Libera Compagnia Padana Anno VIII - N. 41 - Maggio-Giugno ... · dere cosa i “nemici” hanno...

68
41 41 Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno VIII - N. 41 - Maggio-Giugno 2002 S peciale: S peciale: I Walser della valle del Lys J. R. R. Tolkien

Transcript of Libera Compagnia Padana Anno VIII - N. 41 - Maggio-Giugno ... · dere cosa i “nemici” hanno...

4141Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana

Anno VIII - N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Speciale:

Speciale:I Walser della valle del Lys

J. R. R. Tolkien

La LiberaCompagniaPadana

● Speciale: Tolkien

Los von Mordor - Brenno 1John Ronald Reuel Tolkien - Paolo Gulisano 3J.R.R. Tolkien impolitico, prepolitico, metapolitico - Antonio de Felip 10Non esistono Anelli buoni, ovvero: Tolkien e il potere - Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro 15Tolkien o Della necessità del mito - Massimo Centini 21Piccolo è bello: l’ambiente morale della Terra di Mezzo - Gilberto Oneto 25Intervista a Quirino Principe - Carlo Stagnaro 32

● Speciale: Walser

I Walser della valle del Lys - Pierluigi Crola 39La Libertà degli Altri 59Biblioteca Padana 65

Periodico Bimestrale Anno VIII - N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Quaderni PadaniCasella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 NovaraTel. 333-1416352E-mail: [email protected] Internet: www.laliberacompagniapadana.orgDirettore Responsabile:Alberto E. CantùDirettore Editoriale:Gilberto OnetoRedazione:Alfredo CrociCorrado GalimbertiElena PercivaldiAndrea RognoniGianni SartoriCarlo StagnaroGrafica:Laura GuardinceriSui Quaderni sono pubblicati testi di:Francesco Mario Agnoli, Ettore A. Albertoni, Giuseppe Aloè, Adriano Anghilante, Camillo Arquati, Loren-zo Banfi, Augusto Barbera, Fabrizio Bartaletti, AlessandroBarzanti, Batsòa, Alina Benassi Mestriner, Claudio Beretta,Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi, Vera Bertolino, Fiorangela Bianchini Dossena, Diego Binelli, Roberto Biza,Giorgio Bogoni, Fabio Bonaiti, Luisa Bonesio, Massimo Bonini, Giovanni Bonometti, Romano Bracalini,Nando Branca, Gustavo Buratti, Beppe Burzio, Luca Busatti,Lorenzo Busi, Ugo Busso, Massimo Cacciari, Giulia Caminada Lattuada, Alessandro Campi, Alberto E. Cantù, Antonio Cardellicchio, Claudio Caroli,Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini, Enrico Cernuschi, Gualtiero Ciola ✝, Carlo Corti, Michele Corti, Mario Costa Cardol, Giulio Crespi,Alfredo Croci,PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Antonio De Felip, Massimo De Leonardis,Alexandre Del Valle, Corrado Della Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti, Leonardo Facco, Gigi Ferrario, Rosanna Ferrazza Marini, Davide Fiorini, Ro-berto Formigoni, Alberto Fossati, Eugenio Fracassetti, Ser-gio Franceschi, Carlo Frison, Giorgio Fumagalli, Corrado Galimberti, Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Michele Ghislieri, Marco Giabardo, Davide Gianetti, Renato Giarretta, Giacomo Giovannini, Fla-vio Grisolia, Michela Grosso, Paolo Gulisano, Joseph Henriet, Thierry Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, Donata Legnani Maggi, Alberto Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Sil-vio Lupo, Berardo Maggi, Aldo Marocco,Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Cri-stian Merlo, Martino Mestolo, Ettore Micol, Gianfranco Miglio ✝, Leo Miglio, Alberto Mingardi, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Gilberto Oneto, Giancarlo Pagliarini, Alessia Parma, Patrizia Patrucco, Mario Pedrabissi, /Giò Batta Perasso, Elena Percivaldi,Mariella Pintus, Daniela Piolini, Giulio Pizzati, Francesco Predieri, Quirino Principe, Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Alberto Quadrio Curzio, Laura Rangoni, Igi-no Rebeschini-Fikinnar, Romano Redini, Andrea Rognoni, Rocco Ronza, Giuliano Ros, Maurizio G. Ruggiero, Sergio Salvi, Oscar Sanguinetti, Lam-berto Sarto, Gianni Sartori, Gianluca Savoini, Massimo Scaglione, Laura Scotti, Hans Sedlmayr ✝,Marco Signori, Giovanni Simonis, Stefano Spagocci, Marcello Staglieno, Carlo Stagnaro, Alessandro Storti, Sil-vano Straneo, Giacomo Stucchi, Stefano Talamini, CandidaTerracciano, Mauro Tosco, Claudio Tron, Nando Uggeri, Fredo Valla, Ferruccio Vercellino, Giorgio Veronesi ✝, Antonio Verna, Alessio Vezzani, Alessan-dro Vitale, Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili.

Spedizione in abbonamento postale: Art. 2, comma 34, legge 549/95Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041 Arona NORegistrazione: Tribunale di Verbania: n. 277

I «Quaderni Padani» raccolgono interventi diaderenti a “La Libera Compagnia Padana” masono aperti anche a contributi di studiosi ed ap-passionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Com-pagnia Padana. Il materiale non viene restituito.

Tolkien è stato tirato per la giacca da tutte leparti. I figli dei fiori della fine degli anni ’60hanno cercato di cooptarlo come cantore

del loro sgangherato mondo, intruppandolo suomalgrado con i Marcuse (chi se lo ricorda più?)e con i Ginzburg. Gli ecologisti vecchia manierahanno confuso Barbalbero con Green Peace,quelli dell’ultima infornata no-global non hannoinvece capito che gli orchetti sono proprio loro.Le destre lo hanno considerato poeta dell’anti-comunismo, i comunisti dell’antifascismo. InItalia è stato addirittura arruolato a forza fra iragazzi di Salò, e ancora oggi c’è qualcuno chenon distingue fra Er Pecora e Tom Bombadil,con lo stessa confusione di latitudini con cuifrotte di ragazzoni pelasgici inalberano crociceltiche.

Noi non cercheremo di farlo diventare pada-nista anche se molti segni potrebbero giustifi-care un tentativo del genere, dal nome stesso diTerra di Mezzo (che era come Belloveso chia-mava la Padania) ai castagni che crescono nellaContea e che – si sa – da noi sono endemici enel resto dell’Europa centro-settentrionale sonosolo una importazione medie-vale. Come noi, Tolkien ama-va la sua piccola patria, nonsopportava i prepotenti, leideologie globalizzanti e l’o-mologazione delle culture epoi il Monte Fato ha tutta l’a-ria dei Colli Fatali che hannoimpestato la nostra storia, co-me Sauron ha cercato di im-pestare il mondo.

La Contea - è stato giusta-mente osservato - sembra ilperfetto ritratto delle collinedel Wiltshire e dell’Inghilter-ra meridionale com’erano ecome Tolkien voleva che ri-manessero: lui stesso si rite-neva un Hobbit e non soloper via della pipa perenne-mente brandita. In realtà l’in-tera Terra di Mezzo somiglia

molto all’Europa vera, con tutti i suoi popoli di-versi, i suoi paesaggi, le sue città murate, e laContea è quella parte di Europa che, forse menobellicosa e propensa a slanci eroici, è operosa,tranquilla, poco incline ai gesti eclatanti, dovesi mangia bene, si beve meglio, e la gente è con-tenta di starsene in compagnia a raccontare sto-rie e a sentire musica. Posti così in Europa cene sono un badalucco: è il Perigord, il Donegal,la Slovenia, eccetera, ma è anche (e soprattutto)la Padania.

È invece sicuro che i nemici della Terra diMezzo siano gli stessi dell’Europa delle piccolepatrie, del tranquillo mondo di provincia che èscrigno di tutte le più preziose libertà. Basta ve-dere cosa i “nemici” hanno fatto nella Contea.Hanno abbattuto gli alberi, come i Giacobini,come l’Anas, come tanti amministratori e citta-dini beceri. Hanno costruito casacce tutte ugua-li, come lo Iacp, come a Sabaudia, Quarto Og-giaro o Novosibirsk. Hanno tirato su fabbrichepuzzolenti con ciminiere puzzolenti, come i fa-scisti a Marghera, i comunisti a Togliattigrad,Ford a Detroit e tanti altri Sharkey un po’ dap-

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 1

Los von MordorSpecialeTolkienSpecialeTolkien

J.R.R. Tolkien. Foto di John Wyatt

pertutto. Come certi beceri industrialotti delNord-Est rappresentati dal Sabbioso, che a Sam,che si lamenta della distruzione del suo paese,dice spocchioso: “Abbiamo molto lavoro adesso,nella Contea”. Per i lavoratori extracomunitari,le colf, le badanti e i sindacalisti. Saruman è ilbraccio locale del potere maligno centrale, unprefetto.

Come si fa ad arruolare Tolkien fra i centrali-sti, gli statalisti, fra i patrioti italiani? Tutta ladescrizione del ritorno alla Contea sembra ilmanifesto della rivoluzione leghista, della seces-sione contro il centralismo. Sembra il perfettoincitamento ai Padani a cacciare a pedate tuttigli arroganti, gli inquinatori, i foresti e i deserti-ficatori, e a “mettere in sicurezza” i voltagabba-na e i collaborazionisti, e a fisicizzare la loro ri-trovata libertà con la rinascita delle foreste.Scrive infatti Tolkien: “Ma quando arrivaronoall’estremità orientale del paesino, incontraro-no una barriera che recava la scritta Vietatol’ingresso; dietro di essa si ammassava una foltaschiera di Guardiacontea armati di randelli eaddobbati con piume sul cappello; avevano l’a-ria ad un tempo arrogante e spaventata.

“Che significa tutto cio?”, disse Frodo, senten-dosi incline a ridere.

“Ecco che cos’è, signor Baggins”, disse il capodei Guardiacontea, un Hobbit con due piume:“siete arrestato per Violazione di Cancelli, Di-struzione di Regole, Assalto ai Guardiani deiCancelli, Pernottamento negli Edifici della Con-tea senza Permesso, e Corruzione di Guardiecon Cibo”.

“C’è altro?”, chiese Frodo.“Questo può bastare per il momento”, disse il

capo.“Io potrei aggiungere altro, se vuoi”, disse

Sam: “Insulti al vostro Capo, Desiderio di Pren-dere a Pugni il suo Viso Pustoloso, e Certezzache voi Guardacontea avete l’Aria di un Saccodi Idioti”.

Non sappiamo se Tolkien avesse in mentequalche luogo o qualche comunità specificaquando scriveva queste cose: Sam Gamgee po-trebbe forse essere un leghista brianzolo, ma an-che un qualsiasi autonomista occitano, irlande-se o ruteno. L’unica cosa certa è che i Guardia-contea sembrano proprio degli italiani. Veraci.

Brenno

2 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

John Ronald Reuel Tolkien:mitologia e teologia della storia

di Paolo Gulisano

John Ronald Reuel Tolkien: ovvero un casoletterario le cui dimensioni vanno oltre il va-lore dell’opera dello studioso inglese, e che

testimoniano il suo significato di maestro, inuna società che di buoni maestri ne ha un dispe-rato bisogno. Sono passati ormai molti anni dal-la pubblicazione del capolavoro di questo scrit-tore, Il Signore degli Anelli (1954-55), ma l’inte-resse per questo autore resta ancora alto. Nel1997 un referendum tenutosi tra tutti i lettorifrequentatori delle librerie britanniche ha pro-

clamato Il Signore degli Anelli libro del secolo;un responso che ha suscitato un certo disappun-to tra la critica ufficiale, dal momento cheTolkien è ancora considerato dall’intellighentia-snob un autore per ragazzi. Ma a dispetto di tut-te le accuse più o meno malevole e ingiustificaterivolte da anni a questo scrittore, Tolkien va or-mai considerato non solo un autore di successo,ma anche come un autentico classico. Egli hariproposto, in pieno ventesimo secolo, il genereletterario epico, ridando dignità letteraria all’an-

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 3

SpecialeTolkienSpecialeTolkien

Gandalf visita Bilbo. Ted Nasmith, 1992

tichissimo genere della narrativa dell’immagina-rio, nonostante il cinismo di una cultura domi-nante che, come Brecht insegnava, doveva fare ameno dei valori, in particolare dell’eroismo. Ilprofessore di Oxford è divenuto così un maestro,un punto di riferimento esistenziale per genera-zioni di giovani lettori che si sono commosse edesaltate alla lettura delle sue pagine epiche - co-sì lontane dal realismo spesso squallido che haimperato a lungo in letteratura- che narravanogiustappunto di eroi, di regni perduti da restau-rare,di signori del male contrapposti ad elfi, ca-valieri e piccole gentili creature, pronte però aogni sacrificio per il trionfo del bene: gli Hobbit,personaggi peculiarmente e assolutamentetolkieniani.

Nato in Sudafrica nel 1892 da genitori inglesiivi trasferitisi per lavoro, ritornato in Inghilterraa quattro anni dopo la morte del padre, dopo lamorte della madre avvenuta nel 1904 fu allevatodal proprio tutore, il sacerdote oratoriano padreFrancis Morgan. Studiò a Oxford dove ottenne iltitolo di baccellieratoe di Master of Arts.Nello stesso presti-gioso ateneo fu do-cente per oltrevent’anni di Lingua eletteratura anglosas-sone, collaborandoall’Oxford EnglishDictionary. La suafama mondiale è tut-tavia legata, come siè detto, alle opere difantasia (o per me-glio dire di epica fan-tastica e mitologica)che ebbero enormesuccesso: Lo Hobbit(1937), Il Signore de-gli Anelli, Il Silmaril-lion uscito postumonel 1977 a cura delfiglio Christopherdopo la sua morte av-venuta nel 1973.

Ci si è interrogati alungo se dietro que-sto grande interesseper Tolkien - che co-me abbiamo accen-nato non sembraesaurirsi - ci fosse

una determinata ideologia. La risposta è sicura-mente negativa: risulta riduttiva qualsivoglia“etichettatura” del professore di Oxford, poichéciò che ispirò e che diede significato alla sua vitae alla sua opera non è riconducibile a una ideolo-gia, ma a una visione della vita, a una concezionedell’essere, dell’uomo, della storia che è ben dipiù che una ideologia: è una filosofia. Tolkienpossiede addirittura quella che potremmo defini-re una visione teologica della storia, attraverso laquale giudica, con l’autorevolezza di un filosofoo di un profeta, le vicende umane e con esse lebrutture e gli errori della modernità. Una letturache non è ideologica ma, al contrario, realistica;non nasce, cioè, da un idea di mondo, o da unprogetto più o meno utopico su di esso, ma dallaconstatazione della natura e della condizioneumana, segnata indelebilmente dalla Caduta (intermini cristiani dal Peccato Originale), talchè ilNemico da battere è sì l’avversario malvagio (co-me i personaggi del Signore degli Anelli Saurono Saruman) ma è soprattutto il male che si anni-

da infido in ciascunodi noi.Il ritorno al Bello e alVero auspicato dalloscrittore di Oxfordvenne realizzato dalui attraverso il ricor-so e il ritorno al Mi-to, per ridare sanità esantità all’uomo mo-derno.“Il mito èqualcosa di vivo nelsuo insieme e in tut-te le sue parti, e chemuore prima di poteressere dissezionato”,disse Tolkien parlan-do ai suoi studenti diuna delle sue operepreferite, il Beowulf.Il mito è necessarioperché la realtà èmolto più grande del-la razionalità. Il mitoè visione, è nostalgiaper l’eternità, comedice Clyde Kilby, stu-dioso dell’operatolkieniana. Il mito non è metafo-ra o allegoria, masimbolo, ossia segno

4 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Tolkien, architetto della Terra di Mezzo. Charles Santore, 1976

che rimanda a un significato ultimoche l’uomo deve riconoscere e inter-pretare. Il mito, nella storia dell’u-manità, non è mai stato contrappo-sto, come avviene oggi, alla realtà; ilmito è sempre stato per sua stessanatura vero, espressione della veritàdelle cose. Nel mito si veniva a con-tatto con qualcosa di vero che si erapienamente manifestato nella storia,e questa manifestazione poteva fon-dare sia una struttura del reale cheun comportamento umano. Il mitoè un mezzo per dare risposte a que-stioni fondamentali come l’originedell’uomo, il bene, il male, l’amore,la morte e per dare spiegazioni ai fe-nomeni della natura. Se il mito è ilnesso, il legame che l’uomo ha sem-pre cercato con il senso della vita,esso non può quindi che essere con-siderato un’espressione naturale edantichissima del senso religioso chevive nel cuore dell’uomo.

L’elemento religioso è radicatonelle storie di Tolkien e nel lorosimbolismo. La sua stessa passioneper il narrare nasce dal desiderio dicomunicare la Verità, attraversosimboli e visioni. “Il Vangelo – spiegava - è lapiù grande Fiaba, e produce quella sensazionefondamentale: la gioia cristiana che provoca lelacrime perchè qualitativamente è simile al do-lore, perchè proviene da quei luoghi dove gioiae dolore sono una cosa sola, riuniti, così comeegoismo e altruismo si perdono nell’Amore”.

In questa intensità epica e spirituale dell’operadi Tolkien sta il segreto della straordinaria at-tualità di questo autore di narrativa fantasticache si fa veicolo di valori immutabili, profonda-mente connaturati col cuore dell’uomo, i suoisogni, le sue speranze. Il suo capolavoro, Il Si-gnore degli Anelli, è il racconto epico di un pe-riodo di transizione, che rappresenta un autenti-co manuale di sopravvivenza tra gli errori e gliorrori della Modernità. “Come può l’uomo giu-dicare che cosa deve

fare in tempi come questi?” - chiede un perso-naggio del capolavoro tolkieniano, e gli rispondeAragorn, l’uomo destinato ad essere Re giusto:“Come ha sempre giudicato: il bene e il malenon sono cambiati nel giro di un anno e non so-no una cosa presso gli elfi e i nani e un’altra tragli uomini. Tocca ad ognuno di noi discernerli”.

Il Signore degli Anelli di Tolkien, ben lungidunque dall’essere un semplice racconto per ra-gazzi o una storia fantasy di evasione, è il rac-conto intenso e affascinante di questa lotta ini-ziata agli albori dei tempi, scritta da un uomodalla biografia apparentemente semplice e tran-quilla che fu invece uno dei più grandi scrittoridel Novecento, e che ridando dignità all’arteumana della subcreazione ci ha insegnato a ri-cercare la Bellezza e la Verità.

Occorre, soprattutto in quest’ultimo campo -secondo Tolkien - ripartire dalla realtà, dal suovero significato, e sottoporla a un processo di“sub-creazione”. Nel marzo del 1939 egli tenneuna conferenza sul tema delle storie fantastichea St. Andrews, in Scozia. Il testo di questastraordinaria conversazione divenne poi un sag-gio, On Fairy Stories (tradotto in italiano col ti-tolo “Sulle fiabe”, pubblicato nel volume Alberoe foglia). In esso egli rivendica questo ruolo del-la fantasia sub-creatrice come diritto umano:creiamo alla nostra misura e in modo derivativoin quanto siamo stati a nostra volta creati, e perdi più a immagine e somiglianza del Creatore.La fantasia è un mezzo di recupero della fre-

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 5

J.R.R. Tolkien. Foto Snowdon, 1972

schezza della visione della realtà, come rimedioall’ovvietà con cui trattiamo il vivere quotidia-no. La fantasia - e quindi il racconto fantastico -ha per Tolkien una triplice funzione: ristoro,evasione, consolazione.

Il ristoro, ovvero il ritorno e il rinnovamentodella salute, consiste per il Professore di Oxfordnel ritrovare una visione chiara della realtà, nel“vedere le cose come siamo destinati a vederle”.Tolkien stesso dichiarava di non voler rubare ilmestiere ai filosofi esponendo queste sue tesi,preferendo la via chestertoniana dell’immagina-rio, del paradosso, dell’immagine velata, alloscopo di liberarci dai vari orpelli che, nella vitaordinaria, mascherano il volto della verità.

Il paradosso (affidare un’immane impresa,quale nemmeno maghi e cavalieri sentono diassumersi, ai piccoli e fragili hobbit) e la follia(rifiutare le seduzioni del potere e del piacereper percorrere una via di sacrificio e rinuncia,contro ogni apparente logica razionale) sono lecaratteristiche dunque della fantasia guaritrice,ristoratrice, che consente l’evasione dal carceredi un’esistenza condotta tra formalismi, con-venzioni, condizionamenti e menzogne. Perquanto riguarda poi la terza finalità del raccon-to fantastico, anche qui Tolkien porta profondicambiamenti in quella concezione permeanteormai da tempo la narrativa realistica così comeil genere avventuroso, caratterizzata dalla man-canza di finalità, dalla casualità degli eventi edall’assenza di un elemento di giustizia, quindidi moralità, nella storia. Diceva Chesterton aproposito della finalità dei racconti, e lo stessoTolkien lo riprende nei suoi scritti, che i bambi-ni sono innocenti e amano la giustizia, mentrela maggior parte di noi è malvagia e natural-mente preferisce il perdono. Per questo i primi- e con loro tutti coloro che hanno un cuorepuro da bambino - amano che le storie si con-cludano con un “lieto fine”. A tale proposito,Tolkien introduce il concetto di “eucatastrofe”:il racconto eucatastrofico, contenente cioè ungiudizio morale sugli avvenimenti e una con-clusione appropriata, è la vera forma di fiaba ene costituisce la suprema funzione. Quando inun racconto fantastico abbiamo a trovare un“capovolgimento”, un’interruzione del corsonegativo degli eventi, un ribaltamento dell’ine-sorabile, opprimente realtà, abbiamo anche unastupefacente visione della gioia, dell’aspirazionedel cuore che per un istante travalica i limitidel racconto, lacera la ragnatela della vicenda,permette che un bagliore la trapassi. “Gioia

acuta come un dolore” dice Tolkien, presentenonostante le sconfitte e i fallimenti, poichèsmentisce l’universale sconfitta finale, a dispet-to delle molte apparenze contrarie evidenti neltempo presente. La gioia conserva una tracciadi quella strana qualità mitica della fiaba di cuisi è detto in precedenza. È certamente questatriplice funzione della fiaba e del racconto fan-tastico, che sempre si ritrova pienamente ri-spettata in ogni opera tolkieniana - al punto dafar indispettire qualche critico, che trova irri-tante questa ricomposizione dei vari pezzi delmosaico delle varie storie, riconducenti semprea un significato, a un fine che non è sempre ap-parentemente lieto ma è comunque propedeuti-co per i singoli personaggi coinvolti o per l’esitodella vicenda - a conferire a Tolkien una assolu-ta originalità sia rispetto all’atmosfera e alletrame delle saghe antiche, che pur tanto amavae tanto profondamente conosceva, ma anche ri-spetto agli altri autori di narrativa fantasy.

La gioia che Tolkien ha posto a segno del veroracconto fantastico merita una più attenta con-siderazione; l’”eucatastrofe”, che è ben più delcosiddetto “lieto fine” delle fiabe tradizionali,rappresenta un lontano barlume, un’eco dell’E-vangelium nel mondo reale. Nel saggio sui rac-conti fantastici Tolkien scriveva: “Mi azzardereiad affermare che, accostandomi alla VicendaCristiana sotto questa angolazione, a lungo hoavuto la sensazione (una sensazione gioiosa)che Dio abbia redento le corrotte creature pro-duttrici, gli uomini, in maniera adatta a questocome pure ad altri aspetti della loro singolarenatura. I Vangeli contengono una favola o me-glio una vicenda di un genere più ampio cheinclude l’intera essenza delle fiabe. I Vangelicontengono molte meraviglie, di un’artisticitàparticolare, belle e commoventi, “mitiche” nelloro significato perfetto, in sé conchiuso: e trale meraviglie c’è l’eucatastrofe massima e piùcompleta che si possa concepire. Solo che que-sta vicenda ha penetrato di sé la Storia e ilmondo primario; il desiderio e l’anelito allasubcreazione sono stati elevati al compimentodella Creazione. La nascita del Cristo è l’euca-tastrofe della storia dell’Uomo; la Resurrezione,l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione.Questa vicenda si inizia e si conclude in gioia, emostra in maniera inequivocabile la “intimaconsistenza della realtà”. Non c’è racconto mainarrato che gli uomini possano trovare più ve-ro di questo, e nessun racconto che tanti scetti-ci abbiano accettato come vero per i suoi pro-

6 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

pri meriti. Perché l’Arte di esso ha il tono, su-premamente convincente, dell’Arte Primaria,vale a dire della Creazione. E rifiutarla porta oalla tristezza o all’iracondia.” Tolkien ci intro-duce al significato della gioia cristiana, il cuinome è Gloria: “L’arte ha avuto la verifica. Dioè il Signore degli angeli, degli uomini – e deglielfi. Leggenda e Storia si sono incontrate efuse”. Il Vangelo non ha abrogato le leggende,dice il professore di Oxford, ma le ha santificate.“Il cristiano deve ancora operare, con la mentecome con il corpo, soffrire, sperare, morire; maora può rendersi conto che tutte le sue inclina-zioni e facoltà hanno uno scopo, il quale puòessere redento. Tanto grande è la liberalità on-de è stato fatto oggetto,che ora può forse permet-tersi a ragion veduta di ri-tenere che con la Fantasiapuò assistere effettiva-mente al dispiegarsi e almolteplice arricchimentodella creazione. Tutte lenarrazioni si possono av-verare; pure alla fine, re-dente, possono risultarenon meno simili e insiemedissimili dalle forme danoi date loro, di quantol’Uomo, finalmente reden-to, sarà simile e dissimile,insieme, all’uomo cadutoa noi noto”.

Si deve parlare quindi diTolkien come scrittore re-ligioso, dunque, e più pre-cisamente si può rintrac-ciare la fonte della sua vi-sione religiosa nella fedecattolica intensamentevissuta. Tolkien era statoricevuto nella Chiesa diRoma a nove anni, dopo laconversione della madre.La Chiesa cattolica in In-ghilterra all’inizio del ‘900era una comunità povera,composta in gran parte diimmigrati irlandesi, conalle spalle tre secoli dipersecuzioni. La città diBirmingham, dove la fa-miglia Tolkien viveva, erastata tuttavia illuminata

in quegli anni dalla presenza di quel grande ge-nio cristiano che fu John Henry Newman. Ilvolto magro e solcato di rughe profonde in cuisplendevano due occhi intrisi di ideale scrutaro-no per anni in quella difficile Inghilterra. Eleva-to alla porpora cardinalizia da Leone XIII allasoglia degli ottant’anni, nominato Fellow ono-rario del Trinity College di Oxford (era dai tem-pi della Riforma, tre secoli prima, che un talericonoscimento del massimo istituto accademi-co inglese non veniva più dato a un cattolico) sispense a Birmingham nel 1890, mentre iTolkien si trasferivano in Sudafrica. Sicuramen-te Mabel ebbe a respirare quel clima spiritualeche Newman aveva diffuso. Sulla sua tomba il

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 7

Le Colline di Hobbitville. Disegno di J.R.R. Tolkien, 1966

grande convertito aveva voluto che fossero inci-se queste parole: Ex umbris et imaginibus adveritatem (“Andiamo verso la verità passandoattraverso ombre e immagini”). Per John Ro-nald Tolkien, che amò subito appassionatamen-te la fede cui sua madre lo aveva condotto, l’artefu per tutta la vita questa ricerca della verità traquelle ombre, quelle immagini che sono i miti,i simboli, le lingue arcaiche parlate dalle gene-razioni scomparse, le antiche storie di tempitrascorsi e lontani. Il bambino di otto annitrovò nella fede cattolica una nuova e fonda-mentale pietra miliare della sua vita: una fedeche non era solo sostegno e conforto per il pre-sente e speranza per il futuro, ma era anche illuogo dove poteva rintracciare - cosa per lui im-portantissima - un passato, un terreno da cuitraeva nutrimento vitale l’albero della storia,della sua storia. Il bambino che non aveva piùun padre e nemmeno dei parenti trovò acco-glienza in una Chiesa che era la chiesa dei suoipadri, dei suoi antenati. Questa consapevolezza,questo amore per le proprie antiche radici reli-giose si manifestò in seguito nell’interesse enell’amore per il Medioevo, quando l’Inghilterraera cattolica, quando l’intero continente euro-peo conosceva ancora una unità culturale e spi-rituale in seguito mai più sperimentata. Da ciòderivò anche quella disapprovazione per il co-siddetto “progresso”, nel nome del quale, dallaRiforma in poi, tanti mali erano venuti. Il prez-zo della conversione era stato per i Tolkien lacondizione di miseria che ne seguì, e chi ne fe-ce le spese fu Mabel. Nel 1904 fu ricoverata inospedale , dove le fu riscontrata una grave for-ma di diabete che nel breve tempo di pochi me-si le fu fatale. Le era impossibile pagarsi le co-stose cure, e nessuno dei parenti fu disposto adaiutarla. Cercò di non fare mancare nulla aipropri figli in quel periodo, e fece in modo chenon avessero ad accorgersi delle sue condizioni.Nel novembre 1904 Mabel peggiorò rapidamen-te, entrando in coma diabetico e morendo, il 14novembre, dopo sei giorni di agonia. “Mia ma-dre è stata veramente una martire, - scrisse Ro-nald nove anni dopo - non a tutti Gesù concededi percorrere una strada così facile, per arriva-re ai suoi grandi doni, come ha concesso a Hi-lary e a me, dandoci una madre che si uccisecon la fatica e le preoccupazioni per assicurarsiche noi crescessimo nella fede”.

Attraverso ombre e immagini Tolkien indi-rizzò la sua vita e la sua opera verso la Verità.

Nel ventesimo secolo l’Altrove del mito lette-

rario si è avventurato spesso e volentieri sul ter-reno dell’utopia, preferendo tuttavia viaggiarenello spazio e nel tempo, aprendo l’immagina-zione su nuovi mondi e nuove frontiere, fre-quentemente prefigurando scenari decisamenteinquietanti. John Ronald Tolkien rifiuta inveceogni idea di utopia; la sua, semmai, è una storiaucronica, situata cioè in un tempo non identifi-cabile. Il luogo - lo si è detto - è invece questaterra, la sola che ci sia data, e che dobbiamoamare. La saggezza di Tolkien è affidata alle pa-role di Gandalf, nella conclusione del Signoredegli Anelli, ove dice: “Altri mali potranno so-praggiungere, perchè Sauron stesso non è cheun servo o un emissario. Ma non tocca a noidominare tutte le maree del mondo, il nostrocompito è di fare il possibile per la salvezza de-gli anni nei quali viviamo, sradicando il maledai campi che conosciamo, al fine di lasciare acoloro che verranno dopo terra sana e pulita dacoltivare. Ma il tempo che avranno non dipen-de da noi”. E’ questo il manifesto dell’umanorealismo, profondamente cristiano, opposto agliincubi di tutte le utopie, con le loro promesseingannatrici e illusorie. Aveva ben ragioneTolkien di difendersi dalle accuse di “escapi-smo”, cioè di disimpegno, rivolte – del tutto atorto - alla sua opera. Non è, il mondo descrittonella Terra di Mezzo, quello in cui fuggire diser-tando dai propri obblighi e dai propri impegni,ma è invece la propria patria autentica, la pro-pria casa accogliente, attualmente soppiantata esoffocata dai pessimi risultati della modernitàfiglia delle utopie ideologiche. È il mondo, co-me ebbe a dire lo stesso Tolkien, della coraggio-sa evasione del prigioniero, non della fuga pavi-da del disertore. Si accede alla Terra di Mezzo,ci si inoltra in essa, per realizzare un camminoattraverso il quale si diviene autenticamente séstessi, eliminando il superfluo e facendo emer-gere la nobilis forma, la forma nobile dell’uo-mo, liberata da ogni grossolanità e impurità,che può così rivelare la propria origine divina.

Tolkien rivela nitidamente una propria teolo-gia della storia, che riprende la concezione ago-stiniana delle due città: la Città terrena, operadegli uomini in cui agisce il male, e la Città diDio, meta verso la quale indirizzare attese, sfor-zi e speranze. È da sottolineare che S.Agostinosi trovò a vivere al confine tra il crepuscolo diun mondo antico un tempo grandioso e l’alba diuna nuova era dai contorni ancora incerti, e in-segnò che la storia è guidata dalla Provvidenzae che quindi ogni avvenimento - dalla piccola

8 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

vicenda personale alle grandi svolte dell’uma-nità - possiede un significato che dissipa l’oscu-rità e sorregge le forze dell’uomo. Le rovine, inumerosi segni di civiltà cresciute, ascese agrandezza e poi irrimediabilmente finite e di-menticate costellano ovunque la Terra di Mezzoscenario delle vicende tolkieniane, ricordandocila caducità della Città terrena.

Tolkien guardò sempre all’arte come a unanobile forma di sub-creazione, una prerogativaelevata ed elevante, poichè si tratta di realizzareopere nell’immagine di Dio e della sua creazio-ne. Gli elfi sembrano essere preposti a ricordareagli uomini la bellezza del creato, il dono incor-rotto di Dio. Essi sono testimoni discreti del-l’importanza dell’arte, della cultura, di una ci-viltà elevata e virtuosa rispetto alla barbarie sel-vatica, compresa quella paludata di ritrovatitecnologici. Gli elfi ricordano agli uomini quel-lo che anch’essi potrebbero essere, se si liberas-sero dalle loro passioni più insane e rovinose:l’elfo è essenzialmente un contemplativo, diver-so dall’uomo attivo e frenetico che cerca di ma-nipolare la natura per servirsene.

La Grazia che traspare da tutta l’opera diTolkien, che ci viene rivelata attraverso il lin-guaggio simbolico del Mito è dunque questo do-no dello Spirito Santo che è necessario all’uo-mo per ottenere la salvezza; essa sana e perfe-ziona la natura umana ferita e limitata dal pec-cato. È la Grazia lo straordinario segreto deglieroi di Tolkien, così come, secondo Chesterton,la gioia è il gigantesco segreto del cristianesi-mo. La Grazia della fede cristiana che completae dà speranza allo stoico eroismo pagano, di cuiTolkien aveva scritto nel suo commento alBeowulf: “Stimiamo in ogni modo gli antichieroi: uomini prigionieri delle catene di circo-stanze o della loro propria indole, lacerati dalconflitto di doveri egualmente sacri, chemuoiono con le spalle al muro”.

La risposta, sembra insegnarci Tolkien, consi-ste nel ricordare, nel fare memoria, così come ilcristiano ricorda e rivive ogni giorno nell’Euca-ristia un avvenimento ben preciso: la morte e laResurrezione di Cristo. Tolkien paventa, difronte all’avanzata distruttrice della modernitàtecnologica e irreligiosa, la scomparsa della me-moria, della Tradizione, e l’avvento di tempi diaridità, di materialismo, di menzogna. Si po-trebbe pensare che lo scrittore inglese espri-messe una concezione decisamente pessimisti-ca, se non addirittura catastrofica, mentre inrealtà, come abbiamo letto nelle parole che egli

nella conclusione del Signore degli Anelli fapronunciare a Gandalf, il suo è semplicementerealismo cristiano, consapevole delle prove chesiamo chiamati a sostenere ma anche certo del-la vittoria finale che spetta a Dio. “ La tragediadella grande disfatta nel Tempo resta pungenteper un po’, ma cessa di essere alla fin fine im-portante. Non è una disfatta, perché la fine delmondo è parte del disegno dl Creatore, l’Arbitroche sta al di sopra del mondo mortale. Dietro,appare la possibilità di una vittoria eterna (o diuna eterna sconfitta), e la vera battaglia è fral’anima e i suoi avversari. Così, i vecchi mostridivennero immagini dello spirito o degli spiriti

del male, o piuttosto gli spiriti malvagi entra-rono nei mostri e presero forma visibile neicorpi orrendi dell’immaginazione pagana”.Così, alla fine, questo è il destino dell’uomo via-tor, che in questo mondo è solo un pellegrinoin cammino, uno straniero che ha la sua patriaautentica altrove: “L’uomo straniero in unmondo ostile, impegnato in una lotta che nonpuò vincere sinchè il mondo durerà, viene assi-curato che i suoi nemici sono anche i nemicidel Signore, e che il suo coraggio, in se stessonobile, è anche la più alta lealtà”.

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 9

J.R.R. Tolkien. Foto Snowdon, 1972

10 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

“Non tocca a noi padroneggiare le maree diquesto mondo, ma fare tutto quello che ci èpossibile per la salvezza dell’epoca in cui vivia-mo”

Gandalf il Bianco

L’uscita della versione cinematografica de IlSignore degli Anelli (che è sufficientemen-te fedele all’opera scritta, anche se, come

sempre accade, qualche tradimento è da metterein conto ed è ben noto il sentimento di delusio-ne che quasi sempre accompagna, almeno per ilettori di ogni opera cult, come sicuramente è ilSignore degli Anelli, la visione della trascrizionefilmica), ha scatenato certamente il dilagare diuna “tolkienmania” con il consueto e prevedibi-le accompagnamento di oggettistica varia, vi-deogiochi, recensioni più o meno competenti edotte analisi sociologiche sull’apparentemente“inspiegabile” successo di J.R.R. Tolkien, che du-ra ormai da quasi mezzo secolo. (1)

Tutto ciò non è preoccupante, salvo forse peril buon gusto: riproduzioni di Gandalf in plasti-ca made in China o una raccolta di figurine Pa-nini avrebbero solo fatto scuotere bonariamentela testa al placido professore di Oxford. Più peri-coloso è il rischio concreto – presso l’opinionepubblica semi-colta – di un appiattimento del-l’opera e soprattutto del pensiero di Tolkien suuno sfondo confuso, omologante, ambiguo e perqualche verso inquietante fatto di new age, nextage, neo-spiritualismo da supermercato, buoni-smo ecologista, che mischia allegramente, nelle“letture consigliate” dai sui adepti, La Profeziadi Celestino con Roberto Calasso. (2)

Tolkien, il cattolico, reazionario, antimodernoTolkien è ben altra cosa. Tolkien, scrive ElémireZolla, autore dell’introduzione dell’edizione ita-liana del Il Signore degli Anelli, non appartienealla schiera dei “favolisti della mano sinistra”,ma a quelli “della Tradizione benigna e lumino-

sa”, e prosegue, riferendosi a Tolkien e al suoamico e sodale C.S. Lewis: “Non è esaltante chepure in tempi dediti al culto del Caos, abbianolevato la voce anche questi ultimi ?” (3)

L’equivoco non è nuovo. Già attorno al “miti-co” ’68, Tolkien era diventato un simbolo pressola beat generation statunitense che, rifiutatauna società materialista e priva di valori, rifluivaconfusamente non nel suo opposto, ma nella ca-ricatura del suo opposto, nelle comuni anarchi-co-agricole, nello Zen made in California, neisogni senza speranza della droga. Ovviamente sisbagliavano di grosso, anche riguardo all’incol-pevole Tolkien. Pure il benemerito editore Ru-sconi, con discutibile scelta, peraltro non edito-riale ma di marketing, faceva uscire la secondaedizione de Il Signore degli Anelli con la fascet-tatura: La Bibbia degli Hippies. Il mondo solare,luminoso e ordinato del professore di Oxfordnon aveva nulla a che vedere con quello oscuro,stregonesco e nichilistico della cultura under-ground, che tanta parte ha avuto nella genesidella new age.

J.R.R. Tolkien impolitico,prepolitico, metapolitico

di Antonio de Felip

SpecialeTolkienSpecialeTolkien

(1) La prima edizione del Il Signore degli Anelli risale al1954-1955, ma Lo Hobbit, delizioso proemio di quest’opera,è del 1937. La prima edizione italiana è del 1970 per i tipidella Rusconi.(2) Su un versante completamente diverso, egualmente de-viante sarebbe ogni paragone con i racconti di J. K. Rowlingincentrati sul personaggio di Herry Potter, alimentato dallaquasi contemporanea uscita delle due versioni cinematogra-fiche. Per quanto graziosi e divertenti, i racconti della scrit-trice inglese sono ben lontani dalla mitopoiesi tolkieniana.(3) Va dato merito alla Rusconi Editore e soprattutto al suodirettore editoriale dell’epoca, Alfredo Cattabiani, (protago-nista di una coraggiosa e intelligente politica editoriale diquesta casa editrice nei primi anni settanta) non soltanto diaver per primi pubblicato la versione integrale del Il Signoredegli Anelli, ma di averne affidato l’introduzione e la curadell’edizione ad autori quali, rispettivamente, Elémire Zollae Quirino Principe, “consonanti” con il pensiero di Tolkien equindi capaci di una fedele trasposizione nel nostro contestoculturale.

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 11

Naturalmente, non vi sareb-be nulla di più sbagliato cheattribuire una ideologia aTolkien, anche solo per il fattoche il concetto stesso di ideo-logia è moderno, e sarebbeuna palese contraddizione conil profondo, naturale antimo-dernismo del nostro Autore.Tuttavia è invece assolutamen-te legittimo tentare una com-prensione della Weltan-schauung, della sua visionedel mondo. (4) Cattolico dice-vamo. Ma di quel cattolicesi-mo britannico risorto nell’Ot-tocento dopo i secoli di perse-cuzione e spesso di martirioche la “civile” e “liberale”Gran Bretagna aveva inflitto aisuoi sudditi cattolici da EnricoVIII, attraverso la “GloriosaRivoluzione” e fino al 1829,quando un atto di emancipa-zione metteva fine alle moltelimitazioni dei diritti civili, diproprietà e di accesso ai pub-blici uffici di cui ancora soffri-vano i fedeli della Chiesa Cat-tolica. È un cattolicesimo an-timoderno, naturaliter con-servatore, quello di Tolkien (èlui stesso a definirsi “un con-servatore vecchio stile” e con-siderava “sorgente di infeli-cità” l’abolizione del latinodalla Messa) che giustamente Paolo Gulisano (5)iscrive nella tradizione del Cardinale Newton, diHilaire Belloc, di Gilbert Keith Chesterton.

Questa è, innegabilmente, una delle caratteri-stiche principali del pensiero di Tolkien, che nonama il mondo moderno, le sue ideologie, le suebrutture, il suo presunto progresso, il suo mac-chinismo. Uno dei suoi saggi più belli, Sulle Fia-be (6) oltre essere uno gradevolissimo testo diestetica, contiene alcune pagine che rappresen-tano un vero e proprio “manifesto dell’antimo-dernità” (7) di Tolkien. Ciò che è interessantenotare è che la sua posizione è ispirata non auna sognante fuga dalla realtà, tutt’altro: è pro-prio in nome del reale, del Vero, che per Tolkienè sempre associato, come in ogni Tradizione, alBello, che il nostro Autore condanna la nostraera, fatta di “mezzi migliori per scopi peggiori”.

Scrive: “Il più pazzo castello che sia mai uscitodalla sacca di un gigante in uno sfrenato raccon-to gaelico, non soltanto è assai meno brutto diuna fabbrica-robot, ma è anche ben più reale diessa”.(8) Questo intimo legame tra il Bene e il

(4) Per una più completa analisi del pensiero di Tolkien ri-mandiamo al recentissimo e ottimo testo di Paolo Gulisano,Tolkien: il mito e la grazia, Ancora, Milano 2001. Dello stes-so Autore sono da segnalare La Mappa della Terra di Mezzodi Tolkien, Rusconi, Milano 1977 e La Mappa del Silmaril-lion di Tolkien, Rusconi, Milano 1999. Segnaliamo ancheuna delle più classiche biografie di Tolkien: Humphrey Car-penter, La vita di J.R.R. Tolkien, Edizioni Ares, Milano 1991.Il volume si apre con una bella introduzione di Gianfrancode Turris, uno dei migliori conoscitori italiani di Tolkien. (5) Paolo Gulisano, Tolkien, il mito e la grazia, pp. 51-65(6) In J.R.R. Tolkien, Albero e Foglia, Rusconi, Milano 1976.(7) In particolare: ibidem, pp. 76-81,(8) Ibidem, p. 80

Locandina del film del 1978

12 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Bello, idea eminentemente cristiana, oltre checlassica, è palese ne Il Signore degli Anelli, e so-prattutto nei suoi paesaggi: i luoghi ove il Beneancora saldamente sopravvive, la Contea primadello scempio operato da Saruman fuggitivo, Ri-vendell-Gran Burrone, Lorien, sono luoghi incui la Natura non corrotta dal male offre scenaridi bellezza e di pace; quelli dominati dalle forzedel male, tipico fra tutti Mordor, (9) in cui si ad-

dentra Frodo, in un viaggio tipicamente iniziati-co per la distruzione dell’anello, è il regno delladesolazione, dell’orrido. Che Il Signore degliAnelli possa essere definita un’opera cattolicapuò apparire strano e incongruo. Tuttavia è lostesso Tolkien a confermarlo: “Il Signore degliAnelli è fondamentalmente un’opera religiosa ecattolica; all’inizio non ne ero consapevole, losono diventato durante la correzione. Questospiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato,praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la“religione” oppure culti e pratiche, nel mio mon-do immaginario. Perché l’elemento religioso èradicato nella storia e nel simbolismo”. (10) Ilpenultimo capitolo de Il Signore degli Anelli,“Percorrendo la Contea” rappresenta un vero eproprio paradigma della visione del mondotolkieniana e illustra bene il suo pensiero.

La Contea, patria degli Hobbit, trasparente

metafora di una idilliaca campagna britannica,era stata occupata da Saruman, il mago che ave-va tradito il Bianco Consiglio perché bramava alpotere dell’Anello, e aveva instaurato un regime“industrial-collettivista”.

Case distrutte, sostituite da falansteri, intro-duzione di tecnologie che oggi definiremmo “in-vasive”, contrapposte alle tecnologie “dolci” de-gli Hobbit, (11) inquinamento dell’aria e dell’ac-

qua, collettivizzazione forza-ta in nome di una “equa di-stribuzione”: da tutto ciòemerge con chiarezza la vi-sione del Nemico di Tolkien:la modernità e i suoi frutti,l’industrialismo sconsidera-to, le ideologie collettiviste. Un’altra componente essen-ziale del pensiero di Tolkienè quella del radicamento,dell’amore per la propria ter-ra e le proprie tradizioni. Èun tema che percorre tutto IlSignore degli Anelli, e chetrova la sua massima espres-sione nel sentimento cheesprimono gli Hobbit neiconfronti della loro Contea.È una idea di “patria sotto ipiedi”, di patria concreta, fat-ta terra, di campi ben colti-vati, di un ambiente preser-vato, di tradizioni familiari.Ovviamente c’è assoluta coe-renza con la visione antimo-

derna di Tolkien e gli Hobbit rappresentano, nelromanzo una sorta di “voce narrante”, cheesprimono anche la visione metapolitica dell’Au-tore (“Gli Hobbit erano tradizionalisti” narraTolkien).

È l’amore per la piccola patria, quella che sitocca, si vede, si conosce e si ri-conosce. In una

Eowyn e il Nazgûl. Fratelli Hildebrandt, 1976

(9) Parlando nei primi anni cinquanta della sua bella casa diOxford, ormai tuttavia assediata dal traffico e dal rumore,Tolkien scrive: “Questa deliziosa casa è diventata inabitabile(…) Spesso trema, è torturata dal rumore e riempita di fu-mo. Questa è la vita moderna. Mordor è in mezzo a noi.” DaH. Carpenter, op. cit., p. 308.(10) Da una sua lettera al padre gesuita Robert Murray, in:J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza, Rusconi, Milano1990, pp. 195-196(11) “(…) essi non capiscono e non amano macchinari piùcomplessi del soffietto del fabbro, del mulino ad acqua o deltelaio a mano.” J.R.R. Tolkien Il Signore degli Anelli, Rusco-ni, Milano 1970, p. 25.

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 13

lettera al figlio Chri-stopher, Tolkien scriveuna frase apparentemen-te sorprendente: “Ioamo l’Inghilterra (nonla Gran Bretagna e sicu-ramente non il Com-monwealth-grr)”. (12)

Partendo da questa vi-sione tradizionalista,Tolkien, l’”impolitico”Tolkien, già nel 1943scrive frasi di grande elucida preveggenza suldestino del mondo e sulrischio della globalizza-zione : “Mi chiedo (…),se resterà una piccolanicchia, anche scomoda,per gli antiquati reazio-nari come me (…). Igrandi assorbono i pic-coli e tutto il mondo di-venta più piatto e piùnoioso. Tutto diventeràuna piccola, maledettaperiferia provinciale.Quando avranno intro-dotto il sistema sanitarioamericano, la morale, ilfemminismo e la produ-zione di massa all’Est,nel medio Oriente, nellontano Oriente, nel-l’URSS, nella pampa, nelGran Chaco, nel bacino danubiano, nell’Africaequatoriale, nelle terre più lontane dove esisto-no ancora stregoni, nel Gondhwanaland, a Lha-sa e nei villaggi del profondo Berkshire, comesaremo tutti felici.” (13) E questo timore di unaamericanizzazione del mondo lo faceva così con-tinuare: “(...) non sono del tutto sicuro che unavittoria americana a lunga scadenza si riveleràmigliore per il mondo nel suo complesso piutto-sto della vittoria di – (il trattino è nel testo.N.d.R.).” (14)

Il “tradizionalismo” di Tolkien va inoltre inte-so anche in un senso letterale: quello che po-tremmo definire di “cultore delle tradizioni”, in-tese, in questo contesto, come quel vastissimogiacimento storico, letterario, linguistico e so-prattutto mitico-sacrale che rappresenta le fon-damenta delle culture europee. La sua creazioneartistica (o, per restare fedele alla sua estetica, la

sub-creazione), nasce da qui. Tutto il suo corpusmitologico, non soltanto Il Signore degli Anelli,ma anche ovviamente Lo Hobbit e Il Silmaril-lion, traggono le loro origini da questo giaci-mento. Cosa spinge il pigro (per sua stessa am-missione) professor Tolkien a dare origine a unacosì imponente costruzione letteraria, mitologi-ca, storica e linguistica, caratterizzata da unaimpressionante coerenza interna? Certo, la mol-la scatenante è un gusto ludico del divertisse-ment (soprattutto nel Lo Hobbit è palese e tra-sparentissimo il divertimento dell’Autore nelloscrivere il libro), tuttavia l’origine – generosa fi-no all’ingenuità, e sarà lo stesso Autore ad am-metterlo – è quella di “creare corpo di leggende

(12) J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza, p.76(13) Ibidem, p. 76(14) Ibidem, p. 76

Bilbo arriva alle capanne degli Elfi boscaioli. Disegno di J.R.R. Tolkien, 1966

14 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

più o meno legate che spaziasse dalla vastità diuna cosmogonia al livello di favola romantica(…) che io potessi semplicemente dedicare: al-l’Inghilterra, al mio Paese (…). Avrebbe dovutopossedere, se mai fossi riuscito a realizzarla, lapacata ed elusiva bellezza che viene definita cel-tica” (15) Se questo è lo scopo, altrettanto inte-ressante è il “come” nasce l’opera di Tolkien:professore di Lingua e Letteratura Inglese, (16)coltivava una vera e propria passione per le lin-gue inventate e la stupefacente, minuziosa, pre-cisissima “invenzione” delle lingue dei vari Po-

poli (Elfi, Uomini, Hobbit) che per-corrono le contrade della sua Terraimmaginata rappresentano il “nucleooriginario” attorno a cui si coagulatutto il resto: la Storia e le storie, ilterritorio, l’etnografia. La sua passio-ne per le lingue anche lo aveva ovvia-mente portato a contatto con quei“giacimenti” di cui si parlava prima eche rappresentano il tesoro cultura-le, da cui Tolkien trasse, in modo tut-tavia assolutamente originale e attra-verso un processo organico e coeren-te di “ri-sub-creazione”, la sua co-smologia. Leggere Tolkien significaquindi anche percepire il profumo diquelle creazioni profonde dell’animoeuropeo, che vanno dai capolavoridella letteratura anglosassone, comeil Beowulf e Crist (17) a quelli dellaletteratura altogermanica, come ilNibelungenlied, (18) dai miti celtici(19) alle grandi saghe norrene. (20)Quale il lascito a noi di J.R.R.

Tolkien? Della sua opera si può dire ciò che ilgrande storico olandese J. Huizinga ha lasciatoscritto sul Medio Evo: “Ci si immagini quale go-dimento può offrire un mondo, in cui ogni pie-tra preziosa brilla con tutti i bagliori dei suoivalori simbolici (…). Si vive in una vera polifo-nia del pensiero. Tutto è pensato a fondo”. (21)

In un mondo su cui si allungano ancora le cu-pe tenebre di Mordor, la solare grandezza etica,epica ed estetica di J.R.R. Tolkien illumina, co-me la fiala elfica di Galadriel, il nostro camminodi viandanti.

(15) Da H. Carpenter, op. cit., pp. 149-150(16) J.R.R. Tolkien fu professore ad Oxford (dopo una espe-rienza all’Università di Leeds) dal 1925 al 1959, prima titola-re di una cattedra di Anglosassone poi, dal 1945, di Lingua eLetteratura Inglese. Di formazione linguistica, conoscevaperfettamente, tra l’altro, il greco, il latino, il gotico, l’anglo-sassone (in merito al quale fu una delle massime autorità ac-cademiche), il gallese, il norvegese antico, il finlandese.(17) L’origine assoluta dell’epica tolkieniana nasce da due ri-ghe del Crist di Cynewulf, che contenevano il nome di un an-gelo: Eärendel. Questo nome, che aveva colpito e affascinatoTolkien, darà origine, nel 1914, a un poemetto, Il viaggio Eä-rendel Stella della Sera, che costituisce il primissimo iniziodella mitologia personale di Tolkien. Cfr., a questo proposito,H. Carpenter, op. cit., p. 119 e 128. Diceva Tolkien a un inter-vistatore della BBC: “Mi dia un nome e avrà una storia”.(18) In realtà Tolkien rifiutava ogni collegamento, anche te-matico, con l’opera medioevale Nibelungenlied e con il DerRing des Nibelungen di R. Wagner. Cfr., a questo proposito,sia: J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza, p. 346, sia:

AA.VV., A Tribute to J R R Tolkien, University of South Afri-ca, Pretoria 1992, p. 16.(19) L’immaginario Libro Rosso dei Confini Occidentali cheTolkien, con classico espediente letterario, pone come base“storica” de Lo Hobbit e de Il Signore degli Anelli, trova cor-rispondenza con Il Libro Rosso di Hergest, testo gallese cheinclude anche il più famoso Mabinogion. Molti dei temi edelle figure tolkeniane corrispondono ai topoi più classicidella mitologia celtica gallese e irlandese.(20) I nomi dei nani (come Thorin, Dwalin, Bifur etc.) sonotratti di peso dall’Edda di Snorri. (Cfr. Edda di Snorri, pp.80-81, Rusconi, Milano 1975). In generale, per una discretaanalisi delle fonti mitiche di Tolkien nel leggendario euro-peo, cfr. David Day, L’Anello di Tolkien, Piemme, CasaleMonferrato 1995. Sulle fonti cosmogoniche di Tolkien è dasegnalare la seconda parte del breve, ma ottimo saggio diMario Polia, Omaggio a J.R.R. Tolkien, Edizioni Il Cerchio,Rimini 1980.(21) Johan Huizinga, L’autunno del Medio Evo, Sansoni, Fi-renze 1966, p. 287.

Il ritorno di Gandalf. Fratelli Hildebrandt, 1978

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 15

Un sondaggio svolto nel 1997 dall’emittentetelevisiva britannica Channel 4 e dalla cate-na libraria Waterstone ha eletto Il Signore

degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien “mi-glior libro del secolo”. Un’indagine condotta nel1999 tra i clienti di Amazon.com lo ha indicatoaddirittura come “miglior libro del millennio”.Pochi mesi fa, il film di Peter Jackson La Com-pagnia dell’Anello ha sbancato i botteghini, unsuccesso travolgente quanto annunciato.Senz’altro c’è ancora qualcuno che crede che ilcapolavoro di Tolkien sia una storia per bambinie nulla più, eppure milioni di persone, in tutto ilmondo, vi hanno trovato un Romanzo con la er-re maiuscola, un messaggio da raccogliere.

I verdi hanno tentato di arruolare Tolkien, inragione del suo amore per la natura. Ma se ama-re l’ambiente significa essere ambientalisti, allo-ra anche economisti come Ludwig von Misesavrebbero dovuto manifestare grande simpatiaper il movimento ecologista. Al contrario, comeha rilevato Justin Raimondo(1), il bardo diOxford non intendeva affatto attaccare la rivolu-zione industriale o il capitalismo; piuttosto, mo-strare che il male tende a espandersi e a ripro-gettare perfino l’ambiente. Quindi un bruttopaesaggio è il riflesso di un cattivo governo. Diuno spregiudicato uso del potere.

Qui emerge il vero nocciolo del romanzo: lamalvagità del potere. Il Signore degli Anelli è unastoria (una saga) contro il potere: non il potere“economico” o “sociale” (invenzioni funamboli-che dei marxisti da salotto), ma il potere propria-mente detto. Il potere politico. Che tradizional-mente è l’obiettivo polemico di quegli autori chesi rifanno agli ideali del liberalismo classico(2).

Lo stesso Tolkien è molto chiaro a proposito:

“Si può fare dell’Anello un’allegoria della no-stra epoca, volendo: un’allegoria dell’inevitabi-le fine cui vanno incontro tutti i tentativi di

sconfiggere il potere del male con un potereanalogo”(3).“Potere è una parola sinistra e minacciosa intutti questi racconti”(4).“La storia è imperniata su un lato buono euno cattivo, la bellezza contro la bruttezzacrudele, la tirannia contro la regalità, la li-bertà con il consenso contro la costrizioneche da tempo ha perso qualunque altro obiet-tivo che non sia il conseguimento del puropotere, e così via”(5).“Nella mia storia Sauron raffigura quanto dipiù vicino esista alla totale malvagità. Hapercorso la stessa strada di tutti i tiranni: co-minciando bene, in quanto pur desiderandoun ordine che rispondesse alla sua conoscen-za, dapprima considerava anche il benessere(economico) degli altri abitanti della Terra.Ma andò più lontano dei tiranni umani perquanto riguarda l’orgoglio e la brama di do-minio, essendo in origine uno spirito immor-tale (angelico)”(6)“Naturalmente la mia storia non è un’allego-ria del potere atomico, ma del Potere (eserci-tato attraverso il dominio)”(7).

Non esistono Anelli buoni,ovvero: Tolkien e il potere*

di Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro

SpecialeTolkienSpecialeTolkien

* Traduzione e adattamento da: A. Mingardi e C. Stagnaro,Tolkien v. Power, Ludwig von Mises Institute, 26 febbraio2002, http://www.mises.org/fullstory.asp?control=899.(1) http://www.antiwar.com/justin/j122401.html(2) Utilizziamo qui l’espressione “liberalismo classico” perindicare quel sistema di idee che si dipana nella storia a par-tire dagli insegnamenti dei Levellers, di John Locke ed Ed-mund Burke – una tradizione che si distingue nettamentedal liberalism così com’è inteso nel Novecento, a partire dal-l’insegnamento di autori come John Stuart Mill e John May-nard Keynes. (3) John Ronald Reuel Tolkien, La realtà in trasparenza(Milano: Rusconi, 1990), pag. 140.(4) Ibidem, pag. 174.(5) Ib., pag. 203.(6) Ib., pag. 275.(7) Ib., pag. 278.

16 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Possiamo dire che Il Signore degli Anelli siauna sorta di mitopoiesi (cioè una creazione dimiti) ispirata dall’antico motto di EdmundBurke: “Invano tu mi dici che il Governo Artifi-ciale è cosa buona e devo premunirmi soltantodall’abuso. La cosa, la cosa in sé è abuso”(8).Questa semplice verità è il fulcro di un romanzodi oltre seicentomila parole.

Il Signore degli Anelli è l’epica avventura didue individui, fragili e umani, due Hobbit arma-ti solo del proprio cuore e della propria mente,alle prese con la distruzione dell’Unico Anello,che incarna il potere. Checché ne pensino alcu-ni critici, Tolkien non era uno sprovveduto e seha voluto che il pericoloso gingillo si chiamasse“Anello del Potere” è perché la relazione tral’oggetto e il suo portato (cioè il potere assoluto)doveva essere evidente fin dal nome, fin dalle pa-

role che JRRT tanto amava e nella cui scelta im-piegò tanta cura. Che l’Anello simboleggi il po-tere è chiaro, d’altronde, quando si comprendache esso non si limita a conferire forza o capa-cità di dominio, ma anche rende schiavo il suoportatore. Man mano che diventa sempre piùpotente, il portatore dell’Anello ne diventa sem-pre più un servo.

Si tratta della stessa cosa che accade ognigiorno nel nostro mondo: i governanti, anchequelli ben intenzionati e animati da ideali lumi-nosi, sono governati essi stessi. Sono schiavi delconsenso, dei sondaggi elettorali e della fame in-saziabile di acquistare ancora e sempre più pote-re. Questo, banalmente, è il motivo per cui non

Smaug. Fratelli Hildebrandt, 1977

(8) Cit. in Anthony de Jasay, Against politics. On govern-ment, anarchy, and order (London: Routledge,1997).

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 17

esiste e non può esistere uno Stato “minimo”,capace di limitarsi da sé, come avevano vagheg-giato i liberali classici. Gli uomini incaricati divegliare sul rispetto dei diritti altrui prima o poitradiscono la propria funzione. I politici e i go-vernanti in generale desiderano sempre conqui-stare maggiore importanza e più prestigio: piùpotere.

Non contano poi molto le espressioni magna-nime con cui i politici ricamano le proprie am-bizioni; essi si trovano nel mezzo di un circolovizioso da cui non possono uscire. Ha scrittoEdmund Burke: “Chiedete ai politici a qual finele leggi furono inizialmente concepite ed essi virisponderanno che le leggi furono concepite co-me protezione per i poveri e i deboli… ma nes-sun’altra pretesa può essere altrettantoridicola” (9).

Tolkien stesso abbracciava questa visione delmondo. Anzi, andava persino oltre, affermandoche: “Le mie opinioni inclinano sempre più ver-so l’anarchia (intesa filosoficamente come abo-lizione di ogni controllo, non come uomini bar-buti che lanciano bombe), oppure verso unamonarchia non costituzionale. Arrestereichiunque usi la parola Stato (intendendo qual-siasi cosa che non sia la terra inglese e i suoiabitanti, cioè qualcosa che non ha né poteri nédiritti né intelligenza); e dopo avergli dato lapossibilità di ritrattare, lo giustizierei se rima-nesse della sua idea!”(10).

Secondo lo scrittore inglese, dunque, il potereè sempre malvagio – “non ci sono poteri buoni”.Che il messaggio del Signore degli anelli sia que-sto è evidente: fin dalle prime pagine del roman-zo, i “buoni” hanno in mano l’Anello, cioè l’armapiù potente sulla faccia della terra. Molti di loropropongono di usarlo contro Sauron, l’OscuroSire. È vero, l’Anello è stato forgiato per sua vo-lontà ed è malvagio al di là di ogni dubbio – pen-sano – ma esso può comunque essere usato perconseguire un fine “buono”. Questo è, perTolkien, un modo eccezionale per porre l’eternaquestione: possono i mezzi essere subordinati aifini? La risposta del filologo di Oxford è che no,mezzi malvagi possono produrre solo fini malva-gi, indipendentemente dalle intenzioni originali.

Quando Frodo gli offre l’Anello, Gandalf grida:“No! Con quel potere, il mio diverrebbe troppogrande e terribile. E su di me l’Anello acquiste-rebbe un potere ancora più spaventoso e diabo-lico. Non mi tentare! Non desidero eguagliarel’Oscuro Signore. Se il mio cuore lo desidera, èsolo per pietà, pietà per i deboli, e bisogno di

forza per compiere il bene. Ma non mi tentare!Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlosenza adoperarlo. Il desiderio sarebbe troppo ir-resistibile per le mie forze. Ne avrei tanto biso-gno: grandi pericoli mi attendono”(11).

Frodo è disposto a cedere l’Anello anche a Ga-ladriel, regina degli Elfi. Lei pure lo rifiuta.“Non nego che il mio cuore ha a lungo deside-rato chiederti quel che ora mi offri. Per molti emolti anni ho ponderato ciò che avrei fatto se ilGrande Anello fosse venuto nelle mie mani, emeraviglia! Esso si trova ora a portata di mano.Il male creato tanto tempo addietro avanza inmille modi, sia che Sauron resista, sia ch’eglicrolli. Non sarebbe forse stata una nobile im-presa da accreditare a codesto Anello, se l’avessitolto al mio ospite con la forza o col timore? Edora infine giunge a me. Tu mi daresti l’Anello ditua iniziativa! Al posto dell’Oscuro Signore vuoimettere una Regina. Ed io non sarò oscura, mabella e terribile come la Mattina e la Notte!Splendida come il Mare ed il Sole e la Neve sul-la Montagna! Temuta come i Fulmini e la Tem-pesta! Più forte delle fondamenta della terra.Tutti mi ameranno, disperandosi!”(12).

La ragione per cui sia Gandalf che Galadrieltemono il potere dell’Anello sta nel fatto che en-trambi si rendono conto che esso venne fabbri-cato per compiere il male e quindi ogni buonaazione compiuta con il suo aiuto avrà inesora-bilmente un esito malvagio. Per dirla con El-rond, signore di Gran Burrone: “Non possiamoadoperare l’Anello Dominante ed ormai lo sap-piamo sin troppo bene. Appartiene a Sauron, fuforgiato unicamente da lui, ed è malvagio intutto e per tutto. La sua forza è troppo grandeper essere liberamente adoperata per essere li-beramente adoperata da qualcuno che non siagià di per se stesso estremamente potente; maper costoro l’Anello cela un pericolo ancor piùmortale. Il semplice desiderio di possederlo cor-rompe la loro anima… Qualora uno dei Saggidovesse grazie a quest’Anello sconfiggere il Si-gnore di Mordor, servendosi delle proprie tecni-che, egli si installerebbe allora sul trono di Sau-ron, segnando così l’apparizione di un altroOscuro Signore”(13).

(9) Edmund Burke, A Vindication of Natural Society, 1756.(10) J. R. R. Tolkien, La realtà in trasparenza, cit., pag. 74.(11) J. R. R. Tolkien, Il Signore degli Anelli (Milano: Rusconi,1990), pagg. 96-97.(12) Ibidem, pag. 453.(13) Ib., pagg. 337-338.

18 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Non si può che ravvisare una grande profon-dità di pensiero. Ad esempio, l’autore del Signoredegli Anelli aveva una chiara idea della reale na-tura di quei miti che recentemente Hans-Her-mann Hoppe ha vivisezionato e “smontato” unoper uno nel suo capolavoro, Democracy: TheGod That Failed (Transaction Publisher, 2001).Tra essi, secondo Hoppe, “il primo e fondamen-

tale è che l’emergere degli Stati dall’ordine non-statuale che li ha preceduti sia alla base del suc-cessivo progresso economico e civile. In realtà,la teoria economica dimostra che ogni progres-so si è verificato malgrado, e non grazie all’isti-tuzione dello Stato”. Quindi, prosegue lo studio-so tedesco, abbiamo il mito che “riguarda il pas-saggio storico dalle monarchie assolute agli Sta-ti democratici… vi è un consenso quasi univer-sale sul fatto che la democrazia rappresenti unpasso in avanti rispetto alla monarchia e che aessa sia dovuto il progresso economico e morale.Questa interpretazione è piuttosto curiosa se vi-sta alla luce del fatto che la democrazia è statala fonte di ogni genere di socialismo: del sociali-smo democratico (europeo) e del liberalism e del

neo-conservatorismo (americani) non meno chedel socialismo internazionalista (sovietico), delfascismo (italiano) e del nazional-socialismo(nazismo). Ancora più importante, tuttavia, lateoria contraddice questa interpretazione; seb-bene tanto le monarchie quanto le democraziasiano inefficienti in quanto Stati, la democraziaè peggio della monarchia”(14).

Tolkien scrisse qualcosadi molto simile in unalettera al figlio Cri-stopher: “Se potessimotornare ai nomi proprisarebbe molto meglio.Governo è un sostantivoastratto che indica l’artee il modo di governare esarebbe offensivo scri-verlo con una G maiu-scola come per riferirsial popolo Se la genteavesse l’abitudine di ri-ferirsi al “Consiglio diRe George, Winston e lasua banda”, si farebberodei grandi passi avanti erallenterebbe questo pe-ricoloso scivolare versola Lorocrazia”(15).Nessun personaggio delSignore degli Anelli è“perfetto” o “immacola-to”. Ognuno è un inson-dabile misto di bene e dimale e in ogni momentoè chiamato a sceglieretra un’azione buona euna cattiva. Ciò nondi-

meno, il “bene” e il “male” esistono e, per quan-to la gente possa avere dei dubbi o non distin-guerli chiaramente l’uno dall’altro, sono netta-mente separati. Questa, va da sé, è la ragioneprincipale per cui l’Unico Anello può compieresolo il male: perché costituisce una perpetuatentazione al “lato oscuro”. Anche l’uomo mi-gliore, prima o poi, finirà per crollare.

Solo da questa prospettiva è possibile osserva-re il mondo con quegli “occhiali realisti” tipici di

Il Balrog. Fratelli Hildebrandt, 1977

(14) http://www.mises.org/fullstory.asp?control=858(15) J. R. R. Tolkien, La realtà in trasparenza, cit., pag. 74.Si noti che il termine qui tradotto come “Lorocrazia” in in-glese suona “Theyocracy”: un chiaro gioco di parole con“Democracy”, cioè “Democrazia”.

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 19

Tolkien. Egli capiva che gli uomini sono buoni omalvagi e che alcuni di loro possono anche sce-gliere il male e provare addirittura piacere nelfarlo. Questa è la conseguenza della Caduta: gliesseri umani non sono perfetti, e quindi ognimezzo di dominio rappresenta un male in sé. In-fatti, “Lo studio adatto all’uomo è solo l’uomo, el’occupazione più inadatta per qualsiasi uomo,anche per i santi (che almeno non se l’assume-vano volentieri) è governare altri uomini. Nonc’è una persona su un milione che sia adatta e

men che meno quelli che cercano di afferrarel’opportunità”(16). Vale la pena sottolineare l’a-perta disillusione di Tolkien e il suo evidente di-sprezzo nei confronti degli uomini politici. Eglisa bene che il meccanismo democratico, le ele-zioni, il principio di maggioranza non solo nongodono di alcun fondamento morale, ma addirit-tura funzionano come una terribile macchinache seleziona gli uomini peggiori. O, meglio, gliuomini “più adatti” all’arte di governare: quelliprivi di ideali, meschini, pronti a mentire e ri-mangiarsi la parola data, vogliosi di truffare e diderubare. Un veloce confronto tra la percentualedi criminali nella società civile e la percentualedi criminali nel Parlamento spazzerà via ognidubbio.

Saruman, uno dei personaggi più complessi econtroversi dell’intero romanzo, fu un saggiostregone prima di cedere alle sirene del potereassoluto (che, per dirlo con una fulminantemassima di Lord Acton, “corrompe assoluta-mente”). Tentando di convincere Gandalf a unir-si a lui, egli afferma: “Abbiamo bisogno di pote-re, potere per ordinare tutte le cose secondo lanostra volontà, in funzione di quel bene che sol-tanto i saggi conoscono… Se potessimo coman-dare [l’Anello] la Potenza passerebbe nelle no-

stre mani… Si tratterebbe soltanto di aspettare,di custodire in cuore i nostri pensieri, deploran-do forse il male commesso cammin facendo, maplaudendo all’alta meta prefissa: Sapienza, Go-verno, Ordine”. In sostanza, Saruman propone aGandalf di allearsi temporaneamente al Nemico,per poi rivolgere l’Anello contro di lui e dare ini-zio a una nuova era. Ma Gandalf gli rispondeagitando la propria idea di libertà: “Ho udito pri-ma d’oggi discorsi dello stesso genere, ma sol-tanto in bocca di emissari inviati da Mordor peringannare gli ingenui… Una mano sola allavolta può adoperare l’Unico, e lo sai bene; non

The Riddle Game. Tim Kirk, 1974

(16) Idem.

20 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

darti dunque la pena di dire noi!… Ebbene, lascelta era di sottomettersi o a Sauron, o a te.Non accetto né l’una né l’altra”(17).

Come osserva Tom Shippey, “Quello che Sa-ruman afferma racchiude molte delle cose cheil mondo moderno ha imparato a temere sopratutte: l’abbandono degli alleati, la subordina-zione dei mezzi ai fini, la “conscia accettazionedella colpa nell’omicidio necessario”. Ma ancheil modo in cui le dice è significativo. Nessun al-tro personaggio della Terra di Mezzo ha la truf-faldina abilità di Saruman di bilanciare le paro-le l’una contro l’altra in modo tale che le in-compatibilità si risolvano, e nessuno utilizzaparola come “deplorare”, “ultimo” e, peggio ditutte, “reale”… Nessuno tranne Saruman tieneconto all’opportunità, alla fattibilità, alla Real-politik, al realismo politico”(18). Saruman, pe-raltro, è il personaggio più “politico” dell’interatrilogia: solo lui ha toni diversi e seducenti perogni persona e solo lui usa parole vuote e ro-boanti come quelle tipiche di una campagnaelettorale. Lo stregone di Orthanc è maestro nel

distillare miele sulla lingua biforcuta. Si po-trebbe obiettare che l’epoca contemporanea im-plica una sorta di “fine della storia”, poiché lademocrazia è percepita come la “miglior formadi governo possibile” e fornisce l’illusione chenessun governo governi senza il consenso deigovernati. Tolkien non sarebbe stato d’accordo.Anzi, come scrisse in una lettera del 1956, “Ionon sono “democratico” solo perché l’“umiltà”e l’eguaglianza sono principi spirituali corrottidal tentativo di meccanizzarli e formalizzarli,con il risultato che non si ottengono piccolezzae umiltà universali, ma grandezza e orgogliouniversali, finché qualche orco non riesce a im-possessarsi di un anello di potere, per cui noiotteniamo e otterremo solo di finire in schia-vitù”(19).

I lupi a Monte Caradhras. Michael Herring, 1980

(17) J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, cit., pagg. 327-328.(18) Tom A. Shippey, The Road to Middle Earth (Glasgow:Harper Collins, 1992), pagg. 108-110.(19) J. R. R. Tolkien, La realtà in trasparenza, cit., p. 279.

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 21

Per aver un’idea chiara di che cosa rappre-senti Tolkien nell’immaginario degli appas-sionati, è sufficiente dare una sguardo alle

riunioni che i tolkieniani organizzato un po’ovunque.

Ma cosa spinge tanta gente a immergersi nelmondo di questo straordinario narratore?

Forse il desiderio di confrontarsi con altri ap-passionati, consapevoli di non vivere nel miglio-re dei mondi possibili e quindi alla ricerca diuna dimensione immaginaria, che possa appari-re come una sorta di Isola felice. E allora cichiediamo: quello di Tolkien è ancora un mondocredibile? Forse è un universo parallelo che nonsi estinguerà tanto facilmente, perché consente

di immaginare e quindi stimola l’intelligenza ela creatività.

Dal 1973, anno della sua prima traduzione ita-liana, Il signore degli anelli è stato ristampatopraticamente con scadenza annuale, migliaia dicopie a cui vanno aggiunte opere minori e menonote, calendari, posters, la “Mappa della terra dimezzo”, gadget e adesso il film tratto dal princi-pale libro di Tolkien.

Gente di tutte le età che hanno letto quel vo-lume spesso come un vocabolario, che ne cono-scono gli anfratti segreti, che sanno tutto deipersonaggi, anche i più piccoli, hanno età diver-se: ci sono i giovanissimi, molti dei quali giuntia Tolkien da giochi di ruolo; ma ci sono anche

Tolkien o Della necessità del mitodi Massimo Centini

SpecialeTolkienSpecialeTolkien

La strada per Minas Tirith. Tim Kirk, 1974

22 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

tanti adulti che non hanno dimenticato Il signo-re degli anelli, e in qualche modo ne hanno fat-to un classico.

Il successo di Tolkien in Italia non accenna adiminuire, basti pensare che il sito della SocietàTolkieniana Italiana, negli ultimi sei mesi, è sta-to visitato da 18.000 persone.

Un dato che fa riflettere, destinato a confer-mare che la fantasia è un bene ambito da molti,forse un anestetico per la realtà, o forse, più rea-listicamente, un’opportunità per pensare che

parallelamente alla realtà ci possa essere unmondo “altro” in cui l’eterno scontro tra bene emale continua a ripetersi, ma con poesia.

Dice bene Paolo Gulisano nel suo recente li-bro Tolkien Il mito e la grazia (Ed. Ancora): “lasua opera non è riconducibile a una ideologia,ma a una visione della vita, a una concezionedell’essere, dell’uomo, della storia che è ben piùdi una ideologia: è una filosofia”.

In Tolkien vi è quindi una visione teologicadella storia, che si afferma in una sorta di rico-struzione degli eventi selezionati attraversoun’ottica continuamente alimentata da una co-stante critica della modernità.Per effettuarequesto lavoro, il grande scrittore inglese si è av-valso soprattutto del linguaggio del mito: mate-ria viva e problematica, spesso banalmente eti-chettata con maschere ideologiche, ma libera eautonoma, soprattutto fondamentale.

Limpida la definizione di Tolkien: “il mito èqualcosa di vivo nel suo insieme e in tutte le sue

parti, e che muore prima di poter esser dissezio-nato”.

Queste poche ma emblematiche parole offro-no una nitida e limpida definizione di mito, cosìdifficile spesso da rintracciare nel mare ma-gnum di interpretazioni e ipotesi.

Perché effettivamente, è il mito l’artefice delsuccesso dell’opera tolkieniana: inestinguibileamalgama di luoghi e paesaggi, simboli e fisio-nomie, da vita a un universo che, come un fo-glio traslucido, non ha fondo e lascia intravede-re l’esistenza di tanti piani paralleli e successiviin cui ognuno potrà trovare quanto cerca o im-magina.

I libri di Tolkien possono essere una sorta di“manuale di sopravvivenza” che con il proprioaggancio alla tradizione alimenta il senso di unmondo ideale, dove ci sono ancora dei valori,dove il bene e il male possono finalmente esserescissi con precisione, senza false piste o arro-ganti preconcetti positivisti.

Il senso dell’incantamento che pervade il per-corso letterario della saga tolkieniana ha qualco-sa del viaggio iniziatico, in cui l’eroe è quellovero, contrassegnato da peculiarità facilmenteindicabili, assolutamente non stravolto da affa-bulazioni ideologiche e demonizzazioni moder-niste.

Di Tolkien e del suo universo se ne sono im-possessati un po’ tutti, ma nessuno è riuscito aingabbiarli poiché, forti della loro antropologiaimmaginaria hanno sempre saputo riacquistarela libertà di cui sono emblema.

La politicizzazione del mito, spesso effettuataproprio dai più accesi fautori del razionalismo edel materialismo, non ha fatto altro che confon-dere le idee intorno ad un tema che dovrebbe es-sere lasciato in uno spazio apposito. Forse la“Terra di mezzo” di tolkieniana memoria?

Noi ci limitiamo a chiederci che cosa può of-frire oggi all’uomo moderno il materiale mitolo-gico: cioè, quanto del suo patrimonio può esseredepositario di verità attuali. Ma soprattutto dob-biamo capire se ancora oggi usiamo le strutturedi pensiero che hanno consentito di generare imiti del passato.

Forse, quell’antica massa di materiale traman-dato in racconti ben conosciuti che tuttavia nonescludevano ogni ulteriore modellamento, èadagiata negli archetipi, nell’inconscio collettivoe si schiude alla storia, anche quando la storiadice di non scorgere in essa alcun aiuto allacrescita dell’uomo.

Oggi più che mai, riflettere sul mito significa

J.R.R. Tolkien. Foto Billet Potter, 1973

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 23

anzitutto riconoscere, e in partesubire, il fascino che la mitologia eil suo immaginario hanno sempreesercitato ed esercitano tuttora sudi noi e sulla storia delle nostreconoscenze più recenti: fascinonato da una ininterrotta interpre-tazione la cui origine è all’alba del-la cultura scritta e che, da allora,si nutre di ogni analogia offertadal corso della storia.

Il termine mito, nei suoi molte-plici slittamenti semantici, è sem-pre stato oggetto di attenzioni daparte degli studiosi, in quanto è ilprodotto di esperienze e riflessidell’immaginario in cui sono con-fluite tradizioni comuni a molte-plici culture, anche se molto di-verse tra loro.

La somiglianza di forma e dicontenuto tra i miti in passatoaveva indotto i primi ricercatori atracciare una sorta di mitologiacomparata, con azzardi poligeneti-ci quasi sempre afilologici.

Secondo una certa linea inter-pretativa, la mitologia, al contrariodella religione, prolifera nell’igno-ranza, quando la ragione si disgre-ga. Si tratta di ipotesi che oggi nonsono condivise da tutti gli studiosi,in quanto una certa percentuale dimito è parte integrante della ragione; lasciarle ilsuo spazio all’interno della ragione vuol direaprire la mente a tutta una serie di creazionidell’immaginario che, nel bene o nel male, han-no un loro ruolo.

La presenza dell’attività mitopoietica non èquindi indice di una forma patologia del pensie-ro, come suggeriva Tylor ma rivela soprattuttola complessità del pensiero stesso, in cui agisco-no numerose operazioni intellettuali.

Innegabilmente, non si può nascondere chel’approfondimento critico conduce - forse para-dossalmente - alla consapevolezza della difficoltàdi giungere a una definizione precisa del mito.

Secondo l’accezione più diffusa il mito è il“concetto o idea che non corrisponde alla realtà,o che appare destituita di valore razionale o, an-che, pratico; desiderio, speranza, o progettoinattuabile; sogno, utopia. Immagine, vicenda,situazione, opinione che appare frutto dell’im-maginazione o di un distorcimento della realtà;

fantasia, fantasticheria. Concezione o costruzio-ne intellettuale fondata per lo più su immaginicontraddittorie, su intuizioni o su accostamentiarbitrari”.

Ma è una definizione sufficiente? Se osservia-mo il significato ufficiale del termine e delle suederivazioni, constatiamo che generalmente sonoindicati come concetti legati alla fantasia, aquanto non esiste realmente, non corrisponden-te al reale e via di seguito.

Quindi, per rispondere alla precedente do-manda, saremmo tentati di considerare il mito,secondo la definizione ufficiale, come espressio-ne di una non realtà o, al limite, come l’esagera-zione della stessa.

Però un sostrato reale esiste e trova una pro-pria nicchia di coerenza nelle pieghe del razio-nalismo totalizzante, divenuto uno status pre-minente che ha chiuso le porte, ogni porta, almetafisico.

Pertanto, appare possibile che l’effettiva di-

Battaglia alla Sudden Flame. Rowena Morrill, 1980

24 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

mensione dei fatti inerenti al mito non vada ri-cercata in una evoluzione intrinseca ai modi dipensare, quanto piuttosto in una svolta ideologi-ca dell’Occidente, dalla quale ha preso consi-stenza una interpretazione che nega ogni valen-za a quando esula dal dominio della logica con-cettuale.

L’analisi strutturale di Lévi-Strauss ha tentatouna valutazione scientifica del materiale mitolo-gico, giungendo a isolare dei singoli mitemi:unità elementari che possono dirci molte cose(anche appoggiandosi alle ipotesi junghiane su-gli archetipi) sulla diffusione del pensiero miti-co, pur in culture molto lontane, il tutto senzaricorrere ad azzardate comparazioni.

Altri studiosi, come Dumézil e prima di luiBachofen, per quanto criticati sul piano ideolo-gico e metodologico, hanno avuto il merito diporre in rilievo la difficoltà di un approccioscientifico al mito, suggerendo invece una ri-cerca storica sui miti di culture concretamenterappresentabili. In questo modo, ponendo in lu-

ce gli elementi comuni a varie mitologie “in-doeuropee”, e ipotizzando una loro origine co-mune, si è creduto nella possibilità di scorgereall’interno delle singole culture strutture socialisimili.

Ma noi siamo certi che per apprezzare e forsecapire il mondo mitico di Tolkien non occorranotanti sofismi filologici, basta aver ancora la vo-glia di fantasticare e lasciare ai simboli libertàvigilata, almeno per un po’.

Perché in Tolkien vi è una trasposizione disimboli e motivi epici che appartengono al ric-chissimo bagaglio della tradizione occidentale,con una coerenza e una legittimità che può av-vicinare la trilogia de Il Signore degli Anelli al-le grandi epopee della Materia di Bretagna, delMabinogion, dell’Edda. Guardare alla Terra diMezzo è come scorgere il riflesso del grande so-gno tolkieniano: dare vita a un corpo di leggen-de collegate tra loro che spaziasse dalla favolaromantica al mito cosmopoietico, e far sognarela gente.

Il messaggero di Sauron. Douglas Beekman, 1980

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 25

L’estrema coerenza di Tolkien con il mondodella Tradizione non si limita al contenutoe alle modalità della narrazione ma si

estende compiutamente al patrimonio simboli-co. Non fa eccezione la descrizione della naturae del paesaggio che sono anch’essi intrisi disimboli.

Per tutte le culture tradizionali l’ambienteera un insieme formato dall’intima unione dielementi animati e inanimati, e il funzionamen-to e l’armonia complessiva dipendevano dallaqualità (dalla “salute”) di ciascun componente edall’armonia dei loro rapporti. L’intero mondoera collegato e tutto contribuiva alla qualità ge-nerale: si tratta di una idea che la migliore eco-logia contemporanea ha riscoperto e di cui èstata dimostrata la bontà anche in terminiscientifici. Anche in questo caso la scienza è ar-rivata, tardi e dopo un lungo cammino di speri-mentazioni, errori e sofferenze, a riproporre ve-rità che la Tradizione possedeva nel suo patri-monio sapienziale e nella sua pratica quotidianadi vita. L’ambiente era formato da mille partidotate di personalità e spiritualità, ma aveva an-che una propria organicità simbolica rappresen-tata da una divinità (spesso identificata con laTerra Madre) che aveva valenza universale. Il ri-spetto delle regole che garantivano l’armoniacomplessiva era localmente (a livello di comu-nità organica) assicurato e impersonificato dalpotere tradizionale il re (o del capo della comu-nità umana), la cui salute e moralità erano lospecchio della salute e della moralità (intesa co-me rapporto con il tutto) della terra. Egli nongovernava (e non rappresentava) solo gli umanima anche ogni presenza ambientale e il territo-rio, nel senso di aggregazione armonica di tutte

le sue componenti (oggi si direbbe di ecosiste-ma), di cui era egli stesso la simbolica rappre-sentazione.

Questa visione aveva come corollario l’identi-ficazione fra i caratteri morali e quelli esteticisia della terra che delle sue personificazioni:proprio come negli affreschi senesi di AmbrogioLorenzetti, un territorio in buona salute e bengovernato deve anche essere bello e, viceversa,una terra malata (e mal gestita, o gestita coningiustizia) non può che essere brutta. È unprincipio presente in tutte le culture europeeantiche, che è stato ripreso dal cristianesimomedievale e poi abbandonato dal modernismo,salvo poi venire recuperato dalle più avanzatescienze paesaggistiche. L’identificazione siestendeva coerentemente all’aspetto fisico dellepersone e dei singoli luoghi, all’architettura ealla produzione artistica: religioni, ideologie,governi e comunità “buoni e giusti” meritavanodi essere circondati e rappresentati dal bello e,per contro, la bellezza estetica era il sicurospecchio di moralità.

Tolkien riprende questa idea nella sua essen-za: nelle sue narrazioni i “buoni” sono belli, e i“cattivi” sono brutti. Ma soprattutto dove domi-nano i “buoni” la natura è bella e rigogliosa, edove domina il male essa è sconvolta, abbrutitae desolata. La natura generata nell’atto primor-diale della Creazione è per definizione “bella”per rapporti armonici: sono la malvagità e l’i-gnavia degli uomini e delle ideologie che la fan-no diventare brutta. In questi casi, è l’uomo conla sua fede, la sua fatica e con la sua ritrovata“moralità” che la può riportare allo stato di gra-zia e di bellezza: in questo senso si deve legge-re, ad esempio, il rapporto con l’ambiente del

Piccolo è bello: l’ambiente morale

della Terra di Mezzodi Gilberto Oneto

SpecialeTolkienSpecialeTolkien

26 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Cristianesimo medievale (in perfetto equilibriofra quelli che Dubos ha chiamato il “conserva-zionismo francescano” e “l’interventismo bene-dettino”)(1), e la speciale attenzione delle civiltàtradizionali ma anche del Cristianesimo premo-derno per la bellezza nell’architettura e nell’ar-te.

L’influenza dei caratteri morali del “governo”sulla qualità del territorio è una costante dellanarrazione tolkieniana. Essa coinvolge innanzi-tutto una sorta di primordiale e apodittica rela-zione fra la luce (portatrice di vita biologica) ele tenebre (negazione di ogni vitalità positiva).Il regno di Sauron è il dominio del buio e dellanotte; i Nazgûl, gli orchetti e i trolls non sop-portano la luce del giorno; tutti quelli che scel-

gono il male, come Gollum, non tollerano il so-le. La luce che promana dalla fiala di Galadriel èun’arma formidabile contro i servitori di Sau-ron. In realtà però Tolkien è perfettamente con-sapevole della maggiore complessità e compiu-tezza dei simboli: la Tradizione non distingueinfatti in maniera semplicistica e manichea fraluce e buio, ma riconosce la qualità dell’unionedegli opposti e del giusto equilibrio, quasi al-chemico, fra i vari ingredienti del mito che per-dono di significato se utilizzati in maniera di-storta, separata e alternativa. La completezza è

Il Vecchio Uomo Salice. Fratelli Hildebrandt, 1978

(1) René Dubos, A God Within (New York: Charles Scrib-ners, 1972), pagg. 153-17.

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 27

fatta di unione di opposti e quindi anche digiorno e di notte. Faramir ed Eowyn si unisco-no alla fine della lotta (e della divisione dei duesegni): i capelli scuri di lui e quelli luminosi dilei significano il ritorno dell’armonia fra tene-bre e luce. Lo stendardo reale bianco e nerorimpiazza quello bianco fino ad allora utilizza-to. Al matrimonio del re, Frodo dice a Gandalf:“Infine comprendo perché abbiamo aspettato!Questa è la fine. Adesso non soltanto il giornosarà splendente, ma anche la notte sarà mera-vigliosa e benedetta, ed ogni paura svanirà!”(2)

Sulla qualità formale del paesaggio l’apportosimbolico è anche più evidente e immediato. Ladiffusione del potere di Sauron è segnalata e te-stimoniata proprio dalla distruzione del territo-rio, dal suo “abbrutimento”: in certi momenti ladisgregazione della bellezza sembra addiritturadiventare l’obiettivo del male e non più solouna sua manifestazione. È significativo che aElrond, nel descrivere compiutamente il nemi-co, Galdor abbia detto che “Sauron può tortu-rare ed annientare persino le colline”.(3) Dallatorre oscura si estende il buio, e la terra vienedevastata e resa sterile tutto attorno, fin dovearriva il potere del male. Nella narrazione del-l’avvicinamento al centro da cui Sauron tenta diconquistare il mondo l’identificazione simboli-ca è evidentissima: scompare la luce, si azzera-no le stagioni e la natura muore. “Frodo siguardò intorno inorridito. Se le Paludi Morte ele aride brughiere delle Terre di Nessuno eranospaventose, di gran lunga più immondo era ilpaesaggio che il giorno svelava lentamente alsuo sguardo restio. Persino al Lago delle FacceMorte sarebbe giunto qualche spettro sparutodella verde primavera; ma lì mai più sarebberoritornate la primavera e l’estate. Ivi nulla vive-va, nemmeno le escrescenze lebbrose, i parassi-ti della putredine. Gli stagni boccheggianti era-no soffocati da cenere e da fanghi mobili di unbianchiccio malsano, come se le montagneavessero vomitato la feccia delle loro visceresulla terra intorno. Alti tumuli di roccia strito-lata e in polvere, grandi coni di terra inariditadal fuoco e macchiata di veleno si ergevano infile interminabili come in un osceno cimiteroche una luce riluttante scopriva lentamen-te.”(4) E ancora: “(..) il terzo giorno le campa-gne incominciarono lentamente a cambiareaspetto: gli alberi diminuirono e poi scompar-vero del tutto. Sulla riva est alla loro sinistra,lunghi pendii deformi si stendevano innalzan-dosi verso il cielo; parevano bruni ed avvizziti,

come se un incendio li avesse spazzati, senzarisparmiare un solo filo di verde: un desertoostile, ove né un albero tronco, né un arditomacigno interrompessero la monotonia delvuoto.”(5)

Il menzionato principio dell’identificazionetradizionale fra qualità morali di “governo” equalità fisica del territorio è particolarmenteevidente, ad esempio, nel ciclo arturiano, cherappresenta il momento più alto della congiun-zione fra cristianesimo e tradizione celtica. Nel-la Cerca del Graal le Forze di Dio sostengono laluce e la fertilità, e quelle del male hanno a chefare con il buio e la devastazione. Quando il so-vrano (che impersonifica le qualità del popolo edella comunità) vive una vita piena di forza, dicertezze e di “moralità”, la terra è rigogliosa,bella e produttiva: i dolori e le debolezze del resi tramutano per contro nella decadenza dellaterra, nella sua sterilità e nella sua bruttezza. Irituali stagionali, che scandivano il calendariotradizionale, proclamano che le vite della terra,del popolo e del re sono interconnesse.

Nel racconto tolkieniano, questo segno siconcentra su Aragorn. Il suo nome, in linguadùnedain significa “albero reale”, egli guariscele vittime del Nazgûl con l’uso dell’erba athelas(“foglia di re”), come prova del suo potere di so-vrano ma anche di guaritore. Ioreth, il veggentedi Gondor dice di lui: “Le mani del re sono ma-ni di guaritore, in tal modo si può riconoscereil vero re”.(6) In gioventù è chiamato Estel, chesignifica “la speranza” (simbolizzata dal coloreverde) e sale al trono con il nome di Elessar,(“pietra degli Elfi”, “gemma elfica”) che è losmeraldo, la pietra vegetale per eccellenza. Inpiù Aragorn è letteralmente un “re di Maggio”:è incoronato il primo giorno di Maggio,Beltane. Sposa Arwen al solstizio di estate, il“giorno di mezza estate” che – secondo Frazer -era la festa più diffusa fra i popoli indoeuropei,che era spesso festeggiata con l’elezione di unre e di una regina, con l’erezione di un palo o diun albero, e durante la quale si ballava e si bru-ciava l’effigie del male, ritualizzando l’eterno ri-torno della nuova vita.(7)

(2) J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, III, 2, V(3) Ibidem, I, 2 ,II(4) Ibidem, II, 2, II(5) Ibidem, I, 2; IX(6) Ibidem, III, 1, VIII(7) James G. Frazer, Il ramo d’oro (Torino: Boringhieri,1973), pag. 1012

28 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Anche Sam e Rosa Cotton si sposano il primogiorno di Maggio. Sam Gamgee è un giardinie-re, e alla fine è quello che ripianta con le suemani gli alberi nella denudata Contea. La fiori-tura del mallorn segnala il matrimonio di Samproprio come il ritrovato Albero di Gondorquello di Aragorn: in questo Sam è la contro-parte minore di Aragorn, entrambi ripropongo-no su piani diversi della gerarchia simbolica ilsegno di un antico legame.

Sauron è sconfitto all’inizio della Primavera,il 25 marzo. Questa data diventerà il Capodannonel ritrovato regno dei Dùnedain. Il 25 marzo ènel calendario cristiano la festa dell’Annuncia-zione, il giorno del concepimento di Cristo, del-l’inizio della rinascita del mondo.

Il segno più chiaro, forte ed evidente dell’al-leanza fra il bene e la “buona” natura sono glialberi, che della vitalità della natura sono la piùdiretta rappresentazione. Gli alberi parteggiano

per il bene e all’occorrenza partecipano alla lot-ta dei giusti. Gli Ent che distruggono gli or-chetti combattono la stessa buona battaglia del-le foreste di Birnam, di Teutoburgo e della Lita-na. Il male – sembra volerci ricordare Tolkien -non può prevalere contro la forza primordialedella foresta. Così se l’abbattimento degli albericostituisce una sorta di presa di possesso delterritorio da parte delle forze del male, la lororipiantagione ne segna la liberazione, la simbo-lica rinascita.

Gli avvenimenti della Contea sono in questosenso paradigmatici: Saruman ordina l’abbatti-mento degli alberi, innanzitutto di quelli che ri-vestono un significato speciale e poi di tutte lepiante in generale, riproducendo in piccolo l’a-zione nefasta di conquista per distruzione cheMordor stava effettuando su scala generale. Nonviene qui operata la semplice e drastica distru-zione di ogni forma di vita ma l’eliminazione

Gandalf arriva a Hobbitville. John Howe, 1995

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 29

mirata, ideologica, delle forme di vita ritenute“buone”.

La Contea perde il suo carattere di terra sere-na e felice, frutto di una Età dell’oro premoder-na, e assume i connotati sempre più inquietantidi un paesaggio moderno, industriale, sporco, eprivato di ogni identità. Quello che gli Hobbitdella Compagnia trovano al loro ritorno somi-glia a certi nostri paesaggi contemporanei. Il ri-torno alla Contea: “Fu una delle ore più tristidella loro vita. La grande ciminiera si ergevainnanzi a loro, e man mano che attraversavanol’antico villaggio, passando davanti a lunghe fi-le di squallide case nuove, videro il nuovo muli-no in tutta la sua sporca bruttezza: un grossoedificio di mattoni a cavallo del corso d’acqua,che esso inquinava con i suoi vapori e i luridirigurgiti. Lungo tutta la Via di Lungacque glialberi erano stati abbattuti. Quando attraver-sarono il ponte e guardarono in direzione delColle, rimasero con il fiato mozzo. Persino lavisione apparsa a Sam nello Specchio non l’a-veva preparato ad una cosa simile. Il VecchioGranaio sul lato occidentale era stato demolito,

e sostituito da filari di orridi capannoni. Tutti icastagni erano scomparsi. Gli argini e le siepierano rotti. Grandi carri occupavano un campoove un tempo cresceva un prato. Via Saccofori-no era un’immensa cava di sabbia e di pietri-sco. Casa Baggins era nascosta alla vista da ungroviglio di capanne. “L’hanno abbattuto!”,gridò Sam. “Hanno abbattuto l’Albero della Fe-sta!”. Mostrò il punto in cui si trovava l’alberosotto il quale Bilbo aveva pronunciato il suoDiscorso di Addio. Adesso giaceva secco in mez-zo al campo”.(8)

È infatti l’abbattimento degli alberi il segnopiù insopportabile del tentativo di distruzionedi una comunità, della sua identità, della suacultura e delle sue libertà. “La perdita più gravee dolorosa era quella degli alberi. Per ordine diSharkey, erano stati abbattuti senza criterio ein quantità enorme in tutto il territorio dellaContea”. “Stanno sempre a martellare, e fannouscire un fumo nero e puzzolente; a Hobbyville

Rivendell. Ted Nasmith, 1990

(8) J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, III, 2, VIII

30 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

ormai non c’è pace neanche di notte. E scarica-no sudiciume per puro piacere: hanno inquina-to tutto il basso corso dell’Acqua, e stanno perrovinare anche il Brandivino. Se vogliono tra-sformare la Contea in un deserto, ci stanno riu-scendo bene”. “Tagliano gli alberi e li lasciano

per terra, incendianole case e non ne co-struiscono altre”.(9)Gli alberi sono per leculture tradizionalieuropee il segno del-l’Axis Mundi, sono ilcentro e il supportodell’universo, sono loYaggradrasil che mettein comunicazione laterra con il cielo, sonola metafora dell’origi-ne della comunità, so-no il senso del popolo,gli danno saggezza eimmortalità. Abbatterel’albero totemico e sa-cro di un popolo signi-fica distruggere il po-polo stesso. La storia antica, maanche quella moderna(sia pur in forma menopalese) sono piene diatterramenti simbolicidi alberi come l’Irmin-sul dei Sassoni: anchenel Signore degli Anel-li questo simbolo èben presente, con fun-zione centrale. Alberimagici o sacri sono alcentro di Valinor,Eressea, Numenor eGondor: il loro sradi-camento rientra negliobiettivi primari diSauron, la loro rina-scita simbolizza la vit-toria sul male.Il ritorno alla felicenormalità della Conteaè segnata dalla rinasci-ta della vegetazione:“La primavera superòogni sua più arditasperanza. Gli alberi

cominciarono a germogliare e a crescere; iltempo sembrava aver fretta, come se un annocontasse per venti. Nel Campo della Festa

(9) Ibidem, III, 2, IX

La rabbia della montagna. Ted Nasmith, 1992

spuntò uno splendido alberello: aveva la cortec-cia argentata e lunghe foglie, e in aprile si co-prì di fiori dorati. Era un mallorn, e divenne lameraviglia del vicinato. E dopo alcuni anni,quando crebbe in grazia e in bellezza, la sua fa-ma dilagò, e la gente veniva da lontano per ve-derlo: l’unico mallorn ad ovest delle Montagnee ad est del Mare, ed uno dei più belli del mon-do”.(10)

La descrizione della liberazione e della rina-scita della Contea è una delle pagine più belle ditutto il racconto tolkieniano ma è anche unasorta di manifesto politico antitotalitario, anti-modernista (con toni, ad un certo punto, quasiluddisti), libertario, localista e ambientalista,non nel senso becero di certo ecologismo apoli-de ma nel robusto riferimento alla tradizione ealla cultura identitaria.

La visione ambientale di Tolkien è quella delSchumacher di Piccolo è bello, del determini-smo fisiografico della migliore paesaggisticamoderna, del Thoreau di Walden, della lotta al-l’industrialismo devastante di tutte le ideologienovecentesche.

I nemici della natura sono anche i nemici del-le libertà e delle culture tradizionali, sono i Ro-mani delle centuriazioni, il deserto islamico, iGiacobini che abbattevano foreste e monumen-ti, l’incubo progressista delle ciminiere, la deva-stazione ambientale della follia globalista. Perdifendere la Terra Madre, e noi con essa, – sem-bra dirci Tolkien - ci vogliono grandi libertà epiccole comunità identitarie.

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 31

Lothlòrien. Fratelli Hildebrandt, 1977

(10) Ibidem, III, 2, IX

32 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Se oggi, anno 2002, possiamo recarci al cine-ma e vedere il film di Peter Jackson, LaCompagnia dell’Anello, è poiché un serio e

puntiglioso filologo di Oxford, John RonaldReuel Tolkien, amava raccontare fiabe ai proprifigli. Da quelle fiabe egli trasse un libro, Il Si-gnore degli Anelli, che ha venduto la bellezza di110 milioni di copie in tutto il mondo. Esso uscìin Inghilterra, sotto forma di trilogia, tra il 1954e il 1955.

Solo una ventina di anni dopo riuscì a scaval-care le Alpi e a imporsi al pubblico di lingua ita-liana. Fece una fatica boia, poiché nel paese diUmberto Eco la letteratura per essere considera-

ta “in” deve rispondere ad almeno tre requisiti.Primo, essere noiosa. Secondo, essere “realista”(cioè “brutta”). Terzo, affrontare temi classifica-bili come “denuncia sociale”.

Il Signore degli Anelli non è nulla di tutto ciò,anzi. Per dirla con Tolkien, non tratta di lampa-dine elettriche, ma di fulmini. Parla dritto alcuore e, piuttosto che da una desolata periferiaurbana, sembra sgorgare dai più profondi reces-si dell’animo umano.

Se dunque anche noi, pur con grande ritardo,abbiamo potuto apprezzare tale opera, è statograzie al coraggio di una casa editrice, la Rusco-ni, che nel 1970 affrontò l’impresa colossale del-

Intervista a Quirino Principedi Carlo Stagnaro

SpecialeTolkienSpecialeTolkien

L’addio a Lòrien. Ted Nasmith, 1992

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 33

la pubblicazione di un “tomo” di oltre 1300 pa-gine – e grazie, soprattutto, alla santa testardag-gine di tre uomini: Alfredo Cattabiani, ElémireZolla e Quirino Principe.

Con quest’ultimo, curatore del volume e arte-fice di un ottimo intervento in occasione delconvegno recentemente promosso dalla rivistaEndòre a Brescia, abbiamo discusso sul “feno-meno Tolkien”. Che è destinato, per così dire, avincere di mille secoli il silenzio. La letteratura“in” rimarrà invece per sempre inchiodata al gi-gantesco sbadiglio che, un giorno, verrà assuntoa paradigma del Ventesimo Secolo.

Professor Principe, da cosa nasce la sua ideadi promuovere l’edizione italiana del Signoredegli Anelli?

Dopo che, nel 1969, avevo rotto i rapporti conl’editore Garzanti, fui invitato da Alfredo Catta-biani (che aveva appena assunto la direzioneeditoriale della nuova Rusconi Libri) a collabo-rare come consulente. Fra i primissimi titoliche videro la luce fu Il Signore degli Anelli diTolkien, di cui Cattabiani aveva in mano il pri-mo volume di una edizione italiana “virtuale”.Vittoria Alliata di Villafranca aveva tradotto,giovanissima, l’inte-ra trilogia: adottan-do anche diverse so-luzioni che io nonavrei accettato. L’E-ditrice Ubaldini, poiscomparsa, avevapubblicato La Com-pagnia dell’Anellocon l’intento di pro-seguire nell’opera,ma in realtà nonandò oltre. Cattabia-ni mi diede questatraduzione e i tre vo-lumi dell’edizione in-glese originale (Allen& Unwin). Li lessi ecapii subito di averetra le mani un gran-de capolavoro; dissidunque che il libroandava senz’altro fat-to: fu così messo incantiere per il 1970.In quell’anno avevoappena pubblicato ilmio primo libro, che

riguardava la scuola e quello che vi stava acca-dendo. Ero molto contento di me stesso. La mia“presunzione”, però, pagò il fio all’inizio dell’e-state, quando Cattabiani mi affidò il lavoro dicuratore del Signore degli Anelli. D’altra parte,questo era per me una sorta di dovere morale:non potevo tollerare che un simile libro cadessenelle mani di un incompetente. In fondo, avevoanche il conforto di Elémire Zolla, che aveva giàscritto una illuminante prefazione.

Quali furono i suoi compiti di curatore?Dovetti rivedere il volume, cambiando total-

mente i criteri di adattamento italiano dei nomipropri (dei luoghi, delle persone, degli animali,eccetera). A me fu affidato il compito di tradurreintegralmente tutte le parti in versi. Molto pe-sante fu il lavoro relativo agli altri due volumi,sui quali agii molto sostanzialmente. Sono trop-po gentiluomo per dire di meritare la qualificadi co-traduttore, ma non credo di aver fattomolto meno. A me spetta, in ogni caso, il meritodi aver tradotto (con gli opportuni adattamenti)la sezione sulle lingue della Terra di Mezzo. So-no davvero molto fiero del mio lavoro sulle ap-pendici.

Il cavaliere nella notte. John Howe, 2001

34 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Come fu il suo rapporto con Il Signore degliAnelli?

Quando il libro uscì, io mi ero talmente im-merso in questa realtà che, per molti anni dellamia vita, ne fui profondamente investito. All’e-poca mio figlio aveva un paio di anni, e crebbein un mondo tolkieniano. Le fiabe che gli rac-contavo erano per lo più tratte dal Signore degliAnelli, con il “das” fabbricavo personaggi trattida quella saga che poi coloravamo insieme, e co-sì via. Fra l’altro, io disegnai la carta geograficapubblicata nel romanzo (quella realizzata dallostesso Tolkien uscì nel volume intitolato Imma-gini, esso pure da me curato). Per me quel mon-do divenne un riferimento estetico ed etico (ame l’etica non interessa se non come conse-

guenza di scelte estetiche). Naturalmente, que-sta mia identificazione si è ridimensionata con iltempo; si è allontanato l’oggetto, ma basta pocoperché io provi le stesse emozioni che provavoallora. Devo dire che, nel corso degli anni, ho ri-flettuto molto su Tolkien e ho trovato semprepiù motivi di ulteriore ammirazione nei suoiconfronti. Mentre la narrativa fantasy, scaden-tissima in genere e detestabile, banale, didascali-ca, scende nella mia valutazione sempre più inbasso, Tolkien sale sempre più in alto. Non esitoa dire che Il Signore degli Anelli potrebbe essereconsiderato uno dei grandi testi “sacri” dell’Oc-cidente, poiché è un libro fortemente occidenta-le quanto a visione del mondo – non è un casoche la Contea sia posta a nord-ovest della Terra

Minas Tirith. John Howe, 1991

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 35

di Mezzo e che il male sia posto a sud-est. Quin-di, Mordor è l’Islam e i Talebani mentre la Con-tea è l’Occidente di Elgar, di Eliot, di Auden, ec-cetera. Purtroppo, questo è l’Occidente di ieri:oggi tutto è corrotto, svirilizzato, se mi passal’espressione direi addirittura “senza palle”. Ciòche mi sembra importantissimo in Tolkien, poi,è che questo autore è del tutto indipendente daogni visione religiosa.

Vuole chiarire questo punto?Io ho un grande sogno, che è quello di un oc-

cidento-centrico e di un pagano: vorrei liberareil mondo dalla massima infamia che lo abbiamai oppresso, cioè le religioni, tutte le religioni.Mi pare che questo libro sia un meravigliosomodello di come si possa essere nobili, alti, dicome si possano costruire valori estetici sublimisenza bisogno di un banale appello alla religio-ne. Nel Signore degli Anelli non c’è un solo rife-rimento alla religione.

Le sue parole mi fanno venire in mente quel-le dello stesso Tolkien che, a chi gli chiedeva seil suo romanzo fosse un’allegoria della realtà,rispondeva che piuttosto sarebbe stato correttoparlare di “applicabilità”. Che ne pensa?

Siamo perfettamente d’accordo. Non c’è alcu-na allegoria, poiché quel mondo non ha bisognodella realtà. So benissimo che la Divina Comme-dia è un’allegoria, e ciò nonostante la consideroil più alto testo dell’Occidente (e siccome pensoche l’Occidente sia l’unicaciviltà degna di questo no-me, il più alto testo delmondo intero). Ma, atten-zione! Quando si parla diallegoria c’è sempre un’in-sidia. Proviamo a dedurreun’etica tolkieniana: non èpossibile! Non è un casoche la Rusconi di allora(non la Rusconi degradatadegli ultimi tempi) accantoal nome di Tolkien abbiaposto il nome di un altrogrande: Ernst Jünger, cuiho dedicato pari energie mapiù estese nei tempi; unoscrittore assolutamente a-religioso, pagano, alto, no-bile, non consolatorio… Unlibro come quello diTolkien non serve a redime-

re la realtà, per un semplice motivo: a me dellarealtà non interessa nulla. Il mio disprezzo perl’esistente è totale. Per me è molto più reale laTerra di Mezzo che non i vari primi ministri oprocuratori della repubblica o chissà chi; essisono destinati a scomparire nel nulla. Non si de-ve quindi dedurre dal Signore degli Anelli alcu-na conseguenza pratica. Si può, però, usare tut-to ciò che ci viene dato per reagire al mondo. Iosono andato avanti per anni usando citazionitolkieniane per vivere meglio nell’orrendo mon-do quotidiano, il mondo delle leggi, della buro-crazia, del rapporto con i cosiddetti superiori. Lamia liberazione da un lavoro dipendente, seppu-re bellissimo come quello dell’insegnamento, èstata guidata proprio dalla lettura dell’ultimaparte del Signore degli Anelli. Naturalmente, ri-peto, si tratta di una applicabilità che non si èobbligati a mettere in pratica.

Allora mi lasci citare una frase dalla trilogiatolkieniana. Ai due Hobbit Merry e Pipino chegli chiedono come intenda schierarsi, Barbalbe-ro risponde: “Io non sono dalla parte di nessu-no, perché nessuno è del tutto dalla miaparte… [anche se vi sono] casi in cui io sonodel tutto dalla parte opposta”. Che ne dice?

Mi pare una citazione molto bella e pienamen-te in sintonia con quello che dicevo poco fa. Sevogliamo immaginare che questa sia una me-tafora universale, misteriosa come tutte le me-tafora, ma che sia anche lecito trarne un fram-

La Compagnia si avvicina a Caradhras. John Howe, 1991

36 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

mento di applicabilità verso la situazione cor-rente – nei confronti, per esempio, del politica-mente corretto – l’indipendenza di un uomo dicultura autentico si vede proprio nel non esserequalificabile come questo o come quello, ma visono dei momenti in cui io sono proprio quel-l’altro, quello che dice di no. La funzione di unuomo di cultura è proprio quella di dire di noquando tutti dicono di sì, e magari di dire di sìquando tutti dicono di no; e ancora di spiegareperché, fra quelli che dicono di no, alcuni hannoragione e altri hanno torto. Pensi a un uomo co-raggioso come Guido Ceronetti, che negli anni

’70 sembrava essere addi-rittura un rivendicatoredel misticismo, della me-tafisica, eccetera, e cheinvece oggi, di fronte aquesto vergognoso cade-re ai piedi del Papa, nonha esitato a tirare leorecchie a un poveroprete ucciso da un alba-nese che si era preso incasa in nome della solita,bolsa retorica terzomon-dista. Pover’uomo, hadetto Ceronetti, però bengli sta: così impara ariempirci il paese di alba-nesi, di negri e così via.Claudio Magris dal Cor-riere lo ha ripreso dicen-do che era evidente esse-re Ceronetti malato. Sap-piamo che qualcuno, tral’Oder e gli Urali, amava“curare” i dissidenti.

Fin da quando Il Signo-re degli Anelli è uscitoin Italia, si è assistito aun vergognoso e assur-do dibattito tra pseudo-intellettuali se Tolkiensia di destra e di sini-stra. Ma, secondo lei, inTolkien non c’è unaspetto anarchico che ri-fugge ciascuna e ognunadi queste classificazioni?Certo. Un editore intelli-gente come Cattabianinon poteva non avvicina-

re due personaggi come Tolkien e Jünger. En-trambi ci presentano, al vertice dei loro gradi-menti (non uso la parola “valori”, che detesto)delle figure dolcemente ma coraggiosamenteanarchiche. Gli Hobbit rispettano le regole nonperché qualcuno glielo imponga, ma perché èbello rispettarle. L’anarca non è uno che dà fuo-co alle macchine o che rompe le vetrate, comequei fessi dei noglobal che combattono la globa-lizzazione e poi si danno un nome nella linguapiù bolsa, cioè questo pseudo-inglese. L’anarca èuno che guarda il mondo e rispetta le regole an-che per un principio di ironia: vediamo un po’

La Guardia a Minas Tirith. John Howe, 1995

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 37

cosa succede. Di solito la persona intelligente, equindi l’anarca che è il più intelligente di tutti,sa rispettare le regole molto meglio. L’anarcanon è un egualitario, bensì l’antiegualitario pereccellenza: è colui che dichiara che la vera diffe-renza non è orizzontale, tra destra e sinistra, maverticale, tra ciò che è superiore e ciò che è infe-riore. Se io andassi in un ambiente di sinistra edicessi che sono di destra o viceversa, ci sarebbeforse qualche mormorio di disapprovazione, maverrei accettato come persona seria. Ma se io an-dassi in un ambiente qualsiasi e dicessi: “Io sonouna persona di qualità superiore e voi siete pale-semente inferiori”, non ne uscirei vivo e forsequalche magistrato mi manderebbe un avviso digaranzia per razzismo. Quindi la disputa seTolkien sia di destra o di sinistra è di una taleimbecillità che se uno per caso mi chiedesse lamia opinione in merito, gli direi: “A un fesso co-me lei non rispondo, perché la vita è una e nonposso perdere il mio tempo a discutere con unimbecille”.

Stando così le cose, si può dire che l’Anello èsia di destra che di sinistra?

Essendo esso circolare, l’Anello è la quintes-senza della forma geometrica perfetta. Quanto

più noi andiamo verso destra, tanto più spuntia-mo a sinistra e viceversa. Questa è la supremaverità; noi non arriviamo mai alla fine di qualco-sa poiché tutto è nello stesso tempo finito e infi-nito. Quindi tempo e spazio sono illusori, ilmondo reale è illusorio, la materia è illusoria,Dio è illusorio…

Come si concilia con la sensibilità anarchicadi Tolkien il fatto che, alla fine del romanzo,Aragorn rifondi il Regno di Gondor?

Nella grande metafora tolkieniana vi sono giu-dizi politici universali molto precisi. Non, natu-ralmente, discussione politiche di bassa lega:non si discute di uomini politici da quattro sol-di, ma di grandi figure storiche. Quegli uominiche respirano in grande: penso all’Impero diCarlo V, all’Impero asburgico, all’Impero Roma-no… Qual è il dovere supremo di chi governa?E’ quello di assumersi tutte le responsabilità. Inquesta nostra vicenda sciagurata ciò che ci fapiù soffrire è la totale de-responsabilizzazione dichiunque. Se qualcosa non funziona e lei si ri-volge alla persona che dovrebbe essere il rappre-sentante di quel tale settore nella pubblica am-ministrazione, questi le risponde: “Faccia unesposto… A me non interessa, io faccio il mio

Il Guado. Ted Nasmith, 1990

38 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

dovere”. Il re, se è un re vero, si assume la totaleresponsabilità. In mancanza del re, si ricorre aun dittatore. In questo senso, non possiamo cre-dere che l’Europa redimerà l’Italia; poiché lamoneta cattiva scaccia quella buona, dobbiamopiuttosto aspettarci che sarà l’Italia a infettarel’intera Europa, e il centro dell’infezione sarànel nostro Sud. A me vengono le lacrime agliocchi per la commozione e sono percorso dabrividi di gioia estetica quando penso a Costanti-no XII Paleologo, l’ultimo Imperatore romanod’Oriente, che nel 1453, quando i turchi ormaidilaganti (per colpa del Papa, che non aveva vo-luto che le potenze cattoliche europee difendes-sero gli scismatici bizantini) invadono quel cherimane dell’Impero, esce dal palazzo con la spa-da in pugno e muore combattendo. Questo è unuomo; di questo genere di persone ha bisogno

l’Occidente. La morte dell’ultimo imperatore diBisanzio, a scorno di questo vile Occidente chesi occupa solo dell’euro o delle rogatorie inter-nazionali o di simili fesserie, è il simbolo chedovrebbe incarnarsi in un capo responsabile. Ilquale, però, deve essere messo in condizione dipagare i suoi errori con tanta più crudeltà quan-to maggiore è il suo potere. La più libera formadi governo, ha detto Charles Maurras, è la mo-narchia assoluta corretta dal frequente regici-dio. Nel Signore degli Anelli, d’altronde, la rega-lità è affrontata in modo molto problematico;Aragorn prende le proprie decisioni solo dopoaver consultato gli umili Hobbit, e il Concilio diElrond rappresenta un momento di grande de-mocrazia. Questo perché Tolkien ne comprendei gravissimi difetti: il suffragio universale, la sin-dacalizzazione, il fatto che il voto di chiunque

abbia lo stesso valore. È scanda-loso che il voto di Paolo Bonolisabbia lo stesso valore del suo odel mio!

Lei si sente più Hobbit, Elfo, Na-no, Uomo od Orchetto?Se le rispondo mi dirà che sonopresuntuoso… come aspetto fisi-co sono un Orchetto, ma per es-senza mi sento un Elfo.

Andrà a vedere il film di PeterJackson?Certo. Sono un cinefilo accanito,ho il cinema nel sangue, e anchei film mediocri mi servono comedocumentazione per riflettere.Aspetto con interesse il film, an-che se ho l’impressione che ilvecchio film di Ralph Bakshi fos-se superiore, quantomeno perchélasciava più spazio per sognare.D’altra parte, è sempre meglio fa-re un film sul Signore degli Anel-li che sulla vita di Padre Pio, no?

Frodo. Fotogramma del film del 2001 Frodo con l’Anello. Fotogramma del film del 2001

I cavalieri neri. Fotogramma del film del 2001

I quattro Hobbit. Fotogramma del film del 2001

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 39

IWalser, un antico popolo di origine germani-ca, sono attualmente stanziati in uno spazioche va dalla parte orientale della Valle d’Ao-

sta fino al Liechtenstein e al Voralberg in Au-stria, passando per l’Oberland bernese. Sul ver-sante meridionale dello spartiacque alpino, esi-stono comunità walser in Valle d’Aosta, Pie-monte e Insubria: Gressoney-la-Trinité (Gre-schòney Oberteil), Gressoney-Saint-Jean (Gre-schòney Onderteil òn Méttelteil) e Issime (Ei-scheme) in provincia di Aosta; Alagna Valsesia(Im Land), Fobello (Fubely),Carcoforo, Rima San Giu-seppe (Rimmu) e Rimella(Rémmalyu) in provincia diVercelli; Agaro (Agher),Campello Monti (Kàmpel),Formazza (Pomatt), Macu-gnaga (Makanà), Ornavasso(Urnafasch), Migiandone eSalecchio (Saley) in provin-cia di Verbania, Bürsch inprovincia di Biella e BoscoGurin nel Canton Ticino.

La lingua Walser è ancoravitale ad Alagna, Formazza,Gressoney, Issime, Macu-gnaga, Rimella e a BoscoGurin: negli altri paesi nonè più purtroppo parlata.

OriginiI Walser sono il minuscolo

popolo delle montagne cheha dato vita alla più arditacolonizzazione medievaledelle Alpi, fondando gli inse-diamenti umani più elevatidel continente europeo. Laloro storia inizia nella valledel Goms, cuore dell’AltoVallese, alle sorgenti del Ro-dano dove, a 1500 metri sullivello del mare, forse fin dal

X-XI secolo, si era insediata una colonia di pa-stori scesi dal Nord; tra il XII e il XIII secolo iloro discendenti si espansero in ondate migra-torie che coinvolsero alcune zone della Valled’Aosta e del Piemonte, nonchè il Liechtensteine l’Austria occidentale, dando vita agli insedia-menti che oggi conosciamo.

Tutto questo movimento migratorio fu anchereso possibile dalla concessione di terre incolteda parte dei feudatari locali in affitto ereditario(pagamento di un canone in cambio del posses-

I Walser della valle del Lysdi Pierluigi Crola

Speciale W alserSpeciale W alser

Veduta della valle di Gressoney. Stampa di Ladner, 1848

40 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

so perpetuo del terreno) per tenere i nuovi co-loni legati alla terra.

Questi primi abitanti vivevano in comunitàchiuse e in luoghi spesso senza traccia di prece-denti insediamenti, e si chiamarono Walser, pa-rola che deriva dal nome Valliser, abitanti delVallese, luogo originario di partenza di questaondata migratoria.

Per quanto riguarda la Valle del Lys, i primidocumenti ufficiali risalenti all’insediamento inquesta valle datano al 9 gennaio 1218 (cessionedel fondo sopra Issime), al 13 novembre 1329(affitto ereditario concesso nella frazione diPerloz), al 12 novembre 1344 (concessione per-petua di un pezzo di terra da parte di Giovanni,co-signore di Vallaise, a Iano Guglielmo di Ver-dobi, nel Comune di Gressoney) e all’8 settem-bre 1377 (cessione del fondo nella zona di Or-sio, a Gressoney la Trinité).

La linguaLa parlata di questo popolo deriva dalla lin-

gua germanica, più precisamente dal ceppo al-

to-tedesco (o tedesco meridionale), la cui va-riante vallesana del dialetto alemannico si è poidiversificata nelle singole zone e anche nei sin-goli paesi, dove si parlano idiomi simili, ma nonuguali. I dialetti tuttora parlati attorno al Mon-te Rosa e nell’alta valle della Toce, pur presen-tando alcune varianti lessicali e fonetiche, sonotutti accomunabili come eredità preziosa degliantichi linguaggi alemanni, presenti ancor oggiin Svizzera. Ma mentre nel Vallese e nei cantoni

Carta degli insediamenti walser nelle Alpi occidentali

Veduta di Cunéaz, Val d’Ayas. Foto Guindani

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 41

centrali i linguaggi hanno subito modificazioniin età moderna che li hanno resi più simili allalingua tedesca attuale, i Walser cisalpini hannoconservato l’idioma nella sua purezza medieva-le, proprio in virtù del maggior isolamento ri-spetto al mondo teutonico.

Come abbiamo già accennato, ogni valle oogni paese ha il suo idioma: ad esempio, nellaValle del Lys, nel comune di Issime si parla iltöitschu, in quello di Gressoney (St. Jean e La

Trinité) si parla il titsch. Per chiarire meglio ilconcetto vediamo un esempio: “il gomito” sitraduce in tedesco con der Ellbogen, in töit-schu d’elbugu e in titsch der ellboge.

Per rendersi conto dello stato di salute diquesta lingua, prendiamo come campione i par-lanti della Valle del Lys, tenendo ben presenteche le regioni a statuto speciale, come la Valled’Aosta, sono più tutelate anche sotto l’aspettonormativo e godono di condizioni privilegiate, e

42 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

che, più che alla percentuale relativa, si deve fa-re riferimento al numero assoluto dei parlanti.

In questa valle, i parlanti sono attualmentecirca il 40% degli abitanti di Gressoney, quindi350 unità su 900, senza contare il comune di Is-sime, che, avendo meno abitanti (circa 350), hauna percentuale maggiore di parlanti, dovuta alfatto che meno immigrati si sono stabiliti inquel paese, favorendo quindi una maggior con-servazione della parlata.

Dai censimenti del 1901 e del 1921 risultache più del 90% degli abitanti di Gressoney par-lava abitualmente il titsch.

Avvertito il pericolo che la lingua del paeseandasse estinguendosi, minacciata dalla “moder-nità” in tutti i suoi aspetti, si è dunque sentital’esigenza di salvare il salvabile, istituendo ilCentro di Studi e Cultura Walser - Walser Kul-turzentrum, con atto notarile del 26.11.1982,con i seguenti fini:«Incrementare e promuovere la cooperazionepubblica e privata a scopo di studio, anche a li-vello scolastico, la ricerca, la conservazione ela divulgazione della parlata walser;ricercare la cooperazione fra archivi pubblici eprivati per l’impianto e la gestione di un archi-vio di quanto possa documentare la vita, la cul-tura, gli usi e i costumi walser;costruire un museo, un archivio ed una biblio-

teca per la raccolta del materiale, siaoriginale, sia in fotocopia, di: atti, docu-menti, manoscritti; materiale di formasingolare o unica di uso sia locale, siagenerale del popolo Walser, opere ma-nufatti, oggetti di artigianato e culturalocale;stesura di un vocabolario della parlatawalser, titsch e töitschu, archiviazionesia fonetica che scritta della parlatastessa;incoraggiare e promuovere la pubblica-zione e la diffusione di opere che inte-ressino l’attività, la vita e le ricerchewalser,promuovere ed organizzare studi ed in-contri allo scopo di far conoscere le ca-ratteristiche linguistiche walser;favorire la cooperazione fra associazio-ni, organismi, centri di studio, scuoleaventi programmi ed interessi analo-ghi.»

La letteraturaÈ molto difficile stabilire quando siano

nate le prime forme di poesia in questa valle,poichè la tradizione ha tramandato espressionipoetiche e modi di dire che sicuramente hannoorigine in tempi molto lontani.

Nel XIX secolo con la poesia di Louis Zum-stein ha avuto inizio un periodo particolarmen-te favorevole: non sono, infatti, pochi i suoi det-ti che hanno conquistato un posto nella memo-ria dei suoi concittadini.

Nel XX secolo, spiccano, tra le varie produ-zioni, le opere di Margherita Scaler.

A questi due autori principali si sono aggiuntidiversi poeti gressonari e issimesi, che hannoscoperto di possedere un’autentica vena lirica eche hanno voluto realizzare delle interessanticomposizioni nella loro lingua.

I temi più sfruttati e cantati da questi artistisono ovviamente quelli legati al loro mondo ealle esperienze e ai valori che ne costituisconol’identità: la natura, il lavoro, i sentimenti, lareligione. Ma non solo. Come infatti viene acu-tamente precisato da Paolo Sibilla nell’introdu-zione del libro Orizzonti di poesia: ”nella pro-duzione poetico-letteraria avutasi nelle comu-nità valdostane, si nota il perdurare di modellie forme più o meno cristallizzate, per quantoriguarda i motivi ispiratori, che possono collo-carsi tra la letteratura folklorica e la letteratu-ra colta: alcune realizzazioni poetiche hanno

Villaggio di San Grato. Foto Restelli

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 43

più marcati i caratteri del primo tipo, altre delsecondo. I primi hanno intenti prevalentemen-te narrativi e/o celebrativi dei valori culturalifondamentali e si richiamano in modo imme-diato ed esemplare alla vita quotidiana. I se-condi, invece, pur collegandosi alla condizioneumana, ne ripropongono i temi in modo piùmediato, attraverso il ricupero più attento delladimensione estetica ed un uso più ragionato ericercato del mezzo linguistico”.(1)

Altra caratteristica interessante di questa pro-duzione letteraria è che essa viene generata dauna situazione doppiamente paradossale. Se-condo Peter Zürre: “si nota infatti che negli ul-timi decenni è sbocciata una produzione di te-sti dialettali che è stupefacente perchè si realiz-za in pieno declino dell’uso del titsch e del töit-schu. Una strana fioritura dal momento chequesti idiomi sono minacciati di sparizione. Ilparadosso si può spiegare come reazione co-sciente che mobilita gli sforzi collettivi alloscopo di salvaguardare la lingua e la culturalocale. (...) Se si considera il fenomeno dellaletteratura popolare walser, emerge un altroparadosso: quello costituito dal fatto che usual-mente il dialetto è lingua parlata, mentre inquesto caso diventa anche lingua scritta”.(2)

Presentiamo qui di seguito qualche testimo-nianza del loro poetare, preceduta da alcunenote biografiche.

Louis Zumstein alias De La PierreNato a Gressoney-Saint-Jean, frazione Perle-

toa, il 4 aprile 1805, morto a Ivrea l’11 settem-bre 1871. Compiuti i suoi studi a Torino si tra-sferì per un anno in Belgio. Ebbe una buona co-noscenza del francese e del tedesco oltre che deltitsch. In queste lingue scrisse delle poesie, deicanti, dei proverbi e delle massime. Attraversola satira mirava a colpire i nemici, immaginario reali che fossero. Dai suoi versi traspare la suanon comune erudizione, il suo modo di viverenella comunità nonché le sue speranze, le suepassioni e le sue amarezze. Parte dell’opera diZumstein è andata perduta.

Geäld, eh hän de geäre!

Endsche Techtre sin alle pschuf ambruf.D’ blosso Liebe escht niena meh de Bruch.An oarme Ma escht wie a Chruso oane Wi.Di woa de Techtre geäre hein, messen riche si!

Vor der Eh tiensch nensch an d’ Fedro tribeOn leinä wolte Hus on Guäd färschribe,

Sogar de Chrome met sant dem Schwi.Di woa de Techtre geäre hein, messen riche si.

Häsch me geäre, so lammer no di Freid:Eh well an goldne Chappo on as sidens Chleid.On d’Ororenke? Seä blos, woa sin di?di woa de Techtre geäre hein, messen riche si!

Eh ferchten z’obercheáme en Troppe Chenn,Darom tien d’ Wiber wol nid es Deng.Der Ma häd Geäld on guete Kredit derbi.Di woa de Techtre geäre hein, messen riche si!

Hämmo a weiche Ston, so chammo ni derfer:As get mengsmoal no drus a schene Her.Woa Geäld gnueg escht, chann alls meglech si.Di woa de Techtre geäre hein, messen riche si!

Chorts, en déschèr Weäld escht ds’ Geäld ober alls.Met dem liebe Geäld brecht mo nie de Hals.Nomma fri geäld on ds’ Heärs fon Bli,On de messen de Techtre alle mine si!

Denaro, ti amo!

Le nostre ragazze sono piene di spocchia. / L’amoresincero non è più di moda. / Un uomo povero è comeun boccale senza vino. / Per essere amati dalle ragaz-ze bisogna essere ricchi!Prima del matrimonio ci spingono a prendere la pen-na / Ed un po’ alla volta si fanno destinare casa e po-dere, / Persino la stia con dentro il maiale. / Per esse-re amati dalle ragazze bisogna essere ricchi!Se mi ami, concedimi questo piacere: / Io voglio unacuffia d’oro ed un vestito di seta. / E gli orecchini?Dove sono? / Per essere amati dalle ragazze bisognaessere ricchi.Temo di avere uno stuolo di figli. / Per quello le don-ne non si preoccupano. / L’uomo ha denaro ed unbuon credito. / Per essere amati dalle ragazze biso-gna essere ricchi!Se si ha un’ora di debolezza, non importa: / qualchevolta accade di incontrare un bell’uomo. / Dove c’ètanto denaro, può succedere di tutto. / Per essereamati dalle ragazze bisogna essere ricchi!In poche parole, in questo mondo il denaro è al di so-pra di tutto. / Con il caro denaro non ci si rompe ilcollo. / Bisogna avere solo tanto denaro ed un cuoredi piombo, / Ed allora le ragazze saranno tutte mie!

(1) Walser Kulturzentrum des Aostatals (a cura del), Oriz-zonti di poesia. Testi e composizioni nell’idioma di Gresso-ney e Issime (Aosta: Tipografia Valdostana, 1995), pag. 22(2) Ibidem, pag. 39

44 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Elegie

Wenn eh alls tseäme wol b’ trachten,So gsien eh, dass ber enandre verachten,Dass de Togend gen de chortsre tsied,Dass ds’ Gueta erderred on ds’ Bescha blied!

Alls geid wie de Tseichner an der Ur.D’ Liebe escht an Troum oane dur.O’ wie der Bletsg escht chortse d’ Freid:Wäre tued nomma d’ Pin on ds’ Leid.

Mier escht alls vertleided, alls groa glich;Sig’ es an Toufe, a Hochtsid al a Lich:Man nemme redo, es escht ni der Weärd,Hit ben eh of der Alpo, more em Heärd.

« Mo sellte der Tod ni sotte hasso:Eär tued ja endsche Borde fasso,O helft os aller Not on Pin Deäne woa ds’ lidens miede sin! »

Elegia

Se osservo bene tutto quanto, / mi accorgo che citrascuriamo l’un l’altro, / che la virtù vien sempremeno, / che inaridisce il bene e fiorisce il male!Tutto va come la lancetta dell’orologio, / l’amore è unsogno che non dura, / come il fulmine è breve lagioia: / durano solo pena e dolore.Ogni cosa mi disgusta, tutto mi è indifferente, / siaesso un battesimo, un matrimonio o un funerale: /non ho più voglia di parlare, non ne vale la pena, /oggi sono sull’alpeggio e domani nella tomba.« Non è vero che sia la morte / il peggiore di tutti imali: / è un sollievo dei mortali / che son stanchi disoffrir! » (Metastasio)

Machiavel

Wesst’ èr auch von dèm Tawel,Dier mo nènnt Sir Machiavel?Dier als hä ghäbèd en dèr Wield,Blos oft d’ Macht, on blos of ds’ Gield.

Mo selle ni gä Melch wie d’ Chuè,Mo selle wie dèr Fox thued thuè;Nie kei Hann an’s Gwessä leckeOn geng eis fer ds’ andra siäge.

Mo selle d’ Meinong enna bholtä,Gèng vèrschprächè on nie hoaltä,Gèng èmpfoa on nie èrgä,Mo gangè dè dè rèchte Wä.

Alle Mettle sige guet,Wenn’sch au choschten meh als Blued,

Om z’ èrlangä di Grosso Chraft, Di eis bhere Meischter macht.

Mengè Prenz met deschèr LehrEscht chiemäd woll dèm Cheisèr fer;Doch fer alle hä di Lehr ni gsorgäd,Machiavel escht oarmä gschtorbed.

Machiavelli

Conoscete anche voi quell’imbecille / che chiamava-no Sir Machiavelli? / Egli apprezzava nel mondo / so-lo il potere ed il denaro.Non si dovrebbe dare latte come una mucca, / si do-vrebbe agire come la volpe; / mai mettere una manosulla coscienza / e dire sempre una cosa per l’altra.La propria opinione dovrebbe restare segreta, / sem-pre promettere e mai mantenere; / sempre ricevere emai restituire, / soltanto così si seguirebbe la via giu-sta.Ogni mezzo è buono, / anche se costa più del sangue,/ per raggiungere grande potere / che ti rende padro-ne ovunque.Molti Prìncipi con questo insegnamento / sono di-ventati Imperatori; / tuttavia questa dottrina non hagiovato a tutti, / Machiavelli è morto povero.

Margherita ScalerNata a Gressoney-Saint-Jean, frazione Possäg,

il 13 aprile 1895, morì a Castellamonte il 6 gen-naio 1983. Tipica figura gressonara seguì la fa-miglia d’origine nella vicina Confederazione El-vetica dove il padre svolgeva un fiorente com-mercio.

A Menzingen (Zug) frequentò un istituto pergiovani di buona famiglia dove acquisì un’otti-ma conoscenza delle lingue e una altrettantocurata formazione umanistica. Rientrata aGressoney, si dilettò di poesia e fu presto rico-nosciuta come l’espressione più autentica dellalocale cultura walser.

Mis Cortel

Mis Cortel ésch ni verdäms on ni gros.Ou d’ Bliämä dré sin Aller litto Bliämä.Doch, chemme zue me Schwersmuäd o VärdrosTiänsch frendlech bes ens Heärs mär schine.

A Rôsôschtoc, scho lang am glichän Ort,E wisse, liäbe Nägälbliämä,Margrittä, mettäm héimleche wisä wordOn z’ Chochechrittie, alle fredlech zeämä.

Mis Cortel ésch ni verdäms on ni gros.Da Hoffärtegä térftes gwes ni riäme.

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 45

Di woa ni schichä tiän as eifachs Los,Di sollän e mis Cortel chéämä.

Il mio giardino

Il mio giardino non è né grande né di lusso. / I suoifiori sono fiori comuni. / Ma, quando torno a casacon tristezza e dispiacere / mi sorridono fino in fon-do al cuore.Un rosaio, allo stesso posto da tanto tempo, / dei carigarofani bianchi, / margherite dalla parola segreta esapiente / e le erbette di cucina, tutte lì vicine.Il mio giardino non è né grande né di lusso. / Ai su-perbi non posso certo vantarlo. / Chi non teme undestino semplice, / venga pure nel mio giardino.

Ens Woaphe

Z’ Hus heiber but;Chem Dud iéz dre wòhnä.Nomma med DiärTuäsche z’läbä lohnä.

Chan där Chenno oscholdegs LachäEm ganzä Hus schen z’kerä siWerd där Eltro Sorg o WéärchVon dir Wisheit ärliächtete si.

Liäbe, Frendschaft, guäter WelläSin ens Wòaphe on Einegkeit;Einzege Chraft en allä LittäObs desche Wéald où ärliächtete si.

Schene Bliämä em Cortel o Schoffa,As freschs Liäd woa z’ Héärs ärfreit,Helfen obär menge Schattä,Helfen obär Miäch on Leid.

Il nostro stemma

Abbiamo costruito la casa, / vieni tu, ora, ad abitarla./ Solo con te / la vita ha valore.Se l’innocente riso dei fanciulli / risuona nella casa /anche le fatiche e i pensieri dei genitori / saranno il-luminate dalla tua saggezza.Amore, amicizia, buona volontà /siano il nostrostemma, ed anche la concordia, / unica forza in tuttele persone / perchè il mondo si illumini.Fiori in giardino e sui balconi, / un canto che rallegriil cuore, / ci aiutino a superare molte ombre, / ci aiu-tino a superare difficoltà e dolori.

Monte Rosa

Heilegä Bearg mittäm goldänä Liecht!Weär en der Weäld de Fredä siächt , Meige dä Wä bes z’diär geng fennäOdär an dis Liächt sche psennä.

Meige dä Lärm von där Weald värloa,Lise en din Schtelle goa;Meige sech sälbor on allä verziäBsondärs Hass o Ruä fliä.

De wermo em goldänä Schin von dä BéargaZ’ Heärs ou alle em Kéimnosso seägä,Dass ofom Wä än Troscht geng heigeOn dä Senn vom Läbä värschteige.

Z’ Heärs weiss me als alle Gschidheid.Z’ Heärs esch wittor als alle Wisheid.Drom solce niema-n-em Läbä n’erloupäDär Schtemm vom Heärsä ni geärä z’kloupä.

Monte Rosa

Monte santo dalla luce dorata! / Chi nel mondo cercapace, / possa trovare la via fino a te / o ricordarsi del-la tua luce.Possa lasciare il rumore del mondo / e silenziosa-mente procedere nella tua quiete; / possa perdonarese stesso e tutti / e fuggire dall’odio e dal tormento.Così nella luce dorata dei monti / il cuore gli riveleràtutti i suoi segreti / affinchè abbia consolazione nelcammino / e comprenda il significato della vita.Il cuore sa di più dell’intelligenza. / Il cuore vede piùlontano della sapienza. / Perciò nessuno si permetta /di disubbidire alla voce del cuore.

Irene AlbyNata ad Issime il 18 settembre 1948. Dopo

aver conseguito il diploma di abilitazione magi-strale, frequentò l’Università di Torino dove ot-tenne la laurea in Lingue e Letterature Stranie-re Moderne.

Docente di lingua francese, insegnò dapprimanella Scuola Media di Gressoney e in seguito invarie scuole superiori della Valle d’Aosta.

Convinta sostenitrice delle tradizioni locali,partecipa con interesse ed attivamente alla vitaculturale della comunità Walser quale esponen-te del Consiglio Direttivo dell’Associazione Au-gusta e del Walser Kulturzentrum.

D’sunnu schloaft

Höit d’sunnu het dschic nöit gbürt vür d’Iljöit van diz lanndar Wilde Mieder het gstürt ouf in as hopt dschéin hann.

Hinner déi fenschtru an eju steitdsch’lozzit da weg zundruscht d’mattuwa alz schloaft un het dschich gschweigtdar su ischt kannhen vinnen dar Attu.

46 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Höit d’sunnu het dschich nöit gbürt z’tau das nétzt d’grünisén triani das hen dschich gstürt ouf in d’blétter van déi blljümi.

Vill gséllji sén dich gcheen grüzen wa wénn d’sunnu bürdschich nümmi sén strentza das mu ma nöit büzen das ündschen Gott varziji ündsch sünni.

Höit d’sunnu het dschich nöit gbürt alz in ar voart z’vill Iljöitd’eju z’hopt un z’mût hetdsch gstürtarlljéiden sua matschi nöit.

N.B.: la ‘s’ scritta s nel testo è scritta come ‘s’ con so-pra un circonflesso (^).

Il sole dorme

Oggi il sole non si è alzato / per la gente di questopaese; /il Falciatore Selvaggio ha posato / su un capola sua mano.Dietro quella finestra una madre in piedi / spia lastrada in fondo al prato; / ma tutto dorme e tace, / ilfiglio è andato a trovare il Padre.Oggi il sole non si è alzato, / la rugiada che bagna ilprato / sono lacrime che si sono posate / sui petali diquei fiori.Molti amici sono venuti a salutarti, / ma quando ilsole non si alza più / sono lacerazioni che non si pos-sono cucire: / che Nostro Signore perdoni i nostripeccati.Oggi il sole non si è alzato, / in una volta sola troppa

gente, / la madre ha posato il capo e il coraggio, / sof-frire così non è possibile

La diffusione e la salvaguardia del patrimonio linguistico

Prima di affrontare il problema della salva-guardia e della diffusione della lingua walser ènecessaria una premessa molto utile per capirein che situazione gli operatori del settore si tro-vino a operare.

Ci si colloca innanzi tutto in una Regione astatuto speciale.

Se da un lato questa potrebbe essere una si-tuazione favorevole per tutte le lingue “tagliate”non protette, perchè tale istituzione, in base anormative nazionali e regionali, tende a proteg-gere tali lingue, paradossalmente questa condi-zione, lungi dall’essere un privilegio, si rivelaun vero e proprio boomerang, nel senso che, lalingua walser si trova a essere due volte mino-ranza: nei confronti dell’italiano prima, e neiconfronti di un’altra lingua, come quella fran-cese, che, se nella Padania è minoranza, qui èmaggioranza. E anche se i massimi esponentidel locale Walser Kulturzentrum sostengonoche i rapporti con la comunità francofona, cit-tadini comuni e autorità, siano ottimi, i rappor-ti di forze, soprattutto a livello politico e istitu-zionale non depongono certo a favore della co-munità Walser.

Senza contare che la normativa prevede la tu-tela e la diffusione della lingua tedesca, che nonvuol dire certo walser: è come se in Canton Tici-

no per tutelare il ticinese,si insegnasse nelle scuoleil milanese o, peggio an-cora, il toscano.Se le premesse non sonomolto incoraggianti, larealtà lo è ancora meno:i mass-media a disposi-zione (stampa, radio etelevisione) sono pochi: adifferenza dei Ladini, chehanno trasmissioni gior-naliere in lingua, anchese ridotte (5 minuti algiorno più uno special di50 minuti una volta allasettimana), i Walser nongodono di nessuna op-portunità simile: se acca-de qualche fatto partico-lare come il Walsertref-

Interno di cucina tradizionale. Foto Guindani

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 47

fen (una specie di festival di Lorient locale) o ildecesso di qualche esponente del mondo cultu-rale Walser, allora viene ritagliato un piccolospazio sul TG3 regionale.

Di programmi radio e di carta stampata nonse ne parla nemmeno.

A livello politico, i Walser non possono conta-re su nessun consigliere regionale, né tantomeno su parlamentari, anche a causa della loroestrema frammentazione sul territorio: per laloro salvaguardia possono soprattutto contaresull’articolo 40-bis dello Statuto speciale dellaRegione Valle d’Aosta, sancito dal disegno dilegge costituzionale n. 3 del 21 giugno 1993(“Le popolazioni di lingua tedesca dei comunidella Valle del Lys individuate con legge regio-nale hanno diritto alla salvaguardia delle pro-prie caratteristiche e tradizioni linguisticheculturali. Alle popolazioni di cui al primo com-ma è garantito l’insegnamento della lingua te-desca nelle scuole attraverso gli opportuniadattamenti alle necessità locali”) e sulla leggeregionale 19 agosto 1998 n 47 (“Salvaguardiadelle caratteristiche e tradizioni linguistiche e

culturali Walser della Valle del Lys”) che specifi-ca in maniera capillare il contenuto della leggeprecedente, determinando i principi e gli ambitidell’azione regionale (toponomastica, patrimo-nio culturale, religioso, artistico, architettonicoe linguistico).

Per gli altri Walser delle Regioni a statuto or-dinario (Piemonte) vale il discorso per i Ladinidel Bellunese: nessun diritto, pur essendo iWalser del Piemonte e i Ladini del Veneto lin-guisticamente appartenenti allo stesso ceppo e,dunque, fratelli: bell’esempio di democraziaquello che tutela solo i figli che abitano nellacasa più ricca e trascura quelli che vivono inuna casa più povera!

Non solo quindi questa repubblica discriminatra lingue di serie A (ladino, occitano, walser,...) e lingue di serie B (veneto, piemontese, mi-lanese, bergamasco,..) ma addirittura discrimi-na all’interno di una stessa lingua favorendo chiha avuto la fortuna di nascere in una regionepiuttosto che in un’altra!

Il patrimonio linguistico è tramandato so-prattutto attraverso i libri che sono stati creatianche per la scuola e tramite corsi serali rivoltia tutti coloro che vogliono apprendere l’idiomalocale.

Una particolare nota di merito spetta al Cen-tro di Cultura Walser-Walser Kulturzentrum dicui si è parlato nel capitolo relativo alla lingua.Tra i lavori più significativi di questo centrospiccano: un vocabolario töitschu/titsch-italia-no, uno italiano-töitschu/titsch, libri scolastici(Ich leerne töitschu, Éch léré titsch), un canzo-niere di Gressoney e Issime, libri di folklore,poesia, arte e cultura locale.

Nonostante queste lodevoli iniziative, la tena-cia dei locali e alcune normative regionali eparlamentari, non mancano gli ostacoli: i geni-

Scena di transumanza (D’foaré). Foto Guindani Antichi boccali gressonari. Foto Guindani

48 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

tori non insegnano più ai loro figli il töitschu eil titsch, la società non è più così chiusa comeuna volta, anche a causa di una crescente immi-grazione e di matrimoni sempre più “misti”(cioè con non Walser), è sempre più difficile re-clutare insegnanti “walserofoni”, la televisione,il computer e la globalizzazione stanno facendoil resto. Anche perchè bisogna pensare in “dia-letto”: la scuola può solo rafforzare questo con-cetto, ma la lingua madre (lo dice la parola stes-sa) deve essere appresa soprattutto in famiglia enella comunità, cioè la famiglia più grande; dueore alla settimana nelle scuole non sono suffi-cienti se poi i genitori non sanno o non voglio-no parlare in “dialetto”.

Le costruzioni rurali“Le costruzioni rurali, a seconda della loro

funzione, sono di due tipi: stadel e case di abita-zione. Gli stadel sono costruzioni sorrette dasostegni simili a funghi, in legno o pietra, sor-montate da lastre rotonde e lisce di pietra sullequali poggiano le grosse travi incrociate. Talicostruzioni un tempo erano adibite esclusiva-mente alla conservazione del foraggio e delleprovviste e solitamente non erano abitate.

I caratteristici « funghi » (chiamati d’ mu-sblatte a Gressoney e z’ stadolbeine a Issime)avevano la funzione di preservare dai topi edall’umidità quanto conservato nello stadel.

Le case di abitazione, costruite in pietra e le-gno avevano al piano terreno una stalla per ilbestiame (de gade - dan goade) e nello stessovano l’abitazione per la famiglia (wongade –

senza nome a Issime). avevano inoltre una cuci-na (z’ firhus - z’ hous) con un ampio camino(de trächo - d’ heerblattu) sul quale si cucinavain grandi paioli e si affumicavano carne, lardo esalumi. Ai piani superiori si trovavano le came-re da letto (d’ schloafstòbò - d’ schoalfchoam-

ru), la dispensa (de spicher- da spéjer) e il fienile (dedielé - di dilli). I balconi, muniti di assi-celle trasversali (d’ schof-flatte - z’ schopfsch) o ver-ticali (schendle - z’ pal-linh), erano di grande uti-lità per seccare la segala,l ’orzo e anche il fienoquando il tempo piovosonon permetteva di farlo inaperta campagna. In pratica, la caratteristicadella casa walser è legataal rapporto tra ciclo pro-duttivo ed esistenza quoti-diana, il tutto mediato dal-le condizioni ambientali dialta quota.

Biel, Valle del Lys. Foto Cossavella

Fienile (Stadelté) del XVI secolo. Foto Guindani

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 49

Fulcro di tutta l’attività sono le emittenti dienergia che permettono di compiere il cicloproduttivo: il fuoco all’interno dell’abitazione eil sole all’esterno di essa. Attorno a queste duedominanti vengono organizzati tutto il lavoro ela vita quotidiana. Non sono quindi, affatto ca-suali una precisa orientazione degli edifici taleda sfruttare al massimo l’irraggiamento solare e

una organizzazione interna volta alla conserva-zione del calore prodotto dal fuoco e dagli ani-mali.

Vale infine la pena di sottolineare che questasoluzione di convivenza uomo-animale per ilperiodo invernale, volta allo sfruttamento del

calore corporeo delle bestie, è una caratteristicaesclusiva della Valle del Lys, che non trova ri-scontri in altre colonie walser, dove l’abitazionerisulta separata dalla stalla-fienile. La separazio-ne fra uomini e bestiame si avrà in seguito co-me tendenza evolutiva legata all’aumento delbenessere.”(3)

Luoghi di devozione Come per ogni altro popolo alpino, accanto

alla preoccupazione materiale (la casa e la stal-la) vi è soprattutto la preoccupazione spirituale:a questa regola non potevano sottrarsi i Walser,anche perchè la Valle d’Aosta, e quindi la Valledel Lys, si trovavano lungo la Via Francigena.Senza contare che dati certi sulla presenza cri-stiana relativi alle figure dei primi vescovi risal-gono al 451 d.C., circa otto secoli prima dell’ar-rivo dei Walser. Ecco perchè nel tentare di de-scrivere il loro mondo non poteva mancare unbreve capitolo dedicato ai luoghi di devozione.

Per avere un’idea delle dimensioni di questofenomeno basti pensare che nella sola parroc-chia di Gressoney-St.-Jean, istituita con unabolla del papa Alessandro VI nel 1502, oltre allachiesa parrocchiale, eretta tra il 1312 e il 1380,si contano una ventina di cappelle, pubbliche eprivate, edificate nell’arco di circa tre secoli emezzo: dal 1540 (la cappella di Noversch) al1890 (la cappella mortuaria dei baroni BeckPeccoz). Inoltre, a ulteriore testimonianza dellaforte religiosità di questo popolo, vale la pena diricordare che non tutte le cappelle sono co-struite comodamente all’interno di edifici o

lungo strade di comune accesso:nel caso della cappella di Loo (lacui facciata è datata 1682) ci tro-viamo in un alpeggio di alta quo-ta (2080 m), a due ore e mezzo dicammino; nella chiesa di Gresch-mattò dedicata alla Madonna Ad-dolorata, invece, viene, per tradi-zione, celebrata una Messa il ve-nerdì precedente il Venerdì San-to, durante la quale si canta unoStabat Mater in tedesco, il Tra-uergesang.Ultima ma non per questo menoimportante è un’annotazione sul-la religiosità dei Walser, indice diuna spiritualità profonda, in parte

Fungo di pietra. Foto Restelli

Villaggio di Rong, Valle del Lys. Foto Cugnetto

(3) Walser Kulturzentrum (a cura del), Lo“Stadel” nella cultura Walser

50 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

persa nei nostri tempi e nelle nostre città: la fe-de per loro non è, infatti, qualcosa che si “con-suma” semplicemente nella classica oretta set-timanale della celebrazione di precetto, maqualcosa che pervade in continuazione tutti imomenti della giornata e tutti i luoghi dell’esi-stenza, vivendo la religione anche nell’intimitàdella casa o sul posto di lavoro (si pensi allacappella edificata sull’alpeggio) e traducendolaspesso in gesti e oggetti. Troviamo svariatiesempi di questa concezione “totale” dei cristia-no-cattolici della Valle del Lys: simboli religiosiscolpiti su una porticina, dipinti su una travemaestra o scolpiti su una stufa di pietra, oltrealla benedizione della casa, “De hussäge”, sem-pre ben esposta nelle case dei gressonari.

Mi sembra superfluo, poi, ricordare, che, oltrealle cappelle, ogni paese e/o frazione aveva la suachiesa, sempre arredata “con passione” e soventeanche con opere artistiche di un certo pregio.

Ville e dimoreIn un paesaggio agro-pastorale-montano, co-

me quello dei Walser, ci si aspetta di trovare, ol-

tre alle chiese e a qualche castello, al massimodegli stadel, cioè granai, o nei villaggi degli z’-stadel-hus, case contadine in pietra e legno, madifficilmente ci si immagina di imbattersi inabitazioni borghesi, per giunta edificate secon-do modelli o stilemi architettonici insoliti perun ambiente prettamente alpino.

E proprio questa è la vera sorpresa di Gresso-ney: la presenza di ville e dimore costruite traOttocento e Novecento, sintomo profondo diuna non comune trasformazione urbanisticaper queste zone. Presenza insolita, questa, ma,a differenza di quanto accaduto troppo spessonelle nostre città, per niente stonata, in quantogli edifici più tradizionali convivono in pienaarmonia con queste più recenti costruzioni, di-more eleganti e severe, e dunque in sintoniacon il territorio, costruite secondo caratteristi-che mitteleuropee e criteri moderni.

Anche perchè, come in altre zone dell’arco al-pino (si pensi alle Dolomiti), una iniziale atti-vità prevalentemente agro-pastorale è stata pro-gressivamente sostituita dal sempre più massic-cio fenomeno del turismo di massa, con eviden-te mutamento della strutture architettonichetradizionali, incapaci di far fronte alle nuoveesigenze.

Tra le due fasi estreme, tuttavia, ve ne è statauna intermedia che, facendo da ponte alle due(agro-pastorale e turistica, appunto), ha evitatobruschi e repentini cambiamenti, consentendodi “traghettare” il mutamento architettonico dauna fase all’altra con graduali cambiamenti: è lafase dello sviluppo delle attività commerciali,svolte in particolar modo dai commercianti ditessuti, i krämra, che “fin dal XVI secolo furonoattivi nella Svizzera e negli stati della Germaniameridionale. In questo caso i krämra determi-narono nel corso del tempo forti impulsi alcambiamento, configurandosi come potente“élite interna”, che traeva motivazioni, forza edelementi cognitivi nuovi grazie alla mobilitàche era loro connaturata, e che li poneva conti-nuamente in posizione di confronto attivo conil mondo esterno. In questo senso il gruppo“corporato” dei krämra gressonari assolse dellefunzioni acculturative e formative che si espli-carono ai vari livelli nelle piccole società d’ap-partenenza, che erano annualmente abbando-nate e regolarmente rivisitate. Le esperienzetalvolta difficili compiute presso altre culture,oltre ad arricchire i diretti interessati, agivanosulla coscienza collettiva delle comunità d’ori-gine, svolgendo funzioni certamente moderniz-

Edificio tradizionale

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 51

zanti, anche se rispettose dei valori d’ordine su-periore, civili e religiosi, sui quali si fondava l’e-tica sociale vissuta come un bene stabile daconservare.

Già nel primo quarto del secolo XIX si era av-vertita intensamente l’esigenza d’istruzioneprincipale e, in particolare, quella rivolta ad as-sicurare una specializzazione tecnica ai giovanidestinati ad occuparsi nel settore commerciale.Assunsero quindi un’importanza sempre mag-giore le istituzioni come la Scuola di Commer-cio Rial, autonomamente fondata e riconosciutaufficialmente nel 1821. Questa fondazione laica,oltre a trasmettere l’eredità culturale e lingui-stica del gruppo, contribuì anche ad indirizzareil mutamento sociale.

Fra il modo e le forme di consumo (non soloalimentare), acquisite dalle famiglie di krämradi maggior solidità economica, i nuovi modelliabitativi furono fattore importante di selezionee di distinzione. Nel corso di questo processofurono destinati a scomparire ambienti tradi-zionalmente adibiti al ricovero del bestiame, al-la conservazione del foraggio, dei cereali e alleindustrie famigliari di trasformazione. A Gres-soney, in epoca ottocentesca, le nuove forme diconsumo abitativo furono in genere acquisitepiù precocemente che in altre parti della Valled’Aosta. (...) Un altro importante veicolo d’inno-vazione fu dato dall’introduzione di nuove tec-niche costruttive, che comportarono importantimodifiche strutturali, dall’uso della pietra e dimateriali diversi, che soppiantarono in buonaparte il legname, tutto questo grazie all’impie-go di capimastri e maestranze provenienti inbuona parte da Gaby e Issime. Costoro importa-rono sistemi costruttivi utilizzati prevalente-mente nell’area franco-provenzale oppure all’e-stero, come io stesso (Paolo Sibilla, autore del-la prefazione al volume Ville e dimore a Gresso-ney tra Ottocento e Novecento ndr) ho avutomodo di documentare nel caso dei muratori edei piccapietra migranti, originari della comu-nità walser di Rimella in Valsesia ed attivi, nellostesso periodo, soprattutto in Francia.”(4)

L’unione tra le ricchezze accumulate e lenuove conoscenze acquisite nei frequenti scam-bi commerciali, ma anche culturali con l’estero,posero dunque le basi per nuove architetture eper l’uso di nuovi materiali, che si integreran-no, poi, alla perfezione nella successiva “fase tu-ristica”, senza creare alcuno scompenso, ma ad-dirittura una continuità con il passato davveroimpressionante.

La pitturaSe si tralascia l’architettura, di cui si è già ac-

cennato nei più sopra, l’espressione artisticapiù importante di questo popolo è data dallapittura, in particolar modo dalla ritrattistica.

I pittori e le opere in questione risalgono acirca due secoli fa, quando in queste zone lecondizioni di vita erano ben diverse dalle attua-li: come ha puntualmente notato nel libro Nosancêtres l’allora presidente del Consiglio regio-nale, Edoardo Bich, “la severità dei volti e, inmolti casi, la fierezza delle pose che emergonoda queste figure inducono ad una riflessionesulla Valle d’Aosta, e, quindi anche sulla Valledel Lys, che venne sacrificata, a torto o a ragio-ne, al progresso e che ormai è rimasta logica-mente sbiadita nel ricordo di qualche anziano.Raramente in questi ritratti compare un sorri-so, un segno di gioia. L’austerità è imperanteforse perchè tesa a sottolineare la raggiuntaconquista di un traguardo sociale ritenuto im-portante nella società del tempo. Un traguardoche allora voleva dire sacrifici e privazioni, pa-

Johann J. Franz Curta. Ritratto di Maria AnnaCatharina Squindo, nata Lentÿ, 1863

(4) Alberto Maiocco, Ville e dimore a Gressoney tra Ottocen-to e Novecento – Trasformazione del volto urbano e territo-riale (Aosta: Walser Kulturzentrum, 2001), pag. 11.

52 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

role queste che oggi hanno perso gran parte deiloro significati.”(5)

Come dire: oggi si sono notevolmente ridottisacrifici e privazioni, ma a che prezzo? In pocotempo si va da una parte all’altra della Valled’Aosta e le funivie ci permettono di arrivare adammirare in un attimo paesaggi che una voltarichiedevano ore di cammino neppure adatto atutti, ma come è cambiata l’aria, l’acqua, in unaparola l’ambiente che ci circonda? Una volta pa-role come benessere e immigrazione erano qua-si completamente sconosciute a tutto vantaggiodi parole come identità, popolo, comunità e va-lori comuni, ora che i termini si sono invertiti,siamo più appagati?

Chiusa questa breve, ma spero utile, parente-si, torniamo ai nostri ritratti, uno status sym-bol che passò progressivamente dalle classi ari-stocratiche ai notabili cittadini e di campagna,soprattutto tra la fine del XVIII secolo e l’iniziodel XX.

Tre caratteristiche emergono dal breve esamedi alcuni dipinti di artisti gressonari/walser: lapregevole fattura dei lavori, l’estrema accura-tezza e attenzione ai particolari e la perfetta ri-

produzione dei sentimenti delle persone ritrat-te, che paiono addirittura viventi.

Nota curiosa è che i principali artisti di que-sta vallata, che esamineremo singolarmentecon alcuni cenni, appartengono tutti a un unicoceppo, la famiglia Curta.

Johann Joseph Anton (1782-1829)Caposcuola della ritrattistica in Valle d’Aosta,

è l’autore di numerosissimi ritratti di esponentidel clero, dell’aristocrazia di ancien régime edell’alta borghesia valdostana.

Jean-Baptiste (1791-1856)Autore di ritratti eseguiti quasi esclusivamen-

te per una committenza prelatizia e di alcuneopere a soggetto religioso, di lui sono noti laMadonna dei sette dolori sulla facciata di unacasa a Brusson (1832) e un Sant’Anselmo(1845), appartenente alle Collezioni Regionali.

Johann Anton Christoph (1816-1857)Si dedica come il padre alla pittura, senza

però raggiungere i risultati e la notorietà delpadre stesso e del fratello minore, Johann Jo-seph Franz. L’unica testimonianza finora notanella sua attività di ritrattista è il Ritratto diGaspard Prosper Chappellain. Alla sua mano sidevono anche la Crocifissione della parrocchialedi Introd (1843), una grande Pietà appartenentealle Collezioni regionali e la scena che descrivei soccorsi prestati alle vittime della valanga diSchmietto del 1845.

Johann Joseph Franz (1827-1881)É il ritrattista per eccellenza della borghesia

gressonara, della quale lascia un documento vi-vissimo anche dal punto di vista della storia delcostume. Nel campo della pittura a soggetto sa-cro la sua opera più celebre è la monumentaletela con San Grato (1852) eseguita per la catte-drale di Aosta. L’attività degli ultimi anni sem-bra essere dedicata in prevalenza alla pitturamurale, dal linguaggio domestico e popolare.

Il modello walser di economia alpinaÈ parso opportuno inserire all’interno di que-

sta breve, ma, nei limiti del possibile, esaustivapanoramica sul mondo Walser due capitolettilegati alla loro economia e al loro diritto, per-chè, se per comprendere lo spirito di un popolo

Johann J. Anton Curta. Marie Dendrès, nataNourrissat, 1824

(5) Laurent Ferretti, Nos Ancêtres (Quart: Industrie GraficheMusumeci, 1992), pag. 7

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 53

è indispensabile conoscerne cultura e storia,anche i due aspetti di seguito descritti sono im-portanti per avere una visione d’insieme vera-mente completa; altrimenti incorreremmo, arovescio, nell’errore del mondo odierno dovetutto viene valutato in base ai rapporti di forzapolitica ed economica, affrontando in manieradistorta i problemi a furia di trascurare siste-maticamente e dunque, in pratica, negare gliaspetti storico-culturali.

Per affrontare questi due argomenti si devericorrere in particolar modo a Carlo Cugnettoe al suo breve ma intenso libro: Alla scopertadella Valle del Lys.

Bisogna innanzitutto cominciare col ricorda-re che “l’esperienza di vita dei Walser, all’estre-mo limite delle possibilità di sopravvivenzaumana, è stato un modello di civilizzazione deltutto nuovo che ha comportato problemi diadattamento. Prima di tutto quelli legasti allatrasformazione di un territorio, fino a quel mo-mento selvaggio, in terra coltivata attraverso la-vori di abbattimento di boschi di dissodamentodel terreno e di regolazione delle acque per l’ir-rigazione.

In secondo luogo l’isolamento di queste nuo-ve comunità, risolto con la costruzione di colle-gamenti viari spesso tracciati su terreni imper-vi. La colonizzazione walser è inoltre avvenutain un’epoca in cui lo sviluppo dell’agricoltura fu

accelerato dai progressi tecnologici (introduzio-ne dell’aratro a ruota e, per l’agricoltura inmontagna, invenzione della falce con la lamainclinata rispetto al manico per agevolare la fie-nagione lungo i pendii).

Caratteristica fondamentale di questa colo-nizzazione è l’insediamento di tipo sparso: laformazione di gruppi di case più compatti, in-fatti, risale ad un’epoca successiva nella qualel’originario equilibrio economico si era ormairotto.

Ogni valle presentava particolari problemi cuioccorreva dare risposte specifiche, anche se lasituazione ottimale per un insediamento erarappresentato da ampie dorsali esposte al sole.Quando la configurazione del terreno lo con-sentiva, i poderi assegnati ai coloni erano altret-tanti rettangoli che seguivano, l’uno accanto al-l’altro, la pendenza della montagna. Questoschema permetteva lo sfruttamento del suolosecondo una sorta di scala altimetrica: in basso,solitamente il podere confinava con il torrenteche solcava la valle; sui lati, un ruscello o dellerecinzioni lo separavano dai poderi vicini; in al-to, una fascia di bosco lo divideva dalla zona de-gli alpeggi.

Le abitazioni erano raccolte al centro del po-dere, un sentiero collegava i vari insediamentipercorrendo tutto il versante a mezza costa e

Vasche monolitiche in frazione Pedemonte

Interno di casa walser

54 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

collegandolo con il centro della valle dove eranoposti la chiesa e il cimitero.

Questa economia poggiava ovviamente sul de-licato equilibrio tra una breve stagione estiva,nella quale si cercava di trarre il massimo daogni zolla di terra, e l’inverno, durante il qualele scorte accumulate rendevano possibile il «le-targo» degli uomini e degli animali.

I Walser arrivarono addirittura a praticare leculture agricole ad altitudini estreme: cereali,segale e, più in basso, il frumento. La maggiorparte del terreno veniva però sfruttata comeprato da fieno, essendo l’allevamento del bestia-me la principale risorsa dell’economia walser.

Nucleo fondamentale della società era la Hof,unità famigliare economico-sociale, chiusa edautarchica. L’integrità del podere era essenzialeperchè su di esso la famiglia colonica potessecontinuare ad organizzare la propria “autar-chia”.

Con il passare delle generazioni questo deli-cato equilibrio lentamente si ruppe: finché fupossibile era soltanto il primogenito che gestivail podere paterno, mentre gli altri emigravano,fondando nuove colonie ed evitando così la divi-sione della proprietà, mantenendone quindi in-tegra la capacità produttiva.

Quando anche le più sperdute località alpestrifurono ridotte a cultura, il sistema entrò in cri-si e la divisione del podere divenne una durarealtà;”(6) la gestione autarchica venne meno eper integrare i redditi dell’allevamento si dovet-te ricorrere ad altre attività (someggiatura,sfruttamento delle miniere, emigrazione stagio-nale).

Per procurarsi, inoltre, i beni necessari chenon erano in grado di produrre (ad esempio, ilsale, indispensabile per salare il formaggio e lacarne ), i Walser dovevano raggiungere fiere emercati, spesso con lunghi ed estenuanti viaggi,poichè non esistevano né i mezzi di locomozio-ne né le reti viarie di oggi: la rivoluzione viariadel Medioevo nacque soprattutto da queste esi-genze, come anche la nascita di villaggi walserche sorsero lungo queste nuove direttrici discambi commerciali, villaggi che acquisirono,con le attività legate al trasporto, una impor-tante integrazione economica alla economiaagro-pastorale. Nacque dunque, specialmentenei mesi autunnali quando vi era scarsa attivitàagricola, la figura del someggiatore, un contadi-no che conduceva le carovane di muli carichiattraverso i valichi fino alle “soste”, dove veni-vano depositate le some.

Diritto dei WalserI cenni di diritto di questo popolo partono pro-

prio dal loro nome, poichè “prima di contraddi-stinguere un piccolo popolo di coloni alpini ori-ginari dell’Alto Vallese, il termine walser servì adindicare uno «status» giuridico: un particolarecomplesso di norme consuetudinarie che ac-compagnò il camino della colonizzazione.

Questo serviva a distinguere i coloni dagli al-tri abitanti; tuttavia, qualsiasi colono che aves-se intrapreso opere di dissodamento in base aldiritto walser avrebbe ottenuto condizioni ana-loghe a quelle tradizionali dei Walser.”(7) É in-teressante notare questo concetto altamente de-mocratico: il diritto cui abbiamo appena accen-nato non è un diritto legato in maniera discri-minatoria a una particolare etnia, ma a una ti-pologia di intervento sul territorio e si fondavasulla concessione della terra in affitto ereditarioe su alcune libertà e autonomie amministrativee giudiziarie. Per analogia, noi oggi diremmoche uno è lombardo, veneto piemontese o, piùin generale, padano, non tanto se è nato in que-sto lembo di terra, ma soprattutto se ne accettae ne fa proprie la cultura, la mentalità e princi-palmente le “regole comunitarie”.

Per tornare in modo più approfondito al no-stro argomento, diciamo che “il nucleo centraledel diritto dei coloni è costituito dall’affitto ere-ditario: con il contratto o lettera di affitto ere-ditario i coloni ricevevano il possesso perpetuodelle terre da colonizzare. Alla loro morte ilpossesso del podere passava ai figli, insieme al-l’onere di versare annualmente un canone diaffitto. Il canone era fisso ed immutabile neltempo, al signore fondiario restava pratica-mente solo la riscossione del canone annuo,una sorta di proprietà della rendita, che spessoera destinato a vanificarsi nel tempo.

Figura fondamentale dei contratti di insedia-mento colonico era il capo colonico o «meyer»responsabile del versamento dell’affitto al si-gnore. Questo rappresentante era normalmen-te il più anziano o il più esperto e a lui venivaaffidata anche la pianificazione del dissoda-mento e la suddivisione dei poderi.

L’affitto ereditario non fu mai un contrattochiuso in se stesso ma si accompagnava spesso aclausole che riflettevano in parte il diritto feuda-le. La più rilevante a questo proposito, era quel-

(6) Carlo Cugnetto, Alla scoperta della Valle del Lys (Ivrea:Priuli & Verlucca, 1998), pagg. 34 e 35(7) Ibidem, pag. 37

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 55

la che prevedeva l’obbligo di soc-corso verso il proprio signoreed il conseguente obbligo si-gnorile di protezione escorta a garanzia del lavo-ro e dei transiti dei colo-ni.”(8)

Le tradizioni: lo stemma,il costume, la musica, la cucina, il Walsertreffen

Lo stemmaSi deve a Bruno Favre

di Gressoney-La Trinitél’ideazione e la prepara-zione grafica dello stem-ma walser della Valle delLys, introdotto nel 1970,nel quale si è cercato diracchiudere simbolica-mente tutta la storia delpopolo Walser. Al centroappare un cuore con diecistelle, ognuna delle qualirappresenta un paese (ori-ginario, poichè ora i paesi“walserofoni” si sono ri-dotti a sette) di questa mi-noranza etno-linguisticapresenti in Padania (Valled’Aosta, Piemonte e Insu-bria); il cuore, che rappre-senta il forte legame conla terra di origine, è so-vrastato da una “croce adangolo”, un carattere del-l’alfabeto nordico usato inpassato come timbro sullelettere commerciali deiWalser, forse simbolo del-la runa del dio Odino, chei Romani identificaronoanche con il dio Mercurio,protettore dei mercanti e dei viaggiatori. Due fel-ci verdi, simbolo di fertilità e abbondanza, cir-condano il cuore bianco e rosso (i colori del Can-ton Vallese), mentre lo stemma è racchiuso dadue cerchi concentrici (con i colori della Valled’Aosta).

La scritta Walser Gemeinschaft Greschòney -Eischeme significa: “Comunità Walser di Gres-soney – Issime”.

Il costumeIl costume femminile gresso-

naro era l’abito indossato peri lavori di tutti i giorni. Eraovviamente meno ricco eornato di quello utilizzatoattualmente, più corto esemplice, confezionatocon panno tessuto local-mente (landtuech) e conmolte pieghe sulla parteposteriore.Nei giorni di festa era distoffa più pregiata, di co-lore scuro, con l’attacca-tura delle pieghe più alta;sulla camicetta di canapabianca, le donne portava-no un giacchino nero(wòlhemd) e un foularddi seta a colori vivaci. Peri lavori nei campi porta-vano, infine, per proteg-gersi il capo, un fazzolet-to legato dietro o, inqualche caso, un cappellodi feltro.Con l’evolversi dei tempie delle mode il costumegressonaro è rimasto co-me l’abito più bello, con-fezionato in panno di co-lore rosso o violetto per illutto, indossato per le ri-correnze particolari in fa-miglia (nozze, battesimi),religiose (il santo patro-no: 24 giugno, l’Assunta)e per le feste della comu-nità (raduni, spettacolifolkloristici, inaugurazio-ni, convegni); è più lungoed è stato impreziosito dagalloni dorati, un giacchi-no e una pettorina di vel-

luto nero, ricamata anch’essa con fili d’oro sullafoggia di quelle usate all’inizio del secolo; la ca-micetta, sempre bianca, è ornata di pizzi prezio-si così come il grembiule nero, ora più stretto ecorto di un tempo. A completare il costume visono guanti e calze di cotone bianco lavorato a

Costumi gressonari

Stemma della Comunità di Gressoney

(8) Ibidem, pag. 37

56 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

pizzo e infine il copricapo, risalente al XV seco-lo, una cuffia sormontata da una raggiera, ini-zialmente molto bassa o inesistente, confezio-nata in filigrana d’oro o d’argento per il lutto,impreziosita da pietre incastonate.

La musica “Wo man singt, da lass dich ruhig nieder, /

böse Menschen Haben keine Lieder” (“Dovesenti cantare sosta tranquillamente, / le personecattive non hanno canzoni”): questo motto checi attende all’inizio del canzoniere walser, una

bellissima fusione di saggezza e autentica sem-plicità, ci preannuncia già cosa ci “attende” (insenso buono, ovviamente) nell’affrontare il di-scorso sulla musica walser.

E accostandoci proprio alla musica e alle pro-duzioni locali due caratteristiche risultano su-bito evidenti: la storia di una comunità, fattadei suoi valori più intimi (la famiglia e i senti-menti, la natura, la religione), tramite testi tra-mandati di padre in figlio, dai colori peculiari eaccattivanti, fiera delle proprie radici, ma, altempo stesso, tollerante e pacifica, e la bellezzadel timbro, una bellezza buona, fatta di verità esobrietà.

Due messaggi, questi, di un popolo che hasempre avuto estremo interesse e attenzionenei confronti di questa arte, alla cui diffusionehanno contribuito i Krämer, i mercanti che persecoli hanno svolto le loro attività nei paesi te-descofoni fungendo da tramite per l’acquisizio-ne di numerose melodie provenienti da quelleregioni.

Il canto non era solo una manifestazione disentimenti e valori, ma anche un elemento dicontatti e una forma di comunicazione, come citestimonia lo “Jutze”, un saluto a distanza, pro-priamente anche da monte a valle e viceversa,che esprime sentimenti di gioia e di affetto ed ècostituito da particolari modulazioni canore.

Nell’esperienza walser, inoltre, il canto “appa-re anche come attività individuale generaliz-zata che si esprime soprattutto in quei momen-ti in cui l’esecutore si trova solo con se stesso asvolgere lavori che comportano attività moto-ria ed impegno mentale limitati.”(9) Ad esem-pio, in talune pratiche agricole, o per la custo-dia del bestiame e l’alpeggio, il canto non soloserve a rassicurare colui che lo impiega, miti-gandone il senso di angoscia e di abbandono de-rivanti dalla solitudine e dall’isolamento, ma“esprime”, come già accennato, “anche un’altrapotenzialità: quella di essere manifestazioneespressiva di sensazioni, di moti dell’animo e disentimenti ed emozioni legati alla vita quoti-diana.”(10) Non è un caso allora che siano so-prattutto le donne - per l’assenza degli uominirichiamati spesso altrove dai loro commerci - arisultare più direttamente interessate alla prati-ca pastorale e quindi a certe consuetudini cano-

Costume festivo gressonaro

(9) Walser Kulturzentrum (a cura del), Canzoniere di Gres-soney e Issime (Milano: Tipografia La Musica Moderna,1991), pag. 13(10) Ibidem, pag. 13

Costumi walser

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 57

re e a essere quindi il soggetto più legato allatradizione.

La cucinaL’alimentazione non è da queste parti solo un

elenco più o meno lungo di cibi che apparten-gono alla tradizione e alle popolazioni padano-alpine, ma costituisce anche una testimonianzadi un lontano passato, di una vita laboriosa epiena di sacrifici e di un cambiamento, ancheeconomico, legate a una mutazione di abitudi-ni alimentari. La cucina, dunque, assume unruolo non tanto di appagamento dello stomacoma di aspetto integrante della cultura di un po-polo, proprio come la letteratura, la storia, lamusica o l’arte.

E come un qualunque altro aspetto culturale,anche il patrimonio culinario più arcaico diqueste comunità, doveva risentire delle originialloctone dei gruppi di stirpe alemanna; ovvia-mente, con il passare dei secoli, questo patri-monio ha subito delle sensibili variazioni per lepiù svariate cause (modifica dei gusti e dellemode, contatti e scambi con altre culture e altripopoli, variazioni climatiche, raggiungimentodi un diverso tenore di vita, modifica delle colti-vazioni, innovazioni in campo zootecnico).

Come hanno acutamente osservato i membridel comitato scientifico del libro Cultura dell’a-limentazione a Gressoney: “i modelli alimenta-ri più antichi si adeguavano in larga misura alprincipio della «frugalità», valore utilizzato diregola per contraddistinguere gli atteggiamentidelle genti alpine di fronte al cibo.”(11) Taleconcetto non si riferisce tanto a una alimenta-zione povera, quanto a un tipo di consumo ali-mentare basato essenzialmente sui cereali e, ingenere, sui frutti della terra.

“Nell’antico sistema produttivo alpino di tipoagro-silvo-pastorale, la rigidità del modello ali-mentare basato sul principio della sobrietà ve-getariana era temperato dalla presenza del lat-te e dei suoi derivati, in una logica di autocon-sumo. Il commercio con l’esterno, poi, con-sentì, nelle comunità walser, l’introduzione,oltre che del vino, anche di cereali coltivati aquote inferiori, come il mais, o di un alimentopregiato come il riso. La patata venne introdot-ta tra la fine del XVIII secolo e i primi anni diquello successivo. Esiste tutta una tradizioneculinaria, diffusa in entrambe le comunità, chesi rifà a questi prodotti che nelle ricette entra-no in composizione con quelli locali come illatte, i latticini e le carni. Essi servirono alla

Costumi walser

Pane conservato in soffitta. Foto Restelli

(11) Walser Kulturzentrum (a cura del), Cultura dell’alimen-tazione a Gressoney – Eâgewohnheiten in Gressoney (Aosta:Tipografia Valdostana, 1998), pag. 8(12) Ibidem, pag. 9

preparazione di alimenti che per i loro poterinutritivi migliorarono sensibilmente i regimidietetici. Le carni, sia quelle ricavate dalla cac-ciagione che quelle prodotte dall’allevamento ein particolare quella di maiale, occuparono unposto importante esclusivamente sulle tavolefestive e su quelle imbandite in occasioni ceri-moniali e rituali. Per secoli il loro consumo inmisura cospicua e straordinaria, come quellodello zucchero, del caffè, delle spezie e del vino,si associa all’idea di un tempo straordinariochiamato a interrompere la monotonia deigiorni sempre uguali.

Con il declino dell’agricoltura e dell’alleva-mento e con il progressivo, ma veloce sviluppodel terziario turistico e del settore della ristora-zione, le abitudini alimentari e i modelli diete-tici della popolazione alpina si sono modificatiin misura anche sensibile.”(12)

Il “Walsertreffen”Il “Walsertreffen” è un incontro tra le genti

Walser che ha luogo ogni tre anni in un paeseWalser differente. Nel 2001 c’è stato il 14° radu-no che si è tenuto a Briga nel Vallese dal 21 al23 settembre.

Oltre a momenti ricreativi di canti e musica,che hanno nella sfilata in costume il loro cul-mine, si svolgono riunioni tra i rappresentantidelle diverse comunità, nelle quali si confronta-no e si dibattono i programmi e i problemi ri-guardanti la vita delle varie associazioni.

Il numero dei partecipanti è solitamente sti-mato in 2.500 unità.

Bibliografia❐ Alpago-Novello, Adriano, Laura PalmucciQuaglino, Donatella Ronchetta Bussolati e Al-berto Carlo Scolari. Gressoney - Architetturaspontanea e costume. Novara: Istituto Geografi-co De Agostini, 1979❐ Cugnetto, Carlo. Alla scoperta della Valle delLys. Ivrea: Priuli & Verlucca, 1998 ❐ Curta, Valentino. Gressoney einst und jetzt -Gressoney ieri e oggi. Milano: Tipografia LaMusica Moderna, 1994❐ Ferretti, Laurent. Nos Ancêtres. Quart: Indu-strie Grafiche Musumeci, 1992❐ Gerbelle, M. Teresa e Elide Squindo. Éch lérétitsch. Quart: Industrie Grafiche Musume-ci,1991❐ Gerbelle, M. Teresa e Elide Squindo. Ich leer-ne töitschu. Quart: Industrie grafiche Musume-ci,1991

❐ Giacalone Ramat, Anna. Lingua dialetto ecomportamento linguistico. La situazione diGressoney. Aosta: Musumeci, 1979❐ Guindani, Lino e Laura. Gressoney Walser-dorf. Montalto Dora: Guindani, 1998❐ Maiocco, Alberto. Ville e dimore a Gressoneytra Ottocento e Novecento - Trasformazione delvolto urbano e territoriale. Aosta: Walser Kul-turzentrum, 2001❐ Rognoni, Andrea e Marco F. Arcioni. AltreItalie - Tradizioni e costumi delle minoranzeetniche italiane. Milano: Xenia, 1991❐ Salvi, Sergio. Le lingue tagliate. Storia delleminoranze linguistiche in Italia. Milano: Rizzo-li, 1974❐ Targhetta, Irene André, Alys Barell, LauraBassi Guindani, Bruno Favre e Irene Alby. Gres-soney e Issime: i Walser in Valle d’Aosta. Quart:Industrie Grafiche Editoriali Musumeci, 1986❐ Valsesia, Teresio e Franco Restelli. Walser, ilfascino il mistero. Azzate: Macchione, 1999❐ Vercellino, Ferruccio. “Aspetti del dirittowalser negli insediamenti del versante meridio-nale delle Alpi”, in Quaderni Padani, n° 33 -Gennaio/Febbraio 2001❐ Walser Kulturzentrum (a cura del). Canzo-niere di Gressoney e Issime. Milano: TipografiaLa Musica Moderna, 1991❐ Walser Kulturzentrum (a cura del). Culturadell’alimentazione a Gressoney - Eß-gewohnheiten in Gressone.y Aosta: TipografiaValdostana 1998❐ Walser Kulturzentrum (a cura del). Culturadell’alimentazione a Issime - Culture de l’ali-mentation à Issime. Aosta: Tipografia Valdosta-na, 1998❐ Walser Kulturzentrum (a cura del). D’Éi-schemtöitschu Vocabolario Italiano-Töitschu.Quart: Industrie Grafiche Musumeci1988❐ Walser Kulturzentrum (a cura del). Greschò-neytisch Vocabolario Italiano-Titsch. Quart: In-dustrie Grafiche Musumeci,1988❐ Walser Kulturzentrum (a cura del). Gresso-ney e Issime: i Walser in Valle d’Aosta. Quart:Industrie Grafiche Musumeci,1986❐ Walser Kulturzentrum (a cura del)., Lo Sta-del nella cultura Walser. Guida senza indicazio-ni di editore e di data❐ Walser Kulturzentrum des Aostatals (a curadel). Orizzonti di poesia. Testi e composizioninell’idioma di Gressoney e Issime. Aosta: Tipo-grafia Valdostana, 1995

58 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

(12) Ibidem, pag. 9

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 59

CroaziaLa Croazia intende adottare unalegislazione anti-OGM (OrganismiGeneticamente Modificati) ma ilgoverno americano minaccia san-zioni a livello WTO.All’inizio di gennaio è apparsa suun quotidiano di Zagabria la no-tizia di una lettera di Washingtonal governo croato in cui si minac-ciavano sanzioni a livello WTOper l’intenzione della Croazia diadottare una legislazione anti-OGM. Appare evidente la rilevan-za internazionale dello scontro frail Ministero dell’ambiente croato,che già nell’estate del 2001 halanciato la campagna “Croazia,terra senza OGM” e gli Stati Uniti,principali promotori degli interes-si delle multinazionali e dellaMonsanto in particolare. Ultima-mente in Croazia si è parlato mol-to dell’argomento che è fonte dipreoccupazione per l’opinionepubblica: molte domande sugliOGM sono state poste al ministrodell’ambiente Bozo Kovacevic du-rante un chat via Internet tenuto-si l’11 gennaio. Il 14 gennaio, lostesso Ministero ha organizzato aZagabria un dibattito pubblico incollaborazione con Zelena Akcija ,esponente di Green Action, asso-ciazione ambientalista che datempo redige una lista delleaziende croate che non dannoinformazioni sull’uso di OGM neiloro prodotti. Sono intervenutianche alcuni rappresentanti degliagricoltori di Stati Uniti e Canadache hanno parlato dei loro proble-mi in materia di OGM e multina-zionali. In una conferenza stampa seguitaall’incontro con gli agricoltoristatunitensi, il Ministro dell’am-

biente Bozo Kovacevic ha dichia-rato che la Croazia sta preparan-do una legge che vieterà la produ-zione e limiterà l’importazione diprodotti alimentari contenenteorganismi geneticamente modifi-cati, nonostante il lobbying degliStati Uniti.Il governo croato agisce sulla basedi una risoluzione adottata dalparlamento nel 1998 che richie-deva la messa al bando di alimentiOGM e intende tutelare l’interes-se nazionale croato, senza cercareuno scontro a livello internazio-nale. “Considerando che il turi-smo è il nostro business strategi-co e l’agricoltura organica unodei nostri punti di forza – ha di-chiarato Kovacevic - il governointende sottolineare come nostrovantaggio comparativo il fattoche offriamo solo prodotti liberida OGM. Per questo intendiamoproporre una legge che assicuri laprotezione dei nostri interessi,senza violare nessuno dei nostriimpegni internazionali”. La minacciosa lettera spedita da-gli USA (dove hanno sede la mag-gior parte delle aziende leader delsettore biotech) sosteneva che gliOGM non comportano rischi pro-vati per la salute. Kovacevic haaffermato che ogni paese membrodel WTO ha diritto di invocare lesue “ragioni nazionali” per mette-re al bando unilateralmente certiprodotti, anche se non c’è provascientifica che potrebbero esseredannosi.“Il governo statunitense sta soste-nendo gli interessi delle sueaziende e questo e’ nel loro dirit-to. Il nostro dovere e’ proteggere inostri interessi e seguire la legi-slazione dell’Unione Europea” hacontinuato Kovacevic, aggiun-gendo che la Croazia che ha ade-rito al WTO intende entrare anchenell’Unione Europea.Attualmente i paesi EU hanno im-posto una moratoria sulle impor-

tazioni di alimenti biotech, tolle-rando solo un massimo dell’un percento di OGM in ogni prodotto.Il viceministro dell’ambientecroato Miroslav Bozic, ha citatoanche l’esempio dell’Austria cheha adottato una politica di tolle-ranza zero per tali prodotti, ma ri-tiene che un compromesso sia lasoluzione più probabile per laCroazia.“Sicuramente proibiremo la pro-duzione, ma potremmo permette-re l’importazione di alimenti con-tenenti una piccola percentualedi ingredienti geneticamente ma-nipolati. E vogliamo che questofiguri sulle etichette: questa èuna richiesta minima che impor-remo” ha affermato Bozic. Da par-te sua il ministro Kovacevic si èdetto sicuro che la Croazia nonandrà soggetta a sanzioni interna-zionali a causa della sua decisionema in questo potrebbe esseretroppo ottimista. Non sarebbe laprima volta che gli Stati Unitiusano il pugno di ferro, non soloin Croazia, per imporre i loro in-teressi commerciali. È ancora fre-sca la memoria del “caso Enron”,la multinazionale dell’energia an-data di recente in bancarotta conuno scandalo di proporzioni mon-diali (falso in bilancio, una truffamultimiliardaria). La multinazio-nale aveva strappato alla Croaziaun contratto rovinoso per unaprogettata megacentrale termoe-lettrica, completamente inutile,promettendo al fu presidenteTudjman entrature politiche aWashington. Dopo la morte diTudjman, i Croati avevano tentatoinvano di liberarsi da questo con-tratto capestro. Era intervenuto lostesso ambasciatore statunitensea Zagabria con una scenata in di-retta durante il telegiornale. Riu-scirà questo piccolo paese a resi-stere alle pressioni delle multina-zionali sostenute dal governo diWashington?

La Libertàdegli Altri

60 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

La resistenza dei popoli indigeniQuanti sono i popoli del pianetache rischiano letteralmente discomparire nei prossimi anni?U’wa, Karen, Moseten, Pigmei,Assiro-cristiani, Daiacchi, Pehu-enches, Polinesiani….Per alcuni il rischio è quello diun autentico genocidio, per altrisi può parlare di etnocidio per laperdita di tradizioni, lingua iden-tità, spesso dopo essere stati de-portati lontano dalla loro patriaancestrale. Per alcuni la vera epropria estinzione fisica si è giàverificata. E’ il caso dei Tasma-niani, di alcune tribù di Funginie di alcuni gruppi di Indiani d’A-merica. È assai probabile chequesto stia avvenendo per gli OlMolo del Lago Rodolfo, per i Sa-maritani della Palestina, per al-cuni gruppi di Indios. Fino a nonmolto tempo fa erano a rischioanche gli “Abo” australiani i cuiproblemi sono comunque benlontani dall’essere risolti, nono-stante qualche riconoscimentospettacolare in occasione delleOlimpiadi. Per alcuni popoli mi-noritari (ma personalmente pre-ferisco il termine “minorizzati”)si era parlato di una crescita nu-merica (Peuls, Tebu, Tuaregh…)ma la situazione può precipitarein qualsiasi momento. Vedi il ca-so recente dei Pigmei dell’Ituri(Repubblica democratica delCongo) che rischiano di scompa-rire insieme alle loro foreste de-predate dalle compagnie del le-gno. Anche i discendenti degliIndiani delle praterie sarebberoin aumento, così come gli Ainudel Giappone, ma questo non ba-sta per garantire la sopravvivenza

della loro cultura e della loroidentità. In molti casi il colpo digrazia sembra stia per darlo laglobalizzazione dei mercati attra-verso l’opera di sistematico sfrut-tamento delle risorse (petrolio,legname, minerali rari…) a cuiora si è aggiunta la biopirateria(soprattutto in America Latina).E’ questo il caso degli Indios delCauca e degli U’wa (Colombia),dei Karen (Myanmar-Birma-nia)…Per tutti loro, si tratti de-gli Inuit o degli Aborigeni austra-liani, è risultata particolarmentedevastante la perdita di fiducianelle proprie credenze, nella pro-pria visione del mondo, del tuttoinadeguate in un sistema basatosu leggi scritte, meccanizzazio-ne, affari, ricchezza e possesso dimerci. Gli astri, le rocce, le pian-te e gli animali, pervasi di sacra-lità prima dell’arrivo dei coloniz-zatori, rischiano di diventareestranei, incomprensibili…con lalibertà l’aborigeno perde spesso ilgusto della vita arrivando ancheal suicidio (ieri gli U’wa, oggi iGuarany); il più delle volte si ri-duce a vivere nelle miserabili ba-raccopoli che sempre più nume-rose circondano le metropoli delpianeta.

Western ShoshoneDifesa della Terra e Diritti dei po-poli sono inestricabilmente legatiSulla questione dei Western Sho-shone è recentemente intervenu-ta la Lega Internazionale per i Di-ritti e la Liberazione dei popoliattraverso il suo segretario gene-rale Verena Graf che ha presenta-to un documento presso le Nazio-ni Unite a Ginevra. In occasionedi una sua visita nelle terre deiWestern Shoshone, Erica IreneDaes ci aveva detto: ”La questio-ne della Terra e delle risorse na-turale per le popolazioni indige-ne del Messico, degli Usa e perquelle di tutto il pianeta è stret-

tamente connessa, direi in modoinestricabile, con quella dei lorodiritti economici, sociali, cultu-rali, civili e politici”.“Per gli indigeni la Terra è moltopiù di quello che la maggior par-te di noi intende quando usa que-sta parola; la Terra che noi usia-mo e sfruttiamo per loro non èsolo un pianeta dell’universo, è laMadre Terra che deve essereamata, rispettata, protetta per-ché, generazione dopo generazio-ne, accoglie e nutre i suoi figli, lesue creature”.Attualmente la popolazione indi-gena dei Western Shoshone abitale sue terre ancestrali in Nevada,California, Idaho, Huta. Su que-ste terre svolgono le loro attivitàtradizionali (caccia, pesca…),raccolgono piante medicinali percurare le malattie e praticano iloro riti spirituali in luoghi sacri.Nel 1863 i Western Shoshonehanno sottoscritto un trattato dipace e fratellanza con gli StatiUniti. In base a questo venivanodelimitati i loro territori in cuiera consentito un accesso limita-to e solo per scopi specifici daparte degli Usa. Ma attualmentegli Usa negano la validità del trat-tato e i Western Shoshone ri-schiano di perdere i loro diritti. Ilprocesso con cui si è stabilito chegli accordi sono ormai decadutiera impostato in modo tale daimpedire qualsiasi intervento, siaindividuale che collettivo, da par-te degli indiani che non hannonemmeno potuto esprimere la lo-ro opinione. Nella sentenza è stato anche stabi-lito l’ammontare della cifra in de-naro da corrispondere ai WesternShoshone come risarcimento perla perdita dei loro diritti. Loro na-turalmente si sono ben guardatidal ritirare quel denaro dato che,sostengono, “la loro Terra non èmai stata venduta, ceduta, persa oabbandonata”. Attualmente ai We-

La Libertàdegli Altri

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 61

stern Shoshone viene impedito disvolgere ogni attività tradizionalee le loro riserve di acqua e i luoghisacri (come sui Monti Yucca) ven-gono contaminati da esperimentinucleari sotterranei. In altre zonesono le compagnie minerarie chedevastano l’ambiente sia con leescavazioni che pompando ognigiorno grandi quantità di acqua.In questo modo vengono messe arischio le risorse idriche (il livellodelle falde si è abbassato pericolo-samente) e sono scomparse moltesorgenti di acque termali usateper scopi curativi e rituali. Tuttoquesto si configura come un veroattacco ai diritti dei nativi e mettein serio pericolo la sopravvivenzadella loro cultura, della loro lin-gua, della loro identità. Questadrammatica vicenda ripropone an-cora una volta l’evidente contrad-dizione tra diritti dei popoli indi-geni e attività delle compagnietransnazionali. Come gli U’wa del-la Colombia e gli Ogoni della Ni-geria, anche i Western Shoshonesono ora in prima linea nella dife-sa della Terra. È auspicabile chenon debbano lottare da soli.

I Moseten della BoliviaUna delle prime notizie sui Mose-ten di cui abbia memoria risale al1990, quando insieme a molte al-tre etnie indigene boliviane par-teciparono alla storica “Marciaper la Terra e la Dignità”. Un mi-gliaio di Indios, partiti da Trini-dad, dopo quaranta giorni dicammino arrivarono a La Paz peresigere dal governo il riconosci-mento dei loro territori e di esse-re presi in considerazione nei pia-ni di sviluppo regionali e locali.I Moseten sono una delle 36 etniepresenti in Bolivia. Attualmenteridotti a poco più di tremila per-sone, vivono distribuiti in sei vil-laggi della zona amazzonica dellaregione di La Paz, provincia Sud

Yungas, lungo il fiume Alto Beni.Nonostante l’esiguo numero, iMoseten mantengono ancora ca-ratteristiche proprie come la lin-gua , molte usanze e credenze an-cestrali; in particolare conserva-no una visione del mondo fondatasull’armonia con la natura e sulrispetto dell’ambiente circostan-te, indispensabile per la loro stes-sa sopravvivenza. Sono ancora invigore pratiche di medicina tradi-zionale, spesso unica difesa con-tro la larga diffusione di malattierespiratorie e intestinali di cui so-no vittime soprattutto i bambini.Sono in due dei sei villaggi esisteun presidio medico stabile. Attualmente la loro economia èbasata sull’agricoltura; la mag-gior parte dei prodotti (riso, ma-nioca, agrumi, banane, papaia…)viene consumata direttamentedai produttori e solo un trentaper cento (frutta tropicale e ca-cao) entra nella rete del mercato.Caccia, pesca e raccolta dei fruttidella selva, fondamentali fino atrenta-quaranta anni fa, hannoperso di importanza nell’integra-re la dieta delle famiglie Moseten. I prodotti che entrano nella retedel mercato, controllato dai com-mercianti delle città, vengono pa-gati ai produttori in modo irriso-rio e, dopo una lunga serie di in-termediari, vengono rivenduti aprezzi anche dieci volte superiori.Un esempio: un grappolo di bana-ne (un’ottantina di frutti) rendeai Moseten poco più di un dolla-ro; in città costerà almeno diecidollari e la maggior parte andràal primo intermediario (“rescati-sta”). La situazione dei Mosetencominciò sensibilmente a peg-giorare una quarantina di anni fa,quando il governo boliviano pia-nificò vere e proprie ondate mi-gratorie di contadini poveri daglialtopiani e da alcune vallate. Ven-nero costruiti numerosi villaggi(significativamente chiamati “co-

lonie”) e venne adottato un siste-ma produttivo forse adatto per glialtopiani ma devastante per i ter-ritori della selva. Il metodo im-piegato, tuttora in vigore, consi-ste nello sfruttare al massimo iterreni: si tagliano gli alberi, sibrucia la vegetazione, si semina esi raccoglie. Quindi si passa ad unappezzamento successivo. In que-sto modo si impoverisce la terra ei “colonos” sono spinti ad invade-re altri territori. Gradualmente iMoseten superstiti sono stati co-stretti in aree sempre più esigue,anche perché all’azione dei colonisi è aggiunta quella delle compa-gnie del legno che ottengono fa-cilmente concessioni di sfrutta-mento del legno pregiato. Pur-troppo, in un mondo di leggiscritte, i Moseten si sono trovatigravemente svantaggiati, nonpossedendo alcun documento le-gale che garantisse la proprietàdella terra.Nonostante le dichiarazioni pub-bliche e gli accordi internazionaliin favore delle popolazioni autoc-tone, il governo continua a favo-rire gli interessi degli impresariprivati (molti dei quali ricopronocariche pubbliche) e vengonoscoraggiati i processi legali dellatitolazione delle terre degli indi-geni. Delle sedici domande di ti-tolazione giacenti presso l’ammi-nistrazione boliviana (INRA) davari anni solo due stanno perconcludersi. Allo sfruttamentodelle risorse e alla conseguentedeforestazione bisogna poi ag-giungere la progressiva perditadell’identità, della fiducia nel pro-prio sistema di valori. La violenzadella cultura dominante sta con-tagiando soprattutto i giovani

La Libertàdegli Altri

62 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Moseten che vivono un profondosenso di frustrazione, di inade-guatezza e inferiorità e finisconocon l’adottare i modelli vincentidella società boliviana.Non mancano tuttavia tentativi diautorganizzazione e di resistenza,in particolare attraverso due orga-nismi popolari: la OPIM (Organi-zacion del Pueblo Indigeno Mose-ten) e la OMIN (Organizacion dela Mujer Indigena Moseten). L’epi-sodio determinante che ha portatoalla costituzione di organismi diresistenza popolare risale al 1994,quando un ex deputato bolivianosequestrò un capovillaggio e, dopoaverlo fatto incarcerare, lo co-strinse con la forza a firmare undocumento con cui l’intera comu-nità Moseten si impegnava a riti-rarsi dalle terre ancestrali. L’ex de-putato intendeva ovviamente in-sediarvi le sue attività di sfrutta-mento e deforestazione, dato chein queste zone il legname cosid-detto “pregiato” è ancora ben con-servato e abbondante.Questa vicenda ha rappresentatola classica goccia che mancavaper far traboccare il vaso; anche iMoseten, come gli Indios delChiapas, pronunciarono il loro“Ya Basta!” e avviarono, attraver-so l’OPIM e l’OMIN, un ampiomovimento di riunificazione dellecomunità. Da allora le organizza-zioni si riuniscono periodicamen-te per valutare i problemi, pianifi-care le varie iniziative e definireuna strategia di resistenza. Sonoriuscite soprattutto a farsi cono-scere e riconoscere come entitàlegittimamente rappresentative ein grado di negoziare a vari livel-li; non solo con le amministrazio-ni locali ma anche con lo stato.

Dopo sei anni di attività appareevidente che dirigenti e militantidi OPIM e OMIN sono in grado dipartecipare, discutere, stabilire lepriorità, definire piani di svilup-po, prendere decisioni dando ri-sposte concrete alle necessità del-la collettività. La lotta dei Mose-ten si collega ad un sempre mag-gior protagonismo di tutte le et-nie indigene della Bolivia che havisto negli ultimi anni l’elezioneal parlamento dei primi deputatiindigeni. Attualmente anche al-cuni municipi sono gestiti daeletti indigeni e un vicepresiden-te è di origine Aymara. Nell’ap-provazione di leggi e riforme gliindigeni sono stati interpellatiper definire i piani di sviluppo re-gionali e talvolta nell’assumereresponsabilità pubbliche. È opi-nione delle diverse organizzazio-ni indigene che tutto abbia avutoinizio con la “Marcia per la Terrae la Dignità” del 1990. Al di là de-gli scarsi risultati immediati, laMarcia costrinse le istituzioni el’opinione pubblica boliviana aprendere coscienza dell’esistenzadi una pluralità di culture ed et-nie che rivendicano parità di di-ritti e doveri nell’ambito della cit-tadinanza boliviana. È necessariocomprendere che questa pluralitàcostituisce una ricchezza, deter-minando nuove definizioni deiconcetti di nazione, autodetermi-nazione, cittadinanza e responsa-bilità pubblica. Naturalmente (enon solo per i Moseten) la stradaè ancora lunga e tuta in salita.

Udalbiltza: una soluzione politica per Euskal Herria?È diventata una opinione alquan-to diffusa che il secolare conflittobasco-spagnolo sia entrato ormaiin una sorta di autoputrefazionee che uscirne in modo pacifico,attraverso una soluzione politica,

diventerà sempre più arduo e dif-ficile.Stampa e altri organi d’informa-zione non sono certo di grandeaiuto per comprendere cosa stiarealmente accadendo. Di EuskalHerria si parla solamente in oc-casione di sanguinosi attentati odell’arresto dell’ennesimo nume-ro uno o due dell’ETA ( EuskadiTa Askatasuna), ultimo in ordinedi tempo quello di Alberto Do-merq in Francia. Meno attenzio-ne invece alle numerose denun-ce per torture e maltrattamentiai danni di arrestati e sospetti,anche quando questi devono poiessere rimessi sbrigativamente inlibertà senza che nemmeno si ar-rivi al giudizio (vedasi, l’annoscorso, il caso particolarmentedrammatico di Irate Sorzabal).Se l’ETA in certi momenti sem-brava destinata a diventare unasorta di “Mucchio Selvaggio”senza direzione, lo stato spagno-lo non ha rinunciato ai suoi tra-dizionali metodi repressivi, me-todi che già in passato sollevaro-no non poche perplessità tra leOrganizzazioni Non Governativeper la tutela dei Diritti Umani(in particolare Amnesty Interna-tional, la Lega per i diritti e la li-berazione dei popoli, il CPE…).D’altra parte è evidente che conla sospensione della tregua (in vi-gore dal settembre 1998 al no-vembre 1999, con ripresa degliattentati dal 21 gennaio 2000) lasituazione si è ulteriormente de-teriorata, alimentando anche tramolti baschi “abertzale” il disim-pegno e la legittima aspirazione,dopo anni di conflitti, a occupar-si dei fatti propri.Negli ultimi due anni, in unasorta di delirio collettivo, l’ETAha assassinato avversari politici egiornalisti mentre lo stato decre-tava la chiusura di radio e gior-nali. Prima il noto quotidianoEgin (di cui ha temporaneamen-

La Libertàdegli Altri

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 63

te preso il posto Gara), poi l’e-mittente Egin Irratia e più re-centemente il mensile HerriaEginez hanno dovuto sospenderela loro attività. Sono stati arre-stati anche numerosi giornalistibaschi (Pepe Rei è ormai un ab-bonato delle carceri spagnole) eun gran numero di esponenti po-litici della sinistra abertzale. Do-po la storica incriminazione col-lettiva nel ‘97 della Mesa Nacio-nal di Herri Batasuna, è toccatoall’intero “Kampoko Harremane-tarako Batzordea” (Ufficio esteri)dell’organizzazione indipendenti-sta, agli esponenti di Gestoraspro Amnistia (organizzazione le-gale di solidarietà con i prigio-nieri politici) e perfino ai respon-sabili di alcune Ikastolas, le scuo-le di lingua basca.Facilmente immaginabili le con-seguenze sul piano umano: qual-che caso di suicidio e per altri lacomparsa di gravi malattie, conogni probabilità indotte o aggra-vate dal carcere e dalle ricorrentipersecuzioni giudiziarie. Da ricordare che durante la tre-gua e le trattative (in cui hannoavuto un ruolo significativoesponenti della Comunità diSant’Egidio) rischiarono l’arrestoanche alcuni degli intermediari.Intanto Herri Batasuna (UnitàPopolare) ha cambiato nome, di-ventando prima l’alleanza eletto-rale Euskal Herritarok (con l’a-desione temporanea di settoritrotzkisti, maoisti, nazionalistimoderati di sinistra…) e poi lasempre più smilza (anche in ter-mini di adesioni) Batasuna(Unità). Sorte analoga è toccata al movi-mento giovanile “Jarrai” (“Conti-nuare”), ripetutamente scioltodal giudice Baltazar Garzon, ri-fondato prima come “Haika”(“Rimettere in piedi”) e attual-mente, almeno finchè dura, “Se-gi” (“Continua”).

Ancora una volta nessuno sem-bra voler affrontare la questionein modo appropriato, dimenti-cando (o fingendo di dimentica-re) che anche in Euskal Herria citroviamo di fronte a un conflittooriginato in gran parte da pro-cessi storici e politici non risol-ti, processi che non hanno ade-guatamente rispettato i diritticollettivi dei popoli (tra cui il di-ritto all’autodeterminazione).Anche questi precedenti hannosicuramente contribuito ad ali-mentare un contesto in cui si re-gistrano innumerevoli violazionidei diritti umani individuali, siada parte dello stato che dell’ETA.Nonostante la legislazione inter-nazionale (Art. 55 della Cartadelle Nazioni Unite) consideri l’e-sercizio del diritto all’autodeter-minazione come uno dei mecca-nismi per incoraggiare le relazio-ni pacifiche ed evitare conflittitra le comunità, l’applicazione diquesto principio politico rimanepesantemente sottoposto all’op-portunità, alla convenienza, allecircostanze. Basti pensare al diverso atteggia-mento assunto dalla comunitàinternazionale rispettivamentenel Kossovo e nel Kurdistan (ofare un confronto tra la politicanei confronti del Kurdistan“irakeno” e quella nei confrontidel Kurdistan “turco”). Per quan-to riguarda la politica degli USAin Europa, andrebbe anche sotto-lineato il notevole scarto tral’appoggio fornito agli esponentidel Sinn Fein irlandese e l’invionel Paese basco di agenti dellaCIA per coadiuvare l’apparato re-pressivo di Aznar (anche primadel settembre 2001).A tale proposito è perlomeno unasingolare coincidenza che sul-l’aereo civile dell’Iran (nazioneattualmente in “lista d’attesa”per possibili attacchi militari daparte degli USA) precipitato ver-

so la metà di febbraio 2002 viag-giassero anche quattro baschi.Forse, nonostante il frastuonodegli spari e delle bombe rendasempre più flebili le altre vociprovenienti dalla società civile,l’opinione pubblica internaziona-le dovrebbe prendere maggior-mente in considerazione tutti itentativi intrapresi da settori delpopolo basco per ripristinare lapace, la convivenza, il rispettodei diritti umani.È probabile che una soluzionepacifica potrebbe derivare dallarisoluzione dell’origine stessa delconflitto, ossia dall’effettivo ri-spetto dei diritti collettivi delpopolo basco (cioè di tutti coloroche vivono in Euskal Herria, sen-za alcuna discriminante) e dal ri-spetto delle decisioni democrati-camente adottate. Un obiettivopotrebbe essere la creazioni dimeccanismi, strumenti e formedi autorganizzazione capaci difavorire la promozione di diritticollettivi e individuali, superandosia la logica della repressione chequella, in qualche modo specula-re, dell’annientamento degli av-versari.L’approfondimento della demo-crazia, il rispetto della volontàdei cittadini e dei loro diritti so-no una premessa indispensabileper poter realizzare un contestoda cui spariscano tutte le espres-sioni di violenza. Purtroppo biso-gna riconoscere che tale ipotesial momento appare alquanto in-certa, se non addirittura impro-babile. Il momento in cui ci siera avvicinati maggiormente allapossibilità di fuoriuscire politica-mente dal conflitto è rappresen-tato dagli accordi di Lizarra, sot-

La Libertàdegli Altri

64 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

toscritti nel settembre del 1998dalla stragrande maggioranzadelle organizzazioni politiche esociali basche e appoggiati ancheda ampi settori della chiesa ba-sca. Si trattava di una piattafor-ma minima di intesa da sottopor-re al governo madrileno per unanegoziazione che vedesse coin-volto ogni settore della societàbasca, indipendentemente dallediverse posizioni ideologiche.Tra le esperienze successive alfallimento degli “accordi di Li-zarra”, una delle più significativeè stata sicuramente quella de-nominata Udalbiltza , anche seforse dovremo ascriverla alla lun-ga serie dei tentativi momenta-neamente insabbiati. Udalbiltza è l’”Assemblea dei Co-muni”. Ha visto prendervi partepiù di 2500 (duemilacinquecen-to) rappresentanti del popolo ba-sco (sindaci, consiglieri comuna-li…) democraticamente eletti indiversi schieramenti politici a li-vello di municipio (Udal), sia diHegoalde (Paese basco “spagno-lo”) che di Iparralde (Paese basco“francese”). Tratti specifici diquesta Assemblea sono la sua le-gittimazione popolare e l’adozio-ne di metodi rigorosamente de-mocratici.“Udalbiltza – riporto da un co-municato di circa un anno fa - sifonda sui principi della libertà diespressione e di riunione e i suoipromotori sono convinti chenon si possa arrivare ad un pro-cesso di libera adesione se nonattraverso un meccanismo real-mente democratico”.Nello stesso comunicato si sotto-lineava “il carattere aperto, basa-to sull’adesione personale degli

eletti che a titolo libero e indivi-duale costituiscono questa entitàpolitica”. Va anche messo in evidenza co-me questa assemblea popolareabbia scavalcato i limiti ammini-strativi e territoriali imposti da-gli stati spagnoli e francese, riu-nendo i Baschi da una parte edall’altra della frontiera. Dalle di-chiarazioni dei suoi aderenti siricava che Udalbiltza “riconoscela pluralità dei territorio basco ele singole specificità di ogni pro-vincia” (in tutto sei, dato che laNavarra ,divisa in due dal confi-ne, è storicamente unitaria ndr).Udalbiltza “non pretende di sosti-tuirsi alle attuali istituzioni masoltanto rivendicare la comuneidentità di tutto il territorio ba-sco, contribuendo a ristabilire lapace a livello regionale attraver-so un processo di integrazionebasato sul rispetto e sul ricono-scimento tra persone e territori,sulla libera adesione dei cittadinibaschi”.Gli aderenti a Udalbiltza, tuttieletti a livello municipale, hannoconsiderato la loro iniziativa“una risposta adeguata alle re-sponsabilità che i cittadini deiPaesi baschi hanno posto nellemani dei loro rappresentantimunicipali, promovendo le rela-zioni tra i Baschi dei sei territori(Araba, Zuberoa, Nafarroa, Gi-puzkoa, Bizkaia, Lapurdi ndr)”. Anche se al momento attuale l’e-sperienza sembra essersi conge-lata, Udalbiltza rappresenta sicu-ramente un valido precedente dacui ripartire nella prospettiva diuna soluzione politica della que-stione basca. Il merito maggioredi questa assemblea popolare èquello di aver resa operativa“un’azione concordata dei rap-presentanti municipali che per-mettesse di sviluppare tutti gliambiti che definiscono EuskalHerria come una comunità poli-

tica, culturale ed economica”. Inpratica: la lingua (l’euskara, pro-babilmente la più antica d’Euro-pa), la cultura, lo sport, l’am-biente, la protezione del territo-rio, lo sviluppo economico, il be-nessere e la giustizia sociale…Udalbiltza ha rappresentato e po-trebbe rappresentare anche in fu-turo uno strumento di promo-zione dei diritti dell’uomo e deipopoli, un metodo di approfondi-mento della democrazia e dellapartecipazione del popolo bascoal recupero dei suoi diritti collet-tivi. Lo sviluppo di forme analo-ghe di autorganizzazione rappre-senterebbe un valido ed efficacemeccanismo per eliminare all’o-rigine il violento conflitto che datroppo tempo insanguina il Paesebasco, un conflitto che si alimen-ta anche a causa del rifiuto stata-le di riconoscere i diritti di Eu-skal Herria. Di Udalbiltza si è parlato in occa-sione dell’ultimo raduno dei No-global a Porto Alegre, in quanto èstata una delle organizzazioni(tra cui la stessa Batasuna e leFARC colombiane)a cui sarebbestato impedito di esporre le pro-prie ragioni (anche se sul realesvolgimento dei fatti esistono va-rie versioni). Naturalmente, nonostante lecomprensibili difficoltà del mo-mento, è lecito aspettarsi che il“popolo di Seattle” sappia mette-re da parte ostracismi e pregiudi-zi, confrontandosi anche con ladrammatica realtà del Paese ba-sco. Soprattutto è auspicabile cheEuskal Herria possa riprendereil cammino verso una pace fon-data sulla giustizia , sulla libertàe sul rispetto dei Diritti Umani.Un cammino che potrebbe ripas-sare anche per Udalbiltza.

Gianni Sartori(Lega per i diritti e la liberazione

dei popoli)

La Libertàdegli Altri

Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002 Quaderni Padani - 65

Venceslas KrutaLes Celtes. Histoire et Diction-naire. Des Origines à la Romani-sation et au ChristianismeParis: Laffont, 2000; 1005 pagine

Di libri sui Celti ne sono usciti ne-gli ultimi anni tantissimi, parecchiinutili o faziosi, tanti ripetitivi, maanche tantissimi superlativi. Quasitutti rischiano però di diventareoggi inutili e superati per la pub-blicazione di quest’ultima straordi-naria fatica di Venceslas Kruta, chesi conferma così il maggiore stu-dioso del settore, il più informato eintelligente. Troppo spesso chi sioccupa di storia antica è condizio-nato da faziosità o da accademi-smo. Nel primo caso si tratta o diceltisti di parte (sono i meno peri-colosi, siamo i meno pericolosi) odi detrattori di mestiere: amanti ostipendiati dal dogma ideologicoromanista che cancellano o smi-nuiscono tutto quello che non èstato “fecondato” dal sole e dagliafrori del Mediterraneo. Il secondoè invece il caso di quelli che pren-dono per buoni solo i testi autogra-fi degli storici antichi e i riscontriarcheologici politically correct,cioè quelli romani o riconosciuticome “civili” dagli scaldacadreghee dai prosseneti che stazionanonelle delle soprintendenze o negliantri ad esse omologhi fuori dallaitalica repubblica. Il risultato è chei Celti erano brutti, sporchi e catti-vi (perché l’hanno scritto tutti ipennivendoli dell’antichità), cheerano dei buzzurri perché non tra-scrivevano burocraticamente le lo-ro cose, e degli autentici barottiperché non consegnavano all’eter-nità della pietra le loro visioni ar-chitettoniche. In termini politici

erano degli incivili perché non ri-conoscevano autoritarismi, centra-lismi, codici e burocrazie.Per fortuna le cose stanno cam-biando anche grazie a moltissimiche non hanno i paraocchi di regi-me e che non hanno paura di uti-lizzare anche strumenti che nonsiano solo le biblioteche o gli scavi.Il lavoro di Kruta è un intelligentecollage di resoconti documentariantichi (di cui riporta il regestopressocchè completo), di informa-zioni archeologiche esaurienti e in-telligentemente interpretate, di co-noscenze documentarie, di scoper-te in campi extra-accademici, dicomparazioni con culture analo-ghe, di estensioni moderne delleculture antiche e di intuizioni.Il tutto viene concentrato in questosuo ultimo monumentale lavoro:386 pagine fitte fitte di testo, 490 didizionario specialistico, e altre 130di bibliografia, complessivamentepiù di 1000 pagine tutte utili, tutteimportanti, tutte entusiasmanti.Di particolarissimo interesse per illettore padano sono le tante, tan-tissime, pagine dedicate alla Cisal-pina e il riconoscimento del ruoloassolutamente fondamentale svol-to dalla nostra valle, e in particola-re dall’area di Golasecca, nello svi-

luppo della civiltà celtica ed euro-pea. Kruta sostiene e documentache la civiltà insubre (sia quellaantica che quella più recente) nonsono il portato di evoluzioni avve-nute oltralpe (come si trova sottin-teso anche dai nomi delle localitàcon cui si indicano le varie fasidello sviluppo culturale celtico)ma che siano evoluzioni autonomeche da qui hanno addirittura irra-diato feconda influenza tutto at-torno. “I Celti attestati in Italia(che sarebbe poi la Padania) hannoavuto una doppia origine. La pri-ma può essere considerata comeindigena, poiché risalirebbe alme-no all’Età del Bronzo, la seconda èl’intrusione storica di gruppi tran-salpini all’inizio del IV secolo a.C.è quest’ultima che è stata conside-rata per molto tempo come laprincipale responsabile della pre-senza celtica nella penisola (sic),eventualmente preceduta da qual-che infiltrazione più antica cheavrebbe dato ragione al testo diTito Livio (e di altri), secondo cuiil primo arrivo dei Celti in Italiadovrebbe essere collocato appenadopo la fondazione di Massalia(Marsiglia). Appare oggi chiara-mente che la popolazione dellacultura di Golasecca, che scrivevautilizzando l’alfabeto etrusco inuna lingua celtica già dal secondoquarto del VI secolo a.C, non puòessere immigrata attorno a quelladata, cosa che testimonia dunquedi un popolamento celtico ben piùantico della parte occidentale del-la Transpadana. Questi Celti indi-geni sarebbero gli antenati dei po-poli storici della regione: gli Insu-bri, i Leponzi del Ticino e i popolidetti celto-liguri che abitavano adovest del Ticino.” Un brutto colpoper la retorica italianista inzuppatadi romanità e di pregiudizi anti-europei. Forse per questo dovremoaspettare un bel po’ la traduzionein toscano di questo libro.

Ottone Gerboli

BibliotecaPadana

66 - Quaderni Padani Anno Vlll, N. 41 - Maggio-Giugno 2002

Paolo GulisanoTolkien: il mito e la graziaMilano: Ancora, 2001201 pagine

Se un libro che ha venduto milionidi copie in tutto il mondo ed è statotradotto nelle lingue più disparateviene trasformato in film con ilbudget più gigantesco della storiadel cinema, il successo ai botteghi-ni è scontato. Tanto più che, per gi-rare la trilogia de Il Signore degliAnelli, il regista neozelandese PeterJackson si è avvalso della consulen-za di alcuni tra i maggiori (cioè più“riconosciuti”) critici tolkieniani enon ha mosso neppure un passosenza aver prima ricevuto l’assensodei fans. Il rovescio della medagliaè che, a partire dal 18 gennaio, an-che i quotidiani e i mezzi di infor-mazione in genere si sono riempitidi “tolkieniani” – improvvisati,però. I quali hanno fornito le piùdiverse interpretazioni del romanzodi John Ronald Reuel Tolkien, si so-no lanciati in ardite ricostruzioni,hanno tentato (a seconda della con-venienza politica e della linea edito-riale) di annettere lo scrittore in-glese al proprio partito politico op-pure di ricoprirlo di insulti; tuttoquesto senza aver mai sfogliatoneppure una pagina della trilogia(oggi ristampata da Bompiani) né,tanto meno, degli altri libri diTolkien. Proprio contro questo pe-ricolo, quale antidoto all’ignoranzaottusa e sudaticcia di certi com-mentatori della domenica vale lapena leggere l’ultimo libro di PaoloGulisano, Tolkien: il mito e la gra-zia. Per sgombrare il campo dadubbi, diciamo pure che con questosaggio la critica su JRRT in Italia hafatto un salto di qualità; finora, in-

fatti, si era assistito a letture bana-lizzanti quando non errate, chetentavano di vedere nel Signore de-gli Anelli le opinioni politiche deiloro autori. I veri tolkieniani, dun-que, avevano ben poco per soddisfa-re i propri interessi: fatta eccezioneper una rivista “corsara” comeEndòre o un libro ben fatto comel’“Invito alla lettura di Tolkien” diEmilia Lodigiani (Mursia), e benpoco altro. Meritano di essere citati,en passant, due ulteriori volumi re-centemente pubblicati: Introduzio-ne a Tolkien, curato da FrancoManni per l’editore Simonelli, eTolkien: il signore della fantasia diAndrea Monda e Saverio Simonelli(Frassinelli).Nella sua analisi, Gulisano muoveda un punto fermo:Tolkien era un catto-lico. Le sue operevanno lette con que-sta consapevolezza –fu lui stesso, d’al-tronde, ad ammette-re che il Signore de-gli Anelli “è fonda-mentalmente un’o-pera religiosa e catto-lica”. Senza la certez-za che, come in con-troluce, c’è un Dioche muove le fila delmondo, e che ha disegnato unGrande Piano per le sue creature,non è possibile comprendere né ap-prezzare il romanzo. E, ancora piùimportante, non si tratta di un diocapriccioso e cinico, ma di un Pa-dre, che considera dei Figli quelleimperfette creature a cui ha donatoil “Fuoco segreto” della vita.“Tolkien – osserva Gulisano – chedei suoi Hobbit aveva in gran partel’umiltà, guardava con apprensioneoltre che con attenzione alle uma-ne vicende, all’allontanarsi dellevirtù elfiche e all’affermarsi di unasuperbia di tipo numenoreano, maancora più esposta al fascino delmale; non volle però esplicitare

queste preoccupazioni sotto formafilosofica o morale: preferì parlareal cuore dell’uomo con il linguag-gio che conosceva – quello del mitoe della favola – per ricordargli l’esi-stenza di cose belle e preziose, diun bene da perseguire, di senti-menti grandi e nobili, di un sensoultimo delle cose”.Può forse apparire a occhi distratti esuperficiali che le opere di Tolkiensiano “da bambini” – così hanno af-fermato anche molti critici. Eppure,le cose non stanno così; esse sonoscritte in un linguaggio che l’uomomoderno attribuisce ai bambini, mache fino a poco tempo fa rappresen-tava il massimo punto di contattotra l’uomo e Dio. Lo scrittore ingle-se, riprendendo Chesterton, afferma

che “io non parlo dilampadine elettriche,ma di fulmini”; egliintende richiamarel’attenzione dei pro-pri lettori su qualco-sa di più importantee profonde dello me-schine grettezze del-la quotidianità. Alcentro e alla fine ditutto vi è il messag-gio di salvezza di Ge-sù Cristo, segno del-l’amore di Dio.

“La connessione istituita tra bambi-ni e fiabe – ha sostenuto il filologodi Oxford – non è che un accidentedella nostra storia; questi non ama-no le fiabe più degli adulti né le ca-piscono meglio”. E ancora: i critici“confondono, non sempre in buonafede, l’Evasione del Prigioniero conla Fuga del Disertore. Un militantepolitico avrebbe potuto etichettareallo stesso modo la fuga dalle mise-rie del Reich del Führer o di qual-cun altro, e definire tradimento lacritica ad esso… Sembrerebbe anziche [essi] preferiscano l’acquie-scenza del collaborazionista alla re-sistenza del patriota”.

Giò Batta Perasso

BibliotecaPadana