Lucianna Argentino - Nomi

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Lucianna Argentino n o m i da “le stanze inquiete” (selezione) Catania 2011

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poesia contemporanea

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Lucianna Argentino

n o m i

da “le stanze inquiete” (selezione)

Catania 2011

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proprietà letteraria di Lucianna Argentino

a cura di Sebastiano A. Patanè

per “Le vie poetiche”

sezione “E-Book”

Catania 2011

in copertina

“senza nome”

da internet

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Presentazione

C’è una perforazione introspettiva non invasiva in questo lavoro di

Lucianna Argentino, un lavoro di paziente tessitura di elementi che

distinguono una persona dall’altra anche quando si parla di

particolari apparentemente insignificanti. L'osservazione come

punto di partenza e l’obiettivo ricevere e decodificare i “messaggi”

lasciano apprezzare maggiormente questa analisi dell’uomo

comune, quello che va a fare la spesa e dice la sua, senza nessuna

voglia di prevalenza, anzi, con l’umiltà di chi si confida, senza

nascondere nessuna verità.

Uno “Spoon River” nostrano, dove non troviamo quel falso

perbenismo che impone cautele ai vivi, nel dire determinate verità,

dove non è possibile frenare le parole dei morti che non possono

più mentire. Uno “Spoon River” romano dove le persone disarmano

le loro muraglie

e si mostrano così come sono agli occhi di chi ritengono simile a

loro, dove al sicuro per appartenenza castale, in ambienti umani e

senza attendere faticosi trapassi.

Lucianna Argentino intreccia il proprio pensiero all’osservazione

con generosa partecipazione e la descrive

nel suo preambolo che non vuole essere una esplicazione, bensì una

pianificazione etica dell’impresa del penetrare e lasciarsi penetrare

dalle emotive vicinanze umane nei dintorni di sé e non solamente

dal proprio senso interno.

Le vie poetiche

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Appunti per una est-etica del lavoro

"In ciò che riguarda le cose umane,

non ridere, non piangere, non indignarsi,

ma capire". (Spinoza)

"L'attenzione creatrice consiste

nel fare realmente attenzione

a ciò che non esiste". (S.Weil)

Ho scritto questo libro perché in primis non volevo andasse perduto

quanto vissuto durante lunghi undici anni, soprattutto non volevo

andasse perduta la memoria, seppur minima, di alcune delle

persone con cui sono venuta in contatto. Un contatto vero, umano,

che è andato oltre i gesti e le parole che il mio angusto ruolo

richiedevano. Poi c'erano i foglietti di carta che affollavano le mie

tasche e la penna sempre a portata di mano per rispondere alla mia

vocazione alla poesia.

"Non soltanto l'uomo sappia quello che fa, ma se possibile ne

percepisca l'uso, percepisca la natura da lui modificata". Sono

parole di Simone Weil che auspicava un'etica del lavoro in cui la

comprensione del proprio operare e il senso dell'utilità dessero

all'uomo il "sentimento del cuore". Sentimento che, tra gli altri, mi

ha sempre sostenuta e in particolare in quegli anni, facendo sì che le

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centinaia di persone che ogni giorno mi passavano davanti non si

trasformassero in una massa informe e indistinta, ma ognuno

mantenesse la propria identità perché anch'io mantenessi la mia. E'

stato un dirci umano, un reciproco riconoscerci nell'umanità, nella

fraternità che ci rende uguali al di là di tutti i dati contingenti che ci

definiscono.

Ho cercato di andare oltre, di oltrepassare l'arida meccanicità che il

mio lavoro in sé richiedeva, ho alzato lo sguardo dai numeri del

display per incontrare gli occhi di chi mi stava davanti. Ho cercato

di vedere le persone così come sono, con le loro debolezze e le loro

grandezze e di affidarmi al fatto che non sapevo altro di chi mi

stava difronte se non che era il mio prossimo, nel senso più ampio e

lato del termine. Un essere umano con la sua storia invisibile, una

persona cui dovevo rispetto e attenzione, gentilezza e cortesia così

che quei pochi istanti in cui eravamo in relazione si aprissero a un

tempo altro. Ho cercato di "scoprire tra la polvere quotidiana il

granello di purezza che c'è", è ancora Simone Weil, anche se non

sempre ho trovato la purezza, forse perché si esprime solo a sprazzi,

ad attimi che pure esistono e quando arrivano illuminano il tempo,

ne levigano il senso. "L'arte è conoscenza. O meglio l'arte è

esplorazione. Il trionfo dell'arte è nel condurre ad altro da sé: alla

vita in piena coscienza del patto che lega la mente al mondo". Dice

ancora Simone Weil che riteneva che la grandezza dell'uomo

risieda nella sua capacità di "ricreare la sua vita". Cosa che l'uomo

può fare "attraverso il lavoro che forgia la natura per produrre i

mezzi di esistenza; tramite la scienza che traduce in simboli

l'universo; tramite l'arte alleanza tra il corpo e l'anima". E questa

alleanza è stata ed è per me come un lievito, come quell'attenzione

creatrice che "possiede una facoltà sempre identica di proiettare

luce su un essere umano qualunque esso sia".

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Riconoscere, dunque, in me e negli altri l'esigenza di bene che

rende gli uomini tutti uguali, attraverso l'attenzione, l'amore e il

consenso per far discendere e realizzare il bene in mezzo agli

uomini. Se è vero che il poeta si fa intermediario tra la realtà altra e

il mondo e tra l'uomo e l'altro uomo, riportando la mente nel cuore

con il proposito di "leggere altrimenti" la realtà che ci circonda. E

soprattutto vivendo quel poetare che è “l'autentico far abitare”:

poetare in quanto far abitare è un costruire, dice Heidegger

commentando il verso “poeticamente abita l'uomo” di Holderlin.

Costruire dunque uno spazio, un luogo in cui consentire l'av-venire

dell'umano, l'affacciarsi dell'umano in cui indicarne l'essenza

rispondendo a quell'appello incessante e primario che è il

linguaggio, attraverso cui il poeta prende la misura del nostro essere

sulla terra, sotto il cielo. Nella scrittura stessa ho vissuto questo

nostro essere frammezzo oscillando in una zona di confine,

appunto, tra la prosa e la poesia. Probabilmente perché la vita vive

di queste oscillazioni e perché l'incontro con queste persone è

avvenuto in una zona di confine. Io che mi sporgevo al di là del

plexiglas della cassa e loro che riuscivano ad andare oltre il camice

che mi rivestiva e nello stesso tempo mi spogliava. Mi spogliava di

ciò che sono e mi definiva in un ruolo preciso che non richiedeva

da me particolari attitudini. Ma l'attitudine all'umano, all'ascolto, la

curiosità per l'umano sono profondamente radicate in me e con

carta e penna nelle tasche del camice ho cercato di raccontare, di

dire in modo nuovo e pieno il tempo vissuto in quel posto, in un

contesto lavorativo non particolarmente soddisfacente. (Ho detto

posto e non luogo per definirlo come un semplice riferimento

spaziale, in quanto posso ben dire che non era un luogo, ma un non-

luogo, espropriato com'era dei presupposti dell'accoglienza, del

riconoscimento dell'altro, ma tuttavia divenuto tòpos nell'atto della

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scrittura). “Le stanze inquiete” perché, oltre alla “stanza” poetica,

ho immaginato ognuno di coloro di cui racconto, come una stanza

di cui riuscivo a sbirciare l'interno dallo spazio che essi mi

concedevano. Visti e detti rinunciando, quanto possibile, al punto di

vista soggettivo per inserirli, e me con loro, nel complesso quadro

dell'esistenza. In un testo parlo di “vita in paragrafi” e mi sono resa

conto poi di quanto mai sia calzante il termine paragrafo che

etimologicamente vuol dire “scritto al lato, annotare in margine”. E

se il margine è lo spazio bianco entro cui è inquadrato lo scritto

sulla pagina (simbolo pure del mistero, del non conosciuto, del non

visibile che circonda ogni vita) e se il margine è pure la cicatrice di

una ferita ecco il perché del mio scrivere e raccontare attorno e

dentro questa cicatrice. E in margine annotavo le parole, costruivo

un ponte da una sponda all'altra dove anche le sponde seguivano il

fluire del fiume. Esercitavo pertanto la mia libertà di persona

vivendo quel posto costrittivo attraverso gli altri che si

avvicendavano alla mia cassa, ricreavo la loro vita sulla carta e con

la loro la mia, in un'aggiunta di senso che fluidificava il mio essere

lì in uno stato inquieto ma attento. Uno stare con lo sguardo

orientato verso l'umano e illuminato dalla poesia. Sempre in piena

consapevolezza del fatto che è necessario seguire la propria

vocazione, cioè, e concludo con Simone Weil, occorre: "avere

davanti agli occhi la propria vita tutta e prendere la risoluzione

ferma e costante di farne qualcosa, di orientarla da un capo all'altro

in un determinato senso per mezzo della volontà e del lavoro"

Lucianna Argentino

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N o m i da “Le stanze inquiete”

(selezione)

Roma 2010

Catania 2011

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Mauro mi arriva

dall'altra sponda dell'Appia

nel riparare del tempo

verso un nuovo assetto

per la pausa colazione del mattino

il quarto d'ora perfetto

a parlare della vita e di come viverla

a somiglianza della piena esattezza del fiore

e della sua alleanza con gli insetti e il vento.

Nella vulnerabile fedeltà al cuore

offriamo una tregua al diverbio del sangue,

riconciliamo il respiro con la vita

calzando numeri e poesia.

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Rosina era una delle tante

confusa e sfocata tra le tante,

diversa appena per quell'accento calabrese

custodito in bocca come una zolla della sua terra,

ma improvvisamente unica e nitida,

quando indicandomi due ragazzi di colore altissimi,

in fila alla cassa accanto, signorì, mi ha sorpreso,

lei magra e piccolina, hai visto quanto sono alti!

Chissà quanta strada hanno fatto poveri figli!

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Pina un metro e cinquanta di acciacchi

mi dà monete dal calore buono

e un po’ rassegnato come il suo sguardo

velato di pianto nel raccontarmi che il marito,

malato da tempo, l’ha svegliata in piena notte

e le ha detto Pina, Alberto se ne va…

E se ne è andato, come ce ne andiamo tutti,

già distanti gli uni dagli altri

per certi invalicabili silenzi.

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Silvio traccia croci col dito

sui cofani impolverati delle automobili

o le disegna sulle banconote

con cui paga litri e litri di birra.

Silvio ha Dio e la birra

e mi regala fotocopie con immagini sacre,

strani disegni e simboli biblici. Silvio mi dice

che è stanco, che non ce la fa più,

che lotta con Satana

ma alla fine il bene vincerà, mi rassicura.

E voglio credergli, voglio credere

che nella sua mente ottenebrata dall’alcol

e dal troppo fumare, quell’affermazione

sia quella verità che non è rivelata ai saggi e ai potenti,

ma ai piccoli e ai disgraziati come lui.

(Il cuore di Silvio si è arreso un giorno

d'agosto del 2009. Ha aperto il pugno ha

lasciato andare il sangue, mentre la vita

tutta s'era coagulata in quello strappo a

farlo senza peso, a farlo piuma, pegno per

l'ultimo transito)

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Antonietta tutte le volte mi ripete

signorina, mi raccomando le banane,

faccia pianino che se si ammaccano

mio figlio non le mangia.

Ma lei non sa quanto mi stride dentro

quel suo pianino con le banane,

quanto mi indigna chi cambia scatole

o barattoli perché ammaccati e tutte le volte

non posso fare a meno di pensare

a quelli dall’altra parte del nostro benessere

e immaginare quelle confezioni un po’ rovinate

e Antonietta e il figlio e noi tutti

in una qualsiasi città delle guerre di oggi e di domani,

ad azzuffarci per accaparrarcele.

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E’ grandine la voce di Linda,

aghi le sue parole mai sazie,

mentre negli occhi s’allarga in cerchi

il grido del giorno in cui non volle riconoscere

in quel corpo senza vita quello del figlio

e fuggì via urlando che non era lui.

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Quando era piccola Gaia

e arrivava alla mia cassa

sul seggiolino del carrello

voleva fossi io a farla scendere.

La nonna protestava sta lavorando,

ma non l’ascoltavamo.

L’ho persa poi in quelle strade oscure

che solo somigliano alla vita.

(In quale precipizio d’anni

rimasta intrappolata?

In quale diverbio tra infanzia e pubertà?

E dove è fisso ora il tuo sguardo muto?

A chi rivolgi quel tuo sorriso immobile?)

E poco importa se non mi riconosci

che anch’io sai non mi riconosco

e guardo estranee le mani,

i gesti sempre, sempre quelli,

estranei e stanchi anche gli occhi

riflessi sotto i numeri del display.

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Zarina è una cagnetta bruttina,

tozza e goffa, ma ha due grandi occhi

color nocciola che sfidano le parole.

I bambini si fermano a guardarla

quando se ne sta tutta tesa

davanti all’uscita ad aspettare la sua padrona.

Si scosta appena, sfiorata dai carrelli

o dalle buste gonfie di spesa.

Ritta con le zampine poggiate

sul gradino di marmo, fedele al suo essere cane,

con lo sguardo fiuta ogni movimento.

I bambini vorrebbero accarezzarla,

ma lei con un ringhio gentile fa capire

di non gradire carezze.

Zarina è vecchia e a una certa età

le carezze fanno male alle ossa.

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Francesca ha raccolto nella coppa delle mani

tutto il bianco respinto dal cielo

e tenta la notte con le mani tese

non è chiaro se a chiedere o a dare

e così esposta ha ricevuto la sua parte.

Signora Lucià, se non era per mio nipote

che mi giocava in braccio non me ne sarei accorta.

Che dolore! Mi hanno tolto il seno sinistro,

mi hanno salvata appena in tempo, mi dice

da dietro gli occhi, sotto lo sguardo

battuto dalla mareggiata, sotto i capelli giovani

ma già bianchi di resa al destino.

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Maria è buona. Maria ha la saggia

semplicità delle prede. E' umile Maria

e cammina lungo una strada già tracciata

perché s'è gettata indietro, perché dentro

porta una solitudine nubile

sapendo che non è per quella che è nata.

E si chiede per cosa allora, per quale chiamata

se erroneamente nella sua bocca

la dittatura del silenzio si fa preziosa colatura.

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