LINGUA’E’LINGUISTICA’ITALIANA’’ APPUNTI’DEL’CORSO ... · di’ cambiare il’...

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1 LINGUA E LINGUISTICA ITALIANA APPUNTI DEL CORSO 20172018 MORFOLOGIA FLESSIVA La morfologia studia le forme delle parole e il modo in cui queste forme cambiano per esprimere diversi valori grammaticali. L’italiano è una lingua flessiva: le sue forme nominali, verbali, pronominali flettono, variano cioè la desinenza per esprimere significati grammaticali diversi. La morfologia flessiva studia il modo in cui si esprimo i diversi significati grammaticali. La flessione dei nomi, degli articoli e degli aggettivi indica genere (maschile/femminile) e numero (singolare/plurale) dei pronomi indica numero, persona (prima, seconda, ecc.) e funzione sintattica (io soggetto, me oggetto) dei verbi indica persona, numero, tempo, modo (amo, amerei, ecc.), aspetto (amai, ho amato, amavo) e diatesi (amo, sono amato, ecc.). La morfologia derivazionale o lessicale studia invece la formazione delle parole attraverso la derivazione e la composizione. Da una parola base se ne possono ricavare delle altre. In base al sistema morfologico le lingue sono classificate in due grandi categorie: le lingue analitiche e le lingue sintetiche. Nelle lingue analitiche, dette anche isolanti, ogni significato è rappresentato da un solo elemento, una sola parola autonoma che non cambia forma. Nelle lingue sintetiche più elementi si uniscono, si legano in una sola parola per esprimere significati diversi. Gli elementi isolati o legati insieme in una parola sono i morfemi. Per morfema intendiamo dunque la più piccola unità linguistica dotata di significato. Nelle lingue analitiche abbiamo morfemi liberi, in quelle sintetiche morfemi legati. Le lingue flessive come l’italiano appartengono alle lingue sintetiche. In quasi tutte le parole dell’italiano, infatti, possiamo distinguere tra un morfema lessicale, detto anche radice o radice lessicale, che porta il significato della parola e uno o più morfemi grammaticali, che danno l’informazione grammaticale e segnalano, attraverso gli accordi, il rapporto che la parola ha con le altre contenute in una frase o in un testo o sono, in alcuni casi in grado di cambiare il significato e il ruolo grammaticale della parola. Il morfema

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LINGUA E LINGUISTICA ITALIANA APPUNTI DEL CORSO 2017-­2018

MORFOLOGIA FLESSIVA La morfologia studia le forme delle parole e il modo in cui queste forme cambiano per esprimere diversi valori grammaticali. L’italiano è una lingua flessiva: le sue forme nominali, verbali, pronominali flettono, variano cioè la desinenza per esprimere significati grammaticali diversi. La morfologia flessiva studia il modo in cui si esprimo i diversi significati grammaticali. La flessione

Ø dei nomi, degli articoli e degli aggettivi indica genere (maschile/femminile) e numero (singolare/plurale);;

Ø dei pronomi indica numero, persona (prima, seconda, ecc.) e funzione sintattica (io soggetto, me oggetto);;

Ø dei verbi indica persona, numero, tempo, modo (amo, amerei, ecc.), aspetto (amai, ho amato, amavo) e diatesi (amo, sono amato, ecc.).

La morfologia derivazionale o lessicale studia invece la formazione delle parole attraverso la derivazione e la composizione. Da una parola base se ne possono ricavare delle altre. In base al sistema morfologico le lingue sono classificate in due grandi categorie: le lingue analitiche e le lingue sintetiche. Nelle lingue analitiche, dette anche isolanti, ogni significato è rappresentato da un solo elemento, una sola parola autonoma che non cambia forma. Nelle lingue sintetiche più elementi si uniscono, si legano in una sola parola per esprimere significati diversi. Gli elementi isolati o legati insieme in una parola sono i morfemi. Per morfema intendiamo dunque la più piccola unità linguistica dotata di significato. Nelle lingue analitiche abbiamo morfemi liberi, in quelle sintetiche morfemi legati. Le lingue flessive come l’italiano appartengono alle lingue sintetiche. In quasi tutte le parole dell’italiano, infatti, possiamo distinguere tra un morfema lessicale, detto anche radice o radice lessicale, che porta il significato della parola e uno o più morfemi grammaticali, che danno l’informazione grammaticale e segnalano, attraverso gli accordi, il rapporto che la parola ha con le altre contenute in una frase o in un testo o sono, in alcuni casi in grado di cambiare il significato e il ruolo grammaticale della parola. Il morfema

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grammaticale o l’insieme dei morfemi grammaticali di una parola è detto anche desinenza. Se i morfemi grammaticali hanno la funzione principale di variare la parola per darci le forme del genere, numero, tempo, aspetto, ecc. parliamo di morfemi flessivi;; se invece hanno anche il potere di cambiare il significato della parola ed eventualmente la sua categoria grammaticale, parliamo di morfemi derivativi: morfemi lessicali

morfemi grammaticali -­flessivi

morfemi lessicali

morfemi grammaticali derivativi

ragazz-­ -­o ragazz-­ -­ata am-­ -­are am-­ -­abile cant-­ -­erei cant-­ -­ata bell-­ -­e bell-­ -­ezza La morfologia flessiva è dunque quella che si occupa delle trasformazioni che la stessa parola subisce per trasmettere diverse informazioni grammaticali (genere e numero per i nomi, tempo, modo, aspetto, persona per i verbi, ecc.). La morfologia derivazionale o lessicale si occupa delle trasformazioni di una parola in un’altra parola di diverso significato e riguarda quindi la formazione delle parole. La flessione ha un’importante funzione di economia linguistica: risparmia un alto numero di elementi linguistici riuscendo a esprimere più cose con forme sintetiche. La flessione grammaticale in italiano si realizza attraverso i morfemi grammaticali che si legano direttamente al morfema lessicale con qualche eccezione come alcuni tempi verbali che si formano con l’aggiunta dell’ausiliare (ho mangiato, avevo letto, ecc.);; come i casi in cui si realizza tramite il cambiamento della vocale radicale (feci/faccio) o lo spostamento dell’accento (amo/amò). Anche in italiano quindi esistono casi di morfologia analitica, ma sono in numero molto minore rispetto alle forme sintetiche. La distinzione tra lingue analitiche e lingue sintetiche, infatti, si basa sul numero prevalente di forme autonome (morfemi liberi) o di parole sintetiche (morfemi legati);; la tipologia è valutata in base alle caratteristiche predominanti. In ogni lingua dunque esistono sia elementi analitici sia elementi sintetici. Anche in italiano possiamo avere formazioni analitiche (i verbi con ausiliare;; il comparativo: più bello, meno grasso, ma a volte convive la forma sintetica come nel caso di più cattivo e peggiore). Anche in italiano abbiamo morfemi

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legati come le congiunzioni (e, che, ecc.) gli articoli e i pronomi. In qualche caso alcuni di questi morfemi sono detti semiliberi, perché, come avviene per gli articoli, possono svolgere la loro funzione solo se legati a un nome. L’italiano deriva il suo carattere flessivo dal latino. La lentezza con cui l’italiano è cambiato nei secoli in cui è stata lingua prevalentemente scritta ha fatto sì che si generasse una forte allomorfia: convivono cioè forme diverse per esprimere la stessa informazione grammaticale oppure si hanno esiti irregolari, che cambiano nonostante ci si trovi davanti allo stesso contesto fonetico. Per es. il plurale di amico è amici (con l’affricata palatale), ma il plurale di cuoco è cuochi con occlusiva velare. Abbiamo paradigmi di verbi in cui cambia la vocale della radice: tiene ma teniamo, irregolarità come posso, puoi, possiamo, potevo, alternanza di radici come vado/andiamo. Di solito questi allomorfi sono complementari: si escludono a vicenda, possiamo cioè usare o l’uno o l’altro (non possiamo dire *ando o *vadiamo). Esiste però anche un’allomorfia libera che fino agli inizi del Novecento si incontrava spesso soprattutto nei testi scritti: la prima persona dell’imperfetto poteva essere io amavo o io amava, questione/quistione, ecc. Oggi è rimasta solo qualche traccia come nell’alternanza devo/debbo che è anche nel congiuntivo deva/debba, anche se ormai deva quasi non si usa più. Il carattere flessivo dell’italiano deriva, come si è detto, dal latino, che però possedeva un grado maggiore di flessività. Il latino, infatti, cambiava desinenza anche per esprimere la funzione sintattica: ROS-­A (“la rosa”) femminile, singolare, soggetto;; ROS-­AE (“della rosa”) femminile, singolare, genitivo, ecc.;; Ora in italiano l’espressione della funzione sintattica è esterna alla parola: avviene tramite preposizioni o tramite la posizione nella frase. Tutte le forme che possono assumere nomi, verbi, pronomi, ecc. rappresentano il paradigma (l’insieme di tutte le flessioni possibili). L’italiano eredita dal latino paradigmi complessi con molte possibilità di flessioni, spesso irregolari. I paradigmi nominali sono più opachi: abbiamo gli invariabili, il morfema –e che può indicare femminile plurale (rose) ma anche maschile singolare (cane);; il morfema –i che può indicare anche il plurale femminile (mani), ecc. Molto più trasparenti sono i paradigmi dei verbi, che indicano in un solo morfema la persona, il tempo, il modo, l’aspetto (cant-­avamo).

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Rispetto al latino c’è stata comunque qualche semplificazione ma anche qualche aggiunta, come il condizionale, comune a tutte le lingue romanze o i cinque tempi del passato (passato prossimo, passato remoto, imperfetto, trapassato prossimo, trapassato remoto). MORFOLOGIA NOMINALE I NOMI La flessione dei nomi indica le categorie di numero e di genere. Il genere non sempre è legato al significato del nome, in rapporto al quale è perlopiù immotivato. La distinzione maschile/femminile coincide spesso con il genere naturale quando si tratta di nomi che indicano persone o esseri animati: fratello/sorella;; ragazzo/ragazza;; leone/leonessa;; gatto/gatta, ecc.). Non è però sempre così: il soprano (per un ruolo di cantante femminile), la sentinella (anche per il soldato che fa la guardia alle caserme militari). Per le cose inanimate o per i concetti astratti il genere maschile o femminile è del tutto indipendente dal significato (il quaderno, la casa, la carità, il pensiero, ecc.). È solo un genere grammaticale. Il maschile è il genere non marcato in cui si inseriscono le parole nuove formate senza suffissi e i prestiti stranieri. Se però hanno terminazione in –a è favorito il genere femminile. Molte discussioni si sono fatte riguardo alla correttezza politica da usare verso le donne. Non tutti le parole o i suffissi hanno prodotto tradizionalmente il femminile: maestro/maestra, dottore/dottoressa, direttore/direttrice;; oggi si stanno affermando anche avvocatessa, soldatessa o ministra e sindaca. Si è abbastanza affermato l’uso dell’articolo femminile in casi come la presidente, la preside o anche il nome dopo il presidente Rosi Bindi o l’accordo al femminile come il ministro Fornero è stata intervistata. Le posizioni sono spesso contrastanti. Per indicare il numero i nomi italiani sostituiscono sempre la desinenza e non devono aggiungere un nuovo morfema come avviene in altre lingue: spagnolo: amig-­o / amig-­o-­s italiano: ragazz-­o / ragazz-­i È un sistema più economico perché un solo morfema grammaticale indica il genere e il numero. In base alle desinenze in italiano distinguiamo tra nomi che escono in -­o, in -­a e in -­e;; la flessione tra singolare e plurale per ciascuna delle tre uscite o l’assenza di flessione ci consente di distinguere sei classi di nomi:

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1. La classe dei nomi in -­o / plur. -­i: soldato/-­i, lupo/-­i, fatto/-­i. Sono tutti maschili, con eccezioni come mano/-­i che è femminile.

2. La classe dei nomi in -­a / plur. -­e: donna/-­e, cicala/-­e, causa/-­e. Sono tutti femminili.

3. La classe dei nomi in -­e / plur. -­i: occasione/-­i, fiore/-­i. Sono sia maschili sia femminili, con l’eccezione di il carcere maschile al singolare e femminile al plurale: le carceri.

4. La classe dei nomi invariabili: re, virtù, caffè, città, ecc. Sono sia maschili sia femminili.

5. La classe dei nomi in -­a / plur. -­i: poeta/-­i, papa/-­i. Sono maschili con l’eccezione di arma/-­i, ala/-­i che sono femminili.

6. La classe dei nomi in -­o / plur. -­a: dito/-­a, ciglio/-­a. Sono maschili al singolare e femminili al plurale.

Le classi 1, 2 e 4 sono ancora produttive: si formano cioè ancora parole maschili in -­o/-­i e femminili in -­a/-­e e il patrimonio lessicale continua ad arricchirsi di parole invariabili. Sono ancora attive anche la classe 3, per le parole formate con -­tore, -­trice, -­zione e dai participi presenti (redattore, redattrice, attore, cantante), e la classe 5 per la formazione di parole che finiscono in -­ista (giornalista) o in -­ma per formazioni dal greco (enzima). La classe 6 non è più produttiva. Non si formano più plurali in -­a che derivavano direttamente dal latino. Per molte di queste parole, infatti, si è affiancato anche un plurale in -­i: il lenzuolo, le lenzuola/i lenzuoli;; il braccio, le braccia/i bracci;; il muro, le mura/i muri, ma in molti casi il significato dei due plurali può essere diverso. La classe 4 nell’italiano antico comprendeva soltanto i monosillabi (re, gru, tre, ecc.);; in seguito si sono aggiunte le parole tronche (accentate sull’ultima vocale) derivate da parole che avevano subito un’apocope: virtu(de)/virtu(di) > virtù Oggi le parole invariabili, riconducibili alla classe 4, sono molte di più e comprendono: - prestiti da altre lingue: bar, computer, sport;; - parole in -­a: mascara;; - parole in -­e: specie;; - parole in -­i: crisi;; - parole in -­o: radio. È una classe di parole che in italiano si va sempre più ampliando, anche grazie al fatto che i recenti prestiti dalle lingue straniere non sono più adattati alle forme della nostra lingua.

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La categoria del numero in questi casi è espressa dagli articoli o anche dal verbo o dal contesto e così via. La stessa cosa in questi casi e per i nomi della classe 3 vale per il genere che non è espresso dalla desinenza ma da altri elementi. I prestiti integrali dalle lingue straniere e, in particolare, dall’inglese vanno di solito ad arricchire il serbatoio delle parole invariabili. La norma prevede infatti che il plurale con –s finale in italiano non sia espresso (il computer / i computer). La norma è bene rispettata anche per i prestiti che terminano in –o e che potrebbero essere assimilati ai nomi della classe 1 (il video / i video, il jumbo / i jumbo). Nell’italiano popolare accade spesso però che la –s del plurale non solo sia mantenuta ma sia estesa anche al singolare (i jeans ma anche un jeans, un fans e, per lingue diverse dall’inglese, un murales). In alcuni casi più rari il plurale originario si è stabilizzato (i Lieder, plurale tedesco di un genere musicale, da Lied “romanza”, o anche i marines). AGGETTIVI Gli aggettivi si dividono in tre classi: 1. la classe in -­o/-­i per il maschile e -­a/-­e per il femminile, che comprende

le desinenze per entrambi i numeri ed entrambi i generi (bello/belli/bella/belle);;

2. la classe in -­e/-­i con una sola desinenza per il singolare e una per il plurale, senza distinzione tra maschile e femminile (triste/tristi);;

3. la classe degli aggettivi invariabili che comprende l’aggettivo pari, alcuni aggettivi che indicano colori (rosa, viola, avana, ecc.), i prestiti (trendy, ecc.) e altri elementi usati come aggettivi (è un locale in;; una giornata no, ecc.).

Il comparativo in italiano è di tipo analitico: più ricco, più triste, ecc. Ma esistono relitti di comparativo sintetico modellati sul latino: migliore, minore, peggiore, inferiore (accanto a più buono, più piccolo, più cattivo, più basso). Il superlativo assoluto è di tipo sintetico: ricchissimo, tristissimo, ecc. Sul latino sono modellati ottimo, minimo, pessimo, infimo (accanto a buonissimo, piccolissimo, cattivissimo, bassissimo). Oggi in italiano si affermano sempe di più, soprattutto nel parlato, superlativi formati con prefissi: super-­eroe, maxi-­schermo, ecc.

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Il superlativo relativo è di tipo analitico: Mario è il più bravo studente della nostra scuola. Anche gli alterati in italiano si formano tramite suffissi che si aggiungono alla base lessicale di nomi e aggettivi: pover-­ino, ragazz-­accio, palazz-­one, pan-­ino, ecc. La possibilità di formare il diminutivo in modo sintetico, con l’aggiunta di suffissi, è un tratto tipico dell’italiano. Si può applicare anche forme nominali oltre che agli aggettivi (bicchierino, casetta, ecc.). Talvolta la forma alterata cambia il genere grammaticale: campana / campanone, scatola / scatolone, villa / villino, ecc. ARTICOLO In italiano le categorie di genere (maschile e femminile) e di numero (singolare e plurale) sono spesso marcate due volte, tramite l’articolo (nella testa del sintagma) e per mezzo del morfema grammaticale: Testa del sintagma il (masch. sing.) tavol-­o (base lessicale + morfema grammaticale

masch. sing.) la (femm. sing.) ragazz-­a (base lessicale + morfema

grammaticale femm. sing.) In molti casi, però, l’articolo disambigua, perché è l’unico a segnalare la categoria di genere o anche di genere e numero: il poeta, le città, ecc. L’articolo ha anche importanti funzioni deittiche e testuali. La scelta dell’articolo determinativo o indeterminativo, infatti, si basa: a. sulle caratteristiche del referente (cioè della cosa o persona a cui l’articolo si riferisce);;

b. sul tipo di referenza;; c. sulla struttura informativa del testo.

a. Relativamente alle caratteristiche del referente, se questo è costituito da una categoria generale si usa il determinativo: Il cavallo è un mammifero;; se invece è costituito da un termine che indica un individuo specifico si usa l’indeterminativo: Posseggo un cavallo da corsa.

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b. Per il tipo di referenza, se questa è univoca si usa il determinativo: Non sforzare l’occhio destro;; ma se il referente non è univoco usiamo l’indeterminativo: Si è fatto male a un occhio. c. Per la struttura informativa, si usa l’articolo determinativo se ci riferiamo a un elemento dato, cioè a un referente già introdotto nel testo, o ben noto a chi ascolta, o presente nel luogo in cui parliamo:

- Nel paese delle fate viveva una fanciulla... Un giorno la fanciulla decise di partire…

- Questa mattina il postino non è venuto. - Chiudi la porta.

Ma se l’elemento è introdotto per la prima volta, non è noto a chi ascolta, non è presente nel luogo in cui parliamo, si usa l’indeterminativo:

- C’era una volta una fanciulla. - Oggi è venuto un postino nuovo. - Nell’aula dovrebbe essere rimasto un ombrello.

L’alternanza tra lo/gli e il/i o tra uno e un si è andata fissando nel corso del tempo: a volte si tratta di convenzioni recenti (nell’italiano antico ancora fino all’Ottocento era diffuso l’articolo lo davanti all’affricata alveolare z), in altri casi, di relitti che si sono trasmessi inalterati. Oggi l’uso di lo è previsto davanti a s preconsonantica, laterale palatale, nasale palatale, fricativa palatale, affricata alveolare, semivocale j (lo Ionio) e vocale, davanti alla quale si elide. Si usa talvolta anche per gruppi consonantici estranei alla tradizione italiana (lo psicologo, ma la psicologia) e oscilla nel caso della semivocale w (l’uomo ma il week end). I PRONOMI PERSONALI I paradigmi dei pronomi sono più complessi di quelli di nomi. Distinguiamo prima di tutto tra pronomi tonici e atoni, cioè pronomi accentati e pronomi privi di accento. I primi sono forme autonome e sono quindi considerati morfemi liberi. I secondi, detti anche clitici, si appoggiano sempre alla parola che segue (proclitici: mi piace) o si legano alla parola che precede (enclitici: dimmi);; per questo motivo sono considerati morfemi semiliberi. I pronomi, oltre a esprimere nella flessione la persona, il numero e, talvolta per la terza persona, il genere, esprimono anche la funzione sintattica: spesso cioè cambiano in base al ruolo che debbono svolgere. I pronomi tonici possono svolgere la funzione di soggetto o di complemento;; per il complemento indiretto si associano a una preposizione (che un tempo si chiamava segnacaso: a me, con te, per lui, ecc.). Nel paradigma dei pronomi tonici in qualche caso le forme per il soggetto e per il complemento coincidono:

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Pronomi tonici Ruolo di soggetto Ruolo di complemento

Io Tu Egli/ella/lui/lei [esso/essa] Noi Voi Essi/esse/loro

Me Te Lui/lei Noi Voi Loro

Come si vede, le forme di prima e seconda persona plurale sono identiche per entrambi i ruoli sintattici. Anche per la terza persona, a dire il vero, è da tempo in atto, nell’italiano di uso comune, un’ulteriore semplificazione. Si tende sempre più a usare le forme del complemento per il soggetto: nel parlato è quasi prevalente il ricorso a lui e lei;; sopravvive nello scritto molto formale egli, mentre è considerato sempre più arcaico ed è visibilmente in regresso il femminile ella. In alcune aree della penisola, inoltre, si tende ad adoperare la forma del complemento te in luogo del soggetto tu e, a causa dell’influenza dei media, l’uso si sta estendendo. La distinzione più salda rimane dunque quella tra io e me. I pronomi atoni si adoperano solo per le funzioni sintattiche di complemento diretto (oggetto) o indiretto (di termine). Per quanto riguarda la distribuzione, i clitici hanno delle restrizioni: devono infatti sempre precedere o seguire il verbo (ti regalo un libro;; regalati un momento di pausa;; non voglio regalarti niente). La posizione sintattica dei pronomi clitici inoltre segue delle regole. Di norma si pongono prima dei verbi, tranne nel caso degli imperativi e dei modi verbali non finiti: lo ascolti;; ascoltalo;; ascoltandolo impari. La posizione è libera con l’imperativo negativo: Non ascoltarlo, ma anche non lo ascoltare. Oggi sta diventando libera anche la posizione in presenza di infinito dipendente da un verbo, soprattutto se verbo modale come potere, dovere, ecc.: Mario deve ascoltarlo ogni giorno tende a diventare, soprattutto nel parlato, Mario lo deve ascoltare ogni giorno. Si parla in questi casi di risalita o anticipazione del clitico, un fenomeno recente, frequente nel parlato ma solo parzialmente ammesso nello scritto. D’altro canto

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l’anticipazione del clitico è obbligatoria in casi come lo fai dormire o lo sento cantare. Rimane ancora in uso l’enclisi in forme come affittasi, vendesi o, come si legge in alcuni testi burocratici, pregasi. È il relitto arcaico dell’enclisi pronominale che nell’antico italiano si poteva avere anche dopo le forme coniugate del verbo. Anche il paradigma dei pronomi atoni presenta delle semplificazioni:

Pronomi atoni (o clitici) Complemento oggetto Complemento di termine

Mi Ti Lo/la Ci Vi Li/le

Mi Ti Gli/le Ci Vi Gli/[loro]

Come si vede i pronomi di prima e seconda persona, singolari e plurali, coincidono per entrambi i ruoli sintattici, mentre variano per l’oggetto o il complemento di termine i clitici di terza persona. Un caso particolare è rappresentato da loro usato per il complemento di termine. Si tratta di una forma in forte regresso, anche a causa delle sue limitazioni d’uso: 1) prima di tutto è bisillabo e quindi non è un pronome atono;; è estraneo alla serie dei pronomi che servono per i complementi e non può combinarsi, a differenza di gli, con altri pronomi atoni. Con loro, cioè, non sono possibili combinazioni come diglielo, mentre dirlo loro è ormai arcaico e totalmente in disuso anche nelle situazioni più formali.

2) Il pronome loro in funzione di complemento indiretto ha poche possibilità di movimento nella frase: deve collocarsi sempre dopo il verbo (ho detto loro).

Anche per questi motivi dunque il pronome loro nel ruolo di complemento di termine sta quasi scomparendo. Nel cosiddetto italiano neostandard e, in generale, nell’uso vivo e comune, il sistema dei pronomi atoni per il complimento di termine si sta riducendo a due sole caselle: gli per il maschile singolare e per il plurale sia maschile sia femminile;; le per il femminile singolare. Nell’italiano popolare (o substandard) si assiste ancora a un’ulteriore semplificazione, con il ricorso al solo gli anche per il femminile singolare, ma si tratta ancora di una tendenza marcata come bassa.

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Il pronome riflessivo ha una forma tonica (sé) per il ruolo del complemento e una forma atona tanto per il complemento oggetto quanto per il complemento di termine (si). Il pronome si è adoperato anche per le costruzioni impersonali: si dice bene di te;; si parla poco quando non si sa, ecc. Richiede in questi casi l’ausiliare essere e l’accordo al maschile nelle forme composte: quando si è vecchi. Il si è adoperato anche nelle costruzioni passive, soprattutto in assenza di agente (si è votato ieri), ma non è sempre facile distinguere la funzione impersonale da quella passivante: si è scritto molto su questo tema. Sul piano semantico non c’è molta differenza ma sul piano grammaticale la distinzione non è chiara. In più di un caso i clitici perdono la funzione pronominale per assumere altri ruoli, grammaticali e lessicali. Sono sempre più numerosi i verbi transitivi usati come se fossero pronominali: mi bevo una birra, ci facciamo un bagno. Si tratta però di usi ancora riservati al parlato più che allo scritto. Il pronome la assume un valore indefinito in presenza di alcuni verbi: la sa lunga;; se la passa male, anche con funzione soggetto in alcune espressioni fisse: o la va o la spacca. Il pronome ne, i locativi ci e vi Tra i pronomi atoni sono da includere anche ne, ci, vi (con funzioni diverse da quelle dei personali ci e vi) Ne svolge funzioni di partitivo (non ne voglio), di complemento di argomento (non ne voglio parlare), di moto da luogo (non se ne andrà) ma in questo ruolo sopravvive ormai quasi esclusivamente con il verbo andarsene;; ci ha funzioni di locativo (non ci sono fiori, non ci vado), di complemento indiretto se riferito a oggetti inanimati (non ci penso mai = “non penso mai a ciò”) o talvolta a persone ma soprattutto in alcune espressioni tipiche del parlato (non ci conto = “su di lui”;; non ci vado mai insieme = “con lui”);; vi svolge il ruolo di locativo, ma è sempre più in disuso anche nello scritto. Si assiste oggi a una sovraestensione della particella ci: si dice spesso nel parlato molto informale ci parlo per dire “parlo a lui, lei, loro” invece di dire gli parlo. In generale ci è usato ormai in moltissimi contesti nei quali perde la propria natura pronominale:

- ha preso quasi totalmente il posto di vi come locativo;; del resto con essere è obbligatorio: c’è polvere e anche c’è polvere in casa (non è possibile *è polvere in casa);; qui c’è il maestro (non è possibile *qui è polvere, ma è possibile il maestro è qui);;

- ha valore attualizzante soprattutto con il verbo avere usato nel suo significato pieno e non come ausiliare: ci ho mal di testa

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- esserci ha assunto significati particolari in espressioni come ci sei? ci siamo?

- Ha assunto significati particolari anche con i verbi entrarci: non c’entra niente questa storia;; farcela: ce l’abbiamo fatta per un pelo;; volerci: ci vuole un tecnico, ecc.

Molti di questi usi sono però ammessi solo nel parlato (anche nel parlato della finzione letteraria) e nelle situazioni informali. Qualcosa di analogo ma in misura meno vistosa del ci sta accadendo con il ne che in alcuni verbi attenua la sua funzione pronominale: importarsene: non me ne importa niente si usa con riferimento a un complesso di cose e non a un referente ben preciso. Infatti si può usare anche in presenza del complemento: non me ne importa niente del tuo esame / di quello che dici. Casi analoghi sono infischiarsene, convenirne, ecc. Si assiste in alcuni di questi casi a una lenta lessicalizzazione: il pronome ci, in particolare, perde lo statuto di pronome e si lega stabilmente al verbo (entrarci “essere pertinente”, starci “essere d’accordo”, tenerci “avere a cuore”, ecc.) cambiandone il significato. Funzioni allocutive Alcuni pronomi hanno funzione allocutiva: servono cioè per rivolgersi a qualcuno. Gli allocutivi da usarsi nei rapporti paritari sono tu per il singolare e voi per il plurale. Gli allocutivi di cortesia sono lei, ella per il singolare e loro per il plurale. Ella e loro sono però ormai in disuso o comunque usati nei testi burocratici o in contesti altamente formali. Il voi dunque finisce con l’essere l’unico allocutivo al plurale. Esiste ancora l’allocutivo di cortesia al singolare voi, ma è ormai da considerarsi un regionalismo di area meridionale. Lei è dunque diventato l’unico allocutivo di cortesia al singolare. I DIMOSTRATIVI Per quanto riguarda i dimostrativi, aggettivi e pronomi, il sistema tripartito, questo (perciò che è vicino a chi parla), codesto (per ciò che è vicino a chi ascolta), quello (per ciò che è distante) è ormai vivo solo nell’uso parlato toscano e nella scrittura burocratica. Nell’italiano scritto e parlato il sistema è ormai solo bipartito (questo, quello).

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Nel parlato i dimostrativi hanno prevalentemente valore deittico, nello scritto prevalentemente valore anaforico: Valore deittico: Prendimi quel libro. Valore anaforico: I ragazzi che hai incontrato al bar non sono gli stessi che ti ha presentato Mario;; questi sono di Roma, mentre quelli vengono da Firenze. Di recente si assiste a un fenomeno che tende ad assegnare ai dimostrativi il semplice valore di articolo nel parlato. È un fenomeno del parlato, ma di recente si legge anche in alcuni scritti informali;; non è ammesso nella scrittura elevata e accurata: Ho trovato un libro in classe e non so di chi sia, ma è probabile che l’abbia perso Giovanni perché è andato via di corsa. Questo libro tra l’altro ha delle note che sembrano scritte da lui. In questo contesto sarebbe sufficiente l’articolo determinativo (Il libro tra l’altro…). La tendenza a sovrapporre la funzione dell’articolo a quella del dimostrativo fa sì che nel parlato per precisare il valore di dimostrativo ricorriamo ad avverbi come qui, lì, ecc. in funzione rafforzativa (questo qui, quello lì, ecc.). Sono quasi scomparsi costui, costei, costoro, mentre resistono nello scritto, soprattutto al plurale, colui, colei, coloro quando precedono una relativa (coloro che/i quali vogliono aderire, rimangano). I RELATIVI In italiano abbiamo tre forme diverse per il relativo: che: invariabile per il soggetto e per il complemento oggetto, al singolare e al plurale;; articolo + quale: variabile per il plurale (quali) e nell’accordo con l’articolo o con la preposizione nel genere e nel numero (il quale / la quale, dei quali, alle quali, ecc.);; si può adoperare per tutti i ruoli sintattici;; preposizione + cui: solo per i ruoli di complemento indiretto. La seconda forma (articolo + quale) è in regresso, soprattutto per i ruoli di soggetto e di oggetto, e anche nello scritto comincia a essere avvertito come arcaico. Con l’uso prevalente di che in luogo di il quale si assiste anche a una generale semplificazione del relativo e a una sovraestensione del che. Nei casi di sovraestensione si parla di che indeclinato.

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Nella funzione di complemento di tempo, per esempio, è ormai diffusissimo l’uso del solo che in frasi come la sera che ci siamo incontrati, il giorno che abbiamo fatto la gita con Mario. Nel parlato non è più avvertito come marcato. In altri casi invece il fenomeno è più frequente nelle varietà substandard: una signora che conosco il marito;; Molto frequente è anche l’inserimento di un pronome che specifica il ruolo del relativo: un fatto che ne hanno parlato in televisione;; un posto che ci vado volentieri;; un amico, che gli posso dire tutto;; Il pronome che viene inserito serve a disambiguare il valore del che. Viene infatti definito che relativo analitico, perché si serve di due elementi per trasmettere due informazioni distinte: l’introduzione di una relativa con il che (che svolge quasi il ruolo di una congiunzione) e la funzione sintattica con il pronome. Il sistema reagisce a semplificazioni eccessive ricorrendo ad altri mezzi per fornire le informazioni necessarie. Si tratta in ogni caso di fenomeni molto marcati, connotati come bassi sia nello scritto sia nel parlato. Diverso dal che indeclinato è il che congiunzione con valore indeterminato o polivalente (subordinante generico): facciamo cose che nemmeno capiamo perché;; esci sempre, che quando rimani neanche me ne accorgo.

LA MORFOLOGIA DEL VERBO La flessione del verbo in italiano è, come si è detto, di particolare trasparenza. Può esprime il tempo, il modo la persona e il numero. Il tempo va visto soprattutto come categoria deittica: indica, infatti, un tempo in rapporto al momento dell’enunciazione. Ciò di cui parliamo è presente o passato rispetto al momento in cui enunciamo qualcosa. Esistono, tuttavia, come vedremo, anche tempi deittico-­anaforici. Il modo indica l’atteggiamento del parlante nei confronti dell’azione o dell’evento: possibilità, irrealtà, incertezza, comando. Abbiamo altre due categorie che riguardano la coniugazione e le funzioni del verbo: l’aspetto e la diatesi. L’aspetto descrive lo svolgimento dell’azione, dell’evento sotto determinati profili o prospettive che interessano il parlante. Ci dice se si tratti di azioni concluse o non concluse e durative nel tempo. L’opposizione principale è quella tra aspetto perfettivo in cui l’azione è vista nella sua globalità e completezza e aspetto imperfettivo in cui l’azione è visualizzata come ancora

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in corso, non delimitata. Non c’è in italiano una vera e propria marca morfologica, un elemento interno alla desinenza che esprima l’spetto. Anche per esprimere la diatesi il verbo non varia attraverso l’alternarsi delle desinenze. La diatesi è il modo con cui la persona o la cosa indicata dal soggetto partecipa all’evento descritto dal verbo;; si ha diatesi attiva, passiva, media. Quest’ultima in italiano si realizza con il pronome riflessivo: io mi lavo (con azione consapevole del soggetto su sé stesso) e io mi pento, io mi ammalo (per la ricaduta dell’azione sull’interiorità o comunque all’interno del soggetto). La flessione verbale esprime anche la persona e il numero, distinguendo tra persona singolare e plurale. Il participio passato ha uno statuto diverso, perché partecipa delle caratteristiche della flessione nominale, variando per il genere e il numero. Nei tempi composti il participio si accorda con il soggetto se è coniugato con il verbo essere, o con l’oggetto se è coniugato con il verbo avere e si trova in particolari costruzioni: Maria è arrivata presto;; Maria ha comprato una casa e Giovanni l’ha arredata con i suoi vecchi mobili (in quest’ultima frase il participio si accorda con l’oggetto, rappresentato dal pronome la, che lo precede). La flessione morfologica dei verbi ha una maggiore complessità rispetto a quella dei nomi;; in molti casi possiamo individuare al suo interno più componenti. Al morfema lessicale può seguire la vocale tematica che indica la coniugazione (a-­ amare;; e-­ leggere;; i-­ partire), subito dopo può seguire la marca temporale e modale e infine la marca che indica la persona: am-­a-­v-­o // am-­a-­v-­ate legg-­e-­v-­o sent-­i-­v-­o ma non sempre è così: non sempre tutte le componenti sono rappresentate;; al futuro per esempio abbiamo: am-­er-­ò, dove si annulla la vocale tematica, e al congiuntivo am-­i, con un’unica marca, che peraltro coincide con la seconda persona del presente indicativo, segnalando qualche opacità anche nei paradigmi verbali. Il tempo Le categorie temporali più importanti sono il presente e il passato e sono espresse in tutti i paradigmi indipendentemente dal modo;; anche il congiuntivo o il condizionale hanno un passato. Dunque la distinzione tra presente e

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passato rispetto al momento dell’enunciato si trova in tutti i modi del verbo, con la sola eccezione dell’imperativo, che in italiano si esprime solo al presente. I paradigmi dei verbi italiani comprendono molti più tempi al passato;; il modo indicativo, per esempio, possiede il passato prossimo, l’imperfetto, il passato remoto, il trapassato prossimo, il futuro anteriore (cui si potrebbe aggiungere l’ormai arcaico e non più usato trapassato remoto). Tra le due principali categorie del tempo, il presente è quella centrale, perché sul piano semantico ha possibilità di esprimere più informazioni:

indica coincidenza tra il momento dell’evento e il momento dell’enunciazione (mangio un gelato);; indica un’azione abituale al presente (bevo latte ogni mattina);; indica una verità universale, priva di temporalità (il ferro è un metallo);; nel modo indicativo il futuro ha una sua forma, ma, soprattutto nel parlato, può essere sostituito dal presente (ci vado domani);; in tutti gli altri modi il presente include direttamente il futuro.

Il passato serve per eventi che precedono il momento dell’enunciazione. Per capire bene la funzione temporale dei verbi, dobbiamo ricordare che il tempo fisico, quello che viviamo nella realtà extralinguistica, è cosa ben diversa dal tempo grammaticale espresso dai verbi. Il tempo fisico è misurabile e infatti abbiamo un sistema preciso di suddivisione dei secondi, dei minuti e così via. Il tempo grammaticale invece esprime soltanto una relazione tra il tempo dell’avvenimento di cui stiamo dicendo qualcosa e quello del momento in cui lo diciamo. Il momento dell’avvenimento è indicato di solito con la sigla MA, mentre si segnala con la sigla ME il momento dell’enunciato: MA può essersi verificato, prima, dopo o contemporaneamente a ME. ME è una sorta di ancora, di punto di ancoraggio rispetto al quale giudichiamo presente, passato o futuro l’avvenimento. I tempi deittici hanno un solo punto di ancoraggio:

MA

Ieri ho incontrato tuo padre

ME

Passato ß |ß (punto di ancoraggio)

ME

MA

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Domani partirò con Maria (punto di ancoraggio) à| à futuro Esistono, come si diceva, anche tempi deittico-­anaforici che, oltre ad ancorarsi a ME, si ancorano a qualcosa di espresso nel testo, tramite un avverbio o un’altra proposizione che si definiscono momenti di riferimento e che rappresentiamo con la sigla MR

MA2 e MR Ieri quando è arrivato Giovanni (punto di ancoraggio di MA1) | (passato rispetto a ME) ß

MA1 avevo da poco finito di lavorare

ß (passato rispetto a MA2 e a ME) ß

-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­

ME

|| (punto di ancoraggio di MA2 e di || MA1)

ME

(punto di ancoraggio di MA1 e di || MA2) ||

MA1 Quando avrai finito di fare i compiti à (futuro anteriore rispetto a MA2 e a ME) à -­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­-­

MA2 e MR guarderai la televisione | (punto di ancoraggio di MA1) à (futuro rispetto a ME)

I tempi deittico-­anaforici in italiano sono il trapassato prossimo, il trapassato remoto ormai in disuso, il futuro anteriore e il condizionale passato quando è usato per esprimere il futuro nel passato (Giovanni ha detto che sarebbe partito alle 12,00, dove sarebbe partito è futuro rispetto a MA-­MR e passato rispetto a ME, mentre disse è passato rispetto a ME). Il futuro è presente solo nel modo indicativo. Nel parlato tende sempre più a essere sostituito dal presente;; tuttavia occupa altri spazi assumendo, per esempio, valore epistemico, per esprimere dubbio o incertezza: saranno le 10;; sarà Maria. L’aspetto L’aspetto acquista maggiore importanza con i tempi del passato. Al modo indicativo, infatti, abbiamo una forma imperfettiva e due perfettive (imperfetto, passato prossimo e passato remoto).

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L’imperfetto codifica: • eventi passati abituali (vestivamo di bianco);; • eventi durativi (ascoltavo la musica mentre leggevo);; • eventi finiti in testi narrativi di tipo biografico o cronachistico (Nel 1840 Manzoni pubblicava i Promessi Sposi).

Un’azione perfettiva individua il punto iniziale e finale dell’avvenimento, mentre un’azione imperfettiva individua il punto iniziale e non sempre mostra con chiarezza quello finale. Per comprendere la differenza tra passato remoto, passato prossimo e imperfetto, ricorriamo, secondo le indicazioni di Luca Serianni, a tre esempi: 1) da giovane leggevo molto;; 2) da giovane lessi molto;; 3) da giovane ho letto molto.

L’azione descritta è la stessa, ma cambia il modo di percepirla da parte del parlante. La frase (1) indica l’abitualità dell’azione e sfuma sui contorni (sulla quantità, sull’accaduto successivo, ecc.);; la frase (2) inserisce l’azione in coordinate temporali molto ben definite;; ne sottolinea la compiutezza e il distacco dal presente;; la frase (3) rivive il processo nelle sue ricadute successive: collega implicitamente l’enunciato a un risultato attuale («… e quindi sono istruito», «… mentre oggi non posso più farlo», ecc.). È chiara, per esempio, la distinzione tra è nato nel 1941, detto di persona ancora vivente e nacque nel 1915 di persona non più in vita. Nella percezione di chi parla o scrive l’azione espressa con il passato prossimo perdura nel presente. L’azione designata dal passato prossimo, dunque, è sentita come vicina soprattutto dal punto di vista psicologico più che cronologico. Il parlante tenderà a dire, per esempio, «mio padre ha cominciato a lavorare giovanissimo» invece di «mio padre cominciò a lavorare giovanissimo». Allo stesso modo può accadere di rappresentare con il passato remoto un’azione vicina guardata con distacco mi telefonò ieri. Il presente non prevede categorie d’aspetto (azioni finite o in via di svolgimento), ma quando la sua funzione è strettamente deittica, cioè l’evento riferito è strettamente connesso al momento dell’enunciazione, si ha (soprattutto nel parlato) l’uso della forma progressiva: sto mangiando il gelato. Le funzioni aspettuali rappresentate da perifrasi, in particolare da quelle che indicano un’azione progressiva, formate dal verbo stare seguito dal gerundio (sto parlando a telefono;; stavo studiando a casa di Giovanni) sono oggi in espansione in italiano. Si tratta di un aspetto imperfettivo, che serve a indicare l’azione nel suo svolgimento.

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In alcuni verbi i suffissi posti tra il morfema lessicale e il morfema grammaticale danno informazioni vicine a quelle aspettuali: fischi-­ett-­are, cant-­erell-­are, leggiucchiare. Sono suffissi o, più esattamente, interfissi che indicano un’azione continuativa ma priva di attenzione e impegno. Il modo In italiano esistono sette modi verbali: quattro finiti (indicativo, congiuntivo, condizionale e imperativo) e tre non finiti (infinito, gerundio, participio). I modi finiti subiscono flessione verbale per esprimere la persona;; quelli non finiti sono privi di flessione personale. L’atteggiamento del parlante verso l’enunciato, oltre che dal modo verbale, può essere espresso, soprattutto nel parlato, anche da avverbi come forse, sicuramente, ecc., dall’intonazione, dai gesti. La principale funzione del modo, essendo legata a ciò che il parlante pensa di ciò che dice, è di carattere semantico. Di solito, infatti, si lega il modo indicativo alla certezza, il condizionale a qualcosa di possibile o di subordinato ad alcune condizioni e il congiuntivo a qualcosa di possibile, di auspicabile, di desiderato e così via. Tuttavia le cose non sono sempre così lineari e schematiche: al modo si legano anche componenti, sintattiche e pragmatiche;; inoltre anche il tempo può talvolta assumere le funzioni del modo. Pensiamo, per esempio, al futuro epistemico di cui abbiamo detto. Nella frase Che ore sono? Mah, saranno le 10, il futuro indica una possibilità e anche un dubbio, un’incertezza da parte del parlante su ciò che sta dicendo. Dunque in questo caso il modo indicativo non segnala una certezza del parlante e il significato dubitativo è affidato al tempo e non al modo. Ricordiamo anche ciò che abbiamo detto a proposito del presente che esprime verità universali: è ancora un tempo, cioè, che assume le funzioni semantiche del modo. Anche il condizionale al passato, che abbiamo appena visto (Giovanni disse che sarebbe partito per l’America), è un modo che adoperiamo in alcuni contesti per esprimere un contenuto temporale, il tempo futuro al passato. In conclusione con un tempo, il futuro, possiamo esprimere le funzioni semantiche del modo e con un modo, come il condizionale, possiamo esprimere le funzioni temporali. Il modo congiuntivo può svolgere le funzioni semantiche tipiche del modo, spaziando dalla probabilità all’impossibilità degli eventi, ma può anche svolgere funzioni sintattiche. In generale si può dire che il congiuntivo è, molto frequentemente, una marca della subordinazione e infatti, sebbene si continui a parlare di morte del congiuntivo, in realtà in italiano resiste molto bene in diverse costruzioni sintattiche. Nel parlato può effettivamente accadere che per

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i processi di semplificazione si dica credo che hai capito invece di credo che tu abbia capito;; l’importante, tuttavia, è sapere come funzioni e quali siano gli usi del congiuntivo, per poter scegliere sempre il registro e la varietà giusta al momento giusto. La vera competenza linguistica, infatti, non consiste solo nella conoscenza delle norme ma anche nella capacità di passare consapevolmente da un registro all’altro e da una varietà all’altra. Il congiuntivo si può adoperare anche in proposizioni indipendenti, dove assume il valore di: -­ esortativo (anche con il senso di imperativo): si decida in fretta, signore e scelga bene;; -­ dubitativo: e se avesse preso la macchina? -­ ottativo (augurio o anche timore): volesse il cielo!;; che Dio ci guardi! -­ esclamativo: Vedessi che prezzi! Nelle proposizioni subordinate, il quadro è più articolato e complesso e, come si diceva, non sempre la scelta del congiuntivo dipende dall’espressione dell’incerto o dell’impossibile. Nella scelta del congiuntivo è molto importante il verbo della proposizione principale. Reggono sempre il congiuntivo:

• i verbi che esprimono un ordine, una preghiera o un permesso (ordinò che tutte le truppe fossero pronte per l’attacco;; voglio che tu sia qui per le 9,00;; pregò che il Signore la esaudisse;; consento che la cena sia spostata alle 21);;

• i verbi che esprimono opinione (suppongo che tu sia pronto);; Con alcuni verbi si usa l’indicativo o il congiuntivo ma con sfumature diverse di significato. Traiamo alcuni esempi dalla Grammatica italiana di Luca Serianni:

• ammettere, ind. 'riconoscere': ammisi davanti al professore che non avevo studiato bene;; cong. 'supporre, permettere': ammettendo che tu abbia ragione, che cosa dovrei fare?;;

• badare, ind. 'osservare': cercò di non badare all'effetto che gli faceva quella strana voce;; cong. 'aver cura': mi consigliava di badare che non cadessi;;

• capire, comprendere, ind. 'rendersi conto': non vuole capire che io non sono un suo dipendente;; cong. 'trovare naturale': capisco che tu voglia andartene;;

• pensare, ind. 'essere convinto': penso anch'io che tu sei stanco;; cong. 'supporre': penso che tu sia stanco.

Il congiuntivo si usa inoltre: 1) con alcune congiunzioni subordinanti, come affinché, benché, sebbene, a meno che, ecc. (sebbene sia stanco andrò a cena fuori);;

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2) con aggettivi o pronomi indefiniti come qualunque, chiunque, qualsiasi, dovunque (chiunque sia non voglio vederlo);; 3) con espressioni impersonali, come è necessario che, è probabile che, è bene che (è bene che ti vada a casa al più presto) 4) in sequenze ormai fisse come vada come vada;; costi quel che costi). Come si vede, solo in alcuni casi il congiuntivo esprime dubbio o incertezza, in altri il suo uso è condizionato da fattori sintattici. Del resto anche in frasi come mi pare che tu sia nel giusto, l’incertezza è anche affidata alla semantica verbo della principale;; diverso sarebbe stato se avessimo usato, per esempio, il verbo dichiarare (dichiaro che sei nel giusto). Noi diciamo credo che Dio esista anche se siamo atei, perché il verbo credere rientra tra i verbi di opinione che richiedono il congiuntivo;; se usiamo l’indicativo (credo che Dio esiste) è solo perché stiamo adoperando un registro informale e colloquiale.

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LA MORFOLOGIA LESSICALE Abbiamo già visto la differenza tra morfologia flessionale e morfologia derivazionale che viene anche detta morfologia lessicale, visto che studia il modo in cui si formano nuovi significati, nuove parole che hanno ampliato e possono ancora ampliare il lessico italiano. I meccanismi di cui si serve sono la derivazione e la composizione, che sono ancora oggi i modi più produttivi per la formazione di parole nuove nella nostra lingua. Come informa Massimo Palermo, anche solo indagando nel lessico del vocabolario di base, possiamo notare che ben il 35% delle parole non viene dal latino e non è un prestito da altre lingue: si tratta infatti di termini che sono stati ottenuti attraverso i procedimenti della derivazione o della composizione. La derivazione si realizza tramite gli affissi. Questi si distinguono in suffissi, che si aggiungono di seguito alla parola base (decis-­o > decis-­ion-­e), e prefissi che si premettono alla parola base (deciso > in-­deciso). Si parla anche di interfissi quando si interpongono tra il morfema lessicale e il suffisso: regol-­abil-­ità o tra il morfema lessicale e il morfema grammaticale: cant-­icchi-­are I suffissi in realtà si interpongono il più delle volte tra la parola base e la desinenza (forn-­ai-­o, pan-­ific-­are). Modificano il significato della parola base, ma possono modificare anche la categoria grammaticale, possono cioè operare una transcategorizzazione (deciso > decisione, lavorare > lavoratore, bianco > biancheggiare, ecc. ). Buona parte dei suffissi italiani deriva dal latino (arius > aio, ibilis > ibile, ecc.);; altri sono stati introdotti attraverso altre lingue, come il suffisso -­iere, che è stato tratto da francesismi affermatisi nel medioevo, come cavaliere, destriero (anticamente destriere), ecc. I prefissi, a differenza dei suffissi, si premettono alla base lessicale e soprattutto non consentono la transcategorizzazione: con la prefissazione, cioè, da un sostantivo si avrà sempre un sostantivo o da un aggettivo un aggettivo e così via (deciso > indeciso, visione > previsione, ecc.). I suffissi non sono mai morfemi autonomi, mentre i prefissi possono avere anche funzione di preposizioni o avverbi: sotto, con, sopra, ecc. Altra proprietà dei suffissi è la ricorsività, la possibilità cioè di derivare un’altra parola da quella già derivata tramite l’aggiunta di un suffisso, come nel caso di socio > sociale (aggettivo) > socializzare (verbo) > socializzazione (sostantivo), dove, come può accadere con la ricorsività, si ha una successione di cambiamenti di categoria morfologica (transcategorizzazioni)

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La ricorsività è possibile più raramente e solo in alcuni casi anche con i prefissi: stabilizzare > de-­stabilizzare > ri-­de-­stabilizzare Nel parlato sono anche frequenti coniazioni spontanee come ex-­ex-­marito o iper-­iper-­attivo, ma non sono formazioni stabili. Molti verbi si sono formati a partire da un nome o da un aggettivo (denominali o deaggettivali) con l’aggiunta di un prefisso e del morfema grammaticale dell’infinito: bello > abbellire, nervoso > innervosire, coppia > accoppiare, briciola > sbriciolare, ecc. Si parla in questi casi verbi parasintetici. Perché si possa parlare di formazione parasintetica, non deve esistere una parola che abbia solo quel prefisso o solo quel morfema grammaticale: abbellire, innervosire, accoppiare, sbriciolare sono, infatti, parasintetici perché non esistono *abbello, *innervoso, *accoppia, *sbriciola e neppure *bellire, *nervosire, *coppiare, *briciolare. La derivazione è dunque avvenuta aggiungendo contemporaneamente alla base lessicale il prefisso e la desinenza. Si tratta di un procedimento ancora molto produttivo in italiano: si pensi a formazioni nate soprattutto nei linguaggi giovanili come impasticcarsi, incasinare, smanettare, ecc. Si possono anche avere derivazioni di parole nuove senza l’aggiunta di suffissi: si parla in questi casi di derivazione a suffisso zero. Si tratta quasi sempre di sostantivi derivati da verbi, che sono anche definiti deverbali a suffisso zero, come nel caso di verificare > verifica, arrestare > arresto. Sono piuttosto frequenti nel linguaggio burocratico amministrativo che tende a produrne anche di specifici come inoltrare > inoltro, reintegrare > reintegro, ripristinare > ripristino, ecc. Senza suffisso e in realtà non per derivazione può anche cambiare la categoria morfologica di una parola: la congiunzione perché può diventare un sostantivo: il perché delle cose;; il participio presente di cantare è divenuto stabilmente un sostantivo: cantante, e così il verbo piacere è diventato un sostantivo: il piacere. Parliamo in questi casi di conversione. La derivazione è un procedimento che si introietta subito imparando l’italiano e che rimane vivo nella coscienza dei parlanti. Ne abbiamo la prova quando i bambini o anche gli stranieri, imparando la lingua, tendono a derivare per analogia parole che non esistono, partendo però non da una base lessicale, ma da una forma già derivata, per esempio *aviare da aviatore. Il fenomeno è definito retroformazione perché al contrario di quanto avviene con la derivazione, tramite la quale si aggiungono elementi per formare parole nuove, in questo caso da una parola derivata si sottraggono elementi. Sono errori, ma a volte alcune di queste formazioni errate con il passare del tempo si affermano, e non vengono più percepite come erronee dalla comunità parlante.

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Pensiamo a candidare ‘presentare qualcuno come candidato’ derivato erroneamente da candidato che è arrivato in italiano direttamente dal latino candidatum (a sua volta derivato di candidum). Per capire che si tratta di retroformazioni spesso dobbiamo conoscere l’origine della parola: anche acquisire non deriva dal latino acquirere ma da acquisizione. Dunque in molti casi la retroformazione ha successo e si stabilizza nel lessico;; in altri casi invece continua ancora a lungo a essere avvertita come erronea: è ciò che ancora accade con redarre. Il verbo è redigere, ma è stato formato anche redarre da redazione, forse anche per analogia con il participio redatto;; la nuova forma però è ancora sentita come errata da buona parte della comunità linguistica. Alcuni suffissi tendono a specializzarsi, per esempio –aio prevale nella formazione di nomi che indicano mestieri e professioni (benzinaio, notaio, fioraio, ecc.), ma abbiamo anche vecchiaia, pollaio, ecc. A volte i suffissi tendono a modificare la categoria grammaticale solo di alcune basi;; per esempio il suffisso –oso tende a modificare nomi in aggettivi: fatica > faticoso, noia > noioso, ecc. Tuttavia si tratta anche in questo caso di una tendenza prevalente e non di una regola;; abbiamo, infatti, anche transcategorizzazioni con –oso da verbo ad aggettivo: piovere > piovoso. Gli alterati Un procedimento analogo alla derivazione è l’alterazione, che consiste nell’aggiungere un affisso non per cambiare completamente il significato ma solo per modificarne alcuni tratti, aggiungendo informazioni sulla dimensione (appartamentino, scatolone), sulla negatività di vari aspetti (ragazzaccio, cartaccia), su elementi affettivi (amoruccio, tesorino). Anche in questo caso i suffissi alterativi hanno solo una tendenza a specializzarsi, perché per esempio alcuni suffissi destinati a formare diminutivi o accrescitivi, se legati ad alcune basi lessicali, possono assumere sfumature di negatività (attricetta, grassone) o di affettività, confidenza e così via (ci prendiamo un caffeino?). Alcuni alterati divengono parole autonome, acquistando un significato completamente differente dalla parola base da cui sono derivati: carrozzina non è più una “piccola carrozza”, ma un mezzo di trasporto per i neonati, spazzolino è oggi solo lo “spazzolino da denti” e lo stesso vale per calzino e così via. È accaduto lo stesso anche nel passaggio dal latino all’italiano: le parole fratello, agnello erano originariamente degli alterati con valore diminutivo. Si parla in questi casi di lessicalizzazione. Con lessicalizzazione potremmo genericamente intendere ogni formazione di parola tramite l’attribuzione di un nuovo significato, ma più precisamente parliamo di lessicalizzazione quando una forma in una fase storica precedente della lingua non veniva percepita come termine autonomo del lessico, mentre da un certo momento in poi lo diventa. Anche alcuni casi di conversione che abbiamo visto

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prima, come cantante, sono lessicalizzazioni e si pensi al participio passato al genere femminile condotta che ha assunto il significato di “tubatura”. La lessicalizzazione, come si è detto, si verifica spesso con gli alterati. In qualche caso con il suffisso –ino e qualche volta anche con il suffisso –one, si verifica sia lessicalizzazione sia cambio di genere: capanna > capannone, rosa > rosone, calza > calzino, spazzola > spazzolino, ecc. Quando un alterato si lessicalizza non può più essere usato come alterato e quindi ricorriamo spesso a una sostituzione di suffisso o a un doppio suffisso: carrozzella, fiorellino (perché fioretto ha assunto un altro significato). L’alterazione riguarda principalmente i nomi e gli aggettivi, ma come abbiamo visto può interessare anche i verbi in forme come canticchiare, fischiettare, che assumono un significato particolare. In questo caso l’alterazione si ottiene con un interfisso invece che con un suffisso. Possiamo formare alterati anche con prefissoidi come super, mega, maxi, mini, ecc. La composizione La composizione è il secondo più importante procedimento in italiano per la formazione delle parole. Anche nel caso della composizione si ricavano parole nuove partendo da basi già esistenti, ma a differenza della derivazione la nuova parola non si forma aggiungendo un morfema derivazionale (un affisso) al morfema lessicale, ma unendo due parole distinte e autonome per ottenerne una di nuovo significato (chiaro + scuro > chiaroscuro;; porta + bagagli > portabagagli). I composti si distinguono principalmente in verbali e nominali. I composti verbali sono formati dall’unione di verbo + nome (asciugamano, portabagagli) o dall’unione di verbo + avverbio (benedire). I composti nominali derivano dall’unione di due nomi (cassapanca), di nome + aggettivo (pellerossa), di due aggettivi (agrodolce). Le parole composte hanno di solito una grafia univerbata (portaombrelli, pellerossa, agrodolce, ecc.), ma si possono incontrare anche composti separati (croce rossa) o divisi da un trattino da un trattino (fono-­morfologico, afro-­americano), che tuttavia si comportano sul piano morfologico esattamente come tutti gli altri composti. Il fatto che i composti si comportino e siano percepiti a tutti gli effetti come termini autonomi del lessico è confermato dalla possibilità, non molto frequente, di ottenere anche dei derivati, aggiungendo come sempre un morfema legato (perlopiù un suffisso): pallavolo > pallavolista.

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I principali e più frequenti tipi di composizione associano: nome+nome, capostazione;; aggettivo+aggettivo agrodolce;; verbo+nome portaombrelli. Ne esistono anche degli altri;; analizzando, infatti, i composti esistenti nel lessico italiano si può arrivare a contare fino a 11 tipi di composti, ma si tratta di tipi poco o per nulla attivi (come avverbio+avverbio, malvolentieri;; nome+aggettivo cassaforte, ecc.), mentre i tre già visti sono quelli che si rivelano ancora oggi pienamente attivi. Il plurale dei nomi composti Caso dei composti formati da "verbo+nome singolare maschile (grattacapo, corrimano);; il composto forma un blocco unico e nel plurale muta la desinenza del sostantivo: il grattacapo > i grattacapi («Ah, non voglio più grattacapi, niente più lavoro!» Pirandello), il passaporto > i passaporti («Il Ministro per gli affari esteri, in circostanze eccezionali [...] può sospendere temporaneamente o disporre il ritiro dei passaporti già rilasciati» Codice Penale, Appendice, Passaporti, art. 9), il parafango > i parafanghi, spazzacamino > spazzacamini, ecc. Si inseriscono in questo gruppo anche i nomi composti con base verbale + il femminile -­mano, a causa della desinenza in -­o: l'asciugamano > gli asciugamani, il corrimano > i corrimani, il baciamano > i baciamani, ecc. Nei nomi ficodindia, pomodoro abbiamo l'esempio più tipico di composizione nome + preposizione + nome. In ficodindia è molto vivo il senso della composizione: perciò il plurale più comune è fichidindia (in cui avvertiamo ancora distintamente 'fichi -­ d' -­ India’;; anche la scrizione separata fico d'India > fichi d'India è molto comune). Ben diverso è il caso di pomodoro (< pomo d'oro), in cui i costituenti sono ormai totalmente fusi nel composto e dalla scomposizione del nome nei suoi costituenti non ricaviamo un sintagma semanticamente equivalente (un pomo d'oro non è, insomma un pomodoro). La forma di plurale oggi più diffusa è, di conseguenza, i pomodori, anche se non mancano nella lingua letteraria i pomidoro e i pomidori. Rara e da non usare la forma singolare il pomidoro, rifatta sul plurale i pomidori, che compare qualche volta anche nella lingua letteraria. Vanno registrati a parte i nomi composti con capo-­ (capobanda, capolavoro, ecc.). Capo-­ può designare a) colui che è a capo di qualcosa (= 'x è a capo di y'), come capostazione ('il capo della stazione'), ecc.;; b) colui che è a capo di qualcuno (= 'x è capo tra tanti x), come capoimpiegato ('il capo degli impiegati'), ecc.;; c) ciò che si segnala tra altri oggetti omogenei come 'preminente', 'eccellente' (= 'un capo x): ad esempio capolavoro ('un lavoro, un'opera d'arte di prim'ordine'), ecc.

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Distinguiamo dunque tre gruppi: a) Nel tipo 'x è il capo di y' il secondo nome ha la funzione di determinatore: i due membri non formano un blocco unico e il segnale del plurale si aggiunge al primo: il capogruppo > i capigruppo, il capostazione > i capistazione, ecc. b) Nel tipo 'x è capo tra tanti x' capo è in funzione appositiva rispetto al secondo nome;; il composto viene percepito come un'unica parola e il segnale del plurale di aggiunge al secondo membro: il capocuoco > i capocuochi, il caporedattore > i caporedattori, ecc. Rimane invece sempre invariato il costituente capo-­ nel plurale dei nomi femminili, sia nel tipo la caporeparto > le caporeparto, la coposala > le caposala, sia nel tipo la capoimpiegata > le capoimpiegate, la caporedattrice > le caporedattrici. c) Anche nel tipo 'un capo-­x', affine al precedente, il costituente capo-­ ha funzione appositiva e il plurale si forma modificando il secondo membro del composto: il capoluogo > i capoluoghi, il capolavoro > i capolavori. Struttura dei composti La derivazione e la composizione si differenziano anche sul piano diacronico: mentre la derivazione, infatti, è stato un procedimento attivo e importante fin dalle origini della nostra storia linguistica, i composti, tranne qualche eccezione più antica, come biancospino, hanno cominciato a essere prodotti con sempre maggiore frequenza a partire dalla fine del Settecento. Nei composti italiani possiamo molto spesso distinguere una testa e un modificatore: in questo caso li definiamo composti endocentrici, composti cioè in cui la testa è rappresentata da uno dei componenti della parola. Se prendiamo l’esempio di caposquadra, vediamo che la testa del composto è a sinistra e oltre a guidare il comportamento morfologico del composto ne indirizza anche i tratti semantici. Nella flessione morfologica, infatti, per il maschile il plurale è dato dalla testa (capisquadra – per il femminile la forma rimane invariata, le caposquadra);; inoltre noi ricaviamo tratti rilevanti del significato sempre dalla testa, poiché sappiamo che nel significato di questa parola è presente il tratto [+ animato] da capo e non [-­ animato] da squadra (si tratta di una “persona che comanda la squadra”). In base all’ordine proprio dell’italiano, che prevede la successione determinato + determinante (il libro di Mario, la bottiglia vuota), nei composti la testa è quasi sempre rappresentata dal componente di sinistra e il modificatore da quello di destra (cassapanca “cassa a forma di o con funzione di panca”;; pescespada, portaombrelli, ecc.). Ci sono però delle eccezioni, come i composti che derivano o sono formati basandosi su elementi delle lingue classiche

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(terremoto), o composti arrivati come prestiti (ferrovia sul tedesco eisenbahn, personal computer, videogame). Dall’inglese oggi arrivano molti composti che seguono l’ordine marcatore+testa, incidendo dunque sull’ordine base (testa+marcatore) dell’italiano;; tra l’altro si tende a coniare nuovi composti dove uno dei due elementi è inglese e l’altro è italiano (baby-­pensioni, pigiama-­party). Tuttavia l’ordine inverso dei componenti rispetto a quello dell’italiano è già presente nei composti di formazione classica, di cui diremo più avanti, e inoltre molte di queste formazioni hanno vita breve, perché sono legate alla linguaggio dei media e non sempre attecchiscono nella lingua. In alcuni composti la testa non è rappresentata da nessuno dei componenti della parola, ma è reperibile al suo esterno (composti esocentrici). In composti come croce rossa, colletto bianco, casco blu nessuno dei componenti ci aiuta a individuare quale sia il significato della parola: colletto bianco, per esempio, che indica genericamente un “impiegato di ufficio” (ma si usa prevalentemente al plurale), non ha al suo interno nessun elemento che ci segnali il tratto [+ umano];; dobbiamo dunque reperirlo all’esterno della parola. Sono ovviamente le conoscenze diffuse e condivise o la cultura di una comunità linguistica che aiutano a reperire questo elemento all’esterno, per cui sappiamo che i caschi blu sono “militari dell’ONU che indossano caschi di colore blu”. Dobbiamo riconoscere un elemento esterno al composto che possieda entrambi i caratteri dei due elementi che formano il composto: ecco perché parliamo di composti esocentrici. Abbiamo visto come siano ancora presenti in italiano composti che conservano dal latino l’ordine modificatore + testa;; questo tipo di composizione è cresciuto, soprattutto a partire dalla fine del Settecento, con la formazione di composti fondati su elementi del greco e talvolta anche del latino. Si definisce composizione neoclassica ed è stata adoperata soprattutto per la formazione di termini specialistici, legati a diversi settori e discipline: in geologia, archeologia, epatopatia sono accostati termini che erano autonomi nella lingua di provenienza ma che certamente non sono avvertiti come tali nella coscienza del parlante contemporaneo. Questo genere di composizione ha avuto sempre più fortuna con la diffusione crescente delle tecnologie ed è stato usato anche per oggetti che adoperiamo nella vita quotidiana: si pensi a semaforo (dal greco sema “segno” che arriva a noi attraverso il francese sémaphore) o a citofono (dal latino cito “presto”) coniato sul modello di telefono (dal greco tele “lontano”, attraverso il francese téléphone). L’ordine dei componenti segue sempre la regola delle lingue classiche e dunque la testa è a destra e il modificatore a sinistra. Sulla base di questo schema di composizione sono state formate parole che hanno accostato a un elemento classico un componente italiano (discoteca,

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psicofarmaco, fotosintesi, televisione). È accaduto, infatti, che il componente che rappresentava un termine autonomo nella lingua antica non è stato più avvertito come tale, ma è stato trattato come un affisso (prefisso bio-­, tele-­, ecc. o suffisso –logia, -­fono). In realtà non hanno le stesse identiche caratteristiche dei prefissi e dei suffissi che adoperiamo nella derivazione: certamente non sono più parole libere rispetto alle lingue classiche da cui derivano, però hanno una capacità di far riconoscere il significato maggiore dei normali prefissi e suffissi. Per tale motivo sono definiti prefissoidi e suffissoidi. Questo tipo di composizione tramite prefissoidi e suffissoidi ha avuto grande fortuna nell’italiano contemporaneo estendendosi anche ad altri elementi: si pensi alle numerose formazioni con –poli (tangentopoli, vallettopoli, ecc.). In più di un caso il prefissoide ha aggiunto un secondo significato al significato originario: auto-­ aveva il significato di “da sé”, che ancora conserva, (autocritica), ma per abbreviazione di automobile (“che si muove da sé”) ha assunto anche lo stesso significato della parola abbreviata e dunque autostrada non vuol dire “strada che scorre da sé” ma “strada delle automobili”;; la stessa cosa vale per autofficina, autolavaggio, ecc. Stesso fenomeno si può osservare con foto-­ che aveva il significato di “luce o relativo alla luce”, ancora conservato in composti come fotosintesi, ma per abbreviazione di fotografia (“scrittura/disegno tramite la luce”) abbiamo avuto formazioni come fotomontaggio, fotoamatore, ecc. Sono diventati molto diffusi, soprattutto nel linguaggio televisivo e nei gerghi giovanili, i prefissoidi che indicano dimensioni (mini-­, mega-­, micro-­, maxi-­, ecc.). Polirematiche Come si è visto la formazione delle parole implica cambiamenti semantici e spesso anche passaggi di categoria grammaticale. La possibilità di mutare le forme è nota al parlante che abbia una completa e adeguata competenza della propria lingua. Ciascun parlante ha la capacità di ricondurre ogni singola forma a una forma primaria da cui dipendono le altre e che in italiano sono perlopiù il maschile singolare per nomi e aggettivi e l’infinito per i verbi (ragazzi è ricondotto a ragazzo e corriamo a correre). In altre lingue può esserci un sistema diverso. Se in italiano vogliamo cercare sul dizionario una parola che non conosciamo come flogistica, sappiamo di dovere cercare flogistico. In lessicografia (che si occupa della compilazione dei dizionari), questa forma originaria si chiama lemma;; se pensiamo alla rappresentazione mentale che ne ne fa ciascuno di noi, parliamo di lessema.

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Non dobbiamo confondere lemma e lessema con parola. Parola è una definizione impropria che adoperiamo comunemente e che ha un significato ampio e generico. Possono per esempio svolgere la funzione di parole anche alcuni sintagmi fissi o polirematiche Se consideriamo il significato delle parole composte, come aspirapolvere, capodanno, ecc., siamo di fronte a parole distinte da quelle che costituiscono la base della loro formazione (aspirare – polvere, capo di anno). È una distinzione evidente sia per la diversità della forma sia e soprattutto per la diversità di significato. Nei dizionari, infatti, i composti sono quasi sempre considerati come lemmi e viene loro riconosciuto lo statuto di parola. Diverse sono le espressioni ferro da stiro, carta di credito o anche chiedere scusa, dove la natura di costituente semantico è meno evidente, perché il significato si deduce dal significato dei singoli elementi che le compongono. Le polirematiche, inoltre, a differenza dei composti presentano quasi sempre, nelle costruzioni nominali, elementi di raccordo espliciti, come congiunzioni o preposizioni (giacca a vento). Tuttavia anche in casi come carta di credito o ferro da stiro dobbiamo ammettere che si tratta di sequenze particolari: non possiamo sostituire un elemento e dire *attrezzo da stiro, non possiamo neppure modificarne le singole parti con l’aggiunta di determinanti: *la carta nuova di credito, *il ferro caldo da stiro ecc. Diremo al contrario la carta di credito nuova o la nuova carta di credito o anche il ferro da stiro caldo. Non sono possibili né le inversioni (acqua e sapone e non *sapone e acqua) né le pronominalizzazioni: non possiamo dire, per esempio, quelli animati sono i cartoni che mi piacciono. Una maggiore possibilità di separabilità tra gli elementi si ha invece con le polirematiche frutto di costruzioni verbali, come rendere conto, dove possiamo anche inserire un avverbio: rendere adeguatamente conto. Queste espressioni, che hanno un significato unitario, anche se è deducibile dai significati delle parti che le compongono (sala d’aspetto), hanno comportamenti particolari che le assimilano a parole semplici. Sono espressioni linguistiche costituite da più parole chiamate in vari modi: unità lessicali superiori, sintagmi fissi, unità polirematiche o semplicemente polirematiche. Se consideriamo infine espressioni nominali come palla al piede, vicolo cieco, lacrime di coccodrillo, sala d’aspetto, carta di credito o espressioni verbali come vuotare il sacco, prendere sotto gamba, chiedere scusa, ci troviamo di fronte a casi molto diversi tra loro. Tuttavia se il criterio principale in base al quale distinguiamo le parole una dall’altra è quello semantico, queste

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sequenze, pur essendo costituite da più elementi, si avvicinano molto di più, dal punto di vista lessicologico, a delle parole autonome, perché esprimono un concetto e un significato nella loro globalità, un significato unitario. Sono, sia pure con modalità diverse, un costituente semantico. Il fatto che espressioni come palla al piede, lacrime di coccodrillo, vuotare il sacco, che appartengono alla fraseologia italiana, siano costituenti semantici è dimostrabile facilmente: la palla al piede non è una palla, ma una persona o una situazione che rappresentano un peso e un ostacolo;; una persona che piange lacrime di coccodrillo, non versa dagli occhi le lacrime dell’animale feroce, ma mostra un falso pentimento. Allo stesso modo chi vuota il sacco non svuota un contenitore di tela ma racconta la verità.

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IL TESTO Testualità e sintassi sono strettamente connesse tra loro e tuttavia si occupano di cose sensibilmente differenti: la sintassi guarda al modo in cui le parole si organizzano per formare sintagmi o frasi, mentre la testualità si occupa soprattutto di capire come i componenti di una frase o più frasi instaurino relazioni per fornire al testo coerenza e coesione. In sostanza la testualità guarda ai rapporti tra le frasi o a quelli tra gli elementi che le compongono da un punto di vista diverso. Per testo possiamo intendere una qualsiasi comunicazione che abbia una chiara relazione con un contesto e che abbia un senso coerente: anche un saluto come buongiorno può costituire un testo, se è un saluto riconosciuto da chi mi ascolta e se viene detto nel momento opportuno, non di notte per esempio né a una persona che è stata appena investita da un’automobile. Non esiste comunicazione senza i testi. Una sola frase o anche una parte di frase che siano collocate in un adeguato contesto e abbiano un significato costituiscono un enunciato. Un solo enunciato, come abbiamo appena visto, può costituire un testo;; più frequentemente un testo è costituito da una combinazione di enunciati e può essere realizzato oralmente, essere scritto o trasmesso. Le caratteristiche che però assumono maggiore rilevanza per l’esistenza di un testo sono possedere un senso, essere collegato a un determinato contesto e possedere funzioni comunicative. Se io produco un enunciato come la spider rossa parlava con la berlina azzurra ho prodotto un testo che ha una sua correttezza grammaticale e sintattica, ma non è un testo perché è privo di senso e non realizza alcuna comunicazione;; tuttavia se la frase fosse inserita nel racconto di un cartone animato potrebbe acquistare un senso e riuscire a comunicarci qualcosa. Ancora se produco un enunciato come Giovanni cammina da solo sulla spiaggia, attribuisco alla frase un determinato senso nel caso Giovanni sia un adulto e può comunicare molti altri messaggi in base alla conoscenza che ho di Giovanni e di ciò che gli è capitato, ma può cambiare completamente senso se Giovanni è un bambino di tre anni, suscitando allarme per il fatto che si trova da solo sulla spiaggia. Dunque ogni frase ha un significato letterale e invariabile (che in questo caso potremmo sintetizzare in “un essere animato e umano si sta spostando lungo una spiaggia”), ma ha anche un significato che cambia in base al contesto e ciò che conosciamo del contesto. La testualità dunque non si occupa della correttezza grammaticale dei testi, né studia le loro relazioni grammaticali, ma del modo in cui i testi riescono a comunicare con efficacia qualcosa. Le relazioni testuali sono più difficili da

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individuare rispetto a quelle grammaticali e tuttavia se il parlante o lo scrivente non è capace di rispettarle la comunicazione non è sufficientemente efficace o può anche non andare a buon fine. La comunicazione avviene proprio attraverso lo scambio di testi e per avere successo deve poter mettere in relazione le conoscenze condivise da emittente e ricevente. Le conoscenze condivise, il contesto, i riferimenti corretti alla realtà esterna sono essenziali nella produzione dei testi: se ne deduce che come il lessico anche il testo è l’aspetto della lingua che più collega sistema linguistico e realtà extralinguistica. Per comprendere il significato essenziale di una frase di solito mettiamo in atto un processo di decodifica, ovvero individuiamo le più piccole unità e a mano a mano le colleghiamo per comporre unità più ampia (fonemi, parole dotate di senso, nomi, verbi, ecc. fino alla frase, all’insieme di frasi, ecc.). Tutto ciò non basta per comprendere un testo: abbiamo anche bisogno, infatti, di partire, come abbiamo detto, dalle nostre conoscenze extralinguistiche o dal contesto per giungere al significato di ciò che leggiamo o ascoltiamo. È un procedimento contrario al precedente, perché con il primo da unità più piccole passiamo a unità più grandi;; con il secondo compiamo il cammino inverso, compiamo dunque un’inferenza. Un testo si comprende inoltre nel suo insieme: non lasciamo separati gli elementi informativi che di volta in volta vengono aggiunti, ma li combiniamo insieme. Dunque comprendere un testo è un’operazione complessa che richiede competenze linguistiche vere e proprie (morfologiche, sintattiche, ecc.), competenze testuali, conoscenza del mondo e del contesto in cui il testo è prodotto. Se volessimo schematizzare queste competenze, potremmo dire che fonologia, morfologia, sintassi, lessico e testualità sono tutte competenze linguistiche, ma il lessico e la testualità richiedono anche conoscenze extralinguistiche. Principi costitutivi del testo Un testo compie la sua funzione comunicativa solo se è dotato di un senso, ovvero di coerenza, e se è adeguatamente costruito sul piano grammaticale (coesione). I principi costitutivi del testo sono la coerenza, la coesione. La coerenza riguarda il livello profondo del testo, l’unità concettuale, e coinvolge la visione e la conoscenza del mondo di ciascun parlante. Diciamo, tuttavia, che sul piano linguistico consiste nel collegamento logico di tutti i contenuti del testo e nella sua continuità semantica. Senza una coerenza semantica non esisterebbe alcun testo: non posso dire Giovanni respira con la

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mano perché piange tutto il giorno, perché (a meno che non si tratti di una costruzione narrativa fantastica) ho detto parole inconcludenti, non ho costruito un testo coerente. La coesione è ugualmente importante, perché tutti gli elementi di un testo devono essere ben connessi tra loro e costituire un insieme coeso, altrimenti si pregiudica la comprensione. La coesione consiste sia nel collegamento grammaticale tra tutte le parti di un enunciato (coeso: Maria è una bella ragazza, ma è molto timida – non coeso: Giovanni sono un bel ragazzo, ma è molto timida), sia nel legare tra loro le parti del testo tramite mezzi di varia natura linguistica, detti coesivi, come il ma degli esempi precedenti. I mezzi con cui si attua la coesione sono molti: • i connettivi (infatti, perché, ma ecc.);; • sequenze che segnalano le relazioni endoforiche (che legano cioè tra loro elementi interni al testo), per esempio le espressioni come si è detto, come si è visto anche come vedremo, ecc., che rinviano a passi del testo già pronunciati o già scritti o a passi del testo ancora da vedere;;

• le forme sostituenti (o proforme), che hanno funzione coesiva quando rinviano a un elemento di cui si è già parlato e di cui non si vuole ripetere il nome (Maria ha dato molti consigli a Giovanni, ma lui non le ha dato retta;; Manzoni non era soddisfatto della prima stesura del romanzo: lo scrittore lombardo cercava una lingua più efficace).

Coerenza e coesione sono dunque essenziali per la costituzione di un testo, ma non sono sullo stesso piano. Se un parlante poco istruito, che domina male la morfologia e la sintassi della lingua pronuncia una frase come Giovanni ha arrivato con ritardo e non ha portato i chiavi, noi faremo comunque uno sforzo per capirlo e in base alla nostra capacità di collegare ciò che ascoltiamo o leggiamo a ciò che conosciamo daremo un senso all’enunciato. Se invece ascoltassimo un testo come I bambini sono sempre belli, perché il parlamento ha votato la legge elettorale non riusciremmo a trovare un senso, pur trattandosi di un testo ben costruito sul piano grammaticale. Dunque la condizione veramente indispensabile perché un testo ci sia e riesca a comunicare è la coerenza;; la coesione è di estrema importanza ma svolge soprattutto un ruolo di supporto. Come abbiamo detto, per la buona realizzazione di un testo e per la sua comprensione, il contesto è essenziale. Il contesto è caratterizzato da molti elementi e in una comunicazione orale è fondamentale il luogo che condividiamo con il nostro interlocutore;; in un testo scritto dobbiamo immaginare il contesto cui si riferisce chi scrive, ma ci vengono in soccorso le

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conoscenze condivise. Il contesto non va confuso con il cotesto, che è l’insieme degli elementi linguistici presenti nel testo. Se ascoltiamo la frase Prendi l’ombrello vicino alla porta prima di uscire e quando torni non dimenticarlo disotto. Riusciamo a capire dove prendere l’ombrello, vicino a quale porta sia, che cosa voglia dire disotto perché condividiamo gli stessi spazi del nostro interlocutore: il contesto situazionale è stato fondamentale per capire il senso di ciò che ci hanno detto. Il cotesto, invece, o contesto linguistico è costituito da tutti i componenti della frase, da ciò che è stato detto prima e dopo, per cui riusciamo a riferire il pronome lo (non dimenticarlo) all’ombrello che era stato già introdotto nel testo. Infine grazie alla nostra esperienza e alla conoscenza del mondo che condividiamo con il nostro interlocutore, il testo ci appare coerente, perché sappiamo che se piove devo prendere l’ombrello. Quando parliamo non esplicitiamo mai interamente tutti i contenuti, tuttavia tra emittente e ricevente si instaura una forma di cooperazione che aiuta a comprendersi reciprocamente. Il filosofo inglese Paul Grice parla appunto di un principio di cooperazione per cui ogni interlocutore dà un contributo adeguato a quella specifica situazione e quindi anche alle finalità e alla direzione che prende ogni discorso. Perché si abbia una buona comunicazione e si ottengano risultati adeguati al principio di cooperazione, devono essere rispettate, secondo Grice, quattro massime: • la quantità di informazione che deve essere data: il contributo informativo deve essere tanto quanto richiesto e non di più o di meno;;

• la qualità riguarda l’autenticità del contributo che si dà alla conversazione e prevede che si dica ciò che conosciamo come vero;; presuppone anche che non si dica ciò che si ritiene falso o ciò su cui non si abbiano prove sufficienti;;

• la relazione richiede che il contributo alla conversazione sia pertinente;; • il modo richiede che il contributo alla conversazione sia chiaro ed eviti ambiguità, oscurità, disordine nell’organizzazione dei contenuti.

Il principio di cooperazione ci consente anche di ricavare contenuti non esplicitati dall’emittente: riusciamo cioè a ricostruire o, come si dice in linguistica testuale, a inferire (a fare delle inferenze) sia le presupposizioni sia le implicazioni (o implicature). Presupposizioni Noi ricaviamo le presupposizioni dal significato degli elementi che sono adoperati nelle frasi. Le presupposizioni sono enunciati di cui deve essere ammessa la verità;; solo così l’enunciato che le produce può risultare

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appropriato. In una comunicazione la presupposizione quasi coincide con un’informazione non detta ma data per scontata. Questa informazione rimane tale anche se, come abbiamo visto, cambiamo l’enunciato in negativo. L’esempio seguente Dopo la sconfitta delle truppe napoleoniche, il Regno di Napoli passò sotto il governo dei Borboni presuppone che (a) c’è stata una battaglia persa dai napoleonici (altrimenti non si porrebbe la questione del ritorno ai Borboni);; che (b) prima della sconfitta il Regno di Napoli già esisteva e che (c) era governato da altri. Se negassimo l’enunciato Dopo la sconfitta delle truppe napoleoniche, il Regno di Napoli non passò sotto il governo dei Borboni Affermeremmo una diversa verità, ma le informazioni presupposte (a), (b) e (c) rimarrebbero le stesse. La nozione di presupposizione è stata anche estesa a tutte le assunzioni che il parlante fa contando sulle conoscenze dell’interlocutore: se una persona chiede agli amici Volete venire a cena fuori questa sera? Gli amici presuppongono che andranno in un ristorante. Implicazioni La conoscenza del mondo condivisa con i parlanti della nostra comunità, spesso accompagnata dalle conoscenze linguistiche, ci consente di ricostruire connessioni che sono lasciate implicite nei testi. In una frase come Ho molti compiti e non verrò alla festa non c’è un connettivo tra le due frasi che mi consenta di capire in quale relazione siano, perché la congiunzione e non esplicita il nesso logico-­sintattico tra le due frasi. Tuttavia grazie alla nostra esperienza possiamo ricostruire che avere molti compiti è una causa dell’impossibilità di uscire di casa e che non venire alla festa è la conseguenza di avere molti compiti e dover restare a casa: altre esperienze della vita, infatti, o la semplice conoscenza di come si colleghino gli avvenimenti nel mondo mi fanno capire che tra i due enunciati c’è un rapporto di causa-­effetto. Allo stesso modo, se la frase fosse stata formulata nel modo seguente Ho molti compiti e verrò alla festa, saremmo stati indotti a ricostruire il rapporto tra le due frasi come concessivo: “nonostante abbia molti compiti verrò alla festa”. Naturalmente se nella costruzione delle frasi usassimo dei connettivi che esplicitano il rapporto logico-­sintattico (Poiché ho molti compiti non verrò alla festa o Sebbene abbia molti compiti verrò alla festa), la nostra conoscenza

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degli elementi linguistici usati (poiché, sebbene) ci aiuterebbe a ricostruire meglio il significato. In entrambi i casi le implicazioni sono sufficientemente chiare, indipendentemente dal contesto: parliamo in questo caso di implicazioni convenzionali. Ci sono casi, però in cui non è facile ricostruire le implicazioni senza l’aiuto del contesto. Se ascoltiamo la frase Ho molti compiti e verrò alla festa alle 6,00, non siamo sicuri che si tratti di un rapporto causale o concessivo, perché non sappiamo se l’orario indichi il mio arrivo molto più tardi dell’inizio della festa o molto per tempo. Senza la conoscenza del contesto non posso ricostruire integralmente le implicazioni: in quanto caso parliamo di implicazioni non convenzionali. Inferenze Le operazioni che compiamo per ricostruire le implicazioni sono definite inferenze. Quando riceviamo un testo mettiamo subito in atto la sua interpretazione, partendo dalla nostra conoscenza del mondo e da una serie di premesse che riteniamo vere per raggiungere una conclusione che statisticamente dovrebbe essere vera. Questa nostra capacità di inferire, combinando conoscenze e contesto, ci mette nelle condizioni di interpretare anche annunci scritti come PARCHEGGIO – CUSTODE – COPERTO SVENDITA BAMBINI La nostra conoscenza del mondo ci fa immaginare dei copioni e ricostruire scenari che presupponiamo veri o possibili. Noi tendiamo, peraltro, a interpretare un testo fin dal suo inizio, dando subito un senso all’insieme di ciò che stiamo leggendo o ascoltando;; nello stesso tempo, però, siamo disposti a modificare molto velocemente le nostre inferenze: Giovanni si preparava ad andare a scuola anche quella mattina ed era molto preoccupato. Il preside lo aveva rimproverato perché non aveva saputo far mantenere il silenzio nella classe. Era stata però la prima volta che il professore gli aveva chiesto di far osservare il silenzio nella classe e dopo tutto non rientra tra i compiti di un bidello. Ciò ci fa capire quanto siano importanti i titoli di un testo e in generale le cornici pragmatiche. Se leggiamo il titolo e il testo seguente: Giochi sulla spiaggia Giovanni portò la sua barchetta sulla spiaggia e la mise in acqua. Osservando le onde tranquille si addormentò, ma dopo poco il cielo si rannuvolò e una tempesta si affacciò all’orizzonte.

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Il senso che abbiamo dato al testo cambierebbe completamente se il titolo fosse Tragedia in mare. I meccanismi della coesione Come abbiamo detto, la coesione si serve di diversi coesivi (connettivi, segnalazioni di relazioni endoforiche, proforme). Per mantenere la coesione, nel testo si attuano diversi rinvii interni tra parti o elementi del testo stesso. Ogni volta noi possiamo rinviare dirigendoci (a) verso la sinistra del testo, e quindi verso qualcosa che precede ed è già stato introdotto, o (b) verso la sua destra, cioè verso qualcosa che segue e deve ancora essere introdotto: (a) Chiudete i libri e rimetteteli a posto. (b) Dopo averli sfogliati, rimettete i libri al loro posto.

Il rinvio verso sinistra del pronome li nell’esempio (a) è detto anaforico (dal greco anà “sopra” e phérein “portare”);; quello verso destra dell’esempio (b) è detto cataforico (katà “sotto” e phérein “portare”). Il rinvio anaforico rimanda dunque a un elemento che è già stato menzionato, mentre il rinvio cataforico si riferisce e anticipa ciò che ancora non è stato menzionato. I rinvii cataforici non sono infrequenti ma ricorrono in misura minore rispetto agli anaforici e sono adoperati soprattutto in testi di narrativa o di cronaca giornalistica per creare senso di attesa nel lettore (È arrivato da tre giorni in Italia, stanco e affamato, ma ora ringrazia Dio per averlo salvato. Kamal è un giovane indiano...). I rinvii anaforici non solo sono più frequenti ma sono indispensabili per la coesione di un testo. Si creano spesso diverse catene anaforiche che consentono la continuità dei riferimenti e ci fanno capire quando in un testo si stia parlando di un elemento o di un altro. L’elemento a cui si riferisce la proforma, denominato punto di attacco o antecedente, è il capo catena di una serie di rinvii che costituiscono la catena anaforica. I rinvii e la continuità dei riferimenti nel testo si attuano, come abbiamo detto, attraverso proforme, che possono essere implicite, come la ripresa con la sola marca di accordo verbale o con i pronomi, o esplicite e lessicalmente piene, richiamando con chiarezza ciò che è stato già menzionato nel testo. In questo secondo caso la continuità è espressa per mezzo della ripetizione e della sostituzione lessicale. La prima si realizza quando antecedente e ripresa sono identici: c) Le molecole sono l’unione di atomi. Sono possibili due tipi di molecole: in un tipo tutti gli atomi delle molecole sono esattamente identici;; nel secondo tipo le molecole contengono due o più atomi. Una sostanza pura fatta da molecole che contengono esclusivamente un tipo di atomo viene chiamata

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elemento (Dalle molecole all’uomo, a cura del BSCS – Biological Sciences Curriculum Study –, Bologna, Zanichelli, 1980) d) I club brasiliani di calcio hanno iniziato ad ingaggiare degli assistenti sociali e degli psicologi per rendere meno traumatico il distacco e non creare turbative familiari. […] I club hanno capito che per fare soldi è necessario investire su strutture alberghiere per ospitare giovani calciatori, maestri di sostegno («La Stampa» 4 agosto 2007). (esempi ripresi dalla voce di A. Ferrari, Espressioni anaforiche in Enciclopedia dell’italiano, a cura di R. Simone, Roma, Treccani 2010-­2011) Nell’esempio (c) ci sono due catene anaforiche, all’inizio delle quali abbiamo due antecedenti cui nel testo si rinvia sempre e solo per ripetizione totale. Si tratta infatti di un testo scientifico che richiede massima chiarezza ed esplicitezza. In (d) si ricorre sempre alla ripetizione, ma si tratta di una ripetizione parziale, che tuttavia esprime con chiarezza il rinvio. La sostituzione si realizza, invece, tramite un’espressione che rinvia in modo diverso al referente designato dall’antecedente: se il capo catena di un testo è casa, sappiamo che si riferisce (ha come referente) a una “costruzione edificata per essere abitata”;; dunque se per riprendere l’antecedente casa adoperiamo abitazione, lo sostituiamo con un termine che lo indica in modo differente. La sostituzione si può realizzare attraverso sinonimi, come nell’esempio (e) o anche iperonimi (per esempio usando il fiore per riprendere la rosa) o perifrasi come nell’esempio (f): e) L’autista ci faceva sobbalzare con le brusche frenate. Al conducente le proteste della gente non facevano alcun effetto. f) La nostra epoca ha il gusto e il genio della divisione e della suddivisione. In fisica, si disgrega l’atomo: fino a pochi decenni fa disgregare la particella più piccola degli elementi era impensabile. La sostituzione può avvenire anche tramite incapsulatori anaforici, cioè di parole che riescono a includere nel loro significato una porzione di testo: g) Nel maggio 1618 i rappresentanti imperiali invitati per dirimere la questione tra cattolici e riformati furono gettati dalla finestra nel fossato del castello. L’episodio passò alla storia come la defenestrazione di Praga. h) I due partiti discutono ormai da mesi del taglio delle spese alla sanità pubblica. La questione non è certamente facile da risolvere.

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Si può parlare di sostituzione anche nel caso in cui per rinviare a un antecedente utilizziamo un pronome;; tuttavia, quando ci serviamo di sinonimi, perifrasi e così via, ricorriamo, come abbiamo detto, a una sostituzione lessicale e quindi pienamente chiara ed esplicita, che talvolta aggiunge anche informazioni sull’antecedente (si veda l’esempio f);; quando invece ci serviamo dei pronomi la sostituzione non è pienamente esplicita. La possibilità offerta dalla sostituzione lessicale di aggiungere informazioni sull’antecedente può anche aiutare a distribuire meglio i contenuti informativi lungo il testo, concentrando di volta in volta l’attenzione del lettore o dell’ascoltatore su contenuti differenti: i) Emiliano De Cherchi è stato fermato dalla polizia per il delitto di via Cuffaro alla Garbatella. L’assassino quarantenne ha ucciso la vittima con un tagliacarte. j) Emiliano De Cherchi è stato fermato dalla polizia per il delitto di via Cuffaro alla Garbatella. Lo spietato assassino ha ucciso la vittima con un tagliacarte. Come si vede, in entrambi gli esempi si distribuiscono in due tempi i contenuti informativi (autore di un delitto e luogo – tipo di delitto, rivelato dal sostituente, e modalità). Nel primo caso, la sostituzione aggiunge informazioni, ma non aggiunge giudizi o valutazioni;; nel secondo caso, al contrario, si danno informazioni sul tipo di delitto ma si esprime anche una valutazione. Possiamo definire quest’ultimo rinvio come anafora valutativa. Anche con gli incapsulatori si può realizzare un’anafora valutativa: k) La collina è stata distrutta da un incendio che ha compromesso la flora locale. La tragedia ambientale è stata vissuta con stupore dagli abitanti. Sono proprio gli incapsulatori a fornire più di altri la possibilità di sostituire gli antecedenti esprimendo il proprio parere: sono infatti molto adoperati nella scrittura giornalistica perché consentono sia di riprendere porzioni anche ampie di testo sia di formulare un giudizio o un commento (vedi esempio k). La coesione anaforica funziona diversamente nei testi scritti rispetto ai testi parlati. In questi ultimi, infatti, possiamo rinviare anche a qualcosa di esterno al testo: se incontriamo un amico che indossa una bella camicia, possiamo anche guardarla e chiedere: dove l’hai comprata? In questo caso il pronome non rinvia a un antecedente testuale ma a un oggetto della realtà extralinguistica. La coesione si regge in questo caso attraverso la deissi che rinvia al contesto esterno e connette il testo alla situazione in cui il parlante produce un enunciato.

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La deissi si realizza tramite deittici come i pronomi personali di prima e seconda persona, che rinviano a emittente e ricevente specificandone di volta in volta i ruoli;; gli avverbi temporali e di luogo o tutte le espressioni che indicano le relazioni di tempo e di luogo (ora, ieri, domani, tra qualche istante, ecc., qui, là, sopra, al lato di…, ecc.);; i tempi verbali. Nella frase Ora si è fatto buio: accendi il lume su quel tavolo per favore, tutto è molto chiaro se condividiamo lo stesso luogo e, oltre ad accorgerci che la luce sta diminuendo, siamo in grado di identificare il tavolo su cui si trova il lume. Se invece devo trasporre in uno scritto questa frase, per riferirla a una persona lontana ho bisogno di specificare molte più cose: Nel tardo pomeriggio di giovedì, quando fuori stava ormai diventando buio, ho chiesto a Giulio di accendere il lume che si trova sul tavolo accanto alla finestra dello studio. Ogni comunicazione che si svolge attraverso il parlato avviene tramite un io che parla, un luogo in cui parla (qui), e un momento in cui formula gli enunciati (ora). Queste tre componenti, io, qui, ora, sono indispensabili per l’orientamento deittico della comunicazione e tutti e tre insieme costituiscono il campo indicale, il campo cioè da cui il parlante formula la comunicazione e può fare riferimenti alla realtà esterna tramite deittici temporali e spaziali. Il campo indicale ha un’origine, detta in linguistica orìgo, che si identifica con lo stesso parlante. In una comunicazione, infatti, il pronome tu si riferisce alla persona a cui il parlante si rivolge;; qui, rinvia al luogo in cui il parlante si trova e domani al giorno successivo in cui il parlante si trova. L’origo dunque cambia in base al parlante e nella comunicazione possono intrecciarsi più campi indicali di origine e orientamento diverso. Distribuzione dell’informazione Perché la comunicazione abbia una buona riuscita, nel testo le informazioni devono essere ben dosate e ben distribuite. Dobbiamo sempre cercare di fornire tutte le informazioni necessarie a raggiungere lo scopo della nostra comunicazione, senza eccedere con ridondanze inutili e senza sottrarre contenuti importanti. Anche nell’alternanza tra informazioni nuove e vecchie dobbiamo saper dosare adeguatamente l’alternanza: troppe informazioni nuove e sconosciute all’ascoltatore o lettore rischiano di rendere poco chiaro il testo, così come troppe informazioni già note, per quanto più facilmente comprensibili, trasmetteranno pochi contenuti e non accresceranno le conoscenze. Se produciamo un testo parlato, peraltro, dobbiamo ricordare che l’ascoltatore gode di una memoria a breve termine, per cui non possiamo aggiungere ogni volta troppe informazioni nuove, ma dobbiamo dosare adeguatamente i contenuti.

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È anche opportuno segnalare quale sia l’oggetto che vogliamo trattare, oggetto che in un testo lungo e articolato rimarrà come sfondo, e quali le informazioni che a mano a mano intendiamo aggiungere su quell’oggetto. In un enunciato l’oggetto di cui parliamo e che rappresenta il punto di partenza per realizzare la comunicazione è il tema, le informazioni che aggiungiamo (cioè l’insieme della nostra “predicazione”) costituiscono il rema. Di solito il tema coincide con le informazioni già note all’interlocutore (o che riteniamo note per l’interlocutore) e il rema con le informazioni nuove (o che riteniamo nuove) per l’interlocuore. Una semplice frase come Mario ha regalato un libro a Giovanni può essere analizzata da diversi punti di vista, quello della distribuzione delle informazioni, cioè della struttura tematica e della struttura delle conoscenze, e quello delle funzioni logico-­sintattiche: Struttura tematica: Mario (tema) ha regalato un libro a Giovanni (rema). Struttura delle conoscenze: Mario (dato) ha regalato un libro a Giovanni (nuovo). Struttura logico-­sintattica: Mario (soggetto) ha regalato (predicato) un libro (complemento oggetto) a Giovanni (complemento di termine). Nella frase che abbiamo analizzato il tema e il soggetto coincidono e si trovano a sinistra dell’enunciato, mentre il predicato coincide con il rema e si trova a destra dell’enunciato. Si tratta della successione statisticamente più diffusa in italiano e che più caratterizza le costruzioni tematiche della nostra lingua, tuttavia sono possibili anche costruzioni differenti. Sul piano della struttura logico-­sintattica ogni componente della frase continuerà a svolgere sempre lo stesso ruolo in qualsiasi comunicazione io inserisca la frase, ma sul piano della struttura delle conoscenze non è sempre così. Se la frase è una risposta alla domanda Che cosa è successo? L’intera frase si presenta per chi la riceve come informazione nuova: Che cosa è successo? Mario ha regalato un libro a Giovanni (nuovo). Supponiamo, invece, che la frase sia una risposta alla domanda Chi ha regalato un libro a Giovanni? Nella risposta, magari espressa con un diverso tono di voce, avremo una diversa struttura delle conoscenze: Chi ha regalato un libro a Giovanni? Mario (nuovo) ha regalato un libro a Giovanni (dato).

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L’italiano, inoltre, ha la possibilità di modificare l’ordine dei componenti di una frase e ciò offre, come vedremo, la possibilità di mettere più in evidenza alcune parti lasciandone sullo sfondo altre in costruzioni che sono denominate costruzioni marcate.

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SINTASSI Le singole unità di cui si compone la sintassi italiana sono il sintagma, la frase semplice e la frase complessa. Rapporti paradigmatici e sintagmatici Le parole non vivono isolate le une dalle altre ma instaurano legami tra loro. I rapporti che le parole possono avere tra loro sono o di natura sintagmatica o di natura paradigmatica. I rapporti sintagmatici sono i legami che si instaurano tra le parole che compaiono in una stessa frase: nella frase Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde osserviamo almeno due tipi di rapporti sintagmatici. Una relazione sintagmatica, infatti, intercorre tra due o più elementi quando sono combinati per formare unità linguistiche più complesse come i sintagmi e le frasi. I rapporti paradigmatici sono detti anche associativi;; sono relazioni che si stabiliscono tra due elementi di una lingua sulla base di un’associazione grammaticale, morfologica, lessicale. L’associazione che compiamo è un’operazione mentale che ci induce ad accostare parole che condividono qualcosa. Quando l’associazione è fondata sulla forma, possono aversi insiemi di parole come libro, libricino, libraio, libreria. Tutte queste parole hanno in comune la presenza del morfema lessicale libr-­. Quando l’associazione è basata principalmente sul significato può dare vita a insiemi come libro, volume, testo, tomo, ecc. Queste parole sono accomunate da uno o più aspetti del loro significato: tutte hanno a che fare con l’oggetto indicato dalla parola libro. Molto spesso le relazioni basate sulla forma e sul significato si intrecciano, come per esempio nel caso delle parole libro e libreria: c’è una relazione formale perché condividono la stessa base lessicale, ma anche una relazione semantica. Le associazioni tra le parole possono avvenire anche in base alla loro categoria grammaticale (nomi, verbi, ecc.). I rapporti paradigmatici si creano dunque per associazione tra parole che in una frase potrebbero essere sostituite le une con le altre in una stessa posizione sintagmatica: sono rappresentati, cioè, dai legami tra le parole che in un enunciato possono comparire nello stesso posto: Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde Azzurra

Gialla Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde

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Cravatta Sciarpa Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde Il cugino Il padre L’amico La relazione paradigmatica, come si è detto, può essere vista anche dal punto di vista grammaticale: nei punti della frase in cui abbiamo operato delle sostituzioni possono stare solo sostantivi;; tutti i sostantivi hanno una relazione paradigmatica. Il linguista Hjelmslev ha definito i rapporti paradigmatici come rapporti in absentia che rispondono alla funzione “o l’uno o l’altro”: può comparire cioè o l’uno o l’altro elemento;; i rapporti sintagmatici sono invece rapporti in praesentia che rispondono alla funzione “entrambi” e devono comparire uno dopo l’altro. I sintagmi sono sequenze strettamente legate, unità coese che all’interno della frase possono spostarsi solo tenendo insieme tutti gli elementi che le compongono. Nella frase che abbiamo visto, Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde, non posso spostare singoli componenti dei sintagmi: *di Mario ha indossato verde il fratello una camicia. D’altro canto anche l’intero sintagma non sempre si muove con facilità all’interno della frase: ha indossato una camicia verde, il fratello di Mario (dove è anche da immaginare un diverso tono di voce). Abbiamo sintagmi nominali (SN: Il fratello di Mario), verbali (SV: ha indossato una camicia verde), preposizionali (SP: ho studiato per l’esame), aggettivali (SA: sono contento di te), avverbiali (SAvv: ho viaggiato assai comodamente). Ciò che determina la natura del sintagma è la testa, da cui dipendono il suo nome e le sue funzioni sintattiche: la testa di un sintagma nominale è un nome, di un sintagma preposizionale una preposizione e così via. Gli altri elementi che si legano alla testa sono modificatori o complementi. La testa del sintagma è sempre essenziale e indispensabile. C’è una differenza, tuttavia, tra i SN, SV, SA, SAvv e i SP: nei primi quattro la testa è autonoma, mentre nel sintagma preposizionale deve necessariamente essere accompagnata da un modificatore, perché rappresenta la funzione sintattica ma non è autonoma. I sintagmi dell’italiano sono detti continui. Gli elementi che compongono i sintagmi, infatti, tendono a non essere separati da altri elementi o hanno molte

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restrizioni: non possiamo avere *Il fratello mio amico di Mario. Sono invece sintagmi discontinui i cosiddetti verbi sintagmatici, accostabili in parte alle polirematiche andare giù, tirare su, portare su, mettere sotto, ecc. Hanno una struttura verbo + particella;; il verbo è di solito un verbo di movimento e la particella un avverbio locativo. Sono discontinui perché è possibile spezzare la sequenza interponendo altri elementi: non andare troppo giù con il colore. Anche in questi casi però ci sono molte limitazioni. Ordine dei costituenti Come abbiamo detto più volte, l’ordine dei costituenti di una frase, dei componenti di un enunciato e così via in italiano segue sempre la direzione da sinistra a destra. Anche nel sintagma nominale la testa è posta a sinistra ed è seguita dai complementi/modificatori: seguono quindi una costruzione progressiva (contraria a quella delle lingue germaniche e anglosassoni che è di tipo regressivo). Un ordine progressivo segue tendenzialmente anche il sintagma verbale che preferibilmente pone prima il verbo, cioè la testa del sintagma, poi l’oggetto e di seguito gli altri complementi (Il giovane portava una valigia al deposito). La prevalenza di questa struttura fa sì che l’ordine delle parole a base dell’italiano sia SVO (Soggetto -­Verbo -­ Oggetto), mentre il latino e altre lingue moderne presentano l’ordine SOV, non progressivo dunque ma regressivo. Come abbiamo detto più volte, questi tratti che caratterizzano una lingua sono sempre tendenziali: sono cioè prevalenti ma non sono assoluti. Molte sono infatti le eccezioni. Abbiamo notato questa costruzione progressiva in più occasioni: -­ le parole composte seguono perlopiù l’ordine testa + modificatore (capostazione);;

-­ i SN seguono lo stesso ordine (il fratello di Mario);; -­ il verbo pone dopo di sé l’oggetto e poi i complementi (diamo un fiore ai caduti).

Anche nella sintassi del periodo le frasi principali tendono a precedere le subordinate. Tuttavia abbiamo anche visto molte eccezioni: la composizione neoclassica (archeologia), la posizione spesso libera dell’aggettivo (Il mio buon amico), l’anticipazione stabile di possessivi e dimostrativi (il mio collega, questa bottiglia). Allo stesso modo non sempre è stabile l’ordine SVO né è fissa la successione principale – subordinate. Si cerca in linguistica di capire le tendenze più frequenti per cercare di ricostruire meglio il funzionamento delle lingue;; si compiono astrazioni che facilitano la descrizione, ma ovviamente le lingue non rientrano mai in schemi rigidi e fissi.

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La frase La frase è l’unità minima del discorso dotata di senso compiuto senza l’apporto di altro contesto verbale o del contesto situazionale (piove, Giovanni è andato al mare);; è anche detta l’unità di massima estensione della grammatica, composta di unità inferiori (parole, sintagmi). La frase semplice, detta anche frase nucleare, è costituita da una sola proposizione e non dalla combinazione di più proposizioni, che si definisce invece frase complessa. Nella grammatica tradizionale la frase complessa è denominata periodo. Frase e proposizione non sono perfettamente sinonimi: la seconda è da intendersi, infatti, come componente del periodo o della frase complessa. Guardandone la struttura dal punto di vista delle relazioni sintagmatiche, la frase si presenta come una sequenza governata dai rapporti gerarchici che legano i suoi componenti

(D = determinativo, S = sostantivo, V = verbo)

(di Carlo potrebbe anche classificarsi come SP) Gli alberi rappresentano nelle immagini la struttura gerarchica che governa i rapporti tra tutti i componenti della frase. Come si vede, alcuni sintagmi possono contenerne altri: mangia l’osso o ha visto poca gente per strada sono sintagmi verbali che però contengono al loro interno sintagmi nominali e preposizionali. I sintagmi che ne contengono altri al loro interno sono sintagmi

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complessi, mentre i sintagmi inclusi in sintagmi complessi sono sintagmi incassati. La struttura della frase però può essere analizzata da altri punti di vista, individuando al suo interno un nucleo cui si legano in maniera forte alcuni elementi, mentre altri si dispongono all’esterno. La prospettiva da cui guardiamo alla frase è in questo caso quella della grammatica valenziale o struttura argomentale del verbo (elaborata per la prima volta dal linguista Lucien Tesnière). Il nucleo della frase è costituito dal verbo e dagli elementi necessari a completarne il significato fino a formare una frase di senso compiuto. Gli elementi che completano il significato del verbo sono detti argomenti e si comportano come gli elementi chimici. Questi ultimi sono caratterizzati dalla valenza, cioè dalla capacità degli atomi di combinarsi con altri atomi appartenenti allo stesso elemento chimico o a elementi differenti. Anche gli argomenti hanno la capacità di combinarsi con il verbo: da qui deriva la definizione di grammatica valenziale. Abbiamo quindi verbi zerovalenti che non richiedono argomenti (piovere, nevicare);; verbi monovalenti che richiedono almeno il soggetto e dunque un solo argomento (russare, sospirare, ecc.);; verbi bivalenti che hanno bisogno di due argomenti (con oggetto diretto: amare, vedere, ecc., o con oggetto indiretto preceduto da preposizione: credere);; tra questi rientrano anche i verbi copulativi che mettono in relazione il soggetto con un altro elemento (costituire, essere, sembrare);; verbi trivalenti che necessitano di un soggetto, un oggetto e un complemento indiretto (dare, dire, parlare, ecc.). Il verbo e gli argomenti sono il nucleo della frase, la parte essenziale, come si diceva perché abbia autonomia e senso compiuto. Tutto ciò che si aggiunge al nucleo è accessorio: non è cioè indispensabile per l’autonomia della frase;; si tratta, infatti, di elementi extranucleari, detti anche circostanziali perché spesso spiegano le circostanze in cui si svolge quanto descritto nel nucleo. Gli elementi circostanziali godono di maggiore libertà di movimento nella frase. Come sappiamo, il soggetto di solito precede il verbo e l’oggetto lo segue, mentre il complemento indiretto segue l’oggetto. Possono esserci degli spostamenti ma con più di una limitazione. Spostare i circostanziali comporta meno problemi: possiamo dire Giovanni ha regalato un orologio a sua madre per Natale ma anche per Natale Giovanni ha regalato un orologio a sua madre. Gli elementi circostanziali possono avere la funzione di modificare il sintagma verbale o tutta la frase:

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1) Il padre di Luca è andato a Roma in autobus 2) Il padre di Luca è andato a Roma in autobus la settimana scorsa

Nell’esempio (1) in autobus aggiunge informazioni sull’azione espressa dal verbo (come è andato?), mentre in (2) dà notizie sull’intero avvenimento (quando è andato a Roma? Quando è successo?). L’analisi della frase fondata sulla grammatica valenziale consente di distinguere bene il nucleo essenziale dal resto, dando ai componenti della frase un ruolo specifico e non collocandoli sullo stesso piano di importanza. Ciò fornisce molte più informazioni sul funzionamento della frase rispetto alla vecchia analisi logica per la quale ogni componente era sullo stesso piano: in Giovanni ha dato un libro alla sorella la settimana scorsa, l’analisi logica identifica un complemento di termine e un complemento di tempo mettendoli sullo stesso piano, mentre con la struttura argomentale sappiamo che alla sorella appartiene al nucleo e la settimana scorsa è esterno al nucleo. Non sempre tuttavia anche questa analisi funziona alla perfezione. In alcuni contesti il numero di valenze di un verbo può variare e quindi nella frase Luca mangia, mangiare rimarrà monovalente, e uno stesso verbo può cambiare numero di valenze in base al significato: piovere usato in senso metaforico può apparire, per esempio, nella frase piovono soldi. Con alcuni verbi come mangiare, cantare, leggere è più facile che uno degli argomenti sia sottinteso, mentre con altri, come distruggere, costruire, è più difficile. Dipende sempre dal contesto. Principali tipi di frase semplice La frase verbale contiene un verbo in funzione di predicato (Maria compra libri usati). La frase nominale è priva del verbo in funzione di predicato (Incidente sull’autostrada Roma-­Firenze;; Approvato il decreto mille proroghe). È usata soprattutto nel linguaggio giornalistico, indipendentemente dal fatto che si tratti di giornali su carta, on line o televisivi, ma da qui si sta sempre più diffondendo in altri generi di scrittura. Il cosiddetto stile nominale si è anche affermato fin dai primi del Novecento in molta prosa letteraria e la preferenza per gli elementi nominali rispetto a quelli verbali è tipica dei linguaggi specialistici e del parlato. Si assiste, infatti, anche al fenomeno delle nominalizzazioni. Le nominalizzazioni consistono soprattutto nell’adoperare un nome in luogo del verbo per esprimere un’azione. Esistono nomi, infatti, per lo più deverbali (derivati da verbi con l’aggiunta di un suffisso costituire > costituzione o anche senza alcun suffisso verificare > verifica), che sul piano semantico indicano un’azione:

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Gli operai hanno demolito il muro > la demolizione del muro da parte degli operai In alcune costruzioni il significato che potrebbe essere espresso da un solo verbo è affidato a un sostantivo preceduto da un verbo più generico sul piano semantico: Il presidente ha dato lettura del nuovo provvedimento. Ho preso la decisione di non partire. In questi casi le categorie di tempo, modo, aspetto e persona sono affidate al verbo, ma l’informazione semantica è demandata al nome. A volte la nominalizzazione condensa un’intera frase e consente di racchiudere due frasi in una: Gli operai protestano perché gli stipendi sono stati ridotti > Gli operai protestano per la riduzione degli stipendi Con la nominalizzazione si riduce il numero delle frasi nel periodo, ma si perdono informazioni su tempo, modo, aspetto e persona: si costruiscono testi meno trasparenti, che spesso possono più facilmente nascondere l’agente: Gli operai protestano perché il Consiglio d’amministrazione ha ridotto gli stipendi può diventare Gli operai protestano per la riduzione degli stipendi Con la cancellazione dell’agente. Lo stesso risultato si può spesso ottenere con il passivo: Gli operai protestano perché gli stipendi sono stati ridotti. Nel passivo, infatti, il soggetto della frase è tale dal punto di vista grammaticale ma non dal punto di vista logico-­semantico: l’azione è da attribuire all’agente che può anche essere cancellato. La frase ellittica è diversa dalla frase nominale, perché il verbo assente è in realtà sottinteso e si ricava da una frase precedente (Mario vorrebbe andare al mare, sua moglie in montagna);; una frase, come sappiamo, può essere anche ellittica del soggetto (La popolazione è infuriata, vuole giustizia) Principali tipi di frase semplice Le frasi dichiarative o enunciative: contengono un’affermazione positiva (i giovani amano la musica), negativa totale (i giovani non amano la guerra), negativa parziale (non tutti i giovani amano la musica). Le frasi esclamative sono segnalate dal punto esclamativo nello scritto e da un tono discendente nel parlato. Sono verbali (come passa il tempo!) o nominali (Che bello!). Le frasi volitive esprimono comando (torna presto), esortazione (state attenti), concessione (fai con comodo), auspicio (abbiate la fortuna che meritate!).

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Le frasi interrogative dirette sono segnalate dal punto interrogativo nello scritto da un tono ascendente nell’oralità e possono essere introdotte da un pronome/aggettivo/avverbio interrogativo (chi viene a cena?). Sul piano semantico abbiamo interrogative totali che riguardano l’intera frase e richiedono una risposta sì/no (Verrai a cena?) e interrogative parziali che riguardano un solo elemento (Che cosa vuoi per cena?). Diverse sono le cosiddette interrogative retoriche che hanno già una risposta e non la richiedono veramente (non vorrai comprare quel libro scadente?). Principali tipi di frase complessa La frase complessa (o periodo) è composta da proposizioni legate tra loro in vario modo. È una costruzione macrosintattica essenziale che sostiene la comunicazione e che assume particolare rilievo nello scritto. L’italiano contemporaneo tende a semplificare la composizione dei periodi, ma un eccesso di semplificazione ha talvolta conseguenze negative per l’argomentazione e l’elaborazione della riflessione nella scrittura. Il periodo può essere monoproposizionale, composto cioè da una sola proposizione e quindi coincidente con la frase semplice, biproposizionale (il tipo più frequente nel parlato e spesso anche nello scritto), triproposizionale, pluriproposizionale. Quest’ultimo non si incontra quasi più nella sintassi dell’italiano, mentre era frequente nell’italiano antico discendente dal modello della prosa latineggiante del Boccaccio. In ciascun periodo si distinguono proposizioni principali o reggenti o sovraordinate e proposizioni secondarie o dipendenti o subordinate. Le proposizioni nel periodo si legano per coordinazione o paratassi e per subordinazione o ipotassi. La coordinazione può legare tra loro sia principali sia subordinate. Può essere sindetica, quando le frasi sono legate tra loro da congiunzioni (Studia e si impegna), polisindetica quando più frasi sono connesse da più congiunzioni (Studia e si impegna, ma va male a scuola) e asindetica quando si legano senza congiunzioni e nello scritto sono separate da segni interpuntivi. La coordinazione asindetica è detta anche giustapposizione (sono stanco, ho sonno, vado a dormire). Con la paratassi le proposizioni si allineano sullo stesso piano, senza esplicitare rapporti di gerarchia o logico sintattici. Oggi tende a prevalere sulla subordinazione, soprattutto nel parlato, anche quando due frasi non si trovano sullo stesso piano dal punto di vista logico sintattico. Possiamo esprimere lo stesso contenuto in modi diversi: Poiché sono stanco, preferisco tornare a casa.

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Sono stanco e preferisco tornare a casa. Sono stanco, preferisco tornare a casa. Sul piano del contenuto e del significato non c’è differenza fra le tre frasi, ma il rapporto logico e semantico tra loro è segnalato nel primo caso con un connettivo subordinante, nel secondo con un connettivo coordinante e nel terzo con una giustapposizione. La connessione diventa sempre meno esplicita e sempre più, nel passaggio dalla prima alla terza frase, la comprensione dell’informazione viene affidata al testo invece che alla sintassi Come si ricorderà, infatti, nel secondo e nel terzo enunciato, l’interlocutore inferisce il rapporto logico tra le due preposizioni. La coordinazione ottenuta tramite la congiunzione e è definita coordinazione copulativa (mangio un dolce e guardo la televisione). La congiunzione e mette su un piano paritario le due frasi (o gli elementi che collega), ma come si è appena vista può assumere, soprattutto nel parlato, valori differenti (causale: ho mangiato troppo e sto male;; temporale: sono uscito e ho preso l’autobus, ecc.). Esistono però altri tipi di coordinazione: avversativa (ma, però, tuttavia, ecc.): non contraddice del tutto né nega l’affermazione che precede ma esprime un contrasto parziale (mangio il gelato ma vorrei anche la frutta) e sostitutiva (ma, bensì, invece, ecc.): nega l’affermazione che precede (non andrò a Roma, ma resterò a casa);; disgiuntiva (o, oppure – e anche ovvero che però può avere anche il significato di cioè): segnala un’alternativa (resti a casa o vai a teatro?);; esplicativa o dichiarativa (cioè, infatti, ecc.): chiarisce e conferma (ho fatto la spesa: infatti il frigorifero è pieno);; conclusiva (quindi, dunque, ecc.): completa anche in modo consequenziale (hai sbagliato il compito: dunque non supererai l’esame);; correlativa (e… e, né… né, non solo… ma (anche), tanto… quanto, ecc.): congiunge due proposizioni tramite congiunzioni o locuzioni congiuntive ripetute (non solo non studiano ma perdono anche tempo e denaro). La congiunzione ma lega due frasi per coordinazione, ma può segnalare un rapporto di subordinazione di tipo concessivo, come nella frase Ho fatto tardi, ma andrò al ristorante (“sebbene abbia fatto tardi, andrò al ristorante”). Il rapporto di subordinazione però è tale solo sul piano semantico, perché sul piano sintattico si tratta sempre di de coordinate e non di una principale e di una subordinata. Al contrario esistono alcune avversative che possono essere introdotte dal connettivo mentre che di solito è considerato subordinativo (introduce cioè frasi subordinate): è strano che sia lui a chiedere scusa quando è stato proprio lui l’offeso;; hai speso troppo, mentre avresti dovuto risparmiare.

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Nella scrittura giornalistica, e da qui nell’uso comune, si sta sempre più affermando una cosiddetta coordinazione testuale che talvolta separa con il punto fermo la coordinata, facendo iniziare la frase dopo il punto con e o ma. Non è un procedimento nuovo e si incontrava già nella prosa antica ma oggi è in espansione e sta assegnando alle congiunzioni e e ma la funzione di introdurre non proposizioni all’interno di una frase complessa bensì porzioni di testo, al punto che in più di un caso la congiunzione ma perde il valore avversativo o sostitutivo: Grande folla oggi nelle vie del centro per gli ultimi acquisti prima di Natale, negozi finalmente affollati e locali pieni. Ma sentiamo il servizio del nostro inviato… Le frasi complesse possono comprendere più proposizioni in rapporto di subordinazione, costruendo subordinate di primo grado (direttamente dipendenti dalla principale) e di secondo grado (dipendenti dalle subordinate di primo grado);; entrambe possono anche essere coordinate tra loro: Ho detto a mio fratello che partirò domani e andrò a Parigi (abbiamo una principale e due subordinate di primo grado coordinate tra loro);; Ho detto a mio fratello che partirò domani perché ho un impegno da cui non posso liberarmi (abbiamo una principale, una subordinata di primo grado, una di secondo retta da quella di primo grado e una di terzo retta dalla subordinata di secondo grado). Le proposizioni subordinate possono essere esplicite, quando il verbo è di modo finito, e implicite quando il verbo è un infinito, un gerundio o un participio (Non vorrei fare tardi;; appena uscita, l’ho vista;; lavorando così lentamente non finirò in tempo). Nell’italiano contemporaneo le subordinate implicite hanno lo stesso soggetto della principale, tranne nel caso di alcune implicite assolute (giunta la notte, tutti si ritirarono). Nell’italiano antico erano invece possibili subordinate implicite con soggetto diverso dalla principale (conosciamo essere accaduti fatti funesti;; cantando la principessa, il re capì). Principali tipi di subordinate Completive oggettive e soggettive Esistono subordinate che possono avere funzione di soggetto e di oggetto e fanno parte del “nucleo” della reggente, la completano: L’insegnante ha ammesso che Giovanna è brava;; Che tu sia coraggioso è chiaro a tutti. La subordinata che Giovanna abbia già mangiato completa il nucleo del verbo pensare con funzione di oggetto. Le subordinate Che tu sia coraggioso e che

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tu smetta di pensare assumono funzione di soggetto del periodo. Queste frasi vengono anche chiamate argomentali, perché si comportano come gli argomenti del verbo della frase principale: che Giovanna è brava si comporta come argomento di ammettere (che è verbo bivalente), come se fosse un’espansione dell’oggetto la bravura di Giovanna;; allo stesso modo che tu sia coraggioso è il soggetto che funge da argomento di è chiaro, quasi espansione di Il tuo coraggio. Interrogative indirette Le interrogative indirette contengono un dubbio o esplicitano una domanda contenuta nella reggente. Mi chiedo che cosa pensi di me;; Si possono considerate una sottospecie delle completive, perché si comportano come oggettive e divengono argomento del verbo della principale. Sono introdotte, tuttavia, da diverse congiunzioni di subordinazione (se, quando, come, perché, che cosa...) e inoltre riferiscono un dubbio o una domanda mentre le oggettive contengono un’enunciazione. Abbiamo interrogative indirette esplicite che in un registro informale possono servirsi dell’indicativo (non errato) e in un registro formale del congiuntivo, preferibile quando la reggente è negativa (non so se sia arrivato). Le interrogative indirette implicite sono costruite con l’infinito presente (mi chiedo se uscire o restare) e i due soggetti, della reggente e della subordinata, coincidono. Le altre frasi subordinate non sono argomentali (non argomentali) e svolgono lo stesso ruolo degli elementi extranucleari che abbiamo visto per la valenza dei verbi;; consentono quindi di specificare, cause, tempo, circostanze e così via. Causali Le proposizioni causali esprimono la causa di una determinata azione espressa nella reggente (Non mangio perché non ho tanta fame). Le causali esplicite sono costruite con l’indicativo e, in alcuni casi, con il congiuntivo e il condizionale. Il congiuntivo, in particolare, compare quando si tratta di una causa fittizia (Non mangio non perché non abbia fame ma perché non mi piace la minestra) e il condizionale in causali con intento attenuativo e valore desiderativo, potenziale (La chiamo perché vorrei parlarle della mia attività). Le proposizioni causali implicite sono introdotte da per/a/con/per il fatto di + infinito o sono costruite con il gerundio (non torna per non soffrire;; avendo perduto al gioco non sa come arrivare a fine mese).

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Finali Indicano lo scopo, il fine (Sono uscito per cercare Mario;; ti pago affinché te ne vada). Possono essere implicite (con l’infinito) o esplicite (con il congiuntivo presente o imperfetto), ma il costrutto implicito è oggi il più utilizzato, soprattutto nella lingua parlata. Consecutive Indicano la conseguenza dell’azione della reggente. Esistono due tipi di costrutti consecutivi: i primi presentano un antecedente nella reggente, i secondi sono costrutti deboli semplicemente introdotti da una congiunzione o da una locuzione congiuntiva (tanto che, che, sicché, ecc.): Era così strana che tutti si giravano a guardarla;; Non ho lavorato ieri, tanto che oggi mi trovo in difficoltà. Anche le consecutive possono essere implicite e sono le più frequenti quando il soggetto è lo stesso della reggente: è stato tanto sciocco da perdere tutto. Ipotetiche Indicano la condizione per cui accade o potrebbe accadere l’azione espressa nella principale. La reggente (apodosi) e la subordinata ipotetica (protasi) formano insieme il periodo ipotetico. Di solito la protasi, introdotta da congiunzioni come se, qualora, nel caso che, ecc., precede l’apodosi ma può avvenire anche il contrario: Se tu fossi in casa, verrei;; Verrei se tu fossi in casa. Nel periodo ipotetico del primo tipo o della realtà i fatti sono presentati come certi e si usa l’indicativo in entrambe le proposizioni: se parli ti ascolto Nel periodo ipotetico del secondo tipo o della possibilità i fatti sono presentati come possibili e in quelli del terzo tipo o dell’irrealtà come impossibili;; si usano il congiuntivo nella protasi e il condizionale nell’apodosi: se ti riuscisse di venire, sarei contento;; se fossi ricco, comprerei una Ferrari. Nel parlato molto informale si sta diffondendo un periodo ipotetico con il doppio imperfetto indicativo: Se lo sapevo, non ci venivo. La protasi può avere una costruzione implicita: a saperlo sarei venuto;; lavorando guadagneresti di più;;

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una volta convinto, accetterebbe. Concessive Le concessive introducono un elemento di rottura tra una causa e l’effetto supposto, una condizione cioè la cui conseguenza sarebbe in contrasto con il contenuto espresso dalla principale. Sono introdotte da congiunzioni come benché, sebbene, nonostante, quantunque, quand’anche seguite dal congiuntivo (Benché sia anziano, non ha dolori di nessun tipo);; anche se, con tutto che seguite dall’indicativo (non verrà anche se ha promesso di farlo) Possono essere implicite: pur contento, non volle festeggiare;; pur essendo ricco, non compra niente;; per essere così giovane, se la cava bene. Temporali Indicano la relazione di tempo sussistente tra subordinata e reggente in un rapporto di anteriorità, contemporaneità, posteriorità: Prima di partire, chiamami;; Finché canterai ti starò ad ascoltare;; Dopo mangiato, sono andato a casa. Nelle temporali è più frequente l’indicativo. Si usa il congiuntivo se il fatto è presentato come ipotetico (avrei suonato dopo che avessero fatto silenzio) e nelle temporali di anteriorità riferite al presente (prima che piova chiudi le finestre). Più frequentemente le temporali precedono la reggente. Relative Le proposizioni relative non rientrano tra le frasi non argomentali perché non si comportano come le altre subordinate. D’altro canto non si comportano neppure come le frasi argomentali, perché non sono argomenti del verbo della reggente ma un’espansione dell’antecedente cui il relativo si lega. Svolgono nel periodo quasi la stessa funzione delle apposizioni o dell’attributo nelle frasi indipendenti e danno informazioni su un determinato elemento della reggente, detto antecedente o testa: Ho trovato un vestito che cercavo da tanto tempo Il che in questo caso fa da soggetto della frase relativa, ma il pronome relativo può avere altre funzioni logiche (le stanze in cui studio sono gelide;; la casa che vedi non è mia). Le relative si distinguono in relative restrittive (o determinative o limitative) e relative appositive (o esplicative). Le prime sono fondamentali a definire il significato dell’antecedente e senza di esse la frase rimarrebbe sospesa;; le

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seconde costituiscono un’aggiunta di cui la frase reggente potrebbe fare a meno senza perde il nucleo del suo significato: Prendi le cose di cui hai bisogno;; La gonna che vedi sulla sedia non è da stirare (restrittive);; Sono appena arrivati Mario e Giovanni, che erano stati bloccati nel traffico (appositiva). La virgola non separa mai le relative restrittive. LA SINTASSI MARCATA L’italiano, come si è detto più volte, gode di una certa libertà nel disporre l’ordine delle parole. Quest’ultimo spesso dipende spesso dalla funzione informativa assegnata agli elementi che costituiscono la frase più che dal loro ruolo sintattico. Abbiamo già detto che l’italiano tende a costruire le frasi da sinistra: pone cioè ad apertura di frase un elemento, chiamato tema (o topic) che di solito o è stato già introdotto nel cotesto precedente o è ricavabile dal contesto. In base alla struttura delle conoscenze, spesso il tema è anche l’elemento dato o noto. Al tema segue il rema (o comment), che predica qualcosa sul tema, aggiungendo informazioni e che spesso coincide con il nuovo. Naturalmente non sempre tutto funziona in modo così lineare. Gli elementi che compongono le frasi, i costituenti delle frasi, si presentano a volte in un ordine diverso da quello di base soggetto – verbo – oggetto (SVO). Dislocazione a sinistra Le frasi seguenti: 1. Giuseppe ha comprato il pane 2. Il pane l’ha comprato Giuseppe

hanno entrambe lo stesso contenuto ma lo esprimono in modo diverso;; intendono ottenere effetti differenti sul destinatario e hanno diverso valore pragmatico. Uno dei costituenti della frase, che sul piano sintattico dovrebbe occupare la posizione destra, viene spostato a sinistra, nella posizione di solito occupata dal tema. Il costituente dislocato, infatti, ha sul piano testuale valore di tema e sul piano informativo di elemento dato. La prima frase risponde idealmente alla domanda Che cosa ha comprato Giuseppe, mentre la seconda alla domanda Chi ha comprato il pane? Quando un costituente è spostato dalla sua posizione, collocato a sinistra, ripreso e connesso al resto della frase da un pronome atono o tramite ne, ci si ha dislocazione a sinistra: Il pane l'ha comprato Giuseppe. La dislocazione può interessare, oltre all’oggetto, un complemento Di questo ne parleremo la prossima volta. A casa ci sto bene. A me non mi interessa.

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Talvolta l’elemento dislocato può anche essere un’intera frase: Che tu sia bravo lo abbiamo sempre saputo. A questo costrutto si può anche ricondurre l’oggetto diretto personale anteposto e preceduto da a: a Maria non l'ha invitata In tutti questi casi l’elemento spostato a sinistra è noto agli interlocutori: è un tema dato e il pronome che riprende l’elemento dislocato ha valore anaforico. La dislocazione a sinistra è ormai da tempo ammessa anche nello scritto, soprattutto nella scrittura giornalistica, nei testi di ampia e brillante divulgazione, nelle scritture espositive e così via. È meno consentita nella scrittura scientifica, dove, tuttavia, è possibile ottenere lo stesso effetto di tematizzazione tramite il passivo. Se trasformo al passivo la frase Il pane l’ha comprato Giuseppe avrò il costrutto Il pane è stato comprato da Giuseppe Dove rimane al primo posto non l’agente, ma il soggetto grammaticale che funge da tema dato. In entrambi i casi la frase risponde alla domanda Chi ha comprato il pane? e in entrambi i casi il rema, coincidente con l’informazione nuova, è Giovanni. In un testo scientifico in cui l’autore voglia porre in evidenza il tema non potrà scrivere La teoria della relatività l’ha elaborata Einstein, ma otterrà lo stesso effetto ricorrendo al passivo: La teoria della relatività è stata elaborata da Einstein. Tema sospeso A volte due costrutti distinti sono posti nella stessa frase;; il primo dei due però rimane sospeso, mentre il secondo completa il senso della frase seguendo un diverso percorso sintattico. Quando si lascia in sospeso il tema noto (il tema-­dato) dell’enunciato, introdotto a inizio di frase come se dovesse svolgere il ruolo di soggetto, si ha un tema sospeso: Io, non mi piace per niente questa cosa. Questa storia, non ci credo proprio. Luigi, non voglio più avere a che fare con lui. Dolci, ne ho mangiati abbastanza a Natale. In questo caso il tema introdotto è sempre ripreso o da un pronome o da un dimostrativo o da un altro elemento e, pur non avendo una prosecuzione sintattica, ha con il resto della frase una prosecuzione semantica.

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La dislocazione a destra e il tema sospeso sono solo del parlato e non sono ammessi nello scritto, a meno che non si tratti di un testo letterario in cui si stia riproducendo il parlato. Nel caso delle dislocazione a sinistra e del tema sospeso parliamo di costruzioni tematizzanti. Lievemente diverso è invece la costruzione della cosiddetta dislocazione a destra. Dislocazione a destra Quando l’oggetto o un complemento non sono spostati ma sono isolati a destra e anticipati da un pronome atono si ha dislocazione a destra: Lo prendi un caffè? Anche in questo caso la dislocazione a destra può interessare, oltre all’oggetto, un complemento o una frase: Non gli ho detto niente a Giovanni. Ne abbiamo abbastanza di queste storie. Ci torno sempre volentieri in questa città. Lo sapevo che eri stato tu. Nella dislocazione a destra il pronome che anticipa un costituente ha valore cataforico. Se l’elemento posto a destra della frase è preceduto da una pausa sospensiva (che nello scritto potremmo rappresentare con una virgola), la dislocazione a destra può essere una ripresa chiarificatrice di quanto già enunciato: Lo hai comprato tu, il giornale? Se non c’è pausa sospensiva, nella gran parte dei casi si intende dare rilievo al rema, perlopiù rappresentato dal predicato, lasciando in secondo piano il tema: Fateli una buona volta questi compiti! Ci vai o no a Roma? Sul piano pragmatico la dislocazione a destra crea una sorta di comunicazione confidenziale: sottintende all’inizio qualcosa la cui conoscenza gli interlocutori condividono e che viene esplicitato alla fine. Topicalizzazione (o anteposizione) contrastiva Nel parlato possiamo dare enfasi al rema anche con il tono della voce: IL PANE ha comprato Mario. In questo caso la nostra frase può rispondere alla domanda Che cosa ha comprato Mario? (e non come nella dislocazione a sinistra Chi ha comprato il pane?). Dunque il rema coincidente con l’informazione nuova è il pane e noi lo

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poniamo in evidenza collocandolo a sinistra, ma poiché in italiano non è possibile anteporre l’oggetto senza riprenderlo con un pronome, siamo costretti a evidenziarne il ruolo alzando il tono della voce. Parliamo in questi casi di topicalizzazione o anteposizione contrastiva. Possiamo realizzare la stessa costruzione anche con un complemento: A GIOVANNI dovevi dare il libro. Se il rema è rappresentato dal soggetto, in italiano possiamo focalizzarlo anche con la posposizione al verbo: Mario canta oggi è diverso da Canta Mario oggi. Nel primo caso il rema è canta oggi (risponde alla domanda Quando canta Mario?), mentre nel secondo il rema è Mario (Chi canta oggi?). Frase scissa A volte la focalizzazione di un elemento può avvenire tramite la scissione della frase in due parti: la prima trasmette il contenuto nuovo, il rema, ed è costituita dal verbo essere e dall’elemento focalizzato;; la seconda contiene il già dato ed è introdotta da un che di ripresa seguito dal resto dell’informazione. Si parla in questo caso di frase scissa: È Mario che è arrivato tardi. È a lui che ha proposto una gita. È qui che volevo venire. È mettere in ordine la tua stanza che mi affatica. Se il rema coincide con il soggetto, si può costruire la frase scissa anche con l’infinito preceduto da preposizione: È stato Mario ad arrivare tardi. È stato il ministro a rassegnare le dimissioni. La frase scissa si incontra nello scritto, soprattutto nella sua versione con l’infinito, ma non bisogna abusarne nella scrittura scientifica e accademica. Nel parlato, tuttavia, le frasi scisse possono avere costruzioni differenti: Non è che mi piaccia molto. Com'è che sei venuto? Chi non vuole venire è lui. Anche con il cosiddetto c'è presentativo: c'è qualcuno che parla male di te. Una forma di scissione sempre più diffusa nel parlato, ma da evitare nello scritto è anche una costruzione come: Mi riferisco a quelli che sono gli interessi dei giovani in luogo di Mi riferisco agli interessi dei giovani.

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In questi casi l’elemento in comune con la frase scissa è soprattutto la divisione in due frasi di un unico contenuto informativo. Quasi sempre è il verbo essere, verbo copulativo, che introduce l’elemento focalizzato. La topicalizzazione contrastiva e la frase scissa sono dette costruzioni focalizzanti. Sia le costruzioni tematizzanti sia quelle focalizzanti fanno parte della sintassi marcata. Con il termine marca in linguistica ci si riferisce alla particolarità che distingue un elemento dall’altro: per esempio il fonema b ha una marca di sonorità che lo distingue da p;; il femminile ragazza ha una marca morfologica che lo distingue da ragazzo e così via dicendo. Da qui discende anche il significato che oggi si dà al termine marcato per segnalare qualcosa che è particolarmente caratterizzato rispetto a qualcos’altro considerato più usuale, più frequente, talvolta anche più vicino alla norma scritta. Quando parliamo di sintassi marcata, parliamo dunque di costruzioni in cui l’ordine base dell’italiano SVO viene modificato. Ci si riferisce principalmente allo spostamento nella frase degli elementi nucleari (quelli che, come si è detto, costituiscono gli argomenti del verbo, formando il nucleo della frase), perché gli elementi extranucleari possono invece disporsi con maggiore libertà. Le costruzioni marcate hanno quasi sempre un valore pragmatico: tramite la diversa collocazione dei costituenti della frase, infatti, è possibile comunicare informazioni che vanno al di là del significato letterale. Nelle frasi fateli questi compiti o che tu sia bravo lo sappiamo, come abbiamo visto, diamo un’enfasi particolare ad alcuni componenti solo disponendoli in un particolare ordine. Anche con le costruzioni sintattiche la marcatezza si oppone a qualcosa che non è marcato. Con una marca fonologica, per esempio, la sonorità di b si oppone alla sordità di p e viceversa. Allo stesso modo, le frasi appena viste si oppongo a frasi non marcate che seguono un ordine lineare: Fateli questi compiti (marcata) – Fate questi compiti (non marcata). Che tu sia bravo lo sappiamo (marcata) – Sappiamo che sei bravo (non marcato). IL SOGGETTO NELLA FRASE Il soggetto è l’elemento della frase più strettamente legato al verbo. Di solito lo precede, tranne in alcune strutture in cui stabilmente lo segue come nel caso di è successo qualcosa o è arrivato un acquazzone. Come abbiamo visto, però, in italiano è possibile spostare il soggetto con finalità pragmatiche (Canta Mario oggi;; qualcosa è successo).

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L’accordo del verbo nella persona, nel numero e, con le forme composte con il participio, anche nel genere è determinato dal soggetto. La vecchia definizione per cui il soggetto è colui che compie l’azione è vera solo in alcuni casi. Non possiamo dire che il soggetto compia l’azione in una frase come Mario ha ricevuto uno schiaffo da sua madre. Molto dipende dal significato del predicato, dal suo ruolo semantico, in base al quale il soggetto può essere attivo o passivo. È la stessa distinzione che abbiamo esaminato a proposito della costruzione passiva, specificando la differenza tra soggetto grammaticale (con cui il verbo si accorda) e soggetto logico. L’italiano è una lingua pro-­drop che consente di non esprimere il pronome soggetto. Tuttavia, l’espressione del soggetto è obbligatoria nel caso in cui sia necessario distinguere tra forme verbali uguali (penso che tu/lui sia stanco);; quando per focalizzazione, in funzione pragmatica, lo posponiamo al verbo o lo inseriamo in frasi scisse (lo faccio io;; è lui che piange);; quando è sottolineato da un determinante (loro tre non sanno da che parte andare;; io che sono la vittima devo sempre subire);; quando si trova in correlazioni o disgiunzioni (né tu né lui ve la cavate bene;; o tu o lui dovete uscire).

IL VERBO NELLA FRASE Si è già detto altrove della diatesi del verbo e della distinzione tra verbi predicativi che hanno un pieno significato lessicale e verbi copulativi che mettono in relazione soggetto e verbo (La strada è tortuosa;; i tuoi voti costituiscono un problema, ecc.). Inergativi e inaccusativi È ben nota la distinzione tra verbi transitivi e intransitivi. La loro differenza è anche sottolineata dall’uso degli ausiliari nella formazione dei tempi composti. Per quanto riguarda l’uso degli ausiliari, i verbi transitivi hanno sempre avere alla forma attiva e essere per il passivo;; i verbi intransitivi a volta hanno l’ausiliare essere a volte avere. I verbi intransitivi che ricorrono all’ausiliare avere si definiscono verbi inergativi (Mario ha dormito bene);; quelli che ricorrono all’ausiliare essere sono detti verbi inaccusativi (Giovanni è caduto). L’italiano possiede, tra le lingue romanze, il maggior numero di verbi inaccusativi. In italiano, per distinguere i verbi inaccusativi dagli inergativi si usano di solito alcuni test. -­ La scelta dell’ausiliare (essere per gli inaccusativi, avere per gli inergativi).

Va osservato che l’ausiliare essere accomuna i verbi inaccusativi ai verbi

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riflessivi (si è pettinato), ai pronominali (si è spaventato), alle costruzioni con il si impersonale e passivo (si è parlato molto;; si sono scritti molti libri).

-­ La possibilità di pronominalizzare il soggetto con il clitico ne: arrivano parecchi spettatori > di spettatori ne arrivano parecchi;; parecchi spettatori ridono > * di spettatori ne ridono parecchi. Il soggetto dei verbi inaccusativi può essere pronominalizzato con il ne, come accade per l’oggetto dei verbi transitivi (Ho portato parecchi spettatori in sala > di spettatori ne ho portati parecchi in sala);; il soggetto dei verbi inergativi non può essere pronominalizzato con ne.

-­ La possibilità di costruzioni con il participio assoluto, che riguarda solo i verbi inaccusativi: arrivati gli amici, abbiamo cominciato a cenare, ma non possiamo dire * dormiti i bambini, siamo usciti. Anche in questo caso il comportamento del soggetto dei verbi inaccusativi è analogo a quello dell’oggetto dei verbi transitivi (finiti i compiti, sono andato a giocare).

-­ L’uso aggettivale del participio che è possibile solo per il participio dei verbi inaccusativi: la ragazza sparita all’improvviso;; la pioggia arrivata all’inizio dell’autunno. Dai verbi inergativi non possiamo ricavare forme come il marito russato. Anche in questo caso c’è un’analogia con l’oggetto dei verbi transitivi che può essere determinato dal participio aggettivale: la commedia rappresentata, la parete dipinta.

Il soggetto dei verbi inergativi (come lavorare, russare, ridere) ha più o meno lo stesso carattere del soggetto dei verbi transitivi;; il soggetto dei verbi inaccusativi (come arrivare, cadere, partire) ha caratteristiche più simili a quelle dell’oggetto dei verbi transitivi. Per capire meglio il ruolo del soggetto con i verbi inergativi o con quelli inaccusativi, dobbiamo pensare al fatto che

Ø i verbi inergativi, sul piano semantico, esprimono o azioni intenzionali (lavorare, portare, passeggiare, parlare, dipingere, ecc.) o azioni che non sempre sono sorvegliate dalla nostra intenzione ma che sono rappresentate nel loro divenire (dormire, russare, ridere, respirare, ecc.);;

Ø gli inaccusativi indicano perlopiù (a) il rapido mutamento di uno stato che non è determinato dall’intenzione del soggetto (cadere, guarire, morire, ecc.);; (b) uno stato (stare, rimanere, ecc.);; (c) il passaggio da un luogo all’altro seguendo un moto direzionale (arrivare, entrare, ecc.);; (d) un avvenimento (accadere, succedere, ecc.).

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IL LESSICO Il lessico non va confuso con il dizionario: il primo è l’insieme delle parole di una lingua;; il secondo è la descrizione di questo insieme. Sono l’uno (il lessico) il contenuto dell’altro (il dizionario). Il dizionario è un oggetto materiale, un libro o, oggi, un testo consultabile online;; il lessico è un oggetto astratto, un insieme di parole e di informazioni associate a queste parole, immagazzinato nella nostra mente e descritto nel dizionario. Una relazione analoga troviamo tra le regole sintattiche o morfologiche di una lingua, che costituiscono una struttura della lingua stessa, e il libro di grammatica che le descrive. La struttura del lessico non corrisponde alla struttura del dizionario. Quest’ultimo organizza le informazioni in base alla leggibilità del testo, alle esigenze del pubblico cui è destinato (comune nel caso di dizionari dell’uso, specialistico nel caso di dizionari storici o specialistici), alla natura specifica del dizionario (etimologico, storico, ecc.). Il dizionario monolingue, per esempio, segue l’ordine alfabetico;; il lessico non è organizzato alfabeticamente, ma per famiglie di parole legate dalle forme (fiore, fiorellino, rifiorire, ecc.;; o sensazione, costruzione, fissazione, ecc.), per campi semantici (acquistare, comperare, vendere, trattare, ecc.), per classi grammaticali (nomi, aggettivi, verbi, ecc.). Il dizionario in realtà non è la descrizione del lessico, ma piuttosto un tentativo di descrizione;; non per nulla esistono più dizionari di una stessa lingua, che presentano il lessico secondo aspetti diversi. Il dizionario non costituisce mai una rappresentazione totale di tutte le parole di una lingua, dei loro usi, dei loro significati. Rappresenta soltanto un repertorio incompleto. È difficile, infatti, stabilire il numero esatto di parole che compongono una lingua ed è ugualmente difficile individuare le proprietà di ogni singola parola. D’altro canto la competenza lessicale dei parlanti non è tale da contenere tutte le informazioni trasmesse da un dizionario: nessun parlante nativo conosce tutte le parole e le informazioni specifiche trasmesse da un dizionario. È anche vero del resto che molte espressioni che appartengono al nostro uso quotidiano non sono contemplate dal dizionario perché considerate formazioni ricreabili all’occorrenza. Se, per esempio, il diminutivo carrozzina, nel significato oggi diffuso e diverso dall’originario “piccola carrozza”, è entrato nel dizionario come voce autonoma grazie al suo specifico significato, altri diminutivi, come, per esempio, caffeino, non sono accolti, pur venendo adoperati da molti di noi nella comunicazione quotidiana. Analogamente al lessico e al dizionario abbiamo le discipline rispettivamente della lessicologia e della lessicografia. La prima studia il lessico di una lingua

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per individuare il modo in cui le parole, grazie al loro significato, possono combinarsi o entrare in relazione tra loro;; individua gli aspetti strutturali del lessico e l’organizzazione dell’informazione lessicale. La lessicografia, d’altro canto, ha come scopo principale la compilazione delle fonti lessicografiche. È più applicativa e si occupa di trovare i modi migliori per descrivere le proprietà grammaticali e gli usi delle parole e di cercare di presentare le informazioni nel modo più utile per l’utente. Le due discipline sono in connessione tra loro e richiedono competenze reciproche. Il significato Il lessico più di altre componenti della lingua ha un rapporto evidente con la realtà extralinguistica, anche se non riesce mai a rappresentarla nella sua interezza e complessità. L’arbitrarietà del segno indica il rapporto arbitrario tra il significato e il significante ma anche tra le parole e le cose cui si riferiscono. Ciò che le parole indicano è definito referente (in latino designatum e al plurale designata). Il modo in cui nominiamo i referenti non ha motivazioni precise, come dimostrano le differenze tra le diverse lingue. In una lingua una stessa parola può indicare più cose: a glass e al suo plurale in italiano corrispondono vetro, bicchiere, occhiali, ma all’italiano tempo in inglese corrispondono time, weather, tense. In base al significato possiamo distinguere tra parole lessicali e parole grammaticali, una distinzione che abbiamo in parte già visto parlando dei morfemi liberi. Esistono nel lessico di una lingua parole contenuto e parole funzione, per le quali si parla anche di parole lessicali e parole grammaticali. Di solito si dice che le categorie lessicali maggiori, nomi, verbi, aggettivi e talvolta anche avverbi, fanno parte della prima classe, mentre le categorie lessicali minori, pronomi, articoli, congiunzioni, preposizioni, appartengono alla seconda. Si tratta di una spiegazione imprecisa ma utile perché mette subito in evidenza il modo in cui le due diverse classi di parole contribuiscono al significato delle frasi. Le prime forniscono il contenuto, le seconde svolgono delle funzioni, come quella di chiarire le relazioni tra le parole che introducono il contenuto. Se pensiamo a una frase come Alle otto di mattina vado a lavoro in auto e togliamo tutte le parole funzione, otteniamo una sequenza come otto mattina vado lavoro auto che è ancora in grado di trasmettere un significato, anche se le relazioni tra gli elementi sono offuscati e non possiamo neppure definirla una frase. Non esistono più infatti indizi grammaticali o sintattici, tranne l’ordine delle parole che potremmo mescolare senza ripercussioni sulla nostra

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interpretazione: vado auto lavoro otto mattina. Al contrario se togliamo tutte le parole contenuto lasciando le parole funzione otteniamo una sequenza che non esprime alcun significato: alle di a in: mancano le parole che forniscano una base semantica. Il significato delle parole contenuto è chiamato significato lessicale, quello delle parole funzione significato grammaticale. Le parole della prima classe hanno significato da sole e sono autonome dal punto di vista semantico, mentre le parole funzione acquisiscono significato in relazione alle parole contenuto cui si riferiscono. La differenza tra parole contenuto e parole funzione è chiarita oltre che tramite il riferimento alle categorie grammaticali anche grazie al fatto che le prime costituiscono un insieme aperto, nel quale in continuazione possono entrare nuovi elementi e dal quale possono uscire vecchi componenti;; le seconde al contrario costituiscono un elenco finito di parole. Mentre infatti l’entrata nel lessico di parole contenuto nuove è un fenomeno comune e frequente, l’entrata di nuove parole funzione è possibile ma è un fenomeno molto più raro e dal punto di vista diacronico richiede molto più tempo. Spesso quando il fenomeno avviene è il risultato della trasformazione di una parola contenuto in una parola funzione. Una seconda distinzione è quella tra significato denotativo e significato connotativo. Il significato denotativo è la proprietà di una parola di indicare genericamente l’intera classe degli elementi che condividono le proprietà dell’oggetto designato. Ad es., la parola cane denota genericamente tutti gli elementi che appartengono al tipo «cane» (quadrupede, mammifero, ecc.), tra i quali vi sono tuttavia cani di diverso tipo e dimensione. Il significato denotativo è di solito quello riconosciuto da tutta la comunità linguistica;; talvolta, infatti, è anche detto enciclopedico. Il significato connotativo riguarda quegli aspetti del significato di una parola che hanno carattere di attributo: sono cioè le proprietà che possono aggiungersi al significato denotativo e specificarlo. Possono, per esempio, specificare l’atteggiamento del parlante nei confronti del referente della parola: mamma è connotato affettivamente rispetto a madre che non è connotato. Il significato connotativo esprime valori affettivi, individuali, emotivi;; possiede sfumature psicologiche e, talvolta, valutative. A volte si tratta di usi metaforici consolidati nell’uso comune: deserto come ‘luogo geografico che possiede determinate caratteristiche’ è un significato denotativo;; deserto come ‘solitudine’, ‘assenza totale di ciò di cui abbiamo bisogno’, ecc. è un significato connotativo. A volte la connotazione riguarda una sola parte della società: nero usato in senso spregiativo è una connotazione data da gruppi razzisti.

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Le relazioni di significato La branca della linguistica che studia specificamente i significati è la semantica. Molte associazioni tra le parole si costituiscono in base al significato che può variare nel tempo, per il contesto in cui si usa una parola, per il registro linguistico cui viene associata e così via. In base al significato, i tipi di associazione tra le parole possono essere:

Ø relazioni verticali o gerarchiche o di inclusione, in cui un elemento è sovraordinato all’altro (fiore, rosa);;

Ø relazioni orizzontali o di equivalenza (barriera/ostacolo);; Ø relazioni di opposizione (bello/brutto).

Esistono tuttavia molte associazioni che non sono riconducibili a nessuno di questi tipi (dormire/russare). Inoltre le parole polisemiche attivano diverse associazioni per ogni significato (acceso/sbiadito per il colore, acceso/spento per il lume, accesa/pacata per la discussione, ecc.). Iperonimia – iponimia Per le relazioni gerarchiche o di inclusione abbiamo l’iperonimia che lega due parole delle quali l’una, l’iponimo, ha un significato più specifico, l’altra, l’iperonimo, più generico. Il significato dell’iponimo cioè è costituito dal significato dell’iperonimo più qualche tratto aggiuntivo: fiore – rosa, giglio;; veicolo – automobile, autobus. Sinonimia La relazione di equivalenza è la sinonimia. Genericamente i sinonimi sono due parole che hanno lo stesso significato (miseria/povertà, sasso/pietra). Più esattamente la sinonimia dovrebbe essere una relazione di perfetta equivalenza dei significati tra due parole che possono essere sostituite una all’altra senza che questo cambi il significato della frase. In realtà questa definizione è poco praticabile perché raramente si trovano parole che possano essere perfettamente intercambiabili in tutti i contesti. Più frequenti sono i casi di sinonimia parziale, in cui due parole possono essere scambiate soltanto in un contesto specifico, come biglietto che può essere scambiato con banconota in una frase come «un biglietto da 10 euro», ma non in «un biglietto del treno». Molte parole non possono definirsi sinonimi perché appartengono a registri diversi (morire, scomparire, spegnersi, salire al cielo). Per una definizione più accettabile di sinonimia dovremmo dire che la sinonimia è una relazione tra due parole che in un dato contesto, e quindi in un dato significato, possono essere sostituite una all’altra senza che ciò abbia

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conseguenze sull’interpretazione della frase. In questo caso due parole sono sinonimi quando possono essere intercambiabili in almeno un contesto. Antinomia Nell’opposizione abbiamo coppie o serie di termini che si oppongono in relazione a uno o più aspetti del loro significato. Abbiamo diversi tipi di relazione di opposizione Gli antonimi sono coppie di parole che designano una proprietà o un evento graduabili o scalari, come facile/difficile, bello/brutto, basso/alto, pulire/sporcare, I due antonimi cioè sono agli estremi, ai poli opposti di una scala possibile: si parla infatti di opposizione polare. Tra facile e difficile, bello e brutto ci sono gradazioni intermedie e qualcosa può essere né facile né difficile, ne troppo bella né troppo brutta. Due termini sono invece complementari quando si escludono a vicenda (vivo/morto, promosso/bocciato);; non sono cioè su due poli opposti congiunti da gradazioni intermedie, ma su due sezioni totalmente separate. Si parla in questo casi anche di opposizione binaria. Si parla anche di inversione per due termini che esprimono la stessa relazione semantica vista da due prospettive diverse: slegare non significa non legare e così uscire non vale non entrare. I dizionari dell’italiano L’italiano, come la gran parte delle lingue, ha dizionari dell’uso, dizionari storici e dizionari etimologici. Sono tutti strumenti indispensabili per chi lavora con le lingue o le insegna e per chi si occupa di testi e di traduzioni. Il primo vocabolario dell’italiano è stato il Vocabolario della Crusca, stampato per la prima volta nel 1612. Oggi tutte le edizioni del vocabolario sono consultabili sul sito: www.accademiadellacrusca.it Un vocabolario storico si distingue perché, oltre alle parole e alle definizioni, include anche le citazioni d’autore. Un tempo queste citazioni servivano anche come esercitazione di stile per chi voleva cimentarsi nella scrittura elevata;; oggi hanno una funzione di documentazione utile per le ricerche storiche e linguistiche. Oggi il vocabolario storico di riferimento dell’italiano è il GDLI, il Grande dizionario della lingua italiana, iniziato da Salvatore Battaglia nel 1961 e continuato interamente a Torino, presso la Utet, da Giorgio Bàrberi Squarotti fino alla sua conclusione nel 2002 (con supplementi sui neologismi nel 2004 e nel 2007).

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Nella redazione dei primi volumi del GDLI si sono seguiti criteri tradizionali, ancora molto legati alla lingua letteraria. L’interesse è sempre rilevare l’uso di ogni voce nelle fonti scritte, ma nel corso del tempo ci sono stati alcuni aggiustamenti come:

• l’attenuazione del carattere marcatamente letterario del vocabolario, che si è sempre più caratterizzato come un’ampia raccolta della lingua scritta nelle sue più diverse realizzazioni;;

• una maggiore ampiezza di voci scientifiche (tecnicismi), che per loro natura sono prive di esempi d’autore;;

• un ampliamento delle fonti, che includono anche saggi e quotidiani, e delle stesse fonti letterarie che originariamente privilegiavano i testi toscani;;

• una maggiore apertura ai forestierismi sia pure con molta cautela. Per quanto riguarda le lingue antiche, di estrema rilevanza è oggi il TLIO, Tesoro della lingua italiana delle origini che arriva fino al 1375, data della morte di Boccaccio. Il TLIO è redatto a cura del Centro di ricerca del CNR, l’Opera del vocabolario italiano (OVI) che ha sede a Firenze, presso lo stessa Villa medicea di Castello dove ha ancora sede l’Accademia della Crusca. È interamente online ed è consultabile ai siti: http://www.ovi.cnr.it/ http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/ I vocabolari etimologici offrono, rispetto ai dizionari storici, la prima attestazione di ogni lemma, danno la genesi della parola in tutte le possibili implicazioni con altre parole della stessa lingua ed eventualmente di altre lingue e ne seguono l’evoluzione semantica. I dizionari storici dell’italiano sono: il DEI, Dizionario etimologico dell’italiano, di Carlo Battisti e Giovanni Alessio, Firenze, Barbera, 1950-­57, molto ampio ma spesso poco affidabile;; il DELI, Dizionario etimologico della lingua italiana, stampato una prima volta a Bologna da Zanichelli tra il 1979 e il 1988 in 5 volumi e curato da Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli;; ristampato e rivisto nel 1999 a cura di Manlio e Michele Cortelazzo con il titolo Il nuovo etimologico, consultabile anche in CD-­Rom. Imprtante è anche il Dizionario etimologico di Alberto Nocentini (Firenze, Le Monnier). Una menzione a parte merita il LEI, Lessico etimologico italiano, fondato da Max Pfister (Wiesbaden, Reichert, 1979 e seguenti) che ha un’impostazione monumentale. Si propone, infatti, di raccogliere tutte le attestazioni dell’italiano e dei suoi dialetti, antichi e moderni, dalle origini fino a oggi. Ciascuna voce, considerabile una monografia, è distinta in tre parti, contrassegnate da numeri romani e corrispondenti a una lettura etimologico-­storica ben precisa. Il numero I corrisponde alle parole di trafila popolare, il II a quelle di trafila dotta, il III ai

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prestiti di origine straniera. In questo modo ciascun lettore ha in un solo sguardo una serie di informazioni fin qui disperse in una pluralità di fonti diverse (le fonti del LEI sono più di 10.000). Diventa visibile una serie di dati culturali sulla cronologia e sulla diffusione geografica della parola: se è usata o meno in italiano, da quando è usata, se è attestata in qualche dialetto moderno o antico, se da essa si sviluppano unità polirematiche e modi di dire, se la sua vita si incrocia con quella di altre parole. Per quanto riguarda i principali dizionari dell’uso, molto importante è oggi il GRADIT, Grande dizionario dell’uso di Tullio De Mauro (Torino, Utet, 2000, con supplementi di neologismi fino al 2008). Il GRADIT comprende al suo interno il Vocabolario di base della lingua italiana, ovvero le circa 7000 parole che hanno maggiore frequenza d’uso. Le voci che appartengono al Vocabolario di base sono contraddistinte dalle marche d’uso:

Ø FO: «fondamentali», le 1991 parole più usate in assoluto (fare, cosa, amore, ecc.);;

Ø AU: «di alto uso», le 2750 parole molto usate ma con ricorrenza minore delle precedenti;;

Ø AD: «di alta disponibilità», le 2337 parole meno frequenti delle precedenti ma molto usate nel parlato.

Un’edizione parziale del GRADIT si può consultare al sito: http://dizionario.internazionale.it Gli altri dizionari dell’uso più frequentemente adoperati e di riferimento sono: lo Zingarelli (Bologna, Zanichelli) che viene aggiornato ogni anno;; il Devoto Oli (di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Firenze, Le Monnier nella nuova versione);; il Sabatini Coletti di Francesco Sabatini e Vittorio Coletti, pubblicato con più editori;; una delle edizioni è consultabile gratuitamente on line: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/ Ottimo è il Vocabolario Treccani e, in generale tutto il portale Treccani, dove è possibile reperire anche il dizionario dei neologismi: http://www.treccani.it/portale/opencms/Portale/homePage.html http://www.treccani.it/lingua_italiana/neologismi/searchNeologismi.jsp Le componenti del lessico italiano Per quanto riguarda le componenti del lessico italiano, alle parole di origine latina spetta senz’altro il ruolo più importante. Accanto a questa

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componente essenziale si collocano gli apporti che nel tempo hanno dato o che ancora oggi danno le altre lingue, inclusi i dialetti della penisola, attraverso i prestiti. A tutto ciò si aggiungono le neoformazioni che, come abbiamo visto, si possono ottenere per derivazione o per composizione. La maggioranza delle parole italiane proviene dal latino volgare, dal latino parlato e quindi dall’uso orale e non dallo scritto, come è facile capire da alcuni esempi. Per il concetto di ‘casa’ i latini usavano la parola domus che indicava la casa patrizia o in ogni caso l’abitazione agiata. Casa esisteva in latino ma con il significato di ‘capanna, tugurio’. Nell’economia impoverita dell’impero ormai in decadenza, nel prevalere delle campagne a discapito delle città, l’abitazione ‘casa’ divenne più diffusa insieme con la parola casa che la designava. Non per nulla domus è sopravvissuta in italiano solo in duomo, la maestosa casa di Dio. Ogni mutamento o spostamento semantico comporta nel sistema lessicale di una lingua uno spostamento a catena. Il venir meno di domus ha indebolito la coerenza della famiglia lessicale che da questa parola discendeva con dom-­inus/-­a, dom-­esticus, dom-­icilium, ecc. Tant’è vero che alcune parole appartenenti a questa famiglia o sono state recuperate con significato diverso o sono state recuperate come cultismi in modo isolato. La cosa rilevante da osservare è che a cambiare non sono solo le parole ma gli stessi rapporti tra parole e parole e talvolta tra parole e cose. Il campo semantico di casa si è allargato nel passaggio dal latino al volgare (non più una specifica, povera abitazione, ma tutte le abitazioni);; al contrario quello di domus si è ristretto. In altre parole casa è passata da un significato marcato a uno neutro, domus da uno neutro a uno marcato (solo il duomo). Un esempio analogo è quello di equus che viene soppiantato da caballus (‘cavallo da tiro, da lavoro’, meno pregiato ma molto più utile nel ripiegamento rurale dell’alto medioevo). Equus sopravvive solo in parole dotte come equestre, equino. In altre lingue romanze periferiche (più conservative anche per questo), a riprova dell’arbitrarietà anche nella storia linguistica, si è al contrario continuata la parola al femminile equa nel rumeno iapa, nel sardo logudorese ebba, nel catalano egua ecc. Per riuscire a riconoscere tuttavia la trafila seguita da una parola per giungere fino a noi è molto più rilevante osservare il mutamento fonetico che quello semantico. Nel passaggio dal latino all’italiano si parla di una doppia trafila, una dotta e una popolare e così si parla di parole dotte o cultismi o anche latinismi e di forme popolari. Ritornando per esempio a cavallo, quest’ultima è una forma popolare, perché dal lat. caballu(m) ha subito dei cambiamenti fonetici, come la spirantizzazione della b. Esiste tuttavia una serie di parole ancora legate alla forma classica, come equino, equestre,

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equitazione. Queste ultime sono cultismi: non solo perché continuano la forma latina classica, ma anche soprattutto perché sono state introdotte nella lingua dai dotti, attraverso la scrittura. Non sono arrivate per trafila ininterrotta attraverso l’oralità, la lingua parlata, ma sono state ripescate a tavolino: per costruire l’aggettivo “relativo al cavallo” non si è partiti dalla forma popolare, ma da quella perduta. Allo stesso modo da auru(m) abbiamo avuto oro con chiusura del dittongo, ma abbiamo l’aggettivo aureo, occhio e oculare, oculista, ecc: AURU(M) > oro – OCULU(M) > occhio trafila popolare ma aureo, oculare, oculista – trafila dotta Sono coniazioni dotte avvenute anche secoli orsono, ma altre si possono ancora coniare soprattutto per i tecnicismi delle lingue scientifiche. Il fenomeno d’altro canto non sempre si spiega con la coniazione dotta da parte degli intellettuali. prendiamo l’esempio di rosa: dovrebbe aver dittongato come buona o nuova. Si può in questo caso ipotizzare che la parola sia rimasta intatta perché è un portato della tradizione poetica e in particolare della lirica, una parola cioè sorvegliata dalla comunità degli scrittori. Ma non sempre è facile trovare spiegazioni di questo tipo: nel caso di miracolo per esempio, che certo appartiene al lessico religioso, non si può dire che la parola non sia stata di uso comune e diffuso nella religiosità popolare, eppure non subisce gli stessi mutamenti fonetici di occhio. C’è sempre una componente di arbitrarietà. In alcuni casi dalla stessa base latina si sono avute doppie forme, una popolare e una dotta, talvolta anche con diversificazione semantica: da angŭstia > angoscia, e angustia, da plebe > pieve e plebe. In questi casi parliamo di allotropi. Come si può vedere la definizione di popolare o dotta non dipende né dal significato né dall’attuale diffusione della parola. Da dĭscu(m) sopravvivono oggi disco e desco: la prima è la più diffusa nell’italiano odierno, ma è quella che ha seguito la trafila dotta. Stesso discorso vale per vizio e vezzo, pensione e pigione, occasione e cagione (entrambi da occasionem). La parola dotta è dunque quella più vicina alla forma latina e il criterio per definirla o per distinguere l’allotropo dotto da quello popolare è solo fonetico. Gli allotropi sono dunque due forme, una dotta e una popolare, derivate dalla stessa base latina con diversificazione semantica: ANGŬSTIAM > angustia

angoscia VĬTIUM > vizio

vezzo

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PENSIŎNE(M) > pensione pigione

DĬSCUM > disco desco

PLĔBE(M) > plebe pieve

Le parole scomparse dall’uso sono dette arcaismi. Alcuni arcaismi sono ormai del tutto oscuri per i parlanti contemporanei, come per esempio le parole abento “riposo, rifugio” o forosetta “giovane e graziosa contadina”, che la gran parte degli italiani non comprende senza il dizionario e che nessuno adopererebbe mai. Altri arcaismi, pur non essendo più adoperabili, sono però parte del patrimonio di conoscenze di molti parlanti che abbiano studiato. Sono parole che si comprendono anche se non si usano, di cui si ha cioè una competenza passiva. È il caso degli arcaismi rimasti attivi fino al Novecento grazie alla lingua conservativa della nostra poesia lirica: speme, desio, brando, ecc. Giovanni Nencioni ha parlato per l’italiano di «costanza dell’antico», cioè di una compartecipazione tra le fasi più antiche e quelle più moderne della sua storia linguistica ignota a lingue come il francese o l’inglese. Può anche accadere che parole morte tornino a vivere grazie all’opera di scrittori arcaizzanti o di orientamento puristico. Lo storico piemontese Carlo Botta (1766-­1838), per esempio, con la sua Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809), opera di ampio successo, immise nuovamente nell’uso parole ed espressioni che all’epoca erano considerate irrimediabilmente arcaiche, come alla spicciolata, andazzo, di straforo, fare spallucce, ecc. RINNOVAMENTO ESOGENO DEL LESSICO Il rinnovamento esogeno (prestiti e calchi) La lingua può incrementare il proprio lessico attingendo a risorse esterne, per cui parliamo in questi casi di rinnovamento esogeno. Contatti e interscambi con altre culture e con altre comunità linguistiche arricchiscono sempre tutte le lingue. Anche l’italiano ha ricevuto numerosi apporti esterni nel corso dei secoli: quello greco nella tarda epoca imperiale, quello germanico, bizantino e arabo nell’Alto Medioevo, quello galloromanzo (francese e provenzale) nel Duecento, quello spagnolo nel Cinque e nel Seicento, quello francese in particolare tra Sette e Ottocento, quello inglese nel Novecento.

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Il prestito linguistico è un fenomeno di trasmissione culturale fra civiltà e gruppi linguistici diversi. Non concerne solamente le interferenze tra lingue nazionali, ma anche quelle che avvengono tra la lingua e il dialetto. Tra le lingue da cui si ricavano i prestiti bisognerebbe includere anche il latino, non per le parole ereditate direttamente, fin dalle origini, e divenute parole italiane, ma per le formazioni colte che ancora oggi si attingono a questo grande serbatoio. Al latino ricorrono per esempio diversi linguaggi specialistici, in particolare il linguaggio del diritto (evizione “perdita di un diritto trasferito, provocata dal preesistente diritto di un terzo”, fattispecie, fraudolento, interdizione, ecc.) Possiamo parlare di 1. prestiti non integrati (detti anche prestiti integrali o non adattati) quando si tende ad accogliere l’elemento straniero senza modificarlo (bar, sport, computer, ecc.);;

2. prestiti integrati (detti anche prestiti adattati) quando la parola straniera è adattata al sistema grafico e fono-­morfologico della lingua di arrivo (bleu > blu, dollar > dollaro, beefsteak > bistecca);;

3. calchi di traduzione (detti anche calchi strutturali o calchi sintattici) quando si forma un nuovo composto con termini italiani, traducendo letteralmente i singoli componenti di una parola straniera, come grattacielo su skyscraper, ferrovia (che convive con la forma endogena strada ferrata) sul tedesco Eisenbahn, guerra fredda su cold war basketball > pallacanestro;;

4. calchi semantici quando il significato di una parola italiana preesistente si amplia accogliendo anche il significato di una corrispondente parola straniera. Il calco semantico può essere omonimico, cioè basato anche sulla somiglianza fonica, come in realizzare ‘capire’ sull’inglese to realize, autorizzare ‘permettere’ sul francese autoriser, aperitivo ‘bevanda’ sul francese aperitif e suggestione ‘suggerimento’ sull’inglese suggestion;; può essere anche sinonimico, cioè basato sull’assunzione dello stesso significato da parte di un termine che sul piano fonetico non ha nulla in comune con il termine straniero, come stella ‘diva del cinema’ sull’inglese star.

Possiamo anche distinguere tra prestiti di necessità e prestiti di lusso: i primi riguardano oggetti o concetti sconosciuti alla comunità linguistica italiana e sono quindi indispensabili per designare l’elemento nuovo (patata, caffè);; i secondi sono indotti dalla moda o dal prestigio che in alcune fasi storiche assumono alcune lingue ma potrebbero essere sostituiti da parole italiane: trend si sovrappone a tendenza, baby sitter a bambinaia, ecc.

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Tra i prestiti che sono arrivati all’italiano un gran numero di grecismi, cioè forme, costrutti di origine greca introdotti in italiano, si era già acclimatato nel latino d’età classica e postclassica, e da qui si è introdotto nella nostra lingua a partire dai testi più antichi: si pensi ai nomi di oggetti quotidiani e domestici (ampolla, borsa, canestro, ecc.), alla terminologia ittica (balena, delfino, cefalo, ecc.), ai termini di base della filosofia e delle scienze dell’antichità (filosofia, retorica, aritmetica, geometria, geografia, ecc.), alla lingua dei cristiani (apostolo, battesimo, martirio, ecc.). Il travaso di elementi lessicali greci è continuato anche in epoca altomedievale. Al greco bizantino risalgono voci comuni (anguria, basilico, indivia, ecc.), voci marinaresche – spesso penetrate attraverso Venezia e il suo territorio relative a imbarcazioni (galera, gondola) o ad attrezzi e operazioni marittime (argano, molo, ormeggiare, sartia, ecc.). Per i germanismi più antichi dobbiamo distinguere gotismi, longobardismi e franconismi. All’elemento gotico appartengono termini della vita militare (bando, elmo, guardia), anche con evoluzioni semantiche successive, come albergo «rifugio dell’esercito», oltre che parole della vita quotidiana e dell’uso domestico (nastro, fiasco, rocca, spola, arredare). Dalla dominazione longobarda entra il lascito più consistente, in molti casi vivo ancora oggi, con tracce significative anche nella toponomastica e nell’antroponimia: bara, biacca, federa, ricco, russare, scaffale, schermire, sguattero, balcone, zuffa, parti del corpo umano (schiena, stinco, milza, anca, guancia), staffa, strofinare, scranna, gruccia. Sono invece scomparsi dall’uso termini strettamente legati alla cultura longobarda (arimanno);; altri sono relegati all’uso letterario (strale). Per i franconismi il problema è più complesso, perché i Franchi che arrivarono in Italia dalla Gallia, dove si trovavano già stabilmente da due secoli, dovevano essere bilingui, se non già romanizzati: pertanto non è facile attribuire una parola al franco o al galloromanzo o alla probabile mediazione del latino medievale. Importanza rilevante hanno i francesismi che hanno cominciato il loro cammino verso i nostri volgari già nella prima età medievale. Molti termini sono relativi all’organizzazione feudale: conte e contea, marca «contea di confine» e marchese, cavaliere (specializzato semanticamente rispetto all’allotropo autoctono cavallaio / cavallaro), vassallo, cameriere «tesoriere», cugino (che oltre a essere un nome di parentela valeva come titolo onorifico). Un gran numero di francesismi arrivò nell’italiano nel XVIII sec. Il periodo rivoluzionario (1796-­1799) e il quindicennio napoleonico furono determinanti;;

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moltissimi furono i francesisimi di ambito politico: coalizione, colpo di mano, comitato, democrazia, eguaglianza, federalismo e federazione, ghigliottina, giacobino, rivoluzionare e rivoluzionario, sovversivo, terrorismo e terrorista. Anche l’opposizione alle idee francesi fu occasione per introdurre termini come destra e sinistra nel significato politico. Il periodo napoleonico contribuì a incrementare oltre al lessico militare e amministrativo: ambulanza, brigadiere, burocrazia, funzionario, prefetto, polizia, bancarotta, dimissione, transigere, vaccino, vidimare, ecc. L’italiano molto ha ricevuto, ma molto ha anche dato. Le lingue europee (ed extra-­europee) abbondano di italianismi, specialmente nei campi in cui gli italiani si sono storicamente affermati, come la musica (adagio, allegro, concerto, fuga, opera, violino, violoncello), l’architettura (balconata, facciata, loggia, mezzanino, piedistallo), l’arte (affresco, cartone, pittoresco), la letteratura (madrigale, sonetto), la cucina (carciofo, maccheroni, mortadella, vermicelli, e il più moderno cappuccino), la marineria (ammiraglio, fregata, tramontana, pilota), l’economia (banca, cassa, conto, credito, fiorino, rischio). Nel Novecento il made in Italy ha esercitato grande fascino all’estero influenzando i settori della moda: in Finlandia troviamo profumerie che si chiamano Senso, Finezza, Bellezza, in Belgio negozi d’abbigliamento come Creazione, Fascino, La Scala, e in Spagna negozi di mobili come Nuova forma. Gli apporti lessicali possono venire anche dai dialetti. Ciò non può stupire se si pensa alla spiccata vivacità delle culture regionali e locali. L’Unità politica dell’Italia fa probabilmente da spartiacque al fenomeno. Dal 1861, infatti, con la progressiva italianizzazione, l’interscambio italiano-­dialetti aumenta per quantità e capillarità di diffusione. Nella seconda metà del Novecento un grande contributo alla diffusione e allo scambio tra lessico italiano e dialettale è stato dato dal cinema e dalla televisione, ma un ruolo importante hanno giocato anche l’emigrazione da Sud a Nord, la sempre maggiore facilità di spostamenti, gli scambi sempre più intensi e frequenti. Il settore in cui più facilmente si possono trovare prestiti dai dialetti è quello della gastronomia. Solo dal napoletano, ad esempio, abbiamo: babà, calzone, mozzarella, mostacciolo, pastiera, pizza, sfogliatella, tarallo, vermicello, vongola. Un gruppo di voci e locuzioni soprattutto di gergo militare viene dal piemontese: battere la fiacca, cicchetto, passamontagna, pelandrone, ramazza. Dalla Lombardia provengono: barbone, essere in bolletta, far ridere i polli, maneggione, menabò, menagramo, mezze maniche, mica male, teppa e più di recente tampinare “assillare”;; a queste voci si possono aggiungere quelle

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genericamente settentrionali: brufolo, magone, mettersi il cuore in pace, piantarla, sberla, scimmiottare e, da non molto, pirla “sciocco, sprovveduto”, sfiga “sfortuna” e sfigato, che sembrano ormai più diffusi delle rispettive varianti a fonetica centromeridionale (cioè sfica e sficato). Al Veneto si devono termini del commercio e dell’amministrazione (anagrafe, bancogiro, catasto, scontrino), della marineria (arsenale, gondola, palombaro, pontile, traghetto, zattera) e due espressioni divenute un simbolo dell’identità linguistica italiana: ciao e grazie. La varietà romana è forse la più conosciuta per le influenze del cinema e della televisione: bagarino, buonuscita, caso mai, dritto “furbo”, fasullo, frocio spregiativo per “omosessuale”, iella, lasciar perdere, pacchia “abbondanza, vita comoda”, prendere fischi per fiaschi, ragazzo/-­a “fidanzato/-­a”, sputare l’osso, tardona, tintarella, ecc. e una serie di parole in -­aro (benzinaro, borgataro, casinaro, cravattaro “strozzino”, gattaro “chi dà da mangiare ai gatti randagi”, usato di solito al femminile, ecc.). Spesso espressivo e ancora in parte riconoscibile l’apporto napoletano: ammanicato, bancarella, cafone, carosello, fesso, iettatore e iettatura, patito “appassionato”, scassato, sceneggiata, smammare, smorfia “manuale per l’interpretazione dei sogni nel gioco del Lotto”, scippo, ecc. Per il tramite del napoletano passano poi molte voci genericamente meridionali come mannaggia o sfizioso. Dal siciliano viene un gruppo di termini della malavita (cosca, intrallazzo, mafia, omertà, pezzo da novanta, picciotto, pizzo) e della gastronomia (arancini, cannoli, cassata). È ancora marcato fuitina “fuga prematrimoniale di una coppia per mettere le famiglie di fronte al fatto compiuto, rendendo così inevitabile il matrimonio riparatore”. Diverso è il fenomeno dei geosinonimi, cioè sinonimi distribuiti sul territorio italiano. Si hanno geosinonimi quando lo stesso oggetto è indicato con nomi diversi nelle varie regioni;; il frutto indicato in Toscana come cocomero è l’anguria nelle regioni centro-­settentrionali e il melone o mellone al Sud. La spigola è denominata branzino nel Veneto e in generale al Nord. Spesso i geosinonimi convivono e non creano problemi di incomprensione;; in altri casi uno dei sinonimi prevale sugli altri. Il lessico di ogni lingua tuttavia si arricchisce sempre di nuove parole, dette neologismi. Non bisogna confondere i neologismi con i cosiddetti occasionalismi, parole coniate a seguito di avvenimenti particolari ma che non vivono più di qualche mese o anno. Oggi il linguaggio della politica e ancor più quella della cronaca politica sono fonti costanti di occasionalismi. I giornalisti,

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per esempio, ricavarono dallo slogan di Umberto Bossi. Gli esempi nei quotidiani sono molteplici: alcuni anni fa, per esempio, sono entrati termini come mattarellum (“sistema elettorale maggioritario col correttivo di una quota proporzionale”, così chiamato perché proposto da Sergio Mattarella), rutellismo, veltronizzare, ecc. Oggi la maggior parte dei dizionari dell’uso è molto prudente nel registrare gli occasionalismi, per evitare di fornire ufficialità a parole effimere. Al contrario, nel passato furono frettolosamente inserite nei dizionari occasionalismi come i termini che designavano balli alla moda – lo shimmy (1921) o il black-­bottom (anni Trenta) –, che oggi nessuno più conosce e che appaiono inutilmente nei dizionari dell’uso. Alcune formazioni però si mantengono nel tempo: si pensi alla parola buonismo (1995), ormai inserita in Devoto-­Oli, GRADIT, Zingarelli e Sabatini-­Coletti, o alla voce dialettale napoletana inciucio nel significato di “compromesso poco trasparente, accordo pasticciato” (1995), accezione registrata da Devoto-­Oli, GRADIT e Zingarelli. Più difficile prevedere le sorti di parole come euroconvertitore, sempre meno utile dopo la definitiva affermazione dell’euro, papamobile “particolare autoveicolo costruito per favorire gli spostamenti dell’anziano Giovanni Paolo II nelle visite”, o altre analoghe Un utile strumento sono le raccolte di neologismi, come gli ultimi volumi del GDLI e del GRADIT o lo studio importante di Giovanni Adamo e V. Della Valle, Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millennio (1998-­2003), Olschki, Firenze, 2003. Entrambi gli studiosi lavorano all’Osservatorio neologico della lingua italiana. Nel passato tali raccolte erano spesso compilate con intenti puristici, cioè con l’idea di fornire un elenco di parole da non usare. Nonostante le intenzioni dei compilatori, tuttavia, questi elenchi forniscono informazioni preziose. Molti termini infatti sono attestati per la prima volta proprio in repertori del genere: cartone animato nel Barbaro dominio di Paolo Monelli (Hoepli, Milano 1933), contabile “ragioniere” e rivalsa in una raccolta ottocentesca del funzionario napoleonico Giuseppe Bernardoni (Elenco di alcune parole oggidì frequentemente in uso [...], Milano 1812).

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FONETICA DELL’ITALIANO La fonetica è la scienza che studia i suoni (o foni) sia nella produzione del parlante sia nella ricezione dell’ascoltatore. I suoni sono prodotti tramite l’apparato fonatorio, costituito da polmoni, bronchi, trachea, laringe, cavità della bocca e cavità nasale. Pochi foni si combinano in modi molteplici formano un altissimo numero di parole (linguaggio verbale). Nessuna lingua utilizza tutti i foni possibili per formare parole. L’aria prodotta dai polmoni passa attraverso la laringe e nel fuoriuscire dalla cavità orale subisce delle modificazioni che producono suoni distinti.

Ø Se nel passaggio dalla laringe le corde vocali poste ai suoi bordi vibrano, si avranno suoni sonori;; se invece le corde vocali non si muovono, avremo suoni sordi.

Ø Se l’aria passa attraverso le cavità nasali, si producono suoni nasali, ma se il velo palatino (la parte posteriore e molle del palato) impedisce il passaggio attraverso il naso, si avranno soltanto suoni orali. In italiano

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i suoni nasali sono pochi e sono soltanto consonantici, mentre tra i foni orali distinguiamo tra vocali e consonanti.

Ø Quando produciamo le vocali, l’aria che passa attraverso la cavità orale non incontra ostacoli, ma solo, in qualche caso, un restringimento;; le corde vocali vibrano sempre, per cui le vocali sono soltanto sonore. Le vocali sono gli unici foni dell’italiano su cui può cadere l’accento.

Ø Le consonanti possono essere sorde o sonore e l’aria incontra degli ostacoli lungo il passaggio.

Ø Le semiconsonanti o semivocali sono suoni intermedi, prodotti quasi come le vocali ma con durata più breve per il sopraggiungere di un ostacolo.

La fonetica studia dunque l’articolazione fisica dei suoni ed è diversa dalla FONOLOGIA che studia il valore astratto dei foni;; si occupa cioè dei fonemi. Il fono è il suono fisicamente prodotto dal parlante, mentre il fonema è la rappresentazione mentale di un fono che ha funzione distintiva in un preciso sistema linguistico, che consente, cioè, di distinguere il significato di una parola dall’altra. Il fono si rappresenta con un simbolo dell’alfabeto fonetico racchiuso tra parentesi quadre [ʎ];; il fonema con un simbolo fonetico racchiuso tra barre oblique /ʎ/. Il fono è un qualsiasi suono linguistico, mentre il fonema è l’unità minima utilizzata da una lingua per distinguere una parola dall’altra.

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Si tratta di una distinzione di estrema importanza per tutte le lingue. Ogni lingua ha alcuni foni che corrispondono a fonemi distinti, che corrispondono cioè a rappresentazioni mentali e astratte distinte. I parlanti però possono produrre anche foni diversi e possono produrre anche in modi diversi il fono corrispondente a un fonema;; possono dare cioè realizzazioni diverse dello stesso fonema per variazioni personali, geografiche, sociali. Le realizzazioni diverse dello stesso fonema si dicono allòfoni. Pensiamo a un parlante che tenda a realizzare la s poggiando la punta della lingua contro gli alveoli invece che contro i denti. Si tratterà solo di una variazione, di un allofono cui non corrisponde un fonema specifico, diverso da quello della /s/ italiana. Nell’ascoltarlo non terremo conto di questa variazione, ma ricondurremo il suono al fonema dell’italiano. Si tratta dunque di una variazione fonetica e non di una distinzione fonologica;; in una lingua, però, esistono, come si vedrà, anche allofoni stabili, ovvero variazioni di suono condizionati dal contesto fonetico. La funzione distintiva dei fonemi è testimoniata dalla presenza di coppie minime, cioè coppie di parole che si distinguono per un unico elemento: rata ~ rada;; patto ~ matto;; pazzo ~ pozzo. Se in una parola, sostituendo un fono con un altro, si ottiene un’altra parola di senso compiuto, siamo di fronte a due fonemi (prova di commutazione) e a una distinzione fonologica. Il più diffuso sistema di trascrizione dei foni e dei fonemi è l’IPA (International Phonetic Association). I foni sono elementi della comunicazione orale, del parlato. Da secoli gli uomini li fissano sulla carta attraverso segni grafici (grafemi). Lo studio dei grafemi e dei segni paragrafematici che si adoperano solo nella scrittura (apostrofi, accenti, interpunzione, ecc.) è detto grafematica. Non bisogna mai confondere il segno grafico con il suono;; non sempre (e in alcune lingue quasi mai) esiste un rapporto di esatta corrispondenza tra il fono e la sua realizzazione grafica. La fonetica di una lingua muta più velocemente della grafia, che registra spesso fasi più antiche. Per lo studio delle lingue antiche, la grafia riveste una grande importanza, mentre è secondaria nello studio delle lingue contemporanee. In italiano il rapporto tra fonetica e grafia non pone grandi problemi, ma esistono delle discordanze. Alcuni segni grafici, per esempio, non si realizzano nella fonetica (si pensi al valore diacritico della i in parole come giallo o

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ciondolo);; a volte lo stesso fonema è reso in modi diversi (si pensi all’occlusiva velare che può essere rappresentata dal digramma <ch>, chilo, o dal solo <c>, cane). Il sistema fonologico dell’italiano è costituito da sette vocali, da due semivocali e da 21 consonanti. Un numero complessivo molto superiore ai 21 segni dell’alfabeto, senza contare che molte consonanti, quando si trovano tra due vocali (posizione intervocalica), possono essere lunghe e brevi, dette anche doppie e scempie con riferimento alla realizzazione grafica. VOCALISMO

Il vocalismo tonico dell’italiano è formato da: una vocale centrale di massima apertura, /a/;; tre vocali anteriori, /i/, /e/, /ɛ/, o palatali (la lingua si sposta in avanti, verso il palato duro), aprocheile (realizzate cioè con distensione delle labbra);; tre vocali posteriori /u/, /o/, /ɔ/, o velari (la lingua si sposta indietro, verso il palato molle), procheile (realizzate cioè con arrotondamento delle labbra). In base all’altezza della lingua distinguiamo tra vocali alte (/i/, /u/), vocali medio alte (/e/, /o/), vocali medio basse (/ɛ/, /ɔ/), vocale bassa (/a/). Le vocali alte sono di massima chiusura. La grafia dell’italiano non segna la differenza di apertura e chiusura delle vocali medio alte e medio basse. Si tratta di una distinzione fonologica come prova l’esistenza di alcuna coppie minime come

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/bɔtte/ (plurale di botta) e /botte/ (recipiente per vino) /pɛsca/ (‘frutto’) e /pesca/ (‘attività del pescare’). Talvolta la distinzione si può segnare graficamente tramite l’accento. L’accento acuto, è, segnala la vocale chiusa, quello grave, è, la vocale aperta. La distinzione tra apertura e chiusura delle vocali medie si avverte soltanto quando sono accentate (toniche);; se sono atone la distinzione si annulla e i suoni vocalici si riducono a cinque. La distribuzione dei suoni in ogni lingua ha delle restrizioni: non sempre tutti i suoni, cioè, possono ricorrere in tutte le posizioni. Per quanto riguarda le vocali, per esempio, in italiano la u non può ricorrere in fine di parola tranne nel caso in cui non sia tonica (più, tribù, ecc.);; anche la o chiusa non ricorre mai in fine di parola, dove si trova solo la /ɔ/ (però, contò, ecc.). Quando due vocali appartengono a due sillabe diverse e si incontrano, si forma uno iato: pa-­é-­se, le-­ó-­ne (diverso il caso dei dittonghi fài-­da, buò-­no). Quando l’incontro tra le vocali di due sillabe distinte si realizza per l’incontro tra due parole diverse (la entrata, lo impero), per evitare lo iato, spesso cade la vocale finale della prima parola (l’entrata, l’impero). È un fenomeno fonosintattico (o di fonetica sintattica) e di riduzione del corpo fonico della parola definito elisione. Si parla invece di iato quando due vocali accostate sono pronunciate in due sillabe separate. Si verifica: - quando nessuna delle due vocali contigue è una i o una u (be-­ato, le-­ale, ero-­e);;

- quando una delle due vocali è una i o una u colpite da accento (mío, búe);; - in alcune parole formate con il prefisso ri-­ (ri-­aprire, ri-­avere) o, più in generale, in cui la i è preceduta da r o da un gruppo consonantico con r: ori-­ente, ri-­one, ecc.;;

- quando si tratti del derivato di una parola che aveva l’accento sulla i: vi-­abilità (da vì-­a), spi-­are (da spì-­a).

L’italiano possiede anche due semiconsonanti o semivocali: la /j/ (o iod) palatale e la /w/ velare che nella grafia dell’italiano sono rese con <i> e <u>. La loro pronuncia è a metà tra le vocali e le consonanti;; si chiamano infatti anche consonanti approssimanti, perché il canale dell’aria si restringe molto ma non completamente come per le consonanti. Questi foni possono comparire in italiano solo prima o dopo una vocale appartenente alla stessa sillaba. Se compaiono prima formano un dittongo

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ascendente, piede, buono, accentato cioè sul secondo elemento vocalico. Se compaiono dopo formano un dittongo discendente, accentato cioè sul primo elemento vocalico: càusa, pòi. La /j/ non può mai co-­occorrere con la /i/;; la /w/ non può mai co-­occorrere con la /u/ e non può formare dittonghi discendenti con /i/, /ɔ/ e /o/. La /u/ non può mai apparire in fine di parola tranne nel caso in cui non sia tonica (più). CONSONANTI Fonemi consonantici dell’italiano Luogo di articolazione Modo di articolaz.

Bilabiali s.da s.ra

Labiodent. s.da s.ra

Dentali s.da s.ra

Alveolari s.da s.ra

Palatali s.da s.ra

Velari s.da s.ra

Occlusive p b t d k g Laterali l ʎ Vibranti r Fricative f v s z ʃ Nasali m n

ɲ

Affricate ts dz ʧ dʒ Occlusive: chiusura completa del canale Costrittive: c’è un forte restringimento che tuttavia consente il passaggio dell’aria:

- fricative si producono con una frizione - vibranti con vibrazione della lingua - laterali con passaggio dell’aria ai lati della lingua

Affricate: c’è un’occlusione e poi un restringimento La presenza di quattro affricate tra i fonemi consonantici è considerato un tratto tipico dell’italiano;; le altre principali lingue europee ne hanno al massimo due. Bilabiali: chiusura delle labbra Labiodentali: denti e labbro inferiore Dentali: punta della lingua contro i denti Alveolari: punta della lingua contro gli alveoli Palatali: dorso della lingua contro il palato anteriore Velari: dorso della lingua contro il velo Le poche discrepanze tra grafia e fonetica nell’italiano riguardano le consonanti.

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L’occlusiva velare sorda /k/ha tre grafie differenti: <c> davanti alla a e alle vocali velari o, u;; il digramma <ch> davanti alle vocali palatali e, i;; <q> in alcuni casi davanti a /w/: quando, quale, ecc., ma cuore, cuoco, ecc. L’occlusiva velare sonora /g/ ha due grafie differenti: <g> davanti alla a, alle vocali velari o, u, e alla semivocale /w/ (guanto);; il digramma <gh> davanti alle vocali palatali e, i. I suoni [kw] e [gw] sono definiti nessi labiovelari rispettivamente sordo e sonoro e devono essere sempre seguiti da una vocale. Le affricate palatali sorda e sonora, /ʧ/ e /dʒ/, hanno ciascuna due rese grafiche differenti: <c> e <g> davanti alle vocali palatali e, i (giallo, cena, ecc.);; i digrammi <ci> e <gi> davanti alla a, alle vocali velari o, u (ciocco, giallo, guancia, gancio, ecc.). La i ha in questo caso solo valore diacritico. Nella fonetica dell’italiano standard contemporaneo, anche in parole come cielo, dove la i aveva valore fonetico (era la semivocale del dittongo /jε/) o in latinismi come superficie, igiene, la <i> ha ormai solo valore diacritico. Abbiamo anche casi contrari in cui due suoni differenti hanno un solo segno grafico. Le affricate alveolari sorda e sonora /ts/ e /dz/ si rendono in italiano con il solo grafema <z>: zaino /’dzajno/, zucca /’tsukka/. In posizione intervocalica le affricate alveolari sono sempre lunghe (intense), anche se nella grafia talvolta sono scempie e talvolta doppie: mezzo /’meddzo/;; pizza /’pittsa/ ma azoto /ad’dzɔto/;; azione /at’tsjone/. Anche le fricative alveolari sorda e sonora /s/ e /z/ si rendono in italiano con il solo grafema <s>. La fricativa alveolare sonora /z/ si può trovare all’inizio di parola prima di un’altra consonante sonora: sdolcinato, svegliarsi, ecc.;; in posizione intervocalica dove è sempre di grado tenue:rosa /’rɔza/.

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In posizione preconsonantica le fricative alveolari sono sorde o sonore in base al contesto fonetico. In posizione intervocalica hanno valore fonologico: fuso /’fuso/ (arnese per filare, fuso orario) e fuso /’fuzo/ participio passato di fondere;; chiese /’kjεse/ (participio passato di chiedere) e chiese /’kjεze/ (plurale di chiesa). Le consonanti laterale palatale, fricativa palatale e nasale palatale, /ʎ/, /ʃ/ /ɲ/, in posizione intervocalica sono sempre lunghe, di grado intenso. Nella grafia sono rese con un digramma o un trigramma. /ʎ/ con il digramma <gl> davanti a /i/: gli, gliene, figli, ecc.

con il trigramma <gli> davanti alle altre vocali: aglio.

/ʃ/ con il digramma <sc> davanti alle vocali palatali: scena con il trigramma <sci> davanti alle altre vocali: uscio

(fanno eccezione alcuni latinismi come scienza) /ɲ/ con il solo digramma <gn>: pugno, ignorare Nei digrammi <gli> e <sci> la i ha solo valore diacritico Gli allofoni sono variazioni di suono che non hanno valore fonologico. La variazione di suono è condizionata dal contesto fonetico. Gli allofoni dell’italiano sono: le velari che precedono la semivocale /j/, [kj] e [gj]: chiodo, chiesa, ghianda, ghiotto – in alfabeto fonetico si indicano con [c] e [ɟ];; la nasale che precede una velare [ŋ]: ancora, e la nasale che precede una fricativa labiodentale [ɱ]: anfora. Un tratto fonologico tipico dell’italiano è la lunghezza consonantica. È l’unica delle lingue romanze ad aver conservato questo tratto dal latino e ha valore distintivo: pala/palla, cane/canne, fato/fatto LA SILLABA Anche all’interno delle parole i suoni non sono mai pronunciati isaolatamente ma si legano l’uno all’altro in strutture che possono variare da lingua a lingua e che costituiscono le sillabe.

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Elemento essenziale della sillaba è il nucleo che in italiano è sempre costituito da una vocale. Il nucleo è quasi sempre preceduto da un attacco (pa-­ne) e può essere seguito da una coda (tut-­to). In italiano, e anche questa è una specificità della nostra lingua possiamo avere sillabe costituite dalla sola vocale, mentre non possiamo avere sillabe costituite solo da consonanti, con l’eccezione di onomatopee, dette anche ideofoni, come brrr, bzzz. L’attacco può avere diverse composizioni: V: o-­ro CV: ma-­no CCV: tre-­no CVC: den-­te CCVC: trop-­po CCCV: stra-­da CCCVC: stret-­to La coda è sempre costituita da una sola consonante. La sillaba chiusa da una consonante non si trova in fine di parola, tranne che in alcuni monosillabi come per, del, ecc. Le sillabe sono aperte quando finiscono per vocale e chiuse quando è presente la coda e si chiudono quindi in consonante: sillaba aperta ma-­no sillaba chiusa can-­to La sillaba aperta tonica è lunga;; la sillaba chiusa è breve, ma questa distinzione in italiano non ha valore fonologico. L’ACCENTO È un tratto soprasegmentale, cioè al di sopra della sequenza dei suoni. Consiste nel far sentire con più forza una sillaba sulle altre o, più esattamente, il nucleo della sillaba. L’accento italiano è intensivo, il nucleo della sillaba è cioè articolato con più forza (diversi i casi in cui l’accentuazione è data dalla durata o dall’altezza melodica = tono più acuto della voce). L’italiano ha un accento mobile la cui posizione è impredicibile. Ha valore fonologico: rétina/retìna, àncora/ancóra, sùbito/subìto, ecc. Possiamo avere parole

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ossitone o tronche, cantò, parossitone o piane, tàna proparossitone o sdrucciole, tàvolo bisdrucciole, dèlegano La maggioranza delle parole italiane è costituita da parole bisillabe con accento piano e tra queste predominano quelle la cui sillaba tonica è aperta. Il ritmo dunque prevalente in italiano è quello del trocheo: una sillaba lunga seguita da una breve Le parole composte hanno spesso un accento secondario: cassapanca Esistono alcuni monosillabi deboli che sono privi di accento e che si appoggiano all’accento delle parole che le precedono o le seguono. Sono preposizioni, articoli e soprattutto i pronomi atoni come mi, ci, lo, ecc., denominati anche clitici. I clitici infatti si legano di solito al verbo che segue o che precede;; nel primo caso si parla di pròclisi e di pronomi proclitici: lo so;; mi sembra;; nel secondo casi si aprla di ènclisi e di pronomi enclitici: sentimi;; cavarsela. Fenomeni di fonosintassi Raddoppiamento Fonosintattico Nella comunicazione orale si produce il cosiddetto continuum fonico. Nel continuum fonico del parlato, talvolta una parola che termina per vocale allunga la consonante della parola che segue. La grafia non registra il fenomeno, tranne che in alcuni casi di parole univerbate, come soprattutto, appena, chicchessia, ecc. Il raddoppiamento fonosintattico si verifica nei seguenti casi:

• dopo una parola che termini per vocale accentata: comprò tutto;; non posso né voglio;; andò via;; perché tu e non lui;;

• dopo monosillabi forti come re, gru, tre, dì;; • dopo bisillabi piani come dove, sopra, qualche, come;; • dopo le forme seguenti: a, da, fra, tra, su, che, chi, se (congiunzione), e, o, ma.

Si spiega storicamente come un caso di assimilazione regressiva: TRES CANES > tre ccani AD VENIRE > avvenire TERRA ET MARE > terra e mmare PLUS PANEM > più ppane

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Elisione L’elisione (dal lat. elisio «atto di rompere») consiste nella cancellazione di una vocale atona in fine di parola, quando questa sia seguita da una parola iniziante per vocale. Il fenomeno ha luogo quindi solo al confine di parola e fa parte della cosiddetta fonologia di giuntura o fonetica sintattica. La cancellazione della vocale atona finale serve a rendere più fluida l’articolazione dei suoni ed evitare il formarsi di iati come accadrebbe in lo emporio, la avarizia, ecc. L’eliminazione della vocale per elisione nella grafia è segnalata dall’apostrofo: l’amica, un’altra, senz’altro, ecc. Apocope L’apocope (o troncamento) consiste nella caduta della vocale atona finale o della sillaba nell’incontro con un‘altra parola che inizi perlopiù con consonante. Nell’italiano contemporaneo l’apocope sillabica sopravvive solo in gran, san, bel (gran caldo, san Gennaro, bel ragazzo) e nelle preposizioni articolate (del/dello, al/allo, ecc.). L’apocope vocalica può essere obbligatoria in casi come: buon giorno, buon viaggio, signor Mario;; e facoltativa in casi quali: cuor mio, bicchier d'acqua, ancor più, ecc. Perché l’apocope vocalica si verifichi - la vocale finale deve essere preceduta da l, r, n, m;; - deve essere vocale diversa da a, tranne che per i composti in -­ora (suor Maria, ancor più, ecc.);;

- le vocali finali -­e, -­i non devono indicare plurale;; - la parola non deve trovarsi in fine di frase. Si tratta, tuttavia, di un fenomeno impredicibile: secondo le regole precedenti, infatti, la sequenza car padre sarebbe ammessa, eppure non si produce. Attenzione: anche qual è è un’apocope ed è per questo motivo che non si apostrofa (così come non si apostrofa qual era). La caduta della vocale in quale può infatti avvenire anche davanti a consonante (qual buon vento). Anche altre forme, come tal o buon, si comportano allo stesso modo e nella grafia non richiedono l’apostrofo quando si trovino davanti a vocale (è un buon amico). La grafia qual'è si sta diffondendo, soprattutto nella scrittura giornalistica ma la regola grafica è ancora stabile. È diverso, invece, il caso di qual’erano, dove si ha un’elisione della i di quali che richiede l’apostrofo.

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Aferesi L’aferesi consiste nella caduta di uno o più foni all’inizio di parola. Oggi è un tratto caratteristico del parlato, soprattutto nei registri trascurati o informali, e nel parlato regionale o popolare. L’aferesi riguarda più frequentemente la vocale atona iniziale delle parole, soprattutto negli articoli e quando precedono un nesso nasale + consonante: «come stai?» «’nsomma»;; oggi non fatto ’n tubo;; t’ho aspettato tutto ‘l tempo. Si ha anche aferesi della sillaba iniziale;; nel parlato contemporaneo, sempre di registro informale, è frequente l’aferesi sillabica del dimostrativo: Tutte ‘ste storie m’hanno scocciato. Il dimostrativo, nella forma aferetica, perde l’accento e si comporta come un clitico, appoggiandosi all’accento della parola che segue (enclitico): sempre ‘sto chiasso tutte le sere!

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LA SITUAZIONE LINGUISTICA CONTEMPORANEA, I DIALETTI, LE VARIETÀ DELL’ITALIANO Come si arriva alla situazione contemporanea Fino al XVI secolo tutti i volgari furono considerati sullo stesso piano: erano tutte lingue di uguale prestigio. Nel 1525 Pietro Bembo, un importante scrittore veneziano, pubblicò un’opera, intitolata Prose della volgar lingua, nella quale proponeva a tutti gli scrittori italiani di imitare la lingua di Petrarca per la poesia e quella di Boccaccio per la prosa. Dal quel momento il fiorentino letterario trecentesco fu la lingua usata per la scrittura e per tutti gli usi alti e riuscì a imporsi su tutti gli altri dialetti non per ragioni politiche ma solo per cause di prestigio culturale. Per molti secoli però gli italiani continuarono ad adoperare il dialetto per parlare in famiglia e nella comunicazione quotidiana;; l’italiano era abbastanza conosciuto ma poco parlato. Nel 1861 l’Italia divenne una nazione unitaria, un solo Stato. Il sistema scolastico si unificò, i collegamenti migliorarono, cominciò l’emigrazione e il servizio militare obbligatorio;; l’italiano si diffuse molto più di prima. Il grande cambiamento si è avuto dopo la seconda guerra mondiale, negli anni ‘50 del Novecento: grazie allo sviluppo economico, gli spostamenti verso le città e da una regione all’altra, la scuola dell’obbligo, i mezzi di comunicazione di massa e soprattutto la televisione, in pochi decenni l’italiano è diventata una lingua parlata da tutti e per tutti gli usi. L’italiano è ancora oggi una grande lingua di cultura. Nei secoli del Rinascimento (XV-­XVI sec.) ha contribuito alla formazione della cultura occidentale. Oggi non ha più la stessa importanza, ma molti stranieri studiano l’italiano per motivi culturali (arte, musica, storia, letteratura) e da qualche anno anche per motivi economici. Molte parole italiane sono rimaste nelle altre lingue: sonetto (poesia), allegro, piano, lento, ecc. (musica), pizza, maccheroni, ecc. (gastronomia), il saluto ciao e ancora molte altre. Gli italòfoni non sono solo in Italia (Svizzera, emigrati, Malta, Albania, ex colonie africane Eritrea e Somalia). Oggi l’Italia è terra di immigrazione e molti stranieri apprendono qui la lingua per esigenze di lavoro. Per avere una comunità linguistica non basta parlare la stessa lingua in qualsiasi situazione o paese. Una comunità linguistica è costituita da persone che condividono una stessa lingua con tutte le sue varietà, lo stesso territorio geografico, la stessa organizzazione politica, lo stesso atteggiamento

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verso le varietà della propria lingua. Percepiscono quindi allo stesso modo il valore e le funzioni delle varietà della propria lingua e il rapporto che questa possiede con altre lingue. Il repertorio linguistico è l’insieme delle varietà di una lingua. Se una comunità linguistica possiede più di una lingua, avrà più di un repertorio. La varietà linguistica è un sottoinsieme della lingua caratterizzato da tratti linguistici adoperati da un certo gruppo di parlanti in certe situazioni. I tratti possono essere fonetici, morfologici, sintattici, lessicali, testuali. L’italiano è la lingua comune a tutto il territorio nazionale e convive da sempre con i dialetti delle singole regioni. I dialetti non sono varietà dell’italiano ma lingue autonome. Hanno tutti origine dal latino. Non sono “figli dell’italiano ma fratelli”. Ancora oggi molti italiani alternano l’uso del dialetto e l’uso dell’italiano a seconda della situazione comunicativa. La situazione linguistica italiana però non può definirsi né di bilinguismo né di diglossia. Con bilinguismo si indica “una situazione linguistica in cui i parlanti possono alternare due lingue considerate di uguale livello e prestigio”. Si ha un bilinguismo comunitario quando tutta la popolazione di un territorio conosce entrambe le lingue;; si dice invece bilinguismo bicomunitario, quando una parte della popolazione, come accade in Alto Adige, parla e conosce una delle due lingue e l’altra parla e conosce l’altra. Con diglossia si indica una situazione linguistica in cui i parlanti usano una lingua per le comunicazioni più alte e formali e un’altra per situazioni basse e informali. La divisione è netta e gli ambiti delle due lingue sono sempre nettamente distinti. In caso di diglossia le due lingue non possono scambiarsi mai i ruoli. In Italia invece il dialetto si usa solo per la comunicazione familiare e colloquiale, mentre l’italiano si usa in tutte le situazioni. Fino agli inizi del Novecento si poteva parlare di diglossia anche per l’Italia, ma da quando l’italiano ha cominciato a farsi strada anche nella comunicazione familiare, quotidiana e colloquiale, ciò non è stato più vero. Per questo motivo il linguista Gaetano Berruto per definire la situazione italiana ha parlato di dilalia, con la quale indichiamo l’esistenza di due lingue, una l’italiano, comune all’intera comunità linguistica e adoperato in tutte le situazioni, l’altra il dialetto, diverso da regione a regione e adoperato solo per gli usi privati e colloquiali.

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In caso di diglossia, le due lingue si alternano in base alla situazione comunicativa, mentre con la dilalia uno stesso parlante può a volte commutare il codice nella stessa situazione comunicativa. Carta dei dialetti italiani: http://ioparloitaliano.yolasite.com/resources/00italica.jpg?timestamp=1264274803461 Figg. 1 e 2 Dialetti italiani e parlate alloglotte

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I confini di una carta geolonguistica sono segnati dalle isoglosse. Un’isoglossa è una linea immaginaria che unisce tutti i punti estremi di un’area geografica che condivide lo stesso fenomeno linguistico. Il fenomeno può essere fonologico (e in questo caso definiamo la linea isòfona), morfologico (isomòrfa), sintattico, lessicale (isolessi). L’isoglossa delimita pertanto un’area linguistica che possiede un determinato fenomeno linguistico e la separa dal territorio confinante che non lo possiede.

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• Dialetti settentrionali parlati a nord della cosiddetta linea La Spezia -­ Rimini che corre tra il Tirreno e l’Adriatico.

I dialetti settentrionali si possono distinguere in

- dialetti galloitalici, parlati in aree abitate anticamente da popolazioni celtiche: Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna e, per effetto di antiche migrazioni, in alcune piccole aree linguistiche della Basilicata e della Sicilia;;

- dialetti veneti, parlati in aree abitate anticamente dai veneti: Veneto, Trentino, Venezia Giulia.

• Dialetti centromeridionali parlati a sud della linea La Spezia -­ Rimini. Tra i dialetti centromeridionali distinguiamo

- i dialetti toscani;; - i dialetti còrsi, parlati nella Corsica che rientra nel territorio politico francese;;

- i dialetti mediani, parlati nelle altre regioni dell’Italia centrale e in particolare quelle a sud della cosiddetta linea Roma -­ Ancona, Marche centrali, Lazio a est del Tevere, Abruzzo aquilano;; quelli a nord della linea Roma -­ Ancona, detti mediani di transizione, condividono alcuni tratti con i dialetti toscani.

• Dialetti meridionali o alto-­meridionali, parlati nelle aree più a sud delle Marche e del Lazio, in quasi tutto l’Abruzzo, in Molise, in Campania, in Basilicata, nella Puglia centro settentrionale, nella Calabria settentrionale.

• Dialetti meridionali estremi, parlati nel Salento (Puglia meridionale), nella Calabria centromeridionale e in Sicilia.

• Hanno sistemi linguistici autonomi nell’insieme delle varietà italo-­romanze il ladino, parlato in alcune vallate del Trentino-­Alto Adige e del Veneto, e il friulano, parlato nel Friuli. A parte vanno considerati i dialetti sardi, distinti tra gallurese e sassarese, a nord (più vicini al toscano), logudorese, campidanese.

In Italia esistono minoranze alloglotte che parlano lingue minoritarie, non considerate nel novero delle varietà italo-­romanze, come l’arbäresh, il grico, lo sloveno, il francoprovenzale, ecc. I dialetti settentrionali sono caratterizzati da sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche, caduta delle vocali atone, assenza di consonanti lunghe:

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fradel “fratello” ( da FRATELLUM e non da FRATREM). Una caratteristica particolare dei dialetti galloitalici è la presenza di vocali turbate (sono le vocali anteriori pronunciate con lieve arrotondamento delle labbra – anteriori procheile) lüna “luna”, fög “fuoco” I dialetti mediani conservano la u finale del latino e distinguono tra il genere neutro per indicare la materia (FERRUM > lo ferru) e il genere maschile per indicare l’oggetto (lu ferru “l’oggetto di ferro”). I dialetti meridionali sono caratterizzati da indebolimento delle vocali atone soprattutto in fine di parola: russəә “rosso”;; da assimilazioni come quannəә “quando”, chiumməә “piombo” (< PLUMBUM);; da metafonesi: rossa ma russəә, mesəә ma misəә. Molti tratti sono in comune ora con le aree centrali ora con quelle del Meridione estremo. I dialetti meridionali estremi hanno un vocalismo tonico diverso e le vocali atone in posizione finale sono solo i, a e u (tila, cruci, filu, ecc.). DIALETTI ITALIANIZZANTI L’italianizzazione riguarda in misura minore o maggiore tutto il repertorio del dialetto. È un fenomeno che colpisce in particolare il lessico originario dei dialetti. Si formano coppie sinonimiche. Il termine del dialetto arcaico può convivere o essere soppiantato da un termine dell’italiano quasi sempre rifonetizzato. È una sorta di traduzione in dialetto del significante (cioè dell’aspetto fonico-­acustico) italiano. Italianizzazione del lessico dei dialetti Esempi dal salentino Dialetto arcaico Dialetto italianiz. Italiano aunu, aunicieddu agnellu, agnieddu agnello frummicula furmica formica scincarieddu vitieddu vitello Esempi dal bolognese Dialetto arcaico Dialetto italianiz. Italiano andavén curidur corridoio catér truver trovare pker mazlér macellaio

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Esempi dal calabrese meridionale Dialetto arcaico Dialetto italianiz. Italiano custureri sartu sarto muccaturi fazzolettu fazzoletto cantunera angulu angolo LE VARIETÀ LINGUISTICHE E LE VARIETÀ DELL’ITALIANO Le fondamentali dimensioni della variazione sincronica di TUTTE le lingue sono costituite:

dall’area geografica in cui la lingua è usata (o più esattamente dall’area di provenienza dei parlanti e dalla loro distribuzione geografica) -­ variazione diatopica;; dallo strato o gruppo sociale cui appartengono i parlanti (o più specificamente dalla posizione che il parlante occupa nella stratificazione sociale) -­ variazione diastratica;; dalla situazione comunicativa nella quale si usa la lingua -­ variazione situazionale o diafasica;; dal mezzo fisico-­ambientale attraverso cui si svolge la comunicazione, dal canale attraverso cui la lingua è usata (scrittura o oralità) -­ variazione diamesica.

La variazione diamesica riguarda le varietà dello scritto e del parlato, o anche dello scritto trasmesso e del parlato trasmesso. Per quanto riguarda la variazione diatopica, in Italia l’influenza dei diversi dialetti sullo standard ha dato vita agli italiani regionali. La varietà diastratica bassa dell’italiano, parlata e scritta da persone con un basso grado di istruzione, è l’italiano popolare. Sono varietà diastratiche anche quelle condizionate dall’età (linguaggi giovanili) o dall’appartenenza a gruppi sociali come la malavita, gli emarginati ecc. (gerghi). All’interno della variazione diafasica distinguiamo tra registri (formali e informali) e sottocodici o lingue speciali. La variazione diacronica è invece legata al tempo, che provoca mutamenti nelle lingue. I mutamenti linguistici possono avvenire per cause interne alla lingua, come la grammaticalizzazione e la lessicalizzazione. Con la grammaticalizzazione alcune parole cambiano funzione grammaticale oppure acquistano una funzione grammaticale che prima non avevano:

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il verbo venire in alcuni casi ha perso il suo significato e ha preso le funzioni del verbo ausiliare essere per la costruzione del passivo: forma attiva: gli studenti leggono il libro di testo;; forma passiva con essere: il libro di testo è letto dagli studenti;; forma passiva con venire: il libro viene letto dagli studenti. Con la lessicalizzazione alcune forme grammaticali possono diventare parole nuove: il participio presente cantante (‘che canta’) è divenuto un sostantivo: il cantante;; la locuzione a fresco è diventato un sostantivo: l’affresco;; la III persona del presente del verbo fare ha assunto una funzione temporale: poco fa, un anno fa;; anche sequenze come non so che possono diventare un sostantivo: un non so che. I mutamenti linguistici possono avvenire anche per cause esterne, come l’influenza di altre lingue (prestiti come film, computer, ecc.) o cambiamenti della società (per es. oggi si usano diversamente i pronomi di cortesia tu/lei e il voi è scomparso dallo standard, si usa solo nell’italiano regionale meridionale). NEOSTANDARD O STANDARD APERTO A USI INNOVATIVI? Se sul piano fonetico l’italiano standard è oggi una realtà sfuggente, sul piano grammaticale si va modificando per influenza della lingua parlata, al punto che molti linguisti parlano di un nuovo standard, detto appunto “neostandard”. La sua prima descrizione si ebbe negli anni Ottanta del Novecento, quando si misero in luce alcuni usi innovativi comuni a tutto il paese. Si diedero definizioni come “italiano dell’uso medio” (Sabatini), “italiano tendenziale” (Mioni), “italiano neostandard” (Berruto). Il neostandard non investe il piano fonetico, influenzato dall’elemento regionale, ma si caratterizza sul piano grammaticale. È diffuso nel parlato, dove si può sovrapporre, sul piano fonetico, all’italiano regionale alto. Nella scrittura è presente solo nella scrittura informale o, per alcuni tratti, in quella mediamente formale. Si preferisce la definizione di “neostandard” per la diffusa accettazione da parte della comunità linguistica e per la sua continuità dallo standard tradizionale e di più alto prestigio.

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Altri linguisti, tuttavia, preferiscono parlare di uno standard aperto, in alcune situazioni comunicative, a usi innovativi, senza individuare una varietà diversa. Sottolineano la resistenza dello standard tradizionale rispetto ad alcune innovazioni. Luca Serianni, in particolare, documenta, in alcuni studi, come l’italiano comune non marcato sia adoperato non solo nello scritto, ma anche nel parlato di persone colte, in situazioni non molto formali, e come nella scrittura i fenomeni innovativi siano poco presenti. Non tutti i fenomeni del cosiddetto neostandard, infatti, sono così estesi e non tutti sono accolti allo stesso modo in tutte le situazioni e in tutti i tipi di comunicazione. In Italia, soprattutto nella seconda metà del XX sec., trasformazioni sociali, politiche ed economiche profonde hanno provocato anche rapidi cambiamenti nella lingua. Alcuni fenomeni un tempo considerati inaccettabili ora sono del tutto usuali e accolti soprattutto nel parlato, come

• il pronome obliquo di terza persona plurale gli usato al posto di a loro: Ho incontrato gli amici e gli ho detto di venire.

• l’uso del pronome soggetto di terza persona lui, lei, loro, in luogo di egli, ella, essi, essa;;

• la semplificazione dei dimostrativi (da tre uscite a due): questo, per indicare persona o oggetto vicina a parlante e ascoltatore, quello, distante da entrambi, codesto, distante da chi parla ma vicino a chi ascolta. Quest’ultimo rimane soltanto nell’uso toscano e nella scrittura burocratica;;

• la particella ci ha ampiamente sostituito, in funzione locativa, la forma più arcaica vi;;

• il relativo che prevale nettamente su il quale, la quale, ecc. • il che indeclinato con valore temporale (la sera che ci siamo incontrati).

Altri tratti coincidono con le caratteristiche del parlato. L’ITALIANO REGIONALE La variazione geografica è fondamentale nel repertorio dell’italiano e determina differenze sul piano fonetico, lessicale e sintattico, non su quello morfologico. Nell’italiano parlato la resa fonetica, l’intonazione e il lessico possono arrivare a essere molto influenzati dalla lingua locale;; nella scrittura i regionalismi incidono in misura molto minore, ma come sempre molto dipende dall’emittente e dalla situazione.

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L’italiano regionale è, pertanto, una varietà diatopica dell’italiano, che presenta differenze fonetiche, tonetiche, sintattiche e lessicali. La Toscana è la prima regione in cui, per la particolare storia linguistica del paese, si forma un italiano regionale. L’italiano regionale toscano è unico non tanto per essere stato il primo, ma per il modo in cui si è formato: in continuità con l’uso. Anche il romanesco è un esempio di precoce italiano regionale, determinatosi, tuttavia, per storia e motivazioni differenti, dovute alle condizioni demografiche e all’influenza dei papi fiorentini a partire dal XVI sec. Anche in questo caso, però, la formazione dell’italiano regionale romano non è stata analoga a quella degli altri italiani regionali, apparsi con più forza dopo il 1861. Ogni parlante della comunità italofona è in grado di riconoscere se il suo interlocutore proviene da un’area settentrionale, centrale o meridionale. Più difficile è circoscrivere l’esatta zona di provenienza del parlante. In generale, un settentrionale distingue con più esattezza la provenienza di un altro parlante settentrionale o di un toscano e di un romano, ma include in una generica definizione di “meridionale” i parlanti del Sud. Analogamente un parlante meridionale individua la regione di un altro meridionale e la provenienza di toscani e romani, ma include in un’unica area i settentrionali. Alcuni tratti accomunano le grandi aree: sarà per esempio comune a buona parte del Settentrione l’uso di tirare giù in luogo di “abbassare”, o a tutto il Meridione il ricorso a tenere con il significato di “avere” o a cercare nel senso di “chiedere”. Analogamente, sul piano fonetico, la tendenza a scempiare le consonanti lunghe accomuna la più ampia area settentrionale, mentre quella ad allungare le b e le g intervocaliche unifica la gran parte del Meridione. Ci sono anche tratti, soprattutto lessicali, che aiutano a circoscrivere meglio le singole aree. Se un parlante settentrionale, per esempio, usa il termine bigiare per “marinare la scuola” è quasi sicuramente lombardo;; se dice conforme per “dipende”, “a seconda”, sarà veneto, e se usa l’avverbio solo più per “solo” verrà dal Piemonte. Analogamente se un parlante meridionale dirà perciò per dire “sì” la sua provenienza sarà la Sicilia e se parlerà di scatolo invece che di scatola verrà da Napoli o dalla Campania. Non sempre nella conversazione ricorrono tratti specifici e più frequentemente è la fonetica che può indirizzarci con maggiore precisione;; chiara è la tendenza dei piemontesi a pronunciare quasi come dittonghi alcune vocali davanti a nasale (pwonte per “ponte”) o quella dei milanesi a rendere con la vocale aperta la e tonica finale ([per’kɛ] invece di [per’ke]) e così via.

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Gli esempi sono numerosi, ma va ricordato che caratteristiche fonetiche regionali molto accentuate sono anche segnali diastratici. L’influsso del dialetto sulle varietà dell’italiano e viceversa può arrivare ad alti gradi di compenetrazione, ma non dà luogo alla formazione di varietà ibride, così fortemente miste da non riuscire più a riconoscere se si tratti di dialetto o italiano. Non esistono creoli nella situazione linguistica italiana. Frequenti possono essere invece le enunciazioni mistilingue nella produzione immediata di uno stesso parlante. In questo caso si creano forse formazioni miste ma difficilmente enucleabili e definibili. All’interno di una conversazione i parlanti italiani possono passare non solo attraverso le varietà del repertorio dell’italiano, ma anche da quest’ultimo alle varietà del repertorio del dialetto. La commutazione di codice può essere rapida e continua. La competenza multipla di buona parte degli italiani è rappresentata dal fatto che per la maggioranza degli italofoni le grammatiche dell’italiano e del dialetto hanno un alto grado di compatibilità e intercambiabilità. Entrambe le grammatiche cioè possono essere attivate senza problemi nella normale conversazione quotidiana. Il fenomeno ha una larga accettazione sociale e quindi i due codici, almeno in molti settori della comunità, non sono in rapporto conflittuale. L’alternanza e la commistione di italiano e dialetto nello stesso evento linguistico sono una delle scelte a disposizione dei parlanti italiani. Il discorso mistilingue può avere una sua posizione all’interno del repertorio linguistico, perché può essere una delle risorse comunicative da usare in determinate situazioni.

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VARIETÀ DIAFASICHE Le varietà diafasiche sono determinate dalla situazione comunicativa, costituita da molteplici fattori:

§ il contesto spazio-­temporale;; § gli interlocutori;; § l’argomento;; § la chiave o tono del messaggio (serio, scherzoso, trascurato, ecc.);; § le intenzioni e gli scopi della comunicazione;; § le regole di interazione e interpretazione condivise dai membri di una comunità parlante.

In base ai fattori situazionali che influiscono sulla variazione linguistica, distinguiamo tra registri e lingue speciali. I registri sono determinati dal grado di formalità della comunicazione, dal ruolo degli interlocutori e dal rapporto che intercorre tra loro, dal grado di sorveglianza che esercita il parlante su di sé. Le lingue speciali sono connesse all’argomento di cui si parla, alla professione degli interlocutori e alle finalità del messaggio. Il legame con la professione e le conoscenze degli interlocutori inducono alcuni linguisti a considerarle varietà sociali. I REGISTRI I registri sono sempre molto numerosi e difficili da circoscrivere. Sulla scala del continuum si distinguono abitualmente registri alti e formali, di media formalità e bassi e informali. Per l’identificazione di un registro in italiano la resa fonetica è irrilevante (a differenza di ciò che avviene con l’inglese o il francese e così via), anche se il parlante nella situazione formale tende alla sorveglianza. Sono, al contrario, fattori rilevanti le scelte lessicali. I registri formali di solito si caratterizzano per

Ø pronuncia lenta e accurata;; Ø sintassi elaborata con maggior uso di subordinate;; Ø tendenza all’argomentazione;; Ø pochi riferimenti al contesto (parlante, situazione, ecc.);; Ø tendenza alla massima esplicitezza;; Ø lessico ampio e ricercato.

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I registri informali si adoperano in situazioni non ufficiali, nella conversazione quotidiana e sono quindi caratterizzati da spontaneità e immediatezza, perché il parlante pone minore attenzione. Riguardano, in genere, le varietà parlate, ma possono trovarsi anche in scritti informali, come diari, lettere personali, ecc. Sono aperti ai regionalismi. Si usa definire italiano colloquiale il registro informale più comune che presenta perlopiù i tratti del parlato medio. Il lessico che lo contraddistingue è quasi sempre il lessico di uso comune e quotidiano, spesso con connotazioni espressive e con ricorso a regionalismi che in qualche caso hanno avuto diffusione nazionale. Il lessico è ciò che più ci aiuta a distinguere tra registro formale e italiano colloquiale. Per dire, per esempio, che qualcuno è morto possiamo utilizzare termini ed espressioni differenti da un massimo di formalità (registro solenne) a un massimo di informalità (registro basso o anche volgare): è salito al cielo, ha reso l’anima a Dio, è scomparso, se n’è andato, è deceduto, è morto, è crepato. Esempi di coppie di sinonimi o di duplici espressioni attribuibili a uno standard neutro e formale (a sinistra) o classificabili come colloquialismi (destra): schiaffo sberla annoiarsi scocciarsi averne abbastanza rompersi mangiare molto abbuffarsi ho molta fame ho una fame bestiale azione meschina carognata Come avviene per il parlato di uso comune, l’italiano colloquiale è caratterizzato da genericismi (tizio, cosa, fare, fatto, ecc.), dall’uso di termini abbreviati (tele, bici, ecc.), dal ricorso al turpiloquio con termini che hanno perso il significato originario.

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LE LINGUE SPECIALI Le lingue speciali sono contraddistinte da un lessico specialistico funzionale alla trattazione di argomenti specifici nella comunicazione di alcuni ambienti professionali. Possiamo dividerle in due gruppi. Le lingue speciali del primo gruppo sono dette anche sottocodici o lingue specialistiche e riguardano settori scientifici di alta specializzazione (matematica, medicina, economia, linguistica, ecc.) che hanno necessità di usare un lessico molto specifico. Si adoperano soprattutto all’interno dei gruppi professionali, ma hanno in molti casi una circolazione esterna. Le lingue speciali del secondo gruppo sono dette anche lingue settoriali e riguardano ambiti di comunicazione non specialistica (giornali, politica, pubblicità, ecc.). Non hanno un vero lessico specialistico e attingono al vocabolario della lingua comune e di altre lingue speciali. C’è uno scambio reciproco tra lingue speciali e lingua comune. Molti tecnicismi passano alla lingua comune soprattutto attraverso i media. Nel passaggio però perdono spesso la natura di tecnicismi e si genericizzano (si pensi all’uso nella lingua comune di termini come nevrosi, paranoico, ecc.). Anche le lingue speciali traggono termini dal lessico comune, facendogli però subire il processo inverso. Si attribuisce, cioè, un significato specialistico a un termine di uso quotidiano (si pensi a candela nella meccanica automobilistica). Il lessico delle lingue specialistiche ha natura internazionale;; circola tra le lingue di cultura. A ciò si aggiunge il fatto che molti termini sono tratti dal latino o dal greco. Spesso si parla anche di linguaggi speciali oltre che di lingue. La lingua è un linguaggio verbale e in molti casi le lingue specialistiche si servono di simboli e grafici oltre che delle parole. Si osservi l’esempio riportato da Serianni: Linguaggio non verbale: BaO2 + H2SO4 = BaSO4 + H2O2;; Linguaggio verbale: Il perossido di bario combinato con l’acido solforico dà solfato di bario e acqua ossigenata;; Riformulazione divulgativa: L’acqua ossigenata si ottiene comunemente combinando il perossido di bario, un composto adoperato nell’industria come mezzo di sbiancamento, con l’acido solforico, ossia con il potentissimo acido corrosivo noto popolarmente come vetriolo.

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Il lessico specialistico è caratterizzato da precisione, oggettività, denotatività, monoreferenzialità. I tecnicismi si riferiscono a un unico concetto o oggetto;; hanno quindi un unico significato e sono privi di connotazioni. I suffissi di cui ci si serve per formare i tecnicismi sono tendenzialmente specializzati a designare un determinato senso. Il suffisso -­ite in medicina forma parole che designano un’infiammazione acuta (artrite);; il suffiso -­osi si lega tendenzialmente a termini che indicano una condizione patologica degenerativa (artrosi). In chimica -­ato è il suffisso dei termini che designano i sali (bicarbonato), -­ico gli acidi (solforico). I tecnicismi si possono ottenere per rideterminazione del lessico comune (assegnando cioè un significato specifico), come nel caso di: lavoro in fisica (dove si parla di lavoro quando il punto di applicazione della forza subisce uno spostamento);; colpa e dolo nel linguaggio giuridico (la colpa è meno grave e presuppone che il soggetto non abbia avuto volontà di commettere il fatto, imputabile a disattenzione o omissione;; il dolo presuppone l’intenzione di delinquere). Si hanno anche prestiti da lingue straniere, come nel caso dell’informatica (software, chip, ecc.), uso di acronimi (TAC “tomografia assiale computerizzata”), grecismi (epatite), latinismi (ictus). Secondo la classificazione di Serianni, possiamo distinguere tra tecnicismi specifici e tecnicismi collaterali. I primi non possono essere sostituiti senza compromettere il significato complessivo;; i secondi caratterizzano lo stile di un determinato linguaggio ma non sono essenziali. Potrebbero essere sostituiti da forme condivise del linguaggio comune. Tecnicismi specifici: noti a un ampio pubblico: stomatite (medico);; indulto (giuridico);; ristretti agli specialisti: crocidismo (medico, ‘movimento involontario delle mani di malati che in delirio o in agonia sembrano afferrare piume sospese nell’aria’);; evizione (giuridico, ‘perdita totale o parziale dei diritti di proprietà su un bene legittimamente rivendicato da un terzo’);; Tecnicismi collaterali: Il paziente sente (avverte, prova) un forte dolore alla bocca dello stomaco > Il paziente accusa (lamenta, riferisce) vivo dolore nella regione epigastrica (accusare, vivo e regione potrebbero essere sostituiti da forme del linguaggio comune). Nella morfologia e nella sintassi le lingue speciali non possiedono fenomeni specifici, ma alcuni tratti vi ricorrono con maggiore frequenza:

Ø tendenza a un uso quantitativamente maggiore di nomi che di verbi;;

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Ø i verbi sono spesso usati nelle forme nominali (soprattutto participio presente e passato: accertati gli effetti espettoranti);;

Ø uso frequente del passivo (sono qui delineati gli obiettivi della ricerca) e di infiniti retti da verbi modali (possono riscontrarsi) per l’impossibilità di ricorrere a costrutti marcati e per cancellare l’agente;;

Ø uso di forme impersonali (si procederà all’analisi dei referti) e di riferimenti in terza persona a chi parla o scrive (chi vi parla ha potuto osservare;; l’autore della presente relazione;; chi scrive ha già affermato), ancora una volta per tendenza a cancellare l’emittente e conferire rigore e oggettività al contenuto.

Esempio di un testo di argomento medico: Effetti collaterali. Dopo somministrazione orale di claritromicina, in studi clinici condotti su pazienti adulti, sono stati riportati alcuni disturbi gastro-­intestinali (es.: nausea, dolore addominale, vomito e diarrea), cefalea e alterazioni del gusto. Come con gli altri macrolidi, anche con l’uso di claritromicina sono possibili disfunzioni epatiche con aumento delle transaminasi, sofferenza epatocellulare e/o epatite colostatica con o senza ittero. Dette manifestazioni possono essere anche severe ma reversibili con la sospensione del trattamento. Sono stati segnalati rarissimi casi di insufficienza epatica con esito fatale;; quando ciò si è verificato, era associato a gravi patologie preesistenti e/o trattamenti concomitanti […].

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VARIETÀ DIASTRATICHE Le varietà sociali sono legate alle posizioni che occupa il parlante nella struttura sociale e sono determinate da diversi fattori sociali:

lo strato sociale e il livello di istruzione, alla base delle differenze tra italiano colto (varietà delle classi istruite) e italiano popolare (varietà delle classi con basso livello di istruzione) alcuni fattori demografici come l’età e il sesso (linguaggi giovanili, femminili, maschili);; l’appartenenza a un gruppo o a una categoria particolare (varietà gergali).

ITALIANO POPOLARE La varietà diastratica bassa dell’italiano, denominata talvolta italiano popolare, talvolta substandard o lingua dei semicolti, è caratterizzata da tratti considerati devianti, esclusi dall’accettazione comune. È giusto ricordare che alcuni tratti considerati inaccettabili, con l’andare del tempo, possono essere accolti nella varietà alta (es. gli usato per la terza persona plurale). L’italiano popolare è una varietà sociale connessa al basso livello di istruzione dei parlanti, ma indipendente dalla formalità minore o maggiore della situazione. Le prime considerazioni sull’italiano popolare furono fatte da Leo Spitzer sulle lettere dei soldati italiani, prigionieri di guerra, che leggeva grazie al suo lavoro nell’ufficio di censura dell’esercito austriaco. Il primo studio sistematico fu pubblicato da Manlio Cortelazzo nel 1972. Spitzer e Cortelazzo sottolineavano il carattere unitario dell’italiano popolare, poco influenzato dai dialetti. Ciò dipendeva soprattutto dal fatto che le prime analisi erano state condotte su testi scritti. I primi studi su questa varietà ritenevano che l’italiano popolare fosse nato negli anni successivi all’Unità d’Italia e, in particolare, nella prima metà del Novecento. La sempre più diffusa scolarizzazione, infatti, gli spostamenti più frequenti, l’emigrazione, le guerre e così via avevano favorito la diffusione dell’italiano tra i dialettofoni. Un’alfabetizzazione incompleta e una scarsa competenza nella lingua appresa producevano testi di italiano popolare. Francesco Bruni, però, nel 1984 ha evidenziato, già in testi dell’antichità, la presenza di molti tratti linguistici che caratterizzano le scritture di italiano popolare. Esistono delle costanti, legate all’interferenza dell’oralità, che si

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trasmettono lungo il tempo e che consentono di parlare di «lingua dei semicolti». L’italiano popolare, tuttavia, oggi è anche e soprattutto una varietà parlata che presenta tracce regionali più evidenti rispetto ai testi scritti, in particolare nella fonetica e nel lessico, in misura minore nella morfologia e nella sintassi. L’influenza della componente geografica è tanto più alta quanto più basso è il livello sociale dei parlanti. Per tale motivo Gaetano Berruto preferisce parlare sempre di italiano regionale, distinguendo tra italiano regionale colto (parlato dalle classi istruite) e italiano regionale basso o italiano popolare (usato dalle classi meno istruite). L’italiano popolare si caratterizza per

Ø semplificazioni di nessi consonantici difficili (es. tecnico pronunciato tennico, psicologico > pissicologico);;

Ø agglutinazioni e deglutinazioni nella scrittura (es. l’aradio per “la radio”, centra “c’entra”;; in cinta “incinta”);;

Ø problemi nella resa grafica di digrammi e trigrammi e nell’uso di h e q (es. anno “hanno”, quore, aglo “aglio”);;

Ø ipercorrettismi nella scrittura (es. agiornare per “aggiornare”);; Ø uso scorretto di maiuscole e punteggiatura;; Ø riduzioni di forme di un paradigma (i pronomi di terza persona gli, le, loro sono ridotti tutti a ci);;

Ø estensioni, devianze e semplificazioni della morfologia nominale e verbale (es. gli analisi;; la moglia;; venghino;; potiamo “possiamo”, sta fando per “sta facendo”);;

Ø scambio di ausiliari (es. ho arrivato);; Ø periodo ipotetico con doppio congiuntivo o condizionale (se avessi tempo facessi il lavoro;; se avrei tempo farei il lavoro);;

Ø scambio di articoli (es. il zio, un sconto);; Ø comparativi analogici (più migliore);; Ø scambio di reggenze e preposizioni e cumulo di preposizioni (es. la telefono;; smetto a lavorare;; scrivo da sul treno);;

Ø uso di un solo elemento con funzioni molteplici (che polivalente – parzialmente presente anche nel parlato informale);;

Ø accentuazione di tutti i fenomeni di concordanza a senso e di sintassi marcata che ricorrono, sia pure in misura minore, anche nel parlato informale di persone colte;;

Ø riduzione nell’uso del lessico, con ricorso frequente a termini generici;; Ø frequenti paretimologie (es. celibe per “celebre”, incollare per “accollare”, tintura di odio per “tintura di iodio”);;

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Ø scambio di suffissi (apprensione per “apprendimento”, adottamento per “adozione”);;

Ø interferenza del dialetto soprattutto nella fonetica e nel lessico (es. imparare per “insegnare”;; faticare per “lavorare”);;

Ø testualità della scrittura simile al parlato con allineamento paratattico di frasi uguali, cambiamenti improvvisi di argomento e soggetto, interruzioni, ripetizioni, prevalenze del discorso diretto su quello indiretto, ecc.

Attenzione: la parte sull’italiano popolare va integrata con l’italiano degli emigrati presente nel libro di Palermo. I GERGHI I gerghi definibili come gerghi storici sono varietà linguistiche adoperate da gruppi sociali (malviventi, drogati, ambulanti, mendicanti, vagabondi) che si caratterizzano per marginalità socioeconomica e vagabondaggio. Diversi sono invece i cosiddetti gerghi transitori, usati da gruppi che temporaneamente fanno vita in comune, in qualche caso anche separata dal resto della società (militari, studenti, carcerati). Il gergo è usato prima di tutto per un bisogno di affermare la propria appartenenza a un gruppo e la contrapposizione al mondo esterno. È un segno di identità e riconoscimento del gruppo che considera la propria cultura alternativa rispetto a quella della gente “normale”. Non è vero dunque che si tratti di una lingua segreta, usata per non farsi capire dagli esterni al gruppo. Il gergo, infatti, è adoperato, solo all’interno del gruppo stesso e non in presenza degli estranei che la troverebbero incomprensibile. La funzione di codice segreto è occasionale e secondaria rispetto a quello di identificazione socioculturale e psicologica. Sul piano linguistico i gerghi si caratterizzano per la presenza di un lessico specifico, coniato appositamente e compreso solo dai partecipanti al gruppo. Alcune parole possono talvolta entrare nella lingua comune;; si pensi a bidone o al più recente pacco “truffa, imbroglio, fregatura”, o ancora a erba “marijuana”. Per il resto i gerghi coincidono con la lingua da cui prendono le mosse. I procedimenti di formazione del lessico gergale possono ricorrere:

ad abbreviazioni (pula “polizia”);;

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a suffissi particolari (fangose “scarpe”, rufaldo “ladro”);; a parole inizianti con n o s per esprimere la negazione no o affermazione si (nisba, nit, sibo, siena, ecc.);; a metafore (polverosa “farina”, neve “cocaina”;; diverso il caso di leggera “malavita” che deriva da un’espressione dialettale, lingera, diffusa nell’Italia settentrionale e che indica “giovani spavaldi, al limite della legalità”);; prestiti da dialetti e da lingue straniere con uso traslato.

IL LINGUAGGIO GIOVANILE Le lingue variano anche in relazione all’età dei parlanti. Gli usi linguistici dei giovani sono generalmente più innovativi di quelli degli adulti. Le varietà giovanili si intrecciano ovviamente con quelle connesse alla provenienza sociale e al grado di istruzione. La fascia d’età dei parlanti giovani è di solito quella compresa più o meno tra gli undici e i diciannove anni. Il linguaggio giovanile è una varietà sociale (diastratica) perché è legata al fattore demografico della fascia d’età, ma è anche una varietà diafasica perché i giovani se ne servono solo in determinate situazioni, parlando tra loro e soprattutto quando trattano di argomenti che riguardano la condizione giovanile (sport, musica, scuola, amore, ecc.). È soprattutto una varietà parlata, ma può essere adoperata in scritti privati (lettere, diari, graffiti ecc.) e in scrittura trasmessa come le chat. I linguaggi giovanili hanno diverse funzioni: una è comune ai gerghi e serve ad affermare l’identità del gruppo rispetto al mondo esterno. Hanno anche funzione ludica e scherzosa e servono ad affermare la propria autonomia e creatività rispetto al mondo degli adulti. Gli studi sul linguaggio giovanile in Italia connettono la sua data di nascita al diffondersi della lingua nazionale e al retrocedere dei dialetti. Il linguaggio giovanile, infatti, aiuta a sostituire le funzioni di espressività e affettività dei dialetti. Ciò spiegherebbe perché i linguaggi giovanili siano più diffusi laddove il dialetto è meno utilizzato (al Nord, nei centri urbani e tra gli studenti). Il linguaggio giovanile esalta l’informalità (prevale il tu, il saluto è sempre ciao) e l’espressività. Si caratterizza soprattutto per un uso particolare del lessico:

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Ø colloquialismi spesso molto informali: essere nel pallone, megagalattico, casinaro, lessico sessuale;; hanno con la lingua nazionale uno scambio continuo e reciproco, per cui non è semplice capire da dove sia partito un determinato uso;;

Ø regionalismi e dialettismi: tosa, tomo, racchia;; inserti dialettali più ampi sono usati con funzione espressiva o scherzosa;;

Ø tecnicismi deformati o con genericizzazione del significato o uso traslato: spastico, schizzato, arterio;;

Ø espressioni gergali: cuccare “conquistare una ragazza” (dai cosiddetti “paninari” milanesi degli anni Ottanta);;

Ø espressioni tratte da canzoni, pubblicità, programmi televisivi, ecc.;; Ø forestierismi soprattutto con funzione ludica, spesso inventati (arrapescion, vamos).

Nella resa fonetica spesso i linguaggi giovanili presentano deformazioni, allungamenti vocalici, velocità nell’eloquio. La sintassi coincide con quella del parlato, ma con radicalizzazione dei fenomeni del parlato informale.

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VARIAZIONE DIAMESICA Le differenze essenziali tra scritto e parlato possono essere ricondotte a fattori quali il grado di pianificazione del discorso, massimo nello scritto e minimo nel parlato e il modo pragmatico di organizzare il testo, facendo prevalere le esigenze della semantica su quelle della forma corretta e dell’esplicitazione sintattica. La distanza tra scritto e parlato è determinata anche dal diverso legame con il contesto e con gli interlocutori. Alla vicinanza comunicativa che caratterizza il parlato si oppone la distanza comunicativa dello scritto. Non dobbiamo dare giudizi di valore sul parlato o sullo scritto. Non è ammissibile una penetrazione indebita del parlato nello scritto quando si compongono alcuni tipi di testo, ma ciò non vuol dire che scritto e parlato abbiano superiorità o inferiorità intrinseche. Sono strumenti adeguati a situazioni comunicative differenti. La differenza tra scritto e parlato è la più evidente anche per un parlante che abbia una competenza metalinguistica ingenua. È la situazione comunicativa che determina le principali differenze tra le due varietà. Gli elementi che più influiscono sui caratteri del parlato sono: 1. il mezzo fonico-­acustico;; 2. un contesto comune di enunciazione;; 3. la compresenza di parlante e interlocutore.

Il mezzo fonico-­acustico condiziona la linearità e l’immediatezza del parlato rispetto allo scritto. Il parlato si produce in maniera lineare e continua, lo scritto in modo discreto e dilatato. La produzione del parlato è lineare perché segue la catena fonica: un suono segue l’altro sia nella produzione sia nella ricezione. Al contrario, quando scriviamo, possiamo tornare indietro, lavorare su porzioni di testo non contigue e così via. Per quanto riguarda l’immediatezza, nel parlato, comunicazione e ricezione avvengono immediatamente e contemporaneamente;; ciò richiede la compresenza di ricevente ed emittente che si scambiano continuamente i ruoli. Tutto ciò è assente dallo scritto, dove l’emittente può sospendere la scrittura, può ritornarvi più volte, può pensare e progettare a lungo. D’altro canto nel parlato non sono ammessi silenzi e pause troppo lunghi. Da tutto ciò derivano tratti minori che caratterizzano il parlato.

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In rapporto al mezzo fonico-­acustico: - scarsa possibilità di pianificazione → diversa strutturazione sintattica e testuale;;

- impossibilità di cancellazione → autocorrezioni, modulazioni;; - non permanenza → tendenza alla ridondanza, ripetizioni;; - incidenza di intonazione e prosodia. In rapporto al contesto di enunciazione comune: - ricorso a mezzi non linguistici;; - rinvio al contesto → frequente uso di deittici. In rapporto alla compresenza degli interlocutori: - coinvolgimento, funzione fàtica → fatismi, altre meccanismi di modulazione;; - possibilità di riprendere il già detto → ripetizioni, frequenti interruzioni;; - conoscenze condivise → implicitezza, ellissi. ALCUNI TRATTI FONETICI DEL PARLATO ITALIANO.

Ø Elisioni: l'informazione, c'interessa. Ø Fenomeni di «allegro»:

§ aferesi vocaliche: 'nsomma, 'nvece, e sillabiche: 'sto;; § apocopi sillabiche connotate regionalmente: vie' qua, venì, sapé, ma' ("mamma"), dottò (diverse dall'apocope vocalica dell'italiano);;

§ riduzioni della parola: 'giorno, 'sera. Ø Variazioni o allungamenti nel timbro vocalico: na! ("no particolarmente deciso"), see! ("sì come falso assenso").

Ø Metatesi provocate da nessi vocalici o consonantici difficili: interpetrare invece di interpretare, areoplano invece di aeroplano, areoporto invece di aeroporto, metereologo invece di meteorologo.

Ø Paretimologie (o etimologie popolari): innestare per innescare, esaudiente per esauriente (hanno anche valore diastratico).

LA SINTASSI DEL PARLATO Nella sintassi del parlato sono molto frequenti le costruzioni marcate (dislocazione a sinistra, dislocazione a destra, topicalizzazione contrastiva, tema sospeso e frasi scisse). Per quanto riguarda queste ultime, sono più frequenti anche le particolari costruzioni scisse, come non è che mi piaccia molto;; com'è che sei venuto? O le costruzioni con il c'è presentativo: c'è qualcuno che parla male di te.

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Una forma di scissione sempre più diffusa nel parlato, ma da evitare nello scritto è anche la costruzione con quello/-­i che è/sono: Mi riferisco a quelli che sono gli interessi dei giovani in luogo di Mi riferisco agli interessi dei giovani. Altri fenomeni della sintassi del parlato sono: Ø Concordanze a senso: la maggioranza dei giovani intervenuti erano stranieri;;

§ con verbo singolare prima di soggetti plurali: non c'era tante comodità come oggi;;

§ mancati accordi di genere e numero anche per attrazione di elementi interposti: l'importanza dell'argomento è stato adeguatamente sottolineato.

Ø Prevalenza di paratassi:

§ con congiunzioni e, ma, però, poi, così, allora, solo (che);; § per giustapposizione: passo da casa, mangio un boccone, ritorno.

Ø Caratteri prevalenti dell’ipotassi: § le subordinate tendono a collocarsi dopo la principale (con l'eccezione di ipotetiche e causali);;

§ le congiunzioni subordinanti sono qualitativamente e quantitativamente diverse: per le causali invece di poiché, giacché si ha siccome o locuzioni formate con che (dato che, visto che, dal momento che);; per altre dipendenti si ha a parte (il fatto) che, basta che, una volta che;;

§ le subordinate implicite sono perlopiù infinitive: stare + gerundio, stare + a + infinito, andare, venire, riuscire a + infinito, cercare + infinito, ecc.;;

§ la subordinata più diffusa è la relativa, spesso legata a un singolo elemento della reggente che fa da «testa» al pronome;; sono assenti il/la quale e prevale che.

Ø Il che indeclinato (già esaminato a proposito dei relativi), che ha rilevanza diastratica o segnala una varietà diafasica molto trascurata: una signora che conosco il marito;; (con ripresa) un fatto che ne hanno parlato in televisione;; un posto che ci vado volentieri;; il postino, che l'ho incontrato uscendo, mi ha dato una lettera per te;;

§ molto meno connotato e sempre più diffuso è invece il che indeclinato con valore temporale: la sera che ci siamo incontrati.

Ø Si sovrappone talvolta al che indeclinato il che polivalente, subordinante generico:

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facciamo cose che nemmeno capiamo perché;; esci sempre, che quando rimani neanche me ne accorgo.

LESSICO DEL PARLATO

Termini generici di alta frequenza: cosa (coso), roba, affare, tipo, fatto, cosare, fare (che cambia significato con il complemento oggetto, farsi una macchina, in luogo talvolta di un unico verbo, farsi la barba "radersi"). Perifrasi: quello della luce (“elettricista”), rientra nella tendenza all'analiticità del parlato. Parole alterate: cosine, firmetta, maschietti, famona, partaccia (attimo e attimino usati anche come avverbio, senza riferimento al tempo, una situazione un attimo più critica). Superlativi con valore espressivo: hai ragionissima. Espressioni con valore superlativo spesso marcate regionalmente: un sacco bello, una boiata pazzesca, un freddo della madonna, un casino di gente. Disfemismi e detabuizzazione

SEGNALI DISCORSIVI I segnali discorsivi sono tipici del parlato e sono costituiti da elementi linguistici (parole, sintagmi, brevi frasi) che hanno funzione prevalentemente pragmatica. Non trasmettono contenuto informativo, ma assumono funzioni diverse in base al contesto in cui sono prodotti. Ricordiamo in particolare i segnali discorsivi con funzione di:

demarcativi per inizio e fine discorso o per presa di turno: di apertura: allora, ecco, beh, dunque, cioè, niente, comunque;; di chiusura: ecco, chiaro, no?, basta, insomma;; segnali fàtici per sollecitare pragmaticamente assenso o partecipazione: guarda, senti, vedi, sai, dai, scusa, figurati, figuriamoci, vero?, ho reso l'idea?;; anche da parte di chi ascolta: davvero?, ma guarda!, hai capito!, già;; particelle modali per attenuare: praticamente, in pratica, mi sembra, diciamo, per dire, voglio dire, come dire?, una specie di, tra virgolette;; per enfatizzare: veramente, davvero, proprio, ti dico.

Per quanto riguarda la morfologia, nel parlato si ha una generale semplificazione. I tratti più innovativi coincidono con quelli già visti del cosiddetto italiano neostandard.

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CARATTERI DELLO SCRITTO La funzione principale della lingua scritta è quella di mantenere nel tempo e nello spazio il messaggio verbale. È infatti indispensabile ed è stata usata per fissare le leggi, garantire il rispetto degli accordi, conservare e trasmettere la conoscenza, soprattutto storica e scientifica. I segni grafici che riproducono i suoni del parlato si dispongono nello spazio e il testo scritto nella sua interezza rimane sotto gli occhi di chi legge. Non può contare sul supporto dell’intonazione e dei gesti. Produzione e ricezione del testo scritto non sono simultanee. Chi scrive ha pertanto il tempo di pianificare e di correggere, offrendo al lettore solo il testo definitivo. Analogamente chi legge può ritornare sul testo tutte le volte che vuole. Chi scrive tendenzialmente non sa mai con assoluta certezza quanti e quali saranno i suoi lettori. Emittente e destinatario non condividono la stessa situazione e ciò impone nella scrittura una maggiore esplicitezza, un uso minore di deittici e l’assenza di segnali fàtici. Ripetizioni e ridondanze possono interferire con la lettura e la buona comprensione del testo;; saranno dunque di natura molto diversa da quelle del parlato. Lo scritto dura più a lungo nel tempo ed è dunque più soggetto a valutazioni sociali. Chi scrive infatti tende ad adoperare una varietà linguistica più elevata e a rispettare la norma. Il testo scritto presenta un’organizzazione più regolare della sintassi e si serve con più frequenza della subordinazione. Il lessico dello scritto è più ampio. L’assenza dell’emittente riduce il grado di coinvolgimento ed emotività e ciò rende lo scritto tendenzialmente più oggettivo. Sono invece più rilevanti nella scrittura le funzioni informative. Nella grafia sono in atto alcune tendenze innovative che tuttavia non riguardano tutti i tipi di testo: Ø Recupero di k: nelle scritture commerciali, negli scritti giovanili (okkupazione);; sigla di Crotone KR,ecc.

Ø Definitiva affermazione delle forme univerbate: soprattutto, invece, peraltro, pressoché, nonostante, ciononostante, perlopiù, ecc.

Ø Accento grafico:

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§ stabilizzata la differenza tra è per il verbo, cioè, ahimè (timbro aperto – accento grave) e perché, affinché, ecc. (timbro chiuso accento acuto);;

Ø Sempre oscillante l'uso delle maiuscole: in regresso grafie come Stato, Paese, S. per Santo (tranne che per luoghi ed edifici religiosi)

Ø Sempre più diffuse le sigle ormai senza punti: Cgil piuttosto che C.G.I.L. e le abbreviazioni, soprattutto in scritture burocratiche, sig., dott., pp. o pagg.

Ø Riduzione di elisioni e apocopi: § ci interessa prevale su c'interessa e viene fatto su vien fatto;; § l'articolo lo con le rispettive preposizioni articolate e i dimostrativi questo e quello sono sistematicamente elisi davanti a vocale: l'ultimo film, il freddo dell'inverno, quell'individuo, ma al femminile l'elisione è generalizzata solo davanti alla a: l'antenna ma della iscrizione, anche per l'indeterminativo una: una università meridionale;;

Ø Riduzione della d eufonica per evitare uno iato: ad, ed prevalgono solo davanti a parola iniziante per la stessa vocale: ad amico ma a una, o in pochi altri casi fissi: ad esempio, ad essi. Un tempo si adoperava anche od, ora molto raro e arcaico.

Ø La i prostetica sopravvive solo in per iscritto. Ø In espansione le virgolette per conferire significati particolari ad alcune parole, spesso usate con la funzione attenuativa che la corrispondente espressione tra virgolette ha assunto nel parlato.

Forme verbali nell'italiano scritto L'italiano scritto utilizza tutte le forme verbali disponibili in base al tempo, al modo, all'aspetto. Nello scritto è più alto il rispetto delle norme che regolano la morfologia dell’italiano.

Ø Futuro: § può assumere valore di dovere in testi normativi: si recheranno "dovranno recarsi";;

§ in testi narrativi può essere riferito a eventi passati, posteriori a quelli indicati dal presente storico o dal passato: Un cambio di rotta si verificherà con l'avvento della repubblica.

Ø Imperfetto: § in testi narrativi può assumere valore perfettivo indicando eventi puntuali: In quell'anno Dante nasceva a Firenze.

Ø È ben conservata nello scritto la distinzione tra passato prossimo e passato remoto.

Ø Trapassato prossimo e futuro remoto sono sempre attivi in funzione anaforica: Parlavano solo quando avevano ricevuto il permesso di farlo;; Finirò di scrivere quando avrò esposto tutte le mie ragioni.

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Ø Congiuntivo: § usato in molte proposizioni dipendenti, nelle completive (penso che i fatti si siano svolti in questo modo), nelle interrogative indirette (non sapeva chi fosse arrivato), nelle relative restrittive (cerco un collaboratore che conosca bene la situazione).

Ø Condizionale: § si caratterizza nella prosa giornalistica come tipico delle notizie riportate da altri (di dissociazione): l'indiziato sarebbe stato visto presso la casa.

Ø Passivo: § molto più frequente che nel parlato (è stato detto dai partecipanti al colloquio che la situazione è difficile);;

§ si usa anche venire (più burocratico ma in estensione) in luogo di essere: il contributo viene devoluto a favore dei disoccupati;;

§ è diffuso anche il si passivante: si vendono solo i giornali scandalistici. SINTASSI DELLA FRASE NELLO SCRITTO La struttura non marcata SVO è più frequente che nel parlato, ma la libertà nell'ordine delle parole propria dell'italiano consente di collocare all'inizio della frase elementi tematici con inversioni (ottimo intervento ha fatto il presidente ieri alla Camera;; sono sempre felici gli abitanti di Pinerolo) e con il passivo (il provvedimento sarà preso al più presto). Sono ammesse solo le dislocazioni a sinistra, ma perdono la loro marcatezza e sono molto meno frequenti rispetto al parlato. La ripresa pronominale del resto si è quasi grammaticalizzata con i partitivi (di proposte ne sono state fatte tante). Estranei allo scritto sono il tema sospeso e la dislocazione a destra. Tendono a essere sempre più accolti alcuni tipi di frase scissa: è a Parigi che si verifica l'avvenimento culturale più importante del secolo;; al posto del che + tempo finito si trova spesso a + infinito, possibile anche in posizione iniziale: a prendere l'iniziativa è stato il capo del governo. Gli accordi sintattici sono obbligatori, ma prende piede la concordanza a senso in presenza di partitivo (la maggior parte delle opere sono conservate);; spesso un verbo al singolare precede più soggetti posposti, coordinati e non citati nel contesto precedente (alla cerimonia ha assistito il sindaco e il ministro degli Interni). Sono però fenomeni ricorrenti soprattutto nella scrittura giornalistica.

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Una tendenza recente antepone gli aggettivi ai sostantivi cui si riferiscono (segna un andamento sostenuto, enfatico, ecc.: l’incredibile avventura, l’agghiacciante esperienza). Soprattutto nella scrittura giornalistica si estende lo stile nominale con tendenza a costruire enunciati privi di verbo o in cui gli elementi nominali sono predominanti. SINTASSI DEL PERIODO NELLO SCRITTO C’è preferenza per la subordinazione sia perché si sfruttano le caratteristiche del mezzo che consente di avere sotto gli occhi l'intero testo, sia per scelta stilistica ispirata alla tradizione classica. TENDENZE NUOVE NELL’USO DELL’INTERPUNZIONE Nell’italiano scritto prevale ancora oggi un uso dell’interpunzione con funzione logico-­sintattica, tale cioè da segnalare le relazioni sintattiche tra le frasi. Questo tipo di interpunzione rappresenta la norma dell’italiano scritto e va rispettata nella stesura di testi formali, saggistici, argomentativi, ecc. Si assiste però oggi a nuovi usi della punteggiatura, in particolare nella scrittura giornalistica, dove il fenomeno si lega anche alla ricerca di una sintassi costituita da periodi molto brevi, prevalentemente monoproposizionali. Nella scrittura giornalistica i periodi monoproposizionali caratterizzano gran parte degli articoli, tranne, forse, quelli più decisamente argomentativi, di commento o settoriali. È certamente da collegare al generale influsso del parlato e del parlato televisivo in particolare. Ma le finalità sottese alla forte espansione di questo fenomeno sintattico nella scrittura giornalistica sono anche altre. Da un lato, infatti, la preferenza per periodi brevissimi, molto spesso coincidenti con una singola frase semplice, è da riportare all'esigenza di chiarezza e incisività tipica della scrittura giornalistica, all'intento di una informazione più diretta e semplice: dunque, a una finalità denotativa. Dall'altro lato appare evidente come la spiccata tendenza alla spezzatura con il punto fermo, non solo a separare tra loro frasi semplici, ma anche a separare proposizioni collegate mediante paratassi o mediante ipotassi (per la presenza di congiunzioni dell'uno e dell'altro tipo dopo il punto) e, soprattutto, a separare sintagmi appartenenti ad una medesima frase semplice, sia da leggere anche come un fatto espressivo, connotativo. Ma va anche osservato come la spezzatura con il punto fermo di quello che dovrebbe essere un insieme sintattico porti in molti casi a dare ai due segmenti un senso in parte diverso, con effetti di focalizzazione dell'informazione e di valorizzazione dei contenuti informativi, come si verifica nell'esempio seguente:

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Ovociti e liquido seminale conservati sotto zero dei quali non si conoscono i donatori: niente documentazione sanitaria, dunque nessuna informazione sulla sicurezza. Forse arrivano dalla Spagna. Forse. Non hanno molte certezze i Nas dopo le perquisizioni negli studi di Roma e Milano di Severino Antinori, noto ginecologo grande specialista di pma, procreazione medicalmente assistita (LR agosto 2014). Indubbiamente, queste implicazioni semantiche e informative sono tanto meno presenti quanto più quella che è stata definita felicemente "triturazione sintattica" (Garavelli Mortara) appare inflazionata, proprio come avviene nella scrittura giornalistica. Nell'ambito del periodare monoproposizionale possiamo distinguere fondamentalmente i seguenti tipi: a) successione di frasi semplici complete separate dal punto fermo;; b) coordinate separate dal punto fermo;; c) subordinate separate con il punto fermo dalla propria reggente;; d) spezzoni di frase, sintagmi singoli o singole parole tra due punti fermi. Il tipo (a) può presentarsi sia all'interno di pezzi dalla struttura periodale più varia, in alternanza con periodi paratattici e ipotattici, nell'ambito di una tipologia periodale non caratterizzata e consueta da sempre nel giornalismo, oppure, molto frequentemente in articoli costruiti per immagini, flash, in un martellante susseguirsi di singole frasi semplici, come nell’esempio seguente: Il vertice inizia. Parla Junker. «Discorso ottimo», dice al suo staff il premier italiano. E subito parte la rumba delle trattative. Che dopo qualche ora, nella notte deraglia. Rinvio al 30 agosto (LR luglio 2014). Il tipo (b) è rappresentato dalle frasi iniziate con le congiunzioni coordinanti e, la più frequente, ma e altre, che spesso acquistano il valore di congiunzioni testuali. L'implicazione testuale è più evidente quando si ha cambio di soggetto della coordinata rispetto alla principale, e il segmento periodale introdotto dalla congiunzione dopo il punto fermo, oltre che coordinare due predicati verbali, aggiunge una porzione di testo, con una funzione informativa forte, talvolta ad inizio di capoverso e talvolta anche in unione con altro connettivo. Vediamo gli esempi con e Che il fondo monetario pensi a farsi i fatti suoi, che cerchi di lavorare meglio [...]: l'intervento del capo-­economista dell'Fmi Mussa non rientra assolutamente nei compiti del Fondo. [...] E intanto Italia e Francia prendano nota. [...] Ecco in sostanza i duri moniti con cui il governo federale ieri ha risposto alle critiche di Michael Mussa, secondo cui i tempi sarebbero maturi per un intervento della Bce sui mercati a sostegno dell'euro. E ha criticato le idee di compensazione fiscale per i consumatori a Parigi e a Roma (LR 20 settembre 2000).

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Il secondo avvio con e funge da ripresa;; in altri casi si tratta di un collegamento più limitatamente interproposizionale, spesso con l'evidente finalità di spezzare un periodo sentito come troppo lungo: Il ministro ha già detto di sospettare la presenza di «un dossier della CIA», contenente informazioni fuorvianti. E ha smentito anche le voci, diffuse nel Montenegro, che sua moglie Donatella Zincone, avesse «degli interessi in questa storia» (CS 17 febbraio 2001). La congiunzione ma in funzione testuale che può negare parte o tutto delle affermazioni che precedono, con chiare funzioni di coesione e raccordo tra segmenti dell'articolo, molto più spesso all'inizio di capoverso rispetto a e: Il dispositivo del Tribunale era stato emesso questa mattina dopo che la revoca della misura cautelare era stata chiesta direttamente dalla procura di Milano per un vizio di procedura commesso dagli stessi pm che ha l'effetto di far saltare l'intero processo contro di lui. Ma subito dopo è arrivata la contromossa della Procura: per ora, dunque, Schirripa resta in carcere (LR online novembre 2016). Il tipo (c) è rappresentato soprattutto dalle relative ma anche da altri tipi di subordinata: -­ Fornisce dati parziali molto vicini a quelli definitivi. Che poco convincono (MA 27 settembre

2000);; -­ Fino a novembre, infatti, lo scirocco africano ha portato tante piogge e un clima mite. Cui ora si

è sostituita l'alta pressione [...] (CS 25 febbraio 2001). -­ Come abbiamo documentato con fotografie e video, ogni giorno i turisti arrivavano a cala

Zafferano sulle barche aggirando le regole e sfidando il pericolo. Perché un’ordinanza che vieta l’accesso esiste da anni (LR agosto 2014).

-­ Berlusconi spera nel caos per tornare al tavolo delle trattative con Renzi in funzione di una nuova legge elettorale e di una nuova riforma. Anche se il premier lo ha già avvisato che a quel tavolo troverà Grillo e non lui (LR online novembre 2016).

Il tipo (d), esempio estremo del periodare spezzato, consiste in segmenti brevissimi, sintagmi o anche singole parole, separati dal punto come abbiamo visto nel primo esempio. Vediamo anche uno dei tanti esempi dello stile molto noto di Ilvo Diamanti che ricorre a tante delle strategie riconducibili al cosiddetto stile brillante: D’Alema in pochi anni, infatti, ha proposto e sostenuto diversi modelli di partito parallelamente all’evoluzione della sua biografia politica. Per verificarne e sancirne, ogni volta, l’impraticabilità. D’Alema. Da segretario del PDS, vessillifero della riforma dei partiti di massa. Dimagriti. Ripuliti. Ma con le radici ben piantate nella tradizione. D’Alema. Che dopo essere diventato premier si è impegnato per affermare il “Partito del presidente” (Sole 24 Ore, 2000). Questo stile di Ilvo Diamanti è stato definito da Francesco Sabatini “ipotassi paratattizzata”. La spezzatura con continui punti fermi, che forse appare più diffusa nella politica interna caricata spesso di un’enfasi maggiore rispetto alla politica estera, nella scrittura di alcuni giornalisti in particolare è finalizzata a

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enfatizzare parole e frasi, e a conferire al dettato un ritmo concitato e drammatico, che punta a un maggiore coinvolgimento del lettore.

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