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Polo Sud | n. 3 | 2013 | <http://www.editpress.it/cms/book/polo-sud-3> anno secondo | n. 3 | 2013 ISNN 2280-1669 © 2013 editpress di Clara Grasso Luciano Canfora: le «ideologie del classicismo» e l’uso politico del paradigma classico Negli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo Luciano Canfora ha pubblicato una serie di opere con le quali intendeva ricostruire le vicissitudini della tradi- zione dei classici in età contemporanea nonché la storia delle contamina- zioni e delle reciproche interferenze fra questa tradizione e la vicenda po- litica europea dei secoli XIX e XX; si tratta di opere quali Cultura classica e crisi tedesca. Gli scritti politici di Wilamowitz 1914-1931 (1977), Intellet- tuali in Germania tra reazione e rivoluzione (1979), La Germania di Ta- cito da Engels al nazismo (1979), Ideologie del classicismo (1980), Le vie del classicismo (1989), raccolta di saggi, articoli, interventi scritti da Can- fora negli anni fra 1975 e 1988. In Italia questi studi hanno contribuito a il- luminare un frammento per nulla marginale della storia degli intellettuali europei nel periodo fra le due guerre, da una parte rivelando le resistenze o più spesso la permeabilità e le compromissioni del ceto intellettuale, e dei classicisti in particolare, verificatesi nell’urto con movimenti politici pro- pensi a “ideologizzare” le testimonianze letterarie della civiltà greca e ro- mana, dall’altra offrendo una rassegna dei principali “oggetti” dell’antichi- tà sui quali si è esercitata la “manipolazione” ideologica. La pubblicazione delle opere sopra citate è stata preceduta da una «di- scussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo» avviata da Canfora nel terzo numero della rivista Quaderni di storia al suo secondo anno di pubblicazione. Proprio aprendo quel confronto Canfora chiariva prelimi- narmente il suo concetto di classicismo: Ma prima di procedere è necessario un chiarimento: quando parlo di classici- smo intendo, evidentemente, quel procedimento che mira a ricavare, ad estrar- re, dalle testimonianze scritte della civiltà greca e romana non solo alcuni pen-

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anno secondo | n. 3 | 2013ISNN 2280-1669 © 2013 editpress

di Clara Grasso

Luciano Canfora: le «ideologie del classicismo» e l’uso politico del paradigma classico

Negli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo Luciano Canfora ha pubblicato una serie di opere con le quali intendeva ricostruire le vicissitudini della tradi-zione dei classici in età contemporanea nonché la storia delle contamina-zioni e delle reciproche interferenze fra questa tradizione e la vicenda po-litica europea dei secoli XIX e XX; si tratta di opere quali Cultura classica e crisi tedesca. Gli scritti politici di Wilamowitz 1914-1931 (1977), Intellet-tuali in Germania tra reazione e rivoluzione (1979), La Germania di Ta-cito da Engels al nazismo (1979), Ideologie del classicismo (1980), Le vie del classicismo (1989), raccolta di saggi, articoli, interventi scritti da Can-fora negli anni fra 1975 e 1988. In Italia questi studi hanno contribuito a il-luminare un frammento per nulla marginale della storia degli intellettuali europei nel periodo fra le due guerre, da una parte rivelando le resistenze o più spesso la permeabilità e le compromissioni del ceto intellettuale, e dei classicisti in particolare, verificatesi nell’urto con movimenti politici pro-pensi a “ideologizzare” le testimonianze letterarie della civiltà greca e ro-mana, dall’altra offrendo una rassegna dei principali “oggetti” dell’antichi-tà sui quali si è esercitata la “manipolazione” ideologica.

La pubblicazione delle opere sopra citate è stata preceduta da una «di-scussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo» avviata da Canfora nel terzo numero della rivista Quaderni di storia al suo secondo anno di pubblicazione. Proprio aprendo quel confronto Canfora chiariva prelimi-narmente il suo concetto di classicismo:

Ma prima di procedere è necessario un chiarimento: quando parlo di classici-smo intendo, evidentemente, quel procedimento che mira a ricavare, ad estrar-re, dalle testimonianze scritte della civiltà greca e romana non solo alcuni pen-

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sieri ma un vero sistema di pensieri (certo elementari e non sempre organica-mente collegati) che vengono a formare una sorta di ‘ideologia’ – tanto più in-fluente, attraverso le varie epoche, proprio per la posizione privilegiata che la cultura classica ha assunto – e non a caso – nell’enciclopedia del sapere, oltre che nell’ordinamento degli studi ad ogni livello. Non è superfluo aggiungere, d’altro canto, che il tipo di società, e quindi di testimonianze scritte, caratteri-stiche dell’età classica greca e romana si prestavano particolarmente a questa operazione, fornivano appunto i contenuti giusti per un tale sistema di valori1.

Nella Nota con la quale si apriva il quarto numero di Quaderni di sto-ria, Canfora riprendeva l’affermazione con cui Antonio La Penna aveva concluso il suo contributo alla «discussione sul classicismo nell’età dell’im-perialismo» avviata nel numero precedente della rivista. Così si chiudeva la riflessione di La Penna intitolata Le vie dell’anticlassicismo:

Naturalmente qui si pone un fondamentale problema epistemologico che non si può eludere: quello dei rapporti fra scienza e ideologia. I rapporti sono stret-ti e continui, ma ben diversi dall’identità: bisogna ammettere che l’ideologia di classe ha posto limiti alla conoscenza, ma non ha invalidato tutto il lavoro e i risultati della conoscenza né nel campo delle scienze esatte né in quello delle scienze storiche. Il proletariato ha davanti a sé molti compiti grandiosi, ma non ha bisogno di ricominciare tutto da capo. L’identificazione di ideologia e scienza sarebbe un’ingenuità pericolosa2.

Ravvisando in quest’affermazione l’insidia di un avallo nei confronti della tendenza a fare distinzione fra spinte dell’ideologia e risultati della scienza, Canfora precisava nella Nota sopra citata:

Tendenzialmente sono esitante rispetto ad operazioni miranti ad ‘estrarre’ dal lavoro scientifico i risultati che – malgrado le loro intenzioni – i soggetti di quel lavoro hanno elaborato: specialmente nel campo delle scienze storiche – ed in particolare della ‘scienza dell’antichità’, così ‘esposta’, proprio per il suo ruolo egemone – , e, soprattutto, in riferimento ad un periodo storico come quello che vide l’incubazione e poi l’esplosione dei fascismi. Penso anzi che, a questo pro-posito, non dovrebbero trascurarsi le proposizioni programmatiche di coloro che furono partecipi di quella fase della cultura europea3.

A riprova di quest’ultima affermazione Canfora citava la prolusione rettoriale di Arthur Golf, Nazismo e università, pronunciata a Lipsia nel 1933, in cui veniva rivendicata l’incapacità dei nazisti di concepire una scienza priva di presupposti («voraussetzungslos») e veniva denunciata l’indifferenza per il legame fra Stato e scienza manifestata dal liberali-smo; rispetto a questo atteggiamento di indifferenza il nazismo aveva se-gnato uno scarto decisivo suffragato da affermazioni “profetiche” come

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quella, citata da Golf, dello storico berlinese Max Lenz che nel non lonta-no 1911 aveva dichiarato che Stato e scienza non possono essere separati. Secondo Canfora la storia degli studi classici non deve ignorare il fatto che le scelte scientifiche, anche quando conducano ad un avanzamento, possono non essere “innocenti” per la natura ideologica della loro fonte di ispirazione. E chi fa storia degli studi classici ciò non deve ignorarlo specialmente quando si sofferma a ricostruire fasi di quegli studi duran-te le quali questo legame fra ideologia (o Stato che di una precisa ideolo-gia è la costruzione) e scienza fu dichiaratamente e programmaticamen-te cercato e perseguito4.

Canfora chiarisce che il movente di un simile orientamento non è certo il gusto di moralistica condanna/assoluzione di questo o quel classicista, ma è la volontà di pervenire a una più lucida comprensione delle ragioni che spinsero la ricerca scientifica ad assumere certe forme e certi contenu-ti, ritenendo che quest’indagine contribuisca a ricostruire uno spaccato del sapere storico relativo all’età dell’imperialismo:

Il lavoro avviato sul “classicismo nell’età dell’imperialismo” (con particolare riguardo, per ora, all’età dei fascismi), mentre si propone di ridare al classici-smo inteso come ‘sistema di valori’ il posto che gli tocca tra le matrici ideolo-giche del fascismo (nella fioritura di studi su questo tema non mi sembra che lo si sia fatto), non si propone affatto di pervenire ad una qualche “condanna” del classicismo europeo: né attraverso il suo riconoscimento come componen-te dell’ideologia fascista, né attraverso la constatazione degli indirizzi che la politica culturale fascista ha impresso al classicismo europeo. Ci siamo mossi, e cerchiamo di muoverci secondo presupposti né moralistici né dommatici; che forse conviene dichiarare […]5.

Vale la pena di riassumere qui questi presupposti. Il fatto che «la con-trapposizione frontale a tutto quanto sappia di fascismo è stata ed è tuttora elemento vitale e primario dello scontro politico»6, non deve impedire di vedere la capacità che il fascismo ebbe di impregnare di sé la cultura bor-ghese; «a sua volta, aver colto questo non significherà aver ‘bollato’ questa cultura, ma aver compreso come essa, col fascismo, sia per la prima vol-ta uscita dalla sua ‘separatezza’ e verso quali sbocchi»7. Secondo Canfora, una simile analisi libera gli ammiratori del liberalismo e i detrattori del fa-scismo dall’imbarazzo di dover scegliere fra «rinnegamento complessivo» e «puntiglioso salvataggio» di uno o di un altro personaggio e consente di illuminare la questione nodale: «il successo della politica culturale fascista non solo al livello di ‘politicizzazione’ della cultura, ma anche al livello di prevalenza delle ‘lato sensu’ direttive culturali del fascismo»8.

La modalità dominante sulla base della quale sono state costruite le sto-rie degli studi di filologia classica tende a privilegiare «l’aspetto concre-to della singola risultanza (la ‘scienza’) rispetto alla cultura entro cui quei

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risultati si collocavano (l’ideologia)»9. La discussione avviata da Canfora vuole suggerire un cambiamento di rotta:

Insomma, credo di non esagerare osservando che, se per un certo periodo ci abitueremo a guardare ogni volta, nella storia degli studi, al di là del singolo (“solido”) risultato, alla connotazione culturale (e, perché no?, ideologica) del suo portatore, non sarà del tutto un male10.

Espungere l’ideologia dal classicismo è, secondo Canfora, impossibile, in quanto «il gruzzolo di concetti –base» ricavabile dai contenuti dell’an-tichità classica, «quei concetti dei quali i filologi ‘puri’ magari si vergogna-no», primo fra tutti il rifiuto della democrazia come regime fondato sul principio dell’uguaglianza «(in una parola: l’antidemocrazia)», quei con-cetti «che sono parte integrante del pensiero e del lavoro dei ‘grandi’ mae-stri», sono stati «via via assunti dalle ideologie reazionarie, ne fanno orga-nicamente parte, ne sono il blasone di nobiltà, la continuità storica»11. Non a caso «tutta la tradizione antidemocratica moderna attinge a quella classi-ca: e garante della continuità di queste riserve sulla democrazia è appunto la tradizione classicistica»12, specialmente per via della connotazione ne-gativa del concetto di “masse” contenuta in questa tradizione.

In Classicismo e fascismo, replicando alle accuse di moralismo (ovvia-mente non condivise da Canfora) che puntualmente si levano nei confronti di coloro che intendono verificare se da parte degli intellettuali, italiani e non, vi sia stata una adesione al fascismo e in quali forme essa si sia espres-sa, Canfora cita le parole infuocate di Togliatti13 e Marchesi14 che rivendi-cavano la legittimità del richiamo alle responsabilità personali rivolto agli intellettuali per ciò che essi avevano scelto di dire e fare al tempo del fasci-smo. Senza voler dar seguito a liste di proscrizione Canfora comunque con-clude: «Era però opportuno un chiarimento preliminare, onde non smar-rire quel solido dato concreto che sono le scelte politiche compiute da ceti e gruppi sul momento, quando cioè è significativo scegliere, dinanzi a fon-damentali scadenze storiche»15.

Ma le ragioni che hanno spinto Canfora a indagare sul nesso fra ideo-logia e classicismo sono anche altre. In Analogia e storia: uso politico dei paradigmi storici del 198216 Canfora ha ampiamente dimostrato che il fat-to storico è impensabile al di fuori di categorie già note, al di fuori cioè di un modello; nella Premessa alle Vie del classicismo (1989) egli ribadisce che il modello all’interno del quale il fatto da interpretare viene calato non esiste al di fuori del soggetto che lo utilizza e che quindi lo “strumentaliz-za”, caratterizzandolo sulla base dei suoi «preconcetti»17, cioè selezionan-do ed enfatizzando ora l’una ora l’altra delle sue componenti; motivo per cui, quando parla di modello, Canfora è costretto a precisare che si tratta di qualcosa «che è, insieme, modello e suggestione»18. Fra l’uno e l’altra viene a crearsi una «circolarità»19 in virtù della quale il modello avvalora

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la suggestione e la suggestione (che forse potremmo chiamare anche “ide-ologia”) interviene nella caratterizzazione del modello. Ne consegue an-che che, in epoche diverse, interpreti diversi considerino uno stesso evento dando luogo ad analisi diverse, cioè facendone emergere di volta in volta qualche cosa che non era stata ancora o abbastanza evidenziata, ma che è dentro l’oggetto, in una specie di «processo di comprensione/fraintendi-mento»20. L’oggetto, quindi, «solo in parte sussiste in sé e per sé (in quanto insieme di dati ricostruibili con maggiore o minore approssimazione): esso esiste, e non meno, in relazione ai soggetti che lo leggono e lo interpretano (Dilthey diceva: che lo rivivono)»21. La conclusione della Premessa di Le vie del classicismo contiene la chiara formulazione dell’argomento che dà ragione del vasto e prolungato interesse di Canfora storico per le forme as-sunte dal classicismo, per le «vie» percorse dal classicismo. Il variare nelle epoche dell’approccio al mondo antico «è esso stesso un ‘fatto storico’»22 (proprio come lo è il mondo antico) e contribuisce a produrre fatti storici.

1. Il mito di Roma in età fascista

Fra gli esempi di testimonianze del mondo antico di cui Canfora si è occu-pato in quanto oggetto di questa circolarità e interferenza a doppio senso tra modello e “suggestione” vi sono la storia e la letteratura di Roma come stru-menti della propaganda fascista e la Germania di Tacito messa al servizio della riflessione sullo Stato, dell’antiparlamentarismo e dell’antidemocrazia a base razzistica specialmente nella Germania del primo dopoguerra.

In Ideologie del classicismo, dopo aver rievocato alcune delle manifesta-zioni della cultura classica e della propaganda in età fascista (per esempio, l’Istituto di studi romani e il suo organo ufficiale, «Roma. Rivista di studi e di vita romana», o il rilancio della lingua latina come lingua contempora-nea, cioè «parlabile»)23, Canfora passa in rassegna i principali orientamen-ti che la ricerca assunse negli anni del fascismo. La novità evidenziata da Canfora quale elemento caratterizzante di questo come degli altri regimi di massa coevi e successivi fu l’imposizione agli uomini di cultura non solo di un preciso orientamento politico, ma anche di un indirizzo tematico nella ricerca, in obbedienza all’idea della necessità di un’integrazione fra scienza e politica. Così, per esempio, la ricerca italiana si dedicò prevalentemente alla storia romana piuttosto che a quella greca ed ellenistica.

D’altra parte le direttive del regime in materia di ricerca erano il rifles-so di un «modo di leggere»24 il mondo antico secondo Canfora per nulla infondato. Egli ritiene infatti che vi fosse un’«obiettiva concordanza»25 fra i presupposti della politica fascista e certe tematiche della cultura romana, specialmente augustea. Così, secondo Canfora, non fu del tutto improprio chiamare in causa le Georgiche di Virgilio, in occasione del bimillenario virgiliano del ’30, per contribuire al rilancio fascista del “ruralismo” volto

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a contrastare la crisi dell’Occidente industrializzato, poiché non era infon-data l’intuizione che in quello scritto ravvisava «un elemento della politi-ca augustea di potenziamento del ceto medio e dell’agricoltura italici dopo la decadenza della penisola nelle guerre civili»26. Allo stesso modo, secon-do Canfora, la materia del VI libro dell’Eneide, si prestava effettivamente all’uso politico che ne fece il regime fascista, in quanto un uso corrispon-dente ne aveva già fatto la politica culturale augustea. «Più in generale si può dire che felice, efficace, è stata la scelta di privilegiare il “momento” augusteo: un momento di attiva ‘politica culturale fondata su determinati motivi utilizzabili in chiave attualizzante»27.

È anche vero, sottolinea Canfora, che l’immagine del periodo augusteo sulla base della quale avvenivano le scelte di politica culturale del regime fascista era quella elaborata dai classicisti vicini al fascismo; dell’età di Augusto questa immagine lasciava risaltare solo gli aspetti funzionali al-la propaganda fascista, escludendo gli altri28. Così per esempio, di Virgi-lio e Orazio, i due più grandi poeti di età augustea, si taceva la consapevo-le dipendenza dal modello greco ed ellenistico, come l’individualismo del tutto inconciliabile con «l’etica dello ‘stato organico’»29. L’uso di Eneide VI 851 volto ad alimentare «il mito di una sorta di predestinazione teleologica dell’Italia a un ruolo direttivo, ‘imperiale’»30 e a fornire all’avventura co-loniale una sorta di retroterra ideologico, non era certamente campato in aria, dato il contenuto propagandistico già presente in quel passo, ma la-sciava in ombra il fatto altrettanto significativo che la politica estera di Au-gusto era stata molto cauta e restia alle avventure militari. In concomitan-za con la conquista dell’Etiopia e con la successiva proclamazione del nuo-vo Impero, la direttiva «augustea» assunse una posizione di primo piano e diede luogo a varie iniziative: la mostra della romanità inaugurata il 23 set-tembre del 193731, quindi una serie di pubblicazioni, studi, edizioni riguar-danti la figura di Augusto, la sua età, le strutture del suo potere32.

2. La Germania di Tacito, la riflessione sullo Stato e l’antidemocrazia

Canfora evidenzia quale presupposto della propaganda fascista l’identifi-cazione fra Italiani e antichi Romani, risultato tipico di quell’atteggiamen-to nei confronti del mondo antico che consiste in un’assimilazione senza mediazioni ignara della distanza esistente fra “noi e loro”, in un modo di interrogare gli antichi esattamente opposto a quello che può secondo lui ri-tenersi “metodologicamente corretto”, cioè il «conoscere per differentiam: al di là di una tradizione umanistica di lunga durata, che insiste sull’iden-tità tra loro e noi»33.

Gli studi di Canfora hanno inteso dimostrare che generalmente l’ideo-logia rifugge la fatica del rigore imposta dal «conoscere per differentiam». Nella casistica da lui affrontata ampio spazio ha trovato l’analisi di un altro

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“mito” elaborato attraverso una fruizione della storia antica priva di me-diazioni, “mito” interessante per lo storico come esempio emblematico di quanto possa rivelarsi gravida di pericoli la mera trasposizione del passa-to nel presente operata dall’ideologia; il caso in questione è l’identificazio-ne fra Tedeschi e antichi Germani dalla quale fiorì, specialmente negli an-ni del nazismo, una moltitudine di studi storici sull’origine dei Germani e sulle loro forme statali. Fu allora che la Germania di Tacito divenne il testo più invocato per avvalorare l’illusione collettiva di aver resuscitato l’anti-ca «democrazia germanica»: «Quanto alla ripresa dei vecchi miti e modelli della Germania tacitiana, essa fu, non meno che nell’Italia fascista il mito di Roma, in primo luogo una rilettura ideologico-propagandistica. Una ri-lettura che seppe giovarsi di una macchina culturale molto efficiente, e che seppe anche mettere gli “antichi Germani”, e primo tra tutti l’opuscolo ta-citiano, al centro di una ineguagliata rinascita di studi»34.

«La storia della “ricezione” di Tacito nel mondo germanico è parte non secondaria della storia della cultura tedesca, così come della formazione di una coscienza nazionale in Germania»35. Così scriveva Canfora nell’Av-vertenza della Germania di Tacito da Engels al nazismo e proseguiva pre-cisando che gli «orientamenti della cultura tedesca “popolare-nazionale” (völkisch)»36 furono influenzati, negli anni fra la proclamazione dell’impe-ro (1871) ed il nazismo, da due temi della Germania di Tacito che offrivano spunti all’ “attualizzazione”: «la rivendicazione della “purezza razziale” dei Germani e la loro concezione dello Stato»37.

La Germania di Tacito da Engels al nazismo è uno scritto di imposta-zione filologica pertanto l’argomentazione di Canfora prende le mosse dai due passi della Germania di Tacito utilizzati per rivendicare la purezza raz-ziale dei Germani: un brano del IV capitolo in cui, dopo aver attribuito ai Germani la mancanza di “macchie” derivanti dalla mescolanza con altre razze, Tacito forniva la celebre descrizione dalla quale è stato ricavato lo stereotipo del Germano dagli occhi azzurri e i capelli fulvi, il corpo robu-sto adatto solo a far la guerra, insofferente della sete e del caldo, resistente invece al freddo e alla fame; un brano del II capitolo al quale il passo cita-to era strettamente connesso, in cui Tacito collegava la purezza razziale dei Germani alla loro autoctonia. Il territorio abitato dai Germani era infatti talmente inospitale e difficilmente raggiungibile che la loro presenza su di esso non poteva spiegarsi con la migrazione né tanto meno era immagina-bile che qualcun altro avesse potuto o voluto migrare in quel luogo.

L’analisi di Canfora consente di ripercorrere la trama di presupposti filosofici e rivendicazioni politiche elaborati a partire dal testo tacitiano e che confluirono nel movimento nazionalsocialista. Il mito dell’autocto-nia dei Germani, che sanciva, con l’autorevolezza della fonte da cui era stato tratto, il legame tra sangue (Blut) e suolo (Boden), fatto proprio da Fichte e dall’irrazionalismo tedesco, sarebbe diventato un elemento chia-ve del nazionalsocialismo per contrapporre l’uomo determinato dalla sua

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eredità fisiologica e dalle condizioni ambientali del suolo di cui è origina-rio all’uomo (disprezzato) il cui valore è definito dalla cultura (Bildung) e dai rapporti giuridici (Besitz). La tematica era stata fatta propria già pri-ma da gruppi come l’Alldeutscher Verband (lega nata nel 1890 e solo nel 1939 confluita nel partito nazionalsocialista) che l’avrebbero utilizzata per additare nell’Ebreo il principale elemento corruttore dell’originaria purezza razziale attribuita da Tacito agli antichi Germani (e della quale quelli moderni aspiravano ad essere gli eredi) e per sostenere la necessi-tà di regolamentare l’immigrazione straniera in Germania. A ben vedere però, e qui Canfora interviene come filologo, le fonti antiche, anche quelle che si devono ritenere alla base dello studio etnografico di Tacito, dimo-strano che alcuni elementi dell’aspetto fisico, della storia, dell’organizza-zione sociale e politica considerati peculiari del popolo germanico furono in realtà comuni anche ad altri popoli.

Nell’esile opuscolo La Germania di Tacito da Engels al nazismo Can-fora dimostra con gli strumenti della filologia che una lettura rigorosa e «non partigiana»38 delle fonti (per esempio quelle greche) utilizzate da Tacito non avrebbe potuto autorizzare l’uso politico che si fece della sua Germania a sostegno di rivendicazioni territoriali o ideologie politi-che basate sulla purezza razziale germanica39. «Insomma, capitoli illustri dell’opuscolo tacitiano, che si prestavano precipuamente, come il II e il IV, a divenire ‘testi sacri’ del razzismo germanico, perdevano molto del loro carisma e del loro carattere quasi “profetico”, se analizzati dal punto di vista della loro derivazione antiquaria e letteraria: risultavano il pro-dotto di una stratificazione complessa, nel corso della quale elementi et-nico-culturali originariamente riguardanti altri popoli avevano finito per venire attribuiti ai Germani»40.

L’argomento della purezza razziale degli antichi Germani era già pre-sente nelle riflessioni sullo Stato contenute negli scritti di Wilamowitz ri-salenti agli anni della prima guerra mondiale. Le considerazioni di Wila-mowitz sullo Stato, il suo coinvolgimento e i suoi interventi nelle vicende politiche contemporanee hanno suscitato in Canfora un prolungato inte-resse41, in quanto smentiscono l’immagine di un ceto intellettuale “separa-to”, distaccato dalle “urgenze” della politica e della storia, rivelandolo anzi “compromesso” fino in fondo con esse. Negli scritti di Wilamowitz risalen-ti agli anni del primo conflitto mondiale Canfora ritrova l’idea della guerra come momento in cui ciascuno può fare esperienza di ciò che è veramen-te lo Stato, cioè quell’istituzione che regolamenta ogni aspetto della vita di un popolo, dalla cui esistenza dipende il bene o il male di tutti, alla quale il cittadino offre spontaneamente qualsiasi sacrificio, ben sapendo che chi compie il proprio dovere gode delle attenzioni dello Stato. Le circostanze presenti hanno creato, secondo Wilamowitz, un rapporto inedito tra Stato e individuo: a una interferenza eccezionale da parte del potere statale nella vita del singolo il singolo ha risposto con un’obbedienza spontanea altret-

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tanto eccezionale. E questa simbiosi fra vita dello Stato e vita del singolo è scaturita dall’educazione militare del popolo tedesco. A questo punto la massa, lungi dall’essere un disvalore, diventa l’antidoto alla solitudine alie-nante della grande metropoli e il luogo in cui gli individui possono rendersi conto di essere necessari gli uni agli altri. «Un’idea di Stato, insomma, – commenta Canfora in Ideologie del classicismo – che vuol significare per un verso l’adesione delle masse allo Stato autoritario, e per l’altro un ideale di Stato corporativo che ‘interviene’, che è l’esatto opposto dello Stato libe-rale, neutrale rispetto ai conflitti tra i cittadini, tra i ceti»42.

L’interesse di Canfora per la concezione wilamowitziana dello Stato ri-entra nel quadro delle sue analisi relative alle “suggestioni” esercitate dalla Germania di Tacito. Infatti lo Stato di cui parla Wilamowitz trova realizza-zione nella «democrazia germanica», a sua volta espressione della «libertà germanica», cioè di quella naturale tendenza del tedesco alla sottomissio-ne al capo della quale anni dopo tesserà l’elogio anche Adolf Hitler.

Lo stesso Wilamowitz riconduce alla riscoperta tardiva della Germania di Tacito il formarsi di un sentimento nazionale tedesco dal quale scaturi-sce uno Stato dall’evidente connotazione razziale. In Ideologie del classi-cismo Canfora riprende alcune considerazioni di Wilamowitz sul caratte-re razziale e militare dello Stato non solo germanico, ma più in generale antico, tratte dallo scritto del 1918 Volk und Herr in den Staaten des Al-tertums. Secondo Wilamowitz, i modelli statali antichi (per esempio gre-ci, italici, celtici) esercitarono un certo influsso nella trasformazione degli Stati moderni in Stati nazionali; gli Stati antichi basavano infatti la loro forza sull’identificazione fra Stato e stirpe («Stamm»). Ma una simile or-ganizzazione statale si reggeva sulla base di un presupposto del quale Wi-lamowitz lamenta l’assenza nello Stato moderno. Nello Stato antico infatti gli elementi estranei ai legami della stirpe («Stammfremde») erano anche estranei allo Stato («Staatsfremde»), potevano cioè vivere all’interno di es-so nella condizione di sudditi, godendo dei diritti civili, ma non di quelli politici. Diversamente, negli Stati moderni gli estranei alla stirpe sono sta-ti elevati al rango di cittadini senza che fosse stato chiesto loro se avessero intenzione di riconoscere come proprio lo Stato che li trattava con tanto ri-guardo. Invano gli Stati hanno cercato di trasformare gli estranei in mem-bri della stirpe dominante e se in merito a ciò qualche successo è stato con-seguito, esso è durato finché negli estranei non si è risvegliato il sentimento della propria nazionalità. Altra caratteristica degli Stati antichi, studiata da Wilamowitz nei quattro casi esemplari di Atene, Roma, monarchia mace-done e antichi Germani, era l’identificazione fra funzioni civiche e funzioni militari, fra cittadino e soldato. In virtù di tale identificazione, per esempio nell’antico mondo germanico, l’ampliamento del servizio militare portava all’ampliamento della cittadinanza via via che la differenziazione del ser-vizio prestato determinava a sua volta la creazione di diversi gradi di dirit-ti politici fino all’inclusione di fette sempre più larghe di popolazione nel

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novero di coloro che godevano dei diritti dell’uomo pienamente libero. La fonte principale di tali deduzioni è la Germania di Tacito.

Dicevamo che secondo Canfora il classicismo è un fatto storico che pro-duce fatti storici. Per questo egli si interessa alla Germania di Tacito che contribuì in modo rilevante ad alimentare il rimpianto per la purezza raz-ziale perduta e l’aspirazione a ripristinarla, suscitando atteggiamenti e scelte conseguenti sia a livello individuale, sia a livello politico. La purez-za razziale riconosciuta da Tacito negli antichi Germani era stata inquina-ta dalla penetrazione di elementi estranei nell’apparato statale tedesco. Si rendeva necessaria una regolamentazione “razziale” della politica immi-gratoria che ponesse fine all’«inconsulta tolleranza razziale»43 fino ad allo-ra perseguita. Sin dal principio del XX secolo emersero proposte che anda-vano in questa direzione. E sempre più nella stessa direzione andavano gli interventi di Wilamowitz che alla fine avrebbe identificato l’estraneo con l’Ebreo, come si legge nelle sue Erinnerungen del 1928, in uno scatto di li-vore «assai sintomatico da parte di un uomo che era circondato da un’élite di Ebrei-tedeschi i quali hanno poi costituito lo “stato maggiore” della cul-tura classica europea per mezzo secolo»44. Così Canfora spiega la sfrena-ta manifestazione antisemita di un Wilamowitz «incapace di compromessi col nuovo Stato repubblicano»45:

È la crisi del mondo di valori in cui questa generazione aveva creduto, è la cri-si dell’«unità spirituale» del ’14, è l’odiata Repubblica nata dalla Rivoluzione di novembre, che spinge una generazione «senza eredi» per aver perso in guerra i figli avviati alle medesime discipline, alla medesima cultura, a scivolare perico-losamente sulla china razzista e antisemita che sfocerà dopo poco, col supporto di ben altre forze, nel III Reich46.

Al quarto punto del programma del partito nazionalsocialista del 1926 si affermava chiaramente che poteva essere cittadino dello Stato tede-sco solo chi, appartenendo alla stirpe, avesse sangue tedesco, quindi non l’Ebreo, mentre al punto V si precisava che chi non fosse cittadino tedesco viveva sul suolo tedesco come ospite soggetto a uno speciale trattamento dettagliatamente illustrato ai punti VI, VII e VIII. I proponimenti del pro-gramma sarebbero diventati legge nel 1935. Non bisogna dimenticare che la premessa teorica di queste misure era l’identificazione dei Tedeschi di allora con i Germani dell’antichità. «In nome di una tale “continuità” il III Reich verrà sentito, per esempio da studiosi come Georges Dumézil, qua-le naturale prosecuzione, o meglio reincarnazione, del mito, oltre che delle forme sociali degli antichi Germani»47.

L’organizzazione politica degli antichi Germani è la seconda delle due tematiche tratte dalla Germania di Tacito delle quali Canfora, nell’Avver-tenza della Germania di Tacito da Engels al nazismo, si riprometteva di dimostrare la rilevanza ideologica tra la fine del XIX e l’inizio del XX seco-

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lo. La tematica fu utilizzata a sostegno della concezione dello Stato organi-co. Fra gli argomenti trattati nel blocco di capitoli dell’opuscolo tacitiano che vanno dall’XI al XIV (alcuni dei quali sono l’assemblea del popolo in armi, l’esercizio del potere giudiziario, la relazione tra princeps e comita-tus in guerra), Canfora individua nel rapporto fra il capo germanico e il se-guito dei soldati suoi fedeli l’elemento di derivazione della concezione dello Stato organico dalla Germania di Tacito. Il legame fiduciario che veniva a crearsi fra il principe o il sovrano e il suo seguito all’interno del comitatus germanico era quello più adatto a rappresentare il rapporto diretto, non mediato da nessun “diaframma” partitico, esistente fra il sovrano e i suoi funzionari o ufficiali nello Stato prussiano e, dopo la deplorevole parente-si repubblicana durante la quale le radici germaniche erano state dimenti-cate, fra Führer e Gefolgschaft nello Stato nazista. Il Führer era colui cui spettava il diritto di guidare il popolo per la sua attitudine ad incarnarne la volontà, attitudine che gli derivava dal fatto di essere compenetrato in misura massima dallo spirito del popolo e della comunità etnica, cioè della razza. Il concetto di “seguito” del capo (Gefolgschaft) si ampliava così fino a comprendere l’intero popolo. Presupposto di un simile rapporto fra Füh-rer e Gefolgschaft era la “libertà germanica” intesa come quella spontanea sottomissione al capo che avrebbe caratterizzato il fondamento delle unità di combattimento presso gli antichi Germani.

Nella prima guerra mondiale Canfora addita l’evento capace di creare le condizioni favorevoli alla realizzazione dello Stato organico il quale si fon-dava anche su tali presupposti di ascendenza classicista. La guerra infatti aveva determinato il coinvolgimento delle masse attorno allo Stato, apren-do la strada a due opposte evoluzioni della statualità: da una parte la demo-cratizzazione dello Stato, dall’altra l’affermazione della concezione «ger-manica» dello Stato, ovvero militarizzazione permanente e abolizione della mediazione parlamentare fra popolo e capi, come nel disegno wilamowit-ziano del «Volksstaat», in cui l’esercito altro non è che una manifestazione del Volk. Per quanto siffatta idea di «Volksstaat» si fondasse sull’immedia-tezza del rapporto fra capo e masse che rendeva superfluo il Parlamento e i partiti, al funzionamento dello Stato si riconosceva comunque necessa-ria un’ossatura fatta di funzionari, ovvero una burocrazia. La burocrazia, che nello stato nazista si sarebbe identificata con il partito unico al potere, sembrava avere il merito di garantire la sopravvivenza e la continuità dello Stato; essa infatti si presentava come un elemento stabile all’interno dello Stato, non soggetto alla mutevolezza e alla precarietà che caratterizza la vi-ta dei Parlamenti e dei partiti, un corpo apparentemente apolitico, cioè ap-parentemente sottratto al gioco della dialettica delle forze politiche o delle ideologie politiche. Apparentemente, appunto, perché la dedizione sponta-nea della burocrazia allo Stato e al capo che lo dirige, il controllo che su di essa il potere dominante esercita ne fanno organo tutt’altro che neutrale e impermeabile agli orientamenti ideologico-politici.

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Alla base dello Stato organico e burocratico vi era dunque la «libertà germanica» intesa come spontanea subordinazione dei membri del comi-tatus germanico al loro princeps. A questo punto la filologia interviene a rivelare che anche questa idea posta a fondamento dello Stato organico veniva ricavata dalla Germania di Tacito al prezzo di qualche forzatura. Di mettere in evidenza la forzatura Canfora si è occupato nel già citato La Germania di Tacito da Engels al nazismo del 1979. Come il titolo del sag-gio rivela, Canfora colloca la lettura engelsiana della Germania di Tacito al punto di partenza di quel percorso interpretativo “ideologizzante” che ap-prodò al nazismo, dopo aver fatto propri alcuni motivi engelsiani e averne “fraintesi” altri. L’interesse di Engels per la Germania di Tacito va collo-cato, secondo Canfora, nel quadro di «una particolare attenzione all’anti-ca società germanica come “forma pre-capitalistica”»48. Canfora ripren-de alcune riflessioni contenute nello scritto inedito del 1881 intitolato Zur Urgeschichte der Deutschen, in cui Engels contrapponeva la libertà degli antichi Germani all’oppressione dei Romani. Specialmente nel campo del diritto i liberi costumi dei Germani si erano adeguati con più difficoltà alla costrizione imposta loro da quelli dei Romani. Il libero Germano era abi-tuato a pagare con la vita solo il tradimento ai danni del suo popolo; in tut-ti gli altri casi pagava con una multa qualunque delitto, anche l’omicidio; inoltre esercitava direttamente da sé la vendetta di un’offesa arrecata al suo sangue. La giustizia era amministrata presso i Germani per mezzo di procedure rapide, in poche ore e alla presenza del popolo giudicante; nien-te a che vedere con le lungaggini procedurali del diritto romano. La descri-zione che sulla base della Germania di Tacito Engels forniva del diritto presso gli antichi Germani risultava in linea con la contrapposizione fra di-ritto germanico e diritto romano che sarebbe stata tanto cara al nazismo. Il punto XIX del programma del partito nazionalsocialista del 1926 avrebbe formalmente esplicitato il rifiuto del diritto romano «materialistico» «in nome di un diritto comune tedesco».

Secondo Canfora alcuni motivi fatti propri dal nazismo furono tratti “le-gittimamente” dalla Germania di Tacito: per esempio, il comitatus come forma del rapporto tra Führer e partito prima, tra Führer e Stato poi, do-po che si affermò per legge l’identificazione fra partito e Stato e l’intero po-polo tedesco divenne il seguito, la Gefolgschaft del Führer; la visione della donna come sacerdotessa della famiglia e della nazione derivante dal pre-stigio di cui le donne germaniche godevano nella vita pubblica; l’esaltazio-ne della fecondità femminile in linea con l’immagine della donna nordica bella e forte; la pena di morte come punizione dei traditori; l’assenza di una distinzione fra amministrazione del diritto e magistratura da una par-te, potere politico dall’altra, che ricorda la coincidenza di queste funzioni nell’antica assemblea germanica. Invece, riguardo alla struttura statale, se-condo Canfora, difficilmente il richiamo alla Germania di Tacito sarebbe stato utile a fornire un modello di cui lo Stato nazista fosse pedissequa rea-

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lizzazione. Infatti la struttura statale centralizzata dello Stato nazista, ben-ché ispirata nei suoi vari livelli e campi al «Führerprinzip», era ignota agli antichi Germani. Insomma, stando a Tacito, sottolinea Canfora, l’«assenza di una qualunque forma statale presso gli antichi Germani è un dato discri-minante rispetto a forme solo apparentemente simili»49.

Insomma l’antica «libertà germanica» è, forse, assai più lo stato di grazia del «freier Germane» dello schizzo engelsiano che non la «spontanea» sottomis-sione dell’individuo allo Stato o al Führer che tanta giuspubblicistica prima imperiale e poi nazista ha cercato di tratteggiare. In un noto saggio teorico (Deutsches Recht), Alfred Rosenberg opponeva la libertà “negativa” che rispon-de alla domanda «Wovon» (libertà da che cosa?) alla n u o v a libertà, “positiva”, che risponde alla domanda «Wofür» (libertà per che cosa?). Io penso che la «li-bertà degli antichi Germani» rassomigliasse più alla prima che alla seconda50.

3. Gli «intellettuali in Germania tra reazione e rivoluzione»

Dicevamo che gli studi di Canfora hanno contribuito a ricostruire il qua-dro delle variegate reazioni e interazioni degli intellettuali a contatto con il fascismo in Italia e con i movimenti e le correnti ideologiche antidemo-cratiche e antiparlamentari nella Germania fra le due guerre. Qui si vuole sottolineare il valore di tale ricostruzione in particolare per la conoscenza in Italia del mondo tedesco.

Già dal 1913 era iniziata in Germania una campagna propagandistica a favore della lotta armata per l’affermazione dello spirito tedesco, dello Stato tedesco, del capitale tedesco sui nemici della Germania; il coinvol-gimento dell’intero mondo accademico nello schieramento favorevole al-la «guerra tedesca», aveva allora dimostrato quanto lontana dal vero fosse l’immagine tradizionale di un ceto accademico tedesco “separato” dalle ur-genze del mondo contemporaneo, disinformato e lontano dalla politica51.Canfora ha dedicato alla storia degli intellettuali in Germania fra la prima guerra mondiale e la Repubblica di Weimar le pagine del volume Intellet-tuali in Germani tra reazione e rivoluzione, edito nel 1979.

In Germania la ricostruzione di questo periodo è stata affrontata, a partire da prospettive differenti, da due studiosi e dalle rispettive scuo-le: Gerhard Ritter e Fritz Fischer. Nell’opera di Ritter52 la distinzione tra uno schieramento «annessionista» e uno «liberale»53 aprirebbe secondo Canfora la strada ad ambiguità parzialmente “assolutorie”. Al libro di Fi-scher54, Griff nach der Weltmacht, «scandaloso»55 agli occhi della tradi-zione storiografica tedesca, Canfora invece riconosce il merito di aver in-crinato la teoria secondo la quale sarebbe esistita una sostanziale diversità fra la linea di Bethmann-Hollweg approdata alla Risoluzione di pace del luglio 1917 e la linea «annessionista» incarnatasi nel 1917 nella «formida-

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bile macchina politico-propagandistica» del Partito della Patria56. Rispet-to alla ricostruzione di Ritter, che nel giudizio di Canfora «rappresenta la continuità dell’interpretazione ‘patriottica’»57, «Fischer ha il merito di aver riaperto, in Occidente, il discorso riportandolo ai suoi termini reali, libe-randolo dalle incrostazioni dovute alla vicenda politica del ventennio suc-cessivo»58. Altro merito che Canfora riconosce al libro di Fischer, non a ca-so osteggiato «soprattutto da parte dell’influente difensore dell’onore ac-cademico germanico, Gerhard Ritter»59, è quello di aver imposto «il tema delle responsabilità del ceto intellettuale e accademico nella preparazione e nella condotta della guerra»60. D’altra parte Canfora giudica «non me-no significativo» l’approfondimento delle diversità esistenti fra le posizioni degli esponenti del ceto intellettuale tedesco, questione per la conoscenza della quale si è rivelato di non poca importanza il lavoro di Klaus Schwa-be, Wissenschaft und Kriegsmoral, nato per impulso di Ritter. «Non ba-sta dire che sono tutti partecipi, questi dotti, delle ‘idee del ’14’ (anche se è molto importante ribadirlo), per poi prescindere dall’accanimento con cui alcuni sono andati sino in fondo, militando fieramente nella Deutsche Va-terlandspartei, mentre altri (ad esempio Max Weber, Harnack, Delbrück ecc.) hanno – proprio dalla lotta contro questo minaccioso partito – preso l’avvio per una riconsiderazione delle loro stesse scelte iniziali»61. Alla luce di tutte queste considerazioni il racconto di Canfora si presenta come una rappresentazione vivida, attenta alle sfumature (ma mai per spirito asso-lutorio) delle variegate manifestazioni nelle quali si espresse la volontà di partecipazione appassionata e pugnace degli intellettuali e specialmente del ceto accademico alle vicende politiche della Germania fra le due guerre. Di tale ricostruzione proveremo a riassumere gli episodi salienti62.

In Intellettuali in Germania tra reazione e rivoluzione il racconto di Canfora, del quale rimangono non poche tracce nelle successive Ideolo-gie del classicismo, prende il via proprio dalle cosiddette «idee del ’14» e dalla cosiddetta «guerra degli spiriti»63 che ne derivò. La campagna a favore della guerra fu orchestrata non soltanto attraverso canali tradizio-nali dell’informazione quali la stampa, ma anche ricorrendo alla forma-zione di comitati e gruppi di pressione in cui si trovarono coinvolti, insie-me a politici e industriali, accademici antichisti come lo storico Eduard Meyer, interpellato per le sue qualità di indefesso organizzatore, e il filo-logo Ulrich von Wilamowitz Moellendorff del quale giovava alla campa-gna il prestigio. Ma anche personalità meno “irruente” e conosciute come moderate diedero il loro contributo alla campagna in favore della guer-ra: Hermann Diels, Adolf von Harnack, Friedrich Meinecke. E tra questi intellettuali alcuni come Meinecke plaudirono allo spirito di unità nazio-nale interclassista suscitato dal consenso alla guerra che aveva abbattuto le divisioni interne alla borghesia e quelle fra borghesia e classe operaia, tanto che persino il movimento socialista e la sua stampa risultavano al-lineati con le direttive propagandistiche dell’alto comando. Ne restavano

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invece fuori minoranze radicali sia proletarie (Liebknecht, Luxemburg), sia borghesi. Finita la guerra e riaffiorato, con rammarico per esempio di un Meinecke, lo spirito di divisione, i più accorti fra i conservatori, Har-nack e lo stesso Meinecke continuarono a sostenere la necessità del coin-volgimento dei socialisti attraverso qualche concessione che li aiutasse a tenere a bada quelle masse, che, a ragione (secondo Meinecke), rivendi-cavano per sé l’estensione degli stessi diritti delle classi abbienti, dal mo-mento che nella recente lotta in difesa della patria le une e le altre ave-vano compiuto il proprio dovere di cittadini nella stessa maniera. Tale integrazione dei socialisti e del loro elettorato avrebbe determinato una progressiva e indolore liberazione del socialismo tedesco dagli ideali ri-voluzionari. In questo clima di ansia per una possibile esplosione rivolu-zionaria, classicismo e forze della conservazione poco lungimiranti lavo-ravano insieme per scongiurare il pericolo comunista.

Il ceto accademico si adoperava per dimostrare quanto militarismo e scienza fossero compenetrati. Emblematica a tal proposito è l’attività in-tellettuale e politica di Wilamowitz, attività che Canfora ha ricostruito con particolare dedizione attraverso l’analisi dei suoi scritti politici, raccolti nel saggio del 1977 Cultura classica e crisi tedesca. Gli scritti politici di Wi-lamowitz 1914-1931, le cui considerazioni introduttive vengono poi ripre-se in Intellettuali in Germania tra reazione e rivoluzione del 1979. Il fi-lo rosso che attraversa l’oratoria di guerra wilamowitziana, da quella dei primi anni di guerra (Militarismus und Wissenschaft del novembre 1914, Erklärung der Hochschullehrer des Deutschen Reiches dello stesso anno) a quella degli ultimi anni di guerra (Das intellektuelle Deutschland und seine angebliche politische Gewaltlehre, saggio pubblicato alla fine di ago-sto del 1918 sul bollettino dell’alto comando) è l’orgogliosa rivendicazione di una perfetta identità di intenti fra scienza tedesca da una parte, milita-rismo e sogni imperialistici di sovrani, generali, politici tedeschi dall’altra. Altro tema centrale dell’oratoria wilamowitziana di guerra è l’esaltazione della guerra in sé, come evento capace di coinvolgere tutti gli aspetti del-la vita tedesca (da quelli più bassi e materiali a quelli più alti e spirituali) e di temprare l’animo tedesco immunizzandolo rispetto alla penetrazione di mode che rendono gli spiriti fragili e ipersensibili. Nell’esercito la nazio-ne trova la sua Erscheinungsform, «manifestazione fenomenica». Gli an-ni del servizio militare sono il migliore coronamento dell’educazione del popolo. Per sostenere l’esaltazione morale della guerra Wilamowitz ricor-re all’antichità: nelle pagine del saggio wilamowitziano Das Weltreich des Augustus, la pace universale dovuta all’impero universale di Augusto viene ritenuta responsabile del declino dell’impero stesso.

Una delle forme di intervento alle quali più assiduamente ricorsero gli intellettuali tedeschi fu negli anni della guerra e in quelli successivi la dif-fusione di appelli corredati di firme, il cui numero e la cui autorevolezza dovevano servire ad avvalorare le posizioni pubblicamente espresse attra-

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verso gli appelli. Nel saggio Intellettuali in Germania tra reazione e rivo-luzione Canfora ricostruisce gli episodi di quella «guerra dei proclami» che contribuì a spezzare l’unità culturale dell’Europa borghese. Il proclama che meglio rivelò quanto largo, entusiasta ed agguerrito fosse il coinvolgimen-to del ceto intellettuale tedesco negli obiettivi dello schieramento favorevo-le alla guerra fu il cosiddetto «appello dei 93». L’accoglienza non positiva che i precedenti durissimi proclami anti-inglesi avevano ricevuto fuori ma in alcuni casi anche dentro la Germania64 determinò il mutamento di tono dei successivi proclami che, dice Canfora, da «‘aggressivi’ (protesi cioè ver-so la denuncia delle responsabilità altrui)» si fecero «‘difensivi’ (intesi cioè a chiarire quali addebiti non dovessero essere rivolti alla Germania)»65, raccogliendo così un consenso interno maggiore. Il 4 ottobre del 1914 ve-niva alla luce l’Aufruf an die Kulturwelt, noto come «appello dei 93», in quanto al momento della pubblicazione recava novantatre firme. L’appello fu diffuso nelle principali lingue e indirizzato alle principali personalità eu-ropee e americane; alla fine ottenne la firma degli oltre quattromila Hoch-schullehrer del Reich. Con l’appello i dotti tedeschi intendevano afferma-re la legittimità dell’invasione del Belgio e la correttezza della condotta di guerra dei tedeschi in Beglio.

Iniziò allora una campagna “acquisti” condotta dalla Germania presso i paesi neutrali anche utilizzando i discorsi wilamowitziani di guerra dei quali furono approntate traduzioni nelle lingue degli Stati da “cooptare”. In realtà la propaganda tedesca mirava a distogliere l’attenzione dal feno-meno, già inaugurato in Belgio e poi esteso alla Polonia e agli altri paesi oc-cupati dalla Germania, della deportazione in Germania di centinaia di mi-gliaia di civili e del loro impiego nel lavoro coatto al servizio delle industrie tedesche. Wilamowitz non solo giustificava il trattamento riservato ai civili dei paesi occupati dalla Germania come un provvedimento necessario per consentirle la costruzione improvvisata e istantanea di infrastrutture o edi-fici utili alle operazioni belliche, ma si augurava per giunta che la presenza tedesca non venisse meno dal Belgio e dalla Polonia nel momento in cui, a guerra conclusa, sarebbe stata edificata la Mitteleuropa tedesca. D’altra parte come dargli torto sul fatto che il lavoro forzato dei civili fosse indi-spensabile all’economia della Germania: rastrellamenti di civili erano in-fatti sollecitati dall’industria meccanica e chimica tedesca rimaste a corto di manodopera e che impiegarono i prigionieri anche al di là dei fini bellici, giacché a causa del fallimento del piano Schlieffen di Blitzkrieg milioni di lavoratori erano venuti a trovarsi bloccati per anni nel servizio presso gli eserciti imperialisti. La stessa stampa tedesca non poteva nascondere l’esi-stenza di questo genere di lavoro forzato, ma tentava più che altro di mini-mizzare l’entità del fenomeno alterandone le cifre.

Più volte Canfora sottolinea la gravità della scelta di avallare la violazio-ne della neutralità del Belgio che con l’«appello dei 93» rese il ceto accade-mico complice di una delle imprese tedesche più indifendibili. Due erano

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i punti del proclama particolarmente compromettenti e nei quali lo sfor-zo “teoretico” dei dotti tedeschi aveva profuso il suo massimo «zelo», per usare le parole di Canfora66, ma aveva anche sortito il peggior effetto nella risonanza internazionale dell’appello: in primo luogo il tentativo di giusti-ficare sul piano del diritto la violazione della neutralità internazionalmen-te garantita del Belgio denunciando l’intenzione di Inghilterra e Francia di commettere la medesima violazione prima della Germania con il benestare del Belgio stesso; in secondo luogo il tentativo di prevenire l’accusa di vio-lazione della convenzione dell’Aja del 1897 che certamente sarebbe stata mossa alla Germania per il trattamento riservato ai partigiani belgi, soste-nendo la legittimità della rappresaglia dovuta al fatto che, dopo essere sta-ta avvertita, la popolazione belga aveva perseverato nell’organizzare azioni di guerriglia. In merito al primo punto, i dotti furono smentiti dallo stesso cancelliere del Reich, il quale aveva ammesso che nell’invasione del Belgio la violazione del diritto internazionale c’era stata, anche se essa era stata motivata dalla necessità di scongiurare un attacco francese da quel fron-te. Riguardo al secondo punto, la pretesa dei dotti poteva essere ancor più facilmente smentita, dato che agli articoli 1 e 3 della convenzione dell’Aja, che nel 1897 anche la Germania aveva approvato, si affermava che i com-battenti civili, fossero essi volontari, franchi tiratori o altro, agissero orga-nizzati o reagissero spontaneamente a un’aggressione, avevano il diritto di essere trattati secondo il codice di guerra.

Eppure la resistenza della popolazione belga veniva presentata come un tradimento. Di tradimento nei confronti dei soldati tedeschi aveva parlato Wilamowitz prima che venisse redatto l’«appello dei 93», nel discorso te-nuto il 5 settembre del 1914 alla sala consiliare di Charlottenburg, quando il filologo, rievocando la guerra del 1870 alla quale egli stesso aveva pre-so parte, aveva rimproverato alla letteratura francese, anche a quella di un grande artista come Maupassant, la sistematica irrisione dei combattenti tedeschi e l’idealizzazione dei franchi tiratori. Aveva poi addebitato a quella letteratura la responsabilità delle crudeltà cui attualmente i soldati tedeschi venivano sottoposti dai loro nemici, i quali non si limitavano a colpire i mi-litari, ma scatenavano la loro efferatezza anche contro medici e infermiere, cosa che al soldato tedesco non sarebbe bastato l’animo di fare; già terribile era per i tedeschi dover punire gli atti degni soltanto di bestie commessi dai loro nemici. Wilamowitz arrivava addirittura a spiegare in termini razziali la “vigliaccheria” dei Belgi: essi ricorrevano all’assassinio proditorio perché non avevano la forza morale per combattere a viso aperto contro il nemico. Canfora, attento a delineare i percorsi spesso tortuosi degli intellettuali (e in special modo di quegli intellettuali per i quali nutre uno spiccato interesse, i classicisti) alle prese con la compromissione nelle vicende politiche del loro tempo, segue il destino dell’«appello dei 93» ben al di là degli anni di guer-ra, per ritrovare alcuni fra i suoi più convinti firmatari, come Lujo Brenta-no, Harnack e persino Wilamowitz, intenti a render noto di aver sottoscrit-

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to l’appello senza averne prima letto il testo. In una famosa pagina delle sue Erinnerungen (1928), Wilamowitz scriveva di aver firmato il testo dell’ap-pello senza conoscerne la stesura definitiva e, avendola conosciuta, di aver-ne rifiutata la formulazione, ma non il contenuto. Pur ammettendo che era stato un errore e un’avventatezza l’aver sottoscritto l’appello senza averne prima letto il testo ma solo una versione precedente a quella definitiva (non per cattiva volontà, ma perché non v’era più tempo per ulteriori riesami), Wilamowitz rivendicava la liceità della protesta dei dotti e degli artisti te-deschi contro le menzogne allora diffuse sulla responsabilità tedesca nello scoppio della guerra e sui crimini attribuiti ai soldati tedeschi.

Altra vicenda in cui Wilamowitz diede prova della contraddittorietà di comportamenti alla quale può indurre la compromissione con la storia fu il suo rettorato presso l’Università di Berlino fra 15 ottobre 1915 e 15 ottobre 1916, raccontato da Canfora in più di uno scritto fra quelli citati risalenti agli anni ’70 e ’80 dello scorso secolo. Nel momento in cui sembrava definitiva-mente tramontata la prospettiva di una «guerra-lampo», la Germania ten-tava di avviare una trattativa per una pace di compromesso con Francia e Inghilterra servendosi della mediazione del sovrano belga. Latore delle con-cessioni della Germania (indipendenza politica ed economica del Belgio, re-stituzione della Lorena alla Francia) sarebbe stato in due diverse ambascerie presso un personaggio in contatto con il sovrano belga, proprio l’allora ret-tore dell’Università di Berlino, cioè Wilamowitz67. Però proprio negli stessi mesi (fra giugno e agosto 1916) in cui rivestì il ruolo di mediatore internazio-nale, Wilamowitz si fece promotore dell’ennesimo appello, l’Aufruf an un-ser Volk, reso pubblico il 27 luglio del 1916, che andava nella direzione esat-tamente opposta a quella delle trattative. Dopo aver elencato i successi dei primi anni di guerra, l’appello ribadiva che di pace si sarebbe potuto parla-re solo nel momento in cui la potenza della Germania avrebbe raggiunto un accrescimento tale da poter imporre (non trattare!) la pace ai propri nemici. L’elenco dei firmatari, che comprendeva fra gli altri anche Meyer, si chiude-va con la firma di Wilamowitz, il quale, in quanto Rettore, imponeva all’ap-pello il sigillo della sua autorevolezza. Alla delegazione composta da Hintze, Herkner, Meinecke e inviata al Rettore da parte del fronte accademico berli-nese “moderato” (nell’ambito del quale spiccava il nome di Hermann Diels) con il fine di dissuaderlo dal pubblicare l’appello, Wilamowitz rispose che avrebbe tenuto in considerazione la protesta dei colleghi impegnandosi ad agire contro la pubblicazione dell’appello. Fece tutt’altro.

4. I classicisti durante il fascismo

Già nel 1975, prendendo parte a una conversazione tenutasi presso la fa-coltà di Lettere e filosofia dell’Ateneo di Bari con l’intervento dal titolo Classicismo e fascismo (poi apparso nella sezione Per una discussione

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sul classicismo nell’età dell’imperialismo del terzo numero di Quaderni di storia), Canfora metteva in guarda l’uditorio dal pericolo di uno scivo-lamento della formula togliattiana verso quella defeliciana che definisce il fascismo come una «democrazia di massa». Secondo Canfora, l’immis-sione delle masse nello Stato, avvenuta però, egli precisa, «nelle forme retrograde e gerarchiche mutuate da modelli come lo stato romano impe-riale»68, la cooptazione e la politicizzazione degli intellettuali «come ce-to»69, perseguite «in nome di un programmatico irrazionalismo»70 e con l’intento di trasmettere l’«illusione di una ideologia rivoluzionaria»71, non sono motivi sufficienti per confondere il fascismo con un regime po-litico progressivo, dal momento che il fascismo rappresentò un momento di arretramento, culturale innanzitutto. L’opzione fascista per una pro-paganda a base classicista è, secondo Canfora, contrassegno inconfondi-bile di volontà conservatrice, di “reazione”:

Dico tutto questo – e forse trascendo nell’ovvio – perché è proprio in tale qua-dro di complessiva arretratezza, improvvisazione, isterilimento della cultura italiana durante il fascismo che si comprende e si spiega la posizione centrale ed egemonica che in essa assunse il classicismo, questo filo conduttore della cultu-ra conservatrice: si può anzi dire che quello messo in atto dal fascismo è l’ultimo tentativo di collocare ancora una volta il classicismo (nella sua variante roma-nolatrica) al centro di una politica culturale e di farne addirittura una ideolo-gia di massa. Non vi potrebbe essere segno più limpido della arretratezza per un verso, dei propositi di conservazione per l’altro, della ‘cultura’ del fascismo72.

La cultura italiana durante il fascismo fu tutt’altro che monolitica; dietro la facciata corporativa e totalitaria del regime si dispiegava una realtà culturale e politica dalla articolazione complessa: «i clericali alla padre Gemelli, i monarchici conservatori, i ‘rivoluzionari’, i sindacalisti, i giovani letterati all’occorrenza anticapitalistici ecc. non sempre facenti capo a Bottai, gli accademici (e tra questi i ‘moderni’ idealisti gentiliani con sfumature varie fino alla ‘sinistra’ di Ugo Spirito ecc.)»73. A Canfora interessa delineare quale sia stato all’interno di questo quadro il posto occupato dalla «corporazione dei classicisti»74. Interesse più che legitti-mo, egli sostiene, in primo luogo perché il fascismo attribuì alla cultura classica e in particolare al mito di Roma, un peso e un ruolo di primo pia-no, facendone lo strumento privilegiato della manipolazione ideologica, in secondo luogo perché la «corporazione dei classicisti» fu tutt’altro che restia ad accettare il coinvolgimento richiesto dal regime agli uomini di cultura. La ragione di tale duttilità è per Canfora presto spiegata: le esi-genze della propaganda di regime a base classica avevano reso necessario il coinvolgimento dei classicisti che di buon grado avevano colto l’occa-sione loro offerta di sentirsi protagonisti della cultura italiana e per di più in posizione dominante su tutte le altre sue articolazioni, non più obbli-

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gati a trovare e a spiegare le ragioni della necessità del proprio ruolo, dif-ficili da comprendere anche all’uomo di cultura media, liberi finalmente dal «complesso del ‘superamento’»75, dal sentimento dell’essere “indie-tro” rispetto ai saperi, come quello tecnico e scientifico, più adatti a sod-disfare le esigenze del mondo circostante. Così Canfora riassume le ini-ziative culturali del fascismo più “coinvolgenti” e capaci di suscitare l’en-tusiastica adesione dei classicisti al regime:

Il duce che tiene conferenze di storia romana (sia pure scritte da altri), un ro-manista di prestigio che diviene ministro guardasigilli, il regime che si impegna in prima persona e con un grande dispiegamento di mezzi per un’iniziativa qua-le la Mostra augustea della romanità significativamente posta nella stessa sede della Mostra della rivoluzione fascista, la concezione ossessivamente ribadita dell’identità tra il nuovo Impero (fascista) e quello di Roma, l’assunzione di isti-tuti termini simboli ecc. romani nella vita quotidiana, il velleitario rilancio del latino come lingua ‘parlabile’ ecc. sono tutti elementi – qui citati soltanto exem-pli gratia – che confortano il ceto dei classicisti italiani nella convinzione di un nuovo ruolo direttivo nella vita culturale del paese76.

Sempre in Ideologie del classicismo Canfora evidenzia il fatto che l’in-teresse del classicismo italiano a uscire da una condizione di marginalità e frustrazione si saldò, oltre che con il fascismo cui doveva fornire motivi ideologici e propagandistici, anche con il «reazionarismo cattolico»77, dal momento che la Chiesa cattolica, già da secoli e ancor più in contrasto con la modernità, aveva assunto «il ruolo di tutrice conservatrice propagatrice della “romanità”, della “eredità di Roma”». «Non vi era dunque alcun ‘sal-to’ in questa adesione al fascismo: era il compimento politico di una scelta antica, da parte di una cultura consapevole di essere da tempo insicura e insidiata dal nuovo»78. Questo orientamento clerico-fascista trovò un pun-to di incontro nell’Istituto di studi romani; non a caso coloro che vi erano stati coinvolti ripiegarono, dopo il crollo del fascismo, su posizioni «schiet-tamente clericali», «nuova trincea dell’antidemocrazia, dell’antisociali-smo»79. Chiesa cattolica e fascismo avevano più di un interesse in comune. La Chiesa cattolica aveva raccolto l’eredità dell’universalismo romano che il fascismo tentava di riesumare attraverso l’idea dell’Impero «civilizzato-re» di Roma; li accomunava l’opposizione al liberalismo e al socialismo80.

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Note

1 L. Canfora, Classicismo e fascismo da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’im-perialismo in Quaderni di storia, Anno II, numero 3, 1976, p. 21. Di tutt’altro segno è l’inte-resse per il termine “classicismo” manifestato da Antonio La Penna nell’intervento che apre la discussione alla quale Canfora partecipa con l’articolo appena citato. Dopo aver richiamato ciò che «per lo più» «si è inteso e si intende» con il termine “classicismo”, ovvero un orien-tamento degli studi classici tendente a fissare un canone di autori greci e latini esemplari per aver realizzato «in modo insuperabile» determinati valori e a interpretare “teleologicamente” la storia della letteratura e dell’arte antica come un’evoluzione in tre fasi (primi e ancora imperfetti tentativi di realizzare il bello, apice, decadenza o tutt’al più rielaborazione di mo-tivi precedenti), La Penna afferma che «gli studi classici dagli ultimi decenni dell’Ottocento in poi hanno proceduto in gran parte, esplicitamente o implicitamente, per vie contrarie al classicismo», impegnandosi in campi fino ad allora negletti perché estranei alle formulazio-ni sul “classicismo” tradizionalmente inteso. Così tra le «vie dell’anticlassicismo» La Penna annovera gli studi sulla poesia ellenistica del Wilamowizt, la scoperta nietzschiana dell’ele-mento dionisiaco nella tragedia greca, nonché la rivalutazione della fase arcaica e di quel-la “argentea” della letteratura latina dovuta agli studi ispirati dalla necessità di rivendicare l’originalità della letteratura latina in età fascista. Ma sul problema posto da Canfora, ovvero l’indagine sui presupposti ideologici che hanno orientato le scelte scientifiche dei classicisti (o degli “anticlassicisti”) nell’età degli imperialismi, il contributo di La Penna risulta, forse volutamente, alquanto scarno e vago. Commentando l’influenza esercitata da Stefan George e dal suo circolo estetizzante sulla rinascita platonica in Germania, egli ammette: «Ancora una volta si constata che non si può fare storia degli studi classici senza conoscere un po’ tutta la cultura contemporanea, non solo filosofia e letteratura, ma anche arti figurative e critica d’arte, e dietro la cultura la politica e le trasformazioni della società.» Cfr. A. La Penna, Le vie dell’anticlassicismo da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo in Quaderni di storia, Anno II, numero 3, 1976, pp. 1 ss.2 A. La Penna, op. cit., p. 12.3 L. Canfora, Nota da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo in Qua-derni di storia, Anno II, numero 4, 1976, p. 1.4 Basti come esempio quanto recita un passo del decalogo del filologo tedesco redatto nel 1933: «7) Ma alla cultura classica tedesca mancava ancora il fondamento dello stato nazio-nale. All’antichità si richiedeva prevalentemente la formazione estetica ed etica dell’indivi-duo. Nel nostro tempo, che lotta per edificare la comunità del Volk nello stato nazionale, nasce oggi, quale indispensabile integrazione della nostra propria alta cultura tedesca con l’antichità rettamente intesa, l’ideale classico di una humanitas fondata essenzialmente sul riconoscimento che l’uomo è l’essere politico per eccellenza, e che, come dice Aristotele, lo Stato viene prima dell’individuo. La formazione dell’uomo, nel senso dei suoi creatori greci, è necessariamente una formazione politica, in quanto lo Stato, come unità suprema e completa, racchiude in sé ogni essere umano. Perciò, la formazione politica comprende l’uomo come un tutto nella totalità della comunità, e si contrappone quindi, in maniera irriducibile, ad ogni addestramento semplicemente pratico come pure ad ogni cultura semplicemente individua-listica.». Il decalogo raccoglie i principi dell’Associazione dei filologi classici tedeschi nella redazione datane da un comitato per incarico del congresso berlinese del 30 settembre 1933, ed è riportato a cura di Andrea Favuzzi in Quaderni di storia, Anno V, numero 9, 1979, pp. 263 – 266. La citazione è tratta dalle pp. 264 e 265.5 L. Canfora, Nota da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo in Qua-derni di storia, cit., pp. 2 e 3.6 Ivi, p. 3.7 Ibidem.8 L. Canfora, Nota da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo in Qua-derni di storia, cit., p. 4.9 Ivi, p. 6.10 Ibidem.11 L. Canfora, Classicismo e fascismo da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’im-perialismo in Quaderni di storia, Anno II, numero 3, 1976, p. 39.

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12 Ivi, p. 19.13 Canfora si riferisce a un passo della recensione scritta da Togliatti per la seconda edizione del libro di Zangrandi, Lungo viaggio attraverso il fascismo, apparsa su “Rinascita” settima-nale il 26 maggio 1962 e poi confluita nel volume antologico Momenti della storia d’Italia, Editori Riuniti, Roma, 19742, pp. 297 – 302.14 Canfora cita un lungo brano di un articolo di Marchesi apparso su “l’Unità” del 25 febbraio 1945 con il titolo Regie Accademie e poi ripubblicato in M. Todaro-Faranda (a cura di), Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1958.15 L. Canfora, Classicismo e fascismo da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’im-perialismo in Quaderni di storia, Anno II, numero 3, 1976, p. 18. Intorno al valore della «di-scussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo» avviata da Canfora, così scriveva Mario Isnenghi su la Repubblica dell’11 giugno 1976: «Un intero settore della storia della cultura – l’alta cultura dei professori e accademici di greco, latino, archeologia e storia antica, in Italia e Germania, tra Otto e Novecento – viene restituito alla storia complessiva degli intellettuali e del potere, nel recente numero monografico della rivista barese Quaderni di storia […]. Un mondo apparentemente separato, che il gruppo di ricercatori coordinato da Luciano Canfora ci mostra invece innervato, negli sviluppi politici del sistema non di rado come intellettuali “impegnati” e come “militanti”, e comunque come “funzionari”: di cui sono e si sentono parte. […] Produzione ideologica e riformulazione della realtà si intrecciano, qui nell’interscambio tra passato e presente. A noi, oggi, può apparire retorica di straccioni nella struttura, che si autoesaltano e gratificano nei cieli della sovrastruttura. Ma non ultimo dei meriti del grup-po di Quaderni di storia è di aver dimostrato che è possibile far coesistere un antifascismo fermissimo con una presa in considerazione seria, e non parodistica, del fascismo, delle sue profonde radici storiche, delle sue diffuse basi sociali e culturali. Rifiutando, vale a dire, sia la negazione pregiudiziale che sia esistita una cultura (e in particolare un’alta cultura) nazional-fascista, sia la sua riduzione a farsesca coreografia plebea.»16 L’opera è stata ripubblicata nel 2010 con il nuovo titolo L’uso politico dei paradigmi storici, per un verso arricchita, per l’altro semplificata e alleggerita di riferimenti a situazioni storiche contemporanee alla sua prima edizione divenuti ormai anacronistici. Cfr. L. Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici, Laterza, Roma-Bari, 2010.17 L. Canfora, Le vie del classicismo, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. V.18 Ibidem.19 Ibidem.20 L. Canfora, Le vie del classicismo, cit., p. VI.21 Ibidem. 22 Ibidem.23 Cfr. L. Canfora, Ideologie del classicismo, Einaudi,Torino, 1980, pp. 92-103.24 Ivi, p. 107.25 Ibidem.26 Ibidem.27 Ibidem.28 Togliatti, per esempio, annoverava tra le «Principali falsificazioni nell’insegnamento della storia di Roma nelle scuole fasciste» la scarsa attenzione riservata alle “ombre” dell’impe-ro romano: «[…] si dimentica o nasconde il carattere povero, lo scarso sviluppo delle forze produttive, la miserabile condizione delle masse, e soprattutto la rovina economica e sociale dell’Italia alla caduta dell’Impero, le cui conseguenze si fecero sentire per secoli e secoli, e, si può affermare, fino a oggi. Si dà una rappresentazione della società romana come se in essa non ci fosse stato altro che palazzi, ville, fori trionfali, feste, giuochi, ecc.». L’osservazione è contenuta in un appunto pubblicato nell’agosto del 1965 per iniziativa di Ranuccio Bianchi Bandinelli sulla rivista Il Contemporaneo, con il titolo Storia romana in suola fascista. L’ap-punto è stato ripubblicato a cura di Domenica Paola Orsi nel contributo “Storia romana in scuola fascista” di Palmiro Togliatti da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’im-perialismo in Quaderni di storia, Anno II, numero 3, 1976, pp. 183-193. Per una rassegna del-le forzature e delle falsificazioni a cui fu sottoposta l’interpretazione della letteratura e della storia romana da parte di accademici allineati con il fascismo, cfr. L. Perelli, Sul culto fascista della ‘Romanità’ (una silloge) in Quaderni di storia, Anno III, numero 5, 1977, pp. 197-224.29 L. Canfora, Ideologie del classicismo, cit., p. 108.30 Ibidem.

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31 «Si era all’indomani della conquista dell’Etiopia e della proclamazione dell’impero; il regi-me volle pertanto conferire alle onoranze tributate al fondatore dell’antico impero romano, da poco risorto, un carattere di particolare solennità, con un notevolissimo sforzo organizzativo ed economico.» M. Cagnetta, Il mito di Augusto e la “rivoluzione” fascista da Per una discus-sione sul classicismo nell’età dell’imperialismo in Quaderni di storia, Anno II, numero 3, 1976, p. 139. Il contributo della Cagnetta alla discussione avviata da Canfora è un’utile sintesi dei motivi fondamentali del mito di Augusto in età fascista.32 «La smisurata esaltazione di Augusto, la sua idealizzazione fu determinata dall’analogia che il regime fascista aveva sempre ravvisato fra il travagliato periodo storico al termine del quale Ottaviano si era impadronito del potere e gli anni inquieti seguiti alla conclusione della guerra in cui era emerso e si era affermato il movimento guidato da Mussolini.» Ibidem. Stando alla storiografia marxista a poco sarebbe giovato il richiamo fascista alla politica di Augusto per comprovare il carattere rivoluzionario del fascismo. Masckin, rifacendosi alla definizione di rivoluzione come sradicamento del vecchio ordine e instaurazione di un ordine completamente nuovo elaborata da Lenin e Stalin, si rifiutava di riconoscere una rivoluzione in ogni sconvolgimento politico; pertanto a Masckin, e con lui a Misciulin e Kovaliov, l’azione politica di Ottaviano appariva conservatrice, interessata a reprimere la resistenza delle classi lavoratrici e a consolidare il sistema schiavistico. Per nulla foriera di progressi in senso de-mocratico e risoltasi in innumerevoli compromessi la giudicava Antonio La Penna. Per una sintetica discussione sul problema cfr. M. Cagnetta, op. cit., pp. 159-160.33 L. Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, Rizzoli, Milano, 2004, p. 34.34 L. Canfora, La Germania di Tacito da Engels al nazismo, Liguori, Napoli, 1979, p. 70.35 Ivi, p. 11.36 Ivi, p. 13.37 Ibidem. In Le origini culturali del Terzo Reich Mosse inquadra la fiammata di interes-se per la Germania di Tacito nel più ampio contesto dei fermenti politici, culturali e sociali nell’ambito dei quali si formò fra Otto e Novecento l’ideologia nazional-patriottica (völkisch). Le delusioni per la mancata unità nazionale suscitarono nei Tedeschi l’aspirazione a una «co-esione culturale tra le popolazioni, anziché a una fusione politica che sembrava remotissima». «Tale coesione culturale era da essi intesa come scoperta delle radici nazionali e vista come opposizione allo straniero.» G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, il Saggiatore, Milano, 1964, p. 11. Nel periodo compreso fra il 1848 e il 1870 crebbe la delusione e l’ostilità nei confronti di un mondo moderno che «aveva negato ai tedeschi l’unità di cui pure essi avevano goduto tanto tempo prima, e molti tra loro ritennero che il movimento unitario do-vesse trarre la propria forza più da quei tempi lontani che da un incerto presente.» Ibidem. Nemmeno l’unificazione politica raggiunta nel Reich bismarckiano sembrava aver portato a «quella consapevolezza nazionale, cui tanti tedeschi avevano aspirato. Al contrario, il popolo neounificato si era dato alla ricerca di soddisfazioni materiali, come arricchirsi e creare nuo-vi centri urbani, in tal modo distruggendo quelle tradizioni tedesche che agli occhi di molti erano apparse la vera forza motrice del movimento unitario». G. L. Mosse, op. cit., 12. Alla delusione politica si aggiungevano gli squilibri sociali determinati dalla rapida industrializza-zione, «vasti spostamenti di masse», «rapida obsolescenza di strumenti, mestieri e istituzioni tradizionali». Ivi, 25. I sentimenti di frustrazione scaturiti dalla delusione politica e dall’alie-nazione sociale suscitarono nell’individuo sia il desiderio di autoaffermazione e l’aspirazione allo sviluppo della propria personalità, sia il rifiuto della razionalità e dell’intellettualismo e la predilezione per l’emozionale e l’irrazionale. In ciò si verificava la convergenza con la temperie culturale romantica nell’ambito della quale si erano svolte in Germania le guerre di liberazione. E tuttavia la valorizzazione dell’individuo e del suo mondo emozionale e il con-seguente desiderio di autoaffermazione «s’accompagnavano al contraddittorio impulso ad appartenere a qualcosa di più grande del singolo». Ivi, p. 26. Donde la necessità di ricostituire e preservare l’integrità del Volk, inteso non semplicemente come “popolo”, ma come quell’en-tità composta di individui e che tuttavia, in quanto veicolo della forza vitale che irradia dal cosmo, trascende la dimensione del singolo. Si ritenne allora che “incarnazione” della triade individuo-Volk-cosmo fosse la natura romanticamente concepita come traboccante di vitalità incorrotta. Poiché però ogni Volk risultava radicato (o tale si auspicava che fosse) su un pre-ciso «suolo», la natura alla quale i membri del Volk avrebbero dovuto attingere la forza vitale del cosmo era quella propria di quel suolo e di nessun altro; la natura andava cioè concepita

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come paesaggio. D’altra parte il Volk era caratterizzato non solo da una precisa dimensione geografica ma anche da una peculiare storicità, pertanto all’interesse per la natura, per il pa-esaggio che connotava il suolo, si affiancava l’interesse per il suo passato, e specialmente per quei periodi di esso durante i quali le virtù del Volk si erano manifestate nella loro forma più autentica. Ne derivò l’interesse per gli antichi Germani e di conseguenza per la Germania di Tacito. Cfr. G. L. Mosse, op. cit., pp. 9-216.38 L. Canfora, La Germania di Tacito da Engels al nazismo, cit., p. 34.39 Sul punto del quale stiamo discutendo Canfora recupera il dibattito suscitato dalla pub-blicazione di Die germanische Urgeschichte in Tacitus Germania di Eduard Norden (1920), analisi di «finezza insuperata» nella quale il confronto con le fonti greche di Tacito metteva in crisi le certezze tratte dall’antichità che facevano comodo al nazismo. L. Canfora, La Germa-nia di Tacito da Engels al nazismo, cit., p. 35.40 L. Canfora, La Germania di Tacito da Engels al nazismo, cit., p. 35. Commenta Mosse: «Nel tentativo di dare una solida base alla loro ideologia, ecco dunque i teorici del Volk ri-farsi alla storia per averne ausilio, applicando immagini e dati del passato alla situazione moderna. La loro fonte preferita, il loro autore prediletto, divenne, per quanto attiene alla storia degli antichi germani, Tacito. L’ambito nel quale operava il celebre storico romano era ritenuto irrilevante o, peggio, era deformato in modo da adattarlo a desideri e implicazioni, preferendosi tranquillamente ignorare che la Germania di Tacito era un’opera di propaganda scritta in un contesto specifico. Se Tacito era innanzitutto interessato a contrapporre le virtù dei germani, la loro fresca energia e la loro capacità di sopportazione alla crescente degene-razione romana, gli autori nazional-patriottici presero per oro colato il paragone dello storico romano, dilatando le qualità attribuite ai germani alla propria cultura, al proprio ceppo e alla propria purezza razziali, nonché alle proprie concezioni religiose e mitologiche.». G. L. Mos-se, op. cit., pp. 101-102. Alla forzatura della propaganda nazional-patriottica contribuivano il sistema didattico nonché i manuali di storia pubblicati nel diciannovesimo secolo e negli anni della Repubblica di Weimar in cui, fra le altre componenti dell’ideologia nazional-patriottica («fede nei destini del Volk e nella missione tedesca», condanna della modernità), l’eroismo degli antichi abitatori delle foreste teutoniche veniva proposto ai giovinetti come esempio da emulare. Si può ben dire con Mosse che «durante tutto il diciannovesimo secolo, […] la descrizione degli antichi germani data da Tacito costituì il perno della coscienza teutonica». Ivi, pp. 226-227. Per il contributo del sistema didattico alla propaganda nazional-patriottica cfr. G. L. Mosse, op. cit., pp. 219-252. A dimostrazione di quanto solida e durevole sia stata la saldatura fra ideologia nazional-patriottica e sistema didattico si leggano alcuni passi del decalogo del filologo tedesco redatto nel 1933: «1) Il fine di ogni educazione tedesca è l’uomo tedesco come membro della comunità del Volk. 2) L’idea dell’uomo tedesco è definita dalla vi-vente volontà di futuro della nazione, così come dalla ricchezza delle impegnative e formative forze ereditarie della sua natura di Volk e del suo patrimonio storico, per merito delle quali la nazione esiste come un tutto. […] 4) Fra gli indirizzi scolastici esistenti il ginnasio umanistico è quello che, in una tradizione millenaria e tuttavia in forma sempre nuova, fa conoscere per acquisizione diretta e traduce in energia educativa questo complesso patrimonio della nostra essenza storica, come fonte inesauribile della nostra forza nazionale e come vivente valore at-tuale. […] 10) […] Questa educazione umanistica tedesca è una pratica tedesca nel significato più vero, e si distingue chiaramente da tutte le forme dello stesso nome che ci sono all’estero. Essa non ha nulla a che fare con il cosmopolitismo o col paganesimo restaurato. Essa aspira a suscitare le forze migliori dell’uomo tedesco e a svilupparle mediante lo studio dei popoli dell’antichità a lui affini per indole: e con ciò ad assicurargli, tanto più saldamente, il suo pe-culiare carattere legato al Volk.». A. Favuzzi (a cura di), Decalogo 1933 del filologo tedesco in Quaderni di storia, cit., pp. 263 e 266.41 Cfr. L. Canfora, Cultura classica e crisi tedesca. Gli scritti politici di Wilamowitz 1914-1931, De Donato, Bari, 1977; Intellettuali in Germania tra reazione e rivoluzione, De Donato, Bari, 1979; Ideologie del classicismo, cit.; Le vie del classicismo, cit.42 L. Canfora, Ideologie del classicismo, cit., p. 188.43 L. Canfora, La Germania di Tacito da Engels al nazismo, cit., p. 45.44 Ivi, p. 47.45 Ibidem.46 L. Canfora, La Germania di Tacito da Engels al nazismo, cit., p. 48.47 Ivi, p. 48-49.

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48 L. Canfora, La Germania di Tacito da Engels al nazismo, cit., p. 58.49 Ivi, p. 69.50 Ibidem.51 Diversamente che con la semplice volontà di intervenire nella realtà contemporanea spiega il coinvolgimento degli accademici George L. Mosse. Nel quadro appena abbozzato che Mosse ricostruisce del mondo accademico fra 1873 e 1918 in Le origini culturali del Terzo Reich, distingue due tipologie di professori universitari: da una parte «studiosi confinati nella tor-re d’avorio della loro specializzazione», dai contatti con il mondo circostante estremamente ridotti, desiderosi soltanto di essere lasciati in pace e pertanto affatto interessati a prender posizione su problemi di attualità né, tanto meno, pronti a intervenire in difesa della liber-tà; dall’altra «uomini che aspiravano al ruolo di profeti», schierati in campo nazionalista, in quanto funzionari dello Stato nominati direttamente dal governo e quindi, «al pari degli insegnanti di scuole medie e inferiori», «quasi naturalmente» di fede nazional-patriottica. Cfr. G. L. Mosse, op. cit., p. 295.52 Cfr. G. Ritter, Staatskunst und Kriegshandwerk. Das Problem des Militarismus» in Deutschland, R. Oldenbourg Verlag, München, 1954 e 1960, trad. it. I militari e la politica nella Germania moderna. Da Federico il Grande alla prima guerra mondiale, Einaudi, To-rino, 1967.53 O, all’interno del ceto accademico, tra «annessionisti» e «moderati» in Klaus Schwabe che per impulso di Ritter scrisse il lavoro più organico sull’argomento, apparso nel 1969 con il titolo Wissenschaft und Kriegsmoral.54 Cfr. F. Fischer, Griff nach der Weltmacht, Droste Verlag und Druckerei GmbH, Düsseldorf, 1961, trad. it. Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino, 1965.55 Cfr. L. Canfora, Wilamowitz e Meyer tra la sconfitta e la “Repubblica di novembre” da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo in Quaderni di storia, Anno II, numero 3, p. 84, n. 2.56 Per questa e per le successive valutazioni cfr. L. Canfora, Cultura classica e crisi tedesca. Gli scritti politici di Wilamowitz 1914-1931, cit., pp. 7 e 8.57 Ivi, p. 8. Continua Canfora tra parentesi: «(Sintomatica in questo senso la parabola dello storico, distaccatosi lentamente da una iniziale adesione al nazismo.)». Ibidem.58 Ibidem. Vale la pena di leggere le parole con le quali lo stesso Fischer apre la Prefazione al suo libro: «I fatti narrati in questo libro furono oggetto, negli anni venti, di appassiona-ti dibattiti di politica interna. Oggi le passioni si sono placate, c’è stata la seconda guerra mondiale, la situazione politica europea è profondamente mutata: e quei fatti sono divenuti storia, possono essere studiati con obiettività». F. Fischer, op. cit., p. XV. A differenza di Ritter, il quale intendeva tracciare una distinzione fra l’«avventuriero privo di coscienza» e «l’uomo di Stato cosciente delle sue responsabilità» che «al di là della (inevitabile) lotta per il potere pone come obiettivo finale non il possesso del potere in quanto tale, ma in esso e con esso persegue l’instaurazione di un ordine razionale durevole, nella piena coscien-za della propria responsabilità morale» (G. Ritter, op. cit., p. XIV), Fischer rifugge dalla sopravvalutazione delle scelte individuali, dalla ricerca del «capro espiatorio», poiché essa potrebbe condurre lo storico a una semplificazione deformante: «La verità è che certi fattori di tradizioni religiose e spirituali come istituzioni, strutture sociali vecchie e nuove e altre cose per nulla materiali, producono a volte un gioco di forze in cui il ruolo dell’individuo può essere molto importante, ma sempre come un elemento fra infiniti altri che lo condizionano e che soli gli permettono di esercitare un’influenza. Ciò vale non solo per gli oltranzisti, ma anche per i moderati.». F. Fischer, op. cit., p. XV. A questo punto, già in prefazione, Fischer fa riferimento ad una delle questioni secondo Canfora discriminanti della novità dirompente dell’opera di Fischer: «Il cancelliere Bethmann Hollweg, per esempio, non ebbe piena libertà d’azione, a causa della struttura dell’impero tedesco e soprattutto a causa del predominio dei militari e degli eccessivi poteri della corona, e così non potè attuare all’interno e all’estero la politica che a suo avviso era indispensabile. Ciò non significa che tale politica non fosse a suo modo una politica di potenza; ed egli non fu affatto il “filosofo sul seggio di cancelliere” che per tradizione si vede in lui.». Ibidem. A questa osservazione che dimostra l’inconsisten-za di una contrapposizione netta fra la linea “liberale” e quella “annessionista” potremmo accostare una riflessione di Canfora sulla scarsa “riconoscibilità” del carattere annessioni-stico della politica tedesca: «[…] la politica tedesca “annessionista” si è di rado manifestata,

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se non in rapporti ‘riservati’ appunti privati ecc., in forme rozzamente esplicite, ed anzi ha avuto sempre un aspetto diversificato, secondo le circostanze e le forze impegnate, di volta in volta, a rappresentarla. (Basti pensare al favore con cui gli annessionisti auspicano un ‘autonomo’ regno di Polonia, in realtà in polemica con l’ipotesi di soluzione austro-polacca, ovvero – allo sgretolarsi dell’impero zarista – favoriscono le oligarchiche Dume baltiche e la costituzione di ‘autonomi’ staterelli baltici dominati dall’elemento tedesco e fieramente ostili alla Russia bolscevica». L. Canfora, Wilamowitz e Meyer tra la sconfitta e la “Repubblica di Novembre”, in Quaderni di storia, cit., p. 70.59 Ivi, p. 84, n. 2. Sintomatica a tal proposito ci sembra l’osservazione con la quale Ritter chiu-de la prefazione al secondo volume della sua opera: «Mi sia consentito infine di confessare che la redazione di questo lavoro mi ha procurato un profondo turbamento. Il soggetto è infatti la Germania della mia giovinezza, la Germania di prima della guerra. Per tutta una vita essa era stata immersa nel mio ricordo in una luce che cominciò ad oscurarsi soltanto a partire dallo scoppio della guerra del 1914. E ora, giunto alla sera della mia vita, il mio occhio intento sco-pre ombre molto più profonde di quel che la mia generazione – e quella dei miei insegnanti universitari – a quel tempo non sia stata in grado di scorgere.». G. Ritter, op. cit., p. XVII.60 L. Canfora, Cultura classica e crisi tedesca. Gli scritti politici di Wilamowitz 1914-1931, cit., p. 8. Dalla lettura di Fischer, secondo Canfora ormai entrata «nella coscienza storiografica», dipendono: Klaus Böhme, Aufrufe und Reden Deutscher Professoren im Ersten Weltkrieg, Reclam, Stuttgard, 1975 e Kriegsdienst mit der Feder. Der Erste Weltkrieg im politischen Ur-teil deutscher Professoren da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo, in Quaderni di storia, Anno II, numero 3, pp. 49-67; Fritz Klein, Gli storici tedeschi di fronte alla prima guerra mondiale, in Studi storici, 1962, pp. 731-756. Si ricorda anche il saggio di Werner Basler, Zur politischen Rolle der Berliner Universität im ersten imperialistischen Weltkrieg 1914 bis 1918 in Wissenschaftliche Zeitschrift der Humboldt –Universität zu Ber-lin, Gesellschafts- und Sprachwissenschaftliche Reihe, 10, 1961, pp. 181-203.61 L. Canfora, Wilamowitz e Meyer tra la sconfitta e la “Repubblica di Novembre”, in Qua-derni di storia, cit., p. 70. La stessa osservazione si trova anche in L. Canfora, Cultura clas-sica e crisi tedesca. Gli scritti politici di Wilamowitz 1914-1931, cit., p. 8. Pur riconoscendo l’esistenza di una sparuta minoranza liberale fra studenti e docenti universitari, Mosse indi-vidua nella dipendenza diretta del ceto accademico tedesco dal potere politico le ragioni della debole resistenza opposta a partire dagli anni ottanta del XIX secolo da parte dei professori universitari al dilagare dell’antisemitismo fra i loro studenti: «Si tratta di un atteggiamento facilmente spiegabile, nient’affatto misterioso e che, oggi ancora, dovrebbe risultare evidente a prima vista. Ben di rado gli accademici si oppongono al regime, al potere, e in Germania in particolare essi erano direttamente legati al regime, e di conseguenza tendevano a favorire lo status quo. È questo il motivo che più d’ogni altro ne spiega il comportamento: i corpi acca-demici non desiderano altro che la tranquillità, un’atmosfera in cui condurre in pace le loro ricerche “imparziali”; un modo d’essere in auge già avanti la prima guerra mondiale, e che toccò l’acme sotto il nazismo.». Cfr. G. L. Mosse, op. cit., p. 299.62 Riportiamo un passaggio della Prefazione di Assalto al potere mondiale di Fischer che per l’atteggiamento di lucidità distaccata ricorda l’approccio di Canfora alla questione delle relazioni fra ideologia e classicismo: «Così questo libro non è né un atto di accusa né un’apo-logia. Lo storico non deve né accusare né scusare: deve soltanto raccogliere dati e ordinarli in un quadro di cause e di effetti. Se poi in questo lavoro individuerà concezioni, intenzioni collettive e decisioni personali che abbiano influito sulla formazione di un determinato indi-rizzo politico, cercherà di spiegarle, di “capirle”, senza riprovarle o giustificarle.». F. Fischer, op. cit., p. XV.63 L’espressione deriva dal titolo di un libro di Hermann Kellermann Der Krieg der Geister (Guerra degli spiriti appunto), apparso nel 1915. L’atmosfera incandescente che venne a crearsi è stata studiata sia dalla storiografia tedesca occidentale (con F. Fischer, Schwabe, Töpner, Böhme), sia da quella orientale (con F. Klein). In via preliminare Canfora cerca di fissare alcuni elementi caratterizzanti della cultura tedesca di questo periodo: in primo luogo, un interventismo a favore della guerra «certamente più intenso che in qualunque altro stato europeo coinvolto nel conflitto»; in secondo luogo, il carattere anticipatorio che l’esperienza tedesca di quegli anni ebbe rispetto al fascismo per due ragioni: «all’interno delle “idee del ‘14” – e proprio in Germania – prende corpo una idealizzazione dell’imperia-lismo tedesco in quanto “recente”, “oppresso”, “non mercantile”, “portatore di valori etici”,

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in opposizione all’imperialismo “mercantile” anglo-francese […]; mentre la guerra – secon-do la previsione di Lenin – diventa rivoluzione (ed in Russia crolla lo zarismo), si coagula a destra una ideologia prefascista, ferocemente antiparlamentare». L. Canfora, Classicismo e fascismo, cit., pp. 31 e 32.64 Canfora li passa in rassegna soffermandosi su quello che diede avvio alla «guerra dei pro-clami», l’Erklärung diramata dalla città di Jena alla metà di agosto del 1914 per iniziativa di Ernst Haeckel e Rudolf Eucken, nella quale non soltanto si attaccava l’Inghilterra per essersi schierata al fianco di una potenza slava (orrore!) contro il Germanesimo, dando così il suo sostegno alla barbarie e alla sopraffazione morale, ma anche si legittimava l’invasione del Belgio, definendola necessaria per la Germania. Cfr. L. Canfora, Intellettuali in Germania tra reazione e rivoluzione, cit., pp. 26-31.65 Ivi, p. 31.66 Ivi, p. 41.67 A tal proposito Canfora cita la ricostruzione della vicenda fornita dal generale Van Over-straeten, a suo tempo consigliere militare di Alberto I, e apparsa in «Revue générale belge», 100, 1964, pp. 15-16.68 L. Canfora, Classicismo e fascismo, cit., p. 15.69 Ibidem.70 Ibidem.71 Ibidem.72 L. Canfora, Classicismo e fascismo, cit., p. 16.73 L. Canfora, Ideologie del classicismo, cit., p. 76.74 Ivi, p. 77.75 Ibidem.76 L. Canfora, Ideologie del classicismo, cit., pp. 77-78.77 Ivi,p. 78.78 Ibidem.79 Ibidem.80 Alla saldatura tra latinità e fascismo attraverso il tramite offerto dalla Chiesa cattolica lavorava la Scuola di mistica fascista, la quale tendeva a presentare la Chiesa come quell’ «organismo storico che aveva saputo conservare, assimilare e trasmettere al fascismo quei valori di ordine, di autorità, di gerarchia, quella “naturale” propensione all’universalismo, quel culto per il superindividuale che erano stati un tempo del mondo classico». Cfr. D. Mar-chesini, Romanità e scuola di mistica fascista da Per una discussione sul classicismo nell’età dell’imperialismo in Quaderni di storia, Anno II, numero 4, 1976, p. 64. All’interno di questo disegno tracciato all’insegna dell’idea di “continuità” della storia italiana dal mondo romano al fascismo non era motivo di contraddizione il carattere antiromano del primo cristiane-simo, dal momento che, una volta compresa la natura universale della propria missione, il cristianesimo ebbe bisogno, per propagarsi, della struttura politica universalistica di Roma. Il cardinale arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, parlando agli allievi della Scuola di mistica fascista, sostenne che addirittura Gesù Cristo avesse voluto la nascita dell’impero di Augusto affinché l’universalismo politico favorisse la fondazione del suo “Impero spirituale”. Con l’editto di Costantino Chiesa e impero avevano raggiunto la perfetta compenetrazione; ora, una nuova “marcia” su Roma, un nuovo editto di pacificazione, il Trattato del Laterano, ristabiliva l’antico legame fra universalismo politico e universalismo religioso. Cfr. D. Mar-chesini, op. cit., p. 66.

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