Lo sviluppo umano tra universalità e singolarità · sione sia collegare la crisi dellutopia solo...

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1 Capitolo secondo Lo sviluppo umano tra universalità e singolarità di Nicola Lupoli In una creatura qualunque, l’Universo è questa stessa creatura; così ogni cosa le accoglie tutte, affinché siano, contratte in questa, questa stessa creatura. Niccolò Cusano 1. Se l’essere-nel-mondo di heideggeriana memoria rimandava a una condizione umana potenzialmente progettuale nella quale ogni persona, attraversando la totalità dei possibili rapporti con la realtà dà al mondo un senso, si interroga in cosa consista il suo essere e si dà forma fino a trascendersi (Heidegger, 1927), il pen- siero dell’Occidente contemporaneo si mostra secondo diversi autori attraversato da un progressivo dis-orientamento, smarri- to in un generale, scettico disincanto (Recalcati, 2017), restio ad affrontare il nodo dell’interpretazione della realtà (Giovanni Paolo II, 1998) e a ri-pensare il mondo in una prospettiva tra- sformativa (Cacciari e Prodi, 2016). È, invero, estremamente complesso e inquietante il panorama che si presenta al nostro sguardo, ma rischia di generare confu- sione sia collegare la crisi dell’utopia solo ad alcune categorie e- conomiche e alle crisi del Novecento sia il connettere meccani- camente un concetto polisemico quale quello dell’interpretazione della realtà con l’impegno etico. L’atto inter- pretativo va distinto nelle sue due accezioni. In ambito scientifi- co afferisce all’analisi della/e relazione/i che collega/no i dati a proprietà, condizioni, o determinazioni riscontrate (prevalente-

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Capitolo secondo

Lo sviluppo umano tra universalità e singolarità

di Nicola Lupoli

In una creatura qualunque, l’Universo è questa stessa creatura;

così ogni cosa le accoglie tutte, affinché siano, contratte in questa, questa stessa creatura.

Niccolò Cusano

1. Se l’essere-nel-mondo di heideggeriana memoria rimandava a una condizione umana potenzialmente progettuale nella quale ogni persona, attraversando la totalità dei possibili rapporti con la realtà dà al mondo un senso, si interroga in cosa consista il suo essere e si dà forma fino a trascendersi (Heidegger, 1927), il pen-siero dell’Occidente contemporaneo si mostra – secondo diversi autori – attraversato da un progressivo dis-orientamento, smarri-to in un generale, scettico disincanto (Recalcati, 2017), restio ad affrontare il nodo dell’interpretazione della realtà (Giovanni Paolo II, 1998) e a ri-pensare il mondo in una prospettiva tra-sformativa (Cacciari e Prodi, 2016).

È, invero, estremamente complesso e inquietante il panorama che si presenta al nostro sguardo, ma rischia di generare confu-sione sia collegare la crisi dell’utopia solo ad alcune categorie e-conomiche e alle crisi del Novecento sia il connettere meccani-camente un concetto polisemico quale quello dell’interpretazione della realtà con l’impegno etico. L’atto inter-pretativo va distinto nelle sue due accezioni. In ambito scientifi-co afferisce all’analisi della/e relazione/i che collega/no i dati a proprietà, condizioni, o determinazioni riscontrate (prevalente-

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mente col metodo sperimentale) nella realtà. Sul piano etico, in-vece, esso ne rappresenta un’attribuzione di senso dalla quale conseguono doveri morali. Il secondo aspetto, non scevro da in-fluenze a-scientifiche, non a caso, presenta innumerevoli visioni, molto spesso antitetiche, di senso e significato.

Non si intende qui sostenere che il mondo della scienza non sia anch’esso intricato e non uniforme, né che non mostri anch’esso smarrimenti di fronte a scoperte che mettono in di-scussione principi secolari e certezze consolidate. Le recenti ri-cerche della cosmologia, della fisica, dell’astrofisica, della biofisi-ca (ecc.) individuano in un “multiverso”, sempre più incommen-surabilmente esteso1, sconosciuti e affascinanti aspetti della real-tà2, non tutti indagabili con le attuali conoscenze e tecnologie, che alimentano differenti ipotesi, metodi e teorie di indagine. Al contempo, le scienze dell’uomo e della natura riscrivono la storia e le caratteristiche di quell’infinitesimamente piccolo granello di polvere stellare chiamato Terra e dei suoi viventi, esplorando con nuovi approcci, sempre più multi/interdisciplinari3, la rete delle

1 Un recentissimo “censimento dello spazio” realizzato dall'università di Nottingham (UK), pubblicato sull'Astrophysical Journal, ha innalza-to il numero delle galassie di 1° volte (da 200 a 2000 miliardi).

2 Basti pensare alla scoperta della materia oscura (cfr. Galbiati, 2017) e alla rilevazione delle onde gravitazionali generate dalla fusione di due enormi buchi neri, distanti tra loro 1,8 miliardi di anni luce.

3 Ci riferiamo (ad esempio) alla filosofia delle scienze biologiche, alla paleoantropologia, alla neuropedagogia, alla paleoneurologia, all’entomologia e archeologia forense, alla neurofisiologia, alle neuro-scienze, alla psicobiologia, alla biologia evoluzionista ecc. Sempre più studiosi sono impegnati in più campi disciplinari come J. Panksepp (psicologo, neuroscienziato e psicobiologo), R.C. Lewontin (biologo e genetista), H. Gee (paleontologo e biologo evoluzionista), W. Tecum-

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interconnessioni che collega totalità e particolarità, soggetti, ambiente e tempo.4

Assistiamo, dunque, non tanto a una resa della conoscibilità del reale, o ad una negazione dell’esistenza di una realtà indi-pendente dal soggetto che la percepisce, quanto all’impossibilità di conciliare le tradizionali costruzioni metafisiche con evidenze sperimentali che ne perimetrano e “relativizzano” l’interpretazione. Mentre le scienze della natura definiscono in maniera sempre più accurata la demarcazione tra ciò che è e ciò che di esso sappiamo, la filosofia occidentale è ancora abitata da autorevoli studiosi che negano la possibilità di una conoscenza “oggettiva” (per alcuni, di una conoscenza “ultima”), consideran-do tutta la rappresentazione della verità una costruzione sociale ivi compreso il mondo della natura: la verità come soggetto e non oggetto delle interpretazioni di Pareyson (1971) e Vattimo (2012), eredi dell’ammonimento di Nietzsche (1885-1887, p. 299): «Non ci sono fatti, solo interpretazioni».

Ma nella filosofia contemporanea si rileva anche, la presenza di un corposo pensiero che non confonde l’ontologico con l’epistemologico5. Esso è impegnato a ripensare l’adeguamento delle epistemologie disciplinari al reale, a reagire, senza ricorsi a ispirazioni teologiche, al tramonto di concetti sui quali, a partire dalla filosofia greca, sono stati costruiti in Occidente imponenti sistemi gnoseologici, e a collocare, con prudente umiltà, i risulta-ti dell’indagine scientifica in un quadro in permanente ri-

seh Fitch (biologo e scienziato cognitivo) ecc.

4 Cfr. il volume della genetista Jablonka (2007) sull’evoluzione, appro-fondita nelle dimensioni genetiche, epigenetiche, comportamentali e simboliche.

5 In esso, un ampio spazio è occupato dal New Realism.

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definizione, che tien conto anche dei limiti e condizionamenti della loro costruzione. Ė il ritorno di un pensiero forte che pro-pugna quello che Ferraris (2014) definisce un mondo natura-le inemendabile, unitamente a Eco (1997), Boghossian (2005), Se-arle (2000-2006), Marconi (2007), accomunati dall’idea che «L’uomo è posto come reale in mezzo a un mondo reale ed è do-tato di organi tali, per cui può conoscere e produrre il reale e, i-noltre, il possibile», come diceva Goethe, che pure precedente-mente aveva sottolineato la natura antropomorfica della scienza (Giametta, 2016). A ben vedere, la stessa “provocazione” di Nie-tzsche può essere diversamente interpretata.

«Il principio di Nietzsche - scrive Giametta - resta valido sul pia-no metafisico, dove tutto quello che cogliamo è interpretazione di qualcosa di infinito che non potremo mai cogliere nella sua essenza. Ma è molto meno valido sul piano fisico. La fysis, la na-tura, è realtà, ma antropomorfizzata dalla nostra percezione. Non per niente Nietzsche sostiene che la fisica è l’autodescrizione dell’uomo: “È sufficiente considerare la scienza un’umanizzazione il più possibile fedele delle cose; noi impa-riamo a descrivere in modo sempre più preciso noi stessi quando descriviamo le cose e la loro successione”. […] Che la fisica sia re-altà antropomorfizzata, è provato dai continui cambiamenti, cioè miglioramenti in verità e precisione, e quindi in disantro-pomorfizzazione della scienza, sicché le leggi della fisica, che si vogliono così solide, si evolvono anch’esse nel tempo, vengono continuamente corrette. Basta pensare a Tolomeo e Copernico, a Newton e Einstein, a Planck ecc.» (Giametta, 2016).

Accanto, sul piano etico, pur assunto il disincanto (Cambi, 2006) come meccanismo depuratore delle incertezze della post-modernità, emerge da tempo una consapevolezza della necessità (Baczko, 1997) di ipotizzare un altro futuro verso cui orientare l’oggi, se si vuole evitare la sempre più vicina Apocalisse. Qui

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sorge la necessità, già indicata da Dewey, di far incontrare il pen-siero scientifico e quello etico, perché la crisi dell’Occidente, ma sarebbe meglio dire la crisi delle società contemporanee e delle loro determinazioni, è crisi di modelli di civiltà (delle loro strut-ture economiche, dei corrispondenti valori, culture, religioni), che va ben compresa se si vogliono individuare efficaci anticorpi.

2. Rivolgiamo, in tal senso, un primo sguardo sui recenti processi che hanno riconfigurato il Pianeta e le fisionomie di civiltà e co-munità plurisecolari rivestendo tutto con una coltre omologante. Fatta eccezione per l’ideologia economica del neoliberismo, dopo la crisi delle grandi narrazioni del Novecento, nessuna visione è in grado di unificare un mondo frammentato in bunker culturali, che rendono difficile la percezione di valori e sentimenti da vive-re in quanto tali (Lyotard, 1981). L’osservazione ci restituisce un panorama composito, tanto più fragile quanto più è complesso, in cui un’uniforme (Jullien, 2008) omologazione operata dalla ragione tecnica e dalla ‘razionalità utilitaristica’ del Mercato glo-bale è compresente a molteplici diversità, che comprendono tut-te le manifestazioni della vita (Fistetti, 2005, p. 102), le cui con-traddizioni non sono più riducibili alla superiore sintesi ipotiz-zata dalla dialettica hegeliana.

La mondializzazione dell’economia ha avuto una lunga gesta-zione nel capitalismo, la cui natura cosmopolita era stata ben prefigurata da Marx già nella prima metà dell’Ottocento. Nel “Manifesto” egli scriveva:

«Con lo sfruttamento del mercato mondiale [il capitalismo (N.d.A.)] ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. [in cui (N.d.A.)] all'antica autosuffi-cienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazio-ni [che (N.d.A.)] costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema

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di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: […] si crea un mondo a propria immagine e somiglianza» (Marx e Engels, 1848, pp. 104-105).

L’imperialismo capitalistico ha assunto negli ultimi decenni una nuova forma, che ha travalicato i vari recinti nazionali (e le loro implicite protezioni) e ha basato l’accumulazione del capita-le sul libero scambio e l’espansione planetaria della finanziariz-zazione. Si può definire questo processo come transizione dal vecchio modello all’imperialismo globale, inteso quale «proie-zione del grande capitale delle multinazionali su quello che Marx chiamava mercato mondiale» (Screpanti, 2013, p. 10.), una con-formazione diversa dall’imperialismo dei secoli scorsi che neces-sita di nuovi strumenti teorici di analisi.

Libero dal controllo politico (anzi condizionandolo) e da ogni principio che non sia il profitto, l’imperialismo globale ha de-terminato nell’Occidente un incremento dei profitti e una sta-gnazione e diminuzione dei salari (favorite da nuovi vincoli legi-slativi) e ha prodotto una crescente disuguaglianza tra gli stati, i popoli e le classi sociali del Nord e del Sud del mondo. Gli stati del Nord sono obbligati a ridurre gli spazi democratici e subire le decisioni di organismi sovranazionali6, di fatto al servizio delle multinazionali e di organismi pubblici, subendo le pressioni di non indipendenti Agenzie di rating7. Quelli del Sud sono costret-ti ad aprire i loro mercati alla penetrazione delle multinazionali, consentendo al capitalismo di perpetuare il saccheggio delle loro risorse naturali sia con il millenario strumento della forza milita-

6 Quali il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio e la Banca Mondiale.

7 Tra esse: Moody's, Standard & Pour, Fitch, Dagong ecc.

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re (le guerre sono moltiplicate negli ultimi decenni8) sia attraver-so la forza della chimera neoliberista della stateless global gover-nance9 e dei suoi “oggettivi” meccanismi di dominio imposti e giustificati come leggi “naturali” dei mercati, ben veicolati da un sistema informativo in mano a pochi potentati economici che re-citano all’unisono come indiscutibile verità la “sovranità del mer-cato”.

In questo processo non compiuto e non lineare, affiorano sva-riate e inevitabili contraddizioni che l’attuale crisi evidenzia, al-cune strutturali, altre culturali, altre esistenziali. Ci riferiamo all’inasprimento dei contrasti sociali, all’instabilità finanziaria. alle rivalità inter-imperiali tra vecchie e nuove potenze (tensioni dirette e guerre per procura) al crescente antagonismo delle Peri-ferie mascherato da conflitto culturale, etnico e/o religioso, all’esodo di centinaia di milioni di Persone dai loro Paesi in fuga dalla morte per calamità naturali10 conseguenti il cambiamento

8 I conflitti in atto coinvolgono: in Africa, 22 Stati e 60 tra milizie-guerriglieri e gruppi separatisti; in Asia, 14 Stati e 63 tra milizie-guerriglieri e gruppi separatisti; In Europa, 9 Stati e 25 tra milizie-guerriglieri e gruppi separatisti; in Medio Oriente, 8 Stati e 57 tra mili-zie-guerriglieri e gruppi separatisti; nelle Americhe, 3 Stati e 11 tra car-telli della droga, milizie-guerriglieri e gruppi separatisti, per un totale di 56 Stati coinvolti nelle guerre e 217 milizie-guerriglieri e gruppi se-paratisti. A ciò va aggiunta la violenza generata dalle discriminazioni, e dalle intolleranze sessiste, religiose, culturali e razziali presenti in tutti i Paesi. Fonte: http://www.guerrenelmondo.it/

9 La governance globale apolide.

10 L’aumento delle calamità naturali è la cartina di tornasole che sma-schera il nesso tra l’incremento della predazione degli ambienti, delle risorse naturali e umane in nome del profitto, la “deforestazione, de-sertificazione, inquinamento, salinizzazione delle terre irrigate, perdi-

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climatico, per conflitti o per fame11, alle tentazioni sovraniste dei cittadini impoveriti dalla globalizzazione presenti in molti Paesi occidentali, alla dilagante ostilità verso l’Altro diverso da sé che avvelena le società multiculturali, ma anche alla percezione di impotenza delle Persone di fronte alla natura astratta del capita-lismo finanziario, delocalizzato e depersonalizzato.

È un mondo sempre più inquietante, preda di economie rivol-te a ottenere senza regole il massimo profitto, minacciato dalla catastrofe ambientale e dalla crescente manipolazione del mate-riale genetico umano, animale e vegetale, segnato dal diseguale accesso alle risorse, dall’ineguale stato e condizioni di sviluppo, dalle differenti opportunità di esercizio dei diritti umani fonda-mentali. Un mondo in cui le guerre sono combattute contro le popolazioni civili più che tra gli eserciti, che produce conflitti, migrazioni come mai nel passato12, che nega dignità a miliardi di uomini ridotti, come denuncia Papa Francesco, a cose “usa e get-ta”, fino all’estremo della riduzione in schiavitù13. La diminuzione

ta della biodiversità, innalzamento del livello del mare” (Padoan, 2016) e l’aumento delle migrazioni.

11 In 25 tra Stati e territori del Pianeta devastati da carestie, siccità e al-luvioni, muoiono ogni anno di fame oltre 31 milioni e mezzo di bambi-ni: uno ogni sei secondi. Nella sola Somalia, nel 2011, una carestia sen-za precedenti ha assetato 13 milioni di persone e altrettanti capi di be-stiame, uccidendo decine di migliaia di bambini. Fonte: Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia, rapporto Humanitarian action for chil-dren 2012.

12 L’ultimo International Migration Report delle Nazioni Unite stima in 244 milioni (il 41% in più dal 2000) i migranti nel mondo a fine 2015. Fonte: “Il Sole 24 ORE”. 14/03/2016, pagina 9.

13 Nel mondo, incluse le democrazie dell’Occidente, ci sono 45,8 milio-ni di persone schiavizzate, i due terzi in Asia (India 18,35 milioni, Ci-

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dell’uomo da fine a mezzo, già implicita da secoli nei modelli oc-cidentali di produzione e condannata da vari umanesimi, esplo-de con inusitata violenza nell’ultimo decennio del secolo scorso, quello del mercato unico e della finanziarizzazione del capitale. In quegli anni, un altro Papa scrive:

«L’individuo oggi è spesso soffocato tra i due poli dello Stato e del mercato, [...] mentre si dimentica che la convivenza tra gli uomini non è finalizzata né al mercato, né allo Stato, poiché pos-siede in se stessa un singolare valore che Stato e mercato devono servire» (Giovanni Paolo II, 1991, p. 49).

Osserviamo, dunque, un panorama in fibrillazione, sconvolto da dirompenti processi dispiegati su territori allo stesso tempo planetari, regionali e locali, amplificati dalla crisi di quella globa-lizzazione neo-liberista che, come uno tsunami, ha alluvionato il Pianeta nell’ultimo trentennio. L’attuale reflusso lascia allo sco-perto impressionanti macerie economiche, sociali e culturali. Quelli che ne furono i cantori, raccolti in veglia, si interrogano sulla gravità della sua crisi, chiedendosi se essa sia la manifesta-zione di un rigetto contrastabile con appropriate cure o rappre-senti l’agonia che prelude la morte. Dentro lo scontro tra il capi-talismo delle multinazionali senza “Patrie” e capitalismi “nazio-nali” o “regionali”, da un lato si ipotizza un rilancio della globa-lizzazione, dall’altro si propende ad assecondare il ritorno a un approccio multipolare. Entrambe le prospettive eludono o sotto-valutano o non collegano alle vere cause le drammatiche emer-genze che deve oggi affrontare il pianeta, continuando a ignorare

na 3,39 milioni, Pakistan 2,13 milioni, Bangladesh 1,53 milioni e Uzbekistan 1,23 milioni). Il numero è aumentato del 28% rispetto ai dati dell'ultimo report. Fonte: Indice Globale della Schiavitù 2016, pub-blicato dalla Walk Free Foundation. In https://www.globalslaveryindex.org/

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la natura strutturale delle disfunzioni del neocapitalismo, di cui l’attuale modello rappresenta la forma più elevata.

Di fatto, il dibattito reale in corso tra i principali “decisori” delle politiche economiche dell’Occidente, avviene tra neo-liberisti. Non a caso, esso riguarda prevalentemente le strategie di superamento della stagnazione e la ripresa del commercio mondiale, e manifesta soprattutto il tentativo di privilegiare gli interessi di singoli Stati o di determinate aree geografiche. Si pre-figura, così una frammentazione del mondo che rende più diffi-cile affrontare con l’indispensabile impegno sovranazionale le drammatiche questioni della sicurezza, dei cambiamenti clima-tici, dell’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro e sui processi cognitivi (imbrigliati in sistemi informatici chiusi dalle procedu-re rigide e imposte dai padroni delle reti), e che comprende an-che azioni di sottrazione delle economie a giurisdizioni generali, col risultato di incrementare un crescente ritorno ai nazionalismi e di depotenziare ulteriormente i diritti umani, formalmente af-fermati, ma non resi sostanziali.

Un secondo sguardo va orientato sul ruolo svolto dai sistemi formativi. Il primo tratto che emerge è il crescente propagarsi nell’Occidente dell’idea di conoscenza come razionalità scientifi-ca strumentale ridotta a strumento di dominio tecnico della real-tà, priva della “giustificazione” etica delle ragioni dell’azione. Questa concezione, finalizzata a produrre le risorse scientifi-co/tecnologiche e umane più convenienti all’economia, è riscon-trabile anche in diverse posizioni sui fini e sull’organizzazione dei sistemi scolastici rilanciate con forza dagli industriali a parti-re dagli anni Novanta del secolo scorso. Essa orienterà le modifi-che dei sistemi di istruzione e formazione europei per adeguarli ai nuovi bisogni del Mercato globale, rimodellerà gli obiettivi culturali e l’organizzazione della scuola e ne trasformerà il ruolo degli operatori.

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Sono gli anni in cui l’avanzata della globalizzazione e l’introduzione del Mercato unico sommerge l’Europa di prodotti manifatturieri provenienti da Paesi a più bassa tecnologia ma con enormi riserve di manodopera a basso costo. L’incipit delle riforme è dato dall’ERT (Tavola Rotonda Europea degli industria-li) che, alla fine del 1989, pubblica un rapporto su «Educazione e competenze in Europa» nel quale indica, come unica possibilità di competere con i Paesi emergenti quella di elevare la qualità dei prodotti occidentali. Esso richiede agli Stati membri di modi-ficare i sistemi d’insegnamento e i loro programmi per renderli più funzionali ai bisogni dell’industria anche attraverso una più ampia compartecipazione delle aziende, di innalzare il livello della ricerca scientifica e tecnologica, dell’alta formazione e della formazione scolastica di base, e di estendere la conoscenza a tut-ta la popolazione per tutto l’arco della vita.

Tre anni dopo, col Trattato di Maastricht, sono assegnate alla Commissione europea competenze in materia di istruzione. Sot-to la direzione di Edith Cresson viene pubblicato nel 1996 il Li-bro Bianco «Insegnare e imparare: verso la società cognitiva». In sintonia con l’ERT il Rapporto Reiffer raccomanda i Paesi mem-bri ad adattare i sistemi d’educazione e di formazione alle carat-teristiche dell’impresa. Nel Consiglio europeo di Amsterdam del 1997 si chiede «di dare la priorità allo sviluppo delle competenze professionali e sociali, per un migliore adattamento dei lavorato-ri alle evoluzioni del mercato del lavoro». I propositi di Cresson e di Reding14, sono assunti nel Summit di Lisbona del 2000 e rece-piti dalla Commissione nel «Memorandum sull’educazione e la formazione permanente» e nel documento su «I futuri obiettivi concreti dei sistemi di Educazione» del 2001.

L’obiettivo strategico dell’insegnamento diviene quello di ren-

14 Entrata nella Commissione nel 1999.

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dere l’Europa «l’economia della conoscenza più competitiva e di-namica del mondo, capace di una crescita economica duratura». La richiesta degli industriali mirante a innestare nella scuola il modello aziendalistico, su uno sfondo culturale economicistico e strumentale è pienamente accolta dai governi europei. Il compito prioritario dei sistemi formativi non consiste più nella costru-zione di saperi per creare competenze di base generate dalle di-scipline, ma nello sviluppo di competenze “pluridisciplinari” o “trasversali”, definite come «vasti domini di conoscenze e di competenze, tutti interdisciplinari» (CCE, 2000-b) e, in partico-lare, “professionali e sociali, per un migliore adattamento dei la-voratori alle evoluzioni del mercato del lavoro» (CCE, 1997). Le competenze sociali diventano «fiducia in se stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi». Le competenze relative allo spiri-to d’impresa consistono nella «capacità dell’individuo a superarsi nel campo professionale» e nella «attitudine a diversificare le at-tività d’impresa».

La formazione come bene in sé svanisce, la pedagogia è bana-lizzata «nel rifiuto e più sovente nell’ignoranza di tutta la sua storia» (Laporta, 1999, p. 24). Volutamente si ignorano saperi e valori consolidati nelle scienze dell’educazione. Per citare solo uno tra gli innumerevoli pensatori che si sono occupati delle epi-stemologie disciplinari, ricordiamo che già negli anni ’60 del No-vecento Bruner (1966; 1996), attento studioso di Montessori, Pia-get, Goodman e Vigotskij, ci fa cogliere il profumo delle compe-tenze emanate dai saperi disciplinari. Egli demolisce, infatti, l’assimilazione delle discipline a ammassi di nozioni e le defini-sce come insieme organizzato e coerente di conoscenze. Le epi-stemologie disciplinari – sostiene - sono dotate di proposizioni generative e principi organizzativi e spetta alla mediazione peda-gogica il compito di sviluppare l’apprendimento delle loro strut-ture di contenuto con attività di tipo operativo, visivo e simboli-

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co. Tra gli anni ’80 e gli anni ’90, in chiave costruttivistico-culturalista, sottolinea, inoltre, il valore dell’intenzionalità e dell’intersoggettività per la negoziazione del significato nei di-versi ambiti di vita e della narrazione come ricostruzione dell’esperienza e atto di costruzione di significato.

La deformazione economicista del concetto di competenza indica il senso generale dei cambiamenti dettati dalle Confindu-strie. La strategia della UE sarà più volte modificata, arricchita di nuovi obiettivi più attenti ai bisogni individuali e sociali quali il contrasto degli abbandoni precoci, l’aumento delle competenze nelle discipline linguistiche, matematiche, scientifiche e tecno-logiche, il miglioramento dell’inclusione, l’attenzione verso i nuovi panorami multiculturali ecc. ma, nella valutazione della maggior parte degli osservatori, essa è sostanzialmente fallita. Per far fronte alle criticità planetarie del presente, la formazione ha bisogno di ben altri riferimenti e finalità.

Se si prende atto che la mondializzazione e la finanziarizza-zione delle economie hanno rappresentato il brodo di coltura di innumerevoli disastri umanitari, diviene eticamente doveroso pensare un nuovo modello di sviluppo e di governo condiviso del pianeta che ponga le sue ragioni nella revisione del concetto di sviluppo e nell’impegno per la sua sostenibilità economica, am-bientale, umana, nella riduzione delle disuguaglianze di reddito e di diritti, nella crescita integrale di ogni persona. In sintesi, o-rientare i fini politici verso il “bene comune” di aristotelica me-moria (Gastaldi, 2008, pp. 144-145; 2014,). Ciò richiede, in primo luogo, di liberare le menti dalle incrostazioni sedimentate dalle ideologie egemoniche contemporanee che:

«[…] alimentano quello che Luciano Canfora ha definito “sesto senso degli idioti”, il predominio di un “realismo beffardo” che pensa, e non sa non pensare, ogni innovazione come irrealizza-bile (Ercolani, 2014). Ma se la coscienza comune non può di per

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sé decodificare la contraddittorietà e le ingiustizie dello status quo, appartiene alla stessa storia umana l'emergenza e la matu-razione di filosofie che non si limitano a riconoscere il giusto dopo che è stato il corso degli eventi a decretarlo (Canfora, 2002, p. 12; 2016 p. 363). C'è una forma di pensiero che invece lo pro-spetta, lo persegue, riconoscendo le aperture della storia nelle quali può darsi. Marx e Platone sono accomunati da questo: es-sere tra i “filosofi che si sporcano le mani» (Lupoli, 2016, pp. 61-62).

Occorre oggi co-costruire, oltre i vincoli delle singole culture, una nuova etica condivisa, che reclama la pratica del dialogo “au-tentico” auspicato da don Milani e l’impegno congiunto delle scienze dell’uomo, a ciascuna e a tutte chiedendo di concorrere a restituire una speranza all’umanità e al pianeta. Fondamentale in questo percorso è il ruolo della formazione e dei presupposti del-la risposta pedagogica 3. Riprendendo la lezione di Dewey, è necessario sia che la peda-gogia sappia partire dai dati, dalla conoscenza empirica e teorica della natura reale dello spazio che abitiamo (fisico, economico-sociale-culturale) sia che sappia prendersi cura dei bisogni della Persona umana, considerata nei suoi meccanismi, dinamismi, capacità, in quanto specie, gruppo, irripetibile soggettività. Il ri-chiamo a Dewey non è casuale, in quanto ravvisiamo nel suo pensiero una ancora attuale fonte di ispirazione. Egli, tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta del XX secolo, ri-pensa critica-mente il sapere pedagogico (Cambi, 2000, p. 32) a partire da una rilettura filosofica di quell’evoluzionismo darwiniano che ha in-fluenzato, unitamente alla corrente neohegeliana statunitense, la sua prima formazione. Fin dal 1909, in una conferenza tenuta al-

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la Columbia University15, riconosce la rivoluzionaria influenza della teoria dell’evoluzione sulla filosofia, sottolineando come Darwin, sulla scia di secolari critiche alla concezione della natura e della conoscenza della filosofia classica16, trattando:

«le forme, che erano state considerate come tipi fissi e perfetti, come entità che hanno un’origine, cambiano e scompaiono, […] ha introdotto un modo di pensare che alla fine era destinato a trasformare la logica della conoscenza (Dewey, 1910, pp. 1-2). […] L’influenza di Darwin sulla filosofia risiede nel suo aver soggio-gato i fenomeni della vita al principio di transizione, e per mezzo di esso, nell’aver aperto la strada alla nuova logica per una sua applicazione alla mente, alla morale e alla vita. Quando egli disse delle specie ciò che Galileo aveva detto della Terra, e pur se muo-ve, emancipò, una volta per tutte, le idee genetiche e sperimenta-li elevandole a strumento di conoscenza per porre domande e cercare spiegazioni» (ibidem, pp. 8-9).

15 Pubblicato sul “Popular Science Monthly” n. 75 del 1909, pp. 90-98, il saggio sarà ristampato nel 1910.

16 «I primi segnali della rivoluzione sono già visibili nella fisica del XVI e XVII secolo. Quando Galileo disse: “io per me reputo la Terra nobilissima ed ammirabile per le tante sì diverse alterazioni, mutazio-ni, generazioni, etc., che in lei incessabilmente si fanno”, egli si fece portavoce della nuova temperie che si stava diffondendo nel mondo: lo spostamento dell’interesse dal permanente al mutevole. Quando Car-tesio osservò: “la natura delle cose materiali si può concepire molto più facilmente quando si vedono nascere a poco a poco, che non quando si considerano bell’e fatte”, il mondo moderno prese coscienza della logi-ca che da allora in poi l’avrebbe dominato: la logica di cui l’Origine del-le specie di Darwin rappresenta il frutto scientifico più recente. Senza i metodi di Copernico, Keplero, Galileo e dei loro successori in astro-nomia, fisica e chimica, non sarebbe mai potuto esistere un Darwin nelle scienze organiche» (Costa, 2007, p. 7).

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Il darwiniano riconoscimento dell’oggettività della natura, so-stenuto da una poderosa ricerca empirica, diviene per Dewey la pietra angolare del metodo scientifico che, epistemicamente, prescinde da cause finali (Monod, 1970, p. 33). Il metodo speri-mentale della scienza “che ha trovato il suo punto culminante nell’Origine delle specie”, diviene uno dei cardini del suo approc-cio filosofico, esteso ad altri campi delle scienze umane (Dewey 1910, p. 19). Con un marxiano rovesciamento, egli rimette la filo-sofia (e la dialettica) hegeliana con i piedi per terra. «La filosofia – scrive – riconquista se stessa quando cessa di essere un mezzo di trattare i problemi dei filosofi e diventa un metodo coltivato dai filosofi per trattare i problemi degli uomini» (Dewey, 1916, p. 105). Il mondo della vita diviene così oggetto privilegiato della sua ricerca. In tale direzione, egli sottopone le scienze che si oc-cupano dell’uomo (a partire dalla filosofia, dall’etica, e dalla mo-rale) al rigore dell’indagine sperimentale, sia per affrancare la ri-cerca della conoscenza dalla trascendenza sia per liberare la stes-sa ragione dalla fissità dogmatica e dalla definitività dei propri risultati, rendendola consapevole dei suoi limiti, della sua prov-visorietà, della necessità di un suo permanente rif lettere sui pro-pri processi e di auto-correggersi (Dewey, 1920).

Di Hegel, Dewey conserva la concezione dell’unitarietà della realtà, depurandola da quella dimensione metafisica17 che pone-va la razionalità come ragione assoluta, coincidente con il tutto.

17 Cambi scrive che Dewey «forse, per primo e meglio di altri ci ha dato questo nuovo stemma del sapere pedagogico, nel quale ogni residuo metafisico risulta drasticamente bruciato. […] Pur riconoscendo […] una validità alla metafisica empirica (in Esperienza e natura ad esem-pio, ma anche – in parte – in Natura e condotta dell’uomo), non asse-gna a tale forma di sapere un ruolo nella pedagogia» (Cambi, 2000, p. 54).

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Diversamente dal filosofo tedesco, però, Dewey considera il tutto come una realtà in cui sono presenti sia condizioni coerenti, or-dine, ricorrenze che rendono possibile la previsione e il controllo sia stranezze, ambiguità, incertezze ed errori, indeterminazioni (Dewey, 1925). In tal senso, assegna alla ragione la funzione di ri-composizione dello squilibrio maturato nello scambio tra sogget-to e natura e di illimpidimento cosciente delle contraddizioni del tutto, ricomponendo in tal modo storiche dicotomie tra materia e spirito, oggetto e soggetto e contestualizzando nella società e nella storia l’agire umano.

Fornire a tutti il rigore del pensiero riflessivo costituisce per Dewey la improcrastinabile, doverosa risposta alle derive irrazio-nali dell’Occidente che massifica, atomizza, de-umanizza in mo-do sempre più esteso e pervicace le Persone. Nei primi decenni del Novecento, infatti, con la celere espansione della società di massa, iniziata nell’America del Nord e via via estesa nell'Europa occidentale, sono sconvolti i contesti di vita e lavoro, i tratti cul-turali e le relazioni famigliari e sociali di interi popoli. Il cam-biamento frantuma la plurimillenaria civiltà contadina, travolta dalla rivoluzione tecnologica dell’industria che modifica la com-posizione sociale degli Stati e i rapporti tra le classi, urbanizza la maggioranza delle persone e alimenta la disponibilità di beni e servizi.

Le nuove esigenze dell’industria e del mercato del lavoro im-pongono radicali cambiamenti nei sistemi formativi, le cui strut-ture e finalità sono maggiormente impegnate in uno sforzo epo-cale di acculturazione delle masse sostenuto anche da nuovi ca-nali comunicativi (giornali, rotocalchi, cinema, radio, fotografia) e da nuovi soggetti formativi (sindacati e partiti) che accrescono la partecipazione attiva delle masse alla vita culturale e politica. Sull’Occidente grava uno sfondo contraddittorio segnato da im-mani tragedie e violenze e rivendicazione di storici e nuovi dirit-

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ti, dominato culturalmente da potenti ideologie (marxiste, libe-rali, confessionali, nazionaliste, fasciste), alcune tese a consoli-dare l’esistente, altre orientate a superarlo, che si scontrano sul piano sociale, culturale, militare e politico.

A fronte di questo drammatico paesaggio Dewey si interroga – come noi oggi - su come dotare la pedagogia di un dispositivo scientifico regolatore dei processi educativi sia per dare risposte più adeguate alle nuove esigenze sociali e prospettive culturali sia per aumentare l’efficacia dei metodi dell’istruzione e della for-mazione professionale (soprattutto dei meno acculturati) e per garantire l’autonomia cognitiva degli allievi sviluppandone la ca-pacità di discriminazione tra vero e falso, tra bene e male. Inizia, cioè una ricerca fondata su un costante rapporto tra educazione e scienza reso problematico dalla natura stessa dell’educazione in cui coesistono, ma anche interagiscono, processi biologici, psico-logici, culturali, ambientali che ne rendono difficile il controllo.

Tale concezione maturerà nello svolgersi di un lungo percorso intellettuale di Dewey, che ha attraversato il pragmatismo di Peirce e il funzionalismo di James, fino a una personale rielabo-razione che egli designa col nome di strumentalismo. Matura in lui un’idea di permanente cambiamento riguardante tutte le qua-lità e condizioni della realtà in cui sono rinvenibili gli echi delle correnti di pensiero che ha attraversato, rivisitate e condotte a sintesi in Natura e condotta dell’uomo (1922), Esperienza e natu-ra (1925), La ricerca della certezza (1929), Le fonti di una scienza dell’educazione (1929), Come pensiamo (1910; 1930) e Logica, teo-ria dell’indagine (1938b). In tali opere egli si muove in direzione di un razionalismo critico che pone la ragione come strumento di riflessione sull’esperienza. Lo strumentalismo coniuga le proce-dure razionali con un rinnovato, popperiano, costrutto di espe-rienza, il cui processo, prodotto a diversi livelli di coscienza, è da lui esaminato in chiave filosofica e psicologica nel suo rapporto

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con la sensazione, l’azione e il pensiero per cogliere il modo in cui si origina e si configura, si relaziona e unisce con le altre e-sperienze.

Oltre l’esperienza personale, è l’esperienza sociale, quella connessa organicamente all’istruzione, che diviene uno dei para-digmi fondativi della sua filosofia dell’educazione fondata su una logica empirica e sperimentale. Ma essa non equivale necessa-riamente all’educazione poiché esistono esperienze positive e e-sperienze negative, perfino dannose. Avverte Dewey:

«[…] il problema centrale di un’educazione basata sull’esperienza è quello di scegliere il tipo di esperienze presenti che vivranno fecondamente e creativamente nelle esperienze che seguiranno. […] l’educazione è svolgimento dentro, mediante e per l’esperienza. […] Fino a che l’esperienza non è concepita in modo che quello che ne ri-sulta sia un piano che permetta di decidere circa la materia di studio, i metodi d’istruzione e di disciplina, l’arredamento materiale e l’organizzazione sociale della scuola, essa è campata in aria» (Dewey 1938a, p. 16).

Possiamo dunque dire che l’esperienza non intesa come espe-rienza immediata o <dato puro>, bensì valorizzata nel suo aspet-to attivo e dinamico (Alcaro, 1986, p. 65), è da lui concepita - al pari di Popper - come dispositivo di graduale autoformazione e come uno dei pilastri del concetto di educazione. Essa si tramuta in educazione, trasformandosi da esperienza personale in espe-rienza sociale, allorquando nella sua interazione con la situazio-ne sono rinvenibili elementi di continuità, direzionalità, inten-zionalità, significatività, unità, di ricostruzione e riorganizzazio-ne dell’esperienza esperita in modo da dare direzione e significa-tività al processo (Striano, 2015). Rappresenta, dunque, un pro-cesso attivo che si svolge, si conserva e si modifica creativamente

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nel tempo (continuum sperimentale), rivivendo nelle esperienze presenti e in quelle successive. Tale continuità e i processi di in-terazione tra le condizioni oggettive e quelle interne (Cambi, 1998) rappresentano la situazione che determina la dimensione del significato e del valore educativo di un’esperienza.

A una scuola in cui continuano a moltiplicarsi le materie di studio e la quantità di nozioni, Dewey contrappone un’idea di educazione dalla natura aperta, processuale, spiraliforme, che vi-ve in una scuola che fa leva sulla naturale curiosità, sull’immaginazione e sul piacere di sperimentare dei “fanciulli”, avvicinandoli in tal modo, attraverso la prassi, allo spirito scien-tifico e conducendoli, infine, al pensiero riflessivo.

Nel 1933 in Come pensiamo (p. 172) assegna al pensiero rifles-sivo la funzione «di trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza di un’oscurità, di un dubbio, un conflitto, o un di-sturbo di qualche sorta, in una situazione chiara, coerente, risol-ta, armoniosa». L’istruzione ha, in tal senso, il compito di tra-sformare in conoscenza i dati che il soggetto acquisisce speri-mentando ciò che è fuori da sé, illuminandone i nessi, le connes-sioni, e dotandoli di significati. In tal modo, essa supera la di-mensione soggettiva e va riferita alle “transazioni” fra organismo e ambiente, ponendosi come forza propulsiva, come problemati-ca unità esistenziale e come criterio gnoseologico ed epistemolo-gico sia come fondamento sia come popperiano criterio regolati-vo di controllo e di validazione scientifica delle spiegazioni del mondo e della realtà.

La relazione tra esperienza e riflessività, unita alla prospettiva di autonomia e libertà dell’allievo, è da Dewey approfondita nel 1938, in Esperienza e educazione. Nel saggio si avverte lo spirito de l’Emilio di Rousseau (1762), i cui accenti possono essere con-siderati anticipatori dell’attivismo. Vi si ritrovano le tesi del gine-vrino relative alla centralità del bambino, da educare predispo-

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nendo contesti in cui può vivere in autonomia l’esperienza del mondo relazionandosi con le cose, interrogandole, esplorandole nel rispetto della sua natura e della sua libertà. I principi di valo-rizzazione della spontaneità e dell’intuizione dell’allievo e della non direttività del docente (intesa come improvvisazione) - so-stenuti da Rousseau come reazione al rigore delle scuole gesuiti-che - si ripresenteranno nel pensiero filosofico e pedagogico del primo Novecento, come già notava Gramsci nei Quaderni del carcere (1931-34)18, in varie rielaborazioni (Pestalozzi e Dewey) e in vere e proprie involuzioni (Gentile e Lombardo-Radice).

Come per Rousseau, anche per Dewey l’interesse verso la “li-bera attività” dell’allievo nasce dal rifiuto dell’educazione tradi-zionale a lui contemporanea, che egli critica duramente accu-sandola di porsi come:

«[…] una imposizione dall’alto e dal di fuori [di] norme, pro-grammi e metodi di adulti a individui che si avviano solo lenta-mente alla maturità […] [facendo acquisire] ciò che è incorporato nei libri e nelle teste degli adulti […] come un prodotto finito, senza troppo curarsi della sua origine e dei cambiamenti che su-birà certamente in avvenire [porgendo] […] il prodotto culturale di società che muovevano dalla persuasione che il futuro sarebbe stato come il passato, […] come alimento all’educazione di una società in cui il cambiamento è la regola e non l’eccezione». Al contrario, nelle scuole nuove: «[…] alle imposizioni dall’alto si oppongono l’espressione e la cultura dell’individualità; alla disci-plina esterna la libera attività; all’imparare dai libri e dai maestri, l’apprendere dall’esperienza; all’acquisto di abilità e di tecniche isolate […] si oppone il conseguimento di esse come mezzi per

18 Scritti tra il 1929 e il 1935, nelle carceri fasciste, i Quaderni sono stati pubblicati tematicamente tra il 1948 e il 1951. In bibliografia si è ritenu-to opportuno indicare la più recente e accurata edizione della Utet, a cura di V. Gerratana, pubblicata nel 2014.

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ottenere fini che rispondono a esigenze vitali; alla preparazione per un futuro più o meno remoto si oppone il massimo sfrutta-mento delle possibilità della vita presente; ai fini ed ai materiali statici è opposta la familiarizzazione con un mondo in movi-mento. […]» (Dewey, 1938a, pp. 5-6).

Più articolato e rigoroso di quello di Rousseau, il pensiero pe-dagogico di Dewey, nel suo impegno di delineare i fondamenti di una pedagogia scientifica, è attento all’intreccio complesso delle molteplici dimensioni del discorso educativo. Nel suo svolgersi – egli sostiene - l’educazione, a guisa di una spirale, intreccia sape-ri scientifici19, prassi e riflessività sui processi agiti, che ne de-terminano una permanente trasformazione, la quale sollecita sempre più pensiero e più vasta scienza per affrontare efficace-mente i problemi che continuamente si pongono (Dewey, 1929). Un solido fil rouge correla, in tal senso, la riflessione deweyana sull’educazione con una rivisitazione epistemologica della scien-za e, in particolare su quelle che lui ritiene essere scienze dell’educazione.

Negando la tradizionale differenziazione delle scienze tra na-

19 Per Dewey, la natura scientifica dell’educazione non è data dall’incorporamento delle altre discipline ma, come scrive Spadafora, essa «al pari della medicina o dell’ingegneria, è rappresentata da un corpus di conoscenze, di ‘fonti’ pluralistiche e differenziate che diven-tano pedagogia nel momento in cui sono applicate alle situazioni spe-cifiche. La scientificità dell’educazione è in questa prospettiva deter-minata dalla possibilità di applicazione di un approccio pluralista ai temi dell’educazione e, soprattutto, dalla professionalità dell’insegnante che applica queste conoscenze, queste fonti al contesto educativo, così come il medico le applica alla situazione specifica dell’ammalato per la diagnosi e l’eventuale terapia, o come i calcoli dell’ingegnere sono applicati per costruire gli edifici» (Spadafora, 2001, p. 64).

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turali ed umane e le differenze tra i loro metodi nella sua Logica teoria dell’indagine scrive:

«[…] il separare e contrapporre, in modo ritenuto definitivo, la materia scientifica rispetto a quella del senso comune dà origine a quei problemi controversi dell’epistemologia e della metafisica che ancora accompagnano la filosofia nel suo cammino. Ove si veda, invece, come la materia scientifica abbia una relazione ge-netica e funzionale con la materia del senso comune, questi pro-blemi svaniscono. La materia scientifica rappresenta la fase in-termedia di un processo, non qualcosa di compiuto e definitivo per se stesso» (1938, tr. it. 1973b, pp. 88-89).

Lo stesso termine “conoscenza”, nel suo ambiguo alludere a una “conclusione” della ricerca, che vela la continuità processua-le di ogni indagine, viene da lui sostituito con “asseribilità giusti-ficata”, denotando in tal modo una modalità di sapere derivata da conclusioni di ricerche particolari intesa come elemento di una più generale ricerca che continuamente si rinnova. I risultati di qualunque ricerca scientifica – egli sostiene - pur se ricavati da un processo di <osservazione analitica> e di <interpretazione> dei fatti, se non analizzati in una visione d’insieme nelle loro re-ciproche relazioni, costituiscono <conclusioni isolate> non scienza. Bisogna, allora, realizzare un “sistema relativamente co-erente”, tale da consentire il passaggio dalle osservazioni partico-lari (empiriche) ai concetti generali (scientifici) (Mariani, 2005). Allo stesso tempo, è indispensabile riconoscere una visione uni-taria di tutte le scienze.

Tutte le scienze sono, dunque, chiamate a sviluppare metodi idonei a cogliere empiricamente i tratti oggettivi della realtà e le loro connessioni e relazioni, nonché tecniche utili, al fine di con-trollare razionalmente la natura e la storia (Dewey, 1946).

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Nell’arco di un lungo lavoro di ricerca20 terminato con l’elaborazione della prospettiva transazionistica (1946), Dewey si impegna a cogliere sempre più rigorosamente la relazione tra da-ti, scienza e educazione. Col termine transazione indica lo scambio interattivo, dinamico, tra organismo e ambiente, un me-todo di ricerca idoneo a operare in tutti i campi della scienza. Per sottrarre alla ricerca le antinomie tra i diversi campi scientifici Dewey assegna alla prospettiva transazionistica (1946) il compito di tracciare un percorso euristico dell’esperienza in chiave esi-stenziale, hegelianamente dialettico ma critico, perché liberato da schemi metafisici e prefissati, e capace di mediare differenti esigenze, bisogni, opposizioni, fino a dare impulso a nuovi si-stemi, via via ridisegnati dall’estensione del sapere (Bentley, 1974; Mariani, 2005).21 È su questa logica che la pedagogia dei nostri giorni può ancora basarsi poiché essa: «è un sapere che si articola (e tensionalmente) tra scienze e società, si lega alla ricerca scien-tifica e all’etica/politica, costruendo i propri modelli nello spazio di questa mediazione, strettamente connessa al tempo storico e all’evoluzione dei soggetti, dei saperi, della società” (Cambi, 2000, pp. 55). Il suo antropologico radicarsi nei tempi e nelle so-cietà, animato da uno spirito poietico, le consente di cogliere i

20 Per una sintetica ricostruzione del pensiero pedagogico di Dewey, si veda la pregevole antologia dei suoi scritti sull’educazione curata da Borghi (1954).

21 Tale approccio supera il rigido sperimentalismo di matrice positivi-stica che si sviluppa negli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo Novecento soprattutto nella psicologia (con un’attenzione prevalente su comportamento umano, apprendimento e sviluppo) e nella sociolo-gia (centrato sull’interazione individuo/società e sui meccanismi di trasmissione culturale), il cui influsso sul campo educativo darà origi-ne alla psicopedagogia, alla pedologia e alla pedagogia sperimentale.

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segni nuovi dei cambiamenti senza uniformarsi ad essi e di saper creativamente pensare un futuro più desiderabile.

4. I problemi storici e le inedite sfide della contemporaneità (dal post-umano alla rivoluzione 4.0, dalle fibrillazioni delle società multiculturali alla imprevedibilità dei risultati delle ricerche scientifiche ecc.), rendono indifferibile la costruzione di un’etica comune agli umani, che deve rappresentare l’utopia reale del no-stro tempo. Essa reclama lo sviluppo di coscienze nutrite di pen-siero critico e risorse morali, di un insieme di “capacitazioni” (Nussbaum, 2011; Margiotta, 2016) scientifiche, estetiche ed eti-che che richiamano, adeguandole ai tempi, le millenarie mete dell’educare indicate da Socrate e Platone: il vero, il bello, il be-ne. A orientare questo processo, consapevolmente denso di uto-pie (nel senso loro attribuito da De La Martine (1831) di verità premature), deve autorevolmente concorrere la pedagogia, il cui statuto si è costituito nei secoli come permanente intreccio tra rigore scientifico e passione civile. Per cogliere appieno la com-plessità del “fenomeno” educativo la descrizione scientifica va, infatti, necessariamente accompagnata da una imprescindibile domanda etica sulla sua adeguatezza al rispetto dei diritti della natura e degli umani, non dando mai come “naturale” o “neces-saria” la sua “forma” e il suo contenuto, ma ricordando che ogni sistema costituito è una possibilità tra le tante possibilità (Mar-cuse, 1941). Ecco perché, tra consapevolezza scientifica, tensione etica e spirito creativo, la pedagogia si dota di una leopardiana “doppia vista” ove l’orizzonte si fa soglia oltre la quale si estende il mondo, sospeso tra reale e immaginario:

«All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissu-to gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono di una

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campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita […] che non vede, non ode, non sente se non che og-getti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione» (Leopardi 197722, pp. 2975-76).

Il poeta sollecita l’uomo a quella permanente ricerca dell’Oltre che è divenuta parte costitutiva di un’educazione non ripiegata nella pur insostituibile trasmissione/costruzione della conoscen-za, ma che si slarga in una prospettiva trasformativa, tesa a forni-re le chiavi di accesso alla prefigurazione e alla realizzazione di un possibile futuro nuovo. Non conformazione, dunque, della Persona a un mondo dato per immutabile, bensì impegno critico demolitore del “presente”, quando indesiderabile, a guisa di uno scultore che frantuma il marmo per tramutarlo nella forma nuo-va di statua (Sartre 1947-48). In tale modo, l’educazione accom-pagna l’umanità nutrendola di nuove conoscenze e nuove erme-neutiche del reale (fisico e spirituale), fino a costringerla alla me-tamorfosi della sua forma, così come accade al bruco quando si trasforma in farfalla (Huxley, 1863).

In tale direzione, di fronte all’imbarbarimento del mondo, la pedagogia non può rinunciare a indagare e disvelare, denunciare, contrastare le sue cause reali, riflettendo sul compito che spetta alle scienze dell’educazione e alla scuola, le quali rappresentano due facce di una stessa medaglia coniata simultaneamente da “pressioni” esterne (economiche, sociali, politiche) e da sviluppi teoretici sia sollecitati dai cambiamenti strutturali delle società sia interni alla riflessività disciplinare. Un impegno gravoso, in

22 Il manoscritto, anteriore al 1837, sarà pubblicato postumo nel trien-nio 1898-1900 dalla casa editrice Le Monnier.

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cui la pedagogia occupa un ruolo centrale poiché né la scienza, né l’etica sono pensabili indipendenti da quei processi formativi che forniscono agli umani i determinanti del loro sviluppo co-gnitivo, emotivo e della loro personalità (Oliverio, 2017).

Non sempre, nella storia, le scienze dell’educazione hanno sa-puto/potuto svolgere il loro ruolo, costrette da varie forme di Po-tere a un’obbligata sintonia con determinate configurazioni eco-nomico-sociali e culturali, ma sempre, negli ultimi 2500 anni, si riscontra in ogni periodo un panorama variegato che, sullo sfon-do di due macroteorie - quella normativa e quella esaltante la li-bertà e l’autoconsapevolezza dell’uomo - è attraversato ricorsi-vamente da potenti antinomie: scientismo vs riflessività filosofi-ca; natura vs cultura; valori eterni-trascendentali vs relativismo storico; soggetto vs contesto.

Attraversando la temperie dei tempi, la pedagogia si è via via dotata di autonomia scientifica ed etica e si presenta oggi preva-lentemente non subordinata a metamorfici adattamenti ai con-testi. I suoi paradigmi teorico-fondativi e progettuali sono in grado di interrogare il presente con più approcci epistemologici e di coglierne la multiforme identità. Salda nella trincea della dife-sa della dignità, dei diritti e dello sviluppo di ogni soggetto-persona (Frabboni, 2012; Baldacci, 2011), la ricerca pedagogica e-labora modelli formativi aderenti ai bisogni sociali ed educativi della contemporaneità avvalendosi di un approccio teoretico ed empirico che conferma la sua capacità di immergersi nella storia generale e nelle storie individuali con un’aderenza al reale non asettica che, a fronte di mondi ricolmi di segni disomogenei pro-blematici e complessi, di fratture, lacerazioni e violenze, l’ha ri-petutamente condotta a coniugare la riflessione scientifica con un risoluto impegno etico trasformativo.

Lo sguardo pedagogico è, in tal senso, utopicamente teso a co-gliere nel presente i segni degli sviluppi desiderabili (Genovesi e

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Tomasi Ventura, 1985) concernenti la relazione della specie u-mana con l’ambiente sociale, con le altre specie, con la natura e di quelli riguardanti la costruzione psico-fisica di ogni singolo soggetto-Persona, e propone modelli educativi finalizzati a dota-re tutti di adeguate capacitazioni (Margiotta, 2015) affinché cia-scuno possa pienamente condividere le risorse intellettuali e mo-rali che l’umanità è riuscita ad accumulare (Dewey, 1922) nel ri-spetto della sua inviolabile unicità.

Comprendere ciò che è essenziale della dimensione umana rinvia ai rapporti sostanziali su cui si costituiscono la società e gli stessi individui nelle loro reciproche relazioni e interazioni, poi-ché «essi sono nella misura in cui sono esseri relazionali, essenti - e non solo risultanti o parti di - relazioni e rapporti con altri uomini, con l'ambiente, con la società nel suo complesso» (Lu-poli, 2016b, p. 15).

Nell’assenza di una visione del mondo che tutto unifichi (Lyo-tard, 1979), dobbiamo acquisire la consapevolezza della conte-stualità dei punti di vista concettuali e della loro problematica - e talvolta totale - inefficacia nel rapporto tra culture diverse. Lo stesso dialogo culturale è condizionato dalla presenza/assenza nelle diverse culture di concetti costitutivi della costruzione del pensiero, quali, ad esempio il concetto di universale, assente nel-le civiltà indiana e cinese e il concetto di Persona, sconosciuto ai cinesi (Jullien, 2008). Ciò nonostante, se vogliamo restituire al genere umano una possibilità di sopravvivenza, è ineludibile in-traprendere una rinnovata ricerca sul senso e significato dell’uomo, tentare di costruire uno spazio di condivisione plane-taria dei suoi possibili orizzonti di vita e delle pulsioni etiche ne-cessarie per restituire speranza di futuro e fornire a tutti le capa-citazioni indispensabili per realizzarlo. La chiave euristicamente più utile per una riflessione sulla natura umana e sul suo divenire può essere costituita dal concetto di relazione. Riprendendo la

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forma dialogica dei testi della filosofia antica greca Calogero in-dividua la relazione come dovere di capire gli altri:

«Tu, Eudemo, ammetti di dover capire gli altri, sia pure allo sco-po di condurli alla Verità in cui credi. E ammetti anche, mi sem-bra, che questo interesse non può essere soltanto strumentale, perché finirebbe per contraddire se stesso, per svalutare del tutto quelle coscienze in cui pure ti preme si rifletta l’assoluta Verità. D’altra parte, tu, Sofizomono, pur essendo timoroso di farne una teoria (ogni volta che aprite la bocca, voi scettici, subito vi danno addosso), senti che, in fondo, questo dovere di capire gli altri sta alla base di tutto il tuo atteggiamento mentale. Ora, non sarà proprio questa la comune assoluta verità di cui Eudemo va in cerca, come fondamento della volontà morale?» (Calogero, 1962, p. 34).

5. L’esistenza di un grumo relazionale che fa da lievito alla nasci-ta e allo sviluppo della Persona anima la cultura scientifica e pe-dagogica contemporanea con diversi accenti epistemici. Senza tentare un loro impossibile amalgama, ci sembra opportuno con-siderare le numerose affinità presenti in tre filoni del pensiero pedagogico che possono divenire lievito di una tessitura che, nell’uso sapiente di non identiche trame e orditi, costruisca l’unità nella diversità. Ci riferiamo, in particolare, al personali-smo cristiano di Maritain e Mounier, al problematicismo di Ban-fi, Bertin e Frabboni, all’ermeneutica di Cambi, in cui vibra la co-rale consapevolezza che il soggetto si fa Persona nella relazione con l’alterità. La Persona è in sé, ma non per sé - afferma Mou-nier - poiché la prima esperienza che essa vive è l’esperienza del Tu e, dunque, l’essere personale, spinto - come ulteriormente sottolineerà Guardini (1964) - da una innata tensione, si costitui-sce nell’incontro con l’altro. Non, dunque, una semplice subli-mazione etico-religiosa, ma una più complessa realtà, insieme

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essenza ed esistenza, perché incarnata nello spazio e nel tempo, presente alla storia, “concreta”, non generata tale, bensì “suscita-ta” dall’individuale impegno del soggetto orientato al suo svilup-po spirituale, alla responsabilità e all’impegno sociale:

«La persona - scrive Mounier - non è un oggetto, sia pure il più meraviglioso oggetto del mondo, che noi conosceremmo come gli altri oggetti, dal di fuori: essa è l'unica realtà che ci sia dato di conoscere e, in pari tempo, di costruire dall'interno. [...] È un'at-tività vissuta come autocreazione, comunicazione e adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di per-sonalizzazione» (1949, p. 6).

In piena sintonia, Maritain scrive: «Noi non possiamo essere uomini o divenire uomini senza andare in mezzo agli uomini: non possiamo accrescere la vita senza respirare coi nostri fratel-li». (Maritain 1942, p. 6). Partendo dal razionalismo critico, Banfi valorizza la differenza, la creatività e la libertà e la responsabilità del soggetto-Persona mediante l’educazione a una ragione pro-blematica e aperta (tema che sarà ripreso e ampiamente appro-fondito da Bertin e Frabboni). In essa, l’apparente antitesi dialet-tica tra soggetto e alterità, individuo e mondo obbiettivo, singolo e società, viene ricomposta in un’idea dell’uomo come unità vi-vente in un processo infinito in cui il rapporto tra l’io e la realtà «implica sempre un rapporto integrativo del soggetto determina-to da parte dell'oggetto e reciprocamente dell'oggetto da parte del soggetto» (Banfi 1959, p. 263). Banfi sottolinea il formarsi della Persona nel suo incontro con gli altri uomini e con il mon-do spirituale (la cultura, i valori, le leggi ideali). Tale relazione orienta il senso del suo sviluppo, poiché il soggetto “trova in essi il principio superiore della sua vita e delle sue azioni, acquista in tal modo dignità e libertà di persona spirituale e comunione atti-

va con gli altri uomini» (Banfi, 19642, p. 9). Questo dar senso

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all’educazione ancorandola alla dignità e libertà della Persona si ritrova in Bertin come necessario anticorpo a tutto ciò che può essere d’ostacolo al suo autonomo sviluppo: «Educare alla libertà – egli scrive - significa educare il soggetto a difendere la pienezza del proprio sviluppo personale contro intrusioni e costrizioni che ne limitino o deformino la potenza vitale» (Bertin, 1969, pp. 10-11).

Nella necessaria costruzione di un nuovo Umanesimo, la pe-dagogia può, dunque, ampiamente attingere al suo immenso pa-trimonio storico, permeato di un’idea dell’educazione come svi-luppo integrale della Persona e come emancipazione morale e in-tellettuale, ma deve tornare in esso dall’esterno, ripercorrerlo con gli occhi della contemporaneità, per ri-assumere in una sintesi nuova la sua centralità, ponendola come principio morale, come tutto (Maritain, 1947) e prendersi cura della totalità infinita dell’essere (Husserl, 1954) e del suo integrale sviluppo, oggi.

Su questo terreno, l’intensificarsi del dialogo e confronto scientifico tra Pedagogia cattolica personalista e Pedagogia laica problematicista, da tempo avviato da Frabboni, apre interessanti prospettive di superamento delle dicotomie tra il principio di i-dealità e il principio di realtà, tra fede e ragione, ricomponibili assiologicamente da un progetto educativo che, osservata la real-tà con la forza della ragione critica, «assicura alla progettazione esistenziale orizzonti aperti alla sua incessante trasformazione in direzione di 'idealità'». La contiguità del Personalismo al Pro-blematicismo «sta nell’essere aperti alla Singolarità, all’intenzionalità, alla Lievità, all’impegno, al Dissenso e alla Progettazione esistenziale ideale educativo dello sviluppo inte-grale della Persona nella molteplicità delle sue sfere evolutive» (Frabboni, 2012, pp. 34-35).

I paradigmi dello sviluppo integrale dell’uomo e dell’autoprogettazione della sua personalità possono sempre più

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rappresentare, non solo in Italia, lo spazio in cui si incontrano e armonizzano istanze e correnti culturali diverse e si declinano comuni finalità educative. L’utilizzo pedagogico del concetto di soggetto-Persona, da tradurre in forme e modi adeguati al nostro tempo, predispone in potenza una possibile sintesi tra soggettivi-tà e universalità dell’umano. Tra la sua singolarità che lo destina a rappresentare l'umanità in un modo suo proprio (Schleierma-cher, 1800) e l’universale inalienabilità dei suoi diritti che rende la sua dignità irriducibile, intangibile e irripetibile.

Ma quale spazio offrono gli attuali sistemi educativi di istru-zione e formazione per realizzare questo traguardo? In quasi tut-to l’Occidente una solida teoreticità pedagogica23, custode della Persona e del suo inalienabile sviluppo, ha fornito resistenti anti-corpi. In Italia, a livello governativo, nonostante precedenti smarrimenti e derive funzionaliste, si è proceduto nel 2012 al va-ro di Indicazioni nazionali radicate nella migliore tradizione u-manistica del nostro Paese. Nella loro Premessa è netto il rifiuto di riduzione «della conoscenza alla semplice acquisizione di competenze. Compito della scuola è educare istruendo24 le nuove generazioni, e questo è impossibile senza accettare la sfida dell’individuazione di un senso dentro la trasmissione delle competenze, dei saperi e delle abilità […]» e, a fronte dei tentativi del mercato capitalistico di riduzione dell’educazione a merce, il rifiuto di «una scuola che non abbia come obiettivo solo l’essere in funzione della richiesta del mercato […] Solo se non si rinun-cia ad educare istruendo si può mettere veramente a frutto

23 È la pedagogia dei Rosmini, Hessen, Maritain, Lacroix, Mounier, Gentile, Giuseppe Lombardo-Radice, Codignola, Ferretti, Capitini, Bertin, Borghi, Laporta, Bertoni Jovine, don Lorenzo Milani, Stefanini, Visalberghi, Flores d’Arcais, Agazzi, per citarne alcuni.

24 Il corsivo è dell’Autore.

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l’unicità e l’irrepetibilità di ogni singolo individuo […] Occorre sottolineare con forza, nella scuola, la centralità della persona-studente» (Fioroni, cit., pp. 5-6-7).

Si aprono, dunque, anche in ambito scolastico, concrete pos-sibilità di disseminare percorsi formativi generatori di una “sa-pienza” capace di cogliere la complessità, di attraversare consa-pevolmente panorami nuovi, di ri-pensare il rapporto tra educa-zione, società e stato a partire dal soggetto-Persona. Di realizzare un’educazione orientata da una pedagogia emancipativa che ri-scopra nella vita dell’uomo il suo senso, capace di arricchirsi di storie, di vissuti, di sogni e passioni; connessa all’emersione di diritti che inglobano i concetti di democrazia, giustizia, ugua-glianza, libertà, solidarietà, bene comune, (Morin, 2011) come va-lori non negoziabili; che assume le persone e le loro singolarità come priorità assoluta, posando su di loro uno sguardo sempre meno categoricamente astratto e sempre più attento a intercetta-re l’uomo concreto”, colto nella sua irripetibile unicità e differen-za.

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