Lo Stabat Mater di Bartolucci a San Paolo fuori le Mura … · stro ha rielaborato la partitura per...

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L’OSSERVATORE ROMANO giovedì 20 settembre 2012 pagina 5 I prigionieri italiani negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale Meglio che a casa Lo Stabat Mater di Bartolucci a San Paolo fuori le Mura Dolore scolpito in musica Giovedì 20 settembre nella basilica papale di San Paolo fuori le Mura l’«Um- bria music fest» propone un concerto in onore di Benedetto XVI. In programma, tra l’altro, lo Stabat Mater per soprano, coro e orchestra di Domenico Bartoluc- ci, eseguito dall’Orchestra e dal Coro della Città di Bratislava diretti da Ladi- slav Holásek. Pubblichiamo un’analisi del lavoro del maestro, creato cardinale il 20 novembre 2010 da Benedetto XVI, tratta dal volume Domenico Barto- lucci e la musica sacra del Novecento (Padova, Armelin Musica, 2009, pa- gine 248, euro 29, a cura di Enzo Fagiolo). di SILVANO SARDI Il Venerdì Santo, in San Pietro, la solenne liturgia della Passione del Signore prevede, durante lo “sco- primento” del Crocifisso e l’adora- zione della Croce, il canto degli Improperia del Palestrina e dell’inno anomalo nel modo di comporre di Bartolucci, il quale, quando s’in- staura un dialogo tra coro e solista, fa ripetere al coro il tema proposto dal solista, con testo e musica così com’è. L’intera sequenza si svolge in va- ri e significativi episodi che il testo suggerisce, ora coralmente, ora soli- Crux fidelis. Papa Giovanni Paolo II chiese a Bartolucci, di aggiungere anche il canto per eccellenza della Madonna Ad- dolorata, lo Stabat Mater. Il maestro, musicò polifonicamen- te, a 6 voci, la sequenza di Ja- copone da Todi, anche se, per brevità, si cantavano solo le prime tre strofe. In questa veste la sequenza è stata pubblicata nel volume, Cantica Varia. In seguito, nell’anno 2001, il mae- stro ha rielaborato la partitura per soprano, coro a cinque voci e orchestra per un’esecuzione concertistica. Il contenuto musicale è rima- sto invariato, ma nella rielabo- razione con orchestra, risulta più chiaro, più vicino alla sen- sibilità dell’animo di qualsiasi ascoltatore, più comprensibile a chi voglia penetrare il senso profondo degli scultorei versi di Jacopone, con una maggiore libertà nell’ampiezza degli svi- luppi, attenuata dalla destina- zione liturgica. La composizione si apre con un tema (como inglese) — ri- preso dagli archi e che sarà poi la risposta corale alla voce del so- prano — esposto dall’orchestra in 26 misure introduttive in “sostenuto ma non troppo”, tema che trae fa- scino sia dalla dolente melodia (di protus piagale), sia dall’ attacco del soprano che scandisce quasi decla- mando le prime parole della se- quenza. Il tema che la voce fa di- sticamente, ora con intervento or- chestrale. E un susseguirsi di mo- menti di dolente pietà (Vidit suum), d’intima contemplazione (Eia ma- ter), di forte drammaticità (O quam tristis, Sancta Mater, Fac me plagis, Flammis ne urar succensus). Tutta l’opera si scioglie, di verso in verso, con quest’eco dialogante che lenta- scendere in modo piano e lento, in- globa anche il secondo verso, luxta crucem. A questa enunciazione se- gue il coro, pianissimo, che ripete il testo, ma non il tema musicale che avrà diverso disegno melodico. È questo un procedimento piuttosto musica è quella dell’omonimo mot- tetto “a cappella”, incluso nel volu- me delle antifone mariane, che il maestro ha rielaborato per un ac- compagnamento orchestrale di ar- chi, strumentini, corni, trombe e timpani. mente la segue nel suo percorso di do- lore, come immersa in un liquido sono- ro, oscillante tra il pianissimo e il mez- zopiano, che rara- mente raggiunge il mezzoforte. Il forte si ha solo nei versetti: Vidit Jesum, Sancta Mater e Fac me plagis che, nel finale, si spinge al fortissimo di Pa- radisi gloria, la cui luce sfolgorante conclude la sequen- za in un fugato fi- nale luminoso e av- vincente che, dal dolore del Calvario, porta al trionfale gaudio del Para- diso. Come preambolo alla Sequenza, Bar- tolucci ha composto il mottetto: Dolorosa et lacrimabilis; la di GAETANO VALLINI «R asentammo una bassa costruzione in mattoni e dalle finestre illuminate potemmo scorgere dei lunghi tavo- li, apparecchiati con ogni ben di Dio. Pensammo si trattasse della mensa degli ufficiali americani. Niente di più falso: quei tavoli im- banditi aspettavano noi! L’odiato nemico (!) ci invitò a prendere po- sto, con nostro sommo piacere e immenso stupore». Così Pietro Francovicchio, soldato catturato dagli statunitensi durante la secon- da guerra mondiale, ricorda l’arri- vo a Fort Meade, Maryland, 50 chilometri da Washington, uno dei luoghi di prigionia dei militari ita- liani in mano agli Alleati. Fort Meade non fu un’eccezio- ne, ma la norma nei campi statuni- tensi, almeno fino al 1945. Lo sot- tolinea Flavio Giovanni Conti nel documentato libro I prigionieri ita- liani negli Stati Uniti (Bologna, il Mulino, 2012, pagine 543, euro 28), rivelando che, pur nella sventura della detenzione, i soldati del Re- gio Esercito furono fortunati ri- spetto agli altri prigionieri italiani. Non solo stavano meglio di quan- do erano inquadrati nei reparti, ma, «lontani dal fronte, in un am- biente sicuro, i prigionieri vivevano in condizioni migliori di quelle delle loro famiglie lasciate in Italia e ancora martoriate dalla guerra. Anche nei periodi di restrizioni ali- mentari, molti soldati detenuti si auguravano che i propri familiari potessero avere quanto essi, pur nello stato di prigionia, riceve- vano». I motivi di questa situazione fu- rono vari. «Gli Stati Uniti — spie- ga lo storico — non avevano dovu- to combattere per molti mesi con- tro l’Italia, come era avvenuto per gli inglesi, e non avevano ricevuto la “pugnalata alle spalle” come i francesi, quindi non nutrivano forti risentimenti nei confronti degli ita- liani. L’elemento determinante, tuttavia, fu il luogo stesso della de- tenzione: gli Stati Uniti erano in- fatti il Paese con il più alto stan- dard di vita, e poiché le norme della Convenzione di Ginevra del Una mostra dedicata al pittore spagnolo all’Istituto Cervantes di Roma Goya cronista di guerra Goya “giornalista per immagini” ante litteram; dopo Shanghai, Pechino, Tokyo e Nuova Delhi arriva anche in Italia, all’Istituto Cervantes di Roma, la mostra «Goya: cronista de todas las guerras», aperta dal 21 settembre al 10 novembre. L’esposizione raccoglie 82 opere, tra disegni e incisioni realizzate tra il 1810 e il 1815, accompagnate da tre video e fotografie di repor- ter contemporanei. I curatori hanno visto nella figura del grande pittore e incisore spagnolo un antesignano del fotogiornalismo e del linguaggio dell’istantanea. Una lettura inedita, ma storicamente fondata. Du- rante la guerra di indipendenza, la città di Saragozza subì due assedi da parte dell’esercito francese. Termi- nato il primo, che durò dal 14 giugno al 14 agosto del 1808, il suo difensore, il generale Palafox, invitò vari artisti ad osservare la devastazione causata dai bom- bardamenti sui principali monumenti della città. Tra quegli artisti c’erano Francisco de Goya, Fernando Brambila e Juan Gálvez. Un anno dopo questa visita, Goya cominciò le pri- me stampe de I disastri della guerra, in cui riuscì a tra- sformare in simboli anti-bellici le azioni vissute dal protagonista, come la terribile carestia e la miseria del- la città di Madrid. Quest’opera di Goya ha pochi precedenti nella sto- ria dell’arte; la guerra è sempre stato un tema che veni- va commissionato agli artisti da parte dei detentori del potere che, naturalmente, non ammettevano critiche al- le loro azioni. Le immagini di queste stampe anticipano il linguag- gio fotografico, anche in senso tecnico; le incisioni hanno, volutamente, “zone prive di informazione”, espediente che il fotografo otterrà negli anni successivi con la sfocatura o la luce del flash. (silvia guidi) rono alla distinzione tra cooperato- ri e non cooperatori. I governi ita- liani succedutisi dopo l’8 settembre cercarono di convincere Washin- gton a modificare lo status dei pri- gionieri in quello di uomini liberi, ma le autorità militari si opposero, avendo la meglio sullo stesso Di- partimento di Stato, che vedeva gionieri a tentare la fuga dai cam- pi. I fuggitivi furono per lo più catturati quasi subito, ma alcuni riuscirono a restare latitanti anche per anni, aiutati da italo-americani e spesso da donne innamorate. Anche riguardo ai tempi di rim- patrio i prigionieri negli Stati Uni- ti furono i più fortunati. La mag- La comunità italo-americana rappresentò un elemento decisivo nel conferire alla prigionia un’impronta largamente positiva Molti rimpatriati tornarono negli States unico nell’ambito delle esperienze di prigionia. Esperienze che incon- trano oggi un rinnovato interesse degli studiosi e dei lettori. Complessivamente furono 1.200.000 i militari italiani che nel corso del secondo conflitto mon- diale subirono esperienze di prigio- nia. Di questo rilevante numero, circa 600.000 furono catturati da- gli Alleati: 408.000 detenuti dagli inglesi, 125.000 dagli americani, 37.000 dai francesi e 20.000 quelli ufficialmente dichiarati dall’Unio- ne Sovietica. I restanti 600.000, catturati dai tedeschi, vennero con- siderati «internati militari», un espediente per eludere l’applicazio- ne delle norme della Convenzione di Ginevra. I prigionieri italiani in mano americana ebbero destinazioni va- rie, con esiti sensibilmente eteroge- nei: una parte fu trattenuta in nord Africa, un’altra seguì l’esercito nel- la campagna d’Europa, e un’altra ancora fu inviata negli Stati Uniti. Si trattava in larga misura di solda- ti catturati nella primavera-estate del 1943, durante la fase finale del- la campagna in Africa settentriona- le e l’invasione della Sicilia. Nume- rosi erano tuttavia i militari presi dagli inglesi e assegnati poi agli americani, atto peraltro contrario alla Convenzione di Ginevra, ma che di fatto segnò positivamente il loro futuro. Infatti, al pari dell’alimentazio- ne, di ottimo livello fu anche il trattamento relativo all’alloggio, al vestiario, alle cure mediche. Allo stesso modo l’attenzione alle attivi- tà educative, ricreative e sportive, come pure all’aspetto religioso, non ebbe uguali in altre realtà di prigionia. I militari italiani che ac- cettarono di cooperare potevano uscire dai campi, a volte anche da soli, andare a visitare città, recarsi in chiesa, al cinema, partecipare a feste da ballo. Carente fu invece la gestione della corrispondenza da e con l’Italia. L’autore analizza l’importanza della presenza di molti milioni di italo-americani, le cui comunità erano dislocate nei vari Stati, che rappresentò l’elemento caratteriz- zante e decisivo nel conferire alla prigionia degli italiani in America un’impronta largamente positiva. «Le comunità — si legge infatti — giocarono un ruolo fondamentale nell’aiutare direttamente i prigio- nieri, nel difenderli e nel sostenere le loro ragioni nei confronti delle autorità politiche e militari». Non solo. La presenza di un nu- trito episcopato e di una diffusa re- te di sacerdoti e cappellani militari cattolici, spesso di origine italiana, servì non solo a portare conforto religioso, ma anche aiuti concreti. «La Chiesa cattolica — scrive al ri- guardo Conti — svolse, inoltre, un ruolo ideologico, contribuendo a diffondere tra i prigionieri senti- menti di rispetto e di apprezza- mento delle istituzioni americane affinché, terminata la guerra, tor- nassero in Italia quali convinti as- sertori delle idee democratiche e anticomuniste, e favorissero quel processo di collocazione del nostro Paese nella sfera d’influenza occi- dentale». Anche i media ebbero un ruolo di rilievo, operando a volte come megafono delle proteste dei cittadi- ni, altre come portavoce delle istanze di quanti difendevano i pri- gionieri. E il quotidiano che ebbe l’atteggiamento più comprensivo Prigionieri alla festa della ottantunesima Unità Italiana di Servizio (Isu) a Camp Ogden, Utah 1929 prevedevano che i prigionieri, in quanto a vitto, alloggio e condi- zioni materiali in generale, fossero trattati come i soldati del Paese de- tentore, anche i soldati italiani tras- sero vantaggio dal grande benesse- re della società americana». Quella dei 51.000 militari italiani catturati dagli Alleati e condotti in prigionia oltre oceano è, dunque, una vicenda tutta particolare e an- cora poco studiata. Attingendo a una grande ricchezza di fonti, non solo ufficiali, ma anche alla memo- rialistica e alle testimonianze, Con- ti ne traccia l’intera parabola, dalla cattura in Nord Africa e in Italia al trasferimento negli Stati Uniti. Ne descrive il trattamento ricevuto nei vari campi di internamento, le divi- sioni fra chi collaborava e chi no, il contributo che diedero allo sfor- zo bellico americano, nonché l’at- teggiamento dell’opinione pubblica e degli italo-americani, fino al rim- patrio. Quello che emerge è un quadro denso di implicazioni poli- tiche, sociali, culturali e umane nella soluzione del problema dei prigionieri italiani un modo per in- cidere sugli orientamenti politici in Italia. «Le autorità politiche ameri- cane — sottolinea infatti Conti — avevano interesse a sostenere e raf- forzare i governi democratici nel nostro Paese, a sviluppare rapporti amichevoli con questi, al fine di al- lontanare il rischio di un’influenza sovietica, in tale prospettiva la que- stione dei prigionieri poteva assu- mere una notevole rilevanza poli- tica». Con il passare dei mesi l’Italia mostrò un atteggiamento ambiguo. Mentre ufficialmente continuava a chiedere il cambiamento di status dei prigionieri e il loro rimpatrio, ufficiosamente incitava i prigionieri a continuare nel loro lavoro a so- stegno dell’economia americana, perché si potessero acquisire crediti da vantare al momento della pace. «Questa mancanza di chiarezza — spiega lo storico — ingenerò confu- sione nei prigionieri e fu uno dei motivi che spinse una parte di essi a non aderire alla cooperazione con gli Alleati». I cooperatori tuttavia furono la grande maggioranza ottenendo mi- glioramenti e maggiore libertà, mentre i non cooperatori furono trattati molto più rigidamente, alla stregua dei prigionieri tedeschi e giapponesi. Un regime più rigido, di fatto punitivo, che però venne successivamente esteso a tutti a partire dai primi mesi del 1945. La verso i soldati italiani fu il «Chri- stian Science Monitor» di Boston. Con l’armistizio e la successiva cobelligeranza, si evidenziarono di- visioni tra i prigionieri rimasti fe- deli al regime fascista e quanti in- vece erano disponibili a una mag- scoperta del duro trattamento ri- servato dai nazisti ai prigionieri in Germania indusse, infatti, l’opinio- ne pubblica americana a criticare la mitezza nei confronti degli italiani. L’insofferenza per l’inasprimento della detenzione spinse molti pri- giore collaborazione. Gli americani si sen- tirono autorizzati a coinvolgere questi ul- timi in attività lavora- tive, alcune peraltro vietate. Furono quin- di costituite le unità di servizio su base volontaria, che porta- Il cappellano militare americano padre Monteleone celebra la messa per i cooperanti italiani a Camp Ogden, Utah Una pagina del manoscritto dello Stabat Mater Domenico Bartolucci negli anni Cinquanta gior parte di loro rientrò in Italia entro il 1945, e gli ultimi contin- genti partirono agli inizi di feb- braio del 1946, quasi un anno pri- ma degli ultimi rimpatri dei prigio- nieri italiani in mano inglese. Per alcuni si trattò di un ritorno prov- visorio, perché in seguito si sposa- rono con americane conosciute du- rante la detenzione e si trasferirono negli Stati Uniti, a conferma del positivo giudizio sull’esperienza vissuta. Ma soprattutto, conclude Conti, «le vicende della prigionia offriro- no agli italiani la possibilità di en- trare in contatto con la realtà ame- ricana, che destò in tutti grande impressione e suscitò, nella mag- gioranza di loro, sentimenti di ap- prezzamento per l’alto livello di benessere materiale, per l’efficienza dell’organizzazione, per la facilità di inserimento nella vita sociale. Si formò in molti un’opinione decisa- mente favorevole riguardo al siste- ma economico e politico america- no, alla validità dell’indirizzo libe- raldemocratico, che venne visto co- me il modello verso il quale orien- tare la politica del proprio Paese nel dopoguerra. Ciò sembrava rea- lizzare in concreto l’opera di “in- dottrinamento” alle idee democra- tiche e filoamericane, che era stata promossa dal governo americano nel periodo della detenzione, allo scopo di diffondere un atteggia- mento positivo verso gli Stati Uni- ti e il blocco occidentale». La Chiesa cattolica contribuì a diffondere tra i reclusi apprezzamento per gli americani Creando un terreno favorevole alle idee democratiche

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L’OSSERVATORE ROMANOgiovedì 20 settembre 2012 pagina 5

I prigionieri italiani negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale

Meglio che a casaLo Stabat Mater di Bartolucci a San Paolo fuori le Mura

D olorescolpito in musica

Giovedì 20 settembre nella basilica papale di San Paolo fuori le Mura l’«Um-bria music fest» propone un concerto in onore di Benedetto XVI. In programma,tra l’altro, lo Stabat Mater per soprano, coro e orchestra di Domenico Bartoluc-ci, eseguito dall’Orchestra e dal Coro della Città di Bratislava diretti da Ladi-slav Holásek. Pubblichiamo un’analisi del lavoro del maestro, creato cardinaleil 20 novembre 2010 da Benedetto XVI, tratta dal volume Domenico Barto-lucci e la musica sacra del Novecento (Padova, Armelin Musica, 2009, pa-gine 248, euro 29, a cura di Enzo Fagiolo).

di SI LVA N O SARDI

Il Venerdì Santo, in San Pietro, lasolenne liturgia della Passione delSignore prevede, durante lo “sco-primento” del Crocifisso e l’adora-zione della Croce, il canto degliImproperia del Palestrina e dell’inno

anomalo nel modo di comporre diBartolucci, il quale, quando s’in-staura un dialogo tra coro e solista,fa ripetere al coro il tema propostodal solista, con testo e musica cosìcom’è.

L’intera sequenza si svolge in va-ri e significativi episodi che il testosuggerisce, ora coralmente, ora soli-

Crux fidelis. Papa GiovanniPaolo II chiese a Bartolucci, diaggiungere anche il canto pereccellenza della Madonna Ad-dolorata, lo Stabat Mater. Ilmaestro, musicò polifonicamen-te, a 6 voci, la sequenza di Ja-copone da Todi, anche se, perbrevità, si cantavano solo leprime tre strofe. In questa vestela sequenza è stata pubblicatanel volume, Cantica Varia. Inseguito, nell’anno 2001, il mae-stro ha rielaborato la partituraper soprano, coro a cinque vocie orchestra per un’esecuzioneconcertistica.

Il contenuto musicale è rima-sto invariato, ma nella rielabo-razione con orchestra, risultapiù chiaro, più vicino alla sen-sibilità dell’animo di qualsiasiascoltatore, più comprensibile achi voglia penetrare il sensoprofondo degli scultorei versidi Jacopone, con una maggiorelibertà nell’ampiezza degli svi-luppi, attenuata dalla destina-zione liturgica.

La composizione si apre conun tema (como inglese) — ri-preso dagli archi e che sarà poila risposta corale alla voce del so-prano — esposto dall’orchestra in 26misure introduttive in “sostenutoma non troppo”, tema che trae fa-scino sia dalla dolente melodia (diprotus piagale), sia dall’ attacco delsoprano che scandisce quasi decla-mando le prime parole della se-quenza. Il tema che la voce fa di-

sticamente, ora con intervento or-chestrale. E un susseguirsi di mo-menti di dolente pietà (Vidit suum),d’intima contemplazione (Eia ma-ter), di forte drammaticità (O quamtristis, Sancta Mater, Fac me plagis,Flammis ne urar succensus). Tu t t al’opera si scioglie, di verso in verso,con quest’eco dialogante che lenta-

scendere in modo piano e lento, in-globa anche il secondo verso, luxtacrucem. A questa enunciazione se-gue il coro, pianissimo, che ripete iltesto, ma non il tema musicale cheavrà diverso disegno melodico. Èquesto un procedimento piuttosto

musica è quella dell’omonimo mot-tetto “a cappella”, incluso nel volu-me delle antifone mariane, che ilmaestro ha rielaborato per un ac-compagnamento orchestrale di ar-chi, strumentini, corni, trombe etimpani.

mente la segue nelsuo percorso di do-lore, come immersain un liquido sono-ro, oscillante tra ilpianissimo e il mez-zopiano, che rara-mente raggiunge ilmezzoforte.

Il forte si ha solonei versetti: ViditJesum, Sancta Matere Fac me plagis che,nel finale, si spingeal fortissimo di Pa-radisi gloria, la cuiluce sfolgoranteconclude la sequen-za in un fugato fi-nale luminoso e av-vincente che, daldolore del Calvario,porta al trionfalegaudio del Para-diso.

Come preamboloalla Sequenza, Bar-tolucci ha compostoil mottetto: D o l o ro s aet lacrimabilis; la

di GA E TA N O VALLINI

«R asentammo unabassa costruzionein mattoni e dallefinestre illuminate

potemmo scorgere dei lunghi tavo-li, apparecchiati con ogni ben diDio. Pensammo si trattasse dellamensa degli ufficiali americani.Niente di più falso: quei tavoli im-banditi aspettavano noi! L’o diatonemico (!) ci invitò a prendere po-sto, con nostro sommo piacere eimmenso stupore». Così PietroFrancovicchio, soldato catturatodagli statunitensi durante la secon-da guerra mondiale, ricorda l’arri-vo a Fort Meade, Maryland, 50chilometri da Washington, uno deiluoghi di prigionia dei militari ita-liani in mano agli Alleati.

Fort Meade non fu un’eccezio-ne, ma la norma nei campi statuni-tensi, almeno fino al 1945. Lo sot-tolinea Flavio Giovanni Conti neldocumentato libro I prigionieri ita-liani negli Stati Uniti (Bologna, ilMulino, 2012, pagine 543, euro 28),rivelando che, pur nella sventuradella detenzione, i soldati del Re-gio Esercito furono fortunati ri-spetto agli altri prigionieri italiani.Non solo stavano meglio di quan-do erano inquadrati nei reparti,ma, «lontani dal fronte, in un am-biente sicuro, i prigionieri vivevanoin condizioni migliori di quelledelle loro famiglie lasciate in Italiae ancora martoriate dalla guerra.Anche nei periodi di restrizioni ali-mentari, molti soldati detenuti siauguravano che i propri familiaripotessero avere quanto essi, purnello stato di prigionia, riceve-vano».

I motivi di questa situazione fu-rono vari. «Gli Stati Uniti — spie-ga lo storico — non avevano dovu-to combattere per molti mesi con-tro l’Italia, come era avvenuto pergli inglesi, e non avevano ricevutola “pugnalata alle spalle” come ifrancesi, quindi non nutrivano fortirisentimenti nei confronti degli ita-liani. L’elemento determinante,tuttavia, fu il luogo stesso della de-tenzione: gli Stati Uniti erano in-fatti il Paese con il più alto stan-dard di vita, e poiché le normedella Convenzione di Ginevra del

Una mostra dedicata al pittore spagnolo all’Istituto Cervantes di Roma

Goya cronista di guerraGoya “giornalista per immagini” ante litteram; dopoShanghai, Pechino, Tokyo e Nuova Delhi arriva anchein Italia, all’Istituto Cervantes di Roma, la mostra«Goya: cronista de todas las guerras», aperta dal 21settembre al 10 novembre. L’esposizione raccoglie 82opere, tra disegni e incisioni realizzate tra il 1810 e il1815, accompagnate da tre video e fotografie di repor-ter contemporanei. I curatori hanno visto nella figuradel grande pittore e incisore spagnolo un antesignanodel fotogiornalismo e del linguaggio dell’istantanea.

Una lettura inedita, ma storicamente fondata. Du-rante la guerra di indipendenza, la città di Saragozzasubì due assedi da parte dell’esercito francese. Termi-nato il primo, che durò dal 14 giugno al 14 agosto del1808, il suo difensore, il generale Palafox, invitò variartisti ad osservare la devastazione causata dai bom-bardamenti sui principali monumenti della città. Tra

quegli artisti c’erano Francisco de Goya, FernandoBrambila e Juan Gálvez.

Un anno dopo questa visita, Goya cominciò le pri-me stampe de I disastri della guerra, in cui riuscì a tra-sformare in simboli anti-bellici le azioni vissute dalprotagonista, come la terribile carestia e la miseria del-la città di Madrid.

Quest’opera di Goya ha pochi precedenti nella sto-ria dell’arte; la guerra è sempre stato un tema che veni-va commissionato agli artisti da parte dei detentori delpotere che, naturalmente, non ammettevano critiche al-le loro azioni.

Le immagini di queste stampe anticipano il linguag-gio fotografico, anche in senso tecnico; le incisionihanno, volutamente, “zone prive di informazione”,espediente che il fotografo otterrà negli anni successivicon la sfocatura o la luce del flash. (silvia guidi)

rono alla distinzione tra cooperato-ri e non cooperatori. I governi ita-liani succedutisi dopo l’8 settembrecercarono di convincere Washin-gton a modificare lo status dei pri-gionieri in quello di uomini liberi,ma le autorità militari si opposero,avendo la meglio sullo stesso Di-partimento di Stato, che vedeva

gionieri a tentare la fuga dai cam-pi. I fuggitivi furono per lo piùcatturati quasi subito, ma alcuniriuscirono a restare latitanti ancheper anni, aiutati da italo-americanie spesso da donne innamorate.

Anche riguardo ai tempi di rim-patrio i prigionieri negli Stati Uni-ti furono i più fortunati. La mag-

La comunità italo-americanarappresentò un elemento decisivonel conferire alla prigioniaun’impronta largamente positivaMolti rimpatriati tornarono negli States

unico nell’ambito delle esperienzedi prigionia. Esperienze che incon-trano oggi un rinnovato interessedegli studiosi e dei lettori.

Complessivamente furono1.200.000 i militari italiani che nelcorso del secondo conflitto mon-diale subirono esperienze di prigio-nia. Di questo rilevante numero,circa 600.000 furono catturati da-gli Alleati: 408.000 detenuti dagliinglesi, 125.000 dagli americani,37.000 dai francesi e 20.000 quelliufficialmente dichiarati dall’Unio-ne Sovietica. I restanti 600.000,catturati dai tedeschi, vennero con-siderati «internati militari», unespediente per eludere l’applicazio-ne delle norme della Convenzionedi Ginevra.

I prigionieri italiani in manoamericana ebbero destinazioni va-rie, con esiti sensibilmente eteroge-nei: una parte fu trattenuta in nordAfrica, un’altra seguì l’esercito nel-la campagna d’Europa, e un’altraancora fu inviata negli Stati Uniti.Si trattava in larga misura di solda-ti catturati nella primavera-estatedel 1943, durante la fase finale del-la campagna in Africa settentriona-le e l’invasione della Sicilia. Nume-rosi erano tuttavia i militari presidagli inglesi e assegnati poi agliamericani, atto peraltro contrarioalla Convenzione di Ginevra, mache di fatto segnò positivamente illoro futuro.

Infatti, al pari dell’alimentazio-ne, di ottimo livello fu anche iltrattamento relativo all’alloggio, alvestiario, alle cure mediche. Allostesso modo l’attenzione alle attivi-tà educative, ricreative e sportive,come pure all’aspetto religioso,non ebbe uguali in altre realtà diprigionia. I militari italiani che ac-cettarono di cooperare potevanouscire dai campi, a volte anche dasoli, andare a visitare città, recarsiin chiesa, al cinema, partecipare afeste da ballo. Carente fu invece lagestione della corrispondenza da econ l’Italia.

L’autore analizza l’imp ortanzadella presenza di molti milioni diitalo-americani, le cui comunitàerano dislocate nei vari Stati, cherappresentò l’elemento caratteriz-zante e decisivo nel conferire allaprigionia degli italiani in Americaun’impronta largamente positiva.«Le comunità — si legge infatti —giocarono un ruolo fondamentalenell’aiutare direttamente i prigio-nieri, nel difenderli e nel sostenerele loro ragioni nei confronti delleautorità politiche e militari».

Non solo. La presenza di un nu-trito episcopato e di una diffusa re-te di sacerdoti e cappellani militaricattolici, spesso di origine italiana,servì non solo a portare confortoreligioso, ma anche aiuti concreti.«La Chiesa cattolica — scrive al ri-guardo Conti — svolse, inoltre, unruolo ideologico, contribuendo adiffondere tra i prigionieri senti-menti di rispetto e di apprezza-mento delle istituzioni americaneaffinché, terminata la guerra, tor-nassero in Italia quali convinti as-sertori delle idee democratiche eanticomuniste, e favorissero quelprocesso di collocazione del nostroPaese nella sfera d’influenza occi-dentale».

Anche i media ebbero un ruolodi rilievo, operando a volte comemegafono delle proteste dei cittadi-ni, altre come portavoce delleistanze di quanti difendevano i pri-gionieri. E il quotidiano che ebbel’atteggiamento più comprensivo

Prigionieri alla festa della ottantunesima Unità Italiana di Servizio (Isu) a Camp Ogden, Utah

1929 prevedevano che i prigionieri,in quanto a vitto, alloggio e condi-zioni materiali in generale, fosserotrattati come i soldati del Paese de-tentore, anche i soldati italiani tras-sero vantaggio dal grande benesse-re della società americana».

Quella dei 51.000 militari italianicatturati dagli Alleati e condotti inprigionia oltre oceano è, dunque,una vicenda tutta particolare e an-cora poco studiata. Attingendo auna grande ricchezza di fonti, nonsolo ufficiali, ma anche alla memo-rialistica e alle testimonianze, Con-ti ne traccia l’intera parabola, dallacattura in Nord Africa e in Italia altrasferimento negli Stati Uniti. Nedescrive il trattamento ricevuto neivari campi di internamento, le divi-sioni fra chi collaborava e chi no,il contributo che diedero allo sfor-zo bellico americano, nonché l’at-teggiamento dell’opinione pubblicae degli italo-americani, fino al rim-patrio. Quello che emerge è unquadro denso di implicazioni poli-tiche, sociali, culturali e umane

nella soluzione del problema deiprigionieri italiani un modo per in-cidere sugli orientamenti politici inItalia. «Le autorità politiche ameri-cane — sottolinea infatti Conti —avevano interesse a sostenere e raf-forzare i governi democratici nelnostro Paese, a sviluppare rapportiamichevoli con questi, al fine di al-lontanare il rischio di un’influenzasovietica, in tale prospettiva la que-stione dei prigionieri poteva assu-mere una notevole rilevanza poli-tica».

Con il passare dei mesi l’Italiamostrò un atteggiamento ambiguo.Mentre ufficialmente continuava achiedere il cambiamento di statusdei prigionieri e il loro rimpatrio,ufficiosamente incitava i prigionieria continuare nel loro lavoro a so-stegno dell’economia americana,perché si potessero acquisire creditida vantare al momento della pace.«Questa mancanza di chiarezza —spiega lo storico — ingenerò confu-sione nei prigionieri e fu uno deimotivi che spinse una parte di essia non aderire alla cooperazionecon gli Alleati».

I cooperatori tuttavia furono lagrande maggioranza ottenendo mi-glioramenti e maggiore libertà,mentre i non cooperatori furonotrattati molto più rigidamente, allastregua dei prigionieri tedeschi egiapponesi. Un regime più rigido,di fatto punitivo, che però vennesuccessivamente esteso a tutti apartire dai primi mesi del 1945. La

verso i soldati italiani fu il «Chri-stian Science Monitor» di Boston.

Con l’armistizio e la successivacobelligeranza, si evidenziarono di-visioni tra i prigionieri rimasti fe-deli al regime fascista e quanti in-vece erano disponibili a una mag-

scoperta del duro trattamento ri-servato dai nazisti ai prigionieri inGermania indusse, infatti, l’opinio-ne pubblica americana a criticare lamitezza nei confronti degli italiani.

L’insofferenza per l’inasprimentodella detenzione spinse molti pri-

giore collaborazione.Gli americani si sen-tirono autorizzati acoinvolgere questi ul-timi in attività lavora-tive, alcune peraltrovietate. Furono quin-di costituite le unitàdi servizio su basevolontaria, che porta-

Il cappellano militare americano padre Monteleone celebra la messaper i cooperanti italiani a Camp Ogden, Utah

Una pagina del manoscritto dello Stabat Mater

Domenico Bartolucci negli anni Cinquanta

gior parte di loro rientrò in Italiaentro il 1945, e gli ultimi contin-genti partirono agli inizi di feb-braio del 1946, quasi un anno pri-ma degli ultimi rimpatri dei prigio-nieri italiani in mano inglese. Peralcuni si trattò di un ritorno prov-visorio, perché in seguito si sposa-rono con americane conosciute du-rante la detenzione e si trasferirononegli Stati Uniti, a conferma delpositivo giudizio sull’esp erienzavissuta.

Ma soprattutto, conclude Conti,«le vicende della prigionia offriro-no agli italiani la possibilità di en-trare in contatto con la realtà ame-ricana, che destò in tutti grandeimpressione e suscitò, nella mag-gioranza di loro, sentimenti di ap-prezzamento per l’alto livello dibenessere materiale, per l’efficienzadell’organizzazione, per la facilitàdi inserimento nella vita sociale. Siformò in molti un’opinione decisa-mente favorevole riguardo al siste-ma economico e politico america-no, alla validità dell’indirizzo libe-raldemocratico, che venne visto co-me il modello verso il quale orien-tare la politica del proprio Paesenel dopoguerra. Ciò sembrava rea-lizzare in concreto l’opera di “in-dottrinamento” alle idee democra-tiche e filoamericane, che era statapromossa dal governo americanonel periodo della detenzione, alloscopo di diffondere un atteggia-mento positivo verso gli Stati Uni-ti e il blocco occidentale».

La Chiesa cattolica contribuìa diffondere tra i reclusiapprezzamento per gli americaniCreando un terreno favorevolealle idee democratiche