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Luciano De Fiore

La cIttà DeSertaLeggendo il Sapere assoluto nella

Fenomenologia dello spirito di Hegel

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ISBN 978-88-97414-18-6

Grafica e impaginazione: Paolo Tellina

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INDICE

Introduzione 11

1. Sfortuna critica1.1 critiche ed immunizzazione 171.2 Sapere e libertà 191.3 L’assoluto fra noi 21

2. Genesi del Sapere assoluto2.1 Sapere e rappresentazione 272.2 assoluto e totalità 302.3 Gli aspetti dell’oggetto 33

3. Preistoria del Sapere3.1 La cosa è io 413.2 rousseau e lo scacco della volontà universale 46

4. Il Sapere della Cosa e il Sé4.1 Sapere a Königsberg 514.2 La coscienziosità 554.3 La politica, contro l’ipertrofia del sé 57

5. La pietra lanciata appartiene al diavolo5.1 I momenti della conciliazione 615.2 Derive involutive della coscienziosità 63

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6. Deliri e logiche della conciliazione6.1 conciliazione tra coscienza ed autocoscienza 716.2 amleto? No grazie 766.3 azione e responsabilità 796.4 coscienza agente e coscienza giudicante 816.5 L’operare cosciente 85

7. La notte del sapere concettivo7.1 Il Paese della coscienza di Sé 957.2 Il Libro e il Saggio 977.3 Svelamento e nascondimento 99

8. Il nodo del tempo8.1 tempi? 1058.2 Stop: il tempo è scaduto 1088.3 tempo ed esperienza 1128.4 Scissioni 115

9. Lo spirito e l’alka-seltzer9.1 Lo Spirito inattivo 1299.2 Uno Spirito costipato? 1309.3 Fenomenologia e logica 1329.4 abrogazione e sublimazione 137

10. Sapere e Politica10.1 Natura e storia 14110.2 Fine della storia 14410.3 La città deserta 149

Indice dei nomi 161

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«…finisce col dileguarsi lo stesso oggetto astratto, la conoscenza razionale, e da ultimo

l’edificio della scienza è come una città deserta…».

G.W.F. Hegel, Lezioni di storia della filosofia

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INtroDuzIoNE

Se c’è un nodo più di altri inestricabile per generazioni di interpreti, è proprio il Sapere assoluto, ottavo e ultimo capitolo della Fenomenologia dello spirito hegeliana. Jean Hyppolite riteneva non vi fosse sezione della Fenomenologia più oscura di quella che chiude l’opera1; Otto Pöggeler consigliava propedeuticamente, e sadicamente, di darlo in lettura agli im-provvidi, certo che qualsiasi studente avesse tentato di capire avrebbe lasciato il libro e, con esso, gli stessi studi filosofici2. Francesco Valenti-ni inizia invece il capitolo del suo Soluzioni hegeliane dedicato appunto alla genesi del Sapere assoluto, affermando che “è molto facile dare una definizione del Sapere assoluto in Hegel”3. Hyppolite e Pöggeler non ave-vano torto, ma neppure Valentini era in errore: le asperità non derivano tanto dalla difficoltà di comprendere di cosa si tratti, se ci si attiene con attenzione al testo della Fenomenologia dello spirito, bensì dal fatto che risulta ormai ai più filosoficamente indigesta la nozione stessa di assoluto, specie a quei “sostenitori dell’istanza del Finito” – li definiva Valentini – che tengono fermo quest’ultimo come principio unico di spiegazione della realtà e che mettono in dubbio la possibilità stessa di un sapere che si pretenda, appunto, assoluto. Salvo intendersi su cosa Hegel intenda davvero con questo termine.

Secondo i dizionari di filosofia, assoluto è tutto ciò che è absolutus, sciolto da legami o limiti; qualcosa dunque rispetto al quale tutto il resto è contingente, vale a dire non ha la propria causa in se stesso e – anche se per accidente esiste – potrebbe benissimo non esistere, o non esistere più domani. In questo senso, assoluto è l’opposto di relativo. Di assoluto si può dunque dare innanzitutto una definizione tutto sommato tautologica: lo è ciò che non è contingente, ed è contingente ciò che non è assoluto. Dell’assoluto non si predicano descrizioni, definizioni e classificazioni, né è possibile pensare a istruzioni per “produrre” qualcosa di corrispon-dente, poiché non ne conosciamo alcuna proprietà, a meno di supporre che le abbia tutte e sia quel id cujus nihil majus cogitari possit, di cui parlava anselmo d’aosta.

Ma bisogna fare attenzione: qui assoluto è predicato del sapere. Stando al testo ed al contesto hegeliani, il Sapere assoluto è l’esplicitazione di

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un senso che è venuto manifestandosi e inverandosi nel corso storico. È un sapere che si rivela a se stesso, proprio di una soggettività che ha pie-namente incarnato la necessità di ri-conoscersi, alienandosi attraverso il passaggio nella piena alterità. ed è tuttavia un sapere che esprime un pun-to di vista – certo, secondo l’autore il più alto e profondo punto di vista possibile – riconducibile però ad un’età precisa che compie un processo durato migliaia di anni nella parte occidentale del mondo. Lo compie e lo conclude alla Hegel, in un’ottica filosofico-storica: la filosofia – come è detto paradigmaticamente nella prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto – viene dopo l’azione, la riflessione filosofica rammemora e ricapitola gli avvenimenti, rintracciandone il senso4. Ogni fenomenolo-gia dello spirito non può essere che una fenomenologia della lettera, del-le tracce linguistiche che conferiscono stabilità al fluire delle esperienze culturali, sedimentandole e rendendole trasmissibili e comunicabili5.

Questo sapere conclusivo è dunque anch’esso storico, e in quanto tale suscettibile di correzioni, integrazioni ed anche di sovvertimenti. È un sapere in sé compiuto, ma appunto perciò aperto a quanto dovesse anco-ra accadere. È un libro finito, ma che non può non lasciare che accanto a sé se ne scrivano e se ne pongano di altri. E che soprattutto non dice nulla su ciò che accadrà fuori dalla biblioteca del sapere, nel mondo, non pretendendo di determinare le prossime azioni del corso dei tempi, né di impedire che la nuova azione prescinda da lui. Si tratta di un sapere frutto di una lunga digestione: lo Spirito, cioè il succo della cultura dell’Oc-cidente, integrata e arricchita da contributi anche fondamentali da parte orientale, appare come il risultato ultimo di un processo di assimilazione, nel corso del quale gli uomini si sono emancipati da ogni autorità altra dalle proprie facoltà. Per questo è assoluto: perché è un sapere libero da condizionamenti altri dai limiti ovvi del sapere stesso, libero cioè da vincoli teologici o naturalistici. Assoluto, perché frutto di un processo di riconoscimento nel corso del quale si è appropriato di se stesso, prenden-do coscienza di non avere altro fondamento fuori di sé6. assoluto è quindi anche un atteggiamento mentale, che non significa separato da condizio-ni, ma piuttosto inclusivo di ogni condizione, notava eric Weil.

In sostanza, Hegel afferma che a un certo momento della Storia l’uomo diviene libero e sa di esserlo: dopo la rivoluzione francese acquista con-sapevolezza (diviene chiaro al filosofo, o al Saggio, come dirà Kojève), una volta instaurato l’assetto voluto da quel Napoleone che vide passare a

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cavallo dalle finestre della sua casa di Jena alla vigilia della battaglia che mise a repentaglio proprio il manoscritto della Fenomenologia appena terminata. L’uomo, cioè, non pensa più che l’oggetto sia problematico, o in sé, e che quindi egli possa essere, in linea di principio, in qualche modo ingannato da qualche inciampo soggettivistico, per esempio dai sensi che possono errare; quest’uomo ha in sé il proprio criterio di verità. Nel corso storico il pensiero si è via via emancipato dalla paura di un oggetto che lo trascende, prendendo coscienza del fatto che le operazioni della ragione sono operazioni legittime di una ragione che ha in sé la propria misura. Questo non significa ovviamente che non possa sbagliare; significa sol-tanto, ma non è poco, che non ha altro criterio fuori di sé per valutare l’eventuale errore.

Il Sapere assoluto è quindi innanzitutto un sapere libero. anzi, è il sape-re una volta liberato, è il Sapere di un uomo libero che pensa liberamente, nel senso appena specificato, perché ha fatto esperienza della libertà. Si è caricato del limite, lo ha sopportato. Si è giudicato, nella parola della conciliazione ha vissuto il riconoscimento reciproco e si è infine assolto: «lo Spirito assoluto non è, infatti, che uno spirito “assolto”»7.

Nella prolusione che tenne ad Heidelberg ai suoi studenti, Hegel rias-sume in poche battute il proprio programma filosofico, dando conto al contempo del proprio stato d’animo, dieci anni dopo la Fenomenologia: «L’uomo, che è spirito, può e deve ritenersi degno delle cose più elevate, deve avere la più completa fiducia [Glauben] nella grandezza e potenza del suo spirito; con questa fiducia niente vi sarà di così refrattario e resi-stente da non aprirglisi. L’essenza dell’universo, in primo tempo celata e chiusa, non riesce ad opporre resistenza al coraggio del conoscere: deve schiuderglisi dinanzi agli occhi e fargli godere [zum Genusse geben] la sua ricchezza e le sue profondità»8.

Uno Hegel di mezz’età, quarantaseienne, parla dell’impresa del cono-scere ancora come un innamorato parla della donna che vuole conquista-re. ad un desiderio così forte e trascinante – sostiene – nessuna intimità resterà preclusa. Ogni essenzialità gli si svelerà, anzi: sarà chiaro che non esiste altra essenzialità se non quanto si aprirà alla comprensione di que-sto uomo innamorato del mondo e della realtà che ne gusterà ogni ric-chezza e profondità attingibile con gli strumenti di cui dispone.

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Note all’Introduzione

1 J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di He-gel, La Nuova Italia, Firenze 1972, pag. 707. Il commento al testo del tra-duttore dell’edizione francese della Fenomenologia resta uno strumento assai utile. tra gli altri commenti testuali, ricordiamo di c.-a. Scheier, Analytischer Kommentar zu Hegels Phänomenologie des Geistes, alber, Freiburg 1980, e G.-H. Falke, Begriffne Geschichte: Das historische Sub-strat und die systematische Anordnung der Bewußtseinsgestalten in He-gels Phänomenologie des Geistes: Interpretation und Kommentar, Lukas, Berlin 1996.

2 O. Pöggeler, Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, Karl alber, Freiburg 1973.

3 F. Valentini, Soluzioni hegeliane, Guerini editore, Milano 2001, pag. 177. Il mio interesse per Hegel si è irrobustito e sostanziato proprio grazie alle lezioni di Francesco Valentini sulla Fenomenologia dello spirito e sulla Scienza della logica frequentate all’Università “La Sapienza” negli anni Settanta e Ottanta. Questo commentario gli deve molto.

4 «Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta […]. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo», G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, traduzione italiana a cura di F. Messi-neo, IV ed., editori Laterza, Bari 1971, pag. 17.

5 M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Bari-roma 2009, pag. 30.

6 Riflessività, sapere di sé, autoreferenzialità; spiritualità, sapere che lo spi-rito ha di se stesso; storicità, lo spirito è sempre storico, e dunque anche il Sapere assoluto; e fatticità, lo spirito è sempre un qualcosa di effettuale, sono le caratteristiche del Sapere assoluto anche secondo Werner Jaesch-ke, vedi Il Sapere assoluto, in: Post filosofie, Riconoscimento, dialettica e fenomenologia. A duecent’anni dalla Fenomenologia dello spirito di He-gel, cacucci editore, 2008, passim. anche Gianluca Garelli, autore della più recente edizione italiana della Fenomenologia, sottolinea in primo

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luogo il richiamo alla libertà implicito nel predicato “assoluto”. Vedi G. Garelli, Lo spirito dell’inquietudine, in G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, einaudi, torino 2008, pag. XXVII.

7 e. Ferrario, Perdonarsi. Una discussione delle pagine 223-235 del VI capi-tolo della Fenomenologia dello spirito, in: “Pólemos. Materiali di filosofia e critica sociale”, I, febbraio 2006, pag. 289.

8 G.W.F. Hegel (1816), Heidelberger Niederschrift, introduzione alle Vor-lesungen über die Geschichte der Philosophie, in: G.W.F. Hegel, Werke, Suhrkamp, Frankfurt a.M., Band 18, pagg. 13-14.

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1. Sfortuna critica

1.1 Critiche ed immunizzazione

Heidegger distingueva tra chi ragionava contro di Hegel, e chi invece preferiva ragionare con Hegel. Notando che, se è certamente legittimo parlare di un crollo della filosofia dopo Hegel, può anche sostenersi che «non è stata la filosofia hegeliana a crollare, [ma] i suoi contemporanei e successori a non essersi elevati ad un punto tale da potersi misurare con la sua altezza»1. Può esser quindi utile operare un distinguo tra due filoni della critica: tra le obiezioni di chi si colloca scientemente fuori dall’o-rizzonte dell’hegelismo e anzi lo osteggia, e chi, come Marcuse, Derrida e lo stesso autore di Essere e tempo che, pur nella critica anche radicale, riconoscono la legittimità dell’orizzonte di pensiero aperto da Hegel.

È spesso rintracciabile nella prima delle due posizioni un’origine kan-tiana. come se – notava spesso Valentini – questo genere di obiezioni derivassero da un’adesione quasi militante al kantismo, che in qualche misura imporrebbe – a torto, evidentemente – di scegliere tra il filosofo di Königsberg e quello di Stoccarda. Nel senso che la scelta di fondo sarebbe dettata da un’attitudine generale, che nella filosofia dell’un fi-losofo o dell’altro troverebbe la propria chiave. chi si rivolge a Hegel tenderebbe a porre l’accento su un atteggiamento che potrebbe dirsi di conciliazione con la realtà: l’attitudine di chi si trova nel mondo come a casa propria, e ritiene che appunto il mondo e la sua storia siano l’unico orizzonte del suo pensare e del suo fare. conciliazione comunque da non confondersi con accettazione e giustificazione: il discorso, cioè la filo-sofia, non è certo l’unica possibilità dell’uomo, ed il reale dimostra che l’uomo e la storia sono anche violenza e disperazione, e questo Hegel lo sapeva benissimo.

chi sceglie Kant, sembrerebbe porre invece l’accento sulla problema-ticità, sull’incompiutezza, forse persino sul mistero della realtà. Proprio per questo la maggior parte del pensiero contemporaneo, problematiz-zante e relativistica, ha scelto di considerare Hegel un interlocutore im-portante, ma con il quale confrontarsi per di più polemicamente. al quale rimproverare, innanzitutto, proprio di avere teorizzato quell’attitudine conciliante nei confronti del reale; che si coniugherebbe per l’appunto

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con un sapere compiuto, senza ulteriorità, un sapere che Hegel stesso avrebbe infatti definito assoluto in questo orizzonte di senso2.

Un’altra modalità scelta a volte per confrontarsi con Hegel, di chi ne riconosce la rilevanza ed è disponibile anche in certa misura a pagare un debito nei suoi confronti, è quella che chiameremmo della “palla di neve”, quei souvenir che si usavano un tempo: una semisfera di vetro, all’interno della quale è ricostruito un paesaggio, o un edificio immerso in un liquido. capovolgendo e poi raddrizzando la palla di neve, nella sfera si disperde una polvere in sospensione che dà l’impressione di coprire di neve quel paesaggio. così, per ottenere lo Hegel che si desidera, lo si ca-povolge per poi rimetterlo al dritto. In modo da non riconoscere, in buona sostanza, che Hegel già esprimeva la verità che gli si vuol attribuire. L’in-terprete più famoso di questa attitudine è stato Marx che sosteneva che la verità di Hegel appariva un volta che lo si fosse, appunto, capovolto: il problema era che Marx doveva prima capovolgerlo, per poi – ricapovol-gendolo – ottenere lo Hegel che più gli si confaceva3.

rammentare alcune delle posizioni critiche nei confronti dell’ottavo capitolo può fornire una sorta di immunizzazione preventiva, consape-voli peraltro che alcune delle obiezioni mosse al non-concetto4 di Sapere assoluto hegeliano hanno una loro indubbia pregnanza.

Prima obiezione. Per lo stesso Hegel, filosofo del divenire e della dia-lettica, sarebbe incoerente chiudere il sistema con un concetto che im-plica che l’essere si rivela appunto totalmente, senza residui. L’assolu-tezza del sapere che compare nella Fenomenologia dello spirito avrebbe innanzitutto dunque il carattere della totalità. Di una totalità indigesta e indigeribile.

Si tratta di una critica classica, rivolta ad Hegel già negli anni trenta del Novecento da adorno e Marcuse. Secondo quei Francofortesi, dopo la Fenomenologia Hegel sarebbe passato, in modo fallimentare, dalla logica del tempo al dominio concettuale dell’assoluto, con la conseguente rica-duta nella logica atemporale. Questo passaggio scandirebbe – nello Hegel maturo – il movimento spirituale della sostanza. come scriveva Marcuse, «già nell’ambito della Fenomenologia era penetrata la tendenza ad esclu-dere la storicità, e in base a questa tendenza la storia della vita venne poi interpretata retrospettivamente dal punto di vista dello spirito assoluto: nello spirito assoluto la storia perviene a compimento, raggiunge in esso la sua ragion d’essere e da essa si svolge, ma non più attraverso essa o

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al di là di essa»5. La difficoltà sarebbe stata in effetti addirittura aporeti-ca: «Lo svolgimento generale del concetto di spirito assoluto dalla storia rende chiaro che lo spirito assoluto è ontologicamente ‘dipendente’ dalla sua storia»6. La contraddizione sarebbe consistita insomma nel fatto che lo spirito non può risultare absolutus dalla sua stessa genesi, alla quale lo stesso Hegel lo incatena. Non può essere, allo stesso tempo, storico e astorico.

Marcuse, per questi aspetti, appare vicino al senso di una delle critiche più decise di Heidegger ad Hegel, quando chiedeva «se l’uomo deve e può veramente, in quanto passaggio, saltar via da se stesso per abbando-nare se stesso in quanto finito»7, venendo così appunto ad essere un che di assoluto.

1.2 Sapere e libertà

Assoluto, però, per lo Hegel della Fenomenologia, non significa totale, ma incondizionato e libero.

L’absolute Wissen è un sapere libero. anzi, è il sapere una volta libe-rato, è il Sapere di un uomo libero che pensa liberamente. Pensando alla libertà, vengono in mente la rivoluzione francese, la fuga da un lager, la liberazione dei neri dalla schiavitù dopo la Guerra civile americana. Ma l’esperienza della libertà non appartiene soltanto alla politica, per quanto importante sia questo aspetto. La libertà è anche e soprattutto l’assenza di limiti altri rispetto al nostro stesso ragionare, in grado di accogliere dentro di sé ogni possibile condizionamento, a partire da quanto proposto dalla sfera emotivo-sentimentale, ma a non subirne altri, esterni. Quando Hegel sostiene che la Storia è storia dell’imporsi della libertà, è anche e soprattutto a questa libertà che si riferisce.

al termine dell’itinerario fenomenologico, l’uomo si è infatti liberato dalla trascendenza dell’oggetto, dalla sua alterità, e può quindi, nel lin-guaggio di Hegel, fare scienza. Questo sapere è finalmente autoevidente, ha in sé la propria misura ed è il sapere della vera filosofia, o della scienza – che per Hegel è lo stesso – cioè della forma più pulita, meno condizio-nata della conoscenza: «Con ciò si chiude la fenomenologia dello spirito. Ciò che lo spirito si viene in essa preparando, è l’elemento del sapere. In quest’elemento, si espandono ormai momenti dello spirito nella forma

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della semplicità, forma che sa il proprio oggetto come se stessa. essi non cadon più l’un fuori dell’altro nell’opposizione dell’essere e sapere, anzi permangono nella semplicità del sapere, sono il vero nella forma del vero, e la loro diversità è solo diversità del contenuto. Il loro movimento che in tale elemento si organizza in un intiero, è la logica o filosofia specula-tiva»8.

Far scienza significa pensare oltre lo schema coscienziale del due, ri-considerando le esperienze a un livello più alto di astrazione, superando così lo schematismo per cui da un lato c’è un soggetto che conosce e dall’altro un oggetto indagato. Significa poter pensare ormai per categorie astratte, o logiche; pensare, per esempio, in termini di essere determinato, di essere quantitativo, di fondamento, di giudizio. categorie sì astratte, ma non nel senso limitativo e negativo del termine – per cui si può accu-sare, ad esempio, qualcuno di fare discorsi astratti. Si tratta infatti di cate-gorie che potrebbero essere definite all’opposto superconcrete, nel senso che racchiudono e condensano un’esperienza, rappresentano una serie di forme vitali attraversate, vissute, e ripensate, digerite dallo Spirito, dalla nostra cultura.

Lo Spirito stesso non è nulla di ulteriore, di altro: è appunto la nostra cultura, è la sintesi delle opinioni condivise e assimilate, è quella comu-nità immanente nata dall’imporsi di una nuova modalità di relazione tra i soggetti, frutto della modernità, e che è tutt’altro che un’ipostasi me-tafisica. Il Geist hegeliano non è processo di emanazione o di creazione della natura attraverso la caduta dell’Idea fuori di sé, bensì il processo di maturazione di una soggettività capace di mediarsi con l’altro e di fare ri-torno a se stessa senza perdersi nell’infinita serie di alterazioni che non si curvano nella sintesi e nella padronanza di sé (Roberto Finelli). In questa prospettiva, la dialettica non è sinonimo di appropriazione spiritualistica distruttiva della natura o del finito, ma è processo attraverso il quale un soggetto che pretendeva di coincidere ottusamente con sé, rimuovendo la relazione costitutiva con l’alterità, è spinto ad abbandonare configura-zioni dogmatiche e inadeguate e a trasformarsi. Hegel avversa e supera quel principio ideologico che, dislocando all’esterno l’universale, mette in atto un processo di rimozione, proiezione e spostamento della relazio-ne. Viceversa, il Noi della nuova filosofia si genera negando l’autonomia della singola individualità, invitata sempre a reincontrarsi con se stessa attraverso e nell’alterità. Il mondo esterno, la realtà, non esiste, se con-

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trapposto a noi. esiste una realtà unica, intrecciata, fatta anche da e di noi. Insomma, Hegel – piaccia o non piaccia – è il filosofo della mediazione: avversa le opposizioni nette, le alterità irresolubili in quanto sterili, mor-tifere. È il filosofo della dialettica che muove gli opposti, organizza le sintesi, media i contrasti, scioglie gli irrigidimenti.

1.3 L’Assoluto fra noi

Una volta pervenuti al punto più alto e pieno di maturità del Soggetto e del suo sapere, anziché scrivere questa scienza e questa logica, secondo Hegel è prima il caso di ripensare il cammino percorso; nella Fenome-nologia dello spirito si rammemorano le esperienze più importanti che hanno segnato l’emancipazione dell’uomo: la Erinnerung, il ricordo ram-memorante, è uno dei temi fondamentali della Fenomenologia e della filosofia hegeliana tutta9. ripercorso il cammino fenomenologico, si dà la possibilità di scrivere la logica, a cui poi seguiranno le scienze reali, la filosofia della natura e la filosofia dello spirito, cioè delle filosofie in cui le categorie logiche si confrontano con le scienze naturali e con le scienze storiche. Alla fine di questo ulteriore percorso si raggiungerà di nuovo la chiarezza del sapere filosofico, cioè di nuovo la logica. Quindi il cerchio potrebbe ricominciare ad esser percorso da altri, a diversi e ulteriori livelli.

Più che l’immobilità in sé conchiusa del cerchio, allora, la figura evoca-bile dall’hegelismo è, com’è noto, la spirale. Giunti al punto, si potrebbe riscrivere la Fenomenologia, anzi: si potrebbero (si dovrebbero?) scrivere altre fenomenologie. In altri termini, l’oggetto come tale certamente è da me conosciuto, ma facendo tutt’uno con la mia, la nostra, esperienza è di fatto inesauribile, non è mai definitivamente appreso. Il Sapere assoluto è tutt’uno con la più intima delle esperienze di riconoscimento: lo spirito deve fare i conti con se stesso, deve riconoscersi10. Su questo punto Hegel non ritiene di dover spendere più di qualche parola, tanto gli appare evi-dente. È ovvio insomma che il cammino potrebbe ricominciare, sulle basi di un’interpretazione diversa e di un mutato paesaggio storico.

Sembra che la Fenomenologia dovesse chiamarsi Scienza dell’espe-rienza della coscienza, restato poi come sottotitolo e come unico titolo in alcune delle prime copie. Esperienza della coscienza può essere inteso

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in senso soggettivo (come la serie delle esperienze attraversate dalla co-scienza) ed in senso oggettivo: la coscienza è l’oggetto dell’esperienza. In ogni caso, quando dice coscienza Hegel intende il permanere in un atteggiamento che presuppone il dualismo, la coscienza da una parte e l’oggetto dall’altra. La scienza dell’esperienza della coscienza descrive la lunga esperienza attraverso la quale questo due viene superato e da un dualismo dell’opposizione si va verso quel superamento che potremmo definire un dualismo in vista della riunificazione. La descrizione di questa esperienza – non questa esperienza stessa, ma la sua descrizione – per Hegel è già scienza: ecco perché la Fenomenologia non va considerata un’introduzione, bensì la descrizione in medias res di esperienze dal cui superamento nasce la possibilità stessa di far scienza.

Soggetto ed oggetto di questa ricognizione è lo Spirito assoluto, sintesi assimilata della realtà storica determinata che Hegel ha scelto di conside-rare. Nel suo compiersi, risultano evidenti le tracce più recenti dell’Illu-minismo e della rivoluzione francese, di una storia culturale che si è libe-rata da imbarazzi e paure, disestraniandosi. L’oggetto, la Cosa, non è più in sé: o meglio, si ha adesso consapevolezza piena che la cosa non è mai stata in sé, che tutto è in funzione del sapere e nulla può farci ormai paura perché tutto può essere compreso e reso nostro. La più icastica e chiara affermazione in questo senso la si trova ancora nella Prefazione della Fenomenologia: «Il vero è l’intiero. Ma l’intiero è solo l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell’assoluto devesi dire che esso è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-se-stesso. Per quanto possa sembrare contraddittorio che l’assoluto sia da concepire essenzialmente come risultato, basta tuttavia riflettere alquanto per rendersi capaci di questa parvenza di contraddizione».11

Questa riflessione viene condensata da Hegel nelle pagine seguenti del-la Prefazione, ma di fatto costituisce la trama generale dell’opera. Quan-do Hegel afferma testualmente che l’Assoluto è presso di noi, quando correlativamente parla di Sapere assoluto, i suoi obiettori ritengono che questa presenza totale dell’assoluto sia un’illusione, che l’assoluto emer-ga dal dileguare del finito. D’accordo invece con Francesco Valentini, si tratta di un caso dei più interessanti nella storia della critica filosofica di completo fraintendimento. Si è sostenuto cioè che il Sapere assoluto hegeliano, che appunto è fra noi, sia qualcosa di definitivo e attesti la pos-

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sibilità per l’uomo di conoscere in maniera inerrante, escludendo quello che comunemente si chiama il fallibilismo. In realtà, leggendo i testi più tipici di Hegel in questo senso, per esempio proprio le pagine finali della Fenomenologia dello spirito, si tratta di tutt’altro. che l’assoluto è fra noi significa che il Sapere assoluto è l’attitudine cognitiva ed interatti-va che segue fatti storici determinati, generata da una fase storica preci-sa, frutto di un lungo percorso giunto fino alla Rivoluzione francese e al mondo post-rivoluzionario. Al termine del quale è infine possibile leggere la Storia come un lungo e contrastato cammino durante il quale si è im-posta la libertà: prima ancora che la libertà politica, la libertà di giudizio, di un giudizio particolare, che non dice del mondo, ma dice il mondo, lo sente proprio, lo sente tutt’uno con la propria azione12.

Come si è detto, questo sapere è libero perché sa di non avere altri con-dizionamenti che la propria misura: perché si tratta pur sempre del nostro modo di sapere, limitato dal nostro essere (de-)finiti. È proprio questa finitezza il limite conquistato dal Sapere assoluto: un sapere che trova la propria misura in sé e non in altro, ad esempio in Dio, come faceva la teologia.

Proprio perché la ragione si è liberata da vincoli; proprio perché la sto-ria fenomenologica delle sue figure mostra che la religione – fondamen-tale per millenni nel rappresentare il contenuto della cultura – non è più la forma adeguata di rappresentazione della realtà; che appunto non è più divisa da noi, non ha misteri, pur mantenendo secche, pozzi, persino abissi, che si collocano però sul nostro stesso piano. È come se avessi-mo un’enorme mappa intorno a noi, disegnata dalle nostre azioni e dalle nostre riflessioni: da riempire ancora e ancora, e per sempre, ma da noi e su questo livello, senza immaginare mappe nascoste e piani diversi, ulte-riori rispetto alla nostra capacità di ragionare con tutta l’anima. e proprio dall’esperienza teologica, immediatamente precedente, prende avvio il testo dell’ottavo capitolo.

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Note al capitolo 1

1 M. Heidegger, La Fenomenologia dello spirito di Hegel, Guida, Napoli 2000, pag. 76.

2 Anche ai nostri giorni alcune delle critiche più affilate all’hegelismo, pur pienamente consapevoli del debito filosofico della modernità nei confron-ti del filosofo di Stoccarda, si appuntano ancora proprio sul Sapere as-soluto. Per esempio, roberto Finelli, in Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx (Bollati Boringhieri, Torino 2004). La concezione dello Spirito come autocoscienza perfetta e trasparente di sé, oltre a sconfessa-re l’esigenza di un principio pratico di universalizzazione della libertà e di unificazione della comunità che non produca scissioni all’interno della soggettività, imponendo il dominio della componente razionale su quella empirico-sensibile della personalità, renderebbe anche per Finelli apore-tica la teoria circolare di una verità e di una soggettività che non sono presupposte, ma poste attraverso la mediazione con l’alterità.

3 Fa quest’effetto leggere, in un contesto invece di generale comprensione dell’hegelismo, in cui Ferraris si ripropone non tanto, per l’appunto, “un capovolgimento di Hegel, quanto piuttosto un suo inveramento”, la tesi per cui ci sarebbe, «nella nozione hegeliana di spirito, un assunto di fondo, l’i-dea che esista una entità autonoma, libera da qualsiasi fondamento mate-riale, e che si oggettiva nelle istituzioni o si manifesta indipendentemente da esse come assoluto» (M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, cit., pag. 320).

4 La definizione (Unbegriff ) è di Walter Jaeschke, per il quale Sapere as-soluto è «una formula provocatoria, anche se non del tutto esplicitata, per una teoria integrale della vita spirituale, il cui risultato deve essere proprio la realizzazione del “Sapere assoluto”». W. Jaeschke, Il Sapere assoluto, in: “Post filosofie”. Riconoscimento, dialettica e fenomenologia. A due-cent’anni dalla Fenomenologia dello spirito di Hegel, cacucci editore, Bari, anno 3, gennaio-dicembre 2007, pag. 125.

5 H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della stori-cità, La Nuova Italia, Firenze 1969, pag. 242.

6 Ivi, pag. 361.7 M. Heidegger, La Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pag. 214.8 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, traduzione italiana di enrico

De Negri, ed. originale La Nuova Italia, Firenze 1963; nuova edizione,

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edizioni di Storia e Letteratura, roma 2008, tomo I, pag. 30. Oltre alla classica edizione di De Negri ed alla più recente di Garelli, già citata, ricordiamo l’edizione italiana curata da Vincenzo cicero (Bompiani, Mi-lano 2000, con testo tedesco a fronte). Tra le traduzioni parziali, rilevante è quella di Alexandre Kojève nel corpo della sua Introduzione alla lettura di Hegel, edita com’è noto da raymond Queneau nel secondo dopoguerra (1947) e frutto dei famosissimi corsi tenuti da Kojève tra il 1933 ed il 1939 presso l’École des Hautes Études a Parigi (edizione italiana a cura di Gian Franco Frigo, adelphi, Milano 1996. In precedenza era stata tradotta par-zialmente ne La dialettica e l’idea della morte in Hegel, einaudi, torino 1948; poi nuova ed. con un saggio introduttivo di remo Bodei, einaudi, Torino 1991).

9 Impossibile sintetizzare la bibliografia sul tema della memoria nella Fe-nomenologia. Per una prima, utile rassegna, si veda Storia e memoria in Hegel, in Valerio Verra, Su Hegel, Il Mulino, Bologna 2007, pagg. 5-30.

10 accanto alle classiche interpretazioni di destra e di sinistra, conservatrici e marxiste, che si sono confrontate per un secolo e mezzo, da qualche de-cennio è invalsa una terza interpretazione, hegeliano-liberale. Per la quale, appunto, il concetto-chiave è “riconoscimento”: il mutuo riconoscersi vie-ne in qualche modo a colmare il vuoto lasciato dalla rinuncia a qualsiasi pretesa ontologica.

11 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., I, pag. 15.12 «Il “Sapere assoluto” è la figura filosofica della libertà che lo spirito rag-

giunge nel suo percorso storico», W. Jaeschke, op. cit., p. 125.

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2. GeneSi del Sapere aSSoluto

2.1 Sapere e rappresentazione

«Lo spirito della religione disvelata non ha ancora oltrepassato la sua co-scienza come tale; ovvero, ed è lo stesso, la sua autocoscienza effettuale non è l’oggetto della sua coscienza; egli stesso in generale e i momenti che in lui si distinguono cadono nella rappresentazione e nella forma dell’og-gettività1»2.

In apertura di ottavo capitolo, si riprendono alcune figure della coscien-za per mostrare come lungo il cammino l’oggetto della coscienza sia stato superato in quanto oggetto. Nella cultura ancora dominata dalla religione – in questo contesto, il pensiero teologico cristiano – l’autocoscienza rea-le dello Spirito non era ancora oggetto della sua coscienza. Ora il pensiero ha di fatto superato quell’impostazione, ma – in un certo senso – è come se si fosse tornati indietro: tende infatti a riemergere l’attitudine coscien-ziale dualistica, pre-autocoscienziale. come del resto nella teologia cri-stiana (rivelata), nella quale si dà da una parte il creatore e dall’altra la creatura, Dio e l’uomo, l’immortalità e l’essere mortale. a questo livello, l’autocoscienza effettuale – vale a dire l’uomo religioso nella sua concre-tezza, che vive nel mondo – non è l’oggetto della coscienza religiosa. Di fatto, c’è una scissione tra il soggetto in quanto credente ed il soggetto in quanto creatura profana, nel quale il primo ancora non si ri-conosce pienamente (non è l’oggetto della sua coscienza). Tant’è che nello spirito religioso è ancora possibile distinguere momenti diversi: l’al di qua, il secolo, e l’al di là, l’eterno. Per di più, aggiunge Hegel, questi distinti “ca-dono nella forma della rappresentazione e nella forma dell’oggettività”: non solo quindi l’uomo di fede cristiano ha bisogno ancora di rappresen-tarsi quei momenti nella forma dell’incarnazione, della resurrezione, ma li vive anche come separati dalla propria coscienza effettuale. In altri ter-mini, la vicenda della salvezza è vissuta anche dalla più matura coscienza religiosa come racconto evangelico delle vicende di cristo, dell’agnello che prende su di sé i peccati del mondo, e non in prima persona3.

Nella cultura teologica, lo Spirito era dunque ad uno stadio nel quale ancora si rappresentava i contenuti spirituali, cioè non era ancora in gra-

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do di pensarli nelle forme libere della filosofia, e li vestiva dunque con i panni dell’oggettualità, culturale e religiosa: il sapere del teologo è una coscienza dell’esteriore, non un’autocoscienza. Ciò per quanto riguarda la forma di quel sapere; ora dice del suo contenuto.

«Il contenuto della rappresentazione è lo spirito assoluto. Quel che ancora resta da fare è solo il superamento di questa mera forma; o meglio, appar-tenendo essa alla coscienza come tale, la sua verità deve esser già risultata nelle figurazioni della coscienza medesima»4.

Nonostante la forma rappresentativa, in quella cultura erano già presen-ti tutti gli elementi e le premesse che consentono allo Spirito di sapersi libero: il suo contenuto è lo stesso del Sapere assoluto. In altri termini, la cultura occidentale dopo la rivoluzione francese, cioè lo Spirito (di que-sto si tratta, di un che dunque che nulla ha di spirituale nel senso corrente del termine), sa già tutto, ma in forma imperfetta: nella forma del due, della scissione. Non resta allora che togliere e superare [aufheben] quella mera forma facendone tesoro, andando ad intestarsi la verità di quelle rappresentazioni. In altri termini, occorre riferire il Sapere, già totale, a se stessi, disalienandolo, liberandolo dalle incrostazioni dell’oggettività rappresentativa.

Infatti, questo tutto che si sa è ancora altro da sé. La coscienza religiosa riferisce il contenuto totale a cristo che muore e risorge, laddove il Filo-sofo è libero di riferire quello stesso contenuto a sé, e così è egli stesso tutto: «Il Saggio riferisce esattamente a se stesso il medesimo contenuto totale che il Religioso riferisce al suo Dio», commenterà Kojève5.

Le battute iniziali dell’ottavo capitolo spiegano quindi perché il con-tenuto della cultura (già chiaro alla ragione, come descritto nel quinto capitolo) non è ancora assoluto rispetto alla forma, quando ammantato da raffigurazioni e rappresentazioni teologiche. L’uomo moderno deve an-cora intestarsi quelle qualità che la religione rivelata attribuisce ancora ad un terzo, ad un che di ulteriore e di divino. In effetti, «formalmente dalla ragione si potrebbe passare al Sapere assoluto, che è la ragione che com-prende se stessa e svolge le sue categorie. La ragione è infatti categoria disalienante, atea, come il Sapere assoluto o la logica, che è una teologia interamente positiva, cioè compiutamente atea. I capitoli 6 e 7, pure nella loro straordinaria ricchezza, non vanno oltre la ragione, ma ne lumeggia-

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no la storia. Essi sono il suo “mondo”, come ha detto Hegel (capitolo 6), e un’interpretazione ideologica di questo mondo (capitolo 7)»6.

Già il finale del settimo capitolo aveva preparato il terreno a questo innalzamento di senso, per cui dalla teologia si può passare – anche ge-rarchicamente – alla filosofia o scienza. E allora, «il teismo cristiano si trasforma in antropoteismo hegeliano non appena si sopprime l’idea della trascendenza dell’essere cioè non appena colui che parla riferisce a se stesso ciò che dice, e vede in ciò che dice non una conoscenza di quel che egli non è (del Dio trascendentale), ma una conoscenza di sé»7.

L’imperfezione della forma del sapere-non-ancora-assoluto si rivela, in secondo luogo, perché si sa tutto, ma solo quantitativamente. Si sa già tutto ciò che è possibile sapere. Ma il Sapere assoluto non è tutto il sapere: «per Hegel i concetti di relativo e di assoluto come caratteri del sapere non sono da intendersi come quantitativi, bensì come qualitativi»8. Assoluto significa qualitativamente non relativo. Relativo, invece, è la movenza tipica di quella che Hegel chiama filosofia della riflessione, nel senso che c’è un soggetto che riflette – come uno specchio – un oggetto, anche se a differenza che nello specchio non vede sé stesso, cosa che accadrà invece a livello autocoscienziale. È l’attitudine della gnoseologia kantiana. La Fenomenologia invece si pone come scienza dell’esperienza della coscienza perché è sapere libero, memore però delle figure che l’ini-ziale rapporto duale ha assunto nel corso della storia della cultura umana: quando ancora la verità della mia conoscenza è in un oggetto altro da me che conosco. Permanendo così uno iato, una distinzione tra il sapere e la sua verità. Quel sapere è così destinato a restare sempre soggettivo, e il fondo delle cose, l’essenza, un che d’inconoscibile, di noumenico, d’opa-co, d’impermeabile al sapere. Sono le filosofie che postulano sempre un dietro della realtà, un’ulteriorità, una presunta essenza delle cose, diversa dall’apparenza.

L’itinerario fenomenologico ha invece svelato che l’oggetto del sapere altro non è che la sostanza spiritual-culturale: cioè, è lo Spirito che co-nosce sé medesimo nell’universo, una cultura che approfondisce e si ap-propria delle proprie origini. Per apprezzare l’automovimento della cosa stessa, l’atteggiamento non può essere che l’osservare, «sprofondando e perdendosi nell’oggetto al fine di esprimerne l’intima essenza»9: «Il co-noscere filosofico esige che ci si abbandoni alla vita dell’oggetto o, che è lo stesso, che se ne abbia presente e se ne esprima l’intima necessità»10.

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Questo Spirito conosce sé stesso nel mondo, s’incontra con sé stesso nel mondo, nel rapporto con gli altri. Il sapere l’essere si scopre così un sapere Sé: si riconosce. Ma questo è un risultato, non un immediato. La riflessione non è fuori dall’Assoluto: è l’Assoluto stesso a riflettersi, e la riflessione non dipende da null’altro che da sé, è essa stessa assoluta. Per questo l’assoluto è soggetto. In questo Sapere non c’è più alcuna distinzione tra certezza e verità, tra sapere e essere, tra soggetto e oggetto. L’uomo è soddisfatto del proprio sapere Sé nel e in quanto mondo.

2.2 Assoluto e totalità

Il Sapere assoluto è pertanto la conoscenza compiuta di sé, e non più – come per il religioso – la conoscenza d’un assoluto altro da lui: nel sapere teologico il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto restano al di fuori l’uno dell’altro, mentre nel Sapere assoluto vengono a coincidere.

Hegel insiste, in queste prime pagine, su come questo risultato si otten-ga grazie ad un doppio movimento: la coscienza è divenuta coscienza-di-sé – cioè autocoscienza – riconducendo l’essere al Sé come propria verità, come verità dell’essere. Ha dovuto però evitare di superare questa forma semplicemente tornando in modo unilaterale nel Sé: vale a dire, ha dovu-to evitare quel che già la cultura aveva sperimentato nel mondo romano del diritto, e poi nel mondo rivoluzionario della libertà assoluta ed infine nel mondo rappacificato della coscienziosità kantiana. Tutti ritorni nel Sé caratterizzati dalla certezza soggettiva. L’uomo moderno, in altre parole, non può superare la forma propria della conoscenza teologica contando soltanto sulla propria consapevolezza, facendo centro su di sé, rinchiu-dendosi nella propria assoluta certezza, come appunto l’incorruttibile ro-bespierre o come la coscienza kantiana, autoevidentemente e solo sogget-tivisticamente certa del proprio volere11. Insomma, per passare davvero oltre, occorre – dice Hegel – andare oltre questa coscienza formale che postula le proprie certezze. Queste attitudini, per quanto decisive nella storia della nostra cultura, sono centrate esclusivamente sul soggetto: di qui quella fallacia trascendentale che – secondo Maurizio Ferraris – dà vita ancor oggi ad un costruzionismo epistemologicamente giustificato, all’idea insomma per cui la realtà dipende senza residui dai nostri schemi concettuali12.

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Urge un passaggio fuori di sé, affinché la persuasione soggettiva si di-mostri verità oggettiva: lo spirito non può quindi non alienarsi, oggetti-varsi nell’essere, trovarsi nelle cose, il Sé non può non alienarsi nell’og-gettività:

«In questa alienazione [l’autocoscienza N.d.A.] pone sé come oggetto o, in forza dell’inscindibile unità dell’esser-per-sé, pone l’oggetto come sé stessa»13.

Un doppio movimento: per ricondurre l’oggettività a Sé, il Sé ha dovuto alienarsi e ritrovarsi nell’oggettività. In altre parole, se dal punto di vista fenomenologico la coscienza segnala la perdurante scissione tra soggetto e oggetto, qui, a livello dello Spirito, coscienza significa il movimento intero dello Spirito che si aliena nel mondo, si sa come cosa (come atteg-giamenti conoscitivi singolari nei confronti della realtà, come certezza sensibile, percezione, intelletto, ragione, le singole modalità conoscitive esposte nei primi cinque capitoli dell’opera) per tornare poi a sé come spirito che sa la realtà come Sé, come propria oggettivazione. Per riassu-mere: lo spirito riconsidera il cammino percorso, le tappe di quel cammi-no riconoscendosi in ognuna di quelle tappe, e quindi nella loro totalità, sapendo di esser stato lui ad aver posto e scandito quelle stesse tappe. D’altra parte, e di converso,

«in quest’atto è contenuto l’altro momento onde essa ha anche tolto e ripre-so in se medesima quell’alienazione e quell’oggettività, essendo dunque presso di sé nel suo esser-altro come tale»14.

L’assoluto così concepito resta presso di sé anche facendosi altro, anzi: proprio perché è in grado di farsi altro. È lo Hegel più puro, quasi di ma-niera. anche quando si fa altro, l’assoluto non si stacca da me; il suo cir-colare nell’oggettività è appunto il suo, gli è del tutto proprio, non depo-tenziando la sua carica soggettiva, e viceversa assumendo dal reale tutta la persistenza, la salutare entropia – per dire così – della materia naturale.

«Questo è il movimento della coscienza la quale, in tal movimento, è la totalità dei propri movimenti. – Similmente la coscienza deve aver stabili-to una relazione all’oggetto secondo la totalità delle sue determinazioni, e

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così deve averlo attinto secondo ciascuna di esse. Questa totalità delle sue determinazioni rende l’oggetto, in sé, un’essenza spirituale […]»15.

In poche righe, il termine totalità ricorre tre volte. Totale equivale qui a dire che implica un Sapere universalmente e definitivamente valido, che ha in sé, almeno virtualmente, tutte le determinazioni possibili della conoscenza e dell’essere, del soggetto e dell’oggetto. Kojève offre una spiegazione articolata di questa movenza iniziale della seconda parte dell’introduzione dell’ottavo capitolo. Per arrivare al Sapere assoluto, bisogna superare l’opposizione tra l’oggetto del Sapere assoluto e il suo soggetto, cioè l’uomo che sa, che lo possiede: l’uomo deve poter rife-rire il Sapere assoluto a se stesso. Ciò significa che l’Uomo (lo Spirito) deve avere già negato tutto; il Sapere assoluto implica il pieno successo dell’Azione negatrice dell’Uomo. Da questo punto di vista, fine della storia – nota Vegetti16 – è l’espressione che designa la pienezza dello Spirito nel suo sapersi, l’epifania di un soggetto non più disperso negli eventi.

Kojève scrive con le maiuscole sia Azione sia Uomo, et pour cause: perché se non si vive questa esperienza in pieno, l’affermazione dell’i-dentità di soggetto e oggetto sarebbe gratuita. Invece è un’affermazione che ha senso, e quindi il Sapere assoluto può darsi, perché, appunto grazie all’azione, non c’è più opposizione evidente tra il soggetto e il mondo, sia sociale che naturale. Da un punto di vista sociale, poiché ormai nessun uomo è straniero all’altro, non permane alcuna opposizione (che vuol dire che non permane come un non-saputo neppure all’interno della singola autocoscienza); e da un punto di vista naturale, poiché la natura è del tut-to riconducibile al lavoro dell’uomo e quindi neppure essa gli è in alcun modo estranea.

Kojève tiene a stringere il legame tra sapere e azione negatrice: «In ge-nerale, occorre sapere che l’essere nella sua totalità non si riduce all’es-sere dato; occorre sapere che questa totalità dell’essere implica anche un essere creato dall’Uomo autocosciente, che si esteriorizza o si aliena (sich entäußert) mediante l’Azione, realizzando al di fuori di sé le idee che forma nel suo foro interiore. Insomma, solo sapendo d’essere azione negatrice che ha successo l’Uomo può pervenire alla Saggezza e affer-mare in un Sapere assoluto la sua identità con l’essere assunto nella sua totalità. Solo comprendendosi nella maniera in cui si è compreso nella e

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mediante la PhG [Fenomenologia dello Spirito N.d.A.] (o nei primi sette capitoli e mediante questi) il Filosofo può diventare un Saggio.

Ma, per diventarlo, occorre che l’Uomo si comprenda così. Detto altri-menti, non è sufficiente essere azione creatrice, cittadino-lavoratore nello Stato perfetto. Occorre sapere che lo si è, occorre prendere coscienza di sé. È quanto esprime Hegel quando dice che l’auto-soppressione dell’og-getto e la sua posizione da parte del soggetto devono esistere non soltanto ‘in sé’ o ‘per noi’, ma anche per la stessa Auto-coscienza»17.

La conclusione che Kojève ne trae vale come un’anticipazione cruciale della sua interpretazione non solo di questo ottavo capitolo, ma di tutto Hegel: «È per comprendere il mondo naturale che lo si trasforma con il Lavoro, è per comprendere se stessi che ci si fa, mediante la Lotta, cit-tadini dello Stato perfetto. Insomma, lo Stato perfetto e, quindi, la Sto-ria tutt’intera non esistono se non perché il Filosofo possa pervenire alla Saggezza scrivendo un Libro (‘Bibbia’) contenente il Sapere assoluto»18.

Già in chiusura del primo paragrafo del capitolo, Hegel delineerebbe quindi l’intero suo programma: la Storia ha senso se, alla fine, c’è chi si fa carico di ricomprenderla e di tracciarne le linee ed i tratti; se c’è il Saggio in grado di poterne scrivere il Libro, vale a dire la Fenomenologia dello spirito.

2.3 Gli aspetti dell’oggetto

«L’oggetto, dunque, è da una parte essere immediato o una cosa in genere, – il che corrisponde alla coscienza immediata; d’altra parte un divenir-altro di sé, cioè la sua relazione o il suo essere per altro ed esser-per-sé, la determinatezza,- il che corrisponde alla percezione; – e d’altra parte ancora è essenza o è come Universale,- il che corrisponde all’intelletto»19.

ecco allora le diverse determinazioni dell’essere oggettivo così come sono state colte dalla coscienza filosofica, cioè da chi sa ma non ancora in modo assoluto, cioè scevro da condizionamenti. In un modo o in un altro, prima o poi, il filosofo ante-Hegel parla sempre di un oggetto altro da sé che la sua riflessione spiritualizza, defattualizza. L’oggetto gli si mostra allora così come lo si è concepito, nei vari aspetti che di volta in volta la riflessione ha messo in luce, evidenziando appieno le proprie legalità

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canoniche o tipiche, ma senza poterne mai cogliere l’individualità. Hegel ripercorre una volta di più queste posizioni, ora che è giunto al termine dell’itinerario e ne ricapitola il senso.

Innanzitutto, a ciò allude la prima affermazione del capoverso: la co-scienza filosofica ha colto l’oggetto come essere immediato. È una co-scienza davanti alla quale il mondo sta come tutto ciò che è fuori di lei, tutto quel che lei non è. È l’esperienza della certezza sensibile, nella quale la coscienza ha ad oggetto e guarda innanzitutto il mondo delle cose fisiche o naturali, e non il mondo umano, sociale. La sua sarà infat-ti una metafisica e non un’antropologia. O meglio, diremmo, una teoria metafisica della conoscenza che poco ha a che fare con un’autentica on-tologia. Nell’esperienza della certezza sensibile, la coscienza si è basata sulle proprie sensazioni dirette che le hanno restituito sì l’immediatezza della cosa, ma che non le hanno ridato la singolarità, l’individualità di quella cosa in particolare: di un oggetto sento le proprietà, ma nel dirle, queste si rivelano universali, non esclusive di quell’oggetto, la cui sin-golarità continua a sfuggirmi, una volta affidata al linguaggio: «quando io dico una singola cosa, io la esprimo piuttosto come un del tutto uni-versale»20. La coscienza universalizza tutto quel che dice, grazie alla natura del linguaggio che ha la capacità “divina” di “invertire imme-diatamente l’opinione, di farla divenir altro”, di inserirla nell’ordine del simbolico. Per cui, quella della certezza sensibile, è un’esperienza in ultimo deludente.

Poi, queste sensazioni particolari, ma che singolari fino in fondo non sono, si sono integrate nel mondo della percezione. anche la percezio-ne è sempre qualcosa di determinato ed è essenzialmente rapporto tra il percipiente e il percepito. Percepire è mettere in relazione, distinguendo una cosa da un’altra: porre l’identità di una cosa ma, escludendo le altre, porre sempre anche il rapporto, la diversità. Percepire una cosa significa coglierne la realtà e distinguerla dalle altre che non sono quella cosa là. Percepire è quindi relare. Immaginare la cosa come una e percepirla però come molte, a seconda delle sue qualità, primarie o secondarie, come vo-leva Locke ad esempio. La sintesi vale in questo contesto soltanto come un mero collegamento di diversità, le categorie sono semplici funzioni soggettive che mettono in relazione il molteplice sensibile, restando però sul piano fenomenico ed in modo estrinseco, per cui alla fine non riesco a stringere la verità dell’oggetto tutt’intero.

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Ma al mondo non ci sono solo sensazioni e percezioni: ci sono anche le parole per dirle, ci sono i concetti. e allora la terza esperienza sarà quel-la dell’oggetto essenzializzato e reso astratto, l’esperienza dell’intelletto. L’intelletto universalizza le esperienze sensitive e percettive: questo tavo-lo qui, che tocco e che è altro dalla sedia, diviene anche il tavolo: essere diviene essere più ed altro rispetto a ciò che si è nella determinazione specifica del proprio essere singolare (questo tavolo qui, che vedo o tocco e col quale sto in una particolare relazione).

Nel complesso, tre determinazioni – dice Hegel – che inducono la co-scienza a sapere l’oggetto come se stessa, attraverso un percorso lungo il quale essa si forma nella sensazione del particolare, nella percezione dello specifico e nell’intellezione dell’universale, del concetto. Grazie all’intel-letto, conosco la singola cosa più nel profondo: non soltanto me la figu-ro e so cos’è, ma sono in grado di inquadrarla scientificamente, secondo presupposti e leggi. Se grazie alla sensazione ed alla percezione avevo compreso di avere a che fare – poniamo – con uno sportivo, adesso capisco meglio: e comprendo che quello sportivo è un calciatore, gioca secondo delle regole che mi sono chiare, al punto che posso dire di aver capito me-glio l’essenza del mio oggetto. Ma quest’essenza logica, questa struttura legale del mio oggetto, non mi dice nulla della sua concreta individualità.

«come intiero l’oggetto è il sillogismo ovvero il movimento dell’Univer-sale: attraverso la determinazione verso la singolarità e, viceversa, dalla singolarità, attraverso questa stessa come tolta, cioè attraverso la determi-nazione, verso l’universale»21.

L’intelletto mi ha permesso dunque di cogliere l’oggetto secondo una legge, e quindi più essenzialmente rispetto alle precedenti esperienze gnoseologiche. Hegel usa il termine sillogismo per dar conto del movi-mento triadico che connota quest’esperienza. Prima conosco il mio og-getto determinandolo singolarmente (e, nell’esempio di prima, capisco così che si tratta di uno sportivo). Poi lo conosco meglio, e cerco di capire – andando al di là della sua singolarità – che sport pratica, in quale univer-sale si colloca il suo fare sport: e capisco allora che gioca a calcio. Solo così mi ritorna una conoscenza piena del mio oggetto, quando all’interno della sua singolarità si va a vedere quali principi agiscono, quali sono le regole che lo determinano.

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e quando poi applico quegli universali al mio oggetto particolare, de-terminandolo davvero più da vicino e riconoscendolo, che so, come totti, o come Messi o ronaldo. Per cui in effetti il vero totti, in quanto gioca-tore, lo può conoscere solo chi sa di calcio, chi capisce le regole e le loro eccezioni. Il vero totti non è una qualche sostanza noumenica interna e inconoscibile del calciatore totti, un che di incomprensibile e di astratto; né è qualcuno che posso desumere dalla conoscenza per quanto approfon-dita della fisiologia sportiva e delle regole del football. No, il vero Totti è quello che l’intenditore sa come apprezzare, proprio perché ha tutti gli elementi concreti, culturali per inquadrare i suoi gesti atletici e le sue fi-nezze tecniche all’interno dell’assoluta determinatezza del singolo, vero universale concreto.

Queste tre determinazioni dell’oggetto, sensibilità e percezione corona-te dall’intelletto, restano quindi ancora tipiche dell’opposizione coscien-ziale tra soggetto ed oggetto. Per andar oltre, «secondo queste tre deter-minazioni, dunque, la coscienza deve sapere l’oggetto come se stessa»22. cioè, la coscienza deve apprendere di essere il suo oggetto-cosa in cia-scuno dei suoi aspetti, e non più altro da quello. Nonostante si sia ancora in un itinerario fenomenologico, non già logico:

«Ma quello di cui si tratta non è il sapere come puro concepimento dell’oggetto; anzi il sapere deve venire indicato soltanto nel suo diveni-re o nei suoi momenti secondo quel lato che appartiene alla coscienza come tale; e i momenti del concetto vero e proprio o del sapere puro debbon venire indicati nella forma di figurazioni [Gestaltungen] della coscienza»23.

Qui, nell’itinerario fenomenologico, non ci occupiamo della cosa in quanto pensiero della cosa – come farà la logica – ma come esperienza della cosa. Il sapere sarà indicato quindi solo nei suoi momenti che at-tengono al lato che appartiene alla coscienza: qui si tratta – spiega Hegel – soltanto di teoria della conoscenza, non di ontologia; stiamo trattando infatti delle caratteristiche cognitive riferibili al rapporto tra coscienza ed oggetto, delle esperienze della coscienza in quanto capaci di rivelare l’oggetto, non dell’oggetto stesso rivelato dalla coscienza: si parla solo di un lato del rapporto, appunto quello fenomenologico. Queste caratteristi-che appariranno dunque come forme, rappresentazioni, figure insomma

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della coscienza esperienziale – continueranno ad esser considerate dal lato della coscienza.

Si riveleranno così degli aspetti parziali, particolari del nostro rapporto con le cose del mondo: l’oggetto non ci apparirà ancora come l’essenzia-lità spirituale [geistige Wesenheit]. anche se noi – che siamo ormai nel Sapere assoluto, noi che sappiamo ormai liberamente – siamo in grado di comprendere questi passaggi nel loro insieme, per cui riconosciamo l’oggetto come «somma di figure tali che noi raccogliamo insieme e nelle quali la totalità dei momenti dell’oggetto e del comportamento della co-scienza può venir mostrata solo risolta nei propri momenti»24. Saremmo ormai perfettamente in grado di pensare l’oggetto secondo la sua logica, cioè secondo la sua più propria ed intima struttura, ma qui non ne va di questo: qui, nel percorso fenomenologico, stiamo ripercorrendo il cam-mino dello spirito attraverso le figure che lo illustrano.

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Note al capitolo 2

1 Gegenständlichkeit, letteralmente oggettualità.2 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 287.3 La trattazione della religione rivelata, cioè del cristianesimo, chiude il

settimo capitolo della Fenomenologia, dopo le due sezioni dedicate alla religione naturale (a) ed alla religione artistica (b), cioè la religiosità greca. Una puntuale disamina di questa sezione (b) del VII capitolo è svolta da Guido coccoli in Arte, religione, sapere: un commento alla religione ar-tistica nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, Stamen, roma 2008.

4 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 287.5 A. Kojève (1947), Introduzione alla lettura di Hegel, edizione italiana a

cura di G.F. Frigo e r. Queneau, adelphi, Milano 1996, pag. 365.6 F. Valentini, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, La

Scuola di Pitagora editrice, Napoli 2011, pag. 31.7 A. Kojève, Introduzione, cit. pag. 367.8 M. Heidegger, La Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pag. 43.9 r. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Bari-roma 2009, pag. 15.10 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., I, pag. 44.11 Secondo robert Pippin, l’assenza del momento del riconoscimento segna

la più marcata differenza tra la filosofia pratica di Kant e quella di Hegel. Si veda r.B. Pippin, Hegel on Self-Consciousness: Desire and Death in the Phenomenology of Spirit, Princeton University Press, Princeton 2001.

12 Si veda Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, cit., passim ed in particolare pag. 65. Nel concepire la filosofia come classificazione e descrizione, Ferraris sembra privilegiare comun-que l’oggetto rispetto al soggetto, con un’opzione anti-kantiana che so-stituisce all’Io trascendentale l’idea del catalogo, nel segno di una svolta neo-realista e post postmoderna che tuttavia sembra rischiare nuovamente un dualismo riflessivo.

13 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 287.14 Ivi, pag. 288.15 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 288.16 M. Vegetti, Hegel e i confini dell’Occidente. La Fenomenologia nelle in-

terpretazioni di Heidegger, Marcuse, Löwith, Kojève, Schmitt, Bibliopo-lis, Napoli 2005, pag. 209.

17 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 376.

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18 Ivi, pag. 377.19 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 288.20 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., I, pag. 92.21 Ibidem.22 Ibidem.23 Ibidem.24 Ivi, II, pag. 289.

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3. preiStoria del Sapere

3.1 La Cosa è io

terminata l’introduzione al capitolo nei primi due capoversi, si pas-sa alla ricapitolazione quasi commemorativa delle figure, vere e pro-prie esperienze conoscitive, che hanno contraddistinto il cammino della coscienza filosofica, esposte nei primi tre capitoli dell’opera: Certezza sensibile, Percezione e Intelletto. Hegel allude a seguire alla ragione osservativa, oggetto del quinto capitolo, l’atteggiamento gnoseologico riconducibile all’idealismo soggettivo di Kant e Fichte, al quale andrebbe comunque ascritto il grande merito di aver intuito l’identità tra il pensare e l’essere. anche se poi, com’è noto, Hegel rimprovera a Kant di non esser stato fedele a questa intuizione intravista nell’appercezione pura, e di aver riposto l’essenza delle cose nella cosa in sé.

Quella ragione osserva la realtà esemplare ed esemplificabile, limitan-dosi dapprima a descriverla dall’esterno per poi scavarla, sempre però a partire dall’Io penso, cogliendone le strutture interne. Finendo col trovar-si con leggi, canonicità ed invarianze dell’oggetto che sono in fondo le mie, nel senso che è l’Io che le ha poste, dal momento che ogni intuizione non può non esser preceduta dal corrispondente concetto, pena altrimenti il suo esser cieca. Quindi, se dapprima questa cultura ha potuto ritenere che “l’essere dell’Io è una cosa” (come nella Ragione osservante diceva per esempio, appoggiandosi alla frenologia di Gall, “che lo Spirito è un osso”), arriva poi al rovesciamento semplice di quella proposizione, per cui è l’essere della cosa ad essere Io: cioè le leggi dell’oggetto, la sua struttura intima mi sono note proprio perché sono Io che le ho poste.

Nel primo momento, il Sé si è alienato nell’essere immediato: ha inteso ritrovarsi insomma come cosa, ha cercato la propria verità nella realtà fisica, nella certezza che la sensazione della cosa gli procurava: ma questo cosalismo lo ha lasciato insoddisfatto, perché gli è divenuto presto chiaro che il Sé non può esser ridotto ad oggetto sensibile ed immediato: «se l’Io vien chiamato anima, esso è bensì rappresentato anche come cosa, ma come una cosa che non si può vedere, toccare, ecc.; quindi, nel fat-to, non come essere immediato, né come ciò che s’intende per cosa.-» 1. Insomma, intendere l’Io come una cosa è un giudizio che non ha nulla

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di spirituale, non aggiunge nulla al nostro giudizio dell’oggetto, fondato sulla percezione e la sensibilità.

L’affermazione all’inizio del quarto capoverso “la Cosa è Io”2, è un giu-dizio infinito, cioè assurdo: come si può pensare l’Io come una cosa sin-gola, particolare, sensibile e immediata? Come può il Sé avere la propria verità in qualcosa di così immediatamente singolare? Per spiegare questo passo, Hyppolite ricorre alla terminologia di Heidegger, ricordando che il Sé ricadrebbe così nella sola natura, nella fattività del Dasein. Questo è l’atteggiamento, ancora parziale, anche della ragione osservante, che cer-cava – e s’illudeva di trovare – sé stessa in un’indifferente cosa – dice He-gel. come se il senso del mondo, della realtà, fosse frutto per sommatoria dalla certezza che lo scienziato ricava dall’osservazione dei fenomeni. Per cui ne deriverebbe anche un atteggiamento epistemologico di tipo de-terministico, oggi diremmo riduzionista, secondo il quale l’essenza delle cose, intese nella loro multiforme morfologia, è tutta riconducibila a dati empiricamente rilevabili.

In seguito, la coscienza capirà che quel giudizio infinito così assurdo (Io sono questo sasso, cioè la mia verità è nella mia capacità di descrivere questo sasso qui, o questo cranio, questo osso, questo pianeta) si rove-scerà nel suo opposto: questa cosa ha la sua verità in me, il Soggetto è la verità delle cose che non sono altro da lui.

Il giudizio infinito è quindi un giudizio esatto, ma senza valore, perché non è in grado di spiegare, di dar conto dell’esperienza: dice, ad esempio, “il cane è un animale”, ma non riesce a dire che “il cane è fedele”, dando quindi un giudizio sul cane che vada al di là della sua mera descrizione. L’esempio che Hegel fa nel quinto capitolo è tratto dalla frenologia e ri-guarda, appunto, un osso. Ora, dire che la nostra intelligenza dipende dal-la forma del nostro cranio, coglie un aspetto di verità. Perché certamente la forma delle ossa del teschio, la sua capacità, il numero e la qualità delle sinapsi cerebrali, e più ancora i nostri frame, vale a dire le caselle culturali preconscie in base alle quali siamo in grado di riconoscere e incasellare un discorso, hanno certo a che vedere con la nostra capacità di essere intelligenti. Ma non determinano in toto l’attività psichica. Hegel ritiene piuttosto che sia la funzione a creare l’organo, e non viceversa.

Il giudizio infinito può essere capovolto: l’osso è lo spirito, nella mi-sura in cui la ragione osservante comprende che le leggi su cui si basa

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per cogliere la realtà sono poste da lei: è lei che classifica il mondo e che stratifica e gerarchizza i cataloghi. In altre parole, è la messa in pratica del presupposto, dell’idealismo soggettivo che la connota.

«Ma in effetto, secondo il suo concetto, è la più gran ricchezza spirituale, e questo suo interno, in lui non ancora evidente, è ciò che esprimono i due altri momenti da considerare ancora»3.

Nel profferire questo giudizio infinito che di fatto non spiega nulla, non aggiunge senso alla realtà, si è però comunque segnata una tappa cultu-ralmente rilevante. Perché l’affermazione che lo spirito è un osso, rove-sciandosi nel suo contrario, ci ha reso consapevoli che semmai è l’osso ad essere anche spirito; cioè che il concetto dell’Io si deve cosalizzare per comprendersi, deve riconoscere lo strettissimo e imprescindibile com-mercio che intrattiene con il reale attraverso cui soltanto può cogliersi. In altri termini, il fatto che l’osso sia anche spirito significa che la sua cosalità non si oppone alla riflessione, anzi, ne costituisce il necessario transito affinché quella si dia come conoscenza reale.

Così, “secondo il suo concetto, è la più grande ricchezza spirituale”4: soltanto che a questo punto dell’itinerario fenomenologico ciò non è an-cora evidente per la coscienza, per la quale l’oggetto resta un che di estra-neo. Ma nell’affermazione, peraltro vuota se posta nella sua semplicità, l’Io è una cosa, si svela un altro livello di verità. La cosalità della cosa è tolta, superata:

«Essa non è nulla in sé; essa ha significato soltanto in una relazione, cioè solo attraverso l’Io e attraverso il suo rapporto all’Io»5.

Se prima il Sé si era alienato nell’immediatezza semplice della cosa, adesso si è oggettivato come determinatezza e rapporto. Hegel ricor-da che ne ha trattato nella parte dedicata al mondo dell’utile, il mondo dell’Illuminismo, cioè nella sezione b. dello spirito estraniato, all’interno del sesto capitolo (Die Wahrheit der Aufklärung).

Hegel continua a mostrare l’inanità della visione idealistico-soggetti-vista della realtà; una visione – nella teoria della conoscenza come in politica – che svuota le cose della loro pesantezza, della loro ulteriorità rispetto al soggetto. tutto assume senso solo nella relazione, soltanto se

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rapportato al soggetto che conosce, o che utilizza la realtà. Ma, come molte delle tappe della cultura, anche l’atteggiamento negatorio nei con-fronti del reale tipico dell’Illuminismo, ha un che di interessante. e que-sto è stato colto dall’utilitarismo. È la traccia che possiamo ritenerne, il suo approdo positivo:

«Per la coscienza questo momento è risultato della pura intellezione e nel rischiaramento. Le cose sono senz’altro utili, e sono da considerarsi sol-tanto secondo la loro utilità»6.

Per un verso, nell’assumere l’utile a criterio d’interpretazione della re-altà, la coscienza confessa la propria dipendenza, ancora, da una spiega-zione a sé esterna, per l’appunto il criterio dell’utilità, sulla base della quale giudica. Si tratta quindi ancora di una forma di metafisica, cioè di un filosofare che assume un criterio da cui tutto il resto dipende. D’altra parte, lo spirito scopre però che al di là di quello, oltre l’utile, c’è la sua libertà di scegliere questo o quello a criterio, sia pur metafisico, della real-tà. In altri termini, è stata la stessa cultura a scegliere – ad un determinato momento – di fare dell’utile il valore determinante. Oltre l’utile, si dà la sua libertà che distingue appunto ciò che è utile da quel che non lo è e la libertà, ancor più alta, di scegliere questo o quel criterio. Oltre l’utilitari-smo di un Helvétius, si affaccia Rousseau:

«L’autocoscienza coltivata, che ha percorso il mondo dello spirito estra-niato, con la propria alienazione ha prodotto la cosa come se stessa; perciò nella cosa conserva ancora se stessa e ne sa la dipendenza, o sa che essen-zialmente la cosa è soltanto essere per altro; o, per esporre in modo com-pleto la relazione, vale a dire ciò che solo qui costituisce la natura dell’og-getto, la cosa vale all’autocoscienza come un per-sé-essente; essa enuncia la certezza sensibile come verità vissuta, ma questo stesso esser-per-sé lo esprime come momento che altro non fa se non dileguare e passare nel suo contrario, nell’abbandonato essere per altro»7.

Le movenze dell’inizio dell’ottavo capitolo della Fenomenologia, ri-cordando l’itinerario che la coscienza ha esperito nel mondo delle cose, danno il senso di quanto la scienza e la filosofia post-rinascimentali pren-dessero a cuore le realtà percepite. Siamo in quella fase della storia del

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mondo moderno, già descritto nel sesto capitolo, in cui finalmente la cer-tezza delle cose viene presa sul serio, anche se ancora viene considera-to solo il lato del rapporto per cui esse sono per il soggetto: è appunto il mondo dell’utile, per cui le cose sono in funzione del loro uso, della loro Zuhandenheit, del loro essere-a portata-di-mano. Per cui, in ultimo, la cosa, l’oggetto, dilegua in quanto tale, e l’attenzione, il senso, passa nell’altro estremo del rapporto, cioè nel soggetto utilizzatore: la cosa è, in quanto è un Fürsichseiendes, ha una propria autonomia assai relativa, perché è in funzione dell’altro.

È quanto in fondo afferma questa forma dell’autocoscienza coltivata, vale a dire della cultura razionalistica, post-galileiana e post-cartesiana, ormai arricchita dai contributi di Locke, Leibniz, Spinoza e della filosofia settecentesca. Ne è un frutto anche l’utilitarismo di Hélvetius, al quale in un certo senso approda l’Illuminismo. ed è probabilmente a questa dot-trina che Hegel qui sta alludendo.

Questa cultura – dice Hegel – ha percorso il mondo dello spirito estra-niato: ha attraversato, insomma, un mondo che – dopo la crisi dell’an-tichità e del diritto romano – è diviso in due, dominato da dottrine filo-sofiche e religiose che distingono tra un al di qua ed un al di là. Dove il mondo dell’al di là è quello dei valori, del bene e del giusto, mentre quello prosaico è già dominato dalle essenze reali dello Stato e della ric-chezza, ancora però misconosciute, sottovalutate.

con l’Illuminismo, le cose vengono al proscenio, tornano in primo pia-no. Grazie al proprio alienarsi nelle cose, così prodotte come se stessa, questa nuova cultura rivaluta il sentire, il percepire: e col sensismo, con figure come Condillac (è del 1754 il Trattato sulle sensazioni), o come Voltaire, torna in auge la certezza sensibile. È noto ad Hegel l’esempio, proprio di condillac, di una statua dalle fattezze umane che progressiva-mente si anima, man mano che prendono vita i vari sensi, e in particolare il tatto, il quale le permette la consapevolezza della realtà propria e del mondo circostante.

al tempo della cultura dell’utile le cose hanno un loro peso indubbio, sensibile, ed allo stesso tempo però valgono per un principio a petto del quale la loro materialità dilegua. Cosa significa nel concreto? Un esempio classico: la monarchia. Da valore condiviso e assoluto, nel Settecento la sua considerazione cambia, diviene strumento. Per la tradizione prece-dente, il monarca era tale per diritto divino. L’illuminista sostiene invece:

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il Monarca va mantenuto non in grazia del suo diritto divino, ma perché è ancora utile, dal momento che costituisce un elemento di coesione so-ciale. Lo stesso ragionamento è al fondo di quel che sostiene Voltaire a proposito della religione, che è sì superstizione, ma che a volte si rivela utile in quanto fattore di stabilità sociale. Questa è dunque la sostanza dell’utilitarismo, approdo positivo secondo Hegel – in quanto non solo denegante, decostruttivo – del pensiero illuminista.

Resta però nell’utilitarismo un che di astratto, un elemento di fissità, proprio della metafisica. Il mondo dell’utile (come viene spiegato nel sesto capitolo) è un mondo del permanente rinvio dell’in sé (Io sono utile) al per altro (io sono utile a te) ed al per sé (tu mi sei utile). Occorre uscire da questo circolo vizioso, comprendendo che i tre momenti sono posti dal Sé, dal soggetto, dall’intellezione. Che li supererà in nome di un principio assoluto di libertà. Si passa infatti, anche storicamente, com’è ovvio nello schema fenomenologico, alla libertà assoluta, alla volontà generale.

anche l’utile, infatti, è posto dal soggetto: non è l’ultimo punto di ri-ferimento, punto invece che si svela essere la mia coscienza che pone anche il valore dell’utile. con l’esempio di prima: se prima si è inteso conservare un ruolo alla monarchia in quanto utile, ci si rende poi conto che in ultimo sono io a decidere, è cioè la mia coscienza a decidere se il re deve vivere o deve essere ghigliottinato: oltre la monarchia, oltre l’utile, al di là di esso, c’è la mia libertà di disporre ciò che è utile e ciò che non lo è. Questo sfondo di libertà a cui tutto si riferisce, è la libertà assoluta: da Hélvetius si passa così all’incarnazione rivoluzionaria di Rousseau, all’89 francese, alla Dea ragione. alla base del nuovo mondo non c’è più l’Utile, ma la Libertà.

3.2 Rousseau e lo scacco della volontà universale

Un certo rousseau è dunque sullo sfondo. Lo Hegel del 1806 privile-gia il rousseau problematico, quello appunto del contrasto, in apparenza insanabile, tra volontà particolare e volontà generale: «come la volontà particolare agisce senza posa contro la volontà generale, così il Governo esercita uno sforzo continuo contro la sovranità»8. Hegel prende sul serio questa difficoltà, sottolineando il dualismo tra volontà particolare e vo-

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lontà generale, rilevando la loro inconciliabilità e attribuendo alla volontà universale, cioè alla libertà assoluta, un ruolo spietatamente negativo: chi crederà di essere puro interprete della volontà universale, sua cinghia di trasmissione, non potrà che negare, in nome di quella, le realizzazioni particolari, perché comunque sempre tutte parziali.

La fase culminante della rivoluzione Francese per Hegel è dunque la manifestazione di quella che chiama libertà assoluta, con una serie di eminenti riferimenti al ginevrino ed a robespierre. Quando Hegel qui accenna al dominio della volontà pura, è probabile infatti si stia riferendo proprio all’Incorruttibile, come già aveva fatto peraltro nel sesto capitolo e nella prima pagina dell’ottavo, rappresentando le caratteristiche e l’a-nima proprio della libertà assoluta e del terrore, insomma del ’93. con la rivoluzione Francese – aveva spiegato Hegel – assistiamo al tentativo di imporre la libertà assoluta rispetto alle cose, di salire al trono, per così dire, della storia. L’uomo si sente libero e legifera secondo la propria ragione, ed è certo di far bene, poiché risponde solo all’autorità dell’uni-versale incarnato dalla propria coscienza.

Ma questa rivoluzione per Hegel non riesce. Non ha successo per una ragione strettamente culturale: l’uomo della rivoluzione, e in particolare robespierre, è ancora legato a una cultura, di cui partecipava lo stesso Rousseau, che (dati i presupposti) non poteva che tener necessariamente separate volontà universale e volontà singola. Dividendo in partenza e scegliendo di porsi dal lato della volontà universale, allora, qualsiasi atto, anche il mio stesso, non può che essere un atto particolare e quindi, visto con i miei occhi di chi incarna senza mediazioni la volontà universale, una sorta di tradimento della stessa: «Soltanto la fazione vincente si chia-ma governo, e appunto perché essa è fazione, è data immediatamente la necessità del suo tramonto; e il fatto ch’essa sia governo, la rende, per converso, fazione e la fa colpevole»9.

Hegel riconduce a questo atteggiamento culturale gli aspetti più tragici della rivoluzione, cioè il terrore, la legge dei sospetti, insomma, la fase culminante, robespierrista e saint-justiana della Rivoluzione10. Di questa fase parla con termini sprezzanti, proprio perché a suo avviso quella poli-tica si fondava su una cultura insufficiente: «L’unica opera ed operazione della libertà universale è perciò la morte, e propriamente una morte che non ha alcun interno àmbito né riempimento; infatti, ciò che viene nega-to è il punto, privo di riempimento, del Sé assolutamente libero; questa

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morte è dunque la più fredda e più piatta morte senz’altro significato che quello di tagliare una testa di cavolo o di prendere un sorso d’acqua»11.

Sembrerebbe perciò che la Rivoluzione Francese si concluda con uno scacco. In ogni caso, nel corso dei momenti cruciali della rivoluzione l’uomo si accorge, attraverso l’esperienza della morte, che la volontà ge-nerale o volontà universale gli appartiene, che è capace di universalità: e questo è l’elemento culturale da tesaurizzare, non a caso estraneo a ro-bespierre, il quale affermava invece – da Signore sprezzante della morte – «la mia vita appartiene alla Patria; il mio cuore è libero dalla paura».

Il terrore viene dunque distinto dalla rivoluzione, ma insieme è un suo momento. Una fase tragica, di cui tuttavia è poi possibile darsi ragione alla luce degli avvenimenti, riuscendo a spiegare anche il terrore robe-spierrista nell’alveo del percorso verso lo Stato razionale moderno12. Ser-ve evidentemente un ulteriore gradino, uno scatto liberatorio. Interpreti di questa emancipazione, secondo Hegel, saranno i filosofi del periodo classico della filosofia tedesca, anzi, sarà essenzialmente Kant.

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Note al capitolo 3

1 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 289.2 Ibidem.3 Ibidem.4 Ibidem.5 Ivi, pag. 290.6 Ibidem.7 Ibidem.8 J.-J. rousseau, Contratto sociale, III, X. 9 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag.131.10 Una fase politica cui è preclusa ogni opera, per la propria stessa natura:

«La libertà universale non può quindi produrre nessun’opera né operazio-ne positiva; ad essa resta soltanto l’operare negativo; essa è solo la furia del dileguare», ivi, pag. 129.

11 Ivi, pag. 130. «La risposta che Robespierre dava a tutto – avesse uno pen-sato, fatto, voluto o detto questo o quello – era: la mort! La sua uniformi-tà è estremamente noiosa, ma si adatta a tutto […]. Posso uccidere tutto, astrarre da tutto. Così la pervicacia è insuperabile ed in se stessa può su-perare qualsiasi cosa. Ma il massimo che bisognerebbe superare, sarebbe proprio questa libertà, questa morte stessa», G.W.F. Hegel, Aforismi jenesi (Hegels Wastebook 1803-1806), a cura di c. Vittone, premessa di r. Bo-dei, Feltrinelli, Milano 1981, pag. 63.

12 «Il punto nell’analisi hegeliana del terrore rivoluzionario non è l’idea piut-tosto ovvia che il progetto rivoluzionario comportava l’asserzione unila-terale e immediata della ragione astratta universale, e in quanto tale era condannato a perire in un furore autodistruttivo […]; il punto di Hegel ruota attorno all’enigma del perché, nonostante il terrore rivoluzionario fosse un’impasse storica, ci siamo dovuti passare attraverso per arrivare allo Stato razionale moderno», S. Žižek (2010), Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Milano 2011, pag. 54. Žižek era già convincente nel richiamare l’attenzione sull’universale concetto hegeliano: «la necessità universale non è una forza teleologica che, operando fuori scena, tiri i fili e guidi il processo, garantendone una felice conclusione; al contrario, questa necessità universale è sempre retroattiva, emerge dalla contingenza radicale del processo e segnala il momento della auto-Aufhebung della contingenza ». Per cui occorre cogliere «il paradosso di un’emergenza at-

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tuale, contingente, che crea retroattivamente la propria possibilità: solo quando la cosa ha luogo, possiamo “vedere” che essa era possibile», S. Žižek (2008), In difesa delle cause perse, Ponte alle Grazie, Milano 2009, pagg. 225-6.

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4. il Sapere della coSa e il Sé

4.1 Sapere a Königsberg

Manca ancora un terzo modo dell’alienazione del Sé affinché si compia – come Hegel lo definisce – il sapere della cosa:

«essa deve venir saputa non soltanto secondo l’immediatezza dell’essere e secondo la determinatezza, ma anche come essenza o come interno, cioè come il Sé»1.

Il Sé viene qui considerato in quanto alienato come essenza o interno [als Wesen oder Inneres].

Il motivo dell’interno è un esplicito riferimento a Kant, che nell’anfi-bolia dei concetti di riflessione lo aveva trattato in rapporto all’esterno, riferendolo alle cose, riprendendo il senso della monadologia leibniziana. Questo interno monadico delle cose prelude alla kantiana Cosa in sé, ciò di cui non si può avere esperienza, ma che possiamo pensare sulla base del cosiddetto giudizio riflettente, ultra-newtoniano, e non solo attraverso il giudizio determinante, scientifico, quello che ci orienta nel mondo dei fenomeni.

Questa stessa distinzione è data anche nell’autocoscienza morale, espressione della cosiddetta concezione morale del mondo, la quale sa il proprio essere «come l’assoluta essenzialità, o sa senz’altro l’essere come la volontà pura o come sapere; essa nulla è se non questa volontà e questo sapere»2.

Dopo i primi tre capitoli dedicati all’immediatezza dell’essere e dopo l’Illuminismo ed il suo mondo utile, dopo la rivoluzione Francese (la Cosa secondo la determinatezza), ecco Kant: che sa che la cosa, l’oggetto vero, è la coscienza morale, un’essenza interna al soggetto, un che di avente un valore non dileguante ed effimero come la cosa determinata.

Secondo Kant, la rivoluzione in Francia dimostrava comunque – per i consensi che aveva raccolto – una certa disposizione morale del gene-re umano. Il suo giudizio negativo nei confronti dei suoi modi violenti era mitigato e corretto dalla constatazione dei suoi esiti morali, del suo risultato che inverava il fine supremo del soggetto, del Sé: “Il che è dato

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nell’autocoscienza morale”3, cioè appunto nella filosofia kantiana. Preci-samente, in quella parte della filosofia dell’autore delle tre Critiche di cui Hegel aveva già parlato nel capitolo dedicato allo spirito, a chiusura della parte dedicata alla rivoluzione francese. È il Kant considerato appunto sotto il profilo della dottrina morale.

«L’autocoscienza morale sa il proprio essere come l’assoluta essenzialità, o sa senz’altro l’essere come la volontà pura o come sapere; essa nulla è se non questa volontà e questo sapere; a ogni altra autocoscienza converrà soltanto l’essere inessenziale, l’essere, cioè, che non è in sé, soltanto la vuota corteccia dell’essere»4.

Il valore dunque è nell’autocoscienza morale, è lei che conferisce va-lore, altrimenti l’essere ne è privo. Tutto ciò che non partecipa di questo valore, non ha senso, è corteccia dell’essere5. Il valore dell’autocoscien-za morale kantiana prescinde ed è al di qua da qualsiasi riconoscimento dell’altro: anche l’altra autocoscienza cade dal lato dell’inessenziale.

Se le cose non sono messe in relazione con l’autocoscienza morale sono inessenziali: la realtà diviene, nell’ottica kantiana come Hegel qui la legge, tributaria della moralità, posta da questa. È un’interpretazione del kantiano regno della Grazia di cui si dice nella Dottrina del metodo in chiusura della Critica della ragion pura, per il quale l’autocoscienza morale è qualcosa di assoluto, l’imperativo come fatto assoluto della ra-gione che sa l’essere come volontà pura o come sapere, che insomma sa le cose come tributarie dell’imperativo, poste da quello. Il vero in sé è recuperato attraverso la moralità: ci accorgiamo delle cose del mondo attraverso la moralità.

«Di quanto nella sua rappresentazione del mondo la coscienza morale di-mette l’esserci dal Sé, di tanto essa lo riprende in se stessa»6.

Kant decide per l’essenzialità della coscienza morale, la scopre in quan-to autoevidenza della ragione. Da un lato quindi abbiamo la coscienza morale con la sua legge pura, l’imperativo (io devo agire così); dall’altro abbiamo il mondo, la realtà newtoniana, fisica, prosaica che ha anch’essa le sue leggi e che si muove secondo giudizi determinati, cioè i giudi-zi scientifici. Quest’ultimo però è un mondo privo di valore (“corteccia

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dell’essere”), inessenziale. Per cui ci troviamo nuovamente di fronte ad un Due.

Ma il mondo della coscienza morale non può rimanere da solo, non può rimanere senza senso, proprio perché la coscienza morale è qualcosa di sensato. Se la coscienza morale è la rivelazione della ragione, la razio-nalità che si manifesta nella sua purezza, le cose non possono tradirla. Questi due aspetti della realtà non possono restare irrelati, devono trovare un accordo. com’è noto, la soluzione kantiana consiste nel ricorrere a dei postulati che uniscano i due mondi, vale a dire i postulati della ragion pratica: il postulato della libertà, il postulato dell’immortalità dell’anima ed il postulato dell’esistenza di Dio. Senza, i due mondi non dialogano, appaiono autonomi e vuoti.

Hegel reinterpreta i postulati, eliminando il postulato della libertà e parlando piuttosto del postulato che riguarda il mondo inteso nella sua naturalità; poi prende in esame l’unione di moralità e sensibilità, ed infine il postulato dell’esistenza di Dio, attraverso la figura del cosiddetto Santo Legislatore.

Il primo postulato implica una natura non sfavorevole alla moralità. Nel momento in cui agisco, la mia azione deve trovare in un certo senso una natura amica: affinché la mia azione morale non sia inefficace, non può trovare un ostacolo insormontabile nella natura. Né in quella esterna, né in quella interna, cioè nella mia inclinazione.

Infatti, il secondo postulato ha il compito di accordare il dovere proprio con la realtà “naturale” interna al soggetto, cioè con l’inclinazione perso-nale. Se si desse una totale divaricazione tra l’inclinazione naturale ed il dovere, questo non potrebbe mai inverarsi. In prospettiva, in un lontano, eterno avvenire, deve darsi perciò una sorta di conciliazione di dovere e inclinazione, in altri termini, di virtù e di felicità.

L’ultimo postulato riguarda l’esistenza del Santo Legislatore, di Dio in quanto essere che solo può rendere validi i due precedenti postulati. Dio, nella sua onniscienza, sarà in grado di sapere nel giorno del Giudizio se le mie personali inclinazioni sono degne di felicità.

Secondo Hegel, questi postulati sono contraddittori. La critica è spietata ed è sintetizzabile in questi termini: se davvero un giorno moralità e incli-nazione, o natura, venissero a coincidere, allora verrebbe meno proprio la peculiarità di quel che Kant considera il più grande valore, cioè appunto la moralità. Perché, all’approdo, la moralità si svuoterebbe paradossalmente

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di senso, si eliminerebbe. Decadrebbe infatti il suo valore assoluto, ciò che non la fa dipendere da contenuto alcuno. Ma, secondo Hegel, Kant non può realmente volere questo, e quindi i postulati si contraddicono.

Vale la pena menzionare una seconda critica, riguardo il postulato dell’equilibrarsi, in questo o magari in un altro mondo, di virtù o dovere e felicità. Kant sostiene che l’uomo del dovere, in qualche modo e in qual-che mondo, vedrà la propria azione morale ripagata anche in termini di felicità, di soddisfazione. Ma così allora – obbietta Hegel – le cose, quel-le cose così inessenziali perché immediatamente non morali, estrinseche rispetto all’autocoscienza morale, proprio quelle cose effimere e senza valore, tornerebbero in gioco; perderebbero quel carattere d’indifferenza che avevano fin qui, di corteccia dell’essere, anzi, in un certo senso – in grazia del postulato – si può dire coopererebbero alla realizzazione della visione morale del mondo. Il che è espresso così: «Di quanto nella sua rappresentazione del mondo la coscienza morale dimette l’esserci dal Sé [cioè, elimina l’inclinazione dal dovere, li separa – N.d.A.], di tanto essa lo riprende in se stessa»7: in altri termini nei postulati questa inclinazione (la tendenza umana alla felicità, alla soddisfazione) si spera di riguada-gnarla (“lo riprende in se stessa”).

In altre parole: in apparenza Kant vorrebbe affermare che chi agisce in modo etico è mosso soltanto dal dovere, aderendo alla virtù connaturata alla propria singola autocoscienza morale; ma di fatto invece quell’incli-nazione che dovrei aver eliminato, quella natura che non dovrei seguire (per non tradire la purezza del dovere), quell’inclinazione – postulo – la potrò comunque recuperare, ritrovare, conciliandola con la virtù, sia pure in un avvenire indeterminato. come dice Kant, questo accordo di virtù e felicità è qualcosa che posso sperare. La felicità non potrà essere mai il movente della mia azione, altrimenti cadrei nell’eteronomia, smarrirei l’autonomia della ragione. E tuttavia, agendo come agisco, posso però sperare di esser degno di essere felice.

Quando si dice quindi che la coscienza morale lo riprende in se stessa, Hegel allude probabilmente proprio ai postulati, al riequilibrio compor-tato dai postulati: ciò che era stato diviso (dovere e inclinazione, o detto altrimenti, virtù e natura, mondo della moralità e mondo dell’accidenta-lità), tutto questo si riunifica in Kant, ma solo nella forma di un pensato, per quanto posto da un’esigenza della ragione stessa. Dunque, secondo Hegel, Kant comprende che la moralità non può star da sola, non può star

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senza contenuti, e che deve realizzarsi. tuttavia, data la scissione iniziale, quest’esigenza può essere kantianamente espressa solo in forma di spe-ranza, come un’esigenza della ragione.

4.2 La coscienziosità

Ma per quanto rilevante, Kant non è il solo esponente della filosofia della riflessione. Hegel passa quindi in rassegna le argomentazioni pro-prie di un’altra filosofia influente in quegli anni che pone la questione in modo originale:

«Infine, in quanto coscienziosità, essa non è più quel tuttora alternativo porre e travisare l’esserci e il Sé; anzi sa che il suo esserci come tale è questa pura certezza di se stessa; l’elemento oggettivo nel quale essa si tra-spone in quanto agente non è altro se non il puro sapere che il Sé ha di sé»8.

Si intravede con chiarezza il profilo di un altro esponente della filosofia classica tedesca, Friedrich Heinrich Jacobi, con il quale Hegel segna il passaggio allo spirito coscienzioso, al Gewissen. che si parli di Jacobi e non più di Kant, è chiaro anche dal testo che fa presente che qui non si è più nella posizione che poneva e insieme travisava esserci e Sé. anzi, la figura nasce come critica alla morale kantiana che postulava l’esigenza di un’azione conforme alla Legge, dove quel che contava realmente era ap-punto la Legge, il dovere. Secondo Jacobi, invece, conta il sapere, conta il fatto che so quel che faccio mentre agisco, nella certezza soggettiva di agire bene.

La posizione di Kant aveva invero un che di tragico, perché da un lato poneva la coscienza morale, dall’altro constatava il parallelo darsi dell’esserci, dell’effettualità. ed essendo il loro rapporto solo postulato e declinato al futuro remoto, dovendo invece il dovere morale restare puro, Kant finiva con l’affermare esplicitamente che poteva darsi il caso che fi-nora nessun uomo avesse mai agito moralmente, dal momento che non si può sapere fino in fondo quale ruolo eventuale giochi l’inclinazione, nel qual caso l’agire macchierebbe persino la più alta azione morale.

Salvo D’Acquisto che si offre martire ai carnefici nazifascisti potrebbe averlo fatto anche per un motivo di vanagloria personale, per una sorta

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di appagamento individuale, elementi questi da un lato imperscrutabili, ma che potrebbero aver inficiato la purezza della sua azione morale, l’avere agito mosso dal puro dovere. Hegel avrebbe obiettato: ma cosa importa, quel che va valutato è il risultato, il fatto che D’acquisto ha salvato in concreto molti uomini e donne grazie al suo gesto. Motivo per cui, più in generale, nella posizione kantiana Hegel avvertiva – a ragio-ne – una scarsa empatia per gli uomini concreti, di carne e di sentimenti. tant’è vero che Kant preferiva parlare piuttosto di Umanità, di Legge, di Dovere, che non di individui determinati che invece, checché si possa pensare, sono al centro dell’interesse hegeliano, prima ancora di farsi soggetti collettivi, spirito oggettivo. Non a caso Martin Heidegger, per il quale comunque Hegel costituì un interlocutore essenziale fin dalla giovinezza, pur rilevando la problematicità di una storia trascenden-tale posta a chiave d’interpretazione della storia effettiva, sottolineava quanto fosse vivo e fecondo il nesso spirito-storia in Hegel, e quan-to la concettualizzazione logica non fosse che il condensato vivente di processi concreti, sintetizzati da posizioni filosofiche riconoscibili nei vissuti storici: «Lo spirito vivente è, come tale, per essenza spirito sto-rico nel senso più ampio del termine. La vera Weltanschauung è molto lontana dalla pura esistenza puntuale di una teoria avulsa dalla vita. Lo spirito è comprensibile solo se in esso viene assunta tutta la ricchezza delle sue prestazioni, cioè la sua storia, con la quale crescente ricchez-za, quando sia concettualizzata filosoficamente, viene fornito un mezzo di continuo potenziatesi per la comprensione viva dell’assoluto spirito di Dio»9.

In questo caso, attraverso una galleria di figure che trascorre dagli uti-litaristi ai rivoluzionari dell’Ottantanove, da questi a Kant ed ora a Ja-cobi, Hegel sta mostrando come lo Spirito, summa della storia e della consapevolezza che la cultura ha acquisito di sé, abbia conquistato piena coscienza della propria libertà, della propria assoluta autonomia. Nella considerazione hegeliana Jacobi, invece, è per l’azione morale in quanto pura certezza di se stessa; l’elemento oggettivo (cioè la sua realizzazione) nel quale l’azione si traspone è del tutto saputo: il soggetto jacobiano sembrerebbe avere piena coscienza del proprio operare. Non si ha più bisogno di chiedersi, con Kant, se la propria azione possa essere univer-salizzata, per provarne il valore morale: ne si è certi soggettivamente, nel senso che si è sicuri che quel che si fa è ben fatto.

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Ma anche la posizione di Jacobi finisce per mostrare la corda. Al fondo questa forma di morale infatti si svela sterilmente soggettivistica: l’im-portante secondo Hegel è il risultato, non il fatto che si sia “ben disposti”, non bastano le buone intenzioni, non è sufficiente la morale del convin-cimento, perché quel che vale piuttosto è la morale della responsabilità ed è questa piuttosto che bisognerebbe privilegiare. Nel mondo di Hegel si viene giudicati per il risultato delle proprie azioni, non per i propri convincimenti. Se distinguessimo, con Max Weber, morale del convin-cimento e morale della responsabilità, Hegel prenderebbe partito per quest’ultima: l’importante non è il punto di partenza morale, ma il punto di arrivo, il fatto che il risultato sia plausibile. tradotto in politica: non è importante che una qualche posizione sia giudicata pura dalla propria coscienza morale, ma che l’atto politico o di governo che ne risulta sia sensato, sia coerente con gli obiettivi che ci si era posti. Obiettivi scalabi-li, imperfetti, come tutti quando la politica voglia essere governo, e quindi scelte ed atti particolari.

4.3 La politica, contro l’ipertrofia del sé

Il cammino fin qui svolto in questo esercizio di rammemorazione che è il Sapere assoluto ha mostrato come Hegel ritenesse la nostra storia cultu-rale in ogni caso segnata da un progressivo rapportarsi ed avvicinarsi del Sé, del soggetto, al mondo. Le cose, inizialmente distanti e impenetrabili, si sono via via mostrate meno ostiche, meno impermeabili al nostro sa-pere; alla fine, con l’Illuminismo e Kant, l’uomo si è convinto di esser in prima persona la misura delle cose, di essere il referente di ogni realtà. Fino al punto da generare un Sé ipertrofico, necessariamente pieno di sé: necessariamente, perché alienandosi nel mondo, il soggetto ha compreso che quel mondo gli apparteneva, che ne era il signore, che la natura non gli era esterna ma a lui ordinata (l’utile), fino ad essere profondamente insediata nel suo Io più profondo. Al punto che l’ipertrofia del Sé lo ha indotto a legiferare in absentia della sua parte naturale, o esterna: cioè, prescindendo dalle proprie inclinazioni, dalle passioni, dalla propria atte-sa di felicità, in nome di una legge interiore troppo pervasiva ed invadente – il che è esemplificato di nuovo dal rimando a Kant ed ai rivoluzionari del 1792-93. Se in origine dominava l’esterno, la realtà si è mano mano

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inseata, interiorizzata, fino a dileguare a vantaggio del Sé ipertrofico. Di conseguenza, ed in parallelo, l’azione, da timida ed esitante, si è fatta sempre più incalzante, sapida, decisa. Il Sé signore del mondo lo ha se-gnato dei suoi fendenti, sempre più taglienti quanto più andavano rispon-dendo ad un’esigenza pura, distaccata, formale: essere conseguenti alla pura volontà, manifestazione della libertà assoluta.

Hegel guardava con sospetto una tale prospettiva, e oggi potremmo defi-nire in via di principio anti-hegeliana ogni posizione politica che pretenda d’incarnare un universale puro, in nome e per conto della volontà genera-le (che s’incarni pure nella classe generale o in maggioranze schiaccian-ti), impedendosi così di fatto ogni azione particolare, fino all’inazione.

Secondo Hegel, dovremmo aver compreso – perché sarebbe nel DNA della cultura occidentale, solo a saperla interpretare – che ogni posizione che si voglia morale in senso assoluto è condannata all’elitismo, si espone al rischio-limite del terrorismo e comunque all’inazione. a meno di non far ricorso a postulati estrinseci che correggano e mitighino quelle posi-zioni, annacquando il vino della libertà assoluta e dell’assoluta volontà con elementi d’ideologia religiosa o laicista (postulando, per esempio, principi naturali, oppure teologici). Incorrendo, comunque, in una petitio principii che postuli lo sposalizio prima o poi di virtù e felicità: un tempo, lo si pensava nel comunismo, lo si pensa ancora nel regno di Dio, o nel migliore dei mondi (occidentalizzati) possibili10.

rileggendo queste pagine della Fenomenologia viene da riflettere in-somma sul limite di ogni politica che pretenda d’incarnare la volontà generale e che quindi rifugga scelte di mediazione, perché queste non possono che apparirle compromessi al ribasso, rinunce o tradimenti11. Per chi opera in un contesto democratico, la scelta per la Volontà ideale suona insidiosa: è la tentazione dei duri-e-puri, di chi – in nome appunto dell’i-deale universale, sia pur rappresentato da una fazione – ritiene di non pie-garsi alla dialettica democratica tra le forze politiche, e di chi all’estremo opposto, ritenendo di aver ricevuto una pur legittima investitura dal voto popolare, pensa di poterne incarnare immediatamente le aspirazioni ed i sentimenti, anche in spregio delle regole e dei contrappesi costituzionali.

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Note al capitolo 4

1 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 290.2 Ibidem.3 Ibidem.4 Ibidem.5 «Nella pratica esso [il benessere] sottometterebbe il soggetto allo stesso

concatenamento fenomenico che ne determina gli oggetti. L’obiezione ap-portata da Kant è, secondo il suo stile improntato al rigore, intrinseca. Nessun fenomeno può arrogarsi un rapporto costante col piacere», Jacques Lacan (1963), Kant con Sade, in: J. Lacan, Scritti, a cura di G. B. contri, einaudi, torino 2002, tomo II, pag. 765. Per l’autore delle tre Critiche, corteccia sono soprattutto le pulsioni e le dinamiche da loro innestate: d’altra parte, Kant considera le passioni tout court “cancri per la ragion pura pratica” (I. Kant, Antropologia pragmatica, trad. it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 1985, pag. 157), offrendo così un modello suggestivo per una lettura in chiave kantiana della concezione freudiana del Super-io sociale, erede dell’imperativo categorico.

6 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 290. 7 Ibidem.8 Ivi, pagg. 290-1.9 M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto,

Laterza, roma-Bari 1974, pagg. 249-251, cit. in M. Vegetti, Hegel e i con-fini dell’Occidente, cit., pagg. 24-25.

10 Fa ancora riflettere l’aggiunta del 1968 alla nota (1946) dell’Introduzione alla lettura di Hegel (cit., pag. 541), nella quale Alexandre Kojève prevede-va una rapida “americanizzazione” anche del mondo comunista (di russi e cinesi). In quell’aggiunta Kojève intravvedeva, non senza una qualche iro-nia, un’alternativa “giapponese” all’American way of life in una davvero globalizzata ritualizzazione del Senso, apprezzata nel corso proprio di un viaggio in Giappone, in grado forse di opporsi al suo totale smarrimento nell’epoca del consumismo planetario.

11 È nota la critica leninista a questa posizione estremista. Nel testo del 1920, intitolato appunto L’estremismo, malattia infantile del comunismo, Lenin rispondeva alle critiche che “da sinistra” venivano rivolte ai bolschevichi, spiegando se e quando è utile invece alla causa rivoluzionaria entrare nei parlamenti borghesi, nei sindacati, stringere compromessi e alleanze. Le-

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nin faceva notare già allora l’oggettiva confluenza di interessi tra l’estre-mismo di sinistra e la destra antirivoluzionaria.

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5.1 I momenti della conciliazione

«Questi sono i momenti dei quali si compone la conciliazione dello spi-rito con la sua peculiare coscienza; essi, per sé, sono singoli; e solo la loro unità spirituale è quella che costituisce la forza di tale conciliazione. Ma l’ultimo di questi momenti è necessariamente questa unità stessa e in effetti, com’è chiaro, li congiunge tutti in sé. Lo spirito certo di se stesso nel suo esserci, ha ad elemento dell’esserci nient’altro che questo saper di sé; l’esprimere che quanto lo spirito fa, lo fa secondo la persuasione del dovere, questo suo linguaggio è la validità del suo agire».1

Solo quando si ri-trova, lo spirito si coglie nella propria integrità; di per sé, è costituito da momenti per sé singoli (sensibilità, percezione, intelletto, utilità, eccetera), che la coscienza vive ancora nella forma della separazione, ma al contempo legati gli uni agli altri inscindibil-mente, dal fatto di essere concatenati in una storia fenomenologico-concettuale. tutte le esperienze che concorrono alla costituzione dello Spirito, così come descritte anche nel capitolo dedicatovi, sono carat-terizzate da una distanza tra la coscienza e ciò di cui si è coscienti: si aveva coscienza dell’essenza del mondo, della realtà (lo stato etico nel mondo greco-antico, la legge nel mondo romano, la monarchia, o il dovere kantiano, la volontà generale di Rousseau), ma si aveva appunto coscienza di questa realtà, quindi come di un che di esterno rispetto al Sé.

Alla fine, dice Hegel, diviene evidente che queste fasi e questi mo-menti fanno tutti parte della nostra più intima storia culturale essendo stati introiettati e digeriti, al punto che – per esempio – non è più necessario chiedersi con Kant: come devo agire?, perché – questo ab-biamo assunto da Jacobi – abbiamo coscienza di ciò che si deve fare e qual è il nostro ruolo nel mondo, pur non avendo mai la certezza dei risultati delle nostre azioni. I momenti non sono più singoli, cioè discreti, prima l’uno e poi l’altro, ma sono solidali, stanno insieme in un’unità spirituale, cioè in una conciliazione (Versöhnung) che li tiene insieme.

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Dal Gewissen quindi – lo spirito certo di se stesso, l’ultima figura fin qui ricordata – emana per un verso un moderno senso di sicurezza soggettiva: un uomo politico sa di essere un uomo d’azione, ritiene di sapere quel che fa agendo, sa che la sua azione è un atto positivo – nel senso che incide sul mondo, che ne cambia il corso, che lo graffia, indipendentemente dall’e-sito volgarmente positivo o negativo in termini morali. Nel che traspare, per converso, il limite della posizione jacobiana: un limite soggettivistico ed intellettualistico che fa sì che la bontà dell’azione – così si chiude il passo cui ci stiamo riferendo – sia nella premessa dell’intenzione: quanto lo spirito fa, lo fa secondo la persuasione del dovere, e questo soltanto conferisce validità al suo agire. Il che, per Hegel, è sbagliato. La vera con-ciliazione è frutto piuttosto del processo di autoliberazione dello Spirito: il soggetto non sarà più la propria origine, ma dipenderà da presupposti che non avranno una sostanzialità propria e che vengono posti sempre retroattivamente.

Già nel sesto capitolo Hegel aveva parlato di quello che aveva defi-nito il linguaggio della persuasione. In altri termini, l’uomo di Jacobi (assunto qui come epigono di un sentimento tipico del tempo), non è a ben vedere l’uomo che agisce, ragionevolmente certo di far bene. Piuttosto è un soggetto che vuol persuadere gli altri che quel che fa o farà, lo fa o farà a fin di bene, che la sua intenzione è retta. Ecco per-ché si dice che il suo linguaggio è la validità del suo agire: perché è quel che diremmo un parolaio, un predicatore, uno per cui non è tanto importante quel che fa, quanto persuadere gli altri che, nel fare, si at-terrà al giusto, al retto: l’azione più che pesare in quanto azione, pesa in quanto persuasione soggettiva di aver agito secondo la propria retta intenzione. Ma si corre così il rischio di condannarsi alla lunga all’im-potenza, all’inazione. e infatti, dopo il linguaggio della persuasione entra in campo un’altra figura emblematica del teatro hegeliano: die schöne Seele, l’anima bella.

Si tratterà di uno snodo essenziale dell’opera di Hegel. a ragione Pao-lo Vinci sostiene che «la critica all’anima bella è la resa dei conti con un complesso di posizioni che Hegel considera l’alternativa più diretta al proprio pensiero»2. Storicamente, invece, siamo forse al polo opposto rispetto alla bella eticità della polis greca, a quella congruenza piena ed immediata tra ethos pubblico e sentimento privato che solo si altererà con antigone.

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5.2 Derive involutive della coscienziosità

abbiamo già incontrato l’uomo vocato ad incarnare la Libertà assolu-ta, a farsi braccio della volontà generale; e se ne sono palesati gli esiti, drammatici, sprofondanti nelle nebbie del terrore, del dileguare di ogni volontà particolare, fino a far dono e ad immolare – come Saint-Just – la propria vita. Per Hegel ogni opposizione massimalista ha come inciso nelle proprie carni il No, come lo spirito mefistofelico che tutto nega; nel suo DNa, quindi, ci sarebbe l’impossibilità di un governo della comples-sità, perché in grado di aderire ad un’unica forma proto-politica, l’assem-blearismo universalistico, riproponendo così talis qualis l’aut-aut rousse-auiano tra volontà generale e governo.

Il fatto con cui Hegel si confronta, desunto anche dalle pratiche delle comunità religiose sostenute da Schleiermacher, è che quando il sostan-ziale, l’essenziale divengono il cardine di un’individualità che si vuo-le etica, perde consistenza e si ribalta nel proprio contrario, travolgendo l’individualità stessa, prigioniera dell’esclusivo riferimento a sé in quan-to flatus vocis dell’Universale, del Valore, del Senso. ebbene, adesso su questo stesso terreno dell’inazione quella politica – diciamo così dell’e-stremismo antileninista – viene raggiunta dall’anima bella; oltre che fi-gura desunta dalla letteratura del tempo, in particolare dai personaggi letterari di Novalis, si tratta di un’altra disposizione che incarna anche il prototipo di un altro politico, simile anche se muove da un punto di partenza opposto: se la prima infatti era certa di se stessa, della propria assoluta moralità, questa è invece la sua forma moderna, rosa dal dubbio, dilaniata dalle contraddizioni, e tuttavia certa della propria purezza. Ma entrambe, questa e quella, politicamente inefficaci, paralizzate. L’anima bella rappresenta, con un’efficace espressione di Vinci, la deriva involu-tiva della coscienziosità ed il presupposto necessario della coscienza giu-dicante, un’altra delle attitudini terminali della coscienza moderna ancora congelata dalle proprie paure e della proprie rigidità3.

contro l’impasse di queste posizioni, Hegel è risolutamente per il fare. Non con un tiro di dadi, non lasciando agire il caso, né per l’agire per l’agire; è per un’azione per quanto possibile consapevole, coscienti che l’azione è comunque un decidersi alla finitezza e che altrimenti «siccome si deve realizzare l’Ottimo universale, non si fa nulla di buono»4. agire, intanto, e nell’azione dimenticarsi. Hegel amava infatti la frase di Schil-

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ler “la pietra lanciata appartiene al diavolo”. In altre parole, dopo che ho agito, sta ad altri valutare la mia azione, badare a come quell’atto parti-colare s’innesti sull’agire degli altri, quale portata politica avrà, fermo restando che sarò comunque responsabile della mia azione a prescindere dei risultati che essa sortirà e delle mie intenzioni. Per questo all’origine della weberiana etica della responsabilità si incontra anche Hegel. Questa posizione viene così illustrata: «L’agire è la prima in sé essente separazio-ne della semplicità del concetto, nonché il ritorno da tale separazione»5.

Das Tun, il fare: in Hegel c’è una certa voluttà dell’azione (Valentini). Perché nel fare ci si svolge, ci si oggettivizza e si sfugge al contempo al delirio d’onnipotenza – e qui Hegel ne fornisce in due parole la struttura logica. Che significa infatti che l’agire è la prima separazione del concetto e insieme il ritorno da questa separazione? Significa che quando agisco, scelgo una parte, mi particolarizzo, scindo la semplicità del concetto, del mio dover essere, e – a differenza dell’anima bella – mi faccio parte, scel-ta, azione particolare.

Poi c’è però il ritorno da tale separazione – tra l’universalità del mio dover essere e la particolarità della mia azione -, ritorno illustrato così nel testo:

«Questo primo movimento si muta nel secondo, perché l’elemento del ri-conoscere come sapere semplice del dovere si contrappone alla differenza e alla scissione che sta nell’agire come tale, formando così un’effettualità in ferreo contrasto con l’agire»6.

Siamo alla dialettica del male e del suo perdono, anch’essa illustrata in precedenza nel corso del sesto capitolo. Siamo cioè alla tensione tra la coscienza agente e la coscienza giudicante. La prima si particolarizza – scinde il concetto semplice, nel linguaggio hegeliano – e così rinuncia all’universale a favore del particolare.

Ma perché lo fa, perché c’è chi agisce? Perché c’è chi ama farlo, ri-sponde in sostanza Hegel. cioè, chi agisce trova comunque una certa con-venienza nell’agire, altrimenti non lo farebbe: prova in altri termini un certo piacere. Valentini ha colto a ragione in questa movenza del pensiero hegeliano una nota antiascetica, la stessa per cui nel capitolo sesto è cita-to il detto di Diderot “nulla di grande si fa senza passione”. Ogni volere è innescato da un desiderio, fondamentale molla del fare. come scrive

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ernst Bloch, «se dunque ci sono desideri senza volontà, cioè un desidera-re immobile, non attivo, che si esaurisce nell’immaginazione, oppure un desiderare impossibile, non c’è però un volere che non sia preceduto da un desiderare»7.

ricapitolando: si muove dall’universale, l’ideale in base a cui agisco; poi faccio, mi particolarizzo e così facendo “tradisco” necessariamente quell’universale (proprio quel che rifiutava di fare l’anima bella). Ma di fronte a questa coscienza agente, si pone sempre una coscienza giudican-te: cioè una coscienza sempre pronta a prendere in castagna l’agente, rim-proverandole di essersi discostata dall’universale per un mero particolare. La coscienza giudicante è sempre lì, disposta a deplorare, squalificare, svilire l’azione perché impura, retta da interessi particolari, misera: tu dici di aver agito in nome della collettività, ma lo hai fatto invece per brama di potere personale, per ambizione, o per interesse di Partito.

Nel sesto capitolo viene osservato esplicitamente che questa della co-scienza giudicante è la posizione più comoda: a rigore, ha sempre ra-gione, perché nell’azione c’è sempre comunque un quid di particolare (qualsiasi lavoro, dice Hegel, è un decidersi alla finitezza: se si fa una cosa, non se ne fanno altre invece). La sua critica dunque coglie comun-que il bersaglio. Ma è anche la posizione più miope e sterile, perché le sfugge l’essenziale dell’attitudine della coscienza agente, e cioè il fatto che quest’ultima agisce necessariamente. La coscienza giudicante si erge a giudice e critica la coscienza agente per il suo fare “sporco”, mentre lei sarebbe la coscienza pulita, pura. Ma s’illude di esserlo, perché non agendo, è anche lei scissa, incompleta: non riesce a riempire di contenuto il proprio dover essere. Di fronte alla confessione della coscienza agente che ammette di aver agito in nome di un interesse particolare (giacché non è possibile fare diversamente), cosa può rispondere la coscienza giu-dicante/anima bella? Nulla, non può far altro che tacere, chiudersi nel non-dialogo. a meno di non comprendere le ragioni dell’agente – il che alla lunga accade, creando i presupposti per la riconciliazione e l’unifica-zione delle due coscienze.

Alla fine di questa dialettica illustrata nel sesto capitolo, si mostra infat-ti come la coscienza giudicante divenga coscienza che comprende il sen-so dell’azione, nella misura in cui comprende che l’elemento particolare è un elemento irrilevante, accidentale, il più delle volte inutile ai fini della valutazione di un’azione. Quel che si diceva, per esemplificare, a proposi-

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to dell’azione di D’Acquisto, la cui grandezza non viene scalfita da qual-sivoglia fine particolare o soggettivo possa aver concorso a motivarla.

L’hegeliano Spirito assoluto nasce proprio da questa nuova capacità (originale, perché si dà ad un certo punto della storia, e non prima) di scandagliare senza timori di alcun genere la razionalità realizzata, la ra-zionalità degli atti e delle opere. comprendendo il fatto, e non già giu-dicandolo sulla base di pregiudizi: «Queste due forme dell’Io certo di sé devono riconoscere ciascuna il proprio limite: la coscienza agente deve scoprire in sé il peccato necessario implicito nella sua finitezza, l’auto-coscienza universale scorgere quella stessa finitezza nella propria separa-zione dal finito»8.

comprendere non vuol dire certo assolvere: per Hegel molti avveni-menti della storia si rivelano, a saperli leggere, insensati, inutili, la storia stessa può apparire come un immenso mattatoio. Altri fatti, però, possono esser letti come incarnazione di universale e particolare, e quindi come sensati, abitati da un senso. È quanto dice Hegel parlando del ritorno dalla separazione: l’universale si è alienato nel particolare, ed il passo successivo – quando riesce – consente al particolare di universalizzarsi, di divenire sensato. Il sapere semplice del dovere, cioè la coscienza giu-dicante, dopo essersi contrapposta duramente all’agire, fa remissione di sé e si aliena, col perdono: comprende cioè quel che prima condannava, vale a dire la necessità dell’azione, e riconosce anche che il proprio at-teggiamento, apparentemente limpido, era invece egualmente particolare, unilaterale.

«Qui dunque per l’autocoscienza l’effettualità, anche in quanto immediato esserci, non ha altro significato che quello di essere il sapere puro; – simil-mente, come esserci determinato o come relazione, ciò che si contrappone è da una parte un sapere questo Sé puramente singolo e, d’altra parte, un sapere il sapere come universale»9.

L’atto immediato, l’azione determinata è comunque un sapere, qualcosa di singolarmente positivo. Dall’altra parte, resta l’esigenza che questo sapere sia un sapere oggettivo: permane una pretesa di oggettività, di uni-versalità. Hegel dice che entrambe le esigenze poste inizialmente dalle due coscienze – agente e giudicante – hanno una loro validità: sia nel volere qualcosa di oggettivo, di determinato, sia di ambire ad universa-

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lizzare l’azione. Il Sapere assoluto è per l’appunto il dialogo tra questi due momenti o funzioni: tra l’istanza oggettiva e quella interpretativa, soggettiva. Così può chiudere il paragrafo:

«Qui è in pari tempo posto che il terzo momento, cioè l’universalità o l’essenza, vale a ciascuno di quei due elementi contrapponentesi soltanto come sapere; ed essi infine tolgono similmente questa vuota opposizione che ancora restava, e sono il sapere dell’Io=Io, questo singolo Sé che è immediatamente puro sapere o sapere universale»10.

La verità del Due è nel dialogo dei termini, nel movimento reciproco tra fatto e interpretazione: è così che anche il mio sapere diviene sapere uni-versale. La verità è nel movimento grazie al quale i due termini della co-scienza non si contrappongono più ed anzi colgono la verità nell’inverarsi reciproco. Nell’esempio consueto, il fatto del martirio di D’acquisto e le interpretazioni di quel fatto divengono tutt’uno ed il tutto (l’universalità o l’essenza) guadagna lo statuto di Sapere assoluto, di un sapere cioè frutto del dialogo-confronto tra elementi oggettivi ed interpretazioni soggettive: l’accaduto e le sue spiegazioni si son fatti cultura.

Hegel riteneva peraltro che, pena il ricadere nell’atteggiamento della coscienza giudicante, sempre scontenta dell’agire altrui, la ricerca della verità dovesse esser promossa da una passione per il vero, passione che implica una scelta responsabile, per cui chi vuole la verità non è disposto a sostenere il falso, sia pure a fini ultraindividuali, per esempio politici. In altri termini, non ogni interpretazione è retta, non ogni interpretazione risulta verificabile e non tutte quindi pesano allo stesso modo: nel con-fronto si deve essere responsabilmente disposti ad accettare il vero ed a rigettare il falso.

al termine del paragrafo, l’istantanea che Hegel scatta della cultura del suo tempo gli restituisce quindi un’immagine per molti versi confortante, per la quale il soggetto, il Sé, si sa, si riconosce. Ma questo singolo Sé si sa insieme “immediatamente puro sapere e sapere universale”. L’essenza della cultura moderna appare ancora espressa in modo duplice, e questo per Hegel non è positivo. L’affresco della storia della cultura, presentato nel sesto capitolo, restituiva infine un sapere certo di se stesso e libero da ogni condizionamento che non fosse iscritto nei propri limiti. Ma il settimo capitolo aveva poi descritto l’attitudine culturale religiosa, per la

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quale ancora la sostanza non era soggetto, ma veniva rappresentata come tale. Il cristianesimo infatti aveva colto l’elemento centrale della nuova cultura – che la sostanza è soggetto – ma lo aveva ancora riferito alla persona di cristo, di un fratello nella carne e nella morte, ma persona co-munque altra rispetto al soggetto individuale. Come può convivere questa verità ancora rappresentata con la verità scabra della filosofia?

Secondo le classiche interpretazioni di Marcuse e Koyré, mobilità ed irrequietezza dell’essere sono la più profonda intuizione metafisica di Hegel: l’essere è mobile perché è vita, scambio, dialogo, ed è questa mo-bilità a costituire per Marcuse il fondamento ontologico del suo carattere storico. al quale si collega un aspetto particolare che emerge da questo sesto capoverso: il primato dell’agire, la sua decisività nel rompere la stasi introdotta dalle figure dell’anima bella e della coscienza giudicante. L’azione rompe il vizio; si legge chiaramente la simpatia hegeliana, cui prima si accennava, per il decidersi al fare, per quanto si possa essere mossi anche da inclinazioni particolari, da motivazioni soggettive. L’im-portante sono l’agire ed il suo risultato, dare un colpo al volano, iniziare il processo, uscendo dall’immobilismo moralistico.

Da questo primato del fare è possibile farsi un’idea di ciò che per Hegel fosse la felicità. Per Hegel non è felice chi comanda e neppure chi gode. Per Hegel, è meno infelice chi fa. e chi agisce, fa e agisce comunque in una dimensione intersoggettiva, universalistica. Per cui la felicità non è questione privata, non attiene l’interiorità; piuttosto, investe direttamente la sfera sociale: meno infelice non è colui che consuma o che gode, ma chi fa in vista di un godimento procrastinato, agendo in una dimensione consegnata all’intersoggettività. Per cui ognuno intreccia il proprio desti-no, di cui è autore, a quello degli altri, in un sistema di azioni e reazioni, che in quanto tali non possono essere che finite.

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Note al capitolo 5

1 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag.291.2 P. Vinci, Coscienza infelice e anima bella. Commentario alla Fenomeno-

logia dello spirito di Hegel, Guerini, Milano 1999, pag. 497.3 Nelle Lezioni di estetica, Hegel contestualizza questa figura anche nell’ope-

ra di Shakespeare, con un riferimento particolare, com’è noto, all’Amleto, «la cui nobile anima non è fatta per questo genere di attività energiche e, piena di disgusto per il mondo e la vita, sbattuta fra decisione, prove e preparati-vi di esecuzione, viene a soccombere per la propria esitazione e l’intreccio esterno delle circostanze» (G.W.F. Hegel, Estetica, edizione italiana a cura di Nicolao Merker, Feltrinelli, Milano 1978, vol. II, pag. 1623). Non è un caso che la trattazione dell’anima bella trovi spazio anche nell’Estetica: è infatti una figura ancora molto compromessa con la rappresentazione di sé, irrisolta nel proprio narcisismo e dunque impolitica.

4 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 152.5 Ivi, pag. 291.6 Ibidem.7 E. Bloch (1959), Il principio speranza, Garzanti editore, Milano 1984, vol.

I, pagg. 57-58.8 J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di

Hegel, cit., 1999, pag. 637.9 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 291.10 Ibidem.

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6. deliri e loGiche della conciliazione

6.1 Conciliazione tra coscienza ed autocoscienza

La ri-comprensione assoluta dell’itinerario dello Spirito fin qui espo-sta consente di sottolineare una modalità del ragionamento hegeliano già propria del quarto capitolo. Lì l’emersione della realtà autocoscienziale era frutto del confronto tra la coscienza servile e della coscienza signo-rile. Le due figure del servo – legato alla paura ed al lavoro – e del si-gnore – caratterizzato dal disprezzo per la morte e dalla dipendenza dal lavoro del servo – possono già infatti venir interpretate entrambe come funzioni distinte e al dunque complementari dell’autocoscienza. In altri termini, ogni autocoscienza moderna funziona secondo una logica ser-vile ed anche secondo una logica signorile. Il più delle volte a fasi di-verse, la soggettività adulta vive avendo elaborato il lutto della perdita dell’onnipotenza del padre, accettando quindi l’orizzonte del limite, ed al contempo è forte della chiamata del desiderio a trascendersi, ad usci-re da sé per incontrare l’altro, riconoscerlo e farsene riconoscere. Siamo servi delle passioni e dei sentimenti, cioè siamo fatti della loro pasta, di quella humilitas che ci sostanzia; funzioniamo seguendo logiche diverse, secondo quella complessa dei sentimenti, ma anche secondo altre non meno complesse logiche intellettuali. La nostra capacità riflessiva e attiva muove da una ragione appassionata, come indicava già Spinoza, frutto di contaminazioni dalla lunga e tortuosa storia.

egualmente, in questo inizio di ottavo capitolo il sapere pieno della soggettività nasce dall’incontro e dal reciproco riconoscersi della funzio-ne agente e di quella giudicante della medesima autocoscienza. Ognuno agisce parzialmente, entro limiti e confini spazio-temporali, e ognuno giudica le proprie azioni e le altrui mettendo in campo una pretesa di uni-versalità, secondo criteri morali, ultrasoggettivi. La dialettica tra funzioni agente e giudicante è da sempre insediata in ogni singola autocoscienza, ma adesso – nel Sapere assoluto, pieno e maturo – lo sappiamo e possia-mo riconoscerla e soppesarla.

Nel settimo ed ottavo capoverso del Sapere assoluto Hegel ricapitola, una volta di più, il senso della riunificazione che lo Spirito Assoluto com-porta, riconducendo a sé il contenuto rappresentato della religione e quel-

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lo frutto della storia culturale. In sostanza, il sesto ed il settimo capitolo. Il contenuto di verità della teologia cristiana è tale da poter essere compreso e fatto nostro, integrandosi con quello maturato dalla storia della cultura:

«Questa conciliazione della coscienza con l’autocoscienza si mostra quin-di avverata da un duplice lato: la prima volta nello spirito religioso, la se-conda volta nella coscienza stessa come tale. Questi due lati si distinguono l’un dall’altro perché l’uno è questa conciliazione nella forma dell’essere-in-sé, l’altro nella forma dell’esser-per-sé»1.

Il lato dell’essere-in-sé è ovviamente quello religioso, quello dell’esser-per-sé è quello della coscienza laica, emersa dalla ricognizione condotta nel sesto capitolo. La conciliazione teologica si era prodotta in forme in-tuitive, sentimentali, bisognose di rappresentazione. Quella laica era frut-to di una mediazione più razionale. comunque, entrambe le forme da cui si origina la cultura moderna, quella religiosa e la laica, erano in grado di proporre una conciliazione tra coscienza ed autocoscienza, ma restavano separate, nessuna comprendeva la verità dell’altra.

Hegel spiega che – in ordine di esposizione – si sono passate in rasse-gna prima le conquiste della coscienza non religiosa (capitolo sesto) e poi di quella religiosa (capitolo settimo), “prima che la religione conferisse al proprio oggetto la figura dell’autocoscienza effettuale”2, cioè prima di prendere in considerazione la religione cristiana, quella appunto che conferisce al proprio oggetto il carattere di singolo Dio che si fa uomo attraverso cristo, cioè il carattere di effettualità autocoscienziale – nel linguaggio hegeliano. Fin qui, continua Hegel, le due verità sono rimaste irrelate, “l’unificazione dei due lati non è stata ancora messa in rilievo”3, mentre è proprio questa riunificazione – nello Spirito assoluto, nella filo-sofia – a chiudere “questa serie delle formazioni dello spirito”4, facendo sì che questo si conosca non soltanto secondo il lato dell’in sé (come nella teologia), né soltanto secondo il lato del suo per sé, cioè secondo il lato dell’autocoscienza non religiosa, ma “a quel modo ch’esso è in sé e per sé”5, dice Hegel chiudendo il settimo capoverso.

In estrema sintesi, a processo concluso si comprende che la religione altro non è che la mitizzazione di un contenuto al quale per altre vie la cultura è al fine comunque pervenuta. Ora possiamo demistificarlo, guar-dando oltre quel che di rappresentativo e di inessenziale con cui amman-

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tavamo religiosamente il contenuto dello Spirito: l’autocoscienza non ha più bisogno della rappresentazione perché ha compreso quel che ha fatto, ha compreso pienamente l’itinerario che l’ha portata ad essere ciò che è.

Ovviamente, «questa unificazione è in sé già avvenuta: proprio anche nella religione bensì, cioè nel ritorno della rappresentazione nell’au-tocoscienza»6, vale a dire nel cristianesimo che ha tolto per l’appunto l’elemento rappresentativo di Dio, restituendo anche alla divinità forma umana: “ma non secondo la forma peculiare”7, cioè è “già avvenuta” im-plicitamente, non nella forma propria del Sapere assoluto, perché questa riconciliazione tra il credente e l’oggetto della sua credenza era comunque avvenuta a livello dello in sé, tuttora contrapposto però al movimento ef-fettuale dell’autocoscienza singola. Manca ancora l’unificazione dei due, del contenuto “portato in dote” dalla religione e del lato dell’autocoscien-za, e questa sarà l’“unità semplice del concetto”8, cioè la comprensione distinta del processo. comprensione che costituirà appunto il concetto nella sua chiarezza, nella sua – come Hegel la definisce – semplicità.

La forma di conciliazione proposta dalla teologia era un’unificazione in forma intuitiva, rappresentativa, fideistica. La coscienza uscita dal se-sto capitolo: insomma, la cultura occidentale digerita dal lungo processo che l’ha portata alla consapevolezza di sé, non aveva ancora inglobato in sé l’elemento religioso portato dall’ultima parte della religione rivelata, quella trascendenza presente nella comunità cristiana. Deve portarselo dentro, farlo proprio e capirne l’illusorietà.

«anche il concetto è già dato nel lato dell’autocoscienza; ma a quel modo che è comparso nei gradi precedenti, esso, come tutti gli altri momenti, ha la forma di essere una speciale figura della coscienza. – Il concetto è dun-que quella parte della figura dello spirito certo di se stesso, la quale resta dentro il suo concetto; essa venne detta l’anima bella»9.

Se il concetto si ostina nella propria universalità, se permane rinchiuso in se stesso, resta sterile, come l’anima bella. Nel sesto capitolo Hegel ne aveva già parlato in questi termini severi: «Gli manca [a questa figura] la forza dell’alienazione, la forza di farsi cosa e di sopportare l’essere. La coscienza vive nell’ansia di macchiare con l’azione e con l’esserci la gloria del suo interno; e, per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto dell’effettualità e s’impunta nella pervicace impotenza di rinun-

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ziare al proprio Sé affinato fino all’ultima astrazione e di darsi sostanzia-lità, ovvero di mutare il suo pensiero in essere e di affidarsi alla differenza assoluta»10. Alla figura dell’anima bella manca il coraggio di agire, di spendersi nel mondo, e rimane a specchiarsi nella propria pretesa purez-za. Quest’atteggiamento inutile, inerte è lo stesso che avrebbe il concetto se non avesse anch’esso il coraggio di alienarsi, di diventare effettualità.

Poniamo di avere un certo concetto di democrazia: l’atteggiamento che Hegel condanna è quello per cui ci si appaga di quel concetto e non lo si misura sulle singole, particolari, forme di democrazia che ci si propongo-no nei fatti; il concetto per Hegel è dinamico, è risultato, e quindi non può nascere che dal confronto delle diverse forme concrete di democrazia, dalle diverse esperienze con le quali ci si confronta. col che quel concetto iniziale e astratto tornerà poi in sé arricchito di tutto ciò con cui si sarà fatta esperienza, corretto, rivisto, informato dalle storie di democrazia che avrà vissuto, per così dire, fuori di sé.

Sul piano del pensare, dunque, si può fare l’esperienza dell’anima bella se resto al punto di vista di partenza, se non mi spendo nel mondo, se evito di farmi realmente altro e quindi di comprendermi, se non metto alla prova il mio punto di vista iniziale, il mio pensare, specie se il mio pen-sare è ancora ammantato dal senso religioso della vita, da considerazioni teologiche. Dalle quali, invece, uscirò emancipato se avrò il coraggio di temprare i miei concetti alla prova della realtà.

La coscienza emancipata frutto della ricapitolazione del senso descritta nel sesto capitolo, così come la coscienza religiosa uscita dal racconto del settimo, hanno dunque ancora il “torto” dell’unilateralità. Il Sapere asso-luto è il movimento tra le due, il loro dialogo, tra la forma – che la cultura ha assunto nel corso della storia occidentale – ed il contenuto, rappresen-tato dalla teologia della religione rivelata. In chiusura del capitolo sullo Spirito, infatti, era emersa un’essenza spirituale duplice, che aveva in sé il dialogo tra un’esigenza di verità oggettiva ed una esigenza di esprimersi soggettivamente: lo Spirito così colto era appunto il confronto tra queste due pretese, entrambe legittime e da tesaurizzare. Questa è appunto la forma che il Sapere assoluto si dà: quella del dialogo, del mutuo ricono-scimento. La cultura moderna, in altri termini, non può avere per Hegel altra forma che non quella dialettica, intesa come dialogica.

Dalla ricognizione esistenziale dell’esperienza religiosa lo Spirito as-soluto accoglie il proprio contenuto: la divinità, in partenza lontana e

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astratta quanto può esserlo un’essenza luminosa, si è fatta carne, e quindi l’Uomo si è indiato, fatto dio. Dove il momento decisivo è proprio il farsi altro. Solo che in teologia questa verità è rappresentata in forme ancora preconcettuali, mitiche, per cui la verità resta un al di là rispetto al Sé. Il Sapere assoluto, mediando queste due realtà uscite dal processo fenome-nologico, dimostra di non essere affatto un sapere fisso e immobile, bensì di risultare da uno scambio. Alla fine del processo, ci si rende conto che la coscienza religiosa, una falsa coscienza di cui l’umanità si è servita con profitto per avvicinarsi a se stessa e capirsi, viene riassorbita nella consapevolezza lucida.

Questo stesso processo si propone anche a livello concettuale: il concet-to, ogni concetto, deve avere il coraggio di alienarsi nell’inconcettuale, in ciò che ancora non conosce e non comprende, facendosi altro, a rischio altrimenti di subire le sorti dell’anima bella, della quale è l’equivalente logico. Solo così si attinge la pienezza del senso: non si attinge soltanto il senso né la sua rappresentazione, ma la sua pienezza.

Ma perché Hegel teneva così tanto a questa totalità del senso, perché riteneva si desse già la pienezza totale del senso in quel 1807? È legittimo interpretare così l’ottavo capitolo, il Sapere assoluto?

come l’ermeneutica heideggeriana del testo già evidenziava, per Hegel chiudere al 1807 sarebbe stato un assurdo. Come può un sapere fatto di concetti in movimento, che si devono far carico dell’altro, della realtà storica e scientifica, uscire da se stesso, incontrando il tempo, come può un sapere siffatto dire: punto, adesso, tutto finito, descriviamo quel che è stato?

Inizia qui a delinearsi la risposta hegeliana alla questione della “fine della storia”. Hegel, col Sapere assoluto, sta affermando la piena pre-senza del Senso ai suoi giorni, dando conto di quel che è stato realizzato dall’Uomo fino a quel 1807. Hegel ritiene di poterlo spiegare: lo Spirito, la nostra cultura, la consapevolezza delle nostre conoscenze, è arrivato fin qui ed io, Hegel, lo riconosco, cioè ne do testimonianza.

Vuol dire forse questo che, di qui in avanti, non si darà più accrescimen-to e mutamento del Senso?11

«L’autocoscienza del concetto consegue la forma dell’universalità, e ciò che resta all’autocoscienza è il suo verace concetto ossia il concetto che ha attinto la sua realizzazione; è il concetto nella sua verità, cioè nell’unità

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con la sua alienazione; – è il sapere del puro sapere non come di quella essenza astratta che è il dovere, – anzi di lei come essenza che è questo sapere, autocoscienza pura, e che dunque è in pari tempo oggetto verace; infatti l’oggetto è il Sé per sé essente12».

Abbiamo finalmente conquistato un concetto che si storicizza, che non è più concetto semplice, contemplazione, ma è in rapporto con la realtà corrispondente, nell’unità con la propria alienazione. Il concetto ha di-smesso la propria astrattezza, ha conquistato la dimensione dell’univer-salità concreta, arricchito dalle nuove esperienze determinate. ed allora d’ora in poi quando penserò un concetto, lo penserò nelle sue determina-zioni concrete, storiche.

6.2 Amleto? No grazie

In rapida successione, nel nono capoverso si richiamano le movenze ed i passaggi della visione morale del mondo, un momento decisivo nella storia dello Spirito, la fase in cui – grazie a Kant – l’uomo ha davvero intravisto la propria autonomia ed inteso il proprio ruolo. Se Hegel non concorda fino in fondo con Kant, non è certo perché questi ha teorizzato la piena autonomia dell’individuo, ma perché nelle Critiche non è riuscito a prospettarne fino in fondo la realizzazione, trasformandola anzi nel suo contrario, riconvertendo il principio spirituale dell’indipendenza del sog-getto nell’immediatezza di una coscienza interna, chiusa ed indifferente alla sua realizzazione.

La coscienziosità, il Gewissen jacobiano, appare dunque un passo avan-ti, sorto proprio dal prender coscienza dell’insormontabile singolarità del soggetto e della coscienza morale, nel tentativo di stabilire una relazione tra le singolarità. Il Sé non cerca più quindi un’identificazione con se stesso, ma una relazione con gli altri. Solo che lo fa a parole. cerca di far pesare gli argomenti della propria convinzione, persuadendo gli altri di essere nel giusto e di muovere da sani e retti principi. Ma di fatto non si muove per nulla.

Tuttavia, anche a questa figura della coscienziosità va riconosciuta una verità, un elemento da tesaurizzare: attraverso di essa, lo Spirito com-prende che non può compiersi che a partire dalla singolarità, e che esso

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non è negazione della singolarità e che anzi questa costituisce una sua dimensione13. Ma dalla singolarità occorre uscire, pena altrimenti l’iste-rilirsi in toto della coscienza morale. La relazione con gli altri segna la vicenda del Gewissen, sancendone il limite. Incontro che passa attraverso azioni particolari, dal momento che l’azione stessa è un’azione deter-minata, diseguale all’elemento dell’autocoscienza di tutti, e dunque non necessariamente riconosciuta.

Di fronte a questa scoperta – che l’universalità alla quale aspira non s’identifica per nulla con la propria singolarità, ma anzi passa attraverso l’alterità, è il rapporto con altri diversi – la coscienziosità collassa: prefe-risce rinunziare a vivere, ad agire, piuttosto che perdere in purezza: «Una infelice anima bella […] arde consumandosi in se stessa e dilegua qual vana caligine che si dissolve nell’aria»14.

La figura, prima che in filosofia, era molto presente nella letteratura del tempo, rappresentata il più delle volte da personaggi femminili non privi di grazia e bellezza, chiamati ad incarnare armonicamente dovere e incli-nazione, a dimostrazione della possibile sintesi virtuosa tra compimento del dovere morale e ricerca della felicità. La s’incontra in rousseau, in Wieland, in Kant, in Jean Paul, e Schiller ne aveva teorizzato la grandezza in Della grazia e dignità (1793). Ma anche la protagonista dell’Ifigenia in Tauride di Goethe, una ragazza che pur di non scendere a patti con la propria coscienza decide di confessare la propria fuga al marito che la ama, è un’anima bella; a lei non importa di morire per tradimento, pur di essere libera dai sensi di colpa e di obbedire al senso di dovere e di neces-sità a cui non può e non vuole sottrarsi. Un altro riferimento classico è il personaggio di Woldemar, nell’omonimo romanzo di Jacobi.

tuttavia, probabilmente Hegel qui ha in mente altro. Pensa piuttosto all’anima bella come compare nell’opera di Schleiermacher e di Novalis, quella figura che – preoccupata per la propria bellezza e armonia e per il dovere di non perderle – non agisce. Sono individui, ma anche comunità, che si compiacciono della loro purezza interiore, rispecchiandosi nella propria bellezza morale.

Dov’è il limite? È nuovamente nell’inazione: per paura di sbagliare, di peccare, l’anima bella non fa. Nelle Lezioni di estetica si parla in questi termini di amleto roso dai dubbi, lacerato dagli interrogativi e che riesce solo ad invidiare Fortebraccio il quale invece, uomo d’azione, è deciso nel fare, mentre lui tergiversa. Per timore di intaccare la propria purezza,

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l’anima bella non si mischia col mondo, evita il commercio col secolo, rifugge dalle scelte. Hegel, è chiaro, non prova alcuna attrazione per que-sto esito estremo della moralità che gli rappresenta piuttosto una perdente linea di fuga dalla realtà effettuale nell’interiorità del soggetto, una figura campione della pura interiorità che ai suoi occhi non ha nulla di sublime.

che il bersaglio polemico sia la soggettività pretesa pura, anche qualora si articoli in un insieme di coscienze, è chiaro dal passo dei Lineamenti di filosofia del diritto in cui Hegel, chiudendo la parte dedicata alla moralità, riprende il tema dell’anima bella.

«In qual modo quest’assoluta fatuità non resta un solitario culto di se stes-sa, ma fors’anche può formare una comunità, il cui legame e la cui sostan-za è fors’anche la garanzia reciproca di scrupolosità, di buone intenzioni, il rallegrarsi di questa scambievole purezza, ma, particolarmente, il dilettar-si nel dominio di questa conoscenza di sé e di questa enunciazione, e nel dominio di queste cure; – in qual modo ciò che è stato detto anima bella, la più nobile soggettività, che si consuma nella vacuità di ogni oggettività, e quindi nell’irrealtà di se stessa, e come, inoltre, altri aspetti sono forme congiunte col grado considerato; di tutto ciò ho trattato nella Fenomeno-logia dello spirito»15.

Hegel sta insomma sostenendo che il delirio soggettivistico dell’a-nima bella che si rinchiude nella propria presunta purezza e verità, an-nichilendo ogni oggettività, può essere proprio anche di comunità, di gruppi, sette o partiti, all’interno delle quali gli accoliti stanno in un rapporto di mutua rassicurazione, ognuno specchiandosi nella purezza identica a se stessa dell’altro, senza alcuna relazione con la vera alte-rità, l’alterità altra. Queste anime belle sono preoccupate soprattutto di cogliere la propria purezza interiore e di poterla enunciare. Dalla disposizione orale, aperta all’agire, alla contemplazione di sé: «Il suo [dell’anima bella N.d.A.] agire è l’intuizione [Anschauen] di questa sua propria divinità»16.

Per Hegel, l’assoluto non è un tutto che riassorbe l’alterità, ma al con-trario un’istanza che del lato coscienziale, finito, diviso ha sempre biso-gno. ed è per questo che all’assoluto è proprio questo bisogno di agire, di produzione di particolarità e di incessante riassunzione di questa nell’in-tero, nella comprensione: «L’autosufficienza del Sapere assoluto mostra,

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al contempo, la capacità di autodestituirsi, di rivelarsi non un’appropria-zione dell’altro, ma un suo riconoscimento. abbiamo un movimento nel quale l’altro è reso uguale, ma anche lasciato altro»17.

Il punto tanto più è delicato perché dalla moralità, da Kant, non si può prescindere: è il frutto maturo del principio superiore dell’età moderna, come Hegel aveva definito il soggettivismo negli Scritti teologici gio-vanili.

tuttavia questo principio imprescindibile – la sovranità del punto di vista personale, soggettivo, capace di infondere senso alle cose – non può restare confinato nel Sé, non è giusto resti strozzato nell’intimità dell’Io, e per di più di un Io appagato, chiuso, refrattario alle esperienze suscitate dal desiderio che chiama all’altro, e che quindi va negato, rimosso, per non macchiare la purezza dell’intenzione.

La strada è tracciata, e passa per quella che oggi definiremo una criti-ca al narcinismo, un narcisismo fondato sulla sconnessione con l’altro, e sostanziata anche dall’avversione per quella religiosità che finisce col permearlo e con il precludergli ogni contatto col mondo, come già aveva detto a Francoforte nello scritto sulla Volksreligion: «Quanto più rigoro-samente in un sistema di morale la pura moralità è in abstracto separata dalla sensibilità, tanto più quest’ultima è svalutata rispetto a quella; tanto più noi, nella considerazione dell’uomo in generale e della sua vita, dob-biamo dare particolare considerazione alla sua sensibilità, alla sua dipen-denza dalla natura esterna ed interna, da ciò che lo circonda e da ciò in cui vive, dalle inclinazioni sensibili e dall’istinto cieco»18.

6.3 Azione e responsabilità

Idea astratta e passioni: questi due sono gli estremi che si compiono nel volere umano, incarnando la libertà, cioè l’idea etica stessa. come notava Valerio Verra, «l’idea paga nella storia il tributo all’esistenza e alla tran-sitorietà non a proprie spese, ma attraverso le passioni dell’individuo»19.

La Storia è storia dell’imporsi dell’idea di libertà, attraverso le passioni degli uomini. Passioni che si scontrano. Da questo confronto/scontro può rinascere la nuova eticità, secondo Hegel, l’eticità dell’individuo moder-no, cittadino di uno Stato non subìto, ma voluto. Ma il riconoscimento – l’hegeliana Anerkennung – appare piuttosto come una messa in crisi

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dell’individualismo, della pura e semplice autoaffermazione e autocon-ferma del Sé singolo.

È questo il soggetto dello Spirito assoluto. Molto condizionato, ma solo da se stesso. autonomo, anche se ha appreso che la propria libertà dipen-de dagli altri, è funzione della libertà di tutti – sia sul piano della libertà intellettuale, sia su quello della libertà civile e politica. ed esser liberi vuol dire innanzitutto agire.

anche il detto per cui non c’è eroe per il suo cameriere viene interpre-tato da Hegel in questa chiave: non perché Napoleone non sia Napoleone, ma perché il cameriere ha il punto di vista del cameriere; non ha insomma le chiavi di lettura consone a comprendere la grandezza del personag-gio, mentre ha presente i suoi difetti privati, i suoi tic o le sue debolezze che però non hanno alcuna rilevanza ai fini della valutazione dell’opera dell’Imperatore francese e delle conseguenze del suo fare. In altri termini, il cameriere non capisce quale sia la sostanza dell’azione dell’eroe e si ferma invece agli aspetti particolari o addirittura privati dell’eroe, al gos-sip20. Questo atteggiamento del cameriere, e del cronista improvvido, può essere proprio di chiunque non vada alla sostanza, al risultato dell’azione del politico; di chi, invece di pensare a quanto ha fatto craxi, per esempio, pensi alla sua passione per i garibaldini. Il senso del perdono hegeliano, in queste pagine, consiste proprio nel fatto che, invece, il filosofo così come lo storico sono chiamati ad assolvere il limite, ad emendare l’azione ed il suo risultato dalla sopravvalutazione dell’inclinazione personale che pure avrebbe potuto concorrere a promuoverla.

Particolarizzandosi, così si rinuncia alla totalità dell’universale (ed al totalitarismo integralista che vi è implicato) a favore del particolare. L’a-gente si distacca quindi dall’universale, dall’ideale puro in base a cui si agisce; poi, fa, si particolarizza e così facendo tradisce quell’universale, ciò che si inibiva l’anima bella. La mia azione mi fa entrare in gioco però con le altre coscienze e posso riconoscerle ed essere riconosciuto. L’azio-ne è relazione.

Hegel si muove sempre in direzione della determinazione del nesso fra il particolare e l’universale, fra l’individuo e l’unità sostanziale. La posizione hegeliana, infatti, vuole evitare la duplice unilateralità dell’in-dividualismo (solo agente o solo chiuso in se stesso) o del predominio del tutto ultraindividuale (dell’Io comune rousseauiano), mediante l’af-fermazione di un’inseparabilità conflittuale fra due istanze ugualmente

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necessarie che si legittimano vicendevolmente: «con l’età moderna non è nato il bisogno di riconoscimento, sono nate le condizioni nelle quali il tentativo di farsi riconoscere può fallire, ed è per questo che oggi, per la prima volta, siamo consapevoli del bisogno di riconoscimento»21.

In epoca premoderna non era questione di identità o riconoscimento, perché questi concetti non erano ancora tematizzati: l’ilota spartano era immediatamente cittadino, e basta. esisteva in forma privata solo per i suoi cari. La questione dell’identità personale nasce con la modernità, sotto forma di una ricerca il cui esito peraltro non è in alcun modo garan-tito. L’individuo non dispone della propria identità in senso assoluto, ma processualmente; neanche nelle società moderne è autosufficiente, ma è costitutivamente rimesso agli altri ed alla propria storia. Ciò che può fare è partecipare alla sua definizione, negoziarla col suo ambiente: e questo scambio può anche essere molto conflittuale, doloroso, come accade in tutte le lotte per il riconoscimento. Per noi moderni da un pezzo non ha più senso parlare di identità personale, ma – dopo Freud – siamo sem-pre più sensibili all’importanza del processo d’identificazione di ognuno, questo sì assolutamente personale. Inoltre, dal desiderio di oggettivarsi, dal Trieb di uscire da sé come sola via per reincontrarsi davvero, deriva in un’ottica hegeliana anche la decisività dell’azione, del fare, ed anche quindi del lavoro, cioè del nostro commercio attivo col mondo.

6.4 Coscienza agente e coscienza giudicante

Abbiamo finalmente conquistato un concetto che si storicizza, che non è più concetto semplice, contemplazione, ma è in rapporto con la realtà corrispondente, nell’unità con la propria, necessaria alienazione. Il concetto ha dismesso la sua astrattezza, ha conquistato la dimensione dell’universalità concreta, arricchito dalle nuove esperienze determinate. È questo sapere – dice Hegel -, cioè questo sapere qui, l’universale è in re, il concetto si è realizzato.

Nel capoverso successivo (il nono) si ricapitola ancora come sia stato possibile riunificare autocoscienza e coscienza teologica. Il concetto si è riempito di senso grazie all’azione – che potremmo definire politica – dello spirito agente che ha poi cercato e ricevuto legittimità da un con-tenuto ancora religioso:

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«Questo concetto si procurò il suo riempimento da una parte nello spirito agente e certo di se stesso, d’altra parte nella religione: in quest’ultima esso conseguì il contenuto assoluto come contenuto ossia nella forma della rappresentazione, dell’esser-altro per la coscienza»22.

La religione era stata necessaria per giustificare l’azione politica, era anche servita per legittimarla: si cercava un riscontro nelle Scritture all’a-zione dei governanti e questi lo erano, al vertice, per diritto divino. «Inve-ce in quella figura la forma è il Sé medesimo, perché essa contiene lo spi-rito agente e certo di se stesso; il Sé attua la vita dello spirito assoluto»23.

al di là quindi della benedizione ex post, per dire così, della religione, il senso (il Sé hegeliano) si deve all’azione politica, è questa che apre le porte ad una cultura certa della propria autonomia. con il che si compren-de bene che, per Hegel, la vita si compie attraverso l’atto: è la coscienza agente, certa di se stessa (altrimenti non agirebbe, anche se non è garan-tita nelle sue azioni) ad inverare il momento del Sapere assoluto, cioè a dire a rendere del tutto libera la cultura e la storia, realizzando il Senso che sa se stesso.

Si adombra già, qui, che il sapere è implicito nell’azione, anche se anco-ra non del tutto chiaro: chi agisce sa quel che fa, ma non lo sa fino in fondo, cioè, non è e non può essere al riparo da tutte le conseguenze del suo agire. Questo è un punto decisivo, sul quale Hegel torna potentemente nelle ri-ghe che seguono. L’azione storica realizza il senso del Sapere assoluto, fa in modo che questi s’insedi, divenga una realtà concreta.

Ecco dunque riproposte, in rapida sequenza, le tre figure che finora ab-biamo incontrato: il Sé che s’insedia attraverso l’azione, la Coscienza che riflette, che ragiona su ciò che ha fatto creando così una divisione riflessiva tra l’Universale ed il Particolare, ed infine il Sé che perdona, che cioè redime l’aspra dialettica tra la coscienza agente e quella giudicante.

Infatti Hegel continua così:

«come stiamo vedendo [l’espressione in tedesco – wie wir sehen – non è al passato, N.d.A.], questa figura è quel concetto semplice che peraltro abbandona la sua essenza eterna, ed è là o agisce»24.

Questo è il soggetto che fa, che agisce, lo spirito certo di se stesso. che ha – continua il testo – «nella purezza del concetto lo scindere o

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il sorgere, perché la purezza è l’assoluta astrazione o la negatività»25. È l’azione dello spirito coscienzioso, dell’uomo d’azione che infatti scinde, cioè particolarizza, da universale si fa necessariamente particolare, agen-do. e nel contempo è sorgere: perché se non ci fosse questo momento del particolarizzarsi, il concetto non potrebbe nascere: quindi lo scindere comporta insieme il sorgere.

resta sterile, sull’altra riva, l’anima bella nella sua purezza che – come qui è descritta – è l’assoluta astrazione o la negatività, la purezza dell’in-concettuale che nega l’interezza del concetto che, invece, sappiamo ormai essere universalità ed insieme singolarità agente (in questo senso l’anima bella è negatività pura, non come lo è il Sé agente che nega il dato – per esempio, come fa il Servo che nega il dato naturale, assimilandoselo). Perché infatti – continua – «il sapere puro è l’immediatezza semplice la quale è tanto essere e esserci, quanto essenza»26; cioè, il Sapere è fatto concreto, ed insieme essenza: nel sapere agito, esistenza ed essenza si unificano. Il primo momento, quindi, è quello dell’agente.

«Tale esserci è infine e altrettanto l’esser da lui, – sia come esserci, che come dovere, – riflesso in se stesso, ovverosia l’esser-cattivo [Bösesein]»27.

Tale esserci è la realizzazione, ciò che dall’agente viene (“das aus ihm”, proprio il complemento d’agente), quel che ha fatto. Tale realizzazione (tale esserci) è, insieme, l’essere riflesso in se stesso e a partire da lui, dall’agen-te. cioè, è l’oggettivazione del dovere dell’agente che si è realizzato, che ha fatto. Insomma, dopo che abbiamo agito, siamo di fronte al fatto; si dà que-sto elemento di riflessione, a partire da quel che abbiamo fatto, che è unità di esserci e di dovere, per cui siamo nella condizione di chiederci: abbiamo agito bene o abbiamo agito male? Questo nostro riflettere scinde, distingue l’atto dalla motivazione, la realizzazione (quel che abbiamo fatto) dal senso che dobbiamo o vogliamo dargli. Per questo Hegel qui, col suo linguaggio ricco e immaginifico, dice che tale esserci è l’esser-cattivo. È cattivo nella misura in cui riflette, cioè divide, distingue l’universale dall’atto particolare che viene giudicato: più che cattiveria, severità. La sequenza è questa: ho agito, e l’ho fatto essendo convinto di agire bene, ho fatto quel che ritene-vo fosse mio dovere fare, ma poi mi è sorto questo ulteriore elemento: la domanda (mia, adesso in quanto coscienza giudicante) se davvero ho agito bene o no, se l’ho fatto seguendo il mio dovere oppure se ho agito per altri

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motivi, seguendo la mia inclinazione. rispunta la presenza della particola-rità, di qualcosa che in sé non è universale. La coscienza giudicante dice: hai agito, ma la tua azione è un che di particolare, agendo hai piuttosto tradito il dovere, il dovere si è incrinato. La funzione giudicante, appellan-dosi ad un dovere astratto, a principi puri, tende a valutare sempre come insufficiente qualsivoglia azione che intenda concretizzare quei principi.

Questo è il momento cattivo, in senso hegeliano: cioè di separazione tra universale e particolare, separazione introdotta dalla riflessione, tipica della (funzione della) coscienza giudicante.

«Questo insearsi costituisce l’opposizione del concetto ed è quindi il sor-gere del sapere dell’essenza, puro sapere che né agisce né è effettuale»28.

Hegel sta ancora scandagliando l’attitudine della coscienza giudicante. Insearsi vuol dire andare in sé, compenetrarsi, insomma: riflettere. Un riflettere però che, tenendosi fuori dal mondo, finisce col separare l’effet-tualità, l’azione particolare, dall’universale, dal puro dovere, e mette capo ad un sapere puro, nel senso che non è né agire né fare. È l’astrazione della coscienza giudicante sempre pronta a dire: hai tradito la rivoluzio-ne, hai tradito la causa, e lo dice dal momento che si riferisce al dovere puro che prescinde dalla realtà effettuale. Per questo Hegel sostiene qui che questo puro sapere della coscienza giudicante non è attivo né è ef-fettuale. Perché non è niente: è il giudizio di chi non riesce a capire non avendo presa sulla realtà, di chi giudica in astratto. È il sapere staccato dalle azioni particolari, con le quali non s’immischia e che però giudica, ovviamente non capendole: e che quindi è appunto un sapere astratto, un non-sapere. La riflessione che si ripiega su se stessa, che si specchia nei propri criteri astratti di coscienza giudicante (che si insea, azione tipica-mente hegeliana), oppone al concetto concreto un sapere puro, in quanto tale inane ed ineffettuale29. chi mangia, invece, fa molliche – dice il pro-verbio. all’opposto, chi non fa, s’illude di non sbagliare, pur mantenendo intatta l’arma sempre affilata di una critica, al dunque, impolitica.

«Ma questo suo comparire in questa opposizione è un parteciparne; il puro sapere dell’essenza si è in sé alienato della sua semplicità, perché è lo scin-dere o la negatività la quale è il concetto; e in quanto questo scindere è il divenir-per-sé, esso è il male; in quanto è lo in-sé, è ciò che resta buono»30.

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Il concetto ha in sé questa opposizione: la contempla necessariamen-te. In ogni concetto è presente quindi questo confrontarsi a muso duro di azione e giudizio, l’affrontarsi della funzione agente e di quella cri-tica, qui però denigratoria ed ipocrita proprio nella misura in cui non coglie alcuna verità nell’altro da sé. Viceversa, il concetto deve passare attraverso l’alienazione della propria purezza (qui, semplicità), deve cioè particolarizzarsi nel concreto. Il concetto stesso quindi è scissione, per-ché ha in sé come proprio il momento della riflessione, partecipa della cattiveria di ogni riflettere, e perché si aliena (“esso è il male”). Ma d’altro lato ogni sapere porta in sé anche le ragioni dell’in-sé. Insomma, il concetto è insieme male e bene: in quanto comprensione finale, il mo-mento per cui il pensare si scinde in azione e giudizio viene perdonato. Ricordiamo però che qui nella Fenomenologia, anche a livello di Sapere assoluto, stiamo considerando questi fenomeni dal lato della coscien-za. Ovvio invece che in un’ottica diversa, quale quella della Filosofia del diritto, questa stessa dialettica – che qui appare bloccata e sterile fin quando non trova soluzione soltanto nel perdono – verrà considerata diversamente e si uscirà dal pantano della convinzione soggettiva dal lato della moralità oggettiva, cioè di una teoria dello Stato. ricoeur fa notare però che il senso di fondo resta il medesimo: «la punizione consa-crava la distanza della coscienza giudicante e della coscienza giudicata, mentre l’oltrepassamento della punizione è il pareggiamento delle due coscienze, la riconciliazione, che si chiama ‘perdono’ nel linguaggio del-la religione, o ‘comunità’ nel linguaggio della moralità oggettiva, cioè ultimamente della politica»31. La terza tesi benjaminiana sul concetto di storia in fondo si attaglia a questa fase, peraltro pressoché conclusiva, della dialettica hegeliana: certo, scriveva Benjamin, «solo a una umanità redenta [erlösten Menschheit] tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti»32.

6.5 L’operare cosciente

«Ora, ciò che dapprima accade in sé, è in pari tempo per la coscienza ed è, anche, esso stesso duplice: è per la coscienza, così come questa è il suo esser-per-sé o il suo proprio operare».33

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Il che significa che quel che abbiamo or ora seguito in sé, cioè nello schema concettuale, a livello di concetto, accade anche per la coscienza, cioè viene vissuto dal lato della coscienza, che vive in altri termini la comprensione nel suo proprio operare, nelle proprie esperienze. In parole povere, questo movimento del concetto che prima si scinde tra universale e particolare, la coscienza lo vive nella propria carne, nel suo proprio agire.

«Ciò stesso che è già posto in sé ora si ripete dunque come sapere che la coscienza ha di lui e come operare cosciente [bewußtes Tun]»34.

La movenza che ha appena illustrato la logica del pensare e dell’agire, il loro confronto, si ripete dunque per la coscienza. Dalla logica, alla feno-menologia del pensiero e dell’azione. Questo modus operandi del pensie-ro concreto (del concetto), viene fatto proprio dalla coscienza. Che di fat-to rivive il senso che il proprio pensare ha fissato in concetti. Ripensa al Senso. Ritualizza, avrebbe detto Kojève. Questo è intanto un significato di quel “ripetere”: ricorda – come sempre, la dimensione rammemorante è costitutiva del sapere consapevole – il senso che si è prodotto attraverso l’azione e la riflessione, attraverso il loro contrasto ed infine attraverso la comprensione che contrasto vero non c’era, perché un’azione è sempre un’azione criticabile, giudicata, così come ogni critica deve poggiarsi sui fatti, se non vuol essere sterile e astratta. Ogni pensiero vive di questa struttura di rimandi.

Ciò fatto, ricompreso il Senso, Hegel parla di un fare consapevole (bewuβtes Tun). Ulteriore, si direbbe, al pensare concettivo peculiare del Sapere assoluto. Dopo aver ritualizzato il Senso, si darebbe un nuovo tempo per un fare diverso, non più riepilogativo, non più celebrativo o rammemorante. Davvero è così?

Si è di fronte ad un passo difficile. Quel che è già posto a livello logico, ora si ripete come sapere che la coscienza ha dell’in sé, di quella logica, come operare cosciente. Ciò significa che la coscienza ha fatto propria quella logica comprendente, perché è lei ormai – diciamo così – la titolare del concetto. La coscienza, il Sé, agisce in modo comprensivo, si muove nel mondo senza ostacoli, senza urti, capisce quel che le accade e quel che il Sé agente fa. E questa coscienza, agendo, agisce lucidamente, il suo è un operare cosciente. La coscienza ha superato ogni falsa coscienza, ha

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imparato a fare a meno della rappresentazione religiosa ed è in grado di capire quel che accade. Sa che è finito il tempo della teologia e, più in generale, della rappresentazione.

Ma che tipo di azione è questa della coscienza, azione che è un sapere? Incide sulla realtà, la cambia, è un’azione realmente innovatrice?

alcuni interpreti sostengono di no. Per esempio Hyppolite ritiene addirit-tura che se Hegel «insiste nel chiamare ancora azione l’autoconcepirsi del Sapere assoluto, ciò forse avviene solo per un certo abuso di linguaggio».35

e se invece questo fare fosse tale da incidere in qualche modo daccapo sul reale? Si tratta di un fare certamente lucido, consapevole delle con-quiste del suo proprio farsi, della propria storia fenomenologica e logi-ca. Francesco Valentini invita ad interpretare questo passo un po’ arcano come se Hegel stesse sostenendo che – di qui in poi – potranno essere agite nuove figure spirituali, nuovi orizzonti artistici o teologici potranno dischiudersi all’autocoscienza moderna post-hegeliana. altre Fenomeno-logie potranno esser scritte da un’autocoscienza, da uno Spirito non più diviso, almeno potenzialmente trasparente a se stesso. col che si propone già la questione complessa che chiude il Sapere assoluto, del riverberarsi di sapere ed azione in tempi post-filosofici.

In questa fase del Sapere assoluto, siamo al traguardo. c’è una linea, la coscienza la oltrepassa e si volta indietro e – proprio in grazia di tutte le esperienze che ha fatto e che l’hanno condotta fin lì – ora è in grado di spiegarsi il proprio percorso: quest’azione è il suo sapere, insomma, l’operare della coscienza a questo livello è il produrre un Sapere assoluto. Ma il suo operare cosciente resta rivolto al passato. cioè non la garantisce per nulla per il futuro. certo, potranno nascere nuove forme rappresenta-tive – religiose come artistiche; potranno, anzi dovranno irrompere sulla scena nuovi attori che cambieranno la realtà incidendola col loro fare; tuttavia, l’operare cosciente del Sé – il Sapere assoluto – sembra garantire una presa ed una piena comprensione del trascorso e dell’attualità, non del futuro. Insomma, il filosofo che si dà conto di quanto è accaduto ed è in grado di spiegarselo, non ha – in quanto filosofo, beninteso – ricette po-litiche per il domani. anche se ora è cosciente, anche se la sua coscienza ha le stesse movenze del suo ragionare (del Concetto)36.

Dopo questo affaccio sul domani, Hegel chiude il capoverso rammentando semplicemente le movenze della conciliazione, del male e del suo perdono.

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«Ciascun momento concede all’altro qualcosa dell’autosufficienza della determinatezza nella quale sorge di contro a lui. Questo concedere è quel-la stessa rinunzia all’unilateralità del concetto, la quale in sé costituiva il cominciamento; ma è ormai la sua rinunzia, così come il concetto, al quale rinunzia, è il concetto suo»37.

Siamo al momento del perdono. Il concetto compare e partecipa dei due primi momenti: cioè, l’opposizione tra coscienza agente e coscienza giudicante è interna al concetto, in qualche modo il concetto deve passar-ci attraverso. allo stesso tempo, si dice che è impossibile scindere i due momenti. Nel processo, il puro sapere dell’essenza si è alienato della sua semplicità: in altre parole, si è fatto altro, con l’azione si è particolariz-zato, si è alienato della sua semplicità di Universale, divenendo sapere concreto. Il concetto ha in sé lo scindere, il farsi altro: il vero concetto non è l’universale staccato dall’effettualità, per cui è insieme il momento del buono (incarnato dall’anima bella, che però è una bontà ineffettuale, inutile, sterile) e quello del cattivo, cioè del particolarizzarsi, dell’agito, del farsi altro. Questi due momenti – il buono ed il male – divengono compresenti ed il male viene così perdonato in quanto inscindibile dal bene. La considerazione del bene e male come di due essenze distinte e contrapposte viene superata nella comprensione che è unità ricostituita tra agire e pensare: il male non può stare senza il bene, e viceversa.

Il particolare ha confessato la propria ineliminabile colpa, che consiste appunto nella propria particolarità, nel proprio limite, così come l’univer-sale ha confessato la propria astrattezza. attraverso il mutuo riconosci-mento del proprio rispettivo limite, particolarità ed universalità vengono a concorrere dell’assolutezza dello Spirito, della nuova cultura.

«Invero, come negatività, quell’in-sé del cominciamento è altrettanto lo in-sé mediato; esso dunque si pone ora così come è in verità; e il negativo è come determinatezza di ciascuno per l’Altro, ed è in sé ciò che toglie se stesso»38.

Sia universale che particolare, nel confronto, si scoprono entrambi de-terminati. Ma questa determinatezza salta in quanto tale, si toglie e si con-serva, proprio grazie all’unione tra i due. Quel che appariva essenziale (in sé) vive ora nella determinatezza del suo concetto, e per converso, quel

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che appariva mero particolare partecipa ora dell’universalità del concetto, ne è permeato.

«L’una delle due parti dell’opposizione è l’ineguaglianza dell’esser entro se stesso al di dentro della sua singolarità di contro all’universalità, – l’al-tra è l’ineguaglianza della sua universalità astratta di contro al Sé; il primo momento muore al suo esser-per-sé e si aliena, si professa [o confessa]; il secondo rinunzia alla durezza della sua universalità astratta e, quindi, muore al suo Sé inerte e alla sua universalità immota; di conseguenza l’uno mediante il momento dell’universalità la quale è essenza, l’altro me-diante l’universalità la quale è Sé, si sono completati»39.

È l’ennesima rappresentazione della movenza tipica della dialettica he-geliana universale-particolare: la prima movenza è quella della singola-rità che confessa la propria colpa di essere appunto singola, unilaterale, a petto dell’universalità con cui si confronta e riunisce. Subito seguita dal secondo corno della dialettica, stavolta l’ineguaglianza dell’universalità astratta, la quale pure muore a se stessa in quanto astratta, unificando-si con la determinatezza particolare. Rispetto all’universalità (pretesa) dell’anima bella/coscienza giudicante, quella agente scopre la propria li-mitatezza; ma il movimento è reciproco, ed entrambe trovano la propria verità nella loro unità. L’anima bella pretendeva di descrivere le miserie del mondo da una posizione terza, da una distanza obbiettiva, da una di-stanza metalinguistica, dimenticando di includervi la propria posizione soggettiva. D’altra parte, questo è il suo limite (di cui però lei non è con-sapevole, evidentemente): «lei vuole il mondo così com’è per continuare a occupare la confortevole posizione di vittima sfruttata. tutto il suo go-dimento narcisistico dipende da tale ruolo. L’identità di vittima sfruttata dà consistenza al suo io immaginario»40.

In ogni caso, anche nel linguaggio scelto, trapela – tra i due particolari in sé inconclusi – la “simpatia” hegeliana per la coscienza agente. La du-rezza della coscienza giudicante, immota, è scossa dalla vivacità dell’uni-versale concreto del sé agente. È quest’ultimo a scuotere l’immobilità dei giudizi e dei principi che si vogliano al di sopra ed al di fuori della storia: con l’esempio consueto, non ci sarà più un concetto puro di democrazia, ma il suo inveramento nelle democrazie agite, ed il concetto che ne avre-mo sarà frutto appunto delle nostre esperienze democratiche.

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«con questo movimento dell’agire lo spirito, – che solo ora è spirito, dac-ché è là, dacché eleva il suo esserci al pensiero e, quindi, all’opposizione assoluta, e da questa, mediante essa ed entro di essa è sorto, torna indietro, – lo spirito è sorto come pura universalità del sapere, il quale è autoco-scienza, è sorto come autocoscienza che è unità semplice del sapere»41.

Lo spirito è là, cioè è un fatto, vive nel mondo: solo in virtù di questa sua presenza reale può esser considerato tale. Ma non soltanto è un fatto: è un fatto, anzi una concatenazione di fatti, pensati: fatti che abbiamo reso nostri quindi non soltanto attraverso l’azione che li ha agiti, ma at-traverso il pensiero che li ha resi sensati, pur partendo dalla contraddi-zione assoluta, cioè dalla assoluta distanza delle essenze se pensate in sé, per cui apparivano come polo dell’oggettività e come polo opposto della soggettività. Hegel sta dicendo insomma che la realtà può esser spiegata ormai a partire dalla compenetrazione di soggettività ed oggettività: è nei fatti superata la contrapposizione assoluta tra le visioni sostanzialistica e soggettivistica della realtà, e questa può esser compresa a partire appunto dalla compenetrazione vivente del soggetto-sostanza, compenetrazione che figura come un ritorno (spiega Hegel), cioè come un risultato che vive nell’autocoscienza, nella singola autocoscienza che si spiega la realtà in questo modo conciliato.

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Note al capitolo 6

1 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pagg. 291-2.2 Ivi, pag. 292.3 Ibidem.4 Ibidem.5 Ibidem.6 Ibidem.7 Ibidem.8 Ibidem.9 Ivi, pagg. 292-3.10 Ivi, pagg. 183-4.11 Lo stesso Kojève avrebbe dimostrato tutta la propria autonomia di Saggio,

per dirla alla sua maniera, e non d’interprete di Hegel, viceversa travisato, per esempio nella sua missiva a Stalin andata dispersa, ma contenente una copia manoscritta in russo del suo scritto del 1940-’41, Sofia: Filosofia e fenomenologia. Nell’originale, affidato a Georges Bataille, Kojève scrive-va: «ecco l’errore di Hegel: pensava di aver già raggiunto il Sapere assolu-to […]. Ma dopo l’epoca di Marx, noi abbiamo indubitabilmente compreso che Hegel si è sbagliato al riguardo e che il processo storico non è anco-ra terminato […]. [Marx] comprendeva che il sapere definitivo e perfetto dell’uomo attraverso l’uomo non può essere raggiunto se non nello stadio finale del processo di sviluppo storico dell’uomo nella società comunista» (A. Kojève, Sofia: filosofia e fenomenologia, cit. da Marco Filoni, Il libe-ro gioco del negoziatore, in: A. Kojève, La nozione di autorità (2009), edizione italiana a cura di M. Filoni, Adelphi, Milano 2011, pagg. 138-9). Hegel non si era affatto sbagliato: in quel 1806 aveva scelto di fermare l’orologio e di dar conto di quanto si era fin lì prodotto, comprendendo che quella Storia aveva un senso e che era interpretabile come frutto del lavorìo di una vecchia talpa animata dal principio della libertà. Una vol-ta ridato un colpo al pendolo, altre gallerie sarebbero state scavate, altri princìpi avrebbero potuto illustrare altre Storie. Così, un giorno Kojève avrebbe potuto interpretare l’azione di Stalin, e definirla.

12 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 293.13 cfr. M. D’abbiero, Le ombre della comunità. Il soggetto e la realtà del

mondo nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, Marietti, torino 2001, pag. 170.

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14 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 184.15 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, §140, edizione italiana a

cura di Franco Messineo, IV edizione, editori Laterza, Bari 1971, pagg. 139-140.

16 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, op. cit., pag. 181.17 P. Vinci, Coscienza infelice e anima bella, cit., pag. 506.18 G.W.F Hegel, Religione popolare e cristianesimo, in: G.W.F. Hegel, Scritti

teologici giovanili, a cura di e. Mirri, Guida editori, Napoli 1972, pag. 32.19 V. Verra, Su Hegel, Il Mulino, Bologna 2007, pag. 157.20 Il detto, forse originario di Montaigne, è presente in molta letteratura (per

esempio, in Madame Bigot de Cornuel: «Il n’y a point de héros pour son valet de chambre»). Compare anche in Goethe ne Le affinità elettive: «Si dice che non vi sono eroi per i camerieri. Ma soltanto perché l’eroe non può esser riconosciuto che dall’eroe. Il cameriere probabilmente saprà apprez-zare il proprio simile» (parte II, cap. V). In qualche modo, la considera-zione di Ottilia – sia pure in un contesto moralistico classicheggiante – ha un sapore hegeliano: il romanzo peraltro esce due anni dopo la Fenomeno-logia dello spirito, e Goethe ed Hegel si conoscevano bene: oltretutto, per molti anni Goethe fu il superiore del filosofo di Stoccarda.

21 J. Habermas – C. Taylor (1992-1996), Multiculturalismo. Lotte per il rico-noscimento, trad. italiana di Leonardo ceppa, Feltrinelli, Milano 2005 (VI ed.), pag. 20.

22 G.W.F Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 293.23 Ibidem.24 Ivi, pagg. 293-4.25 Ivi, pag. 294.26 Ibidem.27 Ibidem.28 Ibidem. 29 È la critica tipica di chi si considera sempre “più oltre”, come rinfacciava

a ragione il personaggio di un affranto Nino Manfredi/antonio, ex parti-giano iscritto al PcI degli anni Settanta, a quello di uno Stefano Satta Flo-res/Nicola Palumbo, professore extra-parlamentare di sinistra e coscienza pura, in C’eravamo tanto amati, di ettore Scola. «L’intellettuale è più su, più giù. L’intellettuale è più oltre! egli è irraggiungibile!! (Nicola Palum-bo) – Ohhh a “Più Ortre”, che sei venuto a Roma pe’ litiga’? (Antonio). E la valigia? (Nicola). Ecchela lì! (Antonio)».

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30 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 294.31 P. Ricoeur (1969), Il conflitto delle interpretazioni, editoriale Jaca Book,

IV rist., Milano 2007, pag. 379. 32 W. Benjamin (1940), Sul concetto di storia, edizione italiana a cura di

Gianfranco Bonola e Michele ranchetti, einaud, torino 1997, pag. 23.33 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 294.34 Ibidem.35 J. Hyppolite, Genesi e struttura, cit., pag. 738.36 La religione può offrire di nuovo qualcosa alla filosofia di oggi? Possia-

mo concettualizzarne alcuni contenuti, come a suo tempo fece Hegel, e come nel Novecento hanno proposto filosofi come Lévinas e Benjamin? Se lo chiede anche Jürgen Habermas, ricollegandosi ad Hegel: «concludo con la domanda intorno a che cosa la ragione secolare possa apprendere dall’acquisire coscienza del suo rapporto genealogico con l’eredità giudai-co-cristiana. Hegel, nella fucina della sua dialettica, ancora più di Kant recuperò contenuti della dottrina cristiana estraendoli dal loro guscio dog-matico. Ma, proprio come Kant, Hegel interpretò le idee religiose come “pensiero rappresentativo” e fece decidere alla filosofia del vero e del falso in materia di religione. Nel “concepire” le tradizioni religiose egli partì dall’assunto che la religione è essenzialmente un fenomeno del passato da cui la filosofia non ha più nulla da imparare. Ma possiamo essere sicuri di avere portato a compimento il compito dell’appropriazione discorsiva dei contenuti religiosi? Di volta in volta, da Kierkegaard a Benjamin, Lévinas e Derrida, sono emersi “cultori della religione” i quali, a prescindere dalle loro personali vedute, hanno arricchito il pensiero laico con la traduzione di contenuti teologici.Può il pensiero postmetafisico, che ha rinunciato all’alquanto forte con-cetto hegeliano di Teoria (con la T maiuscola), escludere la possibilità che le tradizioni religiose includano potenziali semantici i quali, quando ri-lasciano i loro contenuti profani di verità, sono ancora in grado di essere di ispirazione per la società civile nel momento in cui questa si trova a fronteggiare delle sfide che hanno a che fare con i valori?», J. Habermas, La rinascita della religione: una sfida per l’autocomprensione laica della modernità?, in A. Ferrara (a cura di), Religione e politica nella società post-secolare, Meltemi, roma 2009.

37 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 294.38 Ibidem.

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39 Ivi, pagg. 294-5.40 S. Žižek (1988), L’isterico sublime. Psicanalisi e filosofia, ed. italiana a

cura di a. Sciacchitano, Mimesis, Milano 2003, pag. 81.41 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 295.

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7. la notte del Sapere concettivo

7.1 Il Paese della coscienza di Sé

L’XI capoverso apre quella che Kojève definisce la seconda parte del Sapere assoluto:

«Quest’ultima figura dello spirito, lo spirito che al suo perfetto e vero con-tenuto dà in pari tempo la forma del Sé e che per questa via, tanto realizza il suo concetto, quanto resta, in questa realizzazione, nel suo concetto, è il Sapere assoluto; il Sapere assoluto è lo spirito che si sa in figura spirituale, ovvero è il sapere concettivo».1

La parola-chiave è l’ultima: sapere concettivo, cioè sapere che si artico-la, ragiona per concetti. Non più per figure, per rappresentazioni – anche se lo Spirito si sa anche in figura spirituale: ormai la nostra ragione, in questi tempi di Sapere assoluto, non ha più ostacoli altri da sé, vede tra-sparentemente i meccanismi della realtà e può descriverli per concetti. È pronta cioè per scrivere la Scienza della logica, l’opera che seguirà di lì a pochi anni.

Hegel può farlo perché è in una fase notturna, nella quale è come se avesse fermato gli orologi (Valentini), in una sorta di epoché husserliana: in altri termini, la storia in questi momenti è come se non scorresse più, e possiamo permetterci dunque di considerarla come se fosse ferma, o finita. E quindi di effigiarla, come un pittore ritrattista che fa accomodare davanti a sé il suo soggetto pregandolo di non muoversi. Per il momento, accontentiamoci di questa spiegazione.

Ciò consente d’introdurre un’altra riflessione. Questo attacco del-la seconda parte dell’VIII capitolo evoca infatti una figura centrale nell’interpretazione kojèviana: quella del Saggio. Secondo Kojève, in-fatti, «das Absolute Wissen, il Sapere assoluto, non è la Saggezza ma il Saggio: è l’uomo in carne e ossa che realizza, con la sua azione, la Saggezza o la Scienza»2. A comprova di questa interpretazione, Kojève fa notare che Hegel parla qui di una Gestalt – una figura – des Geistes, dello Spirito, cioè di una forma-concreta. Il testo hegeliano infatti così continua:

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«Non solo in sé la verità è perfettamente eguale alla certezza, ma ha anche la figura della certezza di se stesso, ossia è nel suo proprio esserci, vale a dire è, per lo Spirito giunto al sapere, nella forma del saper di se stesso».3

Per questo Hegel parlerebbe qui di un Sapere che è Azione: perché si tratterebbe di un soggetto vero, in carne e ossa, che vive nel mondo e che confronta la propria realtà soggettiva (il Selbst hegeliano, il Sé) con la Wirklichkeit nella quale è immerso. e il risultato dell’attività del Saggio (del filosofo, direbbe Hegel) è la realtà prodotta da lui, realtà che supera la realtà data e che è la Scienza. e si chiude così l’XI capoverso:

«Lo spirito, apparente alla coscienza in tale elemento [cioè nell’elemento dell’esserci, in quanto realtà] o, ed è qui lo stesso, da essa in tale elemento prodotto, è la scienza».4

Per un verso è oggettivo, per un altro sono io a produrlo. Verità e cer-tezza sono ormai la stessa cosa: in altri termini, non c’è più separatezza e distinzione tra la forma oggettiva dello Spirito (la verità, Wahrheit) e la sua figura soggettivamente certa (Gewißheit), il filosofo o Saggio. Questi è una persona, un Io-personale che sa però che il proprio contenuto, che è il suo, è pure un contenuto universale, frutto dello Spirito. come spiega Kojève, «sa che la Gestalt che è lui stesso è la Geistes-gestalt. E poiché egli lo è e lo sa, si può dire che, nel e mediante il Saggio, o in quanto Sag-gio, è lo Spirito a sapersi o conoscersi come Gestalt. così il Saggio non è nient’altro che il begreifendes Wissen, il sapere concettivo: è il sapere che comprende tutto perché contiene tutto, e che contiene tutto perché comprende tutto»5.

Siamo in quello che Valentini definiva il Paese della coscienza di Sé: cioè quel paese abitato dalla filosofia moderna, nato con Cartesio, in cui prevale ormai il principio soggettivistico in senso forte: qualsiasi verità è attestata da un soggetto che è qui da intendere in senso quasi fisico-naturale. La razionalità viene al mondo attraverso una persona di carne e ossa, con la sua finitezza. L’uomo è capace di verità ed è responsabile del vero, perché ho la libertà di pensare. Il sapere (alla Hegel) o il Saggio (alla Kojève) non è più filosofia, amore del sapere, ma è possesso del sa-pere: il Saggio, il filosofo è responsabile del proprio sapere.

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Perché Hegel dice che alla coscienza che lo ha prodotto, cioè al saggio-filosofo, questo sapere appare nell’elemento dell’esserci, dell’esistenza empirica? Secondo Kojève, questa Scienza, questo sapere è anch’esso un Dasein, un esserci, qualcosa di prodotto e – in qualche modo – di empiri-co. Kojève ritiene insomma sia il Libro prodotto dal saggio-filosofo, vale a dire la realizzazione concreta del suo sapere; il sapere gli appare come un Gegenstand, come un oggetto cosale: la Fenomenologia dello spirito, il libro dato alle stampe nel 1807.

7.2 Il Libro e il Saggio

Nella frase che inizia il XII capoverso, Hegel non farebbe che autoinve-stirsi di tale sapere, dichiarandone la propria titolarità:

«La natura, i momenti e il movimento di questo sapere sono dunque così risultati, ch’esso è il puro esser-per-sé dell’autocoscienza; il sapere è Io che è questo Io e nessun altro, e che, altrettanto immediatamente, è media-to o è Io tolto e universale»6.

Il Sapere assoluto transita attraverso il singolo; questo singolo e nessun altro, singolarità che però insieme è anche superata, tolta, resa universale perché quel sapere di cui il saggio-filosofo è la voce o il braccio è lo Spi-rito che trascende la sua singolarità. Insomma, il sapere è suo, di quell’Io particolare, in un duplice senso: perché è opera sua e perché rivela l’esse-re che egli stesso è, creatura dello Spirito, frutto cioè della storia culturale che ha permesso ad Hegel di scrivere – in quel difficile ma centrale 1806 – la Fenomenologia dello spirito.

La particolarità della singola voce del Sapere, quindi, non è annichilita: Hegel non è la canna attraverso cui lo Spirito sibila, la sua piuttosto è una singolarità dialetticamente superata, integrata nell’universale Spirito di cui dà conto. Il saggio-filosofo cessa di essere una semplice singolarità, una Einzelheit, per divenire egli stesso universale senza smettere di essere ciò che è, cioè un essere determinato. Questo è il senso dell’aufheben he-geliano, una volta di più: la particolarità di me singolo filosofo che riflette sullo Spirito si conserva ed insieme si muta in qualcosa di ulteriore, di più grande, di universale appunto, perché il mio prodotto, l’opera mia (la

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mia filosofia, in questo caso) mi trascende, non è solo mia, è appunto La Filosofia con le maiuscole.

Kojève aggiunge che «il Saggio è una sintesi del Particolare e dell’U-niversale (cioè un’Individualità vera) solo perché il suo Sapere ha per contenuto proprio quell’Io che egli stesso è»7. E ciò in virtù del fatto che il Sapere assoluto hegeliano è ateo, antropo-teista ed ego-teista. Il che Hegel dice effettivamente nelle frasi successive (sempre nel XII capo-verso):

«L’Io ha un contenuto ch’esso distingue da sé; esso è infatti la pura nega-tività o lo scindersi: è coscienza. Questo contenuto, anche nella sua dif-ferenza, è l’Io, perché è il movimento del togliere-superare se stesso o è quella medesima pura negatività che è Io. L’Io, in lui come distinto, è riflesso in se stesso; il contenuto è concettualmente concepito sol perché l’Io nel suo esser-altro è presso di sé»8.

L’Io del saggio-filosofo è distinto dal proprio oggetto, il Sapere, ed in-sieme fa con esso tutt’uno: ogni singolarità è il terminale di una cultura, innanzitutto di un linguaggio, che universalizza ipso facto ogni sua posi-zione, per quanto si voglia puntuale e personalistica. Sia che si pensi, sia che si agisca: in ogni caso, si può sfuggire alla riduzione del soggetto a determinazione astratta tramite l’azione e il simbolico. Infatti:

«Determinando meglio questo contenuto, esso non è niente altro se non il medesimo movimento testé espresso; il contenuto, infatti, è lo spirito che percorre se stesso, e, precisamente, per sé come spirito, perché ha la figura del concetto nella sua soggettività»9.

Ormai lo Spirito, nel Sapere assoluto, è sempre presso di sé. Determi-nando meglio questo contenuto dello Spirito, della nostra storia culturale cosa troviamo? Troviamo il percorso fatto fin qui, che altro non è che quello delle figure fenomenologiche che lo spirito dunque ripercorre per concetti, attraverso momenti della storia della filosofia. Veniamo così al decisivo XIII capoverso:

«Ma per quanto concerne l’esserci di questo concetto [l’esserci, cioè le figure concrete, esistenti N.d.A.], nel tempo e nell’effettualità la scienza

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non appare prima che lo spirito sia giunto a questa consapevolezza in-torno a se medesimo. Come spirito che sa ciò ch’esso è, lo spirito non esiste prima né mai, se non dopo il compimento di quel lavoro per cui, vinta la sua figura imperfetta, si procura per la sua coscienza la figura della sua essenza e pareggia, in tal modo, la sua autocoscienza e la sua coscienza »10.

ecco l’atto di nascita del Sapere assoluto. Intanto, viene detto en pas-sant che il concetto è nel tempo: Hegel lo affermerà più solennemente poco avanti, e lì ci soffermeremo. Qui intanto già viene detto. cioè il concetto appare nel tempo e nell’effettualità e prima di questa sua ap-parizione nel 1807, al tramonto di una fase della Storia di grande impor-tanza e ricchezza, lo spirito non esiste. Lo Spirito, o il Sapere assoluto che è qui lo stesso, sono frutto del compimento di quel lavoro attraverso cui si è conquistato la figura della sua essenza, cioè l’essenza non è più staccata ma unificata con l’esistenza, con l’esserci, le categorie logi-che frutto del pensare concettivo sono specchio della realtà; pareggian-do così, unificando anche l’autocoscienza, cioè la coscienza di quel che sono, con la coscienza, cioè la coscienza che ho delle cose, la certezza. Integrando cartesio, mundo cogitatur, ergo sum: ho pensato il mondo, ed allora sono, esisto, sono perché ho pensato, ho capito il mondo, non semplicemente perché penso.

7.3 Svelamento e nascondimento

Il cammino però non è stato ancora del tutto compiuto, alcune movenze logiche attendono di esser comprese, affinché lo Spirito in sé sia davvero Sapere assoluto. Questi passi sono annunciati nella prima parte del XIV capoverso:

«Nell’effettualità la sostanza del sapere esiste prima della forma o della figura concettuale dell’effettualità stessa. Ché la sostanza è lo in-sé ancora non sviluppato ovvero è il fondamento e concetto nella sua semplicità an-cora immota, è, dunque, l’interiorità o il Sé dello spirito che non è ancor là. Ciò ch’è là, è come il semplice e l’immediato non ancora sviluppati, o come l’oggetto della coscienza rappresentativa in genere»11.

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Il contenuto della cultura – vien ripetuto ancora una volta – si dà nella storia prima che esso guadagni la propria conveniente forma concettuale, vale a dire priva degli elementi rappresentativi con cui appariva in quanto arte e religione: il Sapere assoluto presuppone la sostanza. tuttavia, quel contenuto si dava semplicemente come un che di immoto, di non dialet-tizzato, di non sviluppato: un’essenza ancora tutta interiore, non presente a se stessa nell’effettualità del tempo. come un che di non saputo, di altro dalla coscienza rispetto alla quale sta ancora nella posizione di oggetto, vale a dire come un che di esteriore.

«Il conoscere – essendo esso la coscienza spirituale a cui ciò che è in sé è solo in tanto in quanto è essere per il Sé nonché essere del Sé ovverossia concetto, – il conoscere, per questa ragione, da prima ha soltanto un con-tenuto povero, rispetto al quale la sostanza e la coscienza di essa sono più ricche»12.

Sorprendentemente, in un certo senso, Hegel afferma qui che il sapere filosofico, il sapere come si è venuto formando nei secoli, ha a volte un contenuto più povero rispetto al sapere rappresentativo. In altri termini, a volte il senso profondo della vita ed il comune sentire sono stati colti in maniera più ricca dal sapere religioso ed artistico che non dalla filosofia, che appunto era ancora filosofia, e non Sapere assoluto. Il personaggio di antigone, per esempio, coglie la realtà del suo tempo in modo più ricco rispetto ad un sofista.

«L’aspetto disvelato che la sostanza ha in tale coscienza [meglio: in tale conoscere13], è in effetto una condizione occulta, perché la sostanza è l’es-sere ancora privo di sé; e palese è a sé soltanto la certezza di se stesso»14.

Die Offenbarkeit, l’aspetto rivelato, è – si spiega con un gioco di parole – “in der Tat Verborgenheit”: ciò che è rivelato (vale a dire la sostanza, il senso della realtà) è nei fatti, per questo sapere, ciò che è nascosto. Ed è naturale sia così, dal momento che quel sapere non si è ancora incontrato col mondo, non è ancora divenuto mondo, non è ancora soggetto: non è là, avrebbe potuto dire Hegel, cioè non è un esserci. La conoscenza filo-sofica pre-Sapere assoluto è bensì certa di se stessa: cioè, i filosofi hanno la piena certezza di sé, ma non comprendono ancora un mondo che è

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altro da loro e del quale hanno infatti una conoscenza ancora strumentale, oggettiva. Di un mondo, peraltro, ancora “privo di sé”, cioè che non si è fatto soggetto, è ancora la monade leibniziana o la cosa in sé kantiana: comunque, un che di distante e diverso dal Sé.

«Da prima, quindi, della sostanza appartengono all’autocoscienza sol-tanto i momenti astratti; ma dacché questi momenti si spingono avanti come puri movimenti, l’autocoscienza si arricchisce finché, strappata alla coscienza l’intera sostanza e tratta a sé l’intera struttura delle sue essen-zialità, – essendo questo comportamento negativo verso l’oggettività al-trettanto positivo, cioè un porre – li ha prodotti da sé e così in pari tempo riistituiti per la coscienza»15.

La filosofia antica, di fatto, coglieva “soltanto i momenti astratti della sostanza”: tendeva a estrarre, per così dire, dalla realtà l’arché, il princi-pio – quel che qui Hegel definisce “i momenti astratti”. Non era dunque in grado di cogliere la realtà in tutta la sua ricchezza di sostanza-soggetto, ovviamente, ma se ne faceva un’idea metafisicamente, al di qua della dura scorza della realtà che le restava preclusa. anche se poi quei singoli principi metafisici hanno certamente avuto un significato, si sono spinti in avanti (cioè si sono succeduti) in una concatenazione che il Sapere assoluto è ora in grado di ordinare secondo una logica. Ciò ha compor-tato un arricchimento per l’autocoscienza che infine può strappare alla coscienza l’intera sostanza e trarla a sé, cioè appropriarsene, riconoscere la storia della filosofia nel suo complesso, e non come singoli principi irrelati, come la propria storia.

«Perciò nel concetto che si sa come concetto i momenti sorgono prima dell’intiero riempito, il cui divenire è il movimento di quei momenti»16.

Il concetto che si sa come tale è il Sapere assoluto. I momenti possono esser visti come le categorie logiche sorte dalla riflessione dei filosofi che ci hanno preceduto, e che quindi vengono prima dell’intero riempito, cioè del Sapere assoluto che poi diviene come movimento di quei momenti che lo hanno preceduto. allora: il Sapere assoluto vive anche nelle categorie che la storia della filosofia ha astratto, distillato da una realtà che però le restava opaca, inintellegibile in tutta la sua profondità: l’essere, la forma,

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i numeri, Dio, la coscienza, la personalità, tutte queste categorie costitui-scono la grammatica – per così dire – del Sapere assoluto, grammatica che lo Spirito mette in movimento, fa giocare nel tempo.

«Viceversa nella coscienza l’intero, ma non concepito, è prima dei mo-menti»17.

Difficile interpretare questa frase se non si attribuisce alla coscienza di cui qui si parla la forma della coscienza rappresentativa. Nel qual caso, per la coscienza rappresentativa (vale a dire per l’arte e per la religione) l’intero viene prima dei momenti, anche se non a livello concettuale: cioè quella coscienza, come sappiamo, coglie già il contenuto prima dei filoso-fi, lo intuisce, ma non se lo sa spiegare, non lo articola come cosa propria, non lo sa snocciolare in categorie logiche. I grandi poeti o i tragici Greci, per esempio, vedevano meglio dei filosofi loro contemporanei; dove me-glio è da intendersi in modo più ricco di contenuto, più sostanziale, meno astratto. Ma, ripetiamo, il limite di quel tipo di considerazione dell’intero era che si arrestava alla rappresentazione, non essendo ancora in grado di cogliere e spiegarsi le articolazioni concettuali della realtà.

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Note al capitolo 7

1 G W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pagg. 295-6.2 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 402.3 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 296.4 Ibidem.5 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 403-404.6 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 296.7 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 407.8 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 296.9 Ibidem.10 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pagg. 296-7.11 Ivi, pag. 297.12 Ibidem.13 De Negri, Cicero (op. cit., pag. 1051) e Garelli (op. cit., pag. 525) traducono

riferendo il tedesco “in diesem” alla coscienza: quindi, l’aspetto disvelato che la sostanza ha in tale coscienza. Seguo qui Valentini, ritenendo che il dativo hegeliano si riferisca piuttosto al conoscere e non alla coscienza. In-somma: nella coscienza filosofica anteriore al Sapere assoluto la sostanza si dà ancora oscuramente. Per i motivi che spiega subito dopo.

14 Ibidem.15 Ivi pagg. 297-8.16 Ibidem.17 Ibidem.

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8. il nodo del tempo

8.1 Tempi?

Irrompe a questo punto nel testo la tematica del Tempo, filo rosso dell’intera Fenomenologia ed in particolare delle ultime pagine dell’VIII capitolo.

«Il tempo è il concetto medesimo che è là e si presenta alla coscienza come intuizione vuota»1.

Il tempo è il concetto stesso che si dà, è là, è presente, il concetto nella sua esistenza e che si presenta alla coscienza come vuota intuizione. È il concetto non in quanto pensato, ma in quanto esistente, in quanto si dà.

Meglio tener presente – come dice Gennaro Sasso – che il rapporto dell’esserci col tempo è un difficile rapporto. Sia se per esserci s’intenda l’uomo, sia se s’intende un qualsiasi ente. La questione tempo è sfuggen-te e disperante, irta di antinomie2. e tuttavia qui Hegel, più ancora che nella Scienza dello logica, è diretto, tagliente.

Dunque: il tempo è il concetto stesso che è là, innanzitutto: cioè qua, tra di noi. Il tempo, quindi: non l’eternità. Perché questo distinguo? Per-ché da millenni il concetto, l’idea, l’essenza, stava piuttosto con l’Eterno; mentre i fenomeni, le rappresentazioni, gli eventi, questi sì, erano relati al tempo. era così in Platone, era così in aristotele: del concetto si predi-cava l’eternità in senso proprio e forte, cioè non come totalità del tempo ma come suo opposto, come sua assenza, mentre delle sue forme si pre-dicavano le occorrenze nel tempo: «Il tempo è ciò in cui si svolgono gli eventi», scrive Aristotele nella Fisica (IV, 11, 219 a sgg.)3.

I cani concreti appartengono al mondo dei fenomeni, al nostro mondo empirico governato dalle leggi del tempo, mentre l’idea di cane è fuori dal tempo, è in questo senso eterna – dicevano gli antichi. Invece, per Hegel il Tempo è il Concetto che è qui tra noi. Cosa significa? Intanto, abbiamo la conferma che la questione-tempo non riguarda il tempo astratto degli oro-logi, ma – come aveva detto già qualche anno prima nella prima Jenenser Realphilosophie – significa afferrare la vivente natura del Tempo, il Tempo – come allora si era espresso – che è Spirito e Concetto [Geist ist Zeit].

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Ed è evidente questa necessità, perché lo Spirito si temporalizza in quanto diviene, è risultato. Questa stessa definizione la si ritrova poi nel-la Prefazione alla stessa Fenomenologia, in questi termini: «Quanto al tempo, inteso come riscontro dello spazio […] esso è il concetto stesso nell’elemento dell’essere determinato»4. Dunque, il tempo è il concetto in quanto esistente, pensato non nella sua unità, ma in quanto presente nelle cose: ed è allora che lo penso come tempo. La coscienza se lo rap-presenta – con evidente reminiscenza kantiana – come intuizione vuota, cioè lo pensa come una specie di contenitore, da riempire con le proprie esperienze. Il tempo appare quindi come «l’inquietudine della coscienza che non ha raggiunto se stessa, della coscienza che vede il suo Sé come fuori di sé», dice Hyppolite5.

Secondo Kojève, «tutta la filosofia, o Scienza, di Hegel si può dun-que riassumere nella frase citata: Il tempo è il concetto stesso che esiste nell’esistenza empirica, cioè nello Spazio reale o nel Mondo»6. Perché sarebbe così importante quest’affermazione? Perché spiegherebbe bene come la filosofia di Hegel abbia come scopo quello di rendere conto del fatto della Storia: «Se ne può concludere che il Tempo da lui identificato con il concetto è il tempo storico: il tempo nel quale si svolge la storia umana o, meglio ancora, il tempo che si realizza (non come moto degli astri, ad esempio) ma come Storia universale”7. Insomma, nella lettura kojèviana di Hegel – profondamente influenzata da Koyré – il Tempo è la Storia. e di conseguenza «non c’è un tempo naturale, cosmico; non c’è tempo se non nella misura in cui c’è Storia, cioè esistenza umana, cioè esistenza parlante»8.

Vale la pena leggere per intero questo passo dell’Introduzione: «L’uo-mo che, nel corso della Storia, rivela l’essere mediante il proprio Discor-so è il «Concetto-empiricamente-esistente» (der daseiende Begriff ), e il tempo non è altro che questo concetto. Senza l’Uomo, la Natura sarebbe Spazio, e solo spazio. Soltanto l’Uomo è nel tempo, e il tempo non esiste al di fuori dell’Uomo; l’Uomo è dunque il tempo, e il tempo è l’Uomo: cioè ‘il concetto-che-esiste-nell’esistenza-empirica’ spaziale della Natura (der Begriff, der da ist)»9.

Secondo Kojève, quindi, il Tempo a cui Hegel tiene è il Tempo umano o storico: il tempo dell’azione cosciente e volontaria che realizza nel presente un progetto per l’avvenire. ed in effetti è possibile avvertire in Hegel il prevalere del futuro sulle altre coniugazioni del tempo: «Nel

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quadro concettuale che gli scritti jenesi presentano, l’istante appare in-trinsecamente squilibrato nel senso del futuro. ed è al futuro dunque che, quando il pensiero affisi la concretezza del tempo, – la concretezza e non la sua morta spoglia, Hegel concede, e intende concedere, il primato»10.

Cosa stabilisce questo primato del futuro? Ancora una volta Kojève è incisivo: «L’Uomo è l’esistenza-empirica del concetto nel Mondo. È dunque l’esistenza-empirica nel Mondo di un avvenire che non diventerà mai presente. Per l’Uomo, quest’avvenire è la propria morte, il suo avve-nire che non diventerà mai suo Presente; e la sola realtà o presenza reale di quest’avvenire è il sapere, che l’Uomo ha nel Presente, della propria morte futura. Dunque, se l’Uomo è concetto e il concetto è tempo (se cioè l’Uomo è un essere essenzialmente temporale), l’Uomo è essenzial-mente mortale; è concetto, cioè è Sapere assoluto o Saggezza incarnata, solo se lo sa. Il Logos non diventa carne, non diventa Uomo, se non a condizione di voler, e poter, morire»11.

Il problema è che se s’identificano tout court tempo e concetto si rischia di perdere alla temporalità la dimensione del futuro. Kojève appare anco-ra molto preso dalle critiche heideggeriane alla concezione hegeliana del tempo in Sein und Zeit, svolte con l’Enciclopedia delle scienze filosofi-che in compendio alla mano. Heidegger fa notare la fedeltà di Hegel alla tradizione, dal momento che sceglie di trattare del tempo nella Filosofia della natura, così come aristotele ne aveva trattato nella Fisica, cioè nel contesto di un’ontologia della natura. Ne tratta quindi insieme allo spazio ed al movimento. Dal momento che il punto non si toglie dallo spazio come altro rispetto allo spazio stesso, occorre concepire la negazione del punto spaziale in altro modo: come negazione della puntualità: «Questa negazione della negazione della puntualità è, secondo Hegel, il tempo […]. Ogni punto, posto per sé, “è” un punto-ora […]. Ciò mediante cui il punto, in quanto è questo punto qui, può porsi per sé, è sempre un “ora”. La condizione della possibilità del porsi-per-sé del punto è l’”ora”»12. Se dunque il tempo è composto da una serie di ora presenti, dal momento che le tre dimensioni del tempo sono compresi proprio come “ora”, l’u-nica dimensione residua della temporalità sarebbe il presente, mentre il futuro verrebbe meno. Verrebbe quindi penalizzato fino alla scomparsa proprio l’avvenire, la dimensione costitutiva dello Spirito nella storia.

D’altra parte, notava carl Schmitt, «da Hegel in poi, molti, e nel modo migliore Benedetto croce, ci hanno insegnato che ogni conoscenza stori-

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ca è conoscenza del presente, che cioè essa trae la propria luce e la propria intensità dal presente e serve, nel suo significato più profondo, solo al presente, poiché ogni spirito è solo spirito del presente»13.

8.2 Stop: il tempo è scaduto

cosa ne è dell’eternità una volta saldati concetto e tempo? ci aiuta un’annotazione dell’Enciclopedia (§ 258), agli inizi della trattazione del-la filosofia della natura: «Il concetto è esso che costituisce la potenza del tempo, il quale è siffatta negatività, ma soltanto come esteriorità […]. Il concetto dell’eternità non deve essere compreso negativamente come l’astrazione dal tempo, in questo modo che l’eternità possa esistere fuori dal tempo; e neppure nel senso, come se l’eternità venisse dopo il tempo: così dell’eternità si farebbe un futuro, cioè un momento del tempo»14.

tempo ed eternità sono anch’essi saldati. L’eternità è questo concetto che produce il tempo.

Nel senso che l‘eternità è l’atto spirituale del soggetto, la memoria, che produce il tempo non in quanto successione, ma in quanto divenire compreso. cioè, lo Spirito non riproduce la successione degli istanti così come si è prodotta nel tempo cronologico, ma secondo una logica precisa che ha condotto a quel punto di approdo a partire dal quale adesso ricor-da. Il presente metatemporale a partire dal quale rammento produce una sorta di temporalità altra, non fatta di successione di momenti, ma di un divenire compreso.

Questo presente metatemporale, a partire dal quale rifletto e ricordo, è quindi in qualche modo eterno, dice Hegel. Eterno perché strappato alla logica della successione meccanica degli eventi; ma che tuttavia continua ad avere un rapporto strettissimo, d’intimità col tempo, del quale tesse la trama concettuale, rammemorando l’essenziale e creando la grammatica della storia per concetti.

Quindi, secondo Hegel, il tempo è il concetto medesimo che è là e che si presenta alla coscienza come intuizione vuota. Il testo continua così:

«Perciò lo spirito appare necessariamente nel tempo, ed appare nel tempo fin tanto che non coglie il suo concetto puro, vale a dire finché non elimina il tempo»15.

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La necessità per lo spirito di apparire nel tempo si darebbe fintanto che non coglie (erfaßt) il suo puro concetto, cioè finché non elimina il tempo (nicht die Zeit tilgt). Eliminare il tempo.

Ma allora avrebbe ragione Heidegger: Hegel prevede non solo che la Storia finisca, ma addirittura che il Tempo s’interrompa, per così dire. Il tempo dell’esserci nella sua considerazione ordinaria, quello della quoti-dianeità16. Non crediamo sia così. Hegel sta dicendo che lo Spirito, cioè la cultura a cui l’umanità occidentale si è elevata fino alla vetta rappre-sentata da Hegel stesso alle prese con la scrittura della Fenomenologia, per descriversi ha bisogno di collocarsi in una situazione – per così dire – metatemporale, dalla quale ripensa e rivede tutto il trascorso. Insomma, in quei mesi del 1806, Hegel è come se fermasse il calendario, perché deve/vuole effigiare lo Spirito e, come prima dicevamo, ha bisogno – con un’immagine forse triviale – che il suo soggetto non si muova, che stia fermo; quindi elimina il tempo, ma sarebbe meglio forse dire: è come se eliminasse il tempo. In ogni caso ne prescinde, lo mette tra parentesi, fa come se i giorni non passassero, mentre lui scrive la Fenomenologia. Lo Spirito ripensa quel che è stato in un presente metastorico e sottratto alla considerazione storica, e quel che è stato gli appare, rispetto a quel che lo Spirito è oggi, sotto il profilo della necessità: cioè rispetto ai tratti essenziali che lo Spirito si è dato per divenire quel che è. Il suo presente, di necessità, rende essenziali alcuni passaggi e non altri. e il suo ripen-sare di oggi è il ripercorrere la totalità setacciata dei momenti del tempo trascorso; e pensa il tempo trascorso in modo metatemporale, cioè come se, come se il mio momento attuale fosse eterno. cioè sottratto al tempo.

che la questione del rapporto tra Spirito e tempo sia complessa, fu chia-ro da subito a tutti gli esegeti. anche nell’ambito del neohegelismo tede-sco (Kroner, Hartmann) si viveva il rischio che lo storicismo hegeliano fosse internamente minacciato dal rischio di dissolversi in un “assoluto” relativismo storico. Veggetti sintetizza così la sostanza delle argomenta-zioni di Kroner: «In definitiva, lungi dall’affermare quella fantasticheria che i suoi critici gli imputano (il pensiero della ‘fine’ come conclusione del corso della storia) Hegel ha voluto affermare per Kroner che il presen-te in quanto tale non può essere oggetto di osservazione storica, perché da esso la storia si origina. L’interpretazione dell’istante ci offrirebbe così la chiave per la comprensione della filosofia della storia di Hegel, per capire la conciliazione da lui intrapresa di sistema e storia, ragione e tempo,

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autocoscienza e mero Dasein dell’essere umano: l’istante è il luogo di raccoglimento del tempo da cui si sprigiona l’attualità e l’attività dello spirito vivente»17.

riassumendo: dal momento presente, che è quello che io sono oggi, io mi alieno nel tempo, nel passato, e ripenso quel tempo; e non lo ripenso come semplice successione di momenti (prima è successo questo, poi quest’altra cosa, poi quest’altra ancora…): lo penso come durata razio-nale, come successione necessaria di quegli avvenimenti che sono stati essenziali per farmi essere quel che sono oggi dando loro un senso.

Hegel, in altre parole, si ricorda e descrive gli itinerari logici del proprio pensiero, confrontandosi con la storia dello Spirito. e trovando così dei referenti nella storia dello Spirito per i concetti di cui si sostanzia oggi il suo pensiero. Se io penso l’essere, chi ne ha parlato per primo? Parmeni-de. Se penso alle Idee, a chi penso? a Platone. Penso la singolarità, a chi penso? A Leibniz. Se rifletto sul soggetto e sulla potenza del fare, a chi penso? a Fichte. Se penso alla Libertà, chi mi viene in mente? rousseau e Kant. E così via. I momenti essenziali della storia della filosofia, la sua grammatica concettuale, è tutta contenuta nel Sapere assoluto che lo Spi-rito ripensa e tesaurizza, e grazie alla quale può pensare, da una posizione di intemporalità.

Siamo dunque di fronte ad una doppia considerazione del tempo. Da un lato abbiamo il tempo come successione degli avvenimenti, come tempo degli orologi; dall’altro, abbiamo il tempo come durata razionale, non considerato più come successione estrinseca di fatti, ma come suc-cessione necessaria di fatti significativi, diverso dal Tempo spazializza-to, dal tempo degli orari ferroviari. Il vero tempo, per Hegel, è questo: quello umanizzato dalle conquiste del Sé, non quello del calendario. Che è invece quello che viene presentato a seguire:

«Il tempo è il puro Sé esteriore ed intuito; è un Sé non attinto [erfaßt] dal Sé, è il concetto soltanto intuito; quando questi attinge se medesimo, su-pera la sua forma temporale, concepisce l’intuire ed è intuire concepito e concettivo [begriffnes und begreifendes Anschauen] »18.

Questo tempo qui è quello della meccanica, quello misurabile matema-ticamente, kantianamente duro come l’intuizione pura, è il tempo nella sua esteriorità. Quando poi il Sé tocca se stesso, capisce se stesso, allo-

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ra supera questa forma temporale, non si accontenta più della semplice successione, ma ha del tempo un’idea concettuale e comprensiva. Dall’-intuire, si passa al comprendere, ed in termini hegeliani si tratta di un gran passo avanti.

«Il tempo appare quindi come destino e necessità dello spirito che non è perfetto in se medesimo, – come la necessità di arricchire la partecipazio-ne che l’autocoscienza ha alla coscienza, di mettere in moto l’immediatez-za dello in sé, – la forma in cui la sostanza è nella coscienza, – o viceversa, – prendendo lo in sé come l’interiore, – di realizzare e di rivelare ciò che è inizialmente interiore, ossia di rivendicarlo alla certezza di se stesso»19.

Dato che lo Spirito non è perfetto in se medesimo, di qui la neces-sità che si dia nel tempo. Lo Spirito, prima del Sapere assoluto, è per definitionem imperfetto. e dato che è un risultato, il suo progredire si dà necessariamente nel tempo che quindi appare come suo destino. Nel tempo, lo Spirito che si sa si aliena e si ricorda delle proprie fasi, delle proprie tappe, vuole rendersi conto dei passaggi che lo hanno fatto es-sere quel che è. È quanto Hegel dice con la frase come la necessità di arricchire la partecipazione che l’autocoscienza ha alla coscienza, di mettere in movimento l’immediatezza dello in-sé. L’autocoscienza sono io in quanto Sapere assoluto che devo arricchire la coscienza delle cose che sto dicendo/scrivendo, e che non ho ancora del tutto chiare davanti a me, ricordandomi dell’itinerario che ho percorso per guadagnarle. come? Mettendo in moto l’immediatezza dello in-sé, cioè la forma in cui la so-stanza è nella coscienza. e la forma in cui la sostanza è nella coscienza è quella della rappresentazione: lo Spirito deve dunque rimettere in moto la sostanza teologica che aveva tesaurizzato nel capitolo settimo. Devo concettualizzare, esplicitare (Hegel dice stavolta: mettere in movimento, perché il Concetto è movimento) lo stadio teologico della mia cultura, insomma. Oppure, prendendo lo in-sé come l’interiore, – di realizzare e di rivelare ciò che è inizialmente interiore, ossia di rivendicarlo alla certezza di se stesso. Il che è più semplice: devo, in altre parole, rendere esplicito (realizzare e rivelare, dice il testo) quel che prima era implicito. In termini psicoanalitici, è come se Hegel dicesse che lo Spirito ha anche una storia riposta nel profondo, nell’inconscio, storia di cui devo tenere conto, cercando di esplicitare quel che posso o riesco a esplicitare. Il mo-

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vimento è sempre lo stesso: mi devo riappropriare di me stesso (della mia cultura, delle radici del mio Io) ripercorrendone le tracce, fino ai sentieri più nascosti, portando alla luce i nessi, le relazioni, le parentele culturali e biologiche. Per conoscermi, devo ricordarmi.

8.3 Tempo ed esperienza

Quando in cina qualcuno vuole augurare il peggio possibile ad una persona, gli si rivolge così: “Che tu possa vivere in tempi interessanti!”20. tempi interessanti, per la saggezza cinese, sono infatti quelli caratteriz-zati da inquietudine, incertezza, lotte, tensioni, guerre, di cui di solito fanno poi le spese le persone normali, i cittadini. Eppure, sostiene Žižek, solo attraversando consapevolmente questi momenti difficili potremo tra-sformare la crisi in possibilità reale, concreta di un nuovo inizio, nella sala-parto della società futura. Per dirla con un altro cinese, Mao Zedong: “Grande disordine sotto il cielo: la situazione è eccellente”. I tempi inte-ressanti sono i tempi del Fare, i tempi della Storia, della modernità.

Di fatto, questa convinzione – che è più di un convincimento: è un at-teggiamento generale nei confronti della realtà, una scelta di vivere la vita – ha un tono hegeliano. Hegel è stato certamente il filosofo della specu-lazione teoretica, della razionalizzazione del reale, della preminenza ulti-ma della riflessione autoconsapevole rispetto ad ogni altra sfera d’azione umana. Ma insieme, e proprio per questo, è il filosofo dell’autonomia del-la Politica, dell’assoluto sganciamento dell’azione storicizzante dalla pre-tesa di legittimazione aprioristica dello spirituale; infine del superamento di ogni controllo del trascendentale rispetto ad un reale accettato nella sua, a tratti sgomentante, verità. L’autore della Scienza della logica non è certo tra gli ispiratori del convincimento nietzschiano per cui la verità sarebbe – per così dire – troppo “forte” per noi. Viceversa, Hegel ritiene che si possa e si debba sapere tutto dell’accaduto, come avevano intuito già Kant e Fichte, anche se ciò non ci autorizzerà a preparare ricette per l’avvenire – come diceva Marx, da buon hegeliano. Da questo punto di vista, la malinconica figura dell’Angelo della Storia, cara a Walter Benja-min, appare solo una delle evoluzioni antropomorfiche dell’hegeliana nottola di Minerva. Entrambe le figure sono rivolte al passato. L’Angelo ha smarrito però quell’espressione di assorta consapevolezza del Saggio

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kojèviano, personificazione della civetta della Filosofia, ed il suo sguardo appare invece costernato nel dover registrare il paesaggio di rovine di un Occidente troppo fiducioso, nel corso della modernità, nelle proprie sorti progressive: e la guerra non era ancora finita. L’Angelo dà le spalle al futuro e forse alla speranza; figura ancipite del Re Pescatore protagonista della “Terra desolata” eliotiana che con frammenti di civiltà, per quanto erosi e sparsi, aveva provato a puntellare le rovine di quella stessa civiltà.

Il Saggio, cioè il soggetto contemporaneo consapevole delle proprie pos-sibilità e quindi dei propri limiti, autore e interprete della cultura dell’at-tualità, non si scandalizza delle ferite della Storia, per quanto possa esserne turbato. Né ricerca una verità oltre le apparenze, un nocciolo oltre il sim-bolico; insomma, non esclamerebbe mai, con alphonse allais: «guardate quella ragazza, che vergogna! Sotto il vestito è totalmente nuda!»

Proprio pensando a Benjamin, si può notare qui il valore dell’esperien-za traumatica nella concezione hegeliana della storia concettuale. Per Hegel, tutto concorre all’esperienza, ogni fase della storia – anche la più buia e informe, come l’alto Medioevo – ha avuto un ruolo, se ripensata. Attenzione: solo se ripensata, però, non in sé. È solo per noi che quegli avvenimenti (pestilenze, guerre, violenze) acquisiscono un senso, proprio perché siamo in grado di inquadrarli in un contesto culturale e temporale di lungo periodo. La riflessione del Novecento ci ha fornito nuovi ele-menti di consapevolezza e oggi sappiamo – con Walter Benjamin e, per la psicologia del profondo, soprattutto grazie a Wilfred ruprecht Bion – che non tutte le esperienze sono arricchenti; che anzi spesso il traumatico impedisce l’esperienza stessa.

Bion riteneva che in generale il trauma possa cessare di essere tale nel momento in cui veniva riconosciuto. Ma si dà anche un trauma capace di danneggiare in modo più o meno grave la funzione alfa. In questo caso, risulta compromessa la possibilità stessa di accedere al mondo simbolico, la capacità di operare una separazione tra sé e il mondo oggettuale. Si struttura, cioè, un mondo popolato da oggetti piuttosto che da rappresen-tazioni, da equazioni simboliche piuttosto che da simboli, fino ad arriva-re, nei casi più gravi, alla perdita più o meno completa della possibilità di fare esperienza.

Il che ricorda quanto aveva già osservato Benjamin a proposito dei fanti di ritorno dal fronte della Prima Guerra mondiale: «Una cosa è chiara: le quotazioni dell’esperienza sono cadute e questo in una generazione che,

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nel 1914-18, aveva fatto una delle più mostruose esperienze della storia mondiale. Forse questo non è così strano come sembra. Non si poteva già allora constatare che la gente se ne tornava muta dai campi di battaglia? Non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile»21. Di qui, la na-scita – secondo Benjamin – di una Nuova Barbarie, il cui primo carattere distintivo – comportato proprio dalla mancanza di esperienza – sarebbe proprio l’enfasi sulla novità. Il neo-barbaro «è indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal Nuovo, a farcela col Poco; a costruire dal Poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra»22. È quella “subcultura dell’emergenza” che ci affligge da sessant’anni.

I successivi paragrafi dell’ottavo capitolo sintetizzano questo passato che lo Spirito è, cioè: che lo Spirito siamo. Hegel in un solo capoverso fa uno schizzo della storia concettuale del genere umano: un bignami della Fenomenologia dello Spirito, una cultura dell’Occidente in pillo-le, passando dal cristianesimo medioevale ai crociati, dalla cavalleria alla riforma, da Galileo a cartesio, da Spinoza a Leibniz, da Bacone a Rousseau, da Kant a Fichte, per finire a Schelling ed alla propria filosofia.

Questo l’attacco, famosissimo, del XV capoverso:

«Per questa ragione si deve dire che niente viene saputo, che non sia nell’e-sperienza (Erfahrung) o, come anche si esprime la medesima cosa, che non sia dato come verità sentita, come l’eterno interiormente rivelato, come il Sacro a cui si crede o come altrimenti si voglia dire. Infatti l’espe-rienza è proprio questo: che in sé il contenuto, – ed esso è lo spirito, – è sostanza e quindi oggetto della coscienza. Ma questa sostanza che è lo spirito ne è il divenire fino a farsi ciò ch’esso è in sé; e solo come questo divenire riflettentesi in se stesso esso in sé è in verità lo spirito»23.

Nelle esperienze culturali dell’Occidente, la realtà nel suo insieme, la sostanza – dice Hegel – cioè la totalità concreta, è stata considerata come oggetto della coscienza: siamo alle solite, nelle filosofie precedenti la re-altà stava da una parte, come oggetto, e la coscienza che la osservava dall’altra. Poi questa sostanza (cioè la realtà tutta) si è soggettivizzata, la coscienza è divenuta autocoscienza e abbiamo capito di essere spirito, uomini liberi. Questo processo, dice qui Hegel, avviene però nell’espe-rienza; me ne accorgo, in altre parole, mentre vivo, ricordo e rifletto: tut-

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to quel che viene saputo è nell’esperienza, diviene nella mia esperienza: pratica, storica, e poi nella rammemorazione e nella filosofia, in grado di legare col senso le cose24.

«Esso è in sé il movimento che è il conoscere, – la trasustanzazione25 di quell’in-sé nel per-sé, della sostanza nel soggetto, dell’oggetto della co-scienza in oggetto dell’autocoscienza, cioè in oggetto altrettanto tolto o nel concetto»26.

Le categorie, i concetti che prima stavano a sé (o in sé, nel linguaggio hegeliano), vale a dire la Sostanza aristotelica, l’Idea platonica, il Dio dei cristiani, bene, tutte queste categorie ora sono diventate nostro patri-monio, ce ne serviamo – sono, in termini hegeliani, per sé, cioè per noi, esistono perché ce ne serviamo. E così la sostanza diviene soggetto, ciò che è coscienza (ciò che ritenevamo Due, oggetto da investigare da parte del soggetto) diviene autocoscienza, cioè diviene mio movimento. Il che viene ridetto icasticamente così:

«Quel movimento è il circolo ritornante in se stesso che presuppone il suo cominciamento e lo raggiunge soltanto nella fine»27.

La Fenomenologia appare, al suo termine, come un itinerario circolare reso trasparente dalla consapevolezza piena delle esperienze trascorse. La galleria delle figure della cultura ha mosso dalla certezza sensibile, è partita da Parmenide, da una situazione in cui l’essere era completamente altro, fuori di me. Ha quindi attraversato tutte le tappe della cultura, e l’uomo moderno se ne è impossessato, le ha fatte proprie, trasformando quelle sostanze così esterne in un che di proprio. Ed infine è giunto al traguardo: quel che prima era fuori, ora è tutto introiettato, adesso è tutto logos, è tutto discorso, è per l’appunto tutto Sapere assoluto, cioè sapere svolto, parlato, concettualizzato. Siamo in totale possesso del vero.

8.4 Scissioni

Si tratta in effetti di un’attitudine desueta ai nostri giorni. Viviamo un’e-poca che si è progressivamente allontanata da quella pacata certezza di

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vivere la verità. Siamo ridiventati figli orgogliosi del dubbio, dell’incer-tezza, quando non del mistero. aiutati dall’ideologia occidentale che si alimenta di paure ed alimenta a sua volta pretese di sicurezza extrasog-gettive: ci si volge di nuovo ad un assoluto altro da noi, fuori dall’uomo, a dèi ed idola. Una volta di più, quindi, Hegel ha ragione: il Sapere asso-luto, la consapevolezza attinta di non avere bisogno di verità fuori di noi, non è colta una volta per tutte. restano da scrivere molte altre fenomeno-logie della cultura: di una cultura dispersa e nella diaspora, oppure di una cultura che non sacralizzi la distanza che si è reinsediata nelle coscienze, ponendo di nuovo un gap tra l’uomo ed un mondo che infatti ci si affan-na a definire incomprensibile, opaco, sfuggente. Oggi lo Spirito, cioè la storia culturale degli uomini, non si scinde più per comprendersi, ma per smarrirsi; la differenziazione della cultura che si particolarizza, momento decisivo dello Spirito che diviene, si sfrange in mille rivoli, non viene più ricondotta a sintesi, ma lasciata permanere nella dissipazione.

«In quanto dunque lo spirito è necessariamente questo distinguere dentro di sé, il suo intiero, intuito, si contrappone alla sua autocoscienza sem-plice; e poiché dunque l’intiero è il distinto, esso è distinto nel suo puro concetto intuito: nel tempo, e nel contenuto o nello in-sé; la sostanza, come soggetto, ha in lei la necessità inizialmente interiore, quella di presentarsi in lei stessa come ciò ch’essa è in sé, come spirito»28.

Fin dall’inizio del capitolo è comparso questo scindersi dello spirito che si sdoppia per comprendersi. L’autocoscienza ancora imperfetta (“sem-plice”) ha dinnanzi a sé l’interezza della storia culturale che però non ha ancora ripercorso tutta, per cui deve ripensarla, deve rivivere – per un verso – le singole figure fenomenologiche per sentire davvero come propria quella storia, giacché di storia si tratta, poiché lo spirito “è nel suo puro concetto intuito”, appunto nel tempo. E per un altro verso, deve ri-appropriarsi del contenuto, dello in-sé. Cioè quel qualcosa che fa sì che la storia non sia mera successione di eventi nel tempo: vale a dire il criterio, filosofico, che ha consentito che – prima del Sapere assoluto – comunque nella storia ci si orientasse. Lo in-sé appare quindi costituito qui da quegli elementi di senso che i filosofi hanno aggiunto alla storia evenemenziale, per così dire, dall’esterno, dal momento che ancora non erano in grado di leggerla nella sua intima necessità concettiva. Nel Sapere assoluto si

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ha invece la sostanza come soggetto che ha in lei la necessità che prima, inizialmente, era solo interiore.

«Soltanto la perfetta presentazione oggettiva è in pari tempo la riflessione di essa medesima o il suo farsi Sé»29.

Quando il senso non è più esterno agli avvenimenti, quando è tutt’uno con essi, allora abbiamo la sua diretta presenza nella storia; ed il riflet-tervi, cioè il ricordare e ripercorrere questa storia sensata, equivale per lo spirito al farsi, cioè a guadagnare la propria autocoscienza.

« Perciò finché lo spirito non è in sé, finché non si è compiuto come spirito del mondo o spirito universale, esso non può attingere la sua perfezione come spirito autocosciente. Quindi nel tempo il contenuto della religione enuncia prima della scienza ciò che lo spirito è; ma solo la scienza è il vero sapere che lo spirito ha di lui stesso»30.

Soltanto al culmine dell’itinerario storico-coscienziale, lo spirito può darsi anche nella sua forma autocosciente. In precedenza (nel tempo, qui inteso come successione cronologica) la teologia cristiana aveva già intravisto un senso della storia, sia pure in forma rappresentativa, attri-buendolo per esempio alla Provvidenza; ma quel che lo spirito diviene, questa verità non aveva alcun carattere soggettivo, non era patrimonio dei singoli. Si ha scienza soltanto nel momento in cui la cultura può esse-re espressa, kojèvianamente, dal Saggio: da ogni singola autocoscienza, consapevole del proprio ruolo nel mondo, ora in grado di spiegarsi l’e-dificarsi della storia culturale dell’uomo attribuendogli un senso proprio frutto del suo movimento, non tratto da altro.

«Il movimento per cui esso educe [ted. hervortreiben] la forma del suo sapere di sé, è il lavoro che lo spirito compie come storia effettuale»31.

La storia effettuale è la serie dei ricordi che costituisce lo spirito, serie a cui la filosofia dà forma. Scolasticamente, diremmo allora che il lavoro dello spirito nel tempo, il suo cupo tessere, ricorda la figura hegeliana della talpa; laddove la filosofia appare come l’uccello della sera, la civet-ta che coi suoi grandi occhi vede nel buio ed informa la storia32. talpa e

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civetta sono le due metafore teriomorfe cui Hegel affida i messaggi più rilevanti. Nelle Lezioni di storia della filosofia emerge tutta la rilevanza del lavoro della talpa. Hegel prende spunto ancora una volta da Shake-speare, qui dall’Amleto: «Soltanto lo spirito è progredire. Spesso sembra che si dimentichi e si smarrisca; ma, opposto interiormente a se stesso, continua a lavorare interiormente, come dice amleto dello spirito di suo padre: “Hai lavorato bene, brava talpa!”, finché, rinfrancato, scuote ora la crosta terrestre, che lo separava dal suo sole, dal suo concetto. Nei periodi in cui la crosta, edificio senz’anima e tarlato, crolla, e lo spirito assume l’aspetto di una nuova giovinezza, esso calza gli stivali delle sette leghe. Questo lavoro dello spirito per conoscersi, quest’attività di trovar se stesso, è la vita dello spirito, è lo spirito medesimo. Il suo risultato è il concetto che esso acquista di sé: la storia della filosofia è la chiara dimo-strazione che questo lo spirito ha voluto nella sua storia: essa è dunque quel che c’è di più intimo nella storia universale»33. L’attitudine teoretica segue ed accompagna necessariamente quella pratica. Poiché «l’azione non si comprende; verrà compresa. Questa è l’attitudine hegeliana, di pie-na conciliazione col mondo in quanto sede del razionale»34. Un’attitudine teoreticista, che tuttavia lascia alla politica la totale responsabilità dell’a-zione trasformatrice.

Il significato di ognuno dei momenti salienti era già emerso nella galle-ria delle figure fenomenologiche che Hegel aveva ricapitolato nella prima parte del capitolo. Ma adesso sembra volerle meglio delineare.

«La comunità religiosa, in quanto essa è da prima la sostanza dello spirito assoluto, è la coscienza rozza la quale ha un esserci tanto più barbarico e duro, quanto più profondo è il suo spirito interiore; e tanto più duramente il suo sordo Sé ha da lavorare con la sua essenza, con il contenuto, a lui estraneo, della sua coscienza»35.

Il primo momento rammemorato è quello di uno dei momenti storici di più ampio distacco tra il senso delle cose ed il secolo. Nel Medioevo – nei confronti del quale Hegel si esprime sempre con inusuale violenza – il sacro (la sostanza che ancora non si sapeva soggetto) era massimamente separato dal profano; il che aveva portato da un lato ad un’enfatizzazione degli elementi soprannaturali e mistici della religione, fino a farla sconfi-

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nare nella più becera superstizione, e dall’altro il secolo a caricarsi degli elementi vitali più rozzi e violenti. Il credente medioevale aveva modi di vivere barbarici e duri che non venivano toccati dall’interiorità cristiana che pure gli albergava in petto, ma in modo del tutto trascendente, esterio-re. Di qui lo sforzo inane dell’uomo di fede medioevale: la sua coscienza secolare (“il suo sordo Sé”) cercava di lavorare sulla sua essenza, cioè provava ad applicarsi al contenuto, sacro, della propria coscienza, ma senza riuscirvi, per cui il soggetto permaneva nella divisione.

«Soltanto dopo aver abbandonato la speranza di togliere l’estraneità in un modo esteriore, ossia estraneo, quella coscienza, – dacché la guida este-riore, tolta, è il ritorno nell’autocoscienza, – si volge a se medesima, al suo proprio mondo e alla sua propria presenzialità, la scopre come sua proprie-tà, e ha fatto così il primo passo per scendere dal mondo intellettuale o, piuttosto, per vivificarne l’elemento astratto con il Sé effettuale»36.

trascorsi i tempi bui dell’alto Medioevo, la cultura cristiana compren-de – come si esprime nelle Lezioni sulla storia della filosofia – che «il vero mondo intellettuale non è dunque un al di là; ma il cosiddetto finito ne è un elemento, e non c’è distinzione fra un di qua e un di là»37. Il cre-dente scopre che può vivere presso il sacro, che questo non gli è estraneo e che la sua dimensione interiore di credente può intonarsi col secolo. Perdono quindi d’importanza le in precedenza diffusissime pratiche asce-tiche masochistiche (come le autoflagellazioni, le penitenze, i pellegri-naggi di espiazione, i digiuni) che pretendevano di punire il mondo in sé, senza riuscire però a liberarsene davvero. La coscienza del credente può dunque “scendere” (ted. herabsteigen) dal mondo intellettuale (l’intellet-to è sempre la potenza del Due, la lama della separatezza) dove il Sacro era stato confinato, e venir ravvificata “dal Sé effettuale”, vale a dire dalla vita reale. Insomma, non vi è più distanza e incompatibilità tra il sacro ed il secolo, per cui il soggetto adesso sa «come divino in sé il terreno, l’altro in Dio, […], come avente in Dio le sue radici, ma non più che le radici»38.

«con l’osservazione essa trova, da una parte, l’esserci come pensiero e lo concepisce; e, viceversa, trova l’esserci nel suo pensare. Mentre anzitutto quella coscienza ha così dichiarato astratta l’unità immediata del pensare e dell’essere, dell’essenza essa stessa astratta e del Sé, ed ha risvegliato la

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prima essenza luminosa più puramente, cioè come unità dell’estensione e dell’essere, – ché l’estensione, più della luce, è la semplicità uguale al puro pensare, – ed ha, quindi, risvegliato nel pensiero la sostanza sorgente; lo spirito rifugge tuttavia da questa unità astratta, da questa sostanzialità priva di Sé, e di contro ad essa afferma l’individualità»39.

In poche righe, Hegel rammenta in vertiginosa successione le attitudi-ni gnoseologiche principali ed alcuni protagonisti del pensiero moderno (senza nominarli), seguendo il percorso che già aveva delineato nel corso del sesto capitolo. Kojève, nella sua Introduzione, sceglie di non tradurre questo passo, «dato che è quasi incomprensibile senza un commento, e un commento appena soddisfacente richiederebbe mesi»40. Vero. Limitiamo-ci dunque ad alcune annotazioni.

L’attitudine osservativa, la Beobachtung, è l’atteggiamento tipico della prima scienza moderna, galileiana e newtoniana. L’esserci, il dato natu-rale, viene trascritto in termini matematico-fisici; la nuova scienza trova nella natura dei principi in base ai quali ordina la realtà secondo delle griglie razionali, delle leggi – il che è espresso affermando che “trova l’esserci come pensiero”. Il cui correlato metafisico è il pensiero che si trova nell’esserci, cioè cartesio che si trova nel cogito. tuttavia – ed è la consueta critica hegeliana a Descartes – quest’unità tra pensiero ed essere è stata espressa astrattamente, in modo immediato: lasciando separate la res cogitans e la res extensa e chiamando la trascendenza a legittimare il rapporto tra essere e cogito. Un altro filosofo si è quindi incaricato di affermare in modo più puro l’unità di pensiero ed essere: Spinoza, che qui Hegel richiama accostandolo alla prima figura della religione naturale del settimo capitolo, l’essenza luminosa, richiamata appunto dalla sostan-za spinoziana. La quale ultima è più pura della stessa essenza luminosa perché l’estensione senza alcuna determinazione rende al meglio la sem-plicità assoluta della sostanza stessa. Spinoza, quindi, ha risvegliato nel pensiero – cioè ha reintrodotto in filosofia – la sostanza dell’inizio (die Substanz des Aufgangs), cioè quella prima sostanza che nella trattazione del capitolo teologico veniva collegata all’antico zoroastrismo.

La purezza della sostanza spinoziana difettava però di un carattere de-cisivo: si trattava infatti di una sostanzialità priva di sé, cioè non indivi-dualizzata, i suoi modi erano semplici increspature della sostanza stessa. chi invece riesce a dar conto della determinatezza, del soggetto? Leibniz,

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ed è la sua monadologia, evidentemente, ad affermarsi contro l’astratta sostanzialità spinoziana.

«Ma solo dopo avere, nella cultura, alienata la sostanzialità, dopo averla così resa esserci e averla fatta passare attraverso ogni esserci; solo dopo esser giunto al pensiero della utilità e, nell’assoluta libertà, aver colto l’es-serci come sua volontà, lo spirito trae alla luce il pensiero della sua più interiore profondità, ed esprime l’essenza come Io = Io»41.

Qui si ricorda quella fase della storia filosofica e scientifica in cui l’au-tocoscienza ha ritenuto di alienarsi nella realtà, impadronendosene. La fase che, nel capitolo dedicato allo Spirito, Hegel definisce della cultura (Bildung) e del suo regno dell’effettualità: il mondo dello spirito estrania-to. L’individualità colta passa nelle cose, si aliena nel mondo, obbedendo alla natura ne crea le leggi e quindi la comanda (Bacone). L’uomo di scienza impone le sue leggi, che sono le leggi della natura, ad ogni realtà fisica (in questo senso le fa passare in ogni esserci: domina la natura). Questa Bildung è la cultura scientifica nata da Cartesio e poi cresciuta e irrobustitasi attraverso le acquisizioni della matematica e della fisica, fino appunto a Bacone. Un mondo dominato dall’intelletto, dalla facoltà critica: tant’è vero che il passaggio subito successivo è al mondo dell’u-tile, verità dell’Illuminismo, tappa fondamentale (come si è già visto in precedenza nello stesso Sapere assoluto) perché instilla nel soggetto la prima consapevolezza della sua assoluta libertà. con lo spirito della ri-voluzione dell’89 ecco insediarsi il mondo di rousseau, del Direttorio, dell’Incorruttibile: appunto il regno della libertà assoluta e del primato del volere, del primato del dovere morale, con Kant.

Passato attraverso il lavacro del terrore, la cultura umana dell’Occi-dente è in grado infine di “esprimere l’essenza come Io = Io”, col che si approda a Fichte.

«Ma questo Io = Io è il movimento riflettentesi in se stesso; infatti poiché questa eguaglianza, come assoluta negatività, è l’assoluta differenza, l’au-toeguaglianza dell’Io sta di contro a questa pura differenza la quale, in quanto pura e tuttavia oggettiva al Sé che sa se medesimo, è da esprimersi come il tempo, per modo che, come dianzi l’essenza venne definita quale unità del pensare e dell’estensione, essa sarebbe da prendersi come unità

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del pensare e del tempo; ma la differenza lasciata a se stessa, il tempo privo di quiete e di posa, crolla piuttosto in se medesimo; esso è la quiete oggettiva dell’estensione; ma questa è la pura eguaglianza con se stesso, l’Io»42.

In questo passo un po’ contorto, il bersaglio è la filosofia fichtiana, nella quale l’Io = Io è il movimento che si riflette in se stesso, cioè è la presa d’atto del proprio fare, il momento riflessivo successivo al fare dell’Io. Che però afferma la mera identità, negando ciò che non è. E negando ciò che non è, spiega Hegel, è anche “l’assoluta differenza”. Differenzia sé dall’altro e, dal momento che si pone come identità, esclude da sé la differenza. Questa soggettivizzazione assoluta dell’identità si pone evi-dentemente come l’identico, e respinge al contempo il diverso. È pura identità senza diversità.

Di contro a questa pura identità, sta il tempo. Diversamente, saremmo nel Sapere assoluto – se cioè la diversità partecipasse del soggetto che quindi, differenziandosi, avrebbe e sarebbe al proprio interno la stessa temporalità. Nella filosofia di Fichte no: il tempo ne è fuori. Perciò qui vien detto che la pura differenza, cioè il tempo, sta di contro all’autoegua-glianza dell’Io. tuttavia, la temporalità scacciata fuori dalla soggettività non ha qui ancora la potenza ed il dinamismo che avrà nel concetto hege-liano. Si tratta qui di una temporalità depotenziata, depauperata e ridotta ad una sorta di mero scorrere ininterrotto (“che non ha quiete né posa”). Questo fluire indifferenziato è fatto da momenti del tutto eguali ed indi-stinti; momenti che non acquistano quel “valore” che hanno invece quan-do, dialettizzati, costituiranno la vita stessa del concetto. Quindi, questa sequenza senza soluzione di continuità si tramuta nell’indistinto e – dice Hegel col suo linguaggio colorito – collassa, crolla (fällt vielmehr in sich selbst zusammen) e diviene estensione, spazio identico con sé. Il che chia-ma in gioco una nuova figura filosofica, anzi, il filosofo dell’identità per eccellenza, vale a dire Schelling. La sua identità di natura e spirito non è dialettica, perché l’Io si è semplicemente rovesciato nella natura, si è fatto natura senza differenziarsi, riproponendo – un secolo e mezzo dopo – il cuore della proposta spinoziana, l’idea di sostanza.

«Ovvero, l’Io non è soltanto il Sé, ma è l’eguaglianza del Sé con sé; ma que-sta eguaglianza è la perfetta e immediata unità con sé, ossia questo sogget-

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to è altrettanto la sostanza. La sostanza per sé sola sarebbe l’intuire vuoto di contenuto o l’intuire di un contenuto che, come determinato, avrebbe soltanto accidentalità, e sarebbe senza necessità; la sostanza varrebbe come l’assoluto, solo in quanto essa fosse pensata o intuita come l’unità assoluta; e ogni contenuto, secondo la sua diversità, dovrebbe cadere fuori di lei nella riflessione che non appartiene alla sostanza, perché essa non sarebbe soggetto, non l’elemento che riflette su di sé e in sé; ossia non sarebbe con-cepita come soggetto»43.

La presente critica a Schelling ricorda quella già svolta alla sostanza spinoziana. Intendendo la sostanza come unità identica, Schelling non riesce a dar conto del sistema del molteplice – come Spinoza smarriva, secondo Hegel la determinatezza dei modi. I molteplici appaiono elemen-ti accidentali, nella filosofia dell’identità schellinghiana: tutti i particolari, i singoli, in questa filosofia “cadono fuori dalla riflessione”, cioè le sono estrinseci o devono esser considerati del tutto accidentali e l’unico modo per comprenderli è ricondurli all’identico, perdendone però in questo modo ogni specificità. Se le differenze sono l’essere, allora, dal momento che l’essere e le differenze sono lo stesso, non si dà che l’essere, e le dif-ferenze non sono che nomi, oppure modi dell’essere stesso. Il principio filosofico dell’amico Schelling è dunque un identico incapace di “riflette-re su di sé e in sé”, non in grado quindi di farsi soggetto.

«Se tuttavia si dovesse parlare di un contenuto, ciò da una parte avverreb-be soltanto per precipitarlo nel vuoto abisso dell’assoluto, mentre dall’altra il contenuto sarebbe raccattato esteriormente dalla percezione sensibile; il sapere sembrerebbe esser giunto a delle cose, alla differenza in lui stesso e alla differenza di cose molteplici, senza che si concepisca come e per qual via»44.

Hegel ripete la sua obiezione consueta a Schelling, già condotta nella Differenz ed esposta già nel sesto capitolo. «L’uno è in tutto, ogni essere è l’assoluto», sostiene Schelling. Ma se tutto è assoluto, tutto è divino, se l’assoluto è in tutto, qual è il principio di differenziazione, qual è il principio che rende molteplice il reale? Questo criterio non si riesce a scorgere, e allora l’assoluto di Schelling è – nella notissima espressione della Prefazione – simile ad una notte in cui tutte le vacche sono nere,

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dice Hegel citando un detto popolare, cioè una notte in cui tutte le diffe-renze scompaiono45.

«Ma a noi lo spirito ha mostrato di non essere né soltanto il ritrarsi dell’au-tocoscienza nella sua pura interiorità, né il semplice affondare [ted. Ver-senkung, De Negri: calarsi] di essa nella sostanza e il non essere della dif-ferenza; anzi ha mostrato di essere questo movimento del Sé il quale aliena se stesso e affonda [ted. versenkt, De Negri: si cala] nella sua sostanza, e come soggetto tanto è andato da essa in sé e la ha resa oggetto e contenuto, quanto toglie questa differenza dell’oggettività»46.

Nel Sapere assoluto sappiamo invece che lo spirito non è l’Io=Io fich-tiano ritratto nella sua interiorità, né l’identità eguale a se stessa di Schel-ling, indifferente commistione di natura e spirito. Siamo lontani quindi sia dall’attitudine fichtiana di chi si isola dal mondo ripiegandosi su se stesso, sia da quella schellinghiana, di chi fa oblazione di sé nell’oggetto della propria investigazione. Viceversa, nella Fenomenologia abbiamo a che fare con il movimento delle differenze, che è tempo. abbiamo ram-memorato così le esperienze di una cultura che ha scelto ad un certo punto di alienare se stessa nella realtà, cioè di passare nel secolo, di farsi cosa, e di calarsi nella sua sostanza, divenendo oggetto e contenuto (qui Hegel si riferisce probabilmente alle prime esperienze gnoseologiche della co-scienza). Ma tanto più lo spirito si è calato da soggetto nella realtà, tanto più questa si è disoggettivata, umanizzandosi, smettendo la propria prete-sa assoluta alterità iniziale, che qui Hegel chiama differenza, e divenendo sempre più trasparente alla cultura.

«Quella prima riflessione dell’immediatezza è il distinguersi del soggetto dalla sua sostanza, ossia il concetto scindentesi, l’insearsi e il divenire del puro Io. Dacché questa differenza è il puro operare dell’Io=Io, il concetto costituisce la necessità e il sorgere dell’esistenza, che ha la sostanza a pro-pria essenza, e sussiste per sé [De Negri: è la necessità e il ripudio dell’es-serci che ha a sua essenza la sostanza e sussiste per sé]»47.

Il passo può esser letto come un rammentarsi dell’esperienza della cer-tezza sensibile e della percezione, le prime in cui il soggetto ha dato inizio al processo di differenziazione. Prima il soggetto ripone tutta la verità

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nell’oggetto, poi al contrario attribuisce tutta la sostanza alla propria at-tività in grado di “costruire” il fenomeno, privandolo di tutta la sua ac-cidentalità, di tutta la sua opacità. Il che lo rende un che di sostanziale, appunto: lo spirito ha informato di sé la realtà, l’ha culturalizzata.

Un’altra lettura possibile (con Kojève) riconduce piuttosto il passo alla critica consueta alle filosofie di Fichte e Schelling. Così, la prima rifles-sione che muove dall’immediatezza sarebbe la negatività fichtiana, men-tre l’attività astratta dell’Io=Io sarebbe quella dell’Identità di Schelling. In ogni caso, resta la centralità delle differenze, per quanto poi ricomprese e digerite nel movimento dello spirito48.

«Ma il sussistere per sé dell’esserci è il concetto posto nella determinatez-za ed è così altrettanto il suo movimento in lui stesso per cui va giù nella sostanza semplice, la quale è soggetto soltanto come questa negatività e questo movimento»49.

Quando l’oggetto è stato culturalizzato, quando – nel consueto linguag-gio hegeliano – esiste ormai per sé, cioè è stato strappato alla sua singo-larità vuota e incompresa, allora è evidente che ne apprezziamo tutta la determinatezza. Se, in altre parole, ci siamo spiegati un certo fatto o ab-biamo trovato la legge che sovrintende alla formazione di un determinato fenomeno (poniamo, un fiocco di neve), da quel momento del fenome-no neve sappiamo molto di più: se deoggettiviamo l’oggetto, questo per converso si soggettivizza, cioè acquista il “peso” specifico delle nostre spiegazioni, della nostra interpretazione. Paradossalmente quindi la de-oggettivizzazione coincide con la reale sostantificazione dell’oggetto, o del fatto, per cui il concetto “va giù nella sua sostanza semplice” (nieder in die einfache Substanz), cioè affonda nella sua realtà.

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Note al capitolo 8

1 Ibidem. Nell’originale: «Die Zeit ist der Begriff selbst, der da ist, und als leere Anschauung sich dem Bewußtsein vorstellt».

2 G. Sasso, Tempo, evento, divenire, Il Mulino, Bologna 1996, pag. 32.3 Kojève ha ripreso questo tema in un saggio del ’55, Il Concetto e il Tempo.

Per una vera storia della filosofia, ora in A. Kojève, Il silenzio della tiran-nide, adelphi, Milano, 2004, pagg. 139-150.

4 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., I, pag. 27.5 J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di He-

gel, cit., pag. 715.6 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 455.7 Ibidem.8 Ivi, pag. 456.9 Ibidem.10 G. Sasso, Tempo, evento, divenire, cit., pag. 204.11 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 472.12 M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di F. Volpi sulla versione italiana

di P. chiodi, Bompiani, Milano 2009, pag. 511. Nel corso del § 82, Hei-degger – pur prendendo le mosse dallo Hegel dell’Enciclopedia – arriva poi a discutere com’è noto anche le pagine finali del Sapere assoluto nella Fenomenologia.

13 c. Schmitt, L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in: c. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 1974, rist.2009, pag. 167.

14 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Later-za, Bari 1975, vol. I, pagg. 234-235.

15 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 298.16 «La contrapposizione dell’idea di temporalità da noi proposta al concetto

hegeliano di tempo si rende opportuna soprattutto perché il concetto di tempo proposto da Hegel costituisce la più radicale e la meno studiata ela-borazione concettuale della comprensione ordinaria del tempo», M. Hei-degger (1929), Essere e tempo, edizione italiana a cura di P. chiodi, Utet, torino 1978, § 82, pag. 608.

17 M. Vegetti, op. cit., pag. 204.18 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 298.19 Ibidem.

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20 S. Zizek, Living in the End Times, Verso, Londra 2011, pag. 403.21 W. Benjamin, Il carattere distruttivo. L’orrore del quotidiano, in: “Mille-

piani”, marzo 1995, Mimesis Edizioni, Milano 1995, pag. 18.22 Ibidem.23 Ibidem.24 Per restare a Walter Benjamin, si può notare che l’hegeliana enfasi positiva

e liberante sull’esperienza e sulla memoria può anche esser letta, all’op-posto, come il tramite dell’autoestraniazione dell’uomo: «Il “ricordo” è complementare all’”esperienza vissuta”. In esso si deposita la crescente autoestraniazione dell’uomo, che cataloga il suo passato come un morto possesso. L’allegoria ha sgombrato, nell’Ottocento, il mondo esteriore, per stabilirsi in quello interno. La reliquia deriva dal cadavere, il “ricordo” dall’esperienza defunta, che si definisce, eufemicamente, “esperienza vis-suta” ». W. Benjamin, Angelus novus, trad.it. a cura di S. Solmi, einaudi, Torino 1962, pag. 140).

25 ted. Verwandlung. Cicero traduce “trasformazione”, Garelli “metamorfo-si”.

26 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pagg. 298-9. 27 Ivi, pag. 299.28 Ibidem.29 Ibidem.30 Ibidem.31 Ibidem.32 Si tratta invece, com’è noto, di uno dei nodi più ardui della comprensione

dell’hegelismo, quello del rapporto tra storia e filosofia. Per una recente ricognizione del problema, si veda di Marcello Mustè, Tra filosofia e sto-riografia. Hegel, Croce ed altri studi, arakne editrice, roma 2011. Più in generale, appare convincente l’interpretazione di fondo che Mustè pro-pone della Fenomenologia: «La Fenomenologia dello spirito, come si sa, non è affatto una “filosofia della storia” (pur conservando con gli eventi storici un rapporto non marginale), ma indica il percorso che la coscien-za compie per oltrepassare il proprio limite (la differenza di pensiero ed essere) e per conseguire il livello della “scienza”, cioè il sapere assoluto (l’identità dialettica di pensiero ed essere). Ciò che è in gioco nel percorso fenomenologico, dunque, è essenzialmente l’idea di verità che caratterizza la coscienza, intesa come distinta dalla certezza, e dunque rivolta al fine, logicamente impossibile, di una adaequatio del pensiero alla cosa, dell’in-

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tellectus alla res. Osservata nella sua dinamica più interna, la fenomenolo-gia si presenta soprattutto come una critica dell’idea di verità che (in figure e forme molteplici) caratterizza il sapere empirico: quell’idea di verità che presuppone la differenza e dunque ricerca la corrispondenza (l’identità) tra i diversi, del pensiero all’essere. Il percorso conduce alla “scienza”, cioè alla considerazione diretta della cosa, della determinazione, conduce cioè alla filosofia, dove la differenza non è più presupposta e dunque il problema stesso dell’adeguazione è dissolto».

33 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, traduzione italiana di e. codignola e G. Satta, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. IV, pagg. 411-12.

34 F. Valentini, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pag. 249.

35 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 299.36 Ivi, pagg. 299-300.37 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., volume terzo, 1, pag.

93.38 Ibidem.39 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 300.40 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 505.41 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 300.42 Ibidem.43 Ivi, pag. 301.44 Ibidem.45 cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., I, pag. 13.46 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 301. consigliamo

in questo punto di emendare la traduzione di De Negri, accogliendo quella di Garelli (op. cit., pag. 529).

47 Ibidem.48 Lo stesso Jacques Derrida – che pure ha intrattenuto con Hegel un rap-

porto complesso (difficile e interminabile, lo definiva) – lo ha indicato come colui che più profondamente ha tentato di pensare la negatività e la differenza nella costituzione stessa del senso filosofico: «Hegel è anche il pensatore della differenza irriducibile [...]: ultimo filosofo del libro e primo pensatore della scrittura» (J. Derrida, Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1998, p. 48).

49 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pagg. 300-301.

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9. lo Spirito e l’alka-Seltzer

9.1 Lo Spirito inattivo

«Né l’Io ha da irrigidirsi nella forma dell’autocoscienza in contrasto alla forma della sostanzialità e dell’oggettività, quasi che abbia paura della sua alienazione; – ché anzi la forza dello spirito consiste nel restare eguale a sé stesso nella sua alienazione e, come è in sé e per sé essente, nel porre l’esser-per-sé nonché l’essere-in-sé altrettanto come momento»1.

Il timore di perdersi nel passaggio nel mondo, di smarrirsi nel com-mercio con gli altri, non deve indurre lo spirito a sopravvalutare il pro-prio momento autocoscienziale. Bisogna evitare insomma l’errore dell’Io fichtiano che tende ad imporre se stesso su ogni realtà, considerando quest’ultima residuale, palestra della propria affermazione. e che in que-sto atteggiamento di mancato rispetto, di poca considerazione del mondo, viene ad assomigliare all’anima bella che aveva paura di alienarsi, nel timore di perdere la propria purezza a contatto col mondo. La forza dello spirito, il coraggio di una cultura consapevole, consiste invece proprio nella capacità di uscire da sé, di rinunciare ad ogni pretesa di purezza, conscia che nell’incontro col mondo troverà la sua più propria dimensio-ne: perché è appunto nell’alterità che lo spirito si conquista ed acquista solidità, riconoscendosi sia nell’oggettività, sia nel suo esser coscienza che inizialmente si oppone al mondo.

«– né l’Io è un terzo che respinge le differenze nell’abisso dell’assoluto per proclamare in questo la loro eguaglianza; anzi il sapere consiste piuttosto in questa apparente inerzia la quale soltanto contempla come il distinto si muove in lui stesso e ritorna nella sua unità»2.

L’attitudine spirituale non può consistere neppure in quell’operazione di sussunzione operata da un terzo che riconduca il particolare all’uni-versale: è la consueta critica alla dottrina dell’identità schellinghiana (l’abisso dell’assoluto), appena svolta anche nel paragrafo precedente. Poi Hegel aggiunge un passaggio particolarmente interessante. Fin qui ha sottolineato quanto sia decisiva l’azione, per lo Spirito, come sia rilevan-

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te il rapporto di scambio organico con la natura affinché questa si faccia anche storia. Ora afferma che il sapere consiste molto di più (vielmehr) in un’apparente inattività (ted. Untätigkeit) nella quale lo spirito torna nella propria unità e nella quale contempla (betrachtet) l’articolazione dei distinti in se stesso spirito. come se dunque prevalesse nello spirito un’attitudine riflessiva, grazie alla quale torna ad essere sapere che sa e contempla questo suo movimento “a delfino”, fuori e dentro il reale ef-fettuale. L’apparenza sembrerebbe dovuta al fatto che lo spirito in questa sua funzione si contempla: ma contempla il proprio movimento. Questa fase inattiva del sapere è possibile insomma grazie alla sua fase attiva, la contemplazione è l’altra faccia di una scienza che non ha timore né di perdersi nel non-sapere, né di venirne contaminata. Sappiamo di sapere cos’è la libertà: e lo sappiamo grazie alle nostre esperienze concrete di libertà, vissute e poi rammemorate attraverso il lavorìo della cultura che così ne ha plasmato il concetto.

9.2 Uno Spirito costipato?

Le esperienze ripercorse dallo spirito assoluto lungo il V capitolo del-la Fenomenologia già lo avevano confermato nel suo sapere: la ragione aveva ormai la certezza di essere ogni realtà. La cultura ad Hegel con-temporanea si muove con assoluta padronanza (perfino troppa, diciamo oggi, con una più acuita coscienza ambientale e del bios), in un mondo che riconosce ormai come proprio, fino a provare a se stessa che quella certezza è anche vera. E di questo tratta infatti il sesto capitolo. Il filosofo che viene dopo Kant e Fichte ed è contemporaneo a Napoleone può dire dunque, nella Fenomenologia dello spirito e poi nella Logica, di aver acquisito coscienza della propria assoluta libertà e responsabilità. Le for-mule, abusate dalla scuola e spesso equivocate, dell’identità di pensiero ed essere, di soggetto ed oggetto, di razionale e reale, non vogliono altro che esprimere un dato evidente alla nuova cultura moderna descritta dal saggio: che tutti gli oggetti sono oggetti culturali, che esse est cogitari3.

com’è noto, nell’Enciclopedia Hegel rappresenta questo concetto di-cendo che il pensare è nei confronti del dato, ciò che il mangiare è nei confronti del cibo. In altri termini, il pensare ed il mangiare non sarebbe-ro senza quei presupposti, che poi «con ingratitudine» essi distruggono,

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pensandoli e consumandoli4. Da ciò, la convinzione di scuola nella tradi-zione hegeliana di un concerto onnivoro che si ciba della realtà, di ogni realtà, assimilandosela e rendendola appunto spirituale, cioè culturale, in virtù del proprio metabolismo schiacciasassi, in grado di digerire ogni esperienza, anche le più traumatiche e drammatiche, per così dire senza residui. Non di rado infatti si è rappresentato il sistema hegeliano come l’espressione più alta ed enfatizzata di un’economia orale: l’idea hege-liana come un mangiatore famelico che inghiottisce ogni oggetto in cui s’imbatte. estremizzando la metafora, secondo la lettura critica standard il soggetto-sostanza assoluto di Hegel dovrebbe essere al fondo costipato, come chi mantiene in sé tutto il contenuto introiettato.

Hegel stesso peraltro ha favorito l’insorgere di questa tradizione, ri-correndo spesso a metafore digestivo-assimilitatorie per rappresentare il lungo e faticoso cammino dello spirito5.

Probabilmente, è possibile trattare l’argomento valorizzando però an-che l’esito di questo processo assimilatorio dello spirito. esito, qui, in senso pratico e diretto, chiedendosi se questo ingurgitare e metabolizzare la realtà, senza apparenti residui, non causerebbe una qualche “costipa-zione” dell’idea, se lo spirito non fosse in grado anche di liberarsi6. cosa ne è, si chiede Žižek, del movimento contrario, dell’evacuazione insom-ma? Si danno escrementi in una logica hegeliana? «Forse che il soggetto di ciò che Hegel chiama il Sapere assoluto non è anche un soggetto com-pletamente svuotato, un soggetto ridotto al ruolo del puro osservatore dell’automovimento del contenuto stesso? »

Se non vi fosse “alla fine”, nella fase in cui conosciamo assolutamente, un atto di abrogazione del contenuto, per così dire, il nostro sapere rischierebbe appunto una costipazione: una (cattiva) infinita grande bouffe della realtà, una incessante (cattiva, in quanto coatta, sempre reiterata) sublimazione del reale. Il Sapere assoluto si consente invece un Aufheben dell’Aufhebung, il superamento dell’intero processo di assimilazione del reale oggettivo nella sostanza-soggetto: «L’abrogazione speculativa [di ogni “contenuto”] è la sublimazione assoluta, se con “assoluto” intendiamo un sollievo o sublima-zione che libera da un certo tipo di attaccamento»7. Da ogni attaccamento o condizionamento, direi. È banale osservare che noi stessi siamo quel condi-zionamento, dopo la critica hegeliana a Kant.

Si direbbe quindi che l’assolutezza del sapere comporta sia la totale assimilazione e sublimazione del reale, sia il suo totale congedo; lo spi-

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rito assume ogni realtà in sé, la sublima rendendola culturale, e poi la espelle, se ne congeda, purificandosi in quanto sapere che ormai non ha in sé nulla di oggettivo, ma si sa oggettivo almeno quanto si sa soggetti-vo. Il momento supremo della libertà del soggetto è nel rendere libero il suo proprio oggetto, come Hegel nota anche nell’ultimo paragrafo della prima parte dell’Enciclopedia: «L’assoluta libertà dell’idea consiste però nel fatto che essa non passa soltanto nella vita, né fa soltanto apparire in sé la vita in quanto conoscere finito, ma nel decidersi, nell’assoluta verità di se stessa, a licenziare da sé [aus sich zu entlassen] liberamente il mo-mento della sua particolarità o del primo determinare ed esser altro, l’idea immediata come suo riflesso, sé come natura» (§ 244). L’assoluta libertà significa dunque qui la potestà di lasciar essere il mondo, di absolvere la realtà, dopo averla assimilata e consumata, ri-lasciandola come effettivo altro da sé [Anderssein]. L’Enciclopedia continua infatti con la Filosofia della natura.

Questo passaggio che restituisce il mondo alla natura è iscritto nella lo-gica del sapere stesso: «che è poi un modo per leggere l’hegeliano “terzo sillogismo della filosofia”, Spirito-Logica-Natura: il punto di partenza del momento speculativo reso da tale sillogismo è la sostanza spirituale nella quale i soggetti sono immersi; poi, attraverso uno strenuo lavoro concet-tuale, la salute di questa sostanza viene ridotta alla sua soggiacente strut-tura logica-nozionale elementare; una volta che questo compito è stato assolto, l’idea logica pienamente sviluppata può rilasciare la natura fuori da sé»8. Il movimento finale della dialettica sarebbe quindi, per così dire, escrementizio più che appropriativo: «l’esternalizzazione che conclude il ciclo del processo dialettico non è l’alienazione, ma il più alto punto di disalienazione: ci si riconcilia davvero con un qualche contenuto oggetti-vo non quando ancora ci si deve sforzare di padroneggiarlo e controllarlo, ma quando ci si può permettere il supremo gesto sovrano di rilasciare da se stessi quel contenuto, liberandolo»9.

9.3 Fenomenologia e logica

Le ultime pagine del Sapere assoluto sono dedicate ad un’esposizione del programma che Hegel intravede una volta portata a termine la Feno-menologia. La quale è stata scritta quando già lo Spirito si era reso e si

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sapeva ormai assoluto: il Filosofo avrebbe dunque potuto già porre mano alla Logica, esplicitare i nessi più profondi, le invarianze, i nervi ed i tendini della realtà. Ha preferito invece riprendere le fila del discorso e attraverso l’itinerario fenomenologico ricordare il senso delle proprie più fondamentali esperienze, per possederlo meglio.

«Nel sapere lo spirito ha dunque chiuso il movimento del suo figurarsi in quanto questo è affètto dalla tolta differenza della coscienza. Lo spirito ha attinto il puro elemento del suo esserci, il concetto »10.

L’esordio gode di un vantaggio: infatti, il punto di vista della coscienza – duale, riflessivo – è ormai alle spalle, è superato. La stessa Fenomenolo-gia, quindi, è una fase acquisita del sistema: lo spirito ha già conquistato la capacità di pensare per concetti, cioè di fare scienza. Il concetto, del tutto libero, si comprende, ripensando a quali sono i momenti puri (logici) che lo hanno costituito in quanto Sapere assoluto.

«Il contenuto, secondo la libertà del suo essere, è il Sé che si aliena o l’uni-tà immediata del saper se stesso. Il puro movimento di questa alienazione, considerato nel contenuto, costituisce la necessità del contenuto stesso»11.

Questi momenti, le diverse categorie logiche lette nella realtà effettua-le e che adesso il Sapere è in grado di padroneggiare e dialettizzare in modo che diano compiutamente conto della realtà, nel loro movimento esprimono una propria necessità; vale a dire, si susseguono secondo una trasparente logica intrinseca che il filosofo è in grado di cogliere.

«Nella relazione, non già in sé, il contenuto diverso è come contenuto de-terminato, e la sua inquietudine consiste nel toglier se stesso, ossia è la negatività; è dunque la necessità o diversità, è libero essere, ed è altret-tanto il Sé; ed in questa forma permeata del Sé, nella quale l’esserci è im-mediatamente pensiero, il contenuto è concetto. Dacché dunque lo spirito ha conseguito il concetto, dispiega l’esserci e il movimento in questo etere della sua vita, ed è scienza»12.

ecco un’altra forma per esprimere il medesimo contenuto, esponendo le caratteristiche della logica, costituita da contenuto diverso e determina-

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to, vale a dire appunto le categorie logiche tra sé connesse: perciò Hegel spiega che questo contenuto è nella relazione, mentre ha spiegato poco prima che questa loro concatenazione è anche necessitata da una logi-ca interna per cui ogni categoria, una volta applicata alla realtà, svela la propria limitatezza e chiama in gioco la successiva. Il che vien detto affermando che ogni contenuto “si toglie” (aufhebt), in quanto contenuto “libero”. Libertà che gli viene dal fatto che si tratta di un risultato storico: è il frutto, determinato e universale, di una visione del mondo, di uno scorcio dal quale si è scelto di apprezzare la realtà. La Logica, insomma, esprime il punto di vista di Hegel, necessitato certo dal cammino culturale che lo ha condotto fin lì, ma libero, poiché rispecchia comunque solo il suo punto di vista particolare. Il contenuto della logica è concetto, nel senso proprio hegeliano, vale a dire è un contenuto determinato, ma è pensato: vive in un insieme logico pensato, appunto la Logica.

Ora, quindi, nel Sapere assoluto lo spirito vive il proprio movimento nella rarefazione disincarnata della logica ed è scienza, non più filosofia: non è più sapere che aspira a conquistarsi, ma è sapere saputo, e quindi scienza. tuttavia, quei concetti puri sono frutto di un’opera di distillazio-ne e per questa via occorre intenderli sempre anche come estremamen-te concreti, proprio perché ricavati dalle esperienze più fondamentali, di vita e filosofiche.

Il concetto benjaminiano di attualità può in qualche modo illustrare questo presente-passato custodito nel Sapere assoluto e condensatosi nel-la Logica: «la Jetzt-Zeit, l’attualità, è, a sua volta, la percezione istan-tanea di questo rivelarsi simultaneo del passato, del suo concentrarsi in una “grandiosa abbreviazione” che epitoma, nei momenti più alti, l’intera storia dell’umanità. Sono proprio quei momenti in cui, con involontaria potenza allegorica, il tempo si ferma, i rivoltosi sparano sugli orologi dei campanili»13.

«In essa i momenti del movimento dello spirito non si presentano più come determinate figure della coscienza, ma, poiché la differenza della coscien-za è ritornata nel Sé, come concetti determinati e come i loro movimenti organici in se stessi fondati»14.

Le diverse figure protagoniste dell’avventura dello spirito, le sue forme concrete e plastiche, non valgono più nella propria determinatezza sin-

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gola (il Signore, il Servo, l’Anima bella, eccetera), com’era nella Feno-menologia, dato che la coscienza è ormai del tutto consapevole di sé e di non aver nulla fuori di sé che la limiti. Le figure fenomenologiche sono ormai assorbite nei concetti determinati, dialettizzati dal Sapere assoluto. L’io personale del filosofo saggio si riferisce ormai all’oggetto attraverso concetti, e in via teorica non incide più sull’effettualità: il “movimen-to organico” del concetto all’interno di se stesso (poiché dentro sé ha il mondo effettuale) è in questo senso eterno: «il rapporto tra il Soggetto e l’Oggetto non modifica più né il Soggetto né l’Oggetto. Non si esce più dall’Identità, e il “movimento” o sviluppo della Scienza non crea più niente di nuovo. Questo “movimento” non ha dunque avvenire. Pertanto non è Tempo, e quindi neanche Storia. Questo “movimento” è, se si vuo-le, eterno»15.

«Se nella fenomenologia dello spirito ogni movimento è la differenza del sapere e della verità e il movimento in cui lo spirito si supera, la scienza per contro non contiene questa differenza né il superamento di essa; anzi, siccome il movimento ha la forma del concetto, il momento stesso unifica in immediata unità la forma oggettiva della verità e quella del Sé cui è intrinseco l’atto del sapere»16.

La Scienza, intesa qui come Logica, non è scandita dalla differenza tra sapere e verità e dalle tappe del superamento di questa differenza, caratte-ristica propria invece della fenomenologia17. Data la sua forma concettua-le, nel suo movimento dialettico – non più temporale, astorico, potremmo dire con Kojève: post-umano – si salda immediatamente il momento della certezza soggettiva e quello oggettivo della verità. L’attitudine coscien-ziale è stata superata: non si tratta più di far esperienza, correggendo e superando le forme imperfette del sapere (imperfette perché insoddisfa-centi) sulla base delle esperienze. Secondo Kojève, solo ora si può dire, citando l’Etica di Spinoza (II, pr.VII), “ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum”. Tuttavia, anche a livello concettuale si dà movimento: si tratta del fluire del discorso logico il quale, pur svolgendo-si, permane però nell’identità con se stesso.

«Il momento non si mostra come questo movimento che va su e giù dalla coscienza alla rappresentazione e viceversa; anzi la pura figura del mo-

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mento, liberata dall’apparenza di esso medesimo nella coscienza, cioè il concetto puro e la sua prosecuzione dipendono solo dalla sua determina-tezza pura»18.

I singoli concetti puri sono ormai sganciabili dalla loro figura fenome-nologica, e smettono i panni che vestivano per la coscienza che si volgeva alla rappresentazione per poi riprendersi nel piano concettuale: s’inter-rompe, in altre parole, lo scambio – tipicamente coscienziale – tra sogget-to e oggetto. In questa fase non c’è più necessità di rappresentarseli nel loro movimento nel tempo storico: siamo in grado di ragionare con le loro pure determinatezze, senza involucri storico-rappresentativi.

«Viceversa, a ogni momento astratto della scienza corrisponde una figura dello spirito apparente in genere. come lo spirito nell’elemento dell’esserci non è più ricco di essa, così anche, nel suo contenuto, non è più povero»19.

Si dà quindi una corrispondenza biunivoca tra momenti o categorie del-la Logica e figure della Fenomenologia dello spirito. Il che è possibile perché tra storicità ed essere vi è completa corrispondenza: come lo spiri-to calato nelle figure fenomenologico-storiche non esprime un contenuto più ricco rispetto alle categorie logiche, così non è neppur più povero di quelle.

«Il conoscere i puri concetti della scienza in questa forma di figure della coscienza, costituisce il lato della loro realtà, secondo il quale l’essen-za loro, il concetto che in quella forma è posto nella propria mediazione semplice come pensare, scompone gli uni dagli altri i momenti di questa mediazione e si rappresenta secondo l’opposizione interna»20.

Nella Fenomenologia, i puri concetti della logica sono riconosciuti nel-la forma di figure concrete della coscienza: il movimento dei concetti pro-prio della logica appare rappresentato, a livello fenomenologico, come movimento temporale della storia. Il sistema hegeliano congloba le due facce della stessa medaglia – la realtà, la sostanza-soggetto – costituite dalla logica e dalla fenomenologia della storia.

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9.4 Abrogazione e sublimazione

«La scienza contiene in lei stessa questa necessità di alienarsi della forma del concetto puro, e contiene il passaggio del concetto nella coscienza. Ché lo spirito che sa se stesso, proprio perché attinge il suo concetto, è l’immediata eguaglianza con se stesso la quale nella propria differenza è la certezza dell’immediato o la coscienza sensibile, – il cominciamento da cui noi siamo partiti; questo licenziare sé dalla forma del suo Sé, è la libertà suprema e la sicurezza del suo saper di sé»21.

Il Sapere assoluto o scienza ha in sé la necessità della propria aliena-zione: non può non passare attraverso la storia, attraverso le forme della coscienza esteriore. La cultura pienamente sviluppata e consapevole, pro-prio per il fatto che è divenuta tale, tiene in sé anche le prime tappe del suo incedere: nessun sapere può mai prescindere dalla sensibilità. Come commenta Kojève, «la sua [del Saggio] stessa Scienza non ha senso e diventa un vuoto sproloquio non appena la si stacchi dalla Sensazione e dal Desiderio, con tutto quel che ne segue»22.

Il Sapere assoluto che è ormai scienza decide quindi di “licenziare sé dalla forma del suo Sé”, toccando così la più alta forma della propria libertà. Ora, la formula (dieses Entlassen seiner aus der Form seines Selbsts) è identica a quella che riprenderà nell’Enciclopedia e che già ho commentato a proposito della capacità dello spirito di lasciar essere il mondo e di iniziare nuovamente, proprio dal punto da cui la sua esperien-za si era originata, vale a dire dal sapere basato sulle prime sensazioni e percezioni. Libertà di disporre di sé abrogando il proprio contenuto più alto, riconoscendosi anche nel momento più basso: abrogazione come su-blimazione della forma puramente concettuale, proprio perché giunto al termine dell’itinerario fenomenologico e logico, il soggetto non ha più alcun timore della realtà e non ha più alcun bisogno di ricorrere a pratiche ascetiche che lo sollevino dal mondo23.

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Note al capitolo 9

1 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 301.2 Ibidem.3 riconosco nuovamente il mio debito nei confronti di Francesco Valentini.

Qui, in particolare, verso la sua ultima opera, postuma: la ricca Introdu-zione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel (La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli 2011), dedicata in primis ad una ricognizione dei motivi del V capitolo sulla ragione.

4 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 12 annotazione.

5 remo Bodei è stato forse tra i primi a valorizzare questo aspetto del lin-guaggio hegeliano nel suo Sistema ed epoca in Hegel, Il Mulino, Bologna 1975.

6 S. Žižek, Hegel and Shitting. The Idea’s Constipation. In: Slavoj Zizek, clayton crockett, creston Davis, Hegel and the Infinite: Religion, Poli-tics, and Dialectic, columbia University Press, New York 2011, pag. 222.

7 c. Malabou, L’avenir de Hegel, Plasticité, Temporalité, Dialectique, Vrin, Paris 1996; trad. inglese, The future of Hegel: plasticity, temporality, and dialectic, routledge, abingdon 2005, pag. 156.

8 S. Žižek, Hegel and Shitting, cit., pag. 25.9 Ibidem.10 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 302.11 Ibidem.12 Ibidem.13 r. Bodei, Le malattie della tradizione. Dimensioni e paradossi del tem-

po in Walter Benjamin, in: Walter Benjamin, Tempo, storia, linguaggio, a cura di F. Desideri e L. rampello, editori riuniti, roma 1983, pag. 216.

14 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pagg. 302-3.15 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pagg. 520-21.16 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 303.17 «La Storia è la storia dei Discorsi erronei dell’Uomo che a poco a poco

diventano verità», A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 521.

18 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 303.19 Ibidem.20 Ibidem.

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21 Ivi, pagg. 303-4.22 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 528.23 «L’essere cui Hegel pensa è Logos perché beve e mangia, nasce, vive e

muore; e muore davvero, senza risuscitare. La sua realtà spirituale è la rivelazione (discorsiva) della sua realtà sensibile, e non può esserne distac-cata», ivi, pag. 530.

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10. Sapere e politica

10.1 Natura e storia

Il Concetto è il Tempo. Scandalosamente, se si pensa alla storia della filo-sofia classica da Parmenide in poi, per la quale il Tempo a lungo ha appar-tenuto ad un altro ordine rispetto al mondo dei concetti o delle idee. Hegel salda invece il concetto e il tempo, tendendo così un ponte, paradossale, tra la presunta eternità del concetto e la temporalità, la storicità del tempo. Ciò è possibile se si accoglie il concetto come il risultato per eccellenza dell’e-sperienza umana, e rendendo così lo stesso Sapere assoluto un risultato del divenire della cultura dell’uomo. Già nella Prefazione alla Fenomenologia si diceva che «per quanto riguarda il tempo, esso è il concetto stesso che esiste empiricamente» (der daseiende Begriff selbst, il concetto che è es-serci, che si dà, o che è là, come abbiamo letto altrove in questo capitolo).

Il concetto è tempo, nel senso che il concetto non è altro che il processo storico della trasformazione dell’universo degli oggetti e degli accadi-menti nell’universo del discorso. Come scrive Mallarmé, “tutto, al mon-do, esiste per metter capo a un libro”. Kojève lo diceva così: «la storia della filosofia è la storia della penetrazione o dell’introduzione progres-sive della nozione di Tempo in quella di Concetto»1. Da un universo di cose, di oggetti, da una res extensa immobile ed eterna, o viceversa domi-nato da una soggettività velleitaria e solipsista, all’universo del discorso, del linguaggio, quindi della Storia.

«tuttavia questa alienazione è ancora imperfetta; essa esprime il rappor-to della certezza di se stesso con l’oggetto, il quale, proprio perché è nel rapporto, non ha conseguito la sua piena libertà. Il sapere non conosce soltanto sé, ma anche il negativo di se stesso o il suo limite. Sapere il suo limite vuol dire sapersi sacrificare»2.

Questo Sapere assoluto, o concetto, che si dà nell’effettualità, compie un’alienazione perfetta. Affinché ciò sia possibile, occorre che il Sapere – proprio perché vuole e deve essere libero da ogni vincolo esterno – non conosca soltanto sé, ma anche «il negativo di se stesso o il suo limite. Sapere il suo limite vuol dire sapersi sacrificare».

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La nostra cultura occidentale non può lasciare fuori di sé la morte. Deve inglobare il limite al proprio interno: il momento del sacrificio non può non pulsare al cuore dell’Occidente moderno. Se insomma la cultura s’il-lude di fare a meno della caducità del tempo, della natura, della morte, il suo sapere non sarà mai assoluto, ma sempre circoscritto da quello spazio bianco e immenso che costituirebbe il suo limite più proprio, il suo Non, la sua negazione. La sua piena libertà, viceversa, è possibile soltanto se ri-conosce il limite come costitutivo della propria essenza. Il Sapere assolu-to, cioè la nostra consapevolezza cultural-universale di noi stessi, del no-stro tempo, del mondo; questa consapevolezza deve custodire al proprio interno il fardello del limite, la ferita che la morte da sempre ci ha inflitto.

Ma è possibile anche forzare ulteriormente l’interpretazione di questo concetto che deve divenire anche il negativo di se stesso. È quanto fa Kojève, notando che la necessità di divenire il negativo di se stesso è un portato del fatto che l’uomo, essendo tempo, non è eterno, ma mortale. La sua mortalità fa sì che egli sia destinato a sopprimersi in quanto forza agente, cessando – nella post-Storia – di opporsi al mondo, di esercitare la sua azione negatrice nei confronti del mondo.

«Questo sacrificio è l’alienazione, in cui lo spirito presenta il suo farsi spirito nella forma del libero, accidentale accadere, intuendo fuori di lui il suo puro Sé come il tempo, e, similmente, il suo essere come spazio. Quest’ultimo farsi dello spirito, la natura, è il suo vitale e immediato farsi; essa, lo spirito alienato, nel proprio esserci non è se non questa eterna alie-nazione del proprio sussistere, e il movimento che istituisce il soggetto»3.

Lo Spirito si aliena nell’accadere, nell’accidentalità; e questa sua alie-nazione assume la forma del tempo, forma nella quale intuisce il proprio puro Sé, e la forma dello spazio. Questo modo del farsi dello spirito nello spazio ha cioè la forma determinata della natura. Quindi: da un lato lo Spirito s’intuisce immediatamente nel tempo storico e dall’altro si fa, altrettanto immediatamente, nella natura. Di fatto, queste righe costitui-scono anche una presentazione del futuro del sistema, che si svilupperà proprio lungo le direttrici della filosofia dello spirito e della natura.

Hegel qui critica Fichte usandone il linguaggio. Sembrerebbe proprio idealismo puro, ad una lettura disattenta. Questo spirito che si aliena nel mondo come natura e come storia potrebbe esser confuso col Soggetto

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fichtiano che compie l’atto con cui pone il mondo, in questo caso lo Spa-zio. Ma, in effetti, Hegel non parla di un Soggetto che pone l’oggettività e con ciò il limite, bensì di Spirito. E lo Spirito è sintesi dell’esserci oggetti-vo e della sua rivelazione (soggettiva). Non è il soggetto – nota con piena ragione Kojève – a porsi come Spazio e Tempo o, viene tra breve, come Natura e Storia, ma è la stessa cultura che si distingue in quanto natura e Storia, in quanto dato ed interpretazione e così via.

Seconda distanza da Fichte, sottolineata da Kojève: lo Spirito non pone l’oggetto, lo spazio, alla Fichte, ma – dice Hegel – lo conosce (kennt). Quindi, il Sapere o Spirito hegeliano «non può comprendersi, cioè spie-garsi o dedursi, se non presupponendo l’esistenza di un non-sapere, ossia di un oggetto reale, esterno al e indipendente dal Sapere che lo rivela. e ciò è esattamente il contrario di quanto sostiene Fichte»4. così facendo, però, Kojève distingue certo Hegel dal filosofo dell’Io=Io, ma non da Kant. anzi, questa lettura dell’hegelismo – e per di più in un suo vertice – reintrodurrebbe la riflessione nella filosofia speculativa: quel che Hegel ha combattuto per tutta la vita.

Piuttosto, il Sapere assoluto si forma attraverso la mediazione della sto-ria e dei saperi precedenti. anzi, è costituito proprio dalla storia, dalla concettualizzazione delle esperienze accumulate dai saperi che lo hanno preceduto e che oggi lo costituiscono, sono le sue ossa ed i suoi musco-li. Il concetto, il Sapere è il soggetto insieme individuale ed universale (la cultura del tempo di Hegel, da Hegel stesso pienamente compresa e ri-scritta); l’autocoscienza, a questo livello finale del Sapere, è insieme singola ed universale. Per giungere a questo grado di consapevolezza è occorsa una lunga storia, la storia dell’alienazione dello Spirito, appunto.

tuttavia, questo capoverso è stato interpretato da alcuni come la riprova del famigerato panlogismo hegeliano. Ma come, si è detto, non vi scan-dalizzate per il modo in cui Hegel sceglie che sia lo Spirito, alienandosi, a porre il tempo e la natura? Ma come potrebbe il pensiero, che è puro pensiero, generare la natura e il tempo? Hyppolite risponde così a questa obiezione: «a noi sembra che in questa forma il problema sia mal posto e che tale critica non tocchi il sistema hegeliano. Logos e natura si presup-pongono a vicenda: l’uno non si pone senza l’altra. Immaginare una qua-lunque causalità del Logos, qual che sia, che produca la natura, è assurdo. La stessa parola ‘creazione’, dice Hegel, è una parola del rappresentare, e quando il filosofo stesso parla di un regno del puro pensiero anteriore

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alla creazione della natura e di uno spirito finito, egli si conforma a questo linguaggio rappresentativo […]. Similmente non si ha diritto di dire che Hegel ‘deduca’ la natura dal Logos»5.

Dove risiede il fraintendimento di fondo? Nel fatto che in Hegel il Lo-gos non è senza la natura né la natura senza il logos, così come l’essere non è senza il nulla, né il nulla senza l’essere di cui è il nulla. Lo spirito appare anzi come un lato nelle forme della Natura. Dice bene Hyppoli-te: «l’uno e l’altra sono l’Intero, poiché entrambi sono se stessi e più di se stessi, e appunto in quanto tali sono lo spirito». Logos e natura sono se stessi e sono anche più di se stessi: il pensiero si pensa come tempo e natura, oltre che come pensiero. allo stesso modo, l’oggettività della natura è anche nel soggetto che la pensa, che a sua volta non è soggetto puro, dandosi nella natura e nel tempo, portando iscritte su di sé, in altri termini, le cicatrici del limite.

10.2 Fine della storia

L’altro lato, rispetto alla natura o spazio, in cui lo Spirito si dà è la Storia. con questa affermazione si apre l’ultimo capoverso della Feno-menologia dello spirito:

«Ma l’altro lato del farsi dello spirito, la storia, è il farsi che si attua nel sape-re e media se stesso, – è lo spirito alienato nel tempo; ma questa alienazione è altrettanto l’alienazione di se stessa; il negativo è il negativo di se stesso»6.

come nello spazio, alienandosi, lo Spirito vivente o assoluto, per dirla con Hegel, è natura, così quando ci alieniamo nel tempo siamo storia. Il farsi del sapere nel tempo è la Storia. così come la natura si oppone, in se stessa, allo spirito, resiste cioè alla cultura che la vuole penetrare, capire, umanizzare; così anche il tempo, dice Hegel, nega continuamente – tra-scorrendo – il farsi dello Spirito, ne nega le acquisizioni determinate, le figure che la cultura umana via via acquisisce.

Schematizzando, l’essere è spazio, estensione direbbe cartesio. Il soggetto invece è tempo. e in quanto tempo è non-spazio, non-essere. Quindi Nulla. Il soggetto umano è Nulla, è cioè azione negatrice del dato oggettivo, naturale, statico.

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Ma quando il soggetto umano transiterà da questo mondo, scomparen-do (in quanto specificatamente umano), che ne sarà dello spazio, della natura? In questi passi, secondo Kojève, Hegel lascerebbe intendere che si darebbe (o si darà) anche una natura senza Uomo: prima dell’uomo e dopo l’uomo. Ma che senso avrebbe questa natura spazio senza il suo ne-cessario complemento soggettivo, cioè senza l’azione temporalizzatrice del soggetto umano?

Poche righe prima Hegel ha definito la Natura die ewige Entäusse-rung dello Spirito, la sua eterna alienazione-esteriorizzazione. Ma al-lora, si chiede Kojève, questo mondo è eterno nel senso che è fuori del tempo? e si risponde positivamente. Non solo: il movimento della natura eterna – scriveva in effetti Hegel chiudendo il capoverso prece-dente – istituisce il soggetto; cioè, il movimento naturale, l’evoluzione, produce quell’animale che diventerà l’Uomo. Il quale, una volta costi-tuito nella sua specificità negatoria, si opporrà alla natura immediata, originando un nuovo divenire, quello che – viene detto due righe dopo infatti – si attua nel sapere e media se stesso: cioè, lo spirito alienato nel tempo, la storia.

La conclusione che ne trae Kojève è drastica: «La Natura è indipen-dente dall’Uomo. essendo eterna, essa sussiste prima e dopo di lui. In essa l’uomo nasce, come abbiamo appena visto. e come vedremo subito, l’Uomo che è tempo altresì scompare nella Natura spaziale. Infatti, que-sta sopravvive al Tempo»7. Siamo al cuore dell’interpretazione kojèviana di Hegel. Un Hegel che si… suicida, e torna a Kant. che riproporrebbe il Due. che ridistinguerebbe soggetto e oggetto, spirito e natura.

Per conto mio, credo che Kojève tenda a sovrapporre qui la sua filoso-fia a quella di Hegel: è Kojève a contrapporre l’uomo attivo, pienamente umano, all’uomo biologico o animale che al primo farebbe da necessario supporto, con ciò tornando a Kant. Per Hegel non credo sia così: la Storia è la biologia, sono due modi di leggere il Libro, il primo dal lato dell’a-zione del soggetto sulla natura, trasformata così in mondo umanizzato, il secondo dal lato di quella natura che solo esiste nel rapporto con il soggetto. Insomma, natura e storia per Hegel sono intrinsecamente uniti, pur non essendo confondibili. O meglio, costituendo la stessa realtà, ma dialettica, articolabile concettualmente.

Proprio con riferimento all’ultimo passo citato Kojève appone la famosa nota e l’ancor più famosa aggiunta alla seconda edizione: «La scomparsa

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dell’Uomo alla fine della Storia non è dunque una catastrofe cosmica: il Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. e non è nemme-no una catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale che è in accordo con la Natura o con l’Essere-dato. Ciò che scompare è l’Uomo propriamente detto, cioè l’azione negatrice del dato e l’errore, o in ge-nerale il Soggetto opposto all’Oggetto. Infatti, la fine del Tempo umano o della Storia, cioè l’annientamento definitivo dell’Uomo propriamente detto o dell’Individuo libero e storico, significa molto semplicemente la cessazione dell’azione nel senso forte del termine. Il che praticamente vuol dire: la scomparsa delle guerre e delle rivoluzioni cruente. e anche la scomparsa della Filosofia: infatti, l’Uomo, non cambiando più se stesso in maniera essenziale, non ha più ragione di cambiare i principi (veri) che stanno alla base della sua conoscenza del Mondo e di sé.

Tutto il resto può mantenersi indefinitamente: l’arte, l’amore, il gioco, ecc.; insomma, tutto ciò che rende l’Uomo felice. ricordiamo che questo tema hegeliano, tra molti altri, è stato ripreso da Marx»8.

Dunque: alla fine della storia l’uomo ridiventerebbe animale, deponen-do l’azione istitutrice di libertà, ciò che propriamente lo caratterizza in quanto uomo. Questo tema è stato ripreso anche in Italia, specie da Gior-gio agamben9 e da roberto esposito, che fa notare: «che il divenire ani-male dell’uomo sia situato alla fine della storia lascia intendere che esso non è un puro ritorno a una condizione primitiva, ma il raggiungimento di uno stato mai prima sperimentato: non una semplice rianimalizzazione dell’uomo ormai umanizzato, ma un modo di essere uomo che non si de-finisca più nella alterità alla sua origine animale»10.

Tornando alla nota, Kojève, qualche anno dopo, si rende conto di aver scritto delle inesattezze, sia riguardo a Marx, sia riguardo al tema della felicità in Hegel. e, nell’aggiunta a questa stessa nota, si corregge: «Se s’ammette “la scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia”, se s’afferma “che l’Uomo resta in vita in quanto animale”, precisando che “ciò che scompare, è l’Uomo propriamente detto”, non si può dire che “tutto il resto può mantenersi indefinitamente: l’arte, l’amore, il gioco, ecc.”. Se l’uomo ri-diventa un animale, anche le sue arti, i suoi amori e i suoi gio-chi devono ri-diventare puramente ‘naturali’ […] ma allora non si può dire che tutto questo rende l’Uomo felice ». Infatti non si può dire. E nemmeno Marx lo ha mai detto. Neppure nell’Ideologia tedesca, testo che pure si presta a dei fraintendimenti: ma nel quale è chiaro, come nei

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Grundrisse e nel Capitale, che per Marx la felicità ha a che fare con due condizioni essenziali: la prima delle quali è l’ateismo, la seconda l’attivi-tà produttiva. Per Marx, cioè, esser felici significa essere atei ed attivi. Ed anche il lavoro intellettuale, beninteso, è un’attività in questo senso, nel solco della grande tradizione aristotelica.

Kojève aggiunge poi un’annotazione interessante: «All’epoca in cui re-dassi la Nota precedente (1946), il ritorno dell’Uomo all’animalità non mi sembrava impensabile come prospettiva futura (del resto, più o meno prossima). Ma, poco dopo (1948), ho compreso che la fine hegelo-marxi-sta della Storia, lungi dall’essere ancora al di là da venire, era già un pre-sente. Osservando ciò che succedeva intorno a me e riflettendo su quanto successe nel mondo dopo la battaglia di Jena, ho compreso che Hegel aveva ragione a considerarla la fine della Storia propriamente detta. In e con quella battaglia, l’avanguardia dell’umanità ha virtualmente raggiun-to il termine e lo scopo, cioè la fine dell’evoluzione storica dell’Uomo. Ciò che si è prodotto dopo non è che un’estensione nello spazio della potenza rivoluzionaria universale attualizzata in Francia da robespierre-Napoleone […]. L’attualizzazione cino-sovietica del bonapartismo robe-spierriano costringe l’europa post-napoleonica ad accelerare l’elimina-zione dei numerosi postumi, più o meno anacronistici, del suo passato pre-rivoluzionario. Comunque, fin d’ora, questo processo d’eliminazione è più avanzato nei prolungamenti nord-americani dell’europa che non nell’Europa stessa. Si può anzi dire, da un certo punto di vista, che gli Stati Uniti hanno già raggiunto lo stato finale del ‘comunismo’ marxista, visto che, praticamente, tutti i membri di una ‘società senza classi’ pos-sono appropriarsi fin d’ora di tutto ciò che desiderano, senza per questo lavorare più di quanto gli piace».

Siamo all’origine delle tesi di Fukuyama. Hegel, spogliato della Storia, torna ad essere Kant. Una volta posto nuovamente il Due (da una par-te l’Uomo che propriamente tale non è più, avendo cessato di negare il Mondo che pure permane nella sua autonomia), questo Mondo-Natura, questo Dasein eterno si ripropone e mena la danza. Imponendo anche all’uomo (stavolta tornato minuscolo) di ri-farsi animale. E allora tutto il resto è noia, direbbe la canzone. cioè gestione-allargamento in termini spaziali (ovviamente, il tempo è espunto dal discorso: anzi, a rigore, non c’è più neppure il Discorso) delle conquiste dello Spirito, del buon vec-chio Spirito quando ancora – come diceva Hegel – calzava gli stivali delle

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sette leghe. adesso è in pantofole, toglie le erbacce nel giardino di casa: cina, america, europa differiscono solo per la quantità della gramigna, ma non per la qualità.

La Storia, in quanto prodotto dell’azione e temporalizzazione dell’azio-ne umana, sarebbe dunque finita. La potenza del negativo, la soggettività che annichilisce la solitudine dell’ente, lo strappa all’immediatezza, lo immette nella vita del linguaggio, questa potenza si è andata spegnendo. Il nulla – dice Sloterdijk – era l’elemento della modernità: «al suo inizio c’era, e resta sempre, l’azione, o, detto con parole più attuali, l’azienda»11. La modernità, di fatto, sarebbe allora essenzialmente l’epoca del trasloco fuori dalla casa dell’essere. e, pertanto, l’ora del crimine del mostruoso, nella definizione di Sloterdijk, cioè dello smisurato, della potenza agita, del prodigioso ed inquietante. Proprio nel senso hegeliano: il crimine è l’azione che strappa all’immediatezza, allaga di senso l’ingenuità appa-rente della natura. Per cui il mostruoso connoterebbe la Storia, sarebbe l’autentico segno dei tempi. e allora avrebbe senso, «se si chiede ad un moderno: ‘Dov’eri al momento del delitto?’», avere in risposta: « ‘Ero sul luogo del delitto’ – proprio perché la Storia è il luogo ed il tempio dell’a-zione, della potenza in atto, dell’aristotelismo compiuto. La modernità è la rinuncia alla possibilità di avere un alibi»12. Di tutto ciò, nella post-modernità si perderebbe la traccia.

Eppure, l’interpretazione hegeliana di Kojève (meglio dovremmo dire: la sua filosofia originale che prende le mosse da un’interpretazione della Fenomenologia dello spirito) non è fino in fondo convincente. Lui stesso in qualche modo ha tradito il compito che riteneva assegnato al Saggio: «i funzionari di Hegel pensano forse di “applicare” la filosofia di Hegel, ma, volenti o nolenti, fanno qualcosa di nuovo»13. Probabilmente, eric Weil ha colto meglio la sostanza del problematico rapporto tra sapere ed azione, permanendo nell’orizzonte di senso hegeliano. Pur senza citare Hegel, ne esprime il senso in un passo davvero considerevole: «La fine della storia, per tornarvi un’ultima volta, è la fine dell’oppressione che impedisce agli uomini di tenersi aperti a ciò che è, per diritto di umanità, sempre a loro disposizione. Essa non significa che non vi sarebbero più eventi, o che gli uomini non morirebbero più, o che tutti gli innamorati sarebbero necessariamente felici, tutti i bambini dotati, tutti gli uomini buoni e belli. Essa non significa neppure che dopo la fine della storia non possano più esservi tragedie e sofferenze per l’individuo: al contrario,

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l’individuo è definito dal fatto stesso che è sempre esposto ai conflitti, alle delusioni, a ciò che minaccia sempre un essere che non sarebbe più uomo se non dipendesse più che da se stesso. Ma le sventure dell’uomo libero e ragionevole in un mondo libero e ragionevole saranno le sue proprie sventure: ancora nella tragedia, è sé stesso che egli realizzerà, lui stesso che si realizzerà, sarà la sua tragedia, non quella delle circostanze, delle condizioni, delle forze esterne, e la lotta di due sentimenti non sarà quella di due posizioni sociali, due carriere, due interessi o due paure, ma quella di due individui che avranno scelto la tragedia perché l’avranno preferita agli accomodamenti, ai compromessi, al tradimento di se stessi»14.

10.3 La città deserta

Negli ultimi passi dell’opera, viene in qualche modo annunciato il pia-no di lavoro che Hegel immagina per se stesso a venire. Scritta la Feno-menologia, insediato il Sapere assoluto, adesso dovrà occuparsi – ritraen-dole – le forme che lo Spirito assume nelle sue alienazioni nella natura e nel tempo. Si occuperà pertanto della prima nella filosofia della natura, e del secondo, nelle forme che lo spirito assume quando si rende oggettivo: cioè come civiltà, organismi ed istituzioni. Il testo continua così:

«Questo farsi presenta un torpido movimento e una successione di spiriti, una galleria d’immagini ciascuna delle quali, provveduta della completa ricchezza dello spirito, si muove con tanto torpore proprio perché il Sé ha da penetrare e da digerire tutta questa ricchezza della sua sostanza. con-sistendo la sua perfezione nel sapere perfettamente ciò che esso è, ossia la sua sostanza, questo sapere è il suo insearsi, nel quale lo spirito abbandona il suo esserci e ne consegna la figura alla memoria. Nel suo insearsi lo spirito è calato nella notte della sua autocoscienza; ma ivi è conservato il suo dileguante esserci; e questo tolto esserci, – quello di prima, ma rinato or ora dal sapere, – è il nuovo esserci, un mondo nuovo e una nuova figura spirituale»15.

Per un’ultima volta Hegel descrive il compito dello Spirito, il nostro compito e quello a cui lui per primo si è dedicato: cogliere in concetti la galleria delle immagini in cui la cultura si è manifestata, costringerla

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al semplice attraverso una riduzione ragionata che non isterilisca e non mortifichi la complessità. Un’opera di essenzializzazione e trasfigurazio-ne storiografica e concettuale, condotta a ben vedere attraverso tutte le sue opere maggiori. E, ritraendo le singole posizioni filosofiche e stori-che, entrarvi dentro, comprenderle, in questo modo inseandosi – nel lin-guaggio di Hegel: domiciliandovisi, concettualizzandole all’interno dei nostri frame culturali. Via via consegnando queste figure alla memoria. In questo lungo lavoro fenomenologico, la cultura che ha ripercorso le tappe delle proprie esperienze nel tempo ha “conservato il suo dileguan-te esserci”, cioè ha conservato la storia del processo che l’ha condotta ad essere quel che è, le tappe della propria autorealizzazione. e così si è “calato nella notte della sua autocoscienza”: ha scavato al proprio interno, ha dissodato le proprie ragioni, si è chiesto da dove e da che gli venissero concetti e figure, da quali esperienze fossero generati, giacché nulla è, se non nell’esperienza. Nella sua autocoscienza, nel suo bagaglio non più inconscio, ma adesso lucidamente consapevole, la cultura, lo Spirito as-soluto mantiene adesso il “suo dileguato esserci”, cioè le forme che esso stesso ha assunto in passato. e questo esserci è ora ripensato, ravvivato dall’esperienza nel nuovo, per cui anch’esso è diverso, nasce come un mondo nuovo. Nella nostra cultura, insomma, rientrano certo tutti i con-cetti che abbiamo tesaurizzato dalle precedenti esperienze storiche e spi-rituali. Ma libertà, Dio, essenza, sostanza, Uno, numero, qualità, eccetera, cioè tutti i concetti grazie ai quali ci spieghiamo l’architettura del mondo, sono sì quelli che abbiamo accolto e strappato all’oblio grazie allo sforzo di rammemorazione che abbiamo fatto con Hegel, ma che questo stesso sforzo ha oggi trasformato e trasfigurato; per cui ci consentono di vedere oggi “un mondo nuovo e una nuova figura spirituale”: il Sapere assoluto.

Il quale è qualitativamente diverso dal sapere relativo, cioè – chiarisce Heidegger – “dal sapere riferito al saputo e là rimasto legato”. Finalmen-te, sappiamo in un modo tale da consentirci di distaccarci da ciò che co-nosciamo in una maniera affatto particolare: siamo presso tutto ciò che sappiamo, ma in un modo da non subirne il vincolo, il condizionamento: «Lo svincolarsi dal e del saputo non è un abbandonare il saputo, un ‘ab-bandonare’ [Verlassung], ma un superamento che conserva”, scrive Hegel nell’Enciclopedia, uno “svincolarsi che sa”», commenta Heidegger, cioè: «il saputo viene ancora saputo ma in modo tale che esso, nel suo essere saputo, si trasforma»16.

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Questo nuovo modo di sapere passa attraverso la notte dell’autoco-scienza, attraverso lo Insichgehen, l’andare-in-se-stessi. Una locuzione che Hegel non usa soltanto nella Fenomenologia: tornerà ad esempio nel-le Lezioni sulla storia della filosofia, sempre ad illustrare la necessità per noi tutti – che siamo lo Spirito, se sappiamo di esserlo – di abbandonare l’esistenza immediata per poterla ritrovare su un piano più alto: «Pensare è l’Insichgehen dello spirito, e cioè il suo rendere oggetto ciò che esso è intuitivamente, il raccogliersi in sé e con ciò stesso il suo separarsi da sé. Questa separazione è la prima condizione e il momento dell’autoco-scienza, dal cui raccogliersi in sé come libero pensiero può scaturire lo sviluppo dell’universo nel pensiero e cioè la filosofia: ritrarsi dalla sua esistenza immediata, dalla sua felice vita naturale nella notte e solitudine dell’autocoscienza, e trarne forza e potenza per ricostruire con il pensiero la realtà e l’intuizione da esso separate».

Hegel ricorre diverse volte, in punti cruciali della sua opera, a questa im-magine forte dello spirito che si cala (versinken, usa questo verbo della tra-dizione pietista, che sta per affondare, sprofondare) nella notte della propria autocoscienza per incontrare il limite, la morte, il proprio sacrificio nelle figure determinate. Il luogo forse più noto e suggestivo è nella seconda Re-alphilosophie, dove così viene descritta questa “notte della conservazione” in cui si esplicita tutta la potenza della Erinnerung, della rammemorazione: «L’uomo è questa notte, questo puro nulla, che tutto contiene nella sua sem-plicità, un’infinita ricchezza di molte rappresentazioni ed immagini, delle quali nessuna gli sta di fronte, ma nessuna delle quali non gli è presente. Dovunque è notte, una notte di rappresentazioni fantasmagoriche; improv-visamente balza fuori qui una testa insanguinata, là un’altra figura bianca, e altrettanto improvvisamente scompaiono. Si vede questa notte, quando si fissa negli occhi un uomo – si penetra in una notte che diventa spaventosa; qui ad ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo»17.

e adesso cosa ci aspetta? Hegel lo dice a suo modo, nella frase succes-siva del nostro testo:

«In essa [cioè nella nuova cultura] e con la sua immediatezza, lo spirito ha da ricominciare da principio, in modo altrettanto fresco [ingenuo; ebenso unbefangen], e da farsi grande partendo da essa, come se tutto ciò che precede fosse per lui perduto, ed esso non avesse imparato nulla dall’espe-rienza degli spiriti antecedenti»18.

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aver compreso tutto, aver concettualizzato la materia dello spazio e del tempo attribuendo senso alla storia, ebbene, tutto ciò non costituisce altro che un nuovo punto di partenza. Il sommo punto di arrivo, il Sapere assoluto, il linguaggio consono al tempo, in grado di esprimerlo compiu-tamente e senza residui, la presunta linea del traguardo, si rivela essere anche la nuova linea di partenza. Di là, ogni volta, si spalancano solo territori sconosciuti: si apre la novità di cui non si ha esperienza. Nep-pure il perfectum, la Saggezza raggiunta, la consapevolezza delle pro-prie conoscenze finite, mette al riparo dal rischio. Anche perché – lo dice bene Alexandre Kojève in una lettera a Carl Schmitt nel ’56 – saggezza e perfectum si danno solo fintanto che esiste ostilità, lotta per il ricono-scimento: insomma, fintanto che si danno Storia e Politica. La Saggezza, l’atteggiamento che nasce dal Sapere assolutamente, cioè senza condizio-namenti inconsci, è possibile solo se – come l’angelo benjaminiano – si è con i piedi e la testa nel presente e si guarda al Passato. Il volto del Sag-gio, se volesse volgersi al domani da Saggio, sarebbe destinato a segnarsi presto coi solchi dell’oblio, l’altra faccia segreta e scura – dice Borges – di quella medaglia la cui lucida faccia è la memoria.

Il contenuto stesso del Sapere assoluto, tutto il contenuto: vale a dire la saggezza che si è accumulata, esperita e digerita nel processo, tutto questo che è la storia dello Spirito occidentale per concetti (la Cultura) viene anch’esso, in ultimo, congedato, liberato da uno Spirito che non ha più bisogno di rappresentazioni che ne inficino la trasparenza. Questa è la fine della Storia: di quella Storia. L’atto finale, disalienante, col quale lo Spirito è invitato ad intraprendere nuove strade in questo nuovo mon-do, nel quale esso deve «unbefangen von vorn bei ihrer Unmittelbarkeit anzufangen und sich von ihr auf wieder großzuziehen, als ob alles Vor-hergehende für ihn verloren wäre und er aus der erfahrung der früheren Geister nichts gelernt hätte».

La cultura viene ri-gettata, potremmo dire con Žižek. Viene restituita l’origine, proprio perché si è nella condizione ormai di poter apprendere tutto e, insieme, come se (als ob) non si fosse imparato niente e dovessi-mo quindi crescere daccapo senza tener conto di nulla di quanto appreso dalle esperienze dello “spirito precedente”, cioè dalle esperienze accumu-late dalla cultura che pure ci ha generato.

Il Sapere assoluto insomma è anch’esso un processo, e nel suo ulti-mo anello dismette ogni accumulazione, rilascia da sé ogni contenuto,

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restituendo anche la “seconda natura” al mondo, senza marchi che la contraddistinguano, che la segnino appunto come seconda: una secon-da natura che torna a funzionare come se (di nuovo) fosse la prima e l’unica, come se il lungo travaglio e lavoro della cultura non si fosse svolto. Lungo questa via interpretativa ci si può accompagnare anche a Kojève ed alla sua rianimalizzazione dell’uomo: nel senso che in effetti lo Spirito alla fine si despiritualizza, nel senso che la cultura è come se smettesse la propria pretesa di culturalizzare tutto, e tornasse alle cose, alla sensibilità. Ma non è un destino, bensì una possibile libera scelta rimessa al soggetto, al termine della Storia in quanto azione liberatrice e istitutrice di senso.

Fine della Storia.Ma per sempre? Non ha senso, semplicemente, una tale domanda nell’o-

rizzonte hegeliano. chi e cosa allora sarà in grado di creare i presuppo-sti di una nuova cultura? Una nuova Politica. al fare politico è rimesso, nell’impostazione hegeliana, il compito di “gettare le pietre”, di dare vita anche ad una post-Storia, che dunque (hegelianamente) sarà un’altra Sto-ria, così come si dice: è tutta un’altra storia. Verrà tutt’un’altra storia sulla quale potrà soffermarsi lo sguardo riflessivo di una nuova saggezza, di una nuova filo-sofia interessata ad un finito che, davvero, a quel punto approccerà ab ovo, con tutti quei pregiudizi e trascendentali di cui sarà carica. Fino ad una nuova, diversa assolutezza, da conquistarsi senza più alcuna legittimazione e assicurazione dall’ermeneutica storica passata. a quel punto, immagina Hegel, un altro saggio tirerà le somme dalla nuova vicenda e dalle sue diverse complesse interpretazioni, escrivendosi come il Sapere assoluto a lui contemporaneo.

Da qui, da questo stadio di confidenza col mondo, sentendoci del mon-do, potremo ripartire “in modo altrettanto fresco”: in altri termini, in modo originale, come se tutto il trascorso non ci fosse più, come se tutte le esperienze fatte non pesassero, come se tutto ciò fosse per lo spirito – cioè per noi – perduto. Hegel lo spiegherà anche nelle Lezioni di sto-ria della filosofia: «Invece essa [la storia della filosofia] sembra offrir lo spettacolo di sempre nuovi mutamenti del complesso totale, i quali alla fine non sono più collegati neppure dal vincolo dello scopo comune: anzi finisce col dileguarsi lo stesso oggetto astratto, la conoscenza razionale, e da ultimo l’edificio della scienza è come una città deserta, dove restano sepolti la pretesa e il nome diventato vano della filosofia»19.

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Il Sapere assoluto non come una biblioteca che ospita sui propri scaffali tutta la scienza sedimentata nei secoli, ma come una città deserta che ha conosciuto la vita ed ha visto percorse le proprie strade e le proprie piazze dalla cultura agita e vissuta. ed ora, in ultimo, tornata silenziosa, in attesa di nuovi abitanti, di nuove costruzioni, di una nuova cultura.

Per dirla con Philip roth, il Sapere assoluto è la consapevolezza che quel che ci tocca è questo mondo di rapporti complicati, di confini incerti, ai quali le nostre conoscenze ed il nostro sentire devono adattarsi. Ma questo Sapere, per quanto non condizionato da altro che dal suo stesso limite in quanto sapersi soggetto e sostanza limitati, non ci garantisce per nulla rispetto al vivere, rispetto all’azione. Il rischio ci attende un istante dopo aver letto il Libro. Nessuna saggezza è in grado di confortare e far voltare l’angelo della storia, così da fargli apprezzare il domani, piuttosto che il passato: un tempo diverso dal cumulo di macerie dal quale sembra non poter distogliere lo sguardo. Non sembra davvero più attuale quel soggetto-sostanza di Lukács che, nel fare la rivoluzione, sa cosa sta fa-cendo mentre lo fa. Un conto è la civetta della filosofia, capace di vedere il vero anche di notte, quando le attività del giorno sono finite, ed un con-to la talpa della politica, in grado di scavare la storia, ma cieca20.

Potremmo dire che il Sapere assoluto sta alla conoscenza così come lo stato di eccezione sta alla sovranità. Questo non-concetto sembra stare sul limite: vuol essere Sapere, così come l’eccezione vuol istituire la nuova legge, ma per la propria stessa costituzione sembra cadere infine, una volta costituitosi, fuori dalla conoscenza, se è vero che ogni sapere, per sua natura, è determinato e finito; sembra impossibile, pertanto, che esso diventi assoluto, almeno nell’accezione corrente. Il Sapere assoluto si la-scia leggere secondo una concezione pleromatica, ma anche kenomatica: è un pieno e, paradossalmente, un vuoto allo stesso tempo.

Seguendo Hegel fino in fondo, fino alle ultime righe dell’ottavo ca-pitolo della Fenomenologia, sembra affacciarsi una nuova prospettiva: quando il Sapere è ormai assoluto, diviene anche non-sapere, nel sen-so che sospende, fa epochè di ogni conoscenza. Fa epochè di se stesso. come lo iustitium senatoriale che, nel primo diritto romano, nei momenti di massima crisi sospendeva il diritto e però in qualche modo lo istituiva, chiamando un’altra autorità ad insediarsi in sua vece. Quell’autorità era, nella repubblica romana, il potere dei consoli, o dei tribuni, l’autorità della politica nel suo momento decisionale, espresso nell’azione21.

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Proprio in questo spazio sospensivo istituito dall’assolutezza del Sa-pere, quindi, sembra aprirsi lo spazio della Politica. Uno spazio del tutto autonomo, incondizionato. Lo spazio ed il tempo delle res gestae. Solo dopo la filosofia potrà ricapitolare, chiarire e magari render più comples-so lo scenario passato. Da questo punto di vista, ogni filosofia non può che esser post-moderna, se la modernità è stata il tempo del fare, e la post-modernità il tempo del dis-fare, del decostruire, del dipanare, dell’inter-pretare. Un disfare che è però – se inteso in senso hegeliano – esso stesso un fare che disfa: ma non come Penelope che fa la tela e poi la disfa, perché il fare filosofia è insieme un fare/disfare, un costruire che mette a nudo i nodi e i nessi. Quando Marx dirà nell’XI tesi su Feuerbach che fin qui la filosofia ha interpretato il mondo e che si tratta di cambiarlo, non farà altro che parafrasare la chiusa dell’VIII capitolo della Fenomenolo-gia. certo, nota Heidegger, non c’è avversativa nella tesi marxiana: non viene detto “abbiamo interpretato, ma ora dobbiamo cambiare il mondo”: la filosofia infatti non può far altro che interpretare, dar conto dell’ac-caduto. Non tocca quindi ai filosofi in quanto filosofi mutare le sorti del mondo e del bios (né Marx lo pretende), ma – in una prospettiva hegelia-na – appunto ai politici, agli uomini del corso del mondo, agli individui cosmico-storici, comunque animati da un’intenzione che non potrà che esser particolare, perché agire è – ricorda ancora una volta Hegel – deci-dersi comunque alla finitezza.

Un soggetto diviso, frammentario, per la post-Storia? Piuttosto un sog-getto complesso, dalle diverse funzionalità, distinte e integrabili; la cui conoscenza del passato non lo garantisce per il futuro, per le sue funzioni politiche. Le conoscenze del mondo esterno e interno, per quanto vaste e analitiche, potrebbero lasciare assoluta libertà al soggetto in azione ed alla sua responsabilità: «la necessità del fatto e la libertà del fare appa-iono nella loro purezza: la storia si pensa come necessità e si fa come libertà»22.

eppure, non avrebbe stupito il delinearsi di un compito assai diverso: dopo tutto questo lavoro, finalmente lo spirito è in casa propria e potrebbe iniziare a darsi da fare, progettando sulla base delle esperienze trascorse, del sapere accumulato. Ma per Hegel la filosofia è l’ultima scienza, quella che viene a riassestare il tempo dopo che perfino questi, il tempo, è andato fuori asse. La filosofia non ha altro compito. Se i filosofi – e Marx si ri-feriva proprio ad Hegel – hanno finora interpretato il mondo, ora si tratta

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di cambiarlo, adesso lo spirito umano agente può ricominciare daccapo ad occuparsi del mondo, come se tutto ciò non fosse stato; come se la Fenomenologia non fosse stata scritta, come se la Logica non fosse già nei fatti, come se la nostra cultura non si fosse data ordini e misure che le consentono finalmente di capirsi e di orientarsi senza dover ricorrere a demoni o dèi. L’azione è sempre nuova, e mai garantita, per quanto solida possa essere la cultura alle sue spalle. La nostra cultura, per Hegel: la cultura della libertà occidentale, quella che Fukuyama per un verso e che Kojève per un altro hanno considerato l’apice della civiltà, al punto da invocarne faustianamente il momento finale; proprio questa cultura con-sapevole di sé non lo è mai al punto da essere in grado di dettare le regole all’azione, al fare della politica. La scelta, per quanto lucida e determi-nata, non può aver il carattere della trasparenza, dell’autoevidenza, carat-teri raggiunti invece dal Sapere che si sa libero. Sartre, critico ma lettore attento di Hegel, valorizzerà proprio questo passaggio, per cui l’uomo è libertà e non abbiamo né davanti a noi né dietro di noi giustificazioni o scuse. L’azione è rischio. Non ho più paura del mondo, ma il mondo non finirà mai di sorprendermi.

«Se dunque questo spirito ricomincia da principio la sua cultura sembran-do prender le mosse soltanto da sé, tuttavia esso comincia in pari tempo da un grado più alto. Il regno degli spiriti che in questo modo si è foggia-to nell’esserci, costituisce una successione in cui uno spirito ha sostituito l’altro e ciascuno ha preso in consegna dal precedente il regno del mondo. La meta di quella successione è la rivelazione del profondo; e questa rive-lazione è il concetto assoluto; questa rivelazione è quindi il togliere della profondità del concetto, o è l’estensione di esso, la negatività di quest’Io inseantesi, la quale è la sua alienazione o sostanza, ed anche il suo tempo, – il tempo per cui questa alienazione si aliena in lei stessa e così nella sua estensione è altrettanto nella sua profondità, nel Sé»23.

La Scienza si è forgiata nell’esserci: il Sapere è frutto dell’esperienza, del passaggio nel qui-e-ora dello spazio e del tempo. abbiamo astratto i concetti dalle cose del mondo, abbiamo col tempo e nel tempo imparato a spiegarci il mondo, i suoi fenomeni e a capirlo attraverso le nostre azioni. Grazie alla rammemorazione ed al momento speculativo “eterno”, lo Spiri-to assoluto conosce le proprie figure e le sa ordinare. Il fine di quest’opera

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di memoria è la rivelazione del profondo: la meta del Sapere è sapersi, sa-pere Sé, sapersi dire. Dire del profondo, di ciò che è più interno e che però si trova in superficie, sulla superficie della storia e della natura. Il segreto è custodito nelle profondità della superficie. Il concetto assoluto, allora, supera la profondità del concetto, si fa estensione (Dasein, mondo-natura), ed anche Tempo, uomo-soggetto specificamente umano, Io personale o Sé.

Eccoci infine all’ultima frase della Fenomenologia:

«La meta, il sapere assoluto o lo spirito che si sa come spirito, ha a sua vita la memoria degli spiriti com’essi sono in loro stessi e compiono l’organiz-zazione del loro regno. La loro conservazione secondo il lato del loro libe-ro esserci apparente nella forma dell’accidentalità, è la storia; ma secondo il lato della loro organizzazione concettuale, è la scienza del sapere appa-rente; tutti e due insieme, cioè la storia concettualmente intesa, costitui-scono la commemorazione e il calvario dello spirito assoluto, l’effettualità, la verità e la certezza del suo trono, senza del quale esso sarebbe l’inerte solitudine; soltanto aus dem Kelche dieses Geisterreiches / Schäumt ihm seine Unendlichkeit»24.

Storia e Fenomenologia, la scienza del sapere apparente, vanno insie-me. Da una parte, la scienza è fatta di storia: cioè è risultato della storia, il prodotto per eccellenza dell’uomo. Dall’altra, la scienza parla dell’uomo, è – dice Hegel – la storia articolata in concetti e compresa. Insieme, co-stituiscono il Sapere assoluto: la storia e la sua concettualizzazione, che in mille modi abbiamo visto prodotto l’una dell’altra e viceversa. Ma ne costituiscono anche il calvario (Schädelstätte), cioè il momento finale in cui lo Spirito fa oblazione di sé e s’immola.

I due ultimi versi sono tratti da un poema di Schiller del 1792, Die Freundschaft, l’amicizia. Schiller però viene modificato da Hegel. Il testo dice: dal calice dell’intero regno delle anime, ed Hegel corregge invece Seelen in Geist. Niente anime, sì piuttosto allo Spirito il cui regno è di questo mondo. Poi, Schiller scrive “die Unendlichkeit”, l’infinito: Hegel, invece, integra con seine, “il suo” infinito, cioè l’infinito suo, dello Spi-rito, vale a dire l’infinito della cultura umana, del suo linguaggio, della potenza della serie dei suoi concetti astratti, condensati, appresi grazie all’esperienza storica. Quel che abbiamo alle spalle, riva di un mare che sempre di nuovo si apre davanti alla nostra responsabilità.

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Note al capitolo 10

1 A. Kojève, Le Concept, le Temps et le Discours, Gallimard, Paris 1990, pag. 80.

2 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 304.3 Ibidem.4 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 534.5 J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di

Hegel, cit., pag. 743.6 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 304.7 A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., pag. 541.8 ibidem.9 cfr. G. agamben, L’Aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, tori-

no 2002.10 r. esposito, Terza persona, einaudi, torino 2007, pag. 140.11 P. Sloterdijk (2001), Non siamo ancora stati salvati, Bompiani, Milano

2004, pag. 307.12 Ivi, pag. 293.13 F. Valentini, Soluzioni hegeliane, cit., pag. 327.14 e. Weil, La fin de l’histoire (1970), in Philosophie et réalité, Beauchesne,

Paris 1982, pag. 175. cit. in F. Valentini, Soluzioni hegeliane, cit., pag. 339.15 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 304.16 M. Heidegger, La Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit., pagg. 44-5.17 G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, a cura di G. cantillo, Laterza,

Bari 1971, pag. 107.18 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pagg. 304-5.19 G.W.F. Hegel, Lezioni di storia della filosofia, trad. it. di e. codignola e G.

Sanna, La Nuova Italia editrice, Firenze 1981, vol. I, pag. 18.20 «Ineliminabile è la differenza tra chi tende a conoscere il mondo e chi ten-

de a cangiarlo. L’uomo di azione non ignora certo il Vero, ma lo dimentica al momento dell’agire, lo dimentica anche perché lo “adatta” alle esigenze del fare, salvo a ritrovarlo e ripensarlo a processo concluso». F. Valentini, Soluzioni hegeliane, cit., pagg. 341-2.

21 Mi riferisco in particolare alla trattazione che dell’istituto dello iustitium fa Giorgio agamben in Stato di eccezione. Homo sacer, II, I, Bollati Bo-ringhieri, torino 2003, pagg. 55-67.

22 F. Valentini, Introduzione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, cit.,

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pag. 221.23 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., II, pag. 305.24 Ibidem. “Dal calice di questo regno dello Spirito / sale a lui [Spirito] la

spuma della sua infinità” (F. Schiller, L’amicizia).

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indice dei nomi

adorno, theodor W. 18agamben, Giorgio 146, 158anselmo d’aosta, 11aristotele, 105, 107

Bataille, Georges 91Benjamin, Walter 85, 93, 112-114, 127,

134, 138, 152Bloch, ernst 65, 69Bodei, remo 25, 38, 49, 138

cicero, Vincenzo 25, 103, 127coccoli, Guido 38condillac, Étienne Bonnot de 45

D’abbiero, Marcella 91D’acquisto, Salvo 55-56, 66De Negri, enrico 24, 25, 103, 128Derrida, Jacques 17, 93, 128Descartes, René de 99, 114, 120-121,

144

Ferrario, edoardo 15Ferraris, Maurizio 14, 24, 30, 38Fichte, Johann Gottlieb 41, 110, 112,

114, 121-122, 125, 130, 142-143,Finelli, roberto 21, 24Freud, Sigmund 59, 81

Garelli, Gianluca 14, 25, 103, 127, 128Goethe, Johann Wolfgang von 77, 92

Habermas, Jürgen 92-93

Heidegger, Martin 17, 19, 24, 38, 42, 56, 59, 75, 107, 109, 126, 150, 155, 158

Hélvetius, Claude-Adrien 44-46Hyppolite, Jean 11, 14, 42, 69, 87, 93,

106, 126, 143, 144, 158

Jacobi, Friedrich Heinrich 55-56, 61-62, 77

Jaeschke, Werner 14, 24, 25,

Kant, Immanuel 17, 29-30, 38, 41, 48, 51-57, 59, 61, 76-77, 79, 93, 101, 106, 110, 112, 114, 121, 130, 143, 145, 147

Kojève, Alexandre 12, 25, 28, 32, 33, 38, 59, 86, 91, 95-98, 103, 106-107, 120, 15-126, 135, 137-139, 141-143, 145, 146-148, 152, 156, 158

Koyré, Alexandre 68, 106

Leibniz, Gottfried Wilhelm 45, 51, 101, 110, 114, 120

Marcuse, Herbert 17, 18-19, 24, 38, 68Marx, Karl 18, 24, 91, 112, 146-147,

155

Pippin, robert 38Platone, 105, 110Pöggeler, Otto 11, 14

Queneau, raymond 25, 38

ricoeur, Paul 85, 93

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robespierre, Maximilien 30, 47-49, 147

rousseau, Jean-Jacques 5, 44, 46-47, 49, 61, 77, 80, 114, 121,

Saint-Just, Louis antoine de 47, 63Sasso, Gennaro 105, 126Schiller, Friedrich 77, 157, 159Schleiermacher, Friedrich 63, 77Scola, ettore 92Shakespeare, William 69, 118Spinosa, Baruch 45, 71, 114, 120, 123,

135

totti, Francesco 36

Valentini, Francesco 11, 14, 17, 22, 38, 64, 87, 95, 96, 103, 128, 138, 158

Vegetti, Matteo 32, 38, 59, 126Verra, Valerio 25, 79, 92Vinci, Paolo 62-63, 69, 92Voltaire, Francois-Marie arouet 45-

46

Weil, eric 12, 148, 158

Žižek, Slavoj 49-50, 94, 112, 127, 131, 138, 152

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Finito di stamparenel mese di gennaio 2012

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