Libere, disobbedienti, innamorate” 143.pdf · 2 Sinossi Libere, disobbedienti, innamorate - In...
Transcript of Libere, disobbedienti, innamorate” 143.pdf · 2 Sinossi Libere, disobbedienti, innamorate - In...
1
[ VISIONI 143 ] Roma
12 aprile 2018 Blog. https://incontridicinema.wordpress.com
m@il [email protected]
“ Libere, disobbedienti, innamorate”
La libertà di scegliere come vivere a Tel Aviv
Titolo originale: Bar Bahr – In between Libere, disobbedienti, innamorate
Regia: Maysaloun Hamoud Sceneggiatura: Maysaloun Hamoud Fotografia: Itay Gross Montaggio: Jaroslaw Kaminski Personaggi e Interpreti: Laila (Mouna Hawa), Salma (Sana Jammelieh), Nour (Shaden Kamboura), Riyad Sliman, Mahmud Shalaby Musica: MG Saad Origine: Israele Anno: 2016 Durata: 96 minuti
2
Sinossi
Libere, disobbedienti, innamorate - In Between, opera prima della palestinese Maysaloun Hamound, si
apre con un gioco di montaggio che, collocando i titoli di testa come spartiacque tra una breve sequenza introduttiva e
l'inizio vero e proprio del film, suddivide l'opera in due parti, anticipando quel dualismo tematico che verrà poi
sviluppato nel corso del film: tradizione/innovazione, genere maschile/genere femminile.
La breve sequenza introduttiva presenta una signora
anziana che, rivolgendosi a una ragazza più giovane in
procinto di sposarsi, dispensa consigli sul
comportamento corretto di una moglie nei confronti
del marito, evidenziando un'idea di subordinazione
della donna all'uomo:
«Non dimenticare, dice, di averesempre il corpo liscio, così,quando lui ti desidererà, sapràdovetrovarti.Alettofaiquellochetidice.Non farglicapirechesai ilfattotuo».A questi trentacinque secondi
introduttivi segue una scena in cui
Laila (una delle tre protagoniste del
film) parla e balla con alcuni amici
consumando droga leggera e alcool,
opponendosi ovviamente alla
condizione di assoggettamento
espressa dall'anziana signora e
affermando fin da subito il desiderio
suo e delle sue amiche di perseguire
un’idea di libertà e indipendenza.
Laila, Nour e Salma sono tre ragazze che
condividono lo stesso appartamento nel centro di Tel
Aviv. Laila è avvocato, lavora in tribunale e conduce
uno stile di vita libertino condiviso anche da Salma,
ragazza politicamente orientata, che ama i tatuaggi e
fare la Dj per i rave. Nour, al contrario delle amiche,
studia informatica, è più religiosa rispetto alle due
coinquiline (prega e indossa l'Hijab) e meno incline alle
serate in festa.
Per ognuna delle tre ragazze si contrapporrà una
figura maschile con la quale entreranno in conflitto a
livello sentimentale e familiare. Le ragazze, infatti,
rappresentano ciascuna uno spaccato della realtà
femminile all’interno della cultura palestinese,
apparentemente moderna, in realtà ancora legata un
tipo di oppressione, se non patriarcale, sicuramente
familiare e religiosa.
Per questo motivo Salma si scontrerà con il padre a
causa della sua omosessualità;
Nour litigherà con il suo promesso
sposo perché colpevole agli occhi
dell’uomo di essersi fatta corrompere
dallo stile di vita delle coinquiline;
Laila si confronterà con il suo
compagno, il quale si rivelerà meno
aperto e cosmopolita di quanto
inizialmente amasse definirsi.
Quello di Maysaloun Hamound è
un film fortemente immerso nel
panorama storico-politico della
società israelo-palestinese. Al tempo
stesso, nonostante la forte connota-
zione geografica e identitaria, non
esclude ma integra elementi tipici del
mondo occidentale (la copia di Alice nel paese delle
meraviglie che Nour trova in camera, accanto a un
libro del poeta e politico palestinese Tawfiq Ziyad,
oppure le birre di esplicita provenienza europea o i
riferimenti alle scuole di cinema negli Stati Uniti),
annullando le distanze tra culture con radici differenti
eppure immerse – per fortuna o loro malgrado – in
unico contesto globale.
3
Analisi Tre ragazze palestinesi condividono un appartamento a Tel Aviv, al riparo dallo sguardo della società araba
patriarcale. Leila è un avvocato penalista che preferisce la singletudine al fidanzato, rivelatosi presto ottuso e
conservatore, Salma è una DJ stigmatizzata dalla famiglia cristiana per la sua omosessualità, Noor è una
studentessa musulmana osservante originaria di Umm al-Fahm, città conservatrice e bastione in Israele del
Movimento islamico. Noor è fidanzata con Wissam, fanatico religioso anaffettivo che non apprezza l’emancipazione
delle coinquiline della futura sposa. Ostinate e ribelli, Leila, Salma e Noor faranno fronte comune contro le
discriminazioni.
C’è un’onda nuova che muove dalle spiagge
di Israele e abbatte i tabù arabo-israeliani.
Cinema israeliano in lingua araba, In
Between fa intendere la voce femminile e
rimanda la società alle sue contraddizioni.
Per voltare pagina, per avanzare.
Premiata all’Haifa International Film
Festival, l’opera prima di Maysaloun
Hamoud si nutre di un contesto reale e segue
il destino di tre donne che vogliono vivere dove gli è concesso soltanto sopravvivere. Fuggite alle origini e approdate a
Tel Aviv, considerata dagli israeliani liberale e aperta alle alterità, le protagoniste scopriranno a loro spese il conto
della libertà. A confronto con una doppia discriminazione, sono donne e sono palestinesi, Leila, Salma e Noor
procedono a testa alta dentro un film che non risparmia nulla, nemmeno lo stupro, e nessuno.
Israeliani ebrei e israeliani arabi, laici e religiosi,
cristiani e musulmani, nessuno si senta escluso. Lo
spettro del patriarcato, dal simbolico al doloso, si
incarna progressivamente nei padri come nei
fidanzati, predatori frustrati imprevedibili. Colte
tra due mondi, la cultura araba musulmana
tradizionale e quella ebraico israeliana, le
protagoniste si sono lasciate alle spalle interdizioni
familiari, comunità religiose e società conservatrici per ritagliarsi un’esistenza nuova e costruirsi una vita sociale a
misura dei loro desideri e delle loro volontà. Bar Bahr, il titolo originale, in arabo tra terra e mare, in ebraico né qui
né altrove, traduce il disorientamento (meta)fisico di una generazione, quella dei giovani arabo-israeliani che in
Israele sono uno su cinque, emancipata dalla propria cultura per adottarne una occidentale. Una generazione che non
sa più se appartiene al mare o alla terra. Una generazione, ancora, alla ricerca di libertà che prova a preservare il
cuore della propria identità.
È Noor a impersonare meglio delle altre lo
iato, con gli sguardi affamati di vita sotto
l’hijab, il velo islamico che non preclude la
corsa della ragazza incontro alla modernità. La
regressione nel film è appannaggio degli
uomini, guardiani (ipocriti) dell’ordine morale
che tradiscono un bisogno di controllo che
quando sfugge volge in violenza.
4
Gineceo deciso a deporre l’autorità patriarcale, In Between resiste con le sue eroine, accompagnandole,
proteggendole, incoraggiandole, desiderando quello che desiderano loro lungo le rispettive linee di fuga. E l’energia
drammatica del film riposa sulle scintille prodotte dal confronto delle personalità piuttosto che sull’inventiva della
sceneggiatura. Alla denuncia, Maysaloun Hamoud preferisce l’empatia, alla messa alla gogna la conversazione
intima. L’autrice incarna i tabù e si concentra
sul quotidiano degli israeliani arabi, offrendo
ai palestinesi un corpo altro e fiero, che
condivide con quello ebraico le stesse
tribolazioni, gli stessi problemi finanziari e
sociali, la stessa città, lo stesso Paese. Un
Paese pieno di contraddizioni a cui tutti
partecipano.
Gli israeliani ebrei non fanno che qualche apparizione nel film: la commessa di un negozio che guarda con rimprovero
Leila e Salma, il manager hipster di un ristorante che proibisce a Salma di parlare arabo o il titolare di un locale
dietro al bancone incapace di identificare l’accento arabo di Salma. Attraverso un corpo collettivo superbamente
femminile, fluido e cangiante, In Between ripiega in un appartamento da cui apre e chiude una battaglia contro i
corsetti morali. Un’isola domestica in cui convivono tre identità distinte con distinti destini alla mano. Destini appesi a
un’ultima sigaretta e gravati sugli sguardi distanti. Dentro un finale ammutolito e una terrazza separata, dove la
regista isola le sue eroine per guardare da presso un paese, le sue violenze e le sue ineguaglianze.
Musica A cosa porta aspettare l’uomo giusto che bussi alla propria porta, temere la tradizione e non ribellarsi alla
sopraffazione maschilista? Libere, disobbedienti e innamorate fa riflettere su questi interrogativi. Mostra una
generazione giovane, simbolo di passaggio e cambiamento, che convive tutti i giorni con i codici obsoleti di una società
patriarcale e dello sciovinismo. In Israele c’è voglia di emancipazione, di novità, di meno proibizionismo. C’è voglia di
vivere, di felicità e condivisione. Questa necessità è avvertita anche sul fronte musicale. La colonna sonora va dall’hip
hop dei Dam, irresistibile band palestinese attiva in Israele, alla splendida hit Aziza della star libanese Yasmine
Hamdan, pupilla di Marc Collin dei Nouvelle Vague. Yasmine Hamdan non è solo la regina dell’indie electro folk
arabo, ma è simbolo d’indipendenza. E il suo legame con il cinema è forte. Non tanto perché moglie del regista
palestinese Elia Suleiman, quanto per aver composto numerose colonne sonore, sia come solista sia come anima del
progetto Soapkills, collaborando anche con Jim Jarmusch per Solo gli amanti sopravvivono.
Libere, disobbedienti e innamorate è assolutamente consigliato, non particolarmente per la sua forza visiva o
musicale, quanto per la sua precisione di
linguaggio e messaggio. Con la visione del film
diversi stereotipi finalmente cadranno e il
pubblico cambierà idea sullo stile di vita delle
giovani donne arabe in Israele. Anche in Medio
Oriente, infatti, ci sono donne che vivono, amano,
lavorano e si divertono. Anche lì ci sono delle
Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda con una
carica e una grinta pazzesca, e che “urlano”: ci siamo anche noi e siamo libere.
5
Sviluppo della storia Laila fa l’avvocato e si diverte con tutti i mezzi a disposizione, fumo, droga e alcol compresi; Salma è una dj omosessuale vagamente punk, sfrontata, malinconica e mutevole; Nour, timida e castigata, esprime col Hijab che le scopre soltanto l’ovale del viso un tradizionalismo pacato, ben diverso da quello autoritario e fanatico del suo fidanzato che non tarda a manifestarsi nella maniera più spregevole e brutale. La loro vita scorre nella quotidianità incisa dal profilo di una città della quale si avvertono i colori, le pulsazioni, i respiri, i rumori, le contraddizioni di un luogo a metà strada tra l’antico e il moderno, la conservazione e il rinnovamento.
Viaggio nella “terra di mezzo” In Between non è certo un caso, sceglie Tel Aviv per svilupparsi e illustrare le storie di quelle tre coinquiline. Prese, anche loro, a metà cammino, sulla linea di confine tra le indecisioni e le scelte definitive, tutte legate all’amore – o genericamente alle loro relazioni sentimentali – cioè a quelle dinamiche affettive da interpretare in funzione metaforica, in ogni caso simbolica. Ecco allora Laila che s’illude di incontrare l’uomo della sua vita salvo accorgersi che costui è fisiologicamente incapace di accettarla per come è e per le scelte che fa; Nour che, aiutata dalle altre due amiche, trova la forza di ribellarsi alla cupa visione di assoggettamento annidata nel suo uomo e riesce a lasciarlo, mandando all’aria un matrimonio che minacciava di diventare carcerario; e Salma, che finalmente s’imbatte nella “ragazza giusta” capace di regalarle complicità e tenerezza, naturalmente a scapito delle relazioni con i propri genitori i quali, alla rivelazione, reagiscono in maniera disumana e tranchante qualificando la sua natura come “malattia”. Lei, però, la sua scelta ormai l’ha fatta, forse unica fra le tre ragazze ad uscire davvero dalla “terra di mezzo”.
I tre poli narrativi 1.Donne in agitazione e in effervescenza. 2.Uomini sull’orlo di una crisi di nervi. 3.Una metropoli gorgogliante e fermentata. Tre poli sui quali la combattiva regista Hamoud gioca la sua sfida civile e, come si vede, molto (al) femminile. Con un film – dedicato alla memoria dell’attrice, regista e sceneggiatrice israeliana Ronit Elkabetz scomparsa – strutturato come una commedia ma in verità sviluppato attraverso un intreccio ad alto tasso drammatico. Un cinema “attivistico” e in qualche modo legato alle teorie di quello femminista che tende a
smontare la categoria maschile e del suo ruolo impressi nello sguardo tradizionale per proporre, invece, un’angolazione prospettica diversa e una soggettiva davvero femminile.
La donna cambia la Storia Le guerre, le distanze etniche, le conflittualità storiche spesso presenti nel cinema mediorientale sembrano scivolare in secondo piano rispetto a certe istanze di condizioni vitali così bene raffigurate dai casi delle giovani protagoniste, fra l’altro integrate e decorate nei loro caratteri da una recitazione fortemente comunicativa e stringente nelle tre attrici che le rappresentano. In realtà quelle tematiche restano sullo sfondo ma non possono non incidere sullo svolgimento e sulle conclusioni del racconto: che individua proprio nella donna l’elemento capace di ribaltare il corso delle cose e, forse, della Storia.
Colonna sonora da ricordare Gli esiti del film, che pure si sviluppa su tracciati lineari intaccati da qualche farragine narrativa, sono nel complesso convincenti. Lo svolgimento dell’azione è godibile e riesce sempre a coinvolgere pure nel piglio asciutto e oggettivo delle caratterizzazioni, mai colte in caduta libera verso lo sdilinquimento, la leziosità o, peggio il vittimismo autocompiacente cui talune vessazioni sui personaggi indurrebbero. Un’altra nota brillante compete alle musiche che guarniscono assidua-mente la narrazione: schema innovativo che guarda ai panorami della dance sintetizzata, alla batteria elettronica di Nadav Dagon, al theatrical rock targato Habiluim, al post-rock elettronico e super-intensive dei Tiny Fingers, alla facciata underground libanese di Dani Baladi. Tutto da ascoltare attentamente, accanto alla fase della visione.
6
Critica
Tel Aviv, crocevia di ebrei e arabi, laici e religiosi, cristiani e musulmani, è la città preferita dalla gioventù israeliana, perché ha fama di essere liberale, moderna, ribollente di fermenti underground; al contrario della sonnolenta Haifa, da cui i giovani cosiddetti “sovversivi” scappano a gambe levate. Tuttavia la trentacinquenne regista Maisaloun Halmoud, israeliana di adozione, sembra ricordarci che non è tutto oro quello che luccica. Infatti, basta scrostare lo smalto della sedicente modernità, perché affiori una città gretta, retriva, discriminatrice, dove il fanatismo religioso la fa ancora da padrone. Di questa visione è intessuta la trama del film, che narra dell’amicizia tra Noor, Leila e Salma, tre giovani donne palestinesi, che diventano coinquiline a Tel Aviv. Le quali, pur essendo molto diverse, e non solo in base a canoni estetici, sono accomunate da una profonda insofferenza verso la cultura conservatrice e bigotta, da cui si sentono soffocare. Tanto da essere disposte a sacrificare l’amore, pur di difendere quella quota di libertà
che considerano un diritto inalienabile di ogni essere vivente. Uomo o donna che sia. Noor, studentessa di informatica, è islamica osservante. Ha un fidanzato oscurantista, di cui non è convinta, che mal sopporta i suoi tentativi di emancipazione. Con una garbata insistenza, dietro cui si annida la protervia, vuole persuaderla che il suo futuro sarà a casa, accanto a marito e figli.
Perché, essendo lui di famiglia facoltosa, potrà comunque garantirle una vita agiata. Visibilmente contrariato dalle rimostranze di Noor, la cui dolcezza non le impedisce di essere determinata, tenta delle avances. Rifiutato dalla ragazza, per spregio la stupra. Saranno Leila e Salma a lavar via dalla sua pelle l’oltraggio subito, facendole sentire tutta la solidarietà di cui sono capaci, spesso, le donne. Inaspettatamente, anche il padre avrà parole tenere per lei, ricordandole che quell’uomo non vale una sola delle sue molte lacrime.
Di Leila, affascinante avvocato penalista, dall’apparenza spigliata e decisa e di fede comunista, si sa poco. Si intuisce che provenga da una famiglia ebrea osservante, che si è lasciata alle spalle faticosamente. Che poi abbia dei conti aperti con se stessa, lo si deduce dall’uso smodato di alcool, canne e cocaina, in cui sembra affogare disorientamento e solitudine.
Innamorata di un uomo attraente, che ha studiato all’estero e che appare di larghe vedute, rimane profondamente delusa quando, al momento di presentarla alla sua famiglia, si dilegua imbarazzato. E per finire, Salma, che ha studiato musica. E che un po’ fa la dj, un po’ la barista, un po’ l’aiuto cuoco. Come capita. È gay e la famiglia,
che ne è all’oscuro, le propina periodicamente un aspirante fidanzato, che lei puntualmente rifiuta. Finché
7
una sera, sua madre coglie della tenerezza tra lei e un’amica medico e prontamente ne informa il padre. Il quale, sconvolto per il danno d’immagine che potrebbe procurargli in seno alla comunità, la minaccia di farla marcire in manicomio, finché non guarirà. Alla ragazza non rimane che fuggire. Alla fine le ritroviamo tutte e tre sulla terrazza della casa di Tel Aviv. Una accanto all’altra, in silenzio, perse nei propri pensieri, con la consapevo-lezza di non essere più sole. Intanto, all’interno dell’ap-partamento infuria una festa. Questo pregevole film, tra i tanti spunti di riflessione, suggerisce quanto sia faticosa la ricerca di un’identità che ci rappresenti per davvero. A maggior ragione per una donna che vive in una cultura patriarcale, visto che l’identità si modella, oltre che sulla nostra interiorità, anche sulle richieste e sui valori dell’ambiente in cui viviamo. E quando l’immagine che abbiamo di noi stessi non collima con quella che gli altri hanno di noi e che ci riflettono, siamo costretti ad un lavorio molto faticoso, per tenere insieme dati incongruenti tra loro. Si aprono allora due possibilità. Indossare una maschera al fine di compiacere gli altri, pagando la paura del rifiuto, della disapprovazione e dell’esclusione, con un senso di vuoto, inautenticità, costrizione e distacco dai nostri sentimenti. Che è poi la problematica del falso sé. O liberarsi di un’identità insostenibile, per scegliere coerentemente con i propri principi. È certamente un passaggio difficile, ma necessario per rimanere vivi, unici e inconfondibili. La vera sfida è riuscire a mantenere saldo il senso di sé, della propria continuità e coerenza interiori. Che è esattamente quello che tentano di fare Noor, Leila e Salma.
^/^/^ "Se il luogo fosse in Italia o in Francia, la regista e gli interpreti italiani o francesi, il film sarebbe una piacevole commedia come tante. Ma In Between (...) si svolge a Tel Aviv, nella comunità arabo israeliana, quasi ventimila persone su più di un milione di abitanti: ambiente borghese di origine palestinese e di religione musulmana (ma anche arabo cristiana e drusa), tra laicità e tradizione. Forse per molti di noi Islam vuole dire donne chiuse nella hiyab o sepolte nel burka, migranti da respingere, vittime di Boko Haram, muri per isolare la Palestina, e soprattutto terrorismo ovunque. Per questo, oltre che per la grazia della sue interpreti e la bellezza dei suoi giovani maschi (breve barba nera molto di moda anche da noi, occhi azzurri), questo film è molto interessante, rivelandoci un mondo sconosciuto, almeno a me ma credo anche a molti, che non è tanto diverso da quello di 'Sex and the City', ambientato a New York (...)." (Natalia Aspesi, 'La Repubblica', 27 marzo 2017)
8
"Di Libere, disobbedienti, innamorate (...) è stato detto che è il Sex and the City arabo, ma la definizione è riduttiva e semplicistica, perché il film è molto di più. Non solo per il coraggio con cui è stato realizzato e per l'importanza del ritratto che offre. Ma anche per la capacità di mettere in scena tipi femminili diversi dai soliti modelli, caratteri potenti e facce indimenticabili. Come quella di Leila, incorniciata da una magnifica chioma leonina che, già da sola, è una dichiarazione di forza e di guerra. Il percorso è lungo, ma, diventando amiche, le tre protagoniste sono già a buon punto." (Fulvia Caprara, 'La Stampa', 6 aprile 2017) "La regista, conterranea e complice, vi si riflette e costruisce attraverso l'uso drammaturgico dei loro corpi una coraggiosa battaglia verso un'emancipazione vera, profonda e lontana dagli slogan. (...) Promossa come il Sex & the City in salsa araba, l'opera prima di Maysaloun Hamoud si inserisce più nel filone che parte da Sognando Beckham e arriva a Mustang, passando per i vari La sposa turca, Caramel e simili, manifestando non solo originalità di scrittura, ma una notevole capacità di gestire gli spazi (Tel Aviv) e le ellissi temporali." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 6 aprile 2017) "(...) è il complesso affresco di ciò che sta accadendo, secondo la regista trentacinquenne, in una porzione di Tel Aviv dove giovani israeliani e palestinesi si mescolano e interagiscono. La pellicola ha spopolato nei festival (Toronto, San Sebastian, Haifa) non dando mai giudizi netti e non dipingendo come macchiette gli antagonisti delle nostre amabili eroine. (...) Gran film e portentoso esordio da parte di Hamoud (...)." (Francesco Alò, 'Il Messaggero', 6 aprile 2017) "Piacerà a chi ama i ritratti femminili ben incisi e soprattutto ben collocati nelle rispettive realtà. Il dramma delle tre è che non sono troppo disobbedienti. Ciascuna arriva all'appartamento intrappolata da pastoie sociali e culturali. Anche nella libera e anticonvenzionale Tel Aviv." (Giorgio Carbone, 'Libero', 6 aprile 2017) "Bar Bahr, il titolo originale, in arabo dice più o meno «tra terra e mare», in ebraico «né qui né altrove», una condizione in cui vivere un'esistenza che corrisponda ai propri desideri diviene la battaglia più difficile. E' questo spaesamento che indaga la cineasta attraverso la ricerca di libertà dei suoi tre splendidi personaggi che finisce sempre per scontrarsi, in una violenza che non risparmia nessuno, con il patriarcato, la «legge» degli uomini, padri o fidanzati incapaci di accettarle al di fuori del «ruolo» di sorelle, mogli, madri." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 15 aprile 2017) "Il film racconta una Resistenza parallela, la Resistenza delle donne, a volte non coincidente con la Resistenza cui convenzionalmente ci si richiama. Colpisce di queste donne 'libere' la sincerità e il loro sguardo per nulla scontato." (Luca Pellegrini, 'Avvenire', 28 aprile, 2017)
9
Recensioni https://www.lacittafutura.it/recensioni/libere-disobbedienti-innamorate
Un bel film palestinese contro il patriarcato e i pregiudizi di una visione del mondo religiosa.
La complessità e la poliedricità del concetto di lotta di classe, vero e proprio fondamento del materialismo storico, appare in modo evidente in In Between. Al centro di questo film emozionante, interessante e originale vi sono tre giovani lavoratrici palestinesi che rappresentano, in modo esemplare, la lotta contro l’oppressione di classe nei sui diversi aspetti, di cui subiscono in prima persona le nefaste conseguenze. Abbiamo in primo luogo la forma più diretta e immediata di lotta di classe, che contrappone i proletari, che dispongono unicamente della propria forza-lavoro e i capitalisti, che mono-polizzano i mezzi di produzione e di riproduzione del lavoratore salariato. Questa contraddizione fonda-mentale è ben rappresentata dalla protagonista del film, una giovane palestinese abilitata all’inse-gnamento e costretta, per sopravvivere in modo indipendente dalla schiavitù domestica, a svendere la propria forza-lavoro in occupazioni precarie, dequalificanti e ad alto tasso di sfruttamento. Nonostante subisca sulla sua pelle diverse forme di oppressione, funzionali alla massimizzazione dello sfruttamento, si batte con coraggio contro di esse, in primo luogo dal punto di vista economico e sociale, sia in modo diretto, sul proprio posto di lavoro, sia in modo universale dichiarandosi apertamente comunista.
Questa giovane tenace, coraggiosa e piena di dignità rappresenta in modo plastico le diverse forme di subalternità sociale e di discriminazione storicamente utilizzate per salvaguardare la struttura gerarchica della società. In effetti, oltre a subire la discriminazione propria del proletario, costretto a vendere la propria forza lavoro nelle peggiori condizioni possibili, non disponendo di altro per poter sopravvivere in maniera indipendente, subisce le discriminazioni proprie dei giovani lavoratori salariati che, non avendo
esperienza, hanno particolari difficoltà nel far valere gli anni di formazione necessari a dotarsi di una forza lavoro specializzata. Si vedono così costretti a svendere la propria capacità di lavoro per “lavoretti” dequalificanti. Inoltre la protagonista subisce le discriminazioni proprie dei salariati in un’epoca come la nostra di restaurazione liberista, in cui le conquiste prodotte dalle lotte sociali del movimento operaio del passato sono state ormai, in buona parte, spazzate via da una lotta di classe condotta in modo unilaterale dall’alto. Inoltre, essendo tra le poche lavoratrici ancora dotate di una coscienza di classe, che la porta a definirsi comunista, vive una condizione di ulteriori discriminazione e isolamento, tanto che persino la sua migliore amica, per quanto anch’essa libera e disobbediente, non la capisce, considerando il comunismo qualcosa di ormai morto e da nessuno rimpianto. A tale pregiudizio la protagonista contrappone la sua indipendenza dall’ideologia dominante, che le consente di dichiararsi serenamente comunista, superando quella autofobia, figlia della sconfitta storica, che porta tanti filocomunisti a nascondere o quanto meno a doversi quasi scusare per aver mantenuto la coscienza di classe e la determinazione a lottare per una società più giusta e razionale.
D’altra parte la protagonista condivide, con le sue due coinquiline – che nonostante le grandi differenze culturali, religiose e caratteriali finiranno per divenire compagne nella lotta comune contro le diverse forme di oppressione che subiscono – il fatto di essere costretta a vivere nella propria terra sotto il dominio di una potenza coloniale. Infatti, le tre protagoniste vivono sotto il giogo del sionismo, una forma di sciovinismo che ritiene gli ebrei l’unico popolo eletto da
dio e, quindi, destinati a dominare su quella terra che testi da loro considerati sacri gli avrebbero assegnato per sempre. Essi sarebbero stati perciò destinati dalla divina provvidenza a strapparla ai popoli autoctoni, con i quali dovrebbero evitare, per quanto possibile, di stabilire contatti profondi. Così, sulla base di tali pregiudizi di ordine religioso, la popolazione autoctona palestinese è costretta a vivere come uno straniero nel proprio paese, del quale si sono in larga parte appropriati, con la
10
violenza, uomini giunti dalle più diverse parti del mondo con la pretesa di riappropriasi di quella terra che il loro dio avrebbe promesso al “popolo eletto”. In tal modo, sebbene siano per molti aspetti simili ai loro coetanei ebrei – dal momento che la globalizzazione del mercato e il pensiero unico dominante tendono a uniformare attitudini, costumi e modi di vita – sono costretti a vivere in una situazione di costante emarginazione sociale, per diversi aspetti analoga a quella degli indios in America, dei pellerossa o degli afro-americani negli Stati Uniti o a quella vissuta dalla popolazione autoctona nei paesi dove dominava l’apartheid. Così non vengono rispettate e riconosciute nemmeno quando si presentano in un esercizio commerciale come clienti, nonostante la concezione neoliberista imporrebbe che quest’ultimo abbia sempre ragione, in quanto le stesse commesse, convinte di far parte del popolo eletto, dimostrano apertamente tutto il loro disappunto nel dover “servire” degli esseri inferiori. Tale forma di oppressione religiosa, nei fatti intrisa dei pregiudizi tipici del razzismo, finisce per opprimere gli stessi individui del popolo eletto, che sono nei fatti, spesso, impossibilitati a innamorarsi di una palestinese, in quanto questo legame non sarebbe mai accettato dalla propria famiglia e più in generale da tutti gli altri sionisti convinti di far parte del “popolo eletto”. Infine le protagoniste vivono la condizione di oppressione propria di chi è costretto a subire l’egemonia di una potenza occupante che, controllando i mezzi di comunicazione di massa, fa sempre passare chi si batte contro questo stato di oppressione e di dominio coloniale come un pericoloso eversore dell’ordine costituito. Ecco che la vittima, nel momento in cui non accetta supinamente questo stato di oppressione, viene presentata come il carnefice, in quanto si contrappone alle forze di occupazione.
Le tre coinquiline finiscono per superare le differenze, che tenderebbero a contrapporle, e a solidarizzare fra loro in quanto diverranno coscienti, subendone le conseguenze sulla propria pelle, di vivere in una società profondamente maschilista e patriarcale. Tale oppressione non riguarda unicamente la giovane proveniente da una famiglia e un contesto sociale ancora soggetto al tradizionalismo e, quindi, dominato da una concezione arcaica e fondamentalista della religione – nella quale l’uomo non ha ancora nemmeno il presentimento di aver alienato nella divinità tutte le qualità generiche alle quali partecipa in quanto essere umano. Perciò gli individui sono ancora del
tutto asserviti alla volontà del proprio dio, ovvero a costumi arcaici ed estremamente oppressivi che consentono ancora agli “uomini di dio” di dominare sul resto della società, considerando la donna un essere inferiore, da destinare alla schiavitù domestica.
Tale tipo di oppressione colpisce, in forma diversa, anche la protagonista principale del film, che pure proviene da un contesto familiare e sociale più emancipato. Sebbene nella religione cristiana l’uomo non abbia più quella sudditanza completa al proprio dio, caratteristico delle forme di religione più arcaiche, ne deve comunque seguire le leggi, ovvero è costretto a sottomettersi ai costumi tradizionali patriarcali, per cui è inaccettabile per gli stessi genitori la prospettiva di una donna che possa vivere libera e indipendente da un uomo.
Perciò vediamo come, sebbene con modi meno diretti e coercitivi, i genitori della protagonista cerchino di imporgli la scelta di un uomo a loro gradito, nella logica che la donna può ascendere socialmente solo accettando di assoggettarsi a un uomo di un ceto sociale più benestante. Dinanzi ai ripetuti dinieghi della figlia di accettare i mariti selezionati dalla famiglia e di fronte alla scoperta che ha tendenze omosessuali o almeno bisessuali, i genitori abbandonano i modi più civili e tolleranti rispetto ai fondamentalisti islamici e fanno emergere apertamente quanto siano anch’essi subordinati ai pregiudizi tradizionalisti, propri di una visione del mondo religiosa. Per cui appare loro evidente che una donna, che osa amare un’altra donna, deve essere insana e rappresentare una vergogna per la famiglia. Deve, quindi, essere coercitivamente ricondotta sulla retta via, dal momento che è dio stesso che ha creato la donna e l’uomo per farli unire in un rapporto diseguale – fondato in effetti sulla logica arcaica della relazione fra servo e padrone – finalizzato alla riproduzione della specie.
Anche la terza protagonista, sebbene abbia da tempo rotto con la società tradizionalista e si sia emancipata pienamente da ogni forma di pregiudizio religioso – da ogni subordinazione a norme etiche arcaiche volte a eternizzare una
11
società gerarchica e patriarcale – finisce per incontrare enormi difficoltà nella convivenza con un uomo. In effetti, la maggior parte dei maschi non riesce ad accettare la possibilità di vivere con una donna completamente libera ed emancipata, pronta a opporsi apertamente alle norme etiche tradizionali sessiste e maschiliste. Così, anche quando finisce per innamorarsi, stabilendo finalmente una relazione stabile, con un uomo emancipato – che sembra condividere il suo stile di vita moderno, epicureo – è infine costretta a dover chiudere anche tale rapporto, in quanto il partner non è comunque disponibile, per amore, ad accettare che la propria compagna manifesti apertamente la propria disobbedienza alle norme tradizionali – che impongono alla donna tutta una serie di tabù per mantenerla in una condizione di subalternità.
Nonostante il film faccia riflettere lo spettatore, spingendolo a prendere posizione, su tutte queste forme di oppressione e vada, dunque, decisamente contro corrente rispetto all’ideologia dominante, In Between non riesce a emanciparsi sino in fondo da essa. La sua coraggiosa presa di posizione critica verso l’ordine costituito e l’ideologia su cui si fonda si sviluppa in un’ottica più riformista che rivoluzionaria, in quanto non è in grado di
distinguere le contraddizioni fondamentali da quelle secondarie. Anzi, incapace di emanciparsi sino in fondo dall’egemonia dell’ideologia dominante finisce con il confondere le seconde con le prime. Così, nel film non sono – sulla base di una visione del mondo scientifica, materalistica e dialettica – gli elementi strutturali, economici e sociali, a determinare – per quanto in ultima istanza – gli aspetti sovrastrutturali, ma appaiono questi ultimi, secondo una concezione del mondo idealistica e metafisica, nel senso deteriore del termine, a determinare i primi. Così la contraddizione fondamentale ovvero l’aspetto fondante della lotta di classe – che necessariamente vede contrapposti, in un a società classista, sfruttati e sfruttatori, classi dominanti e subalterne – resta sullo sfondo. Allo stesso modo sullo sfondo resta la questione immediatamente dopo dirimente dell’occupazione colonialista della Palestina e della situazione di sostanziale apartheid in cui sono costretti a vivere gli autoctoni non provenienti da una famiglia, tradizionalmente, di religione ebraica. Al contrario centrale appare la contraddizione fra una visione del mondo religiosa – da cui viene fatta dipendere in ultima istanza l’oppressione della donna e l’omofobia – e una concezione del mondo non tanto scientifico-filosofica, ma epicurea.
12
Maysaloun Hamoud
Budapest, 1982
Regista, sceneggiatrice
Parola alla regista
“Libere, disobbedienti e innamorate” – spiega la regista – “è il ritratto di tre giovani donne arabe che
vivono e amano a Tel Aviv. Ho cercato di raccontare il complicato dualismo della loro quotidianità,
stretto fra la tradizione da cui provengono e la sregolatezza della metropoli in cui abitano, e il prezzo
che devono pagare per una condizione che normalmente può apparire scontata: la libertà di lavorare,
fare festa, scopare, scegliere. Laila, Salma e Nour scelgono, appunto, di non voltarsi a guardare
indietro, anche se il loro viaggio dolceamaro verso il futuro è lontano da qualunque certezza”.
Maysaloun Hamoud, giovane promessa del cinema mediorientale, con Libere, disobbedienti e
innamorate usa la chiave dell’umorismo e del rock – anche nella colonna sonora. Racconta, allo stesso
modo di Sex and the City, una città in fervente evoluzione, il sesso, il senso di libertà e il sogno di
realizzarsi. Tel Aviv è oggi un centro metropolitano a tutti gli effetti. Per le strade della città ribolle la
cultura underground. E in questo scenario le tre protagoniste si incontrano e coalizzano per necessità,
per essere più forti, per andare oltre chi le giudica e le umilia.