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Antonello Giugliano Et.Quid.Amabo.Nisi.Quod.Rerum.Metap hysica.Est? de Chirico e Nietzsche Autoritratto 1920: Et.Quid.Amabo.Nisi.Quod.Rerum.Metaphysica.Est? Autoritratto 1911: Testo dell’intervento tenuto al Convegno di studio su «Nietzsche in Italia», Università degli Studi di Palermo, Palazzo Steri, 6-7 novembre 2008.

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Antonello Giugliano

Et.Quid.Amabo.Nisi.Quod.Rerum.Metaphysica.Est?de Chirico e Nietzsche

Autoritratto 1920: Et.Quid.Amabo.Nisi.Quod.Rerum.Metaphysica.Est?

Autoritratto 1911: Et.Quid.Amabo.Nisi.Quod.Aenigma.Est?Friedrich Nietzsche 1882 (Foto di Gustav-Adolf Schultze).

Testo dell’intervento tenuto al Convegno di studio su «Nietzsche in Italia», Università degli Studi di Palermo, Palazzo Steri, 6-7 novembre 2008.

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Et.Quid.Amabo.Nisi.Quod.Rerum.Metaphysica.Est? de Chirico e Nietzsche

È un dato ormai definitivamente acquisito dalla ricerca specialistica internazionale, benché forse poco noto al grande pubblico, che l’artista greco-italiano Giorgio de Chirico fu, come è stato osservato, «un nietzscheano fin nel più intimo. […] Egli arrivò al punto di vedere in se stesso una reincarnazione dell’anima del filosofo – che aveva perso il filo d’Arianna nei labirinti della follia a Torino nel preciso momento [l’anno 1888] in cui de Chirico nasceva in una piccola città della Tessaglia»1. L’autoritratto del 1911, in cui de Chirico riprende una celebre posa fotografica di un Nietzsche del 1882 ritratto con la mano appoggiata su una guancia e lo sguardo affiso nell’infinito (ripetizioni entrambe a loro volta della famosa posa malinconica di Dürer, la cui orrida melancholia derivava dall’esperienza vissuta dell’essenza infinitaria del numero), reca sul suo lato inferiore un cartiglio con l’epigrafe quasi illeggibile: ET.QUID.AMABO.NISI.QUOD.AENIGMA.EST?

Questo autoritratto farà il paio con l’autoritratto del 1920 che rappresenta il culmine e lo scioglimento dell’enigma – aenigma è la metaphysica rerum – e perciò stesso il punto di una ulteriore ripartenza metafisico-artistica annunciata dalla tavola della legge che il pittore tiene ben in evidenza in primo piano e che reca la scritta: ET.QUID.AMABO.NISI.QUOD. RERUM.METAPHYSICA.EST?

Era questo uno dei modi di celebrare esplicitamente l’importanza che l’esperienza della intensa lettura delle opere filosofiche di Nietzsche (dagli scritti sui filosofi presocratici e sulla Nascita della tragedia ad Umano, troppo umano, da Aurora alla Gaia scienza, dallo Zarathustra agli scritti su Wagner, da Al di là del bene e del male ad Ecce homo) aveva avuto per il giovane de Chirico e per lo sviluppo del suo pensiero pittorico a

1 Cfr. P. Baldacci, The Function of Nietzsche’s Thought in de Chirico’s Art, in A. Kostka & I. Wohlfarth (Eds.), Nietzsche and “An Architecture of Our Minds”, Los Angeles, The Getty Research Institute for the History of Art and the Humanities, 1999, pp. 91-113, qui p. 91.

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partire dal periodo trascorso a Monaco di Baviera nel 1906-1909 dopo la morte del padre (1905) ed il conseguente trasferimento della famiglia dalla Grecia in Italia. È vero che il giovane de Chirico legge assiduamente, tra l’altro, anche gli scritti di Schopenhauer e di O. Weininger, ma purtuttavia sempre di nuovo a loro volta mediati dalla lettura di Nietzsche che costituirà per lui una costante apertura verso la concettualizzazione ed espressione dei motivi più profondi del suo fare e pensare pittorico: innanzitutto quello della visione dell’enigmatico apparire delle cose, dell’uomo e del mondo nello spettro della loro epifanicità misteriosa2, della loro vita-silente che, sospendendo i lineamenti delle fattezze tradizionali e quotidiane, accenna ogni volta di nuovo all’apparire della propria essenza transeunte e transitoria: all’enigma che rappresenta se stesso, il suo essere che è solo apparendo appunto come enigma («aenigma» che Aristotele, nella Poetica, 1458a 26-27, definisce nel modo seguente: «ainígmatós te gàr idéa áutee estí, tò légonta hypárchonta adúnata synápsai / difatti la natura [l’eidos] dell’enigma è questa: nel dire cose reali congiungere cose impossibili»)3.

In effetti è proprio sulla scia della sua intima conoscenza dei testi filosofici e poetici di Nietzsche (conoscenza condivisa con suo fratello minore Andrea, noto poi come Alberto Savinio, al quale si deve una altrettanto originale, produttiva e creativa lettura e metabolizzazione, specialmente in termini di nuova letteratura, della complessiva opera filosofica nietzscheana) che il pensiero pittorico di de Chirico produrrà attraverso interventi scritti e opere figurative una delle più originali e feconde recezioni europee del

2 Cfr. W. Schmied, Die metaphysische Kunst des Giorgio de Chirico vor dem Hintergrund der deutschen Philosophie: Schopenhauer, Nietzsche, Weininger, in AA. VV., Giorgio de Chirico der Metaphysiker, hrsg. von W. Rubin, W. Schmied und J. Clair, München, Prestel, 1982, pp. 89-107. Altresì in W. Schmied, De Chirico und sein Schatten, München, Prestel, 1989, pp. 41-56.

3 Cfr. G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Milano, Adelphi, 1977, pp. 356-357, 7 [A 26].

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pensiero nietzscheano: forse quella sola che (assieme agli scritti di Alberto Savinio e di pochi altri) nel panorama italiano (ben al di là dunque del coevo contesto dannunziano, papiniano vociano, lacerbiano-futuristico etc.) rimarrà a lungo ancora in futuro, proprio in quanto capace di non soffocare il pensiero di Nietzsche sotto la lastra pseudoscientifica e conformista dell’erudizione interpretativo-libresca ed esegetico-accademica (di marca, con tutti gli accorgimenti del caso, prevalentemente cristianeggiante e/o cattolicheggiante, idealistica e/o spiritualistica), bensì di mettere fedelmente e letteralmente in opera quelli che sono i caposaldi di un pensiero che come pochi ha tentato di pensare in estrema profondità epperò con suprema incantata leggerezza l’enigma dell’autoapparire delle cose – e antiumanisticamente della storia dell’uomo tra esse – nella terribilità del loro orrido fondamento temporale. Come si esprimeva il giovane de Chirico, in uno dei suoi manoscritti parigini dei primi anni ’10 del Novecento, sotto il titolo di Méditations d’un peintre, a proposito della questione di «quel sera le but de la peinture de l’avenir?»:

«Le même que celui de la poésie, de la musique et de la philosophie. […] supprimer complètement l’homme comme point de repère […]. Se libérer une bonne fois de […] l’anthropomorphisme. Voir tout, même l’homme, en tant que chose. C’est la méthode nietzschéenne. Appliquée en peinture, elle pourrait donner des résultats extraoirdinaires. C’est ce que je tâche de produire avec mes tableaux»4.

Tutto ciò rinvia all’emblematica a agli emblemi propri della Visione dell’Enigma intenzionato nel dispositivo metafisico-artistico nietzscheano della diade Apollineo–Dionisiaco di cui La Visione e l’Enigma (nel Così parlo Zarathustra) rappresenta l’estrema

4 Cfr. G. de Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943, a cura di M. Fagiolo, Torino, Einaudi, 1985, p. 31.

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condensazione che potentemente ha agito sul pensiero pittorico di de Chirico, come risulta anche da alcune lettere del giovane de Chirico indirizzate in tedesco da Firenze all’amico e collega pittore Fritz Gartz di Monaco di Baviera. In una lettera del 26 gennaio 1910 si legge tra l’altro:

«der tiefste Dichter heißt Friedrich Nietzsche. […] die Tiefe so wie ich sie verstanden habe und so wie sie Nietzsche verstanden hat steht anders als da wo sie man bis jetzt gesucht hat. Meine Gemälde sind klein […] aber jedes ist ein Rätsel, jedes enthält eine Poesie, eine Stimmung, eine Versprechung […]. Ich studiere auch viel, besonders Literatur und Philosophie und beabsichtige später Bücher zu schreiben (ich will Ihnen jetzt etwas ins Ohr sagen: ich bin der einzige Mann der Nietzsche verstanden hat – alle meine Werke beweisen das)»5.

E, ancora da Firenze allo stesso Gartz, ai primi di gennaio del 1911:

«aber eine neue Luft hat jetzt meine Seele überschwommen – einen neuen Gesang hab’ich gehört – und die ganze Welt sieht jetzt für mich ganz verändert aus – der Herbstnachmittag ist angekommen – die langen Schatten, die klare Luft, der heitere Rimmel – in einem Wort Zarathoustra ist gekommen […]. was für Rätsel dieses Wort enthält – Der große Sänger ist angekommen, der von der ewigen Wiederkehr spricht, dessen Gesang den Laut der Ewigkeit hat – […]. Nur mit Nietzsche kann man sagen, daß ein wirkliches Leben angefangen hat»6.

5 Cfr. G. Roos, Giorgio de Chirico e Alberto Savinio. Ricordi e documenti. Monaco–Milano–Firenze 1906–1911, Bologna, Edizioni Bora, 1999, p. 424. «Il poeta più profondo si chiama Friedrich Nietzsche. […] la profondità come la concepisco io e come l’ha concepita Nietzsche possiede un aspetto diverso rispetto a quello in cui la si è cercata fino ad oggi. I miei dipinti sono piccoli […] ma ciascuno costituisce un enigma, ciascuno contiene una poesia, un’atmosfera, una promessa […]. Studio anche molto, in particolare letteratura e filosofia e intendo in seguito scrivere dei libri (Le voglio mettere una pulce nell’orecchio, io sono l’unica persona che ha compreso Nietzsche – tutti i miei quadri lo dimostrano)», ivi, p. 310, p. 312.

6 Ivi, p. 428. – Cfr. ivi, p. 318: «ma c’è un vento nuovo che mi porta via – ho sentito un canto nuovo – e tutto il mondo ha assunto

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Ed appunto sempre sotto il segno di Nietzsche e dell’enigmatica visione del suo pensiero abissale dell’eterno ritorno sta anche «die tiefste Musik»7 composta assieme al fratello Andrea/Alberto, la «musica più profonda» di cui de Chirico parla nel gennaio 1910 nella già citata lettera a Gartz, riferendosi al concerto orchestrale del fratello che si sarebbe dovuto tenere a Firenze il 9 gennaio 1911 ma che invece si tenne poi il 23 gennaio 1911 a Monaco. Nei programmi in italiano e tedesco di questo concerto (intitolato «Poema fantastico») troviamo una composizione intitolata «Rivelazioni sull’”enigma dell’eterno ritorno”» / «Enthüllungen über das “Rätsel der ewigen Wiederkehr”» / «Enthüllungen vom Rätsel der ewigen Wiederkehr»8.

L’incontro con gli scritti di Nietzsche significa dunque per de Chirico simultaneamente la riscoperta di quella grecità mitico-metafisica presocratica, che pure aveva inconsapevolmente permeato la sua infanzia e adolescenza greche tra la tessala Volos ed Atene, e la rivelazione della metafisica artistica dell’apparenza apollineo-dionisiaca col suo culmine cronomantico nell’enigma dell’eterno ritorno. Di ciò i suoi dipinti vorranno essere visione, incorporazione visiva, messa-in-opera figurativa ed immaginale. Come per es. nei quadri delle piazze italiane, Torino, Ferrara, Firenze, dove l’architettura viene da lui usata come scheletro del tempo, i portici, le arcate, le finestre sono come passaggi tra il tempo fuori e il tempo dentro di noi, con le ombre come immagini non rassicuranti, misteriose, piene di presagi e, appunto, di enigmi. Nei

un altro aspetto per i miei occhi – il pomeriggio d’autunno è arrivato – le ombre lunghe, l’aria limpida, il cielo sereno – per dirlo in una parola sola: è arrivato Zarathustra […]. quale enigma contiene questa parola – È arrivato il grande cantore, colui che parla dell’eterno ritorno, il cui canto ha il suono dell’eternità. […] Si può dire che solo con Nietzsche è iniziata una vera vita».

7 Ivi, p. 424, e cfr. p. 315.8 Cfr. ivi le tavole fotografiche che riproducono i suddetti

programmi e materiali de «Il concerto di Alberto de Chirico», e cfr. inoltre ivi, pp. 315-324.

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quadri di de Chirico il tempo si manifesta con gli orologi (come segno del tempo attuale), con le ombre (come segno del tempo passato) e con le architetture, che sono senza età e come un ponte collegano, attraverso il presente, il passato al futuro.

In quanto segue vorrei ripercorrere i punti salienti dell’esperienza metafisica di de Chirico quale risulta da alcuni suoi scritti in cui è racchiusa la chiave filosofica della messa in opera pittorica figurativo-immaginale del dispositivo metafisico nietzscheano dionisiaco-apollineo e della sua peculiare imago/corona cronomantica infinitaria.

Così nella prima parte della sua autobiografia de Chirico osserva:

«tutti quelli che hanno letto Nietzsche, non [hanno] affatto capito in che cosa consiste la vera novità scoperta da quel filosofo. Tale novità è una strana e profonda poesia, infinitamente misteriosa e solitaria, che si basa sulla Stimmung ([…] questa parola tedesca molto efficace […] si potrebbe tradurre con la parola: atmosfera nel senso morale) si basa, dico, sulla Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, poiché il sole comincia ad essere più basso. Questa sensazione straordinaria si può provare […] nelle città italiane ed in qualche città mediterranea, come Genova o Nizza; ma la città italiana per eccellenza ove appare questo straordinario fenomeno è Torino»9.

«A Firenze […] avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d’autunno, di pomeriggio, nelle città italiane. Era il preludio alle piazze d’Italia dipinte un po’ più tardi a Parigi e poi a Milano, a Firenze ed a Roma»10.

Nel 1913 al Salon d’Automne di Parigi manda un suo «autoritratto e due piccole composizioni, una

9 Cfr. G. de Chirico, Memorie della mia vita (1945, 1962), Milano, Bompiani, 2002, pp. 73-74.

10 Ivi, p. 79.

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ispirata dalla Piazza Santa Croce a Firenze e contenente quella poesia eccezionale che avevo scoperto nei libri di Nietzsche, l’altra invece, che avevo intitolato L’enigma dell’oracolo, conteneva un lirismo di preistoria greca»11.

Ricordando il suo viaggio del 1935 negli Usa: «Ancora meno […] troverai a Nuova York, in autunno, quell’ineffabile malinconia, quella strana, lontana e profonda poesia che Nietzsche ha scoperto nei pomeriggi chiari di autunno, soprattutto quando si distendono su certe città italiane come Torino»12. Un giudizio che, in effetti, si ritroverà quasi capovolto in un articolo dechirichiano del 1938 sulla metafisica dell’America.

Nel breve romanzo autobiografico Il signor Dudron (risalente agli inizi degli anni ’40 ma la cui prima edizione italiana completa postuma è appena del 1998), de Chirico puntualizza con nettezza la sua acuta consapevolezza della peculiare specificità di filosofia ed arte e del loro stretto rapporto di intimità: «Si nasce filosofi come si nasce pittori. Oggi sfortunatamente ci sono persone che si dichiarano filosofi ma che in fondo non sono che professori di filosofia. Il filosofo, quando è veramente tale, è soprattutto un artista, perché la filosofia è un’arte»13.

E richiama il medium di questa identificazione, la intuizione e rivelazione dell’enigma, in quanto metafisica delle cose:

«il fenomeno della rivelazione ha cominciato a manifestarsi nel diciannovesimo secolo in alcune opere di pittori, di filosofi e di poeti. Il momento in cui l’uomo ha una rivelazione lo possiamo definire come l’attimo durante il quale egli ha potuto intravedere un mondo esistente al di fuori delle cose conosciute dallo spirito umano. È un mondo che la logica umana non può concepire e che non esiste per i mortali, visto che per noi esiste effettivamente soltanto quello che noi conosciamo

11 Ivi, p. 85.12 Ivi, p.p. 161-162.13 Cfr. G. de Chirico, Il signor Dudron (1945, 1954), Firenze, Le

Lettere, 1998, p. 80.

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o tutt’al più quello di cui possiamo concepire la possibile esistenza. Quel mondo metafisico, inesistente per noi, ovvero quel mondo completamente al di fuori delle conoscenze e delle concezioni umane e di cui noi, col nostro cervello, non percepiamo nulla, è il mondo che un Nietzsche o un Hölderlin ci hanno fatto intravedere in qualche frammento e qualche poesia. […] Si tratta di un mondo inesplicabile che l’intelligenza può solamente sentire attraverso l’intuizione ma che è impossibile comprendere e spiegare a mezzo della logica. Il quadro dipinto da un pittore in seguito ad una rivelazione ci mostra l’aspetto di un mondo che è per noi sconosciuto e strano. […] La rivelazione [permette] di vedere un mondo metafisico, esistente al di fuori degli uomini»14.

Ciò ci riconduce direttamente a testi parigini giovanili di de Chirico dei primi anni ’10:

«Une révélation peut naître tout à coup, quand nous l’attendons le moins, et peut être aussi provoquée par la vue de quelque chose comme un édifice, une rue, un jardin, une place publique etc. Dans le premier cas elle appartient à un genre de sensations étranges que moi, je n’ai observé que dans un seul homme: Nietzsche. Lorsque ce dernier parle de la conception de son Zarathustra et qu’il dit: j’ai été surpris par Zarathustra, dans ce participe surpris se trouve toute l’énigme de la révélation qui vient soudainement»15.

«Pour qu’une œuvre d’art soit vraiment immortelle il faut qu’elle sorte complètement des limites de l’humain: le bon sens et la logique y front défaut. – De cette façon elle s’approchera du rêve et aussi de la mentalità enfantine». «Je me rappelle qu’après avoir lu l’œuvre immortelle de Nietzsche Ainsi parlait Zarathustra je sentis dans différents passages de ce livre une impression que j’avais déjà éprouvée, étant enfant, quand je lisais un livre italien pour les petits, qui a pour titre Le avventure di Pinocchio. Etrange ressemblance qui nous revèle la profondeur de l’œuvre: […] l’œuvre a une étrangeté qui s’approche de l’étrangeté que peut avoir la sensation d’un enfant, mais on sent en même temps [que] celui qui la créa le fit sciemment»16.

14 Ivi, pp. 75-76.15 Cfr. G. de Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica,

polemica, autobiografia 1911-1943, cit., p. 13. 16 Ivi, p. 15.

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E in quella metà degli anni ’10 la presenza di Nietzsche nell’orizzonte del pensiero pittorico dechirichiano come suo possente motivo ispiriratore è attestata qui e altrove da ulteriori molteplici riferimenti stilistici, poetici, testuali, e innanzitutto da quella verticale esperienza dei «cercles horribles» della «éternité» evocata in una coeva poesia intitolata Mélancolie, cerchi eternitari il cui precipitato pittorico saranno le incorporazioni figurali di alte ciminiere rosse, fumo solido di un treno a vapore che fischia lungo un muro, carciofi di ferro occhiuti («Beauté des longues cheminées rouges. / Fumée solide. / Un train siffle. Le mur. / Deux artichauts de fer me regardent»)17 oppure quelle altre che subito aveva notato Guillaume Apollinaire che su «L'Intransigeant» del 9 ottobre del 1913 scriveva:

«Il signor de Chirico espone nel suo studio al 115 di Rue Notre-Dame-des-Champs una trentina di tele la cui arte interiore non deve lasciarci indifferenti. L'arte di questo giovane pittore è un'arte interiore e cerebrale che non ha alcun rapporto con quella dei pittori che si son rivelati in questi ultimi anni. Non viene né da Matisse né da Picasso, e non deriva dagli impressionisti. Questa originalità è talmente nuova che merita di essere segnalata. Le sensazioni molto acute e molto moderne del signor de Chirico prendono in genere una forma architettonica. Sono stazioni ornate da un orologio, torri, statue, grandi piazze deserte; all'orizzonte passano treni delle ferrovie. Ecco alcuni titoli singolari per questi dipinti stranamente metafisici: L'énigme de l'oracle, La tristesse du départ, L'énigme de l'héure, La solitude e Le sifflement de la locomotive»18.

Tutte queste ultime figure costituiscono ripetizioni e incorporazioni immaginali delle eternitarie circolarità di quell’Ora inquietante cantata in una omonima poesia dechirichiana, presumibilmente del 1918, secondo cui «anche l’immortalità è morta / in quest’ora senza nome sui quadranti / del tempo umano»19.

17 Cfr. ivi, p. 30.18 Cfr. in http://it.wikipedia.org/wiki/Pittura_metafisica

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Non disponendo purtroppo qui in questa sede di un apparato iconografico che scorra automaticamente sullo sfondo in parallelo alla discussione dei temi della pittura metafisica di de Chirico, riprendo da Apollinaire il tentativo di darne almeno una fenomenologia evocativa nominando in ordine cronologico i titoli delle composizioni pittoriche fondamentali limitatamente a questo periodo più intensamente nietzscheano di de Chirico che va approssimativamente dal 1910 al 1920 ed elencando poi anche tutti quelli che sono gli oggetti principali di quelle composizioni che al pari dei loro titoli costituiscono dei veri e propri emblemi e eidos filosofici della metafisica artistico-pittorica dell’apparenza apollineo-dionisiaca intenzionata da de Chirico per vedere l’enigma dell’eterno ritorno nelle sue strabilianti e labirintiche incorporazioni.1910: L’enigma dell’oracolo, Il segreto di un

pomeriggio d’ autunno1911: L’enigma dell’ora, Autoritratto1912: La nostalgia dell’infinito, La stanchezza

dell’infinito, Melanconia, Meditazione autunnale

1913: Arianna o La statua silenziosa, Il pomeriggio di Arianna, Il viaggio inquietante, L’incertezza del poeta, Autoritratto, Il sogno trasformato, La torre, La grande torre, La torre rossa

1914: Il giorno di festa, Canto d’amore, Il cattivo genio di un re, L’enigma della fatalità, Le caserme dei marinai, Mistero e malinconia di una strada, L’enigma di una giornata, Torino in primavera, Il filosofo e il poeta, La conquista del filosofo, Ritratto premonitore di Guillaume Apollinaire, Gare Montparnasse/La malinconia della partenza

1914/15: Natura morta “Torino 1888”, Il veggente/Le vaticinateur

1915: I manichini della torre rosa/Le duo, La tristezza dell’ignoto

19 G. de Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943, cit., p. 54.

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1916: La malinconia della partenza1917: Le muse inquietanti, Interno metafisico con

piccola fabbrica, Il grande metafisicoEmblemi: stazioni ferroviarie, orologi di stazioni,

locomotive a vapore e vagoni ferroviari, muri, vele e velieri, nuvole che si rincorrono nell’etere, stendardi e oriflamme che garriscono al vento in cima a cupole e torri, portici, anditi e arcate, statue e statue equestri, busti in gesso, capitelli e colonne, piazze e prospettive, lembi di mare e scorci di cielo, architetture e ogive, manichini, ore, ombre lunghe, cavalletti, interni e finestre, giocattoli e costruzioni colorate di legno, silhouettes, ciminiere e opifici, fabbriche, teste, piedi, mani, carciofi di ferro, palle e cannoni, guanti, rocchetti, frutta esotica, caschi di banane, pesci e biscotti, autoritratti, righe, squadre e aste, [oggetti simbolici e indecifrabili di Dioniso]: uova, sfere, cilindri, carciofi, lenti, pince-nez, assi, frecce, stelle, rotoli, carte astronomiche e geometriche etc.

Nel celebre articolo del 1919 intitolato Noi metafisici, contro l’eticismo e moralismo de «l’arte confusa col misticismo e considerata una specie di scala, di funicolare, di trampolo per innalzarsi alla conoscenza del sommo bene»20 de Chirico fa valere che «l’arte fu liberata dai filosofi e dai poeti moderni. Schopenhauer e Nietzsche insegnarono il profondo significato del non-senso della vita e come tale non-senso potesse venir trasmutato in arte, anzi dovesse costituire l’intimo scheletro di un’arte veramente nuova, libera e profonda. I buoni artefici nuovi sono dei filosofi che hanno superato la filosofia. Sono tornati di qua; […] hanno superato la contemplazione dell’infinito. Il terribile vuoto scoperto è la stessa insensata e tranquilla bellezza della materia»21, ossia sono diventati essi stessi produttori/proiettatori/lanciatori dell’infinito che si rivela nella insensatezza dell’autoapparire della materia stessa: è questo il significato artistico-

20 Ivi, p. 68.21 Ibid.

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postfilosofico della parola «metafisica» che non intenziona affatto un «metà ta fusikà (“dopo le cose fisiche”), […] quelle cose che trovansi dopo le cose fisiche [e che stanno a] costituire una specie di vuoto nirvanico»22, bensì «è la stessa tranquillità ed insensata bellezza della materia che mi appare “metafisica”»23.

Così de Chirico nel 1918, nell’articolo Zeusi l’esploratore, descrive il nucleo di questa metafisica proiettivo-immaginale collocata tra visione ed enigma:

«“Il mondo è pieno di demoni”, diceva Eraclito l’efesio, passeggiando all’ombra dei portici, nell’ora gravida di mistero del meriggio alto, mentre nell’abbraccio asciutto del golfo asiatico, l’acqua salsa bollicava sott’il libeccio meridiano. Bisogna scoprire il demone in ogni cosa. Gli antichissimi cretesi stampavano un occhio enorme [su ogni cosa, utensile, vaso, parete, etc.]. Anche il feto d’un uomo, d’un pesce, d’un pollo, d’un serpente, allo stadio primo, è tutt’occhio. Bisogna scoprire l’occhio in ogni cosa»24.

In un testo del 1924, su Gustave Courbet, de Chirico osserva che «l’artista [metafisico] più d’ogni altro ha il potere di intendere il canto segreto che sorge da certi aspetti del mondo mutante senza posa nel volgersi dei secoli»25, sia esso quello della «Grecia preistorica»26 o quello di «certe stagioni»27; laddove l’enigma metafisico si fenomenizza «manca allora l’aspetto umanamente logico [e] appare invece quella forma spettrale, ma tanto vera e viva, ineffabile e dolce nel suo sapore d’eternità, che […] è il segno indubbio per cui si riconosce tutto quello, sia esso opera d’arte o fatto storico o aspetto della natura o […] costruzione umana, […] che il destino sceglie per difendere dall’oblio ed eternare nel ricordo»28; e in tal senso

22 Ivi, p. 70.23 Ibid.24 Ivi, p. 81.25 Ivi, p. 247.26 Ibid.27 Ibid.28 Ibid.

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«Nietzsche [è] il filosofo-poeta, scopritore della divina felicità autunnale: Seid mir gegrüsst, ihr plötzlichen Winde… Geister des Nachmittags!»29, dell’«autunno mediterraneo; [della] terribile bellezza dell’autunno scoperto da Nietzsche»30.

Vedremo in seguito come e da quale de Chirico questa concezione della metafisica artistica dell’apparenza in quanto enigmatica eternità terrestre, sempre sotto la viva ispirazione apollineo-dionisiaca di Nietzsche, verrà ulteriormente precisata.

Per de Chirico il Nietzsche metafisico-poeta della meridianità autunnale fa automaticamente tutt’uno con la sua fatale incorporazione architettonico-immaginale in «Torino la metafisica […] (Torino è la città pomeridiana per eccellenza); […] la capitale piemontese: la città monarchica con le sue piazze abitate da scienziati e re, da politici e da guerrieri, fermi in pose stanche e solenni sui loro piedistalli di pietra; [con] tutto lo strano lirismo della sua fatale costruzione geometrica. Torino è ancora una città italiana e, malgrado certi aspetti ingannevoli nordici e occidentali, una città mediterranea»31 (così, per es., in Vale Lutetia, del 1925).

E in un successivo testo ricapitolativo intitolato Quelques perspectives sur mon art (apparso in francese a Praga [altra città magico-metafisica per eccellenza] nell’aprile del 1935 sulla rivista «L’Europe Centrale»), de Chirico aggiungeva:

«C’est Turin qui m’a inspiré toute la série des tableaux que j’ai peints de 1912 à 1915. A la vérité j’avouerai qu’ils doivent beaucoup également à Frédéric Nietzsche dont j’étais alors un lecteur passionné. Son Ecce Homo, écrit à Turin peu avant qu’il ne sombrât dans la folie, m’a beaucoup aidé à comprendere la beauté si particulière de cette ville. La vraie saison pour Turin, celle à travers laquelle apparaît le mieux son charme métaphysique, c’est l’automne»32.

29 Ivi, p. 248.30 Ivi, p. 252.31 Ivi, p. 267.32 Ivi, pp. 320-321.

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Ed esplicitando retrospettivamente l’arché di questa rivelazione scriveva inoltre:

«Mais c’est seulement dans l’art moderne que l’on rencontre le phénomène de la révélation. Du moins Frédéric Nietzsche est le premier qui l’ait décrit et distingué entre tous les autres aspects du génie créateur. Dans son dernier livre, Ecce Homo, il lui consacre tout un chapitre. La révélation est quelque chose qui se présente soudain à l’artiste, comme si on avait tiré un rideau, ouvert une porte; qui lui apporte une grande joie, un grand bonheur, un plaisir presque physique et le pousse au travail. Il est étonné et content comme un enfant auquel on a donné un jouet. Cette ressemblance entre la joie de l’artiste touché par la révélation et celle de l’enfant surpris par un cadeau dépend […] du fait que toutes deux sont pures […]»33.

La sottile presenza di Nietzsche risulta evidente anche in un articolo del 1938 sulla Metafisica dell’America in cui de Chirico osserva che «a Nuova York il soffio di metafisica più potente si sprigiona dall’architettura […]: l’omogeneità e la monumentalità armonica, formata da elementi disparati ed eterogenei. […] l’architettura dei grattacieli o di quegli edifici enormi che, pur non essendo dei veri grattacieli, impressionano per le loro eccezionali proporzioni. È soprattutto su questo […] lato che passa il soffio enigmatico del pomeriggio d’autunno; serenità nostalgica e nietzscheana delle costruzioni rischiarate dal sole dell’autunno soffuse di quel chiarore di convalescenti che cielo e terra hanno dopo il febbrone dell’estate»34. Il cuore di New York è pertanto il luogo di «costruzioni altamente liriche e metafisiche»35, con «gli archi o il vuoto degli intercolunnî, […] finestre aperte sull’aere sereno, […] parti di mondo che si presentano dietro i muri alti»36, elementi architettonici

33 Ivi, p. 318.34 Ivi, pp. 351-352.35 Ivi, p. 352.36 Ivi, p. 353.

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attraverso cui «l’alta metafisica di Nuova York […] appare in tutto il suo splendore»37.

Ma è innanzitutto e sempre di nuovo Torino («ce mystère, cette énigme sabaudienne ou cavourienne»38) la città metafisica cui il nome di Nietzsche è per il pensiero pittorico di de Chirico indissolubilmente legato, come viene rimarcato anche nella sua prefazione del 1939 ad un libro di pitture di Paola Levi-Montalcini, in cui riprendendo anche proprie reminiscenze ed immagini degli anni ’10 scrive:

«Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante non solo d’Italia ma di tutto il mondo. Colui che per primo scoprì l’ermetica bellezza di Torino fu un poeta-filosofo tedesco […]. È stato Nietzsche che per primo indovinò l’enigma di quelle vie diritte, affiancate da case rette da portici sott’i quali, anche con tempo di pioggia, si può passeggiare tranquillamente […], discutendo d’arte, di filosofia e di poesia […]. La bellezza di Torino è difficile a scorgere; talmente difficile che fuori di Nietzsche e di me stesso non conosco nessuno che se ne sia preoccupato finora. […] La bellezza di Torino non si svela che poco per volta, simile a una Gorgone buona e onesta che sa quanto costa a quelli che hanno la disgrazia di vedere la sua faccia interamente ed a un tratto. È infatti una bellezza che in alcuni casi può essere fatale. È ciò che successe a Federico Nietzsche. Già indebolito da una vita di emozioni violente causategli dalle sue scoperte metafisiche e dalle sue avventure intellettuali di pensatore, non poté resistere a lungo alla contemplazione totale della bellezza torinese ed affondò nella demenza durante uno di quegli autunni in cui […] l’occulta bellezza di Torino [è] al suo più alto grado di espressione»39.

Questa occulta bellezza di Torino è legata appunto all’emblematica del senso del suo nome: in quanto «Torino vive sotto il segno del Toro. I primi abitanti

37 Ivi, p. 354.38 Cfr. [A. Bardi], La vie de Giorgio de Chirico (1929), in: G. de

Chirico, Scritti/1 Romanzi e Scritti critici e teorici 1911-1945, a cura di A. Cortellessa, edizione diretta da A. Bonito Oliva, Milano, Bompiani, 2008, pp. 830-837, qui p. 833.

39 G. de Chirico, Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica, autobiografia 1911-1943, cit., pp. 361-362.

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ebbero come emblema un toro. Erano i Taurini (Taurinorum Gens), donde Torino. […] il toro è uno [degli] animali più enigmatici della creazione»40. La chiave di questo enigma che tiene insieme la terribile bellezza della ben squadrata capitale sabauda, il suo nome teriomorfo, la metafisica dell’apparenza di Nietzsche, la cima abissale del suo sprofondamento mentale e le immagini misteriche dei giovanili quadri dechirichiani (innanzitutto la malinconica statua di Arianna e la sua ombra lunga) è forse indicata in un passo del romanzo dechirichiano intitolato Ebdòmero (1929, 1942) allorché la figura zarathustriana del protagonista nomina «quel minotauro che gli uomini chiamano il Tempo»41: qui la bellezza meridiana (l’epifania della metaphysica rerum) è quella del proteiforme apparire della vertigine propria del labirinto dionisiaco e del suo mostro primordiale: l’animale-tempo (con le sue proteiformi incorporazioni ed imago cronomantiche).

Il nome stesso di de Chirico intenziona in effetti un proprio doppio pittorico-letterario. Infatti parallelamente alla messa-in-opera immaginale da parte del pensiero pittorico di Giorgio de Chirico del motivo di fondo della metafisica artistica nietzscheana dell’apparenza culminante nell’autoritratto del 1920 con l’emblema evocante la metafisica delle cose, il concetto di quest’ultima viene precisato ulteriormente in quanto enigmatica eternità terrestre, e sempre sotto la viva ispirazione del dispositivo manifestativo metafisico-apparenziale apollineo-dionisiaco nietzscheano, da Andrea de Chirico, musicista (che da giovane a Parigi nel 1914 si firmava «artisan dionysiaque» in occasione di una esecuzione pianistica di musica minimalistico-sperimentale «disarmonica») e poi pittore noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio42,

40 Ivi, p. 361.41 Cfr. G. de Chirico, Ebdòmero (1929, 1942), a cura di J. de

Sanna e P. Piccozza, Milano, Abscondita, 2003, p. 114.42 Se ne vada la breve caratterizzazione in A. Breton, Antologia

dello humour nero (1966), a cura di M. Rossetti e I. Simonis,

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in una molteplice serie di interventi critici, letterari e poetico-narrativi che a loro volta si configurano come una enorme incorporazione e trasfigurazione (e parodia metamorfico-minimalistica) della metafisica nietzscheana dell’apparenza e dell’eterno ritorno dell’eguale.

Innanzitutto lo scritto del 1919 su Anadioménon. Principî di valutazione dell’arte contemporanea, in cui, a rinforzo esplicativo del concetto di metafisica, viene introdotto da Savinio il termine «fantasmico, per: incipiente fenomeno di rappresentazione; genesi di ogni aspetto. E, rispetto all’uomo: stato iniziale del momento di scoperta, allor che l’uomo trovasi al cospetto di una realtà ignota a lui dapprima. / Il mondo è di continuo – come Venere – anadioménon: ché di continuo, su da qualche mar che lo gestiva in un travaglio misterioso, si suscita un novello dio»43.

Fantasmico è sinonimo dunque di anadioménon ovvero di surgens, vale a dire di oriens (anatolé, anadolu: oriente): tale apparenzialità è l’orizzonte propriamente metafisico anche dell’arte pittorica. «Questa parola, impiegata già dalla trattazione filosofica nei termini di un bilancio più che altro sostanzialmente fisico ripresa poi dalla teologia, trovò, per primo, in Nietzsche, una ragione spirituale libera. Con l’acquistare questo senso nuovo e vasto in una realtà più vasta, metafisico or non accenna più a un ipotetico dopo-naturale; significa bensì, in maniera imprecisabile – perché non è mai chiusa, ed imprecisa dunque, è la nostra conoscenza – tutto ciò che della realtà continua l’essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della realtà medesima»44.

Questa forma espansiva ed enigmatica (se aenigma è preso nell’accezione aristotelica) del filosofare Torino, Einaudi, 1971 (1970), pp. 303-305, con il celebre attacco «Tutta la mitologia moderna ancora in formazione ha le sue fonti nelle due opere, quasi indiscernibili nello spirito, di Alberto Savinio e di suo fratello Giorgio De chirico».

43 Cfr. A. Savinio, La nascita di Venere. Scritti sull’arte, a cura di G. Montesano e V. Trione, Milano, Adelphi, 2007, p. 46.

44 Ivi, p. 48.

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metafisico-artistico (che in Noi metafisici del 1919 de Chirico aveva visto come autosuperantesi “inesteticamente” nell’arte filosofica dei «buoni artefici nuovi [che] sono dei filosofi che hanno superato la filosofia») Savinio la caratterizza in termini di “forma spirituale” (kandiskijanamente, «epperò dichiaro, una volta per sempre, di non ammettere la spiritualità che in quanto congiunta direttamente alla materia, e, con questa, costituente un’unità indivisibile»)45:

«La filosofia spiritualista, dopo la sua immensa fioritura in Grecia, emigra in Occidente ed ivi rifiorisce. (Non si dimentichi quella filosofia – chiamiamola napoletana – dei Vico, Campanella, Bruno…). Non giunge in Francia. […] Ma la vediamo spandersi in Germania, fino a che tocca alla sua fase estrema (Nietzsche) nella formula: metafisica»46.

Ciò è possibile chiamare anche la «spettralità» delle cose: «la spettralità è l’essenza vera, spirituale e sostanziale di ogni aspetto»47. Un aspetto però sempre ironico, giacché, come Savinio qui subito sottolinea, «Eraclito, in un frammento […] dice, per la Natura, ch’essa ama nascondersi. […] Che la Natura ami celarsi a sé – per un fenomeno di auto-pudore»48.

Questo concetto portante è ribadito da Savinio anche nei Primi saggi di filosofia delle arti (Per quando gli italiani si saranno abituati a pensare) del 1921: «Prenderò a considerare il singolarissimo e misterioso fenomeno delle arti nel loro lato spirituale o, per meglio dire, metafisico. […] uso l’aggettivo metafisico per qualificare la qualità intima, ossia la sostanza lirica delle cose. […] Le arti non si rivalgono della qualità materiale e tangibile delle cose, sebbene di quella impalpabile, ma più intima e profonda: si rivalgono della qualità metafisica delle cose»49. In quanto si tratta della «rappresentazione non della realtà quale

45 Ivi, p. 56.46 Ivi, pp. 54-55.47 Ivi, p. 61.48 Ivi, p. 62.49 Ivi, p. 77.

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essa è naturalmente visibile, ma di quella particolare realtà plastica che è l’aspetto ineffabile dell’eternità terrestre»50. Questa significa appunto però, come Savinio scriverà oltre un ventennio più tardi, «avere la nostra propria sorte nella sorte di tutte le cose, dalle massime alle minime, e di essere noi soli come voleva essere Nietzsche, come una volta erano gli dèi: dappertutto e in nessun luogo»51.

E ciò perché «la poesia non viene da fuori, ma nasce dentro la cosa stessa: dal fondo di ciascuna cosa. Questa la proprietà della poesia “metafisica” […]. Ricordo l’insistenza di mio fratello e mia, al tempo in cui di conserva illustravamo e commentavamo il carattere della “nostra” poesia metafisica, a parlare dello “spettro” delle cose, ossia della loro sembianza interna. […] La poesia metafisica, come scoperta ed espressione della psiche delle cose (di una statua, di un monumento, di una piazza, di una città, di un paesaggio, di un oggetto, di un cielo) ossia della poesia “interna” dell’universo, […] ha preannunciato, e in campi di là dall’umano e più vasti, la rivoluzione recata di poi dalla psicanalisi […]. Ha saldato l’antica frattura tra fisico e metafisico, ha arricchito il fisico di una “metafisica” continuità, ha mobilitato il finito per concessione di un prolungamento infinito» (Talete e Pitagora, 1948)52.

Insomma, osservava de Chirico/Savinio, «non si tratta di negare l’infinito, non si tratta di sottrarsi all’infinito: si tratta di considerare l’infinito come una infinita continuazione di quello che è. Si tratta di non frapporre una soluzione di continuità tra quello che è e l’infinito. Si tratta di non pensare quello che chiamiamo finito, diverso da quello che chiamiamo infinito. Si tratta di non considerare l’infinito come un’altra cosa»

50 Ivi, p. 99.51 Cfr. A. Savinio, Dieci litografie di Fabrizio Clerici, Milano,

1942, cit. in V. Trione, L’ellisse e il cerchio, in appendice a: A. Savinio, La nascita di Venere, cit., p. 130 e n. 2.

52 Cfr. A. Savinio, Scritti dispersi 1943-1952, a cura di P. Italia, Milano, Adelphi, 2004, pp. 737-738.

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(Europa, 1948)53. Giacché «noi, abbiamo l’immortalità terrestre. […] L’arte stessa richiede la “permanenza sulla terra”. Un artista serio, degno di questo nome, non sconfina dalla terra, non evade, non èsula, ma sulla terra, nelle cose terrestri e a portata di mano trova mistero e lirismo, stupore e profondità. Sconfinano dalla terra gli esteti, ossia i falsi artisti, coloro i quali credono che l’arte è un al di là, una cosa “non da tutti i giorni”, uno stato ineffabile, un ideale»54 (proprio come la tarda musica wagneriana, e segnatamente quella del mistico Parsifal). In tal senso occorre «snidare l’idealismo dai suoi nidi più riposti: questo doveva fare Nietzsche» (Ecce homo, 1950)55.

Lungo questa potente e costante traccia nietzscheana Savinio promuove una linea metafisico-artistica anti-idealistica netta e senza sconti: «L’anno passato si è tenuto a Roma un congresso internazionale di filosofia. Non sembrava un congresso di filosofia, sembrava un concilio. Come stupirne? Oggi tutto è “concilio”. Tutto è “chiesa”. Tutto è “reazione”. Tutto è “organizzazione e sistemazione del fittizio”. Prevale oggi, spaventosamente, quella immoralissima, quella pericolosissima, quella dannosissima propensione a non guardare la vita com’è, ma come si vorrebbe che fosse» (Agli scrittori dico, 1948)56; e ciò vale anche per «Benedetto Croce (questo Vaticano laico)»57, «quell’ambiguo don Benedetto [che non ha] sensi né per la musica né per la pittura né per la poesia, e né pure per l’arte del pensare» e che Savinio accusa di «essere il gran sacerdote della scolastica odierna, e di ostacolare con la sua opera meno grande che voluminosa la passeggiata mentale degl’Italiani» (Città di fantasmi, 1948)58.

53 Ivi, p. 711.54 Cfr. A. Savinio, Ascolto il tuo cuore, città (1943), Milano,

Adelphi, 2001(4) (1984), p. 198.55 Id., Scritti dispersi 1943-1952, cit., p. 1432.56 Ivi, p. 721.57 Ibid.58 Ivi, p. 777.

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Anche Savinio non mancherà in più di un’occasione di ricordare il fatale binomio metafisico di Nietzsche&Torino, epperò con un’esplicita e cordialmente vibrante aggiunta postrisorgimentale-umbertina: «Nella parola “cuore” pronunciata come titolo di un’opera scritta, noi non intendiamo nient’altro che il Cuore di Edmondo de Amicis, questo libro caldo di talento e fedelissimo al titolo che oggi fingono di disprezzare, raro esempio di prosa narrativa in una letteratura poverissima di narrazione, e che in talune pagine, come quella intitolata “Valor civile” […], sale alla metafisica della Torino scoperta e amata da Nietzsche, “Classica ai piedi e classica agli occhi”»59. Giacché è proprio «in de Amicis [che] si ritrova, qualche volta, l’aura del Nietzsche torinese (leggete nel Cuore il corsivo su la premiazione di un salvatore), delle “Piazze d’Italia” di Giorgio de Chirico, di quel poetismo detto da noi “metafisico”, di cui cominciammo a dare i primi modelli intorno al 1909»60.

Tuttavia Savinio va ben oltre nella sua eterodossa e raffinata recezione di Nietzsche. Il suo peculiarissimo passo in avanti consiste nel dissolvere anche il mitema filosofico-concettuale e storiografico-filosofico del pensatore Nietzsche in quanto tale (cioè in quanto filosofema acquisito, idea conchiusa, fissa), coll’incorporare e metabolizzare la metafisica-artistica e cronomantica nietzscheana nel personaggio ironico-caricaturale e “paratemporale” di Nivasio Dolcemare («Superato il traguardo del mezzo secolo, la vita di Nivasio Dolcemare continua più che mai a svilupparsi nel senso dell’adolescenza»61) quale reincarnazione e riesecuzione di Nietzsche e sua «continuazione ineffabile»62 nonché immemore avatar dello stesso Savinio.

59 Cfr. Id., Palchetti romani, a cura di A. Tinterri, Milano, Adelphi, 1982, p. 225.

60 Id., Scritti dispersi 1943–1952, cit., p. 904 (Si capisce in Val d’Aosta perché i quattro non s’accordano, 1948).

61 Cfr. Id., Maupassant e “l’Altro” (1944), Milano, Adelphi, 1995(4) (1975), p. 9.

62 Ivi, p. 10.

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Questo bizzarro gesto minimalistico–iperletterario, che è simultaneamente una emendazione e un perfezionamento, permette a Savinio di cancellare una volta e per tutte lo stesso Nietzsche come cristallizazione storiografica e figura filosofico-aletheiologica scientifico-accademica dotata di senso, ma in modo da far saltare effettivamente il pensiero metafisico-artistico di Nietzsche al di là della propria ombra (conformemente alla sua verticale disintegrazione torinese che lo fa essere «ogni nome della storia»63), e cioè con l’”inverarlo”/precipitarlo in triviali e «mostruose mescolanze»64 dell’infinita apparenzialità quotidiana, nella cui opaca ed insensata e multiversa temporalità precipita innanzitutto ogni orizzonte significativo, eternalistico, universale, veritativo, finalistico, assiologico, filosofico e teologico unitario.

Ciò equivale a tematizzare in termini di pura sorgimentalità ubiqua e molteplice, di puro anadioménon appunto, il cuore stesso della massima eraclitea physis kryptesthai philéi65. Il numinoso nascere ama nascondersi sotto l’apparenza più triviale e mostruosa, e tale segreta ironia metafisica della physis è conoscibile a sua volta solo sotto il con-apparire di un analogo deformante travestimento (ossia tutto ciò che è l’altro assoluto rispetto alla filosofia e all’antifilosofia). Perciò Savinio può scrivere che «nella formula di là dal bene e dal male, Nietzsche ha significato la condizione di perfetta libertà morale; nella formula di là dal bello e dal brutto, si può significare la condizione di perfetta libertà estetica»

63 Cfr. la lettera di Nietzsche a Burckhardt del 6 gennaio 1889 da Torino, in J. Burckhardt–F. Nietzsche, Carteggio, a cura di M. Ghelardi, Torino, Aragno, 2002, p. 46.

64 Cfr. A. Savinio, Tragedia dell’infanzia (1937), in Id., Hermaphrodito e altri romanzi, a cura di A. Tinterri, Milano, Adelphi, 1995, p. 545.

65 Nel 1948 Savinio dedica una recensione sul «Corriere della Sera» all’omonimo e coevo libro di Giorgio Colli, cfr. A. Savinio, Natura ama nascondersi, ora in: Id., Scritti dispersi 1943–1952, cit., pp. 920-924.

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(Fine dei modelli, 1947)66. Cosicché grave e leggero, Nivasio Dolcemare, quale riesecuzione eccentrico-metafisica del pensiero di Nietzsche, ha imparato a nascere eternamente sempre di nuovo, a conoscere il tutto attraverso il tutto, entrando in comunione «con le creature e le cose di là dall’uomo: animali, piante, minerali; e con le particelle che compongono le creature e le cose; fino alle cellule e agli atomi; e di là dalle cellule e dagli atomi; e allora solamente sarà raggiunto il pieno, profondo sentimento cristiano della vita» (Europa, 1948)67. Quel sentimento ateo (giacché «ateo è il Cristianesimo»68) per cui la vita, la sua autoapparizione ubiqua, molteplice ed ironica, non ha alcun senso, non vuol dire niente: proprio un bel niente, un insensato niente che solo appare e riappare nel vuoto di se stesso, nascondendosi nel suo contrario e nell’opposto del suo contrario. Di questa saggezza metafisico-politeistica eracliteo-presocratica – in cui la «vita era guardata, pensata, esaminata in quello che è, un fisico infinito»69 – per Savinio, non meno che per de Chirico, Nietzsche rappresenta il culmine. «Ergo la filologia, la filosofia, la politica di Nietzsche vanno considerate more lyrici, sciolte da qualunque idea di fine, prese come gioco. Perché Nietzsche è lirico. È soltanto lirico. […] È “soltanto” lirico, cioè a dire sciolto da qualunque fine pratico. Diciamo la parola giusta: è “gratuito”. Onde il suo pensiero, la sua parola vanno presi gratuitamente, come pure illuminazioni liriche. Mai domandarsi davanti a un pensiero di Nietzsche: “Che significa?”»70.

66 Cfr. A. Savinio, Scritti dispersi 1943–1952, cit., p. 567.67 A. Savinio, Scritti dispersi 1943–1952, cit., p. 702. – Cfr. lo

stesso testo anche nella raccolta postuma di A. Savinio, Nuova enciclopedia (1977), Milano, Adelphi, 2005(6) (1941–1948, 1977), p. 142 (s. v.: Europa).

68 A. Savinio, Scritti dispersi 1943–1952, cit., p. 703. – Cfr. A. Savinio, Nuova enciclopedia, cit., p. 143.

69 A. Savinio, Scritti dispersi 1943–1952, cit., p. 707. Cfr. A. Savinio, Nuova enciclopedia, cit., p. 146.

70 Cfr. Id., Nuova enciclopedia, cit., p. 270 (s. v.: Nietzsche).

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Conseguentemente a questa profonda comprensione della disintegrazione del senso provocata ed evocata da Nietzsche, nell’esergo di Maupassant e “l’Altro”, dopo aver citato una frase di Ecce homo in cui Nietzsche chiama Maupassant «un vero romano»71, Savinio aggiungeva che «le epigrafi sono poste in testa agli scritti, perché ne chiariscano in pochissime parole il contenuto: questa epigrafe di Nietzsche illumina tanto meglio la figura di Maupassant, in quanto non si capisce che cosa voglia dire»72. E poi annotava: «La illumina tanto meglio, in quanto non si sa quello che Nietzsche abbia voluto dire dando del “romano” a Maupassant – e forse non ha voluto dire niente, come spesso accade a Nietzsche. Ma posso sperare di farmi capire […] se […] dico che si dice di più non dicendo niente?»73. Di più non dicendo niente, ma appunto solo mostrando la metafisica della vita-silente che appare a se stessa.

71 Id., Maupassant e “l’Altro”, cit., p. 9.72 Ibid.73 Ivi, p. 91.

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