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EL’oratoria del IV secolo La Macedonia di Filippo e i conflitti con le poleis Le origini del popolo macedone ci sono ignote, in par- te perché oscurate dagli antichi miti greci e in parte perché in questo campo le indagini archeologiche si trovano ancora in fase iniziale. La questione si com- plica ulteriormente se con «macedone» ci riferiamo a un popolo con caratteristiche etniche distinte da quelle dei Greci che vivevano prevalentemente a sud e degli altri popoli balcanici che risiedevano a ovest, a nord e a est: in questo caso entrano infatti in gioco le sofisticate teorie relative alle modalità e alle cir- costanze della comparsa di etnie distinte. Una cosa tuttavia è certa: in assenza di testimonianze letterarie o archeologiche che depongano con chiarezza a favo- re dell’ipotesi della migrazione, anziché interrogarsi sulla provenienza di un certo popolo oggi gli studiosi tendono piuttosto a domandarsi in che modo esso sia emerso. Il diffusionismo, tanto popolare tra gli spe- cialisti di preistoria dell’Europa negli anni ‘30 di que- sto secolo, ha ceduto il passo a un’impostazione diver- sa, fondata sulla constatazione che in molti casi etnie distinte emergono all’interno di popolazioni stabili in seguito al mutare delle circostanze, a nuove influenze culturali, allo sviluppo di tecnologie di adattamento e a nuove necessità. L’ipotesi tradizionale, sostenuta da molti studiosi greci moderni e da un piccolo numero di altri studiosi europei, in particolare britannici, il popolo macedone sarebbe di origine ellenica. A sostegno di tale ipotesi viene citato un passo di Esiodo, secondo il quale il mi- tico progenitore dei Macedoni, Macedone, sarebbe sta- to figlio di Zeus e di Tia, figlia di Deucalione, Erodoto, d’altra parte, classifica diversi popoli pelopennesiaci come appartenenti all’«ἔθνος dorico e macedone». Nel trattare l’origine della famiglia reale macedone, gli Argeadi, Erodoto narra di tre fratelli che, profughi da Argo, presero la via del Nord . Uno di essi, Perdic- ca, raggiunse infine il predominio sulla popolazione del luogo e fondò la dinastia che si sarebbe estinta solo alla fine del IV secolo a.C., con la morte del fra- tellastro di Alessandro Magno, Arrideo, e del figlio di Alessandro, Alessandro IV. Ma ormai si è appurato che la genealogia che fa capo a Macedone non è ellenica, e che il collegamento dei primi Macedoni e della casa reale macedone con i Dori e gli Argivi fu inventato dai Macedoni del v secolo a.C. per cercare di accattivarsi il mondo greco. Non è più dunque possibile connettere le origini dei Macedoni ad alcuna tradizione letteraria antica, visto che i Macedoni, al pari di molti altri po- poli antichi, idearono una mitologia di fondazione che potesse rispondere alle loro esigenze del momento. Dal punto di vista archeologico gli studi più recenti hanno dimostrato che la Macedonia non faceva par- te del mondo miceneo, vale a dire del mondo greco più antico. Nei siti macedoni sono stati rinvenuti L’ORATORIA DEL IV SECOLO

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L’oratoria del IV secolo

LLLLLETTURA CRITICAETTURA CRITICAETTURA CRITICAETTURA CRITICAETTURA CRITICA La Macedonia di Filippo e i confl itti con le poleis

Le origini del popolo macedone ci sono ignote, in par-te perché oscurate dagli antichi miti greci e in parte perché in questo campo le indagini archeologiche si trovano ancora in fase iniziale. La questione si com-plica ulteriormente se con «macedone» ci riferiamo a un popolo con caratteristiche etniche distinte da quelle dei Greci che vivevano prevalentemente a sud e degli altri popoli balcanici che risiedevano a ovest, a nord e a est: in questo caso entrano infatti in gioco le sofisticate teorie relative alle modalità e alle cir-costanze della comparsa di etnie distinte. Una cosa tuttavia è certa: in assenza di testimonianze letterarie o archeologiche che depongano con chiarezza a favo-re dell’ipotesi della migrazione, anziché interrogarsi sulla provenienza di un certo popolo oggi gli studiosi tendono piuttosto a domandarsi in che modo esso sia emerso. Il diffusionismo, tanto popolare tra gli spe-cialisti di preistoria dell’Europa negli anni ‘30 di que-sto secolo, ha ceduto il passo a un’impostazione diver-sa, fondata sulla constatazione che in molti casi etnie distinte emergono all’interno di popolazioni stabili in seguito al mutare delle circostanze, a nuove influenze culturali, allo sviluppo di tecnologie di adattamento e a nuove necessità. L’ipotesi tradizionale, sostenuta da molti studiosi greci moderni e da un piccolo numero di altri studiosi europei, in particolare britannici, il popolo macedone

sarebbe di origine ellenica. A sostegno di tale ipotesi viene citato un passo di Esiodo, secondo il quale il mi-tico progenitore dei Macedoni, Macedone, sarebbe sta-to figlio di Zeus e di Tia, figlia di Deucalione, Erodoto, d’altra parte, classifica diversi popoli pelopennesiaci come appartenenti all’«ἔθνος dorico e macedone». Nel trattare l’origine della famiglia reale macedone, gli Argeadi, Erodoto narra di tre fratelli che, profughi da Argo, presero la via del Nord . Uno di essi, Perdic-ca, raggiunse infine il predominio sulla popolazione del luogo e fondò la dinastia che si sarebbe estinta solo alla fine del IV secolo a.C., con la morte del fra-tellastro di Alessandro Magno, Arrideo, e del figlio di Alessandro, Alessandro IV. Ma ormai si è appurato che la genealogia che fa capo a Macedone non è ellenica, e che il collegamento dei primi Macedoni e della casa reale macedone con i Dori e gli Argivi fu inventato dai Macedoni del v secolo a.C. per cercare di accattivarsi il mondo greco. Non è più dunque possibile connettere le origini dei Macedoni ad alcuna tradizione letteraria antica, visto che i Macedoni, al pari di molti altri po-poli antichi, idearono una mitologia di fondazione che potesse rispondere alle loro esigenze del momento. Dal punto di vista archeologico gli studi più recenti hanno dimostrato che la Macedonia non faceva par-te del mondo miceneo, vale a dire del mondo greco più antico. Nei siti macedoni sono stati rinvenuti L’

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manufatti micenei, ma si tratta di oggetti importati oppure di imitazioni locali, non di reperti attestanti la presenza di insediamenti micenei. Se nella tarda età del Bronzo la Macedonia non era greca, quando e in quali circostanze lo divenne? Di sicuro, fatta ecce-zione per alcune località costiere, la diffusione degli insediamenti greci che contraddistinse l’età della co-lonizzazione non interessò la Macedonia e, all’epoca del pieno sviluppo delle poleis greche, cioè nel VI e nel V secolo, il regno dei Macedoni era già un’entità distinta. Perciò siamo inevitabilmente indotti a con-cludere che gli elementi ellenici presenti nella cultura macedone dell’epoca classica non sono indice di una comune origine preistorica dei Greci e dei Macedoni, ma piuttosto la conseguenza di un processo di elleniz-zazione avvenuto in età storica. Qualunque sia stato il grado di ellenizzazione a cui pervennero i Macedoni, essi lasciarono la propria impronta sul mondo antico non come tribù greca, bensì come popolo distinto, e ciò è vero anche per l’epoca di Alessandro Magno e dei suoi successori.Queste circostanze rendono la storia dei rapporti tra i Macedoni e i Greci una delle più af-fascinanti dell’antichità, una storia al cui centro vi è un popolo setten-trionale che, pur subendo molte influenze da parte della cultura ellenica, ne rimase tuttavia di-stinto nella sua organizzazione politica. Fino alla prima età im-periale romana gli scrittori greci e romani ritennero che i Greci e i Macedoni del periodo classico fossero distinti, anche se nell’età ellenistica questa distinzione divenne progressivamente più sfocata, fino a perdere gran parte del proprio signifi-cato all’epoca della sistemazione romana dei Balcani. Erodoto registra quello che proba-bilmente è l’elenco ufficiale dei primi re, quale gli venne fornito in occasione della sua visita in Macedonia: Perdicca (il capostipi-te), Argeo, Filippo, Aeropo, Alceta, Aminta. Dei primi cinque abbiamo meno notizie di quante ne possedia-mo sui primi re di Roma; Aminta (?

- c. 498/497) emerge come la prima figura autentica-mente storica. Suo figlio, Alessandro I (c. 498/497 - c. 454), regnò durante le guerre persiane e l’espansione dell’impero ateniese, ed è in questo periodo che co-minciamo ad avere notizie più circostanziate sulla mo-narchia centralizzata che costituiva il sistema politico macedone. Le nostre fonti sul V secolo (soprattutto Erodoto e Tucidide) e sul IV secolo prima del regno di Filippo II (Diodoro Siculo, Senofonte, Plutarco, Giusti-no e gli oratori ateniesi) non lasciano dubbi sul fatto che le sorti del regno macedone si fondavano princi-palmente sulle qualità del monarca e sulla sua capa-cità di mantenere la stabilità di fronte alle incursioni dall’esterno e ai dissensi interni. Quale fosse il ruolo del re nella società macedone è una questione su cui le opinioni degli storici divergo-no. Fino a che punto era potente o autocratico? Esiste-vano costumi e tradizioni generalmente accettati che regolassero la società e che il re doveva rispettare per garantire e sovrintendere ai diritti dei vari gruppi? E questi gruppi erano un elemento di controllo nei con-

fronti del potere del re (secondo quella che viene denominata posizione «costituzionalista»)?

Oppure il re poteva fare esattamente ciò che voleva? Sfortunatamente siamo

quasi completamente privi di testimo-nianze sul funzionamento interno del sistema macedone per l’epoca antecedente al regno di Filippo II, e coloro che sostengono la posi-

zione «costituzionalista» hanno difficoltà a fornire prove a sostegno

del proprio punto di vista. Il regno di Alessandro Magno sembra offrire a

questo proposito ricche testimonianze, ma in realtà si tratta di dati da utiliz-

zare con grande attenzione, giacché le campagne di Alessandro furono un avve-

nimento unico, durante il quale sia il re chi i suoi seguaci furono impegnati in una costante lotta per la so-pravvivenza in regioni del mondo lontane dalle loro normali fonti di

sostegno, cioè dalle loro famiglie e dalle loro terre. Sembra pertanto più

prudente suggerire che la tesi costitu-zionalista non sia niente di più che un’attraente costruzione teorica in Busto in marmo di Filippo di Macedonia.

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larga parte priva di riscontri concreti, e che occorre accontentarsi di un quadro di minima delle istituzio-ni politiche macedoni, incentrate sulla figura di un monarca dotato di poteri in ampia misura privi di re-strizioni. Questo non significa comunque che in Mace-donia vigesse la legge della giungla, dato che anche la giungla segue delle leggi; nondimeno, suggerisce che esistessero poche istituzioni politiche operanti con continuità capaci di porre un freno nei confronti dell’autorità di un re molto potente. Ad esempio, non vi sono tracce dell’esistenza di un’assemblea, anche se è ipotizzabile che il monarca radunasse di tanto in tanto l’esercito per lanciare proclami o per assicurarsi l’appoggio a provvedimenti già decisi. E le decisioni prese dal re nella sua qualità di giudice non neces-sitavano dell’approvazione di nessun altro organo, benché i re più accorti passassero spesso i casi più noti all’esercito, su cui sapevano di poter contare. Vi era una sorta di seguito reale, cioè una corte, che tut-tavia appare caratterizzata da un’esistenza informale e irregolare; si trattava forse di una corte imperniata sul simposio, nel quale il re e i suoi compagni d’arme banchettavano, bevevano e riaffermavano i propri le-gami reciproci. La monarchia era ereditaria e il titolo veniva normal-mente trasmesso al primogenito, anche se un re par-ticolarmente forte poteva contravvenire alla regola scegliendosi il successore, come dimostra la decisio-ne di Filippo II di nominare Alessandro. Il re rappre-

Grande lámax dalla camera (alt. cm 20,7; lungh. cm 41; largh. cm 34). Sa-lonicco, Museo Archeologico.

Placchetta dalla camera (alt. cm 6; lungh. cm 4). Salonicco, Museo Archeologico.

sentava i Macedoni, che si definivano tali in base alla loro lealtà al re e al servizio che prestavano nel suo esercito, nel contesto di una monarchia altamente personalizzata. Esisteva evidentemente una burocra-zia che si occupava dell’ordinaria amministrazione, ma non doveva sussistere alcun dubbio su quale fosse la

fonte da cui emanava l’autorità. Il re agiva dunque come comandante in capo e come giudice su-premo; aveva il controllo sulle risorse naturali,

concedeva terre ai veterani, stipulava alleanze all’estero, dichiarava guerra e sovrintendeva a ri-

tuali e sacrifici. Le restrizioni ai poteri del re non erano di natura istituzionale ma contingente: anche

il più autocratico di tutti i re macedoni, Alessandro Magno, fu costretto a rinunciare all’invasione dell’In-dia a causa della riluttanza dei suoi ufficiali. [ ] Per quanto riguarda i rapporti tra Filippo e le città greche la migliore fonte narrativa di cui disponiamo

è il XVI libro di Diodoro Siculo; lo storico greco autore, alla fine del I secolo a.C., di un’imponente Biblioteca

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storica. Le fonti utilizzate da Diodoro per ricostruire le vicende di Filippo sono eterogenee, e la loro indivi-duazione continua a sollevare dibattiti fra gli studiosi. Ci resta inoltre una breve narrazione (libri VII-IX) ado-pera di Marco Giuniano Giustino, uno scrittore romano età imperiale il quale cita e compendia l’opera di uno stimato storico augusteo, Pompeo Trogo. Le Storie fi-lippiche di Trogo non sono tuttavia una fonte di prima mano, e tutto ciò che ne rimane è il riassunto, spesso infelice, fattone da Giustino. Comunque sia, la figura di Filippo è il soggetto di ope-re di eccellenti storici della sua epoca, fra i quali Te-opompo di Chio ed Eforo di Cuma. Le Storie filippiche di Teopompo si componevano di 58 libri, quali ci sono rimasti solo frammenti. Pubblicata nella generazione successiva alla morte di Alessandro, avvenuta nel 323, l’opera di Teopompo si fondava su un’esperienza di-retta della corte macedone; collocava le gesta di Fi-lippo nel quadro più ampio di una storia universale

dei rapporti tra «Greci e barbari». A differenza del suo maestro Isocrate (del quale si parlerà più avanti), Te-opompo non era un ammiratore di Filippo. Se in ge-nerale le posizioni panelleniche di Teopompo restano poco chiare a causa della frammentarietà degli scritti pervenutici, sembra che, al contrario di Isocrate, egli ritenesse Filippo troppo barbaro e non dotato della rettitudine morale necessaria a condurre il mondo greco a un’unità panellenica. Assai letto nell’antichi-tà, Teopompo godeva fama di storico di valore, ed è un peccato che la sua opera sia andata in larga misura perduta, giacché avrebbe potuto fornirci un’eccellen-te (anche se di parte) testimonianza, contemporanea, sugli avvenimenti riguardanti la conquista macedone della Grecia. Un altro degli allievi di Isocrate, Eforo, era, secondo la tradizione, il primo di una serie di importanti «storici universali» vissuti nel IV secolo, storici il cui oggetto di studio trascendeva il singolo individuo e la singola nazione o città-stato. Giunta a

Corona di quercia dalla camera (diam. cm 18,5). Salonicco, Museo Archeologico

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noi in forma frammentaria, l’opera di Eforo è una delle fonti principali di Diodoro nel tratteggiare la figura di Filippo II. Il fatto che tanti allievi di Isocrate abbiano raggiunto una posizione di primo piano come storici e come promotori di un panellenismo culturale rappre-senta uno dei suoi grandi lasciti. Disponiamo naturalmente di un’abbondante quantità di fonti letterarie provenienti dall’antica Atene, ma qui occorre muoversi con grande cautela. Il semplice fatto che esista una notevole messe di testimonianze di parte ateniese sui rapporti tra Atene e la Macedonia (di contro alla relativa scarsità di fonti extrateniesi) ha tendenzialmente spinto la storiografia moderna a esagerare l’importanza di Atene nei piani Filippo. Atene era importante, anzi essenziale, per la riuscita del progetto di sistemazione generale della Grecia ela-borato da Filippo, ma altrettanto indispensabili erano

la protezione delle frontiere balcaniche e i rapporti diplomatici con le altre città greche. Per giunta, il let-tore moderno deve comprendere che buona parte di ciò che di ateniese rimane sull’argomento è costituito da opere di polemica politica il cui scopo era influen-zare l’opinione pubblica. Senza alcun dubbio, Filippo fece numerose avances diplomatiche agli Ateniesi: ma non resta la benché minima testimonianza diretta, né sotto forma di documenti provenienti dagli archivi macedoni né sotto forma di un pur minimo frammen-to di iscrizione, che ci dica che cosa Filippo propose. Dobbiamo perciò affidarci interamente ai compendi di storici vissuti diversi secoli dopo i fatti come Dio-doro, Giustino e Plutarco, o ad autori ateniesi come Demostene, Eschine e Isocrate. Questi ultimi, ateniesi, pur essendo testimoni diretti degli avvenimenti, non riportano ciò che Filippo effettivamente propose agli Ateniesi; Demostene, ad esempio, ci dà piuttosto il modo in cui voleva che il suo pubblico ateniese inten-desse le proposte di Filippo, esponendole peraltro in

una veste tale da assicurarne la bocciatura nell’as-semblea. Per lo storico moderno, orientarsi

e farsi strada verso questa stratificazione di propaganda politica e di mistificazione per poter raggiungere qualche punto fer-mo sui contenuti e sulla cronologia dei rapporti tra Atene e Filippo nel corso del decennio 350-340, è un’impresa estre-

mamente difficile. Ma le linee generali sono chiare. Vedia-mo in primo luogo Isocrate. Nato prima che scoppiasse la guerra del Peloponne-so, egli visse abbastanza da assistere alla battaglia di Cheronea. Frutto diretto della tradizione sofistica ateniese, e tra i più importanti e produttivi saggisti e maestri del IV secolo, Isocrate spese gran parte della propria vita a promuovere una visio-ne panellenica. Egli riteneva che, facen-dosi la guerra gli uni con gli altri, i Gre-ci avessero dilapidato le proprie risorse umane e materiali. Secondo Isocrate, le città greche dovevano unirsi sotto l’ege-monia di una o più città guida e impe-

Corazza dalla camera (alt. cm 47). Salonicco, Museo Archeologico.

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gnarsi in una crociata contro i «barbari» dell’Asia. Nella prima metà del IV secolo egli assistette al fal-limento dei tentativi di unificare i Greci da parte di Atene, Sparta, Tebe e altri: perciò, la comparsa di Filippo di Macedonia poté apparirgli come l’esau-dimento di una preghiera. Purtroppo non abbiamo informazioni sull’influenza esercitata da Isocrate su Filippo. Che la concezione panellenica di Isocrate costituisse il fondamento filo-sofico delle azioni di Filippo è un’ipotesi accattivante, ma priva di riscontri. Ciò auto-rizza comunque a dubitare che il re macedone abbia accolto con favore il Filippo, apparso nel 346, nel quale Isocrate lo esortava a instaurare la concordia tra i Greci e a invadere l’Asia, un pro-getto che per motivi suoi propri Filippo aveva pro-babilmente già avuto modo di concepire. Filippo non aveva bisogno di Isocrate per giustificare le proprie azioni: in effetti, l’unico indizio di un contatto fra i due è una lettera che poco prima di morire, all’età di 98 anni, Isocrate indirizzò al sovrano macedone, elogiandolo per la vittoria di Cheronea ed esprimendo la speranza che inizias-se una guerra contro l’impero persiano. Demostene (384-322 a.C.) è ben noto grazie alla Vita scrittane da Plutarco e grazie al fatto che, al pari di quelle dei suoi avversari ate-niesi, molte delle sue orazioni sono giunte fino a noi. Considerato il massimo oratore greco, all’inizio della sua carriera di oratore pubblico godette solo di un successo modera-to. La sua opposizione nei confronti Filippo di Macedonia sembra aver preso forma in maniera graduale. Nel 351, quando le campagne di Filip-po nel Chersoneso si profilarono un pericolo per gli interessi ateniesi, Demostene pronunciò la prima Filippica; e con le tre orazioni Olintiache (349-348 a.C.) si sforzò di promuovere l’aiuto ateniese a Olinto minacciata da Filippo. A que-sto punto Demostene era ormai emerso come il leader della fazione antimacedone ad Atene, un ruolo che a quanto pare gli era assai gradito e sul quale basò le proprie crescenti fortune politiche e il proprio prestigio. La sua ostili-

tà verso Filippo era incondizionata: Demostene riteneva che contro il re macedone si dovessero gettare in campo tutte le armi e le risorse di cui disponevano gli Ateniesi, una linea d’azione che avrebbe sicuramente condotto Atene alla rovi-na. In questa sua battaglia politica egli ebbe diversi avversari, fra i quali l’oratore Eschine.

L’inimicizia dei due si dispiegò, con le armi dell’eloquenza, per sedici anni di battaglie nei tribunali e nell’assemblea sulla politica ateniese nei confronti dei Macedoni. La forza della prosa di Demostene gli ha guadagnato la fama

del patriota, assegnando a Eschine il ruolo del pacificatore. Ma, in realtà, vero che tra il

345 e il 330 Eschine si dimostrò disposto a fare concessioni piegandosi alla superiorità mace-done, ciò non significa che fosse meno patriota del suo avversario. Egli aveva una percezione più realistica delle possibilità di sopravviven-za ateniesi in uno scontro con la superpotenza

macedone, e gli avvenimenti gli avrebbero dato ragione. Alla fine la forza della più eloquente oratoria ateniese si rivelò impotente di fronte

alle lance macedoni. [...] Le forze di fanteria oplitiche della città-stato classica, statiche e pesantemente armate, erano ormai obsolete rispetto alle unità agili e flessibili dei Macedoni. Il successo del nuovo modello di esercito derivò dall’eccellenza dell’addestramen-to e della disciplina tattica, e dalla combinazione armoniosa di uso difensivo della fanteria e uso offensivo della cavalleria. Persino le unità scelte dei Tebani non furono grado di tenere testa alla professionalità dell’esercito di Filippo, e a mag-gior ragione non lo furono gli Spartani, i quali erano stati sconfitti a Leuttra dai Tebani nel

371. I soldati greci non si erano mai trovati di-nanzi a nulla di simile. Così Cheronea, segnando la sconfitta dei celebrati opliti ateniesi e tebani, inflisse ai Greci una dura lezione e inaugurò una nuova era nella storia dell’arte bellica.

Nel periodo immediatamente seguente alla vittoria di Cheronea Filippo improntò la propria azione alla volontà di riconcilia-zione e di accordo, anziché a uno spirito

punitivo. Ora che la sua provata superio-rità militare lo metteva nelle condizioni di

Spada dalla camera (lungh. cm 70). Salonicco, Museo Archeologico.

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farlo, si dedicò con grande cura a creare le premesse per quella pace comune che in precedenza era stata bloccata dall’ostilità ateniese. [... ] Cheronea e ciò che ne seguì rappresentano davvero la fine della libertà greca, come paventava Demoste-ne e come ritengono alcuni studiosi moderni? E ben difficile rispondere in modo affermativo, giacché le poleis greche raramente erano state libere, tranne che di farsi reciprocamente la guerra. Molte città minori ebbero la sfortuna di dover convivere quasi costan-temente con il timore di essere dominate dagli stati maggiori, quali Atene, Sparta, Tebe o Corinto, per non citarne che alcuni. In altre parole, i Greci sapevano come governare o essere governati, ma non avevano imparato a vivere di comune accordo e su un piano di parità, rispettando l’autonomia di ciascuno. Parados-salmente, sarebbero state proprio le dure lezioni im-partite dai Macedoni nell’età di Filippo, di Alessandro e dei loro primi successori a spingere le poleis greche a riconoscere che la più efficace garanzia di autono-mia individuale consisteva nel rinunciare alla libertà di farsi la guerra, affidando invece la propria sicurez-za a un’autorità comune. Cheronea e la conseguente sistemazione panellenica voluta da Filippo servirono da lezione e da modello ai Greci per le consociazioni successive. La lega di Filippo aveva come presupposto l’egemonia del re macedone. Viceversa, quando nel III secolo si trovarono nuovamente ad affrontare minacce provenienti da settentrione, nonché minacce derivan-ti dalle proprie ostilità reciproche, le poleis greche si organizzarono volontariamente in leghe federali i cui partecipanti rinunciavano parzialmente alla libertà di movere guerra e di condurre una politica estera indi-pendente, in modo da garantirsi quella sicurezza che solo simili associazioni collettive potevano fornire. Così l’autonomia delle singole poleis si conservò an-cora per un secolo o due, fino alla conquista romana; anzi, anche oltre, poiché i Romani ben compresero che sotto l’ombrello protettivo di un’organizzazione confederale era possibile godere di una considerevole autonomia. [...] Tra i più importanti sviluppi recenti nello studio degli antichi Macedoni vi è un rinnovato interesse per le vi-cende di Filippo II, che si può far risalire in parte alle straordinarie scoperte compiute dagli archeologi greci nei pressi della moderna Vergina, dove sorgeva l’an-tica Ege: qui gli scavi condotti nel 1977-1978 hanno portato alla luce un certo numero di tombe costituenti

il complesso sepolcrale degli antichi re macedoni. In tre di queste tombe, scoperte da un’équipe guidata da M. Andronikos, sono stati rinvenuti resti umani, tra cui forse quelli di Filippo II e della sua ultima moglie, Cleopatra. L’identificazione dei resti è tuttavia contro-versa e, fino a quando lo scavo non sarà interamente pubblicato in forma scientifica, permarranno dei dub-bi su quale delle tre tombe sia quella di Filippo. Ciò che invece è indiscutibile è lo straordinario pre-gio degli oggetti e dei dipinti sepolcrali di queste e di decine di altre tombe riportate alla luce in anni re-centi. Al contrario di quanto proclamava Demostene, i Macedoni non erano una genia di barbari, almeno per quanto riguarda la cultura materiale e i gusti estetici delle classi elevate. La qualità delle loro pitture murali e dei loro oggetti d’oro, d’argento e di bronzo è pari o superiore a quella riscontrabile nel resto del mon-do greco e balcanico di questo periodo. Lo stile ar-tistico è fortemente influenzato dall’arte della Grecia meridionale, ma sono anche presenti molti elementi riconducibili al mondo dei Balcani e della Grecia orien-tale, elementi che fanno dell’arte macedone uno stile regionale distinto. Ciò che caratterizza l’arte e l’archi-tettura macedone è un elevato grado di eclettismo. I Macedoni non erano schiavi di alcun canone: costru-ivano, mollavano, creavano e importavano ciò che ai loro occhi appariva bello e funzionale. Il risultato è una cultura materiale che si esprime con fresca libertà e indipendenza.Filippo stesso incarna questo eclettismo. Egli era l’ere-de di una famiglia, gli Argeadi, che aveva governato la Macedonia fin dalla fondazione del regno. Forse rite-neva che i suoi antenati fossero Greci originari di Ar-go, ma non abbiamo elementi per dimostrarlo. (È cer-to comunque che Demostene sconfessò pubblicamente la discendenza greca di Filippo, dichiarando: «Filippo non è un Greco, coi Greci non ha niente in comune»). In ogni caso Filippo si presentò come un panellenista. La sua politica panellenica non si basava sulla necessi-tà di dimostrare ai Greci la propria origine ellenica. Si trattò piuttosto di una linea di condotta pragmatica: entrando nella rete della politica e della diplomazia ellenica attraverso i fili di cui gli stessi Greci si serviva-no, egli poté influenzare la Grecia mediante le istitu-zioni panelleniche preesistenti. Aiutò a proteggere il dio di Delfi entrando a far parte della lega anfizionica e guadagnando in tal modo una posizione di autorità nella Grecia centrale. In qualità ἡγεμών della lega el-

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lenica fondata dopo la vittoria di Cheronea assunse il ruolo di protettore della pace comune. A Olimpia com-missionò il Filippeo, un monumento di piccole dimen-sioni contenente immagini sue e dei membri della sua famiglia, e, compiendo un gesto probabilmente privo di precedenti tra i sovrani macedoni, inviò dei cavalli a gareggiare ai giochi olimpici. Inoltre, come si è visto, è possibile che stesse cercando di ricavarsi un posto nel pantheon olimpico, se tale è l’interpretazione che dobbiamo dare alla fatidica processione immediata-mente precedente al suo assassinio, nel corso della quale la sua statua sfilò insieme a quelle delle dodici divinità olimpiche. Dopo aver reso sicure le frontiere settentrionali del suo regno, Filippo scelse di trattare con le città greche servendosi della diplomazia e della minaccia della for-za, anziché della forza pura e semplice. In sostanza, la sua fu una politica estera estremamente innovativa: egli tentò infatti di fondare in modo «permanente» un sistema che introducesse stabilità nel mondo spesso caotico degli stati greci. Il sistema doveva interferire il meno possibile con gli affari interni delle città greche; in cambio del loro appoggio, egli avrebbe concesso ai Greci di poter condividere i frutti delle sue conqui-ste. In questo modo avrebbe potuto dedicarsi ad al-tri obiettivi senza la necessità di impegnare ingenti quantitativi di truppe nell’occupazione del territorio greco così come lo aveva riordinato. Si trattava di uno schema così coerente e razionale da risultare del tutto estraneo alla mentalità ellenica. Per molti versi esso anticipò la politica estera adottata dai Romani all’epo-ca del loro arrivo in Grecia, nel corso del III e del II secolo a.C., ed è istruttivo osservare che le città gre-che, come era accaduto con Filippo, non compresero i tentativi compiuti dai Romani per assicurare stabilità al mondo ellenico senza infliggergli gravi privazioni di libertà. Retrospettivamente può apparire chiaro che, se i Greci avessero preso la logica di Filippo e avessero accet-tato di allearsi con lui e di riconoscerne l’egemonia, avrebbero avuto poco da perdere e molto da guada-gnare; eppure, è possibile che all’epoca ciò non ap-

parisse così evidente. Tralasciando per ora il fatto che le iniziative antimacedoni di Demostene, oltre che manifestazione di un autentico patriottismo ateniese, furono un mezzo di autopromozione politica, è possi-bile che ad Atene e altrove permanesse una notevole diffidenza nei confronti dei Macedoni. Gli Ateniesi (e altri Greci) non avevano motivo di fidarsi dei Macedo-ni, che ai loro occhi probabilmente apparivano come un’infida e semibarbara tribù settentrionale sottomes-sa a una monarchia ereditaria. Benché esteriormente esibissero alcuni caratteri ellenici, i Macedoni non vi-vevano alla maniera dei Greci, in città-stato. Durante l’invasione Serse erano stati ufficialmente alleati dei Persiani, e nel corso della guerra del Peloponneso si erano dimostrati volubili e inaffidabili. Ed ecco ora un re macedone che si arrogava l’autorità di costringere i Greci ad aderire a un trattato panellenico permanente che negava loro il venerando diritto di farsi la guerra gli uni con gli altri. In una cultura in cui la guerra era la norma – i Greci dichiaravano la pace, non la guerra – le offerte e i progetti di Filippo dovettero apparire innaturali. Si trattò in sostanza di un importante con-flitto culturale, nel senso che Filippo proponeva, ed era pronto a far rispettare, un ordine nuovo a popo-lazioni ancora legate a un ordine tradizionale. Coloro che ammirano le città greche per la resistenza opposta a Serse dovrebbero anche comprendere la resistenza che esse opposero a Filippo. Eppure vale la pena di notare che, a lungo andare, i Greci finirono per rico-noscere l’importanza di associazioni collettive in cui la parziale rinuncia, da parte di ciascuna polis alla libertà di condurre una politica estera autonoma produceva dei vantaggi per la sicurezza comune. Nel III secolo a. C. i Greci si organizzarono volontariamente nella lega etolica e nella lega achea, due confederazioni che con alterne fortune cercarono di proteggere i propri mem-bri dagli invasori stranieri. Forse Filippo, con i suoi modi rudi, era un po’ in anticipo sui tempi. [Da: E. Borza, La Macedonia di Filippo e i conflitti con

le poleis, in «I Greci. Storia Cultura Arte Società», Volume II/3, Una storia greca. Trasformazioni, a c. di

Salvatore Settis, Einaudi, Torino 1998, pp. 21-41]