lei si lasciò cadere sulla poltrona accanto e diede libero sfogo alla tempesta di lacrime che le si erano accumulate dentro per giorni. Alcune per il signor Quentin, ma la maggior parte per la dimostrazione di devozione pura e incondizionata che aveva davanti agli occhi.

Non poteva fare a meno di sentire che anche lei aveva perso qualcosa – con Phil, con Michelle, con i suoi stessi sogni –, ma preferiva non riflettere su cosa fosse di preciso.

Michelle passò in libreria alle quattro e mezzo, come al solito, e trovò Anna e Becca sedute accanto al caminetto sul retro con Tavish. Lui era acciambellato sulle ginocchia di Anna e per una frazione di secondo, vedendo i loro occhi arrossati e l'immobilità del cagnolino, Michelle pensò che fosse morto. Lo shock le fece battere forte il cuore.

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«Sta bene?» chiese, lasciando cadere la borsa sulla soglia ed entrando in fretta, dimenticando che il negozio era ancora aperto e che lei e Anna si parlavano a stento, a parte i convenevoli di base.

«Il signor Quentin è morto», spiegò Anna, tirando su con il naso. «Stamattina, appena prima del nostro arrivo là. Il povero Tavish è rimasto sconvolto. Dopo aver annusato freneticamente la poltrona del padrone è corso via e ha trovato il suo corpo nella camera, poi ha cominciato a ululare così tanto che ho telefonato a Rachel e lei ha mandato là suo marito, George, che gli ha dato un tranquillante.»

Si soffiò il naso in uno dei costosi fazzoletti di carta presi dal cestino sul bancone. Lei e Becca ne avevano fatti fuori due pacchetti, a giudicare dall'ammasso di carta appallottolata intorno a loro. «Per poco non gli ho chiesto di darne uno anche a me. È stata la cosa più triste che io abbia mai visto.»

«E adesso sta bene?» Michelle si chinò ad accarezzare le orecchie di Tavish, ma lui non reagì. I peluzzi sulla punta delle sue orecchie, sempre un precisissimo indicatore del suo stato d'animo, sembravano privi di vita.

Non si era mai resa conto di come avesse imparato bene a leggere lo scontroso linguaggio corporeo di Tavish e di quanto il cagnolino potesse rivelarsi sottile nel comunicare i propri sentimenti. O di quanto le sarebbe mancata la sua imperiosa presenza in giro per casa, se all'improvviso lui non fosse stato lì.

“Non morire, ometto”, pensò con foga. “Ho del pollo in frigo per te. E del salmone. E puoi dormire sul mio letto, se questo ti fa sentire meglio.”

«George ha detto che se supera i prossimi giorni starà bene, probabilmente, ma è un cane anziano e a volte possono andarsene quando lo fanno i loro padroni.» Anna si asciugò il viso. «È come quel libro terribile. Greyfriars Bobby.»

«Odio quel libro», disse di colpo Becca. «Una volta la nonna l'ha letto a me e a Chloe mentre ci faceva da babysitter e noi abbiamo pianto per giorni. Ancora non riesco a togliermi dalla testa l'immagine di quel povero cane che aspetta sulla tomba del suo padrone... Oh, Anna, mi hai fatto ricominciare», aggiunse mentre altre lacrime le colmavano gli occhi.

Anna tentò di scacciare le sue con una battuta. «Te l'ha letto Evelyn? Tipico. Indice di grande sensibilità.»

«Prima che tu me lo chieda, io non l'ho letto», affermò Michelle. «E ora non ho certo voglia di farlo.»

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Becca si alzò e Michelle le notò un rigonfiamento lieve ma inconfondibile sotto la maglietta a maniche lunghe. Ne rimase stupita. Il tempo passava davvero in fretta.

Si girò verso Anna con l'intenzione di dire qualcosa, ma non sapeva cosa. Nel suo cervello c'era un vuoto doloroso laddove avrebbero dovuto trovarsi le parole giuste – lei non aveva idea di cosa significasse desiderare ardentemente un figlio – e la sua amica sembrava sulla difensiva. Si rese conto di avere troppa paura per dire alcunché alla gentile Anna, che le era sempre stata vicina con delicatezza.

«Anna, ora che è arrivata Michelle io posso andare», disse Becca. «So che suonerà molto triste, ma voglio portare Pongo a fare una passeggiata.»

«Vai pure», la incitò Michelle. «Porta con te anche Owen, è qui accanto.»

«È una buona idea?» chiese Anna, gelida. «Non dovrebbe lavorare?»

«Pongo è forte», affermò Michelle. «Tu devi stare attenta. E Owen ha bisogno di imparare qualcosa sulle routine. E le responsabilità. E il raccogliere la cacca. Fallo cominciare con il cane. Ha cinque mesi di tempo per abituarsi all'odore.»

Anna non proferì parola e cominciò a raccogliere i fazzolettini usati.

Becca rivolse a Michelle un sorriso triste, della serie: “Ci hai provato”, e le lasciò sole.

«Anna», cominciò a dire Michelle, ma l'amica non era interessata.

«Ho alcuni libri da vendere», dichiarò. «Intanto che il negozio è ancora aperto.»

La giornata passò così lentamente che Michelle si chiese più volte se gli orologi si fossero fermati; lasciò il negozio alle sei e un quarto senza nemmeno prendersi il disturbo di rassettare.

Una volta a casa si versò un bicchiere di vino e si sedette sul divano con Tavish. Alle otto non si era ancora mossa. Il cagnolino si era addormentato e aveva l'aria di stare così comodo che lei non sopportava l'idea di spostarlo, benché la gamba sinistra avesse cominciato a formicolarle. Gli passava automaticamente la mano lungo la schiena, accarezzandolo più per consolare sé stessa che lui e sentendo il lento ritmo altalenante del suo respiro.

Sapeva che avrebbe dovuto proseguire con la sua lista settimanale di cose da fare, ma la tristezza le gravava addosso, bloccandola lì sul divano come la sbarra

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d'acciaio di un vagoncino delle montagne russe. Le affermazioni di Anna l'avevano ferita come Harvey non era mai riuscito a fare. Le giravano in tondo nella testa, rese ancora più taglienti dallo sguardo addolorato dell'amica. Anna pensava davvero che lei l'avesse tenuta a distanza per poter sputare sentenze? Come poteva farlo quando la vita di Anna era così calda e accogliente, era tutto ciò che lei avrebbe tanto voluto avere, se solo fosse stata abbastanza fortunata?

Non era facile al pianto come Anna, ma sentiva il corpo dolorante a causa di un senso di solitudine che le faceva venire voglia di finire la bottiglia e aprirne un'altra. Se litigava con Anna, non le rimaneva nessuno. Ritrovarsi sola e single era estenuante e deprimente, ma rimanere senza l'unica vera amica che avesse mai avuto... Non era sicura di poterlo sopportare.

Quando il campanello suonò, sia lei sia Tavish sobbalzarono, e Michelle zoppicò fino alla porta.

Rory era fermo lì davanti, il bavero del cappotto rialzato, la punta del naso leggermente arrossata. Quando la vide non sorrise come al solito e sollevò le spalle senza togliere le mani dalle tasche. «Ciao.»

«Ciao. Ho scordato che ci eravamo messi d'accordo? Non è previsto che oggi tu prenda Tavish, vero?»

«No. Ho semplicemente pensato di fare un salto qui. Per un caffè e una chiacchierata.» Rory inarcò un sopracciglio. «Scusa, avrei dovuto chiamare per fissare un appuntamento, ma ho immaginato che ti avrei trovato in casa. Fammi entrare, si gela qua fuori.»

«Sarebbe stato meglio telefonare.» Michelle aprì la porta e si scoprì a rimpiangere di non essersi cambiata. Portava ancora gli abiti da lavoro: una gonna a sigaretta nera adesso coperta di peli canini e una camicetta macchiata da giusto un pizzico di saliva laddove la testa di Tavish le era rimasta posata sul braccio.

«Triste la notizia di Cyril, vero?» chiese Rory, chinandosi per fare solletico al cagnolino sotto il mento barbuto. «Mi mancherà molto. Comunque ha lasciato un testamento estremamente complesso, quindi presumo che sarà lui quello che riderà per ultimo.»

«In che senso complesso?»

Rory andò in cucina senza togliersi le scarpe. Cominciò con il suo tipico gesto di afferrare varie suppellettili per esaminarle e poi posarle in un posto diverso da

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dove erano. «È un vero testamento alla Agatha Christie, con lasciti individuali e oggetti vari che finiscono ovunque. Adorava riscrivere il suo testamento. Lo faceva ogni pochi anni, a quanto pare.»

«Oh.» Lei cominciò a versare cucchiaiate di caffè in polvere nella caffettiera a pressione, poi cambiò idea e aprì il frigo. «Ti andrebbe del vino?»

«Perfetto.» Rory si sedette accanto a Tavish e gli permise di arrampicarglisi sul ginocchio. «Naturalmente la morte di Cyril avrà più ripercussioni su di te che su quasi tutti gli altri, vero?»

«In che senso?» Lei sapeva benissimo dove lui volesse andare a parare, ma preferiva sentirglielo dire.

«Non sei più costretta a rispettare la sua clausola sull'anno di libri. Anche se, a ben vedere, è una fortuna che Cyril non facesse mai una scappata in libreria per controllarti. Una fortuna anche che io non ti abbia imposto di rispettarla. Ma in fondo so quando scendere a compromessi.»

Rory la stava guardando, con un'aria di sfida negli occhi grigi, e lei capì che si riferiva alla lenta avanzata della biancheria da letto. Immaginò che lui avesse parlato con Anna. Probabilmente avevano avuto una delle loro conversazioni su di lei e la sua allergia ai libri.

La serenità del suo salotto lasciò il posto a una crepitante tensione; il tono di Rory era garbato, ma Michelle si accorse che celava una sincera irritazione.

«Non menare il can per l'aia», gli disse freddamente, passandogli il bicchiere. Potevano parlarne come adulti o, ancora meglio, come avvocato e affittuaria, se era così che lui preferiva. «Se la cosa ti ha dato tanto fastidio, perché non hai detto niente?»

«Perché tecnicamente presumo che tu non stia violando la lettera dell'accordo, ma in senso più generale credo di sentirmi semplicemente deluso.»

«Deluso?» ripeté lei. «Chi diavolo sei per sentirti deluso?»

All'epoca in cui vendeva auto aveva conosciuto parecchi uomini con una gran faccia tosta, ma nessuno come Rory. Nessuno che fosse alimentato come lui dalla granitica certezza di essere nel giusto. Lui ignorò l'irritazione nella voce di Michelle e rispose con foga.

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«Se intendi eliminare l'unico posto di Longhampton in cui si possono trovare tepore e intelligenza, almeno sistemaci qualcosa di più interessante della tua orrenda e asessuata biancheria da letto. Per prima cosa, Anna merita di meglio. È insultante, dopo tutto quello che ha fatto. Dei dannati cuscini decorativi!»

Michelle si inalberò. Sentirsi fare la ramanzina su letti asessuati da un uomo con una spada laser appesa al muro? Rimpianse di avergli dato il bicchiere di vino. Sarebbe stato piacevole versarglielo addosso.

«Scusa, puoi ripetere?» disse in tono gelido.

«Qual è lo scopo? Cosa stai dando alla città, con dei cuscini decorativi? Ero sinceramente convinto che ti stessi impegnando nel tentativo di far funzionare la libreria, vista la quantità di tempo che tu e Anna avete passato a sistemarla. Credo di avere pensato che significasse qualcosa per te, così come significa qualcosa per me. E Anna. E gli altri clienti regolari.»

Lei si concesse un attimo per dominare l'accesso di adrenalina furibonda che le sfrecciava nel corpo, ma scoprì di non riuscirvi. Era stata punta sul vivo.

«Hai una seppur minima idea di come suoni compiaciuto e ignorante?» chiese. «Cosa vendo in quel negozio non ti riguarda. Il giorno in cui accetterò consigli commerciali dall'avvocato di un paesino che non possiede nemmeno il suo appartamento capirò di essere davvero rimasta a corto di idee.»

La frase parve toccare un nervo scoperto. Lui posò il bicchiere sul tavolino, ignorando deliberatamente il sottobicchiere.

«E immagino che vorrai affidare Tavish a me, ora che non è più necessario», aggiunse lui, provocandola di proposito.

Michelle strinse gli occhi. «Questo è un colpo basso.»

«Davvero? A te è concesso fare commenti maligni. Sarei felice di tenerlo. Suppongo che i peli ti abbiano fatto impazzire. Inoltre non hai certo bisogno di quel legame, vero? Il grosso, terrificante legame emotivo che ti impedisce di volare in giro per il paese raccogliendo altra roba inutile.»

«Come osi?» cominciò a dire lei, ma Rory non aveva ancora finito.

«Insomma, potresti vendere qualsiasi cosa. Perché non vendere qualcosa che significa qualcosa? Qualcosa che conta?»

«Per esempio le storie?»

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«I libri contano. Rappresentano un'ispirazione, un'evasione. Qualcosa di più grande di noi...»

«Per esempio le storie. Magnifico. Questo sì che è utile, giusto?» chiese sarcasticamente lei. «Evasione. Wow. Perché questo sì che aiuta la gente. Tanto vale che io apra una bottiglieria. Ehi, ubriacatevi e la mattina dopo trovatevi a dover affrontare tutti i vostri problemi e in più un bel doposbornia. Che differenza c'è fra vendere alla gente una versione del tutto irreale della vita e spacciare droga?»

Nella testa di Michelle c'era una sensazione lontana che sembrava controbattere mentre lei parlava, ma la ignorò. Persino il modo in cui Rory la stava guardando – quegli occhi grigi che la scrutavano in volto come se riuscisse a leggervi qualcosa, mentre il piede che aveva posato sopra la lunga gamba si muoveva nervosamente – la rendeva furibonda. Lui appariva troppo mascolino, troppo disordinato, troppo imprevedibile in casa sua, e lei lo voleva fuori, fuori di lì, il prima possibile. Ma non nello stesso modo in cui voleva fuori di lì Harvey. Rory non le metteva paura. La rendeva solo furiosa.

Lui aprì la bocca per ribattere, poi si fermò e si passò una mano sul viso.

«Perché sei così difficile da aiutare?» chiese da dietro di essa.

Michelle trasalì. «Non è vero.»

«Sì, invece.» Lui la fissò attraverso gli spazi fra le dita. Il suo sguardo era ancora ardente, ma non più ostile. «Di maniaci del controllo ne ho conosciuti – sono un avvocato immobiliarista, per l'amor del cielo –, ma non ho mai conosciuto nessuno così sulla difensiva.»

«Non mi conosci affatto», dichiarò Michelle.

«Sì che ti conosco.» Rory allungò una mano di scatto, indicando il salotto. «Guardati intorno. Hai una casa magnifica del tutto priva di personalità. Niente fotografie, niente oggetti d'arte, niente libri, nulla che mi dica qualcosa di te. E questo mi dice tutto! Non vuoi che le persone ti conoscano, vuoi che ammirino soltanto il tuo buon gusto. Sono due cose molto diverse.»

«Sciocchezze», replicò lei, sprezzante. «Non reciti Judge John Deed, sai.»

«Non sono affatto sciocchezze. Hai un negozio pieno di bellissime e inutili cianfrusaglie che incoraggiano le donne che non hanno nulla nella vita a riempire la propria casa di altro nulla. Di cuscini decorativi, intendo.»

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Ne prese uno di satin plissettato e glielo fece oscillare davanti, con aria sarcastica.

«A cosa serve questo? Se non a disporlo sul tuo divano?»

«Serve a sostenerti la schiena», disse Michelle.

Rory lo buttò sul pavimento, senza mai staccare gli occhi dal suo viso.

«Oh, molto intelligente», commentò lei.

Lui ne prese un altro, la guardò con aria di sfida e lasciò cadere anche quello.

«Vuoi che lo raccolga», disse lei. «Ma non intendo farlo.»

Rory gettò per terra il terzo cuscino e Michelle dovette farsi forza per non raccoglierlo, ma poi lui fece vagare lo sguardo in giro per la stanza finché non cadde sulla ciotola piena di conchiglie posata sul tavolino.

Era un assortimento di conchiglie di cardio, conchiglie di ciprea giallo burro, minuscole conchigliette a torciglione che lei aveva impiegato secoli per disporre metodicamente in ordine di grandezza in modo che formassero strisce di colore, l'ordine sovrimpresso alla loro naturale casualità. Owen le aveva chiesto a che pro le avesse sistemate in quel modo e lei non era riuscita a fornirgli un motivo; la vera risposta era che era servito a distrarla da Harvey e dalla sua giovinezza sprecata.

«Per esempio queste», disse Rory. «Sono conchiglie. Sono fatte per essere disseminate su una spiaggia, non allineate in ordine di preferenza. Il loro fascino è casuale e tu...»

«Non farlo», gli intimò lei, sapendo quali intenzioni avesse.

«Perché no? Questo non le rende meno belle. Se fossero in disordine penserei: “Ehi, che interessante souvenir di una vacanza. Chissà dov'è andata. Devo chiederglielo”.» Lui sostenne il suo sguardo e Michelle provò un imprecisato brivido interiore che le fece rizzare la peluria sulle braccia.

Tenendo nuovamente gli occhi fissi nei suoi, Rory allungò una mano e infilò le dita fra le conchiglie, allargandole finché le fasce cromatiche cominciarono a confondersi e farsi indistinte. Tutta quell'ossessiva disposizione cancellata da un'unica passata della sua mano da pianista. Poi piegò le dita in modo che ripassassero fra le conchiglie, facendole tintinnare contro la ciotola. Nel movimento c'era qualcosa di stranamente sensuale e lei sentì fremere lo stomaco.

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Poi Rory fece per rovesciare la ciotola e la determinazione di Michelle si infranse.

«No», disse lanciandosi in avanti per impedirgli di far cadere le conchiglie sulla moquette.

Gli ghermì un braccio, le dita che gli si serravano intorno al polso, e lui afferrò il suo per impedirle di cadere sul tavolino di vetro. L'impeto del movimento di lei la spedì quasi sulle ginocchia di Rory, e si immobilizzarono entrambi. Benché i loro unici punti di contatto fossero la mano di lui sul polso di lei e viceversa, il collegamento sembrava molto più intimo. Il momento vacillò sul filo di una lama.

Le loro bocche erano vicinissime e Michelle sentiva il gusto del fiato di Rory. Il cuore le batteva talmente forte che era tentata di ansimare, ma mantenne il respiro regolare, non volendo assolutamente dargli l'impressione di ansare per lo sfrenato desiderio come una sorta di stalliera di Jilly Cooper.

Ma la verità era che le sue viscere sembravano essersi trasformate in fuoco, e le ginocchia non erano messe molto meglio. Il sangue le stava scorrendo nell'organismo come se venisse lasciato libero per la prima volta da anni. Avrebbe voluto ansimare perché era davvero senza fiato, ma continuò a respirare regolarmente, preoccupandosi di cosa stava percependo Rory.

Lei aveva un odore gradevole? L'alito fresco? Era passato talmente tanto tempo da quando qualcuno aveva fatto commenti in merito. Ma lui non l'avrebbe baciata. Michelle doveva solo escogitare il modo di alzarsi senza far apparire imbarazzante la cosa.

“Voglio che lui mi baci”, gemette una vocina lamentosa nella sua tesa. “Baciami!”

Il naso di Rory sfiorò il suo e Michelle si rese conto che lui doveva essersi avvicinato un altro po'. O forse lo aveva fatto lei. Ma ormai i loro nasi si stavano decisamente toccando, le loro labbra erano socchiuse e lei riusciva a sentire il respiro accelerato di lui. Rory stava respirando molto a fatica, sforzandosi di dominarsi.

Poi si allungò in avanti coprendo l'ultimo essenziale paio di centimetri e la baciò. Michelle non riusciva a ricordare di essere mai stata baciata così. Le labbra di Rory risultarono strane contro le sue, mascoline ma morbide, e il profumo della sua pelle sembrava diverso ma al contempo familiare, e lei gli si appoggiò come se avesse aspettato a lungo la cosa.

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La mano di Rory le cinse il viso, sfiorandole la guancia, poi le scivolò fra i capelli. Michelle era inginocchiata accanto al divano, alcune conchiglie le si stavano conficcando nelle ginocchia e probabilmente stavano lacerando la moquette, ma quei pensieri occupavano solo un remoto angolino del suo cervello.

In primo piano nella sua mente, a spingere via tutto il resto, c'era Rory.

Michelle pensò com'era triste che durante tutti gli anni in cui aveva avuto quel divano non si fosse mai resa conto di quanto fosse comodo per sdraiarvisi sopra. E con quanta facilità potesse accogliere un uomo di un metro e novanta steso lì insieme a lei.

“Dovrei dirlo ai produttori”, pensò, sognante, mentre la mano di Rory continuava ad accarezzarle la lunga curva della vita, infilandosi speranzosa nel varco fra gonna e camicetta. “Potrebbe essere un argomento importante ai fini delle vendite.”

Passò la mano sulla ruvida curva della mascella di lui e lo fermò. «No», disse.

Si erano baciati a lungo, ma ogni qual volta Rory aveva tentato di portare la cosa più in là, lei lo aveva fermato, ghermendogli di nuovo il polso, tenendogli le mani lontane da qualsiasi cerniera e bottone. Dopo un po' lui aveva smesso di provare, concentrandosi invece sulle parti del corpo di Michelle che erano esposte, il che si era rivelato... be', sufficientemente straordinario.

«Michelle», disse, «non fraintendermi, ma perché qualcuno che bacia in questo modo abita in una casa come questa?»

«Cosa vuoi dire?»

«Lo sai benissimo. Dentro di te non c'è una regina dei cuscini decorativi. E hai detto di non essere sempre stata così ordinata. È stata solo la rinuncia al tuo lavoro a spingerti a concentrarti sull'arredamento.»

Lei fissò il soffitto benché i suoi occhi non vedessero nulla. Stava guardando un soffitto diverso, quello della sua camera a casa dei genitori, dove era rimasta sdraiata per una lunga estate, rifiutandosi di uscire.

Incredibile che lui l'avesse ascoltata. E si ricordasse tutto. “A questo punto potrei inventarmi qualcosa”, pensò. “Questo potrebbe essere il momento in cui ricomincio da capo, inizio una nuova vita.”

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Pensò a Harvey. «Quando glielo dirai? Quando confesserai che tipo di persona sei?» le aveva detto.

“Se lo racconto a Rory adesso”, rifletté, “gli offro la possibilità di non andare oltre.” La cosa le dava la nausea, ma lui era un avvocato. Conosceva sicuramente persone ben peggiori di lei, vero? Anche se l'avesse giudicata disgustosa, lei non poteva certo essere peggiore di alcune altre donne da lui conosciute in passato.

Il suo stomaco ebbe un sussulto mentre lei si alzava faticosamente dal divano e saliva nella camera degli ospiti. Era immacolata, proprio come l'aveva lasciata, con una spolveratina di cuscini decorativi come se fossero dolciumi in tipici colori pastello posti sul letto matrimoniale inutilizzato.

Con una passata del braccio li gettò tutti a terra, poi infilò le mani sotto il materasso per cercare il diario. Le sue dita toccarono il tessuto della copertina e con estrema lentezza lei lo recuperò, i laccetti di cuoio ancora strettamente legati.

“Eccolo qui”, pensò, soppesandolo fra le mani. “Il libro che nessuno a parte me ha mai letto. E il motivo per cui l'ho scritto era evitare la necessità di spiegare adesso, proprio come se una Michelle futura avesse esortato quella passata a farlo.”

Doveva consegnarlo a Rory? Insomma, lo conosceva a stento. Ma nei suoi confronti provava una sensazione mai provata riguardo a nessun altro, la sensazione che qualsiasi cosa lei gli dicesse non avrebbe influito sull'opinione che si era fatto di lei. Lui poteva anche fare domande e sondare più di quanto Michelle avrebbe desiderato, ma sotto tutto ciò si percepiva il costante ronzio di qualcosa di positivo, di fiducioso.

Inoltre voleva dirlo a qualcuno. Non voleva più che lei e Harvey fossero gli unici a saperlo.

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Capitolo 30

«Diario segreto di Adrian Mole di anni 13 e 3/4 mi fa ancora ridere. Il mio diario da adolescente era identico a quello. Guardando indietro mi rendo conto di avere corretto e tagliato spudoratamente, ma sarei comunque morta se qualcuno a parte me lo avesse letto.»

Katie Parkinson

«Tieni.» Michelle passò il diario a Rory. «Leggilo.»

«Leggere cosa?» Lui assunse un'aria divertita, poi seria quando vide la sua espressione. «Che cos'è?»

«Il mio diario.» Lei parlò lentamente, scegliendo le parole con molta cura. «Ti ho detto che sono stata espulsa. Bene, all'epoca scoppiò un grosso scandalo. Finì sui giornali. E non era legato solo al bere, come dissero loro. Fu... peggio. Ho tentato di dimenticare gran parte di quanto successe. Sono rimasta a lungo sotto shock e quando ne sono uscita mia madre disse a chiare lettere che non voleva sentire nessuno dei “sordidi dettagli”, come li chiamava lei, e mi avvisò che se desideravo che mio padre continuasse a volermi bene dovevo lasciarmi la cosa alle spalle e non menzionarla mai più.»

«Ma tu l'hai messa per iscritto?»

«All'epoca scrivevo tutto», spiegò lei. «Quel detto secondo cui se nessuno sente cadere un albero... era il mio credo, quando ero adolescente. Se non lo avessi scritto, avrebbe significato che non era mai successo.»

«Quindi eri una scrittrice, in segreto?» chiese lui, affascinato. «E una lettrice?»

Michelle annuì. Le sembrava di parlare di una vecchia amica, non di sé. «Leggevo continuamente. Ho smesso perché...» Tentò di bloccare un pensiero scivoloso che non era mai riuscita a esprimere fino in fondo. «Perché quando sono arrivata a rileggere il mio diario, dall'inizio, non ero più quella ragazza. Le esperienze erano le mie, ma non ero più la stessa persona. Non riuscivo a credere alle mie parole. Ed ero reduce da un tale incubo – e fu un incubo nel vero senso della parola, sembrò che stesse succedendo a qualcun altro – che leggere dello stupido cuore spezzato o del malinteso di qualcun altro sembrava inutile. Avevo l'impressione che i libri fossero un imbroglio.»

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Rory rimase in silenzio. Guardò il volumetto fra le sue mani. «Sei sicura di volere che lo legga?»

Lei annuì. «Voglio che tu sappia...» Sentiva le labbra secche e le sembrava di avere la lingua incollata al palato. «Sappia il perché. Perché ho dovuto ricominciare da capo, e controllare ogni cosa esattamente come desideravo. So di essere una maniaca del controllo, ma è l'unico modo in cui sono riuscita ad affrontare la situazione.»

«Lo hai letto di recente?»

Lei scosse il capo, disgustata al pensiero di rivedere quei fatti annotati con la sua calligrafia da ragazzina. «Mai, dal giorno in cui l'ho scritto. Be', ho sfogliato le prime pagine, ma mi sono fermata. Non voglio leggere della festa. So cosa è successo.»

La festa. Suonava così innocuo. Era solo una parola, una parola che in seguito aveva usato un milione di volte, ma ora che lei si stava riferendo a quella festa, per la prima volta in tredici anni, le si bloccò in gola.

Si umettò le labbra.

Rory slegò i laccetti e aprì il quaderno, poi si fermò.

Glielo restituì. «Credo che tu abbia bisogno di leggerlo più di me», asserì. «Non mi servono i dettagli. Poi mi dirai quello che vuoi. Tieni.»

A Michelle tremarono le mani mentre lo prendeva, ma si costrinse a leggere dall'inizio del secondo trimestre.

Era cominciato in maniera più che discreta, con Michelle che otteneva buoni risultati nelle prove d'esame ed Ed Pryce che le si sedeva accanto alle lezioni settimanali di studi generali, inducendola a passare l'intera pausa pranzo del martedì a rifarsi più volte il trucco.

Vi fu un contrattempo in febbraio, quando si scoprì che i tre biglietti da lei ricevuti per San Valentino non arrivavano da Ed bensì da suo padre, da Owen e da uno strano ragazzo del penultimo anno con le dita sempre sporche d'inchiostro, ma la situazione era tornata promettente quando i progetti per la festa dei diciotto anni di Will Taylor avevano cominciato a concretizzarsi.

Michelle notò di avere evitato qualsiasi riferimento a importanti eventi mondiali dell'epoca, ma aveva registrato con meticolosi dettagli le macchinazioni

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politiche degli studenti esterni (con accesso agli armadietti dei liquori e alla casa dei genitori) rispetto a quelli interni (i popolari capibanda che davano inizio alle feste). Ed, che era uno dei responsabili, era un interno ma non il ragazzo più popolare del gruppo, cosa che ai tempi lei sembrava trovare rassicurante, visto che le altre ragazze avevano messo gli occhi sulla squadra di rugby.

3 aprile

Ho mangiato due Crunchies durante l'ultima pausa per il ripasso. Mi odio, non dimagrirò mai. Mentre mi accompagnava al refettorio Ed mi ha chiesto se avevo fatto qualcosa di diverso ai capelli, ma Katherine ha detto che li avevo solo lavati con il suo shampoo, cosa che immagino sia stata divertente sul momento ma mi ha lasciato solo tre minuti circa per parlare adeguatamente con Ed prima del pranzo, quindi non sono riuscita a fare nessuna allusione alla festa.

Daniel dice che i suoi genitori saranno via, il weekend della festa, quindi potremmo andare a casa loro e fare un barbecue in giardino. Anthony continua a insistere perché la organizziamo giù alla spiaggia, però. Secondo lui ha il vantaggio di essere più vicina alla scuola, per il ritorno, così possiamo rimanere fuori di più, inoltre lui può nascondervi degli alcolici in anticipo. Mi piace l'idea della spiaggia. È romantica. Katherine dice che le dune di sabbia sono okay, ma devi portarti dietro una coperta se non vuoi doverti togliere la sabbia dalle parti intime per i due giorni successivi. Sono rimasta un po' scioccata, sinceramente, non pensavo che lei l'avesse fatto ma sostiene di sì, con Anthony. Mi ha fatto giurare di mantenere il segreto: lui è già stato ammonito per avere fumato, e se lo sospendono di nuovo verrà espulso. Comunque, sulla spiaggia farà un freddo cane, quindi probabilmente non c'è alcun rischio che la sabbia finisca da qualche parte!

10 aprile – Festa!!

Sotto, a matita, aveva scritto qualcosa con una calligrafia talmente diversa da sembrare quasi quella di qualcun altro: tremava e si distorceva sulla pagina, chiazzata in alcuni punti e cancellata rabbiosamente in altri.

Lo scrivo per potermelo togliere dalla testa, poi voglio sigillare questo diario e distruggerlo.

Sono scesa alla spiagga con Katherine, Sophie e Marlene. Abbiamo bevuto una bottiglia di vino in camera, prima di uscire. Quando siamo arrivate, Anthony aveva acceso un falò e metà dei ragazzi erano già sbronzi. Avevano bevuto

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tornando in autobus dalla partita degli Austin Friars e continuavano a gettare birra sul fuoco.

Il nostro arrivo è stato accolto da grandi grida di esultanza e io mi sono sentita davvero popolare (ah!). Ed si trovava già lì, con la maglietta nera che secondo me gli dona molto e i suoi jeans Diesel stinti. Sembrava così fico che non riuscivo a credere che mi stesse anche solo guardando, figuriamoci parlarmi e sorridermi e colmarmi di attenzioni. Dio, come sono stupida.

Daniel aveva ricevuto una cassa di birra dal padre e ne aveva sgraffignata un'altra dal garage, così abbiamo cominciato subito a bere e a mangiare marshmallow scaldati sul falò (una mia idea). Cominciava a fare buio, e freddo, ed eravamo tutti seduti vicini, e io ero riuscita a mettermi accanto a Ed. Ero rannicchiata contro di lui, e lui mi ha cinto con un braccio.

Non so se qualcuno stava aggiungendo qualcosa alla birra, ma non ricordo la fase intermedia fra il cominciare a bere e l'essere sbronza. In pratica ero stesa sulla sabbia e mi sentivo al settimo cielo pensando che fantastico gruppo di amici avevo. Anthony mi stava tenendo la mano da una parte, Ed dall'altra. Poi ricordo di essermi sentita stordita ma arrapata e di avere pensato che forse dovevo semplicemente afferrare Ed e baciarlo, come in Passione. Mentre mi voltavo per farlo mi sono resa conto di non avere più intorno il suo braccio. E lui era girato dall'altra parte. Stava limonando con Katherine, accanto a lui. Non mi ero nemmeno accorta che lei fosse lì. Ormai faceva buio e non riuscivo a distinguere gran parte di quanto stava succedendo, ma credo che quasi tutti stessero pomiciando, ormai, e le persone continuavano ad alzarsi a coppie e dirigersi verso le dune. Qualcuno aveva un lettore CD che stava suonando A Girl Like You di Edwyn Collins. Non riesco a smettere di sentirla.

Ho temuto di essere sul punto di vomitare. Mi girava la testa, dovevo fare pipì e avevo molto, molto freddo con la mia stupida maglietta fai-colpo-su-Ed. Sono riuscita ad arrivare fra le dune, abbastanza lontano perché nessuno potesse vedermi, e avevo i jeans abbassati fino alle caviglie quando ho sentito una voce dietro di me, che rideva e mi definiva una cattivona. Poi qualcuno mi ha spinto in ginocchio. Mi sono ritrovata con delle alghe sulla faccia e nel naso, e ho gridato che stavo per vomitare, ma la voce ha detto solo: «Starai benissimo», poi ho sentito qualcosa che mi veniva spinto fra le gambe. Ho urlato perché la sabbia mi stava grattando, dentro, ma Anthony non voleva fermarsi. Ha continuato a spingere e spingere, tenendomi stretta in vita per impedirmi di muovermi, e io ho

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vomitato e cercato di pensare a quello invece che a quanto mi stava succedendo in mezzo alle gambe, perché non stava capitando a me.

E poi tutto è finito, e io sono rimasta stesa sulla sabbia, ad ascoltare il flusso e riflusso del mare, ancora e ancora, e desideravo di poter uscire dal mio corpo e allontanarmi galleggiando sulla marea. Anthony era sdraiato accanto a me. Aveva il braccio sopra di me, ed era davvero pesante. Sembrava che fosse l'unica cosa che mi impediva di fluttuare su fino alle stelle.

Ricordo che Katherine mi ha trovato e mi ha tirato su i jeans. Ricordo di avere riso e pianto insieme perché la sabbia mi grattava e le ho detto che aveva avuto ragione e lei ha detto che ero strana. Ricordo Ed che mi portava in braccio fin su alle macchine, e io che pensavo a quanto fosse ironico che quella fosse l'unica volta in cui glielo avrei mai visto fare, e ricordo di avere vomitato di nuovo sul mio cappotto invece che sul sedile posteriore della macchina della signora Nichols.

Non ricordo nient'altro. E da questo momento in poi non ricordo nemmeno questo.

Michelle chiuse il quaderno. Aveva il viso bagnato di lacrime e le parole le si confondevano davanti agli occhi.

«Cos'è successo?» chiese gentilmente Rory.

«Qualcuno mi ha violentato a una festa», sussurrò lei. «Non ne ho parlato con nessuno perché questo l'avrebbe reso reale. E nessuno mi avrebbe creduto comunque, perché altra gente lo stava facendo. Un gruppo di noi venne colto in flagrante e risultò piuttosto evidente che c'era stato del sesso, oltre all'alcol e a un po' di droga. I giornali la definirono un'orgia da scuola privata ma ovviamente non potevano citare i nomi. Non l'ho raccontato ai miei genitori perché era già abbastanza grave venire espulsa dopo essere stata sorpresa ubriaca. Non ero tipo da fare una cosa del genere e men che meno il resto. Volevo dimenticare tutto.» Deglutì a fatica. «Perché non volevo che un'unica notte definisse il resto della mia vita. Volevo una nuova vita. Una vita nuova di zecca.»

«Ma avresti potuto andare da uno psicologo!»

«L'ho fatto. Per un po'. Ma poi mi è sembrato più facile fingere che non fosse successo.»

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«Cosa mi dici del ragazzo, però?» Rory sembrava arrabbiato, una reazione che per qualche motivo lei non si era aspettata. «Avrebbero dovuto perseguirlo!»

Michelle scosse il capo.

«Avrebbero dovuto!»

«Era solo un ragazzo. Uno stupido adolescente che avevo baciato poco prima. Uno di quelli più popolari. Cosa avrei detto? Che ero una ragazza un po' imbranata che si era sentita lusingata dall'attenzione, fino al momento in cui avevo deciso di non fare sesso?»

Quello non l'aveva scritto, notò. Aveva tagliato alcune parti persino a quel punto. Non aveva raccontato di avere baciato Anthony, e anche Daniel. Sopraffatta dall'attenzione. Una narratrice inaffidabile.

«Non volevo essere quella ragazza», affermò, «ma nemmeno potevo essere la studentessa universitaria che sarei diventata. Così sono tornata a casa e per un po' sono stata la miglior venditrice di papà. Poi mi sono messa con Harvey e lui deve avere capito che mi avrebbe potuto trasformare in qualsiasi cosa desiderasse, e io gliel'ho lasciato fare. Ma non ha mai smesso di ricordarmi che ero il tipo di civetta che si ubriaca e illude i ragazzi, che non ci si poteva fidare di me, sotto sotto.»

Rory non disse niente, ma le tolse di mano il quaderno, legò i laccetti ben stretti e lo gettò dall'altra parte della stanza. Poi la cinse con le braccia e la tenne stretta mentre lei piangeva contro la sua spalla, finché l'eyeliner perfettamente applicato non le colò su tutto il viso.

Lui non la baciò e ascoltò la sua vergogna che sgorgava dopo così tanti anni, e quando le disse, con la sua dolce cadenza scozzese, che sarebbe andato tutto bene, che era coraggiosa e intelligente e bellissima e a tutti gli effetti una donna splendida, Michelle riuscì quasi a credergli.

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Capitolo 31

«Matilde è molto, molto intelligente, ma i suoi genitori sono molto stupidi e non sanno che ha dei poteri magici, e la sua insegnante è così malvagia! Un buon libro, da 10/10.»

Lily McQueen

Quando novembre si fece più buio e più umido e le luminarie natalizie comparvero fra i lampioni stradali, Anna si accorse che l'avanzata notturna della biancheria da letto nella libreria sembrava essersi fermata. Non affrontò l'argomento con Michelle, presumendo che quella fosse l'ultima tregua prima del nuovo anno, quando sarebbe stato spazzato via tutto, e comunque non aveva voglia di chiedere. Fuggire nella libreria ogni mattina era l'unica cosa che aspettasse con ansia, ormai.

Il termine della gravidanza di Sarah era imminente e le incessanti chiamate via Skype fra Becca e la madre, mentre confrontavano pancioni e smagliature, erano per lei insopportabili, a dispetto del sorriso che si stampava in faccia per la webcam. Non c'era nemmeno un posto, lì in casa, dove riuscisse a non sentire le risate e gli strilli provenienti dal pianterreno, e il suo peggior timore era che Sarah si portasse il portatile nella vasca gonfiabile per il parto in acqua e loro fossero tutte costrette a rimanere sedute in cerchio a guardare.

Sapeva che si stava tormentando ma non riusciva a togliersi dalla testa il sospetto di avere tradito lei Becca. Avere l'umiliante prova del suo fallimento come genitore su un lato del monitor mentre la vera madre sfoggiava la propria fecondità sull'altro le sembrava un castigo particolarmente crudele.

Desiderava rimediare con Becca, in qualche modo, ma non poteva farlo perché la ragazza non si trovava più lì. Agli inizi di novembre Owen le aveva proposto di trasferirsi da lui nell'appartamento sopra lo Home Sweet Home e lei era andata via, con tutti i suoi libri, la sua chitarra e il suo pungente senso dell'umorismo che impediva ad Anna di impazzire. Lei si era offerta di accompagnarla alle ecografie e agli appuntamenti con l'ostetrica, ma Becca aveva affermato, con gentilezza, che lo avrebbe fatto Owen.

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«So che papà sta solo aspettando che lui tagli la corda», aveva spiegato. «Non può pensarlo, se Owen è quello che impara gli esercizi di respirazione insieme a me. E comunque non possiamo lasciare entrambe la libreria, vero?»

Michelle le aveva offerto un lavoro a tempo pieno, in parte nella libreria e in parte allo Home Sweet Home, con l'incarico di occuparsi degli ordini natalizi via Internet e dei rifornimenti. Anna le era grata per il modo pratico in cui stava dando una mano, ma non riusciva a costringersi a intavolare una vera e propria conversazione con lei in proposito, con quelle parole rabbiose che aleggiavano ancora fra loro. Un tempo, l'idea di loro due che indugiavano sopra una culla come una coppia di fate madrine disperatamente prive di qualifiche le avrebbe fatte ridere a crepapelle – quanto potevano rivelarsi incompetenti? –, ma adesso si trattavano con reciproca cortesia e nulla più.

Non avendo più nessuno con cui parlare, Anna venne completamente pervasa dalla tristezza. Bastava la più lieve spinta emotiva e le lacrime sgorgavano da lei come da un bicchiere troppo pieno, spedendola sul retro del negozio ogni qual volta qualcuno portava un bebè o parlava delle storie di animali di Michael Morpurgo. Era già abbastanza brutto vedere Becca incinta, ma con il trascorrere di ogni giorno vuoto lei era costretta a guardare in faccia l'orribile verità che anche il suo matrimonio sembrava finito. Phil, freddo e distante, sembrava ignaro della sua infelicità, e in casa passavano l'uno accanto all'altra come sconosciuti, mentre Chloe cantava più forte e Lily implorava altre storie per colmare il crescente silenzio.

Anna telefonava a Becca quasi ogni sera, quando lei non era dai McQueen, «solo per controllare che stesse bene».

«Dov'è Owen?» chiese un sabato sera agli inizi di dicembre, sistemandosi il telefono sotto l'orecchio mentre con una mano tirava fuori le crocchette per Pongo e con l'altra accendeva il bollitore elettrico.

«È andato a Londra per una riunione.» Fuori casa Becca suonava più rilassata di quanto non fosse mai stata lì. «Sta cercando di procurarsi un po' di lavoro per potersi trasferire a Cambridge con me dopo la nascita del bambino. Di' a papà che ce la sta mettendo davvero tutta, okay?»

«Sicura di non volere che venga lì io?»

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«Sicurissima! Non vedo l'ora di riposarmi un po', in realtà. Ho una tavoletta di cioccolato e il mio libro. Non chiedermi quale, però. È pura spazzatura. Questo bambino vuole romanzi d'amore e barrette Dairy Milk.»

Anna sorrise tristemente. «Purché tu legga... Avvisami se ti serve qualcosa.»

«Lo farò.» Becca cambiò tono di voce. «Perché non esci? Porta papà al cinema o altro.»

Lei batté con forza le palpebre per impedire anche al suo tono di cambiare. «Non posso. Stasera è fuori con dei colleghi. La festa d'addio di qualcuno, credo. Non l'ha specificato, ha detto solo che tornerà tardi.»

«E non ti ha portato con sé? Che carino. Gli dirò di farsi perdonare questo weekend!»

«Non ce n'è bisogno.» Anna non voleva farle sapere com'era grave la situazione fra lei e Phil. Non era nemmeno grave. Non c'era niente. Due persone impiegate in un ufficio di attività genitoriali, ma con meno chance di una storia d'amore sul posto di lavoro.

Si riscosse. «Ascolta, goditi la tua seratina casalinga e ci vediamo domani. Chloe sta preparando un imprecisato pacco dono per il bambino di vostra madre e vuole il tuo aiuto, ossia le tue venti sterline.»

«Purché non intenda registrare una canzone per il piccolo. Riesci a immaginare il suo album di ninnenanne? Buonanotte, Anna.»

Mentre Anna parlava era comparsa Lily, che le aveva cinto il braccio con una mano. Ora la bambina la guardò dal basso, già in pigiama benché fossero soltanto le sei e qualche minuto. «Sei pronta per una storia? Ho scelto un nuovo libro, al negozio. Pensavo che potesse andare bene per Chloe.»

«Ti stavo solo assecondando», disse una voce dal divano. «Ma se Anna prepara la cioccolata calda potrei venire su ad ascoltare per un po'. Finché non c'è qualcosa di bello in tv.»

Erano momenti come quello, rifletté Anna, che la trattenevano in quella casa, in quella famiglia. Solo per un soffio, però. Erano minuscole mollette da bucato che le impedivano di volare via.

Rimase sdraiata, sveglia, e mentre ascoltava il russare di Phil decise che da quel momento in poi avrebbe cominciato ogni serata nel vecchio letto di Becca

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invece di raggiungerlo furtivamente alle due del mattino. Chi stava prendendo in giro, comunque? Non si poteva dire che uno qualsiasi di loro due si stesse perdendo qualcosa.

Phil era rincasato dalla festa d'addio all'una e mezzo, puzzando di birra. Un tempo non la beveva mai, vantandosi di preferire il vino, invece. Era soltanto negli ultimi mesi che aveva superato la sua avversione.

Anna fece ruotare le gambe giù dal letto e si infilò la vestaglia, imbronciata. Se proprio doveva rimanere sveglia, tanto valeva che leggesse in pace.

Scese silenziosamente le scale a piedi nudi per prepararsi una bevanda al latte e stava passando davanti al telefono nell'ingresso quando questo squillò.

«Anna!» Era Becca e la sua voce suonava irregolare. «Anna, sto provando a chiamare il tuo cellulare da secoli.»

«Cosa succede?» Il cervello di Anna si svegliò di scatto. «Stai bene?»

«Mi sento malissimo. Ho vomitato per tutta la sera e mi sono fatta male alla caviglia. Owen è a Londra e non riesco ad alzarmi. Sono molto preoccupata per il bambino.» Becca scoppiò in un pianto dirotto.

«Non preoccuparti, sto arrivando», replicò lei, girandosi per correre su per le scale. «Arrivo subito.»

Fece i gradini due alla volta tentando di non svegliare Lily o Chloe.

«Phil.» Si chiuse alle spalle la porta della camera. Lo prese per una spalla e lo scrollò fino a svegliarlo. «Phil.»

«Cosa c'è?» Lui si girò su un fianco, seccato e con la vista annebbiata.

«Becca sta male. Devo andare da lei.»

Suo marito si drizzò a sedere di scatto. «Merda. Dov'è Owen?»

«A Londra.»

«Cosa diavolo ci fa a Londra? Dovrebbe prendersi cura di lei.» Lui tentò di alzarsi ma perse l'equilibrio e ricadde pesantemente sul letto.

«Rimani qui con Lily e Chloe», disse Anna. «Vado io. Ti chiamerò.»

Phil la guardò, risentito. «Sono suo padre. Dovrei andarci io.»

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«Che differenza fa? Inoltre non puoi guidare in queste condizioni. Quanto alcol hai trangugiato stasera?»

«Non cominciare.»

Lui la guardò in cagnesco. Non sembrava l'uomo che aveva sposato, pensò Anna con una fitta di infelicità, ma un qualunque uomo di mezza età a cui lei non piaceva nemmeno. E se lei fosse rimasta per Lily, finché quest'ultima non andava all'università, la aspettavano altri nove anni di questo.

«Ti chiamerò», disse.

Guidò come un'ossessa fino alla via principale ed entrò con la chiave di riserva.

«Becca?» gridò, correndo su per le scale. «Becca?»

«Sono in bagno.»

Lei aprì la porta con una spinta e trovò la ragazza incastrata fra la vasca e il wc. L'aria puzzava di vomito e il viso di Becca era grigiastro, con minuscoli brandelli di carta igienica appiccicati al labbro. «Povero tesoro!»

«Stavo vomitando, poi sono scivolata e mi sono fatta male alla caviglia, e adesso sono bloccata.» Becca iniziò a piangere.

«Da quanto sei qui?» chiese Anna, aiutandola con delicatezza ad alzarsi.

«Dalle undici. Ho mandato messaggi a tutti ma la ricezione continuava ad affievolirsi e dubito che siano stati inviati tutti. Poi il mio cellulare si è scaricato e non riuscivo a...» La mano di Becca andò a posarsi sul suo ventre. «Se ho fatto qualcosa al piccolo non me lo perdonerò mai», disse singhiozzando. «È colpa mia.»

«È questa la maternità», affermò Anna, carezzandole i capelli e pulendole il viso. «È sempre colpa tua. Ora ti porto in ospedale, niente discussioni.»

Phil le raggiunse al pronto soccorso, dopo aver lasciato Chloe con severe istruzioni di tornare a letto e non mettere il suo dvd di Glee, il che equivaleva a un invito e insieme a una bustarella.

Aveva il viso cereo per la preoccupazione e, mentre l'infermiera accompagnava in bagno Becca, afferrò la mano di Anna.

«Sta bene?» domandò. «Cosa è successo?»

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Lei lo ragguagliò sui dettagli appresi – un curry ai gamberetti che secondo Becca non poteva farle male, il vomito, la storta alla caviglia, le buone condizioni del bambino – e il sollievo pervase il volto di lui.

«Ora basta, lei viene a casa», disse Phil. «Non ho intenzione di lasciarla in quell'appartamento da sola.» Aveva assunto la sua espressione da pater familias – un po' in ritardo, pensò Anna – e aveva palesemente provato e riprovato il discorsetto mentre andava lì. «Non sarò tranquillo finché non so che è al sicuro. Torna a stare da noi.»

«Ti rendi conto che anche Owen vorrà rimanerle accanto?» sottolineò Anna.

«Perfetto!» Phil alzò le mani. «Più siamo e meglio stiamo. Lo spazio non ci manca.»

«Non esattamente.» Ad Anna cominciò a girare la testa al pensiero di tutto il cucinare e il pulire necessari per Becca e Owen, Lily, Chloe, le varie Apricotz che sembravano avere un perenne bisogno di cibo, Pongo, e lei e Phil. La casa non era piccola, ma quando l'avevano comprata non avevano avuto in mente una famiglia così numerosa.

«È la famiglia. È questa la vita con una grande famiglia.» Lui non aggiunse: “Non è questo che hai sempre desiderato?” ma l'insinuazione era palese.

Lei lo fissò, e lui la guardò con rabbia. Intorno a loro, donne vicine al termine della gravidanza venivano spinte sulla sedia a rotelle dai mariti sorridenti, storditi; altre tenevano rosei neonati fra le braccia.

Anna pensò al bimbo di Becca, al cui arrivo mancavano solo pochi mesi, ormai. Con lui erano in sette – sette, e senza alcuna chance di diventare otto – e lei si chiese quante altre cose ancora avrebbe dovuto sopportare.

Il 5 dicembre Sarah diede alla luce un maschietto chiamato Henry Graham Boston Rogers, tre chili e settecento grammi.

Henry come il padre di Jeff, Graham come il padre di Sarah. Nessuno voleva riflettere troppo a fondo su «Boston».

Visto che Sarah lasciava una webcam nella cameretta del neonato, Chloe, Becca e Lily erano perennemente su Skype, a fissare il nuovo fratellastro come se tutti loro stessero partecipando a qualche tipo di programma televisivo. Anna sviluppò un'immunità al suono del pianto infantile al di là dell'Atlantico, ma si sentiva come se qualcuno le stesse spellando il cuore. Il viso stupito e i sottili

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capelli a ciuffetti di Henry erano ovunque: sul frigorifero, su cartoline, nelle e-mail. La casa sembrava gremita. Il pancione di Becca diventava ogni giorno più grande e apparentemente non c'era mai una stanza che non contenesse una rivista sulla gravidanza o qualcosa che Sarah aveva mandato dall'America per prevenire le smagliature o la nausea mattutina.

Phil non fiatava. Ormai la guardava a stento e lei passava quasi tutte le sere sul divano o su in camera di Lily, leggendo Ciò che fece Katy e Il piccolo principe, e trasalendo per tutti i messaggi sull'amore che sembravano così palesi.

Fu mentre preparava i bagagli delle ragazze per la loro visita natalizia alla madre che prese una decisione: durante la loro assenza si sarebbe trasferita nell'appartamento sopra lo Home Sweet Home. Solo per qualche giorno, finché non avesse capito cosa voleva fare.

Aveva già le chiavi di Becca. Sapeva che avrebbe dovuto telefonare a Michelle, ma decise che non valeva la pena di tentare di intavolare una conversazione personale con qualcuno coinvolto in una relazione appena sbocciata. Michelle e Rory si trovavano nella fase di celie e occhi rugiadosi dei primi appuntamenti, il che aggiungeva una nuova intensità al suo isolamento.

Michelle era l'unica persona con cui avrebbe potuto confidarsi: si trattava di un dilemma che Anna non osava rivelare a un genitore. Come poteva lasciare le figliastre che avevano bisogno di lei, che all'inizio si era impegnata ad accogliere, per il bene di un figlio che nemmeno esisteva? Pensò di chiamare il telefono amico, ma si vergognava di interpellare persino loro.

Sapeva che era egoistico ma, sotto sotto, sapeva anche che essere una madre secondo-violino non le bastava. Soprattutto quando il loro padre sembrava non curarsene. Lasciare Phil era facile; lasciare le sue figlie era la parte più ardua.

Non c'era posto per Anna sull'auto diretta all'aeroporto, visto che anche Owen andava da Sarah per Natale, così salutò tutti lì in casa, con il consueto pianto generale. Non riusciva a trattenere le lacrime.

«Niente libri, quest'anno», disse, abbracciando Lily mentre le passava i sacchetti che aveva riempito di regali. «Non temere, sono soltanto cose prese dalla lista dei desideri.»

«Ma io volevo dei libri», replicò Lily. «Non hai visto la mia lista?»

Anna si asciugò il naso. «Be', ci sono sempre i saldi.»

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«Ciao, Anna», disse Chloe. «Oppure dovrei dire so long, adieu, auf Wiedersehen, good-byeeeee?» Aggiunse un ampio gesto teatrale e per poco non diede un manrovescio a Becca. La sua nuova ambizione per quell'anno era un'audizione per un musical nel West End.

«Sarà tutto molto silenzioso senza di te», singhiozzò Anna. «Ciao, Becca.»

«Divertiti, senza di noi.» Becca la abbracciò forte e Anna sentì la solida pressione del suo pancione contro il ventre, e dovette serrare energicamente gli occhi.

«Tutti pronti?» Phil fece tintinnare le chiavi ed evitò lo sguardo della moglie.

Quando la porta si chiuse dietro di loro, Pongo raggiunse mestamente la sua brandina in cucina, con la coda infilata tra le lunghe zampe, e Anna salì al piano di sopra a fare le valigie.

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Capitolo 32

«The Children of Green Knowe è la storia di un bambino solitario che va a vivere con la bisnonna in una casa medievale nelle Fens. Rimane tuttora uno dei libri più magici, ricchi di atmosfera e commoventi che io abbia mai letto.»

Kate Parkin

Michelle non vedeva l'ora che arrivasse il Natale per la prima volta da anni, ma non ebbe il tempo di realizzare nemmeno la metà delle consuete decorazioni. In circostanze normali riservava due weekend ad avvolgere le ghirlande intorno alla ringhiera, sistemare pigne lungo le mensole dei caminetti e preparare i biglietti di auguri, oltre a decorare l'albero e sistemare al loro posto stelle e palloncini. Ci volevano ore e ore, e tutto quel daffare suonava più natalizio del solitario 25 dicembre, a dispetto di quello che in passato lei aveva simulato con Anna.

Quest'anno ebbe solo il tempo di procurarsi un albero e niente più. Persino l'albero rappresentò un attacco di panico dell'ultimo minuto; in entrambi i negozi c'era un tale daffare che lei non aveva avuto il tempo di ordinare il consueto maestoso pino dallo specialista, e le sue serate erano occupate da Rory e Tavish. Alla fine, al ritorno da una passeggiata in campagna seguita dal pranzo in un pub, avevano arraffato l'ultimo abete storto rimasto nel vivaio, ficcandolo senza tante cerimonie nel bagagliaio della sua auto, con profondo disgusto di Tavish quando vide gli aghi di pino nella propria cesta.

Michelle guardò l'albero inclinato, relativamente sobrio con soltanto palloncini dorati e una grossa stella d'oro, e decise che le piaceva. Minimalista. Come le decorazioni minimaliste lì in casa, quell'anno. Una casa con poche decorazioni, decise, era una casa trafficata, felice.

Sua madre aveva cominciato a farla sentire in colpa per dove avrebbe trascorso il Natale già agli inizi di dicembre, ma Michelle aveva pronta la sua scusa, grazie a un regalo a sorpresa di Rory.

«Ti piacerebbe andare a Parigi, per Natale?» chiese un giorno lui, entrando allo Home Sweet Home durante la pausa pranzo. «È solo che ho sempre desiderato entrare a Notre Dame il 25 dicembre e se vado là da solo sembrerò un uomo triste uscito da un romanzo di E.M. Forster.»

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«E se invece ci vai insieme a me?»

«Sembrerò l'eroe romantico di un film di Richard Curtis.»

«Lo stai dicendo perché pensi che io conosca solo film?» domandò lei, ignorando l'espressione sdolcinata di Gillian dietro Rory. «Ho letto Il codice da Vinci, sai. Conosco Parigi.»

Rory le fece l'occhiolino, ma Michelle sapeva che, sotto la canzonatura, lui stava pensando a quanto lei gli aveva raccontato su Harvey e i suoi Natali in famiglia da incubo. Anche lui ne era rimasto orripilato e aveva ovviamente riflettuto su come poteva salvarla.

«Il weekend precedente andrò a trovare Zachary», aggiunse, prima che lei potesse chiedere. «Prima facciamo il nostro dovere con la famiglia, dopo di che possiamo goderci la vacanza.»

«Oh oh oh», replicò Michelle, e sorrise.

Il weekend successivo prese il toro per le corna, riempì l'auto di regali e andò a casa dei genitori per fare loro una sorpresa.

Sua madre non rimase poi molto elettrizzata dal suo arrivo. Era nel bel mezzo della preparazione di una complicata zuppa inglese, spiegò, con due tipi diversi di crema pasticciera e vari strati di frutta, per un'imprecisata cena della sera seguente. Michelle guardò l'attrezzatura, sistemata sui piani di lavoro della cucina come un set di strumenti chirurgici, e una volta tanto non si sentì un fallimento come casalinga. Sembrava ci fosse solo un sacco di roba da lavare. Per una zuppa inglese.

«Michelle!» Charles parve felice di vederla. Era confinato in un angolo della cucina, a causa del pavimento appena lavato, ma si alzò, spalancò le braccia e mimò un abbraccio.

«Via le scarpe, per favore», disse seccamente Carole quando la figlia fece per andare ad abbracciarlo. «Be', è un vero onore. Non ci aspettavamo di vederti senza almeno quattro telefonate, prima. C'è qualche problema?»

«No, solo che non sarò qui, il giorno di Natale», replicò lei, «così ho portato adesso i regali per tutti.»

«Oh, di nuovo? Pensavo che dopo l'anno scorso avresti potuto fare almeno lo sforzo, se non altro per darmi una mano.» Sua madre assunse un'aria seccata,

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dimenticando apparentemente le regolari suppliche di Ben e Jonathan di potere passare il Natale da soli. «E ti prego, non dirmi che fai la volontaria in una casa di riposo. Almeno sii sincera e di' che intendi passare la giornata a letto a guardare film.»

«No, vado a Parigi», disse Michelle, tutta contenta. «Una minivacanza.»

«Parigi?» L'irritazione si trasformò in compassione. «Non puoi andare a Parigi da sola, non a Natale. È uno di quegli eventi per single? Perché potresti stare qui con...»

«Non sarò da sola, mamma», precisò lei. «Vado con qualcuno.»

«Davvero? Credevo che la tua amica avesse quella complicata situazione familiare. Non rimarrà con loro?»

«No, Carole.» Il padre di Michelle intervenne prima che lei potesse rispondere. «Si tratta di un uomo. Parigi a Natale... che romantico, Michelle.»

«Alloggeremo nel Marais. Non ci sono mai stata. A quanto pare i negozi sono fantastici. Benché mi sia stato detto», aggiunse lei, «che non sono autorizzata a fare molto shopping. Anche se è tutto aperto.»

«Suona magnifico», commentò Charles. «Buon per te. C'è posto per un clandestino?»

«Non dirlo nemmeno per scherzo, Charles. Mi serve l'aiuto di tutti. Ooh. È il telefono?» chiese Carole, piegando la testa di lato.

«Non credo», rispose il marito. «Vuoi che ti alzi il volume dell'apparecchio acustico?»

«Non ne porto uno. Come ben sai. Credo fosse il telefono. Volete scusarmi?»

Vedendo il modo artificioso in cui la madre stava mimando la preoccupazione per la telefonata fantasma persa, Michelle capì che aveva in mente qualcosa; non servivano molti sforzi per capire cosa.

«Papà...» disse con nonchalance dopo che Carole uscì in fretta dalla cucina – se sua madre stava per telefonare a Harvey, non le restava molto tempo prima che lui bussasse alla porta, tutto sorrisi e tattiche – «è un po' imbarazzante, ma una mia amica ha comprato un'auto nella concessionaria di Kingston e ha avuto un problemino con il versante finanziario della transazione. Le hanno addebitato il costo di qualcosa che non ha preso oppure c'è stato qualche inconveniente con il

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contratto del finanziamento. Comunque ha avuto l'impressione che ci fosse qualcosa di poco chiaro nell'insieme, perciò ho promesso di menzionarlo, di scoprire cosa stava succedendo.»

«Spero tu le abbia detto che avremmo sistemato la questione», replicò Charles. Sembrava a disagio. «Non è la prima volta che qualcuno mi menziona Kingston. I contabili – rimanga fra noi – non sono rimasti molto soddisfatti dell'ultimo quadrimestre.»

«Davvero?» Non era una storia inventata di sana pianta; lei aveva telefonato a una delle ragazze con cui lavorava un tempo nella concessionaria centrale per fare due chiacchiere, dopo aver avuto la sensazione che Harvey potesse avere qualcosa da nascondere. Non si compravano auto nuove come la sua con le sole commissioni: doveva essere costata cinque volte più di quella di Michelle, e lei sapeva quali commissioni aveva incassato all'epoca.

Odiava vedere il padre preoccupato, ma era pur sempre preferibile all'alternativa, ossia permettere a Harvey di farla franca raggirandolo. «Ho pensato di parlarne a te invece che a Harvey perché non si creino imbarazzi se qualcuno sta... combinando qualcosa. So che giocatore di squadra è lui.»

«È stato davvero premuroso da parte tua.» Charles la stava guardando in faccia con aria scaltra. Sapeva cosa lei stesse cercando di dire; non sempre avevano bisogno di tradurre le cose in parole. «Mi farebbe comodo qualcuno come te a sovrintendere a tutto questo», disse con un sorriso speranzoso. «Nessuna chance di convincerti a tornare, immagino, vero?»

«Non al momento.» Per un attimo Michelle fu assalita dal panico all'idea che Harvey avesse detto la verità, che suo padre fosse malato e volesse che loro due rilevassero l'attività permettendogli così di andare in pensione. Ma lui appariva preoccupato, non esausto.

«Lo immaginavo», ribatté sospirando, «però dovevo chiederlo. Egoisticamente non c'è nessun altro che preferirei vedere al timone, ma sono felice che tu abbia una tua attività. È bello far crescere qualcosa per sé stessi. Stiamo parlando a tutti di quel tuo sito web. Credo che tua madre abbia spedito a tutte le socie del club del golf un... com'è che si chiama? Un link.»

«Davvero?» chiese lei. «La mamma ha sparso la voce?»

«Sì.» Charles ignorò il pavimento pulito della moglie e raggiunse la figlia per cingerla con le braccia. «Non te lo ripeto abbastanza spesso, Michelle, ma siamo

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così fieri di te. So che le cose non sono state facili dopo quella faccenda a scuola, ma il modo in cui ti sei rimessa in piedi e hai lavorato così sodo... Per uno stacanovista poco istruito come tuo padre questo conta molto di più del salire semplicemente su una scala mobile aziendale. Non dirlo ai tuoi fratelli.»

«Non lo farò.» Era commossa. Era la primissima volta in cui lui si riferiva direttamente alla sua espulsione. Lei non gliel'aveva nemmeno mai menzionata, in tredici anni, e men che meno ne aveva discusso il motivo. Si chiese cosa lo avesse spinto a parlarne proprio adesso. «Ma mi dispiace, papà. Per avere messo in imbarazzo te e la mamma. Per avere sprecato quei soldi e quel tempo...»

«Cosa? Ti stai scusando per quello? In tutta sincerità, tesoro, noi ci siamo colpevolizzati per anni. Tua madre e io... Be', eravamo un po' in rotta, prima di mandarti là. Ormai non ha importanza, è tutta acqua passata, ma lei non voleva che tu e Owen ci sentiste litigare. Abbiamo pensato che una scuola come quella sarebbe stata il posto più adatto, finché non risolvevamo il nostro problema.» Lui sembrava deciso a rivelare la cosa, pur essendone palesemente imbarazzato.

«Stavate litigando?» Una porticina si aprì nella testa di Michelle, che di colpo vide la situazione da una prospettiva adulta. «È per questo che la mamma era spesso via?»

«Sì. Ma vedi, abbiamo rappezzato la cosa. Probabilmente è per questo che tua madre è tanto ansiosa di vederti riprovare con Harvey. Sapeva come fosse grave la situazione fra noi, ma siamo riusciti a sistemarla.»

«Papà», disse Michelle, stentando a tenere le lacrime fuori dalla sua voce. «Harvey e io... Non è come con te e la mamma. Ti prego, credimi.»

«Non avremmo dovuto mandarti via», ribatté lui, la voce che gli si incrinava.

La tenne a distanza di braccia. Il suo viso rugoso, reso coriaceo dagli anni trascorsi sotto il sole e la pioggia dello spiazzo antistante gli autosaloni, si contrasse per l'emozione, e lei gli vide delle lacrime lungo il bordo degli occhi.

Michelle fissò il vecchio viso familiare e si chiese se il padre sapesse. Non l'avrebbe mai ammesso. Ma nei suoi occhi c'era qualcosa che alludeva a un dolore più intenso, dovuto al fatto che alla sua preziosa ragazza fosse capitato qualcosa che a lui non era stato concesso di risolvere. Non gli era stato nemmeno concesso di tentare.

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La attirò di nuovo contro il suo petto e, con la bocca premuta sui capelli di lei, parlò in tono triste e veemente. «Non importa quanti anni hai, Michelle, sarai sempre la mia bambina. La mia perfetta bambina. Non c'è nulla che tu possa fare che potrebbe indurci a smettere di volerti bene. Andrei fino in capo al mondo e ritorno, per te.»

Lei lo abbracciò forte. «Lo so. Lo so.»

Per un attimo ebbe nuovamente diciotto anni, quando non c'era nulla che il suo saggio, massiccio padre non potesse sistemare con i suoi soldi, i suoi contatti o il suo buonsenso. Ma Michelle non desiderava tornare indietro. Adesso era lei a risolvere e sistemare le cose per sé stessa. C'era voluto parecchio tempo per arrivarci.

«Cosa sta succedendo qui?»

Carole comparve accanto all'isola della cucina, il cordless stretto ostentatamente in mano come fosse un oggetto di scena.

«Un pizzico di emotività natalizia», rispose Charles, prendendo dalla tasca un fazzoletto a pois. «Stavo solo dicendo a Michelle quanto siamo fieri di lei.»

«Certo che lo siamo», confermò Carole. La sua espressione non si accordava fino in fondo alle sue parole. «E lo saremmo persino di più se...»

«Carole!»

«Cosa c'è? Non sai cosa sto per dire.»

«Io sì, mamma», replicò lei. Cercò di moderare le proprie parole pensando a quanto le aveva appena detto il padre. «Lo dici ogni volta che vengo qui. E la risposta è che a volte le cose non si possono sistemare. A volte, anche con la miglior buona volontà del mondo, non sono giuste, tutto qui.»

«In casa mia posso dire quel che voglio, Michelle.»

Michelle guardò la madre e desiderò di poterglielo rivelare. Ma Harvey aveva passato molto più tempo di lei ad ammaliarla.

«Comunque, hai presente questo fazzoletto?» chiese Charlie, scrollandolo per spiegarlo e soffiarvisi il naso. «Uno di quelli che mi hai regalato il Natale scorso? Il più bel regalo che io abbia mai ricevuto. Sapevi sempre di cosa avevano bisogno le persone prima ancora che loro stesse lo capissero. Persino da piccola.» Lui sorrise, e Michelle deglutì a fatica.

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«Hai detto di avere portato dei regali per i figli di Ben?» chiese Carole. «È una buona idea lasciarli in macchina?»

«Vado a prenderli», disse lei. Vide i genitori scambiarsi un silenzioso inarcarsi di sopracciglio e capì che Harvey stava probabilmente per «fare un salto lì». Ma era preparata alla cosa. Aveva provato e riprovato il suo discorso con Rory fino a essere sicura di poterlo pronunciare con calma.

Benché quello fosse successo a casa, nella sua incantevole casa ordinata, con fuori i cigni e dentro Tavish. Scrutò nervosamente la via per cercare tracce dell'auto di Harvey, poi si riscosse. Poteva farcela.

«Oh, Michelle, hai un po' esagerato», le disse la madre in tono di rimprovero quando la vide portare dentro il quarto sacchetto di doni legati con il nastro. «E se i ragazzi non hanno preso altrettante cose per te? Si sentiranno in imbarazzo.»

«Sono sicura che possiate gestire la faccenda», replicò lei. «Mi regalano comunque sempre la stessa cosa: Ben un buono regalo della profumeria Space nk, Jonathan un buono regalo di Argos. Vuole essere una battuta, a proposito? Perché puoi dire a Jonathan che finisco sempre per spenderlo in cartucce per la stampante.»

“Mi sono lasciata contagiare dalla sindrome della lingua senza freni di Anna?” si chiese. “Perché adesso sta venendo fuori tutto.”

Carole sospirò. «Sarà così tranquillo, quest'anno. Tu non ci sarai, Owen non viene...»

«Owen ha capito quali sono le sue priorità», commentò Charles. «È dove dovrebbe essere, ossia a passare il Natale con i suoceri. Imparando a conoscere la sua nuova famiglia.» Rivolse un sorriso radioso a Michelle. «Davvero affascinanti, vero? Becca è una ragazza incantevole.»

«Se pensi che quella sia la situazione giusta in cui lasciarsi coinvolgere», borbottò Carole. «Madri adolescenti...»

«Mamma, non eri molto più vecchia di lei quando hai avuto Ben», puntualizzò Michelle. Un'altra porticina si aprì; era per quello che i suoi genitori avevano avuto quel periodo di crisi? Carole si era forse ritrovata a quarantacinque anni con quattro figli e si era chiesta cosa ne era stato della sua vita?

«Io ero sposata. Non stavo intrappolando tuo padre in qualcosa... mi spiace, ma è vero. Sto solo dicendo quello che tutti pensano.» Il viso di Carole brillava di

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disapprovazione bigotta e Michelle ebbe pietà di Owen. E di Becca. E di Anna. Forse, visto che ora sua madre stava suddividendo fra lei e Owen la sua disapprovazione, l'impatto di quest'ultima su entrambi sarebbe diminuito, ma ne dubitava.

«Credo che Owen non stia venendo intrappolato in alcunché», replicò. «Becca si è guadagnata un posto a Cambridge per studiare legge, è più di quanto sia riuscito a fare lui! E mi vengono in mente famiglie di gran lunga peggiori di quella di Anna in cui venire intrappolati. Anna è la suocera migliore che chiunque possa desiderare. È...»

Avrebbe aggiunto qualcosa se il campanello non avesse suonato.

«Chissà chi è», disse Carole, fermandosi appena prima di posarsi un dito sul mento.

«Oh, per l'amor del cielo», borbottò lei. Raggiunse la porta a grandi passi e la aprì. «Buon Natale, Harvey.»

Non stupì nessuno che Harvey si trovasse lì davanti, stringendo un mazzo di fiori con ancora attaccato l'adesivo della Waitrose. Aveva abbinato una cravatta con disegnati dei minuscoli Babbo Natale al costoso e lucido completo Hugo Boss, e questo spinse Michelle a detestarlo un po' di più.

«Ciao a tutti, passavo da queste parti e... Shelley!» disse, spalancando le braccia. «Che bello vederti!»

Nei suoi occhi c'era uno scintillio sgradevolmente trionfante, ma lei si costrinse a pensare a Rory e al modo gentile e razionale in cui l'aveva aiutata a mettere ordine nei suoi pensieri. Rammentandole che erano qualcosa di importante, si scoprì, e non le farneticazioni di una nevrotica.

«Vado a mettere il bollitore sul fuoco per una tazza di tè e una tortina di frutta secca?» chiese Carole senza rivolgersi a nessuno in particolare.

Charles rivolse una lunga occhiata a Harvey, poi disse: «Ti do una mano. Qualcuno vuole una tortina?».

«Purché siano fatte in casa!» replicò lui con un sorriso ossequioso.

“Pensa che io sia venuta per arrendermi”, pensò Michelle e fremette nel sentirsi, per una rara volta, momentaneamente in vantaggio.

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«Per te», disse Harvey, mettendole fra le mani lo spinoso mazzo bianco. Lei abbassò lo sguardo sugli aggressivi crisantemi e sul fogliame appassito e li compatì.

«Come facevi a sapere che ero qui?» domandò. «Questi non sono per la mamma?»

«Allora non dirglielo.» Lui fece lampeggiare un sorriso sicuro. «Credo che sarebbe felice se io li dessi a te. Se avessi saputo che eri qui ti avrei portato il tuo regalo di Natale.»

«Io ho il tuo. Puoi averlo subito.» Michelle guardò il mazzo di fiori nella propria mano e lo posò sul mobile, come se non le importasse nulla di cosa gli succedeva, poi andò nell'ingresso a cercare il pacchettino che aveva incartato per lui.

Sfoggiava lo stesso nastro argenteo ordinatamente piegato e fermato con il nastro adesivo e lo stesso fiocco degli altri. Lei non intendeva fare una dichiarazione in quel modo.

«Lo apro subito oppure aspetto il grande giorno?» chiese Harvey quando lei glielo passò. «Tu ci sarai? Avremo il piacere di vederti?»

«Temo di no», rispose lei. «Sarò a Parigi. Puoi aprirlo adesso, se vuoi.»

Lui esitò, non sapendo come interpretare il suo tono.

«Avanti», lo sollecitò Michelle, prima che lui potesse chiederle del viaggio. «Aprilo. È un libro.»

«Un libro? Bene, bene, bene. Parlando di intellettuali rinati...» Harvey cominciò a slegare il nastro e lei si preparò psicologicamente alla sua reazione.

«Come perdere gli amici e alienarsi le persone?» Alzò gli occhi.

«Probabilmente non contiene granché che tu non sappia già, ma ho pensato che potesse piacerti il finale», affermò Michelle.

L'affabilità di Harvey sparì. «È il tuo concetto di scherzo?»

«In un certo senso.» Lei sollevò il mento per reggere il suo sguardo ostile. «Volevo regalarti Il divorzio per negati, ma ho pensato che potessi averlo già.»

«Cosa?»

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«Entro qualche giorno dovresti ricevere la richiesta di divorzio. Mi spiace per la tempistica, ma insomma, come si dice: “Anno nuovo, vita nuova”. Credo che sia la cosa migliore per entrambi. Mettiamo in moto le cose.»

«E se io non voglio il divorzio? Se voglio ritentare, con mia moglie? I voti nuziali non significano nulla per te?» Lui aveva un'aria da martire e al contempo irata. «Io ti amo, Michelle.» La fece sembrare un'accusa.

«Lasciamo perdere. Qui non si tratta di amore», disse quietamente lei. «Tu non mi ami. Se mi amassi mi lasceresti andare. Non so sei vuoi controllare l'attività di mio padre o me o entrambe le cose. Sai che si tratta di questo, alla fin fine, e lo so anch'io. Ma non è ciò che voglio io, e tu non puoi più controllarmi. Voglio il divorzio.»

«Sai che verrà fuori tutto, se la faccenda finisce in tribunale?» chiese lui, il tono che si faceva velenoso. «Dovrai dimostrare che sono irragionevole, e in realtà sei tu quella con problemi di salute mentale, sei tu quella che è stata in terapia per tutti quegli anni. Io sto solo pensando a te, Shelley. Vuoi che la tua vita privata venga tirata in ballo davanti a tutti? I nostri amici convocati per testimoniare sul tuo comportamento da squilibrata?»

«Vuoi che le tue pratiche commerciali vengano tirate in ballo davanti a tutti?» sibilò di rimando lei.

Harvey indietreggiò di un passo come se gli avesse sputato addosso. «Come, scusa?»

«Le tue pratiche commerciali. Ho assunto un avvocato. Dovremmo fare controllare le nostre finanze congiunte in vista di un accomodamento, quindi se preferisci che la faccenda finisca in un'aula di tribunale, benissimo. Sono sicura che non hai nulla da nascondere in quel settore, vero?» Michelle lasciò in sospeso la frase.

Harvey non trasalì, ma i suoi occhi non esprimevano la sicurezza di prima. Stavano facendo dei minuscoli movimenti, come se lui stesse riflettendo freneticamente.

«Insomma, cosa avresti intenzione di tirare in ballo, su di me?» chiese Michelle. «Sono stata violentata quando avevo diciotto anni. Non ho ucciso nessuno, non ho rubato niente, non ho fatto del male a nessuno. Te l'ho raccontato solo perché ti amavo e volevo condividere con te il mio più grande segreto, in modo che tu capissi perché ero come ero. Non pensavo che avresti passato i sette

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anni di matrimonio ad assicurarti che io rimanessi così. Ora mi rendo conto che non avrebbe mai dovuto essere un segreto, sin dall'inizio.»

Non appena lo aveva rivelato a Rory e aveva visto il suo viso irrigidirsi per la compassione e l'orrore, non il disgusto, era stato come se un incantesimo venisse spezzato. All'improvviso lei si stava librando al di sopra della scena, vedendola di nuovo come se fosse capitata a qualcun altro, e le si era spezzato il cuore per motivi diversi. Aveva plasmato la propria vita intorno a quell'unica notte, come un albero che cresca tutto storto intorno a un muro, con l'unico scopo di nasconderlo, senza mai ramificarsi verso l'esterno. Solo verso l'interno.

Harvey non intendeva arrendersi così facilmente. «E come credi che reagirebbe tuo padre se scoprisse che la sua principessa gli ha tenuto nascosto questo segreto per così tanto tempo? Eh? Pensaci.» Increspò il labbro. «Non ci vorrebbe molto per dirglielo. Questo potrebbe spingerlo a chiedersi cos'altro gli hai tenuto nascosto per tutti questi anni. Per esempio perché hai deciso di scappare così in fretta dalla sua attività.»

Michelle si armò di coraggio. «Avrei dovuto farlo molto tempo fa, e mi dispiace di non averne avuto la forza», affermò. «Ricominciare. Trovare un'altra persona. Non voglio soldi o la casa, voglio solo Flash. Negli ultimi tre anni e mezzo lo hai tenuto tu. Dammelo e tieniti pure tutto il resto.»

«Non sei in grado di badare a lui», ribatté malignamente Harvey. «Non riesci nemmeno a tenere chiuse le gambe. Le puttanelle come te non cambiano mai, ma hanno sempre quello che si meritano. Aspetta e vedrai. Tuo padre può anche considerarti speciale, ma tua madre no di certo. Lei conosce la vera Michelle. Proprio come me.»

Michelle sentì qualcosa schiantarsi rumorosamente a terra, alle sue spalle. Sembrava un vassoio. Il viso di Harvey si irrigidì, poi avvampò violentemente.

«Fuori», disse una voce dietro Michelle, una voce resa talmente aspra dalla rabbia che lei la riconobbe a stento. «Esci subito da questa casa prima che ti butti fuori io.»

Michelle si voltò e vide la madre in piedi nell'ingresso, un'espressione furibonda negli occhi. Sembrava a un tratto più imponente. Simile a una leonessa.

Harvey ebbe solo un attimo di esitazione, poi si voltò e uscì.

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Carole fissò la figlia per un lungo istante, il viso che si paralizzava e subito dopo si contorceva per la vergogna, poi le spalancò le braccia.

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Capitolo 33

«Il mio romanzo preferito di Jilly Cooper sarà sempre Rivali. Se Rupert Campbell-Black può trovare il vero amore (dopo avere scopato in giro per l'intera Inghilterra!), presumo che chiunque possa avere un lieto fine...»

Michelle Nightingale

Una volta tornata nella propria casa, alla propria vita, l'unica cosa che Michelle desiderasse era una cioccolata calda e una fetta di torta divisa con Anna per sistemare le cose, come ai vecchi tempi, ma Anna era impossibile da ghermire.

Stavano lavorando entrambe a più non posso, Michelle allo Home Sweet Home e la sua amica alla porta accanto, aiutata da Becca e Chloe, ma invece di trattenersi per il rapporto quotidiano come nei primi tempi, adesso Anna usciva dal negozio prima ancora che il cartello con la scritta chiuso smettesse di oscillare. Non passava più a Michelle pagine di suggerimenti per le attività comunitarie e ormai non aggiornava nemmeno più le recensioni sul sito. Dal suo punto di vista, come sembrava indicare il biglietto d'auguri piuttosto formale che Michelle aveva ricevuto per posta – invece di vederselo consegnare a mano –, loro due erano colleghe di lavoro. Non amiche.

Non si poteva dire che Anna fosse concretamente sgarbata con lei ma, visto com'era affettuosa e interessata di solito, la sua cortesia era peggio di un esplicito insulto. Lo scintillio sul suo viso era scomparso e le sue spalle apparivano incurvate da una perenne tristezza che Michelle trovava insopportabile. Non poteva renderla partecipe del suo felice sbalordimento riguardo a Rory quando lei era chiaramente così infelice con Phil, e per la prima volta si rese conto di come Anna doveva essersi sentita dall'altra parte dello steccato della felicità, guardandola arrancare a fatica e rifiutarsi di parlarne. Michelle non possedeva l'innata capacità di Anna di cavare di bocca il problema e temeva di peggiorare le cose.

Persino Rory dovette dichiararsi sconfitto. «Ho tentato di chiederle se voleva bere uno sherry prenatalizio con il gruppo della lettura ad alta voce, ma ha rifiutato. Troppo impegnata», riferì una sera a Michelle, sbigottito dall'anomala mancanza di entusiasmo della donna.

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I giorni di shopping sfrenato che precedevano il Natale trascorsero in una chiazza indistinta di Dean Martin, vin brûlé, candele al profumo di pino e registratori di cassa tintinnanti. In circostanze normali Michelle sarebbe rimasta nel negozio fino alla vigilia, traendo la sua razione solitaria di Natale dalle decorazioni e dai programmi radiofonici, ma quest'anno Rory insistette perché consegnasse le chiavi a Gillian il 22 dicembre e riservasse lo spirito festivo a lui solo.

«Lei viene a Parigi con me, Gillian», affermò risolutamente. «Se ti serve qualcosa, può benissimo aspettare fino a Santo Stefano.»

«Me ne occupo io», ribatté Gillian. «Ho le istruzioni.»

Rory lanciò una rapida occhiata a Michelle. «Se sorge qualche problema con Tavish puoi chiamare. Ma il mio cellulare, non il suo.»

I quattro giorni a Parigi passarono troppo in fretta per Michelle. Lei e Rory passeggiarono a tarda sera lungo strade deserte rischiarate dalla luna, tenendosi per mano senza parlare mentre gli orologi dei campanili battevano le ore; mangiarono croissant e bevvero caffè bollente durante il giorno, visitando le antiche chiese e i giardini coperti di brina, e comportandosi più come sciocchi teenager in gita scolastica che come ultratrentenni che passavano il loro primo weekend insieme via da casa.

A volte si creava un certo imbarazzo. Rory sembrava deciso a renderla partecipe di tutto quello che sapeva sull'architettura parigina, che Michelle volesse sentirlo o no, e lei non riusciva a eliminare di colpo così tanti anni di timidezza e ritrosia. Ma lui era paziente e lei decisa a scavalcare le barriere difensive che aveva eretto tutt'intorno a sé, quindi si lasciarono gradualmente alle spalle i momenti di disagio. Gli occasionali silenzi che calavano su di loro negli intervalli fra i croissant e i baci erano accoglienti come la più morbida delle coperte di cashmere, e lei si sentiva al sicuro ma piena di entusiasmo come aveva sempre sognato che sarebbe stata da adulta.

Non poteva averne la certezza, non disponendo di altri parametri di riferimento a parte i romanzi di Jilly Cooper, ma secondo lei si stava innamorando. E vedendo come Rory la guardava, con la tacita adorazione e il semisbalordimento di cui Michelle aveva letto, si chiedeva se lo stesso non valesse anche per lui.

Il 31 dicembre era una giornata luminosa ma fredda, con un sussurro di neve nel cielo limpido. Una mattinata perfetta, in altre parole, per portare a spasso un

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cane. O, nel caso di due amiche che un tempo lo facevano sempre insieme, una coppia di cani.

Michelle era ferma davanti alla porta di casa McQueen con accanto Tavish nel suo cappottino scozzese natalizio, a provare e riprovare quello che avrebbe detto quando Anna le avesse aperto.

“Niente discussioni, andiamo a bere un caffè.” Un po' prepotente? Poteva darsi che lei stesse preparando la casa per il ritorno delle ragazze.

“Ti ho portato un regalo da Parigi!” Vero, ma troppo simile a una scusa.

“Ehi! Hai staccato il telefono?” Vero anche quello, ma un po' mirato.

Si accigliò. Perché si sentiva così nervosa? Perché stava anche solo escogitando delle possibili scuse? Non gliene serviva realmente una, vero?

La porta si aprì e lei rimase stupita di trovarsi davanti Phil. Era in vestaglia, con i capelli opachi e appiattiti sulla testa, e per un attimo Michelle si chiese se aveva interrotto un romantico poltrire a letto, ma l'espressione sconfortata sul viso di lui diceva altrimenti. L'uomo sembrava in preda ai postumi di una sbornia che gli si era propagata in ogni parte del corpo.

«Ciao», disse lei, poi si bloccò. «Phil, stai bene? Hai un'aria orrenda. Scusa.»

«Se sei venuta a trovare Anna, non è qui.» Lui si passò una mano sul mento ispido.

«Oh. È a casa dei suoi?»

«No.» Phil ebbe un attimo di esitazione, poi ammise: «È nell'appartamento sopra il negozio».

«Cosa? L'appartamento di Owen?»

Lui annuì.

«Da quando?» Michelle non riusciva a credere di non essersene accorta, ma in fondo né lei né Rory avevano passato molto tempo là, ultimamente.

«Dal giorno in cui abbiamo accompagnato le ragazze all'aeroporto. Da prima di Natale.»

Lei guardò la vestaglia incrostata di cereali di Phil e fu assalita da un terribile timore. «Credo che mi convenga entrare», disse, varcando la soglia.

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Michelle preparò un tè – come avrebbe fatto Anna – e ascoltò tristemente Phil che rivelava di getto i deprimenti dettagli del loro Natale.

Pasto puramente formale, niente conversazione, film guardato in silenzio, poi Anna che avvolgeva gli avanzi nella pellicola trasparente e tornava all'appartamento.

«Dice che è meglio così», affermò lui, fissando il suo tè. «Dice che non si tratta delle ragazze, si tratta di me e lei. Non vuole abbandonarle, ma non riesce a vedere un futuro insieme a me.»

«E tu hai cercato di fermarla?»

«Non potevo fermarla. Aveva deciso.»

Michelle diede una manata sul tavolo per costringerlo ad alzare gli occhi. «Non la meriti, lo sai? Naturale che avresti potuto fermarla. Se non avesse voluto essere fermata sarebbe tornata dai suoi! Perché non sei andato là in ginocchio a supplicarla di tornare?»

La cupezza di Phil si incrinò e lui parve disperato. «Perché non so cosa dire! Ho già l'impressione di averle chiesto troppo: prima le ragazze, adesso il bambino di Becca... forse lei non merita tutto questo. Non posso appagare l'unico suo desiderio per fare in modo che valga la pena di affrontare tutto questo, quindi sì, forse dovrebbe cercare qualcun altro.»

«Ne sei davvero convinto?» Michelle lo fissò orripilata.

«Sì.» Lui lasciò cadere la testa fra le mani. «No. Certo che no. Anna è la cosa migliore che mi sia mai capitata. Guardami. Persino il cane vuole andare a vivere con lei.»

Michelle gli tolse la tazza di fronte proprio mentre lui allungava una mano per prenderla. «Phil. È una domanda personale, lo so, ma cosa ti impedisce di avere un figlio con Anna? Un tempo eri felice dell'idea di averlo. Cosa è cambiato?»

Per alcuni istanti lui non aprì bocca, poi parlò senza alzare la testa. «Non sono un gran padre. Ho avuto Becca quando ero decisamente troppo giovane, e Sarah era inesperta quanto me, quindi abbiamo improvvisato tutti e due. Poi, quando il nostro matrimonio è naufragato, abbiamo avuto Lily per rimetterlo insieme – ecco che frana eravamo come genitori – dopo di che Sarah ha chiesto il divorzio, e tra tutti e due abbiamo rovinato la vita delle ragazze.»

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«Non è vero. La gente commette errori», disse Michelle. «Il succo non è cosa fai ma come cerchi di porvi rimedio. E presumibilmente hai imparato qualcosa lungo la strada, vero?»

«Ma sarebbe come Anna ha immaginato?» Phil sollevò lo sguardo. Aveva gli occhi iniettati di sangue. «Ha avuto un'infanzia idilliaca: figlia unica, genitori felici. Sta pianificando questo bambino sin da quando ci siamo conosciuti, ma alcuni dei momenti peggiori della mia vita risalgono a quando Becca e Chloe erano piccole.»

«Quanta parte di tutto ciò è dipesa dall'essere genitore e quanta dall'essere sposato con qualcuno con cui non volevi essere sposato?»

«Come posso correre il rischio? Non credo di poterlo rifare e guardare Anna che rimane delusa. Dall'essere genitore. Da me. La amo. Vorrei tanto averla conosciuta vent'anni fa.»

Michelle non replicò, mescolando il suo tè. Non era sicura che il latte di Phil fosse molto fresco, ma tentò di non pensarci.

«Allora?» chiese lui. «È un motivo sufficiente?»

«No», rispose lei. «Non lo è. Lei ti ama. Vuole avere tuo figlio, non un figlio qualunque. Hai idea di quanto sei fortunato?»

«Ma cosa posso dire? Non voglio perderla.» Phil parve sul punto di piangere. «Non voglio che le ragazze la perdano. La adorano.»

«Allora devi andare là e riportarla indietro. Oggi stesso.»

«Non posso. Devo andare a prendere tutti in aeroporto alle tre.»

«Questo ti lascia sei ore di tempo per escogitare dei motivi più convincenti. Vale la pena di battersi per Anna.»

«E tu mi aiuterai?» Phil recuperò parte del suo consueto spirito. «Neanche tu le sei stata esattamente vicina, negli ultimi mesi.»

«Okay», affermò Michelle. «Ci batteremo insieme.»

Anna era seduta nell'angusto appartamento al piano di sopra, avvolta in una delle nuove coperte di cashmere che Michelle stava vendendo a bracciate, e tentò di trarre qualche consolazione dalla Fabbrica di cioccolato. Persino Charlie Bucket la stava deludendo, quel piccolo saccente. Adesso la sua fissazione per le

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regole la irritava, invece di colmarla di speranza. Quale genere di bambino che veniva lasciato libero accanto a un fiume di autentico cioccolato si preoccupava dell'igiene?

Seguire le regole non garantiva nulla, pensò lei, bevendo un altro lungo sorso di vino. Lui avrebbe dovuto tuffarvisi, insieme ad Augustus. Almeno Augustus aveva scoperto cosa si provasse a bere dal fiume di cioccolato.

Gettò il libro sulla pila di romanzi scartati che aveva accanto. Tutto l'aveva delusa. Nella vita reale non c'era nessun lieto fine, nessun recupero miracoloso, nessun comodo arrivo di eredità o zie dall'estero. Era stata una stupida a pensare altrimenti.

Si concentrò sulla sua rabbia perché la distraeva dalla vera tristezza; tutti i libri le rammentavano Lily, e Chloe e Becca, e i sogni che aveva accarezzato solo dodici mesi prima. Come avevano fatto le cose a cambiare così in fretta? E perché Phil non era andato da lei?

Fece un salto sentendo ronzare il citofono e aveva già deciso di ignorarlo quando prese vita crepitando.

«Anna. Sono io. Michelle. So che sei lassù.»

Lei si alzò faticosamente dal divano e raggiunse la porta strascicando i piedi. «Ho da fare.»

«Non è vero. Vieni giù.»

«Perché?»

«C'è qui qualcuno che vuole vederti.»

Il cuore prese a martellarle nel petto. Phil. Forse sentiva il bisogno di una guardia del corpo. Be', era pur sempre meglio di niente.

Anna si mise cappotto e sciarpa e scese le scale, tentando di comporre mentalmente una dignitosa battuta d'apertura. Ma quando aprì la porta vide solo Michelle, insieme a Pongo con un nuovo cappottino rosso e Tavish con il suo cappottino scozzese. Stringeva due bicchieri di carta pieni di caffè, come succedeva sempre ai tempi in cui portavano a passeggio Pongo prima del lavoro.

Non c'era traccia di Phil. Anna tentò di non lasciar trapelare la sua delusione.

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Michelle le porse il guinzaglio del dalmata. «Pongo mi ha chiesto se saresti venuta a fare una passeggiata con noi. Voleva lasciarti un messaggio davanti alla porta», aggiunse, «insieme ad alcuni biscotti, ma gli ho detto che non potevo aspettare così a lungo.»

Lei si costrinse a fare un sorriso di cui Michelle parve contenta, poi si avviarono lungo la via principale, verso il parco. Pongo sembrava entusiasta di trovarsi fuori – Anna era pronta a scommettere che durante la sua assenza Phil non lo avesse portato a passeggio poi così spesso –, ma si stava sforzando di non tirare, e lei provò un improvviso empito di affetto nei suoi confronti.

Michelle non perse tempo in convenevoli. «Ho una proposta di lavoro da farti», dichiarò. «Mi serve un direttore per il mio nuovo negozio.»

Quindi era finita. La libreria stava per chiudere. Anna trasse un bel respiro, sapendo che quella era probabilmente la fine della loro amicizia.

«Non voglio dirigerlo se non è una libreria», asserì. «Mi spiace. Non sarebbe la stessa cosa.»

«E se fosse una libreria e qualcos'altro?» Anna la guardò in tralice e lei continuò. «E se fosse una libreria al pianterreno e un negozio di letti al piano di sopra?»

«Ma non hai un piano di sopra.»

«Posso averlo, se voglio. Il nuovo padrone di casa sarebbe felice di affittarmelo.»

Anna smise di simulare una totale mancanza di interesse. «E chi sarebbe?»

«Rory. Il signor Quentin gliel'ha lasciato in eredità, a condizione che ci lasci vivere anche Tavish.»

«Davvero?» Era tipico del signor Quentin, pensò lei. Eccentrico ma generoso. «E chi è il proprietario del negozio?»

«Questa ti piacerà: è il canile che ha ospitato Tavish. Quindi anche loro sono felici che io rimanga, ma è più che giusto che guadagni abbastanza per pagare l'affitto. Perciò il mio progetto prevede di mettere le mie coperte, biancheria da letto e tappeti di stoffa al piano di sopra. E se tu sei brava a venderli come nello smerciare tascabili, questo potrebbe giusto mantenere a galla il versante librario della faccenda al piano di sotto.»

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Anna si morsicò la lingua. Non voleva mostrare all'amica com'era eccitata. Non ancora.

«Oh, avanti!» esclamò Michelle. «Io sono eccitatissima. Ti prego, dimmi che lo sei anche tu.» Non ottenendo risposta aggiunse: «Perché se non posso avere te a dirigerlo, rinuncerò ad aprirlo».

«Non lo faresti mai.»

«Sì, invece. È il tuo negozio tanto quanto il mio. Non funzionerebbe nello stesso modo, senza di te.»

Si fermò e si fece scivolare il guinzaglio di Tavish intorno a un polso, così da avere le mani libere per afferrare quelle di Anna. «Mi dispiace», disse. «Non sono mai stata una buona amica per te come tu lo sei stata per me. Non ho mai pensato che qualcuno potesse tenere a me come fai tu, e se non ti ho raccontato alcune cose è stato solo perché avevo il terrore di rovinare qualsiasi incantevole opinione della sottoscritta tu sembrassi esserti fatta.»

«Smettila.» Anna aveva le lacrime agli occhi a causa dell'ansia sul viso di Michelle. Lei sembrava così giovane, non la solita Michelle azzimata, sicura di sé. Anna si rese conto che non era truccata.

«No, sul serio. Non ho mai avuto una vera amica. Non è triste? Mi sono resa conto di cosa mi ero persa solo quando ti ho conosciuto. Quando hai voluto dividere la tua torta con me e poi mi hai lasciato quei biscotti e il biglietto davanti alla porta del negozio... mi è sembrato di tornare a casa, benché non fossi mai stata qui in vita mia. Ho sentito così tanto la tua mancanza negli ultimi mesi. Ho...» Michelle deglutì. «Ho un sacco di cose da dirti. Non qui. Ma presto. Voglio raccontarti cose di ogni genere.»

Anna la guardò per un attimo, attraverso una tremolante foschia di lacrime, poi lasciò cadere per terra il bicchiere di carta e la abbracciò forte.

«Smettila!» disse, piangendole fra i capelli. «Ero così preoccupata per te. Volevo telefonarti ma non sapevo cosa dire.»

«Proprio come me», replicò Michelle. «Sapevo solo che mi dispiaceva.»

«Non scusarti. È colpa mia.»

«No, mia.»

«Vuoi litigare per questo? Perché non puoi essere più dispiaciuta di me.»

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Anna un po' rise e un po' pianse, e lei e Michelle si abbracciarono mentre Pongo e Tavish aspettavano pazientemente accanto a loro.

«Dovresti tornare a casa», disse Michelle mentre il sole tramontava e le lucine natalizie rosse e verdi intorno al podio della banda cominciavano a scintillare contro il cielo color ardesia.

«Non ho voglia di farlo.» Ad Anna si spezzò il cuore, nel dirlo ad alta voce. «Non la sento come casa mia.»

«Intendevo tornare nell'appartamento», replicò Michelle. «Non è quella la tua casa, adesso?»

Lei girò la testa, stupita. «Non intendi rifilarmi un pistolotto sulla necessità di tornare indietro a sistemare le cose con Phil?»

Michelle si strinse nelle spalle. «Se vuoi il mio parere, hai parlato abbastanza. È ora che lui faccia qualcosa.»

«Non lo farà.» Anna tirò via Pongo da un cestino dell'immondizia maleodorante. «Ho tentato.»

Risalirono High Street più allegramente di quando l'avevano percorsa prima, indicandosi a vicenda le svendite e stilando liste per il nuovo anno, ma quando raggiunsero lo Home Sweet Home Michelle infilò una mano nella borsa ed estrasse un pacchetto piatto, magnificamente incartato come al solito.

«Per te», disse con un sorriso. «Non preoccuparti di non strappare la carta per poterla riciclare. Aprilo.»

«Non dirmi che è un libro.» Anna tirò via il nastro e capovolse il volumetto. Era una vecchia copia rilegata di Madeline, in francese.

«Che meraviglia!» esclamò. «Adoro Madeline.»

«Mi ha ricordato te», spiegò Michelle. «È coraggiosa e tiene alle persone. E i cani la adorano. L'ho comprato a Parigi. Me l'ha tradotto Rory.»

«È il regalo più bello che mi abbiano mai fatto», disse Anna, commossa dal fatto che l'amica avesse pensato a lei durante la sua vacanza romantica, e anche dal suo essere entrata in una libreria.

«Vuoi salire?» chiese.

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«Non posso.» Un'espressione di pura felicità illuminò il volto di Michelle. «Rory è andato a prendere il mio cane, a casa di mia madre. La grande consegna: temevo che Harvey potesse fare il furbo al riguardo, così ho detto che avrei mandato il mio avvocato. Devo preparare la casa, vero, Tavish? Per il tuo nuovo amico».

«Quindi tutina a sacco per due, vero?» domandò ironicamente Anna.

Michelle scosse il capo. «Niente tutine a sacco. Solo un'aspirapolvere molto più potente. E comunque è come hai detto tu: se lasci che gli ospiti tengano su le scarpe, non si riempiranno i calzini di pelo.»

In cuor suo Anna rimase sbalordita da quel voltafaccia. Michelle sembrava più rilassata, più felice di prima. I suoi capelli non erano più così stirati, e lei indossava dei pantaloni comodi e larghi!

Abbassò lo sguardo su Pongo, che stava grattando sulla porta. «Va bene se rimane a cena con me?» chiese. «Adesso presumo che tu sia la mia padrona di casa, vero? Passerò l'aspirapolvere...»

«Non preoccuparti. Non può certo essere più disordinato di Owen.» Michelle la strinse in un ultimo abbraccio, poi si allontanò a grandi passi. Quando arrivò a metà della strada e pensò che Anna non la stesse guardando, sollevò Tavish e se lo infilò sotto il braccio, per evitargli di doversi tenere al passo con lei.

Anna sorrise e infilò la chiave nella serratura.

Pongo la precedette su per le scale, correndo, e cominciò ad abbaiare prima ancora di raggiungere l'appartamento.

Lei sentì dei movimenti, poi una voce che diceva: «Ssh! Ssh!».

Un'altra voce, molto familiare, esclamò: «Oddio, è così tipico di quello stupido cane rovinare tutto!».

Poi un'altra voce disse: «Ssh, Pongo, fingi di essere nel furgone mentre arrivano i cattivi, ssh!».

Poi un'altra voce, maschile, disse: «Sssssshhhhhh!».

Anna sentì il petto in subbuglio e continuò a salire, decisa a non pensare niente finché non arrivava.

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Quando aprì la porta dell'appartamento lo trovò immerso nel buio. Poi qualcuno premette un interruttore e la stanza venne illuminata da centinaia di minuscole lucine, lucciole grandi come perle intorno allo specchio e ai muri. Lei sentì profumo di pino e si accorse che nell'angolo c'era un albero di Natale, decorato piuttosto a casaccio con palloncini di vetro scarlatti. Vide dei regali sotto l'albero, e filo argentato su tutti i mobili, e nel soffuso bagliore delle candele che ardevano sugli scaffali c'erano Becca, Lily, Chloe, Owen e Phil.

E Pongo, che leccava tutto felice la mano di Lily mentre lei cercava di farlo stare zitto.

«Buon Natale anche se un po' in ritardo», disse Becca. «Non era Natale senza di te.»

«Becca!» Chloe sembrava furiosa. «Stavo per cantare la mia canzone.»

«Lasciagliela cantare», le suggerì Phil. «Leviamocela dai piedi.»

Chloe gli lanciò un'occhiataccia, poi tossicchiò e chiuse gli occhi nella consolidata maniera da talent show, allungando la mano destra in avanti come se stesse pizzicando un palloncino invisibile.

«Anna McQueen», cominciò, sulla melodia di Astro del ciel. «Anna McQueeeeen.

«Ci sei quando le mie sorelle si mostran cattive, sei quella che mi delizia le papille gustative, ti curi della mia allergia alle olive...»

«Così dici», borbottò Becca, mentre Chloe conferiva al verso un supplemento di vibrato da diva del soul e faceva sobbalzare su e giù il palloncino.

«Non sei mia madre, non lo ripeto piuuù...» La ragazza tentò di tenere la nota, che però si concluse con un tremolio che lei non riuscì a evitare. Aprì un solo occhio e concluse: «Ma ti amiamo proprio perché sei tuuu».

Ad Anna si riempirono gli occhi di lacrime.

«Non lasciarle cantare nemmeno un altro verso», implorò Phil. «Diventeremo tutti sordi.»

Becca stava osservando la reazione di Anna, con il viso che diventava una maschera di preoccupazione mentre si posava una mano sul ventre senza riflettere.

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«Non so cosa dire», riuscì a dichiarare lei, cercando di sorridere. «Per me è un sì. Vai al campo reclute!»

Chloe parve molto soddisfatta di sé.

«Siiì!» disse Lily. «Ti piace quello che abbiamo fatto? Michelle ci ha dato le chiavi del negozio e ha detto che potevamo prendere quello che volevamo! È come un picnic natalizio extra!»

«È magnifico», ribatté Anna. «Grazie!»

«Perché non andate in cucina a mettere un po' di quel cibo sui piatti?» propose Phil. «Vorrei scambiare due parole con Anna.»

«Venite», disse Becca, portandoli di là. Chiuse la porta dietro di loro dopo essersi voltata per lanciare un'occhiata nervosa al padre.

Phil e Anna rimasero fermi fra le lucine natalizie, ognuno dei due in attesa che parlasse l'altro.

“Deve cominciare lui”, si impose Anna. “Deve fare lui la prima mossa.”

Dopo quella che parve un'ora, Phil trasse un bel respiro e disse: «Mi dispiace».

«Di cosa?»

«Di non essere il marito che hai pensato di sposare. Di non essere in grado di darti il tuo magnifico lieto fine.» Lui sembrava profondamente abbattuto.

Anna ebbe un tuffo al cuore. «Sembra un addio, non delle scuse.»

Lui allungò le mani in avanti e prese le sue, e lei lo sentì tremare. «Sei la persona più pronta che io abbia mai conosciuto. Tu hai sempre le parole giuste sulla punta della lingua, io no. Ho passato gli ultimi mesi tentando di trovare il modo adatto per esprimere quello che provo e odiandomi perché non ci riesco. Credo di non averlo ancora trovato.»

«Prova.» La voce di lei suonò roca.

«Okay. Ti amo», disse semplicemente Phil. «Ti amo così tanto che non conosco le parole giuste per dirtelo. Ho l'impressione di aver aspettato per tutta la vita di incontrarti, e quando l'ho fatto non riuscivo a credere alla mia fortuna. Non sei la mia seconda chance, sei il mio primo vero amore, Anna. La mia vita è un casino complicato ma tu la fai sembrare semplice, fintanto che sei là con me. Ti prego, torna a casa. Ho bisogno di te.»

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«Per le ragazze?»

«Per tutti noi.» Lui la guardò dritta negli occhi. «So di averti trattato male nell'ultimo anno, riguardo all'avere un nostro bambino. Mi dispiace. Non è che io non voglia averlo, solo che... ho uno stato di servizio disastroso come padre. Non ne ho avuto uno. Non avevo idea di cosa dovessero fare i padri, c'era solo mia madre che continuava a cianciare di come non dovrebbero essere. E poi all'improvviso, a ventidue anni, lo sono diventato. E di nuovo a ventiquattro. Tu sei molto più portata di me per fare il genitore, e io ho tre figlie.»

«Sei un padre magnifico.» Anna non riusciva a credere che lui stesse dicendo una cosa simile. «Guarda le tue ragazze.»

«Ti rendi conto di quanta parte di questo sia merito tuo?» Phil sostenne il suo sguardo. «Se non fosse stato per te, che nell'ultimo anno e mezzo ti sei messa all'ultimo posto solo perché loro sentissero di venire sempre per prime, chi può dire quanto peggio di così sarebbe potuta andare? Dubito di essermene reso conto. E sai chi me l'ha detto?»

«Michelle?»

«No. Mia madre.»

«Evelyn?» Anna si fermò appena in tempo, prima di aggiungere: “La vecchia megera?” com'era abituata a fare mentalmente.

Phil si sfregò il mento, simile a un ragazzino dall'aria colpevole. «Sono andato a trovarla, il giorno di Santo Stefano, e mi ha raccontato di averti detto una cosa cattiva il giorno in cui Becca... il giorno in cui Becca ci ha parlato del bambino. Ha detto che si sentiva in colpa per questo, perché avevi fatto un lavoro nettamente migliore di Sarah, con loro.» Inarcò le sopracciglia. «Be', ha detto davvero che se fossero vissute con Sarah probabilmente sarebbe rimasta incinta anche Chloe, e Lily avrebbe avuto un amico immaginario. Comunque...»

«È un complimento? Sono una matrigna buona a metà?»

«No», replicò Phil. «Sei la miglior matrigna in cui chiunque avrebbe potuto sperare. Chiedi alle ragazze. In confronto a te Mary Poppins somiglia a... a... Oddio, non conosco abbastanza libri per bambini.»

«Prova con Le streghe», gli consigliò Anna. Sentì che qualcosa si scioglieva dentro di lei, scaldandola come il vin brûlé. «O Crudelia de Mon. Dovresti leggere di più insieme a Lily.»

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«Sì, hai ragione.» Lui tese le braccia e lei vi si accostò lentamente, pensando che poteva mostrarsi dignitosa, al riguardo. Ma poi le forti braccia di Phil la strinsero, e il naso di lui le premette sul collo, e lei gli si aggrappò come se potesse fondere il proprio corpo con il suo. Lui aveva un odore così familiare e sicuro, e la terrorizzò rendersi conto di come fosse arrivata vicina a perdere tutto ciò che più amava.

«Ti amo, Anna», disse lui, il fiato caldo contro la pelle di lei, sussurrando perché nessuno li sentisse. «L'unica cosa che mi importa è darti il lieto fine che desideri. Nel nostro modo incasinato, complesso.»

«Lo stai già facendo. E dubito che siamo già vicini alla fine», affermò lei.

Con la coda dell'occhio vide che la porta della cucina era socchiusa, un minuscolo cuneo di luce gialla contro il buio del soggiorno. Parte della luce era ostruita da alcuni corpi, ma in basso c'era un muso bianco e nero maculato.

«Andiamo a casa», disse, provando un improvviso bisogno di stringersi intorno l'intera famiglia e ricoprirla dell'amore che le sgorgava dal cuore. «Voglio ricominciare il Natale da capo.»

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Capitolo 34

I LIBRI PER RAGAZZI PREFERITI DA ANNA MCQUEEN

Per la lettura raccomandata prima di dormire(bambini e dalmata sono opzionali) La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl James e la pesca gigante di Roald Dahl In effetti, tutti i libri di Roald Dahl!

Ballet Shoes di Noel Streatfeild

La carica dei 101 e The Starlight Barking di Dodie Smith Ciò che fece Katy di Susan Coolidge La tela di Carlotta di E.B. White Il giardino di mezzanotte di Philippa Pearce Babe maialino coraggioso di Dick King-Smith Piccole donne di Louisa May Alcott

I Cinque di Enid Blyton

Anna dai capelli rossi di Lucy Maud Montgomery Il giardino segreto e La piccola principessa di Frances Hodgson Burnett Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren

Peter Coniglio di Beatrix Potter

Amandina Imbranandà di Jill Murphy Winnie the Pooh di A.A. Milne Mary Poppins di P.L. Travers First Term at Malory Towers di Enid Blyton Harry Potter 1-7 (tutti, non se ne può leggere uno soltanto!)

I bambini della ferrovia di Edith Nesbit Il libro della giungla di Rudyard Kipling Qualsiasi libro della serie Chalet School di Elinor Brent-Dyer

Chicca Pasticca di Alf Prøysen

Madeline di Ludwig Bemelmans (non necessariamente in francese, benché questo aggiunga un certo je ne sais quoi!)

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NOTA DELL'AUTRICE

Quando avevo sette anni mi ruppi un gomito e passai tutta l'estate in ospedale. Perdermi le vacanze fu brutto, ma di gran lunga peggiore fu il fatto che, con il braccio sinistro ingessato, non riuscivo a tenere in mano un libro da leggere. In pratica avevo già il naso affondato in un libro ancor prima di imparare a camminare, grazie alla passione di mia madre per la lettura, e all'epoca dell'incidente ero a metà di un giallo degli Hardy Boys. Il mio ricordo più vivido di quell'estate non è il dolore degli interventi chirurgici o la solitudine del reparto, ma mio padre seduto accanto al mio letto ogni sera a leggermi pazientemente un capitolo dopo l'altro dei romanzi della serie Malory Towers finché non mi addormentavo. Mentre la sua voce familiare sussurrava parole di Enid Blyton nel buio, io mi trovavo a chilometri di distanza da Whitehaven, in un dormitorio della Cornovaglia con le mie amiche Darrell e Alicia e i loro bauli e bastoni da lacrosse, a condividere i loro drammi da collegiali e architettare beffe ai danni di sbadate insegnanti di francese. La lettura era la miglior medicina per una bambina spaventata e un po' topo di biblioteca, e non ho mai dimenticato come sia stata magicamente efficace o con quanto affetto venisse elargita.

Questo libro è dedicato a chiunque legga ad alta voce e a chiunque ascolti, ma soprattutto a mio padre, che non si è mai lamentato quando gli ricordavo che aveva «saltato un pezzo».

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RINGRAZIAMENTI

Grazie a tutti coloro che mi hanno mandato lunghe e spassose e-mail descrivendo i propri libri per l'infanzia preferiti; vorrei che ci fosse stato abbastanza spazio per usarle tutte. Si può capire molto di una persona dalle sue esperienze di lettura formative, e sono lieta di dire che a quanto pare conosco una miriade di Tigro e Darrell Rivers. (Così come un Burglar Bill, un Very Hungry Caterpillar e l'appassionato di un libro che credo sia attualmente bandito per legge da quasi tutte le biblioteche pubbliche del Regno Unito.) Un grazie speciale, come sempre, alla mia editor Isobel Akenhead e alla sua assistente Harriet Bourton, che sono state pazienti, incoraggianti e mai a corto di consigli geniali, per lo più su Jilly Cooper; e alla mia fonte di ispirazione e agente Lizzy Kremer, che sistema sempre tutto, come Mary Poppins, ma con battute migliori. E alla sua incantevole assistente Laura West, per avere letto Michael Morpurgo per me.

Ma soprattutto grazie alla mia mamma Chicca Pasticca, per avere riempito la nostra casa di libri e non avermi mai detto che qualcosa era troppo difficile. E per avere letto, letto, letto.