libro federico ancora · 2020. 10. 16. · sbagliano, si scoraggiano, si fermano… ma se tengono...

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Transcript of libro federico ancora · 2020. 10. 16. · sbagliano, si scoraggiano, si fermano… ma se tengono...

  • PIERFORTUNATO RAIMONDO (a cura di

    Federico

    ancora

    1

    a cura di)

    Federico

    ra

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    PRIMA PARTE

    LA FICTION

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    Immaginare ancora… Federico Albert1

    Ancora stento a crederci. Era là, nella penombra del mattino, inginocchiato davanti al suo

    altare. Stava immobile, nel silenzio irreale della chiesa, rotto in lon-tananza dai cinguettii variegati degli usignoli e dal regolare rintocco del campanile. Il tonacone nero era pulito ma a tratti liso, come le scarpe d’altri tempi che tradivano i tanti passaggi tra le strade ac-ciottolate del borgo e le puntate maleodoranti nella stalla.

    Era, evidentemente, assorto nei suoi pensieri. O meglio, aveva lo sguardo fisso lontano, molto più in là di quella Madre col suo Bam-bino, che lo osservava e, forse, ricambiava le sue attenzioni. Il volto serio, con una ruga che tradiva le preoccupazioni della mezza età… ma quel tempo era di pace, perché anche quando sembrava che tut-to stesse crollando, la Madre era là, e non avrebbe mai abbandona-to il suo bambino.

    Mi avvicinavo lentamente e con passo felpato, per timore di spez-zare quell’incanto. Chiaramente mi aveva sentito entrare e non ap-pena fui a portata di sguardo, mi salutò sorridendo.

    «Ciao! Ti stavo aspettando…». Ebbi un attimo di sussulto. Mi mancavano le parole. «Sa… Salve». La voce mi uscì soffocata. Mille dubbi affollavano la mente. Quel

    tipo assomigliava tanto a Federico Albert. Evidentemente era im-possibile fosse lui. Forse stavo sognando, ma non era il caso di darsi il classico pizzicotto per verificare. E poi come lo dovevo salutare? Sua santità? Sua beatitudine? Sua Eccellenza? Sì, l’avevano fatto vescovo, ma non aveva accettato. Teologo? Sì, quel titolo gli spet-tava, giacché si era laureato all’Università Regia di Torino. E poi come faceva ad aspettarmi? Stavo passando di lì per caso… Co-munque lui mi anticipò.

    1 «Immaginare ancora» è il titolo di una canzone scritta da Alberto Morella. L’idea del col-

    loquio con il nostro beato è mutuata dalla Lettera Pastorale «Don Bosco ci scrive» del car-dinal Carlo Maria Martini, pubblicata nel 1988. Lì il protagonista era San Giovanni Bosco, in occasione del centenario della sua morte.

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    «So i tuoi dubbi. Li hai sempre avuti… Non è male avere dei dubbi. Vuol dire che stai cercando la verità».

    Mi balenò l’idea di rispondere con una saggia battuta filosofica, ma ebbi la lucidità di aspettare. Dovevo adattarmi alla situazione strana. Lui continuò:

    «Non temere… non temere mai. Chi ha un dono – e tutti ne hanno – non deve temere mai di accoglierlo. E poi, magari, di condivider-lo».

    Pensai a me…. E pensai a lui. Già. Che fortuna ad avere un padre importante, ufficiale dell’esercito sabaudo; che fortuna avere già da chierico il posto tra i cappellani del re; che fortuna avere ricchezze di famiglia… o che responsabilità per un cristiano! Cogliere queste oc-casioni e trasformarle in occasioni di vita per qualcun altro… proprio quello che fece lui. Intanto intuivo un frammento di verità: mai invi-diare nessuno, perché al posto suo chissà cosa saremmo stati capaci di fare noi.

    «Cosa ci fai qui?». «Non so… esattamente…». «Evidentemente avevi un appuntamento con me». «Forse…» «O con Dio...» «O con qualcosa che chiamo Dio». «Certo. Dio è sempre immensamente più grande di noi. È sempre

    un mistero. Noi riusciamo a percepire qualcosa di Lui. Lo sfioriamo. Però, per farlo, bisogna prendere del tempo. Offrirgli del tempo. La cosa bella è che non è tempo sprecato. È tempo per noi… È tempo per gli altri».

    Parlava lentamente, ma si accorgeva che avevo bisogno di tempo per capire. Si spiegò meglio.

    «Voglio dire che la qualità di quello che fai per gli altri sta nell’attenzione e nel cuore che ci metti. Come fai, se sei sempre di corsa, oberato da tanti impegni e preoccupazioni? Il primo messag-gio che ho da darti è questo: GUARDA… Osserva… Ascolta… alla lu-ce del sole, con gli occhi della Madre, con l’affetto smisurato di… colui che chiamiamo Dio».

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    Bravo, si era adeguato al mio linguaggio. Cosa che non è da tutti. Anche se qualcosa mi diceva che lui lo conosceva bene, il Dio. Vole-vo dire qualcosa, ma m’incespicai mentalmente. Dovevo dargli del lei? Del tu? Per fortuna mi lesse nei pensieri.

    «Puoi darmi del tu, è più facile. Siamo tutti figli di Dio, no? E puoi chiamarmi vicario. Mi piace tanto, perché mi ricorda che ciò che faccio io, lo può fare qualcun altro. Anzi, mi ricorda che quello che faccio io, lo faccio a nome e per conto di Qualcun altro.

    Sai, ti confesso una cosa. Quando sono caduto dal ponteggio, il 28 settembre 1876, ho sentito la sofferenza di tutta la gente che mi amava. Quanto hanno pregato, affinché io restassi con loro. E io ce l’ho messa tutta, fino a quando ho capito: non ero io indispensabile, ma era più importante il messaggio che avevo cercato di far vivere. Quello che oggi chiamate umiltà, per me era mettere tutto nelle mani di Dio. Per questo ho consumato le ginocchia e ho sempre chiesto ai miei parrocchiani di pregare. Così anche il mio cuore ha capito che era il tempo di passare la mano. L’anima lo sapeva già. È lei che aveva scelto di andare da Dio».

    Mi sembrò una confidenza di non poco conto. E non mi sembrava giusto discutere con lui di teologia. Io pensavo che fosse Dio a deci-dere la nascita e la morte. Già, e come l’avremmo messa con il dono della libertà? Non era il dono più grande di Dio, colui che ama in modo incondizionato? Ma non era questo argomento che mi pre-meva. Incominciavo a prendere coraggio.

    «Senta… cioè! Senti…» «Dimmi. Puoi chiedermi tutto ciò che vuoi». «Eh… magari. Ma forse sono cose troppo banali…» «Se mi chiedi per che squadra tifo, dovrei risponderti tanto da

    prete… tipo: “per gli uomini più fragili e sofferenti”…» «Allora mi sento coinvolto». «Già, mica starò parlando con te a caso…» Troppo furbo. Quest’uomo era troppo furbo. «Su». «Forse devo chiederle… chiederti scusa. Anch’io tanti anni dopo

    ho raccolto un pezzetto del tuo testimone. Mi ricordo dei festeg-giamenti 100 anni dopo il tuo trapasso, quando avevo 8 anni e il

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    maestro ci aveva raccontato la tua storia. Ed io, negato nel disegno, avevo fatto orrendamente proprio la scena che mi hai descritto… o quando a 16 anni sono andato a Roma per la tua beatificazione. L’enorme dipinto che era stato scoperto sulla facciata di San Pietro con te che cammini davanti alla parrocchia… A proposito, leggendo la tua storia mi è proprio dispiaciuto che tu non sia mai andato a Roma, come sognavi».

    «Sì, è vero, mi sarebbe piaciuto. Ma ho capito subito che don Foe-ri aveva ragione. Quelli che d’istinto (o a ragione) identifichi come oppositori, poco simpatici, o addirittura nemici, sono quelli che hanno più cose da insegnarti. Solo che spesso non siamo capaci di cogliere le loro lezioni. Quella volta ho capito: dal paradiso avrei visto Roma miliardi di volte. Quanti momenti preziosi avrei fatto perdere ai fe-deli della mia zona, in quel periodo? Quel viaggio mi avrebbe dato qualcosa di spendibile per loro? Probabilmente no. Quindi, nessun rimpianto. È stato importante così».

    Ascoltandolo mi accorsi che eravamo usciti dal tema. Mi stavo perdendo nei ricordi. Si vede proprio che sto invecchiando. Ma lui aveva tutto chiaro e ricucì i pensieri.

    «Tutte le cose stanno in un disegno, il disegno per cui sei venuto al mondo, il disegno che dà senso alla tua vita. Noi costruiamo i sin-goli pezzi di un puzzle, e ci sembra che non combacino mai. Solo Dio conosce il disegno da sempre, gli è sembrato bellissimo anche se imperfetto, ma ce lo farà vedere solo alla fine. Gli uomini spesso sbagliano, si scoraggiano, si fermano… ma se tengono accesa la fiammella che illumina la meta, sanno riprendersi, ricominciare, fa-re ancora qualcosa di buono. È tutto quello che ti viene chiesto. È questo che Dio benedice».

    Parlava come un libro stampato. Solo che erano pensieri che usci-vano dal cuore. Mi rammaricavo del fatto che non potessi prendere appunti. Difficilmente mi sarei ricordato le sue parole. Ma mi aveva raccomandato di non temere, quindi allontanai queste perplessità.

    «Quindi non mi concederai nessun segreto sul mio futuro…» «Il futuro è tuo… ogni momento lo stai costruendo. Ogni scelta

    condiziona quella successiva. Ma, dal tuo passato, ormai hai com-

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    preso che i sogni si possono realizzare. Se poi erano quelli di Dio, re-steranno nella storia. O illumineranno le vite di molti».

    Si fermò un attimo, apparentemente assorto in nuovi pensieri. Lo sguardo era rivolto verso la Madre col Bambino e il volto sembrò to-talmente disteso, quasi… beato! Notando il sarcofago di marmo, mi uscì spontaneo:

    «Non ti dà fastidio essere chiamato in causa, ancora oggi? Non è un problema essere “pregato”?»

    Mi pentii subito della domanda. Forse stavo prendendo troppa confidenza.

    «Non dipende da me. Io sono, io vivo, io amo, a prescindere dal fatto che gli altri se ne accorgano, lo apprezzino o lo odino. Lasciarsi condizionare toglierebbe a chi ha bisogno di te la possibilità di esse-re visto, ascoltato, recepito. È un prezzo che non dobbiamo far pa-gare, mai».

    «Qualcuno ha bisogno di miracoli, sei sicuro di aver fatto abba-stanza? – e poi, quasi a giustificare la mia impertinenza – Mi metto nei panni dei miei allievi, e qualcuno ti direbbe così…».

    «I “miracoli” sono una curiosità degli umani, che hanno bisogno di toccare e di vedere. I “miracoli” veri sono i piccoli gesti di affetto di ogni giorno. Tu ti riferisci ai fatti straordinari, dove l’inspiegabile av-viene in tempi e circostanze apparentemente impossibili. Dio vi ha concesso anche questa possibilità, che sfruttate però così raramen-te!

    Gesù ci ha spiegato che ci vuole fede, digiuno e preghiera. Tu ne vedi tanta in giro?

    C’è ancora un altro motivo: non sempre l’anima e il corpo voglio-no ciò che desidera la mente.

    Per questo l’unico consiglio è: continuare ad avere fiducia. Anche quando non si comprende. Continuare a riempirsi di speranza, an-che quando tutto sembra remare contro. E continuare ad amare, cioè a mettere quello che si è e che si ha a disposizione degli altri. Sono le cose che restano. Come dice San Paolo, che tu leggevi alle porte di questa chiesa a 13 anni, ritornando in collegio. È la conclu-sione della tua tesi, lo so. Prima Lettera ai Corinti, capitolo 13, ver-setto 13. Il tuo numero. Come 13 sono le lettere del tuo nome. Nien-

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    te avviene per caso… Però ricorda: un conto è sapere, un conto è vi-vere. Ma c’è tutta la vita per imparare a Vivere».

    Ok. Bisognava rifiatare. Quel tipo sapeva un po’ troppe cose. Che fosse l’Albert o no, diceva frasi molto belle, che forse avevo già den-tro. Solo che la sua presenza mi inchiodava alle mie responsabilità. Veramente l’unica parola che potevo dire era: «Scusa… non sono degno di queste cose».

    «Coraggio. So che vuoi sapere qualcosa di più per la tua comunità. Siete sempre alla ricerca di qualche segreto, di qualche stimolo, di qualche rivelazione».

    «Ma… Tu sei contento di noi? Siamo la tua parrocchia, ma dopo tanti anni cosa resta della tua religiosità, del tuo entusiasmo, della tua carità?»

    «Io sono sempre contento. Sono contento di voi, dei vostri pro-gressi, delle possibilità della vita moderna. Sono contento dei frutti di bontà che vedo in milioni di gesti, ordinari, umili e silenziosi. Oggi vedo molto meglio, perché leggo nei cuori. Conosco le storie, le fa-tiche, gli ostacoli di ogni persona voglia incontrare. Nessuno, nella vita terrena, lo può fare. Nemmeno il migliore psicologo. Vedo però anche le trappole del vostro mondo: i pericoli del materialismo, dell’egocentrismo, della mancanza di un senso alla vita. Sono questi i cerberi che attanagliano le vostre teste. So anche che dovrete ri-conoscerli voi. Io non posso fare nulla, perché sono gli uomini a do-ver comprendere».

    «Ce la faremo a salvarci?». «Voi siete salvi. Lo ha fatto Cristo per voi. Non c’è più nulla, nem-

    meno la morte, anche quella più orribile e ingiusta, che può annien-tarvi. Voi potete far crescere il mondo che vi è stato dato in prestito. Cioè, a ciascuno per un certo periodo di tempo. In questo tempo avete la possibilità di agire per la salvezza quotidiana del mondo».

    «Tu, ai tuoi tempi, hai fatto delle cose meravigliose per Lanzo. Dalla chiesa, alle scuole, all’orfanotrofio, all’educandato… e poi le tue prediche, che affascinavano la gente!».

    «Sì, queste cose fanno tanto biografia. Peccato che nelle biografie non c’è scritto quanta fatica per mettere insieme quattro soldi, quanta pazienza per convincere la gente, quante amarezze per non

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    essere capito, a volte neppure dai preti o da tuo fratello… ma tutto nella luce del Signore tornava nel giusto alveo, perché la Stura con-tinuava a portare la sua acqua verso il mare… a sciogliere, a lavare, a donare pietre e sabbia per costruire».

    «Come hai fatto a capire ciò che si poteva fare? Come hai fatto ad esserne così sicuro da superare tanti ostacoli? Come hai fatto a con-vincere delle giovani ad essere suore, a servizio della tua causa?».

    «Sì, forse c’è un piccolo segreto, una cosa che gli uomini non do-vrebbero smarrire mai. Si tratta – tienilo a mente – di IMMAGINA-RE. Le cose non nascono così, dal nulla, da sole. Ci vuole qualcuno che le faccia. Che le coltivi con pazienza. Ma prima di tutto che le immagini. Questo abbiamo fatto nell’Ottocento torinese. Tanti uomini hanno immaginato qualcosa che non c’era prima. Don Bo-sco col suo oratorio, Cottolengo con i suoi malati, Murialdo con i suoi studenti… Abbiamo guardato con attenzione, abbiamo prova-to compassione, abbiamo immaginato davanti al Signore cosa po-tesse rispondere ai bisogni essenziali del nostro prossimo. Poi ab-biamo agito. Tu sai che non tutto ciò che ho immaginato è stato re-alizzato. Ad esempio la colonia agricola, a cui tenevo tanto, per i ra-gazzi maschi di Lanzo. Era una cosa che le suore non avrebbero po-tuto portare avanti, qui. Ma in Africa, in Guatemala, o chissà… ogni immaginazione davanti a Dio porta frutto, prima o poi».

    «Sai che adesso ci stiamo chiedendo cosa mantenere delle tue opere, su cosa investire… Tu cosa ne dici?»

    «Sono sicuro che saprete fare la scelta più opportuna. Non fate troppe considerazioni economiche, pratiche, razionali. Sappiatele fare davanti a Dio. Dio predilige i piccoli e i bisognosi. Dio investe sui poveri in spirito. Dio ascolta il grido di chi non ha nulla. Ma spesso parte da chi ha. Io ho avuto tantissimo, dalla vita. Per questo ho po-tuto restituirlo».

    «Tu sapevi fare un sacco di cose, praticamente tutto: insegnare, dipingere, costruire, coltivare… ».

    «Nessuno sa fare tutto, lo sai bene. I salesiani, ad esempio, sape-vano fare musica magnificamente; io meno. Quando sono venuti i ministri del Regno d'Italia a Lanzo, nell’agosto 1876, don Bosco ha preso la scena. Forse lì la mia anima ha capito che era tempo di la-

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    sciare andare. Il futuro, anche dei ragazzi, era comunque in buone mani. Il terreno di mio fratello era andato al progetto migliore.

    Quello che voglio dirti è che INSIEME si può rispondere alla tua domanda. Insieme si può capire quello che è meglio. Forse è più dif-ficile stare insieme davanti a Dio. Ognuno ha il suo modo di vederlo. Ma se tutti si sono fermati almeno un po’ davanti a Lui, nel proprio modo, con la propria fede, Lui ispirerà la visione più corretta. È così dalla Pentecoste, dalla discesa dello Spirito Santo, e la Chiesa, no-nostante i suoi innumerevoli errori e sbandamenti, è ancora qui a testimoniare il valore dell’INSIEME».

    Quante cose mi aveva lasciato… mi venne in mente, come si fa davanti alle persone importanti, che gli avevo già “rubato” troppo tempo. Che sciocco, lui aveva tutta l’eternità! Forse ero io a non a-vere più tempo di restare lì.

    «È stato bellissimo parlare con te...». «Ma ora devi andare, vero?» «Sì, forse dovrei. Ma… Ti posso ritrovare?» «Certamente. Dovrai mettere gli occhiali giusti, però». Sì, forse erano proprio gli occhiali nuovi ad avermi dato alla testa. «Scusa, Federico, ma tu cosa vedi guardando me? Qual è il mio

    posto nel mondo?» «Lo sai bene, l’hai scritto tanti anni fa. «Continuare a cercare

    l’Infinito. Sfiorarlo. Raccontarlo». I ragazzi ti riconoscono che sei bravo a raccontare. Forse questo è il tuo specifico. La cosa ti frustra un po’. Ti sembra di non concludere nulla. Ti sembra di dire parole, non sempre coerenti. Però anche questo è importante. Mio padre diceva che le sentinelle e i porta ordini sono decisivi in ogni esercito. Forse non avrebbero ucciso tanti nemici. Ma facevano vincere le guerre.

    Io che ho scelto di combattere per un'altra milizia, quella di Dio, so che il tuo piccolo contributo esiste per un motivo. E mi auguro che voglia continuare a darlo. Anzi, so che sarà così».

    Lo guardai con riverenza e affetto. Mi aveva trattato da figlio a-mato, anche se mi sentivo un po’ come figliol prodigo, senza essere convinto di riuscire a convertirmi sul serio. «Un passo per volta», mi

  • ripeteva spesso la donna del mio cuore, che mi aveva stranamente convinto all’impegno diretto nelle sue opere.

    «Grazie… Vicario» – riuscii a dire con convinzione, mentre stavo per allontanarmi. Forse avrei dovuto stringergli la mano ma… avevo paura scomparisse, com’è giusto che sia.

    Lo guardai per l’ultima volta. Il volto vagamente austero si era sciolto in un sorriso.

    Genuflettendo al fondo della chiesa ridiedi un’occhiata verso l’altare. La luce del sole ormai illuminava a giorno il presbiterio dserto. Evidentemente era tutto nei miei pensieri. Forse avevo fatto quello che aveva suggerito lui… guardare… immaginare… raccontre. Il mio modo per essere vivo.

    Uno strumento di Dio per rendersi Vivo.

    22/7/12, festa di Santa Maria Maddalena

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    la donna del mio cuore, che mi aveva stranamente

    riuscii a dire con convinzione, mentre stavo per allontanarmi. Forse avrei dovuto stringergli la mano ma… avevo

    Lo guardai per l’ultima volta. Il volto vagamente austero si era

    Genuflettendo al fondo della chiesa ridiedi un’occhiata verso l’altare. La luce del sole ormai illuminava a giorno il presbiterio de-

    entemente era tutto nei miei pensieri. Forse avevo fatto quello che aveva suggerito lui… guardare… immaginare… racconta-

    Maria Maddalena

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    SECONDA PARTE:

    LA STORIA

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    a) Ai tempi di Federico

    Per capire il mondo in cui Federico Albert agiva a Lanzo occorre sgombrare la mente da tutta una serie di cose d'uso quotidiano. Niente cellulari, niente computer, niente televisori, niente frigorife-ri, niente cucina a gas, niente acqua corrente; niente elicotteri, nien-te automobili, niente ferrovia; niente mutua, niente cassa integra-zione, niente difese sindacali, niente contratti a tempo indetermi-nato...

    Lanzo non era il comune maggiore delle Valli. In un territorio di circa 10 kmq c'erano 2200 abitanti (540 famiglie). Il nucleo principa-le delle abitazioni era costruito sulle pendici del monte Buriasco. Al-cuni edifici contenevano preesistenze tre/quattrocentesche lungo la contrada del Borgo (attuale via don Bosco), lungo la contrada della Villa (via sant'Ignazio) e la contrada delle Cortasse (via Fontana del Monte). Risalivano all'Ottocento le contrade delle Teppe e delle Cantarane (via Cibrario e via Diaz rispettivamente), e alcune spora-diche costruzioni lungo via Roma (ad es. la casa del peso pubblico, del 1821), dopo l'edificazione del ponte Mosca sul Tesso (1823-1826). È del 1843 la strada provinciale Lanzo-Germagnano, costrui-ta sulla precedente mulattiera (oggi via Umberto I − via Leopoldo Usseglio), che necessitò di lavori di esproprio e parziale distruzione di fabbricati, attorno alla Torre Civica (prima i carri dovevano risalire via Cibrario e via don Bosco).

    Così don Ponchia descrive la situazione urbanistica: «Misere e po-vere le case del borgo tra le quali s'ergevano vecchi fabbricati, ri-cordi dei tempi che furono e delle signorie feudali che ivi successi-vamente dominarono; tra le case le serpeggianti caratteristiche «chintane», viuzze strette, tortuose, oscure, che attraversavano la parte più antica del paese sormontate talvolta da archi colleganti una casa all'altra e più spesso da lunghe volte facenti corpo con le costruzioni laterali».

    Le case sulle vie avevano spesso bottega al pian terreno e camere al primo piano; i wc erano in esterno, sul balcone. Piccole costruzio-

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    ni rurali erano sparse in tutto il restante territorio2, solitamente do-tate di stalla e di fienile. La stalla era anche il luogo più caldo della casa, quindi in inverno il soggiorno migliore. Di sera era il luogo di riposo, riempito da racconti, dai rammendi delle donne e dalla pre-ghiera del rosario.

    Lanzo era centro di mercato bisettimanale al quale convenivano in media 3.000 persone; nonché di una fiera primaverile e di una au-tunnale che richiamavano dalle tre valli e dalla pianura di Cirié ben 15.000 persone. Ciò spiega l'esistenza fin d'allora di tre farmacie, di dieci alberghi e osterie, di sette caffè, di dieci negozi di chincaglierie e di dodici rivendite di cereali, legumi e farine. Affluivano sul merca-to i prodotti agricoli locali nonché tessuti di canapa e i più diversi prodotti della lavorazione del ferro, dai chiodi alle serrature, alla più varia utensileria e agli strumenti di campagna e di mestieri, che u-scivano da una ventina di fucine oltre che da quelle operanti nelle valli3.

    I bambini e le bambine crescevano in fretta, contribuendo alla cu-ra dei fratelli e delle sorelle, e all'aiuto ai genitori. Se la famiglia non aveva altre urgenze, potevano frequentare la scuola elementare, nei mesi invernali; parallelamente aiutavano in casa per pulizie e la-vori nei campi. Dobbiamo immaginarli con un vestito buono (do-menicale) e un vestito ordinario, molto robusto e spesso rattoppa-to, per il quotidiano; ai piedi gli zoccoli. Intorno ai 10-11 anni i ra-gazzi andavano a fare i «vaché», cioè ad aiutare a condurre le bestie al pascolo o venivano mandati a fare i garzoncelli; le bambine spes-so venivano mandate in città a fare le serve nelle famiglie benestan-ti. Ciò consentiva alle famiglie di origine di non doverli più mantene-re. Ovviamente per questi lavori non erano retribuiti, ma loro cre-scevano.

    Tra il 1827 e il 1857 esistevano le scuole (fino alla quinta ginnasia-le) presso il collegio, usato dai giovani studiosi delle valli e dei paesi limitrofi, spesso avviati alla carriera ecclesiastica. Il comune pagava 2 Francesco Arrigo, Infrastrutture e trasformazioni urbane a Lanzo tra XIX e XX secolo. 2a

    miscellanea di studi storici sulle valli di lanzo in memoria di Ines Poggetto, Società storica della Valli di Lanzo C, Lanzo Torinese 2007. 3 Giovanni Donna d'Oldenico. In Federico Albert ed i suoi tempi 1820-1876, Società Storica

    delle Valli di Lanzo XXIV, Lanzo Torinese 1978.

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    professori e maestri. Tra il 1831 e il 1844, grazie al rettorato di don Giovanni Salomon, si ebbe «il rifiorire degli studi e lo splendore del convitto». I suoi successori non riuscirono a mantenere il livello, tanto che, ad esempio, nel 1857 in quinta ginnasio vi era un solo a-lunno, oltre tutto ritirato durante l'anno. Onde evitare di pagare gli stipendi senza che vi fossero studenti a frequentare, venne soppres-so il convitto e le scuole ginnasiali (oggi dette «secondarie»). Rima-sero solo le scuole elementari maschili. L'istruzione femminile ele-mentare invece era stata affidata dal 1850 alle suore della carità di santa Antida Thouret, sotto la cura del municipio e dell'ordine Mau-riziano.

    I giovani più fortunati imparavano un mestiere (fabbro, falegna-me, fornaio...) o portavano avanti l'attività di famiglia; le giovani a un certo punto si sposavano. A loro spesso toccava, oltre alla cura dei figli e delle faccende di casa, il lavoro nei campi: poche cose, se-gale, patate, insalate... e la cura di pochissimi (a volte uno o due) a-nimali: capre e una mucca nella migliore ipotesi. D'altronde, era po-lenta o zuppa il piatto principale (e spesso unico).

    I maschi adulti più intraprendenti emigravano verso la città (o an-cora più lontano, in altri continenti) per il miraggio di un lavoro mi-gliore; quando lo trovavano mandavano a casa i soldi. A metà Otto-cento cominciò a formarsi «una classe di veri proletari, non viventi se non del prezzo della giornata, esposti quindi a tutte le vicissitudi-ni, a tutte le eventualità sinistre»4. Le giornate lavorative erano, al-lora, retribuite da 40 a 60 centesimi: paga insufficiente a vivere, so-prattutto perché certi lavori si potevano svolgere soltanto quando il clima e le richieste lo permettevano.

    Se capitavano guerre durante i lunghi periodi di leva, molti mori-vano al fronte. Per questo c'era un buon numero di vedove e di or-fani, più in difficoltà di altri.

    Inoltre, soprattutto durante i mesi invernali, il passatempo più gettonato era la frequentazione delle osterie; l'alcool era causa di ubriachezze e ulteriori problemi di salute. A questo proposito, non tutti si potevano permettere i pochi medicinali disponibili, se non

    4 Luigi Clavarino, Saggio di Corografia statistica e storica delle Valli di Lanzo, Tipografia Gaz-

    zetta del Popolo, Torino 1867

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    contraendo debiti − ad alti tassi d'interesse − che contribuivano a rovinare le famiglie.

    Un aspetto positivo era l'ospedale dell'ordine dei santi Maurizio e Lazzaro, fatto ampliare da Carlo Alberto che ne aveva portato la capacità ricettiva a 50 letti. In esso facevano servizio le suore di san-ta Giovanna Antida.

    La città poteva essere raggiunta in sei ore di diligenza, più o meno lo stesso tempo del percorso fatto a piedi. I giovani sacerdoti che partecipavano agli Esercizi spirituali a sant'Ignazio spesso partivano nottetempo, verso le tre di mattina, e compivano il viaggio come un pellegrinaggio. La ferrovia, inaugurata dal presidente del Consiglio del Regno d'Italia Depretis, dai ministri Zanardelli e Nicotera il 6 a-gosto 1876, arrivò quindi a Lanzo a un paio di mesi dalla morte dell'Albert.

    Ancora don Ponchia: «La popolazione, come in genere le popola-zioni di montagna dure e ferrigne al pari delle rocce sulle quali sono costruiti i loro abituri, indifferente per carattere e immiserita dalle tristi condizioni dei tempi e dalle scarse risorse locali, era assai fred-da e apatica per le cose di Dio e della religione e per gli interessi del-lo spirito, e necessitava grandemente di un pastore illuminato, ze-lante, operoso, caritatevole e santo».

    Federico giunse a Lanzo il 18 aprile 1852. La sua prima preoccupa-

    zione fu la «casa» di Dio, onde rendere evidente l'onore che si dove-va a Dio e consegnare ai parrocchiani lo spazio che meritavano, giacché, specie nei giorni di festa, la chiesa parrocchiale era «insuf-ficiente a contenere la popolazione». Federico la trovò «ridotta in tale stato di decadenza e di squallore da parere una vera topaia»5.

    La prima idea fu di costruire una chiesa nuova sotto il borgo, tra l'attuale via Cibrario e via Umberto I. Ma ci furono «ostacoli insupe-rabili». Quindi, già nell'estate del 1852 fece riadattare i locali dell'antica sacrestia (a destra dell'altare maggiore), che divennero la cappella dedicata al Cuore Immacolato di Maria, dove la gioventù maschile avrebbe potuto assistere alle funzioni. È del 1855 la richie-sta di un sussidio al re per l'ampliamento della cappella del Rosario 5 Giuseppe Ponchia, da La voce dell'Immacolata

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    (a sinistra dell'altare maggiore), da dedicarsi alla gioventù femmini-le. Nel 1860 chiese il permesso di indire una lotteria per restaurare il presbiterio e costruire il coro retrostante. In seguito completò le due navate laterali e disegnò la facciata prospiciente la piazza, che venne ultimata dopo la sua morte. L'idea delle processioni a Stura per reperire il materiale - viste le ristrettezze economiche dei lanze-si - non era così originale. Stupisce che il Vicario fosse il primo a sporcarsi la veste, guidando la processione con una delle pietre più pesanti. E che buona parte della spesa dei lavori fosse a suo carico. Egli «investì» di propria tasca 60.000 lire nei restauri, per l'epoca una cifra ingente. Senza contare il lavoro artistico: dipinse figure, fregi e ornamentazioni; tagliò paramenti e stoffe, disegnò ricami, fece sculture e intagli. La sua generosità gli impedì di dire no ai par-roci di Mathi, Coassolo e Gisola che richiesero il suo aiuto nelle pro-prie chiese.

    Non appena l'Albert giunse a Lanzo il comune gli affidò la man-sione di provveditore agli studi locale sia per le scuole maschili che per quelle femminili. «Visitava le classi, stabiliva premi, preparava i temi per gli esami e provvedeva del suo, o almeno contribuiva lar-gamente, all'acquisto dei premi; e, soprattutto, vigilava attenta-mente perché la scuola riuscisse veramente educatrice. Per le circo-stanze solenni poi, il Venerabile componeva poesie e dialoghi molto appropriati e pieni di genialità» (Ponchia). Tutti i verbali del comune dal 1852 al 1876, riguardanti le scuole di Lanzo, contengono le più ampie ed incondizionate lodi del sindaco e dei consiglieri al teologo Albert «che regge le sorti della scuola con tanto lustro al paese e tanto vantaggio della gioventù di ambo i sessi». Il 29 aprile 1856, secondo Donna d'Oldenico, fu nominato dalla Divisione Ammini-strativa di Torino «provveditore agli studi mandamentale». «Così tenne nelle sue mani, o meglio nel suo grande cuore, i destini della scuola e dell'istruzione della gioventù lanzese e, benché tanto preso dalle cure del ministero sacerdotale, diede ad essa il meglio delle sue energie».

    Federico si rese conto che era necessario alleviare le mamme dal-le cure dei piccoli, giacché dovevano attendere ai lavori di casa e di campagna, e indirizzare al bene i bambini fin dalla tenera età. Così

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    ideò l'asilo infantile, o meglio la «prima elementare preparatoria», aperta ai bambini d'ambo i sessi dai quattro ai sei anni. I posti gra-tuiti furono inizialmente (1858) 30: 15 per i maschietti e 15 per le bambine. Gli altri iscritti pagavano una lira al mese. Il municipio contribuiva con un sussidio annuale. Già nel primo anno ci furono 70 iscritti.

    Sempre in quell'anno don Foeri, impressionato da casi dolorosi di miseria in cui versavano persone del paese, senza pane, senza tetto, prive di tutto, ebbe l'idea di aprire un ricovero gratuito per gente che si trovasse nell'impossibilità di pagare un affitto. Il Vicario gli osservò che un'impresa del genere avrebbe potuto facilmente dar luogo ad abusi e risentimenti: molti avrebbero preteso di aver dirit-to all'alloggio gratuito, e lo spazio era limitato. Considerando d'altra parte l'urgente bisogno di tante povere orfanelle, propose di aprire per loro un ospizio, intitolato all'Immacolata. Don Foeri accettò e offrì allo scopo una casa di sua proprietà. Per provvedere al sosten-tamento l'Albert pensò a lavori di cucito, ma ci fu l'immediata oppo-sizione delle sarte del paese, timorose della possibile concorrenza. Quindi propose la tessitura della tela. I locali dell'ospizio inizialmen-te avevano una cucina/refettorio e un laboratorio al pian terreno. Al piano superiore vi era una piccola cappella e il dormitorio. La prima orfana venne ospitata dal 4 aprile 1859. Alla morte di Federico era-no circa 40.

    Oltre alla tessitura della tela, successivamente, vennero eseguen-dosi all'Ospizio lavori di molti generi: maglieria a mano ed a mac-china, veli al tombolo, guanti, fiori artificiali, lavori all'uncinetto e paramenta da chiesa. Nei lavori di cucito venivano impiegate quelle tra le orfanelle (e ve ne furono fin da principio) che pagavano una piccola retta (lire dieci mensili) allo scopo di essere addestrate nei medesimi. Le altre orfane venivano impiegate nella tessitura e, per lo spazio di più anni, avendo il Vicario acquistato apposito posto sul-la piazza del mercato (piazza Gallenga) ogni martedì vi si preparava il banco e vi si vendevano, a prezzo fisso, le telerie fabbricate dalle orfane. Molto lavoro fu, più tardi, fornito all'Ospizio dal collegio sa-lesiano: bucato, rammendo, confezione di corredi, di pagliericci, materassi, coltroni, ecc.

  • 19

    Da tempo l'Albert desiderava occuparsi della gioventù maschile, istituendo in Lanzo un oratorio sul tipo di quello di don Bosco a To-rino, dove aveva anche predicato e insegnato il catechismo. Il suo ideale andava anche più in là: non solo oratorio festivo, ma scuole professionali adatte ai giovani della regione lanzese. Così iniziò a pensare a una sezione maschile dell'orfanotrofio ove fanciulli e ra-gazzi orfani ed abbandonati potessero trovare assistenza, educa-zione, istruzione. I giovani sarebbero stati addestrati nella profes-sione di fabbro. L'industria del ferro era tra le principali delle tre val-late, dove, un po' dappertutto, erano sparse fucine che fabbricava-no chiodi e oggetti svariati. Fu don Foeri a dissuaderlo per i pericoli morali che potevano nascere dalla vicinanza dei due orfanotrofi.

    Nell'ottobre 1860 il teologo Albert con l'offerta più alta (lire 195), prese in affitto per un triennio, il fabbricato del collegio ed annessi. Aveva iniziato a maturare il piano ambizioso di riaprire il convitto municipale, ripristinare in esso le scuole ginnasiali e affidare il tutto, comprese le scuole elementari maschili, a don Bosco ed ai suoi pri-mi salesiani. Intanto lavorava per convincere il consiglio comunale, non così propenso a lasciare a don Bosco la gestione delle scuole, nel clima anticlericale di quegli anni. Federico giunse a minacciare le sue dimissioni da Lanzo, pur di convincere i lanzesi, dopo un litigio tra due chierichetti finito col ferimento di uno di loro, durante la no-vena di Natale del 1863. E si impegnò anche a riadattare a sue spese alcuni locali del collegio. L'accordo venne siglato nel 1864 e otto giovani salesiani si stabilirono a Lanzo nella seconda metà di otto-bre dello stesso anno.

    Dalle suore della carità di santa Giovanna Antida che gestivano le scuole elementari femminili intanto venne il consiglio di aprire un educandato femminile per le giovani che volevano continuare gli studi. Venne aperto nell'ottobre del 1866 accanto all'ospizio. In esso si teneva il corso complementare o preparatorio alla scuola Norma-le (la quale era l'istituto magistrale di allora), della durata di 3 anni. Al termine del terzo anno di scuola Normale, in seguito al cosiddet-to esame di patente superiore, veniva rilasciata la patente di mae-stra, con cui si insegnava nella scuola elementare.

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    Nel 1868 la grossa prova da superare fu l'improvviso ritiro delle Suore (14 settembre) che gestivano l'educandato, le scuole elemen-tari e l'asilo. L'Albert chiese aiuto al vescovo di Ivrea, che lo indirizzò al canonico Anglesio, successore del Cottolengo. Ma questi gli pro-pose di fondare una congregazione ad hoc per le sue opere. Ne affi-dò la cura temporanea a laiche di fiducia e a partire dall'ottobre scelse e formò alcune persone che potevano avere la vocazione re-ligiosa. Il 14 ottobre 1869 ci fu la vestizione delle prime cinque suo-re. L'anno successivo le postulanti furono sei.

    Intanto all'inizio del 1869 aveva ritentato di convincere don Bosco alla costruzione dell'oratorio con convitto per i poveri e scuole pro-fessionali domenicali e serali. Procurò il terreno, convincendo il fra-tello a cederglielo. A un certo punto della costruzione si avvide del cambio di destinazione d'uso: i salesiani avevano preferito dedicare i locali al collegio stesso. Fu un duro colpo, ma la tenacia piemonte-se ebbe il sopravvento.

    Se la scuola professionale rischiava di urtare gli artigiani (secondo l'avvertimento di papa Pio IX a don Bosco), il Vicario pensò alla campagna. Progettò una colonia agricola, che doveva essere il pri-mo anello di una catena di altre colonie, con dieci giovani ciascuna, numero necessario per conservare un ambiente familiare, per cura-re la formazione dei singoli e per trovare più facilmente terreni da coltivare. La chiamò «Piccola Colonia Agricola sotto il patrocinio di san Giuseppe», per giovani poveri e abbandonati con annesso ora-torio festivo per i giovani del paese. Nel 1873 la signorina Courtial aveva acquistato una casetta con pezzo di terreno in prossimità del-la parrocchia. I lavori di adattamento dell'edificio e la costruzione di una cappella in onore di san Giuseppe durarono tre anni. Il finan-ziamento venne anche grazie a una lotteria nel 1875. Nel 1876 prese a funzionare. I giovani si esercitavano sui poderi della parrocchia, ma il vicario era già in trattative con diversi agricoltori del paese perché accettassero i giovani coloni. Si fissò la data della benedizio-ne della cappella il 15 ottobre. L'Albert risaliva ogni giorno sui pon-teggi per gli ultimi ritocchi alla decorazione da lui curata. A fine an-no contava di aprire, finalmente, l'oratorio festivo per i giovani.

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    Alla sua morte erano in corso delle pratiche col signor Geninatti Pietro, padre di una delle prime suore, per costruire in una sua casa, annessa alla colonia agricola, una piccola infermeria per i poveri. I-nizialmente erano previsti quattro uomini e quattro donne che, o rifiutati dall'ospedale o particolarmente riluttanti ad entrarvi, si fos-sero trovati senza casa e nell'abbandono; ne avrebbe affidata l'assi-stenza alle suore da lui fondate.

    Federico fu indubbiamente «nel mondo» e per il mondo, forse proprio perché non era «del mondo» (Gv 15,18): la sua forza era nel-lo sguardo perennemente rivolto a Dio. Così rese la sua azione ec-cezionale e, certamente, degna di Lui.

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    b) Una vita in cinque quadri

    1. Le solide radici

    Il segreto di un albero maestoso sta nelle proprie radici, che gli

    consentono di nutrirsi anche quando l'acqua scarseggia e lo an-

    corano al terreno nelle peggiori intemperie.

    La famiglia

    Papà Giovanni Luigi, di Chateau Beaulard (frazione di Ulzio) è un uf-ficiale di Stato maggiore dell'esercito sabaudo. Da lui Federico as-sume il rigoroso senso del dovere, la capacità di guida, l'intelligente lungimiranza. Mamma Lucia Riccio, di Giaveno, è la figlia di un notaio. Da lei e dal-le sorelle prende la sensibilità, il gusto e le capacità artistiche, l'em-patia e la cura del prossimo. Il fratello Alessandro, unico rimasto dei 5 fratelli e sorelle, sarà suo fedele confidente e sostenitore.

    Il territorio

    Piemontese d.o.c., Federico è un autentico bogia nen. L'espressione (= non mi muovo!) pare derivi dal conte di Bricherasio che con 4.800 soldati fermò 40.000 francesi nella battaglia dell'Assietta il 19 luglio 1747, rifiutando l'invito dello stato maggiore sabaudo di ritirarsi su posizioni più favorevoli. Fanno eco a questa espressione le parole della poesia di Nino Costa Rassa nostrana, citata da papa Francesco nel suo viaggio apostolico a Torino: «Drit e sincer, cosa ch’a sun, a smijo / teste quadre, puls ferm e fìdic san / a parlo poc ma a san cosa ch’a diso / bele ch’a marcio

    adasi, a van luntan». Sì, Federico è caparbio, fermo e determinato. Appare per quello che è ed è il primo a mettere in pratica ciò che predica. Vede lontano e va lontano per portare l'entusiasmo della fede, ma senza abbandonare il suo gregge, neanche davanti alla carriera che la Chiesa ha in mente per lui.

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    La fede

    È Il segreto della sua vita, e non l'abbandonerà mai. «Non ho carità, ma fede ne ho tanta» ammette conversando con Clementina Cour-tial. È fede nel Dio di Gesù Cristo, al centro delle sue parole non solo dal pulpito, ma nel quotidiano. Introduce in casa l'uso di salutarsi vi-cendevolmente con le parole «Sia lodato Gesù Cristo». Dipinge di sua mano, a caratteri cubitali, la scritta Viva Gesù sui quattro lati della Torre dell'Istituto. Ha fiducia nella provvidenza di un Padre meraviglioso che «viene incontro e ci tende le braccia». Anche quan-do le cose non vanno secondo i piani, sull'esempio di Cristo rimette la sua volontà a quella di Dio, che «permette che siamo afflitti o tribo-lati per il nostro bene, ed è sempre pronto a sollevarci, o per lo meno

    ad aiutarci a portare la croce». La preghiera

    La preghiera è il nutrimento costante della sua vita. Oltre alle cele-brazioni che non tralascia di guidare, si alza d'abitudine due ore prima dell'aurora per pregare, in chiesa o nella propria stanza. Ma pure durante i lavori manuali della giornata - scrivono i biografi - «la sua mente è assorta di continuo nella meditazione delle cose cele-sti». Prega per i bisogni dei suoi parrocchiani, per le anime dei de-funti, per il buon esito degli esercizi spirituali e delle missioni popo-lari. Chi lo vede in chiesa, per lungo tempo con lo sguardo fisso alla porticina dorata del tabernacolo, racconta di un suo atteggiamento estatico, che non ha bisogno di moltiplicare le parole per colloquia-re con Dio. Come un innamorato al settimo cielo in compagnia di chi ama.

    2. Nel cuore di Federico

    Il cuore di Federico è quello del buon pastore che si prende cura

    delle sue pecore, cioè delle persone che gli sono state affidate.

    Le sue attenzioni sono rivolte in particolare a chi è più bisognoso

    o smarrito.

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    Le anime degli esseri umani È la prima salvezza di cui si occupa. Lo fa restituendo una degna dimora al vero Signore della chiesa parrocchiale. Lo fa adoperando-si perché la gente senta vicino l’amore di Dio attraverso le parole e le opere del sacerdote, specchio del sacro nella realtà terrena. Lo fa invitando la gente alla fede, alla carità e alla speranza, con le parole e l’esempio. Lo fa scegliendo persone adatte al servizio, sostenen-dole interiormente e finanziariamente. Lo fa raggruppando i fedeli in associazioni e confraternite (ad es. la Pia Unione delle Figlie dell'Immacolata, nel 1854).

    I poveri Da benestante, ritiene evangelico condividere ciò che ha – dono di Dio – con chi ne ha bisogno per la propria sopravvivenza e il sosten-tamento della propria famiglia. È lui stesso ad accogliere ogni lune-dì e venerdì in canonica gli indigenti con una borsa piena di monete. A ciascuno 10 centesimi: poco e sempre! Per chi aspetta mezzo-giorno c’è un piatto di minestra e una pagnotta di pane. Ad una zia che si lagnava per la scomparsa delle camicie, rispondeva: «Finché ne avrò due ne avrò sempre abbastanza, anzi di troppo, perché una la

    posso ancora dare ai poveri». Ben sapendo che l’elemosina è per l’emergenza, si impegna per cercare o favorire un lavoro a chi non ce l’ha. Ha la delicatezza di impiegare persone nei poderi della par-rocchia, pur non avendone bisogno, per dar loro cibo e dignità.

    I piccoli Sono loro il futuro della società. Albert ha studiato nelle migliori scuole e sa quanto sia importante la conoscenza. Da provveditore agli studi non fa mancare la sua presenza vigile e operosa nelle scuole elementari maschili già presenti nel territorio lanzese. Ma ha l’intuizione e la costanza di allargare l’istruzione alle bambine e alle età superiori, nel doppio binario umanistico (tramite i salesiani) e professionale (tramite la colonia agricola). I ragazzi abbandonati a se stessi finivano spesso impigliati nelle maglie dell’ozio, dei vizi e della delinquenza. L’apertura dell’asilo infantile – all’epoca molto raro – va incontro alle necessità delle giovani mamme, spesso im-

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    pegnate con altri figli o nei lavori campestri. Così come non manca-vano i bambini rimasti soli, a cui procurerà vitto e alloggio nell’orfanotrofio.

    Gli ultimi

    Fedele all’insegnamento della parabola della pecorella smarrita, Federico ha una predilezione per loro. Siano essi malati ricoverati all’ospedale Mauriziano, che passava a trovare ogni sera; oppure fo-restieri, giacché un uomo di Dio non vede confini e benedice la pre-senza dello straniero come ospite; o ancora dubbiosi e miscredenti (massoni, anticlericali, libertini). Da loro riceve insulti, schiaffi e in un caso minacce di morte; ricambia con la serenità della benevolen-za, che non sottostà mai alla legge del do ut des, e, se necessario, sa perdonare. Nell’anno della sua morte predica gli esercizi spirituali ai 400 giovani del riformatorio di Boscomarengo. Quanti sacerdoti a-vrebbero accettato?

    3. Un precursore

    Federico Albert è una figura attuale perché con le proprie intui-

    zioni precorre i tempi, inventa nuovi percorsi, anticipa la moder-

    nità.

    Nel mondo, ma non del mondo

    Oggi identifichiamo quel periodo di storia della Chiesa come la sta-gione dei santi sociali: sacerdoti capaci di farsi carico della promo-zione umana della propria gente, che a Torino ebbe una delle sue fucine. In realtà furono dei precursori. Erano molto più diffusi i sa-cerdoti precettori, i monaci appartati, i dotti teologi, o semplice-mente i cappellani dediti alla gestione delle proprietà a loro asse-gnate. Colpisce, oggi come allora, una sorta di «carriera all’incontrario»: da nobile a popolano, da cappellano reale a parroco di campagna, da teologo a divulgatore, da artista raffinato a umile pittore di edifici locali. Questo abbassamento o svuotamento (kèno-sis, cf Fil 2,5-7) è proprio il centro del cristianesimo secondo la tradi-

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    zione dell’evangelista Giovanni: Cristo è Dio (il Verbo) che si fa car-ne, il Signore che si fa servo, chi salva il mondo senza compromet-tersi con esso.

    Il domani migliore è frutto di preparazione Federico conosce bene la differenza tra poveri e indigenti, sa che un sacco vuoto non sta in piedi e non si possono salvare le anime senza prendersi cura del corpo che le contiene. Il Dio di Gesù Cristo è un Padre provvidente che dona tutto il necessario per la vita degli esse-ri umani; sono loro a dover condividere i suoi doni. Per questo ha ben chiara la necessità di migliorare la società, attraverso le strade della formazione e dell’educazione. Non trascura elemosina e assi-stenza, per una risposta immediata ai bisogni impellenti, ma lavora per il futuro, preparando professionalmente le nuove generazioni. È eccezionale per l’epoca la sua attenzione alle ragazze, che certa-mente saranno un propulsore economico e sociale del secolo suc-cessivo.

    Uno che apre strade nuove

    Con grande delicatezza, Federico agisce là dove – almeno sul terri-torio – non ha agito ancora nessuno. All’epoca la scuola è di pochi, perché pochi conoscono l’importanza dell’istruzione e possono permettersi di rinunciare al contributo dei ragazzi nel bilancio fami-liare. Federico si impegna per allargarne il bacino d’utenza: il mon-do femminile, l’avviamento professionale, il collegio. Per le mamme – impegnate nel lavoro quotidiano o nello svezzamento dei figli più piccoli – inventa l’asilo infantile, che diventerà consuetudine più di un secolo dopo.

    La fede non si narra, si testimonia

    Ben prima dell’insistenza di papa Francesco sulla necessità di vivere il potere come servizio o dell’immagine della Chiesa del grembiule coniata da mons. Tonino Bello, Federico è rimasto nell’iconografia popolare il sacerdote che riceve l’incarico a vescovo con il forcone della stalla, definendolo il suo bastone pastorale. Così come è colui che cammina davanti e porta il masso più pesante nelle processioni

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    a Stura, o non si tira mai indietro nei servizi più ardui o nelle situa-zioni più gravi. Ancor più della capacità dialettica, è il suo esempio a convincere e conquistare. Il Cristo che vive nei suoi seguaci è l’annuncio più incisivo della religione cristiana in ogni tempo e in ogni stagione.

    4. Croci, fatiche e ostacoli

    Essere Federico Albert, in vita, non è certamente stato facile.

    Leggendo la sua biografia ci rendiamo conto che le croci da por-

    tare sono state molte, e pesanti. Anche per questo la sua gran-

    dezza umana e santità cristiana brillano di più.

    La morte in famiglia La giovinezza è l’età dei grandi sogni e degli slanci entusiasti. Quan-to fa male vederli rapiti dalla morte nelle persone più care? Le tre sorelline maggiori, nate rispettivamente nel 1814, 1816 e 1818 si spegneranno al compimento dei propri 18 anni. Nel 1849 (Federico ha 29 anni) morirà la sorella minore e la fidanzata del fratello Ales-sandro; nel 1853 mamma Lucia. La certezza del Paradiso è un bal-samo per le ferite, ma non attenua la perdita degli affetti più cari. Federico porterà con sé come eredità la sensibilità accesa e la deli-catezza discreta di queste figure femminili, insieme all’urgenza di svolgere la sua missione. A chi lo redarguiva per la sua incapacità di concedersi vacanze o tempi di riposo, rispondeva: «Le candele scos-se si consumano prima ma danno più luce». Fu proprio così.

    I soldi Federico non è mai stato realmente povero. Gli averi della famiglia, le conoscenze altolocate, gli incarichi pubblici, le ricompense per le Missioni e gli Esercizi predicati o i lavori artistici nelle chiese vicine, e – non ultime – le rendite provenienti dai poderi della parrocchia, gli avrebbero permesso di vivere beatamente. Ma, essendo deciso a farsi carico dei bisogni di chiunque sta peggio di lui, deve ingegnarsi

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    per reperire i fondi contraendo spesso debiti, come è piuttosto normale per i santi sociali. Il metodo della lotteria viene usato più volte; così come l’umiliazione di chiedere i soldi allo stesso re Vitto-rio Emanuele II. Federico dimostra capacità imprenditoriali ad e-sempio quando deve immaginare la tessitura della tela come lavoro svolgibile dalle orfane che non intralci gli affari dei paesani (quelli delle cucitrici, nello specifico).

    Le delusioni Federico giungendo a Lanzo ha l’entusiasmo del primo incarico e la creatività delle mille idee. Immagina una nuova chiesa ai confini del borgo antico, in basso dove il paese si sta allargando, ma trova «dif-ficoltà insormontabili». Ripiega sulla ristrutturazione e sull’ampliamento della parrocchiale. Discute con l’influente don Foeri, sempre pronto a tarpare le ali dei suoi sogni, riportandolo alla fattibilità concreta e mettendolo al ri-paro dai rischi di certi progetti arditi (ad esempio un ricovero per chi non ha casa o l'orfanotrofio maschile in un locale attiguo a quello femminile). Ma le delusioni più grandi vengono dalle persone religiose in cui ha riposto la più grande fiducia: le suore di Santa Giovanna Antida a cui ha affidato la gestione dell’orfanotrofio, dell’asilo e dell’educandato, ritirate improvvisamente dalla Madre Superiora; i salesiani di don Bosco che cambiano in corso d’opera il progetto dell’Oratorio, che diventerà un ampliamento del Collegio. L’ultimo sogno – il viaggio a Roma per incontrare il papa – verrà infranto dal suo confessore don Foeri, che gli consiglierà di rinunciarvi nono-stante la cifra necessaria fosse il regalo di una parrocchiana bene-stante e affezionata.

    I suoi valori

    È indubbio che la fatica più grande dell’uomo Federico sta nell’eroicità delle sue virtù, nel modello sacerdotale che ha in mente e nella sua radicalità evangelica. Il tempo per il riposo è ridottissi-mo, anche perché viene sempre prima qualcun altro di se stesso. Di fronte alle richieste di aiuto, tacite o esplicite, non riesce a dire di

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    no. A chi lo rimprovera per le sue assenze dalla parrocchia quando viene chiamato a predicare nella regione, risponde che i lanzesi gli danno poco lavoro, per questo va a cercarsene altrove! Il suo rigore morale è eccezionale nei confronti di se stesso, tanto da essere sin-cero quando nelle visite alle bambine diceva fossero tutte sante, tranne uno: se stesso.

    5. Il beato Federico Albert

    Federico è beato: la Chiesa ha ufficialmente affermato, dopo la rac-colta minuziosa di informazioni e testimonianze in un processo ca-nonico, che si trova con certezza in Paradiso, può essere assunto come esempio di vita evangelica ed essere oggetto di preghiere e di culto per ottenere per sua intercessione grazie da Dio, nell'ambito della sua diocesi. Benefici e segni miracolosi sono stati attestati e confermati da numerose persone, in vita e dopo la sua morte.

    Egli oggi comunica ancora: � attraverso chi continua la sua opera

    � le suore Albertine a Lanzo e in Benin, con la vita comunita-ria, la preghiera, il servizio quotidiano e la concessione di spazi alla parte più debole della società.

    � la cooperativa F. Albert, con la scuola aperta all'innovazione e al territorio, e la gestione della struttura messa a disposi-zione di gruppi e associazioni.

    � le ex allieve e gli ex allievi, gli amici e i collaboratori della fa-miglia albertina, che hanno assunto nella propria vita lo spi-rito del beato.

    � attraverso i luoghi fisici che parlano di lui � la piazza Albert � l'istituto Albert e il suo busto incastonato nell'edificio � l'altare di Maria Immacolata nella chiesa parrocchiale � la lapide con la frase del Vangelo del buon pastore da lui vo-

    luta nell'ingresso della casa parrocchiale

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    � la cappella di San Giuseppe dove è avvenuto l'incidente che gli è costato la vita

    � l'Istituto d'istruzione superiore "F. Albert".

    � attraverso i media che ricordano le sue gesta e le sue parole � il sito delle suore Albertine con i collegamenti a Youtube e ai

    notiziari delle suore albertine; la documentazione raccolta e trascritta nel processo di beatificazione.

    � i testi scritti � Maria Pia Albert, Il teologo Federico Albert, Vicario Parroc-

    chiale e Foraneo di Lanzo Torinese nel cinquantenario della sua morte, Tip. Anfossi 1926 (ristampa in copia fotostatica nel 2020).

    � Giuseppe Ponchia, articoli biografici e ricerche storiche sui tempi e sulla figura di Federico Albert, in 100 numeri de La voce dell'Immacolata, anni '50 e '60 del Novecento.

    � Suore Albertine, 30/9/1976. Un centenario da ricordare. � Madre Maria Francesca Facta. Un uomo che non ebbe paura

    di perdere la vita (appunti sulla vita di Federico Albert). Isti-tuto Albert.

    � Card. Michele Pellegrino, José Cottino, Giovanni Donna d'Oldenico, Anna Maria Vietti. Federico Albert ed i suoi tem-pi. Società storica delle Valli di Lanzo 1978

    � Mons. José Cottino, Federico Albert: vicario parrocchiale e foraneo di Lanzo Torinese. Fondatore delle Suore Vincenzi-ne di Maria Immacolata, Elledici 1984 (edizione revisionata e integrata da mons. Franco Peradotto)

    � Antonio Maria Alessi, Un cuore pieno d'amore. Il beato Fe-derico Albert, Collana Pionieri 21, Elledici 1984

    � Federico Albert jr, José Cottino. Voci di casa. Federico Albert parroco di Lanzo, Società storica delle Valli di Lanzo 1985

    � Suore Albertine. Federico Albert. S.G.S. 1994 � Paolo Damosso, Uno ogni cinquecento anni, San Paolo 2009

    � attraverso la sua incessante preghiera nella comunione dei san-ti.

  • 31

    c) 86 date per una vita «piena»

    1788, 3/9 A Chateau Beaulard (Val di Susa) nasce Giovanni Lui-

    gi Albert, nobile savoiardo. 1813, 5/5 Si sposa a Giaveno con Lucia Riccio (figlia di un nota-

    io). 1814, 21/5 È tenente del Corpo di Stato Maggiore dell’esercito

    di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna. 1820, 16/10 Nasce a Torino, via del Deposito (via Piave) 9. Ha già

    3 sorelline: Maria Maddalena è del 1814, Celestina del 1816, Eugenia del 1818. Moriranno tutte e tre diciottenni.

    1820, 17/10 Viene battezzato nella parrocchia del Carmine col nome del padre: Giovanni Luigi Federico.

    1822 Nasce il fratellino Giuseppe Alessandro. Morirà a un anno e cinque mesi.

    1823 Trasferimento in viale del Re (corso Vittorio), nella parrocchia di san Carlo.

    1827 Nasce la sorella Adele. 1830 Nasce il fratello Alessandro. 1831-36 Frequenta gli studi classici (corso Ginnasiale). 1836 All’altare del beato Sebastiano Valfré ha

    l’ispirazione di entrare nella milizia del Signore. 1836, ott È chierico “esterno”. Frequenta il clero di san Filippo

    e studia alla Facoltà di Teologia della Regia Universi-tà di Torino. Studia musica e pittura.

    1838, 06/10 Carlo Alberto lo stabilisce Chierico Soprannumerario della Real Cappella e Camera.

    1839, 28/09 Chierico Effettivo della Real Cappella e Camera (sti-pendio di 360 lire annue).

    1843, 10/05 Si laurea con lode in teologia. 1843, 10/06 Ordinato sacerdote da mons. Franzoni nella chiesa

    dell’arcivescovado. 1844 Direttore del servizio liturgico inferiore delle Cappel-

  • 32

    le di Palazzo Reale. Continua gli studi seguendo il quadriennio delle "conferenze di teologia morale".

    1846 Predica missione per il popolo a Carrù. 1847, 22/06 È nominato cappellano effettivo di Sua Maestà: pre-

    sta servizio all’altare e predica a corte. Continua ad abitare presso la famiglia nella parrocchia di S. Carlo, dove è catechista.

    1847 Predica i primi Esercizi spirituali ai ragazzi dell'Orato-rio di don Bosco. Successivamente predica a varie comunità religiose femminili e fa catechismo dome-nicale in varie chiese.

    1849 Predicazione Quaresimale a Lauriano (presso Vero-lengo, Chivasso).

    1849, 01/08 Muoiono la sorella Adele, ventiduenne, e la fidanza-ta del fratello Alessandro.

    1850, ago È vice curato nella parrocchia di San Carlo, a Torino. 1852, mar Predica in occasione della Quaresima al castello di

    Moncalieri per la famiglia reale. 1852, 12/03 È nominato parroco di Lanzo. 1852, 18/04 Arrivo a Lanzo. 1852, estate Primo ampliamento chiesa parrocchiale. 1853, 17/09 Morte della mamma Lucia Riccio. 1854, 31/05 Fonda la «Pia Unione delle Figlie dell'immacolata»,

    una confraternita che ha sede presso l'altare del Sa-cro Cuore di Maria per edificare nella fede i laici.

    1854, estate Epidemia di colera a Torino e dintorni. Federico Al-bert si distingue per fede e carità.

    1855, 28/03 Richiesta di un sussidio governativo per restaurare la cappella del Rosario.

    1858 Apertura Asilo infantile, gestito dalle suore di santa Giovanna Antida.

    1858 Predicazione missioni popolari a La Cassa. 1859 Apertura Orfanotrofio femminile in casa Arrò e poi

    in casa Griglione. 1859 Santi Esercizi Spirituali e Missione memorabile a

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    Lauriano. 1860 Chiede al re il permesso di una lotteria per costruire

    il coro dietro all'altare maggiore e per restaurare il presbiterio. L'estrazione avvenne nel luglio 1861 e si incassarono 14.862 lire.

    1860-1861 Progetto e direzione lavori nella chiesa parrocchiale di Gisola (1 km da S. Ignazio).

    1862 Predicazione missioni popolari a Altessano. 1864 Trasferimento dell'asilo in piazza san Pietro (ora

    piazza Albert). 1864 Predicazione missioni popolari a Asti. 1864, ott Apre il collegio salesiano a Lanzo. 1865 Seconda lotteria a beneficio delle opere. 1865 Esercizi dettati al clero nella cappella del seminario

    di Ivrea. 1866, 06/06 Benedizione di papa Pio IX di propria mano alle Ope-

    re. 1866, lug Esercizi dettati al clero della diocesi di Ivrea nel San-

    tuario di Piova sopra Castellamonte. 1866, ott Apre l'Educandato per le fanciulle. Nell'Istituto so-

    no inserite anche le scuole elementari comunali femminili.

    1866, nov Missioni popolari a Mondovì. Esercizi spirituali per il Clero.

    1867, feb Missioni popolari a Volvera. 1867, 26/04 Muore il padre Giovanni Luigi ottantenne. 1867, ago Predica gli Esercizi spirituali ai laici a sant'Ignazio. 1867, 11 Missione nella parrocchia di santa Giulia a Torino. 1868, gen Missioni popolari consecutive a Asti e Saluzzo, senza

    dimenticarsi i parrocchiani a cui scrive. 1868, set Le suore di santa Giovanna Antida vengono ritirate

    da educandato, scuole e asilo. 1868, ott Monsignor Moreno, vescovo di Ivrea, interpellato,

    non può aiutare l'Albert. L'Anglesio, successore del Cottolengo, gli consiglia di fondare un ordine religio-

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    so per le sue Opere. 1869 Nasce la «Pia Unione di San Massimo» per le missio-

    ni popolari. Albert ne è socio. Quasi tutte le doman-de contengono la preghiera di scegliere a missiona-rio il Vicario di Lanzo.

    1869, 19/03 Stesura regolamento Suore e Sorelle Associate. «Ca-rità e umiltà», innanzitutto. In luogo delle austerità corporali, spirito di sacrificio. Formazione e ripeti-zioni da parte di Federico alle future suore subito dopo pranzo o dopo cena, quasi ogni sera, fino all'u-na di notte.

    1869, 12/06 Approvazione regolamento della nascente comunità delle Vincenzine di Maria Immacolata da parte di monsignor Riccardi, arcivescovo di Torino.

    1869 Esercizi spirituali al clero a Susa. 1869, 14/10 Vestizione delle prime cinque suore da parte di

    monsignor Galletti, vescovo di Alba. 1869, nov Missioni a Fossano, Calosso (AT) e a Biella. 1870, 06/01 Missione ad Alba, con grande successo. 1870 Costituzione della Congregazione del sacro cuore di

    Maria. 1870 Sogno dell'oratorio inserito nei locali del Collegio. 1870 Esercizi spirituali per il clero a Belmonte. Esercizi per

    il clero biellese nel santuario d'Oropa e ai chierici del seminario metropolitano di Torino. Missioni popolari a Coassolo.

    1871 Missioni popolari a Caramagna Piemonte. 1873 Missioni popolari a Balangero e Cantoira. 1873, mar Inizio lavori Piccola Colonia Agricola sotto il patroci-

    nio di san Giuseppe. 1873, set Designazione ufficiale a vescovo di Pinerolo. 1873, nov Dispensa per la diocesi di Pinerolo. 1874, gen Novena per la festa del beato Sebastiano Valfré a

    Torino, con una guarigione miracolosa. 1874 Missioni popolari a Baldissero di Chieri.

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    1874 Inaugurazione nuovo edificio collegio salesiano. 1875 Missioni popolari a Rivara. 1875 Terza Lotteria a beneficio delle Opere. 1875 Missioni popolari nel Duomo di Torino. 1876 Inaugurazione colonia agricola su poderi della par-

    rocchia. Benedizione della cappella fissata per il 15 ottobre.

    1876 Missioni popolari a Volpiano e Cirié; ai 400 giovani del Riformatorio di Boscomarengo.

    1876, 6/8 Inaugurazione della ferrovia Cirié-Lanzo con il presi-dente del Consiglio e due ministri.

    1876, 4/9 Nomina a Cavaliere della Corona d'Italia. 1876, 20/09 Inizia una novena di preghiera e digiuno per una gra-

    zia importante. 1876, 28/09 Alle ore 10 cade dall'impalcatura spostando un asse

    di legno. Don Bosco e don Rua, interrompendo i loro Esercizi, vengono a visitarlo. Consulto di un medico torinese famoso.

    1876, 30/09 Alle ore 5 si spegne, assistito da due suore. 1876, 01/10 Solenne funerale alla presenza di migliaia di perso-

    ne, 16 parroci e numerosi sacerdoti. Tumulazione nel cimitero di Lanzo, su sua disposizione, con «so-pra una pietra con queste due parole: PREGATE!... PREGATE!...».

    1937, 06/09 Traslazione della salma all'Istituto Albert. 1984, 30/09 Beatificazione a Roma presieduta da papa Giovanni

    Paolo II. 1984, 21/10 Traslazione nella chiesa parrocchiale, presieduta dal

    cardinal Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino.

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    TERZA PARTE:

    LA PAROLA

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    Esercizi spirituali - Sant'Ignazio 2015

    CONFESSIONI DEL CURATORE

    In quell’immenso puzzle che è la vita, tante volte mi sono imbattuto nell’immagine e nel nome di un uomo d’altri tempi, che ho imparato a considerare in qualche modo familiare, tanto da sentirmi chiamato a fare qualcosa per lui, o, forse, con lui. Nella memoria campeggia il ricordo dei suoi luoghi visitati nel cente-nario della morte, e il mio racconto dell’evento in un disegno elemen-tare; il dono del mio primo viaggio a Roma con i giovani e l’emozione di Piazza San Pietro il giorno della sua beatificazione; la strana via che mi ha portato ad essere anch’io, in qualche modo, teologo; la frequentazione, da insegnante, delle scuole a lui intitolate, pubbliche o paritarie che fossero; la necessità profonda e interiore di espri-mermi in preghiera, ritrovandomi in quel suo testamento: «Pregate, pregate», tanto da diventare lo specifico tra i vari miei scritti. Recentemente, durante la presentazione del nuovo libro di Paolo Damosso, il fotografo immortalò inavvertitamente, oltre ai quattro illustri relatori seduti al tavolo, anche il sottoscritto, accucciato nei pressi di un amplificatore che faceva le bizze. Casualmente proprio sopra la mia testa campeggiava il quadro del Beato. Ho avuto l’impressione di un mandato, di cui ancora non conosco la portata. È come se un testimone fosse passato, indegnamente, a me. Lo pen-sai anche quando venni invitato a Pinerolo, per una conferenza sulla catechesi degli adulti. Conclusi rimarcando, come momento decisivo del mio intervento, la mia preghiera silenziosa e solitaria per la città antecedente l’incontro. Non potei fare a meno di pensare che avevo lasciato, nella diocesi che Federico Albert avrebbe dovuto guidare, una piccola sua pennellata. E ne ero felice. Nel mio percorso di studi ho avuto l’occasione di approfondire la spi-ritualità dei santi torinesi dell’Ottocento, curiosamente debitori di una svolta pastorale impressa dall’ex abate dell’Eremo di Lanzo, poi dive-nuto vescovo di Torino tra il 1818 e il 1831. Da alcune estati leggo le biografie di Federico e ho raccolto alcuni frammenti dei suoi testi, pubblicati da don Ponchia su "La voce dell’Immacolata". Così come frequento silenziosamente i suoi luoghi e le sue spoglie, provando ad ascoltare la voce della sua spiritualità. Federico Albert, a mio avviso, è un dono formidabile per i credenti e per gli uomini e le donne di buona volontà, della sua epoca e di quel-le a venire. È di gran lunga il lanzese più illustre che abbiamo avuto, perché visse con amore instancabile, lucido e fattivo di padre per o-

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    gni persona del suo paese d’adozione. La sua operosità per il bene e il bello ha lasciato il segno in ogni campo. Vale la pena ricordarcelo, per ridestare in noi l’attenzione alle cose migliori, sulla sua scia. Su di lui io credo sia già stato scritto tutto il necessario: dai ricordi affettuosi delle sue suore e dei suoi parenti, ai puntuali studi storici di Mons. Cottino e di don Giuseppe Ponchia; le pagine sulla sua spiri-tualità di suor Francesca Facta e la vivace sceneggiatura della sua vi-ta di Paolo Damosso. Certo, sarebbe bello poter avere, ancora una volta, Federico Albert in persona qui tra noi. Riuscire a fargli tante domande, in primis chie-dergli cosa farebbe lui, oggi, in questo nostro territorio. Cosa ne pen-sa del Concilio, e di papa Francesco, curiosamente… il primo papa piemontese sull'asse Torino-Asti, fucina dei grandi santi sociali dell'Ottocento. Cosa ne pensa di noi, se si vergogna o è orgoglioso dei nostri farfugli, rispetto alla forza delle sue opere e parole. Questo, lo sappiamo bene, non è possibile. Né sarebbe giusto: ognu-no di noi è figlio del suo mondo, della sua cultura, che non sarà mai uguale a quei tempi. Né è questo che ci viene chiesto dal buon Dio. Però il sacro deposito di un santo non è mai inutile. Le sue parole an-tiche serbano un messaggio per noi. Possono essere un aiuto a vive-re il nostro tempo. E, in questo senso, è doveroso ascoltarlo. Per questo ho affrontato questa piccola sfida: organizzare i suoi testi pazientemente raccolti dalle sue prime suore per fargli predicare an-cora una volta gli Esercizi Spirituali, che tanto amava. Proprio a S. Ignazio, fucina della santità torinese; proprio nel tempo del primo papa gesuita; proprio per i discendenti dei suoi parrocchiani. Non potrò fare a meno di portare anche me stesso, in questa scelta; non potrò fare a meno di leggere le sue intuizioni con l’ottica di una teologia successiva e discutibile; non potrò che falsare parzialmente il suo impatto, a causa dell’abissale scarto tra la mia santità e la sua, tra la sua fede e la mia. Posso però assicurarvi che da tempo le mie preghiere si direzionano verso tutti coloro che si metteranno in ascol-to di Dio in questi Esercizi. Federico anteponeva agli Esercizi predicati nottate in preghiera e lunghi digiuni, talmente era convinto del suo compito di salvare le anime, e che questo avvenisse prima di tutto implorandone da Dio la Grazia. Io mi sono limitato a bussare al cuore di Dio per la vostra felicità. Questo è il dono che vorrei farvi, in questo tempo dedicato all’ascolto o alla lettura, ben consapevole che la nostra gioia sarà piena solo nell’eternità, ma il buon pastore fa di tutto per anticiparla, semplifi-cando il quotidiano presente. Cristo è il nostro buon pastore, e Fede-rico ne è, oggi dal Cielo come ieri sulla terra, un suo degno specchio.

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    DAVANTI A FEDERICO ALBERT

    Anche domani, chiunque dirà Lanzo, dirà Vicario Albert. E voi dovete senti-

    re questa ricchezza spirituale; è una terra di santi che voi calpestate. In

    questa piazza, così meravigliosa che sembra uscire fuori dal tempo, qui è

    passato S. Giovanni Bosco, il beato Michele Rua, ma qui soprattutto ha

    pianto, ha sorriso, ha faticato, ha predicato, ha amato il Venerabile Albert.

    Noi andiamo magari in pellegrinaggio fino a S. Giovanni Rotondo per pre-

    gare sulla tomba di Padre Pio: certamente un'anima eccezionale. Ma voi ce

    l'avete qui, ce l'avete nella vostra parrocchia, nel vostro paese la figura del

    vostro santo e dovete essere fieramente orgogliosi di questo sacro deposi-

    to. Ma non basta riempirsi la bocca del nome dei santi, bisogna mettersi su

    questa strada. Io mi rivolgo a voi, ragazzi e ragazzi, voi dovete continuare

    la tradizione che i vostri vecchi vi hanno lasciato, vi hanno insegnato.

    Com'è commovente la testimonianza che un vecchio parroco, il teologo

    Domenico Gisolo ha fatto al processo di beatificazione: quando era un ra-

    gazzetto e, con gli zoccoli ai piedi, passava sulla piazza di Lanzo accanto al

    suo nonno, vedeva che questo vecchio, con la pipa in bocca e le mani in ta-

    sca, quando arrivavano davanti all'Istituto dove c'è il busto dell'Albert, si

    toglieva il cappello e diceva: "Fa anche sempre tu così". Il ricordo del vec-

    chio che si trasmetteva al giovane: di rendere onore a colui che aveva a-

    mato Lanzo, l'aveva scelto come parte della sua vita, che per Lanzo si era

    immolato dando il suo sangue (José Cottino, conferenza in occasione del

    centenario della morte).

    Tante persone ci danno consigli. Tanti ci dicono cosa dobbiamo

    fare. A partire dai nostri genitori, dagli educatori, dai sacerdoti. A volte sono i nostri nemici, cioè coloro che non hanno a cuore il no-stro bene, ma ci vogliono solamente svilire, criticare, o dimostrare la loro superiorità. Possiamo imparare da tutti, ma è più facile ac-cettare un suggerimento o un’esortazione da chi ci vuol bene. Sap-piamo che certe parole non hanno doppi fini; sappiamo che vedono col cuore cose che noi non riusciamo a vedere; sappiamo che sare-mo comunque liberi di accettarle o meno.

    L’incontro con Federico Albert, in parole e opere, può metterci in crisi, tanta è la distanza tra noi e lui. Oppure possiamo relegarlo a uomo di altri tempi, ovviamente superati, e renderlo ininfluente sul-

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    la nostra vita. Ma possiamo anche guardarlo negli occhi, tra le sfu-mature di quel viso austero e composto che ci è stato tramandato. E, tra le pieghe della sua biografia di santo, ascoltare il suo primo desiderio: siamo anime da accompagnare alla salvezza; siamo i primi beneficiari del suo amore, la scelta della sua vita; siamo i suoi figli diletti.

    Uso il presente perché parto da un presupposto, confortato dal pronunciamento esplicito della Chiesa: Federico vive, nel cielo dei Santi, continuando in una realtà senza tempo ad amare; Federico intercede, nel rispetto della sapienza e della volontà di Dio, per chi-unque lo invoca, nella fede in Dio, per semplificare la nostra vita o sostenerla nella sua fatica; Federico ci ricorda la meta, e, come promise alle sue orfanelle tre giorni prima della morte: «Se vado prima io (in Paradiso) vi tiro su tutte, non una perduta!».

    Quando le esortazioni che partono dalla sua vita ci sembreranno troppo complesse o addirittura impossibili, dovremo immaginarlo accanto, con la sua splendida umiltà, gli occhi bassi e la sua consa-pevolezza costante di non aver fatto abbastanza. «Se andate prima voi, mi trarrete su per i capelli» continuava nell’episodio preceden-te. Segno di quella consapevolezza evangelica di dover dare in base a quello che si è ricevuto, mettendo a frutto i propri talenti, le pro-prie risorse, le situazioni della vita incontrate.

    Da Federico non potremo sentirci giudicati, a ben guardarlo, per-ché mai lo fece in terra, nel segno della Misericordia divina in cui credeva fermamente. Piuttosto potremo essere ascoltati, accolti, accettati. Compresi in quegli aspetti che sono chiari soltanto in Cie-lo, se è vero che buona parte di ciò che siamo è inconscia, cioè na-scosta persino a noi stessi, alla nostra mente. E, nello stesso tempo, potremo essere spronati a un passo successivo nella nostra vita, alla costruzione del progetto che Dio aveva in mente per il nostro bene e per quello dell’umanità.

    Federico sarà sempre dalla nostra parte. Anche quando ci dovesse rimproverare. E, possiamo essere certi, in questo momento sta pre-gando per noi. Uno dei tanti angeli che custodiscono la nostra vita, lui che tanto li amava e li dipingeva così spesso, quasi a indicarci che non siamo soli, anche quando crediamo di sì.

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    INTRODUZIONE VESPERTINA AGLI ESERCIZI

    «Entrai nell'Educandato dell'Istituto Albert all'età di dodici anni e solo po-chi mesi prima della fulminea scomparsa del Vicario che tanto impressionò il mio animo giovanile. Un giorno, trasgredendo l'ordine della Superiora, mi presentai con le scarpe sporche, il ché mi valse una sgridata e l'ordine di andare nell'apposito stanzino a lucidarle durante la ricreazione. Perciò, quando tutte le mie compagne sciamavano per il cortile ai loro giuochi preferiti, io tutta confusa e piagnucolante mi avviai a lucidarmi le scarpe, cosa per me tanto penosa in quanto che, in casa mia, dove si viveva una vita di contadini patriarcali, certe raffinatezze non erano proprie che dei giorni di grande solennità. Volle il caso che in quel mentre transitasse di là la bonaria e paterna figura del Vicario. Alla sua vista, benché mi sentissi colpevole, pur tuttavia il mio cuore si sollevò, e mentre stavo ad asciugarmi le lacrime, egli mi si avvicinò e, con quella bontà che gli era propria, mi interrogò sul motivo della mia presenza colà nell'ora della ricreazione. Io non piangevo più: gli esposi per filo e per segno la mia mancanza e la conseguente punizione. Al che egli, tutto sorridente, con mio grande stupore, si accinse senza altro a lucidar-mi le scarpe. Finito che ebbe, dimostratosi soddisfatto del suo lavoro, mi disse: «Ora vai pure in cortile con le tue compagne e non dir niente a nes-suno». lo, tutta confusa, mi allontanai, e, giunta in cortile, alle insistenti domande delle compagne e della Superiora stessa che dubitavano della mia perizia: «Chi ti ha lucidato le scarpe così bene?» rimasi un po' tituban-te; poi, preso il coraggio a due mani, esclamai: «Il Vicario!». Tutte ammuto-lirono stupefatte» (testimonianza di Domenica Macellaro, Balangero).

    Vorrei che, all’esordio di questi nostri Esercizi Spirituali avessimo in mente questa immagine: il vicario Albert, quasi al termine della sua vita, consumato ed esausto per sua stessa ammissione, in gi-nocchio davanti a una ragazzina, capace di consolarla senza tante parole, ma con l’umile servizio.

    In ginocchio. Siamo ancora capaci di metterci in ginocchio, oggi? Chi lo fa, quotidianamente? Qualche addetto alle pulizie, forse; qualche ortolano; qualche operatore sanitario. La nostra preghiera è sempre comoda. Persino in Chiesa, nella liturgia, è facile vedere sempre meno persone inginocchiate, e sempre meno a lungo.

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    Se poi pensiamo a questa immagine come a una metafora, chie-diamoci quando riusciamo a inchinarci davanti agli altri. Quando ri-conosciamo tutto il loro valore. Quando abbassiamo la testa per ri-verirli e servirli. Quando decidiamo di non giudicarli, e quindi di par-lare alle loro spalle, di mormorare, di chiacchierare.

    In Asia le persone si salutano, congiungendo le mani in preghiera, con la parola Namasté, che significa in sanscrito: «mi inchino alle qualità divine che sono in te». A volte dimentichiamo che ciascun essere umano è «immagine e somiglianza di Dio». E che «quello che abbiamo fatto a uno di questi piccoli (= fratelli bisognosi), l’abbiamo fatto a Gesù» (cit. dal Regolamento delle suore). Scandalizzo sem-pre i ragazzi, quando svelo che il nostro Ciao deriva da sciao, cioè «schiavo». È come se dicessimo: «Sono a tua disposizione, a tuo servizio. Sono qui per te».

    Papa Francesco, all’inizio del sinodo straordinario della famiglia nell’ottobre 2014, ha lodato la relazione del cardinale Kasper, rite-nendola un modo di fare teologia in ginocchio. Ossia un parlare di Dio fatto con umiltà, capace di farsi carico della fragilità e dell’umanità delle persone.

    Federico Albert era un maestro di umiltà. Si ricorda che proprio qui a Sant’Ignazio, vedendo tra i partecipanti agli esercizi don Bosco e il canonico Nasi, volle subito cedere loro il posto. A chi gli suggeri-va di dare alle stampe le sue prediche rispondeva in piemontese che era meglio darle alle tampe (= buche usate come letamai). Era un «pastore con l’odore delle pecore», non solo in senso figurato, visto che i suoi lavori nella stalla della parrocchia erano all’ordine del giorno, e sono rimasti nell’iconografia del santo al momento di rice-vere l’incarico di nuovo vescovo di Pinerolo. Ma soprattutto Federi-co Albert ebbe profonda comprensione della sua gente. Non chiese mai cose impossibili. E, qualsiasi peso della vita, lo portò prima su di sé. Come Cristo fece con la croce.

    Credo oggi Federico ci chieda, all’inizio di questi Esercizi, di met-terci umilmente in ascolto. Mettere da parte le nostre convinzioni, essere aperti alle novità dello Spirito. Abbassarci per imparare. E imparare intanto da chi fa questo cammino con noi. Dai suoi atteg-giamenti, dalle sue ricchezze. Imparare dalla Parola di Dio,

  • 43

    dall’esempio e dalle parole di Federico, dal silenzio, dalla preghiera e dalla meditazione. Imparare è il senso della nostra vita, e chi smette di imparare muore, lentamente, come scriveva Pablo Neru-da. Imparare non tanto nozioni, concetti, storie. Imparare atteg-giamenti. Far crescere la nostra fede e la nostra carità. In questo c’è ancora strada da fare anche a novant’anni, se si vuole. Basta rima-nere, dentro, in ginocchio. Nella consapevolezza dei nostri limiti e dei nostro bisogno di essere salvati. Da noi, dagli altri, da Dio6.

    6 Nei testi seguenti con i tre giorni di Esercizi Spirituali troverete, dopo una breve introdu-

    zione attraverso un episodio della vita di Federico, la meditazione con le citazioni tratte dai testi scritti dal beato Federico Albert e raccolte da don Giuseppe Ponchia (in corsivo) e al-cuni testi con simile contenuto tratti dalla Parola di Dio. Verificherete che la teologia di Fe-derico Albert è sempre ancorata alla Bibbia, pur usando un linguaggio semplice, ricco di metafore, comprensibile a tutti. Alcune domande successive sono state inserite per la me-ditazione personale. Infine il racconto di come Federico ha messo in pratica questo aspetto della vita cristiana, dagli articoli di don Ponchia pubblicati su «La voce dell'Immacolata». .

  • 44

    PRIMO GIORNO: LA FEDE

    La fede è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto

    ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Chiesa ci propone da crede-

    re, perché egli è la stessa verità. Con la fede «l'uomo si abbandona

    tutto a Dio liberamente». Per questo il credente cerca di conoscere e di

    fare la volontà di Dio (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.1814).

    Nel 1874, durante la predicazione della Novena in preparazione alla Fe-sta del Beato Sebastiano Valfré, nella Chiesa di S. Filippo in Torino (no-vena assai importante e tenuta sempre da Vescovi), il Venerabile Albert tenne un discorso sulla Preghiera. Dopo d'avere, con molta chiarezza, data una nozione sulla preghiera, dicendola una elevazione della nostra mente a Dio, il pio predicatore si arrestò, tacque per due minuti, quindi disse: «Uditori, mi sento chiamato altrove, attendetemi, fra pochi mi-nuti sarò di nuovo da voi». Lo guardavano gli uni e gli altri, non affer-rando il suo pensiero: quand'ecco, rivolto al Crocifisso, il Teol. Albert in-cominciò una ardente preghiera, vero slancio dell'anima sua innamora-ta di Dio, preghiera che durò alcuni minuti commovendo l'uditorio, al quale subito fece ritorno dicendo: «Questa é la preghiera» (dalle note biografiche curate da don Giuseppe Ponchia).

    A guardare la partecipazione alla Messa, la vita quotidiana delle famiglie, gli interessi dei giovani, la religiosità sembra essere in par-ticolare crisi. Sembrano discorsi d’altri tempi, anche se dovremmo prima conoscere meglio i tempi che non sono nostri… ricordarci che Federico Albert diceva ai lanzesi che gli davano poco lavoro, e quin-di era costretto a procurarsene altrove.

    In realtà, l’85% della popolazione mondiale crede in Dio, e l’Italia non fa eccezione. Ma anche chi non crede in un’entità superiore, nella vita concreta sceglie il suo dio. Ovverosia il centro della pro-pria vita, la meta più importante, il sostegno nei momenti di diffi-coltà. Gli stessi cristiani spesso pensano di credere in Dio, ma non gli danno grande importanza nella propria vita, tanto da adorare maggiormente i beni materiali, il proprio aspetto, il successo. Per fare una battuta, c’è chi trasforma il dio trino in dio quattrino… chi sostituisce a DIO il proprio IO.

  • 45

    Quando pregate, di-

    te: Padre

    (Lc 11,2)

    Qual è, poi, il vero Dio? Il giustiziere, che rimette le cose a posto quando scappano agli uomini? Il guardiano pronto a scaricare una punizione sui malvagi? O il buonista, a cui va bene tutto ed è assen-te dal nostro mondo? L’energia cosmica che ha messo in moto l’universo e ora aspetta di essere intercettata dalle nostre menti? A volte il Dio cristiano è confuso tra tutti questi aspetti. Può giovare chiedere a Federico il suo parere, perché lui ha dato la vita per que-sto Dio.

    «Padre nostro che sei nei Cieli! Oh, Padre, Padre! Un nome più bello non potevate scegliere per farci conoscere la vostra cu-ra, il vostro amore per noi!»

    «Ditemi avete voi paura di me? Potreste voi credere che, trovandovi alle strette ed in pericolo di morir di fame, e trovandomi io ad averne in abbondanza, sarei per ri-fiutarvi un tozzo di pane? Potreste voi pensare che io mi compiaccia della rovina dei vostri affari, della perdita della vostra sanità, esulti vedendovi in procinto di perdere miseramente la vita? Io non mi credo tanto buono, né al certo ho grandi titoli alla vostra confidenza in me, pure io son certo che non vi ha un solo fra voi ca-pace di farmi questo torto da credermi e pensarmi di cuore sì duro e disumano. E non è ridicolo pensar bene di un uomo miserabile, incapace di far bene ad alcu-no e solo capace di un po' di buona volon-tà, e poi pensar male di Dio che è tutta bontà, tutta confidenza, tutta misericor-dia, infinito nella sua longanimità, im-menso nella sua generosità, onnipotente dispensatore di tutte le grazie, capace di ogni miracolo tanto pel corpo come per l'anima?».

    «Quando era ancora

    lontano, suo padre

    lo vide, ebbe com-

    passione, gli corse

    incontro, gli si gettò

    al collo e lo baciò»

    (Lc 15,20).

    «Si indignò,

    e non voleva entrare.

    Suo padre allora

    uscì a supplicarlo»

    (Lc 15,28).

  • 46

    «Venite a me, voi

    tutti che siete stan-

    chi e oppressi, e io

    vi darò ristoro»

    (Mt 11,28).

    «Io sono tranquillo e

    sereno come bimbo

    svezzato in braccio

    a sua madre»

    (Salmo 131,2)

    «Se diciamo che

    siamo senza pecca-

    to, inganniamo noi

    stessi e la verità non

    è in noi» (1 Gio 1,8)

    Dio è prima di tutto Padre, il miglior padre. Provvede sempre a noi. Ci dona il necessario. È comprensivo e paziente. Decide con il cuore. La prima virtù di Dio, per Federico Albert come per papa Francesco, è in fondo la sua misericordia: Egli ha a cuore le miserie dell’umanità. Ci può essere un Dio più bello per l’umanità, soprat-tutto per quella ferita, malata, umiliata? «Facciamo come fanno i bambini: se li assa-le qualche timore essi corrono a gettarsi nelle braccia della mamma dove riposano cosi cari e cosi tranquilli. Se ci assale il ti-more della nostra eterna salvezza corriamo a gettarci nelle braccia della Divina Miseri-cordia».

    «Invochiamo Dio nei nostri mali e nelle no-stre tribolazioni e siamo persuasi che Dio non si compiace delle nostre disgrazie né ci castiga per odio, ma solo permette che sia-mo afflitti o tribolati per nostro bene ed è sempre pronto a sollevarci, o per lo meno ad aiutarci a portare la croce».

    Un Dio così positivo si scontra con la realtà della vita, che a volte è ingiusta e fragile. È il problema del male e della sofferenza, da sem-pre presente nella storia. Federico ha le idee ben chiare: non è im-putabile a Dio, ma al peccato degli uomini. Le scelte sbagliate delle persone, suggerite dal diavolo tentatore, sono la causa del dolore. Ma non avranno il definitivo sopravvento, grazie a Dio. «Il Signore ci viene incontro, il Signore ci tende le braccia: togliamo gli ostacoli che possono impedire il passo alla Grazia: il peccato è quella barriera che si oppone ai disegni di Dio, il peccato è l'inciampo che trattiene la Divina Misericordia».

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    «Chi segue Cristo

    si fa più uomo»

    (Gaudium et spes, 41)

    «Uno solo

    è il mediatore

    fra Dio e gli uomini,

    l’uomo Cristo Gesù,

    che ha dato se stesso

    in riscatto per tutti»

    (1 Tim 2,5-6)

    Come dunque si rac-

    coglie la zizzania e si

    brucia nel fuoco, così

    avverrà

    alla fine del mondo»

    (Mt 13,40)

    «Se si dovesse giudicare dei giudizi divini da quanto si osserva nel mondo, sembra quasi che Dio dorma sopra la condotta di molti e si dimentichi di chi, fedele, lo ado-ra. Si vedono pe