EQUAZIONI E SISTEMI D’EQUAZIONI DIFFERENZIALI LINEARI A COEFFICIENTI COSTANTI
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ALLE RADICI DEL WELFARE ALL’ITALIANA
Parte IIn questo articolo, ripercorreremo le tappe relative alla genesi e allo sviluppo nel nostro Paese dell’attuale
sistema di sicurezza e protezione sociale (welfare). Lo faremo, principalmente attraverso la narrazione
dell’opera dal titolo Alle radici del welfare all’italiana. Si tratta di un saggio-ricerca, commissionata nel 2004
da Banca d’Italia, redatto da Maurizio Ferrera Valeria Fargion e Matteo Jessoula, edito da Marsilio e
pubblicato in prima edizione nel novembre scorso.
In estrema sintesi, il saggio rivela come le attuali distorsioni del sistema italiano di welfare sono presenti già
in nuce, risalgono cioè alle origini della fondazione, verso la fine dell’Ottocento - a motivo soprattutto,
secondo gli autori, di una generalizzata arretratezza storico-istituzionale mentre personalmente
propenderei per un fattore di maggiore arretratezza di tipo storico-culturale -, si aggravano con le scelte
fasciste corporative, tecnicamente di tipo occupazionali e non universalistiche (come avviene viceversa
contestualmente nelle democrazie del nord-Europa), e s’implementano in definitiva con i processi di
selezione della spesa pubblica a partire dagli anni Cinquanta e fino alla crisi culminata all’inizio degli anni
Novanta del secolo scorso.
Le origini e il periodo fascista
Il sistema di previdenza nasce, nel 1898, a capitalizzazione e su base volontaria, con la previsione di “una
forma di assicurazione volontaria contro i rischi di vecchiaia e invalidità per i lavoratori dipendenti” (RWI,
30), ovvero “circa due milioni di operai industriali e circa nove milioni di lavoratori dipendenti agricoli”, e la
possibilità d’iscrizione “anche per gli artigiani e i coltivatori diretti entro una certa soglia di reddito, oltre alle
donne di famiglia operaia che svolgessero mansioni domestiche” (RWI, 35). Il sistema, tuttavia, non si
alimenta e quindi fallisce rapidamente per svariare ragioni, tra le quali occorre evidenziare: “ l’esiguità delle
risorse volte a finanziare le prestazioni, l’assenza di contribuzione obbligatoria a carico dei datori di lavoro, il
modesto concorso dello Stato, nonché il basso livello delle retribuzioni dei lavoratori manuali che non
consentiva agli stessi di effettuare i versamenti necessari; la diffidenza della classe operaia, sostenuta dalla
propaganda socialista, verso la previdenza pubblica e la concorrenza delle casse mutue indipendenti; la
scarsa propensione della previdenza da parte degli operai e dei contadini meridionali” (RWI, 37).
Si rende pertanto necessario un processo d’intervento, che, nel 1919, porta all’istituzione di un modello del
tipo bismarckiano-occupazionale e non viceversa del tipo beveridgeano-universalistico, viceversa adottato
nelle democrazie liberali di stampo anglosassone oltre che nei Paesi scandinavi del nord-Europa. In
generale, nell’ambito di un sistema che rimane del tipo a capitalizzazione, lo schema di tutela include il
rischio di vecchiaia non solo per gli operai ma anche per gli impiegati con retribuzioni inferiori alle 350 lire
mensili, oltre che per i mezzadri e gli affittuari con reddito inferiore a 3.600 lire annue. Il successivo decreto
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di riordino n. 3184/1923 amplia la tutela del rischio di vecchiaia nei confronti degli impiegati con
retribuzioni fino a 800 lire mensili, escludendo però i mezzadri, gli affittuari e i coltivatori diretti, e quindi
“limitando la copertura dell’assicurazione obbligatoria ai soli lavoratori dipendenti” (RWI, 41).
In generale, e ancor più con l’avvento del regime fascista, il modello originario di welfare all’italiana riflette
il sistema della società del tempo e, nel complesso, mira quindi a:
a) proteggere dal rischio di vecchiaia ;
b) garantire il lavoratore dipendente (per l’epoca in corso, praticamente di sesso maschile tranne
rarissime eccezioni) e, almeno nella fase iniziale, con retribuzione non superiore alle 350 lire
mensili. Rispetto a quanto sub a) e b), occorre anche considerare la funzione “ibrida”, tra salario e
previdenza, svolta dall’istituto dell’indennità di licenziamento. Nel 1919, l’indennità in questione è
prevista solo per gli impiegati, sempre con retribuzione non superiore alle 350 lire mensili. Con il
r.d.l. 1825/1924, l’indennità è estesa anche ai dipendenti pubblici, ma in ogni caso non può essere
corrisposta agli impiegati licenziati per colpa. In epoca fascista successiva, l’indennità è estesa
anche agli operai, mentre con la legge 401/1934 è fissato un importo di massimale pari a 60.000
lire annue;
c) favorire la frammentazione con la creazione e la riforma di fondi autonomi di categorie
professionali anche preesistenti; alimentando di fatto una distinzione tra classi di lavoratori, anche
in considerazione dei principi fondamentali della previdenza fascista, che fissano: “concorso
paritetico del datore di lavoro e dei lavoratori, coordinamento del sistema da parte dello Stato –
tramite gli organi corporativi e le associazioni professionali”(RWI, 52);
d) tutelare, indirettamente, la famiglia (del paterfamiliae) anche mediante un sistema di concessione
di assegni familiari (RWI, 69) quali misure maggiormente compensative del rischio rispetto
all’esiguità dei sussidi garantiti viceversa in fase di disoccupazione (RWI, 60).
Il periodo della ricostruzione e gli anni Cinquanta
La fase post-bellica, ancora di formazione più che di riorganizzazione del sistema di welfare, dura dalla
caduta del fascismo fino al consolidamento dell’assetto del potere di governo della nazione; dopo nove
governi di unità nazionale, con l’avvento del primo governo a guida democristiana (1947). La predetta fase
d’instabilità politico-istituzionale crea le premesse per un necessario consolidamento dei sistemi sia politico
che sociale, che beneficeranno entrambi, prioritariamente, degli aiuti economici previsti per l’Italia dal
Piano Marshall (1948-1951). Si tratta di una fase successiva, di consolidamento del sistema-paese, che
durerà circa un decennio, fino al 1957, e culminerà poi nel ciclo di sviluppo del boom economico, anticipato
da una crescita sostanziale del PIL già nel biennio che chiude gli anni Cinquanta (1958-1960).
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In ordine al sistema di sicurezza e protezione sociale, la prima fase, quella dell’immediata ricostruzione,
comporterà un sostanziale incremento della spesa pubblica, come si evince peraltro parzialmente dai dati
riportati nella tabella seguente.
Assegni familiari IVS Disoccupazione
Anno Contributi Prestazioni Contributi Prestazioni Contributi Prestazioni
1943 5.017.188 5.203.886 2.590.782 932.116 272.546 123.278
1944 5.555.948 4.552.910 2.858.553 1.075.338 242.839 256.006
1945 9.102.980 9.686.387 4.892.422 4.372.810 350.656 471.490
1946 24.772.590 24.087.794 15.372.666 15.239.163 4.461.576 2.226.326
1947 70.222.763 68.631.255 35.590.065 41.590.054 13.893.903 6.694.262
1948 108.555.484 108.790.543 69.110.732 47.161.500 22.053.495 30.294.261
Fonte: INPS (1950). In corsivo i valori per i quali si registra un deficit nella cassa/gestione (RWI, 92).
L’equilibrio del sistema, in questa fase, è mantenuto attraverso l’applicazione del meccanismo di
ripianamento del deficit di gestione, relativo all’anno corrente, mediante le entrate contributive realizzate
nell’anno finanziario seguente. L’applicazione del meccanismo in questione rafforza e consolida l’adozione
del criterio politico di spesa a ripartizione, criterio ispirato maggiormente dalla previsione dell’art. 38 della
Costituzione: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al
mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione
involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale. Ai compiti
previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza
privata è libera”.
La necessità di pervenire ad un sistema di welfare completo, è il motivo per cui con il D.c.p.s. 22 aprile 1947,
n. 377 viene istituita la Commissione D’Aragona. Le linee programmatiche, che presiedono
all’individuazione del modello, stabiliscono “che la previdenza sociale non debba essere estesa a tutti i
cittadini, essenzialmente per due ragioni: in prima istanza, per l’onere eccessivo che una tale estensione
comporterebbe, ma soprattutto perché altrimenti verrebbero oltrepassati quei fini di protezione sociale che
la riforma deve proporsi. I confini della protezione sociale devono infatti coincidere con la popolazione
attiva” (RWI, 100-101).
E’ qui chiaramente esposta la scelta per un modello di welfare di tipo occupazionale, e non universalistico, a
cui si è già accennato in precedenza. Le ragioni principali sono senz’altro imputabili sia ai bassi livelli
produttivi dell’economia nazionale del tempo e, personalmente ritengo ancor più, al modello sociale di
sviluppo incentrato sulla famiglia patriarcale, dove l’uomo più anziano, il capo-famiglia, esercita a quel
tempo un ruolo assolutamente preminente sul resto dei suoi componenti. La Commissione prevede infatti
che “la tutela delle persone inattive (avvenga) in forma indiretta, con il riconoscimento del fondamentale
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principio della previdenza familiare: i componenti della famiglia hanno diritto all’assistenza sanitaria, alle
pensioni per i superstiti e alle integrazioni e assegni familiari in virtù del legame di parentela con un
lavoratore assicurato” (RWI, 101).
Sul piano delle realizzazioni, l’elaborazione della Commissione rimarrà tuttavia lettera morta.
La seconda fase (1948-1957) del periodo post-bellico consegna al sistema di welfare vigente
sostanzialmente tre acquisizioni:
a) il sistema di tutela della vecchiaia è gestito con il criterio a ripartizione;
b) è garantito un assegno minimo di pensione a tutti i lavoratori; attraverso il ricorso alla fiscalità
generale e non alla contribuzione;
c) il sistema di protezione è allargato e completato anche nei confronti dei lavoratori autonomi.
Con l’entrata in vigore della legge n. 218/1952, viene istituito un nuovo “Fondo per l’adeguamento delle
pensioni” (al posto delle gestioni FIAS, FSS e “disoccupazione” e “tubercolosi” dell’INPS), finanziato da
contribuzione - in misura percentuale invariata e in origine in misura pari al 9% della retribuzione - per il
50% a carico del datore, il 25% a carico del lavoratore e il restante 25% a carico dello Stato. L’importo delle
pensioni minime è posto a carico dello Stato, in misura pari a 42.000 lire per i pensionati di età inferiore a
65 anni; per gli altri, invece, in misura pari a 60.000 lire. Il diritto a pensione è condizionato al possesso del
requisito minimo di anzianità contributiva, fissato in misura pari a 15 anni. E tuttavia, pur al di sotto di
questa soglia minima, il sistema prevede comunque la concessione di una sorta di “pensione sociale”. In
sintesi: “alla fine degli anni Cinquanta solo il 3% delle entrate previdenziali sarà da attribuirsi alla
componente a capitalizzazione” (RWI, 117).
La terza fase (1958-1960), d’inizio espansione, è determinata soprattutto dalla strategia di ricerca del
consenso messa in opera dai partiti politici e dalle associazioni sindacali e professionali, soprattutto in
prossimità di tornate elettorali, mediante politiche di sostegno che si concretizzano in erogazioni mirate a
vantaggio di particolari gruppi e categorie sociali. In rapida successione, si assiste all’emanazione di una
serie di provvedimenti normativi, tra i quali occorre in particolare segnalare:
a) d.P.R. n. 17/1956: oltre a prevedere il nuovo “statuto per gli impiegati dello Stato”, il decreto
istituisce il regime delle pensioni cd. baby per i pubblici dipendenti;
b) legge n. 1047/1957: estende l’assicurazione IVS a tutti i lavoratori agricoli autonomi (coltivatori
diretti, mezzadri e coloni). Il provvedimento stabilisce inoltre “di elargire la pensione, a fronte di un
solo anno di contribuzione, a tutti i lavoratori oltre i 65 anni (e non i 70 anni, come nella versione
originaria (del testo)”. Ma, quel che più conta è che è fissata ad esclusivo carico dello Stato una
spesa di copertura delle prestazioni pari a 4,5 miliardi per il 1958 e in misura crescente fino a 26
miliardi previsti per il 1967: una misura, cioè, che “ incrementa di circa il 19% l’onere complessivo in
capo allo Stato per i dieci anni successivi – da 140 miliardi a 166,5 miliardi” (RWI, 141);
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c) legge n. 55/1958: sancisce l’aumento dell’importo delle pensioni e del livello dei trattamenti
minimi da 40.000/60.000 a 78.000/114.000 lire annue, rispettivamente per i pensionati che
abbiano meno o più di 65 anni di età;
d) legge n. 463/1959: restando invariato il limite dell’età pensionabile fissato dalla legge n. 1047 cit.
(65/60 anni), la tutela dell’assicurazione IVS è estesa anche alla categoria degli artigiani mediante
la previsione di un finanziamento contributivo in parte a carico dei lavoratori (600 lire mensili) in
parte, e senza specificazioni di sorta, a carico dello Stato. E’ evidente che una tale mancata
previsione contribuirà anch’essa a implementare gli squilibri già presenti e quindi futuri del sistema
di welfare all’italiana nel suo complesso.
Relativamente al periodo degli anni Cinquanta, una completa disamina del sistema richiede ancora alcune
brevi annotazioni relative alle acquisizioni in materia di “assegni familiari” e soprattutto “disoccupazione”;
ed è pertanto da qui che riprenderemo l’intero nostro discorso, a partire dal prossimo numero di Pais.
N.B.: l’acronimo “RWI” messo tra parentesi si riferisce al titolo del saggio Alle radici del welfare all’italiana. Il
numero che segue l’acronimo si riferisce invece al numero o numeri di pagina in cui il testo in corsivo è
presente nel saggio medesimo.
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ALLE RADICI DEL WELFARE ALL’ITALIANA
Parte IIAgli inizi degli anni Cinquanta, i disoccupati sono circa due milioni; a cui si aggiunge un altro milione di
lavoratori ad orario ridotto e oltre un milione di braccianti che lavorano saltuariamente (dal II Congresso
CGIL di Genova, ottobre 1949). Eppure, si è detto, il sistema di welfare all’italiana continuava a perseguire la
scelta originaria del modello di tipo bismarckiano-occupazionale; come emerge ed è dimostrato dal
rapporto inerente ai tre diversi capitoli di spesa per pensioni, assegni familiari e disoccupazione.
Del primo capitolo, quello concernente le pensioni, ci siamo occupati nel precedente articolo (Pais marzo
2013). Quanto agli altri due, vediamo invece cosa fu determinato dalle politiche attuate nel corso del
decennio in esame. Da un lato, indubbiamente le modifiche al sistema tennero conto della struttura
originaria fascista, senza operare alcun sostanziale cambiamento di prospettiva. D’altro lato, l’evoluzione
della struttura del sistema di welfare all’italiana doveva tenere necessariamente conto dello sviluppo su
scala industriale dell’economia produttiva. Infatti, tra il 1951 e il 1961, circa due milioni di persone
abbandonano il Sud d’Italia mentre i dati sull’occupazione registrano, nell’arco dello stesso decennio, un
passaggio ed un incremento della forza produttiva dall’agricoltura (dal 45% al 30%) ad un’economia
d’impresa, ripartita nei diversi settori dell’industria (dal 29% al 38%) e dei servizi (dal 26% al 32%).
Dal punto di vista del fabbisogno di spesa che muta, il prospetto delle Tabelle sottostanti ci consente un
primo approfondimento.
Tabella 1- Settore Privato periodo 1951-1958
Anno Vecchiaia Invalidità Superstiti Totale pensioni Assegni familiari Disoccupazione
1951 71 26 8 105 157 24
1952 120 43 15 178 209 25
1953 139 49 18 206 273 24
1954 156 57 22 235 304 22
1955 178 66 25 269 324 25
1956 196 75 30 301 352 37
1957 214 84 33 331 378 36
1958 357 142 61 560 399 42
Fonte: Ferrera M., Il Welfare State in Italia. Sviluppo e crisi in prospettiva comparata, 1984 (RWI, 204)
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Tabella 2 – Intero sistema di welfare periodo 1943-1948
Assegni familiari IVS Disoccupazione
Anno Contributi Prestazioni Contributi Prestazioni Contributi Prestazioni
1943 5.017.188 5.203.886 2.590.782 932.116 272.546 123.278
1944 5.555.948 4.552.910 2.858.553 1.075.338 242.839 256.006
1945 9.102.980 9.686.387 4.892.422 4.372.810 350.656 471.490
1946 24.772.590 24.087.794 15.372.666 15.239.163 4.461.576 2.226.326
1947 70.222.763 68.631.255 35.590.065 41.590.054 13.893.903 6.694.262
1948 108.555.484 108.790.543 69.110.732 47.161.500 22.053.495 30.294.261
Fonte: INPS (1950). In corsivo i valori per i quali si registra un deficit nella cassa/gestione (RWI, 92).
I dati della Tabella 1, espressi in miliardi di lire, confrontati con i dati della Tabella 2, espressi in migliaia di
lire, dimostrano essenzialmente:
un incremento, anno per anno, addirittura esponenziale della spesa necessaria al fabbisogno ; per
fare un esempio, dal 1948 al 1958: la spesa per IVS passa da circa 47 (spesa complessiva) a 560
(spesa relativa al solo settore privato) miliardi di lire; la spesa per Assegni familiari da circa 108
(spesa complessiva) a 399 (spesa relativa al solo settore privato) miliardi di lire; infine, la spesa per
Disoccupazione da circa 30 (spesa complessiva) a 42 (spesa relativa al solo settore privato) miliardi
di lire.
una redistribuzione percentuale della spesa necessaria al fabbisogno, che incrementa di molto la
spesa per Pensioni , riduce la spesa per Assegni familiari e sostanzialmente azzera la spesa per
Disoccupazione; anche qui, facendo lo stesso esempio dal 1948 al 1958: la spesa per IVS passa dal
25% (spesa complessiva) al 56% circa (spesa relativa al solo settore privato); la spesa per Assegni
familiari dal 59% (spesa complessiva) al 40% circa (spesa relativa al solo settore privato); infine, la
spesa per Disoccupazione dal 16% (spesa complessiva) a solo il 4% circa (spesa relativa al solo
settore privato).
In entrambi i contesti, risalta comunque l’annotazione della Commissione parlamentare istituita nel 1957 e
presieduta dall’onorevole Rubinacci: “Il sistema degli assegni familiari non può definirsi una vera e propria
assicurazione; esso rappresenta, in effetti, una integrazione del salario stesso, resa obbligatoria per legge ed
enucleata dal salario stesso per liberarla, per quanto possibile, da eventuali inadempienze” (RWI, 184). Quel
che emerge è ancora una volta il modello di una società, ispirato principalmente dalla dottrina sociale della
Chiesa cristiana-cattolica-apostolica-romana, fondata in primo luogo sulla famiglia (cristiana) e sulla
tradizionale figura (romana) del pater familias.
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“Ma come viene finanziata questa spesa?”, è quello che in particolare si chiedono gli autori della Ricerca. E
la risposta secca è: dal 1946, “con il decreto legge n. 479 del 16 settembre, l’intero onere grava sulle spalle
dei datori di lavoro” (RWI, 191). Con la conseguenza che, anche nel corso degli anni Cinquanta, l’onere
continua ad incidere pesantemente sul già notevole e tendenziale incremento del costo del lavoro.
Soprattutto nel caso degli operai, laddove “i contributi complessivi rappresentano infatti quasi il 49% della
paga media giornaliera, di cui ben il 44,89% è a carico dei datori di lavoro. In questo contesto (…) gli assegni
familiari si collocano in una posizione di assoluto distacco rispetto a tutti gli altri programmi. Il costo di tale
misura rappresenta infatti da solo il 21% del salario medio di un operaio, risultando tre volte più oneroso dei
contributi a carico del datore di lavoro per il Fondo adeguamento pensioni e addirittura sette volte più dei
contributi dovuti per l'assicurazione disoccupazione” (RWI, 198).
In materia di assicurazione per la disoccupazione, il decennio relativo agli anni Cinquanta non introduce
novità. L’unica vera innovazione resta quella introdotta dalla legge del 1949 concernente l’estensione della
copertura assicurativa ai lavoratori del settore agricolo (salariati e braccianti). Il sistema di copertura, che si
avvale di risorse percentualmente sempre più scarne, distingue tra Indennità ordinarie e indennità di
carattere straordinario, in forma di Sussidio. Si tratta di una misura assolutamente discrezionale, concessa
esclusivamente dal ministero del Lavoro, che comporta anche l’obbligo di seguire corsi di qualificazione
professionale o prestare servizio presso i cosiddetti cantieri-scuola.
In definitiva, è comunque interessante evidenziare soprattutto un aspetto di tale sistema: il finanziamento e
la misura dei contributi straordinari tende a soppiantare nel tempo il sistema ordinario di concessione del
trattamento di disoccupazione in capo alla Cassa Integrazione Guadagni dell’INPS. Ma, come già
evidenziato, è piuttosto questo il tempo di redistribuire le risorse disponibili a vantaggio di un sistema in
grado di garantire sempre più l’occupazione; ed è per questo motivo che, a proposito del finanziamento e
dei trattamenti per la disoccupazione, nel 1959, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni
dei lavoratori in Italia conclude: “contributi così notevoli si spiegano pensando alla particolare attività del
fondo che, provvedendo al finanziamento di corsi per i lavoratori disoccupati, di cantieri scuola, di corsi
aziendali di riqualificazione contribuisce notevolmente ad alleviare il fenomeno della disoccupazione ed a
rimuovere in parte le cause che sono alla base del fenomeno. L’attività del fondo porta, quindi, a una
riduzione delle stesse prestazioni dell’assicurazione per la disoccupazione, che l’alimenta, rispondendo al
principio di offrire ai lavoratori una occupazione piuttosto che dei sussidi” (RWI, 171).
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Gli anni Sessanta
Dal punto di vista del sistema di welfare, gli anni Sessanta si caratterizzano principalmente attraverso un
fenomeno espansivo della spesa di fabbisogno. La crescita economico-produttiva diventa presupposto
soprattutto per l’implementazione delle prestazioni garantite, con la possibilità di estendere i diritti già
riconosciuti anche ad altre categorie di beneficiari. Tramonta invece definitivamente la possibilità di
trasformare il sistema orientandolo ad una prospettiva di tipo universalistico e non occupazionale .
Invece di sostenere un cambiamento di prospettiva tout court del sistema, in base a modelli di democrazia
in voga nel nord dell’Europa, il potere politico-sindacale procede sostanzialmente ad adeguamenti di
struttura del vecchio sistema fascista-corporativo. Le modifiche al sistema tengono quasi esclusivamente
conto degli “schemi per le principali categorie di lavoratori già coperte dall’assicurazione obbligatoria:
lavoratori dipendenti privati, coltivatori diretti-mezzadri-coloni e, last but not least gli artigiani, inclusi nel
sistema con l’approvazione della legge 463 nel giugno 1959” (RWI, 220). E’ interessante notare che la
ripetizione dei suddetti schemi avviene prima con l’avvento e poi con il consolidamento di governi di centro-
sinistra, che si reggono su patti di alleanza incentrati principalmente sull’asse DC-PSI ed il sostegno di forze,
cosiddette laiche, minori. Ciò dimostra, in buona sostanza, che gli schemi adottati rifuggono da una
classificazione politica che si vorrebbe alternativa, di destra o di sinistra. L’alternativa di sistema rimane
viceversa quella di un modello di welfare più o meno inclusivo, di tipo universalistico o occupazionale.
La prima metà degli anni Sessanta registra l’adozione di tre importanti provvedimenti legislativi:
- legge 1338/1962, che in particolare stabilisce: il mantenimento ma anche l’elevazione in via provvisoria di
due livelli minimi mensili di trattamento di pensione (12.000/15.000 lire per gli under/over 65 anni),
l’aumento del coefficiente base per il calcolo del trattamento di pensione da 55 a72, l’innalzamento
dell’aliquota contributiva dal 18% al 19,8% e soprattutto la previsione di un contributo statale aggiuntivo di
finanziamento della spesa per il triennio 1962-1964 di complessivi 51,5 miliardi di lire;
- legge 1339/1962, che in particolare stabilisce per la categoria degli artigiani: in via provvisoria
l’innalzamento del minimo di pensione mensile a 10.000 lire, l’aumento del coefficiente di rivalutazione
della pensione base da 55 a 72, la possibilità per le donne di accedere alla pensione a 60 anni, la riduzione
del finanziamento per le pensioni obbligatorie a carico dello Stato di 4 miliardi per gli anni 1962-1963 e
1967-1968 ma anche il contestuale finanziamento aggiuntivo di 1 miliardo per l’assicurazione obbligatoria
contro le malattie;
- legge 9/1963, che in particolare rende strutturale per tutte le categorie di lavoratori già garantite:
l’adozione della misura della pensione minima per un importo egualitario pari a 10.000 lire, per il periodo
1962-1971 la garanzia del diritto di accesso al trattamento pensionistico obbligatorio ad un’età minima di 60
anni, la ripartizione degli oneri di finanziamento aggiuntivi da dividersi al 50% tra Stato e categorie
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interessate; la qual cosa comporta uno stanziamento aggiuntivo a carico delle finanze statali per il triennio
1962-1964 di 20,5 miliardi di lire.
A tale proposito, il grafico sintetizza la misura complessiva della variazione dell’incidenza della spesa
rispetto al fabbisogno viceversa relativo all’applicazione delle disposizioni normative previgenti.
Incremento della spesa per pensioni di vecchiaia e superstiti, 1958-1963
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1958 1959 1960 1961 1962 1963
Vecchiaia
Vecchiaia e superstiti
Fonte: elaborazione su dati Ferrera (1984) (RWI, 233)
Nella seconda metà degli anni Sessanta, l’andamento economico della crescita, sia pure rallentato, spinge il
potere politico-sindacale ad adottare misure comunque nel complesso espansive e solo temporaneamente
restrittive. In sintesi:
- legge 903/1965, introduce il concetto di pensione sociale elevando di fatto i livelli delle prestazioni minime
di pensione soltanto ai lavoratori già garantiti (15.600/19.500 lire per gli under/over 65 anni) e soprattutto
introduce le pensioni d’anzianità anche nel settore privato con un requisito d’accesso minimo, meno
vantaggioso rispetto al pubblico impiego, di 35 anni di età, confermando il metodo di calcolo contributivo ed
elevando il coefficiente di rivalutazione delle pensioni base da 72 a 86,4;
- legge 613/1966, estende la copertura pensionistica obbligatoria ai commercianti con regole analoghe a
quelle degli artigiani e lavoratori agricoli;
- legge 238/1968 nel comb. disp. del d.p.r. 488/1968, introducono nuovi aumenti dei livelli minimi di
pensione (18.000-21.900 lire per i lavoratori dipendenti e 13.200 lire per i lavoratori autonomi assicurati
presso l’INPS), l’abolizione delle pensioni d’anzianità introdotte tre anni prima, l’aumento dei contributi e
soprattutto la previsione di un metodo di calcolo del trattamento di pensione, per i soli lavoratori
dipendenti, di tipo retributivo, anche se all’inizio poco generoso;
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- legge 153/1969, introduce una vera e propria riforma del sistema. In sintesi, prevede:
pensione sociale, per tutti i cittadini al di sopra dei 65 anni che versano in condizioni di bisogno, in
misura pari a 156.000 lire annue per tredici mensilità;
l’aumento dei livelli minimi pensionistici;
l’intero finanziamento delle prestazioni, di livello minimo e sociale, a carico dello Stato;
la modifica dei parametri per il calcolo della pensione con il sistema retributivo, in modo da
garantire, nel caso di 40 anni di contribuzione, nell’immediato il 74% della retribuzione
pensionabile e invece l’80% della stessa a decorrere dall’1.1.1976;
l’adeguamento delle pensioni all’andamento dei prezzi.
Rispetto all’evoluzione del sistema di welfare in generale, gli anni Sessanta saranno forieri anche del
provvedimento d’istituzione della Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria nel 1968 e ancora della
graduale trasformazione prima dell’indennità di licenziamento in indennità di anzianità, con la legge
604/1966 che garantisce il relativo trattamento a tutti i dipendenti privati e in ogni caso di risoluzione del
rapporto di lavoro, per arrivare poi alla legge 297/1982 che istituisce per tutte le categorie di lavoratori del
settore privato la prestazione unica di TFR ex art. 2120 ss. del codice civile.
N.B.: l’acronimo “RWI” messo tra parentesi si riferisce al titolo del saggio di M. Ferrera, V. Fargion e M. Jessoula, Alle radici del welfare all’italiana, edito da Marsilio nel 2012. Il numero che segue l’acronimo si riferisce invece al numero o numeri di pagina in cui il testo in corsivo è presente nel saggio medesimo.
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ALLE RADICI DEL WELFARE ALL’ITALIANA
Parte IIIDagli anni Sessanta agli anni Settanta
Nel corso degli anni Sessanta, ma anche oltre, si registra una parabola espansiva della spesa sia in materia di
IVS che in materia di prestazioni integrative. In quest’ultimo caso, come nel settore privato, anche nel
settore pubblico con l’approvazione della legge n. 152/1968, in materia di trattamento di fine servizio (IPS)
per i dipendenti del comparto sanità ed enti locali, e il d.p.r. n. 1032/1973, in materia di trattamento di fine
servizio (IBU) per i dipendenti civili e militari dello stato. Per il calcolo delle rispettive prestazioni, la base di
riferimento è data dalla media delle retribuzioni fisse e continuative percepite dal lavoratore nell’ultimo
anno di servizio o addirittura dalla retribuzione fissa e continuativa percepita nell’ultimo giorno di servizio.
Inoltre, la legge n. 177/1976 sgancia il diritto alla prestazione da quello a pensione, con l’effetto che è
sufficiente un anno d’iscrizione alle rispettive Casse previdenziali di appartenenza per avere diritto alla
liquidazione.
Dal punto di vista della prestazione di pensione obbligatoria, per gli stessi comparti di contrattazione
pubblica la legge n. 965/1965 stabilisce in pratica che ciascun lavoratore, collocato a riposo per compiuto
quarantennio di anzianità utile, benefici di un salario pari al 100% dell’ultima retribuzione, se ex-dipendente
del comparto sanità ed enti locali, o all’80% dell’ultima retribuzione, maggiorata però forfetariamente del
18%, se ex-dipendente statale. Anche in questi casi, dunque, è previsto che la misura del trattamento di
pensione sia pari all’incirca al 100% dell’ultimo stipendio goduto.
Questo quadro evolutivo e chiaramente espansivo della spesa, che contraddistingue le disposizioni
normative introdotte sia in ambito privato che pubblico, già contrasta tuttavia con l’andamento
dell’economia nazionale, e perfino “a partire dall’improvvisa e drammatica crisi del 1963-64 (che
determina) l’espulsione dell’attività produttiva di una quota significativa di manodopera” (RWI, 261), in
particolare femminile.
In effetti, la politica prende subito atto della crisi e “ il 1963 segna l’inizio della parabola discendente di quel
disegno riformista che aveva animato i primi anni Sessanta … La spinta innovatrice che aveva caratterizzato
le prime misure (dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica all’istituzione della scuola media unificata)
lascia ben presto il posto a politiche estremamente caute orientate soprattutto a tamponare le emergenze ”
(RWI, 269). In breve, si sceglie di garantire e proteggere l’assetto del sistema economico preesistente, e
quindi favorire i cosiddetti insider. A svantaggio naturalmente di coloro che sono già fuori dal tessuto del
sistema economico-produttivo nazionale. Di questa scelta, è proprio il caso di dire ne fanno le spese sia il
capitolo della Disoccupazione che quello degli Assegni familiari.
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Significativo in proposito è quanto si legge “nel Progetto di programma di sviluppo economico per il
quinquennio 1965-1969, approvato dal Consiglio dei ministri il 2 giugno 1965:
La tutela della disoccupazione, che dovrà fornire ai lavoratori mezzi di sussistenza adeguati in attesa di una
nuova occupazione, costituisce un aspetto sussidiario dei problemi generali di politica economica e sociale
relativi alla piena occupazione e all’addestramento professionale. In relazione alla politica di sviluppo e di
occupazione perseguita dal programma, la spesa relativa a questa forma di tutela, che dovrà essere
riordinata nell’intento di garantire soprattutto la uniformità delle prestazioni, subirà nel lungo periodo una
diminuzione. Nel quinquennio 1965-1969 si prevede una spesa media annua pari a quella erogata nel 1963
(100 miliardi di lire)”(RWI, 270).
In breve, le leggi nn. 77/1963, 433/1964 e 833/1965 estendono la Cassa Integrazione Guadagni
mantenendo inalterato per circa un decennio l’importo dell’Indennità ordinaria di disoccupazione: “la ratio
è quella di garantire ai lavoratori agricoli un sostegno al reddito, per cercare di contenere l’esodo dalle
campagne all’industria e le migrazioni interne, che continuano a caratterizzare il periodo, nonostante il
rallentamento dell’espansione industriale (Ascoli, a cura di, 1984)” (RWI, 274).
Anche in materia di disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi, il fine sostanziale diventa quello del
mantenimento del posto di lavoro e, in ultima istanza, del salario. Così che la legge n. 604/1966 stabilisce
che nelle aziende con più di 35 dipendenti la libertà di licenziamento è limitata solo alle fattispecie di giusta
causa e giustificato motivo. Mentre la legge n. 1115/1968 istituisce la Cassa Integrazione Straordinaria. La
costruzione del sistema, finalizzato alla tutela e al mantenimento del posto di lavoro, è poi completata con
l’approvazione dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 20 maggio 1970) e in particolare la disciplina in
materia di licenziamenti di cui all’art. 18.
Quanto al sistema degli Assegni familiari, all’inizio degli ani Sessanta la legge n. 1038/1961propone
l’istituzione di una Cassa Unica articolata in otto gestioni contabili. Si tratta di un tentativo al fine di
garantire un nuovo sistema di sicurezza sociale. Infatti, lo scopo e quello di “dare agli assegni familiari il
carattere di una vera integrazione salariale che impone che gli assegni familiari stessi non siano
proporzionali al reddito e alla categoria di produzione del lavoratore ma identici per tutti i lavoratori ” (RWI,
293). Con l’effetto che l’equiparazione serve a garantire un significativo miglioramento degli importi in
favore della categoria dei lavoratori agricoli. L’operazione del Governo “si articola su almeno tre fronti: a)
unificazione effettiva delle fonti di entrata in una unica gestione contabile (n.d.r.: per evitare anche travasi
illegittimi di finanziamento da gestioni di settore attive ad altre passive dell’INPS) ; b)fissazione al 17,50%
della nuova aliquota contributiva per le aziende industriali, commerciali e artigianali, da corrispondersi
sull’intero ammontare retributivo, con abolizione del <famigerato> massimale, a partire dal 30 giugno 1964;
c) aumento – durante la fase transitoria – del massimale retributivo da 1.000 a 2.000 lire per le aziende
artigianali e commerciali e a 2.500 lire per tutte le altre aziende, in primis quelle industriali” (RWI, 297).
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Ma, come anticipato, anche in questo caso la crisi del 1963-1964 impedirà di proseguire per la via tracciata.
In materia di Assegni familiari, una lunga serie di provvedimenti, dal 1965 al 1968, otterrà solo lo scopo di
“rinnova(re) le tutele per carichi familiari verso uno stuolo di lavoratori che continuano a perdere il lavoro o
a essere messi in cassa integrazione … Si innesta su questo filone l’estensione degli assegni familiari ai
coltivatori diretti, coloni e mezzadri attuata attraverso la legge 14 luglio 1967, n. 585 ” (RWI, 314).
In estrema sintesi, ecco dunque il quadro evolutivo (RWI, 249) che riassume l’andamento espansivo della
spesa nel corso di quasi trenta anni, dal 1951 al 1977, fin dunque in prossimità dell’emergenza della crisi
industriale post-fordista.
Spesa per pensioni, assegni familiari e disoccupazione, 1951-1977 (in miliardi di lire, valori costanti 1970)
Conclusioni
Nelle pagine precedenti, si è cercato di illustrare le ragioni di un sistema di welfare all’italiana, che contiene
già in nuce gli effetti distorsivi che si appaleseranno in via definitiva nel corso degli anni Ottanta, prima che
inizi il cammino di riforma, con la legge n. 421/92 e fino alla recente legge n. 214/2011 (Fornero), al fine
esclusivo di ridurre il costante fabbisogno di spesa crescente. Lo stesso fabbisogno necessario per tutelare e
garantire un sistema politico di insider anche a danno dei cosiddetti outsider.
N.B.: l’acronimo “RWI” messo tra parentesi si riferisce al titolo del saggio Alle radici del welfare all’italiana
edito da Marsilio 2012. Il numero che segue l’acronimo si riferisce invece al numero o numeri di pagina in
cui il testo in corsivo è presente nel saggio medesimo.
18 Aprile 2013 Angelo Giubileo
(Dirigente Anquap – Esperto di settore)
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