Lo sguardo de Il Bucaneve

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Donne che si sono descritte e raccontate con i loro occhi durante il proprio percorso di lotta per sconfiggere le patologie legate al comportamento alimentare di Maria Grazia Giannini Associazione Il Bucaneve

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Quaderni del Volontariato

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Edizione 2013

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CesvolCentro Servizi Volontariato

della Provicia di PerugiaVia Campo di Marte, 9

06124 Perugiatel. 075.527.19.76

Sito Iternet: www.pgcesvol.netVisita anche la nostra pagina

Info e contatti:[email protected]

Con il Patrocinio della Regione Umbria

Edizione: Novembre 2013Progetto grafico e videoimpaginazione: Chiara Gagliano

La foto di copertina è di: Silvia LucchiariStampa: Digital Point (Ponte Felcino)

Tutti i diritti sono riservatiOgni riproduzione, anche parziale è vietata

ISBN: 978-88-96649-34-3

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I QuaDErNI DEL VOLONTarIaTO, uN VIaggIO aTTraVErSO uN LIBrO NEL MONDO DEL SOCIaLE

Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia,nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un pianospecifico nell’area della pubblicistica del volontariato.

L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto aitemi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patri-monio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito del vo-lontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere lacircolazione e diffusione di argomenti e questioni che possono ri-tenersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessioneregionale o nazionale sulle tematiche sociali.

La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di pro-duzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodico ri-volto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo una vera epropria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali, ma ancheai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazionismo pro-vinciale.

I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile sup-porto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il socialeper motivi di studio ed approfondimento

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Associazione “Il Bucaneve”

di

Maria grazia giannini

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L’importante è saper chiudere il cerchio e lasciare che certimomenti della vita si concludano.

Ai miei genitori.Con amore.

Maria grazia

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Introduzione

È cominciato con “Dalla Parte di Noi”, un sito web creato come vo-glia di rivalsa, come bisogno di utilizzare l’esperienza pesante di annidi rabbia, di scontri, di sofferenze di un’intera famiglia. Era tuttopassato, ma dentro rimaneva la conoscenza inutilizzata di una so-luzione che avrebbe potuto essere messa al servizio di altri, ancorachiusi nel problema. “Dalla parte di Noi Genitori” quindi: un sito edun forum dove a madri e padri, in conflitto con le figlie a causa delDCa, si offriva un po’ di esperienza, di consapevolezza di situazioniaffrontate e per fortuna, in questo caso, risolte. Qualche genitoreha partecipato, ma la maggior parte dei contatti sono venuti da partedi ragazze che, accettando il dialogo, sono riuscite anche a mettersiin discussione, ad argomentare su motivazioni e alternative. ancorae sempre loro protagoniste. all’inizio con un po’ di polemica, quasicon il tono di sfida di chi si è dovuto abituare a combattere, e quindiporsi da subito sulla difensiva, poi, lentamente, visto che Maria gra-zia non accettava le provocazioni e rispondeva dichiarando la suadisponibilità, il confronto è diventato dialogico, soprattutto quandorisultava evidente che nessuno le stata accusando, anzi dall’altraparte del mouse c’era qualcuno che aveva voglia di ascoltare, avevabisogno di capire. Qualcosa si è risolto, qualcosa no, ma si è andatoavanti. Dall’esperienza di quel forum è nato il libro “Come in un qua-dro di Magritte”, un titolo che riporta la frase di una delle ragazze piùattive nel forum, e che riuscì a comunicare quel senso di disagio chediventò il simbolo metaforico di una situazione. Poco dopo pren-deva forma l’associazione “Il Bucaneve”, con l’intenzione di trasfe-rire e portare ad una più amplia platea le finalità che il sito ed ilforum avevano iniziato, e che la prorompenza mediatica di Facebookha repentinamente allargato a livelli nazionali. D’altronde questa èl’epoca delle comunità online, della frantumazione del privato, degliincontri virtuali che presto però sono diventati anche reali: nasce

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così il “Villaggio Il Bucaneve” sparso in tutta Italia, con una sua iden-tità, una sua forza e, soprattutto, una gran voglia di fare tutte in-sieme, stringendosi intorno a Maria grazia, per risolvere i piccoli e,se possibile, anche i grandi problemi. È vero che associazioni e sitiinternet che si occupano dell’argomento sono molteplici: con al-cune si può collaborare, altre hanno finalità diverse, ma Il Bucaneveè ormai diventato un piccolo mondo aperto dove si tenta di aiutarea fare piccoli passi per poter volar via.“Lo sguardo de Il Bucaneve” raccoglie le espressioni e le testimo-nianze di questo mondo parallelo non perché siano valutate o giu-dicate, ma per costituire degli esempi e – si spera – perché diventinostimoli verso un percorso che, fatto insieme, potrebbe risultare nonpiù così difficile e qualche volta irraggiungibile. Per questo è un sor-riso, come fa il bucaneve che si libera sui ghiacci e sorride al cielo,a quel cielo che, da seme, non pensava potesse esistere.

Luciano Festuccia

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Prefazione

Leggendo le narrazioni e le considerazioni raccolte in questo librosi sente scorrere un filo costante, non palesato ma molto presente.Si tratta dello sguardo; quello del narrante, quello di chi assiste allosnocciolarsi di accadimenti, di emozioni e li raccoglie per riportarnefedelmente la sequenza, quello di chi cerca la sintesi necessaria tranumerose vite che si aprono alla lettura di altri, degli sconosciutilettori. È importante quindi riflettere insieme sui particolari dellacomunicazione umana e sulla presa di coscienza della nostra com-plessità puntando sulla valenza comunicativa dello sguardo, a partiredal suo dato fisiologico e psico-evolutivo per giungere alla sua va-lenza sintomatologica, per conoscere sempre più noi stessi, cheresta, alla conta dei fatti, il fine più profondo dell’esistenza.Fin dalle origini più remote, noi umani comunichiamo innanzituttocon il corpo e la sua forma visibile. La prossemica, il gesto, la mi-mica facciale, hanno da sempre rappresentato la base della comu-nicazione umana. La vocalità e in fine la parola (corporali anch’essema di carattere auditivo) nacquero ben più tardi. Il motivo è sem-plice: il corpo comunica sempre e comunque per il fatto che c’è, stalì, esiste davanti agli occhi degli altri e di sé stessi, mentre la vocesgorga solo se l’individuo ha un’intenzione comunicativa. In pre-senza di un altro essere possiamo decidere di stare in silenzio manon possiamo scegliere di essere trasparenti o di non occupare lospazio con una qualsiasi postura. Fosse anche il nostro stare neutroe totalmente rilassato esso trasmetterebbe comunque informazionidi noi. Dunque nel confronto vis a vis, ci conosciamo reciproca-mente innanzitutto per la forma di cui siamo fatti, per il modo incui il nostro corpo si pone nello spazio in presenza di altri e percome le singole parti del nostro corpo si muovono. Distinti quindii due piani della visibilità e della udibilità reciproca dei corpi, pos-siamo comprendere meglio che in presenza di altri ciascuno ineso-

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rabilmente trasmette di sé informazioni perché esiste ed é fatto inun certo modo. Semplicemente non possiamo non comunicare.La trasmissione di informazioni in sostanza è ineludibile. La comu-nicazione invece è gestibile a seconda del grado di competenza co-municativa degli attori sulla scena della comunicazione. Così comeesistono competenze linguistiche, professionali, scientifiche e divaria sorta, da arricchire lungo il corso della vita, esiste una compe-tenza comunicativa corporea. L’uso del corpo nel gioco comunica-tivo diviene essenziale per la costruzione di rapporti sociali, e per illoro mantenimento. Il soggetto è quindi un corpo comunicativosempre e comunque; alla sua volontà e alla sua intelligenza è asse-gnata la capacità di elevare la propria competenza comunicativa cor-porea assieme a quella linguistica, culturale, professionale, perrealizzarsi quale essere sociale.Lo sguardo rappresenta un’area comunicativa sofisticatissima in cuile persone investono più o meno coscientemente molte energie;esso marca e contrappunta lo sviluppo delle espressioni verbali egestuali dei soggetti, ad esse si sostituisce o le rinnega perfino, inuna miriade di sfumature. Per inciso, nella maschera facciale, l’areaoculare è gestita da numerosissimi muscoli rispondenti a sollecita-zioni ambientali, a stati d’animo mutevoli, a sedimenti di esperienzee ripescaggi emozionali rapidissimi e scarsamente razionalizzabilidal soggetto. Si pensi che l’occhio umano è capace di rispondere adun milione e mezzo di segnali simultanei. L’occhio e l’area dellosguardo sono riconducibili a tre basilari funzioni. La prima è chia-mata “salienza”, l’occhio ci rende visibili agli altri e ci permette divederli. La seconda è l’incredibile capacità degli occhi di stimolareeccitazione. Praticamente è impossibile non provare un qualchegrado di eccitazione (sia di gradevolezza che di repulsione) quandoguardiamo un’altra persona. La terza è chiamata “coinvolgimento”.Nella nostra cultura, è difficile stabilire contatto oculare con qual-cuno senza che vi sia interazione, anche minimale. La prima fun-zione è la constatazione del fatto che l’animale umano dispone di

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due ricettori luminosi, più poeticamente chiamati “finestre sulmondo”, organi esposti fin dai primi secondi di vita alle sollecita-zioni luminose; in quattro settimane essi cominciano a strutturareun codice visivo di decifrazione della realtà circostante, in una in-cessante risistemazione delle informazioni, funzione che è la basedella competenza culturale di adattamento; in quel breve lasso ditempo l’essere umano cerca subito il contatto visivo con la madreper stabilire l’imprinting di sopravvivenza. Il corpo e gli occhi dellamadre sono per lui tutto l’universo. La seconda funzione, sicura-mente formata per pulsioni vitali legate in primis alla sopravvivenza:la visione della madre è eccitante, chiama via via il piccolo alla vitae al sorriso e conseguentemente alla emissione di suoni di richiamoarticolati oltre che a quelli compulsivi provocati dagli stimoli visce-rali. Si comincia cioè a intavolare il codice di rispondenza tra statid’animo ed espressioni paraverbali, che poi troveranno compimentonei primi fonemi di lallazione. In queste fasi i muscoli dell’area ocu-lare cominciano ad improntare un assetto coordinato con queglistati d’animo. Così l’inarcamento delle sopracciglia legato al piantoo l’allargamento delle palpebre insieme al sollevamento del sorrisosono solo due degli assetti espressivi che l’umano comincia lette-ralmente a calzare sulla scena della vita.La cultura di appartenenza offre agli automatismi ancestrali un pa-norama di espressioni e atteggiamenti tutti da imparare, affinché illegame sociale possa stabilirsi su un quadro condiviso di posture edi sguardi. La concertazione di questi elementi costruisce la rela-zione. Indicative sono le differenze di genere nello sguardo, le dif-ferenze di età, di potere contrattuale, di ruolo affidato. In certe areeculturali lo sguardo femminile è considerato di per sé richiamo ses-suale, e l’occhio perfino, in quanto organo, è ritenuto elemento dieccitazione sessuale e dunque soggetto a controllo, censura, perse-cuzione. a età differenti sono associati stili di sguardo differenti, laspavalderia dello sguardo giovanile contrasta per esempio con laquieta saggezza dello sguardo senile; colui che comanda può offrire

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lo sguardo o negarlo al suo sottoposto, che non potrà fare altret-tanto se interpellato dovendo mostrare la sua disponibilità sempree comunque. In merito agli stati d’animo, la direzione dello sguardopuò indicare il carico emotivo che una persona prova in un datomomento. Le ricerche hanno mostrato come uno sguardo costan-temente rivolto verso il basso spesso riflette una forte emozionalità;uno sguardo verso l’alto può indicare il formarsi di un’immaginementale, mentre uno sguardo di lato può indicare che noi stiamoricordando suoni percepiti in passato. Lo studioso Zick-rubin haosservato che le persone profondamente innamorate si guardanol’un l’altro molto di più mentre parlano e sono meno propensi aguardare altrove quando qualcuno entra nel loro mondo. Ciò signi-fica che stimoli esterni sono tenuti lontani dall’attenzione selettivache si sta concentrando e difende così l’isolamento della relazionecomunicativa da tutti gli influssi esterni. Questo avviene in tutti icasi di abbandono alla bellezza, sia essa umana che culturale, nelgioco ad esempio, nello studio, nell’intrattenimento, in tutti i casi incui il soggetto ricava eccitazione e appagamento da ciò che sta vi-vendo. Lo sguardo dunque è il prodotto della contemporaneaazione di tutte le condizioni psicofisiche della persona. Esistono se-gnalatori psicologici dello sguardo ben sintetizzati nelle espressionicomuni come lo sguardo assente, la cupezza dello sguardo, l’occhiofisso, lo sguardo stupito, e mille altre sfumature. una miriade di at-teggiamenti dello sguardo, alcuni controllabili, altri per nulla inter-pretabili. In questo panorama culturale in cui gli sguardi d’intenzionesi mescolano agli sguardi inconsci, si muove il terapeuta alla ricercadel disagio psichico e delle vie da percorrere per risalire in superficiee costruire soluzioni. Questo libro dà voce a Eleonora, Lia, Carla,Lara. riporta dieci, cento, mille voci e sguardi, rivolti a sé stesse, delleX donne che compongono, con i loro racconti, l’intero volume. Inquesta composizione troviamo la narrazione di donne che sono im-merse o sono state immerse all’interno di patologie legate al com-portamento alimentare.

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Le loro storie e i loro nomi si celano dietro pseudonimi, quasi avoler rendere anonima la singola narrazione per dar vita e per creareun’unica voce che esprima un disagio e un desiderio di guarigione.Come sempre più spesso accade, questi moniti e questi sfoghi sonostati emessi grazie al filtro del social-network e della pagina de IlBucaneve, associazione che si muove a sostegno di persone con di-sturbi alimentari. Ogni giorno la pagina facebook di questa asso-ciazione infatti riceve moltissimi post che qui sono stati selezionatie raccolti a paradigma di un disagio diffuso che, contrariamente aquanto si possa pensare, non investe solo la sfera giovanile e nonriguarda solo gli altri.In quest’ottica il libro quindi non giudica, non insegna, non si in-tromette ma pone in luce una serie di dubbi e di perplessità chesenza dare una sentenza vogliono fornire un nuovo sguardo allavita di molte persone che si sono descritte e raccontate con i loroocchi durante il proprio percorso di lotta per sconfiggere i disturbidel comportamento alimentare.Queste richieste di aiuto divengono in ultima considerazione un in-dicatore di guarigione che attraverso un diverso sguardo, un diversomodo di guardare le cose e il proprio vissuto, vogliono uscire dalsilenzio. Così pian piano emerge, quasi in un gioco di specchi, ilvero desiderio. Come avviene nella manifestazione della patologia,infatti, la prima necessità è la richiesta di uno sguardo per dar vocead un problema sul quale, in ultima analisi, non si accetta solamenteun’occhiata ma bensì una più attenta visione.

Lucia Magionami

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...aLLOra CONTINuO a DaNZarE

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Pioveva ormai da diversi giorni, giornate grigie, tutte uguali, con ilcomune denominatore di quella malattia che stava consumando lasua vita. C’era silenzio ora, non si sentiva più quel suono che eraleggero, ma che l’assordava. Non si sentiva più quel respiro faticosoe stanco. Mi girai verso quel corpo che era appartenuto a mia madree fissai il suo petto: era immobile. Pensai che la cosa più strana eravedere un corpo che non respirava più e mi venne spontaneo riem-pirmi i polmoni di aria. Mi ascoltai e sentii dentro solo pace e nonavvertii nessun vuoto, dentro ci sarebbe sempre stata lei e tutti i no-stri discorsi, contrasti, abbracci e sguardi... . aveva smesso di pioveree quel giorno grigio lasciava il posto alla notte. Tra poco sarebberoarrivati parenti, amici, quel prete sconosciuto e non avrei più avutotempo di pensare. Strano: durante la malattia sentivo la necessità ditoccare mia madre, di accarezzarla, di appoggiare il viso sulla suaguancia, di sentirne l’odore, ora invece non riuscivo ad avvicinarmia lei. Mi dissi che ormai quello era solo un corpo, che mia madrenon c’era più. Mi infilai il cappotto, sentivo un freddo esagerato perla temperatura reale, e uscii. La mamma aveva scelto la stagione giu-sta per andare via, novembre è un mese silenzioso, grigio, spesso icontorni delle cose non sono bene definiti perchè avvolti dalla neb-bia e tutto sembra che dorma; anche le piante hanno ormai pochestanchissime foglie che presto si staccheranno concludendo quelciclo silenzioso della natura. un cane abbaiava in lontananza:“Meno male, troppo silenzio. Con chi ce l’hai tu? Da chi ti vuoi farsentire?”alzai gli occhi, improvvisamente ricordai quando facevola stessa cosa tanti anni prima in cerca di quella stella, la mia stella.appariva prima di tutte le altre, era la più luminosa. Più avanti neltempo avrei saputo che si trattava di Sirio, ma allora non aveva perme nessuna importanza il suo nome, sapevo solo che era lì, ognisera puntuale per prima ad aspettare il mio sguardo.Sorrisi e con il pensiero accarezzai quella ragazzina dai lunghi capellicastani piena di sogni e di aspettative che stava seduta su quel mu-retto che divideva le due case coloniche e guardava il cielo.

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“già...era estate però, il cielo libero da ogni nuvola e l’aria era tiepidaanche in piena notte...”. Quella notte il cielo era color del piomboinvece e rabbrividii. Silenzio. La campagna, le case, le strade, iostessa inghiottita dal buio. Quell’estate di tanti anni fa, era il 1970,mi rigirai nel letto, socchiusi gli occhi: dalla finestra filtrava appenala luce del nuovo giorno, quella sfumatura del rosa che precede ilsorgere del sole. Eppure di là nella grande cucina del casolare giàc’era movimento. Fosse stata una mattina qualunque dell’estate avreicontinuato a dormire, ma il cervello pur assonnato mi inviò il mes-saggio che quella mattina iniziava la trebbiatura e per me era megliodi una festa, meglio di un compleanno, meglio dei regali di Natale.Saltai fuori dal letto e mi avvicinai alla finestra, nell’aia era già arri-vata la macchina che avrebbe ingoiato le manne del grano e da unaparte sarebbe uscito tutto quel polverone mentre dall’altra il granoripulito cadeva nel cassettone del trattore. I contadini dei poderinelle vicinanze stavano arrivando per iniziare la giornata.“Che bello!” battei le mani come una bimba di fronte ad una sor-presa. Sfilai in fretta la leggera camicia da notte, un corpo giovane,che aveva ormai lasciato le sembianze della bambina per entrare nelmondo di donna, contrastava un po’ con quel mio viso da adole-scente in cui due grandi occhi verdi pareva avessero dentro milledomande inespresse.Non mi ero ancora vestita quando sentii bussare alla porta, volaidentro il letto coprendomi:“Sì, avanti!” “Buongiorno, sei pronta? Ti ho portato il grembiulinobianco con i pizzi, quello che mi ha dato la tua nonna, ricordi? Pre-sto! Tra poco è l’ora del vinsanto...!”disse la zia affacciandosi conquel suo volto rotondo e i capelli raccolti dietro la nuca.Sarà per quello che pur lavorando tutto il giorno e faticando comemuli, quegli uomini erano sempre così contenti e avevano semprevoglia di scherzare! Forse quella colazione servita alla buona e be-vendo al posto del latte un bel bicchierino di vinsanto aiutava a ve-dere il mondo più facile e colorato!

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“arrivo, eccomi subito, ma è già pronta Pia?”“Non dormo mica io, e tu, quanto ti ci vuole?” Pia aveva già il suobel grembiulino inamidato e aveva indossato quella gonna un po’corta che le metteva in mostra le belle gambe. Era eccitata anchelei per l’inizio dei lavori ed entrò in camera portando con sé l’odoredel pane abbrustolito. “Dai, vestiti che penso io a mettere a postoil letto...”. Mi sbrigai e mi sentii ancora una volta felice di poter con-tare sulla sua amicizia. Pia aveva solo una anno più di me, però eramolto saggia, a volte troppo saggia per la sua età. Ogni tanto miannoiavo con lei perché prima che si decidesse a fare qualche pic-cola marachella dovevo impiegare mezza giornata a convincerla.Niente di grave, magari il bagno al fiume senza costume oppureuna corsa in bicicletta fino al paese per vedere quel ragazzo dagliocchi scuri senza chiedere il permesso, insomma tutte quelle piccolebugie che rendono l’adolescenza il periodo particolare che è. allafine vincevo sempre io, ma era una faticaccia trascinarla in quelleimprese. a Pia bastava ascoltare un po’ di musica, un gelato man-giato all’ombra del noce davanti casa e immaginare quel che avrebbefatto da grande. Per me non era così, avevo dentro la voglia delnuovo, di quello che non sapevo, e non potevo passare un giornouguale all’altro... . Ero piccola quando i miei genitori si trasferironoin città, ma quella campagna, quel fiume e gli odori del posto doveero nata non mi erano mai usciti dal cuore né dalla testa e non ap-pena potevo scappavo via dalla città per inebriarmi di quegli odorinativi... . uscii e mi buttai nella giornata che mi aspettava, il tempopassò in un attimo tra le chiacchiere nel fresco della cantina dovepassavano a ristorarsi gli uomini e i giovani ragazzi che si alterna-vano nei turni nell'aia ora dopo ora fino ad arrivare alla cena. La ta-vola all’aperto, ricoperta di candide tovaglie di cotone, l’odore deisughi di anatra e di arrosti cotti al forno a legna. E il vino che facilitava il sorriso e la voglia di divertirsi nonostantela stanchezza, i balli fino tarda notte sudore sopra sudore senza pre-occuparsi che dopo poche ore erano tutti ancora una volta a fati-care... .

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“Come sei bella! Balli con me dopo?” Quei freschi, semplici com-plimenti mi facevano davvero sentire bella, avevo già capito che po-tevo far nascere negli uomini il desiderio e questo mi dava unanuova, strana e curiosa emozione... . Con il respiro affannoso e ilvolto arrossato mi allontanai dal gruppo che ancora non accennavaa darsi per vinto e mi sedetti più in là, in quel muretto dove spessoaspettavo la mia stella.Si sentì un rumore di un motorino che arrivava, stonava un po’ conla musica. Per fortuna si spense.Mi sedetti meglio sul muretto, guardavo verso tutta quella gente conle facce bruciate dal sole.Lui scese dal motorino. Stava lì in piedi ad aspettare che la musicafinisse.Era una maglietta bianca su una schiena, due braccia abbronzate.Si voltò portandosi una mano alla nuca, aveva una barbetta rada suuna faccia da bambino.Si avvicinò, fece un passo verso di me.Lo guardavo anche io, lo aspettavo mentre si avvicinava.Non c’era più nulla.Solo la macchia di quella maglia bianca che camminava verso di me.E mi sembrò di sentirgli l’anima, ecco tutto.E quel momento sarà la memoria.“Ti ritrovo in questa notte buia dopo tutti questi anni...” pensai.Palate di vita.Forse perchè con la morte di mia madre si era concluso davvero unciclo importante della mia vita, forse perché finché abbiamo ancorai nostri genitori dietro di noi, per “sbagliati” che siano, ci sentiamosempre figli...forse il ricordo di quell’episodio che un po’ ha segnatoil mio passaggio dall’infanzia all’adolescenza mi ha voluto dire cheora, da oggi faccio un altro passaggio...non sono più figlia, sonodavvero senza protezioni alle spalle e il dolore da quel momento èdiventato grande e consapevole... . Quante volte ho pensato cheavrei voluto genitori diversi, quante volte avrei voluto vivere quel

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rapporto “rovesciato”, solo figlia e non mamma di una madre sem-pre infantile e bisognosa di attenzioni...quante volte! Ora invece mirendevo conto che solo lei poteva essere mia madre, non l’avreicambiata con nessuno. Solo lei aveva quell’odore...e con lei sono di-ventata chi sono. Sbagliata o no non lo so, ma sono ioSono così perché c’è stata lei.Ci sono giorni in cui pensi di sapere tutto.Ti dici “Ecco, finalmente ho capito, so come fare e come gestire lemie emozioni, so che la vita è questo...quest’altro...benissimo!”.Tutto ad un tratto basta una discussione, una risposta che non tiaspettavi, una reazione strana dalla persona su cui avresti messo lamano sul fuoco a vita che ti fa ricredere immediatamente... .Delusione, sconforto, anche paura.Ogni tanto mi domando: ma sarà sempre così? Ormai ho abban-donato da un bel po’ quei giorni in cui ero confusa su tutto etutti...eppure mi rendo conto che siamo sempre sottoposti a cam-biamenti nella vita.Proprio così...la vita cambia in continuazione, non esiste niente didefinitivo. allora come fare? Non esistono formule magichecredo...bisogna accettare. E basta. accettare che non è come imma-ginavamo nulla o quasi nulla, accettare che soprattutto chi amiamonon la pensa quasi mai come noi, accettare che le delusioni fannomale. Probabilmente questo è una di quelle cose che non riesce fa-cilmente a chi cade in un disturbo alimentare, parlo di accettare lavita e noi stessi. La guarigione, il vivere sereni senza farci del malecredo inizi proprio dall’accettazione di noi stessi e di quello che cicapita. Facile a dirsi, difficile a farsi...ma non impossibile... .ragionando su questo credo davvero che sia vero dire che senza ra-dici non si vola.È necessario cercare, analizzare, vedere fin dove arrivano quelle ra-dici da cui siamo nati per poi poter spiccare il volo verso la vita, lanostra vita e poter reggere al peso di delusioni, dolori ed eventi im-provvisi...indispensabile analisi da fare per tutti noi, ma in partico-

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lare per chi vive dentro un disturbo alimentare: guardare da dove siarriva anche se fa male, capire cosa ci ha condizionato e poi staccarsiper poter davvero diventare noi, per poter vivere la nostra esistenzasecondo quello che siamo davvero e non in base a quello che tuttiquanti, genitori compresi, si aspettavano da noi.andare, volare... . Questo è davvero l’atto più bello di amore cheun figlio può fare verso un genitore:vivere con serenità e consape-volezza di se stesso la propria vita... .Sono passati quasi due anni da quando ho costituito l’associazioneIl Bucaneve, tempo volato in un attimo... .associazione costituita da me, mio marito e le mie figlie che sonola testimonianza che di questa patologia terribile si può guarire.Dopo anni lunghissimi e terribili vissuti in compagnia di questa ma-lattia (anzi gli addetti ai lavori la chiamano disturbo) e una lunga te-rapia a cui noi come famiglia abbiamo partecipato, le miemeravigliose ragazze stanno bene...libere e serene, e soprattutto ca-paci di affrontare quello che la vita proporrà loro... . Cosa cerchiamodi fare? Di ascoltare, accogliere, accompagnare alla terapia le per-sone che hanno a che fare con i disturbi del comportamento ali-mentare. La cosa che mi domandano con più frequenza è “PerchèIl Bucaneve?, perchè si chiama così?”già...dal momento in cui ho pensato a questo progetto e quindi horealizzato che dovevo anche trovare un nome, immediatamente hopensato a questo fiorellino. Nasce anche in posti impervi, laddovemagari poteva sembrare impossibile la vita perchè sono luoghi pienidi neve e gelo. Eppure il bucaneve riesce, non appena spunta unpo’ di sole, a forare anche il ghiaccio e a far spuntare la sua testolinacolorata e bellissima e su...guarda verso il cielo e i suoi colori. Proprio come le “mie” ragazze che mi scrivono, che mi si rivolgonoperchè credono di non sentire più nessuna emozione e nessun in-teresse. So che alla fine la soluzione per questa terribile patologia èl’amore. In senso lato. Con il calore dell’amore possono fiorire dinuovo, nascere a vita nuova e guardare alla vita e ai suoi colori.

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amore e calore dell’amore. Come il sole per il bucaneve... . Sem-brerà una cosa terribile quello che sto dicendo, ma dopo la mortedella mamma ho completamente preso in mano la mia vita. Nonche prima non avessi capito che solo con un distacco tra la mia vitae la sua potevo vivere le mie idee e le mie giornate, ma c’era sempreuna parte che sotto sotto mi faceva sentire quel buco creato dal nonrapporto esistente tra me e lei a livello interiore. Stavamo insiemespesso, ero anche troppo presente per lei, ma così come sapevo didover fare da figlia per le cose materiali. Quello che avrei sempredesiderato per me, per poter fare certe domande e poter avere ri-sposte o almeno poter essere ascoltata, quello non era mai statopossibile. Con la sua morte nulla poteva più modificarsi, anchequella piccolissima speranza che alla fine c’era sempre dentro nonesisteva più e, strano ma vero, mi sono sentita libera di muovermie fare quello che sentivo senza aspettare più quel giudizio che ormainon mi faceva più male, ma che comunque arrivava sempre. Ognicosa io facessi al di fuori di quello che era importante per lei, erasbagliato o superfluo... . Il giorno in cui ho depositato i documenti per l’iscrizione all’albodella mia associazione ero molto contenta, era una mia idea in cuicredevo tanto e alla fine ci ero riuscita. Camminavo con il sorrisosulle labbra e tenevo stretti al petto quei fogli come fossero un bam-bino da proteggere...sorridevo e ogni tanto rileggevo il primo foglio,là dove si diceva “Il giorno...è stata costituita l’associazione deno-minata Il Bucaneve”. Poi ecco subito il pensiero “Chissà lamamma...”. adesso sorriderà anche lei finalmente... . Ho iniziato aprendere contatti e a buttarmi con entusiasmo in questa avven-tura...nel gruppo che ho aperto su Facebook (chi non vive ormai co-municando con questo mezzo?) moltissime ragazze e anche genitorisono diventati parte attiva nelle discussioni e si sono instaurati ancherapporti non solo virtuali. La gente ha imparato ad essere fredda, atoccare senza toccare, a guardare senza guardare, a sfiorare senzasfiorare. Si vive di clichè: “Ciao come stai?”. Nessuno vuole dire

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niente dicendolo, queste parole servono solo ad evitare l’incontroautentico tra due persone. La gente non si guarda negli occhi, nonsi tiene per mano, non cerca di sentire l’energia dell’altro. Non sipermette di scorrere liberamente. Tira avanti in qualche modo, pienadi paura, fredda e smorta. Spesso ci lamentiamo di questo che cicirconda che chi ha la sensibilità a fior di pelle come chi soffre diDCa percepisce ovunque. Come cambiare ciò che non ci piace, come cambiare ciò che intornoci dà fastidio e che vorremmo fosse diverso? Ogni giorno nei nostridiscorsi nel gruppo viene fuori questa necessità... . Intanto cer-chiamo di guardare a fondo dentro di noi. Così facendo si acquistala capacità di vedere a fondo anche gli altri... .anche per imparare che nella vita a volte basta davvero poco peressere felici e che davvero la cosa importante è la disponibilità al-l’ascolto e alla comprensione dell’altro,ci siamo incontrati con sem-plicissimi e amichevoli riunioni davanti ad un tavolo di un bar, lechiamiamo “C & C caffè e chiacchiere”. Ci siamo incontrati a roma,Milano, genova, rimini, ancona, qui a Castiglione del Lago e poisi vedrà... . Stiamo insieme poco tempo, ma ci guardiamo negliocchi, parliamo con estrema libertà e sappiamo che l’altro ci capisceperfettamente e non ha il benché minimo giudizio nei nostri con-fronti. Questo guardarci, toccarci, abbracciarci rende reale quel mondo vir-tuale e aiuta tutti noi. Passo dopo passo stiamo crescendo, insiemea Lucia Magionami, una bravissima psicoterapeuta che ci regala ilsuo tempo, organizziamo incontri a tema e seminari formativi eogni volta ne usciamo arricchiti. Diverse ragazze mi hanno scritto la loro testimonianza del periodolegato al disturbo alimentare. alcune ne sono ormai fuori e sononel gruppo per testimoniare che si può guarire, altre sono ancoraall’inizio del cammino e spesso nemmeno sono ben consapevoli dicosa abbiano, altre stanno dentro il percorso della terapia e con-frontarsi con noi le aiuta molto. Personalmente mi sento ricca. ricca

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perché ho la possibilità di parlare con persone che hanno un mondointeriore fantastico, troppo spesso bistrattato e e non riconosciuto,ricca perché si fidano di me, perché mi aprono il loro cuore, riccaperché ogni giorno cresco un po’ con loro. E, vi assicuro, non si fi-nisce mai di crescere e cambiare...per fortuna... .

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Testimonianze

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Agnese, altre e la rabbia...

Ma lo sai che non lo so? Davvero non so risponderti su come mene sono liberata...forse ho smesso di lottare contro i mulini a vento,per cose che non ho ricevuto e che nessuno potrà ridarmi mai, forseho semplicemente accettato delle situazioni che per me erano do-lorose così com’erano, ho smesso di pensare di poter cambiaretutto, che tutto dipendesse da me...anche io avevo tanta, tantissimarabbia dentro che in certi momenti sembrava davvero voler esplo-dere e distruggere il mondo intero, non solo me stessa...provavo undolore terribile per tutta quella rabbia, un odio terribile che riversavosu di me e su chi mi stava attorno...ho creato il deserto intorno pur-troppo, ma oggi no...oggi è tutto diverso, oggi io sono diversa! Oggisorrido alla vita e la vita mi contraccambia ancora di più ognigiorno... . La rabbia è positiva se la buttiamo fuori, quando la te-niamo dentro ci corrode il cuore e l’anima, come il calcare delle la-vatrici..., se la buttiamo fuori troppo violentemente ci lascia avvilitee piene di sensi di colpa, bisogna trovare il modo di incanalarla nelverso giusto e usare tutta la sua potenza per produrre un’energiapositiva per noi...e la terapia secondo me aiuta tantissimo in questo.Io la vedo positiva solo proprio per tutta l’energia che contiene chepuò essere usata molto positivamente!rabbia rabbia rabbia. Mi fa piangere, mi fa ammutolire, mi fa venirela gastrite, mi fa ubriacare, mi fa andare in ospedale, mi fa tagliare.Per me la rabbia non ha niente di positivo.Fra i tanti sentimenti umani la rabbia è fra le più “boicottate” pervia del suo potenziale distruttivo...io l’ho sempre temuta...ma la rab-bia è energia selvaggia...è potenziale...è un fucile carico e pronto asparare...occorre la capacità di puntarlo contro ciò che ci fa starmale...e soprattutto...occorre puntare su altro da se stessi...perchèse viene ignorata non scompare mai...ma punta ed esplode su dinoi...dobbiamo ricordare sempre che la rabbia ci può aiutare ad af-fermarci...se impariamo a conoscere i nostri bisogni...e che la rabbia

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può essere utile se la riconosciamo..e si trasforma diventando unmotore che ci spinge..ovviamente...imparare a governarla è cosa im-portante... . La rabbia è tanto più forte e duratura quanta è più bassala tua autostima...mi spiego: quando qualcosa mi procura rabbia...(e deve essere una motivazione davvero grave diversamente non lachiamo rabbia) in un primo momento mi sfogo a parole del tipo..:– ma guarda te che figlio...di buona donna ecc...ecc...poi penso benecon chi ho a che fare...se è una persona che ritengo intelligente(raro) affronto e ne parlo...ma dato che il più delle volte questa rab-bia scaturisce da comportamenti di individui che non ritengo intel-ligenti...allora mi meraviglio di me stessa per essermi arrabbiataahahahahaha...non sto scherzando!...non credo di essermi liberatadel tutto di lei. Spesso viene fuori sotto forma di intolleranza quasicattiveria. Quando la rivolgo agli altri (raramente ) viene fuori come un ciclonedevasta e chi l’ha vissuta non mi saluta più. Ma la gestisco solitamente però la sento e non capisco da dove ar-riva. So che la mia rabbia è cresciuta con me ha origini ancestraliverso mia madre intesa come figura di attaccamento non come per-sona. Spero un giorno di poter dire che non la sento più. Di positivo? Non so – nel mio caso nulla....la rabbia non serve a niente...fa solo del male a chi la possiede e achi gli sta vicino. Sono sincera, penso che un pò di rabbia verso ildestino io ce l’abbia ancora...spero un giorno di liberarmene defi-nitivamente... . Ho tanta rabbia dentro di me e la riverso tutta controme stessa e nel più totale silenzio ma mi sono stufata di non mani-festarla mai e di far vedere una calma apparente...sarà difficile maci devo provare... .

La rabbia. Un comune denominatore per chi soffre di DCA, magari tenutadentro per anni ed anni, forse spesso non riconosciuta e soprattutto non ammessae che devasta interiormente. Rabbia verso chi non vede, verso noi che non siamocome certi modelli ci impongono, rabbia verso chi amiamo e non riusciamo a

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cambiare. Questo sentimento assolutamente negativo, finchè non viene elaboratoe riconosciuto continua a creare incessanti sensi di colpa e così il sintomo diventasempre più radicato. Collegato alla rabbia viene la capacità di perdonare. Dif-ficile esperienza per tutti questa! Ma solo con il perdono, inteso come accettazionedel passato, si può pensare di poter costruire un futuro. Iniziando proprio dalperdonare noi stessi... .

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Amy

Cosa significa per me “Accoglienza”...far crollare le barriere difensiveche sempre accompagnano gli incontri; quelle barriere che, consa-pevolmente o meno, erigiamo per difenderci dal pericolo di essere“invasi” dall’altro... . accogliere significa lasciare che l’altro entrinella nostra testa, nel nostro cuore, significa provare a sentire quellasimilitudine che lega le vite di ciascuno perchè solo quando si è vi-cini a una persona le si può davvero tendere una mano... . Proprioper questo, però, credo che per accogliere chiunque, a maggior ra-gione una persona che soffre, si debba essere solidi, forti...altrimentisi rischia di essere travolti e di non poter, quindi, nemmeno aiutare.

Questo che mi ha scritto Amy fa riflettere molto su quello che a volte facciamo:spesso aiutiamo e ci dedichiamo agli altri, ma siamo sicuri che lo facciamo perchèci va di farlo e soprattutto perchè non ci aspettiamo nulla in cambio? Oppurepuò essere anche un modo per non dedicarci a noi, ai nostri problemi irrisolti?Finché siamo impegnati in altro tutto può stare lì, fermo, immobile...ed il cam-biamento necessario per rinnovare la nostra vita, che ci spaventa così tanto, puòaspettare... .

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Anneliese

La nostra triste storia, di Sabrina e mia, incominciò dopo la mortedi mio marito. un uomo buono, un buon padre, ma ammalato datanti anni: ne passa 17 dentro e fuori dagli ospedali.L’ultimo ricovero durò ben 5 mesi e poi fu la fine.Sabrina, penso che incominciò allora il suo percorso verso la morte.Lei indossò la sua corazza di brava ragazza, buona, sempre sorri-dente e molto affettuosa; io indossai la mia, quella di persona ar-rabbiata verso il mondo, verso tutti, ma specialmente verso mestessa. Vivevamo molto tempo insieme,era lei che si prendeva curadi me, mi trascinava a ballare, a fare compere e la nostra vita inco-minciò ad essere vita.Così pensavo, ma dentro di lei stava covando un malessere così na-scosto che neppure il mio amore nei suoi confronti, mi rese consa-pevole di ciò che stava accadendo.Lei incominciò a prendere lassativi (di nascosto) e a fare corse este-nuanti: convinceva anche me a seguirla, dicendomi che mi facevabene fare movimento... .gli anni passarono, Sabrina decide di andare a vivere con il suo ra-gazzo, ha il suo lavoro e sembra che tutto vada bene, ma purtroppodopo un po’ di tempo mi accorgo che dimagriva a vista d’occhio.La costringo a farsi ricoverare: medicina, comunità, psichiatria: ladiagnosi: anoressia nervosa in bordeline.Questi posti diventano col tempo la nostra casa, 10 anni di andiri-vieni fra ospedali comunità e casa. Io sempre più arrabbiata, perchèsuccedeva tutto questo alla mia adorata figlia? Non mi rendevoconto che la mia rabbia non aiutava lei, anzi ne soffriva ancora dipiù ed io peggioravo le cose La mia convinzione era che io madreavevo il compito di cercare le comunità migliori...i medici migliori...enon capivo che avrei dovuto incominciare a cambiare ME STESSa.Lei aveva bisogno di amore non di una mamma arrabbiata, iol’amavo più di me stessa (lei lo sapeva), ma non riuscivo a manife-

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starglielo perchè la rabbia aveva la meglio. andavo a trovarla nellevarie comunità, ospedali e quant’altro. Non vedevo l’ora di vederla,ma quando ero là non vedevo l’ora di scappare. Era troppa la sof-ferenza, non ce la facevo...cercavo di abbracciarla ma non ce la fa-cevo: Dio mio era un mucchio d’ossa. Mi sentivo disperatamentesola, sola con un problema più grande di me. arrivò purtroppo il10 agosto 2006. al mattino mi ero recata da lei per portarle alcunecose che mi aveva chiesto. Mi sedetti sul letto con lei mentre il dot-tore mi spiegava che se continuava così non sarebbe arrivata allafine del mese.Scoppiai a piangere e per un istante abbandonai la mia corazza.Lei con molta calma mi disse: non piangere mamma, io sono stancae non ho voglia di vivere: tu vai avanti anche per me, tu sei forte...Ecco io sono FOrTE, questo era quello che io avevo trasmesso alei, maledetta forza!La sera dello stesso giorno, verso le 19, mi chiamarono: venga giù,Sabrina è volata via assieme agli angeli... . La trovai sul letto, aveva i suoi begli occhi azzurri aperti: aveva unosguardo dolcissimo e sereno.Dopo averla accarezzata a lungo le sussurai in un orecchio: addiotesoro mio, ti prometto che andrò avanti in nome tuo, lavorerò fin-chè ne avrò la forza, però tu da lassù dovrai darmi una mano.Dopo un brutto periodo, dove la rabbia e i sensi di colpa erano mieicompagni di vita, mi ricordai della promessa fatta a mia figlia e mimisi all’opera. Faccio parte di un’associazione di genitori che met-tono a disposizione il loro tempo, genitori che hanno avuto a chefare con la BESTIa. In ogni ragazza che incontro vedo Sabrina,nei genitori angosciati vedo me stessa. Sabrina se ne è andata, miha lasciata sola, ma mi ha regalata in eredità tante cose belle e po-sitive. Ho imparato da lei ad abbracciare, ho abbandonato la miacorazza di donna forte, ho preso coscienza degli errori commessi.Ora sono una persona che riesce ad essere “umana” con le sue de-bolezze e i suoi limiti.

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Lo devo a lei tutto questo, grazie Sabrina, io ti ho dato la vita e tuhai fatto di me una persona migliore. Veglia da lassù la tua mammache ne ha tanto bisogno e tutte le BIMBE che stanno soffrendocome hai sofferto tu!

Ciao tesoroun giorno ci ritroveremo

MAMMA

Trasformare un dolore terribile come quello della perdita di una figlia in unqualcosa che ci può diventare ricchezza per gli altri e pace per noi. La madredi questa testimonianza ora si dedica alle ragazze che soffrono della patologiadi cui è morta sua figlia ed è fonte di energ energia per moltissimi genitori.

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Baby

Insonnia, pillole, ipersonno, vuoto interiore, sensi di colpa, terapia,pasti sfasati, Vuoto, paura di uscire da sola, poche uscite rare e de-liziose. Poi di nuovo il baratro nella notte: l’insonnia, sempre piùpillole, ossessioni, pensieri più che oscuri, lacrime e singhiozzi, de-sideri che sembrano impossibili, cibo, non cibo, frustrazione, vuoto,paura, crollo, giornate buttate via nel sonno. E il progetto del viag-gio in Israele che avrò fra 3 settimane, lungo 2 settimane (meravi-glioso perchè con la comunità in cui sono stata per 1 anno e mezzo,con ragazze a cui sono legata e a cui voglio bene pur non vedendoleda settembre e le operatrici, alcune che adoravo, nonchè la miapsico, la stessa che mi ha continuato a seguire finora) per cui nonmi sto impegnando per niente, intendo come volontà concreta neifatti di leggere gli opuscoli, la guida. Pur essendo un viaggio intenso,che richiede la mia totale cura PEr ME: nella giusta ed equilibrataalimentazione e nel ritmo sonno sveglia. Ma poi sono sola, quasisempre. E mi ritrovo con tutte le parole e i pensieri cui sopra. E iovorrei solo uccidere quella parte, e tenere e ritrovare la Baby bril-lante, intelligente, spensierata, che aveva iniziato a volersi bene, cheama viaggiare, fare shopping, ballare... . Ma...dov’è? ti adatti al peg-gio perchè non vedi via d’uscita...perchè quello diventa l’unicomodo per sfogarsi, per rifugiarsi, per sopravvivere.. perchè non rie-sci a trovare altro modo per affrontare la vita, le situazioni, il pas-sato...perchè quello è l’unico modo che ti permette di soffocaretutto e di non farti domande...perchè nel momento in cui inizi achiederti, a farti domande, inizia il percorso, inizia il difficile...inizia vedere quello che ti fa paura vedere..quello che ti fa paura ammet-tere..quello che ti fa paura affrontare...ammetterlo è difficile..e capitache anche se inizi la terapia a volte lasci perchè farsi certe domandefa ancora più male, più male del sintomo, più male di tutto.. e allorati ci aggrappi di più e sembra che non finirà mai e che quello chestai facendo è tutto inutile e non finirà...ma è in quei momenti che

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bisogna continuare a combattere...a lottare contro la nostra testache vuole offuscare quei pensieri...a fare quel lavoro terapeutico chepoi ti aiuta a trovare il modo...perchè un altro modo c’è...ammetterei nostri limiti, le nostre paure, i nostri malesseri e le nostre fragilità,è difficile...ma quando poi inizi a comprendere che sono parte dinoi e che tutti ce l’abbiamo e che dobbiamo solo accettarle perquelle che sono, le cose iniziano a cambiare...la visione inizia a cam-biare.. i modi iniziano ad esser sostituiti da altri migliori... “c’è sem-pre un modo...per fare l’impossibile, per sopportare l’intollerabile...c’èun modo” never give up ♥!

La lunga estenuante lotta tra razionalità e quello che il disagio interiore, ilmale dell’anima fa sentire...la testa fa dire che è sbagliato ricorrere al sintomo,che non serve, che anzi peggiorerà tutto e renderà tutto più confuso e lontano...mala parte irrazionale, quella “malata” vuol prendere il sopravvento. Ed alloraecco che spesso si abbandona la terapia a metà...proprio mentre si dovrebbe com-battere con tutti noi stessi, proprio quando c'è quella fitta che brucia, che entracome una lama di un coltello affilato...allora, sì allora bisogna avere la forza diresistere ed andare avanti...fino in fondo. Fino quando non si arriva a riprenderefiato, a respirare normale...a guardare intorno a noi con uno sguardo finalmentenuovo e libero.“Si guarisce? Ma si guarisce davvero?”Quante volte questa domanda da chi sta lottando...! Sì, si guarisce davvero.Ma quando? Non si guarisce quando si abbandona il sintomo, no...troppofacile. Si guarisce quando si cambiano i pensieri...quando si ha un atteggiamentodiverso verso la vita.Una ragazza mi disse riferendosi a chi aveva accanto “Loro pensano che io siaguarita perchè ho ripreso un peso normale, ma io nella testa sono sempre uguale,sono sempre anoressica come prima...niente è cambiato per me, ho sempre pauracome prima... .”

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Barbara

“Dovevo essere bravissima in tutto, dovevo dimostrare di essere forte,non dovevo dimostrare le mie fragilità, le mie emozioni, dovevo ri-spettare un ideale di perfezione inesistente, dovevo primeggiare peraffermarmi. Dovevo insomma. Dovevo, dovevo e dovevo. Con i tanti“dovevo” che avevo percepito imposti da varie dinamiche familiari,sentivo che loro si aspettavano questo da me, che tutto il mondo vo-leva questo, ebbene a quel punto non c’era più spazio proprio per lapersona più importante e cioè “IO”. Ci ho messo un infinità di tempoad ammettere che c’era qualcosa che non andava proprio perchè incasa mia non era ammessa la fragilità. all’esterno noi dovevamo esserla famiglia perfetta, dove non c’era mai un problema, dove non si po-teva parlar di problemi con il prossimo. Doveva andare sempre tuttobene e se qualcosa non lo andava io avevo appreso da loro come sof-focarla, come non mostrarla mai. Cosa avrebbe detto il mondo se iomi fossi mostrata fragile? Se questa cosa non veniva mostrata e accet-tata in famiglia come poteva il mondo esterno capirla? Invece ora soche non è così. Che il mondo esterno capisce. E nonostante facciauna gran fatica a volte a mostrarla questa fragilità, e alcune barrieresono ancora su, ora ci riesco. E per quanto sia difficile la vita è moltomeglio ora di prima!

La perfezione: uno degli obiettivi ovviamente irraggiungibili di tutte le persone checadono in un disturbo alimentare. Bravissime a scuola, ogni traguardo deve essereraggiunto al massimo livello altrimenti si sentono fallite ed inadeguate. Questo pen-siero regna sovrano in ogni azione che compiono e anche il loro corpo deve esseremodellato perchè o si arriva a certe misure, a un certo peso oppure si è sbagliati....

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Betty

Quando stai male dici di voler guarire. Tutti ti ripetono che i DCasono problemi della mente non del cibo e allora ti domandi perchénon posso(no) guarirmi la testa solamente, cosa c’entra il dovermi nu-trire il dover magari tornare ad un peso normale (nel mio caso, parloda ex anoressica)? Perché inutile raccontarcela all’inzio della terapia ilnostro pensiero è ancora lì, incentrato sul sintomo e la cosa che ci fapiù paura è perderlo questo sintomo, perdere il controllo su quelloche mangiamo, vomitiamo o sui kg che portiamo addosso. Purtropponon ci può essere guarigione dai DCa che prescinda dal corpo, dob-biamo accettare di avere un corpo e imparare a volergli bene, fa partedel percorso. Senza il corpo non ci sarebbe nemmeno la testa, noivorremmo non esistesse ma non è così per fortuna (questa fortuna lapotremo capire solo poi) esiste e dobbiamo imparare a prendercenecura.

PS: Quando starete bene poi, credetemi, riscoprire il proprio corpo,imparare ad ascoltare le sensazioni che ci trasmette è una cosa davverobella! un abbraccio a tutte/i.

L’ossessione del corpo e del peso è la cosa più difficile da combattere, la paura delcambiamento nel momento in cui la terapia inizia a farti ragionare e prova a scar-dinare certi meccanismi ormai diventati la vita quotidiana. Come si può viveresenza il sintomo? Questo fa paura, rinunciare alla malattia che è stata un rifugio,una corazza e l’unico modo per non sentire né vedere nulla fa paura... .Ecco perchè è indispensabile ricorrere all’aiuto di esperti, da soli mai si può riusciread eliminare tutto questo dopo averne fatto il motivo di vita, dopo aver fatto sì chela nostra realtà fosse diventata quella. Senza qualcuno che ci aiuti a cambiareottica e prospettiva non si esce da questo circuito malato... .

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Carla

Maria grazia carissima...stasera è una serata davvero difficile, anzi,tutto questo periodo è devastante. Io sto cercando di tranquillizzarmicon le goccette ma mi prende un tale sconforto che non so dove sbat-tere la testa, ho paura...la vedo sempre più minuta e incavolata colmondo. Oggi è rientrata dal week con il papà: scontrosa tutta la seracon me, con i nonni che erano a cena tutta carina... . Come se miodiasse; mi si strizza il cuore non so da che parte voltarmi. Domaniinizio la terapia dalla psichiatra che dovrebbe seguirmi... . Lo psichiatrache segue mia figlia dice che motivazioni traumatiche non ce ne sono,è più un insieme di fattori scatenanti, il fatto di cercare di non scon-tentare nessuno di far finta che le cose vadano bene eliminando allaradice i problemi, rispondendo per lo più quello che gli altri si aspet-tano che lei risponda, quindi sacrificando sempre e comunque il suo volere, il suo stesso piacere. un rapporto con me troppo forte, forseper lei troppo soffocante, lei continua a dirmi che è tutto troppo, maio non capisco cosa mi vuole dire, io non capisco dove sbaglio. Mi pare di fare come sempre la mamma...è vero io per lei ci sono sem-pre, qualsiasi cosa detta è quasi subito fatta, ma dove sbaglio? cosadevo fare? fregarmene? cosa devo fare andare a vivere lontano da lei,lasciarle la casa e tornare dai miei, farla andare dal papà per qualchetempo? non so, sono disperata stasera...e lei mi ha in pugno. Sa chemi ha lacerata e sembra quasi ne abbia provato piacere...Maria grazianon so più che pensare? Vorrei sparire, forse le cose si appianereb-bero...perchè ce l’ha con me così tanto?Mah...con il cuore spezzato ti ringrazio per aver letto la mia dispera-zione. Sapere che qualcuno come me ha vissuto questo calvario e mipuò capire mi fa sentire meno sola... .

grazie, ciao.

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Il genitore spesso accusato, a volte compatito, di solito lasciato solo, è disarmato daun comportamento che lo vuole escludere e allo stesso tempo incatenare evocandol’angoscia della perdita e della colpa. Le parole non funzionano, le\i figlie\i sonoirriconoscibili; ogni intervento viene frainteso e mal interpretato in una guerra chenon ha mai vincitori. È ormai dimostrato che le posizioni e le parole scelte per co-municare all’interno della relazione con il\la figlio\a sofferente, possono essere de-cisive per creare le condizioni del cambiamento. Ma quali sono le parole e gli atteggiamenti giusti? Anche il genitore deve essere so-stenuto, accompagnato in questo cammino insieme al figlio per non rischiare diessere travolto da questa patologia così devastante ed infestante... .

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Daniela

Salve sono una mamma di una ragazza oggi 21 enne portatrice del di-sturbo alimentare. all’interno della nostra famiglia io mamma, sonosempre stata il punto di riferimento di mia figlia, con la quale ho sem-pre avuto un bel rapporto. Mia figlia sapeva che su me poteva contaresempre, soprattutto sulla sincerità anche quando la sincerità potevaferirla, ogni qualvolta mi chiedesse un consiglio o un parere. Non homai pensato di darle le risposte che potessero farla soffrire meno, maho sempre trovato doveroso darle le risposte di verità ogni qualvoltami chiedesse un consiglio. Il papà di mia figlia, non ha mai svolto ilruolo di genitore-padre, ma un ruolo di amicone. L’incontro deter-minante che modificò radicalmente mia figlia avvenne a 17 anniquando conobbe un’amica 21 enne che portava un grave disturbo ali-mentare ed entrò in confidenza con la madre di quest’ultima che avevavisto in mia figlia ragazza solare serena e tranquilla. Mi accorgo tem-pestivamente che mia figlia comincia a diventare triste, a non andarepiù a scuola (nel frattempo l’amica aveva abbandonato l’università), anon sedersi più a tavola con noi e a chiudersi spesso in bagno dopoessere stata al telefono ore con l’amica conversando su problematichelegate al corpo. Solo uno stupido non poteva capire che stesse succe-dendo a mia figlia che nel tentativo di salvare l’amica stava entrandonel tunnel di questi disturbi. Con mio marito iniziano scontri moltoforti. Mia figlia dall’esperienza di questa amicizia ne esce distrutta enel pieno sintomo del disturbo. Inizia un percorso in una strutturadella mia città che interrompe sul nascere, come spesso fanno questeragazze, mi adopero per trovare psicologi e psicoterapeuti, ma la ra-gazza non intraprende nulla, abbandonando l’università dopo pochimesi dall’iscrizione e dove anche qui si era morbosamente avvicinataa una ragazza che aveva il suo stesso disturbo. Qualsiasi percorso in-traprende lo interrompe trovando mille scuse e intanto continua lafrequentazione di amicizie e ambienti malsani con la piena approva-zione del padre che diventa anche frequentatore delle sue amicizie.

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Mi accorgo anche che mia figlia si procura dei tagli agli arti e persinoin viso, e questa è il suo modo di dirmi che non vuole affrontare piùgli studi. allora aveva 19 anni e in questo stato di prostrazione psico-logica profonda, abbandono di studi e vita insulsa conosce un ragazzoche intuisco avere gli stessi disturbi di mia figlia. Iniziano forti scontriin famiglia e soprattutto con mio marito che continua a minimizzaquesto stile di vita di nostra figlia. Dopo l’ennesimo mio rifiuto ad ac-cettare quel ragazzo in casa mia va a vivere in casa del suo ragazzo.Mia figlia interrompe i rapporti con chiunque ostacoli la sua relazionee la sua condotta di vita, con atteggiamenti di collera anche verso amicidi famiglia che cercano di farla ragionare. Oggi è in completo sintomo,si circonda di persone negative e attua comportamenti cattivi insiemeal ragazzo. È importante capire cosa siano questi disturbi e come ilcibo sia una droga e che la dipendenza è ancora più grave che per ladroga perchè il cibo è reperibile ovunque e legale. Seppur momentidi dolore mi hanno accompagnata in questo cammino, mai mi sonoabbattuta e mai mi sono rassegnata, ho continuato la mia vita lavora-tiva, ho coltivato le mie amicizie e i miei hobby, per natura sono sem-pre stata costruttiva e ancora di più lo sono stata nei momenti difficilidella mia vita. L’uomo non è nato per farsi del male ma per sconfig-gere il male e questa ora è la mia missione di mamma e di donna.

Un’altra testimonianza di una mamma che si accorge del problema della figlia,che non chiude gli occhi, ma che davanti alla non collaborazione della figlia puòfare ben poco. Questo dimostra che nessuno può salvare nessuno se non c’è dispo-nibilità e convinzione a guarire... . A volte si portano le ragazze contro la loro vo-lontà a farsi curare, generalmente non si risolve nulla perchè i pensieri rimarrannoquelli, non esiste volontà del cambiamento e quindi anche la terapia può ben poco.Certo è importante il bravo e sensibile terapeuta, ma davanti al muro della patologianulla può servire. Bisogna individuare la crepa che esiste in quel muro e lavorarelì...piano piano...come la goccia che consuma la pietra... .

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Daria

Il mio ragazzo dice che io lo amo troppo...che lui mi ama ma non mo-rirebbe per me...che mi ama un po’ e che ha bisogno di tempo (stiamoinsieme da 7 mesi)...io mi chiedo: é possibile amare a metà? Per comesono fatta io no. Sarò anche eccessiva ma quando amo lo faccio contutto il mio cuore anche se stento a dimostrarlo. adesso mi sento incolpa anche per i sentimenti che provo nei suoi confronti, mi sonochiusa a riccio e non so come comportarmi...per una volta che eroriuscita ad esternare la mia “fragilità” piangendo e dicendogli quantomi manca visto che siamo lontani...perchè non riesco mai a compor-tarmi nella maniera corretta e alla fine non faccio altro che allontanaretutti?

Il disturbo alimentare comporta molte sfaccettature che condizionano la nostra vita.Ovvio che quello più “visibile” è il rapporto con il cibo, ma una delle costole delDCA è la dipendenza affettiva. Si cerca sempre una stampella cui appoggiarsi,qualcuno da amare ma in maniera soffocante, o tutto o niente. Ci si convince chela nostra vita dipenda da quell’amore e ogni minima defaillance viene vissuta comeun abbandono. Difficile che chi soffre di questa patologia riesca a portare avantiun rapporto di coppia. Prima bisogna saper camminare da soli e poi pensare dicostruire qualcosa con l’altro e questo per chi è dentro il sintomo non viene accettato....

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Donatella

Scusate se occupo questo spazio...sentivo il bisogno di “parlare conmia madre..ma posso farlo solo qui...e sul mio diario...ma il mio diarionon mi da risposte non mi offre punti di vista diversi dai miei...”Quando sono nata, mi hai sempre detto, non mi hai vista per diversigiorni, non hai potuto tenermi in braccio fin dal primomomento...perchè il cesareo era stato complicato...io non volevo sa-perne di uscire...così per la prima settimana sono passata dalle manidi un’infermiera ad un’altra...dalle braccia di un medico ad un altro...ilmio primo imprinting non è stato con te. Ho passato gran parte dellamia vita a pensare che se tra me e te non c’era un bel rapporto, eradovuto al fatto che fin da subito eravamo state divise. Ma tu mi haianche sempre detto che non ero stata cercata...che ero stata un inci-dente di percorso, e che ero arrivata in un momento inopportuno. Hoimparato presto a sentirmi di troppo ,e tu non hai mai fatto nienteper dimostrarmi il contrario, anzi, i tuoi atteggiamenti hanno sempreconfermato le mie sensazioni. Non abbiamo mai passato del tempoinsieme, non c’eri mai. Lasciavi che ad occuparsi di me ci fosse lanonna, il mio grande amore, che però ai miei 6 anni si è ammalata dialzhaimer e sono stata io a dovermi occupare di lei. E del mio fratel-lino. I pochi ricordi che ho della famiglia unita,sono quelli in cui papàaveva crisi di nervi e quello che succedeva lo sai, non sto a raccontarloperchè neppure mi va di ricordarlo. Ho solo un paio di ricordi bellicon lui che stava bene. Meglio di niente. Mio fratello ti piaceva di più,lo abbracciavi, ridevi con lui...io non ho mai capito fino in fondo checosa ti avessi fatto di male. Eppure ti volevo così tanto. Penso che seoggi non riesco a versare più una lacrima, sia perchè le ho consumatetutte per te da piccola...perchè io ti cercavo continuamente, ma tu nonc’eri mai. ricordo che a volte ero così tanto arrabbiata con te che spe-ravo tu non tornassi più...poi quando l’orologio segnava le 22 e tu noneri ancora tornata, mi sentivo morire e iniziavo a piangere e vomitareperchè credevo di averti uccisa davvero col pensiero...ricordo anche

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che quando capitava che fossi tu a portarmi a scuola,io mi aggrappavoalle tue gambe e ai tuoi capelli e, disperata, ti imploravo di portarmicon te...sentivo che tu mi odiavi, ma non riuscivo a trovare un per-chè...cercavo di essere sempre buona,sempre bella, sempre PEr-FETTa. Ma non bastava mai. C’era sempre qualcosa in me che nonti andava...nella mia mente di bambina cavalcavano mille mostri...cre-devo di esser brutta, di esser cattiva, di essere stupida...ma fuori tuttimi dicevano quanto fossi brava,quanto fossi bella e quanto fossi in-telligente...allora perchè la mia mamma non mi vuole, mi dicevo?...Intanto il mostro si era già impossessato di me...Mi succedevano coseterribili, ma tu non c’eri mai a difendermi...mai. Così crescendo hoiniziato ad odiarti...e sono diventata cattiva con te,non ti volevo più,di-cevo che non eri la mia mamma...e cercavo una mamma che si pren-desse cura di me...e che avevo trovato nella mia maestra. È qui che tuhai iniziato visibilmente ad odiarmi...ed è così che io ho iniziato visi-bilmente a sparire...ma che stavo male se ne accorgevano tutti,eccettotu... . È iniziato presto il mio sbando,di cose brutte ne ho passatetante...e spesso ho creduto di non farcela..perchè ero sola. una voltapiangendo ho implorato aiuto a te e a papà...ma il vostro aiuto è statoquello di mettermi a tavola ed obbligarmi a mangiare tutto ciò cheavevi messo sul tavolo...e se mi fermavo, se piangevo, o se supplicavodi farmi alzare erano cintolate... .a crescere, bene o male, ce l’ho fattalo stesso...certo, sempre con la sensazione di non farcela mai, di esseresull’orlo di un precipizio...sempre con la sensazione di dover togliereil disturbo. E ci ho pure provato. In diversi modi...ma non sono maiarrivata fino in fondo...Sono andata presto via di casa,questo si...hovissuto un po’ qui, un po’ la...e non ho mai ricevuto una tua telefo-nata,nonostante fossi ancora minorenne...mai un “come stai?”... .Ho vissuto come un automa per anni...allo sbando per anni...fino algiorno in cui sembrava esser finalmente arrivato il sole anche nellamia vita:ero incinta. Mi sentivo felice. Non mi importava se erosola,egoisticamente non mi importava neppure che quella creaturanon avrebbe avuto un padre...mi dicevo che l’avrei amata così tanto

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da ricoprire entrambi i ruoli...ero ancora piccola...ed ero felice, cosìmi sentivo “onnipotente” perchè non avevo mai provato una gioiacosì grande...fantasticavo, sognavo...immaginavo me e la mia bam-bina...non la conoscevo ancora eppure l’amavo così tanto...non la co-noscevo ancora eppure era già tutta la mia vita...ma quella gioia èdurata troppo poco...il cielo se l’è ripresa troppo presto, ancora primadi farmela abbracciare e di farmi vedere il suo volto...e il dolore,MaMMa, è stato così tanto che io ho creduto di morire. Io volevomorire...insieme a lei...io ho provato un amore talmente grande perlei, senza neppure averla mai tenuta tra le braccia...che ho iniziato an-cora di più a chiedermi come facevi a non avermi mai amata tu. anche lì, ero sola. Nessuno con cui condividere il mio dolore. Emo-zioni e dolore ingoiato a forza, e mai digerito... . Oggi sono unadonna...anche se certi aspetti di me non sono cambiati coltempo...oggi ti osservo da donna...e sono riuscita a provare tenerezzae pena per te in questi ultimi anni...ero riuscita ad accettarti, a rasse-gnarmi... . Fino ad oggi, quando ho scoperto quella cosa io non ci hovisto più...e l’odio sopito che avevo messo da parte...è uscito di nuovoprepotente...non so come tu abbia potuto fare una cosa del genere,non so come faccia a non importarti così niente di me...non hai pauradi perdermi tu... .Non saprei descriverti quello che ho dentro, perchè sono molto lontanadalle mie emozioni...spesso non so riconoscerle,spesso le confondo,spesso le nascondo...e talvolta, come oggi, ne vengo invasa...così se mitenevo tutto dentro so che sarei scoppiata definitivamente...non scrivoqueste cose perchè voglio farti passar male...non è mio intento ferirti...èsolo uno sfogo, il MIO, una volta ogni tanto...concedilo anche a me...Vorrei che qui dentro finisse tutto il mio dolore...vorrei non averne piùdentro di me,vorrei ricominciare da subito...ma so per certo che nonsarà così...però avevo bisogno di parlarti...e di dirti che, anche se tu miodi, per me non è così. Certo, c’è tanta rabbia..e ci sono tante cose chenon capirò mai...non capirò mai perchè non mi hai voluta...non capiròmai che cosa io non sia riuscita a fare per renderti felice... .

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Quando ti osservo oggi, le pochissime volte in cui ti vedo, provo sen-timenti contrastanti...vorrei odiarti con tutta me stessa mamma...manon ci riesco...e so che continuerò ancora ad aspettare un tuo sorriso,un tuo abbraccio, una tua carezza, un tuo “brava!”...e se non arrive-ranno mai,spero che il Cielo mi conceda presto il dono di avere un fi-glio, senza portarmelo via, di crescerlo con amore...e di dare e dire alei/lui tutto quello che avrei voluto avere da te...se invece questo nonsta nei progetti del buon Dio per me, spero che mi dia almeno la forzadi perdonarti...e di accettarti per quello che sei...e di accettarmi perquella che sono...senza sentire più questo vuoto opprimente, questamancanza di affetto che mi divora...spero mi dia la forza di credereche io saprò essere diversa da te, da voi...che saprò dimenticare...anchetutti i mostri dai quali non hai saputo, o voluto, proteggermi...IO, tivoglio bene comunque...MaMMa.

Vuoto incolmabile...ricerca continua di quello che potrebbe saziare la fame che nonpassa mai. Una fame che si crede di poter far tacere con il cibo , ma che invece di-venta sempre più grande e straziante... . Ricerca continua di vedere un cambiamentoin coloro che amiamo (...so che continuerò ad aspettare un tuo sorriso...), incapacitàa comprendere che solo staccandoci da tutto questo ci può essere la possibilità diuna vita libera da quel dolore, che solo lasciando il passato lì dove è si può cam-minare avanti... .

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Ele

Sono arrabbiata, stanca, sfinita... non ce la faccio...provo ad essere po-sitiva, a cercare il buono, a gioire delle piccole cose e poi? nulla...bastaun nulla e la bolla esplode...penso agli esami, mi dico “ora studio, fac-cio le cose come si deve” e poi non muovo un muscolo, me ne stoferma a non far nulla...passo gli esami e il voto non è mai abbastanza...perché devo mantenere una certa media, perché non posso deluderele aspettative di nessuno...cerco di non farmi problemi col cibo e conla bilancia e poi all’improvviso non ce la faccio più a sopportare uncorpo che torna ad un peso “normale”...vedo le analisi del sangueperfette e mi arrabbio con questo corpo stupido che, indipendente-mente da come mi sento, sta sempre alla grande...e meglio sta lui, peg-gio sto io perché significa che nemmeno io stessa sono in grado direndere visibile in qualche modo questo dolore schifoso che mi portodentro...non ce la faccio più...ho smesso di sognare, ho smesso di de-siderare...non voglio più studiare, non voglio laurearmi, non voglioun lavoro, non voglio uno stramaledetto futuro, non voglio unavita...l’unico desiderio che avevo era quello di avere una famiglia, ungiorno, ma che madre potrei mai essere e in che razza di mondo met-terei un bambino? nulla ha più un senso...sento che sto scivolando inun baratro e che non voglio venirne fuori...sono esausta.

Il corpo usato come mezzo di richiamo, per far capire agli altri quanto dolore c’èdentro. Non si accetta di star bene, di avere un corpo che funziona normalmenteperchè così gli altri non vedono che stiamo male...questi i ragionamenti “malati”di chi è dentro un disturbo alimentare. “Se non sono visibile così con questo corpoche dimostra un malessere, se guarisco nessuno mi vedrà più”... .

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Francesca

Ciò che credevi di essere, quella che credevi essere la tua identità, altronon era che un abito di gesso e cemento...una prigione costruita sumisura per il tuo gracile corpo; un sostegno che gli impediva di cor-rompersi a contatto col mondo e che, al contempo, lo condannava aduna lenta e progressiva atrofia... . Quanto dolgono ora i muscoli, pri-vati del loro alveo incancrenito e fossilizzato...quanto sembrano rim-piangere quella snaturante e soffocante calcificazione...muovere unsolo passo ti appare ora faticoso e frustrante...nudo di fronte a unmondo erto ed impervio; non conosci il tuo nome, non riconoscerestipiù il tuo volto se incontrassi sul tuo cammino uno specchio...chi sei?Dove vai? Cos’è che cerchi? Non hai risposte...senti però un tremitonuovo all’interno della carcassa del tuo torace, un tremito che si mo-dula a suo piacimento a seconda della fatica, del riposo...a seconda diqualcosa che sembrerebbe chiamarsi “emozione”... . È questo tuttociò che sai di te, è questo ciò che sarai da oggi in poi: un cuore chepulsa...e che in un idioma a te ancora ignoto saprà suggerirti una rotta,ma mai una meta.

Michela

...io scrivevo pagine convulse prima di farlo e dopo averlo fatto, ancheio ero cosciente ed ero anche ossessionata direi da un rituale che èvero mi sfiniva ma mi permetteva anche poi di respirare un pò diquiete, di pace...e che non riuscivo diversamente a trovare...è una cosastranissima: ci stai male ma non puoi farne a meno, o così ti sembrain quei momenti lì...io ero terrorizzata addirittura dal mio analizzarminel mio diario in una maniera fredda e razionale, parlavo di me comese stessi parlando di qualcun altro eppure ero sempre io...però...è unmodo anche per fuggire da un disagio che avverti dentro e che io nonvolevo ascoltare, è più facile aggrapparsi a ciò che conosci già, anchese ti fa stare male che iniziare a vedere le cose diversamente, a viverle

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diversamente...fino a quando, davvero stanca, forse anche più stancae sfinita del solito, mi son detta che avevo davvero toccato il fondo eche se usavo tutte le energie per farmi tanto male, perchè non dovevoesserne capace per iniziare a volermi bene? Beh, con l’ultimo spiragliodi luce e di forza che avevo dentro ho detto “NO”, perchè fuggire,perchè annullarmi? Ho detto al mio male “io da qui non mi schiodo!”L’ho affrontato a piccoli passi, cadendo a volte, ma tenendo presentesempre in testa cosa volevo da me! Prendendo uno scivolone perquello che è, non come prima che vedevo bianco o nero...così unoscivolone non era la distruzione di tutto il mio percorso, ero solo in-ciampata...la malattia ti fa vedere tutto brutto, ma se fuori c’è una gior-nata di sole, tante giornate di sole, una vita serena...perchè rinunciarvi?

La bellezza e la gioia nel leggere una rinascita...

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Francesca S.

Ho parlato spesso di come stavo io nel periodo in cui la bulimia avevail sopravvento, ma ultimamente mi sono fermata a riflettere, trovan-domi in una “posizione” diversa, in merito a cosa prova chi vive ac-canto a chi soffre di disordini alimentari. Se penso alla persona cheero, mi visualizzo come un tornado che passa e fa crollare le persone.Questa è l’immagine che ho di me allora. Mi lamentavo spesso (mi la-mentavo tanto!) di non essere compresa, ma ero io la prima a non ca-pire che anche i miei amici, i miei genitori o parenti, avevano altriproblemi (non ruotava tutto attorno a me!) e soprattutto non avevanoi mezzi per aiutarmi. E se li avevano non davo possibilità, comunque,mai. Ora che spesso sono io a tendere una mano a chi sta male, capi-sco quanta dannata fatica si faccia per aprire anche un solo, minimo,impercettibile spiraglio di luce, quando tutto è malattia e dolore.TuTTI i disturbi ossessivo compulsivi rinchiudono chi ne soffre inuna campana di vetro in cui non si sentono i rumori che provengonoda fuori, in cui rimbalzano, sì, il dolore e la rabbia, ma anche l’amore,la gioia, la vita...ogni emozione resta all’esterno...e gli altri diventanospettatori di un massacro. Io ho coinvolto e travolto tanti attimi divita...divelto speranze, arginato passioni. Spento sentimenti. È vero,ho trovato anche ignoranza e insensibilità, ma le persone a cui tenevodavvero, si sono trovate disarmate mentre io tenevo bombe a manoin ogni tasca del mio ego dolorante, pronta a difendermi. un’imma-gine evocativa ma significativa della mia vita è della mia gatta più an-ziana, Pimpi. Quando io ho smesso di abbuffarmi e vomitare, hasmesso di rigettare anche lei. È cresciuta con me, nella mia solitudine,quasi in simbiosi. Vomitava spessissimo. Se un gatto, un animale, harisentito così tanto dei miei comportamenti da malata...quanto pos-sono aver sofferto le persone intorno a me? Questo non è un “meaculpa”, non ho cercato la malattia. Nessuno di voi l’ha fatto. Peròvuole essere un modo per far capire a chi ci vive ancora dentro, chela malattia è talmente vorace da nutrirsi anche degli altri oltre che divoi.

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Nessuno ha scelto di ammalarsi, ma possiamo, SEMPrE, sceglieredi lasciarci aiutare...e guarire.

“La malattia è talmente vorace da nutrirsi anche degli altri”: proprio così... . Èestremamente difficile stare accanto a chi soffre di questa patologia. Troppo spessoviene sottovalutata la forza distruttiva del DCA e famiglie intere soccombono: ma-trimoni che finiscono, madri e padri che non sanno più a chi rivolgersi. Una cosache dico sempre alle mamme con cui parlo è di farsi aiutare anche loro, di trovareil modo di ritagliarsi degli spazi per poter ricaricarsi e poi continuare a lottare. Quando si passa nel tunnel del disturbo alimentare alla fine se ne viene fuori semprediversi da come eravamo prima. Per chi, come me e la mia famiglia, se ne esce vit-toriosi posso dire che il cambiamento è sano e positivo, perchè le dinamiche cheprima potevano essere inconsapevolmente negative adesso essendo state riconosciutenon esistono più. Per chi non riesce a vincere la malattia perchè non riesce a seguireuna giusta terapia con determinazione e costanza il cambiamento è nel vivere inun incubo ogni giorno che la vita propone... .

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Giovanna

Mi chiamo giovanna. Sarebbe impossibile indicare un momento spe-cifico in cui ho iniziato a stare male. Sono nata in un periodo difficileper la mia famiglia e fin da piccola sentivo che c’era qualcosa nel climaattorno a me che non andava bene, perciò, comprendo oggi a poste-riori, che senza rendermene conto mi prefissai l’obiettivo di cercaredi dare meno disturbo possibile, o meglio che sarei dovuta riuscire arendere io felice la mia famiglia. Mi sentivo come in debito nei con-fronti dei miei genitori; volevo che fossero orgogliosi di me,special-mente mio padre che avevo molto idealizzato. Da che ricordo mi sonosempre sentita sola, di troppo e inopportuna in ogni situazione. allaluce della consapevolezza raggiunta oggi, ricordo la mia vita comeuna progressione di dipendenze. La prima, senza dubbio più grande,da mia madre, ci vedeva legate reciprocamente in modo simbiotico,solo con lei mi sentivo al sicuro, protetta dal mondo. Quando lei eraassente o si allontanava avevo delle forti crisi isteriche di pianto; conle mie scenate suscitavo anche le prese in giro di tutti i miei compagnie nel giro di poco tempo diventai vittima di atti di bullismo. Ero alleelementari ma avrei già voluto abbandonare la scuola. Mi mancaval’aria senza mia mamma e lei stessa mi ripeteva che io ero la sua vita.avevo il continuo terrore di perderla. Nelle poche e rare amicizie cheriuscivo ad instaurare cercavo di ricreare questo tipo di rapporto sim-biotico, ed ero talmente morbosa da portare l’altro inevitabilmente adallontanarsi. a undici anni è arrivato quello che ricordo di aver vissutocome la più grande disgrazia della mia vita: il ciclo mestruale. Stavocrescendo ma non mi sentivo ancora pronta. all’aumentare del senocrescevano anche le preoccupazioni di mia madre, e di conseguenzamia, sul rischio di attrarre uomini e poter essere in qualche modo inpericolo; venivo educata a dover portare con me le bombolette antistupro per evitare che a causa delle mie nuove forme da donna qual-cuno potesse violentarmi. In casa c’era l’esplicita richiesta di evitare iragazzi almeno fino ai 18 anni.

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I suoi erano timori ansiosi e anche per questo ho interiorizzato il rap-porto uomo-donna in modo assolutamente distorto e pericoloso, noncome qualcosa di naturale bensì come qualcosa da evitare e cancellare.all’interno della mia famiglia io avvertivo varie mancanze e per sop-perire ad esse diventai la figlia modello che tanto avevano atteso: ascuola avevo voti altissimi, suonavo due strumenti musicali e facevotre attività sportive contemporaneamente. Tutto per essere la numerouno, ma mai per essere me stessa. a 14 anni scelgo di andare al LiceoClassico,scuola che aveva fatto anche la mia mamma e di cui sempresentivo parlare come “la scuola dei migliori” e Io DOVEVO esseretra quei migliori. Sapevo da sempre che mia mamma aveva tenuto isuoi vocabolari di greco e latino perché era certa che anche sua figliali avrebbe usati. Ho sempre fatto di tutto per soddisfare delle aspet-tative, sia quelle palesemente richieste dai miei genitori, sia quelle cheio ho avvertito come tali.Durante il periodo delle superiori iniziai a chiudermi sempre di più ead essere preda di una crescente depressione. Cominciai a non fre-quentare più nessuna amica, eccetto ovviamente mia mamma. Nonriuscivo a fidarmi di nessun altro. Provavo interesse verso i ragazzima era subito repressa da forti fobie, e il fatto stesso di provare quelnaturale interesse lo proiettavo sulla mia immagine allo specchio, chemi appariva volgare. avevo paura di essere desiderata, mi facevaschifo, e avevo terrore del mio di desiderio, che vivevo con vergognatemendo che dall’esterno si potesse vedere.Continuavo a sentirmi insoddisfatta, imprigionata dalla vita stessa evittima di ogni mio desiderio. E non c’è cosa più brutta che soffriredentro e non sapere perché. O meglio, per me una cosa più grave c’eraall’epoca: nessuno mi ascoltava e nessuno mi credeva. Nessuno cre-deva che soffrivo dentro. Iniziai a concentrare tutte le mie attenzionisul cibo che era ormai la mia unica fonte di piacere consentita. Speravoche dimagrendo e cancellando il corpo, con esso sarebbero venutimeno anche i suoi desideri. Tutte quelle attenzioni sul corpo e sullospecchio aumentarono velocemente, facevo infinite passeggiate dopo

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la scuola anziché andare a casa a pranzo e continuavo a restringeresempre più l’alimentazione. avevo 14 anni e mi sentivo forte, euforica,onnipotente. un mostro si era ormai impossessato della mia mente,unmostro che covava già da anni nella mia anima: l’aNOrESSIa. Di-ventai una assidua frequentatrice dei blog pro-ana, cioè pro-anoressia,su cui trovavo consigli per digiunare. restavo ore davanti allo schermo,aggiungendo all’anoressia ormai conclamata anche una dipendenzada internet, che creava crisi d’astinenza quando non riuscivo a con-nettermi al mio mondo virtuale. Perdevo peso a vista d’occhio e pas-savo ogni ora sulla bilancia. Molti ricordano il periodo anoressico, direstrizione alimentare come uno dei più “belli” della malattia; io, esclu-dendo il primo momento di euforia lo ricordo oggi come un incubo.Infatti tutto il controllo che credevo di avere era solo un illusione,per-ché in realtà era qualcosa più forte di me a controllarmi anche se nonsono passata al binge o alla bulimia. Non ero libera. avevo spessocollassi e ogni giorno facevo delle flebo in casa. avevo crisi di nervicon chiunque si mettesse tra me e la malattia e i conflitti tra me e lamia mamma si fecero molto violenti tanto da arrivare a metterle lemani addosso. Con l’anoressia poco dopo è iniziato anche il cutter.Mi provocavo tagli per sfogare la mia rabbia, tutto l’odio che provavoverso me e il mio corpo...dovevo dimostrare attraverso le cicatrici cheSTaVO MaLE, esattamente un’altra funzione che doveva avereanche il mio corpo anoressico. Tutto pur di distruggermi. Non mene importava più di niente, aspettavo solo di morire. Non me ne im-portava nemmeno più di dimagrire. giorno dopo giorno mi sono ri-trovata dentro un vortice, una prigione che mi ha portata a pesare 26kg a 15 anni e a mangiare 4 gamberetti al giorno. E continuavo a ve-dermi enorme. Enorme come il mio dolore. Stavo in casa perché tre-mavo continuamente dal freddo, attaccata al termosifone con losguardo spento, privo di speranze e voglia di vivere. Non riuscivo afare le scale, spesso dovevano prendermi in braccio perché non avevopiù muscoli nelle gambe. La mia famiglia era distrutta e io non ne po-tevo più di stare così male.

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Dopo mesi di digiuno e con un peso di una bambina di 7 anni il me-dico mi diede l’aut- aut: o ti fai ricoverare o ti facciamo ricoverare noi.Sentivo dire che ero a rischio di vita, ma io non me ne rendevo conto.Mi rifiutavo di seguire quella strada, non la vedevo come una soluzioneal mio infinito dolore. Però io volevo capire, comprendere perché daanni mi odiavo così tanto. Pur di evitarmi il ricovero mi sono messaa cercare disperatamente su internet...e lo strumento che fino a mesiprima utilizzavo per distruggermi con i siti pro ana, mi ha salvata. Tro-vai il sito del centro dove poco dopo mi sono recata. ricordo quel 6Marzo a frammenti a causa della scarsa lucidità...ma quel poco che ri-cordo penso non me lo scorderò mai. Penso sia impossibile dimenti-care il giorno che ti cambia l’esistenza. una frase riuscì ad entrarmidentro “...Provaci ad affidarti, cosa hai da perdere? a tornare indietrofarai sempre in tempo”. Decisi di provare, ci demmo una settimanadi tempo. Se fossi riuscita subito a seguire alla lettera tutto quello chemi si diceva, soprattutto dal punto di vista alimentare,sarei potuta re-stare a curarmi, altrimenti dato il mio fisico gravemente debilitato,sarei dovuta essere immediatamente ricoverata perché i rischi eranotroppi. Paura? tanta,troppa di ogni cosa. Ero terrorizzata all’idea dibuttarmi e di abbandonare il mio sintomo. Ormai lo sentivo partedella mia identità,e mi sentivo niente senza. Ero spaventata all’idea distaccarmi dalla mia casa e dalla famiglia d’origine, e, soprattutto dallamia mamma. Ero terrorizzata all’idea di andare ad abitare da solacome una donna universitaria, anche se ero insieme ad altre ragazze.In fondo, avevo pur sempre 15 anni. Ma la disperazione porta a farecose straordinarie e ha dimostrato a me stessa quanto in realtà volessivivere . Il 19 marzo 2008 ho iniziato il mio percorso di cura. Mi sonoaffidata e oggi sono qui, a raccontare la mia storia.Oggi continuo con umiltà a mettermi in gioco tutte le volte che è ne-cessario per raggiungere uno stato di benessere completo, in tutte lesfere. ad oggi riesco a dare un nome alle sofferenze che mi hanno at-tanagliato per anni senza più scaraventarle contro me stessa ed il miocorpo.

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Mi sono appena diplomata al liceo pedagogico, cambiando quindiscuola con l’indirizzo di studi che in realtà volevo scegliere io. Ora houn rapporto sano con i miei genitori che adoro e che non finirò maidi ringraziare per come mi hanno aiutata durante questo percorso,non per dimenticare ma per costruire dal nostro passato un rapportosano e maturo. Mi piacerebbe condividere la vita che mi sono con-quistata con un compagno un giorno, cosa per me prima del tutto in-concepibile, ed essere libera di amarlo, ma soprattutto libera daicondizionamenti del passato. Perché ora so che è possibile lavoraresulla sofferenza, accogliere tutte le emozioni che provo senza avere lapretesa di gestirle e fuggirle con anestesie varie. Non c’è giorno cheho passato che non rivivrei per essere quella che sono oggi.

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Rapporto simbiotico...quante volte si sente parlare di questo dalle ragazze...quantevolte noi genitori pensiamo che sentici uniti ai nostri figli sia una splendida cosa!Ed in effetti è così, purchè quest’unione non diventi qualcosa che impedisca ai nostrifigli di avere una visione personale della vita, purchè non inibisca la loro stradaverso quello che davvero è la loro natura. Anche io quando mi sono resa conto chequella unione conteneva qualcosa che non faceva bene alle mie figlie mi sono detta“Eppure le amo tanto, eppure faccio il possibile...”. Non è facile ammettere chequello che facciamo pur nell’ottica dell’amore assoluto può non andare bene. Eppuresolo osservando tutto questo e cercando di modificare alcuni pensieri ed atteggiamentipossiamo davvero creare una unione sana.

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Chiara

Voglio dire una cosa...non si guarisce grazie a un miracolo, si guariscegrazie all’aiuto di chi ti può indicare una strada diversa da quella chestai percorrendo...è difficile certo perchè non si pensa che mangiaresignifica anche riuscire nuovamente ad assaporare la vita...ma un corpoche sta male, contiene una mente che sta male...non c’è scusa chetenga...un affamato non può essere felice, è una equazione perfetta...avolte serve un ricovero se la situazione persiste da tempo e non si rie-sce a scardinare i meccanismi,altre può già aiutare la terapia ambula-toriale ma ciò che è fondamentale è voler provare a cambiare facendopassi concreti...non aspettate domani per mangiare, per sorridere, pertrattarvi bene...se rimandate non volete in fondo guarire,non raccon-tiamocela...ma vivere è possibile...spero di vivere veramente meglio!

Buon viaggio

Ecco come si ricomincia a vivere, come finalmente la terapia ha fatto aprire nuovevisioni di vita. Quando si esce da un disturbo alimentare si diventa davvero fortie in grado di poter affrontare i problemi inevitabili che l’esistenza ci prospetta!Non si guarisce grazie ad un miracolo. Mai. Ma solo dopo un lungo cammino chenon può essere fatto senza l’aiuto di esperti.

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Lara

Ho imparato con gli anni a fingere così bene che ora fatico e non ca-pisco più cosa e dove sono io... . Esco rido scherzo torno a casa sem-pre incazzata e non ho voglia di nessuno...ho perso il contatto di mee non mi ricordo come guardarmi allo specchio per quello che si è...Dovrei buttare quella bilancia che regola le mie giornate dovrei rom-pere gli specchi per non vedere quello che mi sto facendo e dovrei ta-gliarmi le mani ogni volta che cercando sicurezza cerco ossa... .Io sonoben cosciente di quello che dovrei fare di quello che sta capitando manon voglio succeda ancora e mi dico che stavolta sarò sicuramentepiù forte di prima.

La maschera. Chi sta dentro questa patologia riesce per molto tempo a nasconderequello che sta vivendo. Finge sempre ed ovunque e trova scuse per ogni cosa nonriesca ad affrontare. Una vita vissuta per ubbidire alle regole malate e con la ne-cessità impellente di non scardinare mai gli schemi costruiti. Quindi si mente...sem-pre o quasi e questo poi porta a sentirsi in colpa e ad aumentare ancor di più ilproblema, perchè più si sente questo più si ricorre al sintomo per sedare ildolore...una vita insopportabile e che spesso porta a conseguenze irreparabili.

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Lia

Spesso si definiscono i disturbi alimentari come un problema stretta-mente correlato con la mancanza di amore. Si pensa subito alla ra-gazzina lasciata a se stessa con un padre assente e una madreautoritaria e severa che non ha mai abbracciato e coccolato la figlia.Ecco, con la mia storia vorrei smentire questa generalizzazione. anoressia nel mio caso è stata la prigione in cui mi sono chiusa per iltroppo amore da parte di entrambi i miei genitori. un amore vero esincero ma totalizzante e chiuso che mi ha impedito di spiccare il miovolo, anzi, non mi ha proprio insegnato a volare! Mi ha portato a ve-dere come cattivo e pericoloso qualunque cosa estranea alla mia fa-miglia. Il mio mondo di 17enne, 18enne finiva dove finivano le muradi casa! Non c’è mai stato spazio per la ribellione ma solo per enormisensi di colpa da cui, ancora oggi non riesco a liberarmi del tutto eche mi tornano indietro come boomerang ogni volta che provo a spie-gare un po’ le ali.all’inizio la mia fu quasi una scelta di ammalarmi; sono sempre statamolto lucida e consapevole ma l’attenzione e la preoccupazione chestava nascendo verso la mia figura sempre più sottile, la nuova idea dime che stava nascendo che non era più quello della ragazza/figlia/stu-dentessa ideale e serena, mi faceva stare incredibilmente bene ed erala mia droga quotidiana che mi permetteva di affrontare brillante-mente la scuola e...i morsi della fame che, anzi, mi facevano sentirequasi invincibile. Poi, quando meno me lo sarei aspettata, è arrivata ladoccia fredda per non dire gelida: la coscienza di trovarmi in una si-tuazione più grande di me: l’incapacità di gestirla, le discussioni logo-ranti a casa, i pianti, il dolore sempre più lancinante che sentivo dentrodi me e soprattutto, per la prima volta, la lucida percezione che que-st’ultimo non lo avrei attenuato con lo sciopero della fame, con l’esi-bizione del corpo-scheletro ma solo rimboccandomi le maniche,mettendomi davvero in gioco, combattendo i miei demoni e diven-tando per la prima volta protagonista della mia vita.

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Da quel momento non è stata certo una passeggiata; sono passata at-traverso un lungo ricovero, un day hospital, tantissima psicoterapia euna lotta quasi quotidiana contro la parte buia di me; quella che miha fatto più volte ricadere, quella che non accetta la propria femmini-lità, che non si perdona nessuna imperfezione, che continua a ricercarela sicurezza che non ha in un improponibile corpo etereo.Ma adesso COMBaTTO, VIVO, e ho scelto di ESSErCI... .

Per moltissimi anni la famiglia è stata reputata la responsabile unica dell'insorgeredel disturbo alimentare. Nessuno nega che la famiglia abbia le sue responsabilitàe che le nostre radici ci condizioneranno sempre. Nessuno nega che la famiglia devevedere e prendersi le proprie responsabilità e che deve essere parte attiva nel percorsoverso la guarigione dei figli, ma non è l’unica responsabile di questo problema.Nella crescita dei ragazzi ci si viene a scontrare con una società schizofrenica, incui tutto è imposto se vuoi far parte del “gruppo”: deve avere certe misure, deviavere un certo aspetto, devi possedere certi oggetti all'ultima moda e devi frequentarecerti ambienti. Tutto questo in persone che non sono centrate e che sono fragili emo-tivamente può essere un motivo per ricorrere ad una dipendenza per non sentire névedere più... .

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Luna

Non riesco a dormire.

Vorrei gridare...diciamo che quando chiudo gli occhi sento una voceche grida e stasera grida più del solito....con più violenza. allorapenso... . Penso alla mamma, penso a me, penso a cosa mi sono sem-pre persa.. Vorrei che qualcuno mi baciasse, vorrei essere amata e poi penso chenon potrei reggere tutto e non so da che parte stare e mi viene l’ansiae penso che non ha senso....sono in panico più totale e sono sola... . adesso, ora. E voglio urlare e voglio piangere e voglio allontanarmi da questocorpo. Vorrei non essere mai nata perché non penso di riuscire ad af-frontare cosi questa vita...che è bella e lo so e non vorrei mai farmitroppo male solo che vorrei non esistere,non essere mai esistita cosida non dovermi porre il problema.

Vita o incubo? Dolore...paura...rabbia repressa...desiderio di amore. Tante emo-zioni contrastanti e che alla fine tutte vengono rifiutate. E quel non riuscire a viverele emozioni crea confusione totale, una vita dentro una bolla: si vede la vita fuori,la si desidera, ma non si riesce a vincere la paura di far scoppiare quella barrierache separa da tutto questo. Così tanta paura da desiderare di cancellare se stessiinsieme a tutti i pensieri che affollano la mente... .

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Miù

Sono una ragazza di quasi 18 anni. Il mio disturbo alimentare è iniziatoall’incirca quattro anni fa. Fin da piccola sono stata una bambina “incarne”, “cicciottella”, così mi definiva la mia famiglia. L’ho semprepresa come uno scherzo fino a quando iniziarono i primi confronti eparagoni con mia sorella e le mie cugine che sono sempre state moltomagre. Nessuno mi considerava se non per farmi delle osservazionisul mio aspetto fisico e allora cominciai a mangiare non più per il pia-cere di farlo, ma per essere considerata. a 14 anni tutto cambia, ilmondo delle superiori, i confronti con l’altro sesso e anche con le altreragazze mi facevano sentire a disagio, le osservazioni da parte dellamia famiglia non facevano che peggiorare il mio stato d’animo. C’eraqualcosa dentro di me che si stava ribellando a tutto quello che micircondava, in famiglia non mi sentivo più a mio agio, volevo scappareda tutta quella sofferenza da quelle pratiche malsane, sono semprestata timida abituata a tenere le cose dentro, accumulavo, accumulavoe accumulavo...così senza accorgermene iniziai semplicemente conuna dieta “fai-da-te”. Mia madre mi assecondava in questa mia deci-sione cominciai ad avere i primi sintomi dell’anoressia, ma da principionon pensavo che la situazione potesse arrivare a questo punto. ungiorno mi sentii male e mia madre dopo aver strappato la dieta sottoi miei occhi capii che non era più dalla mia parte: adesso ero sola. Nelfrattempo stavo passando un periodo molto difficile con la scuola,primo anno di superiori, rendersi conto di aver fatto una scelta sba-gliata e prendere nuovamente una decisione. Così cambiai scuola eriuscii ad entrare nell’anno successivo senza perdere quello già con-cluso. Ero davvero soddisfatta di me stessa, per la prima volta avevoscelto io e ce l’avevo fatta con le mie forze! Iniziò così una specie dinuova vita, compagne nuove, professori nuovi, insomma dovevo as-solutamente dare tutta me stessa per dimostrare che valevo qualcosa.Cominciai ad entrare purtroppo in un meccanismo distorto perchévivevo solo per la scuola e lo studio, dovevo dare il massimo e così è

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stato. La scuola per me rappresentava una prova continua, un dovere.Dovevo sempre essere brava e perfetta, un dovere verso me stessache mi imponevo, dovevo dimostrare agli altri che valevo qualcosa,soprattutto ai miei genitori... .Con il passare del tempo mi allontanaisempre di più dalle amicizie, mi rinchiusi in casa sempre e solo perstudiare e si fecero sentire i sintomi della malattia. Cominciai di nuovoa ridurre il cibo, buttavo la merenda, dicevo a mia madre di aver man-giato a scuola per arrivare a sera con lo stomaco vuoto e davanti aimiei genitori facevo vedere che mangiavo qualcosa così che non si ac-corgessero di niente. Dopo qualche tempo incominciai a sentirmi di-versa, a scuola ero sempre distratta, le ore di studio erano diventate ildoppio a causa della difficoltà a concentrarmi, questo mi mandò an-cora più in crisi. Dopo vari svenimenti e la preoccupazione dei pro-fessori, iniziai ad aprirmi e loro mi indirizzarono in un centro perdisturbi alimentari. andai in questo centro e mi presero in carico. Nonpenso che allora ero consapevole del reale problema, decisi di farmiseguire più per accontentare gli altri, per non farli preoccupare. Na-turalmente i miei genitori vennero a conoscenza del problema e co-minciarono a controllarmi maggiormente. Da lì iniziò il periodo piùbrutto. La bulimia. Dovevo in qualche modo eliminare quello chemangiavo e poi c’era il problema dello studio: non potevo permet-termi di dimagrire troppo, quindi entrai nel meccanismo delle abbuf-fate... . Nel mio voler essere prima in tutto non mi rendevo conto chenello stesso tempo stavo cadendo sempre più in basso, sempre piùgiù nel buio. La bulimia gridava per me, io non ne ero capace. Quandoiniziai a rendermi conto che tutto intorno a me stava precipitando ini-ziai a prendere coscienza su ciò che mi stava succedendo. Il periodopiù buio forse mi ha portata per la prima volta ad accendere una lucesu di me, a capirmi davvero. Ciò che oggi mi porta ad essere ancoraqui è la mia consapevolezza verso la malattia. Ma il volere continuarea star male? Io dovevo far vedere a tutti che stavo male. urlare il miodolore attraverso il mio corpo era, credo, l’unico modo. Volevo essereinvisibile, scomparire, ma anche urlare al mondo la mia sofferenza.

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Io avevo tutto ma in realtà non avevo niente. Tutti mi dicevano cheavevo quel tutto, che ero bravissima a scuola, la prima della classe, unabella ragazza con potenzialità, ma in realtà io non avevo bisogno diquel tipo di soddisfazioni. avevo bisogno di attenzioni, di amore. Volevo essere amata non per quello che facevo, ma per quello cheero, con i miei difetti, le mie paure, le mie insicurezze, ed ecco chequalcosa si ribellava in me. Se fossi stata meno brava, mi avrebberoanche amata di meno? avevo paura che diversamente non mi avreb-bero accettata. Fin da piccola mi sono sempre arrangiata, crescevo nelsilenzio e nei sensi di colpa e questo mi ha portata a stare male. Conil tempo ho deciso da sola di chiedere aiuto, ma un vero aiuto questavolta. Durante questo cammino ho incontrato persone stupende chemi hanno aiutata ad arrivare a dove sono adesso. a breve inizierò unpercorso residenziale, e nonostante io sono convinta che è la sceltamigliore che io abbia fatto fino ad ora, ho momenti in cui ci ripenso,la paura è tanta. So che è la parte malata che vuole farmi tirare indietroma cerco di non dare spazio a questi pensieri. Sono sicura e soprat-tutto fiduciosa che questo percorso mi aiuterà, forse non guarirò deltutto ma è un primo passo verso la guarigione, le cadute ci sono sem-pre, l’importante è sapersi rialzare.. chi è dentro questa malattia la cosache deve fare è affidarsi, con i se e i ma che ci sono sempre e sempreci saranno perché il percorso è lungo e tortuoso ma sono sicura cheuna via d’uscita c’è, basta volerlo davvero.

Fiona

...non voglio parlare di peso, misure e taglie...anche se all’inizio sem-brerà così... . Negli ultimi due anni mi sono sempre categoricamenterifiutata di comprare dei pantaloni perchè non riuscivo ad accettarel'idea di doverli comprare di quella taglia (...). Continuavo a dirmi “faròshopping quando dimagrirò, quando tornerò magra, quando torneròdella mia taglia”. rifiutavo il mio corpo e non credevo di meritarenulla, nemmeno un pantalone nuovo, perchè grassa, almeno ai miei

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occhi. Negli ultimi mesi, diciamo dall’inizio del 2012, ho iniziato unanuova terapia, ho lavorato sodo proprio sull’accettazione del presente,sull’amore incondizionato che devo avere verso di me...son andata afare shopping, ho comprato tanti pantaloni di quella taglia che misembrava tanto inaccettabile. Ovviamente il desiderio di perdere i kg“regalatimi” dalle continue abbuffate c’era, ma c’era anzitutto l’esi-genza di star bene...e la consapevolezza di non poter “saltare” il pre-sente solo perchè sgradevole... Insomma per farla breve il risultato èche quei pantaloni dopo un paio di mesi ho smesso di metterli perchèora mi stanno larghi... . Il senso, almeno per me, è che partendo dal-l'accettazione del mio corpo, accogliendo quel peso come fosse unaferita da curare e non un disonore, ho potuto iniziare davvero a supe-rare, piano piano, quell’ostacolo...continuando a rifiutarmi e a sentirmicolpevole e immeritevole non avrei mai potuto andare avanti. Ovviamente il lavoro in terapia non verte sull’accettazione del pesoma sull’accettazione del presente. I miei jeans del sottopeso... . Tuttidati via... e mai più, oggi, rimpiango quel periodo. I miei stati d’animopositivi dipendevano unicamente da quanto poco avessi mangiato eda come mi stessero i vestiti... . Mi ero condannata a una vita ben mi-sera...per fortuna quel velo è stato squarciato...la luce ha rischiarato lecose... ♥.

Spesso, troppo spesso, chi sta facendo un percorso di cura non riesce ad affidarsicompletamente ai nuovi pensieri che nascono, alle visioni della vita che ti riportanoverso la “normalità”. Eppure senza affidarsi davvero e poi senza mettere in praticaquello che si capisce nulla può cambiare. Senza fatica e senza dolore non si esce daquesto problema e senza passare dalla teoria alla pratica i meccanismi malati con-tinueranno a dominare le giornate... .

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Monia

Non so bene come iniziare questo mini-scritto. D’altronde è da qual-che tempo che mi trovo in difficoltà a iniziare la maggior parte dellecose della mia vita. un buon punto di inizio può essere il momentoin cui mi sono resa conto di non condurre un’esistenza normale. Nor-male. una parola disgustosa e noiosa per me. Ma anche un obiettivofinale che mi pongo da sei anni ormai. Il rapporto con il mio corpo èsempre stato pessimo...da quando avevo quattordici anni ho dichiaratoguerra al mio...involucro, chiamiamolo così. Quando ha fatto capolinola bulimia, tre anni dopo, ero già abituata a vivere in funzione del cibo.Per questo motivo forse percepire una differenza è stato un po’ diffi-cile, come lo è stato percepire un problema. Penso che il momento in cui ammetti a te stessa di avere un problemacoincide con il momento in cui te la fai sotto. E già. Perchè voglioparlare chiaro, il disturbo alimentare dà gioia, protezione, soddisfa-zione. Poi però ti rendi conto che il controllo che hai sempre pensatodi avere in realtà non ti è mai appartenuto. Ti rendi conto che nullaha più importanza, se non il raggiungere il tuo obiettivo. Ti rendiconto che il tuo umore dipende tutto dalla realizzazione o meno diquesto maledetto obiettivo e che, anche se lo raggiungerai, ce ne saràun altro subito pronto e comunque non sarà mai abbastanza. Non saicos’è la libertà, ti chiedi se in assenza della malattia saresti così, conquel carattere, con quella personalità, con quel tipo di persone vicinoa te. Cominci a pensare che qualcosa di terrificante si è preso la tuaintera vita e te la fai sotto. Siamo esseri umani e il tuo istinto di so-pravvivenza si scontra in una battaglia sanguinosa con l’istinto di so-pravvivenza della malattia. In alcuni momenti di lucidità ti rendi contoche sei solo tu contro te stessa, in altri sai di essere tale e quale a unatossica o a un’alcolizzata. Tale e quale. E odi sentirtelo dire, odi sentirtidire che sei malata perchè è la verità e solo tu puoi dirla a te stessa. Io volevo solo occupare un posticino nel mondo, essere vista. Volevosolo uno scudo che mi proteggesse dalla società e dai suoi meccanismi

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malati, dai suoi individui malati. Mi ammalo per proteggermi dallamalattia della gente. No, nessun trauma in famiglia, nessun trauma ingenerale. Da piccola mi sono divertita, conservo dei ricordi pervasidi innocenza e di luce. Mi rifugio lì quando ho paura. Ho spesso paura. Il mio male è nato nel momento in cui mi sono affacciata sul mondoe ho scoperto che non serviva a nulla la mia ingenuità, dovevo co-minciare a macchiarmi e a non guardarmi troppo attorno se volevosopravvivere. Così ho costruito la mia prigione, giorno dopo giorno,proiettando il mio disagio su ciò che di più manipolabile pensavo diavere: il corpo. Il mio corpo. Spesso ho dei momenti in cui gli chiedoperdono. Ha dovuto subire i peggiori abusi, eppure è ancora qui, asostenermi, a tenermi in vita. La dipendenza che provo sulla mia pelle, traducibile con DCa, è unadipendenza multipla. Più la malattia è rimasta con me più ho avutomodo di capire come sia dipendente da un sacco di cose. Le persone,per dirne una. La mia famiglia. L’approvazione. Il riconoscimento. Il giudizio della gente. La bulimia mi ha reso morbosa e ossessiva perun sacco di cose legate all’affettività. La paura dell’abbandono che mi-naccia ogni mia giornata. Io le chiamo paranoie, ma per me sonocome lame affilate. Sono come parole che non oso proferire con nessuno, perchè so chenon sono parole mie. Ma chissà come e chissà quando sono venutead abitare dentro di me, con gli anni.Non voglio concludere con le solite frasi un po’ scontate “chiedeteaiuto, è l’unico modo per uscirne”, “da soli non si può” eccetera. Fatequello che volete. Ma chiedetevi con il cuore sincero se ne vale vera-mente la pena. Chiedetevi con il cuore sincero se siete su questo pia-neta per autodistruggervi e se abbia un senso nascere per distruggersi.Nessuno può salvare nessuno. Nessuno può prevedere il successo oil fallimento. Ma dentro di me io so che finirà e questo mi basta. Den-tro di me so che ce la sto mettendo tutta e questo mi basta. Parlatesinceramente a voi stessi. Fatelo ogni giorno. E poi beh, da soli nonsi può. Ops, l’ho detto.

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“Luna di miele”...così viene chiamato il primo periodo in cui una persona entranel disturbo alimentare, perchè ti senti forte, potente, credi di poter controllare fi-nalmente il tuo corpo e con esso tutto quanto,le emozioni e ciò che ti accade intorno.Quando, poco dopo, ci si rende conto che è tutto fuorchè così certi meccanismi sonoormai diventati così forti che da soli non se ne puo più uscire... .“Io volevo occupare un posticino nel mondo, essere vista” .Questo chiede chi ha questo problema, uno sguardo. Che li faccia sentire che esistono,che sono visibili a chi amano, che vanno bene così come sono e non come famiglia esocietà impone... .

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Niky

Provo a lanciarmi anche senza paracadute...è morbido laggiù? Io mibutto! Ciao a tutti...oggi parlo di me.Io sono il deserto e l’arsura, ilvento che nessuno sa ascoltare, sono le catene che nessuno sa scio-gliere, sono il freddo che nessuno copre, sono la fame che nessunonutre, io sono le lacrime che nessuno sa asciugare e sono il dolore chenon sanno guardare e curare. Io sono l’abbraccio che non so dare ne'ricevere,sono una bocca che non riesce a parlare...io sono il silenzio,masono sempre me stessa. Che mondo incapace di aiutare veramente!Ho imparato a convivere con la malattia che ormai è cronica da 36anni, sono caduta negli abissi più profondi e nessuno riesce a sal-varmi...mi dicevano di lottare e così avevo fatto,mi ero affidata e fidatama loro avevano abbandonato il campo di battaglia, si sentivano fru-strati per i loro insuccessi fallimentari, ero stata affidata tardi e in manisbagliate e mi avevano abbandonata a me stessa. Sono circondataovunque da persone che si credono giudici...sparano sempre le lorosentenze, le loro cattiverie, la loro ignoranza. In passato (da adole-scente) mi è capitato spesso di barricarmi in casa per lunghi periodiper evitare la loro ignoranza...tutti avvocati sono!, i loro giudizi,le lorosentenze che vadano a spararle in tribunale! e poi curino la loro in-sensibilità e preghino un mea culpa per il male che hanno fatto a mee alla mia famiglia. Ben presto la mia condizione aveva coinvolto escombussolato pesantemente gli equilibri e l’armonia di tutta la miafamiglia...i miei genitori si erano separati pur vivendo sotto lo stessotetto,per seguirmi più da vicino. Sono la penultima dei figli ed unicafemmina...le loro attenzioni e il loro eccessivo amore mi soffocavano,inoltre soffrivo perchè vedevo i miei fratelli soffrire per me,e anchese non l’hanno mai detto, sò che si sono sentiti accantonati e trascuratiemotivamente dalle mancate attenzioni che ogni figlio, soprattuttoadolescente,dovrebbe e vorrebbe ricevere dai propri genitori. Chiedoscusa ai miei fratelli per aver vissuto tanti disagi. Più gli anni passavano,più maturava in me la decisione di staccarmi dall’amore asfissiante di

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mia madre...non sono mai riuscita una sola volta ad abbracciarla, nè apermetterle di farlo...lei aspettava che dormissi per potermi stringerea sè...mi svegliavo di soprassalto trovandomi stretta in una morsa eper quanto mi ribellassi, non riuscivo a liberarmi...eppure io l’ho tantoamata come tutti gli altri della mia famiglia. Ottenuta la maturità, miero iscritta all’università, mi ero trovata un lavoro ed una casa, e a 18anni avevo scelto di vivere da sola, indipendente, autonoma e final-mente più serena e motivata a farmi curare. Dopo tanti anni di durolavoro, sacrifici, cure, recuperi emotivi e ponderali, e varie lauree con-seguite, avevo deciso di realizzare il mio grande sogno: entrare nel-l’esercito e servire la Patria...avevo rifiutato l’aiuto che mio padre miaveva offerto (lui era un agente di Polizia), non volevo raccomanda-zioni e avevo accolto il suo aiuto come un’offesa...tutte le cose faticoseaiutano a crescere e volevo un giorno dire grazie solo a me stessa perciò che oggi sono:una vincente! alla faccia di chi mi aveva sottovalu-tata tentando di spegnere la fiamma della poca autostima che avevo!,e dandomi della debole ed incapace a perseguire e realizzare tutti gliobbiettivi che mi ero prefissata. agli altri non dovevo dimostrare pro-prio niente, contano zero per me!, io sono l’unica e sola protagonistadella mia vita, ed è solo a me stessa che devo rendere conto e dimo-strarmi che ce la posso fare. Paragono la vita come una partita di pal-lone, si può vincere o perdere, ed ero anche preparata ad accettareserenamente le eventuali sconfitte, l’importante per me era calciarequei rigori ed ho sempre fatto goal perchè sono stata l’unica a crederein me stessa. Questa mia tenacia però non è bastata a liberarmi daldca,miglioro e peggioro in breve tempo perchè mi assento per lavorodai 3 ai 6 mesi consecutivi (se ricordate, sono un militare e opero inmissioni di pace in paesi dove c’è la guerra), e non posso proseguirecon continuità le cure di cui necessito. Punto 2: oltre all’anoressia houn’altra bestia che vive in me, si chiama cancro, per essere più precisiho la leucemia...pochi mesi fa ho subito il trapianto del midollo osseoma le cose non sembrano migliorare, la febbre costante, le frequentie multiple infezioni, rallentano il mio recupero ponderale. Sono con-

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vinta che è il cancro a dover temere me, e non io lui! Sono ricoveratada 19 lunghissimi mesi,vorrei vedere ancora i miei colori preferiti:ilgiallo del sole che scalda la mia pelle e il freddo che sento, e l’azzurrodell’immensità del cielo dove vorrei volare libera. Mi manca tantissimoil mio lavoro che ad ogni ritorno dei miei lunghi viaggi tra la vita e lamorte, mi vedevano sempre cambiata, non ero più la stessapersona...certamente ero molto provata mentalmente e fisicamentedagli orrori vissuti della guerra, ma tornavo sempre arricchita di valoriumani e orgogliosa per gli aiuti che ho saputo gestire e dare ai più bi-sognosi, ai più disperati, soprattutto ai bambini. Le 3 stelle appuntateal mio petto ed io, vi salutiamo e vi auguriamo ogni bene. I miei salutipiù grandi sono rivolti a Maria grazia e a Doc, e non dimentico i brevimomenti in cui giò mi ha fatto sorridere...giò...questo è per te, tunon hai idea di cosa mi hai regalato! grazie infinite! un sorriso donalosempre a chiunque, perchè fa bene a chi lo riceve, e può (dolori per-mettendo) migliorare la giornata soprattutto a chi soffre inchiodatain un letto di dolore. a tutto il gruppo ma in particolare ad anneliesee Marcella. appena qualcuno mi aiuterà col pc, vi dedicherò la miavoce cantata...parole, musica, sia composta che suonata, sono di miacreazione. Spero possiate trovare la pace interiore. Se potesse leg-germi, vorrei ringraziare mia cognata e scusarmi con lei...ciò che ilmio corpo e la mia mente vivono non è solo un mio dramma, lo èanche per chi mi segue da vicino...i miei fratelli e mia cognata che fac-cio impazzire, lo so e mi dispiace tanto. rivolgo un appello a LuciaMagionami: – ciao Lucia, puoi psicanalizzare mia cognata?, era giàrimbambita di suo ma ora è troppo preoccupata per me, ora lei perdecolpi, ma penso che uno psicologo possa fare poco con lei...per lei civuole un esorcista!, scherzavo, volevo regalarmi un sorriso, per me,per voi. Mi è stato riferito che avete rivolto dei pensieri per me quandosono stata in coma, e per questo la mia famiglia ed io ringraziamo dicuore tutto il Bucaneve per la vicinanza ricevuta, e vi auguriamo buonFerragosto. un bacio a tutti...CaPITaNO Niky. Ferragosto: a miamadre, la stella più luminosa: mi senti? Buon compleanno.

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...la fatica aiuta a crescere, che la condivisione,un sorriso,un abbrac-cio,un stretta di mano (che nel mondo reale diamo per scontati),pernoi, lontani dalle nostre famiglie, dalla nostra Patria, che lottiamo perdegli ideali, per noi sono indispensabili maggiormente perchè non ab-biamo mai la certezza di tornare a casa in vita o in una bara avvoltadalla nostra bandiera in cui crediamo. C’è stato un tempo in cui sonostata felice, e queste parole le dedico ai miei genitori, a tutti i compagnicaduti in guerra e che non potrò mai dimenticare...e la dedico a tuttoIl Bucaneve, a TE. “ESSErE FELICI”. Essere felici è capire che valela pena vivere la vita,è affrontare tutti gli ostacoli, incomprensioni eperiodi di crisi. Essere felici non è una fatalità del destino ma una con-quista di chi sa guardare dentro sé stesso, è attraversare deserti fuoridi sè ma essere anche capaci di vedere un’oasi nel profondo della no-stra anima. È ringraziare DIO “ogni giorno” per il miracolo della vita.Essere felici è non aver paura dei propri sentimenti, è avere il coraggiodi sentirsi dire un “no”, è avere una tranquillità nel ricevere una critica(anche se ingiusta). Essere felici è lasciar vivere libero,allegro e sem-plice il bambino che c’è in ognuno di noi. È maturità nel dire “ho sba-gliato”, è avere il coraggio di dire “perdonami”,è avere la sensibilitànel dire “ho bisogno di te” e saper dire “ti voglio bene”.

a te Maria grazia, voglio dirti che sono orgogliosa d’averti conosciuto,e graTa per aver per aver tirato fuori la parte migliore di me. un bacio, ciao. “Io ho tutto un mondo nel mio cuore ma non riescoad esprimerlo con le parole...io e la penna siamo amiche inseparabili,ed è lei che mi viene in aiuto sempre. amica penna grazie per averdato voce ai miei silenzi! a volte mi cadi dalla mano perché pesi, maio ti ho sempre cercato e voluta. Mentre cadono le ultime lacrime,prima che il cuore diventi pietra, prima che gli occhi diventino paludiprosciugate, prima che l’anima muoia. Passa questo mondo e il tempotiranno che vorrei ancora trattenere...solo chi ama non passerà mai...soche per molti io non passerò mai. Vi ho tanto amato”.

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Una donna coraggiosa, con nobili sentimenti, con il valore della Patria nel cuore,valore che ha difeso più e più volte in missioni difficili e pericolose. Una donna cosìforte che però lotta da sempre con il problema enorme per ora invincibile del disturboalimentare. Mi scrive da un letto di ospedale queste splendide parole, inchiodataad un letto. Nella sua strada purtroppo oltre al dca èarrivato il cancro e i medicihanno detto che avendo un fisico debilitato tutto è più complicato... . Ho scritto “per ora” invincibile perchè dai disturbi alimentari si guarisce. Tuttipossono guarire. Spesso i medici usano la parola “cronicità” e questo spaventa chila sente e i familiari che vivono con le loro creature questo dramma. Forse saràbene specificare che per gli addetti ai lavori quando il disturbo permane per oltrecinque anni si parla appunto di cronicità. Questo non significa che non si può gua-rire. Ho conosciuto ragazze, donne che sono state a combattere per oltre venti annie poi si sono salvate. Quindi mai, (mai!) disperare e mai smettere di crederci e lot-tare... .

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Rosy

...i numeri hanno tante valenze, mi soffermerei su una in particolare:si ha grande paura del divenire, del cambiamento. I numeri portanocon loro la staticità... qualcosa che non cambia e quindi ancora unavolta “incarnano” l’illusione di un controllo assoluto e perfetto. Quellaperfezione che non esiste, ma che è potente nella malattia. un numeroè fermo, la vita è in movimento. La malattia è fatta di numeri: calorie,centimetri, chili...tutto per fermare un sentire non controllabile, tuttoper non accoglierlo! Ed è importante rendersene conto: proprio pernon essere un numero, bensì una persona che ha dei sentimenti e pianpiano sceglie di volerli sentire!

Quasi ogni giorno nei nostri “dialoghi” nel gruppo su facebook parliamo di questo.L’importanza di quel numero, l’ossessione di quel numero. Quella paura di vedereche il peso aumenta,la ricerca di un peso ideale che però...non esiste. Chi ha questapatologia non arriva mai al peso “giusto”, non basta mai vedere quell’ago dellabilancia che scende. La curva continua a scendere...scendere...Se non interviene laconsapevolezza di voler guarire , se non scatta la motivazione ad uscire dal pro-blema la curva continuerà fino alla morte... .

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Araba Fenice

Voglio iniziare la mia storia dalla mia rinascita...dal giorno in cui ho deciso di riaprire gli occhi e tornare alla vita, esattamente comel’araBa FENICE, che mitologicamente si rigenera dalle proprie ce-neri e spicca il volo verso la libertà... . È diventata il mio simbolo, lamia forza e adesso fa parte della mia vita...per sempre,perchè final-mente sono libera..., libera dagli schemi, dai numeri, dai pensieri, liberadi sognare, sperare e credere nella mia forza, nelle mie potenzialità, inme stessa...e finalmente posso stare bene senza sentirmi in colpa perquesto, senza dovermi giustificare con nessuno...riesco ad assaporareogni attimo della giornata, a sentire ogni emozione, ogni sapore e adapprezzare tutte quelle cose che fino a pochi mesi fa davo per scon-tate, le piccole gioie della vita che sono quelle che la rendono speciale,quelle che ti arricchiscono l’anima e ti fanno crescere. Ho passatometà della mia vita dentro un vortice senza uscita, tormentata da unmalessere enorme che non mi abbandonava, che si impadroniva sem-pre di più della mia vita, della persona cui ero...pensieri contrastanti,confusione mentale, paura di crescere e di affrontare una realtà chenon sentivo più mia, non sentivo mi appartenesse più. avevo circa 12anni quando la mia vita è cominciata a cambiare, quando è stata stra-volta da una situazione familiare troppo forte per me...non era quelloche avevo pianificato, non era la vita che volevo vivere. Oltre al grandedispiacere che provavo, al dolore che non sopportavo, mi sentivo anchea disagio verso la società, provavo quasi un senso di vergogna, mi sen-tivo osservata, compatita, con gli occhi puntati addosso, quasi comefosse colpa mia..., era un cambiamento troppo grande, che non potevoaccettare. I problemi però cominciarono nel rapporto con gli altri, ascuola era un tormento, non mancavano mai dai miei compagni com-menti e battute molto offensive, che mi facevano malissimo, l’equilibrioche mi sembrava di aver trovato col cibo...non c’era più, iniziai a sen-tirmi un alieno nel Mondo...e non poteva andare avanti così...decisi daun giorno all’altro di cominciare una dieta.

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L’ago della bilancia andava sempre più giù, io mangiavo sempre dimeno e diventavo sempre più forte e fiera di quello che riuscivo a fare.Dentro di me iniziò a subentrare un meccanismo malato, le cose im-portanti erano le tabelle, i numeri, le calorie(che conteggiavo ogni voltache mettevo in bocca qualcosa)...eravamo io e la bilancia...due alleateinvincibili. Ero fiera di me stessa, del mio aspetto ma dentro di me,c’era una rabbia enorme...quel dover sempre rinunciare a qualcosa perottenere qualcos’altro... . Dopo 12 anni, sentivo di non reggere piùavevo bisogno di condividere questa cosa con qualcuno,era diventataun peso troppo grosso per me, e mi confidai con una cara amica, conmolta difficoltà,vergogna e imbarazzo..., che però fù in grado di starmivicino nel modo giusto, sostenendomi e accompagnandomi da unapsicoterapeuta, che vedo tutt’ora... . Da lì è iniziato il mio percorso,una parte di me voleva guarire, l’altra però mi fermava e mi tenevasull’orlo del precipizio... La prima visita fu sconvolgente per me...tutte le emozioni ferme daanni cominciavano a rimuoversi, i ricordi riaffioravano...la mia rabbiae il mio dolore iniziavano pian piano a venir fuori. Tornai a casa incrisi più che mai, mi sembrava di stare malissimo, avevo paura, misentivo scoperta, non ero più sola con quel segreto, sapevo che daquel giorno saremmo state in due a combattere quel mostro, la partesana di me era tranquilla, ma l’altra era impaurita e rifiutaval’aiuto...aveva paura a lasciare quel mondo irreale, aveva paura deldopo...cosa sarebbe successo dopo? Mi ero creata un’identità malataavevo il terrore a lasciare quell’immagine di me stessa, avevo paurache se un giorno fossi guarita, gli altri non mi avrebbero più amato,nonmi avrebbero più consolato, mi piaceva che gli altri mi compatisseroe ogni volta che sentivo dirmi “cosa ti è successo? non vedi che nonti si riconosce? sei pelle e ossa...non ti si può guardare...”e tante altrefrasi come queste, mi davano la forza e mi spingevano ancora di piùa voler star male, a crogiolarmi nel mio malessere. Prima di iniziare acapire di aver bisogno di un reale aiuto, di star molto male...avevoavuto una relazione con un ragazzo del quale ero molto innamorata.

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Da questa storia, durata soltanto 4 mesi, ho avuto un bellissimo bam-bino...la prima cosa meravigliosa che sono riuscita a fare nella mia vita.accettato da subito con tutto l’amore del Mondo, nonostante il padresi fosse tirato indietro...forse per paura, per la responsabilità che nonvoleva prendersi, mio figlio è stata la prima motivazione per comin-ciare a lottare, e durante tutto il periodo di gravidanza e i primi 3 mesidi vita, il sintomo è sparito, non c’era più spazio per lui... . In pochi mesi ritrovai il mio peso forma, ma dentro di me non erofelice...tanto amore per lui e niente amore per me stessa...continuavoa farmi del male, a punirmi, non ci possiamo salvare grazie agli altri,neanche grazie a tuo figlio, nonostante il bene sia superiore a quellodella tua vita... . Continuavo a pensare che nessuno riusciva a capirmi,volesse ascoltarmi, volevo che le cose cambiassero,volevo ritrovarequella serenità nella mia famiglia che non c’era più da anni per tutta larabbia che tenevo dentro, per l’orgoglio il cui non volevo abbando-nare, mi sentivo ferita e incompresa ed ero sempre più determinata acontinuare con quell’atteggiamento di vittimismo.Mi accorgevo che con il tempo, gli amici si allontanavano, quelli checredevo mi fossero vicini, su cui avevo sempre contato cominciavanoa tenere una distanza sempre più grande.Quando si vuole guarire e raggiungere veramente la serenità dob-biamo farlo prima per noi stessi, dobbiamo essere in un certo senso“egoisti” pensare al nostro bene, ai nostri bisogni...ai nostri sogni... .Il cambiamento deve avvenire dentro di noi e solo per noi, sbagliatis-simo farlo per qualcun altro perché il minimo cedimento ti riporte-rebbe indietro, ti riporterebbe a ricadere e rialzarsi sarebbe ancora piùdifficile. uscire a cena con gli amici o a pranzo con la mia famigliaprima era un incubo...adesso è una gioia immensa...non per ciò chemangio ma per come lo mangio... . Il cibo è vita e la vita è un donomeraviglioso, per la quale dobbiamo lottare ogni giorno e viverla almeglio! Con amore,affetto e tanta volontà e la vittoria è sicu...la miafenice adesso vola libera nel cielo, libera da ogni paura e pensiero...li-bera di vivere la sua vita...e sarà così per sempre... .

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Spesso quando accadono avvenimenti nuovi e che possono sconvolgere la routinequotidiana (un figlio, un amore, un lavoro nuovo...) il sintomo si assopisce e sembrasuperato. Non è mai così...dopo un po’, magari alla prima delusione o alla primadifficoltà se non abbiamo elaborato le cause e le fragilità che ci hanno fatto ricorrerea questa dipendenza, il disturbo alimentare si rifarà vivo. Terapia e desiderio diaffidarsi sono la strada da percorrere per la soluzione e la guarigione.

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Sandra

Di certo non è così che va. Non è dicendo quanti kg hai perso o quantine hai messi per via di un disturbo alimentare che fai capire quantoquesto ti abbia fatto soffrire, nè tantomeno dicendo il tuo bmi. L’ano-ressia non mi ha fatto soffrire tanto per i numeri, malgrado ne fossiossessionata, ma anzi, loro mi davano forza. L’anoressia mi fa fattosoffrire quando mio padre piangeva a causa mia, nonostante non aves-simo mai avuto un gran rapporto, per paura di perdermi ulterior-mente, per paura di vedermi morire. L’anoressia mi ha fatto soffrirequando vedevo il volto stanco di mia sorella che non dormiva più peri troppi pensieri che le davo. L’anoressia mi ha fatto soffrire quandosconosciuti dicevano di me che fossi malata. Mi ha fatto soffrirequando mi si diceva facessi schifo. Mi ha fatto soffrire quando non riu-scivo più a scavalcare il muro che avevo alzato tra me e le persone cheamo. Mi ha fatto soffrire quando ho rischiato di perdere il lavoro deimiei sogni. Mi ha fatto soffrire quando iniziai a faticare a SO-gNarE...magra, ma a che prezzo? Magra, ma perchè? Nel nostrogruppo su Facebook si parla di tutto...qualunque cosa: amore, rabbia,genitori figli, cinema, lavoro, speranza, sogni, delusioni, dubbi...tuttomeno che di di cibo e corpo...meno che dei rituali che il sintomoporta con sè.

Questa testimonianza è una conferma al fatto che anoressia non è voler essere magra,altrimenti raggiunto il cosiddetto peso ideale tutto sarebbe risolto. Magra quanto?Magra perchè? Il peso raggiunto non basta mai, perchè alla fine il problema non èil peso. Non è mai il peso. È tutto quello che ci sta dietro, dietro quel corpo torturatoe reso scheletrico fino a voler scomparire, c’è la sofferenza di non riuscire a comunicare,di non riuscire ad essere come chi amiamo ci vorrebbe, c’è la paura ad affrontare ilmondo degli adulti con tutte le responsabilità che comporta... . Nessuno di noi è unnumero....quel numero della bilancia diventa un’ossessione perchè dà l’illusione dipoter essere in grado di decidere, di controllare la nostra vita, e così dura tutto per unbel pezzo.

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Giulina

È nato così, quasi per caso in mio incontro con il mondo pro ana... .Da settimane non uscivo più di casa e avevo totalmente accantonatola scuola, non ci volevo più tornare e così restavo ore davanti alloschermo, aggiungendo all’anoressia ormai conclamata anche una di-pendenza da internet, facendomi avere vere e proprie crisi di astinenzaquando non riuscivo a connettermi al mio mondo virtuale. È iniziatocosì, quando dopo essere stata obbligata a mangiare dai miei genitoriormai esasperati, i sensi di colpa non mi davano pace e presa dalla di-sperazione mi sono messa alla ricerca di qualcuno che potesse aiu-tarmi. Ho trovato blog, tanti blog pieni di ragazzine che come me,piene di dolore, erano pronte a dare e ricevere consigli e strategie pernon mangiare e dimagrire. Lentamente sono diventata sempre più ac-canita, tanto da vedere la mia malattia come una dea, la dea ana. Erovista come un idolo anche dalla mie compagne di “avventura”, unmodello da seguire perché io non mollavo per nulla al mondo. avevo14 anni e mi sentivo forte, euforica, onnipotente, la mia distruzionenon bastava mai. Dicevo che tra noi ci spronavamo, ma in realtà lanostra era una lotta, una lotta continua tra noi, a chi raggiungesse ilpeso minore, che spesso testimoniavamo con foto, una lotta controla vita. Dietro la porta della mia camera non c’era più i poster dei mieiidoli come qualsiasi ragazzina, ma dieci frasi che volevano ricordare ilmio “obiettivo”: il decalogo pro ana.Eppure quanto odiavo essere definita Pro ana! Quanto fastidio midava vedere in faccia la realtà...quante persone definite intruse cacciavovia e bannavo dal mio blog proprio perché mi chiamavano così e noncapivano ciò che io volessi dire! Invitavo ad entrare nel mio blog infattisolo le persone che condividevano una filosofia di magrezza assoluta:quella che chiamavo la “filosofia ana”. Il fatto di infliggere dolore ame stessa e al mio corpo significava fare qualcosa di giusto e cercavoqualcuno che appoggiasse la mia “filosofia di distruzione”per avereconsigli e un’ulteriore conferma di non essere sole a perseguire il mio

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obiettivo di morte. Perchè in parte, anche se non lo ammettevo avevospesso paura e a tratti speravo di essere scoperta. a volte speravo chequalcuno chiudesse il mio blog, perché io da sola non riuscivo a porrefine al quel mondo virtuale che mi aveva risucchiata. È difficile spie-gare a chi non è dentro la patologia come nella stessa mente possanocoesistere queste sensazioni: l’orgoglio arrogante e pieno di sé per l’in-credibile impresa che si sta compiendo e la convinzione di essere cosìmalvagia da meritare la morte in qualsiasi sua forma. I sintomi portanoall’isolamento e alla chiusura della persona, perciò laddove una per-sona non inizia un proprio percorso di cura, la via della fuga sarà sem-pre più efficace. Ma non c’era alcuna cattiveria in me nel dare consiglie appoggiare la distruzione delle mie “amiche”, perché infatti anchese non me ne rendevo conto in realtà chiedevo, chiedevamo aiuto,chiedevo a chi stava male come me “come posso fare per far si che ilmio corpo diventi magro e si veda che soffro? aiutatemi a restarenell’anestesia sintomatica del cibo, perché senza non riuscirei a tolle-rare tutto quel dolore!”. Non riuscivo a dare un nome al mio doloree lo scaraventavo su cibo e corpo, ma erano solo capri espiatori. E spiegavo la voglia di assottigliarmi sempre più per poter assomigliarea Nicole Richie o altre modelle. Ma c’è tanto, tanto altro dietro ad unapparente capriccio. un infinito mondo irrisolto che mostravo nel mio blog colorato, incontrasto con la più nera disperazione che avevo dentro. Oggi quelladisperazione l’ho affrontata,perché è necessario sentirla, capirla persuperarla. È un dolore che solo se vissuto e compreso può liberaredalla sofferenza,non rimandando e restando circondati da un mondopatologico. Quando ho iniziato a curarmi mi sono imposta di allon-tanarmi totalmente da quel mondo perchè avevo capito, anche giàdopo pochi giorni che me ne ero distaccata,quanto fosse dannoso equanto ne fossi dipendente, quando mi serviva per continuare a so-pravvivere. Ma non volevo più sopravvivere, io volevo vivere perquanto ancora mi spaventasse e il mio blog e il mio account sono stataeliminati da me all’istante. Non so che fine abbiano fatto le mie com-

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pagne. Molte spero oggi stiano bene come me ma sono convinta chemolte sono ancora li, insieme a tante ragazze a massacrarsi senza ren-dersene conto. E perciò è principalmente a voi ragazze che mi ri-volgo,voi che state male tanto quanto qualche anno fa stavo anche io.Le mie parole non sono quelle di un dottore, di una laureata, di unache viene a fare le prediche, anzi. Le mie sono parole dette dal cuore,da una persona che ha scelto la vita e che vorrebbe tanto che lo facesteanche voi, un giorno. So che non vedete il male in ciò che fate e pro-babilmente neanche nella malattia stessa. Si sottovaluta tanto e non sipensa mai a rischi, tanto meno alle conseguenze. Neanche io ci pen-savo, fin quando mi sono trovata a 16 anni con la tiroide diminuita di2.5 cm per il basso peso che avevo raggiunto e il metabolismo tuttosballato. Ci è voluto tanto tempo per ristabilire tutto e credetemi, nonè bello vedere che ad un certo punto il tuo corpo non ti risponde più.Sfortuna sicuramente la mia,ma voglio che anche questa parte dellamalattia emerga, il dopo: i danni ai denti, allo stomaco alla tiroide chese non si chiede aiuto posso diventare gravi. Io me la sono cavata con“poco” rispetto ad altri, sono stata molto fortunata ma dove posso,vorrei mettere davanti questa dura realtà per far capire quanto nonsia un gioco. Io dicevo ai tempi che il mio sarebbe stato un viaggio senza ritornoverso la magrezza, nel senso che sarei dimagrita e non sarei mai più“tornata grassa come un tempo”...ma il vero viaggio senza ritorno horischiato sul serio di compierlo. Queste patologie sono la prima causapsichiatrica di morte in Italia, non se ne parla mai ma al giorno inospedali, in ricoveri,da sole a casa tante e tanti muoiono di questa pa-tologia. Internet favorisce la conoscenza di malattie e trattamenti percurare i disturbi alimentari e chi naviga in preda alla disperazione nondovrebbe mai più trovare in giro in internet siti pro ana, ma piuttostositi che trattano di ciò che davvero è questa malattia. Io non mi sonoammalata a CauSa di questi siti (altrimenti, chiunque sarebbe ma-lato), ma di sicuro non hanno fatto altro che incrementare le ossessionidella patologia e la mia struttura mentale già fragile e più sensibile del

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dovuto e inoltre l’adesione a questa identità, Pro ana, mi “obbligavainconsciamente” a rifiutare le cure, poiché nelle terapie, l’identità ano-ressica è patologica, cosa che io non capivo e non volevo vedere. Sonopatologie le nostre cariche già di per sé di traumi e sofferenze, perchénon eliminare almeno questo tipo di sofferenza e velocizzare il pro-cesso di autoconsapevolezza di avere un problema e finalmente cu-rarsi? Diamo, date peso a questo disagio, perché esiste e ormai èimpossibile chiudere gli occhi davanti a tutta questa distruzione. Ilmondo pro ana ne è solo una manifestazione perciò date peso a ciòche c’è dietro, datevi l’opportunità di curarvi,scoprirvi, date impor-tanza alla vostra vita,riprendetevela . Io ci ho provato con fatica, dolorema sono qui a dirvi che ne vale la pena e sono convinta che un giorno,quando vorrete provarci ripenserete alle mie parole e capirete sullavostra pelle quanto avevo ragione. Siti pro ana. Terribile realtà delweb...le ragazze che li frequentano non fanno altro che aiutarsi ad an-dare sempre più verso il baratro emulando gli atteggiamenti che ven-gono descritti minuziosamente in quei siti. Si possono denunciare allapolizia postale ed è giusto farlo, ma non si riescono a fermare. Se neelimina uno ne nascono dieci... . L’emulazione è uno dei grandi pro-blemi di questa patologia, foto di persone magrissime in TV, sulle co-pertine dei giornali e nelle pubblicità non fanno che accrescere ildesiderio di chi non si accetta a “plasmare” il proprio corpo, a seguireogni mezzo per arrivare...non si dove. Sono talmente tanto impegnatia preoccuparsi per la fine del mondo, che non si accorgono che questaè già arrivata in tante giornate. giornate che solo perché non le hannodecise i Maya e non ne parla troppo la tv non hanno la stessa impor-tanza del 21 dicembre. Quella che sembrava essere la fine del mondoper me è arrivata anni fa, per la mia famiglia è arrivata tante volte eper tanti continua ancora. Perché il mondo finisce ogni volta che iniziauna guerra. Il mondo finisce con ogni omicidio e con ogni forma diviolenza. Il mondo finisce ogni volta che si diventa vittima di bullismoe ogni volta che la cosa più istintiva è fare del male a se stessi e nono-stante tutto non si cerca aiuto. Il mondo finisce quando un padre

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perde il lavoro e quando una famiglia non riesce ad arrivare a finemese. Il mondo finisce ogni volta che il dolore è talmente troppo daspingere un essere umano a togliersi la vita. Ma soprattutto,il mondofinisce ogni volta che la sofferenza viene derisa e sminuita, ogni istantein cui l’apparenza diventa tutto ciò che conta e non viene sensibilizzatoil prossimo a fare il contrario. Non sarà un meteorite, un asteroide o un pianeta probabilmente a di-struggere la terra, perché niente la distrugge di più che il silenzio el’indifferenza. Solo quando inizieremo a spenderci per contrastaretutto ciò, avremo contribuito a far si che il mondo piano piano, smettadavvero di continuare a finire.

È indubbio che chi ha attraversato un problema grande e difficile come quello deldisturbo alimentare poi diventa molto forte e riesce a vivere apprezzando davveroquello che serve per poter vivere serenamente...diventa ancora più sensibile alle ipo-crisie e alle ingiustizie, al dolore e alla violenza del mondo... .

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Vale

Ho fatto una foto senza makeup, e per la prima volta non ho deside-rato essere diversamente da ciò che sono. giù la maschera...nella miatesta è partita una riflessione a cui sono arrivata grazie ad alcune per-sone di questo gruppo... . un gruppo che ha sempre accolto, la gioiae il dolore, anche le lagne, perchè ci sono giorni in cui non si riesce avedere nient’altro che nero, ed avere accanto qualcuno che riesce adissipare quel buio è un dono prezioso. amatevi, amiamoci, non ver-gogniamoci di ciò che siamo, non permettiamo a nessuno di dirci chesiamo sbagliate, che non meritiamo l’amore. Finchè siamo in tempo,lottiamo e amiamoci, perchè la vita è un dono prezioso, non buttia-mola via...quante volte ho desiderato morire, quante volte non sonoriuscita a vivere, quante cose ho rinunciato per la testa che pulsava, legambe che tremavano, le mani che non riuscivano a star ferme... .Quanta vergogna ho provato in mezzo agli altri... . ad alcune di voivorrei dire che la vita non è questa, non è il quanto pesi che fa di teuna persona migliore..., ma è ciò che hai dentro, la capacità di esserebuone, gentili, oneste, leali, sincere, combattive...non chiudetevi inquesta fortezza fatta di solitudine, di sofferenza, di supplizio. Io noncredevo mai mai di poter un giorno scrivere queste parole, di potervivere e lottare e guardarmi allo specchio in sovrappeso...non credevoneanche che sarei arrivata a 25 anni viva, volevo morire prima, e nelpeggiore dei modi. Ma si può cambiare, si può guarire...con tanta sof-ferenza, ma con una sofferenza che darà i suoi frutti. Il vostro corpoè meravigliosamente splendido così com’è, un insieme di perfezionee sistemi complessi talmente organizzati da essere davvero perfetti,non distruggetevi. amatevi, ridiamo alla vita, senza maschere!

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Ecco...leggere parole come queste danno la spinta ad andare avanti...ogni tanto michiedo se e quanto può essere utile il gruppo che tengo aperto su Facebook. Ognitanto sale lo scoraggiamento perchè ogni giorno si deve ricominciare a ripetere certiconcetti,ci si deve sforzare per mettersi nella testa di chi abbiamo davanti e, nono-stante questo, spesso i post che vengono scritti contengono tutto fuorchè sfoghi co-struttivi. Quindi mi chiedo se possa servire leggere certe cose a chi sta lottandoinvece per uscire dal problema. Poi però arrivano questi scritti, arrivano testimo-nianze che ti dicono che è servito, che l’ascolto positivo e costruttivo de Il Bucaneveha aiutato e quindi...sempre avanti. Mai mollare!

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Conclusione

un po’ di tempo fa ho sentito una persona che diceva che odiava farele fotografie perchè le impediva di vedere bene quello che aveva in-torno, doveva interrompersi, fermarsi e scattare e quindi non si gu-stava il panorama o l’occasione che viveva. Per me è tutto l’opposto,fotografare per me vuol dire far rimanere per sempre quel momento,quel colore, quell’emozione. Ecco anche perchè credo sia importanteaver trascritto queste testimonianze, per poter dare a tutti la possibilitàdi leggerle: sono momenti di vita, pieni di dolore, di sofferenza, di ri-cerca di sé e di cammino, magari tortuoso e spesso sbagliato comequello di un insetto in una ragnatela appiccicosa, che divincolandosinon fa che rimanerci più avviluppato. Sono vita vera, sono immaginilegate a persone che davvero hanno vissuto tutto ciò. Sono state rac-colte con rispetto del dolore e con un sentimento che può essere de-finito amore perché mi hanno tutte segnato e solo se è amore rimanecosì a fondo in noi, altrimenti si sarebbero depositate sulla superficiee da lì evaporate in fretta... . Invece faranno parte della mia esistenzacosì come altri attimi che ogni tanto riaffiorano nella memoria:...quella mano che con delicatezza mi fece ruotare la testa. Poi sentiisolo le mie lacrime sulle guance. Quella mano, così leggera che mi te-neva ferma la testa e sembrava riafferrasse tutti i miei pensieri impri-gionandoli tutti lì, in quel piccolo spazio tra mano e volto....quel ragazzo che sorrideva in quel modo: inarcando solamente illabbro superiore, a scoprire appena i due incisivi e lasciava immobileil resto della bocca... . ...quella stanza di quella ragazzina che era dentro un disturbo alimen-tare già da qualche anno: gli oggetti sembravano non essere mai statitoccati da nessuno, sembravano articoli esposti con cura e calcolonella vetrina di un negozio. Non vi era nulla di inutile, non una fotoo un pupazzo buttato là a caso. Nulla che spargesse nell’aria quel-l’odore di familiarità e affezione che di solito hanno le stanze degliadolescenti... .

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...il parcheggio dove aspettavo che mia figlia uscisse dalla terapia: sivedevano due grossi prefabbricati che stavano uno attaccato all'altroe chissà forse non ci andava mai nessuno. Tre bancali di legno avvoltinel cellophane mezzo rovinato erano addossati ad una parete grigia,di fianco ad una serranda abbassata. Più in alto c’era una insegna, chese di notte fosse stata accesa avrebbe illuminato intorno di un aran-cione brillante... ....quel pomeriggio in cui ci sarebbe stato il funerale della mamma.uscii per andare da sola verso il fiume, quel posto “magico” per me,luogo della mia infanzia più spensierata. Proseguii verso il letto delfiume, scorreva lento, sembrava come dimenticato, esausto. avevapiovuto da poco, scesi fino al livello dell’acqua e mi sedetti a fissare ilfondale. Le pietre mi pungevano il fondo della schiena, ma non mimossi. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii il cielo era ancora lì con ilsuo azzurro intenso, la corrente produceva un fruscio sonnolento.Sorrisi verso il cielo sgombro dalle nuvole.

Mi alzai con un po’ di fatica, sapevo che potevo camminare da sola...

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Indice

Introduzione di Luciano Festuccia 9

Prefazione di Lucia Magionami 11

allora continuo a danzare... 17

Testimonianze 29

agnese, altre e la rabbia... 31

amy 34

anneliese 35

Baby 38

Barbara 40

Betty 41

Carla 42

Daniela 44

Dana 46

Donatella 47

Ele 51

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Francesca e Michela 52

Francesca S. 54

giovanna 56

Chiara 62

Lara 63

Lia 64

Luna 66

Miù 67

Fiona 69

Monia 71

Niky 74

rosy 79

araba Fenice 80

Sandra 84

giulina 85

Vale 90

Conclusione 93

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