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1 JONAS ONLUS - CORSO DI SPECIALIZZAZIONE SULLA CLINICA DEI NUOVI SINTOMI 4 giugno 2011 Jonas Roma L’intervento a orientamento psicoanalitico nelle scuole Appunti Benedetta Silj Riassumerò brevemente alcuni presupposti con cui Jonas concepisce l’intervento di prevenzione nelle scuole – che sono presupposti di matrice psicoanalitica - e poi vi proporrò alcune riflessioni che si combinano con questa matrice e che sono ispirate da ambiti ulteriori a quello psicoanalitico. In particolare vedremo attraverso alcuni autori - filosofi, sociologi, poeti - come il discorso educativo sia intrecciato a quello epistemologico etico ed estetico e come la psicoanalisi possa rappresentare oggi una forza sociale molto importante per spostare alcuni paradigmi non solo socio- culturali ma anche epistemologici e per allestire le condizioni di un ascolto che possa aprire una ferritoia nella tirannia dei consumi e dei saperi standardizzati. Jonas nelle scuole: de- ipnotizzare i ragazzi dal dettato seriale Mi sembra che per Jonas l’intervento nelle scuole sottende un’idea delle prevenzione che rivendica fondamentalmente:

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JONAS ONLUS - CORSO DI SPECIALIZZAZIONE SULLA CLINICA DEI NUOVI SINTOMI

4 giugno 2011

Jonas Roma

L’intervento a orientamento psicoanalitico

nelle scuole

Appunti Benedetta Silj

Riassumerò brevemente alcuni presupposti con cui Jonas concepisce l’intervento di prevenzione nelle scuole – che sono presupposti di matrice psicoanalitica - e poi vi proporrò alcune riflessioni che si combinano con questa matrice e che sono ispirate da ambiti ulteriori a quello psicoanalitico. In particolare vedremo attraverso alcuni autori - filosofi, sociologi, poeti - come il discorso educativo sia intrecciato a quello epistemologico etico ed estetico e come la psicoanalisi possa rappresentare oggi una forza sociale molto importante per spostare alcuni paradigmi non solo socio-culturali ma anche epistemologici e per allestire le condizioni di un ascolto che possa aprire una ferritoia nella tirannia dei consumi e dei saperi standardizzati.

Jonas nelle scuole: de- ipnotizzare i ragazzi dal dettato seriale

Mi sembra che per Jonas l’intervento nelle scuole sottende un’idea delle prevenzione che rivendica fondamentalmente:

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• La necessità di sparigliare l’impatto monolitico e omogeneizzante dell’informazione scientifica di tipo statistico- quantitativo-spettacolare- mediatico

• L’importanza di creare spazi di decompressione in cui l’istanza tecnico-informativa lasci il posto alla parola sorgiva dei ragazzi, ma anche degli insegnanti e dei genitori.

• L’urgenza di creare format dell’ascolto all’interno della scuola che possano elicitare la partecipazione dei ragazzi senza per questo dover somigliare ai format dell’intrattenimento televisivo e virtuale (non paternalismo e non adescamento)

• L’introduzione dunque di tematiche scelte con un criterio di non omologazione ai linguaggi degli esperti e dei media, per contrastare l’adesione al mito acefalo delle “parole-chiave” e delle etichette diagnostiche (non si parla, per esempio, di “disturbi del comportamento alimentare”, né di “ricette” ma di bellezza-immagine-amore in un’ottica di investigazione che predilige la domanda alla risposta-soluzione pre-confezionata). Questo per due ragioni almeno: evitare di “suggerire” comportamenti patologici identificatori; far partecipare – esprimere i ragazzi sulla base della loro storia-biografia esperienza e non a partire da linguaggi ed etichette predefinite.

• L’urgenza di valorizzare – attraverso un ascolto non istruttivo - direttivo -il contributo e l’espressione della particolarità soggettiva (a fronte del conformismo incoraggiato dal discorso sociale)

• Fare spazio, accogliere, abilitare, legittimare la dicibilità della fragilità soggettiva ed esistenziale: onde integrare l’esperienza del limite con quella del desiderio come condizione della progettualità.

Perché è proprio la psicoanalisi a pensare un intervento di prevenzione così attento, rispettoso e focalizzato sul sapere dei soggetti rispetto ai protocolli vigenti che sono focalizzati sul sapere degli esperti? Perché la psicoanalisi non ha l’obiettivo di normalizzare nessuno. Anzi è forse l’unico interlocutore sociale delle persone in sofferenza che è molto desideroso di sedersi con il sintomo a bere un tè e ad

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ascoltarlo. Alla psicoanalisi interessa la storia particolare e umana sottesa al sintomo, ovvero la psicoanalisi applicata al sociale ha come presupposto dei suoi progetti la questione del soggetto dell’inconscio. Dunque la psicoanalisi di ispirazione lacaniana e applicata da Jonas nelle scuole elabora un intervento che non ha tra le sue finalità la normalizzazione degli studenti, la estirpazione ortopedica del problema, dell’inciampo, del deficit ma la scommessa piuttosto è di poter intercettare, grazie al deficit, grazie alla deviazione, un sapere più vasto dei soggetti su se stessi e dunque sulla loro più autentica progettualità, sia formativa che esistenziale.

Quindi per la psicoanalisi l’intervento di prevenzione in una scuola non è un intervento di normalizzazione e non è un intervento paternalistico ma è un intervento etico che interroga la particolarità del soggetto. Non c’è prevenzione educativa, per la psicoanalisi, se non c’è ascolto e riconoscimento dei soggetti. Non a caso Jonas lavora con gli studenti ma anche con gli insegnanti e anche con i genitori. C’è una visione trasversale della prevenzione, creare una atmosfera di ascolto e rivisitazione, riscrittura soggettiva delle dinamiche e dei problemi, individuali e relazionali, formativi e socio-culturali.

In questo senso credo che la psicoanalisi sia oggi una delle poche istanze sociali che sta incarnando una qualche funzione paterna sensata, non trionfalistica certamente, ma che nella sua mitezza e modestia può dirsi tuttavia lucidissima ed eticamente responsabile. Penso naturalmente a “cosa resta del padre” nei termini elaborati da Recalcati nel suo ultimo libro.

Però oggi pensavo di lavorare allargando con altre voci e vedere insieme questo tema in una polifonia. Che comprende ovviamente anche le vostre voci.

“Cosa resta del padre” rispetto alla dimensione del sapere

Comincerò con il leggervi una favola dei fratelli Grimm, che si intitola I 3 linguaggi. Ecco la fiaba.

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C'era una volta in Svizzera un vecchio conte che aveva un unico figlio, ma così stupido

che non riusciva a imparare nulla. Allora il padre disse: -Ascolta, figlio mio, per quanto io

faccia non riesco a cacciarti niente in testa. Devi andare via di qui; maestri insigni

proveranno a fare ciò che io non ho potuto-. Il giovane fu così mandato in un'altra città e

rimase presso un maestro per un intero anno. Trascorso questo periodo, tornò a casa e il

padre gli chiese: -Ebbene, che cosa hai imparato?- Il figlio rispose: -Babbo, ho imparato

quello che dicono i cani-. -Dio guardi!- esclamò il padre -è tutto qui? Devi andare in un'altra

città, presso un altro maestro.- Il giovane andò e, anche questa volta, vi si fermò un anno.

Quando ritornò, il padre disse: -Ebbene, che cosa hai imparato?-. Il figlio rispose: -Babbo,

ho imparato quello che dicono gli uccelli-. Allora il padre andò in collera e disse: -

Sciagurato. Hai perduto tutto quel tempo prezioso senza imparare nulla, e non ti vergogni

di comparirmi davanti? Ti manderò da un terzo maestro, ma se anche questa volta non

impari nulla, non voglio più essere tuo padre-. Così il giovane fu portato da un terzo

maestro presso il quale rimase un altro anno. Quando finalmente ritornò a casa, il padre

gli chiese: -Ebbene, che cosa hai imparato?-: -Caro babbo- rispose -quest'anno ho

imparato quello che gracidano le rane.- Allora il padre andò su tutte le furie, balzò in piedi,

chiamò la servitù e disse: -Quest'essere non è più mio figlio, io lo scaccio e vi ordino di

condurlo nel bosco e di ucciderlo-. Essi lo presero e lo condussero fuori, ma al momento di

ucciderlo ne ebbero pietà e lo lasciarono andare. Poi strapparono a un capriolo gli occhi e

la lingua e li portarono al vecchio come prova della sua morte. Il giovane si mise in

cammino e dopo qualche tempo giunse a un castello dove chiese asilo per la notte. -Sì-

disse il castellano. -Se vuoi pernottare laggiù nella seconda torre, va' pure, ma ti avverto

che rischi la vita: è piena di cani feroci che abbaiano e latrano senza tregua e, a ore fisse,

bisogna consegnare loro un essere umano che essi divorano subito.- Per questo, nella

zona, ognuno era in lutto e in grande tristezza, senza sapere tuttavia che cosa fare. Il

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giovane disse: -Lasciatemi andare da quei cani feroci e datemi qualcosa da gettare loro in

pasto; a me non faranno nulla-. Poiché‚ questa era la sua volontà, gli diedero un po' di

cibo per gli animali e lo condussero giù alla torre. Quando entrò, i cani gli scodinzolarono

amichevolmente intorno senza torcergli un capello e mangiarono ciò che egli mise loro

davanti. Il mattino seguente, con grande stupore di tutti, uscì sano e salvo dalla torre e

disse al castellano: -I cani mi hanno rivelato nel loro linguaggio perché‚ se ne stanno qua

ad arrecar danno al paese: sono stregati, devono custodire un gran tesoro nella torre e

non si cheteranno fino a quando non sarà dissotterrato. I loro discorsi mi hanno inoltre

rivelato come fare-. A queste parole tutti si rallegrarono, e il castellano disse: -Se riesci a

recuperare il tesoro, ti darò in sposa mia figlia-. Il giovane accettò l'impresa, disseppellì il

tesoro e i cani sparirono. Così sposò la bella fanciulla e vissero insieme felici. Dopo un

certo periodo di tempo i due si misero in viaggio per recarsi a Roma. Per via passarono

davanti a uno stagno in cui gracidavano delle rane. Il giovane conte capì quello che esse

si stavano dicendo, ed era triste e pensieroso, tuttavia non disse nulla alla moglie. Infine

giunsero a Roma: era appena morto il papa e, fra i cardinali, c'era grande incertezza su chi

dovesse essere designato come successore. Finalmente convennero che fosse eletto

papa colui che manifestasse un segno miracoloso della volontà divina. Avevano appena

preso questa decisione quando entrò in chiesa il giovane conte, e subito due colombe

bianche come la neve gli si posarono sulle spalle e là rimasero a sedere. Il clero riconobbe

in questo fatto il segno divino e, senza attendere oltre, gli domandò se volesse diventare

papa. Egli era esitante e non sapeva se ne fosse degno, ma le colombe lo convinsero ad

accettare e rispose di sì. Allora fu unto e consacrato, e così si compì quello che, con tanta

costernazione, egli aveva udito dalle rane per strada: che sarebbe diventato il Santo

Padre. Poi dovette cantar messa, e non ne sapeva neanche una parola, ma le due

colombe gli stettero sempre sulle spalle e suggerirono ogni parola che doveva dire.

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L’incipit della fiaba è molto interessante per il nostro tema di oggi. Fermiamoci alle

prime parole. C’era una volta un vecchio conte.

Ci troviamo di fronte ad una premessa socio-culturale che è fortemente sentita oggi

nella riflessione psicoanalitica e in particolare in quella di ispirazione lacaniana di

Jonas. Recalcati ha declinato in più contesti e libri questo tema della “evaporazione

del padre”, della eclissi della funzione paterna, in modo specifico e bellissimo nel

suo ultimo libro Cosa resta del padre.

L’incipit di questa fiaba richiama, a mio avviso, proprio lo scenario di una istanza

paterna di scarso carisma, superata, anacronistica, vetusta e in speciale modo

rispetto alla questione della formazione e dei saperi: prima di tutto ci troviamo di

fronte ad un conte, dunque non al solito re delle fiabe, che alluderebbe a funzione di

modello esemplare e portatore di ideali assoluti; il conte è invece un titolo tutto

sommato marginale, un blasone poco decisivo nella gerarchia nobiliare, poco

influente sulla trasmissione dei valori e dei modelli. Inoltre è vecchio. E’ vecchio e

dunque, in questo contesto della favola che porta la questione della formazione del

giovane, legato al passato, non rilevante per la progettualità, nonostante il titolo gli

conferisca ancora una qualche velleitaria arroganza.

Teniamo a mente, inoltre, che non c’è una figura femminile materna, non c’è una

contessa, e c’è un unico figlio. E tutta la fiaba verte sulla questione della

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trasmissione del sapere. Ovvero il conte è alla prese con la questione

dell’educazione e della formazione del figlio e rispetto a questa questione egli è solo

con il suo vecchio patrimonio culturale maschile: non c’è una trasmissione

femminile sul sapere (manca la figura materna) e c’è un unico figlio (isolamento e

solitudine del figlio rispetto a queste vecchie istanze e pressioni educative). La fiaba

inizia quando il conte, come accade ad alcuni genitori anche oggi, crede di averle

tentate quasi tutte ed è molto deluso dagli insuccessi ”scolastici”del figlio. E’ un

figlio che non impara nulla! Abbiamo dunque un paterno che può riconoscere il figlio

solo a partire dal livello delle sue prestazioni formative nel campo del sapere

ripetitivo, conformista. Il figlio è “stupido” perché non impara niente. Un retaggio

culturale molto più presente, nel tessuto della nostra società, di quanto possiamo

credere e illuderci.

Come molti genitori fanno in questi casi, il conte pone sul cammino del figlio l’ultima

ambivalente chance: l’allontanamento da sé (inteso come rifiuto di ciò che il figlio è)

e il maestro esterno di fama (l’acquisto delle competenze, la condizione per essere

riconosciuto come figlio). L’allontanamento della fiaba per me segnala proprio la

natura dis-conoscente e maledicente di questo tipo di paterno e i maestri esterni

insigni simboleggiano il ricorso agli esperti, funzioni genitoriali pescate all’esterno,

sempre nell’ottica del comprare la formazione omologata, correttiva, ortopedica.

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Il giovane di questa fiaba è fortunato perché non finisce dall’esperto di turno ma

presso tre maestri piuttosto “originali”!

Tutte e tre le volte, infatti, il giovane torna dal padre con un bagaglio di sapere che è

assolutamente derisorio e scabroso per la mentalità tradizionale della formazione:

l’aver appreso il linguaggio degli animali simboleggia la massima provocazione –

come vedremo più avanti – contro una visione del sapere e del conoscere basata sui

presupposti epistemologici della scienza razionale occidentale.

Mi è piaciuta anche l’espressione usata nella fiaba “quello che dicono” i cani, gli

uccelli, le rane: “quello che dicono” è un’espressione più rozza e arcaica del termine

“linguaggio degli animali” che alluderebbe quantomeno ad una struttura, ad un

edificio categoriale consolidato dalla scienza etologica per esempio. “Quello che

dicono” è espressione più vaga, quotidiana, umile, ignorante, sempliciotta: si allude

ad una “competenza idiota e analfabeta” rispetto alle valutazioni della

classificazione accademica, competenza che – basti pensare a L’idiota di Dostoewski

- confina sì con quella della demenza e della sprovvedutezza ma anche con gli

scandali della beatitudine, della santità, della contemplazione (vedi anche S.

Francesco e l’elezione degli animali, dei pianeti e degli elementi al rango di

SOGGETTI).

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“Quest’essere non è più mio figlio”, dice il vecchio conte. Ecco la mancata

“adozione”, i figli biologici smarcati dal desiderio dell’altro genitoriale, dal

riconoscimento amorevole del padre e dunque “non figli”. Come spiega bene

Recalcati nel suo libro “la paternità è sempre un’adozione”. Il “Tu SEI mio figlio”.

Dunque nella mentalità pedagogico-genitoriale del padre che non fa funzione

paterna, un figlio è “adottabile nella misura in cui è adattabile”, iper-adattabile,

ovvero nella misura in cui si attiene strettamente ai valori-saperi trasmessi

gerarchicamente dall’alto, omologati alla cultura ufficiale, dominante. Ma se non

c’è adozione dell’unicità irripetibile del proprio figlio questo figlio è affettivamente

“condannato a morte” dalla funzione paterna, come narra la fiaba: “Uccidetelo”.

La pietà dei servi e l’uccisione del capriolo: laddove un giovane “condannato a morte

dal padre” fa degli incontri di diverso tipo (insegnanti..altri adulti..autori..), incontri

connotati da riconoscimento (pietas), si apre una via di salvezza. Tutto può fare

funzione paterna, spiega ancora Recalcati con Lacan. A questo punto si apre nella

fiaba la questione del sacrificio (occhi e lingua del capriolo), il sacrificio di scoprirsi

separati, di sperimentare la divisione, la fragilità. Il capriolo o cervo sacrificato, nelle

fiabe, mi ha fatto sempre pensare ad un rito di passaggio: si rinuncia all’illusione

della pienezza e dell’innocenza originaria. La pienezza muore. Il soggetto procede

incarnando questa divisione-spaccatura e a partire da essa inizia – e dovrà sempre –

rilanciare la sua sfida nel fare spazio a nuove modalità di conoscenza e di legame

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sociale con la messa in gioco delle sue peculiari specificità e talenti. Non si tratta di

una prospettiva eroica, gloriosa, da pensare con ottimismo vittorioso: è una

fregatura! E’ la fatica di incamminarsi in un viaggio di responsabilità e presenza,

molto impervio, mai dato una volta per tutte…(!)

Sorvolo sulla prova della torre dicendo che simboleggia uno degli effetti generativi-

comunitari prodotti dall’esperienza del riconoscimento (nella fiaba questo altro è

rappresentato dai servi pietosi): se si è lasciati vivere con i propri bizzarri saperi, se si

è risparmiati con la propria particolarità si può improvvisamente scoprire che la

propria specificità di abilità e talenti (“intendere quel che dicono i cani” nella fiaba)

non solo non è indegna ma che è decisiva come contributo personale alla cura del

legame sociale (liberare la torre dall’incantesimo maligno). Questa esperienza è

possibile se l’iper-adattamento ha lasciato il posto al rischio della soggettività; il

tesoro disseppellito, in questo caso, è il desiderio e qui il desiderio può cominciare

ad occuparsi della progettualità relazionale: sul piano comunitario è di soccorso e di

aiuto per qualcuno (risoluzione della calamità dei cani stregati nel villaggio) e sul

piano personale c’è un matrimonio con la figlia del cappellano. Il mettersi in moto

del soggetto con i suoi talenti ha innescato un progetto di vita e di ricerca di cui il

viaggio Roma segna ancora l’ulteriore passaggio simbolico.

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“Quel che gracidano le rane”. Siamo in presenza di una chiamata- vocazione verso

una nuova dimensione della funzione paterna (essere eletto papa) a cui il

protagonista della fiaba non conferisce alcuna valutazione egoica appetitiva (nello

stile del vecchio conte), anzi ne è leggermente costernato e non ne fa parola con la

moglie. Qui abbiamo ancora un’atmosfera insolita rispetto al principio di

affermazione e prestazione che vige nella nostra epoca. Il protagonista avverte tutto

il carico di responsabilità, fragilità e inadeguatezza rispetto a un simile destino,

divenire papa. Ma qui il divenire papa non allude ad una posizione di potere ma ad

un nuovo tipo di funzione paterna, trascendente rispetto alle figure del re o del

conte ma in questa fiaba trascendente anche rispetto alla carica ecclesiastica del

pontefice. Siamo forse in presenza di una metafora di quella funzione paterna di

testimonianza non esemplare di cui parla Recalcati nel libro Cosa resta del padre?

Non a caso l’elezione pontificia avviene tutta sulla base di un sapere inedito e

misterioso, che eccede la volontà egoica del protagonista e che gli suggerisce come

dir messa a partire da una competenza del tutto umile e sovversiva, ovvero

“intendere quel che dicono gli uccelli”.

La politica “preventiva” adottata dal conte, quella di ricorrere agli esperti

normalizzatori (i maestri insigni), non ha funzionato.

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Cosa ha funzionato? Ha funzionato l’incontro con dei servi pietosi, ha funzionato la

valorizzazione dei linguaggi soggettivamente appresi (i 3 linguaggi).

Oltre il finalismo dei saperi

A questo punto vorrei soffermarmi su questa sovrapposizione di approcci

epistemologici affiorata nella fiaba dei Grimm (i due piani del sapere, quello vetero-

disciplinare promosso dal conte e quello inedito misterioso suggerito dagli animali )e

giustapporla ad un concetto di Gregory Bateson, il concetto di finalità cosciente e

finalità introversa, con le premesse epistemologiche che questo concetto implica e

che ci interessano per esplorare ancora da un’altra prospettiva il discorso degli

interventi di prevenzione di matrice psicoanalitica nelle scuole .

Nella mia esposizione parlerò delle “due finalità” di Bateson (che egli concepì

soprattutto come un distinguo con cui leggere le magagne, ma anche le potenzialità,

della psicoterapia) applicate però al discorso della cura in un senso socialmente più

ampio che include le azioni di cura dello psicoterapeuta ma anche dell’insegnante,

del genitore, dell’operatore sociale, del politico... E’ come se adottassimo ed

elaborassimo dunque un punto di vista sulla “prevenzione e cura del legame sociale

attraverso Bateson”.

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Provo dunque a introdurre l’argomento delle due finalità avvalendomi della lettura

ed elaborazione che di questo concetto fa Giovanni Madonna, uno psicoterapeuta

relazionale autore del preziosissimo testo La psicoterapia attraverso Bateson.

Gregory Bateson nutriva, riguardo alle tecniche in generale, e alla psicoterapia in

particolare, una certa perplessità (benché egli stesso avesse fatto una analisi

junghiana). Contestava infatti ad esse la qualità di “tecniche” arroganti .

Egli nutriva cioè una sorta di diffidenza per il tecnicismo basato sulla finalità

cosciente, intendendo, con questa espressione, il proposito di cambiare le persone

intervenendo su di esse in modo unilaterale, cioè sulla base di schemi di cura

elaborati secondo un approccio epistemologico basato sulla esclusiva conoscenza

razionale e utilitaristica.

Ma con questa riserva Bateson non liquidava tout court la dimensione della cura

esistenziale.

Anzi, Bateson accennò anche ad un’altra importante possibilità di “prendersi cura”,

ad una possibilità terapeutica che fosse “non arrogante, cauta, lungamente

preparata e armoniosa”: un’azione terapeutica, insomma, che non nascesse dallo

sforzo ma dall’assenza di sforzo, non unilaterale ma sistemica. Il presupposto di tale

azione è, per Bateson, non la finalità cosciente ma la finalità introversa.

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Vediamo meglio quale è esattamente, secondo Bateson, la differenza tra finalità

cosciente e finalità introversa. Bateson lo accenna nel libro pubblicato postumo

dalla figlia Mary Catherine, Dove gli angeli esitano:

La finalità cosciente è volta a cambiare il mondo.

La finalità introversa è il desiderio di cambiare il sé.

Capire meglio questa distinzione e sviluppare una riflessione attorno a queste due

modalità di intendere l’azione terapeutica e l’epistemologia ad esse sottesa ci può

aiutare molto anche a cogliere le diverse dimensioni da custodire nella cura. E anche

negli interventi di prevenzione sociale.

Vediamo in che modo.

Cominciamo con il dire che le due finalità danno origine a due diversi tipi di azione,

entrambi fondamentali per la vita di noi esseri umani ed entrambi decisivi in un

percorso di crescita: la finalità cosciente dà impulso ad un tipo di azione che alcuni

interpreti del pensiero di Bateson hanno chiamato azione formale; la finalità

introversa ad un tipo di azione che è stata chiamata azione processuale.

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Entrambe sono importanti in un percorso di apprendimento e di cura ma mentre la

prima ci è culturalmente familiare, la seconda è forse da “recuperare” e integrare.

Il presupposto epistemologico della finalità cosciente e dell’azione formale è il tipico

macchinario della scienza occidentale, una modalità conoscitiva che si attua nelle

forme della razionalità e della logica e corrisponde a mappe superficiali presenti solo

al nostro livello razionale e solo se richiamate con uno sforzo cosciente. Corrisponde

dunque al piano teorico e strutturale della cura, al suo “tempo formale” e

cronologico, ed esprime ciò che il terapeuta vuole con la sua finalità cosciente.

Strumento volontario dell’azione formale è il pensiero indirizzato.

Questa finalità è importante ovviamente, non è in sé da buttare, è fondamentale

piuttosto. Quello che diventa aberrante è l’assunzione totalizzante di questa

modalità conoscitiva-operativa perché è una modalità che genera “tecnici” ma non

esseri umani. Quali sono i rischi?

In questa versione allora, adottando il linguaggio filosofico di Nancy, potremmo dire

che a questa modalità epistemologica fa capo un approccio “appropriativo” al

sapere. E siamo nell’area “patrimoniale culturale” del vecchio conte nella fiaba dei

fratelli Grimm, dove il sapere è esito di un certo di tipo di applicazione razionale e di

un certo tipo di intenzione-sforzo appetitivo - appropriativo. Siamo nell’area che fa

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credere ai genitori odierni che imparare la lingua inglese è per i loro figli una

acquisizione irrinunciabile per farsi largo, sgomitando, nel mondo. Siamo anche nella

premessa epistemologica della prevenzione che ha predominato finora nel sociale:

portare nelle scuole descrizioni analitiche, dai statistici, sapere specializzato. E’

infine l’area dell’”intento pedagogico”.

Presupposto epistemologico della finalità introversa e dell’azione processuale,

invece, è un macchinario della conoscenza per noi occidentali più obliato, legato al

mondo affettivo ed emozionale, arcaico sotto il profilo evolutivo e corrispondente a

mappe molto più antiche, cablate nella biologia dell’individuo, che non necessitano

di essere richiamate con uno sforzo cosciente; anzi, il loro manifestarsi è

caratterizzato da assenza di sforzo e da spontaneità. Corrisponde dunque al piano

processuale della cura ed esprime ciò che il terapeuta è con la sua finalità introversa.

Strumento involontario dell’azione processuale è il pensiero vago. Siamo nell’area

che nel linguaggio filosofico di Nancy potremmo definire non appropriativa ma “di

accesso” al sapere. E siamo nell’area dei “3 linguaggi” alternativi della fiaba di

Grimm. E’ l’area epistemologica secondo la quale l’acquisizione della lingua inglese

da parte dei figli non è un must ma sarà un incontro, se lo sarà, tra il desiderio del

figlio e i tanti linguaggi del mondo. Siamo altresì nell’area in cui la prevenzione non

fa capo ad una intenzione tecnico -programmatica calata dall’alto, ma in cui le forze

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e le mobilitazioni del legame sociale sono evocate dal basso, a partire

dall’intelligenza e dalla presenza dei soggetti.

E’ l’area dell’”incontro pedagogico”.

E’ bene chiarire, ai fini del nostro discorso, cosa intende Bateson per “spontaneità”

nell’azione processuale. Come spiega Giovanni Madonna: “Azione spontanea tout

court potrebbe far pensare a un’azione ‘istintiva’, a priori rispetto a qualsiasi

apprendimento, cura, esercizio o disciplina (…). L’azione spontanea di cui ci stiamo

occupando è invece ‘coltivata’ e a posteriori rispetto all’apprendimento (…),

risultato di un attento, impegnativo e prolungato lavoro rivolto a sé stessi, fondato

sulla ‘finalità introversa’” (Madonna, p.55).

Se alla finalità cosciente non è integrata la finalità introversa, cosa accade nella

cura? E cosa accade nella prevenzione?

“Uno psicoterapeuta che non riconosca il carattere integrato del processo che

comprende lui stesso e il suo paziente potrebbe cercare intenzionalmente di

modificarlo, e scivolare in una posizione finalistica cercando di applicare la sua

“scienza”, le sue tecniche, a qualcuno, che verrebbe reificato, considerato oggetto

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del suo intervento. In altri termini, potrebbe diventare un mago che cerca di

applicare i suoi trucchi. Uno psicoterapeuta che invece riconosca il carattere

integrato del sistema che comprende lui insieme al suo paziente, che consideri il

verbo cambiare anche nella sua accezione intransitiva e per il quale il cambiamento

è co-evoluzione, (...) non cercherà di applicare le sue tecniche all’altro, ma curerà

attraverso l’incontro, non sarà incline a ricercare l’applauso del pubblico con i suoi

trucchi, non rivendicherà il merito del cambiamento del paziente...”(Madonna pag.

42)

E ciò vale non soltanto nella cura analitica e nella psicoterapia ma per tutte le

relazioni in cui ci sia eticamente caro l’esito della comunicazione e dell’ascolto che

mettiamo in campo: penso dunque al lavoro degli insegnanti e agli interventi di

prevenzione nelle scuole.

La distinzione concettuale di Bateson tra finalità cosciente e finalità introversa

abilita il binario epistemologico creativo-estetico accanto a quello razionale-formale

con importanti conseguenze sul piano etico degli obiettivi educativi. Non ci si pone

come tecnici-esperti che applicano le loro magie-competenze alla classe ma come

interlocutori, come testimoni in ascolto.

La scuola tra ortopedia educativa e dissipazione del godimento

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Ora, con le suggestioni attivate dalla fiaba dei Grimm giustapposte al pensiero di

Bateson, mi sono chiesta dove si trova posizionata – come premesse

epistemologiche e come finalismi- la nostra istituzione scolastica.

Mi sembra che la scuola, in maniera ben più schizofrenica di altre istituzioni che,

come quella familiare, sono state guadagnate in modo più pervasivo dal nuovo

imperativo di civiltà, l’imperativo del godimento -, la scuola dicevo è l’istituzione

che ancora riporta una dicotomia davvero spasmodica tra vecchia guardia e nuove

derive. Da un lato infatti la scuola è ancora emanazione della visione del mondo del

vecchio conte dei Grimm , lo è ancora nella sua architettura, nei suoi rituali, nel suo

essere presa nell’amministrazione, nella classificazione, nel dossier, nel registro,

nell’esame, nel voto, nella valutazione. D’altra parte gli insegnanti sono

contemporaneamente alle prese con dei giovani che provengono dalle loro case

colonizzate dai media, ovvero da una dimensione anarchizzata dal mercato che ha

visto capovolgersi l’osservanza della legge, è la dimensione del nuovo programma di

civiltà promulgato dal mercato e dai suoi capillari emissari .

Vediamole una alla volta queste due anime dell’istituzione scolastica che convivono

contemporaneamente nel “dover educare” degli insegnanti e nel “dover

consumare” dei ragazzi. Generando alcuni paradossi.

C’è un’atmosfera residuale, nelle istituzioni ufficiali del sapere, scuole, università,

accademie, che ha proprio a che fare con l’applicazione univoca e stolida del

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“discorso universitario” ovvero, se ho bene inteso Recalcati che spiega Lacan

(Convegno Urbino, 2009), di quel discorso che promuove un sapere anonimo,

disincarnato, libresco, falsamente universale, un sapere della replica a memoria,

della ripetizione senza carisma e senza radice nel proprio desiderio intimo di ricerca

verace.. dunque siamo nel sapere come valore economico, come valore di potere,

come appropriazione per tornare a Nancy, come acquisizione da trattenere per sé.

Pensiamo semplicemente alla quotidianità e alle domande del genitore all’uscita da

scuola: “Che voto hai preso?”, “Perché non di più?”, “Quanto hanno preso gli altri?”

Ecco cosa succede quando questo è l’unico

C’è un’immagine che racchiude in modo tremendamente efficace l’ottica

pedagogica di cui siamo eredi e che, nonostante, anzi forse proprio a causa - di tutta

l’innovazione tecnologica e socioculturale - non abbiamo completamente superato

sul piano profondo, etico e comportamentale, e che infatti ha assunto – come

vedremo - delle nuove forme, potremmo ben dire dei “nuovi sintomi”:

sfondo della vigilanza genitoriale?

Domande che assediano il bambino sulla linea della valutazione e del confronto,

asfissianti sul piano di un respiro più sensato, più ampio…che faccia posto ai talenti

del bambino..perché no alle sue difficoltà…

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Correggere, raddrizzare, mettere la testa a posto. Ortopedia dell’educazione, ci

spiega Focoult. Per i nostri nonni era pane quotidiano. Per noi è apparentemente

preistoria. E’ un’immagine che Michel Focoult ha inserito nel suo libro Sorvegliare e

Punire, in cui ricostruisce lo sfondo storico per comprendere la genesi del potere di

normalizzazione e la formazione del sapere nella società moderna. Per Focoult la

società è passata tra il XVI e il XIX secolo da una gestione brutale e spettacolare della

punizione inferta a coloro i quali attentavano alla volontà del sovrano (supplizi

pubblici etc.) ad una tecnologia procedurale della disciplina di cui gli ospedali, le

scuole, i collegi, le fabbriche sono stati i primi teatri, i primi esperimenti di pratiche

correttive minuziose e sempre meno visibili, sempre più pervasive e che investivano

non solo la mente ma anche i corpi.

Per rinfrescarci la memoria storica leggiamo le istruzioni che il pedagogo cattolico La

Salle suggeriva nel 1700 per insegnare ai bambini a scrivere:

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“(…)tenere il corpo diritto, un po’ girato e sciolto verso il lato sinistro, e sia pur

poco inclinato sul davanti, in modo che, essendo il gomito appoggiato sulla tavola, il

mento possa essere appoggiato sul pugno, a meno che la portata della vista non lo

permetta; la gamba sinistra deve essere un poco più in avanti, sotto il tavolo, della

destra. Bisogna lasciare una distanza di due dita dal corpo al tavolo (…). Il braccio

destro deve essere lontano dal corpo circa tre dita ed uscire di circa cinque dita dal

tavolo sul quale deve appoggiare leggermente. Il maestro farà conoscere agli scolari

la posizione che essi devono tenere scrivendo e la correggerà con un segno o in altro

modo quando se ne allontanassero”

J. B. La Salle, (1651-1719)

Cosa c’entrano l’immagine dell’albero legato e la citazione di La salle con la

contemporaneità? Niente e tantissimo, direi.

C’è infatti una nuova edizione, edonistica, della società disciplinare, ed è questa:

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L’immagine con il suo slogan è calzante perché ci dà proprio l’idea del discorso

consumistico nel quale sono presi sin da piccolissimi i bambini della

contemporaneità, presi nel senso proprio di fatti prigionieri, inscritti, “disciplinati”…

I vari culti post moderni, del corpo giovane, dell’immagine, della performance, della

felicità, dei gadget, della cultura intesa come accaparramento (vedi la lingua inglese)

non sono forse le nuove procedure della società disciplinare che mette i corpi in

soggezione e programma i soggetti serialmente per la produzione?

La mia resta una domanda, ma propongo di utilizzare le due immagini come i due

mondi tra i quali si trovano sbatacchiati, insegnanti e alunni, in una oscillazione

aporetica, in uno svuotamento di riferimenti che è difficile persino pensare .

A volte gli insegnanti devono gestire questo “non luogo” della scuola attuale che

non è più l’area correttiva disciplinare dell’800 ma non vorrebbe neppure diventare

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l’area della dissipazione e della deriva falsamente riscattata dalle etichette:

bullismo, iperattività, anoressia..

E qui mi riallaccio a Bateson e al lavoro di Jonas.

Se la scuola sta tra il modello vetusto del sapere e le pressioni della società del

protocollo e del godimento vuol dire che i nostri dispositivi epistemologici, quelli che

Bateson auspica di combinare, sono costantemente in scacco nel programma sociale

e

formativo:

- Da un lato le potenzialità di una epistemologia basata sulla finalità cosciente e

sull’azione formale sono imprigionate nel modello omologante-normalizzante

del sapere.

- Dall’altro le potenzialità di una epistemologia basata sulla finalità introversa e

sull’azione processuale sono risucchiate dalla macchina pubblicitaria del

mercato (che utilizza tutto il bagaglio valoriale-emotivo-estetico)che finisce

per ribadire, in modo subdolo e difficilmente percettibile, il modello

normalizzante e ortopedico dei saperi.

In tutti e due i casi il soggetto è fatto fuori, è asservito e dunque inservibile a se

stesso. Jonas riconvoca il soggetto sulla scena. E cercando di riabilitare il discorso di

una armonizzazione tra legge (limite) e desiderio (tensione vitale a partire da ciò che

è proprio) intacca la logica del binario socio-culturale normatività-godimento,

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riabilitando il soggetto ad un governo incerto di sé, e proprio perché incerto

eticamente responsabile, non arrogante né arreso.

Dalla meritocrazia alla meritofilia

L’assunzione soggettiva e la combinazione critica e responsabile dei due presupposti

epistemologici indicati da Bateson – assunzione e combinazione che può essere

favorita dal lavoro di una psicoanalisi applicata – produce degli effetti nella

“protezione” che l’istituzione scolastica potrebbe attuare rispetto alla progettualità

giovanile, all’etica delle scelte professionali e alla questione del merito.

Francoise Dolto diceva che nelle società contemporanee il rito di passaggio come

momento comunitario che aiuta a traghettare i soggetti da uno stadio all’altro della

vita è tramontato. E indica come sostituto del rito di passaggio dell’adolescenza il

“progetto”. Ma come può la dimensione educativa accompagnare i ragazzi verso il

loro “progetto” se non “alimentando il desiderio”?

Il poeta Hoelderlin scriveva:

“Pieno di meriti, e tuttavia poeticamente, abita l’uomo su questa terra”.

L’ambito dei meriti è quello delle grandi opere visibili, afferente alla finalità cosciente. Ma c’è anche un altro regno, quotidianamente abitato dall’uomo, ed è quello del “tuttavia poeticamente”.

E l’ambito dei meriti è quello di cui oggi si fa un gran parlare, si parla molto di meritocrazia. Certamente importante, ma non ci accorgiamo che si parla sempre di meriti fondati sulla prestazione, sul risultato inteso come spendibilità sul mercato.

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Mai di meriti fondati sulla vocazione, sulla passione, sull’amore di una operosità radicata nel particolare biografico, nel talento intimo.

Ne deriva che la meritocrazia allude pur sempre ad un girone di seduzioni egoiche e individualiste. Il mito del professionista affermato, del self made man, il mito delle facoltà propedeutiche al guadagno: chimere che hanno spostato il desiderio dei giovani dal mondo interno del daimon al dictat esterno del mercato. Fare soldi. Acquisire status. Sistemarsi. Certo non deve meravigliare se poi la meritocrazia fabbrica manager e professionisti (e politici) preparatissimi sul piano tecnico ma avidissimi sul piano economico. Dunque talvolta molto discutibili, quando non gravemente infidi, sul piano etico e umano. Il “tuttavia poeticamente” è invece la finalità introversa. E’ il coraggio di credere nel proprio talento, per goffo e insolito che possa apparire a tredici o vent’anni. Combinato al giusto dosaggio di “finalità cosciente” potrebbe allora sì inaugurare una nuova stagione etica del merito. Un merito fondato sulla vocazione non chiude per sé, non vanta supremazia, non ha bisogno di spodestare nessuno. Forse si potrebbe parlare di allora di meritofilia, invece che di meritocrazia.

Può darsi un merito fondato sulla prova etica e non solo sulla prova economica?

Etimologia

Latino

Meritum, “ricompensa, premio, castigo”

Mereri “acquistare, guadagnare”

Greco

Meris, “porzione”, “parte”

Merizo, “distribuisco”

Mermairo “partecipo”

Quale è la propria parte, la propria particolarità che può venir distribuita e partecipata e costituire con ciò un merito?

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Questa porzione meritoria può essere la propria unicità biografica, intesa come talento soggettivo partecipato e solidale, intesa come bene relazionale coltivato attraverso la vocazione?

Martin Buber, il filosofo ebreo tedesco noto per la sua concezione dialogica come essenza dell’essere umano, ha elaborato tre discorsi sull’educazione, di recente pubblicati in italiano, Discorsi sull’educazione (Armando editore). Buber chiama “impulso creativo originario” la condizione di partenza di una progettualità giovanile connessa al proprio desiderio particolare e ne descrive le caratteristiche, gli effetti etici comunitari:

“Si tratta di un impulso che, per quanto possa essere potenziato, non diventerà mai cupidigia perché si riferisce solo ad un fare, non ad un avere e può sfociare solo in passione e non in dipendenza, che non comporta la tentazione di invadere la sfera di altri esseri umani; il gesto puro, per non impadronirsi del mondo

E anche Buber, a suo modo e col suo linguaggio, evoca tutta una serie di caratteristiche della sfida educativa che sono in linea con l’idea di Jonas, ovvero dell’allestimento di un contesto in cui possa recuperarsi e prendere forma il desiderio soggettivo. Un “insegnante con la testa ben fatta”, direbbe Montaigne, è quello che insegna “a proposito”. A proposito di cosa? A proposito dell’alunno, a proposito della specificità dell’alunno che ha davanti. Un insegnante dalla testa ben fatta non vanta la quantità e la replicabilità dei saperi ma è quello che ha compiuto il salto “dall’intento pedagogico all’incontro pedagogico”.

, ma solo per esprimersi ad esso. A partire da ciò, lasciando che questo prezioso elemento si sviluppi e si dispieghi, non dovrebbe forse riuscire finalmente ciò che innumerevoli volte si è sognato e non realizzato, e cioè il prendere forma della persona umana?”

Anche il poeta Rainer Maria Rilke, che è cresciuto, possiamo dire, nel contesto socio-culturale della nascita della psicoanalisi, è un poeta dell’astensione finalistica nel campo educativo e artistico. Forse tutti conoscete le Lettere ad un giovane poeta, una sorta di breviario della non azione finalistica nel campo della creatività. Rilke è proprio un radar che intercetta la deriva utilitaristica edonista della post modernità. Rilke dice no all’industria culturale. No alla manipolazione della sorgente creativa. Invoca silenzio, introspezione, conoscenza della propria storia, della propria infanzia. Nelle Lettere ad un giovane poeta Rilke esprime proprio questa “non educazione”

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del giovane poeta, questo lasciarlo in balia della sua ricerca soggettiva, un lasciare in balia che lungi dal rappresentare un abbandono è un atto etico… che coniuga insieme premura e libertà dai modelli, che evoca impegno e disabbonamento dalla furia di pubblicare, e così tutta la sua opera non dimostra proprio che l’arte può rappresentare il colpo d’ala che raccoglie, contiene e sublima l’intollerabilità della vita in quello che Recalcati ha chiamato il “miracolo della forma”? Rilke scrive: “Ho sempre pregato perché mi fosse concessa la mia difficoltà e non per errore quella di un altro”: Intende la difficoltà dello scrittore, e non del falegname o del soldato che non corrispondevano alla sua vocazione. Vedete la singolarità coincide con una mitezza e con una modestia dell’io, non dice “ho pregato perché mi fosse concessa la mia gloria”, ma “la mia difficoltà”.

Chiudo leggendovi alcune righe dalla prosa poetica di Rilke “Samskola”(Del paesaggio e altri scritti, Cederna, 1949) in cui il poeta racconta di una scuola sui generis che ha visitato in Svezia:

“Se noi, con il diritto dei più forti, non poniamo da intrusi, sulla strada dei fanciulli, tutto quello che è già fatto, che vale solo per la nostra vita; se essi non trovano nulla, se debbono fare tutto: non saranno in grado di fare tutto? Se noi evitiamo d’allargare in loro l’antica crepa tra gioia e dovere (tra la vita e la scuola), tra legge e libertà, non è possibile che il mondo guarisca, sviluppandosi dentro di loro? Non certo in una generazione, non nella successiva o nella terza, ma lentamente, sanandosi di fanciullezza in fanciullezza? (…) Non è questione di educare. Non si tratta di questo. Perché chi può educare? Dov’è tra noi colui che avrebbe il diritto di educare?

Quanto questa scuola cerca di fare è semplice: non intervenire. Ma mentre essa si adopera a ciò, alacremente e devotamente, scansando ostacoli, provocando domande, ascoltando, osservando, imparando e amando cautamente – compie tutto quello che gli adulti possono fare per quanti verranno dopo di loro”.

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