L’ossigeno, la sua storia e i suoi legami con la vita...

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1 L’ossigeno, la sua storia e i suoi legami con la vita sulla Terra Matteo Cortesi 845852 Tutti noi abbiamo bisogno di precise condizioni per poter sopravvivere. La presenza di ossigeno è una di queste e ci sembra scontato che ce ne sia in abbondanza nell’aria che respiriamo e che non venga mai a mancare. Tuttavia questa molecola non è sempre stata così diffusa nell’atmosfera come ai giorni nostri. Qui di seguito verranno riassunte le attuali conoscenze sull’andamento dei livelli di ossigeno nel tempo e verranno esaminate le relazioni tra l’ossigeno e la storia dei viventi. Introduzione Gli organismi viventi, per poter svolgere le normali funzioni vitali, necessitano di energia. Essa è ottenibile attraverso una gran varietà di vie metaboliche, durante le quali il consumo di una molecola presente nell’ambiente che funga da accettore di elettroni è indispensabile. I batteri denitrificanti, per esempio, si servono dello ione nitrato (NO 3 - ) riducendolo ad azoto molecolare (N 2 ). Altri organismi, invece, i cosiddetti batteri metanogeni, sono in grado di ridurre anidride carbonica (CO 2 ) a metano (CH 4 ). Analogamente, altri composti o ioni sono impiegati dagli altri esseri viventi allo stesso scopo. Tra tutti, è però l’ossigeno molecolare (O 2 ) l’accettore di elettroni che permette il massimo guadagno energetico a parità di tutti gli altri fattori, nonché quello utilizzato dalla maggior parte degli organismi attualmente viventi. L’importanza dell’ossigeno come accettore di elettroni è sottolineata dalla netta distinzione che fanno gli ecologi definendo aerobi gli organismi il cui metabolismo è basato sul consumo di questa molecola e anaerobi tutti gli altri. I taxa di Eucarioti attualmente viventi sono quasi tutti aerobi, così come la maggior parte dei Procarioti. Questo non sorprende alla luce di due considerazioni. La prima, precedentemente enunciata, è costituita dall’efficienza assoluta dell’O 2 in termini di guadagno energetico in seguito al suo impiego nel metabolismo. La seconda risiede nell’abbondanza di questa molecola sul nostro pianeta. L’ossigeno molecolare, essendo gassoso, si trova prevalentemente in atmosfera e di essa ne occupa più di un quinto del volume (21%), secondo solo all’azoto molecolare (78%). Inoltre, la sua solubilità in acqua fa sì che l’ossigeno si trovi anche in idrosfera come gas disciolto, con concentrazioni massime nelle acque superficiali e fredde. Nel Mar Glaciale Artico la concentrazione media annuale in superficie può arrivare a circa 9,5mL/L (World Ocean Atlas 2013). Ambienti anossici, completamente privi di ossigeno, costituiscono l’eccezione sulla Terra. Si trovano ad esempio in ridotti bacini eutrofici, oppure nelle profondità oceaniche qualora si verifichino determinate condizioni, tra le quali un’assenza di

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L’ossigeno, la sua storia e i suoi legami con la vita sulla Terra Matteo Cortesi – 845852 Tutti noi abbiamo bisogno di precise condizioni per poter sopravvivere. La presenza di ossigeno è una di queste e ci sembra scontato che ce ne sia in abbondanza nell’aria che respiriamo e che non venga mai a mancare. Tuttavia questa molecola non è sempre stata così diffusa nell’atmosfera come ai giorni nostri. Qui di seguito verranno riassunte le attuali conoscenze sull’andamento dei livelli di ossigeno nel tempo e verranno esaminate le relazioni tra l’ossigeno e la storia dei viventi.

Introduzione

Gli organismi viventi, per poter svolgere le

normali funzioni vitali, necessitano di energia.

Essa è ottenibile attraverso una gran varietà di vie

metaboliche, durante le quali il consumo di una

molecola presente nell’ambiente che funga da

accettore di elettroni è indispensabile. I batteri

denitrificanti, per esempio, si servono dello ione

nitrato (NO3-) riducendolo ad azoto molecolare

(N2). Altri organismi, invece, i cosiddetti batteri

metanogeni, sono in grado di ridurre anidride

carbonica (CO2) a metano (CH4). Analogamente,

altri composti o ioni sono impiegati dagli altri

esseri viventi allo stesso scopo.

Tra tutti, è però l’ossigeno molecolare (O2)

l’accettore di elettroni che permette il massimo

guadagno energetico a parità di tutti gli altri

fattori, nonché quello utilizzato dalla maggior

parte degli organismi attualmente viventi.

L’importanza dell’ossigeno come accettore di

elettroni è sottolineata dalla netta distinzione che

fanno gli ecologi definendo aerobi gli organismi il

cui metabolismo è basato sul consumo di questa

molecola e anaerobi tutti gli altri. I taxa di

Eucarioti attualmente viventi sono quasi tutti

aerobi, così come la maggior parte dei Procarioti.

Questo non sorprende alla luce di due

considerazioni. La prima, precedentemente

enunciata, è costituita dall’efficienza assoluta

dell’O2 in termini di guadagno energetico in

seguito al suo impiego nel metabolismo. La

seconda risiede nell’abbondanza di questa

molecola sul nostro pianeta.

L’ossigeno molecolare, essendo gassoso, si trova

prevalentemente in atmosfera e di essa ne

occupa più di un quinto del volume (21%),

secondo solo all’azoto molecolare (78%). Inoltre,

la sua solubilità in acqua fa sì che l’ossigeno si

trovi anche in idrosfera come gas disciolto, con

concentrazioni massime nelle acque superficiali e

fredde. Nel Mar Glaciale Artico la concentrazione

media annuale in superficie può arrivare a circa

9,5mL/L (World Ocean Atlas 2013). Ambienti

anossici, completamente privi di ossigeno,

costituiscono l’eccezione sulla Terra. Si trovano

ad esempio in ridotti bacini eutrofici, oppure

nelle profondità oceaniche qualora si verifichino

determinate condizioni, tra le quali un’assenza di

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mescolamento con le acque ossigenate

superficiali e un’accentuata decomposizione nei

fondali (Diaz 2001).

L’ossigeno è quindi presente in modo diffuso sulla

Terra. Ma nella storia del pianeta non è sempre

stato così.

L’era pre-GOE

Nella prima metà circa della sua storia

l’atmosfera terrestre era dominata da anidride

carbonica, azoto molecolare e metano -

quest’ultimo accumulatosi massicciamente in

seguito all’evoluzione dei batteri metanogeni,

avvenuta nel primo Archeano (Kasting 2014). I

livelli di ossigeno rimasero al di sotto dello

0,001% rispetto al livello attuale o PAL (present

atmospheric level; Kump 2008, Lyons et al. 2014)

fino a subire una rapida crescita tra 2,5 e 2,3

miliardi di anni fa (Bya) nota come Great

Oxydation Event o GOE (Fig.1). Le evidenze di

questo evento sono parecchie e ormai tutti gli

scienziati sembrano riconoscerlo (fa eccezione:

Ohmoto 1996). Tra di essi vi è invece discordanza

sul momento in cui comparve la fotosintesi

ossigenica, oggi operata dalle piante e dai

cianobatteri per convertire l’energia solare in

energia chimica. Esplorare la questione è

importante in quanto la produzione di O2

mediante meccanismi diversi da questo - come la

fotolisi del vapore acqueo innescata dai raggi UV

(Buick 2008) - è quantitativamente irrilevante e

dunque la fotosintesi ossigenica può essere

considerata l’unica fonte significativa di O2 sulla

Terra (Buick 2008, Lyons et al. 2014).

La spiegazione che appare più intuitiva è che la

fotosintesi ossigenica si sia evoluta in

corrispondenza - e sia stata quindi una diretta

causa - del GOE (Kopp et al. 2005). Tuttavia molti

indizi contrastano con questa visione e fanno sì

che l’ipotesi più supportata sia quella di una

fotosintesi apparsa molto tempo prima. Secondo

questa ipotesi l’ossigeno non si sarebbe potuto

accumulare in atmosfera prima del GOE per il suo

continuo sequestro messo in atto dall’ossidazione

dei composti riducenti che fino a quel momento

dominavano il pianeta (Catling & Claire 2005,

Kump & Barley 2007, Gaillard et al. 2011).

Le stime sulla comparsa della fotosintesi

ossigenica spaziano tra i 3,8 e i 2,35 Bya e la

difficoltà sta soprattutto nello stabilire se i

fenomeni osservabili nel record geologico

richiedano indiscutibilmente la presenza o

l’assenza di O2. Con ogni probabilità, i primi

organismi fotosintetici erano unicellulari e simili

agli attuali cianobatteri. Ma i microfossili risalenti

all’Archeano (4,0-2,5 Bya) hanno una forma

troppo semplice, che rende difficile determinarne

il tipo di metabolismo (Lyons et al. 2014).

Similmente, al giorno d’oggi le stromatoliti

archeane non sono imputabili in modo certo a

una genesi biogenica, perciò non costituiscono

una prova inconfutabile della presenza di

fotosintesi ossigenica (Bosak et al. 2013).

Analisi su scisti archeani e neogenico-quaternari

(23-0 Mya) mostrano dati sul contenuto totale di

carbonio organico (TOC, total organic carbon)

pressoché identici nei due periodi, suggerendo

l’esistenza anche prima del GOE di un

metabolismo particolarmente efficiente, come un

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qualche tipo di fotosintesi. Varie considerazioni

sfavoriscono l’utilizzo di donatori di elettroni

come H2S, Fe2+ o H2 (rispettivamente: acido

solfidrico, ferro bivalente e idrogeno molecolare)

legati a fotosintesi diverse: la fotosintesi

ossigenica, che invece ricorre all’acqua (H2O), è

quella più probabile per giustificare i dati sul TOC

(Lyons et al. 2014).

Entrando più nel dettaglio, altri studi hanno

ricercato informazioni dai biomarcatori, fossili

molecolari derivanti da composti organici primari

che a volte sono legati a uno specifico produttore

biologico. L’individuazione di sterani eucarioti-

dipendenti in scisti australiani di Pilbara Craton

(Brocks et al. 1999) fornirebbe non solo una

prova dell’esistenza di cellule eucariotiche circa

2,7 Bya (ben 800-900 milioni di anni prima dei più

antichi fossili eucariotici; Xiao et al. 2013) ma

anche un sostegno a favore della presenza di O2,

in quanto richiesto, sebbene a bassissime

concentrazioni, per la sintesi di tali idrocarburi

(Lyons et al. 2014). Anche risultati più recenti

concordano con quelli di Brocks et al. (Waldbauer

et al. 2011). Tuttavia l’integrità dei dati ricavati

dai biomarcatori è molto dibattuta (Kopp et al.

2005, Xiao 2013, Lyons et al. 2014) e vari altri tipi

di analisi (si veda ad esempio: Parfrey et al. 2011)

fanno risalire la comparsa degli Eucarioti a GOE

ormai avvenuto, permettendo di dubitare dei dati

di Brocks et al. (1999) e del relativo sostegno a

favore di una fotosintesi ossigenica pre-GOE. Il

campo di battaglia sui biomarcatori rimane

comunque più che aperto.

Alcuni metalli (RSM, redox-sensitive metals)

variano la propria reattività e solubilità in

relazione alla valenza. Molibdeno (Mo) e renio

(Rh) sono ricorrenti nei minerali come i solfuri e

quando si ossidano in ambiente subaereo

vengono rilasciati nei fiumi e raggiungono gli

oceani, dove poi si possono depositare (Lyons et

al. 2014). Arricchimenti di tali metalli in sedimenti

marini depositati anteriormente al GOE sono stati

messi in luce da alcune indagini (Anbar et al.

2007, Duan et al. 2010). I ricercatori hanno

fornito varie possibili spiegazioni ma quella più

parsimoniosa riguarda proprio l’esistenza di O2 in

atmosfera, in grado di provocare l’alterazione

ossidativa di questi elementi persino a

concentrazioni molto basse (Duan et al. 2010,

Lyons et al. 2014), compatibili con le

quantificazioni riportate in precedenza (< 0,001%

PAL).

Rocce meta-sedimentarie della Isua Greenstone

Belt (Groenlandia) sono state sottoposte ad

analisi isotopiche sul carbonio (C) e sul sistema

uranio-torio-piombo (U-Th-Pb) (Rosing & Frei

2004). In particolare, è stato calcolato un elevato

rapporto U/Th. U è solubile solo in fluidi

ossidanti, mentre la mobilità di Th è indipendente

dallo stato ossidativo dell’ambiente; ciò rende

plausibile che almeno le acque superficiali

fossero relativamente ossidate per la presenza di

organismi fotosintetizzanti (Rosing & Frei 2004,

Buick 2008). Questa visione è naturalmente

contrastata da altre (Kopp et al. 2005), ma se è

corretta fornisce la stima più antica sulla

comparsa della fotosintesi ossigenica, datandola

a più di 3,7 Bya.

Tra le formulazioni di possibili scenari, alcune

ipotizzano temporanei “soffi di ossigeno” (whiffs

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Figura 1. | Evoluzione nel tempo del contenuto di ossigeno dell’atmosfera terrestre. La curva viola mostra la visione classica a due

step, mentre la curva blu mostra il modello emergente dalla visione di Lyons et al. (2014). L’asse destro indica la pO2 relativa al

livello attuale (PAL), mentre l’asse sinistro indica il log pO2. Le frecce denotano possibili ‘soffi di ossigeno’ nell’Archeano. I riquadri

mostrano i due ‘cambi di stato’, globalmente accettati, dei livelli atmosferici di O2: il GOE e il NOE. Gli altri eventi di fluttuazione che

ebbero luogo nella storia non costituirono variazioni permanenti, ma soltanto aberrazioni temporanee. [Fonte: Lyons et al. 2014]

of oxygen; Fig.1) verificatisi più volte durante

l’Archeano (Anbar et al. 2007, Lyons et al. 2014)

mentre altre ritengono più probabile la presenza

di “oasi di ossigeno” (oxygen oases) in acque

superficiali, caratterizzate da alta produttività,

ridotto consumo biologico e ridotto scambio di O2

con acque profonde ed atmosfera (Olson et al.

2013).

In ogni caso, sembra più lecito pensare che la

fotosintesi ossigenica si sia evoluta con largo

anticipo rispetto al GOE, piuttosto che in

concomitanza con esso. Analisi molto recenti su

rocce della Sinqeni Formation (Pongola,

Sudafrica) risalenti a più di 2,95 Bya, che rivelano

un’influenza degli ossidi di manganese (Mn) sul

frazionamento degli isotopi di Mo, sembrano

confermare tutto ciò (Planavsky et al. 2014).

Anche analisi completamente diverse da quelle

geochimiche giungono alla stessa conclusione

(David & Alm 2011, Schirrmeister et al. 2013). È

preferibile quindi escludere un’innovazione

biologica di tale portata nel ricercare le possibili

cause dirette che scatenarono il GOE.

Il GOE

Il Great Oxidation Event, un imponente

incremento nei livelli di O2 da meno dello 0,001%

fino all’ 1-40% della PAL (Kump 2008), ebbe luogo

tra 2,5 e 2,3 Bya (Fig.1). In realtà possiamo essere

più precisi nel definire questo intervallo e

collocare il GOE tra 2,47 e 2,32 Bya, con una

probabilità maggiore che sia avvenuto poco

prima di 2,32 Bya (Bekker et al. 2004). La

precisione di queste stime e la stessa

individuazione del GOE sono rese possibili da

diverse proxy. Tra di esse troviamo: la

distribuzione nel tempo delle banded iron

formations (BIFs) e dei redbeds (Cloud 1972), il

frazionamento degli isotopi del C (Schoell &

Wellmer 1981) e soprattutto il frazionamento

degli isotopi dello zolfo (S) (Farquhar et al. 2000).

Nelle attuali condizioni ossidanti, gli isotopi di S

vengono frazionati quasi totalmente dagli

organismi viventi durante i normali processi

biologici. Questo frazionamento ha luogo in

maniera dipendente dalla massa (MDF, mass-

dependent fractionation) e rispetta rapporti

molto precisi tra i vari isotopi di S. Per questo

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motivo la MDF è distinguibile dalla MIF (mass-

independent fractionation), che al contrario non

separa gli isotopi secondo regole fisse. La MIF si

attua principalmente per processi abiotici come

la fotodissociazione dell’anidride solforosa (SO2)

presente in atmosfera. La scissione di questa

molecola è praticata dai raggi UV, perciò può

verificarsi in modo tangibile solo in assenza di una

schermatura a questi raggi da parte di uno strato

di ozono (O3), a sua volta esistente in presenza di

O2 in atmosfera. In altre parole, in assenza di O2

la fotodissociazione della SO2 può avvenire ed

avviene in maniera preponderante, mentre in

presenza di O2 essa sarà irrisoria rispetto al

frazionamento biologico. Riscontrare MIF in rocce

sedimentarie deposte in un determinato periodo

indica dunque assenza di O2 in atmosfera in quel

periodo, mentre osservare MDF indica la sua

presenza. Proprio la scomparsa di MIF tra circa

2,4 e 2,3 Bya, fino a quel momento prevalente, e

il coincidente affermarsi di MDF fino ai giorni

nostri ci permettono di datare il GOE con relativa

precisione (Fig.2; Farquhar et al. 2000, Bekker et

al. 2004).

Una complicazione deriva da risultati molto

recenti (Reinhard, Planavsky & Lyons 2013). Essi

rendono verosimile una sopravvivenza di segnali

di MIF nel record sedimentario fino a 10-100

milioni di anni dopo la crescita della pO2. Gli

autori sostengono che i segnali di MIF in pirite e

altri solfuri generati in assenza di O2 atmosferico,

una volta che tali minerali furono riaffiorati,

alterati, dilavati e riseppelliti, si sarebbero

conservati a lungo nonostante i livelli atmosferici

di O2 fossero già sensibilmente alti; sarebbero

occorsi quindi ripetuti cicli di riaffioramento,

alterazione, diluizione e seppellimento sotto

un’atmosfera ossidativa per eliminare il segnale

di MIF dalle rocce sedimentarie (Reinhard

Planavsky & Lyons 2013, Lyons et al. 2014).

Questo cosiddetto ‘crustal memory effect’ non

solo complicherebbe la stima dei livelli di O2

archeani e la datazione di inizio del GOE (che

risulterebbe anticipata di qualche decina di

milioni di anni; Fig.1), ma renderebbe lecito

pensare al GOE come a un processo prolungato

piuttosto che a un evento discreto marcato dalla

perdita di MIF nel record geologico (Lyons et al.

2014). Visto in quest’ottica, il GOE fu un intervallo

di transizione durante il quale i livelli di ossigeno

salirono e scesero ripetutamente, riflettendo un

equilibrio dinamico tra la sua produzione e il suo

sequestro. Inizialmente la produzione prevalse a

intermittenza, poi permanentemente (Lyons et

al. 2014).

Nella ricerca del fattore che innescò il GOE, dopo

aver scartato la fotosintesi ossigenica ed essendo

essa l’unica fonte significativa di O2 (source), non

resterebbe che individuare quale fu il

meccanismo di perquisizione di O2 (sink) che

smise di funzionare o diminuì drammaticamente

la sua efficienza. Uno dei sink di O2 è dato dai

processi di respirazione anaerobica e di

decomposizione, che insieme all’ossigeno

consumano materia organica. L’efficienza di

questo sink potrebbe essere crollata in seguito a

un gran seppellimento di materia organica, che

sarebbe stata così sottratta dall’azione degli

eterotrofi e dei decompositori. Tuttavia i dati sul

δ13C non evidenziano nessuna coincidenza tra il

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Figura 2. | Sommario dei dati sugli isotopi di C (nero) e S (rosso e grigio). I dati sono mostrati come δ13

C (asse sinistro) e Δ33

S (asse

destro). Da notare: l’ampio intervallo di valori del Δ33S durante l’Archeano e la sua successiva riduzione intorno allo 0, la larga

escursione del δ13

C nel primo Proterozoico e la sua relativa stasi nel medio Proterozoico. [Fonte: Lyons et al. 2014]

GOE ed un evento di elevato seppellimento di

materia organica, cosa che permette di scartare

questa ipotesi (Lyons et al. 2014).

L’idea che tutt’ora rimane intatta è che in quel

preciso momento geologico diminuì l’efficienza

del sink dato dall’ossidazione dei gas ridotti in

atmosfera. Secondo i sostenitori di questa

ipotesi, ciò fu dovuto a un turn-over nella natura

dei gas emessi dai vulcani, associato a una

riorganizzazione tettonica (che classicamente

viene assunta per marcare il limite tra Archeano e

Proterozoico). Nell’Archeano dominavano

eruzioni sottomarine, con immissione di CH4, H2 e

H2S in atmosfera. Questi gas, però, con la

successiva formazione e stabilizzazione dei

continenti vennero soppiantati da H2O, CO2 e SO2,

caratteristici delle eruzioni in ambiente subaereo.

Gas ad uno stato ossidativo superiore

sostituirono quindi gas riducenti, permettendo

all’ossigeno di accumularsi in atmosfera (Kump &

Barley 2007).

Alcuni autori pongono particolare enfasi su un

fattore che potrebbe aver contribuito

all’accumulo di O2 in atmosfera, ovvero una fuga

di H2, gas riducente, nello spazio ad una velocità

molto maggiore di quanto avviene attualmente

(Catling et al. 2001). In ogni caso appare chiaro

che alla fine i source prevalsero sui sink e

l’atmosfera terrestre subì una vera rivoluzione

ossidativa.

A livello biologico, le conseguenze di ciò furono

radicali: il GOE cambiò la storia della vita sulla

Terra, abilitando il successo della vita aerobica

(Schirrmeister et al. 2013). Gli organismi viventi

dovettero adattarsi alla presenza di una molecola

probabilmente tossica per molti di loro; vennero

così favoriti gli aerobi, che fino a quel momento

vivevano confinati nelle oxygen oases, mentre gli

anaerobi furono costretti a rifugiarsi nelle

profondità oceaniche, che rimasero anossiche

(Lenton 2003). Nel record fossile gli Eucarioti

cominciano a riscontrarsi in modo indubbio nel

Proterozoico, a GOE ormai avvenuto (Xiao 2013).

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Non è escluso che essi siano comparsi in

precedenza, vivendo in ambienti anossici (con

metabolismi anaerobi) o nelle oasi di ossigeno

(Lenton 2003), ma sicuramente con la grande

ossidazione per gli Eucarioti ci fu la possibilità di

prosperare. La nascita del nostro regno, gli

Animali, dovette però attendere ancora a lungo,

tutta la cosiddetta età di mezzo della Terra, il

Proterozoico.

Il Proterozoico

Il Proterozoico (2,5-0,55 Bya) fu per la maggior

parte caratterizzato da una grande stabilità dei

livelli di O2. Probabilmente però, nella fase

immediatamente successiva al GOE, lo scenario

fu molto dinamico, con un ulteriore incremento

iniziale e un successivo sprofondamento dei livelli

di ossigeno (Fig.1; Lyons et al. 2014). Queste

affermazioni derivano in parte da analisi su RSM

negli oceani (Frei et al. 2009, Partin et al. 2013),

ma non solo.

Si può infatti constatare grazie a studi condotti su

rocce di varie località del mondo, che tra circa

2,22 e 2,06 Bya si verificò in assoluto il più grande

scostamento positivo del δ13C nella storia della

Terra (Fig.2; Karhu & Holland 1996, Martin et al.

2013), la cosiddetta Lomagundi excursion, dal

nome della località dello Zimbabwe dove fu per la

prima volta registrata (Martin et al. 2013).

Questo picco si può spiegare con un tasso di

seppellimento di carbonio organico

eccezionalmente alto, che avrebbe condotto

quindi a un incremento straordinario della

concentrazione atmosferica di O2 durante questo

periodo (Karhu & Holland 1996). Le stime

mettono in luce livelli di O2 addirittura al di sopra

dell’attuale inventario (Karhu & Holland 1996).

Da questa interpretazione della Lomagundi

excursion, che resta la più parsimoniosa (Lyons et

al. 2014), si deduce che il nuovo accumulo di

ossigeno fu dovuto a una perdita di efficienza del

sink dato dalla decomposizione e dalla

respirazione aerobica: in tempi relativamente

rapidi, molta materia organica fu sottratta

dall’azione di eterotrofi e decompositori, che

consumarono perciò una quantità di O2

nettamente inferiore.

Secondo un’altra ipotesi, invece, è più probabile

che l’incremento massiccio di O2 sia avvenuto a

causa di una produzione straordinaria da parte

dei cianobatteri attraverso la fotosintesi

ossigenica, resa possibile da una maggiore

disponibilità di fosfati, dovuta a sua volta a tassi

di alterazione accelerati, eventi tettonici, o

condizioni greenhouse post-glaciali (Papineau et

al. 2012) – nel Paleoproterozoico (2,5-1,6 Bya)

difatti si verificarono alcuni eventi di glaciazione

globale.

Molti aspetti di questa crescita e della successiva

caduta dei livelli di ossigeno rimangono pertanto

questioni aperte. Oltre che sulle cause,

permangono interrogativi sulle conseguenze

biologiche di queste fluttuazioni; finora nessun

evento significativo è stato riscontrato a riguardo

(Lyons et al. 2014). Indipendentemente dai

meccanismi che lo determinarono, comunque,

questo andamento, inserito nella curva storica

della pO2, contrasta con i modelli classici, che

solitamente invocano un aumento unidirezionale

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dall’Archeano fino ai giorni nostri (Lyons et al.

2014), dando luogo a un modello più dinamico

(Fig.1).

A cavallo del Mesoproterozoico (1,6-1,0 Bya), per

circa un miliardo di anni, la concentrazione

atmosferica di ossigeno rimase a una quota

stabile e molto bassa, forse minore dello 0,1%

della PAL (Fig.1; Lyons et al. 2014). A suffragare

tale affermazione, analisi su Mn in paleosuoli e su

Cr (cromo) in sedimenti mesoproterozoici

indicano una scarsa ossidazione terrestre del Mn,

che normalmente si effettua perfino a

concentrazioni di O2 molto basse (< 0,001% PAL;

Zbinden et al. 1988, Frei et al. 2009).

Naturalmente non fu solo l’atmosfera ad essere

contraddistinta da queste condizioni, ma anche

l’idrosfera. Inizialmente vennero ipotizzate

condizioni di euxinia (mancanza di O2 accoppiata

a una sovrabbondanza di H2S) globalmente

diffuse negli oceani da 1,8 a 0,8 Bya circa

(Canfield 1998). Uno stato scarsamente

ossidativo e una ricchezza di H2S sono entrambi

fattori che agiscono negativamente sulla

presenza di Mo nelle acque (Lyons et al. 2014).

Ciò potrebbe aver avuto un ruolo chiave nel

determinare la scarsa efficienza fotosintetica dei

cianobatteri e la scarsa diversità eucariotica

proprie dell’età di mezzo della Terra. I

cianobatteri infatti necessitano di Mo per la

sintesi della nitrogenasi, l’enzima che permette

loro di fissare l’azoto atmosferico. Una carenza di

Mo nelle acque avrebbe dunque provocato per i

cianobatteri una diminuzione dell’efficienza

dell’azotofissazione, che si sarebbe ripercossa su

una scarsa efficienza del loro metabolismo in

toto, compresa la fotosintesi ossigenica. Livelli

bassi di O2 avrebbero poi sfavorito la

diversificazione degli Eucarioti, chiudendo il

circolo vizioso mesoproterozoico (Anbar & Knoll

2002).

Analisi sui livelli di Mo in questo periodo

mostrano valori molto bassi, eppure non

abbastanza da giustificare condizioni euxiniche

globali (Lyons et al. 2014). Nuovi modelli, infatti,

mettono in luce che in questo periodo il 30-40%

degli oceani era anossico e che solo una parte

minoritaria di questo (1-10%) era anche euxinica

(Reinhard et al. 2013). Le rimanenti porzioni

dell’oceano presentavano comunque livelli di O2

bassissimi, situazioni dette subossiche o

ipossiche. Ad ogni modo le condizioni non erano

favorevoli per un apporto di metalli bioessenziali

(come il Mo) sufficiente a soddisfare gli standard

ottimali richiesti dagli organismi viventi (Lyons et

al. 2014). Una serie di fattori tra loro concatenati

negarono quindi ai viventi la possibilità di

diversificarsi ed evolversi in modo palpabile nel

Proterozoico. Per quanto riguarda la pO2, si

dovette attendere fino alla fine dell’Eone per

assistere a un’ulteriore definitiva spinta, nota

come Neoproterozoic Oxidation Event o NOE.

Il NOE

Purtroppo, nonostante l’età relativamente

giovane, molto rimane sconosciuto sull’atmosfera

del Neoproterozoico (1,0-0,55 Bya) e sulle sue

relazioni con le forme di vita (Lyons et al. 2014).

Quel che si sa riguardo all’ossigeno è che in

questo periodo - più verosimilmente nella fase

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finale - la sua concentrazione crebbe fino a

raggiungere un ordine di grandezza paragonabile

a quello odierno (Fig.1). A testimoniare il NOE

troviamo ancora una volta diverse proxy tra cui

analisi su C e S (Fike et al. 2006) e su RSM come

Mo, V (vanadio) e U (Scott et al. 2008, Sahoo et

al. 2012), effettuate su rocce di varie parti del

mondo.

Non è ben chiaro quanto questo trend fu

protratto nel tempo: a tal proposito restano

aperte possibilità che si sia manifestato con

continue crescite e decrescite durante tutto

l’Ediacarano (635-541 Mya) oppure che sia

cominciato prima dell’evento di Snowball Earth

Marinoano (650-635 Mya), e in questo caso abbia

contribuito a scatenare i cambiamenti climatici

che seguirono (Lyons et al. 2014).

Le ipotesi sulle cause che determinarono il NOE

sono numerose. L’innalzamento dei livelli di O2

potrebbe essere stato generato da un’alterazione

dei cicli dei nutrienti scatenata dalla glaciazione

marinoana, che avrebbe favorito una maggiore

produttività organica o un maggior seppellimento

organico (Sahoo et al. 2012). È altrettanto

probabile che tali cambiamenti furono prodotti

da rinnovamenti tettonici globali durante il

Neoproterozoico o da un tasso di diversificazione

algale superiore alla norma (Lyons et al. 2014).

Ulteriori ricerche sono quindi necessarie per fare

più chiarezza.

Con il NOE le profondità oceaniche vennero

ossigenate forse per la prima volta (Canfield

1998). È inoltre noto che la seconda grande

crescita della pO2 avvenne in concomitanza con

l’emergenza dei metazoi. Ciò viene

comunemente interpretato attribuendo alle

condizioni scarsamente ossidative del

Mesoproterozoico una inadeguatezza nel

supportare l’elevata domanda energetica di una

vita pluricellulare, condizioni che si sarebbero poi

verificate solo dopo il NOE (Lyons et al. 2014).

Pochi spiegano invece il ritardo della comparsa

degli animali come un vincolo dell’evoluzione

biologica (Butterfield 2009). Per questa ipotesi si

sarebbe trattato soltanto di una questione di

tempo: una complessità genica così elevata si

sarebbe potuta raggiungere solo dopo miliardi di

anni dalla nascita della vita.

Forse livelli così alti di ossigeno non furono

indispensabili per la nascita della pluricellularità,

o per sostenere il metabolismo dei primi animali

viventi (Mills et al. 2014), ma quasi

inevitabilmente sono richiesti per spiegare

l’ingente diversità animale, l’avvento della

biomineralizzazione, la straordinaria crescita di

dimensioni corporee, la complessità dei rapporti

prede-predatori e gli altri grandi passi storici

dell’evoluzione biologica (Lenton 2003, Lyons et

al. 2014).

Allo stesso modo, non si può negare che una così

grande innovazione nella storia della vita abbia

influenzato a sua volta caratteristiche ambientali

globali come i cicli dei nutrienti e la composizione

atmosferica, compresa quindi la quota di

ossigeno. Perciò, con la nascita degli animali, la

rete di feedback reciproci tra vita e ambiente si

infittì rispetto al passato: variazioni nell’uno

generalmente scatenano mutamenti nell’altro e

viceversa (Erwin et al. 2011, Lyons et al. 2014).

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Il Fanerozoico

L’ultimo Eone, il Fanerozoico (541-0 Mya) è

caratterizzato da una relativa stabilità dei livelli di

ossigeno, che si mantennero sempre al di sopra

del 10% del volume atmosferico (Berner 2006).

Tuttavia, analisi dettagliate – principalmente su C

e S – permettono di osservare le fluttuazioni della

curva della pO2 occorse in questo periodo (Fig.3;

Berner 2006).

Figura 3. | Evoluzione nel tempo del contenuto atmosferico

di ossigeno durante il Fanerozoico. I valori osservabili nel

grafico sono quelli stimati da Berner (2006). In ascissa è

riportato il tempo in milioni di anni dal presente, in ordinata

la percentuale del volume di atmosfera occupata

dall’ossigeno molecolare. [Fonte: Berner 2006]

In particolar modo colpisce il picco a cavallo tra il

Carbonifero (359-299 Mya) e il Permiano (299-

251 Mya), durante il quale la concentrazione

atmosferica di O2 raggiunse il 30%. A causare

l’aberrazione fu probabilmente un elevato tasso

di seppellimento di materia organica dovuto

all’impiego da parte delle piante di un nuovo tipo

di sostanza resistente alla degradazione, la

lignina, che tra l’altro fu essenziale per

l’evoluzione di piante di grandi dimensioni

(Berner et al. 2007). Durante questo intervallo di

tempo, nel regno animale si verificò un generale

aumento di dimensioni corporee, che in alcuni

taxa di insetti condusse al gigantismo (Lenton

2003, Berner et al. 2007). Esso viene

generalmente attribuito a un miglioramento

dell’efficienza degli apparati respiratori degli

animali legato a un aumento della pressione di O2

(Berner et al. 2007) ma è anche possibile che tali

organismi possedessero speciali adattamenti per

concentrare l’ossigeno (Lenton 2003) o che

l’abbondanza di tale gas non fu il fattore

principale nel determinare il gigantismo

(Butterfield 2009).

Anche l’accrescimento post-cretacico (da 65 Mya)

dei mammiferi placentati è stato ascritto a un

corrispondente aumento dei livelli di ossigeno

(Falkowski et al. 2005) ma il meccanismo e le

eventuali prove di un diretto rapporto causa-

effetto rimangono ignoti (Berner et al. 2007).

L’origine del volo nei vertebrati ebbe luogo tra

fine Giurassico e inizio Cretaceo (tra 150 e 100

Mya circa; Lenton 2003). Sebbene in precedenza

quest’innovazione venne utilizzata come prova di

un nuovo picco positivo di pO2, non ci sono

evidenze geologiche che questo sia realmente

avvenuto (Lenton 2003). Al contrario, sembra che

al momento del primo involo dei vertebrati, i

livelli di O2 fossero relativamente bassi (Fig.3).

Perciò l’evoluzione del volo fu più realisticamente

dovuta a spinte evolutive, come un vantaggio

durante la fuga da un predatore (Lenton 2003).

Infine, tre fra i più incisivi episodi di estinzione di

massa della storia sembrano essere avvenuti in

fasi di declino della pO2: nel tardo evoniano

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( 364 Mya), al limite Permo-Triassico ( 251 Mya) e

al limite Triassico- iurassico ( 201 Mya) (Berner

et al. 2007). Anche in questo caso troviamo le più

svariate interpretazioni. Alcuni tendono ad

assegnare alla caduta di ossigeno la

responsabilità principale delle estinzioni (Berner

et al. 2007). All’estremo opposto, altri

concludono che non fu questo fattore a guidare

le repentine perdite di biodiversità (Glasspool &

Scott 2010). Altri ancora invece pongono il

declino di ossigeno all’interno del complesso di

fattori che essi sostengono occorrano per

spiegare tali catastrofi (Shen et al. 2011).

La storia dell’ossigeno e quella vita sembrano

comunque in stretto contatto reciproco e

l’ossigeno resta tuttora un elemento

fondamentale per l’evoluzione della vita

complessa. Nuovi lavori aiuteranno ad aggiungere

un numero sempre maggiore di dettagli a questa

affascinante storia.

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