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ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2005 1 L’intervento logopedico col bambino sordo grave e profondo: una relazione d’aiuto secondo l’Approccio Centrato sulla Persona Piera Massoni Introduzione In questo articolo affronterò il problema dell’intervento logopedico con i bambini sordi gravi e profondi su cui si basa la mia esperienza trentennale, con l’obiettivo di chiarire, prima di tutto a me stessa, quando la professione che svolgo può essere considerata una relazione d’aiuto secondo il paradigma di Carl Rogers. La caratteristica di un bambino con una sordità grave o profonda è di avere preclusa la possibilità di acquisire naturalmente la lingua vocale, che dovrà essere insegnata con una terapia che prevede tempi lunghi, a volte anche oltre il decennio. Mi vedo davanti agli occhi l’espressione di frustrazione e inadeguatezza dei bambini a cui insegno la lingua vocale, per loro innaturale, e dubito di promuovere la loro crescita, quando chiedo di acquisire una competenza in una lingua che ha tra i requisiti di base il poterla ascoltare, ma mi sembra che, se evito il coinvolgimento emotivo, il rapporto con i bambini a cui insegno può avere le caratteristiche di una relazione d’aiuto secondo l’Approccio Centrato sulla Persona. È quanto cercherò di dimostrare in questo lavoro in cui parlerò del paradigma sistemico di C. Rogers, che vede l’organismo umano attivo nella costruzione della sua esistenza, in quanto possiede una tendenza alla sua autorealizzazione, come un seme a diventare pianta. Questa visione dell’uomo ha portato ad un diverso concetto di salute, non più vista come assenza di malattia, ma costruita socialmente nel contesto dei comportamenti e delle relazioni umane (Zucconi, Howell, 2003). In questo approccio la persona sorda, se posta in un clima che ne faciliti la crescita, può trovare una realizzazione ed un inserimento nella società come le

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L’intervento logopedico col bambino sordo grave e profondo: una relazione d’aiuto secondo l’Approccio Centrato sulla Persona

Piera Massoni

Introduzione

In questo articolo affronterò il problema dell’intervento logopedico con i bambini sordi gravi e profondi su cui si basa la mia esperienza trentennale, con l’obiettivo di chiarire, prima di tutto a me stessa, quando la professione che svolgo può essere considerata una relazione d’aiuto secondo il paradigma di Carl Rogers. La caratteristica di un bambino con una sordità grave o profonda è di

avere preclusa la possibilità di acquisire naturalmente la lingua vocale, che dovrà essere insegnata con una terapia che prevede tempi lunghi, a volte anche oltre il decennio. Mi vedo davanti agli occhi l’espressione di frustrazione e inadeguatezza

dei bambini a cui insegno la lingua vocale, per loro innaturale, e dubito di promuovere la loro crescita, quando chiedo di acquisire una competenza in una lingua che ha tra i requisiti di base il poterla ascoltare, ma mi sembra che, se evito il coinvolgimento emotivo, il rapporto con i bambini a cui insegno può avere le caratteristiche di una relazione d’aiuto secondo l’Approccio Centrato sulla Persona. È quanto cercherò di dimostrare in questo lavoro in cui parlerò del

paradigma sistemico di C. Rogers, che vede l’organismo umano attivo nella costruzione della sua esistenza, in quanto possiede una tendenza alla sua autorealizzazione, come un seme a diventare pianta. Questa visione dell’uomo ha portato ad un diverso concetto di salute, non

più vista come assenza di malattia, ma costruita socialmente nel contesto dei comportamenti e delle relazioni umane (Zucconi, Howell, 2003). In questo approccio la persona sorda, se posta in un clima che ne faciliti la crescita, può trovare una realizzazione ed un inserimento nella società come le

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persone udenti, perché è vista nella sua interezza e non come un “orecchio da aggiustare”. Inserirò l’approccio rogersiano nel modello riabilitativo messo a punto da

me (metodo bimodale) e arriverò alla conclusione che, se il logopedista rispetta le condizioni che creano un clima facilitante per la crescita, in particolare la congruenza, che gli permette di accettare realmente il bambino sordo per quello che è ed a porsi in un atteggiamento empatico nei suoi confronti, il suo intervento può essere considerato una relazione d’aiuto.

L’Approccio Centrato sulla Persona: una visione ecologica della natura umana

L’Approccio Centrato sulla Persona di Carl Rogers è un paradigma sistemico che si concentra sulla salute anziché sulla malattia, fornisce empowerment anziché curare e favorisce lo sviluppo delle potenzialità degli individui, dei gruppi e delle organizzazioni mediante un processo di responsabilizzazione senza alimentare la dipendenza (Zucconi e Howell, 2003, p. 183). Secondo questo approccio l’organismo umano può essere compreso meglio se viene rappresentato come un sistema contenente sottosistemi, come ad esempio quelli immunitario e vascolare, e facente parte di sistemi più vasti, come ad esempio la famiglia di origine, la comunità di appartenenza, l’ambiente in cui si vive ecc. (Zucconi, Howell, 2003). L’organismo umano è quindi un insieme che non può essere riconducibile

alla somma delle parti che lo compongono e possiede una capacità naturale e innata che gli permette di risolvere i problemi per meglio adattarsi alla vita. In questo paradigma il ruolo del professionista di una relazione d’aiuto

non è quello di curare, ma di facilitare la crescita e lo sviluppo delle potenzialità delle persone, perché trovino in maniera autonoma la soluzione ai loro problemi, secondo le modalità che più gli si confanno. Infatti Rogers sostiene che se l’individuo si trova in un clima ricco di

condizioni psicologiche facilitanti, possiede risorse autonome per comprendere se stesso e per modificare il proprio concetto di sé ed i propri comportamenti. È quindi il cliente, termine usato per sottolineare il ruolo attivo di ogni

persona nel proprio processo di cambiamento, ad essere responsabile della propria vita e dei propri problemi, che conosce meglio di chiunque. Il professionista della relazione d’aiuto può facilitare la crescita dei suoi

clienti, aiutandoli ad affrontare i loro problemi, se rispetta tre condizioni essenziali: congruenza, accettazione positiva incondizionata ed empatia. CONGRUENZA: essere se stessi, trasparenti e sinceri, senza maschere di

ruolo. “Quando quello che vivo, qui ed ora, è presente nella mia consapevolezza e comunico quello di cui sono consapevole”. ACCETTAZIONE POSITIVA INCONDIZIONATA: accettare l’altro per quello

che è, senza condizioni. Avere rispetto dell’altro, anche se non condivido alcuni suoi comportamenti.

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EMPATIA: comprensione sensibile dei pensieri e delle emozioni dell’altro. Capacità di ritrasmettere la percezione di questa esperienza in modo che l’altro si senta capito e possa riconoscervisi. La visione ottimistica, non più meccanicista della natura umana, ha portato

ad un nuovo concetto di salute centrato sulla persona e non sulla malattia. Il corpo umano non è una macchina, come afferma il modello biomedico, e

quindi non può essere riparato. Quando si localizza la malattia in una parte del corpo e la si cura senza

tenere conto della complessità dell’organismo, si rischia di causare un effetto iatrogeno e cioè la terapia può diventare parte del problema; come ad esempio lo stress che deriva da un’ospedalizzazione disumanizzante o, come vedremo in seguito, un intervento logopedico con il bambino sordo che centra la riabilitazione sulla perdita uditiva. Se invece guardiamo all’organismo umano secondo un approccio sistemico

avremo un modello biopsicosociale in cui la salute è costruita socialmente e restituiremo all’uomo un ruolo attivo nella promozione del proprio benessere. Un tale approccio si presenta, a mio avviso, particolarmente valido in caso

di individui che nascono con un deficit sensoriale, come la sordità, che può diventare un handicap qualora si veda la persona sorda come mancante di qualcosa e non la si accetta per quello che è, ovvero un essere umano che posto nelle condizioni adatte a facilitare il suo sviluppo può crescere ed integrarsi nella società in cui vive con una qualità della vita paragonabile a quella delle persone udenti.

L’intervento logopedico con il bambino sordo grave e profondo

La sordità neurosensoriale bilaterale congenita o contratta nel primo anno di vita può essere definita come un deficit dell’udito che può trasformarsi in handicap qualora l’interazione con l’ambiente non sia efficace. Nel caso di sordità lievi o medie c’è una acquisizione più o meno completa del linguaggio, grazie all’uso di protesi acustiche e di un intervento logopedico. Il problema si pone con maggiore drammaticità nel caso di sordità gravi e profonde, in cui non c’è l’acquisizione spontanea del linguaggio, nonostante l’uso di protesi anche raffinate (Massoni, Maragna, 1997). Il bambino sordo grave e profondo non ha compromessa la facoltà di

linguaggio; se esposto ad una lingua per lui accessibile, come quella dei segni, la acquisisce come un bambino udente acquisisce quella vocale, ma è incapace di acquisire la lingua parlata nell’ambiente in cui vive, perché non la sente. Per questo motivo al bambino viene applicata una protesi acustica, cioè un

apparecchio di amplificazione del suono. Oggi ne esistono di estremamente raffinati, come quelli digitali, o come l’impianto coclearie (una protesi

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interna, che sostituisce la funzione della coclea, organo preposto alla ricezione del suono). Purtroppo nessun sussidio uditivo restituisce ad un bambino sordo

profondo un ascolto sufficiente ad acquisire naturalmente la lingua vocale ed è quindi evidente che se vogliamo che questo bambino parli, occorre un intervento logopedico più articolato e complesso. L’iter riabilitativo di questi bambini è chiaramente diverso da caso a caso,

ma può durare anche più di dieci anni ed è estremamente impegnativo e faticoso per tutti coloro che vi prendono parte. Esistono diversi modelli riabilitativi per insegnare a parlare ai bambini

sordi, che vanno dall’oralismo al gestualismo. La scelta oralista punta tutta la riabilitazione sullo sfruttamento del

residuo uditivo e su un insegnamento precoce del linguaggio. Il problema di questo approccio è che vede il bambino sordo in un’ottica biomedica, come una macchina da aggiustare: “Metti una protesi e sente; gli insegni a parlare e torna normale”. Il rischio di questo approccio è la negazione del problema, trasmessa anche al bambino con i danni che ne conseguono. L’approccio gestuale riconosce alla persona sorda il diritto ad avere una

lingua naturale, la lingua dei segni, che è veicolata dal canale visivo-gestuale, integro nelle persone sorde. Solo una lingua compresa e prodotta senza sforzo permetterà alla persona sorda di sviluppare al massimo le proprie potenzialità. I fautori di questo approccio ipotizzano un’educazione bilingue, lingua vocale e lingua dei segni, ma poiché privilegiano quest’ultima, spesso la lingua vocale viene trascurata ed è impossibile ipotizzare un buon adattamento all’ambiente senza la competenza in questa lingua. Infine vi è una terza possibilità che cerca di mediare tra i due approcci

descritti che si chiama metodo misto o bimodale, che utilizza un supporto gestuale in accompagnamento alla parola, lasciando inalterata la struttura della lingua vocale. La prima testimonianza dell’uso di un modello di questo tipo risale alla fine del ‘700, mentre in tempi recenti è stato proposto da Hilde Schlesinger (1978) a San Francisco. Esistono diverse varianti di approccio bimodale, ma parlerò di quella messa a punto da me (Massoni, Maragna, 1997) per vedere se, con opportune modifiche, il mio intervento riabilitativo con i bambini sordi gravi e profondi è compatibile con l’Approccio Centrato sulla Persona di Carl Rogers.

Il metodo bimodale secondo l’ACP

Bimodale significa doppia modalità e infatti nella metodologia bimodale vengono utilizzate la modalità acustico-vocale, perché si parla, e la modalità visivo-gestuale, perché si segna, ma un’unica lingua: la lingua vocale. In pratica, quando si parla con il bambino sordo, si dà un supporto gestuale a tutto quello che viene detto. La caratteristica fondamentale è che il bambino viene visto come un

complesso sistema inserito in sistemi più ampi come la famiglia e l’ambiente in cui vive e che ha una facoltà di linguaggio strettamente collegata allo

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sviluppo cognitivo e affettivo. Anche il linguaggio può essere considerato un sistema contenente i sottosistemi fonologico, morfo-sintattico, semantico e pragmatico. Il risvolto riabilitativo è che non si lavora mai su competenze isolate, basti pensare alla stimolazione fono-acustica che si rifà alla psicologia della Gestalt ed alla Fonologia di Jacobson, che sostengono che l’insieme è diverso dalla somma delle sue parti e che in un sistema ogni elemento non ha valore isolatamente, ma lo acquisisce quando si pone in contrasto con gli altri elementi del sistema. Il metodo bimodale pone inoltre l’accento sulla valenza comunicativa del linguaggio, quindi propone gli stessi contenuti che emergono dalle ricerche sul bambino normo-udente. Per dare al bambino sordo grave e profondo la possibilità di avere una comunicazione il più possibile adeguata alla sua età, quando ancora non è in grado di sfruttare il suo residuo uditivo attraverso la protesi acustica, né ha capacità verbali atte a trasmettere richieste complesse, emozioni e sentimenti, si utilizza il supporto gestuale per lui naturale. La scelta bimodale si pone come una mediazione tra un approccio oralista,

decisamente più direttivo e rigido e l’educazione bilingue, vista con sospetto dai genitori udenti, che vedono la lingua dei segni come ghettizzante per i loro figli. Questo approccio, così descritto, sembrerebbe già possedere in parte le

caratteristiche di una relazione d’aiuto secondo l’ACP, in quanto ipotizza l’accettazione della persona sorda per quello che è nella sua complessità e si pone in un atteggiamento empatico accettando che si esprima nel modo che gli torna più naturale, sia esso vocale o gestuale. Esaminerò ora alcuni aspetti riguardanti il rapporto logopedico tra il

bambino, i suoi genitori ed il logopedista allo scopo di definire quando può essere considerato una relazione d’aiuto. Rogers (1942) descrive quattro elementi che caratterizzano una atmosfera

terapeutica idonea: • il calore e l’accettazione del cliente come persona da parte di un terapeuta che non finge di avere doti sovrumane;

• la tolleranza riguardo all’espressione dei sentimenti; • limiti terapeutici ben definiti; • il rapporto deve essere privo di qualsiasi coercizione. In base a questi elementi descriverò il mio intervento logopedico per

vedere se risponde alle caratteristiche descritte.

Il setting terapeutico

Poiché la diagnosi di sordità viene fatta sempre più precocemente, possono arrivare in terapia bambini al di sotto del primo anno di vita e comunque in genere non più tardi dei diciotto mesi, se si tratta di una sordità severa. Nel caso di sordità meno gravi l’inizio della terapia può avvenire più tardi, poiché i bambini iniziano a parlare spontaneamente, ma non bene e questo posticipa la diagnosi.

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È quindi evidente che la decisione del tipo di riabilitazione da seguire spetta ai genitori. Nei primi incontri di informazione ed osservazione del bambino,

generalmente illustro ai genitori tutte le possibili scelte riabilitative. Cerco di essere onesta e quindi dico quella che, secondo me, funziona di più, ma posso affermare che sono convinta che non esista un modello riabilitativo che vada bene per tutti, ma che bisogna scegliere quello che va bene per il bambino, per i genitori e per me. Spiego ai genitori che devono provare a mantenere l’idea del loro bambino

come un tutto, un complesso sistema che ha sue risorse per crescere autonomamente se noi lo mettiamo nelle condizioni di farlo. Il problema più grosso di questa fase, ma che si trascina con maggiore o

minore intensità per tutta la terapia, e spesso per tutta la vita della persona sorda, può essere reso con un’immagine che mi viene alla mente quando sento certi discorsi e osservo alcuni approcci riabilitativi, io vedo solo un grande orecchio e non più un bambino. Si riconduce l’intera persona al suo deficit sensoriale ed ogni interazione con le persone e l’ambiente è influenzata da questa visione. D’altro canto anche i genitori hanno una loro storia e vivono la

drammatica esperienza di avere un figlio sordo per la prima volta. Dovere scegliere un metodo riabilitativo li carica di una responsabilità spesso superiore alle loro forze del momento, anche perché l’informazione che ricevono da medici e operatori del settore è che da questa scelta dipende il futuro del loro bambino. Io provo a spiegare loro, ma questo sarà un tema ricorrente in terapia, che

il bambino costruirà da solo il suo futuro, se noi gli creeremo le condizioni psicologiche che lo facilitano a farlo. Potranno scegliere l’approccio riabilitativo in cui si sentono più comodi, perché ho fiducia che quando iniziamo a lavorare saranno in grado di aggiustare la loro scelta in funzione del feed-back del bambino e mio. In questo approccio, infatti, non solo il bambino è visto come un sistema

complesso, ma come afferma la teoria dei sistemi (von Bertalanffy, 1940) è inserito in sistemi più ampi, in questo caso la famiglia e il nuovo sistema logopedico che si è creato, formato dal bambino, la sua famiglia ed il logopedista. Se ad esempio il bambino non risponde affatto agli stimoli uditivi, il

genitore che ha fatto una scelta orale può modificarla, utilizzando una ricca gestualità per non perdere il contatto comunicativo con il proprio bambino. Il cambiamento nel sistema sarà caratterizzato dalla circolarità (O’ Leary,

1999), infatti basta che cambi un elemento perché tutto il sistema subisca una riorganizzazione. Poiché il bambino viene portato in terapia dai genitori, trovo molto

importante organizzare un setting ben strutturato per tranquillizzare tutti. Se il bambino è molto piccolo si siede su un tavolo di fronte a me.

Solitamente i logopedisti siedono i bambini molto piccoli sul seggiolone, ma io trovo che in questa posizione siano troppo sacrificati nei movimenti; d’altronde lasciarli liberi sul tappeto renderebbe ancora più arduo il compito

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di attirare la loro attenzione visiva, premessa indispensabile per la riabilitazione. Mi sembra che sul mio grande tavolo si trovino in una situazione di

“libertà vigilata”. La mamma si siede a fianco del bambino, in modo da rassicurarlo, ma in una posizione di secondo piano per non distrarlo dal contatto visivo con me. Non funziona la posizione alle spalle, perché il bambino si girerebbe continuamente. In caso ci sia il papà e un fratellino si siederanno tutti intorno al tavolo. Ogni terapia prevede un lavoro sul piano fono-acustico e su quello cognitivo linguistico. Generalmente si inizia con l’allenamento uditivo per portare il bambino al

massimo dello sfruttamento protesico e con la stimolazione fonologica per insegnargli a pronunciare suoni, parole, frasi e discorsi della lingua. Nella seconda parte della terapia si propone gioco libero o racconto di

storie con proposta di libri adeguati all’età del bambino. Si può variare l’ordine di presentazione ma, salvo rare eccezioni in cui il

bambino si trova in un momento di crisi, ogni terapia è strutturata così. Rogers afferma che l’autorità non è compatibile con il rapporto terapeutico

(Rogers, 1940), ma nel caso del rapporto logopedico possiamo parlare di un rapporto ben strutturato, ma flessibile. Una dimostrazione di come il bambino introietta la struttura del setting è

quando non riusciamo per motivi di tempo a svolgere un’attività, ad esempio leggere un libricino, ed il bambino, prima di andare via, va a prendere il suo libro preferito, come se gli mancasse un pezzo di “copione”. Come abbiamo visto, fanno parte del setting la mamma, a volte il papà o la

nonna, fratellini o amici. Questo rende il lavoro del logopedista più complesso e difficile, ma io

credo che tenere le persone che interagiscono con il bambino presenti alla terapia, permette di raggiungere nella maniera migliore e nel tempo più breve l’obiettivo di fornire strumenti adeguati per comunicare con lui. Infatti, come abbiamo detto, spesso i genitori che scelgono il metodo

bimodale sono contrari alla lingua dei segni, pertanto è fondamentale la loro presenza in terapia, perché possano apprendere almeno i segni usati dal logopedista come supporto alla proposta vocale per potere riattivare il canale comunicativo interrotto o deficitario con il loro bambino.

Il contratto In un approccio logopedico così strutturato chi è il cliente? Se è vero che il

logopedista lavora con il bambino, è anche vero che sono i genitori che lo portano in logopedia e scelgono il modello riabilitativo da utilizzare, sono inoltre coinvolti sia nel corso della terapia, ad esempio durante il gioco, che fuori in quanto sono invitati a riproporre in situazioni più ecologiche i concetti presentati nella seduta logopedica. Spesso esprimono emozioni e sentimenti, piangono, ridono, si arrabbiano,

giustificano il loro bambino o lo sgridano.

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All’inizio quindi il contratto si fa con i genitori, ma è importante farlo in seguito con il bambino, che progressivamente deve giungere alla consapevolezza del suo problema e a dare un significato al lavoro che sta facendo (Rogers, 1969). Non possiamo parlare di libertà nell’apprendimento perché, come abbiamo

detto, per un bambino portatore di una sordità profonda imparare a parlare è così faticoso e difficile che, almeno nei primi anni di vita, a volte oppone un rifiuto, ma sicuramente lo si può portare a comprendere che la lingua vocale è il mezzo di comunicazione privilegiato nell’ambiente in cui vive ed a motivarlo ad apprenderla. Quando si inizia la terapia con i bambini molto piccoli lo strumento più

adeguato per stimolarli è il gioco. Esiste però la possibilità di un rifiuto anche se il logopedista lavora tramite il gioco. Questo può significare sia che il bambino sta vivendo una situazione di disagio che ostacola la relazione sia che, a causa di una perdita uditiva gravissima, le frustrazioni causate dai continui insuccessi nel tentativo di parlare portano il bambino a chiudersi in se stesso e a rinunciare. In queste situazioni si rende necessaria una ristrutturazione del sistema

logopedico. Il feed-back del bambino deve essere lo stimolo per il cambiamento dei genitori e del logopedista, che dovranno riesaminare quali sono i loro obiettivi in quel momento.

I limiti terapeutici In genere una seduta di logopedia con i bambini in età pre-scolare dura

quarantacinque minuti; con i bambini più grandi si può passare ad un’ora, o anche due, se si svolge anche un lavoro a sostegno dell’apprendimento scolastico. Ho difficoltà a fare rispettare il tempo ai bambini molto piccoli, anche se

mi sembra che quando prolungano i saluti lo facciano per mettere alla prova la mia disponibilità. Sono solita offrire ai bambini cose buone da mangiare in momenti precisi

della terapia. Per i bambini che non sono ancora abituati a stare fermi sul tavolo e vorrebbero circolare liberamente per la stanza tirando fuori tutti i giochi, io propongo una passeggiata in braccio a me per andare in cucina a mangiare un pezzetto di cioccolata. Non li faccio scendere per passare il messaggio che stare sul tavolo è una regola in terapia. Mi è capitato durante la supervisione a giovani colleghi di verificare la difficoltà a fare rispettare questa regola; ma spesso ho scoperto che l’errore era del logopedista, che a volte faceva le sue proposte a terra sul tappeto e a volte sul tavolo, inviando al bambino un messaggio contraddittorio. Il risultato era sempre un bambino irrequieto e disattento con cui era difficile lavorare. Alla fine della terapia offro sempre un piccolo rinfresco: biscotti,

cioccolata, acqua frizzante, spremuta d’arancia, prosciutto o formaggio, a scelta.

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È in questo momento che i più piccoli assumono un atteggiamento da “padroni di casa”, corrono dallo studio alla cucina, si siedono sugli sgabelli, come fossero al bar, e mi chiedono più cose contemporaneamente. Ad esempio due bambini di circa tre anni pretendono sempre prima di andare via “acqua, biscotto e cioccolata” e, poiché questo momento è vissuto come una piacevole routine, si svolge come un rito e se per qualche motivo non c’è il tempo di seguire il copione così come sono abituati, si arrabbiano, sono delusi, si sentono traditi, non accettati, scatta la gelosia per il bambino che prende il loro posto. Per questa ragione io tendo ad assecondare i piccoli quando si prendono il loro tempo, ma cerco di organizzare la seduta terapeutica in modo da fare rientrare ogni cosa nel tempo giusto. Con i bambini più grandi ed i ragazzi il problema tempo si ripropone,

poiché al cambio della terapia interagiscono con gli amici che vengono dopo di loro e a me non piace interromperli. Non dimentichiamo che le persone di cui stiamo parlando vivono spesso situazioni di isolamento nel mondo degli udenti, anche nella loro famiglia, in quanto solo il 5% dell’1 per mille di bambini che nascono sordi hanno genitori sordi. Il contatto con chi ha lo stesso problema è importantissimo per la crescita

e per il raggiungimento di una identità personale. Alcuni pensano che non sia opportuno favorire l’incontro fra persone sorde, perché temono che questo nuocerebbe all’apprendimento ed a un buon uso della lingua vocale, ma io credo che sia veramente triste pensare di essere gli unici sordi in un mondo di udenti. La mia esperienza mi insegna che fin da quando sono piccoli i bambini

sordi sono sensibili alla loro diversità. Basti pensare che quando metto insieme due o più bambini per una terapia, la prima cosa che guardano è l’apparecchio acustico dell’amichetto e mi fanno il segno “UGUALE”. Mi sembra così importante questo comportamento che, quando i bambini fanno una terapia individuale, io coinvolgo sempre due finti compagni di gioco, due bambole, Anna e Ciccio Bello, che indossano una un paio di protesi e l’altro un impianto cocleare. Per questo motivo posso considerare i minuti a cavallo fra due terapie

come parte delle terapie stesse, fondamentali per lo scambio e l’interazione fra pari. C’è ancora una possibilità che può condurre ad un mancato rispetto del

tempo: quando i genitori, già sulla porta, esprimono sentimenti di dolore, preoccupazione e ansia in merito a eventi che si sono verificati in terapia o fuori. In questo caso mi risulta molto difficile interromperli, ma in questo caso il problema è mio, perché so che rispettare il tempo non può che giovare all’organizzazione interiore, sia mia che dei genitori. Tratterò in maniera più approfondita questo argomento nel paragrafo

sulla congruenza del logopedista. La limitazione dell’affetto è un problema molto serio da affrontare nella

logopedia dei bambini sordi. Se si pensa che l’iter riabilitativo di questi bambini può durare anche dodici anni è facile capire come si instauri un rapporto profondo, non solo fra bambino e logopedista, ma anche fra questo e i genitori del bambino.

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Rogers afferma che «i sentimenti di stima e di amore non sono affatto pericolosi nei rapporti interpersonali: al contrario essi hanno un ruolo fondamentale nella maturazione psicologica di chi li dona e di chi li riceve» (Rogers, 1969). Ma in un rapporto terapeutico in che misura possono entrare questi

sentimenti? Io credo che il problema non sia provarli, l’importante è essere in ogni

momento consapevoli di come risuonano in noi stessi. Un logopedista non dovrà sentirsi genitore, né mai sostituirsi alle figure

parentali, ma questo non significa che non possa volere bene al bambino a cui insegna a parlare e manifestargli l’affetto che prova. Anche con i genitori si instaurerà un legame affettivo, che dovrà rispettare

le stesse regole di quello col bambino.

L’espressione dei sentimenti Quando parliamo di libera espressione dei sentimenti ci riferiamo non

soltanto al bambino e al logopedista, ma anche ai genitori che sono coinvolti nel processo educativo. Per comprendere la natura di questi sentimenti mi viene in mente quello

che diceva uno dei miei allievi che, ormai grande, definiva scherzando, ma non troppo, il mio studio “la stanza del dolore”. Nel caso del bambino sordo si pone il problema di come aiutarlo ad

esprimere liberamente emozioni e sentimenti quando ha una competenza linguistica limitata. Infatti al termine della riabilitazione logopedica possiamo avere bambini sordi che parlano più o meno bene. Creare un clima facilitante in questo caso significa anche mettere a punto

un codice comunicativo agevole per il bambino; non possiamo parlare di accettazione positiva incondizionata o di empatia se non siamo disposti a condividere, almeno in alcune parti della terapia, una comunicazione che utilizzi il canale preferenziale per un bambino sordo che non parla bene, quello visivo-gestuale. Come abbiamo detto, mettere una protesi acustica ed imparare a parlare

non restituiscono la normalità a chi ha una sordità grave o profonda. Neanche un impianto cocleare compie il miracolo di rendere una persona sorda udente. Chi ha una grave perdita uditiva, anche se ha avuto una riabilitazione efficace, può continuare ad avere difficoltà nelle relazioni, ad esempio nelle comunicazioni di gruppo, a scuola o al ristorante. Alcuni ragazzi che parlano bene possono avere difficoltà con la lingua

scritta con i conseguenti problemi nell’apprendimento scolastico. Nel caso delle persone sorde si pone dunque un duplice problema: da una

parte creare un clima che li faciliti ad esprimere i loro sentimenti, dall’altra dare loro gli strumenti per farlo. L’educazione alla lingua vocale che ho descritto prevede un ampio uso

della comunicazione extra-verbale, codificata e non. Quando le parole non

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sono sufficienti offro ai miei allievi la possibilità di cognitivizzare le loro emozioni attraverso i “segni”. Con i più piccoli le due modalità principali sono il gioco e la

drammatizzazione e l’uso di un codice gestuale, che utilizza il canale visivo-gestuale e tutto il corpo per comunicare. Per i bambini in età scolare ho messo a punto due modi diversi a seconda

delle abilità verbali. Per chi ha difficoltà a parlare propongo un “bollettino meteorologico

disegnato”. Ad esempio se vedo il bambino arrivare triste, disegno il viso di un bambino che piange e dico con il supporto dei segni e dell’espressione facciale “il bambino piange”. Riporto qui di seguito la trascrizione di alcuni bollettini, cercando di

essere fedele a quanto diceva il bambino, ma traducendolo in una forma intelligibile.

Bollettino di A. 12 febbraio 2004

L. Come sta il bambino oggi? B. Male. L. Triste. B. Piange perché non è andato a scuola. La mamma telefona al dottore e va

a comprare la puntura. Lui ha paura, fa male. Non vuole lo sciroppo e lo vomita perché non gli piace. Prova la febbre, ce l’ha non può andare a scuola. Il bambino piange, perché deve fare la puntura e si deve operare. Lui dorme, non può parlare, perché non funziona il cuore. Parla senza voce, perché ha levato l’apparecchio. La mamma piange per il bambino. Ancora dorme. Il dottore ha detto “Fai i segni, senti e alzi la mano!” Alla fine va a scuola, gli piace, è contento. Capisce, scrive, è bravissimo. Lui si vergogna diventa rosso (forse intende che prima si vergognava). Lui è furbo e vince tutti i giochi. Il bambino di questo bollettino, oltre ad una sordità profonda, ha una

disfasia dell’età evolutiva e non si esprime bene né vocalmente, né gestualmente, quindi per lui è molto difficile esternare il suo mondo interiore. È altrettanto complicato per me mettere etichette alle sue espressioni incomplete e spesso poco chiare. Per questo motivo ho scelto esclusivamente di ascoltarlo, con un raro rimando di sentimenti, solo quando sono sicura di avere capito; ma ho notato che già solo il fatto di ascoltarlo ha sul bambino un effetto terapeutico. Nel caso di due bambine che invece parlano abbastanza bene e quindi

lavorano essenzialmente sulla lingua scritta, ho adottato una strategia che fornisce la doppia opportunità di esprimere emozioni e sentimenti e, nello stesso tempo, imparare a leggere e scrivere piacevolmente: inventiamo e disegniamo storie insieme. Ecco un esempio di due brevi storie che io ho proposto partendo da un

vissuto di cui sono venuta a conoscenza dalla maestra e dalla mamma: la bambina dice che non vuole andare a scuola perché è stanca.

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Dico a C. che racconteremo la storia di un topolino stanco e le chiedo dove

la vogliamo ambientare(Dove sta Topolino?). C. subito disegna una casa (se avesse chiesto di disegnare a me, io l’avrei assecondata) e comincia a raccontare una storia che io scrivo e le rileggo. Nella storia se i personaggi parlano possiamo decidere di fare dei fumetti nei quali io propongo alla bambina, se vuole, di scrivere qualcosa di molto semplice. Se la bambina non vuole, scrivo io in stampato maiuscolo in maniera che possa leggere. In questo caso la bambina ha chiesto a me di scrivere e lei ha disegnato. La storia è molto breve, in quanto la bambina esprime immediatamente la causa della sua stanchezza “ha lavorato tanto la sera per parlare” ed io ho preferito lasciare riposare il topolino e sono passata al gioco libero. Ho solo richiesto alla bambina la lettura del titolo della storia, che abbiamo deciso insieme, e che ho scritto in stampato maiuscolo: Buona notte topolino.

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Anche in questo disegno il problema è quello di non volere andare a

scuola, ma in questo caso la bambina esprime sentimenti di inadeguatezza, dolore e frustrazione. Ecco un altro esempio di un’altra bambina in cui si ritrovano la fatica di

parlare e il non volere andare a scuola, in quanto momento di confronto con gli altri bambini.

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Nel caso dei ragazzi più grandi l’espressione dei sentimenti è ancora più

difficile. Il mondo degli udenti impone alla persona sorda tanti “devi essere così” per essere accettata, che già molto giovane perde il contatto con il suo sé più profondo. In genere funziona anche in questo caso parlare di sé come fosse un altro. Riporto qui di seguito l’elaborato di un ragazzo sordo profondo di

quattordici anni. P. deve svolgere per la scuola il tema “Ti è capitato qualche volta di

soffrire a causa di una preoccupazione segreta, di un’idea fissa, di un’ansia ingiustificata, di una debolezza di cui ti vergognavi. Esponi come hai affrontato il problema e risolto le tue difficoltà”. P. Secondo me niente mi è capitato. L. Secondo te non ti è mai capitato niente, allora scriviamo una storia che è

capitata ad un altro. Una storia inventata. Faccio il seguente schema parlando e segnando. RAGAZZO SOFFRE -------------- MOTIVO Preoccupazione segreta Idea fissa Ansia ingiustificata Debolezza di cui ti vergognavi L. Non parliamo di te, puoi inventare. P. No, ma io ce l’ho qualche volta. All’inizio non mi viene, poi sì (intende

dire che prima ha detto che non gli era capitato niente, ma adesso ha qualcosa da dire). Secondo me mi è capitato qualche volta di soffrire a causa di (pensa) un’ansia ingiustificata.

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P. racconta un incidente successo alla sorella. La terapia finisce.

8 marzo 2004

Disegno un ragazzo che piange e su questo disegno P. verbalizza. P. Questo soffre per una preoccupazione segreta. A volte rimane tutto

incastrato, invece è meglio dire, come faccio con te o ai genitori, che ti possono aiutare. Invece questo ragazzo non dice, ha un segreto. Quindi lui dovrà dire ai suoi genitori il suo bollettino meteorologico, come te uguale (intende dire come fa con me) così loro possono aiutarlo. L. Vuoi dire che questo ragazzo soffre per una preoccupazione segreta,

qualcosa che rimane incastrato, che il ragazzo non riesce a dire, mentre dovrebbe dirlo ai suoi genitori, come fai con me, così loro potrebbero aiutarlo e invece non lo fa. P. No, perché è segreto. L. Lui piange, perché deve tirare fuori, perché è pieno e poi scoppia. Lui

vuole tornare alla felicità e non ci riesce, ci vuole un po’ di tempo. Lui soffre perché ha pochi amici ed è isolato (riprendo un discorso fatto un’altra volta).

10 marzo 2004

L. rilegge quello che ha scritto. P. Anni e anni, potevamo mettere quanti anni aveva, lui cerca di convincere

di cercare amici numerosi, un paio di amici. Questo parla dell’amicizia. Per caso non ci fossero i genitori, lui ormai è grande, così almeno un gruppo di amici possono andare a passeggio, dormire ecc. Quando i genitori muoiono, lui deve avere amici, non può tornare indietro, come da bambino. L. È preoccupato di restare solo, no adesso, quando sarà grande. P. In futuro. L. In futuro. P. Almeno può trovare una fidanzata, così stanno sempre insieme, fanno

figli, la famiglia è molto importante. Lui deve essere sempre gentile, mai cattivo, altrimenti nessuno ti vorranno. Lui può arrabbiarsi, ma su se stesso, non con gli altri, sennò non lo vogliono. L. No con gli altri. P. Sì, ma poco, sennò non lo vogliono. Così lui alla fine ha trovato

l’amicizia, la fidanzata e lui riesce a sorridere, perché lui all’inizio non sorrideva, perché era preoccupato e caccia fuori i sentimenti che lo fanno soffrire, solitudine, rabbia, preoccupazione ecc. Se lui fa una brutta figura, cioè se mostra questi sentimenti, le persone possono capire che questo ragazzo ha dei problemi e che i genitori non l’hanno educato. L. Scusa P., questo pensiero di stare solo da grande quando i tuoi genitori

non ci saranno, che non avrai amici, fidanzata, figli, una vita normale ci pensi sempre, è anche un’idea fissa che fa soffrire (non dimentichiamo che stiamo lavorando ad un tema per la scuola).

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P. Sì, questo. C’è anche non so se è una preoccupazione o un’idea fissa, comunque tu lo sai. Per esempio quando lui da grande, la sua vita cambia, deve cercare lavoro, non è facile, anche questo è un problema, se non guadagna. L. Quindi è preoccupato anche per il lavoro. P. Quello che gli piace. L. Scusa, lui è preoccupato di non trovare il lavoro che gli piace. P. Così alcuni amici lo aiutano e dicono “Non devi sbagliare lavoro, devi

scegliere bene!” L. Dici che se lui non sa bene, gli amici lo possono aiutare. P. Sì, se lo sà, va bene, sennò chiede consiglio. L. Stai dicendo che se mamma e papà non ci sono e non ha amici, chi lo

aiuta? È molto preoccupato, soffre è triste, anche un po’ disperato. (Poiché P. non conosce il significato di “disperato” L. glielo spiega utilizzando il segno che una forte espressione facciale (più che triste). P. Triste normale (non si è riconosciuto nella mia espressione facciale). L. Triste e senza fiducia (cambio espressione facciale), pensa che non sarà

mai felice. P. Sì, giusto. Si ricorda che la sua vita finora è stata una delusione e spera

che in futuro stia bene, anche la moglie (intende che troverà moglie). L. Lui vuole l’amore. P. Certo. L. Amore degli amici, della moglie. P. Anche figli. L. Scusa non so se ho capito bene. (Rilegge la parte finale) P. (Conferma) Lui ha avuto una vita brutta e vuole dimenticare. L. Lui spera che la sua vita diventerà bella. P. Sì, giusto. Lui ha i suoi limiti, ma vorrebbe, lui vuole. Lui non vuole

limiti, ma è impossibile. Tutti quanti, la famiglia, si abbracciano, perché la vita sta quasi per finire (dopo aggiunge che significa che sta invecchiando e che poi muore) e i figli sono già grandi, il tempo passa anni, anni, anni. L. È molto preoccupato del tempo che passa. P. No, è normale. L. È normale diventare grandi. P. Sì, come voi (io e la mamma). E tutti gli vogliono bene, genitori, moglie,

amici e figli. Basta, fine. Da questo tipo di lavoro (disegno, bollettino sotto forma grafica e gestuale

e racconto di storie con segni e disegni) emergono una serie di sentimenti, che proverò ad elencare: PAURA DI NON ESSERE ADEGUATI, CONFRONTO CON GLI ALTRI Lui è

preoccupato di non trovare il lavoro che gli piace. Le persone possono capire che questo ragazzo ha problemi. Non vuole limiti, ma è impossibile. PAURA DEL FUTURO, DI NON ESSERE IN GRADO DI AFFRONTARLO DA

SOLI Quando i genitori muoiono lui deve avere amici, non può tornare indietro, come da bambino. Almeno può trovare una fidanzata, così stanno

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sempre insieme, fanno figli, la famiglia è molto importante. E’ piccola, non sa più scrivere. Stavo così (posizione fetale). ESIGENZA DI RISPONDERE ALLE ASPETTATIVE DEGLI ALTRI PER ESSERE

ACCETTATI: DI SAPERE PARLARE, SENTIRE, ESSERE BRAVI A SCUOLA, ECC. Lui deve essere sempre gentile, mai cattivo, altrimenti nessuno ti vorranno. Il bambino cattivo non diceva le parole bene. I bambini danno fuoco al bambino cattivo. Il bambino cattivo era morto. Lui dorme, non può parlare, perché non funziona il cuore. SENSO DI COLPA La mamma piange, perché il bambino non cresce.

Mamma è triste, perché Anna non c’era mai più. Parla senza voce, perché ha levato l’apparecchio, la mamma piange. STANCHEZZA E FATICA La mamma l’ha vestito così, con la pelle nera, la

gonna coi sassi e ha i capelli lunghi. Non vuole lavorare e non vuole andare a scuola. Vuole lavorare nell’erba, perché i bambini che hanno i sassi nella pancia hanno la casa nell’erba. Topolino dorme, è stanco, perché ha lavorato tanto la sera per parlare. AGGRESSIVITA’ E PAURA DI PROVARLA Il bambino si è ferito dando una

botta al papà. Il papà era morto, il bambino lo aveva ucciso con la pistola. Il bambino cattivo è morto. Il bambino spara alla televisione mentre i genitori la guardano e si nasconde dietro una tenda. SENTIRSI MALATI Triste,male, perché ha la febbre. Non deve uscire fuori a

scuola, l’ha detto il dottore. Deve fare la puntura, si deve operare. SENTIRSI ISOLATI Lulù spara alla televisione, che mamma e papà stanno

guardando. Federica ha preso la bambola e ha detto che non è di Lulù. Lulù è disperata (perché non si sa difendere). Sono arrabbiata e triste, perché la farfallona (una compagna di scuola) va con le altre compagne e con me no. I bambini stanno dentro a giocare, ma Susanna non gioca perché è stanca di giocare. C’era un cagnolino che piangeva, perché stava da solo. SENSO DI VERGOGNA E DI DIVERSITA’ Diventa rosso, si vergogna, perché

non è bravo, non sa fare i compiti. Era brutta la scuola. Tutti gli uccellini volano e questo non vola perché non è capace. SENSO DI FASTIDIO E MALESSERE La cosa che punge il bambino

dappertutto e il fiore con i denti che lo morde. IMPOSSIBILITA’ DI ESSERE SE STESSI Il dottore ha detto: “A scuola mai più!”

Lui va quando grande a lavoro. Lui lavoro è brava. Lui ha fatto solo la macchina aggiusta.

La congruenza del logopedista

La relazione logopedica è così ricca di emozioni e sentimenti, che è richiesto al logopedista un continuo ritorno su se stesso, su cosa sta provando, per essere consapevole di cosa fanno riecheggiare nel proprio sé alcuni comportamenti del bambino o dei genitori. Abbiamo visto quali sono i sentimenti più ricorrenti nei bambini e nei ragazzi sordi, ora proverò a descrivere quelli che provo io nei confronti del bambino e dei genitori.

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Rapporto logopedista-bambino

Provo ad elencare i sentimenti che provo quotidianamente nei confronti dei bambini che tratto in terapia: AMORE PIACERE NELLA CONDIVISIONE DEI SUCCESSI SENSO DI COMPLETEZZA E APPAGAMENTO FIDUCIA NELLE LORO POSSIBILITA’ MERAVIGLIA DIVERTIMENTO ALLEGRIA IMPAZIENZA DOLORE RABBIA FRUSTRAZIONE ANSIA DA PRESTAZIONE Penso di potere affermare che quando vedo un bambino per la prima volta,

anche se molto piccolo e con problemi seri oltre la sordità, anche se si presenta come un palloncino sgonfio in braccio ai genitori, io lo percepisco come una persona con la quale posso mettermi in contatto. Non c’è pietà dentro di me, ma fiducia di potere instaurare una relazione e crescere insieme. Il sentimento di meraviglia è collegato a più aspetti del bambino; prima di tutto alle sue grandi risorse, alla genuinità e alla sua unicità. Uno dei più grandi piaceri nel mio lavoro è quello di imparare con i bambini, scoprendo che ogni apprendimento è diverso, anche se l’argomento è lo stesso. Mi capita spesso che chi assiste alle mie terapie mi chieda: “Ma non ti stanchi di fare sempre gli stessi giochi?”. Ed io rispondo che non faccio mai lo stesso gioco, perché ogni bambino è diverso, io sono diversa in relazione al bambino e anche la situazione è ogni volta diversa. Ad esempio nel gioco degli incastri ogni bambino arriva ad un punto in cui fa finta di sbagliare: mette il pezzo in tutti i posti sbagliati e solo alla fine in quello giusto ed io sottolineo questo comportamento con un “No!” esagerato dall’espressione facciale per ogni errore ed un “Sì!” felice alla soluzione. Faccio questo gioco da circa trenta anni e non so quanti bambini ho visto comportarsi in questo modo, ma non ho mai provato un momento di noia, anzi vivo con gioia e divertimento la soddisfazione del bambino di essere così sicuro di avere imparato da poterci scherzare. Rogers dice che gli individui sono per lui come tramonti uno spettacolo perfetto, che non vorremmo mai modificare, ma solo seguire con rapimento mentre si svolge davanti ai nostri occhi (Rogers, 1969). Penso di provare un sentimento simile di fronte ai bambini che vedo come tanti tramonti diversi l’uno dall’altro.

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Ho parlato dei sentimenti piacevoli. Tra quelli spiacevoli i più frequenti per me sono: RABBIA IMPAZIENZA IMPOTENZA FRUSTRAZIONE ANSIA DA PRESTAZIONE Non mi abbandono al dolore e alla pietà, perché mi renderebbero passiva.

Se il bambino fallisce dopo numerosi tentativi, preferisco provare rabbia, piuttosto che pensare “Non ce la fa!” Ho capito che la mia rabbia è collegata al sentimento di impotenza, al vedere limiti che non voglio accettare. In questo caso è molto importante condividere e fare capire al bambino che questi sentimenti sono determinati da comportamenti e non significano un rifiuto della sua persona. A questi sentimenti è legata la frustrazione, un sentimento veramente pericoloso, perché il bambino lo percepisce immediatamente come un messaggio di sfiducia nei suoi confronti. Per questo motivo è importante condividere sempre con il bambino la responsabilità dell’insuccesso. Io provo l’ansia da prestazione nei confronti di me stessa quando penso di

non avere lavorato bene o abbastanza, ma anche in questo caso mi è sufficiente essere consapevole di provare questo sentimento per ritrovare la calma.

Rapporto logopedista- genitori Nel sistema logopedico i clienti più difficili sono sicuramente i genitori. I

loro sentimenti di dolore, ansia, preoccupazione, sfiducia, competitività e aggressività sono di difficile gestione, soprattutto quando emergono durante la logopedia del loro bambino. Riporto qui di seguito la trascrizione di una terapia in cui il genitore ha

ostacolato il lavoro del logopedista. P. è un bambino di due anni ed arriva in logopedia, accompagnato dalla

mamma, visibilmente nervoso e con un atteggiamento di sfida. Il logopedista sa che in queste situazioni è meglio non incontrare il suo sguardo fino a quando non prende posto sul tavolo. Altrimenti la prima sfida sarebbe proprio non salire. Il logopedista prende un gioco, ma capisce dall’espressione facciale del bambino che non gli piace, forse perché troppo impegnativo. Il bambino si sdraia sul tavolo, distoglie lo sguardo e mette in atto una serie di provocazioni. Il logopedista decide di fare sedere la mamma più lontano vedendo che la sua ansia sta crescendo e che il bambino la avverte manifestando un attaccamento regressivo nei suoi confronti, odora i suoi capelli e si ciuccia il dito.

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Quando la mamma si alza, il bambino fa una serie di capricci. La mamma è sempre più agitata, vorrebbe consolarlo o forse sgridarlo, avverto un disagio nei miei confronti, mi sembra che l’unica soluzione sia farla uscire. Il bambino aumenta i suoi capricci, tenta di farsi venire conati di vomito e

vuole scendere dal tavolo. Con un grande sforzo fisico e psichico lo contengo. Mi sento arrabbiata per un comportamento ingiustificato, ma appena contatto la mia rabbia torno tranquilla. Prendo energicamente il bambino per mano e lo porto al bagno dove gli

sciacquo la faccia più volte, fino a che non smette di piangere. Tornati nello studio, provo a capire il motivo del suo nervosismo. Il bambino conosce poche parole, ma con i segni riesco a comunicare con lui e scopro che è arrabbiato perché, invece di andare a scuola come tutti i giorni, la sorellina è rimasta a casa con il papà. È evidentemente geloso ed io lo sottolineo con il segno che esprime questo sentimento in maniera chiaramente espressiva. Il bambino, sentendosi capito e accettato, si calma. Io prendo un altro

gioco, ma non il suo preferito, per sottolineare una mediazione nel nostro rapporto ed il bambino comincia a giocare tranquillamente con me. Terminata la terapia, arriva la mamma, che mi conferma di avere capito

quello che il bambino mi ha comunicato. Sono quindi molto contenta della fiducia dimostratami dal bambino nel comunicarmi i suoi sentimenti, ma la mamma lo prende in braccio e lo consola come se io fossi stata cattiva e lo avessi punito mandandola via. Comportamenti di questo tipo sono molto frequenti nei genitori. Sembra

che vogliano riservarsi il ruolo di “buoni”, attribuendo a me quello di “cattiva”. Il sentimento di rabbia per l’interferenza nel mio lavoro, così faticoso, l’ho

condiviso con la mamma in un colloquio che le ho fissato successivamente, in cui abbiamo ridefinito i nostri obiettivi, il rispetto e la fiducia reciproci. È facile in questi casi provare risentimento per i genitori e attribuire loro la

colpa degli insuccessi dei figli. Bisogna però ricordare che “l’alleanza con i genitori” è fondamentale nel sistema logopedico e questa è possibile solo tramite la loro accettazione come persone, non identificandoli con i loro comportamenti e con un atteggiamento empatico nei loro confronti. La condizione perché questo si verifichi è l’assoluta onestà del logopedista

con se stesso e con i suoi clienti. Il dolore e la pietà, che non provo per i bambini, sono spesso presenti nel

mio rapporto con i genitori, forse perché mi identifico più facilmente con loro. Di fronte ad un bambino sordo e plurihandicappato io lavoro con piacere e

fiducia, ma se la mamma piange e dice di sentirsi in colpa e di non sapere cosa aspettarsi dal suo bambino, io provo dolore, forse perché per me è più facile avere fiducia nei bambini, che negli adulti. Per questo motivo è molto importante conoscersi ed essere a contatto con

i propri bisogni, emozioni e sentimenti, per evitare di ascoltare noi stessi, invece di chi ci sta di fronte.

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Solo in questo modo è possibile costruire un rapporto di fiducia anche con i genitori, accettandoli ed aiutandoli a comprendere meglio se stessi ed i loro bambini.

Conclusioni

Ho iniziato questo lavoro con un interrogativo: quali caratteristiche deve avere un intervento logopedico con i bambini sordi gravi e profondi perché possa considerarsi una relazione d’aiuto centrata sulla persona? Allo scopo di rispondere a questa domanda ho riesaminato la mia

professione ed ho cercato di elaborare un modello di intervento che faciliti la crescita di questi bambini nel rispetto delle condizioni descritte da Rogers, un modello che potremmo chiamare “Metodo Bimodale Centrato sul Bambino”, in quanto ho portato all’interno del mio intervento riabilitativo i principi fondamentali dell’approccio rogersiano. Per favorire la crescita ed il cambiamento ho proposto un lavoro che aiuti

il bambino a comprendere il motivo della terapia logopedica accettando i suoi limiti, ma arrivando anche alla consapevolezza dei suoi punti di forza. A tale scopo ho esaminato i sentimenti che emergono nel processo

logopedico e ho individuato alcuni strumenti per esprimerli, anche senza saper parlare o con una competenza linguistica limitata, sottolineando che, anche solo ascoltare, mostrando interesse e voglia di capire, ha un effetto terapeutico per il bambino sordo che non sa esprimersi bene. Ho individuato un sistema logopedico, formato da logopedista, genitori e

bambino tra cui si instaura un’alleanza trasparente, basata sulla fiducia nella possibilità di essere se stessi, di potere esprimere liberamente emozioni e sentimenti e di potere sbagliare, perché tutto può essere modificato. Considero la congruenza del logopedista la base dell’intero processo di

riabilitazione. La trasparenza del logopedista genera fiducia e la sua voglia di “esserci completamente” genera altrettanta voglia di presenza da parte del bambino. In una logopedia centrata sulla persona il logopedista è aperto alla

debolezza, innanzitutto alla propria e, esprimendola, permette al piccolo cliente di sentirsi libero di manifestare la sua e di accettarla. La congruenza permette altresì al logopedista di accettare il bambino

sordo grave e profondo per quello che è e di aiutarlo nella crescita, non seguendo le aspettative dell’ambiente ma rispettando il suo progetto interno. La congruenza inoltre favorisce l’empatia del logopedista disposto ad

accettare la comunicazione anche gestuale tipica del modo di essere sordo, quindi aiuta la persona sorda ad essere a sua volta più congruente e più efficace nella costruzione della propria esistenza e nella promozione del proprio benessere.

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