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Luciano Canfora

La natura del potere

Roma-Bari © 2010

I NDEX

o pag.3 - Entr iamo in argomento

Not e

o pag.7 - cap it o lo primo. Sisifo, il polit ico

Not e

o pag.8 - cap it o lo secondo. Tra utopia e rea lismo

Not e

o pag.12 - capit o lo t erzo. « Capo»

Not e

o pag.16 - capit o lo quart o. Cesar ismo

Not e

o pag.25 - capit o lo qu in t o. I l potere de l t iranno

Not e

o pag.32 - capit o lo sest o. « O gni Stato è fondato sulla forza»

Not e

o pag.36 - capit o lo set t imo. Potere de lla parola

Not e

o pag.41 - capit o lo o t t avo. I l « popolo profondo»

Not e

o pag.44 - capit o lo nono. Élite

Not e

o pag.50 - capit o lo decimo. La cr isi de ll’« impero de l bene»

Not e

En triam o in a rgom en to L’idea che ‘il pot ere’ st ia, da qualche part e, remot o, invisibile, inat t ingibile ma influent issimo, e quella, oppost a, secondo cui esso è, invece, incarnat o dai quot idianament e visibili e imperversant i ‘pot ent i’ (che ogni giorno ci r icordano, o forse ci r infacciano, di averli elet t i) hanno, ancorché cont rast ant i, ent rambe larga diffusione. E cur iosament e vengono fat t e proprie, non di rado, dalle medesime persone, magari in moment i diversi ma neanche t ant o dist ant i. Curiosa ma indicat iva oscillazione t ra diagnosi oppost e, eppur credut e ent rambe vere.

I l reit erat o r it o elet t orale può essere considerat o, in quest a r icerca, un buon indicat ore. Nei paesi dove si reca alle urne non più che la met à del corpo elet t orale (gli St at i Unit i d’America) o anche meno della met à (Confederazione elvet ica) sembra che prevalga la pr ima diagnosi. Si può arguire, infat t i, che una così massiccia sfiducia nello st rument o elet t orale nasca, in paesi così accult urat i, dalla mat urat a convinzione che vano sia, e nella sost anza inefficace, il vot o, l’armament ar io elet t orale, in quant o il vero pot ere sarebbe alt rove, alieno dall’esporsi al suffragio degli elet t or i (preferendo, come disse anni addiet ro un aut orevole banchiere, il «suffragio dei mercat i»).

Nei paesi dove, al cont rar io, le percent uali dei vot ant i sono alt issime (ma

meglio sarebbe dire, ‘sono st at e’) , vige, a quant o pare, il convinciment o cont rar io. E in effet t i, nei paesi dove ancora gli schierament i in lot t a dicono di propugnare concezioni cont rappost e int orno all’asset t o economico- sociale, le percent uali dei vot ant i cont inuano a essere t ra le più elevat e. Dove invece lo sforzo orat or io del personale polit ico è volt o a proclamare la fine delle cont rapposizioni basilar i e la sost anziale concordia sulle ‘quest ioni decisive’, la voglia di vot are diminuisce e l’assent eismo aument a vist osament e. La crescent e convinzione, t ra i cit t adini, dell’ir r ilevanza dell’esit o elet t orale pot rebbe dunque discendere dalla convinzione che il personale elet t o, quale che sia, non int rodurrebbe cambiament i; pot rebbe cioè avere come presuppost o – più o meno consapevole – che il pot ere st ia alt rove, al r iparo dalle increspat ure quot idiane e rumorose della ‘polit ica’.

A una diagnosi del genere si può giungere in base a ragionament i e a st udi,

ovvero ist int ivament e, sospint i dalla empir ica delusione della quot idianit à. Diff icile credere infat t i che l’enorme massa dei non- vot ant i, per esempio negli St at i Unit i d’America, approdi a t ale scelt a perché capillarment e influenzat a dalla assidua frequent azione del pensiero elit ist ico , pensiero che – come si sa – pone l’accent o sul sost anziale pot ere di élit es non espost e al logorament o elet t orale. È prefer ibile pensare, piut t ost o, che gruppi int ellet t uali o comunque bene accult urat i, per un verso, e, per l’alt ro, masse che nemmeno si pongono il problema di andare a r it irare il cert if icat o elet t orale ( in Usa esso non raggiunge l’elet t ore ma dev’essere raggiunt o) si mescolino e si int reccino. Sint omat ico in t al senso un passaggio di un celebre film di successo (Frant ic di Roman Polanski, 1988), dove il prot agonist a, professore universit ar io st at unit ense in t rasfert a a Parigi per un congresso scient if ico, r ivolgendosi all’ambasciat a del suo paese onde t ent are di far luce sul

rapiment o della propria consort e, dichiara come credenziale posit iva, al funzionario d’ambasciat a: «Noi non andiamo neanche a vot are! ».

Ovviament e c’è anche l’alt ra part e del paese – e in quest o caso si t rat t a del

paese forse più nevralgico dell’int ero pianet a – che si mobilit a e ‘crede’: crede di imprimere un indir izzo al ‘pot ere’ cambiando (o confermando) gli uomini ‘visibili’. Ma si t rat t a pur sempre di minoranze, minoranze at t ive e polit icizzat e, messe in mot o da macchine di part it o: e soprat t ut t o at t ent e al dosaggio paralizzant e t ra conservazione e cambiament o. Lo si è vist o ancora di recent e. Un candidat o- president e che eccit a ent usiasmo deve essere cont robilanciat o, se vuol vincere, da un vice- candidat o alquant o conservat ore al f ine, si dice, di rassicurare gli elet t or i moderat i. I l che port a a concludere che chi eccit a ent usiasmo, e chiede consenso, lo chiede, al t empo st esso, per cambiare e per non cambiare. Insomma, anche da esperienze a pr ima vist a di segno cont rar io sembra venir fuor i una indiret t a conferma della diffusa consapevolezza che il pot ere è alt rove e che soprat t ut t o a quest o ‘alt rove’, in ult ima ist anza, giovani o non giovani, spigliat i o compassat i, si debba dar cont o.

Concordano in t al senso due scr it t or i polit ici molt o diversi, che scr ivono a dist anza di t rent ’anni l’uno dall’alt ro in moment i st or ici molt o significat ivi: l’uno, Benjamin Constant , all’indomani della chiusura – all’apparenza falliment are e in perdit a – del ciclo Rivoluzione- Impero, di cui egli st esso era st at o disinvolt ament e part ecipe; l’alt ro, Karl Marx, alla vigilia della nuova deflagrazione r ivoluzionaria, quella del 1848. L’uno nel moment o in cui più si fa st rada, ed è considerat a senso comune, anche t ra chi ne fu part e, la ‘nausea’ per la ‘r ivoluzione’; l’alt ro nel moment o, non breve, in cui la urgent e necessit à di cambiare assillava, o almeno lambiva, persino la t est a coronat a del pont efice romano.

Scrive infat t i B. Const ant nel celebre discorso all’At hénée Royal di Parigi (1819) su “La libert à dei m oderni cont rappost a a quella degli ant ichi”, a significare l’inut ilit à, olt re che nocivit à, di ogni t ent at ivo di int accare il pot ere: «Il denaro sarebbe l’arma più pericolosa del dispot ismo, secondo un aut ore francese. Ma – obiet t a – è in pari t empo il suo freno più efficace». Quindi precisa meglio l’ogget t o della sua r if lessione e dal generico «denaro» passa al più pert inent e «crédit », cioè il pot ere bancario. E subit o formula una osservazione assai pert inent e e moderna sulle dinamiche economiche: «le crédit est soumis à l’opinion». Come dire: c’è un element o fondament ale, non economico, del pot ere bancario, ed è la credibilit à, la convinzione diffusa della affidabilit à, aspet t o non secondario del pot ere. Segue la sint esi ancora più efficace: «la forza è inut ile, il denaro si nasconde o fugge [ se cache ou s’enfuit ] ». E se – incalza Const ant – nelle realt à polit ico- st at ali ant iche «i governi erano più fort i dei pr ivat i» (peralt ro poche pagine pr ima aveva elogiat o la ‘modernit à’ di At ene a causa del fenomeno della fuga dei capit ali durant e la guerra cont ro Spart a), «oggi dovunque i pr ivat i sono più fort i del pot ere polit ico». Dopo di che il pensat ore sim bolo del liberalism o si lascia andare a una sort a di inno alla r icchezza, che non manca di un qualche lir ismo: «La r icchezza è una forza [ puissance] più disponibile ad ogni ist ant e, più applicabile ad ogni genere di int eressi, e perciò di gran lunga più reale [ bien plus réelle: s’int ende del pot ere polit ico] ». E soggiunge: «e meglio obbedit a! ».

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 5

Infat t i, spiega: «il pot ere minaccia; la r icchezza r icompensa; si sfugge al pot ere ingannandolo; per ot t enere i favori della r icchezza invece bisogna servir la [ sic! : il faut la servir ] ». E conclude: «Celle- ci doit l’emport er», «È la r icchezza che deve avere la meglio»1 . Un vero parlar chiaro.

Nel pr imo capit olo del Manifest o del part it o com unist a, scr it t o, insieme con

Engels, nei pr imi del 1848, Marx , avant i di lanciarsi in una st raordinaria esalt azione del «ruolo r ivoluzionario» svolt o «nella st or ia» dalla «borghesia» (e per «borghesia», chiosava Engels in una not a all’edizione inglese del 1888, si deve int endere «la classe dei moderni propriet ar i dei mezzi sociali di produzione») r iassume in breve il cammino che ha port at o la «borghesia» da «t erzo st at o con obblighi f iscali sot t o la monarchia» a cet o dominant e. E approda alla famosissima formula: « I l pot ere polit ico dello St at o moderno [ die m oderne St aat sgewalt ] è solt ant o un com it at o che am m inist ra gli affar i della classe borghese nel suo complesso»2 . La formula è combat t iva e prelude, in cert o senso, alle misure – indicat e poco dopo – da at t uarsi con la imminent e (nella illusione dei due aut or i) presa del pot ere da part e del «prolet ar iat o». Misure che essi definiscono «int ervent i dispot ici cont ro il dir it t o di propriet à» e mirant i, at t raverso la conquist at a «supremazia polit ica», a «st rappare alla borghesia t ut t o il capit ale». Per i «paesi più progredit i» i due elencano dieci misure da at t uarsi subit o: la pr ima è l’«espropriazione della propriet à fondiar ia», la seconda è l’«impost a fort ement e progressiva», la t erza l’eliminazione del dir it t o di eredit à, segue la «cent ralizzazione del credit o mediant e una banca nazionale con monopolio esclusivo» e solo al set t imo post o finalment e viene previst o l’«aument o delle fabbriche nazionali» (dunque non ancora la abolizione dell’indust r ia pr ivat a bensì il suo r idimensionament o grazie alla creazione di un concorrent e reput at o irresist ibile, cioè le aziende st at ali) .

Tut t o ciò è, benint eso, un pr im o passo («in un pr imo t empo»), poi si

int ravede, in fondo alla st rada, l’abrogazione delle classi, «il libero sviluppo di ciascuno» et c. Ma per t enerci a quello che i due aut or i credevano fosse l’‘oggi’ o l’immediat o ‘domani’, import a r ilevare che la diagnosi di part enza è che il pot ere st a nelle mani dei ‘padroni del vapore’ – per dir la con Ernest o Rossi – e che però solo con l’at t uazione drast ica di «int ervent i dispot ici cont ro il dir it t o di propriet à» t ale pot ere passerà alla nuova classe dominant e.

I l prolet ar iat o – ciò è reput at o dagli aut or i quasi un dat o ovvio e scont at o – conquist erà il pot ere polit ico per at t uare t ale programma grazie al «suffragio universale», o, come essi dicono, con la «conquist a della democrazia» ( la frase r icorre subit o pr ima dell’elenco delle dieci misure urgent i) . E il t eorema si salda con una definizione conclusiva: «il pot ere polit ico in senso proprio è il pot ere organizzat o di una classe in vist a dell’oppressione di un’alt ra» ( fine del capit olo II) .

Ma qualcosa non ha funzionat o. I l suffragio universale, alla fine conquist at o

(dove pr ima, dove poi, in It alia dopo quasi t ut t i) ha più e più volt e deluso chi lo aveva propugnat o, ha mancat o i previst i effet t i che si sono ora r icordat i. Le urne sono divenut e – al cont rar io – lo st rument o di legit t imazione di equilibr i, di cet i, di personale polit ico quasi immut abile, non import a quant o diversificat o e come diviso al proprio int erno.

Chi però, ret rospet t ivament e, r iconsideri i 160 anni di st or ia che ci separano dal 1848, non può non r ilevare il ciclico r iaffacciarsi, quasi a ogni t ornant e, quasi a ogni «dura lezione della st or ia», della domanda: e se il vero pot ere fosse alt rove? Non a caso r it orna con forza la formula del ‘doppio St at o’. E se avesse det t o crudament e il vero il già bonapart ist a, poi liberale, Const ant ? O la compenet razione t ra le due sfere – pot ere visibile e pot ere remot o – t rova alla fine il suo ( imprevist o) inverament o nella pervasiva corruzione della polit ica, sospint a gagliardament e sul t erreno ‘affar ist ico’? Ma è poi fenomeno sì nuovo?

Di quest o, caro let t ore, vorremmo discorrere nelle pagine che seguono.

Note

1 B. Constant, Oeuv res polit iques, avec introduction, notes et index par Char les Louandre, Charpentier, Paris 1874, p. 281. «Doit» v iene inteso piuttosto come una ‘profezia’: f inirà per avere la m eglio.

2 La celebre frase f igura al termine della pagina 4 nell’edit io pr inceps (Londra, febbraio 1848) a cura della «Bildungs-Gesellschaft für Arbeiter».

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 7

capitolo prim o - Sis i fo : i l Po l i t ico

Lucrezio, che T. Mom m sen considerava il maggior poet a romano, ma che è innanzit ut t o un pensat ore or iginale, è anche il t eor ico più esplicit o e conseguent e di alcune radicali im possibilit à. In un t est o capit ale nella st or ia della t eor ia dell’eros, il f inale del libro quart o del De rerum nat ura, egli afferma e argoment a l’impossibile compenet razione dei corpi (bruciant e sconfit t a della passione)1 . Allo st esso modo sost iene apert ament e la mera apparenza ma sost anziale nullit à della conquist a del pot ere (polit ico).

Giunge a parlarne nella part e finale del libro precedent e, il t erzo, part endo da un punt o apparent ement e lont ano: i cast ighi infernali sono leggende, non esist ono. Sono, semmai, dei simboli2 . Non esist e – come vorrebbe il mit o – un t ale di nome Tant alo che, inchiodat o dal t errore, scrut a l’enorme roccia sospesa sul suo capo e che pot rebbe schiacciar lo in qualunque moment o. È quella, al cont rar io, la raffigurazione simbolica di qualcosa che è qui, e si svolge, e imperversa, sulla t erra, t ra i vivent i: è la raffigurazione del t imore, assurdo, degli dèi che t orment a e logora la vit a degli uomini. Non esist e Tit ios che, secondo il mit o, giace nell’Acheront e divorat o dai rapaci ( i quali, olt re t ut t o – comment a Lucrezio con macabro sarcasmo –, diff icilment e pot rebbero t rovare di che frugare per t ut t a l’et ernit à all’int erno del suo corpo). Quella è dunque la raffigurazione simbolica di qualcosa che è qui sulla t erra: è l’uomo afflit t o dalla passione amorosa, dilaniat o dagli avvolt oi della gelosia.

Non esist e Sisifo. O meglio, Sisifo è qui, t ra noi, in quest a vit a. L’abbiamo t ut t i i giorni sot t o gli occhi: è il polit ico che si accanisce a br igare col popolo per ot t enere i fasci e le scuri t emibili3 . «Sollecit are il pot ere [ pet ere im perium ] – che è cosa vuot a [ inane est ] e che non è prendibile [ nec dat ur um quam ] – e in t ale r icerca sopport are incessant ement e fat iche t remende, quest o, sì, significa spingere a forza lungo il pendio di un mont e un masso che, appena sulla vet t a, r icade rot olando in basso»4 . La fat ica infernale di Sisifo, appunt o. Sisifo è il polit ico in quant o il suo obiet t ivo è il pot ere. E il r ifer iment o non è solo filosofico, ma concret o: alla polit ica e alla lot t a elet t orale nella repubblica romana; al «pet ere a populo fasces saevasque secures».

Note 1 Lucrezio, I V, 1105-1117.

2 I d., I I I , 978-1022.

3 I sim boli del potere, a Rom a.

4 Lucrezio, I I I , 998-1002.

capitolo secondo - Tra u top ia e rea l ism o «Imperium quod inane est , nec dat ur umquam»1 . Quest a sent enza lucreziana è dunque la negazione della sost anza st essa, del cont enut o, del pot ere. I m perium , in quant o corr ispondent e denominat ivo di im perare, indica l’at t o e l’effet t o del ‘comandare’, ma anche la posizione di forza a part ire dalla quale si comanda, cioè l’insieme dei requisit i e delle premesse necessarie per pot er esercit are il ‘comando’: insomma t ut t o quello che è racchiuso nella nozione di pot ere. Perciò il t ermine non si r ifer isce, nell’ant ica Roma, unicament e al mondo milit are: r iguarda ogni forma di pot ere che possa esercit arsi nella cornice della compagine st at ale.

Dire che è ‘vuot o’ può considerarsi un giudizio, ed è già una fort e presa di posizione, s’immagini o meno, alle spalle di t ale giudizio, la predilezione di Epicuro per il t ermine kenós. Ma soggiungere che non dat ur um quam , che cioè, al di là delle apparenze, nella realt à effet t iva il pot ere non viene né dat o né assunt o , è molt o più radicale. Significa che, diet ro ai fasci, alle alt re insegne del pot ere, non c’è nulla; significa anche che chi si illude di concederlo ( le assemblee elet t orali, a Roma, o i loro equivalent i nelle alt re possibili forme) in realt à non t rasm et t e nulla.

È una vedut a eversiva, alla cui radicalit à Epicuro, cui Lucrezio pur dice ad ogni passo di ispirarsi fedelment e, non si sarebbe neanche azzardat o di spingersi. È un modo di suggerire che si può, che i saggi e i loro adept i possono, prescindere dalle ist it uzioni ent ro cui si t rovano a vivere; è un modo di lasciar int endere che, al cont rar io, è possibile da subit o at t uare quella vit a pr ior fondat a sull’amicizia (philía) che della comunit à epicurea è l’archit rave.

La vit a pr ior esist et t e nelle or igini, ma fu t ravolt a dalla nascit a delle var ie forme di vit a associat a via via sempre più durament e st rut t urat e int orno a gerarchie e a pot er i, alla cui base Lucrezio – in alt ro luogo della sua opera – pone la «scopert a della propriet à» (res invent a est aurum que repert um )2 . Diet ro quella programmat ica negazione – «imperium inane est nec dat ur umquam» – c’è il proposit o, e magari il proget t o – del ‘falanst er io’, della creazione, da subit o, di un alt ro ordine: l’ut opia pura.

La ‘provocazione’ lucreziana cont ro l’im perium è t alment e fort e, da spingersi f ino a una proclamazione sconvolgent e per la ment alit à e la polit ica romane. Si t rova al t ermine del libro quint o, nel quadro di una st or ia essenziale della civilt à che è anche una st or ia della genesi del pot ere: «è molt o meglio prat icare serenament e l’obbedienza che voler esercit are il pot ere polit ico [ quam regere im perio res velle] e dominare i regna [ cioè occupare e governare le t erre di alt r i popoli] »3 .

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 9

Quest e parole, per un romano del t ut t o paradossali, hanno suscit at o una replica, né pot evano passare inosservat e nella cult ura ben pilot at a di epoca august ea. La replica sarà di Virgilio.

Si t rat t a di un esempio memorabile di ‘art e allusiva’, in cui r ipresa del t em a, om aggio al grandissim o predecessore, e polem ica si int recciano; è il verso polit icament e più impegnat ivo di t ut t a l’Eneide: «Romani, r icordat evi che il vost ro compit o è di dominare, con l’im perium , gli alt r i popoli» (VI, 851: «Tu regere im perio4 populos, Romane mement o»). Dove m em ent o è forse la parola più significat iva, in quant o int ende r ifer irsi ad un com pit o da assolvere («r icordat evi...»), cioè ad un ruolo , dal quale non si può impunement e ‘uscire’ a piaciment o.

Gli ideologi e propagandist i dell’imperialismo fascist a facevano leva, t ra l’alt ro, su quest o celebre verso per confort are la formula, in uso all’epoca, del ‘dest ino imperiale’ di Roma. Al di là del compiaciment o e dei sot t int esi razzist ici di t ale formula, che forse carica il t est o virgiliano di t roppe implicazioni e suggest ioni moderne, in realt à quel verso è, in cert o senso, il corr ispet t ivo di ciò che insegna Pericle agli At eniesi st anchi di condurre, a cost o di sacr if ici personali, una polit ica imperiale: «l’impero è t irannide, e dall’impero non ci si può impunement e t irar fuor i»5 . Nat uralment e si t rat t a di due realt à polit iche e t err it or iali incomparabili: da un lat o il plur isecolare impero t err it or iale romano sopravvissut o anche a t raumi quali la pressione dei Cimbri e dei Teut oni, le guerre civili6 , e di lì a poco la disfat t a di Teut oburgo ; dall’alt ro un impero durat o a mala pena set t ant ’anni, messo in cr isi e alla fine t ravolt o da quell’unica ‘grande guerra’ pur così fort ement e volut a dal suo più grande st at ist a. Ma il pr incipio è il medesimo: non si fuoriesce unilat eralment e da una sit uazione di comando (quel che Gorbačëv non vide). Al più la si nega alla radice: com’è appunt o il precet t o radical-ut opist ico lucreziano.

Agli ant ipodi dell’ut opia, che è st rut t uralment e irr iducibile alla realt à e inevit abilment e inat t uat a, il realismo si int erroga sui fat t or i di salvaguardia e t ut ela del pot ere. Polibio , lo st or ico di Megalopoli giunt o a Roma come ost aggio di una guerra perdut a alla met à del II secolo a.C., vide nell’ordinament o cost it uzionale romano la soluzione del problema che aveva logorat o le cit t à greche dilaniat e da forme polit iche che r ispecchiavano in modo im m ediat o i conflit t i di classe: ‘dit t at ura’ (var iament e r ivest it a) dei r icchi versus ‘dit t at ura’ dei poveri, cioè democrazia; e nello sfondo – rovescio negat ivo della pólis – il ‘t iranno’. Era un ‘cerchio’ in cui t ut t e le repubbliche andavano pr ima o poi in rovina, per dir la con una celebre espressione di Machiavelli che in quel caso quasi t raduce Polibio. La soluzione era sot t o gli occhi. L’equilibr io t ra i t re pr incìpi – monarchico, oligarchico, popolare – era lì, sot t o gli occhi del greco abit uat o alla prassi della dist ruzione fisica della fazione avversa: era nell’equilibr io t ra i t re fat t or i. Nat uralment e era lasciat o sot t int eso che uno dei t re, quello oligarchico – fondat o sulla forza economica e sulla delega annuale ai capi degli esercit i ( i consoli) della part e maggiore di pot ere –, era il fat t ore dominant e. Ad ogni modo Polibio vide o r it enne di

capire che, grazie a quella form a di pot ere, Roma aveva superat o anche il disast ro di Canne. E quella gli parve, a post er ior i, la più fort e conferma della propria diagnosi. Alt ro che ‘inesist enza’ del pot ere. Per il realist a Polibio è proprio nel pot ere, nel modo in cui lo si suddivide, la forza e la salvezza. La cr isi graccana sembrò sment ire, forse agli occhi dello st esso Polibio, t ant a cert ezza. Ma l’int uizione polibiana serbava dent ro di sé un nucleo valido. Olt re un secolo dopo, Orazio, nell’Epodo XVI , prevede che la nuova ondat a di guerre civili pot rebbe port are all’est inzione dell’impero («Alt era iam t er it ur bellis civilibus aet as...»). Chi ha invece port at o l’impero fuor i della bufera, cioè August o, cos’alt ro fece se non r iaggiust are l’equilibr io dei pot er i all’int erno del meccanismo, squilibrat o da Cesare in direzione del pot ere personale?

È lì il grande r it rovat o della august ea «rest aurazione della repubblica» all’int erno di una innegabile ma ben camuffat a prevalenza del princeps. Cioè ancora una volt a una forma di cost it uzione mist a che salva l’impero, come dopo Canne, dalla cat ast rofe. Ma quel r iaggiust ament o cos’alt ro era se non un rafforzament o di quella ‘delega annuale’ ai capi degli esercit i ( i consoli)? I quali già rappresent avano – come ben scr isse Tit o Livio quando descrisse la nascit a della Repubblica – la sopravvivenza cont rollat a del pot ere monarchico. Un gruppo sociale selezionat o che si raccoglie in un organismo fondat o al t empo st esso sulla coopt azione e sulla elezione ( il Senat o), che delega annualment e il pot ere a figure elet t ive ma selezionat e, a loro volt a, nell’ambit o delle grandi famiglie e che, finit o l’anno di pot ere, saranno membri aut orevolissimi del Senat o. Legit t imazione elet t orale cont rollat a e pot ere effet t ivo dei cet i socialment e ed economicament e più fort i.

È il modello di cui si possono pensare molt eplici var iant i. Quella august ea fu geniale e durat ura. «L’imperat ore romano – scr ive Paul Veyne giust o in apert ura del suo import ant e st udio L’Em pire gréco-rom ain [ 2005] – esercit ava una professione ad alt o r ischio: il t rono non gli appart eneva di dir it t o, ma ne era mandat ar io per cont o della collet t ivit à, che lo aveva incaricat o di guidare la repubblica [ ...] . Tale delega da part e della comunit à non era che una f ict io , una ideologia, ma proprio l’esist enza di t ale f ict io era sufficient e ad impedire al mandat ar io di avere la legit t imit à di un re»7 . E cit a il gran libro di Béranger sull’«aspet t o ideologico del pr incipat o»8 , secondo cui l’impero si aut orappresent ava come «una successione di grandi pat r iot i che si fanno carico degli affar i pubblici», personalit à che hanno eredit at o o anche conquist at o a viva forza «il dir it t o di prot eggere i loro concit t adini e l’impero». Perciò – osserva Veyne – «durant e l’impero non si smet t erà mai di pronunciare la parola repubblica e non in nome di una finzione ipocrit a [ ...] . I l regime imperiale mant eneva la sua facciat a repubblicana in nome di un compromesso». Un compromesso che ha in August o il suo geniale creat ore.

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 11

Cert o, comment a Veyne, «un compromesso zoppo, che sarebbe st at o mot ivo di conflit t o perpet uo, perché era una cont raddizione che il pr incipe fosse, al t empo st esso, onnipot ent e e invest it o da alt r i del proprio pot ere»9 . L’im perium c’è, dunque, corposament e present e e ingombrant e. Quello che non è sempre agevole comprendere è il suo ‘passaggio di mano’: da un’élit e a un’alt ra. Una part it a ai vert ici, che però senza l’appoggio, la conquist a, l’ut ilizzo e la event uale disillusione delle grandi masse, che cost it uiscono la m at eria su cui il pot ere si esercit a, non pot rebbe nemmeno aver luogo.

I fat t or i di cui quest a bat t aglia inint errot t a si sost anzia sono molt eplici, e così anche gli st rument i (che cambiano anche in ragione di progressi t ecnici di grande port at a); ma possono, considerat i nel loro insieme, r idursi alla domanda basilare: come accade che le t ant e volont à dei singoli confluiscano in scelt e che danno l’impressione di essere opzioni collet t ive? Chi r iesce a unificare quelle infinit e volont à? E con quali mezzi? È il circuit o governant i-governat i; la cui rappresent azione oleografica è quella della democrazia rappresent at iva e del meccanismo elet t ivo- parlament are, ma la cui realt à è la conquist a dell’im perium , del pot ere. Guardiamola più da vicino.

Note

1 Lucrezio, I I I , 998.

2 Lucrezio, V, 1113.

3 I v i, 1129-1130.

4 Stessa sede, nel verso, del lucreziano quam regere im per io.

5 Tucidide, I I , 63, 2.

6 Che, secondo Orazio, Epodo XVI , potevano por tare all’estinzione dell’im pero.

7 P. Veyne, L’Em pire gréco- rom ain, Edit ions du Seuil, Par is 2005, p. 15.

8 J. Béranger, Recherches sur l’aspect idéologique du pr incipat , Reinhardt, Basel 1953.

9 Veyne, L’Em pire gréco- rom ain, cit ., pp. 28-30.

capitolo terzo - Capo Alcuni mesi dopo la mort e di Lenin, Gramsci r if let t e sulla figura del grande scomparso, e affida la sua r if lessione all’«Ordine Nuovo» (set t imanale) del 1º marzo 1924. Non si t rat t a di una celebrazione e nemmeno di una r icost ruzione biografica. Gramsci r if let t e sulla quest ione cent rale di ogni pot ere, non solt ant o di quello che deriva da una r ivoluzione. «Ogni St at o – scr ive in apert ura del saggio int it olat o in modo essenziale ed icast ico Capo – è una dit t at ura. Ogni St at o non può non avere un governo, cost it uit o da un r ist ret t o numero di uomini, che a loro volt a si organizzano int orno a uno dot at o di maggiore capacit à e maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno St at o, f inché sarà st or icament e necessario governare gli uomini1 , qualunque sia la classe dom inant e, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un capo».

E già anni pr ima, nell’«Ordine Nuovo» del 4 dicembre 1920, aveva ospit at o uno scr it t o di Karl Radek, dir igent e comunist a t edesco t ravolt o poi, negli anni Trent a, nei ‘processi di Mosca’, int it olat o Lenin capo r ivoluzionario , che si apriva con le parole: «Lenin è il com plesso della r ivoluzione russa dei lavorat or i; egli è, si pot rebbe dire, la personificazione di t ut t o il suo spir it o e del suo significat o».

Una diagnosi più dist accat a e più empir ica del carat t ere ‘necessario’ della figura del ‘capo’ Gramsci la dà invece in una let t era pr ivat a, conservat asi framment ar iament e ma dest inat a forse a Giulia Schucht , sua moglie, non sappiamo di quant o successiva al gennaio ’24: «Non si pot rà mai evit are – scr ive – che nelle grandi masse la r ivoluzione si sint et izzi in alcuni nomi che sembrano esprimere t ut t e le aspirazioni e il dolorant e sent iment o delle masse oppresse. [ ...] Quest i nomi, in una grande part e della massa più povera e arret rat a, divent ano quasi un m it o religioso. È quest a una forza che non bisogna dist ruggere»2 .

Qui t ermina il framment o (per giunt a conservat o solo in dat t iloscr it t o, e quindi di aut ent icit à non cert issima). È facile not are il diverso t ono: «non si pot rà mai evit are...»; «quasi un mit o religioso...», et c. Invece nel coevo saggio per «Ordine Nuovo» il conformarsi del pot ere int orno ad un ‘capo’ nel quale si r iconosce l’élit e dir igent e non è un r ipiego : esso appare anzi come necessario ed è la razionale forma del pot ere «finché sarà necessario uno St at o».

Merit a at t enzione, t ra gli alt r i element i, la scelt a delle due qualit à che selezionano i ‘capi’: «capacit à e chiaroveggenza». C’è una cont inuit à della r if lessione polit ica su quest o punt o. Tucidide, polit ico e st or ico at eniese del V secolo, ha t racciat o con evident e simpat ia il r it rat t o dei due ‘capi’ che a suo giudizio eccellono nella st or ia di At ene: Temist ocle e Pericle. E in ent rambi i casi la qualit à decisiva è, ai suoi occhi, la capacit à di «int uire t ra le varie cose

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imminent i quella che sarebbe effet t ivament e accadut a». Tucidide adopera a proposit o di Temist ocle un verbo che vuol dire sia «conget t urare» che «int uire» che «fondarsi su di un raffront o» (i菅賜┕├i┟┣) nonché il der ivat o i菅賜┕jk┗┧ ( I, 138, 3). È l’equivalent e di «chiaroveggenza». Tucidide r icorre ad una espressione circost anziat a: prevedere, «t ra le var ie possibilit à» (┢┖┡┡┥┣kg) , ciò che effet t ivament e sarebbe accadut o (k摂 ┛i┣┝j┮┢i┣┥┣) . E a proposit o di Pericle parla r ipet ut ament e di ん雌┮┣┥┟g ( II, 65, 6), che di «chiaroveggenza» è addir it t ura sinonimo. Insomma l’elogio delle qualit à del «capo» è espresso da Gramsci, nell’esordio di quell’art icolo, nei t ermini della più consolidat a e aut orevole polit ica classica. Ben a ragione dichiara preliminarment e che quant o st a affermando sulla necessit à di un ‘capo’ vale «qualunque sia la classe dominant e».

Proseguendo nella sua r if lessione, Gramsci der ide la posizione di quei «socialist i i quali dicono ancora di essere marx ist i e r ivoluzionari», e t ut t avia sost engono di volere bensì la «dit t at ura del prolet ar iat o, ma di non volere la dit t at ura dei capi», di non volere «che il comando si individui, si personalizzi»: è come – egli dice – voler qualcosa, ma al t empo st esso non voler la «nella sola form a in cui è st or icam ent e possibile».

Quando Gramsci scr iveva quest e parole aveva alle spalle esperienze di pot ere personale di due generi, che egli volle schemat izzare nella dist inzione t ra «cesarismo progressivo» e «cesarismo regressivo»3 . Una dist inzione schemat ica e ‘volent erosa’, che cerca di ist it uire una radicale polar it à e cont rapposizione t ra il pr imo e il t erzo Napoleone, laddove, nella realt à, quella polar it à è molt o meno net t a, a meno che non si voglia far capo al mit o di Napoleone ‘spada della r ivoluzione’ (ma quest a sarebbe solo una part e della realt à, una part e che divent ò sempre più marginale via via che, nel giro di pochi anni, dal pr imo console si passava all’imperat ore).

Non pensava, è ovvio, Gramsci solt ant o al precedent e di Cesare (che godeva in vero anche delle simpat ie di Marx ) o del pr imo Bonapart e, ma anche al fenomeno Robespierre: un ant ecedent e perfet t o, anche se breve e sfort unat o, della prat ica leninist a, nella quale Gramsci si r iconosce pienament e. Sull’«Ordine Nuovo» del 1º dicembre 1921 aveva scr it t o: «Il part it o comunist a cont inua le t radizioni dei giacobini della Rivoluzione francese cont ro i girondini. I comunist i sono giacobini, ma per l’int eresse del prolet ar iat o e delle masse rurali t radit e dai socialist i».

Però cercava anche di st abilire un discr imine chiaro r ispet t o a ‘capi’ appart enent i a una t radizione avversa, e avversat a: da Napoleone III a Bismarck, a Crispi. E proprio nel saggio del marzo ’24 finiva con l’ist it uire una diamet rale polar it à t ra Lenin e Mussolini.

Parlava di ‘selezione’. Trat t eggiava quasi un processo di ‘selezione nat urale’ per arr ivare al ‘capo’ migliore possibile:

Lenin è st at o l’iniziat ore di un nuovo processo di sv iluppo della st oria, ma lo è

st at o perché egli era anche l’esponent e e l’ult imo più indiv idualizzat o

moment o, di t ut t o un processo di sv iluppo della st oria passat a, non solo della Russia, ma del mondo int ero. Era Egli divenut o per caso il capo del part it o

bolscev ico? Per caso il part it o bolscev ico è divent at o il part it o dirigent e del

prolet ariat o russo e quindi della nazione russa? La selezione è durat a t rent a anni, è st at a fat icosissima, ha spesso assunt o le forme apparent ement e più

st rane e più assurde. Essa è avvenut a nel campo int ernazionale, al cont at t o delle più avanzat e c iv ilt à capit alist iche dell’Europa Cent rale e Occ ident ale,

nella lot t a dei part it i e delle f razioni che cost it uivano la Seconda

Int ernazionale prima della guerra. Essa è cont inuat a nel seno della minoranza del soc ialismo int ernazionale rimast a almeno parzialment e immune dal

cont agio soc ial- pat riot t ico. Ha ripreso in Russia nella lot t a per avere la

maggioranza del prolet ariat o, nella lot t a per comprendere e int erpret are i bisogni e le aspirazioni di una c lasse cont adina innumerevole, dispersa su un

immenso t errit orio. Cont inua t ut t ora, ogni giorno, perché ogni giorno bisogna

comprendere, prevedere, provvedere. Quest a selezione è st at a una lot t a di f razioni, di piccoli gruppi, è st at a lot t a indiv iduale, ha volut o dire sc issioni e

unif icazioni, arrest i, esilio, prigione, at t ent at i: è st at a resist enza cont ro lo scoraggiament o e cont ro l’orgoglio, ha volut o dire sof f rir la fame avendo a

disposizione dei milion i d’oro.

E parallelament e ecco il ‘cont ro- r it rat t o’ di Mussolini, che viene colpit o nel punt o suo più dolent e: non è st at o un aut ent ico ‘capo’. La descrizione è di grande efficacia, anche nelle sue implicazioni psicologiche e sociologiche. E cost ò a Gramsci (arrest at o due anni e mezzo dopo a t radiment o) l’odio implacat o del «capo del fascismo».

In ult ima analisi però l’ant it esi si poggia ancora una volt a sulla polar it à regressivo/ progressivo. Ecco il brano più import ant e di quello st raordinario r it rat t o:

Un’alt ra quest ione si present a. È possibile, oggi, nel periodo della rivoluzione

mondiale, che esist ano ‘capi’ fuori della c lasse operaia, che esist ano capi non-

marxist i, i quali non siano legat i st ret t ament e alla c lasse che incarna lo sv iluppo progressivo di t ut t o il genere umano? Abbiamo in I t alia il regime

fasc ist a, abbiamo a capo del fasc ismo Benit o Mussolini, abbiamo una ideologia uf f ic iale in cui il ‘capo’ è div inizzat o, è dichiarat o infallibile, è preconizzat o

organizzat ore e ispirat ore di un rinat o Sacro Romano Impero.

Vediamo st ampat o nei giornali, ogni giorno, dec ine e cent inaia di t elegrammi

di omaggio delle vast e t ribù locali al ‘capo’. Vediamo le fot ograf ie: la maschera più indurit a di un v iso che già abbiamo v ist o nei comizi soc ialist i. Conosc iamo

quel v iso: conosc iamo quel rot eare degli occhi nelle orbit e che nel passat o

dovevano, con la loro feroc ia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al prolet ariat o. Conosc iamo quel pugno sempre chiuso alla minacc ia.

Conosc iamo t ut t o quest o meccanismo, t ut t o quest o armament ario e non comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla

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giovent ù delle scuole borghesi; esso è verament e impressionant e anche v ist o

da v ic ino e fa st upire.

Ma ‘capo’? Abbiamo v ist o la set t imana rossa del giugno 1914. Più di t re milioni

di lavorat ori erano in piazza, scesi all’appello di Benit o Mussolini, che da un anno c irca, dall’ecc idio di Roccagorga, li aveva preparat i alla grande giornat a,

con t ut t i i mezzi t ribunizii e giornalist ic i a disposizione del ‘capo’ del Part it o

soc ialist a di allora, di Benit o Mussolini: dalla v ignet t a di Scalarini al grande processo alle Assisi di Milano. Tre milioni di lavorat ori erano scesi in piazza:

mancò il ‘capo’, che era Benit o Mussolini. Mancò come ‘capo’ non come indiv iduo, perché raccont ano che egli come indiv iduo fosse coraggioso e a

Milano sf idasse i cordoni e i moschet t i dei carabinieri. Mancò come ‘capo’,

perché non era t ale, perché, a sua st essa confessione, nel seno della Direzione del Part it o Soc ialist a, non riusc iva neanche ad aver ragione dei

miserabili int righi di Art uro Vella o di Angelica Balabanov. Egli era allora, come

oggi, il t ipo concent rat o del piccolo borghese it aliano, rabbioso, feroce, impast o di t ut t i i det rit i lasc iat i sul suolo nazionale dai vari secoli di

dominazione degli st ranieri e dei pret i: non pot eva essere il capo del

prolet ariat o, divenne il dit t at ore della borghesia, che ama le facce feroc i quando ridivent a borbonica, che spera di vedere nella c lasse operaia lo st esso

t errore che essa sent iva per quel rot eare degli occhi e quel pugno chiuso t eso alla minacc ia. La dit t at ura del prolet ariat o è espansiva, non repressiva.

Le cose si complicano quando si osserva che la base sociale è la st essa. Risalire indiet ro nel t empo rende l’analisi più semplice. Pisist rat o, il ‘t iranno’, e Clist ene, il ‘fondat ore della democrazia’ dopo la cadut a della ‘t irannide’, hanno la st essa base sociale. Ed è solo un t rucco ret or ico fingere che la democrazia abbia scacciat o da At ene i t iranni: il merit o fu dell’ar ist ocrazia spart ana, chiamat a in soccorso dagli Alcmeonidi, cioè dalla famiglia di Clist ene. Il quale sot t o Pisist rat o aveva r icopert o cariche non irr ilevant i. I l fenomeno si è r ipet ut o più volt e, e in grande st ile. È quello che nel ’24, per Gram sci, era diff icile prevedere.

Note

1 I l r ifer im ento è alla previsione m arx ista (e leninista di Stato e r ivoluzione) della estinzione dello

Stato.

2 A. Gram sci, Lettere 1908-1926, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Tor ino 1992, p. 204.

3 I d., Quaderni del carcere, a cura di V. Ger ratana, Einaudi, Tor ino 1975, p. 1619.

capitolo quarto - Cesarism o Cesarismo: soluzione incompiut a, provvisoria, quasi una r inuncia a scegliere, quella adot t at a da Cesare alla fine della sua t raiet t or ia polit ica. Bonapart e si ispira, proclamandosi imperat ore, allo sviluppo della cost it uzione romana dopo Cesare – l’impero appunt o –, ma evit a anch’egli r igorosament e la parola «monarchia». Va olt re Cesare, port a il modello cesariano alle conseguenze est reme, e nondimeno colt iva, da sconfit t o, il m it o di Cesare.

Tra l’alt ro det t ando un’opera let t erar ia, il Précis des guerres de Jules César , che è un po’ una ‘resa dei cont i’ t ra l’imperat ore e il suo archet ipo romano. Una resa dei cont i st or iografica, polit ica, non solo milit are. Bonapart e non si limit a infat t i, come farebbe pensare il t it olo, a r iconsiderare le grandi campagne milit ar i del suo grande modello, mescolando gli elogi alle not azioni cr it iche: par la anche della polit ica, del regim e inst aurat o da Cesare. Ed ha una part icolare at t enzione proprio per quel carat t ere di ‘t erza via’ che il cesarismo viene ad assumere t ra regime oligarchico da un lat o e regime popolare dall’alt ro. In part icolare su di un aspet t o Bonapart e si sent e pienament e solidale con le scelt e compiut e da Cesare: nella r icerca di una r icomposizione, di un accordo, con la nobilt à che lo aveva avversat o. A quest o proposit o, anzi, il Bonapart e si spinge fino a una formulazione che sembra ant icipare la m ichelsiana «ferrea legge dell’oligarchia»: «Nei popoli e nelle r ivoluzioni l’ar ist ocrazia esist e sempre: eliminat ela nella nobilt à, ed eccola r ispunt are nelle casat e r icche e pot ent i del Terzo St at o; eliminat ela anche qui ed essa sussist e nell’ar ist ocrazia operaia»1 . In quest e r ighe vi è – t ra l’alt ro – un r ifer iment o abbast anza chiaro a quelle pagine dei Com m ent ar ii della guerra civile in cui si par la della repressione molt o dura che Ant onio, m agist er equit um di Cesare, esercit a cont ro i mot i mirant i alla cancellazione dei debit i, esplosi in It alia quando la sconfit t a pompeiana sembrava ormai assodat a.

Non deve perciò sorprendere che Alphonse de Beaucham p (1767- 1832), il quale part it o giacobino t erminò la sua carr iera scrivendo le m em orie che Fouché fece circolare sot t o il proprio nome, abbia diffuso nel 1823, dunque poco dopo la mort e del Bonapart e (5 maggio 1821), una Vie de Jules César che è, almeno nelle premesse, una st or ia a chiave avent e di mira anche Bonapart e.

I l fat t o che Bonapart e abbia cercat o di dar vit a a una forma di pot ere car ismat ico- milit are di cui Cesare era st at o una font e di ispirazione ha aiut at o a comprendere che quella cesariana non era st at a sic et sim plicit er una monarchia. Bonapart e legge quella remot a esperienza, ne cava dei t rat t i fondant i e peculiar i, e cost ruisce un modello – il bonapart ismo appunt o – che i cont emporanei ben videro quant o fosse diverso dalle

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«salut aires et prot ect r ices m onarchies m odernes», per dir la con Alphonse de Beauchamp.

Invece, per i cet i dir igent i della Roma t ardorepubblicana ( i quali pensarono di chiudere la part it a col ‘t irannicidio’ delle Idi di marzo), l’esperiment o cesariano non pot eva che collocarsi sul versant e cost it uzionale, a Roma sommament e illegale, della m onarchia. Con in più i t rat t i dell’usurpazione, e dunque della ‘t irannide’. Se regnum , e soprat t ut t o l’aspirarvi, a Roma è un cr imine, un at t ent at o alla cost it uzione, la t irannide è la nozione più vicina per chi voglia far r icorso alla t radizione greca di pensiero polit ico. Re- usurpat ore e t iranno finiscono per coincidere e sono, dal punt o di vist a dei cet i dir igent i romani, ent rambi compresent i nella figura di Cesare e nel t ipo di pot ere da lui inst aurat o con la dit t at ura a vit a. Non è superfluo aggiungere, a quest o proposit o, che anche il t iranno , pr ima di divent are l’ant it esi, l’oppost o, della polit eía e quindi della democrazia, era st at o il mediat ore (filo- popolare) nei conflit t i senza sbocco della Grecia del VI secolo a.C.

Quant o sbilanciat o in senso monarchico – e perciò insost enibile – apparisse l’esperiment o cesariano r isult a chiarament e dalla già r icordat a presa di dist anze da part e di Ot t aviano. Egli realizzò un capolavoro polit ico nel moment o in cui, e sia pure a prezzo di un conflit t o molt o lungo cont ro Ant onio ( invaghit o del modello ellenist ico), r iuscì al t empo st esso a guadagnare il cont rollo e l’appoggio delle legioni e della pars cesariana e però anche a st abilire una forma di pot ere present abile come «rest aurazione della repubblica».

Del rest o, semplif icando e t ogliendo all’esperiment o cesariano il carat t ere peculiare di ‘t erza via’ bonapart ist a, non classificherà Eduard Meyer , in uno dei suoi libr i più celebri (Caesars Monarchie und das Prinzipat des Pom peius) , quella di Cesare come m onarchia e il modo di essere di Pompeo «in re publica» come principat o e dunque come ant icipazione del t ipo di governo invent at o da August o?

Eduard Meyer scr iveva quel suo libro nel 1917 (e lo pubblicava nel ’18), ment re nella Russia, r ivoluzionat a dalla guerra e dal succedersi dei sussult i, si veniva affermando il pot ere personale di Lenin (un ‘bonapart ismo di sinist ra’ di cui, qualche anno dopo, Meyer si dichiarò ammirat ore, nel saggio Das neue Russland2 ) , e pochi anni pr ima che in It alia si affermasse, a front e dell’impot enza dei r ivoluzionari a «fare come in Russia» e dello St at o borghese a «schiacciare la r ivoluzione», un ‘bonapart ismo di dest ra’: la dit t at ura di Mussolini.

Riflet t endo in carcere sulla sconfit t a subit a dalla ‘r ivoluzione’ in It alia e, in modo quasi t rasparent e, sulle forme dit t at or iali che il pot ere bolscevico aveva assunt o in Urss, Ant onio Gramsci approdava alla dist inzione t ra cesarismo progressivo (Cesare e Napoleone I) e cesarismo regressivo (Napoleone III e Bismarck).

Quest a dist inzione è quant o si voglia discut ibile, ma a proposit o di essa non va mai perso di vist a che la premessa, immediat ament e precedent e t ale dist inzione e comune a ent rambi, è che, secondo la felice definizione di Gramsci, «il cesarismo esprime sempre la soluzione arbit rale, affidat a a una grande personalit à, di una sit uazione carat t er izzat a da un equilibr io di forze a prospet t iva cat ast rofica»; e subit o pr ima: «il cesarismo esprime una sit uazione in cui le forze in lot t a si equilibrano in modo cat ast rofico, cioè in modo che la cont inuazione della lot t a non può concludersi che con la dist ruzione reciproca»3 . «Si t rat t a di vedere – prosegue Gramsci – se nella dialet t ica r ivoluzione/ rest aurazione è l’element o r ivoluzione o quello rest aurazione che prevale, poiché è cert o che nel moviment o st or ico non si t orna mai indiet ro e non esist ono rest aurazioni ‘in t ot o’»4 .

È proprio Cesare il personaggio int orno al quale quest i schemi si int recciano. Può essere curioso osservare l’ent usiasmo con cui Marx parla di Cesare in una assai not a let t era a Engels, scr it t a nei mesi in cui Marx cert ament e legge (come si r icava da alt re let t ere) la Röm ische Geschicht e di Mommsen. È la let t era del 27 febbraio 1861, più not a per il giudizio – t ant e volt e r icordat o – su Spart aco («grosser General, kein Garibaldi! ») e su Appiano, lo st or ico greco- egizio di Alessandria. Nel seguit o di quella let t era Marx most ra molt o enfat icament e di apprezzare la spericolat ezza m ilit are di Cesare, prova dell’indiscussa sua superior it à sugli avversari: «Pompeo un vero mammalucco [ Scheisskerl] salit o in falsa r isonanza come young m an di Silla [ ...] un disgraziat o non appena deve misurarsi con Cesare. Cesare fece i più grossolani error i milit ar i a bella post a, da insensat o, per far perdere la bussola al f ilist eo che gli st ava di front e. Un comune generale romano, diciamo Crasso, lo avrebbe annient at o sei volt e durant e la lot t a in Epiro»5 .

Spira in quest a pagina una simpat ica esalt azione filocesariana che va olt re lo st esso t ono ammirat ivo del Bonapart e. I l quale almeno su quest o t erreno non esit a t alvolt a a denunciare gli error i t at t ici commessi da Cesare soprat t ut t o nella guerra civile. E t ra quest i spicca, per l’appunt o, l’azzardat a condot t a in Epiro: «Cesare a Durazzo compì manovre est remament e t emerarie – scr ive in proposit o Bonapart e –, di cui fu punit o»6 .

L’ent usiasmo di Mommsen per Cesare è ben not o e non è qui il caso di r icordarlo se non di passat a, e per met t ere in r ilievo come esso coesist a, in Mommsen, con la sua form a m ent is liberale (soprat t ut t o nel t empo in cui scr iveva la Röm ische Geschicht e) . Che la let t ura della St oria di Mommsen abbia influenzat o Marx è anche possibile, ma c’è sicurament e dell’alt ro in quell’apprezzament o ent usiast ico – che Marx manifest a – per la st at ura e la spregiudicat ezza di Cesare: un rapport o senza complessi con la ‘dit t at ura’.

Anche i t ent at ivi di scr ivere la st or ia di Roma da un punt o di vist a marx ist a hanno dovut o fare i cont i con Cesare, e non di rado gli hanno at t r ibuit o il ruolo st or ico di aver apert o una nuova epoca ponendo fine alle cont raddizioni

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insost enibili della cit t à- St at o oligarchica non più in grado di dir igere un così grande impero. Il più ampio ed equilibrat o sforzo di comprensione in t al senso è st at o quello compiut o da Francesco De Mart ino, nel t erzo t omo della St oria della cost it uzione rom ana. Rest a comunque anche per De Mart ino assodat o che cont ro Cesare si ergeva «una classe polit ica, la nobilt à senat or ia, divenut a incapace di assicurare la ret t a direzione dello St at o, decisa solt ant o a non r inunciare ad alcuno dei suoi pr ivilegi»7 .

I l r ichiamo a Cesare r icorre in scr it t i di esponent i del comunismo it aliano (Gramsci, Togliat t i) , non francese o russo. Analogament e Cesare è ben present e, con alt i e bassi, nell’ideologia e nel linguaggio del fascismo it aliano, non però di quello t edesco, e nemmeno di quello spagnolo (che semmai celebra, con qualche r it ardo, e solo per compiacere Mussolini, il bimillenario august eo).

Un esempio int eressant e è cost it uit o dalla t ot ale assenza del nome di Cesare nei sei r icchissimi volumi delle Opere scelt e (ampia selezione) di Lenin st ampat i a Mosca in t ut t e le pr incipali lingue del mondo. Il nome di Cesare figura unicament e in un est rat t o dalle Lezioni sulla filosofia della st or ia di Hegel (compilat o da Lenin nella pr ima met à del 1915). Qui, come nel rest ant e cont est o, si t rat t a di parole di Hegel inframezzat e da r iassunt i di Lenin. Eccole:

«Egli (Cesare) ha assopit o l’et erna cont raddizione (sopprimendo la repubblica che era già un’‘ombra’) e ne ha suscit at a una nuova»8 . Le parole in parent esi sono di Lenin e r iassumono il più ampio cont est o hegeliano. Sul margine Lenin si limit a a cavare quest o succo dalla let t ura: «Hegel e la cont raddizione», ma nulla che r iguardi Cesare. La ragione di quest a assenza è chiara: per gli uomini del XX secolo il cesarismo ha ormai un alt ro nome, quello di «bonapart ismo» (nelle sue due facce del I e del III Napoleone). E infat t i quando il moviment o comunist a si spacca col drammat ico ‘scisma’ di Trockij , quest ’ult imo accuserà St alin di aspirazioni bonapart ist e, non di ‘cesarismo’.

Invece, nella realt à polit ica e cult urale it aliana di epoca fascist a, c’è un r ilancio di Cesare. Succede infat t i che, present andosi come una r ivoluzione incent rat a però sulla figura dominant e di un capo , il fascismo t rovi ut ile, soprat t ut t o al suo avvio, r icorrere al m odello rappresent at o da Cesare. Cesare è vist o come colui che al meglio coniuga in sé e nella sua azione i due element i: la r ivoluzione cont ro il vecchio ordine e il pot ere personale illimit at o. Nei celebri Colloqui con Emil Ludwig, f init i di st ampare presso Mondadori il 23 giugno 1932, Mussolini esprime, «con t ono cupo e int er iorment e eccit at o» a quant o r ifer isce il suo int ervist at ore, un giudizio ult ra- mommseniano su Cesare: «Cesare, il più grande dopo Crist o fra quant i siano mai vissut i» (var iant e marginale: «il più grande uomo, dopo Crist o, et c.» a significare l’ant i- cr ist ianesimo che di t ant o in t ant o Mussolini lasciava t rapelare).

Quest o giudizio appare nel capit olo int it olat o «Sull’art e» (p. 208 dell’edizione cr it ica9 ) . Nel capit olo «Pericoli della dit t at ura», Mussolini difende, cont ro le obiezioni del suo int ervist at ore, la scelt a cesariana di liquidare fisicament e l’ormai pr igioniero Vercinget or ige (p. 134), ed è sint omat ico come egli abbia qui mut at o le proprie parole ormai in bozze. Aveva det t o che non «si dovrebbe giudicare Cesare dal fat t o che egli ha t ort urat o Vercinget or ige», ma poi ha mut at o di suo pugno «t ort urat o» (che era la pura ver it à) in «incarcerat o»! E ancora nel capit olo «Agire e pensare» (p. 190), a Mussolini che definisce il Cesare di Shakespeare «una grande scuola per i governant i», Ludwig chiede: «Sent e quest o romano come un modello?». Mussolini r if let t e e se la cava così: «Non precisament e, ma t ut t a la prat ica delle vir t ù lat ine mi st a dinanzi [ ...] . I l mat er iale è lo st esso. E là, fuor i, è sempre ancora Roma».

Quest e parole di Mussolini, det t e all’incirca nel decennale della ‘marcia su Roma’, st r idono r ispet t o alla voce Cesare (1931) dell’Enciclopedia it aliana ( IX, pp. 867- 873; la voce è di Mario At t ilio Levi, ebreo fascist a), che culmina – pur nell’ammirazione – nella t esi che Cesare, sognando una monarchia di t ipo ellenist ico, si era messo «cont ro la t radizione e cont ro la St or ia» (p. 872). La voce scr it t a da Levi ir r it ò molt o Mussolini1 0 .

I l 1932 è un anno import ant e per il fascismo. È il ‘decennale’ della marcia su Roma e il regime ot t iene ormai innumerevoli r iconosciment i int ernazionali: dall’Inghilt erra alla Francia, agli Usa, alla Grecia di Met axas. È significat ivo un esempio di t ale prest igio incont rast at o, che fa sì che degli esuli ant ifascist i si abbia per lo più, nell’est ablishm ent europeo e nordamericano, un’idea non proprio favorevole.

Nel novembre 1932 esce a Berlino un fascicolo della «Europäische Review» int erament e dedicat o al decennale del fascismo, e t ra gli alt r i vi f igura un ampio saggio di un alt o esponent e dell’ala sinist ra del part it o radicale francese, Pierre Cot , nel quale i r iconosciment i a Mussolini come «grande uomo di St at o» e «r igenerat ore» del popolo it aliano abbondano pur nel chiar iment o della net t a lont ananza polit ica dell’aut ore r ispet t o al fascismo (p. 744). È perciò significat ivo che nel 1932 escano vari libr i su Cesare. Essi indicano la percezione diffusa che sia legit t imo l’accost ament o t ra esperienza cesariana ( ‘cesarismo’) e fascismo. Il pr imo di t ali libr i, che merit a di essere qui r icordat o, è il Jules César di August e Bailly (1878- 1967, accademico, romanziere e cr it ico let t erar io francese di largo successo), pubblicat o da Fayard e subit o dopo t radot t o in It alia presso Bem porad (Firenze) e corredat o da una lunga prefazione del t radut t ore Giuseppe Morelli (collaborat ore di «Crit ica fascist a»). I l capit olo più significat ivo è il XVI, int it olat o «Un fascismo democrat ico».

Esso è t ut t o cent rat o sul problema di definire il t ipo di pot ere inst aurat o da Cesare: non è la monarchia, non è la t irannide – scr ive Bailly –, per

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int enderlo bisogna far r icorso all’esperienza moderna. «La polit ique m oderne nous perm et de le désigner d’un m ot : c’ét ait un fascism e». Infat t i, prosegue, con Cesare, lo St at o si sot t omet t eva «à l’int elligence et à l’énergie d’un hom m e», e si realizzava ciò che, secondo Bailly, era la carat t er ist ica peculiare del fascismo: «effort d’organisat ion, où ne subsist e du passé que ce qui peut s’aj ust er aux nécessit és présent es», nonché la r inascit a «du sent im ent nat ional après t ant de dissensions et de déchirem ent s» (p. 240). Era, sèguit a Bailly, quello di Cesare un fascismo doppiament e det est at o dall’ar ist ocrazia, perché la pr ivava dei pr ivilegi e perché « lui ét ait im posé par la dém ocrat ie».

I l capit olo non era passat o inosservat o. La parola «democrat ico» dava fast idio al fascismo, era agli ant ipodi della aut orappresent azione del fascismo. Perciò il t radut t ore Morelli dedica olt re set t e pagine delle vent icinque della sua prefazione a dimost rare che quella definizione non va bene. Il t imore era che, facendo r icorso all’immagine di Cesare, si volesse «cercare di cont rapporre un fascismo democrat ico al fascismo senza agget t ivi, creazione pret t ament e it aliana del secolo XX, facendo credere che quest o abbia un carat t ere ant idemocrat ico»1 1 . Furono chiest i a Bailly dei chiar iment i, pr ima che la t raduzione ent rasse in commercio, e Bailly si affret t ò a rassicurare gli It aliani che non era quella la sua int enzione. Del che il t radut t ore gli dà at t o, spiegandogli, con un po’ di saccent er ia, che anche Cesare, come Mussolini, aveva assunt o un pot ere «t ot ale» ( la dit t at ura) per «r icost ruire lo St at o»1 2 ; gli fa anche l’esempio di Garibaldi ( il quale «era per le dit t at ure illimit at issime e non governò se non at t raverso la dit t at ura»1 3 ) ; e conclude:

«Se si volesse parlare di dem ocrazia organizzat a, cent ralizzat a, aut or it ar ia,

che è quella del fasc ismo it aliano secondo la def inizione del suo Capo, allora

pot rebbe qualif icarsi democrat ico anche il fasc ismo di Cesare [ sic ] »1 4 .

Nello st esso anno (1932) l’edit ore milanese Treves-Treccani-Tum m inelli (che poi sarà r ilevat o da Garzant i) pubblicava due biografie: il Caesar di Friedrich Gundolf apparso in Germania nel 1924 ( l’aut ore era mort o nel ’31), nella accurat a e simpat et ica t raduzione di Eugenio Giovannet t i, e lo St alin di Essad Bey (pseudonimo del r icco ebreo- georgiano, fat t osi musulmano, Lev Nussimbaum).

Essad Bey, offrendo in seguit o (1937) a Mussolini quella biografia, chiese al ‘duce’ «l’onore» di pot er scr ivere la biografia di lui. Ma Mussolini lasciò cadere la propost a quando seppe che, nel frat t empo, Nussimbaum, in quant o di or igine ebraica, era st at o viet at o in Germania1 5 .

La biografia di St alin voleva essere molt o ost ile al leader bolscevico, e lo era, ma finiva con l’esalt arne la grandezza polit ica present andolo come il leader onnipot ent e di t ut t a l’Asia pront a a sferrare la ‘r ivoluzione’ in Europa. Invece l’edit ore milanese, nel present are il libro al pubblico it aliano, cerca di at t enuarne l’impost azione manichea e present a St alin come l’art efice di una

immensa t rasformazione («La Russia dei soviet così t raboccant e di anonima forza, così r icca di sacr if icio collet t ivo, così decisa nella sua volont à di st or ia»). In quel t orno di t empo (1932), del rest o, era in at t o un t emporaneo avvicinament o t ra Urss e It alia: venivano avviat i t rat t at i di cooperazione e di amicizia (non aggressione).

Invece r isult a un imbarazzant e falliment o la t raduzione (presso lo st esso Treves) del Caesar di Gundolf. Innanzi t ut t o non è una biografia ma una «st or ia della fama di Cesare», come dichiara il sot t ot it olo. E poi Gundolf pot eva ben piacere al t orment at o e mist icheggiant e Giovannet t i, ma non era l’«aut ore giust o» per il clima polit ico it aliano. Gundolf, allievo predilet t o di St efan George, incarnava un’anima della dest ra t edesca che non int eressava affat t o al fascismo, e che anzi dal nazismo, negli anni seguent i, fu t ot alment e messa da part e. Cert o l’esalt azione, quasi idolat r ica, di Mommsen per Cesare piaceva anche a Gundolf, ma l’accent o non era, nel libro di Gundolf, su Cesare che coniuga «dest ra e sinist ra» ( fascismo democrat ico! ) bensì sul conflit t o Orient e- Occident e. A Gundolf piace il Cesare di Bachofen . Per capire di che si t rat t a può bast are quest o brano:

La missione di Roma è la sot t omissione della nat ura sensualment e mat eriale,

che domina nei cult i orient ali, allo spirit o v irile dell’Occ ident e, con la fondazione dello St at o pat riarcale. Quello che i sensuali Elleni vant avano

compirono i Romani: il cont rollo della nat ura at t raverso l’azione morale,

l’ordinament o spirit ualment e v irile del mondo, la spirit uale v it t oria sull’Orient e. Quello che era incominc iat o nelle guerre greco- persiane, che era

riusc it o fuggevolment e nella marc ia di Alessandro, fu compiut o dalla dist ruzione di Cart agine e di Gerusalemme1 6 .

Quest o ammasso di sciocchezze era in cont rast o coi dat i di fat t o: a cominciare dalla speciale prot ezione accordat a agli Ebrei sia da Alessandro che, soprat t ut t o, da Cesare. Il quale proprio alle t ruppe ebraiche giunt e in suo soccorso nella bat t aglia sul Delt a del Nilo dovet t e la salvezza nella non facile ‘guerra alessandrina’ (48/ 47 a.C.). Per non parlare dell’opzione di Cesare di r idare forza e peso all’Egit t o, ult ima monarchia ellenist ica.

Quel quadro occident alist a bachofeniano-gundolfiano , r ilanciat o maldest rament e da Giovannet t i con la sua t raduzione, si adat t ava semmai a Ot t aviano- August o. Ed è verso t ale modello, infat t i, che convint ament e si or ient erà il regime, con una impercet t ibile ma chiara ‘manovra di spost ament o’ da Cesare ad August o, culminat a nelle pervasive celebrazioni del 1937.

Con la fondazione dell’‘impero’ (maggio 1935) e il bimillenario august eo (1937), il fascismo spost ò net t ament e la sua opzione simbolica sulla figura di August o, il grande st abilizzat ore e vindice dell’I t alia cont ro l’Orient e. Cesare passò più nello sfondo. Ma t ornò di moda – in quant o conquist at ore della Gallia – nel moment o del crescent e cont enzioso con la Francia.

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A guerra appena iniziat a, un int ellet t uale di punt a del fascismo, poi fucilat o a Dongo insieme con Mussolini, Goffredo Coppola, scr ive per la Ut et (Torino) una impegnat iva ma non felice biografia di Cesare nella collana «I grandi it aliani» diret t a dal president e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, Luigi Federzoni. Ma di lì a non molt o la musica cambierà del t ut t o, e col set t embre 1943 il fascismo si r iscoprirà repubblicano, e le icone di Cesare e di August o cederanno il post o a quella di Mazzini.

I l recupero da part e comunist a di Cesare, per esempio nella dist inzione gramsciana t ra cesarismo «negat ivo» e «posit ivo», si spiega non solo con la volont à di sot t rarre Cesare alla appropriazione da part e fascist a, ma soprat t ut t o con una ragione più polit ica. Infat t i anche il moviment o comunist a ha sin dal pr imo suo ingresso sulla scena del XX secolo, con la presa del pot ere in Russia (7 novembre 1917), coniugat o la radicalit à r ivoluzionaria con la fort e dominanza di un ‘capo’, cioè di un pot ere personale.

Per quant o si sia insist it o a post er ior i (soprat t ut t o dopo il XX Congresso del Pcus, febbraio 1956) sul carat t ere ‘collegiale’ della direzione leninist a, di fat t o la predominanza di Lenin fu dal pr imo moment o indiscussa, accet t at a anche da un leader dalla fort e inclinazione ad affermare un suo proprio ‘bonapart ismo’ quale fu Trockij . Insomma la considerazione posit iva del fenomeno ‘Cesare’ da part e comunist a discende da ent rambi quest i fat t or i.

Ment re «bonapart ismo» è parola sgradit a nel lessico comunist a già solo per la cost ant e avversione espressa a suo t empo da Karl Marx per t ale genere di ‘comando’, Cesare, molt o più lont ano nel t empo e capopart e egli st esso a lungo della fazione popular is, divent ava un modello più ut ile. In un appunt o r isalent e al dicembre 1942, ma edit o post umanent e solo nell’agost o 1965, Palmiro Togliat t i – il quale fu per t rent acinque anni il capo r iconosciut o del comunismo it aliano (olt re che leader di prest igio mondiale) – scr ive: «L’uomo più grande della st or ia di Roma, che fu Cesare». Un giudizio che sembra r iprendere alla let t era quello di un alt ro import ant e dir igent e comunist a it aliano, e lat inist a all’Universit à di Padova, Concet t o Marchesi, il cui capit olo su Cesare nella celebre St oria della let t erat ura lat ina (1924) incominciava così: «In Roma nacque nell’anno 100 a.C. Giulio Cesare, l’uomo più grande che l’Urbe abbia dat o al mondo»1 7 .

Ma il giudizio espresso da Togliat t i in quell’appunt o di f ine 1942 non era una mera esplosione di ent usiasmo, nel solco dell’aut orevole libro del più rappresent at ivo t ra gli int ellet t uali comunist i it aliani negli anni del fascismo. Togliat t i approda a quel giudizio nell’ambit o di uno schem a di lezione di st or ia dest inat o a milit ant i it aliani e spagnoli esuli a Mosca, int it olat o Principali falsif icazioni nell’insegnam ent o della st or ia di Rom a nelle scuole fascist e1 8 . In quel cont est o, il ragionament o che Togliat t i svolge ha valore limit at ivo. La creazione – osserva Togliat t i – di un impero con pret esa universalist ica, quale quello alla cui nascit a Cesare diede un grande

cont r ibut o seppellendo la vecchia repubblica oligarchica, ebbe però effet t i negat ivi favorendo il «cosmopolit ismo» delle classi int ellet t uali it aliane (difet t o durat o poi per secoli, secondo Gramsci e secondo Togliat t i) . A quel punt o, osserva Togliat t i, «si pot rebbe dire che l’uomo più grande della st or ia di Roma, che fu Cesare, fu quello che arrecò maggior i danni agli It aliani come nazione». St rana conclusione, che pot rebbe persino racchiudere un’allusione cr it ica verso la scelt a di St alin – georgiano di or igine – di annegare la nazionalit à russa nel più generale quadro dell’Urss. O forse quest a è solo una sot t igliezza int erpret at iva1 9 .

N ote

1 N. Bonapart e , Précis des guerres de Ju les César , cap. XVI , § 1 ; t rad. it . Le guerre di Cesare, a cura d i A. Paradiso, Salerno, Roma 20052, p . 135.

2 I n «Deut sche Rundschau», 52 (1925), n . 205, pp. 101-118.

3 Gramsci, Quadern i del carcere, cit ., p . 1619.

4 I bid.

5 Cart eggio Marx-Engels, I V: 1861-1866 , t rad. it . d i Serg io Romagnoli, Rinascit a , Roma 1951, p . 26.

6 Bonapart e , Précis , cit ., cap. XI , § 4 ; t rad. it . cit ., p . 99.

7 I n AA.VV., Cesare nel bim illenario della m ort e, Ed izion i Radio it a liana, Roma-Torino 1956, p . 194.

8 V.I . Lenin, Opere scelt e, vo l. I I I , Ed it ori Riun it i-Edizion i Progress, Roma-Mosca 1973, p . 567.

9 E. Ludw ig, Colloqui con Mussolin i, Mondadori, Milano 1950.

10 Sull’ep isodio cfr. M. Cagnet t a , Ant ich it à classiche nell’Enciclopedia it aliana, Lat erza, Roma-Bari 1990, pp. 160-174.

11 Prefazione a A. Bailly, Giulio Cesare, t rad. it . d i G. More lli, Bemporad, Firenze 1933, p . XV I .

12 I vi, p . XV I I .

13 I vi, p . XXI .

14 I vi, p . XI X .

15 Si d ispone ormai d i un eccellent e st ud io , su Essad Bey, d i Tom Reiss, The Orient alist . I n search of a m an caught bet ween East and West , Chat t o & W indus, Londra 2005.

16 F. Gundolf, Caesar. St oria della sua fam a, t rad. d i E. Giovannet t i, Treves, Milano 1934, p . 332.

17 C. Marchesi, St oria della let t erat ura lat ina, Principat o, Milano 19364, I , p . 314.

18 Test o, annot at o, in «Quadern i d i st oria», 3 , 1976, pp. 183-195.

19 Per fort una si è conservat o il corpus de i Com m ent arii di Cesare, che per un cert o t empo si t rasmise sot t o il nome d i Svet on io (ms. Amst erdam, Universit e it s Bib lio t heek, nr. 73). I nvece si perse la punt ig liosa Aut obiografia d i August o, che Appiano (I I sec. d .C.) ancora leggeva e met t eva a fru t t o per le sue Guerre civili. Ugualment e si persero le a lt re opere d i Cesare e lencat e da Svet onio (Vit a Caesaris, 56), a lcune delle quali, d i epoca g iovanile , erano st a t e vie t a t e da August o. Sul ‘cesarismo’, anche nei suoi inest ricab ili rapport i co l ‘bonapart ismo’, orient ano g li st ud i d i I . Cerve lli, raccolt i ne i due vo lumi: Rivoluzione e cesarism o nell’Ot t ocent o, Aragno, Torino 2003.

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capitolo quinto - I l po tere de l t i ranno

È produt t ivo il t irannicidio? La st or ia è cost ellat a di t irannicidi ‘inut ili’, ma forse non ha senso t ent are di t rarre una regola generale. E lasciamo da part e la quest ione più delicat a: quant o sia sogget t iva la definizione di ‘t iranno’. E l’alt ra st ret t ament e connessa: se l’eliminazione di una sola persona ( il ‘t iranno’ appunt o) r isolva il problema, o, per dir la in modo più sofist icat o, int errompa davvero il processo st or ico e polit ico al cui cent ro si t rova il ‘t iranno’. Ove r iuscit o, l’at t ent at o cont ro Hit ler del luglio 1944 avrebbe port at o alla fine immediat a della guerra o addir it t ura alla fine del regime nazist a? Sarei incline a dubit are di una t ale event ualit à. I l cosiddet t o ‘t iranno’ non è mai unico reggit ore (Alleinherrscher) , st a al cent ro di un sist ema di pot ere e di consenso. Eliminare lui non significa necessariament e spezzare t ale sist ema, e t alvolt a anzi significa rafforzar lo. I l fat t o st esso che alcuni ‘t iranni’ organizzino cont ro sé medesimi fint i at t ent at i provocat or i dovrebbe far r if let t ere. È il caso, a quant o pare, dell’at t ent at o Zamboni cont ro Mussolini (ot t obre 1926) che servì da pret est o per il varo e la immediat a applicazione delle «leggi eccezionali».

C’è poi un alt ro aspet t o della quest ione, che non va perso di vist a: e cioè il perdurare in vigore, nella sost anza, degli at t i di governo del polit ico violent ement e liquidat o col pret est o di una sua t irannide o aspirazione alla t irannide. Quegli at t i r ispondevano infat t i a int eressi di cet o di una part e sociale decisiva: eliminat o il loro art efice, si ergono a difesa dei suoi at t i quei gruppi sociali, magari influent i, che lo sorressero, e che non esit eranno a unirsi alla demonizzazione post uma purché sia salva la sost anza. Si può port are l’esempio di Gaio Gracco (123 a.C.). Sia lui che il suo maggior frat ello Tiberio furono uccisi da esponent i part icolarment e faziosi del Senat o, che r iuscirono a creare una mobilit azione efficace cont ro di loro facendo leva sull’accusa, per l’appunt o, di aspirazione alla t irannide, o al regnum (che, nel linguaggio polit ico romano, ne è sinonimo). Ma l’opera legislat iva di Gaio Gracco sost anzialment e sopravvisse sia sul piano degli ordinament i giudiziar i che della composizione del Senat o. Egli aveva operat o in favore dei cavalier i, e quest i cost it uivano una classe t roppo fort e per consent ire che le conquist e realizzat e grazie a Gaio Gracco andassero perse.

Giungiamo così al t ema, che qui di seguit o t rat t eremo port ando due celebri esempi, dell’at t ent at o o t irannicidio inut ile, quando non cont roproducent e. Gli esempi sono ent rambi t rat t i dall’ant ichit à classica: il pr imo, il cosiddet t o ‘t irannicidio’ di Armodio e Arist ogit one (514 a.C.), che cost it uisce una delle pagine più confuse e cont roverse della st or ia at eniese, e il cesaricidio (15 marzo 44 a.C.), compiut o da un pugno di congiurat i convint i che grazie al loro at t o violent o (eliminazione fisica di Giulio Cesare, appena designat o dal Senat o ‘dit t at ore a vit a’) pot esse quasi aut omat icament e r isorgere l’ant ica res publica.

Tra quest i st or ici event i c’è comunque una differenza, che solo la ret or ica può offuscare. L’assassinio di Cesare fu un deliberat o at t o polit ico, che ebbe conseguenze, cert o oppost e a quelle previst e o sperat e da chi lo volle compiere: la r iapert ura di un ciclo, quest a volt a lunghissimo, di guerra civile, sia pure non cont inuat ivament e guerreggiat a. L’uccisione di Ipparco, frat ello del t iranno ‘in car ica’ Ippia e figlio del ‘t iranno’ Pisist rat o (scomparso anni pr ima in un clima di generale consenso), fu invece det erminat a da fat t i pr ivat i e si r isolse immediat ament e in un t ot ale falliment o. Ecco un mot ivo in più per non perdere di vist a il carat t ere arbit rar io della definizione.

Thomas Hobbes sost eneva, non a t ort o, che t ra re e t iranno la differenza è dovut a solt ant o al punt o di vist a dell’osservat ore. Gli uccisori di Cesare, ‘liberat or i’ agli occhi dei loro (non t roppo numerosi) sost enit or i, furono invece perseguit i, e man mano liquidat i, come assassini. La forza vincent e, in quel moment o st or ico, fu quella che port ava in direzione dell’affermarsi del principat us. Armodio e Arist ogit one che si erano mossi per una ‘quest ione d’amore’, per dir la con Tucidide, sono divent at i man mano un simbolo: eroi mort i per la libert à. E ciò per la semplice ragione che la democrazia at eniese ha avut o bisogno, per legit t imarsi, di fare della ‘t irannide’ la propria ant it esi negat iva e di creare, all’int erno di t ale mit o, degli eroi fondat or i.

«La massa popolare, ad At ene, crede che Ipparco fosse t iranno quando fu ucciso da Armodio e Arist ogit one. E non sanno che il t iranno era Ippia, perché era lui il maggiore t ra i f igli di Pisist rat o»1 . Così, con r igore ‘revisionist ico’, lo st or ico Tucidide disfa un mit o fondat ore della ret or ica democrat ica at eniese.

I l mit o era all’incirca quest o. Nell’anno 514 a.C. il t iranno – Ipparco – era st at o ucciso in seguit o a un at t ent at o ordit o da due eroici t emperament i, Armodio e Arist ogit one; i due però erano st at i cat t urat i e messi a mort e; comunque, poco dopo, la t irannide, passat a nelle mani di Ippia, frat ello di Ipparco, era crollat a (510 a.C.); ed era nat a la democrazia. Dunque la democrazia era nat a e si era affermat a come ant it esi della t irannide.

Quest a favola fondat r ice pot eva però essere messa in cont raddizione con vari dat i di fat t o. La cacciat a di Ippia era st at a realizzat a da un gruppo di ar ist ocrat ici guidat i dagli Alcmeonidi, sorret t i milit arment e dall’esercit o spart ano; e in ver it à Spart a era allora, e fu ancor più in seguit o, lo ‘St at o-guida’ dei sist emi oligarchici, st rut t uralment e avversi alla democrazia; peralt ro Pisist rat o (padre di Ippia e di Ipparco e mort o nel suo let t o nel 527 a.C.) aveva inst aurat o la t irannide proprio appoggiandosi ai cet i popolar i («essendo demagogo [ cioè capo popolare] divenne t iranno» dice Arist ot ele2 ) . E comunque anche l’alcmeonide Clist ene, fut uro «fondat ore della democrazia», aveva r icopert o magist rat ure sot t o Pisist rat o.

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I l fat t o è che, ad At ene, la ‘democrazia’ sorse come regime ideat o e messo in essere da una élit e che «prese il popolo nella sua client ela o, meglio, et ería» (così Erodot o3 ) , e che aveva t ut t o l’int eresse a indicare nel ‘populismo’ dei t iranni l’ant it esi della democrazia. La vulgat a dem ocrat ica narrava una favola insost enibile, ma dot at a di lunghissima vit alit à, vist o che il raccont o medio- basso della vicenda at eniese è r imast o quello.

Gli st or ici sapevano t ut t avia che la dinamica st essa dell’at t ent at o del 514 era st at a t ut t ’alt ra. Erodot o, un paio di volt e, fa preciso r ifer iment o ma senza polemica al dat o di fat t o che confut a alla radice la vulgat a: dice che Ipparco era più giovane di Ippia, e che invece era Ippia il ‘t iranno’. Dice anche che proprio a seguit o dell’uccisione di Ipparco il governo di Ippia si era inasprit o: che dunque il r isult at o dell’at t ent at o era st at o cont roproducent e. Tucidide è molt o più aspro e denuncia sprezzant ement e l’ost inat o pregiudizio appannaggio della ‘massa’.

Non era però unicament e ‘la massa popolare’ ad aliment are la leggenda. Un dialogo plat onico di dubbia aut ent icit à, int it olat o I pparco , comprende un lungo int ervent o r ievocat ivo di Socrat e t ut t o dedicat o alla vicenda di Ipparco, e t ut t o fondat o per l’appunt o sulla premessa che Ipparco fosse il t iranno. L’aut ore del dialogo sost iene una t esi or iginale: che cioè non solo era Ipparco il t iranno ma che era anche amat issimo dal suo popolo, t ra l’alt ro come prot et t ore delle art i, pr imo diffusore dei poemi omerici in At t ica, e così via. Anche Tucidide del rest o insist e sul buongoverno di Pisist rat o e dei suoi. Un’alt ra versione ancora faceva regnare Ippia e Ipparco insieme4 . Così con l’escogit azione di quest a ‘t irannide collegiale’ l’at t ent at o r iprendeva pregnanza polit ica. Ipparco non era più solt ant o «il frat ello del t iranno». Secondo quest a versione c’era st at a anche, preliminarment e, la r inuncia del t erzo figlio di Pisist rat o, Tessalo – uomo saggio –, ad esercit are la t irannide. Nel girare in t ondo di quest e ‘var iazioni sul t ema’ cambiava ogni volt a il più ‘anziano’.

Ma il ‘revisionismo’ t ucidideo, che si basava su document i epigrafici at t est ant i solidament e che il più anziano – e dunque il t iranno – era Ippia, si spinge olt re nello smant ellament o della vulgat a. Al punt o che qualche biografo ant ico insinuava che Tucidide fosse egli st esso imparent at o coi t iranni.

Egli svela i ver i mot ivi dell’at t ent at o. «L’azione di Ar ist ogit one e di Armodio – scr ive – fu int rapresa a causa di una vicenda amorosa»5 . Ipparco s’era invaghit o del giovane Armodio e lo t ent ò, ma il giovane denunciò la cosa al suo amant e ufficiale, Arist ogit one. Quest i, t emendo che Ipparco, per la sua posizione dominant e ( frat ello del t iranno) pot esse comunque finire per sot t rargli l’amat o cominciò «a t ramare l’abbat t iment o della t irannide»6 . Ipparco, respint o, si vendicò umiliando la sorella, vergine, di Armodio, che infat t i fu allont anat a dalla processione cui era st at a in un pr imo moment o invit at a.

I congiurat i at t esero le Grandi Panat enee (fest e in onore di At ena), «unico giorno in cui non dest a sospet t o che i cit t adini part ecipino al cort eo radunandosi in armi»7 . Erano pochissimi, per ovvie ragioni di sicurezza; ma ebbero sent ore di essere st at i t radit i. Infat t i nel giorno della fest a, ment re avanzavano, Armodio, Ar ist ogit one e pochi alt r i congiurat i, col pugnale sot t o la vest e, verso il Ceramico, dove si t rovava Ippia con le sue guardie, videro uno dei congiurat i par lare familiarment e con Ippia. Temet t ero di essere cat t urat i, ma decisero lì, sull’ist ant e, di compiere comunque un gest o. Si imbat t erono in Ipparco, lo aggredirono, lo uccisero. Armodio fu immediat ament e massacrat o sul post o. Ar ist ogit one sfuggì sul moment o alla cat t ura, ma subit o dopo fu preso e ucciso anche lui. Ippia ordinò di arrest are t ut t i coloro che fossero t rovat i con armi indosso. Tucidide comment a: «congiurarono per una fer it a d’amore», e uccisero quasi a casaccio «per lo sconsiderat o ardire provocat o dalla paura»8 .

Quando ormai il sist ema democrat ico- clist enico si era affermat o, si cant ava nei simposi così: «Port erò il pugnale nascost o nel ramo di mirt o, come fecero Armodio e Arist ogit one quando ammazzarono il t iranno e resero At ene democrat ica»9 . Una volt a creat a l’ant it esi t irannide- democrazia, diveniva del t ut t o logico dire e pavent are che gli oligarchi t ramassero per dar vit a a una nuova t irannide. Come ret or ica democrat ica funzionava. Che fosse ret or ica un po’ logora, lo fa capire Arist ofane nella Lisist rat a, messa in scena nel gennaio 411, nel clima in cui davvero st ava mat urando un golpe oligarchico. Nella commedia, lo sciopero sessuale delle donne viene percepit o, dai vecchi at eniesi del coro, come l’avvisaglia di una t rama oligarchica. E cosa dicono quei vecchi, ormai frust rat i dallo sciopero, in una comica scena di ‘vigilanza democrat ica’? «Sent o odore di Ippia, ma... difenderò il mio salar io! » (vv. 618- 632). Dicono «Ippia»: ormai int ercambiabile con Ipparco. Non si va per il sot t ile.

L’archet ipo at eniese di t ut t i i t irannicidi della st or ia occident ale, che è anche il più vulnerabile sul piano della cr it ica st or ica, impone dunque, più che mai, la dist inzione t ra il fat t o– che dimost rò l’inut ilit à del t irannicidio – e la m it ologia che si cost ruisce su di esso. E che può anche essere polit icament e feconda, purché non si diment ichi che è falsa. L’inut ilit à del t irannicidio pot rebbe essere più ampiament e esemplif icat a. Si può persino pensare che, ove r iuscit o, persino l’at t ent at o del luglio 1944 avrebbe forse, dopo una fur iosa resa dei cont i t ra gli eredi, compat t at o e inasprit o il regime. Il problema vero è che il t iranno è una invenzione, una creazione polit ico-let t erar ia. Quando il suo pot ere si dimost ra durevole, si deve realist icament e r iconoscere che il ‘t iranno’ ( t ermine impreciso e iperbolico) è qualcuno che ha dalla sua un pezzo più o meno grande, t alvolt a molt o grande, della societ à. Dunque il problema è di sconfiggerlo polit icament e non di abbat t ere quella singola persona. I l t irannicidio è, a ben vedere, un sot t oprodot t o del ‘cult o della personalit à’, della sproposit at a ipervalut azione di un’unica persona, dalla quale verrebbe o t ut t o il bene o t ut t o il male.

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 29

Cesare soleva dire che «la sua sopravvivenza fisica non era di suo personale int eresse, al cont rar io int eressava soprat t ut t o la repubblica»; «la repubblica – precisava –, se a lui fosse accadut o qualcosa, sarebbe precipit at a in guerre civili di molt o più gravi delle precedent i»1 0 . Cesare era consapevole della non infrequent e presenza dell’at t ent at o nella prat ica polit ica romana: Tiberio Gracco era st at o ucciso in pubblico a sprangat e da gruppi di senat or i inferocit i, e così suo frat ello. E nondimeno, pur sapendo di essere espost o a r ischi nonost ant e la sua lungimirant e clem ent ia, Cesare prese una iniziat iva clamorosa: congedò la efficient issima scort a di soldat i spagnoli che abit ualment e lo prot eggevano. E dopo pochi giorni fu ucciso, a t radiment o, in Senat o. Vent it ré pugnalat e di cui una sola mort ale.

La sera pr ima dell’at t ent at o, a cena presso Marco Lepido – Cesare era t ra gli invit at i – qualcuno port ò la conversazione sul t ema: qual è il genere di mort e prefer ibile? Cesare, int erpellat o, disse: «ad ogni alt ra ne prefer isco una rapida e improvvisa»1 1 . Forse si t rat t ò di un t ort uoso avvert iment o? La not t e fu una not t e di incubi. Calpurnia, sua moglie, sognò che il t et t o della casa si sollevava e che il marit o le veniva assassinat o in grembo ment re le port e della st anza si spalancavano. Cesare sognò di volare in cielo e di st r ingere la mano a Giove. Nel t urbament o conseguent e a una t ale not t e st ava per decidere di r inviare la sedut a in Senat o. Ma Decimo Giunio Brut o Albino, il congiurat o che aveva il compit o di st argli addosso sin dal mat t ino e che godeva della t ot ale fiducia della vit t ima designat a, fece leva sul suo ben not o disprezzo per la superst izione. In t ono laico- scherzoso cominciò a farsi beffe degli indovini. Cesare si lasciò convincere.

Lungo la st rada verso il Senat o – raccont a Plut arco – un greco di nome Art emidoro, amico di amici di Marco Giunio Brut o ( il pezzo più prelibat o della congiura), gli mise t ra mano un libello in cui gli denunciava la congiura, di cui qualcosa era t rapelat o. Ma Cesare lo passò al segret ar io senza nemmeno leggerlo. Int ant o i congiurat i erano già in Senat o. Un t ale si avvicinò a Casca (uno dei congiurat i, quello che doveva colpire per pr imo) e gli sibilò: «Tu ci nascondi il segret o, Casca, ma Brut o mi ha r ivelat o t ut t o», lasciandolo di sasso. Popilio Lenat e si avvicinò a Brut o e a Cassio e disse a bruciapelo: «Prego perché possiat e compiere l’impresa che avet e in ment e. Vi esort o a far prest o. La cosa ormai è r isaput a»1 2 .

Quando Cesare giunse, i vent i e passa congiurat i gli si st r insero int orno fingendo di voler caldeggiare una supplica, ma all’improvviso cominciarono a colpire. Avevano paura. Casca, come d’int esa, colpì per pr imo, ma Cesare, pur fer it o di st r iscio al collo, afferrò il pugnale e lo t enne fermo. Allora – narra Plut arco – cominciarono a ur lare. Cesare si difese come una belva fer it a, f inché Brut o, che forse era figlio suo e di Servilia, sua amant e, lo colpì all’inguine. Allora si coprì per morire compost o, ben sapendo, come lo sapeva anche Socrat e morent e, che la mort e è brut t a da vedersi. Era il 15 marzo del

44 a.C. Quasi nessuno degli assassini – not a Svet onio – gli sopravvisse più di t re anni e nessuno morì nel suo let t o.

La Curia in cui Cesare era st at o ucciso venne murat a e le I di di m arzo proclamat e «giorno del parr icidio». Né fu più lecit o convocare il Senat o in quel giorno. Anni dopo August o prefer iva andare in Senat o con la corazza sot t o la t oga, vist o che nell’oligarchia romana pot eva sempre allignare il t ipo umano del ‘liberat ore’.

A conclusione del suo piccolo libro su Cesare, det t at o a Sant ’Elena al f ido Marchand (gennaio 1819), Napoleone scr ive: «Immolando Cesare, Brut o ha obbedit o ad un pregiudizio educat ivo che aveva appreso nelle scuole greche. Lo assimilò a quegli oscuri t iranni delle cit t à greche che, col favore di qualche int r igant e, usurpavano il pot ere. Non volle vedere che l’aut or it à di Cesare era legit t ima perché necessaria e prot et t r ice, era l’effet t o dell’opinione e della volont à del popolo»1 3 .

Cesare aveva r if iut at o la corona, offert agli forse provocat or iament e da Ant onio durant e i Lupercali pochi giorni pr ima dell’at t ent at o. Sapeva che le parole più invise, nel linguaggio polit ico romano, erano rex e regnum . Non avrebbe mai commesso quell’errore, non sarebbe mai cadut o in una t ale t rappola. Sapeva però anche che i vecchi ordinament i di Roma ‘cit t à- St at o’, t est a di un impero t err it or iale immenso, non erano più all’alt ezza della nuova realt à geografica, amminist rat iva, polit ica. ‘Roma’, ormai anche giur idicament e ed elet t oralment e, coincideva con l’It alia int era, e l’It alia era una piccola part e, ancorché pr ivilegiat a, di un sist ema di province e di esercit i olt re che di st rut t ure amminist rat ive imperiali: dalla Spagna al Nordafr ica ai Balcani alla Mesopot amia.

L’oligarchia dei grandi lat ifondist i che cost it uivano il Senat o, organo per eccellenza basat o sulla coopt azione, era inadeguat a a reggere t ut t o quest o, irret it a com’era nella propria ment alit à di rapina. Cesare non seppe né volle creare nuove st rut t ure del pot ere. Ideò invece un compromesso. Dissot t errò, dilat andone la durat a nel t empo fino a far la illimit at a, la dit t at ura: una magist rat ura ‘a t empo’ previst a dall’ordinament o cost it uzionale romano. Assunse le legioni – che erano, insieme, un esercit o e un cet o (populus del rest o in lat ino vuol dire ent rambe le cose) – come sua ‘base’: soprat t ut t o nella guerra civile, nella quale la legalit à la calpest arono t ut t i, cesariani, cat oniani e pompeiani.

Una volt a ot t enut a la vit t or ia nello scont ro armat o delle fazioni, cercò l’accordo con la maggior part e possibile della vecchia ar ist ocrazia, ma allargò anche enormement e il Senat o port andolo a 900 membri.

Sapeva – come ben scr ive il Bonapart e – che l’ar ist ocrazia si r icost it uisce sempre e comunque:

«Eliminat ela nella nobilt à ed eccola rispunt are nelle casat e più ricche del

Terzo St at o. Eliminat ela anche qui ed essa sussist e nell’arist ocrazia operaia»1 4 .

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 31

Note 1 Tucid ide, I , 20, 2 .

2 Cost it uzione degli At en iesi, 22, 3 .

3 St orie, V, 66.

4 Diodoro Sicu lo , Bibliot eca st orica, X, 17, 1 .

5 Tucid ide, VI , 54, 1 .

6 I vi, 54, 3 .

7 I vi, 56, 2 .

8 I vi, 59, 1 .

9 I bid.

10 Svet onio, Cesare, 86, 2 .

11 I vi, 87, 1 .

12 Plut arco, Brut o, 15, 4 .

13 Bonapart e , Précis , cit ., cap. XVI , § 3 ; t rad. it . cit ., p . 140.

14 I vi, cap. XVI , § 1 ; t rad. it . cit ., p . 135.

capitolo sesto - “Ogn i s ta to è fonda to su l la fo rza ”

«Tut t i e profet i armat i vinsono e li disarmat i ruinorno». È il precet t o capit ale del sest o capit olo del Principe, olt re che epicent ro e caposaldo dell’int ero t rat t at o. Formula assurt a ad archit rave della r if lessione sulla polit ica e in verit à diff icilment e esorcizzabile.

È int enzionale cit azione dal Principe la scelt a di I saac Deut scher di int it olare I l profet a arm at o e I l profet a disarm at o i due volumi della grande biografia di Trockij , dedicat i r ispet t ivament e alla ascesa e cadut a dell’art efice milit are della Rivoluzione d’Ot t obre.

Machiavelli port a l’esempio di un personaggio che suscit a in lui, nonost ant e il r ispet t o, ir refrenabile ironia: «fra’ Ieronimo Savonarola, il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la molt it udine cominciò a non crederli».

Da quel presuppost o scat ur isce una non meno aspra diret t iva specifica: «Conviene essere ordinat o in modo che, quando e’ non credono più, si possa far credere loro per forza». E qui, ovviament e, le cose si complicano. Sulla necessit à della forza come fondament o, non effimero, del pot ere Machiavelli, si sa, t orna più volt e: t ra l’alt ro anche nel molt o ‘esecrat o’ capit olo XVIII, quello in cui r icorre alla figura di Chirone «mezzo best ia e mezzo uomo» e perciò grande maest ro di prìncipi, e dove r iut ilizza anche la vecchia met afora plut archea (adoperat a a proposit o di Lisandro spart ano) della coniugazione di «volpe» e «leone» per chi non voglia cadere, a propria volt a, vit t ima dei «lupi». Ma l’argoment azione è prevalent ement e empir ica, fat t a di esempi.

La formulazione t eorica più st r ingent e della impossibilit à di dividere il pot ere st at ale, pena la sua dist ruzione, è invece in Hobbes, nella ben not a pagina del De cive (cap. VII) sull’indist inguibilit à t ra re e t iranno e sull’arbit r io commesso dai moderni quando cercano di leggere la realt à polit ica at t raverso le simpat ie int ellet t uali degli ant ichi.

Dunque è quest a la t radizione di pensiero in cui si colloca il Gramsci del marzo ’24 – non senza un r ilevant e influsso della cr it ica di mat r ice elit ist ica alle est er ior it à elezionist ico- parlament ar i – quando apre il saggio in mort e di Lenin (Capo) con la secca sent enza: «ogni St at o è dit t at ura». La spiegazione che ne dà subit o nei r ighi seguent i è, sia pure est remizzat a, quella classica della t eor ia elit ist a: al governo non può non esservi «un r ist ret t o numero di uomini». Si può andare più a fondo di quest o afor isma gramsciano («ogni St at o è dit t at ura») con l’aiut o di Max Weber. In apert ura della celebre conferenza su La polit ica com e professione (gennaio 1919), Weber si int erroga sulle possibili definizioni dello St at o.

E dopo aver const at at o che «non è possibile def inire lo St at o in base al

cont enut o del suo agire», conc lude che “ in ult ima analisi si può piut t ost o

def inire soc iologicament e lo St at o moderno solt ant o in base ad uno spec if ico mezzo che appart iene ad esso così come ad ogni alt ro gruppo polit ico: l’uso

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 33

della forza f isica. Ogni St at o è fondat o sulla forza disse a suo t empo Trockij a

Brest - Lit owsk. E in ef fet t i è proprio così.

Se v i fossero unicament e formazioni soc iali in cui l’uso della forza come mezzo fosse ignot o, allora il concet t o di St at o sarebbe scomparso e ad esso

sarebbe subent rat o c iò che, in quest o senso spec if ico della parola, si pot rebbe def inire come anarchia. [ Quindi prec isa: ] Nat uralment e l’uso della

forza non cost it uisce il mezzo normale e nemmeno l’unico di cui disponga lo

St at o – su quest o non v i sono dubbi. Esso rappresent a piut t ost o il suo mezzo spec if ico” 1 .

Negli anni Vent i e Trent a del XX secolo – un’epoca per noi ormai remot issima, consapevoli come siamo che gli St at i sono ormai quint e t eat rali e il pot ere r isiede nel più ‘int ernazionalist a’ dei sogget t i, il capit ale finanziar io sovranazionale –, negli anni dunque del crollo dell’Ancien Régim e, dovut o alla Grande Guerra, e delle r ivoluzioni sociali e ‘nazionali’ che ne scat ur irono e promet t evano un ordine nuovo, il binomio pot ere- forza (ovvero St at o-dit t at ura) è proclamat o e r iconosciut o.

La realist ica diagnosi prospet t at a da Weber sul piano della t eor ia la r it roviamo, t radot t a in empir ia, nella int eressant e conversazione t ra St alin e Rom ain Rolland avvenut a al Cremlino il 28 giugno 19352 .

Rolland domanda perché non vengano svolt i pubblici e regolar i dibat t iment i giudiziar i pr ima della condanna ed esecuzione di coloro che la st ampa soviet ica present a come t error ist i. St alin r isponde port ando l’esempio degli assassini di Kirov, il leader di part it o assassinat o a Leningrado.

Ci è sembrat o – dice – che avremmo fat t o t roppo onore a quest i signori, se avessimo esaminat o i loro at t i delit t uosi in un pubblico processo con la part ecipazione di avvocat i difensori. Ci era not o che, dopo il perfido assassinio di Kirov, i cr iminali t error ist i erano int enzionat i ad at t uare i loro piani efferat i anche nei r iguardi di alt r i dir igent i. Per prevenire quest i misfat t i ci siamo assunt i la spiacevole incombenza di fucilare quest i signori. Quest a è la logica del pot ere. I l pot ere in simili circost anze deve essere fort e, saldo, impavido. Alt r iment i non è pot ere, e non può essere r iconosciut o com e t ale.

La convinzione prevalent e è che l’equilibr io dei pot er i e la prat ica dei ‘cont rappesi’ abbia consent it o al genere umano di lasciarsi alle spalle la durezza hobbesiana e le sue ramificazioni novecent esche.

Forse la si può esprimere in un alt ro modo. Sarebbe infat t i più esat t o affermare che le élit es dominant i non hanno sempre bisogno della ost ent azione e proclamazione della forza come fondament o del loro pot ere. Quando la loro forza è a r iparo da possibili scosse, la dot t r ina dei ‘cont rappesi’ vigoreggia. Quando invece quest o non è, si proclama lo st at o di ‘emergenza’: esempio classico, la sospensione della prat ica elet t orale con t ut t i i suoi corollar i (scont ro t ra i part it i, propaganda, et c.) nonché della ‘libert à di st ampa’ in t empo di guerra. Sia nel pr imo che nel secondo conflit t o mondiale t ale sospensione accomunò t ut t i i paesi in guerra, quale che fosse il loro sist ema polit ico int erno. E anzi emersero, come è giust o, f igure egemoni anche nei paesi a regime liberale, le quali volent ier i e apert ament e assunsero

una gest ione illimit at a del pot ere. In Francia e in Inghilt erra Clem enceau e Lloyd George, nell’aut or it ar ia Germania (pur dot at a di un Parlament o elet t o a suffragio universale) il generale Ludendorff. Churchill e Roosevelt nel secondo conflit t o mondiale dovet t ero replicare la st essa scelt a. Non pot eva essere alt r iment i. Ancora una volt a, la differenza si vide dopo: nella maggiore elast icit à e capacit à di adat t ament o delle élit es occident ali. Le quali si sono finora r ivelat e le più capaci di mut are st ile di comando al mut are dei rapport i di forza, e al venir meno della necessit à di accant onare le est er ior it à e di poggiarsi sulla forza. Un mut ament o – si osserverà – che pot rà un giorno daccapo r ivelarsi t emporaneo (si pensi all’odierno rest r ingiment o, soprat t ut t o in Usa, delle libert à personali in conseguenza della ‘guerra al t error ismo’ che, per giunt a, ci viene det t o essere la probabile guerra del fut uro): ma non per quest o meno import ant e.

Ma c’è anche un alt ro piano di cui t ener cont o. Infat t i i sist emi parlament ar i- elet t ivi, det t i (a prezzo di equivoci molest i) brachilogicament e «democrat ici» ment re sono al più sist emi ‘mist i’, si fondano su di una duplicit à di piani. Essi anzi ne hanno un bisogno vit ale. È una necessit à fondament ale, per t ali sist emi, la est er ior it à o ‘macchina della polit ica’: perché la forza r isiede alt rove ma deve rest are il più possibile ret roscenica; e ciò r iesce meglio soprat t ut t o se la ‘macchina’ che è sulla scena mobilit a al massimo l’at t enzione e le passioni. Nell’alt ro t eat ro, quello meno visibile, e comunque sot t rat t o a ogni cont rollo ‘democrat ico’ ( int endiamo il pot ere economico), la forza è la sola piet ra m iliare. Né si vede come pot rebbe essere alt r iment i. E t ut t o quello che Hobbes scr isse cr it icando l’idea che il pot ere si possa dividere – se non r icorrendo a quella che egli chiama la guerra civile – ha, in r ifer iment o a t ale ret roscenico t eat ro dove si esplica il più aut ent ico pot ere, piena validit à.

Quelli che la sanno molt o lunga (o forse solo si lasciano sopraffare da anacronist ica innocenza t olst oj ana) sollevano, ciclicament e, il dubbio se in realt à davvero esist ano i ‘pot er i fort i’. Riconosciamo volent ier i che ammet t ere la loro indiscret a esist enza può dist urbare l’idillica ret or ica ‘democrat ica’. Probabilment e invece esist ono3 , anche se le loro t rasformazioni avvengono con velocit à pari a quella dei mut ament i della t ecnica e della realt à economica e in rapport o al carat t ere sempre più sovranazionale del pot ere finanziar io. Del quale è diff icile dire che non esist a; o addir it t ura che funzioni come una art icolazione della ‘democrazia parlament are’ ( liberale, grondant e ‘cont rappesi’ et c.) .

Piut t ost o che esorcizzar lo, si può guardare al fenomeno con la olimpica serenit à di Ugo Spir it o, divenut o ormai post - fascist a, nell’Int roduzione alla sua Crit ica della dem ocrazia, là dove, const at at o che «logicament e e st or icament e la maggioranza è sempre diret t a, guidat a, ispirat a da minoranze più int elligent i e at t ive», dedusse – non a t ort o –: «non esist e il regime democrat ico, ma esist ono t ant i t ipi di regimi democrat ici quant i sono i t ipi di minoranze capaci di guidare le maggioranze»4 .

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 35

Ed esemplif icava: democrazie plut ocrat iche, democrazie cler icali, democrazie milit ar i, democrazie sindacalist iche et c. Non pot eva prevederle t ut t e.

A noi è t occat o di vederne una specialissima: nella quale il più fort e dei ret roscenici pot er i fort i si è r ivelat o quello – visibilissimo – che plasma la form a m ent is (e la parola st essa) dei cit t adini. Un pot ere che, nonost ant e si serva di st rument i concret i e t angibili e per il possesso dei quali t alvolt a si versa sangue, è nel suo esplicarsi impalpabile; penet ra dovunque come il gas, e crea (quest o sì! ) ‘l’uomo nuovo’: cioè il suddit o- consumat ore-arrampicat ore frust rat o, invano prot eso a desiderare e a mimare modelli di vit a inarr ivabili, che finiscono col cost it uire la t ot alit à delle sue aspirazioni5 . È lì la forma ‘sublime’, e quasi inaffondabile, di pot ere; ma anche – conviene non diment icar lo – la limit azione massima della parola nell’et à che a t ut t i promet t e il massimo di libert à di parola.

Note

1 M. Weber, La scienza com e professione, La polit ica com e professione, I n t roduzione d i M. Cacciari, Mondadori, Milano 2006, p . 52.

2 Fu pubblicat a, in t raduzione it a liana d i Clara St rada, da l «Corriere de lla Sera» il 18 aprile 1996.

3 Lo rive lò , in t on i t onant i, un quot id iano innocent e de l t empo che fu : «La voce repubblicana» del 18 set t embre 1992. Onore a l merit o .

4 U. Spirit o , Crit ica della dem ocrazia, Sansoni, Firenze 1963, p . 11.

5 Su ciò cfr., p iù o lt re , il cap it o lo o t t avo.

capitolo set t im o - Po tere de l la paro la

Tut t a la civilt à ant ica essendo cost ruit a, persino nelle sue gerarchie, int orno al possesso e all’uso della parola, è ben comprensibile che essa ci abbia lasciat o un corpus imponent e di prat ica e di t eor ia orat or ia. Non è solo t rat t at ist ica t ecnica – la cui cont inuit à nel t empo fino alla fine dell’et à bizant ina e olt re è di per sé molt o significat iva – ma anche della r if lessione sulla forza polit ica, sul pot ere della parola. Tant a part e dei Dialoghi di Plat one t rat t ano di ciò. «Dire le cose opport une» ( léghein t à déont a) è, di per sé, l’at t ivit à polit ica: considerat a appunt o innanzit ut t o come ‘parola’. Di qui il nesso t ra parola e pot ere, sublimat o nella r if lessione di uno st or ico greco di Sicilia (cioè di una ‘culla’ dell’ant ica art e della parola), Diodoro Siculo, secondo cui la parola, logicament e ordinat a e ret or icament e organizzat a, è l’element o che dist ingue ( ‘ovviament e’, i Greci dai barbari) ma soprat t ut t o è lo st rument o che consent e al singolo di prevalere sui m olt i. Dal cont est o appare evident e e indiscut ibile che sia posit ivo il fat t o che l’uno prevalga sui molt i ( i molt i non sono di per sé port at or i di un valore posit ivo! Non hanno ragione in quant o molt i) .

Ma quello che Diodoro non si chiede è com e si produca quella sorprendent e ‘vit t or ia’ dell’uno sui molt i, o meglio rest a sot t int eso – ed è coerent e con quel che Diodoro st a dicendo – che la forza viene dalla t ecnica. E non v’è dubbio che, se il dist acco nel dominio della parola t ra chi par la e chi ascolt a è molt o grande, la possibilit à che i ‘non educat i alla parola’ r imangano soggiogat i è alt issima. La dist anza è dat a da var i fat t or i, ma sicurament e il più fort e è la t ecnica orat or ia. Nella cit t à ant ica, dove il dislivello di alfabet izzazione è enorme t ra cet i alt i e cet i bassi, l’effet t o soggiogament o è massimo.

È quest a la ragione per cui la t radizione st or iografica e biografica ant ica ha serbat o punt ualment e il r icordo di com e parlavano , del t ipo di orat or ia che prat icavano i grandi polit ici: dall’orat or ia ‘da soldat o’ che Cesare, pur raffinat issimo let t erat o, aveva assunt o come sua divisa all’orat or ia avvolgent e, e in or igine addir it t ura t endenzialment e ‘asiana’, del maggiore orat ore della t arda repubblica, Cicerone. Alfonso di Lamart ine, nella sua curiosa biografia di Cesare (accusat a a t ort o, al t empo suo, di voler preparare il t erreno, in Francia, «ad un moderno Cesare») dedica un’int era pagina agli effet t i, su Cesare apprendist a orat ore, dell’insegnament o di Molone, sommo maest ro rodiese già maest ro di Cicerone:

Imparò [ . . . ] l’ordine del discorso, la regolarit à dello st ile, la scelt a e la

sobriet à delle immagini, la variet à e la disposizione degli argoment i, le commozioni ed i mov iment i dell’animo, la forza e l’ardore sempre crescent e

collo svolgersi dell’orazione, le perorazioni nodo delle arringhe, che riunisce

le sparse f ila del ragionament o e st ret t ament e le serra e lega, at t orno alle conv inzioni dell’orat ore, e per cui si t ien dest a l’at t enzione degli udit ori; ed

inf ine l’at t eggiament o, il t ono della voce, il gest o, lo sguardo, quest a sublime eloquenza del volt o, compiment o e perfezione di quella dell’animo, t ut t o v i

apprese1 .

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 37

Tut t e quest e r isorse avevano peso. Chi non ne disponeva le comprava. Filippo di Macedonia comprava bravi ret or i greci, i quali andavano in giro per le cit t à a preparare il t erreno all’azione polit ica (o milit are) del sovrano che rappresent ò per Demost ene un incubo. Del rest o, t rovandosi a parlare al suo cospet t o, Demost ene balbet t ò, come r icordava perfidament e Eschine, l’ant agonist a, saldament e schierat o con i Macedoni. (E lo st esso Cicerone t rovandosi a difendere Milone incr iminat o per l’uccisione di Clodio, par lando in una sit uazione ambient ale sfavorevolissima, fu fiacco pur avendo elaborat o una difesa formidabile del suo assist it o; il quale gli disse che, se lui l’avesse pronunciat a come l’aveva poi messa per iscr it t o, «non si sarebbe r it rovat o esule a Marsiglia a mangiar t r iglie»)2 . Demost ene sapeva benissimo che l’orat or ia non bast a, che la ‘ragione’ senza la forza non port a lont ano, e aveva cercat o di creare una coalizione ant imacedone facent e perno sull’inedit a alleanza Tebe- At ene. Ma perse t ut t o sul campo di bat t aglia. Onde uno spir it oso e realpolit ico com pagno di part it o ( forse lo st esso nipot e Democare, che si diede da fare, anni dopo la sconfit t a, per r ilanciare il ‘cult o’ di Demost ene) fece incidere sulla st at ua, che finalment e gli At eniesi eressero per il defunt o st at ist a, un epigramma icast ico: «Demost ene! Se t u avessi avut o forza [槽┰┢┝] par i alla preparazione int ellet t uale [┛┣┰┢┝] , mai l’Ares macedone sarebbe r iuscit o a sot t omet t ere i Greci»3 .

Un erudit o di alcuni secoli successivo credeva di sapere che quelle parole le avesse scr it t e Demost ene st esso pr ima di suicidarsi, qualche at t imo pr ima di essere raggiunt o dai sicar i macedoni incaricat i di ucciderlo. Ma probabilment e è una leggenda (chi mai avrebbe conservat o quella t avolet t a cerat a vergat a dal coraggioso suicida?). Una t radizione di segno oppost o pret endeva che in quella t avolet t a cerat a, chiest a da Demost ene in lim ine m ort is, lo st at ist a avesse scr it t o le pr ime parole di una let t era ad Ant ipat ro, il capo macedone che lo voleva ormai mort o (meno generoso del defunt o Alessandro). Versione dei fat t i alt ret t ant o inverif icabile. In un caso come nell’alt ro il t rat t o dominant e della personalit à di Demost ene viene fuori: il calcolo del rapport o ragione- forza (ovvero parola- pot ere). Se fosse vera la pr ima leggenda saremmo di front e a una aut ocr it ica lucida dell’orat ore port at o a fare, nel moment o del suicidio, un bilancio in t ermini appunt o di misura delle forze della sua più che t rent ennale carr iera polit ica. Se fosse vera l’alt ra leggenda saremmo di front e a un est remo t ent at ivo di Demost ene di fare com unque polit ica, di apr ire una qualche forma di ‘t rat t at iva’ col vincit ore. E a t ale passo pot eva indurlo la considerazione di essere r iuscit o, negli anni precedent i, e sia pure grazie a fat t or i imprevist i, a sopravvivere sia a Filippo che ad Alessandro. Ma Ant ipat ro non aveva né la grande e lucifer ina int elligenza di Filippo, né la megalomane e int ermit t ent e magnanimit à di Alessandro. E l’ult imo calcolo che Demost ene pot é fare in quegli ist ant i f inali fu che l’unica mossa che gli rest ava nell’int erminabile part it a a scacchi con la Macedonia era il suicidio. Almeno in vist a di una creazione, un domani, di un ‘mit o’ di Demost ene ‘mart ire della libert à’, come infat t i accadde.

Demost ene era, insomma, il pr imo a sapere che quell’unico fat t ore, o ‘arma’, che egli aveva saput o brandire così bene – come st at ist a conquist ando progressivament e l’egemonia polit ica in At ene, e come diplomat ico cost it uendo una coalizione quasi senza precedent i – non bast a. Dat a l’enormit à della part it a ingaggiat a nel ‘grande gioco’ t ra regno di Macedonia e impero persiano, quello che avrebbe fat t o «squilibrare la bilancia in un senso o nell’alt ro» (per usare una immagine che gli At eniesi get t ano in faccia ai Meli, impegnat i a dimost rare agli invasori at eniesi una t esi impossibile)4 erano le falangi e la moderna t ecnica bellica. Egli lo sapeva bene. Non si fa mai caso a una part e del suo discorso più famoso, la cosiddet t a Terza Filippica, dove Demost ene svolge una sint esi st or ica dello sviluppo della t ecnica milit are, e proclama lucidament e che, di t ut t i gli aspet t i del progresso, quello della t ecnica milit are si è r ivelat o, negli ult imi decenni, il più imponent e (§ 47). Egli non era solt ant o il grande ed efficace ragionat ore capace come pochi di «serrare e legare nella perorat io le fila del ragionament o» per port are gli ascolt at or i all’assenso (per dir la con Lamart ine5 ) : era anche lo spericolat o e disinvolt o polit ico che at t ingeva per comprare il consenso dei Greci alle casse dei sat rapi persiani e, perché no, del ‘t radit ore’ Arpalo, t ransfuga dalla rocambolesca cort e it inerant e di Alessandro in Asia. Ed era soprat t ut t o capace di non disprezzare la domanda, che da ult imo viene considerat a con alt ezzosa sufficienza, «quant e divisioni ha il papa?»6 .

Neanche dent ro il cerchio r ist ret t o della pólis bast a quell’unico fat t ore. Fat t or i imprescindibili, anche in una societ à sost anzialment e arcaica come la pólis, sono per lo meno l’appart enenza a un cet o fort e e la capacit à di un gruppo polit ico di condizionare, se non addir it t ura manipolare, l’assemblea decisionale. E c’è poi la lot t a per affermarsi all’int erno del gruppo polit ico nel quale si è scelt o di proporsi alla cit t à. Anche per i miglior i orat or i, l’apparizione alla t r ibuna non avviene da subit o, dal pr imo moment o: bisogna scalare var i gradini all’int erno del gruppo di pot ere (qualcosa di analogo alla moderna, così fast idiosa, carr iera all’int erno di un part it o) pr ima di assumere quel ruolo pr imario che consent e di dir igere la cit t à. E se l’ascesa è st at a t roppo rapida non manca la punt uale malignazione: onde ad esempio su Pericle fu divulgat a la leggenda che proprio lui avesse fat t o uccidere il leader – Efialt e – nella cui orbit a aveva int rapreso i suoi pr imi passi in polit ica7 .

Del modo in cui Pericle parlava, gli ant ichi si erano molt o int eressat i. Quando Tucidide, suo ammirat ore, ne t raccia un profilo8 , buona part e di quello che dice per spiegarne il car isma e il durevole pr imat o r iguarda appunt o com e Pericle parlava all’assemblea. E molt issimo t empo dopo, il massimo biografo dell’ant ichit à, e forse di ogni t empo, Plut arco – adoperando font i d’epoca che non abbiamo più – ci fa sapere che uno dei r it rovat i di Pericle, ormai leader indiscusso, era di par lare all’assemblea molt o di rado; di modo che la forza di quelle apparizioni fosse ancora maggiore. Alt r i sapevano che faceva l’effet t o di Zeus t onant e. I l che fa pensare a un volut o effet t o di ‘int imidazione’ nei confront i dell’assemblea, in accordo con quello che

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insist ent ement e Tucidide dice sul modo asprament e pedagogico scelt o da Pericle per dominare l’assemblea.

Tucidide int ende che solo giunt o al vert ice del pot ere Pericle aveva quest a forza che gli consent iva di porsi come educat ore e non come demagogo compiacent e. Ma non t rascura di porsi la domanda sull’origine del pot ere conseguit o da Pericle: come era giunt o a «pot er t enere a freno la massa senza esserne condizionat o»? La sua r ispost a è duplice: da un lat o Pericle pot eva cont are sul «prest igio sociale» (刃┤┟┰┢gk┟) (cioè sulla forza rappresent at a dal gruppo familiare cui appart eneva) e sulla sua «capacit à e preparazione int ellet t uale» (┛┣┰┢素) , dall’alt ro c’era il suo essere «palesement e incorrut t ibile» (┩雌┝┢┕k┫┣ h┟glg┣蒼┧ ┕h┫雌┮kgk┥┧ ┛i┣┮┢i┣┥┧)9 . «Incorrut t ibile» e inolt re «not or iament e e palesement e t ale». In quest e parole c’è di sicuro un element o apologet ico vist o che il pr incipale art efice della polit ica periclea di lavori pubblici, cioè Fidia, fu addir it t ura port at o in t r ibunale con l’accusa di aver sot t rat t o part e dell’oro dest inat o alla st at ua di At ena piazzat a nel Part enone, edificio simbolo del pot ere pericleo1 0 .

Ma qui int eressa di meno st abilire se le accuse fossero vere o st rument ali: qualcosa di sospet t o in t ut t a quella gigant esca ondat a di lavori pubblici ci doveva essere se il grande poet a comico Crat ino, a un cert o punt o, dalla scena lanciò l’accusa di int enzionale immobilit à dei lavori («a parole, da t empo, Pericle [ li] promuove, ma in prat ica nemmeno si muove! »1 1 ) . Qui int eressa il vibrant e t ono di Tucidide che int ende, con la consuet a faziosit à, lasciare ai post er i un’alt ra immagine di Pericle: quella del polit ico che è libero da condizionament i e che per quest o non esit a a parlare cont rocorrent e, e che dunque «non era guidat o dalla massa, ma piut t ost o era lui che la guidava»1 2 . Anche su quest o punt o cruciale, una t radizione ben diversa, not a a Plat one e da lui valor izzat a, par lava di Pericle come del grande demagogo e perciò «corrut t ore» del popolo1 3 . Fest e e lavori pubblici erano il grande st rument o di consenso: salar io per impegni di lavoro int erminabili (vedi la prot est a- denuncia di Crat ino) e cibo più r icco del solit o grazie alle fest e.

Un disist imat ore del modello at eniese di non molt o successivo a Pericle ( l’aut ore della Cost it uzione degli At eniesi) osserva maliziosament e che At ene ha il pr imat o di giorni fest ivi e di celebrazioni fest ive r ispet t o a t ut t a la Grecia. E fest e vuol dire animali sacr if icat i agli dèi, cioè carne grat is per il popolo. In una societ à arcaica (e not or iament e povera) anche quest a è una r isorsa polit ica di pr ima grandezza.

Insomma il consenso non era ‘comprat o’, ma ot t enut o con st rument i che comport avano anche una evident e ut ilit à sociale. È su quest o solido presuppost o di consenso che Pericle ha cost ruit o un predominio ot t enut o at t raverso la regolare sua elezione a st rat ego, r ipet ut asi con una t ale cont inuit à da suggerire a Tucidide l’idea di princeps e agli avversari l’ombra sempre t error izzant e del ‘t iranno’. Tut t o il rest o, che a Tucidide appare la qualit à pr imaria, viene di conseguenza: la parola cont rocorrent e, il saper affront are il calo di popolar it à, «guidare, piut t ost o che farsi t rascinare».

Nel secolo seguent e, Demost ene, che pur vuole proporsi come nuovo Pericle, e parla come lui, e grazie alla at t ent a frequent azione dei libr i di Tucidide, imit a quella sua orat or ia pedagogica, sa che ormai la corruzione è amat a, non più t rascinat a in t r ibunale. «Se uno ammet t e senza mezzi t ermini di rubare, il popolo r ide compiaciut o»1 4 . I l polit ico corrot t o, e perciò r icco, e perciò pot ent e, suscit a ammirazione e la voglia di imit ar lo, di fare come lui, per divent are, magari, come lui. Cominciava a non essere più t ant o indispensabile la parola vincent e, quella che port a all’assenso ‘i molt i’.

Di quest a st or ia del pot ere della parola abbiamo t rat t eggiat o, e molt o sommariament e, non più che l’inizio : il segment o iniziale.

Di quel che accadde poi non si può che far cenno. A lungo la lot t a int orno alla parola ebbe come post a in gioco se a parlare dovesse essere uno solo o alcuni o molt i. Fu una st or ia di lunghi monologhi int errot t i da esplosioni orat or ie di st ampo ant ico, come si sa seguit e da drast ici rest r ingiment i (dall’orat or ia delle assemblee parigine di f ine Set t ecent o al monologo dell’imperat ore e dei suoi cort igiani) .

Ma ormai la parola pubblica è mort a, sost it uit a da un pot ent issimo elet t rodomest ico. Chi lo possiede – per dir la con De Gasperi – «vince le elezioni».

Note

1 A. Lamart ine, Giulio Cesare, t rad. it . d i Pier Fe lice Balduzzi, Socie t à ed it r ice it a liana, Torino 1857, p . 31.

2 Dione Cassio, St oria di Rom a, XL, 54, 3 .

3 Pseudo-Plut arco, Vit e dei dieci orat ori, 847A.

4 Tucid ide, V, 103.

5 Giulio Cesare, cit ., p . 31.

6 Domanda che non deve affa t t o sot t in t endere la rispost a negat iva, se è vero che la cadut a de ll’Urss è incomincia t a con Solidarnos´ c´ , la cu i vit t oria fu il fru t t o de lla co llaborazione egregiament e orchest rat a Reagan-Woj ty¢a. Cfr. C. Bernst e in , M. Polit i, Sua Sant it à. Giovanni Paolo I I e la st oria segret a del nost ro t em po, Rizzo li, Milano 1996.

7 I para lle li modern i in quest o caso si sprecano.

8 Tucid ide, I I , 65.

9 I vi, 65, 8 .

10 Su t u t t o ciò Plu t arco, Pericle, 13.

11 Fr. 300 Kock = 326 Kassel-Aust in .

12 Tucid ide, I I , 65, 8 .

13 Plat one, Gorgia, 515E.

14 Demost ene, Terza Filippica, 39.

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 41

capitolo ot tavo - I l «p op o lo p ro fon d o»

È una formula piut t ost o cur iosa ma int eressant e. I l cont est o complet o in cui f igurava, quando mi è accadut o di ascolt ar la, è il seguent e: se vot assero solo i cit t adini che sono anche let t or i di giornali, il Part it o democrat ico avrebbe il maggior successo; la quest ione seria è, invece, conquist are il «popolo profondo»1 .

È curioso come la qualif ica di «let t or i di giornali» cambi peso col t empo. Nella int roduzione all’edizione Pomba (1849) del Dizionario polit ico del Pagnerre2 , i prefat or i it aliani decant ano il pregio dell’opera con l’argoment o seguent e: «In quest i per iodi, che più o meno si prolungano secondo la veemenza delle scosse che t ravagliano il suolo polit ico, l’universal della gent e chiude o r iget t a i libr i, e ad alt ra let t ura non at t ende che a quella delle gazzet t e o degli opuscoli che r igirano int orno ai casi della giornat a». Se poi si considera che, per il Trist ano di Leopardi (cioè per Leopardi st esso), è segno di declino il vigoreggiare di «enciclopedie port at ili3 , manuali e le t ant e belle creazioni del nost ro secolo», sembra proprio che la piramide si abbassi sempre di più: ora sono i let t or i di giornali l’élit e colt a e consapevole (ed è in cert o senso vero), in opposizione a quella ent it à che un polit ico consumat o e così espert o non r iesce a definire alt r iment i che «popolo profondo».

Dunque vince, nella gara elet t orale, quella delle élit es che si avvicendano al pot ere in It alia che r iesce a conquist are il consenso del «popolo profondo». Qui sovviene la dist inzione che Gramsci ist it uiva – a proposit o della prat ica elet t orale –, in una molt o limat a pagina dei Quaderni («Il numero e la qualit à nei regimi rappresent at ivi»), t ra «comune cit t adino legale» e cit t adini che si mobilit ano int orno a un programma («avanguardia di lavoro at t ivo e responsabile»)4 . Ma si t rat t a effet t ivament e della st essa dist inzione? In cert o senso l’analogia regge, ma forse si sono modificat i i sogget t i in quest ione.

Come si può provare a definire la nozione di «popolo profondo»? Non debbono sfuggire le implicazioni e le sfumat ure. ‘Profondo’ vorrà anche significare che st a in basso, che è lont ano dall’élit e più at t iva, che non ama manifest arsi ma oppone una sort a di inert e resist enza passiva alle sollecit azioni del mut ament o, alle sfide e alle dinamiche della modernit à, alle t rasformazioni del cost ume, et c.

Non dico affat t o che sia una espressione sprezzant e ma è, insieme, cr it ica (per le sfumat ure non posit ive che lascia int ravedere) e allarmat a ( il t imore di non farcela a raggiungere quest o «popolo profondo»). Insomma denot a disagio, poiché, in t ermini di consenso numericament e produt t ivo, la conquist a di quel «popolo profondo» appare imprescindibile e, insieme, molt o ardua. Proviamo comunque ad avvicinarci al concet t o.

Nel nost ro t empo, specie nei paesi molt o accult urat i e dove perciò ci sono molt eplici e differenziat e forme e st rument i di accult urament o, il «popolo profondo» sembrerebbe corr ispondere alla fascia (maggior it ar ia) della popolazione, la cui inst it ut io avviene prevalent ement e, se non

esclusivament e, at t raverso la Tv. È la Tv che plasma il «popolo profondo». Ciò si realizza at t raverso una ‘offert a’ var ia, ma all’int erno della quale è quasi aut omat ica la prevalenza del peggio . ( In fondo è anche una «legge» economica.)

Valga un esempio sint omat ico. Una recent e iniziat iva del Parlam ent o europeo ha prospet t at o e r ichiest o un int ervent o corret t ivo sul cont enut o e lo st ile (si pot rebbe senz’alt ro dire sull’ideologia) degli spot pubblicit ar i t elevisivi. La diret t iva (non è det t o che venga davvero recepit a) r iguarda l’or ient ament o che sot t ende gli spot per quant o at t iene al ruolo purament e ‘casalingo’ delle donne che degli spot sono prot agonist e prevalent i5 .

I ‘r iformat or i’ europei hanno ragionat o all’incirca così: quale immagine delle donne appare negli spot ? L’immagine di un essere umano che divide il suo t empo t ra la bellezza ed efficienza della casa e la bellezza della propria persona; dunque ne vien fuor i l’immagine di un soprammobile, event ualment e anche ut ile, il cui cervello è dedit o quasi esclusivament e a cure subalt erne o di servizio. Ergo : cerchiamo di r ibalt are quest a umiliant e st ort ura int ervenendo sul prodot t o cult urale (gli spot ) di gran lunga più pot ent e di qualsiasi predica, comizio, t elegiornale, f ilm didat t ico, et c. Non sappiamo se l’iniziat iva avrà successo, comment ava alquant o scet t icament e il condut t ore del Tg1 delle 13,30, e ironizzava mediocrement e sugli effet t i della event uale inserzione di prot agonist i maschili nei medesimi m icrot est i t elevisivi. Rest a il fat t o fondament ale che quest o è il pr imo ufficiale r iconosciment o della pot enza ideologica degli spot .

La pubblicit à è, infat t i, come si è più volt e affermat o, la più polit ica e la più ideologica e in assolut o la più efficace mediat r ice di ‘valor i’. Chi ha pensat o di int ervenire sugli spot ha capit o il punt o essenziale: che quella part e ossessiva e r ipet it iva fino allo spasmo, ben cost ruit a (breve, efficace), promot r ice di modelli e sollecit at r ice di aspirazioni e di sforzi di adeguament o ai modelli, è di gran lunga la part e più import ant e polit icam ent e di t ut t o il gigant esco ‘fat t ore’ Tv. Nel mondo at t uale chi pesa molt o in quell’ambit o può cont r ibuire molt o a plasmare il «popolo profondo». In quest o senso la Tv cosiddet t a commerciale è perfet t a, perché deve present are una quot a pubblicit ar ia enorme nell’ambit o dei propri programmi (è l’aliment o economico indispensabile, e quant o mai frut t uoso! ). Chi ha in pugno quest o st rument o – disse De Gasperi t ornando dagli Usa – vince le elezioni6 .

I l problema è dunque che non bast a capire la realt à, bisogna ‘manipolar la’, se l’obiet t ivo è il pot ere. La nuova via al pot ere che viene esperiment at a in It alia in quest i decenni è dunque anch’essa, a suo modo, perfet t a. Un fort e pot ent at o mediat ico acquisisce la maggior fet t a della Tv commerciale; ‘dà la linea’ – per ovvio effet t o- concorrenza – a quasi t ut t o il rest o del sist ema t elevisivo; plasma la ment e e le aspirazioni del «popolo profondo» at t raverso l’int era programmazione (pubblicit à e f ict ion soprat t ut t o; il Tg è l’ult ima e meno r ilevant e r isorsa); ot t iene il consenso del ‘suo’ «popolo profondo» e consolida il proprio pot ere, in un circolo ‘vir t uoso’ imbat t ibile. Ma non è un

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caso facilment e r ipet ibile sic et sim plicit er in alt re realt à (Francia, Usa, Germania). Lo è forse nell’at t uale Russia.

I l caso it aliano è molt o singolare. Dopo secoli di frant umazione e una fat icosament e conseguit a r iunificazione nazionale, che per molt o t empo non fu verament e t ale ( il «popolo profondo» dell’epoca r isorgiment ale r imase est raneo a quel mot o), l’It alia fu poi – nella pr ima met à del Novecent o – bruscament e sospint a sulla st rada di una effet t iva r iunificazione grazie alla irruzione sulla scena dei grandi part it i di massa: pr ima quello fascist a poi quelli ant ifascist i. I quali hanno fat t o almeno alt ret t ant o, e forse più, della Chiesa, i cui f ini non erano comunque quelli di dare unit à al paese ma di assicurarsi un durevole cont rollo sulle coscienze.

Anche il sist ema scolast ico ha cont r ibuit o fort ement e in t al senso: la scuola unica dell’obbligo più di ogni alt ro grado dell’ist ruzione. Ma proprio t ut t o quest o grande sforzo, sviluppat osi per gran part e del Novecent o, ha reso l’It alia più agevolment e conquist abile: per esempio da un fort e pot ent at o insediat o al cent ro , bene annidat o nei gangli decisivi.

In una realt à molt o spezzet t at a, int imament e non unit ar ia, come gli Usa o la st essa Bundesrepublik, una t ale conquist a ‘dal cent ro’ sarebbe impossibile. In Francia poi il peso dello St at o è t ale che una irruzione ‘divorat r ice’, da part e di un pr ivat o, a danno di un ganglio cruciale come il sist ema t elevisivo, sarebbe impensabile. In quest o senso, e fat t o salvo che ogni fenomeno st or ico ha una sua irr iducibile peculiar it à, si può parlare di una nuova e or iginale, e molt o sofist icat a, forma di ‘fascismo’ nel nost ro paese. Siamo infat t i di front e a una nuova spint a all’unificazione al r ibasso , che del fascismo fu il t rat t o dominant e. In comune col vecchio fascismo, quest a at t uale sua st raordinaria isomorfosi ha la conquist a dal cent ro e il m onopolio della parola (ormai ‘parola’ essendo appunt o quella monologant e t elevisiva).

Note

1 È una d ich iarazione, molt o art ico la t a , resa da Massimo D’Alema nel corso d i una conversazione in pubblico con il g iorna list a Floris (4 set t embre 2008).

2 Ne riparleremo a l t ermine de l capit o lo seguent e.

3 Qual è appunt o il Dizionario de l Pagnerre!

4 Gramsci, Quadern i del carcere, cit ., pp. 1624-1626.

5 Not izia de i t e leg iorna li it a lian i d i domenica 7 set t embre 2008.

6 Servili le po lemiche a sost egno della « irr ilevanza polit ica ed e le t torale» de lla Tv da parte d i a lcuni negat ori professionali de ll’evidenza.

capitolo nono - Elit e

Nel numero 6 dell’annat a 1931 del «Bolscevik» fu pubblicat a int egralment e l’int ervist a concessa da St alin a Em il Ludwig . Ludwig, che fu un maest ro del giornalismo mondiale t ra l’alt ro per le sue int ervist e ai ‘grandi’, poneva ai suoi int er locut or i domande non ovvie, mai compiacent i. St alin non era cert o un int er locut ore ingenuo e scansava agevolment e quelle che a lui sembravano insidie, se necessario se la cavava impart endo a Ludwig piccole lezioni. Così ad esempio proprio la pr ima domanda – in cui Ludwig gli prospet t a un paragone t ra St alin e Piet ro il Grande – viene elusa con una breve predica sulle classi: quelle in favore delle quali Piet ro il Grande imponeva le sue violent e ‘r iforme dall’alt o’ e quelle favorit e dal regime bolscevico. Ma la sost anza delle domande vert eva in realt à sulla nat ura del nuovo pot ere personale inst aurat osi dopo la vit t or ia di St alin cont ro t ut t i gli opposit or i. Ludwig, a quel punt o, r ipropone la quest ione in alt ro modo e int erroga St alin sul «ruolo delle personalit à» nel processo st or ico. St alin r isponde che «il marx ismo non nega affat t o il compit o delle personalit à eminent i o il fat t o che gli uomini fanno la st or ia. Ma nat uralment e – precisa – non la fanno a modo loro [ ...] . I grandi uomini non sono grandi che in quant o sanno afferrare bene le circost anze dat e [ ...] . Se invece vogliono cambiar le a loro fant asia si t rovano nella sit uazione di Don Chisciot t e».

In r ispost a Ludwig sfodera l’insegnament o dei professori marx ist i delle universit à t edesche che aveva frequent at o in giovent ù, i quali «ci insegnavano che il marx ismo nega il compit o degli eroi». St alin obiet t a seccament e: «Erano delle alt erazioni del marx ismo. Il marx ismo non ha mai negat o il compit o degli eroi. Al cont rar io r iconosce quest o compit o come abbast anza import ant e ma con le r iserve che ho det t o».

«Afferrare le circost anze dat e» è una r iproposizione di un concet t o ant ico, non lont ano dalla concezione greca di kairós, «il moment o opport uno»: «i kairoí non st anno lì ad aspet t arci» diceva Pericle secondo Tucidide ( I, 142, 1) e r ipet e, quasi alla let t era, Demost ene nella Prim a Filippica (37). Ma forse nella schermaglia dialet t ica t ra Ludwig e St alin c’è anche un sot t int eso r ifer iment o, da part e di Ludwig, al verso dell’I nt ernazionale che, nella versione in lingua russa, diceva: «Non vi sono più supremi prot et t or i, né dio, né zar, né eroe alcuno». Ironia della st or ia vuole che nel rapport o (ufficiale) al XX Congresso del Pcus – febbraio 1956 – Chrušëv sfoderasse appunt o quel verso per lanciare l’at t acco al ‘cult o della personalit à’, o, come egli ancora si esprimeva, «di una cert a personalit à», che era St alin ( il cui nome venne però fat t o solo nel rapport o ‘segret o’) .

A quel punt o Ludwig pone la quest ione in alt ro modo: «At t orno al t avolo dinanzi al quale siamo solo noi due – dice al suo int er locut ore – vi sono sedici sedie. All’est ero si sa, per un verso, che l’Urss è un paese dove t ut t o dev’essere deciso da un collegio, ma si sa anche che, d’alt ra part e, t ut t o è

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deciso da una sola persona. Chi dunque decide?». St alin r isponde dapprima con una lezione formalist ica: «Una sola persona non decide nulla, le decisioni di una sola persona sono sempre unilat erali; in ogni collegio, in ogni collet t ivo ci sono persone di cui bisogna t ener cont o». Poi però dà una r ispost a più concret a, che è anche una delle rare descrizioni ‘d’aut ore’ della élit e dir igent e soviet ica:

I l nost ro organismo dirigent e è il comit at o cent rale del nost ro part it o; esso dirige t ut t e le organizzazioni sov iet iche e di part it o. Cont a 70 membri. È t ra

quest i 70 membri del C.C. che si t rovano i nost ri migliori dirigent i

dell’indust ria, i nost ri migliori cooperat ori, i nost ri migliori dirigent i del vet t ovagliament o, i nost ri migliori spec ialist i milit ari, i nost ri migliori

agit at ori, quelli dei nost ri che conoscono meglio i sovkoz, i kolkoz, le masserie cont adine indiv iduali, quelli dei nost ri che conoscono meglio i

popoli dell’Unione Sov iet ica e la polit ica dei nazionalist i. È in quest o

Areopago che è concent rat a la sc ienza del nost ro par t it o. Ognuno di noi ha la facolt à di ret t if icare un’opinione, un qualunque proposit o indiv iduale.

Ognuno di noi ha la possibilit à di port are la sua esperienza. Se così non

fosse, se le dec isioni fossero prese da una sola persona, faremmo dei grandi errori. Nella misura in cui ognuno di noi ha la possibilit à di ret t if icare

gli sbagli indiv iduali e nella misura in cui t eniamo cont o di quest e messe a

punt o, le nost re dec isioni sono più o meno giust e1 .

L’element o che colpisce immediat ament e è la selezione sulla base delle com pet enze, non necessariament e dei ‘merit i di part it o’. Donde la orgogliosa affermazione: «È in quest o Areopago2 che è concent rat a la scienza del nost ro part it o». È il cr it er io della compet enza quello che cont a; e il quadro che si vuol t rat t eggiare è quello che Gramsci delinea, con schiet t o ent usiasmo, al pr incipio del saggio del marzo ’24 (Capo) : un pugno di uomini «che a loro volt a si organizzano int orno a uno dot at o di maggiore capacit à e di maggiore compet enza».

Quest a è la sost anza di qualunque pot ere, «qualunque sia la classe dominant e» per dir la con Gramsci. I l pot ere assolut o della Banca Europea nella vit a degli abit ant i dei vent iset t e paesi della Comunit à Europea non è, nella sost anza, diverso, anch’esso è fondat o sulla ‘compet enza’ ma ha il vant aggio di essere molt o efficacement e m ediat o . La sost anza è quella: int orno a essa si può organizzare qualunque ‘forma’ più o meno at t raent e, più o meno suscet t ibile di consenso. Di solit o si osserva che il pot ere creat o in Russia sulla base del t err if icant e t rauma st or ico che fu la r ivoluzione si r ivelò – dopo decenni di alt i e bassi – alla fine impopolare. Quest o è vero in buona misura. Ma non è affat t o escluso che nella fase ascendent e quello sia st at o il modo più efficace, per un paese segnat o in profondit à dallo zarismo e impregnat o di quella ment alit à, di conciliare élit e e consenso . Quando, nei decenni seguent i, il paese divenne uno t ra i più alfabet izzat i del mondo, la crost a esplose perché il meccanismo escogit at o non era più appropriat o. Paradossalment e può dirsi che la responsabilit à di non aver capit o il mut ament o st ia molt o più sulle spalle dei successori di St alin (1953- 1991)

che non su quelle dell’ult imo e anacronist ico St alin (1945- 1953). Perciò la t rasformazione è avvenut a in modo t raumat ico e si cerca t ut t ’ora con fat ica, in quel paese, un nuovo st abile asset t o.

In genere, la r if lessione dovut a ai prot agonist i st essi è preziosa. Bast i pensare ai Com m ent arii cesariani o alle Res gest ae di August o. Part icolarment e ut ile la r if lessione di prot agonist i che hanno avut o t ra le mani un pot ere grandissimo (non ovviament e nelle forme mit izzant i e ‘t ot ali’ immaginat e dalla propaganda ost ile). È ovvio soggiungere che a quelle r if lessioni si mescolano sempre una fort e component e apologet ica nonché gli effet t i della form a m ent is. Per fare un esempio: st at ist i e polit ici di or ient ament o ‘leninist a’ o radical- conservat ore sono più inclini ad analisi e diagnosi in t ermini di t eor ia elit ist ica, quando si t rat t i della nat ura del pot ere; molt o più inclini a dare peso alle dinam iche palesi sono invece t ut t i gli alt r i (anche se con variant i) .

Nel set t embre del 1927, per la pr ima volt a, una ‘delegazione operaia’ provenient e dagli Usa visit ò St alin e ot t enne di int ervist ar lo. I l resocont o del lunghissimo colloquio, pubblicat o in Urss solt ant o nel 1949 (volume X delle Opere di St alin3 ) , è ist rut t ivo ai nost r i f ini. Si t rat t a di quella int ervist a che in Occident e fu diffusa quasi subit o e fu anche compendiat a nella romana «Rassegna della st ampa est era» già nello st esso anno: in t ale forma fu not a a Gramsci, in carcere, che la comment ò nel Quaderno 14 (§ 68)4 .

Prendendo spunt o dalle r ispost e di St alin, egli volle r ibadire la propria presa di dist anza da Trockij sul problema, allora prevalent e su ogni alt ro, della possibilit à st essa di un «socialismo in un paese solo». Gramsci not a t ra l’alt ro che l’accusa di «nazionalismo» r ivolt a dai t rockist i a t ale ipot esi è «inet t a». Ma l’int ervist a t occa molt i alt r i aspet t i: pr imo fra t ut t i «se [ in Urss] il part it o comunist a cont rolla il governo»5 . St alin ha buon gioco nel cont robat t ere ai suoi int ervist at or i che «t ut t o dipende da quello che si int ende per cont rollo». E nella lunga replica alla quest ione r ivolt agli cavalca gagliardament e l’argoment o classico dell’analisi elit ist a dei regimi parlament ari: «nei paesi capit alist ici [ ...] , nonost ant e l’esist enza di par lament i ‘democrat ici’, i governi sono cont rollat i dalle grandi banche. I par lament i dichiarano che sono loro a cont rollare i governi. In realt à invece avviene che la composizione dei governi è fissat a in precedenza dai maggior i consorzi f inanziar i, i quali cont rollano anche l’operat o dei governi. Tut t i sanno che in nessuna pot enza capit alist ica può essere format o un gabinet t o cont ro la volont à dei maggior i magnat i della finanza. È sufficient e una piccola pressione finanziar ia perché i minist r i volino via dai loro post i come fuscelli». E con qualche sarcasmo procede osservando che «da noi, no, quest o t ipo di cont rollo nel governo è inconcepibile non fosse alt ro che per il fat t o che le banche sono già st at e nazionalizzat e molt o t empo fa. [ ...] Se invece la delegazione int endeva parlare non di cont rollo ma di direzione del governo da part e del part it o, allora r ispondo di sì: da noi il part it o dir ige il governo».

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 47

Quello che St alin non si chiede è come r iescono a coesist ere, negli alt r i paesi, sost anziale ‘cont rollo’ dei pot er i economici e accanit a ginnast ica elet t orale, cioè in alt r i t ermini: come accade che, pur essendo largament e not o il peso det erminant e di pot er i economici ret roscenici, gli elet t or i si lasciano coinvolgere nella passione per il gioco parlament are- elet t orale come se fosse davvero decisivo .

Gli sfugge la st raordinaria capacit à di mediazione, la suddivisione in molt e sedi part icolar i di decisioni set t or iali (che danno all’elet t ore l’illusione di cont are), la vivacit à del gioco parlament are (che dà la sensazione di una lot t a vera e dunque di un de quo int orno al quale le forze polit iche si scont rano t ut t e prot ese ad affermare che lo fanno per il bene degli elet t or i-cit t adini) et c.

Gli sfugge anche la complicazione, imprevist a per l’ort odossia marx ist a, dell’ingigant irsi numerico di cet i int ermedi, in grado comunque di ot t enere dal meccanismo parlament are- elet t orale soddisfazioni di int eressi set t or iali.

La r ispost a che dà agli int er locut or i americani, ment re è calzant e per un verso (già allora negli Usa il pot ere lobbist ico era preponderant e e capillare) è carent e per alt ro verso perché proprio negli Usa, pr ima che alt rove, quel processo di frant umazione della societ à in segment i prot esi alla realizzazione di int eressi part icolar i era molt o avanzat o.

Ma l’élit e per eccellenza – anche per l’avallo e la legit t imazione di cui è dot at a – è quella parlament are. Lì si assist e, nelle societ à at t uali dove il meccanismo parlament are- elet t orale è consolidat o, ad una curiosa cont raddizione: da un lat o il corpo elet t orale disprezza la ‘cast a’ parlament are, dall’alt ro cont inua con periodica cadenza a delegarle il pot ere at t raverso il vot o. La frust razione che ne consegue è ben not a. I l fenomeno ha una st or ia lunghissima, anche nella let t erat ura.

L’illusione sort a con la nascit a di ‘part it i operai’ fu quella di creare dent ro le aule parlament ari un set t ore anomalo, sot t rat t o a quell’int reccio t ra agone elet t orale, creazione di una rappresent anza elet t a e condizionam ent i ret roscenici che è il capolavoro dei sist emi parlament ar i. Ma non è un mist ero che il processo di assimilazione si è r ivelat o, comunque, irresist ibile. Quel set t ore anomalo non esist e più.

Nel 1849 Laurent -Ant oine Pagnerre (1805- 1854), polit ico francese che molt o si impegnò per la repubblica sia nel ’30 che nel ’486 , pubblicò un Dict ionnaire polit ique che fu pront ament e t radot t o a Torino dal benemerit o edit ore Pomba (corredat o di un preambolo di cui già dicemmo).

Molt e voci sono assai godibili come quella, ben not a, r iservat a al com unism o che si conclude con la diagnosi: «il solo comunismo at t uabile è la car it à cr ist iana recat a al grado eroico» (p. 191). Ma qui ci int eressa piut t ost o la voce Parlam ent o . Essa è molt o ampia ma quasi esclusivament e incent rat a sul parlament o inglese, che all’aut ore sembra l’unico verament e t ale perché art icolat o in due camere, di cui quella alt a t ut ela la r icchezza cont ro quella

bassa che, rappresent ando «il popolo», farebbe salt are ogni «equilibr io». Ma diamo senz’alt ro la parola al Pagnerre, it alianizzat o dai Pomba:

«Hanno un Parlament o t ut t e le monarchie cost it uzionali fondat e ad imit azione

dell’inglese. Ma quest ’imit azione non è che apparent e, perché l’equilibrio del

pot ere t ra le due Camere inglesi st a nell’eredit aria ricchezza, nei priv ilegj e nell’ascendent e t radizionale dell’arist ocrazia inglese che compone la Camera

alt a e che possiede quasi t ut t o il t errit orio della Gran Bret agna e grandement e

inf luisce sulle elezioni della Camera bassa, dalla quale alt riment i verrebbe soverchiat a per l’indic ibile forza che hanno di loro nat ura i corpi popolari. Sul

cont inent e, ove sif fat t a arist ocrazia con quelle sue condizioni non sussist e nemmeno per ombra, la seconda Camera, che rappresent a il popolo, è

t alment e più fort e della prima che non evv i equilibrio di sort a; come si è

vedut o nelle due rivoluzioni f rancesi del 1830 e del 1848 in cui la Camera de’ Pari fu riguardat a e t rat t at a come un vano simulacro privo di ogni ef fet t ivo

pot ere. Onde il Dufey sost iene che il t ermine Parlament o «non è

razionalment e applicabile che all’Inghilt erra».

Non vogliamo però lasciare nel let t ore l’impressione negat iva, o deludent e, che può nascere da una diagnosi così lont ana nel t empo. Proponiamo perciò in conclusione di quest o breve excursus il quadro t racciat o da Maurizio Cot t a al t ermine della voce Parlam ent o da lui scr it t a per il Dizionario di polit ica di Bobbio e Mat t eucci7 :

Si può dire t ut t ’oggi che il Parlament o ha un peso dec isivo o per lo meno

signif icat ivo nel processo polit ico? Oppure si deve parlare di un ‘t ramont o del

Parlament o’? Si t rat t a di quesit i ripet ut ament e sollevat i di f ront e a cert e realt à polit iche che sembrano most rare il Parlament o soppiant at o da alt re ist it uzioni.

Non è qui t ant o il caso di parlare del fenomeno macroscopico dei regimi

t ot alit ari e aut orit ari, sv iluppat isi in quest o secolo e che hanno rovesc iat o il preesist ent e regime democrat ico- parlament are abolendo il Parlament o o

comunque svuot andolo complet ament e di ogni aut onomia e signif icat o polit ic i.

La quest ione assume una rilevanza assai maggiore in riferiment o proprio ai regimi democrat ic i pluralist i, nei quali non esist e cert ament e l’esplic it o

ant iparlament arismo dei precedent i, ma c iononost ant e si assist e ugualment e allo sv ilupparsi di t endenze che sembrano indicare una perdit a di cent ralit à

del Parlament o. I l dibat t it o polit ico non ha più come sede princ ipale l’ambit o

parlament are, ma si int esse in gran part e all’est erno t ra part it i, organizzazioni sindacali, forze economiche e at t raverso i canali di comunicazione fornit i dai

m ass m edia. E, così pure, t ut t a una serie di import ant i t rat t at ive, accordi e

dec isioni polit iche (dalla cost it uzione delle alleanze di governo alla loro rot t ura e alla c risi di governo, a molt e scelt e di polit ica economica) ha luogo al di

fuori della sede parlament are. In molt i casi quindi il Parlament o si riduce a

regist rare dec isioni prese alt rove (p. 783) .

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 49

Note 1 La t raduzione qui adot t at a è (con qualche mig liorament o st ilist ico) quella fa t t a fare da lla

po lizia po lit ica it a liana, che aveva cost it u it o un cospicuo fascico lo , in p iù part i, su Emil Ludwig (ACS, Polizia po lit ica, fascico li personali, Cat egoria 1 , bust a 739, Ludwig Emil, I part e [ fino a l 1936] ). Forse la t raduzione è una ret roversione dal francese.

2 Non sfuggirà la remin iscenza classica.

3 I .V. St a lin , Opere com plet e, vo l. X: 1927 (agost o-dicem bre) , t rad. it . d i L. Amadesi e R. Angelozzi, Rinascit a , Roma 1953, pp. 104-164.

4 Gramsci, Quadern i del carcere, cit ., pp. 1728-1729.

5 I vi, p . 113.

6 J.-Ch.-F. Hoefer, Nouvelle biographie générale, Didot , Paris 1852-1866, vo l. 39, s.v. Pagnerre.

7 N. Bobbio, N. Mat t eucci, G. Pasquino, I l Dizionario di Polit ica, Ut et , Torino 19832. Ramment o qu i che Ut et è erede d i Pomba!

capitolo decim o - Elit e

«Rit enendo di non essere in grado di opporsi agli americani, alcuni prefer iscono unirsi a loro. Alt r i, pur odiando l’ideologia che st a diet ro al Pent agono, scelgono di sost enere il proget t o americano convint i che, una volt a messo in at t o, esso r iuscirà ad eliminare ingiust izie locali e regionali.» Alla luce di quest a diagnosi sost anzialment e esat t a, Eric J. Hobsbawm , nel suo recent issimo I m perialism i, lancia una efficace, e forse inedit a, definizione del fenomeno più import ant e del nost ro t empo: «Imperialismo dei dir it t i umani». E parla anche di «coalizione al pot ere», r idot t a ormai a due soli sogget t i: gli St at i Unit i e la ex grande pot enza brit annica.

Ma una t ale assunzione di «responsabilit à mondiale», da cui si è ‘smarcat o’ l’ex fedelissimo sat ellit e t urco, non può durare ancora per molt o, sost iene Hobsbawm. Tra l’alt ro ai cit t adini degli St at i Unit i piace sempre meno che il proprio governo mandi a rot oli l’economia pur di assolvere al ruolo di gendarme planet ar io. E comunque, not a Hobsbawm – e quest o gli sembra l’argoment o pr incipale –, «l’unica cosa assolut ament e cert a» è che anche l’impero americano «sarà t ransit or io come t ut t i gli alt r i imperi»1 .

A sost egno di quest a profezia, lo st or ico inglese adduce l’argoment o già adoperat o da Giovanni Paolo II nel giorno st esso in cui scat t ava l’at t acco all’Iraq (aprile 2003), ma censurat o da t ut t a la st ampa e dai not iziar i di maggiore ascolt o, in It alia e all’est ero: che cioè «t ut t i gli imperi precedent i sono cadut i». La censura inflit t a a un pont efice un t empo predilet t o in Occident e e, a giudicare dal libro di Carl Bernst ein (Sua Sant it à) , int er locut ore diret t o della Cia al t empo di Solidarnoš 2 , merit a di essere qui r ievocat a. L’at t acco all’Iraq scat t ò nei giorni di Pasqua. In occasione della processione (che si svolge di venerdì) in cui il papa t rasport a, per un t rat t o, sulle proprie spalle, la croce, giunt o davant i al Colosseo – simbolo omicida dell’imperialismo dell’ant ica Roma – Giovanni Paolo II si fermò, e parlò col consuet o vigore profet ico pot enziat o dal suo esot ico it aliano, e disse addit ando l’orr ibile edificio: «Anche l’impero romano alla fine cadde! ». Da poche ore le bombe ‘int elligent i’ di Bush avevano incominciat o a devast are Bagdad. L’allusione era inequivocabile. E l’imbarazzo fu t ale che solt ant o un not iziar io radio alquant o ant elucano diede cont o di quelle parole, laddove i giornali – grandi, meno grandi, piccoli – cancellarono la frase.

Una valut azione del genere si può pronunciare nel vivo di un dramma st or ico nel suo svolgersi, o invece con la sovrana olimpicit à dello st or ico che cont empla lo snodarsi dei secoli, o dei millenni, come è il caso di Erodot o, nel proemio delle sue St orie. Lì serenament e osserva Erodot o come, nel corso dell’inesorabile scorrere del t empo, «cit t à che erano grandi divent arono piccole, e viceversa». Lui veniva dal mondo persiano, e sapeva come Creso era finit o nella rovina e come Ciro era salit o ai vert ici del pot ere mondiale (dell’epoca), e anche come Serse aveva perso la sua «grande armat a» alle prese con l’int elligenza e la flot t a della «piccola» At ene. E ment re scr iveva

Luciano Canfora �La natura del potere� - pag. 51

quelle parole già vedeva profilarsi la decadenza di un alt ro impero, quello che At ene aveva cost ruit o a part ire appunt o dalla vit t or ia sui Persiani t rasformat osi poi, come ben sapeva Tucidide, in ‘t irannide’. Hobsbawm parla, in quest e pagine, alla maniera di Erodot o e prevede la fine della at t uale guerresca pax am ericana (ben più guerresca della pax august a) r ichiamandosi all’ecat ombe di imperi, coloniali e non coloniali, di cui è punt eggiat a la st or ia del Novecent o. Ma non sarà t roppo indulgent e, il ‘grande vecchio’ della st or iografia europea, verso il cr it er io affascinant e, indispensabile e pur insidioso dell’analogia? Cat egoria, o ‘forma a pr ior i’ della conoscenza st or ica, l’analogia r ischia t alvolt a di appannare la necessaria vigilanza dello st or ico, prot eso a cogliere invece la differenza.

Per var i aspet t i, il caso degli St at i Unit i è unico r ispet t o a t ut t i gli imperi conosciut i, almeno per una ragione non secondaria. Tut t i gli alt r i imperi furono t err it or ialment e vulnerabili, gli Usa lo sono molt o meno, o forse per nulla. Sembrava ai Greci inat t ingibile l’impero persiano, che pur dopo lo scacco di Salamina era divenut o il vero regist a (come r icorda con crudo realismo Demost ene) della polit ica greca. Eppure Filippo e soprat t ut t o Alessandro, suo figlio, dimost rarono che pot eva essere at t accat o in profondit à e crollare in pochi anni. Roma nonost ant e la abilit à nel coopt are le élit es dei popoli conquist at i e nonost ant e il sist ema difensivo- offensivo del lim es fu presa e dovet t e profondament e mescolarsi coi ‘barbari’ st rar ipant i e conquist at or i. E la list a pot rebbe proseguire, f ino all’impero br it annico la cui f ine fu solo r it ardat a nel ’18 e poi nel ’41, e fino a quello soviet ico i cui missili a lunghissima git t at a punt at i olt re Oceano furono resi vani dall’implosione del sist ema.

Diversament e dagli alt r i imperi, però, gli Usa sono anche un cont inent e, giacché il cont rollo dell’America Lat ina non sarà prevedibilment e incr inat o né da Lula né da Chávez. Inolt re gli Usa hanno t ut t ora un cont rollo ‘milit are’ sui prezzi delle mat erie pr ime mondiali. Infine non possono subire at t acchi efficaci né da esercit i invasori né da t error ist i. Emblemat ica la nullit à, sul piano milit are, dell’11 set t embre, e significat iva al cont rar io la capacit à dimost rat a dagli Usa di sfrut t are polit icament e il panico derivat one.

È ovviament e azzardat o lanciarsi in profezie dopo l’ecat ombe di profezie st or ico- polit iche prodot t asi nel XX secolo. La meno inverosimile è forse quella prospet t at a da Toynbee nel lont ano 1952, quando mise in luce – nel ciclo di conferenze per la Bbc I l m ondo e l’Occident e– che l’impero di Roma si era progressivament e disgregat o perché i cet i dir igent i avevano via via perso fiducia nei propri dest ini imperiali e si erano lasciat i pervadere da alt re ‘spir it ualit à’. Nessuna ‘spiegazione’ bast erà mai da sola. Anche la illust re t esi gibboniana che at t r ibuisce al cr ist ianesimo la pr incipale responsabilit à della celebre ‘cadut a’ ha le sue frecce nell’arco: cont ò molt o il progressivo subent rare e sost it uirsi della st rut t ura della Chiesa (ormai vit t or iosa) alla st rut t ura dell’impero; ma cont ò anche la conquist a, da part e della nuova spir it ualit à cr ist iana, della ment e dei cet i dir igent i dell’impero.

Insomma l’inversione di t endenza verrà più probabilment e da una cr isi di f iducia nei propri valor i da part e di chi st a al vert ice dell’impero. Per ora invece quei gruppi dir igent i sembrano aver fat t a propria un’int eressant e var iant e della versione più radicale dell’ideologia avversaria, quella della ‘r ivoluzione permanent e’, o, se si vuole, dell’‘esport azione del socialismo’ (oggi dell’occident alismo) fallit a molt o prest o e definit ivament e archiviat a dall’ipot esi di r ipiego del ‘socialismo in un paese solo’. Quando si spegnerà il ‘fondament alismo occident alist a’ che oggi domina la part e più fort e e aggressiva dell’Occident e si r icomincerà a comprendere che le different i part i del pianet a pot ranno convivere solo se sarà loro consent it o di vivere iuxt a propria pr incipia.

Note

1 E.J. Hobsbaw m, I m perialism i, Rizzo li, Milano 2007, pp. 60 e 62.

2 Bernst e in , Polit i, Sua Sant it à, cit ., pp. 266-303, specie 278-280.

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