Luciano Romano Conti · fra le cose. Quando lo apri e lo leggi, se tu sei il lettore ... Lo so che...

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Luciano Romano Conti Professore… presente! In memoria di Domenico Vircillo, professore di Filosofia Morale presso l’Università degli Studi di Messina

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Luciano Romano Conti

Professore… presente!

In memoria di Domenico Vircillo, professore di Filosofia Morale

presso l’Università degli Studi di Messina

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Stampato in proprio marzo 2005

Luciano Romano Conti Via Adriatica, 102

66023 – Francavilla al Mare (CH)

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“Il lettore è molto importante, perché il libro è una cosa morta finché non viene aperto e letto. Un libro è una cosa fra le cose. Quando lo apri e lo leggi, se tu sei il lettore giusto e il suo autore è lo scrittore giusto, allora ecco che tutto prende vita, il libro arriva dove occorre”

Jorges Luis Borges

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A mia madre

Araldo della vita è la madre.

La mia, insegna l’onestà e la sincerità, come un angelo, lontano e

vicino. Mi nutre come la terra, compenso della mia responsabilità.

Bellezza e fascino di una giovinezza assegnata ad un solo uomo,

da più di mezzo secolo, prima di me, donata, così da non perderla mai,

né la verde età, né la grazia.

Un messaggero che si chiama mamma, che la mia sensibile

creatività può proferire: delle sue labbra e del suo naso, come lei, del

resto, parlo e sento, poiché ho un tatuaggio nel cuore, il solo disegno che

ho inciso… la sua sostanza.

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Professore… presente! Prefazione

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Prefazione

di Giuseppe Millemaci

L'emozione di trovarmi nell'uno e nell'altro, nei luoghi e nel

vento.

L’emozione nei ricordi Tuoi che si mescolano ai miei.

Gli oggetti che accomunano ricordi, non gli stessi, lo zufolo,

il vento, il manto rosso, il canarino e non la gabbia, la giornata da

trascorrere tra montagna e mare: anche qui è possibile.

La certezza che, il Tuo ricordare Domenico, lo liberi, nella

Tua coscienza, dandogli ancora e ancora vita, quella che ti

emoziona, quella che, tra postulati e castagne, colma la mancanza di

sempre.

Ti manca, non Ti manca: un fiore da sfogliare all'infinito,

caro Professore "presente".

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Professore… presente! Prefazione

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L'ho letto e lo rileggo perché non può essere la semplice

lettura a farmi comprendere.

Sei Luciano e Domenico, Luciano o Domenico, ma forse sei

tutto, compreso il vento…

Vivo In un continuo Avvento La mia vita E so che così sarà finché la Tua memoria Me la darà Vivo in Te Simbioticamente Immortale Vivo come sono come Tu ogni volta Mi ricrei.

… perché abbiamo lo stesso Padre, quello che accomuna

tutti, ma li rende unici.

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Un “testamento” che traccia una strada da te già percorsa, ma

da affinare con il cuore ed il giudizio, per essere porta con amore.

Lo stesso padre, essendo tu padre e figlio di te stesso, pronto

a sorreggere, con la consapevolezza che la strada potrebbe non essere

unica, ma pronta a sviare il percorso: come il binario protettivo che

ti guida, ti avvolge, ma che, nonostante tutto, propone o nasconde,

all’improvviso, strade appetibili o meno.

Sei tu, consapevolmente, padre dei tuoi pensieri e li indirizzi

con amore a colui che rispecchia le tue intenzioni di figlio. Un

“testamento” di sollecitudini, di forze, di spinte, di colori, di suoni e

di paure, forse, che rappresentano il tuo saper essere figlio e quindi

padre.

Lo stesso padre e non il “medesimo padre”, quello che, con

garbo e senza interferire, guida e coccola e frusta e rimbrotta ed è

invisibilmente presente ad ogni necessario istante.

Cercare la verità, “LA PROPRIA”, quella che ci darà lo

stesso Padre, il Padre che tutti abbiamo intorno e dentro.

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Bravo. Mi sento anch’io un po’ figlio, quello che non sono

stato capace di mostrare, per questo, inopinabilmente padre: il timore

di incontrarsi e riconoscersi fa un brutto effetto.

Di dicotomie mentali mi avvolgo da sempre il cuore e mi

rendo conto che, in fondo, non sono bello dentro. Solo consapevol-

mente a tratti.

Frammenti di vita Enucleati Paradossali istanti In esistere Omologhi Uno dell’altro Ma non che eco Di paradossali umori Questo sono oggi.

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A Adriano,

il discepolo più fedele,

l’amico più sincero,

il figlio prediletto.

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Professore… presente! Prologo

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Prologo

Abbiamo e avremo lo stesso Padre.

Lo credo, lo spero, riccioli d’oro.

Aneli l’impronta che ho, da tempo, nell’anima e che nessuno

ravvisa.

Lo speri, lo credi, quando guardi lontano, diviso, disgiunto,

quando cerchi con gli occhi e mi trovi col cuore. Tu sai che ci sono e

la paura svanisce. Come in riva a quel mare, in una spiaggia

affollata, dove si gioca e non si cerca nessuno.

Tranquillo, abbiamo lo stesso Padre. Come farai a perdermi?

In piedi! Continua a giocare.

Lo so che verrai a prendermi per le gambe, ti metterai in

prigione e, con tanta bramosia di emancipazione, ti metterai in

viaggio fino alla libertà, oltre ogni intreccio, oltre me.

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E’ ciò che cerco da quando non sei mio figlio, da quando

decisi di guardare in cielo e regalarti le stelle. Forse per considerare

il medesimo destino di chi pensa in maniera creativa.

Noi valiamo.

C’è una via di liberazione per sentire il respiro.

Dio si nasconde nel cuore dell’uomo perché è eternamente

creativo. Solo cambiando mente e vita, diremo di sì e saremo felici.

Nel frattempo, prenditi cura di te e ascolta il silenzio. Con

amorevolezza, intaglia il verde legno della giovinezza e osa.

Modifica le prospettive dei pugni chiusi che tirano giù, apri loro i

palmi, con prudenza e speranza, affinché, tu, ne possa rinvenire

giovamento nelle capriole esistenziali e nei tuoi salti di adolescente.

Respira. Riempi i polmoni come fossi un gorilla e fai scorta di aria.

L’ ho vista la foto di quando fai lo sbruffone. I muscoli si

allenano, verranno con l’esercizio.

Come gli ideali. Questi e quelli possono svanire. Ma il

sogno non muore. Mai!

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Come non muore il coraggio di lasciare e di perdere.

Sogna!

Sogna di essere l’amore, di dare vita, con garbo, a un mondo

nuovo, e, spensierato come un bimbo, fantastica di aprir bocca con

chi, ora, è muto. Disegna, per me, questa nuova ricerca.

Colora, per tutti, questo ennesimo confronto.

Tra camici scherzosi e camicie bagnate di tensione, hai

aperto i tuoi verdi occhi e, tuttora, risuona, la tua viola risata, nel

pianto.

Mi imploravano di farti ridere, quando perdevi il fiato.

Ci riuscivo, come adesso, quando, in apnea, perdi ogni

fiducia e cerchi un alito per mostrar gioia, un recente fischio che ti

renda sereno.

Continuiamo ad esistere. Ridiamo, vuoi? Restituiamo al

tempo gli stupidi capricci e i desideri irragionevoli di trascorse età.

La tua voce cambia tono ormai, si approssima alla mia.

Uomini si diventa.

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Non sei solo in questi brividi di eternità, dammi retta. Non

siamo soli neppure da soli, quando siamo discosti.

E’ il pregio della mente che mi fa raccontare di te, una

prerogativa del pensiero, del cuore.

E’ tale qualità dell’anima che mi consente di esplorare tutti i

punti dell’universo, mai vinto dalla lontananza, dal demone che

separa tutto.

Lo abbiamo incontrato diverse volte quest’essere, questa

creatura anomala che è la partenza.

Lo osservavi dal balcone, quel mostro, appoggiato alla

ringhiera che, oggi, domini con la tua statura.

Lo esperivo fino all’ultima curva del mio cammino, quel

fenomeno abnorme chiamato distacco.

Non ci faceva paura vero? Ma faceva piangere entrambi.

Ricordi? Un tempo, affrontavamo il commiato per divenire

consapevoli, per crescere, in modo assolutamente funzionale alla

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nostra sopravvivenza. Al momento, è tutto più semplice, più

automatico, pur sempre intenso.

E’ desiderio di farsi grandi, crescere il più rapidamente

possibile e verificare cosa avviene alle nostre emozioni tenute a

freno. Scrutiamo i presenti che ci divorano con gli occhi mentre ci

salutiamo: scorgeranno una tenerezza, un batticuore che diventa

mollezza o il recondito affetto che ci accomuna?

Su, via, quando mai abbiamo desiderato esprimere i

sentimenti migliori? Ai parenti, poi… i nostri palpiti? Questo mai!

Solo le nostre incandescenti reazioni appaiono, per divenire

colpevoli, chissà per cosa. Quelle sì che le abbiamo ostentate!

Volevamo scrollarci di dosso le nostre prigioni, aprire un

varco al mutamento e fare carezze alla rabbia, alla tua impetuosa

indignazione nei confronti di una frustrata identificazione con

l’autorità, vanificata ogni giorno, per colpa di nessuno.

Dichiarare guerra agli schemi. Questa, l’alternativa che

rimaneva sul tavolo delle trattative, ma una volta attivati, questi

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meccanismi, non si controllano più, ti sovrastano. Come un treno che

sfreccia in galleria, dove la galleria sei tu… ed anche il treno.

Allora non resta che buttarsi, con energia, nelle braccia forti

di tua madre: lo sai bene, sono di ferro, come le rotaie. E tu da esse ti

lasci cullare. Le chiedi scusa e continui il tuo viaggio, dirigendo la

sinfonia della vita senza nozioni di musica.

Come da bambino, quando, la matita che stringevi, lasciava

cicatrici sul viso.

Oggi, con essa, avvii le coordinate per il futuro, tracciando

linee su progetti di rivalsa alle note mai suonate.

Corri!

Senza niente in mano.

I segni li indicherà il tempo.

Lasciati custodire, adesso, dal ritmo e dai musici che hai

dentro. Imparerai che è necessario affinare le attitudini per il saggio

finale, dopo approfondimenti senza fine.

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Avrai al tuo fianco la compagnia che meriti, le mostrerai, con

la dolcezza, le sfumature dei tuoi colori e, con amorevolezza, le tinte

vivaci ed esuberanti dei tuoi eccessi.

Sarete felici ad ammirare il quadro che insieme affrescherete

con premurosità e finezza.

Credi in te e fallo in prima persona, poiché nessun altro lo

farebbe meglio e riponi negli altri la tua fiducia, perché qualcuno è

vigile in questa fede. Consapevole, quindi, della tua condizione e del

tuo mondo, sii cosciente di quello che sei e vali, con l’attenzione e la

critica dovuta, in ogni istante.

Entra nella profondità dell’essere, come fanno gli

intelligenti, ed evita i momenti stupidi e noiosi, affinché non debba

perdere l’orientamento delle tue ben educate inclinazioni. Acuiscile e

affinale, invece, forgiale, come fa un vero artista che evita il banale e

l’insulso con la propria indifferenza verso tutto ciò che rende ottuse e

stolte le esistenze degli uomini.

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Vivi con coraggio i nostri tempi difficili, con forza d’animo,

entusiasmo e passione. L’ottimismo è come il denaro, va via

facilmente e si spende volentieri per acquistare istanti di gioia, ma

anche… mera euforia.

Disponiti con costante frequenza alla serenità, questo

equilibrio instabile di dicotome radici. Essa muta con l’avanzare

degli anni e gli anni passano per tutti.

Fai buon utilizzo, quindi, di questi celati talenti e scorgili

nelle tue buie esitazioni: le insicurezze aiutano solo a familiarizzare

con il dubbio e a vedere il mondo in varie prospettive, addolorano il

presente e disorientano per anni.

Sì, alla meraviglia, che, insieme allo stupore, vanno, con

slancio, perseguiti, perché tesori rari.

Non ti augurerò mai di confidare con le stupefacenti

situazioni di sballo, in quanto, sempre, generano dissolutezze ed

inganno, ottenebrando lo sguardo di chiunque.

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In costante metanoia, la corruzione dei vizi, lasci il passo

all’edificazione delle virtù, trasformando vita e mente in una sperata

integrità morale. Custodisci gelosamente tale dono, partecipandolo a

chi lo sa apprezzare, a sigillo della tua dignitosa distinzione.

Le scelte sono sempre ardue e fondamentali e tu lo sai. Lo

stai imparando sulla tua pelle.

Dopo tanti ragionamenti e discorsi, ti sei iscritto, da poco,

all’Università. Mi sono venute le vertigini, nel cercare di intuire i

tuoi progetti. Andare a studiare fuori e imparare a crescere in

autonomia: faceva girare un po’ la testa, vero? Per un ragazzo amato

e coccolato, è senz’altro una scelta allettante quella di allontanarsi un

po’ da casa. Molto impegnativo, nello stesso tempo. Ed alla fine hai

ceduto. Si cresce ugualmente, hai considerato. Con le proprie

agiatezze e con le proprie abitudini. Ogni tanto si può procrastinare

ed indugiare prima di divenire saggi, forti e coraggiosi.

Grazie a Dio.

C’è sempre tempo per chi è giovane.

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Sai, ho riposto da tempo la mia fiducia in ciò che fai e sono

certo che non sarai un mediocre.

Non mi deluderai.

I limiti si superano con oculatezza e pazienza. Avrai,

sicuramente, ponderato, con discernimento, anche questo aspetto.

E’ lusinghiero, per me, ritenere che sarai giudizioso e

previdente nelle tue pianificazioni.

Sono convinto che le aspettative creino sofferenza in chi le

annuncia, ma solo per la paura che vengano disattese. Questa

contraddizione di fondo è mia da sempre e di tutti coloro i quali

amano con le viscere. E quando la speranza diviene certezza, la

paura si dissolve, per trasformarsi in fede, in quell’amore in cui

credo, nell’essere per l’altro che non lascia soli e che chiede, con

semplicità, di restare per sempre insieme.

Come si fa ad essere insensibili a questo miracolo di

comunione?

Come sarà possibile rimanere indifferenti a questa luce?

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Porgi l’orecchio, dunque e ascolta il cuore.

Vai oltre il suono e scorgerai il mare, dove il vento non

scombina, né la superficie, né il fondo: è lo Spirito di Dio che aleggia

in quelle acque, sin dal principio di tutto.

E’ di quell’acqua che ha sete l’esistenza in autentica, di quel

luogo - non luogo, di quel paradossale destino, della sua purezza e

della sua innocenza.

Come schegge impazzite, ne portiamo l’impronta nei nostri

meravigliosi incanti e nelle nostre meraviglie. Quali atri cercherai di

dischiudere dopo tali consapevolezze?

Scoprirai, allora, qualcuno che crederà nel tuo essere, nel tuo

modo di vivere e di pensare.

E piangerai per questo.

Ma le lacrime di quel pianto, saranno le gocce del mare che,

adesso, intravedo e che, semmai farà sorridere, ciò accadrà, soltanto,

qualora non se ne ravvisi la chiarezza, per miopia o superbia.

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I comportamenti, certo, non rappresentano il tuo essere e il

suo valore. Essi vanno e vengono, imparati e disimparati

all’occorrenza. Solo il tuo io, immodificabile da sempre, non muterà

e ti condurrà, se vorrai, alla consapevolezza, la quale consisterà,

proprio, nel riconoscere la sostanziale differenza tra il tuo te stesso

ed il tuo vero io, sottraendone le sovrastrutture insignificanti, che

possono omologare e ottundere le potenzialità illuminanti proprie

della ricerca del vero.

E’ giusto ricordarsi, sempre, che la reale felicità sta nel

intendersi fino in fondo, riconoscendosi, senza voler mutare, e

accettando persino la sofferenza transitoria, propria di un fuggevole e

precario momento di dormiveglia, connaturale alla nostra immanente

fisicità.

Ecco il motivo del mio silenzio, la causa del mio lasciarti

essere come sei, della fiducia che nutro nei tuoi confronti.

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Personalmente, non sempre è stato semplice trattenere

l’impulso di farti dipendere da me e non cedere, così, alle seduzioni

di uno pseudo potere che l’autorità promette e mai mantiene.

Ho imparato, lentamente, a tacere, per non mutare la realtà,

per lasciarla così come mi si presenta, osservandola e rispettandola,

assaporandola, a volte. Lasciandola che sia.

E’ così che ti osservo, a distanza, nel tuo divenire uomo.

C’è una moltitudine di forze che mi muove, a mia insaputa,

ed è fondamentale realizzare che, in verità, non posso fare niente.

Conoscere, così, il mio posto nel mondo ed agire in armonia con

tutto. Conoscerti e riconoscere che tutto è così faticoso e spesso

doloroso.

Non accontentarti di ascoltare ciò che dico. Questo lo fanno

in tanti.

Mettiti in cammino, col tuo motore che potrebbe cambiare,

totalmente, la tua esistenza e farla vibrare, permettendoti di sentire

te stesso in sintonia con la natura e con il mondo.

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Cerca la tua verità.

Quella vera. Non la mia.

La tua.

Tanto, avremo lo stesso Padre. Credici.

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Professore… presente! Introduzione

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Introduzione

Questo volumetto, per ricordare un mio maestro di vita, un

amico che mi ha insegnato la Filosofia, un uomo, dall’ingegno raffinato,

scomparso prematuramente, che continua ad insegnarmi il senso della

vita.

La mia speranza è di suscitare, nel lettore, le emozioni che ho

esperito nello scrivere queste pagine, una semplice, lieve, carezza

nell’anima, che esprima la valenza del presente.

Dare un senso nuovo a chi ama la vita e una nuova vita a chi

non ha un presente.

Il presente è anche un dono ed è questo regalo che desidero

offrire al mio lettore: una filosofia che non concede niente alla

mediocrità e all’ipocrisia, niente ai miraggi, che rompono con tutte le

filosofie e che non azzardano la possibilità di un movimento

assolutamente creatore.

Il senso nuovo che vorrei donare, è un mistero intravisto che

diviene evidenza, mai dogma o norma. Un soffio di vento, che rimanda

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Professore… presente! Introduzione

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al sovrannaturale, guardando oltre la natura, una filosofia che preferisce

occuparsi di facoltà creative.

Mi distacco, così, dal tangibile, per spingermi nel ricordo, sino

all’Acumem Amoris, amore assoluto e originario, contrario al proprio

interesse.

Tutto ciò, mi ha motivato a parlare di un maestro con sentimenti

forti, i quali, andavano al di là d’ogni deterministica necessità.

Cosi, per mezzo della memoria, sono stato chiamato a palpare

l’impalpabile e ad esprimere l’inesprimibile, cercando di resistere al

tempo, dischiuso, che ha reso possibile questa profonda comunione,

come una sorta di rivelazione del mistero d’amore o dell’essere l’uno

per l’altro.

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Professore… presente! Luciano R. Conti

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Professore… presente!

Presente all’appello, alla chiamata.

L’appello, adesso, è nuovo, senza forzature, né burocrazie,

caro amico, come piace a noi, come piace a Voi, Professore!

Mi sono sempre chiesto cosa significasse il Voi in una

relazione amicale. Ora, mi è più chiaro. Presente, é il tu che userò in

questo libro, per dire di te attraverso me.

E’ forse questa un’alterità per amore?

Termine spesso adoperato da Michele Federico Sciacca…:

che piccolo, di fronte ai giganti del pensiero filosofico, piccoli, come

piacciono a te, che cercavi l’essere delle cose nelle piccole cose, la

verità, lontano dall’ingannevole e seducente idea del grande, della

moltitudine, apparentemente enormi e, quindi, più visibili, ma non

necessariamente veri, reali, universali ed eterni.

Presente, come un tempo, per il tempo trascorso, insieme e

non, il nostro tempo utile, il nostro tempo massimo, il nostro poco

tempo.

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Professore… presente! Luciano R. Conti

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Presente il bene che mi volevi e che mi vuoi.

Tolleravi anche il fumo delle mie sigarette, stupide e fini, che

servivano solo a toglierti, per un po’, quel sereno sorriso e a

procurare in me vergogna e rossore. Come un rubino e come il vino

nuovo, invece, il tuo viso.

Non hai mai dato un senso ai fumosi pensieri di chi era in

prima linea, di chi, legato all’effimero, non lascia traccia di sé. Tu,

invece, presente nell’istante presente, dove, la verità di ciò che

rimane, riconduce all’eterno istante senza tempo, apparente di

prospettive apparenti e relativo a ciò che siamo in realtà.

Forse, ancor ora, porti a cavalcioni il tuo filosofare, nello

stesso modo in cui conducevi i tuoi bellissimi figli, lungo la via

principale della nostra città. Già allora, la morale eteronoma non era

importante. E quando mai significherà per noi qualcosa.

Come si può dare significato a ciò che si ferma all’apparente

osservazione della realtà, senza coglierne la vera essenza?

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Professore… presente! Luciano R. Conti

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L’insignificanza dell’insignificante, che non significherà

mai.

Tanto, la gente non pensava male: l’estetica addomestica!

Tutto scorre, “panta rei”, e… sul Corso Garibaldi, mentre mi

parlavi e ti parlavo, solo poche soste. Il tempo di fermarti e di

fermarmi. E mi veniva da ridere. E mi viene da ridere!

Non mi mancherai!

Mi mancherà, certamente, la tua casa luminosa e mattiniera:

che paesaggio dall’ampia vetrata! Quei vetri trasparenti, come la

carta velina che usavi per scrivere i tuoi libri, sparsi un po’ ovunque,

vicino alle calze non stirate, sulle sedie rosse.

Non mi mancherai!

Perché abbarbicarsi alle persone che ami? Sei dentro i miei

respiri, le mie risate, la mia gioia.

Non mi mancherai!

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Professore… presente! Luciano R. Conti

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Mi mancheranno, certamente, le tue grandi castagne, che mi

donasti in un pugno, marroni, semplici. Un piccolo gesto, un gesto

grande.

Rivivo la meraviglia dello stupore che provai in quel

momento…poche castagne, molta gratitudine. Il palmo, aperto, della

mia mano inesperta, chiusa dalla tua, in fretta, senza mezzi termini.

La via di mezzo, i mezzi termini, solo i greci, dicevi, li

avevano. E per i greci, niente di più possente della necessità.

Non erano necessarie le castagne in quel momento. Ma che

gesto sublime! Ho imparato la carità da quel gesto. Ho imparato a

donare le cose. E… le cose, da allora, hanno avuto un odore, un

nuovo sapore.

Come quel panino, consumato e gustato sul ponte della nave.

Il cielo azzurro, l’ora quella giusta, quella del pranzo, una pausa dai

nostri discorsi, dalle nostre speculazioni.

Il gusto non ha età: accomuna, ovunque ti trovi. E noi, nel

posto giusto, al momento giusto. Uno scenario irripetibile… anche i

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gabbiani erano d’accordo sulla quantità di ketchup che farciva il

nostro pranzo a base di wrűstel.

Un appetito subito gratificato. Poi, di nuovo, a sostenere che

gli dei stanno in cucina e che, in paradiso, si pranza e si cena. Un

luogo - non luogo, come affermava il compare Lisi, tuo compare, tuo

amico, titolare della cattedra di Pedagogia all’Università di Messina.

Tornavamo dalla lezione di un lunedì in facoltà. Un tuo

seminario su Socrate, Confucio e Gesù. Mi parlavi spesso di Gesù,

ma senza nominarlo, Lui, era sempre in mezzo. Lo chiamavi

Emanuele, che significa, Dio con noi. A volte, credevo parlassi di tuo

compare, quando pronunciavi quel nome: che confusione facevo! Il

compare, guarda caso, si chiama così, Emanuele. Anche lui era

spesso nei nostri discorsi e, a volte, cenavamo insieme.

Quanto bene al compare Lisi!

Poca prosopopea in te. Non era necessaria. Le gabbie non le

guardavi. I tuoi occhi grandi… solo per il contenuto.

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Il canarino, che svolazzava felice in casa, avvertiva questa

tua prerogativa. Anche le rigogliose piante, delle quali avevi cura, ne

avevano sensibilità. Il quid, il substrato, come diceva Aristotele, tu,

cercavi questo, il perché delle cose, l’arché. Volevi dire, e io

ascoltavo. Ascoltavo ed imparavo. “Mi lasci dire?”. ”Mi stai a

sentire?” A chi deviava, dalla via maestra, il discorso. Lo dicevi con

quella leggera cadenza della tua terra di montagna. La montagna che

hai sempre avuto nel cuore.

La Sila, l’Aspromonte, i funghi porcini, quelli che abbiamo

raccolto insieme, parlando di Sapienza e di sovra natura, in piedi,

all’alba, già pronti per partire, su per i sentieri che ti conoscevano e

riconoscevano lo zufolo che, una volta, suonasti per diletto. Lì, lungo

i sentieri ombrosi.

La musica… una recondita passione che ci accomuna. La

studiasti da autodidatta, così come il greco.

Ecco come si dovrebbe studiare, come facevi tu, di primo

mattino, alle due e trenta, sin dai primi anni, con quella sete di

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sapere, di conoscere, a Soveria Mannelli, nella tua casa paterna. Una

casa che hai lasciato solo per i libri, quella casa che ho visto da solo,

senza di te, l’ultima volta che ti ho salutato. Tu eri andato già via,

con i Salmi sul cuore, a tracciare altri sentieri. Non hai retto alla

prigione del corpo, amico mio. Il mito della caverna di Platone lo hai

lasciato in eredità.

Li conoscevi tutti i miti, quelli greci in primis. Quante volte

mi sono ripromesso di occuparmene, per la mia formazione di

insegnante. Ma poi, questa affascinante e preziosa perla, è rimasta in

qualche scrigno del mio potere desiderante. Li volevo imparare da te

quei miti, oppure, è solo pigrizia la mia? Per un professore di storia e

filosofia, conoscere i miti é d’obbligo. Intanto, insegno l’ontologia e

l’axiologia. L’essere e il suo valore. Non è poco. Non è sempre

facile. La società, il mondo di cui faccio ancora parte, non ne parla

spesso. Guarda l’apparenza, preferisce l’avere ed il possesso, la

volontà di potenza e il look. Il mio compito, quello di remare contro,

quello di svegliare le coscienze alle differenze, lontano dalle fusioni

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che confondono il cammino verso la liberazione, sulla via della

libertà. Libertà dalle simbiosi, per una libertà ablativa.

E avverto la tua comunanza, nei momenti di minore vigore

teoretico.

Non è vincente, in questa generazione, la convinzione del

valore dell’essere umano. La meravigliosa via, che si apre dopo lo

scacco ontologico, appare, sempre più, come una promessa che non

sarà mantenuta, una favola per romantici, una mera illusione.

Non per noi, che dal tutto amore ci nutriamo: Agapos, fons et

origo della Sapienza a principio, che é Ordine, Logos e Verbo. E’ la

Divina Carità che, uscendo dalla sua intima dimora, si dona, si

espande sul mondo intero e s’infonde nel cuore degli uomini, per

elevarli a creature degne a rientrare in Paradiso.

Amore creativo, che fa nuove tutte le cose, amore che libera

dal male, che fa il cuore puro, poiché dona, per l’appunto, la purezza

del cuore: amore che purifica, giustifica e santifica.

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Adesso, cerco la consapevolezza, in me e negli altri, oltre la

coscienza.

Ho abbandonato il porto sicuro delle mie certezze e, mi sono

avviato, da poco, lungo il percorso del mio quinto decennio.

Indietro non si torna.

Quanto timore ho esperito durante questi anni, lontano dai

miei amici d’infanzia, lontano dai miei genitori, dai miei affetti più

cari… insieme al mio mantello rosso.

Questo il nome che hai attribuito alla donna della mia vita.

“Tu, hai chi ti protegge”, mi dicevi, “Hai il tuo mantello rosso”,

riferendoti al cappotto scarlatto, con un cappuccio, che lei indossava,

con eleganza. Tu ne ammiravi la grazia e la sua nobiltà d’animo. Lei,

vive nel mio pensiero e la conosci come conosci me.

Ci hai frequentato insieme, perché insieme siamo sempre

stati, durante il nostro tempo. Hai visto con lungimiranza e con

intuito. Lei ed io, ricordiamo spesso quel mantello rosso. E non solo

quando c’è freddo. Il mantello mi proteggerà sempre.

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Un uomo ha sempre bisogno di protezione, di amore e i

desideri dello spirito portano alla vita. Tu, hai vissuto per tanti giorni

con Lina, fino alla sua dipartita. Lina, tua prima moglie e mamma dei

vostri quattro figli, ti completava. Un male incurabile ha detto basta a

troppe cose: alla pace familiare, alle vere attenzioni femminili, alla

tua coniugalità.

Il tuo secondo matrimonio…una ricerca spasmodica di una

perduta alchimia luminosa e di quell’energia che non volevi

abbandonare.

Angela hai sposato, in quella giornata d’inverno, perché di

angeli volevi circondarti. Ma gli angeli non hanno sesso e gli uomini

non lo intendono ancora. Quanto sarebbe durata la tua sfida emotiva,

sapendo di non poter dire la responsabilità del passato, nonostante la

tua disponibilità? Quanto abuso nelle nuove relazioni? Quanto prede

e quanto predatori, nella notte che non passa mai? Ma tu, senza

trascorrere il tempo a rimpiangere il passato, la vita la mettevi in

gioco, continuando a vivere, cercando la pratica dell’essere.

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Tra il dire e il fare c’è di mezzo…, teoresi e prassi. Non chi

dice: “Signore, Signore!”. Ma chi fa la volontà di Dio.

Questa la frattura che logorava la tua forza. Il due dovrà

divenire uno, come afferma un vangelo apocrifo.

Mettersi dalla parte giusta della barricata? Non faceva per te.

Mettersi in questione, sempre e dovunque, era il tuo si.

Oltre la ragione, finita, e secondo necessità, a volte,

incontravi il sentimento. Ma non era sufficiente. Cercavi lo spirito,

quello separato dal mondo, assoluto, sciolto da ogni legame col

relativo, pur non mettendo in secondo piano la relazione.

L’io e l’altro non erano messi tra parentesi, come nella vita

inautentica, nell’epochè esistenziale.

Questa è fede, non il credere di credere, la credenza degli

uomini superficiali ed ingenui, ma l’essere pronti a tutto, a pensare,

avendo il coraggio di farlo. Con tutto l’essere, non solo con la logica,

rispettando l’intero della propria medesimezza, della propria ipseità.

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Noi siamo unici ed irripetibili, dicevi, e ne sono convinto.

Come la storia e gli infiniti universi, unici ed irripetibili, senza eterni

ritorni dell’uguale, senza corsi e ricorsi, senza aggiustamenti. Per

questo motivo, rispettavi tutto e tutti, anche chi non la pensava così,

chi credeva solo nella materia e nella verità scientifica, fino al

parossismo, chi idolatrava la conoscenza e i suoi “ismi”: i

razionalismi, gli psicologismi, gli storicismi.

Ricordo la dialettica che scaturiva dallo scambio di opinioni

con chi non la pensava come te, ma ti cercavano per il confronto

delle idee e, adesso, ti ricordano con affetto.

Ti ricorda Francesco, tuo amico e mio cognato, studioso di

fisica nucleare, che poneva questioni dell’infinitamente piccolo. Per

niente impaurito dalla difficoltà della problematica, della materia e

dell’antimateria, la tua allegria dichiarava aperti nuovi orizzonti, per

un altro infinito.

Il transfinito ontologico, il trascendente, tutto ciò che gli

occhi della carne non riescono ad intravedere, sono stati e sono gli

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ambiti degni di essere significati, indicati, pensieri comuni, che,

spesso, riempivano le nostre conversazioni, durante i nostri incontri.

Il verbo essere, in tutti i suoi tempi, il nostro preferito fra

tutti i verbi. Anche quel tempo che, nella lingua italiana, non esiste,

ma che i latini conoscevano bene quale il futurum esse.

Tradotto in italiano potremmo dire “essere per essere”. Si sa

che, nella lingua italiana, esiste il futuro nella sua forma semplice ed

anteriore. Esso pone il tempo in una dinamica orizzontale,

successiva, puntuale, cronologica e a due dimensioni, quella del non

essere ancora e quella che prima o poi sarà. L’essere per essere del

futurum indica, senz’altro, un ulteriore orizzonte temporale, che i

teologi denominano Avvento, ciò che accadrà in un nuovo futuro,

quando le cose diverranno nuove, come in principio, nella pienezza

dei tempi e dopo la loro fine.

Nuova terra e nuovi cieli che le nostre anime prefiguravano

nei nostri dialoghi, non sempre per i non addetti ai lavori. Un mistero

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che si svelava sotto i nostri occhi, come un velo di Maya, dal fascino

estetico.

Filosofia allo stato puro, potremmo dire, come amore per la

Sapienza, che dalla Sapienza ha origine, al di là del soggetto e

oggetto della conoscenza e del sapere, fonte inesauribile, sin dal

primo mattino del mondo: speculazione teoretica, inframmezzata

dalle cose che tu preparavi con maestria, nella tua cucina, nei

momenti di una mai annoiata solitudine, come, ad esempio,

manufatti sott’olio, in tutti i sapori, liquori e marmellate.

Un liquore, in special modo, gradivo, a base di fragoline di

bosco, quando, la tua delicata insistenza, infine, non sortiva altri

esiti.

In pratica, la fisicità non veniva di certo sacrificata, a

discapito di astratti o vaghi voli pindarici. E chi l’ ha detto che il

corpo non può beneficiare della luce dello Spirito?

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Ma che voli si possono fare nello spazio-tempo, senza dover

usare altra navicella che il proprio ingegno, amicizia e rispetto della

dignità della sostanza uomo?

Un ingegno raffinato e sensibile il tuo, a detta di tutti,

studenti, colleghi, amici, uomini e donne comuni, che hanno avuto la

fortuna di incontrarti e scambiare anche solo poche battute con te.

Vorrei avere il tempo ed il modo di rincontrare i nostri amici

comuni, per intervistarli e ricordarti con loro.

Se sarà possibile, lo farò.

Incontrare, di nuovo, ad esempio, dopo tanto tempo, quel

simpatico ricercatore dall’enigmatico sorriso, assistente del Professor

Filippo Bartolone. Vorrei proprio sentire anche le loro testimonianze

e vedere i loro sguardi, mentre parlano di te.

I miei amici diventavano subito tuoi, con una facilità e

semplicità incredibile. Questi dovrebbero essere i veri legami, per

edificare il genere umano.

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Spesso, il tempo è impaziente e cancella, in fretta, uomini e

cose, legami e relazioni, come in una performance senza possibilità

di bis, senza appendici o repliche.

Così, in pochi mesi, non ho potuto neppure salutare il tuo

amico del cuore, Carere, finanziere in pensione, uomo corretto, di

encomiabile educazione e vero eroe dell’amicizia.

Non poteva, certo, trovare altra sostituzione alla vostra

empatia e confidenza, alla vostra equanime compassione: dopo

appena quattro giorni dalla prima messa in tuo suffragio, è deceduto,

senza apparente motivo.

E’ salito da te.

Strano!

“Strano come siamo colpiti quando un amico si allontana, e

lascia dietro di sé solo silenzio”. (P. Brown)

Anche in vita, quell’uomo, forte come la roccia e dal cuore

di carne. abitava al piano di sotto, nel tuo stesso condominio.

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Ha ritenuto continuare le sue abituali e gradite visite... su per

altra scala.

Misteri di vera amicizia!

Dove si fonda, infatti, la provvisoria esistenza del senso se

non sull’amicizia, disponibilità a vedere la stessa visione?

Il presente trova consistenza in se stesso, poiché non rimanda

al suo contrario, è senza catena. L’amicizia, quella vera, come il

presente, ha la forza di sopravvivere a se stessa, in un ideale

raggiungibile, libera…, libera di essere, senza oppressione o vincoli.

Ogni momento della vostra amicizia era un momento di liberazione e

diveniva vera quando, nel presente, toccava l’infinito, una realtà

interiore che non simulerà giammai. La simulazione dell’apparire è il

non senso in assoluto: non basta che ci sia un amico, occorre che egli

esprima un senso, esprima la valenza del presente. Occorre che

l’essere valga ad essere, in un rapporto di fedeltà, una fedeltà che non

dimentica, non tradisce, non rinnega, non smentisce e non disdice.

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“La vera amicizia si riduce a questo: nel volere o nel non volere, in

pieno accordo, la stessa cosa”. (Sallustio)

Questi misteri sondavi nei tuoi studi, per rivelarne,

gratuitamente, le conquiste. Una, in modo particolare, ne vorrei

indicare, la conquista alla quale mi hai condotto il giorno prima del

mio esame di logica.

Innumerevoli tabelle di verità da memorizzare. L’esame,

l’indomani, un vero successo, ma quel pomeriggio non lo avevo, di

certo, dedicato alle noiose tabelle e spigolose tautologie. Mi nutrivo,

esclusivamente, delle tue parole. In quel frangente, mentre tu parlavi,

lo ammetto, provavo la caratteristica apprensione che accompagna

uno studente che si appresta a sostenere una prova importante e

ritenevo che le argomentazioni, di quel pomeriggio, non fossero

inerenti al mio programma da portare all’esame. Fuori, un forte vento

agitava i rami degli alberi e, il loro caratteristico rumore, creava uno

strano sottofondo alla tua voce di maestro.

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Adesso, sicuramente, avrei difficoltà a ricordare l’esame di

logica e ciò che avevo studiato per superarlo, ma, mai dimenticherò

quella straordinaria lezione sul vento!

Parlavi della nascita giovannea, quella dello Spirito,

indispensabile per la vita eterna. “Il vento soffia dove vuole, e tu ne

odi il rumore. Ma non sai né donde viene, né dove va”.

Era importante vivere il presente, senza pensare al domani. Il

vento, solo il vento e il suo rumore, era il nostro presente.

La prova, il mio presente dell’indomani, arrivò senza ansie

distruttive, mentre godevo di vita nuova, pregna di filosofia.

Da ciò ho imparato che, nel sapere, esistono varie modalità

di cognizione e così nello studio. Abbandonando in fretta il

nozionismo e i vani ragionamenti degli stolti, ho acquisito la capacità

a concentrarmi su ciò che mi circonda, perché tu, quel pomeriggio, in

quella lezione propedeutica al mio esame… mi hai insegnato ad

udire il vento.

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Saper ascoltare é un’abilità che tutti dovrebbero ricercare e

che, presto, ho sviluppato. Non sempre, nel frastuono, riesco ad

individuare la sostanza e differenziarla, così, dall’apparenza. Le cose

mi appaiono, quindi, in realtà, non sempre come, in effetti, sono.

Spesso, i sensi si saturano di stimoli, del tutto inutili alla mia

edificazione. Costruisco vere e proprie barriere. Esse,

inevitabilmente, ostacoleranno l’adesione al vero, per ritrovarmi solo

ed impaurito nel mare magnum delle ottuse percezioni e dei miraggi

incantatori. Purtroppo, a volte, inseguo la via dell’adattamento a tutti

i costi, per appartenere al gruppo, prima di essere me stesso.

Vivere, fino in fondo, la divina immagine della misteriosa

sostanza umana, diviene, innanzi tutto, piena convinzione di non

dover cercare l’unicum e la mia identità, fuori di me.

Così, entro in me stesso e metto in questione tutto, senza

cadere nello scetticismo, con l’atteggiamento di apertura che

contraddistingue chi non ha stupide certezze. Lo sforzo umano, è

quello di indicare il senso soprannaturale e, pertanto, incondizionato

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dell’amore agapico, all’interno e nell’orizzonte della stessa filosofia.

Filosofia dell’amore assoluto, profondamente agostiniana, ma,

anche, radicalmente greca, inscritta nell’orizzonte dell’eros

platonico, inteso come movimento ascensionale verso la verità

dell’amore. Da qui, il tema della purezza del movimento amativo, a

partire dal cominciamento del movimento d’amore che è Dio.

Quindi, non solo il tema antico della ricerca conoscitiva,

legata, senz’altro, alla volontà di sperimentare Dio, ma, anche e

soprattutto, il tema religioso ed escatologico: soggetto della Grazia e

della Verità del figlio dell’uomo come figlio di Dio.

Cuore, esaminato nelle sue valenze religiose e

sovrannaturali, da intendersi, anche dal punto di vista profano, come

animus e mens, in prospettiva di liberazione e di Grazia salvifica.

Cuore, come lo intendevamo noi, al di là della naturalità,

della finitezza, nel vigore della forza irradiante dell’amore,

movimento qualitativo dell’essere totale, nucleo dischiuso dall’inizio

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del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Logos”, ossia Verbo e

Parola.

La tua spiritualità vissuta, costituiva la sorgente cui si

alimentava la mia speculazione e la stessa filosofia, che non si lascia

irretire da nessun schematismo di scuola.

Pensiero speculativo, con vertici di geniale penetrazione del

mistero.

Una trasformazione di vita e di mente che significa

conversione alla felicità, vocazione e origine di ogni cosa.

In principio, infatti, prima che il mondo fosse, era quella che

tu chiamavi “alterità per amore”, semplicemente, il Padre che genera

il Figlio e lo ama in eterno: insondabile mistero della Santissima

Trinità. Poi, tutte le buone creature e l’uomo, alterità senza

alterazione, di infinito valore, diapason della sinfonia del creato.

Da ciò, muovevi i tuoi obiettivi sapienziali, scrutando,

dolcemente, il sacrificio salvifico del Cristo, orizzonte della filosofia,

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fonte della nostra ricerca e della nostra amicizia. Essere per l’altro,

dal Totalmente Altro, che è Dio.

Carità e Sapienza, Amore e Filosofia, ragioni di vita, tue e

mie.

Seguo, con l’umiltà del discepolo e con gratitudine, questi

elementi di grazia.

Non mi mancherai!

Sei presente, Professore. Presente come un tempo,

profondamente presente e benedetto.

Ricordato da tutti quelli che hanno imparato ad amare,

quando si conosce un vero filosofo, uno studioso che, sicuramente,

meritava vette accademiche ben più rilevanti.

Sarebbe stato più giusto! La società, però, non sempre, dà

meriti a chi ha merito.

Per tanto tempo, hai insistito a rincorrere il tuo posto

legittimo, un posto di ordinario, una cattedra universitaria che, vari

pupilli, non hanno veramente sudato. La tua natura, semplice e

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onesta, non poteva considerare i compromessi necessari ad accedere

a quell’ambìto posto.

Un cruccio emotivamente mal tollerato.

Latente, il senso di ingiustizia che avvertivi in alcuni

frangenti, il quale, provocava un forte senso di frustrazione e di

rabbia.

L’Università voleva essere la tua dimora. Ma l’ideale non è il

reale, e, la tua sensibilità troppo spiccata, non adeguata per quel

mondo non del tutto sano.

Ricordo, con un pò di sofferenza, un episodio che ci ha visto,

nuovamente insieme.

Una mattina, lungo i corridoi, insolitamente non affollati

della facoltà: una crisi emotiva di ribellione e di dolore. La tua

ragione, indomita, si riaffacciava, brevemente, soltanto quando il tuo

pianto rabbioso si placava, sia per aver raggiunto il limite, sia per

quell’opportuno sedativo che il medico ti somministrava.

Che paura!

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Che senso di inadeguatezza mi assaliva, nel tentativo di

attenuare il tuo impeto, a lungo rimosso, ed espresso solo a parole.

Non ti andava proprio giù, costatare, l’insolente negligenza di chi

disertava le lezioni, in quella giornata calda di fine anno accademico.

Soffrivi tanto, ed io con te, entrambi chiusi in un’ambulanza

che ti conduceva in ospedale. Capivo, e forse solo io, ciò che

provavi. E con amorevole dignità, percorrevamo, in quella troppo

calda giornata, altri corridoi, purtroppo più frequentati, di una clinica

psichiatrica.

Non descrivo le sensazioni che provavo, nel desiderio che

tutto quel dolore svanisse al più presto, come per miracolo.

Eri solo, disteso sul letto, abbandonato da tutti, studenti e

colleghi. In un attimo, abbiamo visto la nuda verità di un Ateneo: una

superba istituzione che non conosce il nostro Dio, un luogo, spesse

volte, abitato da grandi che spendono la propria vita nel corteggiare

l’applauso, cercando quelle vuote cose chiamate prestigio e fama,

umiliando e distruggendo i piccoli.

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E’, certamente, fuorviante tentare di risolvere il contrasto

creato dall’opposizione e dalla differenza tra i piccoli e i grandi, ma,

ciò, rappresenta il tragico della contraddizione. Purtroppo, tali

contrari sono posti nella società retta dai giganti del potere, coloro

che detengono l’arbitrio e la cattiva volontà di impastare la realtà,

rendendola, così, inautentica ed adulterata, impura fin dal principio.

I piccoli si confondono in questo grande oceano di

mescolanza totale. Un mancato equilibrio, che non ha nulla a che

vedere con l’estrema umiltà di colui che, nell’abnegazione, accetta

regole ingiuste e ottenebrate. L’amore è più forte del male e il male

più forte dell’amore, così all’infinito. I piccoli, le vittime sacrificate a

questo assurdo gioco che si perpetua da sempre. Ma “ciò che è

impossibile all’uomo è possibile a Dio”. Quindi, guai a toccare i

piccoli, in quanto amici suoi.

Tale contraddizione e mancato rispetto per la giustizia,

durerà fino alla fine del mondo. Dopo, i piccoli, vedranno il regno

del vero e del giusto, ove l’immane volontà di potenza, imposta dalla

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prepotenza dei grandi, non avrà più disposizione di mezzi. I piccoli,

ridotti all’impotenza, avranno, nella possibilità del bene, quella di

prendere le distanze dall’ipocrisia e dalla prevaricazione.

Ti sei ripreso in fretta da quella crisi, ma, mai, dalla tua

insoddisfazione per il mancato coronamento del tuo sogno antico,

legato, a doppio filo, con la tua unica debolezza: servire due padroni,

le tue aspettative legittime e la nostra filosofia.

“Non si possono portare due meloni, sotto lo stesso braccio”,

afferma un antico proverbio persiano. Spesso, lo dimentichiamo e ne

paghiamo lo scotto. Ignoriamo, inconsapevolmente, la nostra doppia

natura, trascinati da una forza che ci porta ad agire senza pensare, a

creare un filtro deformante alla libertà. Certo, è duro e faticoso

rinunciare all’interesse proprio, per perdonare l’interesse collettivo,

ma, tutto ciò, fa parte della giustizia e dell’amore. E la rabbia arde

sotto le ceneri, senza fondere mai il ghiaccio della nostra rigidità

mentale.

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La mente, non è né l’anima, né, tanto meno, lo spirito. La

liberazione è possibile. Oltre i limiti di una ragione finita, oltre la

fisica, al di là della dialettica, lungo la via che è Verità e Vita.

Una vita di liberazione, che dura una vita e che si può

trasformare in un canto d’amore.

Amore abnegativo, fino al sacrificio di sé, per amore

dell’altro, di là della virtù e dell’eroismo.

Si scrive tanto sull’amore, anche se, sull’amore, sarebbe

meglio non scrivere.

Esso è indicibile, inesprimibile ed ineffabile, perché non ha

misura. Solo nell’imponderabile tangente di un istante, dell’Eterno

che si innerva nel tempo, si può esperire la presenzialità del Tutto

Amore, che ama senza misura.

Non ci sono attimi che fuggono, in questa prospettiva, ma

istanti di verità, presenti nella storia dell’uomo e nell’uomo della

storia, dentro il cuore e non fuori di esso.

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L’amore è eterno presente di se stesso, prima, durante e dopo

il tempo.

Solo questo posso dire dell’amore, sapendo di aver detto

tutto e niente, o forse solo una parte, la parte visibile ai miei occhi

parziali, occhi che scorgono segni di un linguaggio, confutabile

anche dal mio stesso pensiero, per connaturali principi di

contraddizione. Ciò, per cui, altresì, una cosa è, invece di non essere

quella cosa, corrispondente al principio di identità, semplifica la

comprensione di ciò che, altrimenti, sarebbe incomprensibile.

Solo lo Spirito, ci condurrà in tutta la verità, priva di false

immagini e specchi. E finalmente, potremo dire!

Come dice Aristotele, quando ritiene che, l’intelligenza del

dire, è la capacità di cogliere i primi principi di tutte le scienze, primi

principi che, appunto, come tali, non cadono nell’ambito delle

scienze stesse.

Come direbbe Pascal, quando rileva uno spirito intuitivo, che

non si lascia guidare se non dal sentimento e dal gusto, cioè dal

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cuore: riconoscimento di una verità più grande di quella scientifica e

psicologica, una verità di puro dominio del cuore e del sentimento,

perché, di là della scienza, c’è, sempre, il dominio della verità eterna,

illuminata dalla luce divina che penetra nell’uomo.

Intanto, procedo lungo il percorso dell’errante, cercando

luce, come le farfalle nella notte, cercando di non scambiare le

lucciole per le lanterne, nel labirinto inestricabile delle mie

rappresentazioni.

La consapevolezza, il mio orizzonte, con l’umiltà della

colomba e la prudenza del serpente, nel rispetto della piena coscienza

e della massima attenzione.

Eri d’accordo con Sant’Agostino quando affermavi: “Non

uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la

verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te

stesso.”

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E con Pascal quando affermava che “Spesso gli uomini

scambiano la loro immaginazione col loro cuore, e credono di essere

convertiti quando cominciano a pensare a convertirsi”.

“Attento a non idolatrare né la coscienza, né, tanto meno,

l’attenzione”, mi ripetevi, e “stretta la via che si allontana dal

mondo della volontà e dei desideri”. Me lo ricordavi sempre, ogni

qual volta che, tronfio e trionfante, m’inorgoglivo delle mie

conquiste filosofiche. Non il dubbio iperbolico o scettico, che dir si

voglia, ma la cauta ed umile certezza, quindi, di verità che non si

possiede, vita natural durante, lungo il cammino dell’esodo, dal

paradiso perduto.

La messa in questione di sé, mi suggerivi, vera metanoia,

scacco ontologico, conversione e opzione fondamentale: contrizione

del sé che sceglie il vero. Dopo, senz’altro, la consolazione di non

esser più soli!

Rinnovati nella storia, in una storia che non si rinnova da sé,

da ieri sino a domani, aspettando il giorno nuovo e non un nuovo

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giorno, oltre l’attendismo per l’eternità, oltre l’ansietà del tempo che

aspettiamo, perché “ad ogni giorno basta la sua pena” e non vale la

pena penare per ciò che non ci appartiene.

L’appartenenza attiene al possesso, all’avere, mentre, noi,

abbiamo la vocazione all’essere.

Siamo chiamati a lasciare per prendere, perdere per la

vittoria e per la restituzione finale.

Per questo non mi mancherai!

Mi mancheranno i nostri perché, cercati senza i come, nella

comune erranza di una condivisa nostalgia, la nostalgia di uno stato

d’essere, ove posare il capo.

Si, perché l’uomo, nella vita degli affanni, non sa dove

posare il capo, senza riposo eterno.

“Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo, i loro

nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Mt. 8.20

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Mi mancheranno le cose, gli eventi trascorsi, i luoghi e gli

ambiti, i sentieri e le tracce: testimonianza e vestigio di ciò che di

pregiato accenno.

Un accenno, vorrei fare, ad una giornata, trascorsa

all’insegna dell’armonia, un mio compleanno in tua compagnia. Il

desiderio di trascorrere un giorno diverso e particolare.

La sera prima, i frettolosi accordi, insieme al gruppo di

amici: domani si va in montagna e al mare! La nostra città lo

permette: Gambarie e Bagnara.

Si può vivere pienamente anche un solo giorno, lo abbiamo

sperimentato, non solo quel giorno: Beatrice, Francesco e Patrizia, tu

con i tuoi giovani figli Antonio, Giulio, Gino e Lorenzo, gruppo, così

spontaneamente composto, con la volontà di darmi affetto, nel giorno

a me dedicato.

Si partì presto, il nove d’agosto, prima che l’aria afosa

velasse il cielo reggino, con la consueta, estiva cappa.

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Destinazione: il ricercato refrigerio montano, lontano da un

luogo con la medesima latitudine di Seul.

Chi vive, d’estate, a Reggio Calabria, sa di queste esigenze e

noi, quella giornata, volevamo trascorrerla in ottimale condizione di

temperatura.

E potevamo farlo!

Respirare! C’è qualcosa di più semplice?

Già alle 10.30 avevamo appetito. Cosa c’è di meglio del riso

ai funghi del professore, preparato negli indimenticabili

scaldavivande? Migliore spuntino per goderci, in serenità, la gioiosa

ricerca dei primi porcini stagionali?

Poi, il pranzo rustico ed il riposo. Non saprei, in quei

frangenti, cosa fosse più piacevole da assaporare, se la compagnia,

l’aria pura, la prelibatezza del cibo, la passeggiata, le battute

scherzose o le scivolate sull’umido dei sentieri, per nulla pericolosi,

se attraversati insieme con un’allegra, ma attenta guida.

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Senza alcun problema digestivo, con tutto il tempo per

condividere un buon caffè e… quasi per incanto, in spiaggia, dopo

una buona dose di curve in macchina e con una temperatura,

sicuramente, diversa, correndo a piedi nudi, pensando, forse, di avere

tutti la medesima età, con la spensieratezza dei bravi ragazzi e

l’innocenza di chi non aveva ricordato… di portare il costume, per

l’imperdibile bagno pomeridiano, in un’acqua d’indescrivibile

bellezza.

Tutti in costume bianco, quindi, e… senza marca. Che valore

abbia la griffe in paradiso, ancora, questo non l’ ho capito!

Quanta vita da vivere quel giorno.

La torta gelato a casa mia, seduti in balcone, con il sempre

gradito venticello dello Stretto, mi riportava alla mente che avevo un

anno in più… ma come amo ricordare quel compleanno!

Seduto, sulla sedia a dondolo, raccontavi la giornata

trascorsa, a chi, della mia famiglia, era rimasto a casa.

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Mio padre ti rifocillava con il bis del gelato e scherzava con

te chiedendoti, nel frattempo, numi filosofici sulla realtà e sulla vita

in generale.

Un po’ come suole fare con me, quando ci incontriamo: mi

rifocilla e mi chiede di Dio.

Oltre la generazione e di là della concatenazione delle

nascite e delle morti, sta il significato della dignità dell’amore a

principio. Nella relazione parentale, soltanto l’immagine di quella

dignità. Certamente, andando oltre l’ancestrale rapporto padre-figlio,

si scorge la scintilla dell’amore paterno ab origine.

Che grazia sublime, tuttavia, poter parlare di Dio col padre!

Mario, ti chiama Domenico, mio padre, quando ti ricorda,

perché Mario ti chiamava chi ti conosceva da lunga data, o forse, lui,

semplicemente, per… non fare confusione col proprio nome.

Eravate vicini di casa, quando ero bambino. E ben presto

amici. L’amicizia più grande, quella della giovinezza, una bella

giovinezza, per l’amicizia più bella. E la felice amicizia è come un

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detto parafrasato più volte, svegliarsi presto, per ammirare il

tramonto. Non importa, se il sole che si nasconde, si aspetta da soli:

l’animo del filosofo non teme la solitudine, poiché la contempla e ne

comprende il senso, educarsi fino a morire, per il farsi umano

dell’esistenza e morire da soli, come un chicco di grano nella terra.

Questa la pedagogia che insegnavi, del morire e del vivere:

educazione alla morte per la vita. Oltre ogni solitudine. Lo capivo,

quando cercavi compagnia in quel negozietto semplice di articoli di

carta, una cartoleria in centro, dove amavi intrattenerti con persone

rispettose ed amiche, della tua solitudine e del tuo cuore generoso,

del tuo dire e del tuo fare. Senza alcuna difformità, tra la tua e la

nostra esperienza e cultura, tra i tuoi e i nostri pezzi di carta.

Numerosi fogli di carta velina e un’invecchiata macchina per

scrivere, strumenti, oltre il tuo ingegno, per produrre saggi di

filosofia: quanto hai sognato il nuovo computer, rimasto ancora

imballato, che, con entusiasmo, avevi acquistato per le tue opere.

Mai usato, poi rivenduto. Probabilmente, ciascuno ha i propri

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momenti e il tempo non si acquista certo in emporio, né in contanti,

né a rate.

Il destino ha voluto che ti si ricordasse più per come

insegnavi, che per ciò che dovevi ancora dire per iscritto.

Ricordo quel tuo ex alunno, incontrato una sera in un bar,

ove, per incanto, si respirava aria di riconoscenza e cortese ossequio.

Mi presentavi, giustamente compiaciuto, un uomo alto, non

più ragazzo, emozionato e felice di rivederti.

Sarebbe rimasto volentieri a lungo, insieme al suo ben amato

professore, per esprimere tutta la sua gratitudine per ciò che

rappresentavi nella sua vita e ciò che avevi fatto per la sua

formazione. Si leggeva nei suoi occhi vispi e lucidi. Intesa non del

tutto espressa a parole, inefficaci a comunicare tutta la necessaria

venerazione e deferenza che ti spettava e meriti.

Non tutti hanno la fortuna di avere una guida, per sondare

l’animo, per essere veri e agire in armonia col mondo. E’ più facile

vedere gli altri che se stessi, cercarli per non trovarsi mai, ma quando

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l’aiuto, necessario a trovare la via, lo incontri realmente, allora, sai

che non perderai mai più la giusta direzione.

I buoni propositi, gli entusiasmi, servono a poco! Se poi,

tutto ciò, è un amico a dartelo, la fortuna è un dono.

In ebraico, amico, significa “dono di Dio al mondo”. E se

l’amico, infine, è anche filosofo, allora, questo dono diventa

strumento di grazia, amore della Sapienza che si cela nel fondo del

cuore.

L’uomo, parafrasando Hegel, mediante l’indicata alterità,

esce dalla prigione del proprio “io” e incontra “l’altro”. Lo ama come

se stesso. Da soli, o isolati, infatti, direbbe Pirandello, non si è

nemmeno uomini, ma “io” chiusi e mai “sé” comunicanti.

Grazie a te, ho imparato a non lasciarmi sedurre dai sofismi e

dai paralogismi dei lestofanti e degli allocchi, dall’intelletto stordito.

Essi tentano di confondere e turbare la mente di chi, con prudenza,

ritiene il “tutto lecito, ma non tutto utile”, anche nelle idee.

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Tutti, dentro, abbiamo le nostre canzoni, anche chi, il più

delle volte, appare freddo e distaccato. Abilmente, per paura, sottrae,

alla vista, i propri angeli e il proprio tesoro. Ma non alla tua

sensibilità, alla quale non sfuggiva, di certo, quanto amore ci possa

essere in chi, spesso, viene giudicato gelido. E lo facevi notare.

Come quella mattina, alla nostra solita e, quasi peripatetica,

passeggiata all’aria aperta, quando Silvana, mia suocera, in

apparenza distolta da ciò che dicevi, stringeva una talea tra le dita,

amorevolmente protetta, in segreto.

Con saggia discrezione e abile riflessione, osservavi la scena,

mentre, con me, riferivi di intelligenza e di finezza.

Prontamente hai annunciato il significato a chi era presente e,

tuttavia, non attento a quel germoglio di vita.

Offrivi, in tali frangenti, idee semplici, in sagge

dichiarazioni, messaggi di esistenza presente, del qui e dell’adesso,

o… del mai più! Nella possibile impossibilità del non ritorno al

nostro tempo.

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Soffio vitale allo stato nascente erano le tue parole… e di

infinita potenzialità.

Ecco ciò che accade ad ogni istante, per noi, dall’inizio alla

fine di questo tempo. Si svela una realtà per chi ha acume

d’intelligenza, una realtà, ove la stupidità si ferma e resta fuori,

distante o isolata, per vie più estese. Un regno dove si possono

vedere, anche solo per un istante, le finzioni del mondo, con lo

stupore del filosofo e dell’Eterno presente dell’essere, che esiste per

trascendersi.

Come la nostra alterità, corrispondenza di amicizia e

dignitosa stima, che racconta l’amore per la filosofia, rivoluzionaria,

della tua presenza e della tua assenza.

Un vago presentimento che viene a conformarsi: un non so

che, che nell’istante presente, in un’apparizione sparente, mi induce a

desiderare la tua resurrezione, in questo ineffabile mistero del

presente, dal sapore di malinteso e di controvertibilità, alibi di amor

proprio o autentico amore.

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Professore… presente! Luciano R. Conti

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Un moto dell’anima mi prende, genuino e sincero, spontaneo

ed improvviso, che elimina questa antitesi irriducibile, questa

insopportabile aporia.

Sei presente, in questa triste assenza, nel dire che non mi

mancherai.

A te, dedico questo mio movimento, a te che, adesso, in

verità… mi manchi.

Mi manca la tua presenza… professore.

Per sempre.

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Bibliografia di Domenico Vircillo

� Filosofia e sociologia della cultura.

� Studi su Ernst Cassirer e Karl Mannheim.

� Socrate e la filosofia.

� Umanesimo e filosofia politica.

� Possibilità e orizzonte della filosofia.

� Sant'Agostino.

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Indice

7 Prefazione

13 Prologo

27 Professore… presente!

29 Introduzione

31 Professore… presente!

73 Bibliografia di Domenico Vircillo

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