Lingua e Storia nell'Antico Mondo Germanico

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Lingua e storia dell’antico mondo germanico, di D.H. Green – Riassunto capitoli 1, 3-6 a cura di Enzo Santilli Corso di Filologia Germanica, a.a. 2011/2012, Università degli Studi di L’Aquila – contacts: [email protected] Pag. 1 LINGUA E STORIA NELL’ANTICO MONDO GERMANICO Sommario Introduzione alla parte I ........................................................................................................ 2 Capitolo 1. La religione .................................................................................................................. 3 Capitolo 3. La parentela ....................................................................................................... 8 Capitolo 4. La cultura della guerra .................................................................................... 13 Capitolo 5. Il popolo e l’esercito ............................................................................................................ 17 Capitolo 6. L’autorità del signore .......................................................................................................... 22

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Lingua e Storia nell'Antico Mondo Germanico di D.H. Green

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LINGUA E STORIA NELL’ANTICO MONDO GERMANICO

Sommario Introduzione alla parte I ........................................................................................................ 2

Capitolo 1. La religione .................................................................................................................. 3

Capitolo 3. La parentela ....................................................................................................... 8

Capitolo 4. La cultura della guerra .................................................................................... 13

Capitolo 5. Il popolo e l’esercito ............................................................................................................ 17

Capitolo 6. L’autorità del signore .......................................................................................................... 22

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Introduzione alla parte I Le prime testimonianze che ci sono pervenute sulle tribù germaniche ci sono state tramandate dall’esterno, cioè dai Greci e Romani, fattore che ci costringe quindi a guardare a questi popoli attraverso altri occhi secondo quel principio di interpretatio Romana già espresso da Tacito nella Germania che filtra e rielabora determinati elementi.

Difatti le informazioni che gli autori classici avevano a disposizione potevano essere incomplete o distorte al momento di essere rivelate, prima di tutto a causa della difficoltà di trasferire la stranezza di un mondo pressoché sconosciuto in una lingua classica ma anche in virtù di quella tendenza della etnografia classica di plasmare le proprie descrizioni in base a convenzioni consolidate.

Altro fattore che incide sulla nostra visione dei popoli germanici è che a quel tempo questi subivano una forte influenza dal mondo mediterraneo, tanto che siamo sprovvisti di una descrizione del mondo germanico nella sua “purezza”. Non a caso, le zone di questo mondo di cui siamo meglio informati sono quelle che per prime e più profondamente si fecero permeare dalle civiltà meridionali.

Non va sottovalutato inoltre che Roma, per tornaconto personale, incoraggiava le divisioni interne alle tribù al fine di crearne di filoromane, ottenendo invece nella maggior parte dei casi fazioni organizzate contro il sistema imperiale. Ciò non ha fatto altro che contribuire ed accelerare quella mescolanza di etnie che, una volta avviata, avrebbe quasi completamente cancellato i tratti distintivi di ognuna di esse.

In parte, questa lacuna viene colmata dai ritrovamenti archeologici che ci permettono di avanzare ipotesi in merito alla sovrastruttura sociale, politica e religiosa, ma ovviamente l’elemento che più di tutti ci permette di scrutare qualche differenza è la lingua la cui capacità conservatrice di trattenere qualcosa del passato potrebbe permetterci di andare oltre i filtri, i tagli, le censure e gli storpiamenti applicati alla storia e alla cultura germanica durante l’epoca Romana ed il medioevo.

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Capitolo 1. La religione Cenni storici sulla religione delle tribù germaniche si estendono dal II secolo a.C. (e riguardano i Cimbri) al collasso dell’Impero Romano d’Occidente nel V secolo d.C., ma sono poi integrati da quello che la Chiesa ebbe da dire a proposito del paganesimo.

Anche per la religione dei germani si parte da un dato centrale comune ad ogni religione, una

divinità da adorare ed il termine ad essa associato. A giudicare da quanto pervenuto dall’antico nordico (dove il Cristianesimo arrivò solo in epoca posteriore) le lingue germaniche disponevano di una varietà di lessemi per gli dei pagani, dei quali sono uno sopravvisse, perché adattabile ai fini cristiani.

Le forme di antico nordico sono týr (sing.) tívar (plur.), rögn e regin (due varianti), bönd, höpt e goþ. Sono termini attestati anche altrove in germanico, alcuni con sicuro significato religioso: týr ad esempio nella sua forma singolare in antico nordico è usato come nome del dio Týr ed è attestato in germanico occidentale con lo stesso valore nel nome di un giorno della settimana, inoltre trova corrispondenza nel latino deus. La seconda coppia di parole rögn e regin corrisponde all’antico gotico ragin “decisione raggiunta da un’assemblea” e all’antico sassone regano-giskapu “decisione divina, decreto del fato” il che fa pensare ad uno sviluppo semantico del concetto “gli dei decidono”. Sia bönd che höpt significano originariamente “vincoli, legami”, mentre goþ ha continuazioni in tutte le lingue germaniche con sola funzione religiosa. Più tardi questa parola diventerà l’unica ad essere utilizzata in tutto il mondo germanico per designare il Dio cristiano.

Etimologicamente il punto di partenza indoeuropeo (ghu-tó-m) era un participio passato neutro designante una potenza astratta e perciò neutra al pari di tutti gli altri termini menzionati per l’antico nordico eccetto che per týr / Tívar. La forma indoeuropea ricostruita per la radice verbale da cui questa parola deriva suggerisce entrambi i significati di “chiamare, invocare” e “Versare (una libagione sacrificale)”, anche se quest’ultimo è improbabile perché ad essere versata deve essere la libagione, non il dio.

Tutti i termini di antico nordico erano comunemente usati al plurale e indicavano gli dei nel loro insieme (come si è visto per týr / Týr) e goþ concordava con tutti questi perché è di base impiegato in senso collettivo con l’opportunità però di indicare eccezionalmente anche un singolare. Inoltre, in quanto sostantivo neutro poteva essere utilizzato sia per il maschile che per il femminile: ciò dava a questo termine la facoltà di assomigliare agli altri termini in quanto, come questi, indicava un plurale o una collettività, ma poteva anche indicare un elemento maschile o femminile e per di più al singolare.

Mentre anord. goþ era neutro, la Chiesa nell’adottare questa parola la mutò in maschile e nonostante alcune lingue germaniche ne riconoscessero versioni presentati temi di genere e numero il cambiamento di genere della parola, da neutro a maschile, si verifica in tutte queste come mezzo per distinguere il Dio personale dei cristiani dalla potenze divine impersonali riconosciute dai pagani. Quindi nonostante l’aspetto morfologico della parola presenti la caratteristica di un sostantivo neutro il contesto sintattico ne rivela il cambiamento di genere, già Wulfila userà guþ menis declinando il nome come neutro (senza –s finale) ma aggiungendo un aggettivo possessivo maschile. Man mano tutte le altre lingue germaniche si adatteranno a questa struttura, mantenendo cioè un sostantivo ritenuto neutro accompagnato però da marcatori di genere.

Il Cristianesimo ha dunque personalizzato la precedente concezione della potenza divina mediante questo cambiamento di genere e tale processo verrà ulteriormente sviluppato in alto tedesco quando il termine per indicare ciò che ora è visto come un Dio personale è usato quasi come se fosse un nome proprio per designare un Dio. Tale fatto è evidente da come risulta Cristo in tedesco, cioè Kristan, con il morfema –an peculiare dei nomi propri all’accusativo e per gli epiteti a lui riferiti (gotan), per questa lingua dunque il termine per indicare Dio è diventato un

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nome proprio come nel caso di Týr nell’antico nordico con la differenza che non riconosce un plurale come accade per il sinonimo antico nordico. Per quanto riguarda il numero, anche qui goþ poteva essere l’unico eleggibile in quanto tutti gli altri facevano riferimento, chi più chi meno, a entità plurali o collettive.

Dagli dei germanici si passa ora al termine per indicare la buona sorte: heil, che gli dei erano

tenuti a concedere a chi li adorava, affiancato da hailag, usato per qualificare il dono soprannaturale della buona sorte. Grazie agli studi di Baetke oggi sappiamo che heilag è attestato in ogni lingua germanica e a lungo si è cercato di capire se potesse derivare da un aggettivo o da un sostantivo. L’aggettivo da cui heilag potrebbe derivare è attestato in gotico, in antico alto tedesco, in antico sassone e in antico inglese col significato di “sano, in buona salute, intero, intatto” e “salvato” in contesto cristiano, mentre il sostantivo si trova in antico alto tedesco, antico inglese e antico nordico col significato “buona fortuna, buona sorte” e “salvezza” in contesto cristiano.

Provando a derivare il nostro termine dal corradicale celu (che significa sia “sano” che “intero”) risulta che si sia passati da una categoria profana (“intero”) ad una religiosa (“santo”) senza alcun motivo, ma se facciamo derivare heliag dal sostantivo heil potremmo giustificare la funzione religiosa dell’aggettivo in quanto questa è posseduta già dal sostantivo. Il sostantivo neutro aat. heil traduce termini come lat. omen, augurium, auspicium mentre in antico alto tedesco rende anche l’idea di salvezza (lat. salus, salutare). In antico nordico heil col significato al femminile di “buona sorte” però solleva il problema circa il rapporto tra questi due significati in antico nordico; problema facilmente aggirabile in quanto non soltanto il sostantivo femminile antico nordico, ma anche quello neutro alto tedesco poteva significare “buona sorte, salvezza”.

Il cambiamento di significato dall’astratto “buona sorte” al concreto “presagio” è abbastanza plausibile dal momento che in antico nordico il femminile heill ricorre anche come “amuleto”, e tramite questo passaggio un presagio potrebbe essere considerato come personificazione della buona sorte. Tacito ci dice che la consultazione degli oracoli era strettamente connessa con la religione germanica: praticata da una persona con funzione sacerdotale che scrutava i cieli e consultava gli dei. Nel consultare gli dei si offriva un sacrificio ed in cambio si chiedeva “buona fortuna”, da qui evinciamo che heil potesse essere collegato con gli dei. Heil era dunque una benedizione conquistata con la corretta esecuzione di un rituale religioso, poteva essere attribuito a certe persone (un re o un sacerdote) o a certi oggetti (un amuleto o un’arma), ma la sua origine restava comunque soprannaturale. In definitiva il femminile anord. heill designava questa qualità astratta di buona sorte mentre il sostantivo neutro denotava il segno concreto nel quale essa si manifestava.

Risulta chiara la connessione semantica tra il sostantivo heil e l’aggettivo heilag: entrambi avevano una funzione religiosa. Quello che non è ancora chiaro è il collegamento fra il sostantivo heil e l’aggettivo heil. Il fatto che il significato di “intero”, “sano” per questo aggettivo sia attestato nel mondo germanico non implica necessariamente che fosse quello originario. In primo luogo il sostantivo astratto derivato da questo aggettivo può significare sia “salute” che “salvezza” (lat. salus), ma soprattutto l’aggettivo stesso implica anche una funzione religiosa in varie forme di saluto come nell’annuncio dell’arcangelo Gabriele a Maria nel Diatessaron di Taziano dov’è ovvio che Gabriele sta augurando a Maria molto più che una gravidanza senza complicazioni ginecologiche. Analogamente, se Wulfila usa hails nel contesto di salute e salvezza, lo utilizza anche in formula di saluto perché il significato di “fortuna”, da cui “gioia”, era ancora associato alla parola gotica. Infine, tale aggettivo ricorre in altri ambiti col significato di “salute” inteso non come qualcuno “che dà salute” ma bensì come “che porta, che trasmette, che assicura” salvezza e buona fortuna in senso cristiano.

Queste funzioni dell’aggettivo (“che dà fortuna”) possono essere facilmente derivate dal significato del sostantivo (“buona fortuna”), ma non altrettanto facilmente dall’altro significato

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dell’aggettivo (“intero, sano”). Piuttosto sembra probabile il contrario: se qualcuno è benedetto con heil, questi dimostrerà la sua fortuna tornando incolume dalla battaglia; e ciò trova riscontro nel fatto che il verbo heilen possa esser passato nell’arco del tempo da un significato di “salvare” in senso metafisico ad uno di “curare” in relazione alle pratiche religiose ritualistiche delle antiche tribù germaniche.

In considerazione di questa stretta connessione semantica fra l’aggettivo heil e il sostantivo heil, risulta irrilevante cercare di comprendere se heilag derivi dall’uno o dall’altro in quanto in entrambi i casi avrebbe funzione di indicare una persona o un oggetto che sta in una sorta di relazione con heil, quindi “portatore di heil”. Heilag potrebbe altresì essere applicato a ciò che dà origine o a ciò che riceve questo dono dall’alto.

Tendenzialmente heil veniva indirizzato verso le persone importanti della tribù, principalmente re e regine, in quanto se costoro avessero avuto la benedizione divina si sarebbe più facilmente potuta vincere la battaglia. La prerogativa regale del termine si riscontra anche dai nomi di alcuni nobili dell’epoca come Oleg e Olga che ancor di più rendono chiara l’idea di come il bene di un Paese, il suo benestare ed i successi militari, dipendessero dagli dei e dal heil che essi trasmettevano attraverso la persona del re.

In definitiva il termine aat. heilag corrispondeva al latino cristiano sanctus, ma a differenza del dono cristiano che doveva essere goduto nell’aldilà, i benefici dell’heilag erano fruibili già nella vita terrena.

L’adorazione degli dei germanici non deve essere intesa come esperienza religiosa soggettiva,

ma come partecipazione a un atto rituale compiuto pubblicamente, di conseguenza era il rituale, più che la fede, ad essere al centro della religione germanica. Ma mentre l’antico alto tedesco riconosceva molti termini per il latino offerre, non esiste un termine generale per tale rito di adorazione, benché ne esistano vari per i vari aspetti della pratica.

Uno di questi è bigang (assieme al verbo bigagan), che aveva significato originario di “andare in giro, procedere in corteo” e che fa pensare a culti che prevedessero processioni, come nel caso attestato di quella in onore della dea Nerthus. Tali pratiche furono dapprima sentite come ostili dalla Chiesa, poi adattate all’uso cristiano. L’aspetto ritmico del rituale può essere indicato anche dall’ aingl. Lāc, che fra gli altri significati aveva quello di “danza”, ma anche “sacrificio”.

Esistevano due tipi di sacrifici: uno prevedeva lo spargimento di sangue (animale o umano) mentre l’altro no (armi e oggetti del nemico sconfitto), ed erano indicati con il termine offrian. Il sacrificio animale, più importante degli altri, prevedeva una comunione con gli dei in quanto parti dell’animale sacrificato veniva mangiata, ma va fatto presente che seppur di ritrovamenti archeologici ne sono stati effettuati parecchi, questi non possono determinare con assoluta certezza quale fosse la fine delle carni utilizzate. Tuttavia resti di animali e di uomini sono stati rinvenuti in luoghi che in base ad altre testimonianze risultano avere carattere religioso o sacrificale, e testimonianze storiche supportano queste teorie in quanto sono stati descritti sacrifici al dio Odino o alla dea Nethrus, anche al di fuori di contesti bellici.

Il verbo aat. bluozan “sacrificare” (sost. bluostar) è accertato in tutte le lingue germaniche tranne che in sassone, seppur risulta scomparso e sostituito da offrian / opfaron già dall’800. In aat. il verbo traduceva sacrificare, immolare, libare e victimare alludendo a diversi tipi di sacrificio (libagione, offerta bruciata, animale) e nonostante sia certe pratiche che i lessemi che le descrivessero tendono a conservarsi proprio in antico alto tedesco e antico inglese, già il gotico usa blotan in versione cristianizzata, cambiando la reggenza e traslandola da dativo (quindi non più “sacrificare a un dio”) ad accusativo (“adorare Dio”). Un solo termine sacrificale fu cristianizzato, e si tratta di aingl. blēstian “benedire”, che ha nella sua radice il significato di “sangue”.

Sempre a giudicare da testimonianze archeologiche si può risalire a quali potessero essere gli animali sacrificabili e quali no. Il termine aat. zebar indica proprio “cibo sacrificale”, pertanto tutto ciò che era impuro e immangiabile era ungezibere. Un termine di simile implicazione, hunsl, si trova

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in antico nordico e antico inglese e venne usato da Wulfila in senso generale di “offerta sacrificale”. Avendo però anche accezione di “cibo sacrificale”, la sua variazione hūsel diverrà presto la glossa per “comunione”, intesa come pasto rituale.

Il gotico conosceva il termine sauþs per “sacrificio”, il cui corrispondente anord. sauđr “pecora”, fa pensare che si trattasse di un sacrificio animale.

Riguardo il luogo ove avvenivano i sacrifici invece, Tacito ci riferisce che si trattava di posti

all’aperto, foreste o boschi, in quanto i Germani non consideravano conveniente per la divinità essere rappresentata in forma umana né tantomeno imprigionarla all’interno delle pareti di un edificio. Si ritiene comunque che Tacito per questa descrizione si sia servito di un topos della filosofia storica (la superiorità del culto religioso non legato a forme concrete), ma sicuramente questo è un caso in cui l’interpretatio Romana non doveva semplicemente essere imposta al mondo germanico ma doveva essere utilizzata per capire una particolare caratteristica della religione germanica. Tacito fa numerose allusioni al timore religioso con cui i Germani occupavano foreste e boschetti, al fatto che alcuni di questi fossero sacri e dedicati ad alcune divinità piuttosto che ad altre, e tutto ritorna anche dal punto di vista linguistico e archeologico. Di fatti non sembrano esserci pervenuti resti di templi, e i ritrovamenti di resti in base ai luoghi di rinvenimento dimostrano che molto probabilmente i sacrifici potessero avvenire proprio all’aperto.

Informazioni ancora più importanti sul culto dei pagani ci arrivano dalla toponimia, rimasta quasi invariata anche con l’avvento del Cristianesimo. I nomi dei luoghi che possono aiutarci sono di due tipi ed entrambi composti da due elementi: il primo contiene il nome di un dio come primo elemento (toponimi teoforici), il secondo contiene un termine per un luogo di culto come secondo elemento. La maggior parte di questi si trova in Scandinavia.

I nomi di luogo teoforici possono contenere un termine generico per gli dei in generale o il nome di un singolo dio. Nomi scandinavi quali Gundhjem, Gundme, Gundum derivano da un sostantivo che significa “la casa degli dei”. In aggiunta al sostantivo collettivo gud- è usato anche ansu- (“patria degli Asi”) dal quale deriva Oslo. Molto più comuni sono i luoghi dedicati ad un dio specifico, specialmente quelli che fanno riferimento a Freyr, Ođinn, Þórr, e ricorrono non solo in Scandinavia: abbiamo ad esempio Wodan Wudinisberg Godesberg, Donar Donnesberg, Tiu Ciesburg Augsburg in Germania e Wednesbury, Weslow, Thursley e Tuesley in Inghilterra. Ciò che bisogna veramente capire è se gli elementi di questi nomi indicassero effettivamente un luogo di culto o un termine senza funzione religiosa e se fossero tutti necessariamente rivolti ad una divinità.

In aggiunta ai nomi considerati come fine a se stessi, la linguistica comprende un gruppo di sostantivi che indicano luoghi di culto, alcuni ricorrono anche in questi toponimi e significano nella maggior parte “luogo all’aperto” o “terreno boscoso”. Il termine aat. harug ha corrispondenti in antico nordico e antico inglese, nonché ovviamente in tedesco e traduce una serie di termini latini che vanno da “altare” a “santuario” a “bosco sacro”. Nessuno dei luoghi sopracitati indica un luogo ampio ma piuttosto un piccolo bosco, anche se in aing. la sua accezione può estendersi fino a “santuario” o “idolo”. In antico nordico invece è attestato solo come “mucchio di pietre”, “luogo di culto” e “montagna” il che fa presupporre che originariamente il punto di partenza semantico potrebbe essere stato “altare”, per giungere poi a “santuario, tempio” e infine a “boschetto sacro”. La duplice funzione di questo sostantivo quindi non ci permette di capire esattamente se un toponimo ad esso relazionato possa essere un originario luogo di culto. La situazione è identica per aat. lôt e aing. leah, termini imparentati col latino lucus che si accorda col tedesco per il significato (“radura, bosco sacro”) ma non con l’inglese (“campo aperto, prato”).

Il termine nimid è attestato una sola volta, nell’Indiculus superstitiorum, dove si riferisce a riti praticati nelle foreste, ma probabilmente si tratta di un’adattazione di un termine sassone seguita alla conversione. Probabilmente si ha a che fare con un prestito celtico in quanto in questa lingua nemetos significava “sacro” e nemeton “santuario”. Infine, la relazione col latino nemus

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confermerebbe l’esecuzione di questi riti religiosi in una foresta. Il termine aat. baro traduce lat. ara in contesto sacrificale ed il suo corrispondente aingl. bearo, sebbene di base indichi “foresta”, ricorre una volta con accezione di “santuario”. Così come avviene per harug, dunque, si può notare uno stretto legame tra cerimonie rituali e lo scenario del bosco.

I casi dei due termini che seguono, invece, sono totalmente differenti. Il primo è asass. alah “tempio (ebraico)”, imparentato con aing. ealgian “proteggere” che porterebbe a pensare ad una zona recintata. Ma se i termini corradicali antichi indicavano anche “boschetto sacro”, ciò non vuol dire che lo stesso significato fosse giunto fino alle parlate germaniche, pertanto non è consigliabile attribuire a luoghi che portano questa particella nei propri nomi lo status di ex luogo sacro; quantomeno non è consigliabile farlo a priori. L’altro termine che non presenta una precisa ubicazione nel bosco è aat. wîh, forma sostantiva di un aggettivo germanico per “sacro” che esisteva a fianco di heliag. Il lessema ricorre una volta sola in antico alto tedesco con il significato di “santuario”, più frequentemente in antico sassone dove indicava “tempio ebraico” e in antico nordico dove presentava entrambe le accezioni. In antico inglese aveva valore di “idolo”. Non si può affermare, comunque, che questo lessema indicasse un santuario in terreno bosco, perché aveva sì natura sacrale, senza però indicare direttamente il bosco.

Poi c’era la figura del sacerdote. Si tratta di un personaggio che mette in luce il contrasto

evidenziato da Cesare fra Celti e Germani in quanto apparentemente questi ultimi non prevedevano nella loro società figure incaricate di questioni religiose. Tacito, più preciso del suo predecessore, ci informa invece che il rituale religioso potesse essere publice o privatim: per il primo era responsabile un sacerdos civitatis, per il secondo il pater familias. Ma benché si parli di persone che rivestissero funzioni nelle norme religiose, nella Germania non si parla mai di vere e proprie caste religiose. Viste le scarse informazioni di tipo storico che abbiamo a riguardo, sarebbe bene prendere attentamente in considerazione quelle linguistiche.

L’antico alto tedesco possedeva tre parole che potevano designare il sacerdote pagano: harugari, parawari e bluostrari. Ciascuna di queste glosse ricorre una sola volta, quindi si potrebbe trattare di traduzioni ad hoc, sicuramente tardive visto il suffisso –ari derivante dal latino nomen agentis –arius, ma glosse simili attestate in altre varietà germaniche dell’epoca pre-cristiana assicurano la loro appartenenza al germanesimo, anche tardo pagano.

Harugari era usato per rendere lat. plur. (h)aruspices, il che indica una connessione originaria tra il sacerdote e l’interprete dell’oracolo rafforzando così ciò che dice Tacito riguardo gli auspici; parawari traduce il lat. (h)aruspex, che viene ulteriormente specificato come lui che fa sacrifici presso l’altare, e dunque il responsabile dei riti celebrati in un boschetto sacro. Parawari può essere considerata una parola di formazione relativamente tardiva in quanto le altre lingue germaniche sembrano non presentarla. Bluostrari traduce lat. sacrificatores e designa il sacerdote nella sua funzione di celebrare sacrifici, confermato anche nell’aingl. blōteras = carnefice che torturava i martiri, ed è proprio la corrispondenza in antico inglese che dimostra il declino semantico da sacerdote pagano nel suo ruolo di sacrificatore. Fu Wulfila a liberare il termine dal suo triste destino cristianizzandolo in guþblosteris quindi non più “colui che fa sacrificio agli dei” ma “colui che venera Dio”.

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Capitolo 3. La parentela

Già Tacito nella Germania ci parla del clan nel mondo germanico e della sua importanza sociale. In varie parti del trattatello ci illustra infatti come le diverse famiglie si raggruppassero, le punizioni ed i risarcimenti destinati in caso di morte al clan dell’offeso, l’importanza dell’ovuncolato in quanto i figli erano strettamente legati agli zii, le lotte dei clan e le risoluzioni. Un aspetto fondamentale infatti era la satisfactio, ricevuta dall’intero clan in quanto l’offesa non era fatta solo all’individuo ma all’intero clan.

Le unità base della società erano dunque i clan, non le famiglie, che si raggruppavano per formare comunità più grandi (tribù), ed erano la maggiore fonte di protezione per l’individuo in quanto gli assicuravano assistenza legale e militare, e uno status sociale sulla base del guidrigildo1. Il clan esercitava anche le rivendicazioni sull’individuo in caso di faida e quindi era la massima espressione di minaccia e protezione che una società tribale pre-statale come quella germanica potesse presentare all’individuo.

Nella società germanica l’individuo non contava nulla di per se stesso; la sua condizione dipendeva dai suoi parenti ed un uomo senza parenti equivaleva ad un uomo non libero, privato dei diritti e non abilitato a prendere decisioni legali o politiche.

Era previsto il cosiddetto “aiuto giuramento” che consisteva in quella procedura riconosciuta di un querelante o di un imputato che sostiene il proprio caso con l’assistenza di un numero di testimoni giurati (noti nelle traduzioni latine come consacramentales, sacramentales o iuratores) che generalmente erano parenti della parte in causa. Benché attestata anche nella Lex Salica, tuttavia, questa pratica venne sempre meno con la crescente importanza che assumevano nella società germanica i re, in quanto avevano facoltà di invalidare un giuramento. Tale pratica poi creò il problema morale di doversi confrontare un giorno da soli davanti a Dio, mentre in Terra si veniva assistiti dai parenti.

L’altra forma di protezione assicurata dal clan è la vendetta di sangue e la prosecuzione di una faida, che però non va vista necessariamente come uno stato di ostilità tra clan. Di fatti questa era una minaccia a tale ostilità, e se la semplice minaccia fallisce nel prevenire lo scoppio reale del conflitto, la si deve anche considerare in termini di una soluzione accettabile per entrambe le parti attraverso una procedura stabilita. Va vista insomma come un mezzo per risolvere le dispute tra clan attraverso la violenza o la negoziazione, o entrambe. La faida, intesa come l’obbligo di ogni individuo di prendervi parte contro un altro clan, definiva quanto un clan fosse esteso. Affinché tutto funzionasse in armonia però, l’obbligo esterno di imbracciare le armi contro un altro clan doveva essere rafforzato da un obbligo interno altrettanto vincolante di non entrare in conflitto con i propri parenti.

Per compiere una faida è fondamentale l’idea di vendetta: tutti si adoperano a difendere l’offeso e ottenere un risarcimento per lui, e in un’epoca prestatale in cui il clan era il maggior strumento di protezione per l’individuo tale situazione fungeva da deterrente. Se nonostante ciò scoppiava un conflitto, questo era collettivo e le conseguenze potevano ricadere su qualsiasi membro del clan opposto, non necessariamente sull’aggressore: un’offesa ad un singolo membro era un’offesa per tutti e da parte di tutti, e un rifiuto ad agire da parte del singolo avrebbe fatto coprire di vergogna l’intero clan.

Al livello di linguaggio la Chiesa affrontò non poche difficoltà a dover tradurre una tale mentalità, infatti la parola humilitas, che per il Germani significava “vergogna” o “umiliazione”, per il cristiano era la virtù dell’umiltà. Tale virtù fu la rovina di Sigberto di Essex che, a quanto

1 Pagamento in denaro in cambio della rinuncia alla vendetta.

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dice Beda, fu ucciso dai suoi parenti perché troppo pronto a perdonare i suoi nemici, disonorando così il proprio clan.

Nonostante l’aspetto belligerante della cosa, era comunque la pace, necessaria all’interno del clan, l’obbiettivo principale delle comunità germaniche. Aat. sippa infatti sta sia per “clan, parentela” che per “pace” e analogamente aat. friunt che significa “parente” è collegata a fridu “pace”. Teoricamente la pace era anche la condizione che si doveva mantenere fra i clan, così in caso di faida ci si doveva attenere ad una procedura prestabilita per raggiungere una soluzione. Nessuna società tribale, soprattutto vista la sempre continua minaccia di Roma, poteva permettersi il lusso di essere a lungo indebolita, ed in una lotta fra clan quello più debole aveva sicuramente interesse a chiedere una composizione pacifica. Il pagamento della satisfactio serviva a questo scopo e in alcuni casi poteva sopperire all’assenza di un’autorità centrale facendo bastare gli equilibri vigenti fra i clan. Come l’intero clan era obbligato a prendere parte alla faida, a tutti i membri del clan spettava una parte del guidrigildo (ad esempio i parenti di un assassinato ricevevano il guidrigildo dai parenti dell’omicida); fu solo con la crescita delle società statali e l’avvento del re che la pace veniva mantenuta o riportata da un’entità terza rispetto ai due clan.

Alcune glosse ci dimostrano quanto la pace fosse così strettamente connessa alla pratica di offrire una satisfactio o il guidrigildo. Wulfila tradusse είρήνη con gawairþi, un tema neutro in –ja formato con il prefisso collettivo ga- sullo stesso modello di gawaurdi “conversazione”. I derivati di questo tipo sono formati da un sostantivo, perciò è più probabile che gawairþi non sia derivato dall’aggettivo wairþs “di valore, prezioso”, ma dal sostantivo wairþs “valore, prezzo”. Dato che questo termine è usato da Wulfila come equivalente di lat. pretium per indicare un oggetto di valore utilizzabile in un pagamento, ne consegue che originariamente gawairþ indicasse un insieme di tali oggetti. L’uso di questa parola per “pace” implica che era usata anche nel contesto legale per il pagamento come soluzione di un conflitto, da qui il verbo got. gawairþjan significava “raggiungere un accordo riguardo l’ammenda che doveva essere pagata per comporre una disputa” volendo dire anche “essere riconciliati”.

Già Tacito era chiaro sul fatto che tanto più un clan era vasto e ramificato tanto maggiori erano

le sue possibilità di sopravvivere a lungo, pertanto erano frequenti i matrimoni per ampliarne la consistenza numerica. D’altronde si trattava di una pratica che convenisse a chiunque, non solo al clan che ne riusciva rafforzato, ma anche al singolo che poteva godere della protezione di due clan ed un esempio del genere si ritrova anche in letteratura quando in Beowulf una regina si sposa allo scopo di rafforzare la pace fra due popoli.

In virtù di tale discorso, la funzione semantica di aat. sibb può venire ad assumere anche il significato di “parentela acquisita per matrimonio”, non solo di sangue, così come l’aggettivo sibbi traduce sia lat. consanguineus sia lat. affinis (parenti per matrimonio). Anche in antico nordico, la corradicale plurale sifjar designa la parentela acquisita per matrimonio. Un altro termine che mostra l’unione di due clan attraverso è confermato già in Tacito ed è ôheim che traduce lat. avunculus con riferimento al fratello della madre. Ciò presuppone che lo zio in quanto erede e proprietario della casa colonica e del terreno circostante del nonno materno si assuma il compito di proteggere sua sorella ed il figlio di lei, e la protezione del nipote era dovuta non tanto alla madre di questo, ma al nonno. Di nuovo, rimane chiaro come l’influenza di un uomo si basasse non solo sulla grandezza del suo clan (Tacito propinqui) ma anche sul numero di parenti acquisiti col matrimonio (Tacito affines).

Un’altra associazione che poteva essere ricollegata al clan era il séguito germanico, i cui membri potrebbero essere visti come vincolati l’un l’altro dallo stesso tipo di legami che vincolavano i membri di un clan. Il séguito oltrepassava la schiera dei parenti andando a reclutare le proprie forze senza considerare il clan, anche se entro certi limiti il clan aveva una sua valenza all’interno del séguito: lo zio doveva pur sempre proteggere il nipote, ed in Beowulf viene descritto proprio il rapporto padre-figlio all’interno del séguito. I legami che uniscono i membri del seguito non

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vengono considerati meno importanti di quelli che legano i membri di un clan, sono visti come veri e propri legami di parentela non naturali e per descriverli esisteva anche un termine: aat. friunt, che indica gli appartenenti ad uno stesso clan, diventa nôtfriunt “amici di battaglia”.

Consideriamo tre parole che in antico alto tedesco che avevano nell’ambiente del clan

intendevano una relazione di sangue. Si tratta di friunt “uomo del clan”, sibba/sippa e kunni, che significano entrambe “clan”.

Su friunt si sono divise due scuole che ancora non raggiungono un accordo riguardo la spiegazione di questo termine. Da un lato, come risulta chiaro dalla forma gotica frijonds, la parola può essere vista come un participio presente sostantivato del verbo frijon “amare”, quindi “colui cha ama” ma anche “amico” visto che l’equivalente greco vuol dire proprio amico. Questa spiegazione non esclude però la relazione con la nozione di parentela dato che il verbo frijon originariamente significava “trattare qualcuno come parte del clan, ammettere qualcuno nel clan”.

Frionds però è stato anche spiegato come formazione indoeuropea da un sostantivo attestato in germanico come frijo “moglie”. Di conseguenza la nostra parola dovrebbe significare “coloro i quali appartengono ad una donna sposata”. Entrambe le spiegazioni dipendono dal ruolo del matrimonio e del prendere moglie ed entrambe concordi nel riportare la parola frijonds alla stessa radice di due altre parole già considerate come termini giuridici: aat. fridu e frî. Fridu indicava la pace e la protezione richiesta per garantirla (notare la connessione fra pace e parentela), mentre frî, che originariamente significava “proprio” relativo a un parente per nascita, arriva a significare “libertà”. La libertà, dunque, così come la pace, dipende dalla protezione militare e giuridica garantita dal clan e dal fatto di essere parte di un proprio clan.

Le attestazioni di frijonds all’interno dell’area germanica rimandano sia alla parentela che all’amicizia e ciò ci fa chiedere se un valore abbia preceduto l’altro o se siano stati sviluppati contemporaneamente. Dal momento che il significato di “parente” è attestato in ogni lingua e che quello di “amico” non ricorre in antico nordico – lingua marcatamente conservatrice – saremmo portati a pensare che quest’ultimo significato sia stata solo un’evoluzione più tarda. Due studiosi concordano entrambi nel considerare la parentela come punto di partenza. Da un lato Scheller è attratto dalla possibilità di collegare il ricco spettro di variazioni in tutte le lingue semantiche, considerando che originariamente frijonds indicava i parenti del clan acquisiti attraverso il matrimonio (convalidando quindi l’idea del matrimonio come esempio di parentela estesa). Mezger, pur concordando sul significato originale del termine, si astiene dell’avvalorare la tesi che la parentela attraverso il matrimonio sia da vedere in opposizione alla parentela di sangue.

In antico inglese il significato di “parente” è chiaro quando la glossa che lo esprime frēond è usata in termini giuridici. Ad esempio se un uomo imbraccia le armi illegalmente e viene ucciso i membri del suo clan (freondon) non hanno diritto al guidrigildo; colui che non ha parenti che lo sostengano legalmente è frēondlēas. È anche vero però che in aingl. frēond al di fuori del contesto giuridico può significare “amico”.

In antico nordico si trova solo il significato di “parente”. La parola frændi è applicata alla parentela di sangue e può essere usata per un fratello, per un figlio, un antenato o la famiglia in generale. Nelle lingue scandinave tale situazione persiste fino ai giorni nostri, in cui per amico esiste una parola totalmente differente, e quindi da quelle parti questo concetto non è mai stato espresso da una parola corrispondente a got. frijonds.

In antico sassone e in antico tedesco sono attestati entrambi i significati. Una testimonianza indiretta per il significato di “partente”, almeno per il francone, è suggerita dal fatto che il latino medievale amicus può indicare sia la parentela di sangue o di matrimonio sia amicizia, ma una prova più diretta è fornita dalla glossa che rende lat. parentes “parenti” on friunt. A parte ciò in tedesco è documentato il significato di “amico” dall’inizio della tradizione scritta.

Infine in gotico la parola frijonds traduce la glossa greca per “amico” e denota solamente amicizia in quanto per la parentela è previsto un altro termine.

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In generale quindi la parola tedesca friunt denota in primo luogo qualcuno i cui obblighi includono l’assistenza di un altro friunt nella faida, per quanto concerne il séguito invece friunt può anche tradurre lat. cliens “seguace, protetto”. Altri termini che suggeriscono amicizia sono wini e trût e possono descrivere anche rapporti di parentela all’interno del séguito ma nella fattispecie, per questi, è soltanto con friunt che le associazioni parentali indicano anche una relazione che a causa della differenza gerarchica tra il signore e i seguaci era di origine differente.

La seconda parola, rappresentata da aat. sibba/sippa “parentela”, è attestata in tutte le lingue

germaniche. Etimologicamente deriva da una radice che veicola l’idea di “se stesso” o “proprio” che poteva produrre nomi indicanti un’associazione basata sulla nascita sia al livello di clan che di tribù. Probabilmente in origine significava “quelli del proprio genere” e come tale risultò termine adatto ad indicare un raggruppamento di parenti ad un livello inferiore di consanguineità. Si rileva somiglianza con frijonds dal momento che questa parola per designare chi è parente apparteneva alla stessa famiglia di aat. fridu indicante la pace che dovrebbe regnare tra i membri del clan, sibba/sippa nell’evolversi delle lingue germaniche mostra due significati: “parentela” ma anche “pace”.

Questo concetto, espresso da aat. fridu o aat. sibba/sippa, governava la relazione tra membri di un clan come necessità sociale, piuttosto che come virtù: solamente con l’avvento del Cristianesimo poté essere considerato come tale e ci sono fondati motivi per sospettare che anche allora questa concezione si sia affermata lentamente tra i convertiti germanici. La pace nel significato precristiano non era semplicemente uno stato passivo, ma uno stato attivo (prontezza ad aiutarsi e a difendersi l’un l’altro). Con sibba/sippa dobbiamo quindi stabilire dove questo designi il clan e dove la pace.

Appare in gotico come sostantivo, come verbo e come aggettivo negativo. Il significato del verbo è “riconciliare” e può far riferimento sia al cercare di ottenere la pace fra popoli, sia a mantenere quella fra parenti il che ci porta a considerare naturalmente che il desiderio di pace fosse sentito dapprima a livello familiare, poi sociale. In antico nordico la parola corradicale è espressa al plurale e indica la parentela acquisita per matrimonio ed in modo analogo in asass. sibbia si riferisce solo alla parentela (seppur di nascita, non di matrimonio). In antico inglese, come in gotico e antico alto tedesco, sono attestati entrambi i significati: la parentela è quindi vista nella sua funzione di garanzia del rispetto della pace. In queste tre varietà la ricorrenza più comune pare essere tuttavia quella della parentela, principalmente di sangue con qualche eccezione in riferimento a quella coniugale, ma sono tantissimi i contesti in cui le glosse che la esprimono possono far riferimento ad uno stato di pace, o meglio di parentela a salvaguardia della pace.

Questo tipo di adattamento ha dimostrato una buona duttilità ai fini cristiani, facendo pensare che tutti gli uomini una sibba dovessero vivere in armonia cosicché la pace e l’affetto fraterno potessero regnare tra loro.

Il terzo termine, aat. kunni, è attestato in tutte le lingue germaniche ed è corradicale alla parola

greca per “discendenza, nascita”, lat. genus “discendenza, parentela, tribù”, ed ha assunto nel protogermanico “ciò che è generato”, quindi “progenie, parentela”.

Wulfila usa kunni principalmente per tradurre una varietà di termini di parentela greci come “generazione”, “parentela”, “tribù, clan”. In antico inglese l’associazione di cyn con il clan è molto stretta, soprattutto quando la discendenza può essere tracciata all’interno del clan, stessa cosa avviene nell’antico nordico con il lessema kyn.

Oltre a questa valenza semantica di parentela, aat. kunni e i suoi corrispondenti nelle altre lingue germaniche estendono il significato per abbracciare entità più ampie come “tribù” e “popolo”. In entrambi i casi acquisisce tali accezioni in contesto biblico come equivalente di lat. tribus con particolare riferimento alle 12 tribù di Israele, e “popolo” per indicare il popolo di Israele. Addirittura arriva ad indicare il gruppo di tutti gli uomini che vivono in qualunque tempo,

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valendo quindi come “umanità” in genere. Estraneo al clan è l’uso di kunni per le categorie di esseri viventi o perfino oggetti: tale parola infatti viene applicata al “genere” di spirito malvagio che deve essere allontanato con le preghiere ed il digiuno.

Il clan e il ruolo che esso svolgeva possono essere giudicati in due modi, positivo o negativo, a

seconda che la società di cui esso fa parte sia ancora di natura tribale o abbia sviluppato un’autorità centrale statale. Dove nessun forte potere sovrano poteva imporre ordine e garantire protezione, l’individuo trovava queste cose soprattutto nel sostegno del proprio clan: la giustizia era una affare della faida e risiedeva come ultima risorsa nella faida. La minaccia di violenza poteva agire come disincentivo alla violenza stessa affinché la coesione del clan fosse mantenuta e la composizione per risarcimento riconosciuta, la faida non era l’espressione di un rancore personale, ma un obbligo dovuto alla società quale mezzo per mantenere legge e ordine. Tutto ciò era vero e funzionale finché la società rimase di tipo tribale, con l’avvento di un potere statale, e dell’autorità regale che aveva la responsabilità di mantenere l’ordine, la faida fu vista sotto la doppia cattiva luce di minaccia all’autorità regale stessa e causa della disintegrazione della società. Questo pericolo era già evidente ai tempi di Tacito ma fu con la fine delle migrazioni e con le nuove condizioni sociali che i clan e le faide rivelarono la loro incapacità di sviluppare mezzi per fornire un’autorità legale e amministrativa su agglomerati tribali oramai troppo ampi per essere definiti tali.

La legge romana parlava chiaramente dei pericoli della faida, rifiutando di base il fatto che il collettivo dovesse pagare per l’errore del singolo ma fu soprattutto la Chiesa a mobilitarsi per combattere tale abitudine. Se moralmente era spinta dall’avversione allo spargimento di sangue, in termini pratici essendo un’istituzione non aveva alcuna convenienza a convivere con e fra continue faide, decidendo quindi di attuare di continuo una politica a sostengo del singolo sovrano. Non va inoltre dimenticato che la salute della Chiesa dipendeva anche dalla protezione del sovrano, pertanto come primo obbiettivo sostenne con fermezza la composizione della faida per concordato e per guidrigildo invece che per vendetta, dando un forte colpo alle possibilità che questo costume avesse di proseguire. Teologicamente poi, tali ragioni erano giustificate dal fatto che la vendetta è ottenuta da Dio stesso che abbatte il colpevole con mezzi miracolosi o per mezzo di un agente umano (il re), mai aizzando un clan contro un altro clan con il rischio di portare alla disintegrazione della società cristiana. Il male inoltre, sempre secondo i precetti cristiani, non poteva essere vendicato in questa vita e infatti quando si parlerà per la prima volta di questo concetto nel Muspilli i neocristiani ne rimarranno sopresi, in quanto dinanzi a Dio non avranno né l’opportunità di patteggiare con una donazione né quella di essere difesi dai propri parenti. L’ingresso delle tribù germaniche nel mondo romano, la loro adozione dei principi giuridici di Roma e l’esposizione all’individualismo etico del Cristianesimo si combinano così da mettere in crisi le idee germaniche sulla faida e sulla funzione del clan.

Il potere dei principes minaccerà sempre di più la stabilità del clan, in quanto potevano permettersi il séguito che contraddiceva i legami del clan e ne destabilizzava l’unità; non sono mancati casi infatti in cui un signore lottasse proprio contro il suo clan di provenienza. Il potere regale, a sua volta, aveva un interesse nel subordinare alla propria autorità le faide sia per il fatto che venisse chiamata in causa direttamente la sua autorità sia per il sicuro profitto che si poteva trarre da tale occasione.

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Capitolo 4. La cultura della guerra La guerra è stato il fulcro della vita dei Germani per molti secoli, sia all’interno delle comunità tribali che per quanto concerne i rapporti con l’esterno. Un maschio, una volta adulto, era un guerriero.

Alla base di una tale attitudine vi era il grande numero di séguiti, ed il prestigio che si poteva acquisire facendone parte attirava la maggior parte degli uomini germanici; le precarie condizioni di vita favorivano questo status sociale ed i principi erano i maggiori beneficiari di tale situazione. Ovviamente, essi dovevano elargire beni e ricompense ai guerrieri che li seguivano, pertanto uno stato di belligeranza era sempre necessario affinché un continuo flusso di risorse potesse essere assicurato. Era proprio dal basso quindi che la guerra nasceva, ed i capi, in continua concorrenza fra loro, non potevano mai tirarsi indietro. Il rapporto fra principi e seguaci era in questo modo vincolante: la fedeltà dei seguaci doveva essere alimentata da continue ricompense, mentre la generosità del capo, basata sul bottino e sui tributi, aveva bisogno della guerra per essere sostenuta. Potere, generosità e guerra sono legati tra loro e risulta chiaro dal fatto che il capo è detto “donatore di anelli” (che potevano essere anelli, metalli preziosi, cavalli, lance ecc.), tale elargizione alimentava lo spirito bellico e portava alla guerra costituendo così l’ideologia del guerriero. La fedeltà veniva guadagnata e accresciuta con la generosità ma per fare ciò era necessaria la guerra, l’intero sistema si basava quindi sull’attività bellica ed un periodo di pace poteva quindi corrispondere solo ad un momento di crisi nella struttura del potere. In tali circostanze, dove cioè la guerra era endemica, non sorprende che ci siano arrivate tante informazioni sulle usanze belliche dei Germani.

Una delle prime cose che notarono i Romani fu la più totale mancanza di disciplina militare e di

controllo tattico da parte dei loro avversari germanici, e ciò potrebbe essere un dato considerabilmente filtrato dall’interpretatio Romana non fosse per il fatto che corrisponda a verità. I germani mancavano di ogni senso di obbedienza, militare o altro, tanto che non esisteva una parola per designare questo concetto; quello che davvero li legava ai propri capi era più identificabile con fedeltà. Gli eserciti andavano alla carica suddivisi per clan, senza rispettare alcun piano tattico, non c’era un vero e proprio comando centrale e questo, in molte occasioni, fu un decisivo vantaggio per i generali Romani.

Un altro svantaggio non indifferente per i Germani consisteva nella scarsità del loro equipaggiamento. Nonostante avessero imparato a lavorare il ferro dai Celti molti secoli prima, questo scarseggiava e le spade erano considerate un lusso (generalmente erano possedute solo dai capi), e infatti il più comune equipaggiamento del guerriero germanico – scudo e spada – era costituito da armi prevalentemente in legno con finiture in metallo. Per questioni di risparmio e funzionalità, quindi, era molto in voga la lancia, composta da un’asta di frassino ed una punta di metallo che poteva essere utilizzata sia come arma di offesa sia essere lanciata. Dal punto di vista linguistico è interessante come numerose lame di spada o punte di lancia presentino delle iscrizioni runiche, generalmente motti o espressioni di incoraggiamento quasi come a volerne farvi confluire una funzione magica. Le difese non erano migliori dell’attacco. Lo scudo era di legno e ricoperto di pelle, rinforzato da un bordo in metallo a migliorarne la stabilità e poteva essere usato sia come difesa personale sia come copertura per un gruppo. Da ciò si evince come mai i guerrieri Germani cercassero di tenere gli avversari romani a distanza il più a lungo possibile essendo peggio equipaggiati per il corpo a corpo, anche se col passare del tempo la spada diventerà sempre più frequente, così come gli scontri sanguinosi. Altrettanto rari erano armature ed elmi (anche questi prevalentemente destinati ai capi), il loro uso era talmente poco frequente che molte testimonianze dell’epoca, dagli scritti alle raffigurazioni artistiche, ci mostrano dei guerrieri Germani combattere a torso nudo o poco vestiti. Anche per questo motivo i pochi reperti archeologici di elmi e copricapi germani sono considerati rari e di estremo valore.

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Per quanto riguarda i modi di combattimento l’unica formazione di cui veniamo a conoscenza

leggendo Tacito è quella a cuneo (cuneus), dove il capo e il suo manipolo di uomini scelti stavano alla punta del cuneo mentre i fianchi andavano allargandosi verso la retroguardia ed erano protetti da scudi sovrapposti. Si sperava così di spezzare le fila romane con la semplice forza d’urto, evitando il combattimento corpo a corpo. Tale tecnica aveva un nome anche in germanico (anord. svinfylking) e poteva essere tradotto più o meno come “formazione a cinghiale”, nome che avrà talmente tanto successo da subire un calco anche in latino verso il IV secolo (caput porci) probabilmente grazie all’influsso dei mercenari Germani.

La fanteria costituiva il grosso delle truppe germaniche in quanto i cavalli erano rari e costosi e di riflesso sporadiche le truppe a cavallo. D’altro canto le tribù orientali ne facevano un più largo uso grazie ai continui contatti con le popolazioni nomadi delle steppe.

In definitiva l’esercito Romano era quasi sempre superiore a quello Germanico sotto tutti i punti di vista, basti pensare che i guerrieri Germani spogliavano delle vesti i caduti avversari per riutilizzarne i capi, quindi risulta difficile spiegare con accuratezza come mai queste genti così primitive abbiano potuto avere, alla fine, la meglio sulla migliore organizzazione e fornitura dell’Impero. La risposta probabilmente risiede nel fatto che c’era nei Germani il bisogno di terre nuove, il fronte della battaglia era smisuratamente largo e, fattore poco pragmatico ma non sottovalutabile, che il guerriero germanico potesse essere spinto da una ingenua irrazionalità che paradossalmente può aver giocato a suo favore.

C’era un lessico nativo ben specifico per descrivere gli aspetti del duello. Il primo termine attestato è condiviso da Germania e Inghilterra ed è urhêtto: nonostante ricorra una sola volta in tedesco nel Carme di Ildebrando, basandoci sulle traduzioni possiamo assumere che stia per qualcosa come “essere così audace da affermare qualcosa”. In inglese ōret “lotta, battaglia” e ōretta “guerriero, campione” sembrano confermare tale significato: lo stesso Beowulf viene descritto per due volte come ōretta mentre combatte da solo contro un essere mostruoso: la prima dopo aver fatto una promessa solenne, la seconda dopo aver accettato con parole orgogliose di affrontare un drago. Ōretta è attestato in aing. anche in riferimento a Davide come “soldato (di Cristo), campione” anche se altrove si percepisce un rifiuto nell’ottica cristiana dell’orgoglio guerriero esprimendo paralleli fra questo concetto e quello dell’ orgoglio come vanità.

Lo iudicium Dei o ordalia è una particolare forma di duello, calato nella sfera giuridica, che prevedeva la lotta fra due contendenti in caso di mancanza di testimoni affinché potesse essere Dio stesso a decidere chi avesse ragione. Visto che è una pratica che testimonia la credenza germanica dell’influsso divino in Terra è probabile che sia nata in epoca antica ma a giudicare dal nome deve essersi mantenuta e “adattata” anche al contesto Cristiano, riscontrando però non poco astio nell’ambiente clericale (piegare il Dio ai bisogni dell’uomo non è propriamente un dogma Cristiano). Nei testi giuridici che attestano l’ordalia si fa menzione del giuramento oltre che del combattimento perché la verità deve essere stabilita con il combattimento se l’accusa rifiuta di accettare un giuramento: si deve accettare o l’una o l’altra opzione ed in caso di lotta un parente poteva accettare di combattere per l’accusato. L’autore del Muspilli, spinto da spirito Cristiano, non solo abbandona la prassi giuridica in quanto ininfluente di fronte al Giudizio Universale, ma rifiuta anche l’ipotesi che la verità possa essere stabilita previa duello. Difatti l’ottica Cristiana non è in fallo se stabilisce che il Giudizio Universale non può essere anticipato da un duello poiché gli uomini sono tenuti a rispondere di sé stessi solo davanti a Dio.

Nel mondo germanico quindi erano tre i modi principali di fare la guerra: faide fra clan, incursioni di séguiti e guerre su vasta scala affrontate dall’intera tribù, le prime a proposito della stirpe e della famiglia, le seconde nell’ambito dell’autorità del signore, le terze in riferimento al popolo e all’esercito. La faida era l’equivalente germanico della guerriglia, assumeva la forma di un attacco improvviso o dell’agguato (i termini per descriverla derivano da “vendetta, inimicizia), le ostilità intraprese dal séguito assomigliano alle lotte all’interno dei clan perché entrambe

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esulano dalla tribù nel suo complesso caratterizzandosi tuttavia per la loro attitudine ad incursioni volte al saccheggio, le guerre tribali volevano infine coinvolgere l’intero popolo in armi e nascevano come reazione spontanea ad un’invasione esterna o erano il risultato delle incursioni ripetute e aggressive da parte di un determinato séguito. Cesare, ben conscio del fatto che le incursioni dei séguiti potessero sfociare in guerre tribali, definiva le lotte del séguito latrocinium, quelle tribali bellum.

Trattando della leadership della battaglia Tacito riferisce che le punizioni non fossero inflitte dai

capi, ma dai sacerdoti che obbediscono al dio che essi credono presiedere durante la battaglia. Com’è noto i Germani erano convinti che gli dei li assistessero durante le guerre e che decidessero sull’esito di queste, difatti non era raro che prima di intraprendere qualsiasi campagna delle sacerdotesse consultassero le divinità, le quali chiedevano vittime sacrificali. L’iconografia delle matrici per la stampigliatura di ornamenti conferma questa tesi, così come le fonti storiche che parlano di oggetti e figure portate in battaglia a simboleggiare la presenza divina.

Se gli dei dovevano garantire heil però, questa era meglio conseguita se richiesta con dei sacrifici. Sacrifici venivano effettuati prima della lotta (e potevano essere giuramenti così come esecuzioni), sacrifici venivano effettuati dopo la lotta, soprattutto umani, come ringraziamento anche in assenza di un voto precedente la battaglia. I Cimbri in particolare erano soventi uccidere gran parte dei prigionieri di guerra e, in non poche circostanze, distruggere gli oggetti di questi anche se utili (tipo le armi) e sopprimere i cavalli. Ciò che non è molto chiaro è come mai alcune volte l’azione sacrificale fosse la regola mentre in altre circostanze dovesse essere spinta da un voto o giuramento e soprattutto come mai si preferiva distruggere gli oggetti degli avversari piuttosto che riutilizzarli o reinventarli.

Un’altra caratteristica della dimensione religiosa della guerra risiede nel fatto che alcuni di questi séguiti sembrano essersi immolati ad un dio (generalmente Odino, dio della guerra). Ne è un esempio Hilditönn o Aroldo Dente di battaglia che si dice avesse ricevuto da Odino il dono dell’invulnerabilità cosicché potesse combattere senza armatura, e come lui fecero i suoi seguaci.

Tra i nomi personali teoforici ve ne sono alcuni nei quali il primo elemento è un termine riferito

alla divinità in genere mentre il secondo denota il guerriero o il conflitto che personifica oppure un animale aggressivo, una fiera tipica della battaglia, di cui possiede i tratti caratteristici. Di particolare interesse sono i nomi terioforici, che contengono cioè il nome di un animale. Se i teoforici stabilivano una connessione tra la divinità e l’uomo, qual è lo scopo dei terioforici?

Sicuramente sono collegati alla guerra e all’azione del combattere, si prenda fra tutti l’esempio di “cinghiale selvatico, forte” Ebur + hard ma sono linguisticamente più interessanti quei nomi in cui il lessema riferito all’animale è posto alla fine perché non solo stabilisce il paragone fra l’animale e il guerriero, ma ne determina l’uguaglianza. Esempi di questo genere sono Hildulf “lupo di guerra”, Gundolf “lupo di battaglia”, Wigbern “orso di guerra” ma non mancano casi simili in cui al posto degli animali sono usate armi come la spada in Heoruwulf, la lancia in Geirúlfr , lo scudo in Randulf, la corazza in Bryniólfr e l’elmo in Helmwulf. L’abbondanza di questi antroponimi rivela la speranza che il guerriero farà sue le qualità dei vari animali che meglio rispondono ai suoi compiti militari, ma verranno presto stigmatizzati dalla Chiesa in quanto saranno sovente utilizzati in kennigar che invece si sarebbero ben sposate con metafore meno pagane.

Si potrebbe sostenere che l’uso dei nomi di animali per nomi propri possa essere direttamente ricollegato a motivi religiosi (ad. es. aquila e lupo erano sacri a Odino) ma vorrebbe dire confinare tutti questi nomi ad uno specifico culto, quindi converrebbe considerare puramente teoforici solo quei nomi che contengono esplicitamente il nome di un dio. I nomi terioforici vanno considerati come atteggiamento di rispetto verso quel determinato animale e la sua fierezza, senza dimenticare del fatto che – magari anche tralasciando un qualsiasi tributo di aspetto religioso – una

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particolare bestia potrebbe essere scelta in virtù della forza irrazionale che la muove alla lotta, fattore richiesto anche al guerriero Germanico.

E per quanto i Romani avessero compreso ben presto quali fossero i limiti tecnici, organizzativi e se vogliamo anche intellettuali degli avversari che loro definivano barbari, non va sottovalutato il fatto che proprio quell’attaccamento a valori sovrannaturali sfociato in atteggiamenti impetuosi e irrazionali possano essere stati elementi decisivi per garantire ai Germani la vittoria finale.

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Capitolo 5. Il popolo e l’esercito In questo capitolo si parlerà di tre parole che indicano “il popolo”: aat. heri, folk e liuti ognuna delle quali aveva un’accezione militare. Heri indicava in origine l’esercito in generale (l’insieme di tutti gli uomini liberi in grado di portare le armi), folk era usata per indicare una parte, un sottogruppo, dell’intero esercito e liuti indicava originariamente tutti gli adulti maschi giunti ad un’età tale da essere idonei a prestare servizio nell’esercito. in un modo o nell’altro tutte e ter queste parole combinavano una funzione militare ad una politica.

Aat. heri ha parole corradicali in tutte le lingue germaniche, la qual cosa ne prova l’antichità. La

base indoeuropea di questi termini derivava da un suffisso aggettivale –io-/-ia- aggiunto ad un sostantivo sopravvissuto in psl. kara “conflitto”, e quindi il significato originale della parola germanica era “ciò che ha a che fare con la guerra” “esercito”.

Tale significato militare è attestato in tutte le lingue germaniche. In gotico la forma harjis rende le due glosse greche di “esercito celeste” e “legione” nel senso di moltitudine, in antico nordico è usata per indicare l’esercito della tribù in una spedizione militare ma anche un piccolo gruppo di guerrieri. L’elemento militare implicito a questa parola è chiaro anche nell’antico inglese dove here rende lat. exercitus, lo stesso vale per l’antico sassone. Oltre a exercitus nelle glosse alto antiche tedesche heri rende anche militia e agmen, due parole che indicano l’esercito nel suo insieme quindi applicabili anche ai contingenti che si affrontavano nelle guerre tribali, non solo in quelle contro i romani.

La parola heri era usata anche per indicare un popolo come etnia o come il corpo dei responsabili delle decisioni politiche e giuridiche. La doppia accezione militare-giuridica non deve sorprendere in quanto l’assemblea giuridica germanica era anche un’assemblea militare e il giovane maschio ammesso allo status di guerriero era ora anche in grado di partecipare a deliberazioni giuridiche e politiche. Tale unione di due valenze semantiche è meglio dimostrata in antico sassone e antico nordico. Nell’Heliland si parla della trama degli uomini di legge Giudei contro Cristo, quindi di una riunione del heri, quindi di uomini liberi ammessi alla vita giuridica in grado di occuparsi del thing2 e di portare le armi. Similmente avviene in antico nordico dove herr poteva essere usato per indicare il popolo in senso politico, ma altrove nel mondo germanico la situazione è abbastanza diversa. In gotico harjis ricorre solo con accezione militare, in antico inglese here pare quasi sia un termine tecnico riservato all’esercito vichingo (per quello inglese si usava fyrd), in antico alto tedesco e nelle altre lingue germaniche il significato esteso di questa parola può arrivare ad essere quello di “folla, moltitudine”, ma sempre senza implicazioni giuridiche o politiche. Il fatto che tale sviluppo semantico sia avvenuto in alcune parti del territorio germanico piuttosto che in altre è sicuramente dovuto al maggiore o minore influsso che Roma ebbe su queste zone e testimonia il fatto che ad un certo punto sia avvenuta una spaccatura. In luoghi come appunto l’Inghilterra e la Germania si va perdendo il significato più generico di “popolo in armi” per definire solo “esercito” e le ragioni vanno ricercate prima di tutto nella crescente indipendenza della supremazia dell’esercito, che separa l’esercito stesso dall’autorità dell’assemblea tribale, indipendenza connessa sicuramente alle lezioni militari che i Germani impararono dai loro avversari romani per quanto riguarda la disciplina militare. Molti capi germanici infatti prestarono servizio nelle fila romane e, una volta abbandonatele, tornarono in patria portando con sé quanto avevano appreso sulla gestione delle truppe, quindi quello era un periodo non solo di imbarbarimento delle truppe romane, ma anche di innovazione per quelle germaniche, basti pensare che a livello linguistico il latino volgare sostituì lat. bellum con germ. werra.

2 Assemblea popolare.

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Tali cambiamenti influirono notevolmente sulla società germanica. L’esercito era dapprima costruito in maniera orizzontale, con un primus inter paris che veniva scelto di volta in volta come capo e comunque non deteneva il potere assoluto; ma durante le migrazioni le necessità militari fecero sì che un capo che dovesse prendere rapide decisioni fosse indipendente dall’assemblea della tribù. Ciò costituì un indebolimento dell’assemblea stessa e sfociò in alcune tribù orientali in governati di tipo monarchico militari.

Il territorio francone fu quello che, probabilmente, vide prima di tutti il definitivo distaccamento di popolo ed esercito da un’unica entità. La vastità del territorio, l’avvenuta colonizzazione di popoli stranieri e la possibilità di un’agricoltura florida fecero sì che si venne a creare una fetta di popolazione che rinunciava alle armi sempre più ampia.

Tali sviluppi, affiancati dall’indebolimento dell’esercito tribale, potevano essere tollerati dai capi franchi solo se essi potevano contare su una forza militare fissa e meglio equipaggiata. Tradizionalmente si è visto all’evoluzione di questo bisogno come uno gettare le basi per il feudalesimo: la professionalizzazione dell’esercito dava al capo una maggiore sicurezza ed al soldato un migliore di vita tramite il beneficium (l’assegnazione di una proprietà). Dunque l’unione del vassallaggio (promessa di fedeltà personale e servizio militare ad un capo) con il beneficium pare abbia prodotto il feudalesimo, ma che si accetti o meno questo principio di causa-effetto il rapporto fra signore e vassallo era oramai puramente di tipo personale, non basato sull’autorità politica e giuridica dell’assemblea della tribù. La nascita di questa nuova casta di guerrieri non fece altro che indebolire fino ad eliminare il thing e la sua importanza nel contesto dell’organizzazione militare.

Se questi cambiamenti siano avvenuti all’epoca tradizionalmente riconosciuta come quella dell’inizio del feudalesimo, e ciò quella di Carlo Martello, durante quella merovingia (precedente a questa) o carolingia (successiva) non è possibile stabilirlo con certezza, quello che è certo è che tali cambiamenti iniziano abbastanza presto da lasciare tracce linguistiche in antico alto tedesco all’inizio della sua tradizione scritta. Già in quel momento la lingua riflette ciò che era avvenuto in territorio francone, e con l’estensione dei Franchi in Germania tali cambiamenti (sia linguistici che sociali) vennero a verificarsi anche fra i popoli bavaresi e alemanni, e nell’VIII secolo in tutta la Germania heri aveva completamente perso il significato di “popolo”. Non a caso la Sassonia e la Scandinavia, che risentirono in maniera minore e ritardata dell’influenza francone, mantennero la distinzione fra i due aspetti semantici del lessema.

Anche folk risulta attestata in tutte le lingue germaniche, fatta eccezione per il gotico. Il termine

deriva dalla stessa radice dell’aggettivo aat. fol “pieno”, proprio come i rispettivi corradicali latini e greci che stavano per “gente, folla, riempire, pieno” che ci fanno pensare ad un termine indoeuropeo che stesse per “abbondanza, grande quantità”.

Diversamente da heri, folk non può essere semplicemente equiparato a “esercito” (infatti ad es. in aat. non traduceva mai lat. exercitus), ma bensì ad unità militari più piccole di un esercito, infatti spesso traduceva cohors, manipulus e cuneus. Fatta eccezione per queste glosse, però, folk ha significato militare solo nel Carme di Ildebrando e nell’Heliland dove l’esercito mantiene il suo nome originario e con folk si intendono sotto unità o manipoli di uomini, difatti spesso viene utilizzato nella sua forma plurale.

In antico nordico una situazione simile ricorre non solo con la parola corrispondente fólk, ma anche con la forma derivata fylki. Il primo sostantivo indica una schiera di guerrieri con riferimento ad alcune schiere che costituivano una forza armata, il secondo si è formato come collettivo con l’aggiunta del prefisso gi- ed esprime un parallelo con l’antico inglese gafylce “schiera, divisione” ad indicare una formazione all’interno di una più vasta forza militare.

Il fatto che folk sia attestato in tutte le lingue germaniche – tranne che in gotico – più o meno con lo stesso significato, fa pensare ad un’origine antica. Si può meglio comprendere il significato della parola considerando l’organizzazione delle truppe germaniche, basata non su suddivisioni

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numeriche di varia misura, ma su raggruppamenti per clan, come ci insegna già lo stesso Tacito. Egli parla di cuneus in riferimento a tali formazioni, ma sia lui che Cesare ci spiegano come tali raggruppamenti potessero all’occasione andare oltre l’aspetto familiare e rappresentare la tribù di appartenenza. Va comunque notato che in Tacito cuneus può indicare sia un raggruppamento minore, sia la tipica formazione a punta, pertanto per capire bene la differenza fra questi due concetti bisogna appoggiarsi al germanico dove, ad esempio in anord. fólk indicava il raggruppamento e svínfylking la formazione a cuneo che questo poteva assumere.

Per riassumere la funzione militare di folk si può dire che laddove heri corrispondeva a exercitus e designava l’intero esercito (il popolo o la tribù in armi), folk era l’equivalente di choros o cuneus e indicava una suddivisione all’interno dell’esercito basata, a volte, su legami di parentela.

Accanto a questa funzione militare folk ne aveva anche una giuridica, ma a differenza di quanto accadeva per heri dove si esprimeva comunque la totalità dell’insieme, qui folk non indica una parte, un sottogruppo, o una suddivisione del popolo ma bensì l’ “intero popolo”. Tale ampliamento in riferimento all’aspetto politico della parola potrebbe essere avvenuto dapprima in ambito militare e a sostegno di questa ipotesi potrebbero esserci quei fatti storici che hanno visto intere tribù essere allo stesso tempo anche contingenti militari. Tuttavia, folk viene utilizzato per intendere “popolo” nel poema antico sassone Heliland quando gli Ebrei, presentati come se fossero parte di un thing locale, devono decidere se salvare o condannare Cristo. Da questo particolare significato di “tutti coloro aventi diritto a prendere parte a tali contesti giuridici”, folk estende il suo significato a tutto il popolo nella sua funzione giuridico-politica, e appare ancor più in risalto quando si fa riferimento al popolo rispetto ad un sovrano.

Casi simili sono presenti in antico sassone e antico inglese: nel primo un signore può essere definito fólks iađar “signore di un popolo” mentre in Beowulf ci viene detto che il protagonista va a trovare i Sūđdena folc cioè il popolo (o il territorio) dei Danesi del sud. Poiché i significati di folk come “popolo” e “formazione militare” sono attestati in entrambe le lingue più conservatrici del germanico (antico nordico e antico sassone, più l’inglese), tale doppia funzione semantica può essere considerata di una certa antichità, sarà solo tra i Fanchi che nascerà la distinzione tra questo termine ed heri, per poi diffondersi in Germania. L’esito dell’evoluzione sarà che laddove heri in antico alto tedesco ha acquisito un’esclusiva valenza militare, folk riesce a conservare tracce di entrambe le valenze, con la particolare accezione di “popolo in relazione ad un sovrano”.

Va comunque sottolineato che la frequenza del termine folk ha subito un notevole declino nel tardo antico alto tedesco. Herold ha analizzato la produzione letteraria dividendola in testi datati prima e dopo il Diatessaron di Taziano (160-175 d.C.): nei testi del primo antico alto tedesco il termine compare 66 volte in sei opere nell’arco di 100 anni con maggiore frequenza man mano che ci si avvicina al Diatessaron; dopo quest’opera la parola compare solo 21 volte, sempre in sei opere, ma nell’arco di 200 anni. È probabile che questa diminuzione dell’uso di folk sia connessa con la perdita della sua connotazione politico-giuridica, risultante nel notevole aumento di una terza parola, liut(i). Il termine cadde in disuso dapprima come termine militare a partire dai testi più antichi, poi perse anche il suo valore politico-giuridico a partire dall’830 circa; il suo uso ricorrente in un contesto Cristiano per indicare Israele o la cristianità come “popolo di Dio” se da un lato ha messo in luce la sua capacità di rendere populus dall’altro ha contribuito a rimuovere il termine dalle sfere militare e politica che originariamente gli erano proprie, anche perché oramai heri aveva assunto a pieno titolo il significato di “esercito” e liuti stava sempre più assicurandosi quello di “popolo”.

Il sostantivo singolare aat. liut (con la sua forma plurale liuti) ha in comune con heri e folk il fatto

di avere due significati, uno dei quali è “popolo” in senso politico-giuridico, ma differisce da essi perché il suo secondo significato non è di tipo militare ma indica piuttosto la subordinazione dei “sudditi, vassalli”. Come per le altre due, è attestata in tutte le lingue germaniche tranne che in gotico e come per le altre due la sua vasta diffusione ne denota l’antichità. Etimologicamente

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deriva da una radice verbale indoeuropea che stava per “crescere” supponendone un significato originario di “coloro che sono cresciuti e sono divenuti maturi”, quindi “popolo” in senso politico-giuridico. Sebbene non attestato, non è comunque escludibile un antico significato di esercito visto che gli uomini in grado di prendere decisioni politiche erano gli stessi che poi avevano l’obbligo delle armi.

Le corradicali latine e greche significano “membro del proprio popolo” con risvolti in “uomo libero” ed nelle lingue germaniche possono assumere la particolare accezione di “popolo” in riferimento alla propria tribù, per diversificarne l’una dall’altra (assumendo quindi anche significato etnico). Come per folk, il valore etnico e politico di liuti può spesso essere stabilito quando si fa riferimento ad una tribù che viene nominata e con la quale liuti è associato – come avviene nel Carme di Ildebrando – o quando si fa riferimento al territorio che occupa quella tribù, come in Beowulf. Altrove questa parola può allitterare, soprattutto nel linguaggio poetico con land per indicare il territorio della tribù.

Seppur in competizione per un certo periodo, alla fine folk cedette a liuti il significato di popolo in senso politico-giuridico, e poiché tale competizione riguarda l’utilizzo di queste parole in senso politico si è tentati di supporre la presenza di cambiamenti politici oltre che linguistici. La cosa potrebbe avere senso se si pensa che folk volesse originariamente indicare che l’autorità politica e giuridica era nelle mani del popolo riunito nel thing, mentre con liuti questa autorità risiede altrove, nelle mani di un unico sovrano al di sopra e al di là del popolo, i cui liuti ne erano subordinati, vassalli, sudditi.

L’ascesa di questa parola fu facilitata dal significato religioso in ottica cristiana che essa aveva in riferimento al popolo suddito di Dio o Cristo e a Cristo o Dio re di tale popolo; sempre non dimenticando che un nuovo stato Franco appena convertito stava gettando le basi per un primo accenno di monarchia. Liuti è quindi l’emblema di un passaggio di potere a livello sociale, in cui il folk in quanto tale non era più previsto, semplicemente perché non esisteva più; gli uomini liberi del folk diventano uomini soggetti ad un’autorità più alta, i quali hanno perduto il diritto di partecipare ai tribunali delle decisioni politiche.

Un fattore determinante di questa retrocessione dell’uomo libero fu la crescente centralizzazione del potere regale francone, nella fattispecie quando Clodoveo, nel 507, ottenne il potere assoluto ponendo dapprima fine alle guerre fra i vari reguli franchi iniziate dopo i primi insediamenti nella parte settentrionale della regione, poi sconfisse i Visigoti. Attraverso l’uso di precedenti strutture romane per il controllo politico e addirittura attraverso l’uso di personale romano, Clodoveo riuscì a rafforzare la sua autorità come monarca franco attraverso metodi amministrativi importati dalla Roma imperiale: un re che esercitava tale potere non era più soggetto ai controlli imposti ad un governatore germanico, e quindi era meno pronto a riconoscere il diritto degli uomini liberi ad avere voce in capitolo nelle decisioni politiche e militari.

Quella che un tempo era un’assemblea legislativa in cui il folk esercitava un potere collettivo, ora era un’assemblea ristretta di nobili che rappresentavano il re, e probabilmente il privilegio di prender parte ad assemblee tanto importanti scomparve, per gli uomini liberi, nello stesso momento in cui venne meno l’obbligo di prendere le armi. Ora vi erano un esercito professionale e dei legislatori professionali. Ovviamente la Chiesa giocò un ruolo importante nell’evolversi di questo processo ponendo il re come rappresentante di Dio al di sopra del popolo, un rex Dei gratia che non aveva l’obbligo di condividere alcun potere decisionale con nessuno e che non dipendeva più dal popolo ma direttamente connesso a Dio tanto che un’offesa ad una delle due figure voleva dire offendere l’altra. Poiché il potere regale derivava da Dio il consenso del popolo non era più richiesto, e poiché il popolo era suddito di Dio lo era anche del re.

Tali importanti variazioni politiche, giuridiche e sociali stanno alla base della caduta in disuso della più audace folk a vantaggio di una più comoda liuti.

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Le tre parole fin qui trattate sono in stretta connessione fra loro, prima di tutto heri e folk vanno considerate nella loro interazione a causa dei loro sviluppi complementari (entrambe in origine indicavano “esercito” tanto quanto “popolo”, ma si sono spostate in direzioni opposte fino a significare solo una delle due cose). Allo stesso modo folk e liuti non possono essere considerate separatamente perché il declino della prima ha permesso l’ascesa della seconda ad indicare il popolo da un punto di vista politico-giuridico. È evidente, in definitiva, come la storia di queste tre parole indicanti “popolo” sia strettamente legata a radicali cambiamenti della storia dell’uomo e, più in particolare, a quel particolare momento di transizione dall’antichità germanica al primo Medio Evo sul territorio dei Franchi.

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Capitolo 6. L’autorità del signore Si esaminerà ora la prima delle due forze che agirono contro la sopravvivenza del clan, e cioè il signore ed i tre termini principali coi quali la sua figura veniva indicata: aat. frô, truthin e hêrro.

Aat. frô trova corrispondenza in tutte le lingue germaniche, anche se in antico nordico solo nei

nomi di divinità Freyr e Freya, e il suo significato di “signore” deriva dal legame etimologico con ie. pro “davanti, in testa” e con forme corradicali che stanno per “primo” e “presto”.

Sono almeno tre le funzioni che possono essere riferite a questo termine: la prima, e forse la più antica, serve ad indicare “signore di una casa” la cui responsabilità giuridica investe la moglie, i figli, i dipendenti, gli schiavi e la proprietà. Frô poteva designare anche qualcosa che si avvicinava di più al capo della tribù ed era probabilmente l’equivalente nativo dei principes cui si riferisce Tacito. Tale associazione è resa possibile dal fatto che il termine latino fosse regolarmente usato al plurale e tradotto dal genitivo plurale fossilizzato di frô, ossia frôno. I principes germanici deliberavano collegialmente come un corpo, ricoprivano un ruolo guida nell’assemblea ed erano considerati responsabili dell’amministrazione della giustizia e della riscossione dei tributi, ed in tutti questi casi venivano indicati al plurale. Il termine frôno riferito a questi capi poteva pertanto essere usato come corrispettivo di lat. publicus o communis. La terza accezione attribuibile a frô è infine quella di “re” o “colui che governa”, a darci tale importante testimonianza sono soprattutto alcuni passi del Beowulf.

In antico sassone l’uso del termine mostra maggiore elasticità in quanto è usato anche come sostantivo indipendente, ma anche l’aing. frēa indica un signore secolare (o Dio) nonché rafforzativo in “molto grande, molto famoso”. Nonostante anche Wulfila in gotico lo userà come appellativo religioso e secolare, si registra un po’ in tutte le lingue germaniche una atrofizzazione del termine facendone supporre un’origine antica, e di conseguenza un maggiore utilizzo di termini accolti successivamente come hêrro che meglio descriveva la nuova situazione del vassallaggio.

Un secondo punto riguarda la simultanea minaccia a frô nella sfera religiosa determinata dall’imporsi di aat. truhtin come termine per il concetto cristiano di lat. dominus facendo supporre che prima di abdicare al nuovo termine frô potesse avere anche una valenza religiosa, ma ciò ci fa porre delle domande sul processo che ha portato frôno a divenire aggettivo di un sostantivo in genitivo plurale e ai significati che ha finito per esprimere.

Il primo significato di frôno è vicinissimo a quello di frô “capo”, cioè “appartenente a un signore o ai signori” o “che ha a che fare con un signore o più signori” ricoprendo così la proprietà ereditata da due classi di persone: di tutte quelle note col titolo di frô e di quei contadini franchi nati liberi. La seconda funzione è quella di “pubblico, comune” in quanto il corpo collettivo di tutti quelli che erano frô rappresentava l’autorità pubblica. Quello che risulta difficile da spiegare è il terzo significato affiancabile a frôno e cioè quello di “sacro”. Affiancato spesso come aggettivo alle figure di Crsito e Maria risulta cozzare semanticamente col contesto in cui viene espresso in quanto indicando di base un concetto di pluralità o collettività si confaceva bene all’aspetto dell’originaria religione politeista e agli dei germanici che doveva descrivere, ma non a quella monoteista Cristiana. La relazione fra le tre valenze di frôno possono dunque essere spiegate se si considera frô come appellativo che significa “signore, capo della tribù” (da cui fu derivato frôno “pubblico, comitato”), ma anche applicabile agli dei (considerando frôno “appartenente agli dei, sacro”).

Il secondo termine per “signore” è rappresentato da truhtin, derivato dal sostantivo truth, che la

maggior parte degli studiosi interpreta come l’originario equivalente del séguito descritto da Tacito quale istituzione centrale nella società germanica e in guerra. Truhtin sarebbe stato il capo di

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tale séguito. In Beowulf abbiamo dimostrazione di come un princeps venisse chiamato frô nell’ambito generale delle sue attività, truhtin nello specifico di quelle militari.

Cercando informazioni riguardo il séguito germanico bisogna fare distinzione fra come venne descritto da Cesare e come venne descritto da Tacito. Il primo ce lo presenta come una squadra in grado di fare incursioni, un raggruppamento militare pre-comitatus con un capo che proponeva all’assemblea di agire e portava con sé un gruppo di uomini scelti. Il comitatus com’è presentato da Tacito è ben diverso in quanto impostato su una relazione più duratura, voluta da capo e seguaci che rimanevano insieme anche in tempi di pace, ed i seguaci accompagnavano il loro capo anche in sede giuridica al fine di dimostrarne l’autorità.

Basandoci sulla descrizione di Tacito, che sembra la più attendibile quantomeno per l’accuratezza dei dettagli, potremmo definire il comitatus come un’associazione di uomini liberi al servizio regolare di un uomo più potente, alla cui famiglia appartengono e a cui essi devono servizio militare e incarichi di rappresentanza. Secondo Kristensen il capo di questi gruppi di uomini era il princeps, i seguaci i comites e l’associazione stessa il comitatus. Un’altra caratteristica sociale del séguito era la sua natura intertribale; pare infatti che i giovani si recassero di propria spontanea volontà nelle zone di guerra per entrare in séguiti celeberrimi e allo stesso modo un capo di provato valore poteva attrarre quanti più guerrieri estranei alla propria tribù. Nel creare una forza in cui i seguaci erano direttamente legati al capo, questo acquisiva indipendenza dal proprio clan, dandogli più o meno peso anche nelle assemblee tribali. Addirittura la vittoria di un singolo capo poteva mettere a repentaglio la stabilità e l’armonia di un’intera tribù.

Il comitatus richiedeva ingenti sforzi economici per essere mantenuto e quindi un continuo stato di belligeranza, ciò potrebbe anche spiegare come questo si sia venuto a modificare negli anni che dividono la descrizione di Cesare da quella di Tacito, viste le sempre più comuni invasioni, migrazioni e battaglie che ebbero vita in quel lasso di tempo. Al contrario, quando si crearono condizioni più stabili una volta conquistato un vasto territorio nacque la difficoltà di mantenere economicamente il séguito, le terre affidate erano ora un beneficium feudale, capo e seguaci erano separati geograficamente, il seguito come associazione non esisteva più.

Per capire quale fosse l’equivalente germanico per designare il séguito bisogna affidarsi alla serie di parole individuate da Kristensen e utilizzate da tacito: comitatus, comites e princeps. Kuhn ha sottolineato che queste sono le tre caratteristiche rappresentate da una ricca gamma di sinonimi nella letteratura germanica sulle gesta del séguito e che i termini per indicare le prime due devono essere visti fianco a fianco, il che fa pensare al singolo seguace come membro di un gruppo permanente. Kuhn sosteneva inoltre che termini originariamente legati al seguito potessero essere aat. gisindi “scorta” e gisindo “seguace” che venivano tradotte in got. drauthi “campagna” e gadrauhts “soldato” le quali potevano glossare aat. truht. Truth è un termine comune in germanico ed è attestato nella forma di composti e derivati in tutte le lingue germaniche con vari significati tutti indicanti spedizioni militari, singoli o gruppi di guerrieri, fino ad indicare “maggiordomo, dispensiere, maestro di cerimonia” e “sensale”. Questa ampia diffusione semantica costituisce un problema, ma di base i significati possono essere divisi in due gruppi: “un séguito” o una funzione non militare che designa un’”assemblea di persone”, sia nel senso generale di “gente” sia nel senso particolare di “riunione per un festeggiamento”. Kuhn finirà quindi per rifiutare questa parola come termine per designare il séguito sminuendone anche la funzione militare ma si può concludere che aat. truht designasse originariamente il séguito e truhtin il suo capo nonostante l’utilizzo di questi termini in testi scritti non implichi che essi debbano ancora riferirsi alla stessa situazione. Da quando assunse anche funzione di festa familiare quanto militare la parola iniziò ad essere applicata a contesti non militari risultandone sempre più esclusa fino a quasi scomparire.

La terza parola per “signore” è molto meno diffusa in germanico poiché la forma corrispondete

di aat. hêrro è attestata anche in antico sassone, ma soltanto con deboli echi in antico inglese e

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antico nordico. Tale termine è quasi sicuramente nato come comparativo dell’aggettivo hêr per poi essere usato come sostantivo.

Le forme corrispondenti a questo aggettivo tedesco sono “grigio” e “vecchio”, accezione non riconosciuta in aat. se non in rarissimi casi, il che fa supporre che la percezione dell’età esista ancora per un certo tempo nella forma comparativa, per poi scomparire, non a caso l’ aat. userà heriro / heroro per tradurre lat. senior “più vecchio”. Perso tale significato quindi aat. hêr ha acquisito quello di “nobile, distinto, che incute rispetto” e di conseguenza il suo sostantivato hêrro “signore”. Siamo portati a supporre dunque che hêrro fu originariamente creato con significato di comparativo “vecchio”, probabilmente su modello lat. merovingico di senior (anch’esso comparativo), ma usato come sostantivo nel significato di “signore”. Nell’ambito degli scambi linguistici dell’epoca, quindi hêrro sarebbe stato un calco semantico coniato in Germania, poi esportato in Inghilterra e Scandinavia.

All’interno della Germania è difficile dire se l’origine sia stata in antico sassone o antico alto tedesco ma se si considera la vasta probabilità che questa parola possa esser stata introdotta in seguito ai sempre più frequenti rapporti dell’epoca con Roma, si è portati a pensare che possa essere arrivata da sud e ovest, quindi in antico alto tedesco, e più verosimilmente in francone visti i contatti con la Francia ed il fatto che da quelle parti fosse già utilizzato.

Sulle ragioni che abbiano spinto a coniare un termine sulla base di senior si può dire che prima di tutto, a differenza del mondo germanico, quello mediterraneo conosceva il valore del rispetto per l’età, e che tale rispetto fosse anche direttamente collegato a quello dell’autorità. Le lingue germaniche hanno attinto da diversi lessemi greci o latini per esprimere tale equazione, quindi per ognuna di esse ne esisteva uno differente, ma tutti riflettevano comunque come per gli originali l’abitudine di usare il comparativo o il superlativo. Entrambe queste caratteristiche sono condivise da aat. hêrro che quindi probabilmente appartiene a questo gruppo come imitazione di lat. senior.

La parola ricorre già in fonti galloromane del VI secolo per designare coloro che esercitano l’attività secolare o spirituale, l’autorità di un signore sul suo dipendente o vassallus, per di più non appena hêrro sostituì frô come termine più moderno per il signore feudale secolare, in Francia dominus perse terreno nei confronti di senior. Ciò fa pensare ad un punto di partenza comune per sostituire un termine antico con uno più recente e al maschile (il femminile rimase invariato), l’uso diffuso di senior è un altro specchio della genesi del nuovo rapporto sociale del vassallaggio del VI secolo, e la sua adozione come hêrro in francone principalmente in Germania e lievemente anche in Inghilterra e Scandinavia ne è una naturale, diretta conseguenza dovuta dalla sempre più importante influenza che i Franchi stavano assumendo nel continente.

L’ordine con il quale sono state analizzate queste tre parole è anche quello con cui hanno visto

fortuna di utilizzo, alternandosi sequenzialmente. Hêrro fu probabilmente una creazione dei Franchi Merovingi nel VII secolo, ma poi richiese del tempo per estendere la sua portata da una superiorità relativa ad una assoluta. Questa parola raggiunse il significato finale dopo un lungo processo di perdita di utilizzo e importanza di hêrôsto il superlativo assoluto che la affiancava inizialmente, quando infatti quest’ultima perse il suo valore superlativo hêrro lo acquisì quasi automaticamente, pur mantenendo anche il relativo.

Nel confronto con hêrro sia frô che truhtin persero il loro valore di potere secolare. Frô si è andato man mano atrofizzando da gotico ad antico inglese, poi a antico sassone e a antico tedesco perdendo sempre più terreno con termini rivali (fra cui appunto hêrro). Pur avendo avuto una lunga vitalità per aver espresso il significato cristiano di “Dio”, truhtin ha avuto un declino analogo, mantenendo un aspetto vocativo ma perdendo completamente quello secolare. Il primo è caduto in disuso più anticamente del secondo perché era diventato un termine stereotipato di omaggio formale; originariamente inoltre aveva designato il signore della casa nei suoi rapporti con coloro che dipendevano da lui, inclusi gli schiavi, mentre truhtin non solo conservò sempre le primitive valenze di autorità, ma si estendeva ai seguaci che erano liberamente entrati in rapporto

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Lingua e storia dell’antico mondo germanico, di D.H. Green – Riassunto capitoli 1, 3-6 a cura di Enzo Santilli Corso di Filologia Germanica, a.a. 2011/2012, Università degli Studi di L’Aquila – contacts: [email protected] Pag. 25

col signore e potevano sciogliersi da questo legame in ogni momento. Essendo frô accompagnato sempre da termini legati allo schiavismo non si allacciava bene ai precetti cristiani, ecco forse perché truhtin venne adottato come termine cristiano per lat. dominus, ma rimane il fatto che al tempo delle prima documentazione in antico alto tedesco entrambi i termini avevano già iniziato la loro fase di declino.

Sui motivi che hanno portato all’indebolimento delle prime due parole e l’ascesa della terza si deve considerare il fatto che mentre il capo germanico può essere chiamato frô sia truhtin questo equilibrio originario fu incrinato dall’importanza della sua funzione militare nel periodo delle migrazioni. Di conseguenza truhtin si avvantaggiò dell’importanza negata a frô e dall’istituzione presieduta da truhtin che una nuova forma di regalità emerse alla fine delle migrazioni. È inoltre verosimile che frô sia stato scalzato dai cambiamenti sociali del periodo merovingico, dall’eclisse dei principes germanici tribali di fronte agli optimates Franchi, subendo le pressioni linguistiche che ebbe anche folk dal punto di vista giuridico-politico. Il declino di truhtin presenta un declino parallelo e quindi è forse dovuto alle stesse ragioni sociali, infatti come termine designante il capo di un séguito questo deve esser stato di gran voga e utilità durante le migrazioni ma al contempo deve aver perso la sua utilità durante il periodo coloniale. Rimase comunque legato a vari aspetti della vita cerimoniale cristiana ma non poté nulla contro l’inarrestabile ascesa di hêrro che alla fine estese la sua autorità semantica sull’autorità relativa e assoluta, secolare e religiosa.

Hêrro sostituì truhtin acquisendone i ruoli semantici dopo che truhtin ebbe sostituito frô acquisendone i ruoli semantici.