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libertas trimestrale di cultura politica ed economica diretto da Dario Antiseri 4 marzo 2013 Diritti naturali o legge evangelica? Dario Antiseri Enzo Di Nuoscio Focus Dario Antiseri Lo Stato nel pensiero liberale Economia sociale di mercato Giuseppe Franco Flavio Felice Dibattiti “Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” don Virgilio Balducchi Rubrica Le grandi figure del cattolicesimo liberale: Luigi Sturzo Dario Antiseri Segnalazioni bibliografiche Comitati per le Libertà Freedom Committee Comitatus pro Libertatibus cattolici per la libertà

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libertastrimestrale di cultura politica ed economicadiretto da Dario Antiseri

4 marzo2013

Diritti naturali o legge evangelica?Dario AntiseriEnzo Di Nuoscio

Focus Dario AntiseriLo Stato nel pensiero liberale

Economia sociale di mercatoGiuseppe FrancoFlavio Felice

Dibattiti“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”don Virgilio Balducchi

RubricaLe grandi figure del cattolicesimo liberale:Luigi SturzoDario Antiseri

Segnalazioni bibliografiche

Com itat i per le L iber tàFreedom CommitteeComitatus pro Libertatibus

cattolici per la libertà

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Editoriale di Dario Antiseri

Studi- Un cristiano ciò che è bene e ciò che è male lo sa dal Vangelo o dalla ragione? DARIO ANTISERI - - Diritti naturali o legge evangelica? ENZO DI NUOSCIO - Professore ordinario di Filosofia della politica, Università

del Molise

- Focus- Lo Stato nel pensiero liberale DARIO ANTISERI

Economia sociale di mercatoL’economia sociale di mercato e la via istituzionale della Carità GIUSEPPE FRANCO - Assistente Universitario pressoil Dipartimento di Etice dell’Economia e dell’Impresa e il Dipartimento di Teologia Dogmatica dell’Università Cattolicadi Eichstätt-Ingolstadt

La Scuola di Friburgo e la sua eredità - FLAVIO FELICE Professore ordinario di Dottrine Economiche e Politiche allaPontificia Università Lateranense e presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton (Roma-Milano)

Dibattiti“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi” DON VIRGILIO BALDUCCHI - Ispettore generale dei cappellani delle carce-ri italiane

RubricaLe grandi figure del cattolicesimo liberale: Luigi Sturzo, DARIO ANTISERI

libertastrimestrale di cultura politica ed economica

cattolici per la libertà

DIRETTORE EDITORIALEDario AntiseriCOMITATO DI REDAZIONEFlavio Felice - coordinatore

Fabio G. AngeliniDario AntiseriPaolo ArmelliniPaolo AsolanAntonio CampatiRocco PezzimentiFrancesco Saverio ProfitiMaurizio SerioPierluigi Torre

COMITATO EDITORIALE

Dario Antiseri, Direttore della rivistaVladimir Bukovskij Presidente Generale dei Comitati per le LibertàDino Cofrancesco Presidente del Comitato Esecutivo Comitati per le LibertàFlavio Felice, Presidente di Tocqueville-ActonAngelo Gazzaniga Portavoce dei Comitati per le LibertàGiovanni Rabbia Presidente della Fondazione Cassa Risparmio di Saluzzo

La rivista è gratuita e liberamente scaricabile in formato pdf.Gli articoli possono essere riprodotti anche in maniera parziale solo su autorizzazione dell’autore.Il sito libertates.com è pubblicato sotto Licenza Creative Commons (CC BY-NC-ND 2.5).Per informazioni: [email protected]

Editore: Comitati per le Libertà, 20122 Milano, via Daverio 7Provider-distributore: Aruba.it SpA (www.aruba.it) - piazza Garibaldi 8 / 52010 Soci (AR) - Anno VII Copyright © 2003Realizzazione Tipolitografia Angelo Gazzaniga, 20154 Milano, via Piero della Francesca 38

N. 4 - Diritti naturali

o legge evangelica?

Si ringrazia la Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo per la collaborazione

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La grande occasione storica che i cattolici hanno voluto perdere

“Il vastissimo e sano mondo cattolico impegnato nelle professioni e nelle diverse associazioni delmondo del lavoro, attivo nelle parrocchie, nelle innumerevoli sedi della Caritas, nel volontaria-to, nelle scuole, nei centri di formazione, nella attività di assistenza ai più svantaggiati, agli

immigrati e ai carcerati è in gran parte elettoralmente smarrito a causa di una intellighentzia che si è dataaffannosamente alla ricerca di padroni anche quando non ne aveva bisogno”.

“Come la Chiesa che provvede a tutti i bisogni spirituali dell’uomo, il partito rivendicava il cittadino perintero. L’adesione ad esso doveva essere integrale e nessun misfatto era in grado di distruggere la fede inesso.” Così, verso la fine dell’Ottocento, Moisei Yakovlevich Ostrogorski definiva quel partito-chiesa simul-taneamente contrario “alla logica dei fatti e a quella della ragione” e che, “invece di raggruppare gli uomi-ni secondo i problemi, cercava di adattare i problemi a raggruppamenti fissi di uomini”. Contro il partito-chiesa si schiererà qualche anno più tardi anche Gaetano Salvemini con la sua adesione al “problemismo”o “concretismo”, vale a dire alla tattica delle singole iniziative: “Non si deve soprattutto dimenticare chequelle riforme veramente concrete, di cui oggi l’Italia ha bisogno, devono fatalmente danneggiare gran nume-ro di interessi e di persone militanti in tutti i partiti, compresi i partiti così detti democratici”.

Ai nostri giorni, quella del partito-chiesa è ormai una concezione che è possibile trovare sepolta tra lemacerie del Muro di Berlino: “i fatti e la ragione” l’hanno annientata e, se la trova, trova la sua pallidasopravvivenza in menti che l’abuso della ragione ha reso cieche davanti ai fatti. Va da sé che con il passag-gio dal partito “ideologico”, fonte di verità e di soluzioni adeguate per ogni problema, al partito considera-to come fonte di proposte viene meno la portata esplicativa (e prescrittiva) della tradizionale contrapposizio-ne tra “destra” e “sinistra”. “Fantasmi” vedeva già Luigi Sturzo nei concetti di “destra” e di “sinistra”. Eil 6 marzo del 1992, in una conferenza tenuta a Siviglia, Karl Popper dichiarava che “noi dovremmo tenta-re di occuparci di politica al di fuori della polarizzazione sinistra-destra”.

Era logico prevedere, come di fatto è poi accaduto, che l’agonia del partito ideologico spalancasse leporte, cosa constatabile pure nella situazione italiana, ad una pluralità di offerte politiche che si dilata adismisura. Ma quel che davvero qui colpisce è che, in simile panorama, risulta sorprendentemente assenteuna qualche significativa proposta da parte dei cattolici. Ha ragione Giuseppe De Rita (Corriere della sera,28 gennaio) a denunciare la scomparsa del mondo cattolico dalla presente campagna elettorale. Todi 1 avevasuscitato la grande e motivata attesa di un “nuovo soggetto politico”. Ma un anno dopo con Todi 2 il sognoera già svanito e non pochi esponenti dell’intellighentzia cultural-politica cattolica erano già in agguato perun posto in qualche lista. La successiva cancellazione di Todi 3 ha costituito l’epitaffio posto su di una occa-sione storica perduta.

E se è vero che il mondo cattolico è scomparso non si può di certo negare che ciò sia dovuto al fatto chela diaspora che vede i cattolici attendati nelle più svariate formazioni politiche li rende, ancora una volta,presenti ovunque e inefficaci dappertutto. Non c’è bisogno, come suggerisce De Rita, che forse sarebbe statopiù utile, per il mondo cattolico, “saltare il turno” delle elezioni di febbraio e preparasi per la prossimavolta. Non c’è bisogno, perché di fatto i cattolici questo turno elettorale lo hanno già saltato. Il vastissimoe sano mondo cattolico impegnato nelle professioni e nelle diverse associazioni del mondo del lavoro, atti-vo nelle parrocchie, nelle innumerevoli sedi della Caritas, nel volontariato, nelle scuole, nei centri di forma-zione, nella attività di assistenza ai più svantaggiati, agli immigrati e ai carcerati è in gran parte elettoral-mente smarrito a causa di una intellighentzia che si è data affannosamente alla ricerca di padroni anchequando non ne aveva bisogno. A causa, più precisamente, di una intellighentzia che, con tutta evidenza, ha

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mostrato la sua incapacità di elaborare una proposta di soluzione dei problemi più urgenti alla luce di queicardini della Dottrina sociale della Chiesa costituiti dai due principi di sussidiarietà e solidarietà.

Che i cattolici possano riscoprire il concetto di “lievito” è indubbiamente un nobile e confortante pensie-ro. Ma si tratta di un pensiero che è pura speranza o una previsione ragionevole? Ci è stato insegnato cherazionale non è un uomo che voglia avere ragione, ma che lo è piuttosto un uomo che vuole imparare – impa-rare dai propri errori e da quelli altrui. Ed è singolare che la catena dei fallimenti di cui è riuscita a dar provala diaspora cattolica negli anni alle nostre spalle abbia insegnato proprio tanto poco, anzi niente.

A questo punto sono forse inevitabili alcune domande agli amici cattolici. Nell’attuale situazione, eraforse l’unica via praticabile quella della diaspora dei cattolici nelle più diverse formazioni politiche? A qualirisultati politici potrà portare la dispersione dei cattolici in politica? Stiamo pensando soprattutto al proble-ma della scuola, dell’università, delle carceri, dell’emigrazione, delle imprese che muoiono una al minuto,della disoccupazione giovanile e non, della mancanza degli asili….

Per questa ragione, ingiustizie che sono solo il frutto di privilegi acquisiti e mine contro la democrazia,non sono forse gravi ferite contro quella concezione cristiana, stando alla quale “non c’è nessun uomo chesia più importante di un altro uomo?”.

Dagli anni Cinquanta ad oggi sulle nostre strade sono morte quasi mezzo milione di persone. Macchinesempre più potenti su strade sempre più inadeguate e spesso non curate dal pubblico o dal privato che le haavute in concessione costituiscono forse una difesa della vita?

Allora, una fede che dovrebbe spostare le montagne e che è riuscita ad opporsi all’assolutismo faraonicodell’Impero Romano, come mai non è riuscita a risolvere nessuno di questi problemi e nemmeno a cambiareuna legge elettorale illiberale e liberticida?

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“Ho veduto tutti i paesi e gli uomini cambiare; ecosì, dopo molti cambiamenti di giudizio nei con-fronti della vera giustizia, mi sono convinto che lanostra natura non è se non continuo mutamento, eda allora non ho più mutato [giudizio]. E semutassi ancora, confermerei con ciò la mia opi-nione (B. Pascal)”

Una delle ragioni della grandezza di Pascal sta,fuor d’ogni dubbio, nel fatto di essersi confrontato con iproblemi centrali della filosofia. Per questo egli è un clas-sico. E, come si sa, i classici sono contemporanei delfuturo.

Ebbene, un problema di fondo che ha attraversa-to il pensiero filosofico e teologico e che, oggi come ieri,è della più urgente attualità, è quello relativo alla giustifi-cazione o fondazione razionale dei valori. Indifferenza,convivenza, e più spesso conflitti e talvolta tragediesegnano i rapporti storici e sociali dei diversi gruppiumani: diversi, innanzi tutto per concezioni etiche e visio-ni filosofiche o religiose della vita. E dinanzi alla vistosapluralità di siffatte concezioni la domanda inevitabile è seci sia un criterio razionale di preferibilità tra di esse. E,più in particolare, un cristiano non può sfuggire all’inter-rogativo se ciò che è bene lo stabilisce il Vangelo o laragione umana.

Scrive Pascal: «Ho trascorso molto tempo dellamia vita credendo che ci fosse una giustizia; e non miingannavo, dacché ce n’è una, secondo a Dio piacque dirivelarcela. Ma non la intendevo così, e in ciò sbagliavo:perché credevo che la nostra giustizia fosse per essenzagiusta e mi stimavo capace di conoscerla e di giudicarne.Sennonché mi sono trovato tante volte senza un retto cri-terio di giudizio che, alla fine, ho preso a diffidare di mee poi degli altri. Ho veduto tutti i paesi e gli uomini cam-biare; e così, dopo molti cambiamenti di giudizio nei con-fronti della vera giustizia, mi sono convinto che la nostranatura non è se non continuo mutamento, e da allora nonho più mutato [giudizio]. E se mutassi ancora, conferme-rei con ciò la mia opinione». Che cos’è, dunque, la giusti-zia? Pascal parte dalla presunzione che sia possibile veni-

re a capo di questo problema, parte cioè dall’idea che siapossibile sapere in che cosa consista la giustizia e di darneragioni valide erga omnes. Ben presto, però, dovrà arren-dersi: il problema non è razionalmente risolvibile. E –sempre nei Pensieri – si chiede e chiede: su che cosa fon-derà l’uomo “l’economia del mondo”, cioè l’ordinamen-to civile e sociale – lo fonderà «sul capriccio del Singolo?Quale confusione! Sulla giustizia? La ignora». Non è giu-stizia l’arbitrio del singolo. Volgiamoci, allora, ad unagiustizia universale – ma in che cosa consisterà tale giu-

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di Dario AntiseriUn cristiano ciò che è bene e ciò che èmale lo sa dal Vangelo o dalla ragione?

Diritti naturali o legge evangelica?

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stizia universale? È essa alla portata della mente umana?L’uomo è in grado di conoscerla? No, risponde Pascal aquesto nevralgico e perenne interrogati-vo: l’uomo non conosce la vera giustizia,giacché «se la conoscesse egli non avreb-be certo stabilita questa massima, la piùgenerale tra quante han corso tra gliuomini: ognuno si attenga alle costuman-ze del proprio paese». Una massima, que-sta, che Pascal riprende da quel saggio edequilibrato conoscitore dell’uomo che erastato Montaigne (Essais, I, XXII).

Non ci sarebbe bisogno di rifarci a questa massi-ma, se l’uomo fosse stato e fosse capace di venire a sape-re in che cosa consista la giustizia: «lo splendore dellavera equità avrebbe conquistato tutti i popoli, e i legisla-tori non avrebbero preso come modello, invece di quellagiustizia immutabile, le fantasie e i capricci dei Persiani edei Tedeschi. La vedremmo radicata in tutti gli Stati delmondo e in tutti i tempi, mentre, per converso, nulla sivede di giusto o d’ingiusto che non muti qualità col mutardi clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giuri-spru denza; un meridiano decide della verità; nel giro dipochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha lesue epoche[ ...]. Singolare giustizia, che ha come confineun fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là».

E ancora una volta Pascal si riporta a Montaigne:«Duecentottanta specie di sommi beni in Montaigne».L’umana ragione non è capace di fondare in modo univo-co e incontrovertibile i valori; in campo etico la ragione silascia piegare per ogni verso: «coloro che si trovano nellasregolatezza accusano coloro che sono nell’ordine diallontanarsi dalla natura, mentre essi son convinti diseguirla; similmente, a chi si trova su una nave pare chequelli che stanno a terra si allontanino. [...] Per ben giudi-care, ci vuole un punto fisso. Il porto giudica di coloro chesono sulla nave; ma dove troveremo un porto nella mora-le?». Ebbene, la risposta di Pascal a questo eterno interro-gativo è che: la morale non trova il suo porto nella ragio-ne; lo trova nella fede, nel Dio dei cristiani. «La vera reli-gione c’insegna i nostri doveri». La vera giustizia è quel-

la «secondo a Dio piacque di rivelarcela». Solo Dio è “ilvero bene” dell’uomo e, «da quando l’uomo lo ha abban-donato, è strano come non ci sia cosa nella natura che nonsia stata chiamata a fargliene le veci: astri, cielo, terra,elementi, piante, cavoli, porri, animali, insetti, vitelli, ser-penti, febbre, peste, guerra, carestia, vizi, adulterio, ince-

sto. E, da quando ha perduto il suo bene,tutto può egualmente apparirgli tale: fin lasua stessa distruzione che pur è così con-traria a Dio, alla ragione e alla natura tut-t’insieme». In breve: «senza la fede l’uo-mo non può conoscere né il vero bene néla giustizia». Tutti i nostri “lumi” potran-no solo farci conoscere che in noi non tro-veremo “né la verità né il bene”. I filosofiquesto l’hanno promesso, ma non sono

riusciti minimamente a mantenere le loro promesse: «Essinon sanno né quale sia il nostro vero bene, né quale sia lanostra vera condizione».

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La morale nontrova il suo portonella ragione; lo

trova nella fede, nelDio dei cristiani

Diritti naturali o legge evangelica?

Un cristiano ciò che è bene e ciò che è malelo sa dal Vangelo o dalla ragione?

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Sarebbe stato arduo prevedere che dopo la fine dellegrandi filosofie fondazioniste, ottimistiche e progressive(marxismo, idealismo e neopositivismo) che hanno domi-nato la scena intellettuale del Novecento, fosse proprio illoro “nemico”, il “relativismo” (con la complicità dell’in-dividualismo) a finire sul banco degliimputati, considerato dai suoi critici unaprospettiva filosofica inadeguata e dan-nosa per fare fronte agli inediti problemidi identità e di convivenza che pone unasocietà multietnica e accusato perfino diindebolire la democrazia e di minareidentità culturale dell’Occidente. In questo nuovo capitolo della disputatioperennis sulla fondabilità dell’etica scrit-to in questi ultimi anni, è emerso, in par-ticolare, il tentativo di dimostrare – comeha cercato di fare soprattutto Marcello Pera1 – che i valo-ri della tolleranza, del pluralismo e della discussione cri-tica, che contraddistinguono la tradizione culturale euro-pea, possono essere oggettivamente considerati superioriagli altri. A queste argomentazioni, che spesso hanno riproposto unnuovo tipo di fondazionismo etico in contrapposizione aun relativismo inteso come una sorta di nichilismo o dicomunitarismo morale, è opportuno opporre le ragioniepistemologiche che impediscono di considerare i valori,da un lato, assoluti, dall’altro, privi di senso o tutti equi-valenti. 1. Il “politeismo dei valori” non può essere fondatoVa subito detto che la questione della pluralità e dellarelatività delle norme morali può essere utilmente affron-tata distinguendo tre piani, che non è raro trovare confu-

si: uno storico-empirico, uno logico-razionale e unoetico-politico.A) Sul piano storico bisogna riconoscere che è esistita edesiste la più vasta gamma di valori, le cui differenze moltospesso sono risultate ben maggiori di quelle che i singolipopoli potevano aspettarsi sulla base delle rispettive tradi-zioni culturali. La constatazione di questo pluralismoetico empiricamente constatabile faceva dire a Weber,sulla scorta di Mill, che se si parte dal mondo storico siarriva al “politeismo dei valori”, e induceva Pascal a iro-nizzare sull’assolutismo etico, dicendo che nelle sue inda-gine antropologiche Montaigne aveva scoperto ben “due-centoottanta specie di sommi beni”2.

B) Sul piano logico occorre ammettereche, se vale la “legge di Hume”, secondocui, poiché dalle proposizioni descrittivenon possono essere logicamente derivateproposizioni prescrittive, i valori non pos-sono essere logicamente derivati dai fatti,allora non vi è un criterio logico-razionaleper una reductio ad unum, o comunque pergerarchizzare, questa ampia pluralità divalori. Non possiamo pertanto accettarequella tradizione così radicata nel pensierofilosofico che ha in qualche modo cercato

di proporre un’etica basata su fundamenta inconcussa(fattori economici, biologici, teologici, “calcolo utilitari-stico”, “natura umana”, ecc.), con l’obiettivo di individua-re norme etiche valide sub specie aeternitatis. Le scelteetiche non possono essere fondate sulla scienza, ma sibasano sulla coscienza. Non sono i fatti a determinare lescelte di coscienza, ma è la coscienza individuale a giudi-care i fatti. La “legge di Hume” è dunque il fondamentodella libertà di scelta; e se i critici del relativismo nonaccettano questo tipo di relativismo in nome di un’eticache non sia rimessa all’“arbitrio” delle scelte dei singoli,che non rinunci alla ricerca di punti di vista privilegiati oaddirittura di valori esclusivi, devono scendere sul terrenologico per combattere queste argomentazioni di Hume. Edevono anche sapere – come hanno insistito, tra altri,soprattutto Weber, Kelsen e Popper – che il relativismo

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Diritti naturali o legge evengelica?di Enzo Di NuoscioL’etica è senza fondamento

ma non senza ragioni

Le scelte etichenon possono essere

fondate sullascienza, ma sibasano sulla

coscienza

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etico, così inteso, è uno dei fondamenti della “societàaperta”, perché fonda quel “politeismo dei valori” cherappresenta il tratto più intimo della democrazia. “Lacausa della democrazia, ha ammonito Hans Kelsen, risul-ta disperata se si parte dall’idea che sia possibile la cono-scenza della verità assoluta”, poiché “il relativismo èquella concezione del mondo che l’idea di democraziasuppone”3.C) Sul piano etico si tratta di prendere atto che, essendole norme morali logicamente inderivabili dai fatti, anchequel fatto rappresentato dallo stesso pluralismo etico nonpuò essere considerato, di per sé, come un valore oggetti-vamente superiore. Al pari degli altri fatti, può essere rite-nuto preferibile soltanto sulla base di una decisione etico-politica soggettiva, più o meno condivisa; una sceltaargomentabile, magari tenendo contodelle sue conseguenze, le quali, però,sono anch’esse dei fatti che non posso-no fondare i giudizi di valore ma chepossono essere invece oggetto di valuta-zioni.

Dunque: la pluralità dei valori c’è; è uninnegabile dato di fatto che ha contras-segnato l’intera storia umana; per viateorica non può essere né eliminata, né imposta. Inoltre,al pari degli altri fatti, il pluralismo etico non è in sé négiusto né ingiusto, ma può essere considerato desiderabi-le o indesiderabile soltanto sulla base di scelte di valoresoggettive.

2. I valori sono relativi ma non privi di sensoo equivalenti

E tuttavia se la scienza è senza certezza ma non senzaverità, l’etica è senza verità ma non senza ragioni. E cosìcome nella scienza l’impossibilità di trovare verità certenon deve portare a conclusioni scettiche, parimenti l’im-possibilità di un’etica razionalmente dimostrata non devefar concludere che le nostre opzioni morali sono tutte

equivalenti o incommensurabili o addirittura irrazionali eprive di senso. Se – come risulta dalla teoria dell’azionedi L. von Mises – ogni scelta è sempre dettata da “buoneragioni”, poiché l’azione umana in quanto tale è per defi-nizione razionale4, allora anche le decisioni etiche saran-no razionali. Così come ci sono problemi di conoscenzaempirica che i singoli tentano di superare aderendo adeterminate credenze, parimenti le decisioni etiche sonoipotesi di soluzione di quei problemi morali che sorgononell’ambito degli orizzonti di aspettative dei singoli. Perdirla con Boudon, ci sono “buone ragioni” di aderire a“credenze positive” e buone ragioni di aderire a “creden-ze normative”5. È bene subito chiarire che sostenere che la scelta etica èrazionale non significa affermare che essa è razionalmen-te dimostrabile e fondabile. I risultati della prasseologiamisesiana, e più in generale dell’individualismo metodo-logico, non solo non contraddicono la “legge di Hume”,ma, al contrario, la rendono ancora più autentica: proprioperché non hanno un fondamento razionale, le opzioniassiologiche presentano un contenuto razionale soggetti-vamente attribuito ad esse, sono cioè l’esito di scelte indi-viduali orientate da buone ragioni. Ogni singolo è liberodi conferire un senso alle decisioni morali proprio perchéesse non hanno un significato assoluto razionalmentedimostrabile. I valori, dunque, non sono logicamente fon-

dabili, ma non per questo sono irrazio-nali; sono empiricamente e logicamenteindecidibili, ma non sono razionalmenteindicibili. Se giudichiamo un’azionegiusta è perché siamo razionalmenteconvinti del suo valore in sé e magaridelle conseguenze prevedibili della suaattuazione; ci sforziamo di decideresulla base di un giusto equilibrio traésprit de finesse e ésprit de geometrie,

tra “etica della convinzione” e “etica della responsabili-tà”.

Se la “legge di Hume” colpisce al cuore la possi-bilità di un’etica dimostrata, valida erga omnes in quantobasata su fundamenta inconcussa, l’individualismo meto-dologico dimostra quanto siano inaccettabili tutte quelleconcezioni collettivistiche e irrazionalistiche dell’etica, lequali, considerando le scelte morali come l’esito di causediverse dalle ragioni dei singoli, hanno finito sostanzial-mente per annullare il momento della scelta di coscienza.È dunque grazie alla “legge di Hume” e all’individuali-smo metodologico, i quali salvano l’azione umana e lesue scelte da ogni forma di assolutismo, di determinismoe di nichilismo, che possiamo dire che i valori non sono

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“Il relativismo èquella concezione delmondo che l’idea di

democrazia suppone”(H. Kelsen)

Diritti naturali o legge evangelica?

L’etica è senza fondamento ma non senza ragioni

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né assoluti, né privi di senso, né equivalenti. I valori pos-sono essere considerati uguali soltanto sotto un profilo:nessuno di essi può essere assoluto; inoltre, essendo lega-ti alle buone ragioni di ogni singolo, essi sono ognunodiverso dall’altro. D’altronde, il weberiano “mondo disin-cantato” è privo di fondamenti assoluti, ma ricco di signi-ficati soggettivi; non è il regno dell’irrazionalità, bensìdella “razionalità diffusa” e di quel “politeismo dei valo-ri” nel quale è definitivamente tramontata l’“antica alle-anza” tra conoscenza del mondo e senso della vita: “ciòche sappiamo”, per dirla con Kant, non ci dice più “ciòche dobbiamo fare”, né “ciò che possiamo sperare”. Solo commettendo l’errore di identificare il contenutocon il fondamento razionale delle nostre decisioni morali,di non distinguere tra dimostrazione more geometrico eargomentazione, di identificare il significato di un senti-mento morale con un senso assoluto, in altre parole di farcoincidere l’intera razionalità con la razionalità dimostra-tiva e giustificazionista, l’accettazione della “legge diHume” può indurre a concludere che le opzioni moralisono mera intuizione o atti del tutto irrazionali in quantonon riducibili a proposizioni conoscitive. Se la “legge diHume” evita l’assolutismo e fonda il relativismo etico,l’individualismo metodologico, facendo scoprire un ineli-minabile contenuto razionale nelle scelte etiche, evita chetale relativismo degeneri in un nichilismo etico che affer-mi, non che le proposte etiche abbiano un nihil di sensoassoluto, ma che siano invece caratterizzate da un nihil disenso e basta6. Ci troveremmo in questo caso di fronte ascelte senza ragioni, semplicemente dettate da cause(biologiche, economiche, culturali, ecc.) diverse dalleragioni. Le decisioni morali, invece, non possono esseresottratte ad una concezione individualistica, proprio per-ché quella etica, essendo una scelta, non può essereespunta dal dominio della ragione, di una ragione che nondimostra ma che argomenta, di una “ragion pratica” chenon può pretendere di essere “pura”.Così come nella scienza l’esito scettico è spesso un effet-to perverso prodotto dalla fallita ricerca di verità, pari-menti in campo etico l’irrazionalismo può essere conside-rato come l’esito della fallita ricerca di incontrovertibilipunti di appoggio archimedei su cui fondare le nostrescelte morali: “razionalismo e irrazionalismo, ha giusta-mente osservato Hans Albert, hanno in comune il giusti-ficazionismo”7.

3. Il relativismo etico apre al dialogo e alla discussionecritica

Sulla scorta di quanto si è detto si può concludere che: i)i valori non sono empiricamente e logicamente decidibi-li, né possono essere considerati un mero prodotto socia-le o biologico, ma vanno intesi come l’esito di una deci-sione soggettiva del singolo; ii) tali scelte di coscienzasono comunque ispirate da ragioni e non possono esserepertanto considerate atti puramente irrazionali, prodottideterministicamente da cause che prevalgono sulla volon-tà individuale. Sulla base di queste conclusioni si può sostenere che ilcombinato disposto “legge di Hume”/individualismometodologico si rivela un efficace dispositivo teorico peraffermare anche in ambito etico una prospettiva di razio-nalismo (e relativismo) critico; una prospettiva che, da unlato, combatte le pretese di un’etica more geometrico e,dall’altro, evita che il relativismo etico possa essere inte-so come un puro e semplice irrazionalismo, sulla base delpresupposto che la razionalità coincida tout court conquella fondazionista. Seguendo questa strada le ragioni della discussione criti-ca fanno un passo avanti decisivo. Che dialogo potrebbemai originarsi se un individuo o un gruppo fossero ingrado di dimostrare che i propri valori sono assoluti? o se,invece, le decisioni etiche fossero prive di senso, atti pura-mente irrazionali, magari effetto di cause che azzerano

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Diritti naturali o legge evangelica?

L’etica è senza fondamento ma non senza ragioni

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l’intenzionalità del singolo e che sfuggono al suo control-lo razionale? Evidenziare che le scelte morali, proprioperché infondabili, hanno un contenuto razionale ad esseconferito dai singoli, significa stabilire che tali decisionisi basano su ”buone ragioni” soggettivamente valide, inmancanza delle quali verrebbe meno qualsiasi possibilitàdi confronto8. La prasseologia e la ”legge di Hume” con-sentono, dunque, di evitare la Scilli della ricerca di un’eti-ca oggettiva senza cadere nella Cariddi dell’irrazionali-smo più paralizzante, secondo il quale l’etica sarebbesemplicemente indicibile, e quindi i sistemi etici sarebbe-ro al di là di ogni possibile confronto. Così come nella scienza la discussione critica è possibilese si evitano i due opposti estremi del dogmatismo e delloscetticismo, in ambito etico il dialogo può nascere evitan-do da un lato il fondamentalismo e dall’altro l’irraziona-lismo. Dimostrando che l’etica non può essere espuntadal dominio della ragione, di una ragione che non dimo-stra ma che argomenta, che è consapevole dei gravi peri-coli derivanti non solo dall’osare troppo, ma anche dal-l’essere troppo rinunciataria. Come ha scritto ChaïmPerelman: “se si dovesse considerare ragionamentoingannatore ogni argomentazione non dimostrativa, l’in-sufficienza delle prove logico-sperimentali lascerebbe, intutti i campi essenziali della vita umana, via del tutto libe-ra alla suggestione o alla violenza. Pretendendo che ciòche non è obiettivamente e indiscutibilmente validodipenda dal soggettivo e dall’arbitrario, si scaverebbe uninsuperabile abisso fra la conoscenza teorica, consideratala sola razionale, e l’azione, le cui motivazioni sarebberodel tutto irrazionali”; in questo modo “l’argomentazionecritica diventerebbe interamente incomprensibile”.Questa prospettiva teorica può seriamente contribuire a

combattere quella paura che Clifford Geertz trovava cosìdiffusa e paralizzante, secondo cui riconoscere la plurali-tà, e quindi la relatività, delle visioni del mondo significacadere nel “nichilismo” e nell’“inettitudine etica”, tantoche, come è noto, lo stesso antropologo americano prefe-riva definirsi “anti anti-relativista” piuttosto che relativi-sta9. Il relativismo che considera i differenti contesti eticie culturali come “mondi separati”, ha scritto l’antropolo-go I. Jarvie, “limitando le valutazioni critiche dell’agireumano ci disarma, ci disumanizza, ci rende incapaci diinteragire comunicativamente, […] di esercitare l’attivitàcritica a livello trans-culturale e a livello trans-sub-cultu-rale; infine questo relativismo non lascia alcun spazio perl’esercizio critico”, poiché “alle sue spalle incombe ilnichilismo”10.

1 M. PERA, Il relativismo, il Cristianesimo e l’Occidente, in J. Ratzinger, M. Pera,Senza radici. Europa, relativismo, Cristianesimo, Islam, Mondadori, Milano, 2004,pp. 14 e ss.

2 B. PASCAL, Pensieri (1657-62), tr. it., Einaudi, Torino, 1962, § 406. 3 H. KELSEN, Essenza e valore della democrazia (1920), tr. it. in Id., La democrazia, il

Mulino, Bologna, 1995, rispettivamente, p. 147 e p. 149 e D. ANTISERI, Relativismo,nichilismo, individualismo. Fisiologia o patologia dell’Europa?, Rubbettino, SoveriaMannelli, 2005, pp. 15 e ss.

4 Per un più approfondito esame della teoria della razionalità di Mises mi permetto dirinviare a E. DI NUOSCIO, Epistemologia del dialogo. Una difesa filosofica del con-fronto pacifico tra culture, Carocci, Roma, 2011, pp. 86 e ss.

5 R. BOUDON, Il senso dei valori (1999), tr. it., il Mulino, Bologna, 2000, pp. 15 e ss. 6 Significative sono a questo riguardo le tesi di A. J. Ayer, per il quale le proposizioni

etiche, non essendo suscettibili di una verifica empirica intersoggettiva, sono prive disenso; A.J. AYER, Linguaggio, verità e logica, (1946), tr. it., Feltrinelli, Milano, 1961,p. 126 e ss.

7 H. ALBERT, Per un razionalismo critico (1968), tr. it., il Mulino, Bologna, 1973, p. 92. 8 “Tutto ciò di cui due persone hanno bisogno (e tutto ciò che hanno) per contraddirsi

nel caso di predicati etici, scrive Stephen Toulmin, è costituito dalle ragioni per fareuna cosa piuttosto che un’altra”; ST. TOULMIN, An Examination of the Place efReasons in Ethics, Cambridge, Cambridge University Press, 1970, p. 28.

9 C. PERELMAN, L. OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione (1958), tr. it.,Einaudi, Torino, 2001, p. 536.

10 C. GEERTZ, “Anti anti-relativism” (1984), tr. it. in Il Mondo 3, 1994/2, pp. 72 e ss. 11 I.C. JARVIE, “Situational Logic and Its Reception”, cit., pp. 45-46.

Diritti naturali o legge evangelica?

L’etica è senza fondamento ma non senza ragioni

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Le funzioni dello Stato nel pensiero liberale.Perché senza solidarietà la libertà è in pericolo

“Dunque: liberali e solidali. E solidali non solo perragioni umanitarie ma anche perché convinti che la soli-darietà costituisce un presidio della libertà”.

In una delle sue Prediche inutili – quella relativa allesomiglianze e le dissomiglianze fra liberalismo e sociali-smo – Luigi Einaudi scrive: «Non fa d’uopo confutareancora una volta la grossolana idea che il liberalismo siasinonimo di assenza dello stato e di assoluto lasciar fare elasciar passare [...]. Che i liberali siano fautori dello statoassente, che Adamo Smith sia il campione dell’assolutolasciar passare sono bugie che nessuno studioso ricorda;ma, per essere grosse, sono ripetute dalla più parte deipolitici, abituati a dire “superata” la idea liberale; ma nonhanno mai letto nessuno dei libri sacri del liberalismo enon sanno in che esso consista». Sia i liberali che i socia-listi – prosegue Einaudi – sono concordi sulla necessitàdell’intervento dello Stato, ma con questa decisiva diffe-renza: «Il liberale vuole porre le norme, osservando lequali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratoripossono liberamente operare; laddove l’uomo socialistavuole soprattutto dare un indirizzo, una direttiva all’ope-ra dei risparmiatori, proprietari, imprenditori e lavoratorianzi detti. Il liberale pone la cornice, traccia i limiti del-l’operare economico; il socialista indica od ordina lemaniere dell’operare».Con Einaudi, Ludwig von Mises: «Lo Stato impiega ilsuo potere coercitivo solo per prevenire azioni distruttivee perseverare il funzionamento regolare dell’economia dimercato. Protegge la vita, la salute e la proprietà dell’in-dividuo contro l’aggressione violenta e fraudolenta deimalviventi interni e dei nemici esterni. Così lo Stato creae preserva l’ambiente in cui l’economia di mercato puòfunzionare con sicurezza». E l’idea centrale dei sostenito-ri dell’economia sociale di mercato è stata proprio quelladi uno Stato forte, fortissimo, istituito a difesa di regoleper la libertà: «Quel che noi cerchiamo di creare – affer-

mano Walter Eucken e Franz Böhm nel primo numero di«Ordo» (1948) – è un ordine economico e sociale chegarantisca al medesimo tempo il buon funzionamentodell’attività economica e condizioni di vita decenti eumane. Noi siamo a favore dell’economia di concorrenzaperché è essa che permette il conseguimento di questiscopi. E si può anche dire che tale scopo non può essere

Lo Stato nel pensiero liberale

Dario Antiseri

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ta appartenendo ad un gruppo ristretto, probabilmenteprodurrà forti scontenti e reazioni violente, quando colo-ro che ne hanno goduto prima i benefici si trovino, senzapropria colpa, privi di aiuti, perché non hanno più la capa-cità di guadagnarsi da vivere». In breve: senza solidarie-tà, la stessa libertà può andare verso il suicidio.

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FocusLo Stato nel pensiero liberale

ottenuto che con questo mezzo». Ed ecco cosa, in Legge,legislazione e libertà, scrive F. A. von Hayek: «Lungi dalpropugnare “uno Stato minimo”, riteniamo indispensabi-le che in una società avanzata il governo debba usare ilproprio potere di raccogliere fondi dalle imposte per offri-re una serie di servizi che per varie ragioni non possonoessere forniti – o non possono esserlo in modo adeguato– dal mercato».

Questi rapidi cenni ad Einaudi e a Mises, agliesponenti della Scuola di Friburgo e ad Hayek solo perribadire che l’idea di estinzione dello Stato – residuo dimitologia marxista e sogno svuotato di storia di quegliabitanti della Luna che sono gli anarchici – è da semprestata estranea alla tradizione del pensiero liberale. In altradirezione, tuttavia, mai si spegne l’antico refrain stando alquale i liberali teorizzano e vogliono sì lo Stato, solo cheil loro Stato è uno Stato di libertà (per i più forti) privoperò di solidarietà (per i più deboli). Ed anche qui, senzarifarci ad esemplari pagine di don Sturzo o alle Lezioni dipolitica sociale di Einaudi, val la pena tornare ancora adHayek e alla sua idea di necessità di azioni governative infunzione solidale «nei confronti di chi, per varie ragioni,non può guadagnarsi da vivere in un’economia di merca-to, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali,vedove e orfani – cioè coloro che soffrono condizioniavverse, le quali possono colpire chiunque e contro cuimolti non sono più in grado di premunirsi da soli, ma cheuna società la quale abbia raggiunto un certo livello dibenessere può permettersi di aiutare». La Grande Società,in breve, può permettersi il conseguimento dei fini uma-nitari perché è ricca: può farlo tramite operazioni fuorimercato e non con manovre che siano correzioni del mer-cato medesimo. Ma ecco quello che, ad avviso di Hayek,è la ragione per cui essa deve farlo: «Assicurare un reddi-to minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scendaquando non può provvedere a se stesso, non soltanto èuna protezione assolutamente legittima contro rischicomuni a tutti, ma è un compito necessario della GrandeSocietà in cui l’individuo non può rivalersi sui membridel piccolo gruppo in cui era nato». Dunque: liberali esolidali. E solidali non solo per ragioni umanitarie maanche perché convinti che la solidarietà costituisce unpresidio della libertà. Difatti, ammonisce Hayek, «unsistema che invoglia a lasciare la relativa sicurezza godu-

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“In questo modo l’enciclica rende esplicito che lagiustizia sociale non è soltanto risultato, ma anche un pre-supposto di una efficiente economica di mercato.Sebbene il mercato segua le sue leggi, è indispensabileper il riconoscimento e l’accettazione sociale di un’eco-nomia competitiva creare un certo grado di uguaglianzasociale”.

Nel seguente saggio si prenderanno in considerazione leriflessioni della Caritas in veritate dedicate al ruolo e ailimiti del mercato, e ai suoi necessari presupposti etici edistituzionali. Par ti colare rilievo riveste la via istituzionaledella carità sottolineata da Benedetto XVI. Si cercherà dimostrare la convergenza di questa idea con alcuni princi-pi fondamentali dell’Economia Sociale di Mercato,facendo riferimento soprattutto alle formulazioni diWilhelm Röpke. Se si getta uno sguardo alla storia della Dottrina Socialedella Chiesa – dalla Rerum Novarum sino alla Caritas inveritate – si potrà certamente sostenere che essa si è sem-pre più avvicinata ai principi e ai contenuti dell’EconomiaSociale di Mercato. Questo rapporto non è stato, però,sempre caratterizzato da un lineare eprogressivo riconoscimento, ma è statosegnato anche da reciproci fraintendi-menti, critiche e riserve. Tuttavia se sitiene conto del reciproco e positivoinflusso di entrambe le tradizioni, nonsarà difficile poter sostenere una con-vergenza tra i principi della DottrinaSociale della Chiesa e quellidell’Economia Sociale di Mercato. Il punto più alto di questo reciprocoriconoscimento trova la sua espressione nella Centesimusannus di Giovanni Paolo II. Questa enciclica, pur noncitando esplicitamente l’espressione “Economia Socialedi Mercato”, in realtà presenta i contenuti e i principi inessa presenti, dimostrando la loro vicinanza con laDottrina Sociale della Chiesa riguardo ai presupposti

antropologici, sociali ed etici dell’ordine economico epolitico. È ben noto l’atteggiamento positivo di GiovanniPaolo II nei confronti del libero mercato inteso come unadelle più importanti istituzioni che contiene allo stessotempo una dimensione sociale. Il “libero mercato” è “lostrumento più efficace per collocare le risorse e risponde-re efficacemente ai bisogni” (CA 34). Allo stesso tempol’enciclica sottolinea anche i suoi limiti e il bisogno di unfondamento morale. Una corretta interpretazione del libe-ro mercato e del principio della libera concorrenza costi-tuisce uno dei principi fondamentali dell’ordine economi-co. Giovanni Paolo II si chiedeva giustamente se dopo lacaduta del comunismo nei paesi dell’Europa dell’Est “ilcapitalismo” fosse il sistema sociale vincente, che biso-gnava proporre ai Paesi del Terzo Mondo.

“La risposta è ovviamente complessa. Se con “capitali-smo” si indica un sistema economico che riconosce il

ruolo fondamentale e positivo dell’im-presa, del mercato, della proprietà priva-ta e della conseguente responsabilità peri mezzi di produzione, della libera crea-tività umana nel settore dell’economia,la risposta è certamente positiva, anchese forse sarebbe più appropriato parlaredi “economia d’impresa”, o di “econo-mia di mercato”, o semplicemente di“economia libera”. Ma se con “capitali-smo” si intende un sistema in cui la liber-

tà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solidocontesto giuridico che la metta al servizio della libertà u -mana integrale e la consideri come una particolare dimen-sione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso,allora la risposta è decisamente negativa” (CA 42).

Giuseppe FrancoL’Economia sociale di mercato e la via istituzionale della Carità

Una correttainterpretazione del liberomercato e del principiodella libera concorrenza

costituisce uno dei principifondamentali dell’ordine

economico

Economia sociale di mercato

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Giovanni Paolo II offre con la Centesimus annus un equi-librato riconoscimento e apprezzamento del ruolo delmercato e della concorrenza, sottolineando allo stessotempo la necessità di un ordine e quadro sociale, nel qualeil mercato deve essere inserito: “L’attività economica, inparticolare quella dell’economia di mercato, non puòsvolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico”(CA 48). Che valutazione offre la Caritas in Veritate della logicadel mercato? Che funzioni positive e quali sono i limitidella logica economica? Quali i presupposti etici del mer-cato? Si può instaurare una convergenza tra lo spiritodella Caritas in veritate e i principi dell’Ordoliberalismoe dell’Economia Sociale di Mercato? L’enciclica Caritas in veritate esprime non solo una valu-tazione positiva del mercato, ma richiama anche i suoilimiti e ne sottolinea i necessari presupposti etici. Essaoffre una definizione antropologica del mercato.Indicativi e centrali sono alcuni passaggi dei paragrafi 35e 36: “Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata,è l’istituzione economica che permette l’incontro tra lepersone, in quanto operatori economici che utilizzano ilcontratto come regola dei loro rapporti e che scambianobeni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro biso-gni e desideri” (CiV 35).L’enciclica non demonizza il ruolo del mercato e il feno-meno della globalizzazione in se stesso, ma rileva i rischiche quest’ultima ha portato con sé. La globalizzazionenon è in se stessa buona o cattiva, ma dipende dall’usoche se ne fa (CiV 42). È una realtà complessa e polivalen-te che offre la possibilità di uno sviluppo “in termini direlazionalità, di comunione e di condivisione” (CiV 42).Pertanto l’esperienza della crisi economica recente e ilfenomeno della globalizzazione sono visti non solo neisuoi sviluppi negativi, ma anche come un potenziale e“un’occasione di discernimento e di nuova progettualità”( Cfr. CiV 21).Secondo la Caritas in veritate il mercato rappresenta unacondizione per un continuo sviluppo e può contribuirealla realizzazione del bene comune e del benessere degliuomini. Allo stesso tempo il Papa rinvia alla necessariainclusione dell’ordine economico all’interno del piùampio ordine sociale. Accanto alla giustizia commutativadel mercato la Dottrina Sociale della Chiesa ha da sempre

sottolineato anche la giustizia distributiva e il ruolo dellacarità come fondamento della stessa economia di merca-to, “[…] non solo perché inserita nelle maglie di un con-testo sociale e politico più vasto, ma anche per la tramadelle relazioni in cui si realizza” (CiV 35).In questo modo l’enciclica rende esplicito che la giustiziasociale non è soltanto risultato, ma anche un presuppostodi una efficiente economica di mercato. Sebbene il mer-cato segua le sue leggi, è indispensabile per il riconosci-mento e l’accettazione sociale di un’economia competiti-va creare un certo grado di uguaglianza sociale.L’enciclica parla in questo contesto della “via istituziona-le” della carità (CiV 7). Qui emerge che la Caritas in veri-tate non sottolinea soltanto il ruolo dell’etica individuale,ma rinvia espressamente anche al ruolo dell’etica sociale.Tale via istituzionale o politica della carità è espressionedel bene comune e della giustizia sociale:

“Volere il bene comune e adoperarsi per essoè esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersicura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, diquel complesso di istituzioni che strutturanogiuridicamente, civilmente, politicamente,culturalmente il vivere sociale, che in talmodo prende forma di pólis, di città. […]Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nelmodo della sua vocazione e secondo le suepossibilità d’incidenza nella pólis. È questala via istituzionale – possiamo anche direpolitica – della carità, non meno qualificata eincisiva di quanto lo sia la carità che incon-tra il prossimo direttamente, fuori dellemediazioni istituzionali della pólis” (CiV 7).

Questa dimensione istituzionale e politica della caritàconsiste nello stabilire delle regole e nel dare luogo adelle istituzioni atte a difendere il bene comune e sullabase del principio della sussidiarietà a venire incontro alleesigenze dell’uomo. La costituzione di queste regole contribuisce a canalizza-re le attività economiche, tese alla realizzazione del pro-prio interesse, a sostegno del bene comune. Propriol’esperienza della crisi economica spinge a dover elabora-re e riprogettare “nuove regole” (CiV 21) per correggerele distorsioni dello sviluppo e per realizzare una nuovasintesi umanistica. Tale sintesi umanistica racchiude unavisione dell’uomo che tiene conto del suo bene ma cheallo stesso tempo è aperta alla dimensione della trascen-denza. La sfera economica “non è né eticamente neutrale

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né di sua natura disumana e antisociale”, ma essa ha biso-gno di essere “strutturata e istituzionalizzata eticamente”(CiV 36). Benedetto XVI indica come una “esigenzadella ragione economica” e come espressione del pensie-ro sociale della Chiesa che le scelte economiche non pro-ducano in “modo eccessivo” “le differenze di ricchezza”.Ciò che serve sono “soluzioni nuove” che sul piano eco-nomico recuperino “quell’insieme di relazioni di fiducia,di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili adogni convivenza civile” (CiV 32). Questa cornice morale e spirituale, in cui deve essereinserita la realtà economica, e il richiamo continuo alrispetto delle regole come garanzia di una convivenzacivile indicano la possibilità di rintracciare delle linee diconvergenza tra le riflessioni sviluppate nella Caritas inVeritate e i principi fondamentali dell’Ordoliberalismo edell’Economia Sociale di Mercato. La prospettiva elabo-rata dall’Ordoliberalismus, che può essere espressa comeun “liberalismo delle regole”, ha sviluppato dei principiche si basano sull’unità tra l’ordine economico e quellopolitico e sociale, ponendo al centro la dignità della per-sona umana. Analogamente al compito che si erano postii padri dell’Ordoliberalismo, teso alla ricostruzione mora-le e culturale della Germania dopo la seconda guerramondiale, anche Benedetto XVI propone sul piano eco-nomico la promozione di un nuovo ordine mondiale.

Sebbene non venga fatto un esplicito riferimentoall’Economia Sociale di Mercato e all’Ordoliberalismo,la Caritas in veritate esige un rinnovamento dell’ordineeconomico che abbia come punto di riferimento un ordi-ne giuridico e morale, valido ad assicurare il funziona-mento del mercato. L’ordine economico – così comerichiesto sia dagli Ordoliberali che dal Papa – ha bisognodi una cornice giuridica e istituzionale e di istituzionimorali che possano funzionare da fondamento ma ancheda limite del mercato.Sia gli esponenti dell’Ordoliberalismo e dell’EconomiaSociale di Mercato che l’enciclica Caritas in Veritatedifendono e promuovono un liberalismo economico eumanistico, che abbia al centro la persona umana e chefaccia suoi i principi della solidarietà, della sussidiarietà edel bene comune. È necessario un ordinamento in cuitrovi espressione non solo la libertà regolata del mercatoe della concorrenza ma anche la libertà e la responsabili-tà umana. L’Economia Sociale di Mercato racchiude in séun programma e un ideale politico ed economico che bensi concilia con i principi della Dottrina Sociale dellaChiesa e con le idee promosse e difese nella Caritas inVeritate.In questo contesto si può fare riferimento alle riflessionidi Wilhelm Röpke sui limiti e le possibilità di un’econo-mia di mercato. Röpke ha di continuo sottolineato neisuoi scritti che “non è tutto l’economia di mercato”. Lasocietà nel suo complesso non si fonda esclusivamentesulla legge della domanda e dell’offerta. Il mercato e laconcorrenza, pertanto, devono entrare a far parte di unordinamento generale più ampio, dove trovano posto lamorale, il diritto, la politica e il benessere individuale. Lavita economica esige un fondamento etico, perche essa“non si svolge in un vuoto morale”. Röpke ritiene inmodo analogo a quanto affermato da Benedetto XVI cheil processo del mercato “attinge a riserve morali” che essonon si può dare da solo. Il vero fondamento dell’econo-mia di mercato dev’essere di natura morale e “lo si devecercare fuori dal mercato e dalla concorrenza, che sonoben lontani dal poterlo creare”.

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Questa concezione si ritrova anche nella Caritas in veri-tate, espressa dall’idea che il mercato non si può “autofondare” o creare da solo quelle condizioni e forze mora-li, che sono necessarie per la sua corretta regolamentazio-ne. Riferendosi alla Populorum Progessio Benedetto XVIafferma che il progresso economico e sociale è una voca-zione, ed esso “è incapace di darsi da sé il proprio signi-ficato ultimo” (CiV n. 16). L’economia ha bisogno del-l’etica per il suo corretto funzionamento, ma non “diun’etica qualsiasi, ma di un’etica amica della persona”(CiV 45): “È interesse del mercato promuovere emanci-pazione, ma per farlo veramente non può contare solo suse stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò cheva oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energiemorali da altri soggetti, che sono capacidi generarle”. (CiV 35)Il mercato deve essere regolato da unordine giuridico, da quelle “forze” o isti-tuzioni morali, quali la famiglia e i corpiintermedi che hanno il compito di limita-re la pura logica del mercato. Il mercatonon esiste “allo stato puro”, ma esso traeforma “dalle configurazioni culturali chelo specificano”. L’economia e la finanza sono degli stru-menti di sviluppo, che però possono essere utilizzatimale. In tal modo viene sottolineato l’impegno moraledell’uomo: “Infatti, l’economia e la finanza, in quantostrumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gesti-sce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a tra-sformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi.Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre questeconseguenze, non lo strumento di per sé stesso. Perciònon è lo strumento a dover essere chiamato in causa mal’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilitàpersonale e sociale”. (CiV 36) Per questo economia dimercato e concorrenza rappresentano delle condizioninecessarie ma non sufficienti per un ordine economicodegno dell’uomo. Centrale è nell’enciclica il richiamo ad uno sviluppo inte-grale della persona, una visione dell’uomo che non vuoleessere in contraddizione con il principio della razionalitàeconomica. La visione cristiana dell’uomo riconosce eassume l’azione umana tesa alla realizzazione dei propriinteressi, ma va oltre di essa. L’idea cristiana della digni-tà umana e della trascendenza accetta, da un parte, il

significato dell’homo oeconomicus teso al raggiungimen-to dei suoi scopi e del suo diritto alla libertà, come anchealla soddisfazione dei suoi bisogni. D’altra parte, però, lavisione antropologica cristiana segna anche i limiti e for-

nisce una correzione della concezioneegoistica dell’uomo. La Caritas in veri-tate si pone contro quelle esagerazioniegoistiche del principio della razionalitàeconomica, contro “l’avidità del profit-to” (Sollicitudo rei socialis 37), vale adire contro quella tendenza egoistica asoddisfare ad ogni costo i bisogni e idesideri dell’uomo, anche calpestando ladignità della persona umana.

L’uomo “non vive di solo pane” e del soddisfacimentodelle condizioni materiali. Egli si realizza pienamente setiene conto e si prende cura della dimensione morale, spi-rituale e culturale. Si può descrivere il rapporto tra lavisione cristiana dell’uomo e il principio della massimiz-zazione degli interessi dell’homo oeconomicus per analo-gia con il rapporto teologico tra grazia e natura: la conce-zione cristiana dell’uomo presuppone e assume il princi-pio della razionalità economica, ma allo stesso tempo losupera. L’antropologia cristiana perfeziona la visione del-l’homo oeconomicus, ma non elimina la ricerca dei pro-pri interessi da parte dell’uomo.La Caritas in Veritate sottolinea non solo la prospettivadell’etica individuale ma anche dell’etica sociale. Essaricorda che la libertà dell’uomo richiede un ricongiungi-mento morale. Il criterio della vita economica rimanel’uomo nella sua interezza, che include anche la dimen-sione della trascendenza. Si può esprimere quest’idea conun commento ante litteram alla Caritas in Veritate: “Lamisura dell’economia è l’uomo; la misura dell’uomo è ilsuo rapporto con Dio” (Martin Hoch).

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Il criterio della vitaeconomica rimane l’uomonella sua interezza, che

include anche ladimensione della

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Il programma “ordoliberale” friburghese, dopo la secon-da guerra mondiale, offrì un fondamento teorico essen-ziale allo sviluppo della cosiddetta “economia sociale dimercato”. Ebbene, il tentativo di diffondere i principi del-l’economia di mercato in conformità con la dimensionesociale della concorrenza e di tradurre nella pratica poli-tica l’impianto teorico dell’ordoliberalismo venne intra-preso soprattutto da Ludwig Erhard.

In seguito al Consiglio Europeo che si tenne a Lisbona nelmarzo del 2000, i capi di Stato o di governo hanno avvia-to la cosiddetta “strategia di Lisbona”, con l’obiettivo difare dell’Unione Europea l’area econo-mica più competitiva del mondo e dipervenire alla piena occupazione entro il2010. Tale ambiziosa strategia negli anniè stata sviluppata ed oggi possiamoaffermare che essa si fonda sui treseguenti pilastri: un pilastro economico,uno sociale ed uno ambientale.Con particolare riferimento al primopilastro, è opinione diffusa che il proces-so di unificazione europea, la predisposizione di “autori-tà indipendenti”, la nascita di un’area economica infor-mata al principio di concorrenza che, a partire da Roma,passando per Maastricht, giunge fino a Lisbona, abbianoricevuto un particolare impulso dalle riflessioni dei cosid-detti “ordoliberali” tedeschi della prima metà del XXsecolo, riconoscibili anche come Scuola di Friburgo.Il contributo più originale degli ordoliberali è stato di averaggredito le problematiche del mercato concorrenziale apartire da un “approccio istituzionale”: l’ordine concor-renziale è di per sé un “bene pubblico” e in quanto taleandrebbe tutelato. Secondo Viktor J. Vanberg, tale pro-spettiva costituzionalista relativa al mercato accosta gliordoliberali della Scuola di Friburgo alla ricerca istituzio-nale di James Buchanan, il quale ha universalizzatol’ideale liberale di cooperazione volontaria, trasferendolodall’ambito delle scelte di mercato a quello delle scelteistituzionali. La prospettiva di sottoporre il “gioco” delle forze del-

l’economia di mercato ad un quadro giuridico e ad arbitrineutrali, onde impedire la nascita di posizioni di potereeconomico dominanti e di utilizzare le qualità positivedella concorrenza, divenne nella prima metà degli anniTrenta l’idea-guida di un originale programma di ricercacondotto presso le facoltà di diritto e di scienze politichedell’università di Friburgo. A tal riguardo, occorre men-

zionare innanzitutto l’opera di WalterEucken, Franz Böhm e Hans-GrossmanDörth. Il nocciolo teorico della scuola diFriburgo venne espresso nella raccoltadi scritti di Eucken, Böhm eGrossmann-Döth edita nel 1936:“Ordnung der Wirtscahft”. Nella pre-messa, intitolata “Il nostro compito”, gliautori misero in luce il fatto che “la

costituzione economica [andrebbe] intesa come una deci-sione complessiva sull’ordine della vita economica nazio-nale” e quindi che “l’ordine giuridico [andrebbe] conce-pito e formato come una costituzione economica”. Il nucleo del gruppo – Eucken, Böhm e Grossmann-Dörth– fu da subito ampliato ad un vasto circolo di allievi e dicolleghi, il che ci consente di parlare di una “scuola”. Siannoverano al riguardo gli allievi di Eucken, Karl PaulHensel, Hans Otto Lenel, Friederich A. Lutz, KarlFriederich Meyer e Leonard Miksch, così come BernardPfister.La genesi del liberalismo delle regole coincise con l’asce-sa della dittatura nazionalsocialista, che proprio aFriburgo aveva trovato una imponente figura-guida conl’allora rettore dell’università, Martin Heidegger. Sotto ilrettorato di Heidegger, Eucken fu un portavoce di primopiano dell’opposizione nel senato accademico; le lezionidi Eucken di quegli anni erano diventate un punto diincontro dei critici al regime.

Flavio Felice La Scuola di Friburgo e la sua eredità

Sottoporre il “gioco”delle forze dell’economiadi mercato ad un quadro

giuridico e ad arbitrineutrali

Economia sociale di mercato

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Sul piano teorico, Böhm, Eucken e Grossman-Dörth,oltre a rendere esplicita la loro ferma opposizione allaancora persistente eredità della Scuola storica tedescadell’economia di Gustav Schmoller, affermarono il prin-cipio generale di “legare all’idea di costituzione economi-ca tutte le questioni pratiche, politico-giuridiche o politi-co-economiche”, convinti come erano che l’interrelazio-ne tra diritto ed economia fosse “essenziale”. Gli autori del Manifesto del ’36 espressero con forza laloro posizione in ordine al metodo che lo scienziatosociale dovrebbe adottare; essi ritenevano che “il compi-to più urgente per i rappresentanti del diritto e dell’econo-mia politica fosse quello di lavorare insieme in uno sfor-zo volto ad assicurare che entrambe le discipline[ritrovassero] il proprio posto nella vita della nazione.Questo non solo per il bene della scienza ma, cosa piùimportante, nell’interesse della vita economica dellanazione tedesca”. Appare con chiarezza la consapevolez-za da parte dei nostri autori della delicatezza e dei pericoliche caratterizzavano l’allora situazione storica tedesca.Non si trattava solo di incrociare le spade intorno ad unapur nobile disputa sul metodo, quanto della evidente com-prensione e della chiara esplicitazione dei rischi che unanazione corre allorché i suoi intellettuali e la sua classedirigente perdano di vista un elemento chiave della vitareale: politica, economia e cultura sono sfere intercon-nesse e non compartimenti stagni. Il compito dello scien-ziato sociale – in tal caso dell’economista – è di rendereragione dei fenomeni, tenendo presente la loro com -plessità ed irriducibilità al mero problema economico.I nostri autori individuano due atteggiamenti entrambifigli del fraintendimento metodologico in ordine allascienza economica e giuridica: il “fatalismo” ed il “rela-tivismo”. Con riferimento a tali atteggiamenti, scrivono:“Di fronte a un atteggiamento fatalista il giurista può soloadeguarsi alle condizioni economiche”. In pratica, loscienziato si arrende di fronte alla presunta necessità chegovernerebbe il processo storico, un inarrestabile corsodegli eventi: “Non sente di avere la forza per influen-zarle”. Compito dello scienziato sociale, al contrario, sostengonoi padri dell’ordoliberalismo, “È proprio lo sforzo di porredomande”. È esattamente questo sforzo che distingue conchiarezza la speculazione scientifica dal pensiero ordi-nario. La grande responsabilità della Scuola storica,denunciano gli ordoliberali, fu che “sotto la sua guida glieconomisti politici tedeschi dimenticarono come appli-care una teoria, come migliorarla e come effettuare ana -lisi economiche. Per tale motivo essi dimenticaronoanche come comprendere il funzionamento del sistema

economico complesso. In breve, persero contatto con larealtà e commisero proprio quell’errore che più abor-rivano, dato che la realtà non è un accumulo di fatti noncollegati”. Böhm, Eucken e Grossmann-Dörth, a questo punto, indi-viduano quattro argomenti che delineano il percorsoscientifico del cosiddetto “liberalismo delle regole”. Inprimo luogo, l’applicazione del ragionamento scientifico,nel diritto come nella scienza economica, per costruire eriorganizzare il sistema economico. In secondo luogo,considerare le singole questioni economiche come “particostitutive di un tutto più grande”, in quanto “tutte lequestioni pratiche, di carattere politico-giuridico e politi-co-economico, devono essere adattate all’idea della costi-tuzione economica. In questo modo vengono superatel’instabilità relativista e l’accettazione fatalista dei fatti”.In terzo luogo, “È proprio affrontando la storia con ledomande fondamentali che noi comprenderemo meglio,penetreremo più a fondo e impareremo di più da essa diquanto non faccia lo storicismo”. In quarto luogo: “la co -sti tuzione economica deve essere intesa come una deci-sione politica generale su come la vita economica dellanazione debba essere strutturata”. In pratica, alla costi-tuzione economica spetta l’individuazione della linea didemarcazione tra concorrenza sleale e concorrenza pro-priamente detta, offrire la cifra in forza della quale sta-

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Economia sociale di mercatoLa Scuola di Friburgo e la sua eredità

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bilire se esista libera concorrenza o meno, se la concor-renza sia limitata, se la concorrenza sia efficiente o invececrei ostacoli, se le riduzioni di prezzo siano o meno con-formi al sistema di libero mercato”.

Il programma “ordoliberale” friburghese, dopo la secon-da guerra mondiale, offrì un fondamento teorico essenzia-le allo sviluppo della cosiddetta “economia sociale dimercato”. Ebbene, il tentativo di diffondere i principi del-l’economia di mercato in conformità con la dimensionesociale della concorrenza e di tradurre nella pratica poli-tica l’impianto teorico dell’ordoliberalismo venne intra-preso soprattutto da Ludwig Erhard [1897-1977]. Questifu Direttore dell’Amministrazione Economica dellaBizone, Ministro Federale dell’Economia ed infineCancelliere. Erhard, allievo di Franz Oppenheimerall’Università di Francoforte, aveva studiato sugli scrittidi Eucken ed aveva letto La crisi sociale del nostro tempodi Wilhelm Röpke del 1942. Egli vedeva nel liberalismodelle regole “una teoria che sapeva spiegare correttamen-te le caratteristiche del tempo”. Come ci fa notareGoldschmidt, nonostante Erhard (necessariamente) inter-pretasse le idee dei friburghesi con un certo pragmatismopolitico, le proposte di fondo sono sostanzialmente analo-ghe: si tratta di fissare il mercato e la concorrenza comemezzi per raggiungere obiettivi sociali. Queste proposte difondo le condivideva anche Alfred Müller-Armack, ilquale operò per promuovere l’economia sociale di merca-to, dapprima definendola teoricamente ed in seguito ten-tando di implementarla politicamente in qualità diSottosegretario al Ministero dell’Economia Federale.Müller-Armack, al quale dobbiamo l’espressione “econo-mia sociale di mercato”, ridusse il nucleo di tale concettoad una formula agile; in pratica, si tratta di “collegare,sulla base dell’economia della concor-renza, la libera iniziativa con un progres-so sociale assicurato proprio attraverso leprestazioni dell’economia di mercato”.Erhard, ma prima di lui Eucken, coltiva-va la convinzione che un contributoessenziale al “progresso sociale” potessegiungere da mercati aperti e strutturatisul modello della libera concorrenza eperciò in crescita dinamica. La “questione sociale” trovala sua prima e decisiva risposta nell’ordine della concor-renza – quindi non contro o per il mercato, ma con il mer-cato. L’economia sociale di mercato scommette sullacapacità dei processi di libero mercato di perseguire fina-lità di interesse sociale, non contrapponendo affatto, di

conseguenza, i concetti di “sociale” e di “mercato” edinfine non identifica “sociale” con “statale”; il socialeriguarda in primo luogo l’ambito della società civile, arti-colata secondo il principio di sussidiarietà orizzontale,oltre che verticale. La politica sociale non è quindi néun’attività di correzione (da parte dello stato) né una sem-plice appendice dell’economia di mercato (la filantropiaprivata) – nell’uno e nell’altro caso, in effetti, avrebbesenso parlare di economia di mercato sociale, dove l’ag-gettivo qualificativo (sociale = “Stato”) avrebbe la funzio-ne di addolcire le asprezze del sostantivo (mercato = “pri-vato”). Al contrario, la politica sociale è una parte costi-tutiva equipollente e integrale del concetto di economiasociale di mercato. Non si tratta di puntuali interventi nelmercato “su base sociale”, quanto soprattutto dell’acces-so senza privilegi al mercato – proprio allora si può atten-dere dalla “libera iniziativa” anche il “progresso sociale”.In ordine allo svolgimento della politica sociale, il princi-

pio della “conformità al mercato” offreun orientamento teorico. Müller-Ar -mack, Alexander Rüstov e Röpke met-teranno a punto questa idea di fondodell’economia sociale di mercato: prov-vedimenti politici di carattere gestiona-le debbono “garantire gli scopi socialisenza intervenire negli apparati del mer-cato creando perturbazioni”. Per tutti i

rappresentanti della tradizione di Friburgo, un efficientesistema di prezzi è l’elemento centrale degli “apparati delmercato”. I prezzi informano su scarsità e preferenzemodificate; essi controllano il potere degli attori e dirigo-no risorse scarse verso utilizzi più efficienti.Provvedimenti di politica economica che tentino di dareattuazione ai loro obiettivi manipolando il meccanismo

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Economia sociale di mercatoLa Scuola di Friburgo e la sua eredità

Si tratta di fissare ilmercato e la concorrenza

come mezzi per raggiungereobiettivi sociali

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dei prezzi finiscono per annullare la funzione sociale delmercato e portano pertanto alla concentrazione di potere.

Hans Grossmann-Dörth morì nel 1944, Franz Böhm sitrasferì nel 1945 a Francoforte e Walter Eucken morì nel1950. Le idee dei padri fondatori del liberalismo delleregole continuano ad essere coltivate e divulgate, anche secon diversa intensità, in varie sedi e in differenti prospet-tive. Soprattutto la vedova di Eucken, Edith Eucken-Erdsiek, ha impegnato tutta la sua vita per promuoverel’eredità intellettuale del marito, tra l’altro fondando aFriburgo il Walter Eucken Institut nel 1954. Il programma di ricerca del “liberalismo delle regole”otterrà con la chiamata di Friedrich August v. Hayek nel1962 all’Università di Friburgo un nuovo e decisivoimpulso. Sebbene sia risaputo che Eucken ed altri inter-preti del liberalismo delle regole intrecciarono già allafine degli anni Venti contatti con Hayek, è opportuno rile-vare che l’arrivo di Hayek a Friburgo ha contribuito a lan-ciare una “sfida creativa alla tradizione friburghese”, alpunto che a tratti appare difficile distinguere in Hayek ilcontributo friburghese da quello propriamente austriaco,ad esempio in merito al concetto di “ordine spontaneo” ealla sottolineatura da parte dell’economista austriaco deiproblemi della conoscenza. Tali contatti si intensificaronodopo la guerra con la fondazione dell’Associazione MontPélerin Society (1947). Tra i fondatori della Mont PélerinSociety troviamo uno degli esponenti di spicco dell’eco-nomia sociale di mercato, quanto meno il più tradotto inItalia: Wilhelm Röpke. A questo punto, la tradizioneordoliberale di Friburgo, nella particolare prospettiva teo-rica röpkiana, e la filosofia sociale evoluzionistica diHayek tenderanno a convergere, disponendosi ad un pro-fondo rinnovamento che oggi passa attraverso l’opera di – solo per citarne alcuni – come Nils Goldschmidt eViktor J. Vanberg. In particolare, Goldschmidt si inseriscenel solco della tradizione dell’ordoliberalismo che incon-tra il pensiero sociale cristiano di figure eminenti come il

cardinale Joseph Höffner, peraltro allievo diretto diEucken, ed il padre gesuita Oswald von Nell-Breuning, ilprincipale estensore dell’enciclica di Pio XI Quadra -gesimo anno del 1931 – nella quale troviamo una primaoriginalissima formulazione del principio di sussidiarietà–, e da lì giunge fino al personalismo liberale di un Röpkeche incontra l’anticostruttivismo di matrice hayekiana. Ilsecondo, il Venberg, proietta l’economia sociale di mer-cato nella direzione di un incontro con il programma diricerca in economia politica istituzionale elaborato daJames Buchanan. Per quanto la tradizione di Friburgo non possa essere rap-presentata come un blocco monolitico e le sue radiciaffondino in un terreno fertile, ritengo che le basi gettatenegli anni Trenta si ritrovino in tutte le formulazioni suc-cessive e che, entro i limiti premessi, si possa parlare diun certo “stile di pensiero friburghese”.

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Economia sociale di mercatoLa Scuola di Friburgo e la sua eredità

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“Proclamare la liberazione ai prigionieri implica oggil’impegno di trovare forme di risoluzione dei conflitti cheriqualifichino l’essere libero dell’uomo, che faccianoappello alla sua capacità di riscegliere il bene laddove èstato scelto il male”.

Il primo santo, riconosciuto da Gesù stesso mentre pativala medesima fine, è un ladrone crocifisso con lui: “Fammistare con te nel tuo regno”. In questa ricerca finale di essere salvato nel momentodella condanna colgo tutta l’enorme possibilità di ricercadel bene che attraversa ogni condizione umana, anchequella di chi è definito delinquente. Non siamo di frontead una ricerca filosofica di definizionedi bene ma ad una ricerca di relazionesalvifica per la vita.Questo è la culla di un nascere al bello,al buono, al bene, è la meta ultima diogni ricerca umana che riconosce ilbisogno di essere accolto anche nelproprio male.Di fronte ad un innocente che non ticondanna puoi bestemmiarlo o chie-dergli di indicarti la strada.Non sembri strano il ricorrere a questo momento tragicoper iniziare a parlare del visitare i carcerati e di sguardiche si incontrano e che cercano il bene per sé. Certamente quando pensiamo al bene possiamo ipotizza-re uno stato di felicità: mi sento bene. Ma vi è un bene cheè una ricerca di relazione finalmente giusta, ricercata,desiderata sempre anche quando fallisce nei suoi obbiet-tivi e nelle sue realizzazioni concrete. Proprio perché fal-lita sempre più desiderosa di realizzarsi in novità, in spe-ranza riaccesa.Questo mi pare sia l’atteggiamento migliore per accostar-si alle persone che vivono in carcere il dramma della lorocondanna.Molte volte mi è capitato di colloquiare con persone incarcere che mi hanno rimandato fortemente la loro con-tentezza di essere cambiati, di scoprire per esempio che è

meglio non reagire con violenza ai violenti. Con stuporedicono di essere non solo felici di essere riusciti a domi-nare i propri istinti di vendetta ma di aver assistito ad undecantare dell’astio anche nei loro offensori.Altri mi hanno parlato, un po’ preoccupati ma sereni, delloro piangere per la sofferenza causata ai loro familiari,contenti di cogliere gli errori e i tradimenti commessi neiloro confronti, riconoscenti del rimanere fedeli dei loroparenti anche di fronte alla comunanza di condanna daparte dell’opinione pubblica.

La sofferenza innocente dei loro fami-liari ha fatto rinascere il desiderio diessere ricercatori e ricostruttori di bene.Alcune persone mi hanno parlato delloro sentire oggi la fede in Gesù comeun amico che ti trascina ad andare versouna vita piena di significato.Un amico mussulmano mi ha detto cheAllah l’ha fermato altrimenti avrebbefatto ancora altro male, mi ha chiesto di

aiutarlo a liberarsi dalla sua dipendenza.Desideri di accompagnarsi con altri verso una vita buona.Meraviglia di doni consegnati a persone altrettanto feritee ansiose di ripercorrere strade insieme, dimentiche di tra-dimenti, contente di dare continuità alle promesse di beneformulate nell’ieri ed oggi donate di nuovo. Parlarsi nel dolore, comunicare la forza del destino comu-ne, accogliere le richieste di perdono, accorgersi di unarelazione salvifica, ecco il terreno buono in cui coltivareil bene reciproco.Vi è ancora un altro compiersi del disvelamento del beneche ti cerca e che cerchi: la qualità relazionale che inter-corre con le altre persone detenute, con tutte gli altri cheabitano e vivono il carcere con te.Trovare e cercare la libertà è il compito, il desidero cheriempie, ogni spazio, ogni pensiero, ogni furbizia, ognisincera ricerca di riscatto.

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“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”

don Virgilio Balducchi* DIB

ATTI

TI

Parlarsi nel dolore (...)accorgersi di una relazione

salvifica, ecco il terrenobuono in cui coltivare

il bene reciproco.

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Una qualità di relazione buona è possibile tra colui chedetiene il potere di darti la libertà e tu che sei sottopostoalle sue decisioni? Ciascuno che entra in carcere per lavoro o per volontaria-to è posto in questo dilemma. Può non prendersi cura diquesto dilemma. Gioca la carta del cattivo o del buono pensando a volte ase stesso o a volte agli altri. Deve decidere tra il semplicerispetto delle regole, necessario per la sicurezza, e l’uma-nizzazione della pena non solo perché nella società que-sto è l’asse su cui continuamente si oscilla, ma perchél’umanità è affare di tutti.Credere nella capacità di ogni uomo di scegliere il bene èdare anche a se stessi la stessa risorsa, non credere è col-locarsi anche nella propria condanna al male.Non è un dilemma cancellabile o rispondibile una voltaper tutte, è parte della ricerca del buono oggi nel contestoin cui sei, con le persone con cui vivi, è la possibilità diaccogliere il dono del bene che si manifesta se atteso,accolto, custodito, accompagnato.Uno dei termini che ho usato è custodire, la custodia èuno dei compiti del carcere. Chi, come, per arrivare dove, custodiamo?Chi è custodito, come si sente, che confronto può averecon te che lo custodisci?Le risposte, se possiamo chiamarle così, sono la soffertama bella crescita del bene dentro anche in chi custodisce. Proprio l’azione del custodire, nella sua accezione didifendere i semi di crescita positiva in tutti, apre all’atte-sa di un incontro fruttuoso, rispettoso della vita, contem-plativo dell’avventura dell’uomo. Senza fretta, non rin-correndo l’immediata corrispondenza.Non vi può essere primavera, se prima non abbiamo iltempo dell’inverno, e d’altronde non sorge la pienezzadell’estate e i frutti dell’autunno non si colgono se non neltrascorrere operoso nel tempo.L’autunno dell’uomo è di nuovo il frutto e il riavviarsi delciclo vitale. La pazienza dell’attesa è sempre presente nelvissuto del carcere, a volte si dispera, altre si resta alcospetto dell’impossibile.Chi si pone a fianco, persona detenuta od operatore, acco-glie tutto: la disperazione e la speranza, la voglia di vive-re e il desiderio di rinunciare alla vita. Non vive dell’altro

o al posto dell’altro, offre uno spazio di dialogo a partiredai propri desideri di vita, testimonia le verità trovate epraticate.A volte ci vengono consegnati semplicemente i suoi desi-deri di riscatto.Come vedi sorgere il buio più profondo che ammazza,così vedi apparire la luce folgorante del bene, a volteimprovviso, inatteso e altre il frutto di un percorso fati-coso, che sta emergendo tortuosamente in mezzo ad unamiriade di insuccessi. Accogliersi è l’imperativo per permettere al seme di cre-scere, è il crederci e il credere nella forza vitale che è innoi, per chi accoglie un Creatore è l’alito infuso da Dionell’uomo per essere un essere dialogante e amministra-tore della vita con Lui.È la compagnia di Dio che chiama gli uomini ad esserefelici nell’essere accompagnatori. La veridicità del benesi accompagna con la scoperta di essere affidati l’unoall’altro.La compagnia all’interno del carcere è coatta, sei costret-to ad accompagnarti ad uomini sconosciuti ma fin daiprimi giorni del tuo esserci scopri mondi solidali assiemead inimicizie o a finte cortesie.Scopri che il bene e il male attraversa tutti, cosa desideri?Essere trattato con giustizia. Subito viene chiesto pure ate di decidere se essere giusto o incamminarti per altrisentieri.

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Dibattiti“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”

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Fare scelte di bene in mezzo ad un marasma di male puòesserti possibile se qualcuno ti fa compagnia nella tuaricerca positiva. Nessun bene ti può essere imposto, può esserti solo testi-moniato, dialogato, condiviso.Laddove la tua libertà è chiusa tra le sbarre dalla societàche ti ritiene comunque colpevole, la ricerca è resa diffi-cile ma non impossibile, anche lì trovi compagni di viag-gio disposti a cercare con forza e determinazione unalibertà che conduce a valori positivi, condivisibili conmolti uomini di buona volontà che nel mondo percorronostrade di solidarietà, di giustizia e di pace.A loro modo, tutte le persone in carcere esprimono ildesiderio del meglio, per sé e per gli altri, e non possonoessere lasciati soli. Necessitano di relazioni positive, all’inizio dell’introdu-zione dei volontari in carcere si sosteneva che a ciascundetenuto era necessario affiancare una persona volontariache lo accompagnasse nel suo percorso. Oggi senza negare il valore insito nel volontariato siamodi fronte a situazioni multiproblematiche che implicanoche il bene testimoniato sia però intelligente, cioè capacedi accompagnare scelte forti a partire da vissuti che hannominato fortemente la capacità e la volontà di scelta.Diventa prioritario sostenere ogni seme o germe che siaffaccia e desidera compiersi negli uomini e nelle donneche incontriamo.

I racconti di vita che accogliamo richiedono un sorta disperanza pensabile, basata sull’accettazione della debo-lezza animata da scintille di voglia di cambiamento;assieme dobbiamo trovare la legna per far ardere un fuocoche riscalda ed è utile per approntare vivande gustose ebuone per la vita.Non vi sono percorsi precostituiti, vi è una forza da rinvi-gorire in tutti.La Parola di Dio ci suggerisce non solo di visitare i car-cerati, ma di proclamare la liberazione ai prigionieri.La proclamazione della liberazione ai prigionieri fa partedella missione di Gesù e rappresenta la prova del suoessere Messia.Non si tratta quindi di un’azione secondaria o marginalema della realizzazione di un segno che ci fa incontrareDio.La richiesta di libertà, detta in multiformi modi – anchechi si impicca in carcere in fondo ci grida questo – è unacostante dei nostri incontri: “Strappa dal carcere la miavita, perché io renda grazie al tuo nome…” è la supplicadel Salmo 141,8.È una richiesta che cerca l’incontro liberatore.Si tratta quindi di trovare strade e percorsi di libertà; ilcarcere è la privazione-negazione della libertà, è un malee, per questo, il suo progressivo abbattimento comenecessità sociale, è azione di Chiesa.Proclamare la liberazione ai prigionieri implica oggi l’im-

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Dibattiti“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”

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pegno di trovare forme di risoluzione dei conflitti cheriqualifichino l’essere libero dell’uomo, che faccianoappello alla sua capacità di riscegliere il bene laddove èstato scelto il male.Inoltre, la morte di Gesù ci suggerisce di attuare una fun-zione vicaria laddove le persone o non sono in grado onon riescono a proporsi con le proprie forze.Vi è qui un rimando all’azione di riscatto che Gesù fa neiconfronti delle nostre colpe per liberarci dal male.San Paolo nella sua lettera a Filemone ce ne dà un esem-pio, rinviando lo schiavo Onesimo come fratello, affer-mando: “Se dunque mi consideri come amico, accogliOnesimo come me stesso. E se inqualche cosa ti ha offeso o ti è debi-tore, metti tutto sul mio conto. Loscrivo di mio pugno, io, Paolo:pagherò io stesso”(vv. 17-19).L’altra parola fondante il nostroagire è certo l’invito a visitare icarcerati: azione che vede coinvol-ti tanti volontari cristiani, con lasensazione, molte volte, di esseresempre troppo in pochi e pocoascoltati.La troviamo nel capitolo 25 di Matteo, conclusivo di tuttaquella sezione che, a partire dal capitolo 24, enuncia cosadobbiamo fare in attesa del Signore: visitare i carcerati èun’azione da compiere in attesa dell’arrivo del Signore.Ancor più interessante è che questo capitolo presenta ilCristo glorioso, la gloria di Dio. Il vedere faccia a facciail Signore ha, come condizione e realizzazione storica, lacapacità di riconoscere il volto del Cristo in quello deisuoi piccoli fratelli in difficoltà.Se poi guardiamo il “come”, ci accorgiamo che alcuneazioni verso i piccoli e i poveri sottolineano in modo spe-ciale l’aiuto, altre invece la compagnia.I malati e i carcerati vengono messi assieme. Il termine“malato” vuol dire pure prostrato, stufo, depresso, svuo-tato. Sono stati d’animo che leggiamo anche sui voltidelle persone in carcere, dei loro familiari e delle vittimedei reati. D’altra parte, pure i malati in casa si trovano inuna specie di prigionia.Chiamati a visitare coloro che non possono vivere la

socialità, ci troviamo a vivere la compagnia di Gesù: “Inverità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a unosolo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”(Mt 25, 40).Quel “a me”, vuol dire veramente come Lui ha fatto connoi e come tu faresti con Me. Quel visitare ci riporta così al programma della Sinagogadi Nazaret, dove Cristo proclama la liberazione ai prigio-nieri: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi aveteudita con i vostri orecchi” (Lc 4, 21).Liberare e visitare i prigionieri non è un scelta individua-le per i credenti, è un’azione di Chiesa.

L’agire concreto della Chiesa si strutturae si incarna nelle comunità ecclesiali chedevono trovare realizzazioni storiche perdire e continuare la missione dell’annun-cio della buona notizia della liberazione.Nell’ambito dell’amministrazione dellagiustizia, accanto al compiere l’opera dimisericordia corporale, è necessariaun’attenta riflessione sulla proposizionedi un cammino culturale con proposte apartire dallo stile del Signore, nonlasciandosi appiattire su schemi ed ideo-

logie retribuzioniste-vendicative, ma proponendo conforza la riconciliazione e la giustizia ripacificatrice.I convegni su “Colpa e Pena”, fatti in Lombardia, hannodato piste di riflessione teologiche, proposte ecclesiali,strumenti giuridici maggiormente incentrati sul concettodi “riconciliazione”.È una sfida per la Chiesa per rileggere l’agire nel mondodel penale, in quanto “essere Chiesa” nella società impli-ca pure il proporre democraticamente nell’amministra-zione della giustizia valori e strumenti di convivenza ispi-rati all’essere uomo Gesù Cristo.Nel suo processo, Cristo invita Pilato a ricercare la verità,ad agire la sua funzione di giudice, senza pregiudizi vei-colati da fonti autorevoli e potenti (i sacerdoti), senzaaccogliere le spinte sociali (la folla) e non avendo pauradi chi lo ha delegato nel potere di giudicare (l’imperato-re).Il vissuto del condannato Gesù porta alla nostra memoriamolte storie simili e ci obbliga a lottare per una giustizia

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Dibattiti“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”

Il vedere faccia a faccia ilSignore ha, come condizione e

realizzazione storica, lacapacità di riconoscere il volto

del Cristo in quello dei suoipiccoli fratelli in difficoltà

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più equa in tutti gli strumenti sociali messi in campo perfare giustizia. C’è un diritto alla giustizia che è compitoanche per la Chiesa prima ancora che di testimonianza dicarità.La Chiesa è chiamata a presentare il volto di Cristo, vuolessere “segno” del Cristo fattosi povero, affamato, asseta-to, malato, carcerato… per testimoniare la bontà delPadre che ha cura di tutti i suoi figli.“Segno” che non si esprime solo nell’aiuto di chi è nelbisogno, ma che si rende trasparenza della volontà delPadre di proporci la beatitudine della famiglia di Dio.Giovanni Paolo II nella lettera apostolica “Novo millen-nio ineunte” ci suggerisce: “È l’ora di una nuova fanta-sia della carità, che si dispieghi non tanto e non solo nel-l’efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsivicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto siasentito non come obolo umiliante, ma come fraterna con-divisione. Dobbiamo per questo fare in modo che i pove-ri si sentano, in ogni comunità cristiana, come a casaloro. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficacepresentazione della buona novella del Regno?” (n. 50).Le parole espresse sono, sicuramente, il risultato di unlungo cammino di riflessione ecclesiale e il punto di par-tenza per una buona progettazione pastorale.Questa stessa finalità alta, suggeritaci da Giovanni PaoloII, confermata più volte anche dal Santo Padre Benedetto,indirizza l’agire della Chiesa nel “visitare e proclamare laliberazione ai prigionieri”.Siamo invitati a una nuova creatività nell’azione dellaChie sa di cui siamo membri, assumendo con ciò un ruoloculturale e profetico nella società in cui viviamo.Le comunità cristiane, i cappellani, le associazioni divolontariato, gli organismi ecclesiali in questi anni hannosviluppato multiformi servizi per le persone detenute ed iloro familiari. Molto sinteticamente, a mo’ di slogan, potremmo dire chec’è una maggiore capacità di “visitare” i detenuti più cheuno sforzo di “liberarli dalla necessità del carcere”.Per questo é prioritario sviluppare maggiore impegnoattorno ai temi della pena e della giustizia, per non appiat-tirsi sul dibattito odierno, che parla sempre di più di cer-tezza della pena, di sicurezza, di pene alternative premia-li, di costruzioni di nuove carceri, con il risultato prevedi-bile di una maggiore carcerizzazione.

È necessaria un’azione più ampia di riflessione su stru-menti amministrativi e legislativi, che portino di fatto sulterritorio, e quindi anche nelle nostre comunità ecclesiali,l’intervento sui conflitti a rilevanza penale. In caso con-trario, ci troveremo a promuovere esperienze residuali edi tipo premiale (i buoni detenuti di turno) anche neinostri organismi ecclesiali.Un’ultima annotazione: è ancora troppo debole una rifles-sione e un’attività promuovente l’incontro con le vittime:se ne parla poco e, soprattutto, si pratica e progetta poco.E questa è una sfida educativa per tutti.Da una riforma della giustizia che parte dalle vittimenasce un nuovo modo di coniugare il visitare con il libe-rare i prigionieri.La riconciliazione portataci da Gesù impegna la Chiesa,assieme a tutti gli uomini di buona volontà, a costruireun’amministrazione della giustizia che parta dalla difesadel più debole, portando salvezza anche a colui che com-pie il male.Responsabilizzazione, riconciliazione, solidarietà, perdo-no sono i nuovi nomi che i credenti in Cristo sono invita-ti a proporre alla giustizia dello Stato, a pronunciare evivere nei confronti delle vittime e di coloro che commet-tono il male.

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Dibattiti“Ero carcerato e siete venuti a trovarmi”

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Dario Antiseri

1. Luigi Sturzo nasce a Caltagirone il 26 novembre 1871.La madre, Cate rina, era figlia di un medico. Il padre,Felice, barone di Aldobrando, aveva amministrato ilcomune di Caltagirone sino al 1870. Dal 1883 al 1886Luigi è alunno del seminario di Acireale; successivamen-te, per due anni – 1886-1888 –, si trasferisce per motivi disalute nel semina rio di Noto; nel 1888 torna, come alun-no esterno, nel seminario di Caltagirone e si prepara perl’esame di licenza liceale. Dopo gli studi teologici, nelmaggio del 1894 viene ordinato sacerdote. Trasferitosi aRoma per proseguire i suoi studi presso l’UniversitàGregoriana, il giorno del sabato santo del 1895 don LuigiSturzo, nel corso della benedizione delle case in un quar-tiere al centro di Roma, si rende conto della miseria in cuiversano tante persone. È qui che matura la sua decisionedi dedicarsi alla questione sociale. Tornato a Caltagirone,sostenuto dal suo vescovo monsignor Saverio Gerbino,fonda il primo comitato parrocchiale e una sezione opera-ia. Si laurea nel 1898 all’Università Gregoriana. E nellostesso anno dà vita a una federazione delle casse ruralidella diocesi di Caltagirone. Professore nel seminario diCaltagirone, nel 1900, commenta i Principi di economiapolitica di Matteo Liberatore, che erano stati pubblicatinel 1899. Aveva intanto abbracciato l’idea per cui «senzacapitali cessereb be quasi del tutto ogni produzione di ric-chezza e i popoli continuereb bero a rimanere schiavi dellamiseria» (Gabriele De Rosa).

2. Persuaso della bontà del movimento di Romolo Murri,nel 1902 Sturzo guida i cattolici di Caltagirone alle ele-zioni amministrative: ottiene 7 seggi su 40. Nominatocommissario prefettizio nel 1904, la vigilia di Natale del1905 don Sturzo, in un discorso su I problemi della vitanazio nale dei cattolici, pensa già alla costituzione di unpartito di ispirazione cristiana che sia in grado di riporta-re i cattolici all’interno della vita politica italiana. Nel1906 pubblica Sintesi sociali, un insieme di saggi che sirifanno alle concezioni di Giuseppe Toniolo. E intantocrea asso ciazioni comunali di elettori cattolici nelle qualile decisioni dovevano venir prese nelle assemblee degliiscritti indipendentemente dalla autorità ecclesiastica. Lo

scopo di Sturzo, sin dal 1897 – allorché cominciò a pub-blicare il giornale «La Croce di Costantino» – era quellodi ottenere per i cattolici «un loro progressivo, generaleinserimento nella vita civile dello Stato italiano, secondoun programma di riforme che doveva basarsi sul decen-tramento amministrativo e sulle autono mie regionali(soprattutto per risolvere la grave crisi delle aree sottosvi-luppate meridionali)» (Arturo Colombo).Favorevole alla guerra di Libia (1911), nel 1915 Sturzoviene eletto vice presidente dell’Associazione nazionale

Le grandi figure del cattolicesimo liberale

Luigi Sturzo

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dei Comuni italiani. Durante la prima guerra mondiale èsegretario dell’Opera naziona le per gli orfani di guerra,una istituzione voluta dall’Azione cattoli ca. Riguardo alleragioni “giustificative” del conflitto, Sturzo era persuasoche l’Intesa era dovuta entrare in guerra contro la Ger -mania “per la libertà, per la giustizia, per la civiltà”.

3. Verso la fine del mese di novembre del 1918 Sturzo riu-nisce a Roma, in Via dell’Umiltà 36, un gruppo di amicicon l’intento di dar vita al nuovo partito di ispirazione cat-tolica. E il 18 gennaio del 1919, dall’albergo Santa Chiaradi Roma don Luigi Sturzo diffonde l’appello A tutti i libe-ri e forti. Con questo appello nasceva il Partito PopolareItaliano. In una riunione preparatoria del programma edello Statuto del futu ro Partito popolare – riunione tenuta-si il 17 dicembre del 1918 –, Sturzo, tra l’altro, faceva pre-sente: «Se formiamo un partito al di fuori delle organizza-zioni cattoliche, e senza alcuna specificazione religio sa,non per questo noi oggi ripieghiamo la nostra bandiera,noi solo vogliamo che la religione non venga compromes-sa nelle agitazioni politiche e ire di parte [...]. Come Anteotoccando la terra centuplica va le sue forze nella lotta tita-nica, noi centuplichiamo la nostra attività politica, rifacen-do il nostro partito agli ideali e alle attività religiose del-l’azione cattolica». Ed ecco come lo stesso Sturzo ricordai momen ti della fondazione del partito: «Nessuno dei qua-ranta presenti dimenticherà quella sera del dicembre 1918in cui decidemmo la fon dazione del Partito popolare.Eravamo a Roma in via dell’Umiltà (che nome adatto alnostro pusillus grex!). Era mezzanotte quando ci sepa -rammo e spontaneamente, senza alcun invito, passandodavanti alla chiesa dei Santi Apostoli picchiammo allaporta: c’era l’adorazione notturna. Il fratel portinaio fuspaventato di veder tanta gente: la vista della mia sottanalo rassicurò. Durante quest’ora di adorazione rievo cai tuttala tragedia della mia vita. Non avevo mai chiesto nulla,non cercavo nulla, ero rimasto semplice prete: per consa-crarmi all’azione cattolica sociale e municipale avevorinunciato alla cattedra di filoso fia; dopo venticinque anni,ecco che abbandonavo anche l’azione cat tolica per dedi-carmi esclusivamente alla politica. Ne vidi i pericoli epiansi. Accettavo la nuova carica di capo del partito popo-lare con la amarezza nel cuore, ma come un apostolato,come un sacrificio. E perché no? Era una eccezione (spe-cialmente in Italia) che un prete facesse della politica; ce

n’erano stati altri in taluni paesi d’Europa. In quel momen-to i cattolici rientravano in blocco nella vita nazionale,dopo un mezzo secolo di astensione in obbedienza al nonexpedit del papa. Un prete non era fuori della sua missio-ne nell’intervenire. E questo perché il Partito popolare, purevitando il titolo di cattolico e restando fuori della dipen-denza della gerarchia ecclesiastica, si basa va sulla moralecristiana e sulla libertà».Nel primo congresso del Partito popolare, che si tenne aBologna nel giugno dello stesso anno, don Sturzo, decisoa difendere la natura laica e aconfessionale del Partito,deve sostenere una serrata polemica con un’altra grande einfluente figura di intellettuale cattolico: padre AgostinoGemelli. Il secondo congresso del Partito ha luogo aNapoli: qui Sturzo delinea la prospettiva storica del parti-to nella sua funzione di salvaguardia della democrazia edel riformismo. Ostile a Giolitti, Sturzo non si unì con isocialisti; e così il fascismo trovò un ostacolo in menonella sua avanzata nella conquista del potere. Le primepersecu zioni e ammonimenti ecclesiastici a non crearedifficoltà alla Santa Sede – le gerarchie ecclesiastichepensavano a intese con il nuovo potere –, convinseroSturzo, dopo le elezioni del 1924, a lasciare l’Italia.

4. Il 1° novembre del 1919 Antonio Gramsci dà la suainterpretazione sulla nascita del Partito Popolare convin-to che «i popolari stanno ai socialisti come Karenski aLenin».

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«La Costituzione del Partito Popolare – scriveva dunqueGramsci – ha una grande importanza e un gran significa-to nella storia della nazione italiana. Con essa il processodi rinnovazione spirituale del popolo italiano, che rinne-ga e supera il cattolicesimo, che evade dal dominio delmito religioso e si crea una cultura e fonda la sua azionestorica su motivi umani, su forze reali immanenti e ope-ranti nel seno stesso della società, assu-me una forma organica, si in carna diffu-samente nelle grandi masse. La costitu-zione del Partito Popo lare equivale perimportanza alla Riforma germanica, èl’esplosione incon scia irresistibile dellaRiforma italiana.Il Partito Popolare non è nato dal nulla,per un atto taumaturgico del dio deglieserciti. Accanto alle istituzioni religio-se del cattolicesimo erano venutenascendo, da qualche decina di anni, numerosissime isti-tuzioni di carattere meramente terreno, proponendosi finimeramente materiali.Esiste in Italia una fitta rete di scuole fiorentissime, dimutue, di cooperative, di piccole banche di credito agra-rio, di corporazioni di me stieri, gestite da cattolici, con-trollate, direttamente e indirettamente, dalla gerarchiaecclesiastica. Il cattolicesimo, espulso violentementedalle pub bliche cose, privato di ogni influsso diretto nellagestione dello Stato, si rifugiò nelle campagne, si incarnònegli interessi locali e nella piccola atti vità sociale diquella parte della massa popolare italiana che continuavaa vivere, materialmente e spiritualmente, in pieno regimefeudale. Si ve rifica per il cattolicesimo un fenomeno permolti aspetti simile a quello verificatosi per gli ebrei:esclusi da ogni diritto di proprietà immobiliare, gli ebreidivennero i più grandi detentori di valori mobili della cri-

stianità riuscirono a taglieggiare, con la immensa loropotenza finanziaria, gli Stati confessionali dai quali eranooppressi politicamente e spiritualmen te; privati del loropotere pubblico dai liberali, i cattolici oggi, dopo esser siincarnati in una molteplicità di interessi economici locali,si organizza in un sistema di forze sociali e taglieggianolo Stato aconfessionale che li aveva oppressi spiritual-mente e li aveva espulsi dalla storia della civiltà. […] Il cattolicesimo entra così in concorrenza, non giàcol liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra inconcorrenza col socialismo, esso si pone sullo stesso ter-reno del socialismo, si rivolge alle masse come il sociali-smo, e sarà sconfitto, sarà definitivamente espulso dallastoria del socialismo.I popolari rappresentano una fase necessaria del proces-so di sviluppo del proletariato italiano verso il comuni-smo. Essi creano l’associazionismo, creano la solidarietà

dove il socialismo non potrebbe farlo, per-ché manca no le condizioni obiettive del-l’economia capitalista; creano almenol’aspi razione all’associazionismo e allasolidarietà. Danno una prima forma alvago smarrimento di una parte dellemasse lavoratrici che sentono di es sereingranate in una grande macchina storicache non comprendono, che non riescono aconcepire perché non ne hanno l’esempio,il modello nella grande officina moderna

che ignorano. Questo smarrimento, questo pa nico socia-le, che è caratteristico dell’attuale periodo, spinge anchegli in dividui più arretrati storicamente a uscire dal loroisolamento, a cercare conforto, speranza, fiducia nellacomunità, nel sentirsi vicini, nell’aderire fisicamente espiritualmente ad altri corpi e altre anime interrorite.Come potrebbe, per quali vie potrebbe la concezionesocialista del mondo dare una forma a questo tumulto, aquesto brulichìo di forze elementari? Il cat tolicismodemocratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amal-gama, ordi na, vivifica e si suicida. Assunta una forma,diventate una potenza reale, queste folle si saldano con lemasse socialiste consapevoli, ne diventano la continua-zione normale. […] Perciò – concludeva Gramsci – nonfa paura ai socialisti l’avan zata impetuosa dei popolari,non fa paura il nuovo partito che ai sessanta mila tesseratidel partito socialista contrappone i suoi seicentomila

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Il cat tolicismodemocratico fa ciò che

il socialismo nonpotrebbe: amalgama,

ordi na, vivifica e si suicida.(G. Gramsci)

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tesse rati. I popolari stanno ai socialisti come Kerenski aLenin» (Cit. da S. Polisseni, Troppi cattolici italianihanno “aperto” al liberalismo, in «Rivista di studi corpo-rativi», gennaio-aprile 1986, pp. 45-47).

5. L’esilio di Sturzo dura ventidue anni: prima a Parigi,poi a Londra (1924-1940) e infine a New York, sinoall’agosto del 1946. Nel perio do inglese i frutti dellameditazione di Sturzo sono consegnati ai seguenti scritti:ltaly and Fascism (1926); La comunità internazionale e ildiritto di guerra (1929); La società: sua natura e leggi(1936); Politica e morale (1938); Chiesa e Stato (1939).Attraverso il carteggio inter corso tra Sturzo e MarioEinaudi, durante il soggiorno americano (1940-46), pos-siamo tracciare anche una sommaria mappa degli interes-si culturali in ambito sociologico dell’esule siciliano. Inpar ticolar modo, Sturzo mostrò interesse per studiosiamericani di sociologia generale come G. Lundberg,inglesi come M. Ginsberg e storici della sociologia comeP.A. Sorokin, H.E. Barnes, H. Becker e N. Timascheff.Egli chiese all’amico Einaudi di poter ricevere i quat trovolumi del Trattato di Pareto e, dopo il 1942, avendo ini-ziato a lavorare all’opera Del metodo sociologico, ripreselo studio di autori come E. Durkheim e M. Weber. Sturzo,stabilendosi negli Stati Uniti, ebbe modo di conosceredirettamente una delle più grandi, antiche e – all’epoca –poche democrazie della terra. «Seppe coglierne, eviden-ziandoli ed analizzandoli, i caratteri rilevanti impressinella sto ria di quel Paese e presenti nella letteratura poli-tica, filosofica ed economica dei tanti esuli che dalla vec-chia e martoriata Europa si trasferirono oltre Atlantico»(Flavio Felice). Con ciò, tuttavia, il pen siero di Sturzo, siadurante l’esilio che dopo l’esilio, è rimasto «del tutto“sotterraneo” [...] nascosto anche al mondo cattolico, equasi colpito da una tacita interdizione» (G. De Rosa).Il 22 settembre del 1940 Sturzo lascia Londra, diretto aNew York dove arriva il 3 ottobre. Qui fonda l’AmericanPeople and Freedom Group, un’associazione di cattolicidemocratici. E stringe rapporti con esuli quali GaetanoSalvemini, Mario Einaudi, Carlo Sforza e LionelloVenturi. Nel 1943 esce: La vera vita. Sociologia delsopranna turale. È solo alla fine dell’agosto del 1946 cheSturzo si imbarca per l’Italia. È a Napoli il 5 settembre.Sempre nel 1946 pubblica Nazio nalismo e Internazio -nalismo. Del 1949 sono La mia battaglia da New York eLa Regione nella Nazione. Del 1950 è: Del metodoSociologico. Il 17 dicembre del 1952 il presidente dellaRepubblica Luigi Einaudi nomina Sturzo senatore a vita.Come senatore, Sturzo si iscrive al gruppo misto delSenato. Nel 1953 appare Coscienza e politica. Muore l’8

di agosto del 1959; viene sepolto in San Lorenzo alVerano. Il 3 luglio del 1962 la salma del sacerdote sicilia-no è stata tumulata nella chiesa del Santissimo Salvatorea Caltagirone.Ecco un brano del suo Testamento: «A coloro che mihanno criticato per la mia attività politica, per il mioamore alla libertà, il mio attac camento alla democrazia,debbo aggiungere che a questa vita di bat taglie e di tribo-lazioni non venni di mia volontà né per desiderio di scopiterreni né di soddisfazioni umane, vi sono arrivato porta-to dagli eventi, penetrando quasi insensibilmente senzaprevedere un termine prestabilito o voluto, come portato-vi da forza estranea. Riconosco le difficoltà di mantenereintatta da umane passioni la vita sacerdotale e Dio saquanto mi sono state amare le esperienze pratiche di 60anni di tale vita; ma l’ho offerta a Dio e tutto ho indi -rizzato alla Sua gloria e in tutto ho cercato di adempiereal servizio della verità. Difetti, colpe, miserie mi sianoperdonati dagli uomini come son sicuro che mi sono statie mi saranno perdonati da Dio per i meriti di Gesù Cristoe intercessione della Vergine Maria che sem pre invocoora e nell’ora della mia morte e così sia».

6. Nel libro Dai ricordi di un fuoriuscito 1922-1933, cosìSalvemini ricor da il suo incontro con Sturzo. «A Londraun amico della vecchia “Unità”, Angelo Crespi, stabilito-si lì da molti anni, mi offrì una prima affettuosa ospitali-tà. Trovai don Sturzo, che vi era andato nel l’autunno del1924, credendo che la sua sarebbe stata una breve assen-za dall’Italia, ma ormai era diventato anche lui fuoriusci-to. Don Sturzo crede all’esistenza di Dio: un Dio – badia-mo bene – che non solo esiste chi sa mai dove, ma è sem-pre presente a tutto quello che don Sturzo fa, e don Sturzogliene deve rendere conto strettissi mo, immediatamente,e non nell’ora della morte, o nella valle di Giosafatte.Perciò don Sturzo fa sempre quel che ritiene essere il suodovere, e con questo non transige mai. Perciò chi ha delproprio dove re una idea analoga, Dio o non Dio, e cercadi conformarsi a quel l’idea, per quanto la debolezzaumana glielo consenta, sente per quel l’uomo, quandoviene a conoscerlo, un rispetto, che dipende dalla perso-

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nalità morale dell’uomo e non ha nulla da vedere collesue opi nioni religiose e filosofiche. Frequentandolo aLondra, divenni ammiratore dell’uomo – lui al suo posto,io al mio. Con quell’uomo buono (naturalmente era ancheintelligente) non si scherzava. E non scherzai mai, ancheperché certe abitudini quando si tratti di cose serie non leho. E credo che nacque, da questo riguardo che avevamoin comune per le cose serie, una amicizia che io conside-ro uno dei più begli acquisti della mia vita. Non discutem-mo mai. Innanzi a quell’Imalaia di certezza e di volontà,la discussione non avrebbe avuto senso. Quando arrivava-mo alla zona contestabile, accertavamo istintivamente chelì non si passava né di qua né di là, e scantonava mo ami-chevolmente, ognuno per la sua strada. La zona contesta-bile era quella che era costituita dalle opinioni religiose.Una sola volta gli dissi che lui era giansenista, e sentiisubito di averlo offeso: sorrise sorpreso, ed io non proce-detti avanti. Discuteva e lasciava discutere su tutto, conuna libertà di spirito, che raramente avevo trovato nei cosìdetti liberi pensatori; ma quando si arrivava alla zonariservata, cadeva la cortina di ferro, don Sturzo non discu-teva più. A costo di offenderlo, ripeterò che don Sturzo èun giansenista, di quelli orto dossi, beninteso, come donLuca degli Scalzi, il maestro di Mazzini. E aggiungeròche è un liberale. Il clericale domanda la libertà per sé innome del principio liberale, salvo a sopprimerla neglialtri, non appe na gli sia possibile, in nome del principio

clericale. Don Sturzo non è clericale. Ha fede nel metododella libertà per tutti e sempre. È convinto che, attraversoil metodo della libertà, la sua fede prevarrà sul l’erroredelle altre opinioni per forza propria, senza imposizionipiù o meno oblique. E questo, credo, era quel terrenocomune di rispetto alla libertà di tutti e sempre, che resepossibile la nostra amicizia, al di sopra di ogni dissensoideologico».

7. Il 6 maggio del 1952, si spegneva a Noordwjck, inOlanda, Maria Montessori. Sturzo conosceva bene laMontessori, più volte aveva fatto visita alle sue scuole,l’aveva incoraggiata – contro sospetti e ostilità – a prose-guire sulla strada intrapresa. E alla notizia della suamorte, su «La via», egli pubblica un articolo dal titoloRicordando Maria Montessori, dove, tra l’altro, narradella inaspettata e graditis sima visita che la Montessorigli aveva fatto a Londra. «A Londra, il giorno di S. Luigi21 giugno del 1925, in una casa religiosa di FulhamRoad, mi vedo portare nella mia stanzetta, un bel mazzodi garofani bianchi: erano della Montessori ed io ignora-vo ch’ella fosse nella stessa città. Mi si fece viva in ungiorno a me caro; in un’ora di forte nostalgia, quando lon-tano dalla sorella e dagli amici, mi venivano in mente lecare feste dell’onomastico, in un paese dove l’onomasti-co non si ricorda e di amici a Londra non ne segnavo allo-ra che pochi, anzi pochissimi. Così ci rivedemmo; e si

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parlò dell’Italia, soprattutto dell’Italia, e delle vicendenostre e dello sviluppo del metodo Montessori nelmondo, e dei piani del futuro e ricordammo la visita delprete caltagironese alla scoletta di S. Lorenzo. L’alone disimpatia e di fiducia che circondarono le varie iniziativeall’estero della Montessori e la diffusione del suo meto-do, il premio Nobel, tutto servì a far mettere in primalinea nel mondo la figura di questa italiana. La confronta-vo con un’altra italiana, maestrina, fondatrice di ordinereligioso, allora beata e poscia santa Francesca SaverioCabrini, che l’America del nord stima sua concittadina, eche ha fama anche presso il mondo protestante. L’avevoconosciuta anch’essa personalmente, dieci anni prima diaver conosciuto la Montessori, proprio per il mio interes-samento alle scuole infantili ed elementari, nel desideriodi avere a Caltagirone una casa delle figlie missionarie delS. Cuore da lei fondate; così come avevo desi derato aprir-vi una scuola Montessori. Le mie iniziative fallirono al -lora, l’una e l’altra per mancanza di soggetti».

8. Se don Antonio Rosmini, in Italia, è la stella del pen -siero liberale cattolico dell’Ottocento, don Luigi Stur zo èil maestro del pensiero liberale cattolico del Nove cento.24 aprile 1951: «La democrazia vera non è statalista» [L.Sturzo, Politica di questi anni (1950-1951), in OperaOmnia, vol. XI, Zanichelli, Bologna, p. 396].4 ottobre 1951: «Io non ho nulla, non possiedo nul la, nondesidero nulla. Ho lottato tutta la mia vita per una libertàpolitica completa ma responsabile. La perdi ta della liber-tà economica, verso la quale si corre a gran passo in Italia,seguirà la perdita effettiva della libertà po litica, anche seresteranno le forme elettive di un parla mento apparenteche giorno per giorno seguirà la sua ab dicazione di fron-te alla burocrazia, a sindacati e agli en ti economici, cheformeranno la struttura del nuovo Sta to più o meno bol-scevizzato. Che Dio disperda la mia profezia» (L. Sturzo,Opera Omnia, vol. XII, p. 75).6 ottobre 1951: Sturzo lamentava: «Quel poco che cimette l’iniziativa privata da sola, al di fuori dei contattiibridi e torbidi con lo Stato, è merito di imprenditori intel-ligenti, di tecnici superiori, di mano d’opera quali ficata,della vecchia libera tradizione italiana. Ma va scomparen-do sotto l’ondata dirigista e monopolista» (Ibidem).18 ottobre 1951: «Il paternalismo dello Stato verso glienti locali, con sussidi, concorsi, aiuti e simili, toglie il

senso della responsabilità della pubblica amministrazio nee concorre in gran parte a deformare al centro il verocarattere del deputato. Era questi un servo degli elettorianche prima del fascismo, ma oggi arriva perfino ad es -sere il trafficante degli interessi dei parassiti dello Stato»(L. Sturzo, Opera Omnia, vol. XI, cit., p. 250).4 novembre 1951: «Oggi si è arrivati all’assurdo di volereliminare il rischio per attenuare le responsabilità fino adannullarle [...]. Gli amministratori, i direttori, gli ese cuto-ri degli enti statali sanno in partenza che se occorro noprestiti, garantisce lo Stato; se occorre lavoro dovrà tro-varlo lo Stato; se si avranno perdite si ricorrerà allo Sta to;se si produce male ripara lo Stato; se non si conclude ungran ché, i prezzi li mantiene alti lo Stato. Dov’è il ri -schio? svaporato. E la responsabilità? svanita. E l’econo -mia? compromessa [...]. In Italia oggi, solo le aziende deipoveri diavoli possono fallire; le altre sono degne di sal -vataggio, entrando per questa porta a far parte degli entistatali, parastatali e pseudo-statali. Il rischio è coperto inpartenza, anche per le aziende che non sono statali, mache hanno avuto gli appoggi dello Stato. In un paese, do -ve la classe politica va divenendo... impiegatizia [...]; do -ve la classe economica si stabilizza; dove la classe salaria -le va divenendo classe statale, non solo va a morire la li -

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bertà economica, ma pericola la libertà politica [...]» (L.Sturzo, Opera Omnia, vol. XII, cit., p. 101).17 novembre 1952: «Abbiamo in Italia una triste ere ditàdel passato prossimo, e anche in parte del passato re moto,che è finita per essere catena al piede della nostra econo-mia, lo statalismo economico inintelligente e sciu pone,assediato da parassiti furbi e intraprendenti e ap plauditoda quei sindacalisti senza criterio, che credono che il teso-ro dello stato sia come la botte di S. Gerlando, dove ilvino non finiva mai».6 dicembre 1952: «Lo statalismo non risolve mai i pro -blemi economici e per di più impoverisce le risorse nazio -nali; complica le attività individuali, non solo nella vitamateriale e degli affari, ma anche nellavita dello spirito» (L. Sturzo, OperaOmnia, vol. XII, p. 325).13 maggio 1954: «La Pira crede che ilproblema da ri solvere sarebbe quellodi arrivare alla totalità del sistemafinanziario in mano allo Stato […]. Lasicura affermazio ne di La Pira che ilmondo civile vada verso la soppres -sione di ogni libertà economica, peraffidare tutto allo stato, deriva da unanon esatta valutazione delle fasi mo -netarie, finanziarie ed economiche deldopoguerra sia in America che in Europa [...]. Questo iolo chiamo stata lismo, e contro questo dogma io vogliolevare la mia voce senza stancarmi finché il Signore midarà fiato; perché so no convinto che in questo fatto siannidi l’errore di far dello Stato l’idolo: Moloch o

Leviatan che sia. Intanto, fissiamo bene le idee: La Pira,da buon cristiano non vuo le altro Dio fuori dal vero Dio.Per lui, come per me, lo Stato è un mezzo, non è fine, nep-pure il fine. Egli è lo statalista della povera gente; ed èarrivato, attraverso la povera gente, a pensare che lo Stato,tenendo in mano l’economia, possa assicurare a ciascuncittadino il suo mi nimo vitale. L’errore degli statalisti,siano conservatori o democratici, paternalisti o totalitari,consiste proprio in tale credenza, mentre la storia non cidà un solo esempio di benessere economico a base di eco-nomia statale, sia questa la monarchica o l’imperiale del-l’ancien régime, sia la dittatoriale di tempi recenti e sia lacomunista dei no stri giorni. Chi vuole un esempio prati-co, confronti la Cecoslovacchia del 1919-’37 (repubblicalibera), con la Cecoslovacchia del 1945-’47 (repubblicacontrollata) e la Cecoslovacchia di oggi (paese satellitecomunistizzato)» (L. Sturzo, Statalista, La Pira?, in«Giornale d’Italia», 13 maggio 1954).23 maggio 1954: «Io contesto a La Pira la sua concezio -ne dello Stato moderno: egli scrisse la frase da me citata,che «la economia moderna è essenzialmente di interven-to statale». Se le parole valgono per quel che suonano,quel l’essenzialmente toglie allo Stato moderno la caratte-ristica di Stato di diritto e lo definisce Stato totalitario[...]. La mia difesa della libera iniziativa è basata sullaconvinzione scientifica che l’economia di Stato non soloè anti-economica ma comprime la libertà e per giunta rie-

sce meno uti le, o più dannosa, secondoi casi, al benessere sociale» (L. Sturzo,Opera Omnia, vol. XIII, cit., pp. 40-49).27 marzo 1955: «L’errore fondamenta-le dello statali smo è quello di affidareallo Stato attività a scopo produt tivo,connesse ad un vincolismo economicoche soffoca la libertà dell’iniziativa pri-vata. Se nel mondo c’è stato effet tivoincremento di produttività che ha supe-rato i livelli delle epoche precedenti edha fatto fronte all’incremento demogra-fico, lo troviamo nei periodi e nei paesi

a regime libero basato sull’attività privata singola o asso-ciata» (L. Sturzo, Opera Omnia, vol. XIII, cit., pp. 154-155).3 maggio 1955: «[…] mi permetto di aggiungere il vo to

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«Lo statalismo non risolvemai i pro blemi economici eper di più impoverisce le

risorse nazio nali; complicale attività individuali, nonsolo nella vita materiale e

degli affari, ma anchenella vita dello spirito»

Luigi Sturzo

Rubrica

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che [...] si tenga fermo il principio della libertà eco -nomica, elemento necessario in regime democratico, car-dine di prosperità e spinta al progresso» (L. Sturzo, OperaOmnia, vol. XIII, pp. 171-172).

9. Si potrebbe seguitare a riportare pensieri ditono simi le dagli scritti di Sturzo. Ecco il piùcaustico e più breve: «Lo Stato è per defini-zione inabile a gestire una semplice bottega diciabattino» (L. Sturzo, Opera Omnia, vol.XII, cit., p. 29) (11 agosto 1951). E se lo Statoè incapace di amministrare una bottega di ciabatti no,come è stato possibile che in Italia sia stato affidato al loStato il quasi-monopolio della scuola? In un lungo ar -ticolo del luglio del 1947, intitolato La libertà della scuo -la, don Sturzo, tra l’altro, scriveva: «Finché la scuola inItalia non sarà libera, nemmeno gli italiani saranno libe -ri» (L. Sturzo, La libertà della scuola, in Opera Omnia,terza serie, vol. V, Edizioni Cinque Lune, Roma, 1986,pp. 213-223; rist. in L. Sturzo, Difesa della scuola libera,Città Nuova, Roma, 1995, p. 60). E ancora in Scuola ediplomi (1950): «Ogni scuola, quale che sia l’ente che lamantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nomedella repubblica, ma in nome della propria autorità: sia lascuoletta elementare di Pachino o di Tradate, sial’Università di Padova o di Bologna, il tito lo vale la scuo-la. Se la tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradi-zione rispettabile, una personalità nota nella provîncia onella nazione, o anche nell’ambito internazio nale, il suodiploma sarà ricercato; se, invece, è una delle tante, il suodiploma sarà uno dei tanti» (L. Sturzo, Opera Omnia, vol.XI, cit., pp. 45-50; rist. in L. Sturzo, Difesa della scuola

libera, cit., pp. 65-66). Questo scrive va Sturzo il 21 feb-braio del 1950. E il 17 giugno del 1952, sempre nel suoricordo di Maria Montessori, osservava: «Mi son piùvolte domandato perché da quaran tacinque anni ad oggi,il metodo Montessori non sia sta to diffuso nelle scuoleitaliane. Allora come oggi, debbo dare la stessa risposta:si tratta di vizio organico del nostro insegnamento: mancala libertà; si vuole l’uniformità; quella imposta da buro-crati e sanzionata da politici. Man ca anche l’interessa-mento pubblico ai problemi scolastici: alla loro tecnica,all’adattamento dei metodi, alle moder ne esigenze. Forsec’è di più: una diffidenza verso lo spi rito di libertà e di

autonomia della persona umana, che è allabase del metodo Montessori. Si parla tanto dilibertà e di difesa della libertà; ma si è addirit-tura soffocati dallo spirito vincolistico di ogniattività associata dove mette mano lo Stato;dalla economia che precipita nel dirigi smo,alla politica che marcia verso la partitocrazia,alla scuola che è monopolizzata dallo Stato edi conseguenza burocratizzata» (L. Sturzo,

Opera Omnia, vol. XII, cit., pp. 83-84).

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Luigi Sturzo

Rubrica

«Lo Stato è perdefinizione inabile

a gestire unasemplice bottega

di ciabattino»

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FLAVIO FELICE

Istituzioni, persona e mercatoLa persona nel contesto del liberalismo delle regole(Rubbettino 2013, pp. 212, € 13,00 )Il libro si prefigge lo scopo di analizzare alcuni aspettirilevanti del pensiero economico moderno e contempora-neo. È diviso in quattro parti: “Uno sguardo alla teoria”,“Alle origini dell’economia civile”, “Testimoni dellalibertà” e “Una prospettiva”. Nella prima parte, l’Autoreprende in considerazione la prospettiva teorica dell’eco-nomia sociale di mercato, individuando i suoi possibilinemici interni ed esterni. Oltre alla suddetta prospettivateorica, nel saggio successivo, si affronta il tema delladicotomia tra etica ed economia e la loro rispettiva prete-sa egemonica. Nella seconda parte, è presentata l’operaeconomica del filosofo tardo settecentesco MelchiorreDelfico, il cui contributo fondamentale ha interessato glistudi sulla libertà del commercio e sulla funzione della“legge”, in quanto strumenti di “incivilimento”. Cometestimoni della libertà, l’Autore presenta la figura di LuigiSturzo, sottolineando il suo meridionalismo liberale, eun’analisi comparativa di alcuni documenti che hannosegnato il passaggio di un’epoca, all’indomani dellaSeconda Guerra Mondiale: il Codice di Camaldoli, ilManifesto di Friburgo e il Piano Beveridge. Il libro siconclude con un saggio di prospettiva, dove l’Autore ana-lizza alcuni temi chiave della più recente enciclica diBenedetto XVI: la Caritas in veritate, confrontandoli conla prospettiva teorica del liberalismo delle regole e del-l’economia sociale di mercato.

FRANCESCO FORTE, FLAVIO FELICE, CLEMENTE FORTE (A CURA DI)L’economia sociale di mercato e i suoi nemici(Rubbettino 2013, pp. 472, € 22,00)Il modello dell’economia sociale di mercato, delle scuoledi Ordo di Friburgo di Walter Eucken e Franz Böhm e diFrancoforte e Colonia di Ludwig Ehrard e Alfred MüllerArmack col bilancio in pareggio, la stabilità monetaria, ilmercato di concorrenza, la tutela sociale basata su meritoe responsabilità e la prevalenza del diritto privato sul pub-

blico, è alla base del miracolo economico tedesco inizia-to nel dopoguerra, così come l’italiano si avvalse delleparallele teorie di Luigi Einaudi. Questi principi hannoinfluenzato il Trattato europeo di Roma e quello dell’eu-ro. Nello scontro colle dottrine dello stato sociale assi-stenzialistico e coi precetti keynesiani del pieno impiegobasato sul deficit, questo modello ha subito degenerazio-ni e fraintendimenti. Resta tuttavia d’estrema attualità percapire e valutare l’azione della Bce in confronto allaFederal Reserve, il nuovo patto fiscale dell’eurozona e lepossibili politiche pro crescita.

LUIGI EINAUDI

Il mio piano non è quello di Keynesa cura di Francesco Forte(Rubbettino 2012, pp. 398, € 12,90)In un tempo di crisi come questo, nel quale si torna a par-lare di intervento dello Stato nell’economia, la lezione diKeynes sembra essere tornata attuale. Ma non dimenti-chiamo che spesso la cura può essere peggiore dellamalattia, e anzi può aggravarla. Gli scritti inediti di LuigiEinaudi, raccolti dal suo allievo e successore FrancescoForte, possono aiutarci a comprendere che se una direzio-ne della vita economica è possibile e persino auspicabile,lo è solo in quanto riesca a tener conto della libertà indi-viduale come motore primo dello scambio e del mercato.Al di fuori di questo, qualsiasi pianificazione si risolve incostrizione; qualsiasi intervento in impedimento; qualsia-si forma di politica, in una forma di imposizione legitti-mata dall’alto in nome dello Stato. La lezione di Einaudirisulta allora essere fondamentale per capire che gestire lacrisi è gestire la stessa libertà dell’uomo affinché, respon-sabilizzata, sia in grado di compiere scelte coraggiose masempre perfettibili perché fondate sulla costante osserva-zione della lealtà e non sull’arbitrio di una ideologia.

Segnalazioni bibliografichea cura della Redazione

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KARL POPPER

Sul problema del metodo della psicologia del pensierocon prefazione di Dario Antiseri(Rubbettino 2012, pp. 148, € 12,90)All’Università di Vienna Karl Popper ebbe per maestroKarl Bühler. Nel 1928 Popper si laurea con Bühler conuna tesi dal titolo Sul problema del metodo nella psicolo-gia del pensiero, qui pubblicata per la prima volta in edi-zione italiana. L’intento di fondo e dichiarato del lavorodi Popper è quello “di cercare di applicare alla psicologiadel pensiero i risultati metodologici più importanti otte-nuti da Bühler”. Una descrizione dei fatti psichici è pos-sibile, secondo Popper, solo a patto che si tenga conto del“pluralismo degli aspetti” degli stessi fatti psichici, vale adire dell’aspetto dell’esperienza vissuta, dell’aspetto delcomportamento e dell’aspetto delle creazioni oggettivedello spirito – aspetti che corrispondono alle tre funzionidel linguaggio evidenziate da Bühler. Simile presa diposizione conduce Popper a una serrata critica del fisica-lismo, ma anche del comportamentismo, nella persuasio-ne che noi pensiamo per problemi e tentativi di soluzionedi questi problemi. Questo lavoro segna, da parte diPopper, l’abbandono della psicologia del pensiero e l’ap-prodo alla Logica della ricerca.

MAURIZIO SERIO (A CURA DI)Percorsi dell’Unità d’ItaliaConfronto e conflittocon contributi di A. Arciero, P. Armellini, G. Casale, M.Ciampi, A. Gentile, G. Montefusco, P. Savona, M. Serio,T. Valentini, R. Valle(Aracne editrice 2012, pp. 154, € 11,00)Di contro a posizioni meramente celebrative del processounitario, spesso parziali e anacronistiche, questo volumesi propone di fornire una lettura non convenzionale dellostate-building italiano, a partire dalle metodologie e dalleprospettive di ricerca proprie delle scienze politiche esociali.Il focus degli studi qui raccolti, come espressione di unitinerario di ricerca sorto nell’ambito della Facoltà di

Scienze politiche dell’Università Guglielmo Marconi,verte pertanto su alcuni momenti storici e su alcune figu-re (da Minghetti a Fanfani, passando per Herzen e DelNoce) o correnti di pensiero (federalismo, meridionali-smo, idealismo, corporativismo, fascismo, cattolicesimoliberale e democratico) che hanno evidenziato i nessi pro-blematici del cammino dell’unificazione italiana e le lororicadute sull’impasse socio-istituzionale che il Paese sitrova ad affrontare agli albori del Ventunesimo secolo,anche alla luce del mutato contesto internazionale.

ANGELO ARCIERO (A CURA DI)Percorsi dell’unità europeaDal monismo alla poliarchiacon contributi di A. Arciero, P. Armellini, G. Battioni, M.Bontempi, G. Casale, R. Chiarelli, M. Ciampi, A. Gentile,M. Serio, T. Valentini(Aracne editrice 2012, pp. 236, € 13,00)Il confronto sulle radici culturali e religiose, sui presup-posti storici, sui fondamenti istituzionali dell’idea di Eu -ropa e sul loro concreto attuarsi nel secondo Novecentocostituisce il punto di partenza per un’analisi delle poten-ziali convergenze e delle aperte contrapposizioni esisten-ti tra le diverse concezioni politiche idealmente compresetra le esperienze del conservatorismo e del progressismo.Sulla base di tali premesse, si è quindi delineato un “per-corso” di indagine che, soffermandosi sui rapporti tra sto-ria, società, politica e diritto, ha preso di volta in volta inconsiderazione le proposte dei principali movimenti intel-lettuali europei, l’interpretazione delle dinamiche forma-tive della tradizione occidentale, le ricorrenti questionidell’identità europea, gli aspetti relativi alle prospettivedell’attuale congiuntura internazionale, nella convinzioneche l’unità europea costituisca il punto di convergenza ingrado di rendere possibile una convivenza culturale plu-rale e composita.

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Segnalazioni bibliografiche

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AA.VV.Dizionario del liberalismo italiano, tomo I(Rubbettino 2012, pp. 1064, € 45,00)Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità era un’oc-casione per rimediare ad una lacuna: la mancanza di unDizionario del Liberalismo italiano, ciò che costituiva unparadosso in considerazione dell’importanza che il libera-lismo ha avuto nella storia d’Italia. Gli autori sono stori-ci, economisti, giuristi, critici, giornalisti, tra i maggioriesperti della materia, appartenenti ad indirizzi disciplina-ri e a scuole di pensiero diversi, che hanno lavorato inpiena indipendenza ed autonomia, accomunati dall’inte-resse scientifico e soprattutto ispirati da un ethos civile.La lettura del Dizionario aiuta a comprendere il passatodell’Italia, con tutte le sue luci e le sue ombre, ma ancheil presente, caratterizzato da un deficit di liberalismo, cheè una delle cause dell’anomalia italiana rispetto alle gran-di democrazie occidentali. Il messaggio che se ne puòricavare è che per un popolo dimenticare le proprie radi-ci significa perdere il senso della sua identità.

OSSERVATORIO INTERNAZIONALE CARDINALE VAN THUAN

Quarto rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesanel mondo(Cantagalli 2012, pp. 200, € 14,00)Il volume prende in esame la produzione, la diffusione, laricerca, la pratica concretizzazione della Dottrina socialedella Chiesa nel mondo lungo tutto il 2011. Redatto comeogni anno dall’Osservatorio Internazionale Cardinale vanThuân, è uno strumento fondamentale per la conoscenzadella produzione mondiale nel campo della Dottrinasociale non solo dal punto di vista dei documenti delmagistero ma anche da quello della testimonianza dei cri-stiani impegnati nei campi della promozione della giusti-zia e della pace.

PIERPAOLO DONATI

La famigliaIl genoma che fa vivere la società(Rubbettino 2013, pp. 256, € 14,00)L’idea di fondo di questo libro è quella di rispondere ad

una domanda fondamentale che tutto il mondo si poneoggigiorno: la famiglia è una istituzione del passato chepossiamo modificare secondo i nostri sentimenti, affetti edesideri soggettivi, oppure è una realtà che ha una formapropria, una struttura sui generis, rispetto alla quale simisura il carattere più o meno umanizzante della società?Ossia: perché parliamo de «la» famiglia, anziché de «le»famiglie in senso generico e senza fare distinzioni? Latesi che viene qui sostenuta è che la famiglia ha un pro-prio genoma sociale, che è la fonte della socialità. Il geno-ma familiare, tuttavia, vive in un ambiente che lo influen-za assai più della sua natura costitutiva. Per questo essapuò diversificarsi in tante forme sociali, fino al punto disubire delle mutazioni, e non essere più considerata tale.Molti dei disagi e malesseri individuali e sociali che oggimilioni di persone sperimentano dipendono dal fatto cheesse non hanno potuto o saputo ‘essere e fare famiglia’.Spesso queste persone non ne sono consapevoli, perchéad esse mancano gli strumenti culturali e materiali perperseguire la famiglia come il loro bene più prezioso. Lodesiderano, ma non riescono a realizzarlo. È necessarioelaborare una cultura della famiglia che sappia affrontarele sfide odierne dando ragioni per le quali il nucleo fami-liare è e rimane la fonte e l’origine della società, il chesignifica del bene comune da cui dipende anche la felici-tà delle singole persone.

GEORGE WEIGEL

La fine e l’inizioGiovanni Paolo II: la vittoria della libertà, gli ultimianni, l’eredità(Cantagalli 2012, pp. 624, € 29,00)La fine e l’inizio è la seconda parte, lungamente attesa,del bestseller internazionale sulla vita di Giovanni PaoloII. Frutto di un lavoro durato oltre 10 anni, il libro raccon-ta la storia drammatica della lotta di Karol Wojtyla controil comunismo, alla luce di documenti riservati resi pubbli-ci di recente, e completa in modo imprescindibile il ritrat-to di un uomo che ha lasciato un segno indelebile nellaChiesa cattolica e ha contribuito a cambiare il corso dellastoria mondiale.

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Segnalazioni bibliografiche

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MATTEO LUIGI NAPOLITANO

The Vatican filesLa diplomazia della Chiesa. Documenti e segreti(San Paolo Edizioni 2012, pp. 432, € 17,00)Al centro della Storia, al centro degli scandali: i dossierdella politica vaticana dal Concordato a Wikileaks. Dallaquestione dei “silenzi” di Pio XII alle rivelazioni diWikileaks, passando per l’opposizione di Pio XI ai totali-tarismi, l’operato del nunzio Orsenigo nella Germania diHitler, le prove di disgelo di Giovanni XXIII e i rapportidi Giovanni Paolo II con Ronald Reagan e Mikhail Gor -baciov: in questo volume lo storico Matteo Napolitanoricostruisce la storia degli ultimi 150 anni di diplomaziavaticana. Avvalendosi di fonti inedite e documenti segre-ti, il volume fa luce su alcuni degli episodi più controver-si e dibattuti e dedica particolare attenzione ai rapporticon l’Italia, svelando tra l’altro perché si festeggia non ladata della breccia di Porta Pia, bensì quella della concilia-zione al tempo del fascismo e raccontando la vicenda diGiovanni Frignani, il colonnello dei carabinieri che arre-stò Mussolini dopo la notte del Gran Consiglio.

RAFFAELE DE MUCCI, KURT R. LEUBE (A CURA DI)Un austriaco in ItaliaStudi in onore di Dario Antiseri(Rubbettino 2012, pp. 900, € 39,00)L’idea per questo volume celebrativo nasce durantenumerose discussioni tra i curatori. Il risultato è una rac-colta di scritti di oltre 50 autori di fama internazionale, elo scopo è quello di celebrare il 70° compleanno di DarioAntiseri. Gli antichi romani chiamavano questo tipo dipubblicazione “Liber Amicorum”, un libro di amici: in -fatti tutti i contributi sono scritti da suoi amici e colleghie spaziano dalla filosofia della scienza all’economia, allasociologia, alla politica e alla storia.

GIULIO MASPERO, PAUL O’ CALLAGHAN

Creatore perché PadreIntroduzione all’ontologia del dono(Cantagalli 2012, pp. 184, € 13,00)La riscoperta della teologia della creazione è fondamen-tale per confrontarsi con l’epoca attuale e per affrontaretemi essenziali nell’apostolato cristiano come il male e lalibertà, per comprendere l’autonomia del creato e la voca-zione dell’uomo, il valore del suo lavoro, la santificazio-

ne oggettiva del mondo. In particolare essa è essenzialeper la possibilità di dialogo con chi non crede. Come hascritto Joseph Ratzinger: ‘’Non è certo per caso che ilSimbolo apostolico comincia confessando: ‘Credo in unsolo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e dellaterra’. Questa fede primordiale nel Dio creatore (dunque,un Dio che sia davvero Dio) costituisce il chiodo a cuitutte le altre verità cristiane sono appese. Se qui si vacil-la, tutto il resto cade’’.

ANDREA GENTILE

L’intuizione creativa(Rubbettino 2012, pp. 220, € 18,00)Che cos’è la creatività? Perché nel corso della vita lenostre potenzialità creative rimangono spesso nell’om-bra? Sullo sfondo di un’analisi comparativa tra le diverseinterpretazioni e teorie sulla creatività, l’autore focalizzala sua ricerca sui processi mentali che sono all’originedelle intuizioni e «illuminazioni» creative. La creativitàassume una funzione particolarmente significativa in rap-porto ai nostri processi cognitivi, come l’intuizione, lapercezione, il pensiero analogico, la simulazione, l’asso-ciazione di idee, la ricerca nel contesto di un problemastrutturato, la rielaborazione personale, il pensiero critico.La creatività coinvolge non solo il profilo cognitivo emetacognitivo, ma anche l’orizzonte affettivo-motivazio-nale della nostra soggettività, costituito da sentimenti,intuizioni, emozioni, bisogni, pulsioni, passioni, desideri.Per dare un senso alla nostra vita è fondamentale riusciread esprimere le potenzialità creative connaturate nellanostra interiorità: esteriorizzare le motivazioni più pro-fonde che segnano e scandiscono i «colori» della nostraanima. Il primo dovere di ognuno è nei confronti dellapropria coscienza, del proprio tempo interiore: «essere sestessi» nel rispetto della vita autentica.

MARTIN BUBER

Il cammino dell’uomo(Edizioni Qiqajon 1990, pp. 72, € 6,00)Così Hermann Hesse scriveva a Martin Buber: “Tra i suoiscritti, Il cammino dell’uomo è indubbiamente quanto dipiù bello io abbia letto. La ringrazio di cuore per questodono così prezioso e inesauribile. Lascerò che mi parliancora molto spesso”. Un autentico capolavoro in minia-tura, il cui messaggio si rivela inesauribile proprio perchéparla al cuore di ogni uomo, in ogni tempo e in ogni situa-zione. Un libro che obbliga a pensare e invita a imbocca-re il cammino dell’autentica crescita umana in armoniacon gli altri uomini e con il mondo intero.

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Segnalazioni bibliografiche

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Missione e profilo

Il Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche è un think-tank indipendente, di ispirazione cattolica e libe-rale, che intende:

- favorire l’incontro tra studiosi, intellettuali, cultori ed accademici interessati alle tematiche filosofiche,storiografiche, epistemologiche, politiche, economiche, giuridiche e culturali, avendo come riferimentola prospettiva antropologica ed i principi della dottrina sociale della Chiesa;

- promuovere una discussione pubblica più consapevole ed informata sui temi della concorrenza, dello svi-luppo economico, dell’ambiente e dell’energia, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, della fisca-lità e dei conti pubblici, dell’informazione e dei media, dell’innovazione scientifica e tecnologica, dellascuola e dell’università, del welfare e delle riforme politico-istituzionali.

Si intende così rispondere all’assenza, nel nostro Paese, di un centro di elaborazione politica e culturale diispirazione cattolica e liberale, capace di promuovere nella società civile, nelle istituzioni e nella politicai principi dell’economia sociale di mercato, della dottrina sociale della Chiesa e dell’etica negli affari.

Philosophy statement

Vision“Una società aperta, libera e virtuosa dove la persona non sia ridotta a mero strumento ma a fine ultimodell’agire umano, affinché ognuno, con il proprio lavoro, possa partecipare alla continua opera creatrice,secondo le proprie attitudini, competenze e capacità, nei settori dell’economia, della politica e delle istitu-zioni” .

Purpose“Divenire un riconosciuto punto di riferimento per l’economia sociale di mercato e l’etica nell’econo-mia e nelle istituzioni, un luogo scientificamente eccellente di riflessione e di elaborazione sulla fun-zione, l’insorgenza e l’attuazione delle norme morali, giuridiche e sociali che regolano la convivenzatra gli uomini”.

Means“Dar vita ad un think-tank nel quale, attraverso il costante riferimento alla dottrina sociale della Chiesa, sicoltivi la responsabilità morale e sociale di quanti prendono le decisioni nelle imprese, nelle professioni enella pubblica amministrazione e si sostenga, con una produzione scientifica di punta, l’elaborazioneimparziale di politiche pubbliche, alle quali possano ispirare la propria azione i responsabili delle decisio-ni politico-amministrative democratiche nelle istituzioni di governo centrali e locali”.

www.tocqueville-acton.org

[email protected]

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bibliotheca albatros

i libri di libertates

Contro gli statosauriPer il federalismo

a cura di Stefano Magni

interventi diChiara Battistoni,

Marco Faraci

interviste aCarlo Lottieri, Giancarlo Pagliarini,

Alessandro Vitale

bibliotheca albatros

Se vuoi far l’americanoCome si entra in politica

negli USA, e come la si fa:una lezione per gli italiani

i libri di libertates

Ennio Caretto

bibliotheca albatros

Il terzo strapotereLa giustizia e i cittadini

i libri di libertates

Antonio MartinoFabio Florindi

I Comitati per le Libertà credono nella capacità dei cittadini di auto-orga-nizzarsi per difendere i propri ideali e interessi. Al centro dei loro princi-pi c’è la cultura delle libertà, cioè l’adesione ai valori liberali e la volon-tà di partecipazione alle scelte politiche. Più in particolare, gli aderentisostengono il libero mercato, la diffusione universale dei principi didemocrazia, il federalismo e la sussidiarietà come metodi organizzativi,lo sviluppo di ogni forma – globale e locale – di democrazia diretta.Fondati nel 1998, i Comitati hanno come organi statutari un Comité de

Patronage internazionale, presieduto da Vladimir Bukovskij; un Comitato di Presidenza rappre-sentativo della cultura liberale; un Esecutivo che a sua volta elegge un Presidente e unPortavoce. Attorno a questi organi, una rete di Comitati locali responsabili dell’attività sul ter-ritorio, per la diffusione e l’affermazione della cultura delle libertà. Chiunque può chiedere diaderire alla federazione e farne parte, dopo la ratifica dell’Esecutivo.L’atttività dei Comitati per le Libertà si può conoscere attraverso: - il sito internazionalewww.Libertates.com; - le news settimanali “Libertates” - le riviste digitali; - la casa editriceBibliotheca Albatros; - eventi e incontri organizzati durante l’anno.Fra gli eventi più importanti, la celebrazione ogni 7 novembre del Memento Gulag, la giorna-ta della memoria per le vittime del comunismo e di tutti i totalitarismi, che si svolge in diver-se città europee.

I l t erzo s t rapotereSaggio di Antonio Martino eFabio Florindi sulla magistratu-ra

con interviste aPiero Alberto CapotostiPaolo GuzzantiMario CattaneoBenedetto Della VedovaStefano d’AmbruosoMario Cervi

Maledet ta proporzionale

Saggio di Dario Fertilio sullaleg ge elettorale

con giudizi di HannahAhrendt e Karl Popper;

interviste a Willer Bordon,Giu seppe Calderisi, DanieleCapez zone, Benedetto DellaVedova, Paolo Guzzanti,Giovanni Guz zetta, AngeloPanebianco, Gian francoPasquino, Mario Segni, MarcoTaradash, Adriano Teso,Guido Roberto Vitale

Con t ro gli s ta tosau r i

Volume di Stefano Magni cheraccoglie saggi di studiosi delfederalismo e interviste a perso-nalità che si occupano di questotema anche nell’ottica politicaed economica.Una serie di valutazioni e pro-poste per un federalismo auten-tico, moderno, realistico e van-taggioso per tutti.

Se v uoi far l’am ericano, co -m e si en t ra in polit ica ne gliUSA e com e la s i fa: una le -zione per gli italian i.Saggio in cui Ennio Caretto, scrit-tore e giornalista, corrispondenteda Washington del “Corrieredella Sera” prende spunto da unalettera-riflessione di Adriano Teso,imprenditore e liberale, a un gio-vane che vuole entrare in politica. L’autore traccia un ritratto del siste-ma politico ed elettorale america-no senza nasconderne limiti edifetti. Ma ritrae anche un sistemacapace di ga rantire un’autenticademocrazia in cui ogni cittadinoha davvero la possibilità di essereeletto e di scegliere i propri rap-presentanti.

Tutti i libri editi da Bibliotheca Albatros (la casa editrice dei Comitati per le Libertà) si trovano e si ordinano attraverso il sito www.libertates.com

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