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Lezioni di ALIMENTAZIONE E NUTRIZIONE ANIMALE Corso di Laurea S.A.P.A. Anno Accademico 2014-2015 Prof. Francesco Toteda

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Lezioni di

ALIMENTAZIONE E NUTRIZIONE ANIMALE

Corso di Laurea S.A.P.A.

Anno Accademico 2014-2015

Prof. Francesco Toteda

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PARTE PRIMA

CAP. I. PRINCIPI NUTRITIVI

1.1 Generalità

L’utilizzazione da parte dell’organismo dei principi alimentari, attraverso

fenomeni biochimici legati alla sua costituzione fisiologica, costituisce la nutrizione,

quel complesso vale a dire, di processi di scissione (catabolismo) e di sintesi

(anabolismo) d’ordine enzimatico e metabolico, a livello cellulare, che rappresentano

un attributo essenziale della materia vivente.

L’alimentazione, invece, interessa la scelta, la preparazione, la somministrazione

degli alimenti ed anche il loro studio per orientarne appunto la scelta; nonché

comprende l’atto della loro assunzione; o quando si tratti di animali in allevamento

anche la loro somministrazione: razionamento.

Dal punto di vista zootecnico l’alimentazione va vista come:

- fattore di esaltazione delle capacità produttive degli animali;

- fattore in grado di assicurare e conservare la pienezza della salute degli animali;

- fattore economico della produzione animale.

1.1.1 Alimentazione e benessere animale: il Regolamento CE sulla zootecnia

biologica resta l'unica normativa che considera rilevante per un intero settore

produttivo le regole del benessere animale, facendole rientrare fra le condizioni della

certificazione di qualità. Il fatto è, però, che il Regolamento contiene, su questo

argomento, solo indicazioni vaghe e di carattere molto generale. D'altra parte, forse,

non poteva essere che così, visto che per sua natura la questione del benessere

animale non può che essere affrontato indagando le condizioni in cui vive ciascuna

specie e trovando per ciascuna i cambiamenti da introdurre per migliorarle.

La prima delle normative europee che, seppure senza menzionarlo, affronta il tema

del benessere animale è stata la Convenzione europea sulla protezione degli animali

da allevamento, adottata a Strasburgo il 10 marzo 1976 e ratificata dall'Italia il 14

ottobre 1985 con la legge n. 629. Vi si legge tra l'altro che "Ogni animale deve

beneficiare di un ricovero, di un' alimentazione e di cure che - tenuto conto della

specie, del suo grado di sviluppo, di adattamento e di addomesticamento - siano

appropriate ai suoi bisogni fisiologici ed etologici conformemente all'esperienza

acquisita ed alle conoscenze scientifiche" .

Qualche anno più tardi si cominciò, invece, a parlare delle "cinque libertà" che

devono essere garantite a tutti gli animali allevati. Nella loro più recente

formulazione, del Farm AnimaI Welfare Council britannico (1992), suonano così:

l) libertà dalla fame e dalla sete - con un facile accesso all'acqua e una dieta che

mantenga piena salute e vigore;

2) libertà dal disagio - con un ambiente appropriato che includa un riparo e una

confortevole area di riposo;

3) libertà dal dolore, dalle ferite e dalle malattie - attraverso la prevenzione e rapide

diagnosi e trattamenti;

4) libertà di esprimere un comportamento normale - mettendo a disposizione spazio

sufficiente, attrezzature appropriate e la compagnia di animali della stessa specie;

5) libertà dalla paura e dall'angoscia - assicurando condizioni e trattamenti che

evitino la sofferenza mentale.

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Nel corso dell'evoluzione, gli animali si sono dotati di metodi fisiologici e

comportamentali per affrontare le varie difficoltà che incontrano nel corso della loro

vita. Poiché tutti gli animali si sono evoluti in questo modo e ogni specie è adatta in

un modo particolare a un particolare ambiente, ogni definizione del benessere deve

tener conto dell'ambiente, della fisiologia e del comportamento specifico dell'animale

preso in considerazione. Il benessere di un animale è una condizione intrinseca

all'animale stesso; non è un insieme di valori assegnati all'animale dagli umani. Nel

corso della loro vita, gli animali possono incontrare difficoltà che vanno

dall'insignificante al rischio della vita. I singoli animali affrontano queste difficoltà

con successo variabile, a seconda delle condizioni ambientali, fisiologiche e

comportamentali in cui si trovano ad agire. Il risultato può andare dal migliore, che

non ha alcun effetto avverso, al peggiore, che è la morte. Fra questi due estremi, il

benessere animale può variare da molto buono a molto cattivo.

Da queste considerazione deriva la seguente definizione di benessere: il benessere è

la condizione di un individuo in conseguenza dei suoi tentativi di affrontare i

problemi posti dal suo ambiente.

Gli animali da allevamento hanno un insieme di bisogni simili a quelli dei loro

antenati selvatici, sebbene alcuni bisogni siano stati modificati nel corso della

domesticazione. È ovvio che esigenze fondamentali, come quelle di cibo, acqua e

ricovero, non sono cambiate nel passaggio dall'animale selvatico a quello domestico.

Ma può essere meno ovvio che la spinta con cui gli animali selvatici si esprimono nei

comportamenti associati alla riproduzione, alla ricerca del cibo, dell' acqua e del

riparo sia ancora presente negli animali domestici.

Come il benessere, anche il bisogno è una caratteristica intrinseca dell'individuo ed è

così definito: un bisogno è un'esigenza, che deriva dalla biologia dell'animale, di

ottenere una risorsa particolare o di rispondere a un particolare stimolo ambientale

o organico.

Misurazione del benessere - La conoscenza dei punti critici dell' allevamento per il

benessere degli animali allevati è una necessità per gli operatori, per una corretta

applicazione della legislazione (ad esempio per i suini la Direttiva 91/630 CEE

recepita con D. Lgs. 30 dicembre 1992 n. 534, e sue modifiche - Direttiva

200l/88/CE -) e per fornire al consumatore un'immagine dell'allevamento e del

prodotto che sia di livello adeguato alla richiesta di alimenti non solo sicuri e

tracciabili (caratteristiche che devono ormai ritenersi un prerequisito), ma derivanti

da processi produttivi di sempre più alto livello qualitativo.

Il benessere può essere valutato attraverso misurazioni del comportamento, della

fisiologia, della salute e della produzione. Sebbene, in alcuni casi una singola

misurazione possa dare un’indicazione dello stato di un animale, di solito è

necessario valutare diversi indicatori per ottenere una valutazione chiara.

Comportamento: i test di preferenza consistono nel mettere un animale di fronte a

delle scelte, per esempio fra differenti cibi o sistemi di stabulazione. La forza di una

preferenza determinata se può essere vista come un bisogno; ciò può essere valutato

registrando l'entità dei comportamenti anormali e degli stress fisiologici che si

determinano quando la preferenza espressa viene negata, e misurando le energie che

l'animale è disposto a spendere per ottenerla.

I test di avversione misurano la forza dell'avversione di un animale a un dato stimolo.

Sono di qualche utilità nel misurare gli effetti dei sistemi di stabulazione sugli

animali, ma i loro risultati possono essere confusi dagli effetti dell'apprendimento.

Deprivazione e motivazione. Gli animali permangono motivati nell'espletare certi

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comportamenti anche se ciò viene loro impedito dall'ambiente fisico in cui si

trovano. Ciò si traduce in modelli di comportamento anormali in cui l'animale espleta

i comportamenti motivati in una forma o in un contesto inusuali. La forza della

motivazione può essere valutata misurando quanto l'animale è disposto a "pagare", in

energia o tempo, per espletare quel comportamento.

Le stereotipie sono sequenze di movimenti ripetuti e relativamente invariati che non

hanno alcuno scopo evidente. Si sviluppano quando l'animale è frustrato in modo

acuto o cronico e indicano che è in difficoltà nell'affrontare i problemi posti dal suo

ambiente e che il suo benessere è povero.

Fisiologia. La produzione di cortisolo/corticosterone avviene in diverse situazioni di

difficoltà ed è utile nella valutazione del benessere. Poiché questi ormoni vengono

prodotti anche in situazioni come il corteggiamento o l'accoppiamento, che non sono

dannose per l'animale, sono essenziali per ottenere altre informazioni riguardo lo

stato dell'animale quando vengono usati per valutare il benessere dell'animale.

Frequenza cardiaca: può essere usata per valutare l'effetto di problemi a breve

termine, congiuntamente con altre misurazioni del comportamento.

Risposte immunitarie: Diverse misure dell'attività del sistema immunitario possono

essere usate per misurare lo stress.

Salute. Il tasso di mortalità è un indicatore grossolano ma inequivocabile di benessere

povero. I tassi di morbilità sono anche loro degli indicatori dello stato di benessere

del branco, ma sono meno precisi dei tassi di mortalità.

Performance. Bisogna fare attenzione nell'usare la performance come un indicatore

di benessere. Una sostanziale riduzione nel tasso di crescita di un vitello, per

esempio, è un indice di benessere povero, ma un buon tasso di crescita non è

necessariamente un indice di benessere buono. I giovani mammiferi, infatti, possono

continuare a crescere rapidamente quando il loro benessere è povero.

Va considerato che la qualità e sicurezza degli alimenti di origine animale passa

anche attraverso il benessere animale. Ormai da decenni ci si è resi conto che le

patologie degli animali da reddito possono avere importanti conseguenze

sull'alimentazione umana e su qualità e sanità dei prodotti di origine animale.

Si è visto inoltre che, oltre ad occuparsi delle condizioni igieniche e sanitarie degli

animali, è necessario guardare anche alle loro esigenze biologiche ed in generale al

loro benessere. Per questi motivi sono state emanate numerose leggi e regolamenti

per attuare una attenta sorveglianza su tutta la vita degli animali da reddito che va

dall'origine della loro alimentazione alla fase di raccolta dei loro prodotti.

Bisogna considerare che un animale che non vive nel benessere si ammala più

facilmente e può succedere che:

a) l’animale ammalato viene trattato con farmaci i cui residui possono passare nel

latte, nelle uova o nella carne che consumiamo;

b) non viene curato e allora saranno gli agenti patogeni a inquinare i prodotti che

consumiamo.

Da un punto di vista alimentare, le strategie adottabili per migliorare il benessere

animale riguardano:

- allevamento al pascolo in quanto permette la ginnastica funzionale;

- razioni sufficienti ai fabbisogni, in rapporto allo stato fisiologico, età, livello

produttivo;

- adozione di razioni bilanciate in tutti i principi nutritivi, compresi minerali e

vitamine;

- somministrazione di probiotici, per migliorare la flora ruminale e intestinale;

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- adeguati spazi alle mangiatoie per evitare competizione tra animali.

1.1.2 Alimentazione e qualità dei prodotti

L’agricoltura e la zootecnia hanno da sempre avuto il compito di soddisfare i

fabbisogni alimentari dell’uomo e, mentre, in passato la politica agricola ha

determinato i livelli produttivi in condizioni di eccedenza, recentemente si è

affermato il concetto di multifunzionalità agricola (metodi produttivi che devono

soddisfare i bisogni sia delle generazioni attuali che future) la quale si correla

positivamente alla qualità delle risorse ambientali, del paesaggio agrario e delle sue

produzioni tradizionali e tipiche, dalle iniziative agrituristiche e dalle attività sportive

che si possono svolgere in ambito rurale. Ciò è dovuto anche al fatto che, prima il

consumatore chiedeva, soprattutto, di soddisfare le proprie esigenze nutritive a basso

prezzo, oggi, egli si attende dagli alimenti anche specifiche caratteristiche, quali: il

gusto, il valore nutrizionale, la freschezza, la sanità, la genuinità, la varietà, la novità,

la comodità d'uso. Peraltro, in un mercato globalizzato, per competere sono

necessarie produzioni caratterizzate da elevati livelli qualitativi e di sicurezza.

I prodotti di origine animale rappresentano in Italia un terzo della produzione

vendibile dell'agricoltura. L'incidenza maggiore è rappresentata dal latte (30%),

seguita dalla carne bovina (25%), avicunicola (20%) e suina (16%).

Nella zootecnia moderna, l'alimentazione costituisce un punto chiave nella gestione

dell'allevamento in quanto, da un lato, rappresenta il principale costo di produzione

(oltre il 50%) e dall'altro condiziona in larga misura le performance produttive, la

salute, la fertilità degli animali, la qualità igienico-sanitaria, nutrizionale e

organolettica di una derrata alimentare nonché l'inquinamento ambientale.

Le tecniche di razionamento sono condizionate tuttavia anche da altri fattori, tra cui

genotipo e modalità di stabulazione, che a loro volta condizionano quanti-

qualitativamente le produzioni. Gli allevatori nel produrre devono tener conto:

a) delle caratteristiche degli alimenti di origine animale;

b) produzione secondo criteri di massima eco-compatibilità;

c) provenienza da allevamenti in grado di assicurare un adeguato benessere animale;

d) basso costo.

Relativamente alle caratteristiche degli alimenti esse riguardano: elevato livello di

sicurezza; buona qualità, appetibilità; adeguate prerogative nutrizionali, anche dal

punto di vista salutistico; rispondenza alle esigenze tecnologiche della preparazione

di alimenti convenzionali (es. formaggio grana, prosciutto di Parma o di S. Daniele,

ecc.); utilizzabilità per la preparazione di cibi pronti e porzionati; facile

conservazione.

1.1.3 Alimentazione e impatto ambientale

L’allevamento animale, soprattutto, nelle zone montane e pedemontane, oltre che per

la funzione economica deve essere considerato per il suo fondamentale ruolo nella

gestione e conservazione del territorio attraverso: a) la razionale utilizzazione delle

risorse foraggere, b) la limitazione del rischio d’incendi boschivi, oggi largamente

diffusi in queste zone, c) azione indiretta contro l’erosione in quanto utilizzando

particolari essenze foraggere ostacola lo scorrimento di masse nevose, d)

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manutenzione del territorio da parte dell’allevatore mediante lo sfalcio dei prati e la

pulizia di fossi e canali.

Da un punto di vista ecologico non va trascurato il ruolo delle capre, le quali

adottano una modalità di assunzione alimentare molto selettiva e, rispetto agli altri

ruminanti, con il diverso modo di utilizzare le risorse foraggere dovrebbe consentire

di limitare la vegetazione indesiderata quali essenze spinose e arbustive, di

migliorare i cedui abbandonati attraverso un’adeguata gestione e di rispettare le

risorse boschive anche se tale ruolo è spesso ostacolato o messo in dubbio da storiche

leggi forestali (R.D.L. 3267/1923 e R.D. 1126/1926).

Se l’utilizzo e la gestione dei reflui zootecnici non vengono effettuati correttamente, i

reflui possono inquinare:

- l’aria (ammoniaca, idrogeno solfato, cattivi odori, ecc.). Una considerazione a parte

merita la produzione di metano di origine animale (soprattutto ruminanti) il quale

contribuirebbe all’effetto serra, considerando che il suo effetto sul riscaldamento

dell’atmosfera, a parità di peso, è 70 volte superiore a quello della CO2. Per unità di

prodotto utile un sistema di allevamento estensivo ha un effetto ambientale, nella

globalità, più rilevante di uno intensivo. Una produzione di 240.000 kg di latte

all’anno, ottenuta da 60 vacche che producano 4.000 kg di latte/capo/anno, o da 24

vacche con 10.000 litri, nel primo caso libererà nell’atmosfera 6.570 kg di metano,

nel secondo caso solo 3.500.

- l’acqua superficiale e di falda e il suolo: l’alta concentrazione di azoto, fosforo e

alcuni oligoelementi (rame, zinco, selenio, ecc.), nelle deiezioni animali non più

distribuite periodicamente sui terreni nell’ambito dei normali cicli agrari, ha creato

problemi nelle aree ad alta densità di allevamento, per rischi di contaminazione delle

acque superficiali e profonde, con compromissione della potabilità e aumento del

grado di eutrofizzazione (fosforo, nitrati, sali di rame, ecc.), del suolo (metalli

pesanti, ecc.)

Per tentare di limitare o prevenire i possibili danni ambientali derivanti dall’attività

zootecnica il legislatore è intervenuto sia a livello territoriale che a livello di unità

produttiva. L’orientamento della legislazione vigente è basato sul principio di “chi

inquina paga” e ciò è confermato dalla Direttiva CEE 2004/35 la quale prevede che,

tutti i responsabili di attività produttive che, per comportamento doloso o colposo,

causano un danno alla specie, agli habitat naturali protetti, alle acque od al terreno,

potranno essere chiamati a corrispondere i costi di riparazione del danno arrecato.

La scarsa efficienza della macchina animale è la causa principale dell’impatto

ambientale. Solo il 20-30% delle proteine e dei mangimi e dei foraggi è trasformato

in proteine corporee o dei prodotti animali (latte, uova), lo stesso o poco più dicasi

per il fosforo. In altre parole significa che circa due terzi dell’azoto e del fosforo

apportato con gli alimenti sono dispersi nel suolo e nelle acque (circa il 20%

dell’azoto escreto, può essere volatilizzato come ammoniaca). Per alcuni elementi

minerali, l’utilizzazione è inferiore addirittura al 10%, con una dispersione

indesiderata nell’ambiente del 90%. Una razionalizzazione delle tecniche alimentari

può ridurre del 25-40% l’impatto ambientale negli allevamenti intensivi.

La messa in atto di strategie di intervento che contribuiscono ad una riduzione delle

quantità e dei volumi di reflui prodotti potrebbe avere un ritorno in termini

economici e gestionali. Tra queste ricordiamo: tipo di stabulazione e di

pavimentazione; tipo e quantità di lettiera; razionamento idrico compatibilmente con

il rispetto delle norme sul benessere animale; selezione genetica e, soprattutto, vanno

considerate le strategie alimentari le quali possono avere effetti positivi sulla

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riduzione degli effluenti zootecnici; si tratta di ottimizzare il processo di

utilizzazione degli alimenti, attraverso la scelta del tipo di alimentazione e del

corretto apporto energetico-proteico per consentire di coprire gli specifici fabbisogni

alimentari, riducendo gli sprechi e migliorando le rese.

Per intervenire nel modo più opportuno sul miglioramento delle caratteristiche degli

effluenti è necessario individuare le cause principali che, in animali in ordinarie

condizioni di benessere e salute, agiscono a livello metabolico sul rilascio degli

elementi nutritivi forniti con la dieta e, in particolar modo, per quanto riguarda le

escrezioni di azoto, fosforo e metalli pesanti.

Le escrezioni azotate sono principalmente riconducibili ad uno squilibrato apporto

proteico ed aminoacidico, alla differente digeribilità degli aminoacidi forniti con la

dieta e, quindi, alla loro differente disponibilità temporale ed al non corretto apporto

energetico; inoltre, vi possono essere dei fattori antinutrizionali che limitano la

disponibilità delle fonti azotate dell’alimento. Soprattutto, nell’alimentazione dei

monogastrici, per massimizzare la quota di azoto trattenuto rispetto a quello ingerito

è utile:

- utilizzare la cosiddetta proteina ideale (pool di aminoacidi essenziali), peraltro,

considerando che gli aminoacidi rispetto alle proteine sono più digeribili (> 95%) e

che la disponibilità degli aminoacidi di sintesi non si abbia in momenti diversi

rispetto a quelli che si originano dalla degradazione delle proteine alimentari e ciò

può essere evitato con somministrazioni frazionate durante la giornata, alimentazione

ad libitum, aminoacidi a lento rilascio.

- le escrezioni azotate possono essere ridotte anche aumentando la digeribilità degli

alimenti (utilizzo di alimenti ad elevata digeribilità, trattamenti tecnologici e/o

enzimatici);

Nei ruminanti, per valutare il corretto fabbisogno proteico bisogna riferire

l’apporto proteico in termini di proteina digeribile a livello di intestino (PDI); per

favorire la sintesi proteica ruminale e l’assorbimento intestinale è necessario:

- somministrare quantità sufficienti di sostanza organica fermentescibile, un giusto

apporto di NH3, aminoacidi e peptidi, fornire all’animale attivatori delle

fermentazioni quali isoacidi e probiotici, somministrare principi nutritivi rumino

protetti (proteine, lipidi, aminoacidi); inoltre, bisogna considerare che i foraggi

devono essere di buona qualità ed è consigliabile l’alimentazione per fasi.

Il fosforo è un elemento fondamentale nella nutrizione animale, spesso, le

integrazioni suggerite risultano superiori del 40-45% rispetto ai reali fabbisogni e

possono interferire con la disponibilità di altri principi nutritivi come osservato in

polli e suini. All’elevata escrezione fosforica (50-80% del fosforo ingerito) concorre,

soprattutto, la bassa digeribilità (specie nei monogastrici, in quanto nei poligastrici il

P viene demolito dai microrganismi ruminali) del fosforo somministrato, la quale

può essere aumentata mediante:

a) uso di enzimi specifici (fitasi) che, indirettamente, aumentano anche la

disponibilità di altri minerali e di azoto;

b) macinazione più spinta degli ingredienti;

c) utilizzo di varietà a basso contenuto di fitati;

d) ricorso all’alimentazione per fasi.

Per quanto riguarda l’escrezione dei metalli pesanti (rame e zinco) il problema

riguarda soprattutto i suini, dove vengono utilizzati in dosi eccessive per sfruttarne

l’effetto auxinico e considerando la loro bassa disponibilità che è condizionata dal

tipo di sale impiegato e dalla presenza di agenti chelanti quali i fitati nonché dalla

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possibile interazione con altri minerali come osservato per il calcio. È possibile

ridurre l’apporto di questi elementi ricorrendo ad integrazioni con molecole

organiche ed inorganiche che presentino buone biodisponibilità, come osservato per

i solfati, carbonati e cloruri di rame e di zinco, la polvere metallica di zinco, la zinco-

metionina e delle forme chelate ad aminoacidi e peptidi. Non meno importante ai fini

di una maggiore ritenzione di nutrienti e, quindi, una minore loro escrezione è lo

sviluppo delle conoscenze sulle proprietà associative degli alimenti.

Negli ultimi decenni si sono registrati notevoli sviluppi nel campo dell'alimentazione

animale, sia per quanto riguarda la produzione e la lavorazione dei mangimi, sia per

quanto riguarda i controlli per garantirne la sicurezza e la corretta utilizzazione.

1.1.4 Alimentazione qualità e sicurezza dei prodotti animali

Gli alimenti di origine animale dovrebbero essere sicuri e, quindi, liberi da:

a) Antibiotici - Gli antibiotici vengono, comunemente, usati in campo zootecnico

per prevenire e curare le malattie batteriche nonché per favorire l'incremento

ponderale. È indispensabile che essi siano impiegati con la massima cautela e

quando sono effettivamente necessari, e mai nel periodo immediatamente precedente

la macellazione, in quanto eventuali residui negli alimenti (carne, latte, uova)

possono provocare patologie a carico del consumatore: a) modificazione della flora

microbica intestinale, b) fenomeni di ipersensibilità, c) induzione di ceppi microbici

antibiotico-resistenti, d) effetti tossici a carico di alcuni organi. Gli stessi

inconvenienti si possono verificare sull’animale stesso.

b) Estrogeni e tireostatici – Generalmente vengono utilizzati per migliorare

l’incremento ponderale. In Italia, l'art.1 del D.M. 15-1-1969 vieta per gli allevatori sia

la detenzione sia la somministrazione agli animali sotto qualsiasi forma delle

sostanze ad azione ormonale quali estrogeni, androgeni, progestativi e simili e delle

sostanze ad azione ormonale quali tireostatici (tiouracilici) e simili. Comunque, la

presenza di eventuali residui di estrogeni nella carne potrebbe essere eliminata

interrompendo la somministrazione almeno una settimana prima della macellazione,

in quanto gli estrogeni vengono completamente eliminati con le urine e le feci dopo

circa 72-90 ore.

c) Pesticidi – sono sostanze utilizzate per combattere animali dannosi e funghi e di

cui gli animali possono contaminarsi mediante i foraggi e le acque. La presenza negli

alimenti è legata alla loro solubilità ed alla loro biodegradabilità. Da un punto di

vista igienico-sanitario costituiscono un problema quelle sostanze (cloro-derivati) che

provocano la formazione di residui negli alimenti senza indurre negli animali

manifestazioni rilevabili e, quindi, suscettibili di sfuggire ai controlli usualmente

adottati. I residui nell’uomo possono provocare manifestazioni ad andamento

cronico: si accumulano e danno origine a patologie tumorali.

d) Altre sostanze - numerose altre sostanze che, pur non essendo direttamente od

esclusivamente impiegate in campo agro-zootecnico, possono rintracciarsi negli

alimenti come conseguenza di una contaminazione degli animali quali: metalli in

zone minerarie; sostanze riversate nell'ambiente come materiale di scarico oppure in

conseguenza di fenomeni accidentali.

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e) Agenti patogeni - Gli organi di controllo devono accertare anche che gli animali

non siano contaminati da agenti (germi), con diversi gradi di patogenicità per gli

animali, che sono capaci di moltiplicarsi e talvolta di elaborare tossine negli alimenti.

I prodotti contaminati possono provocare nel consumatore sindromi di gravità

diversa, ma sempre caratterizzate da evidenti disturbi gastro-enterici (tossinfezioni

alimentari o malattie alimentari acute). Fra questi vanno annoverati:

- Salmonelle: possono praticamente contaminare tutti gli alimenti di origine animale,

anche se i prodotti più spesso responsabili di tossinfezioni alimentari sono le carni (in

particolare di suino ed il pollame) le uova e derivati. Le salmonelle resistono bene ed

a lungo nei prodotti congelati; vengono uccise, invece, dai normali sistemi di

pasteurizzazione in quanto muoiono dopo 60' a 55°C e dopo 15-20' a 60°C.

- Escherichia coli: germe gram-negativo, asporigeno, aerobio, ospite abituale

dell'intestino dell'uomo e degli animali. Ha caratteristiche di resistenza agli agenti

chimici e fisici, sostanzialmente, sovrapponibili a quelle delle salmonelle. Alcuni

sierotipi sono enterotossici e, se ingeriti con gli alimenti, possono provocare una

forma morbosa a carattere gastroenterico. Praticamente tutti gli alimenti possono

essere contaminati da questo germe.

f) Tossine – in particolar modo le aflatossine le quali vengono legate all’insorgenza

di tumori. Le aflatossine sono di natura microbica (micotossine) prodotte da diverse

specie di muffe appartenenti al genere Aspergillus. Possono contaminare diversi

prodotti quali mais, grano, soia, normalmente usati nell’alimentazione del bestiame.

Generalmente, si sviluppano in particolari condizioni stressanti per le piante, come

l’alta temperatura accompagnata da elevato tasso di umidità e da scarsità di acqua e

da errate pratiche agronomiche, come un’inadeguata concimazione del terreno. La

contaminazione delle muffe, iniziata in campo, prosegue ed aumenta durante la

permanenza dei raccolti in magazzino e durante il trasporto e lo stoccaggio delle

derrate. Nel mais, ad esempio, le muffe generano l’aflatossina B1 (ad attività

cancerogena per gli animali e per l’uomo).

L’alimentazione di animali in lattazione con mais “inquinato” porta alla

trasformazione nel sistema digestivo dell’aflatossina B1 in aflatossina M1, che come

tale passa nel latte prodotto e può avere effetto cancerogeno se assunta in grosse dosi

e per tempi prolungati.

In Italia, il contenuto medio di aflatossina B1 in cereali e prodotti derivati è 7,6 ppb

(parti per bilione), mentre il limite CEE è di 2 ppb. Alcuni paesi come Belgio e

Germania hanno fissato il limite a 0,5 mentre l’Austria addirittura a 0,05 ppb. Per il

latte il limite dell’aflatossina M1 (meno pericolosa della B1) è di 50 ppb.

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Gli studi della comunità scientifica hanno riguardato, soprattutto, la specie bovina, la

quale produce la più grossa fetta del mercato di latte per uso diretto e per la

trasformazione. Tuttavia, alcuni studi hanno interessato anche gli ovini ed in uno di

questi è stato messo in evidenza come al crescere del livello produttivo degli animali

(maggiore ingestione di alimento contaminato da aflatossina B1), la concentrazione

nel latte e nel siero delle pecore di aflatossina M1 rimanga pressoché costante, mentre

nella cagliata tale concentrazione tenda ad aumentare, dimostrandosi, cioè, l’enorme

pericolosità non solo per il latte ma anche per i formaggi prodotti, a partire da latte

inquinato.

Gli alimenti oltre che sicuri devono essere di buona qualità (uova pigmentate, latte

ricco in grassi e proteine) e negli ultimi anni molte strategie alimentari vengono

adottate per migliorare le caratteristiche qualitative degli alimenti di origine animale.

Nei Paesi industrializzati, particolare attenzione è stata posta alla qualità in termini di

miglioramento della frazione lipidica. Infatti, bisogna considerare che una dieta ricca

in PUFA (acidi grassi polinsaturi) riduce i livelli di colesterolo ematico, diminuisce

l’incidenza di malattie cardiovascolari e di alcune forme di tumore, mentre, è

benefica per il sistema immunitario. L’arricchimento dei prodotti animali in PUFA

può essere ottenuto attraverso l’utilizzo di alimenti ricchi in CLA (acido linoleico

coniugato), quali erba fresca del pascolo (specie di collina), olio di pesce, olio di lino,

olio di oliva, cocco, girasole. Bisogna considerare, comunque, che nei ruminanti

adulti (rumine sviluppato) gli oli vengono degradati a livello ruminale e, quindi, è

necessario somministrarli sotto forma protetta (saponi) o mediante semi interi.

Relativamente alla carne, il suo arricchimento in PUFA da un lato rappresenta un

traguardo in termini nutrizionali, dall’altro la rende più suscettibile alla ossidazione

dei lipidi muscolari con conseguenze negative sul colore, sulla tenerezza, sapidità e

flavour; ciò, la rende poco gradita al consumatore. Un rimedio alla ossidazione

consiste nell’arricchire la carne stessa di antiossidanti (Vit. E, A, C, polifenoli,

estratti di rosmarino, finocchio selvatico, ecc.) che possono essere somministrati

direttamente agli animali oppure assunti dagli stessi attraverso l’erba del pascolo.

1..1.5 Principi alimentari

Gli alimenti sono quelle sostanze che ingerite dall’animale possono essere digerite,

assorbite ed utilizzate (principi nutritivi). Gli alimenti utilizzati per gli animali di

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interesse zootecnico sono costituiti per la maggior parte da vegetali (piante e prodotti

di piante) e in modesta quantità sono rappresentati da prodotti di origine animale

(latte, farina di pesce). Piante ed animali contengono analoghi tipi di sostanze

chimiche che possono essere così raggruppate:

Il contenuto in acqua nel corpo animale varia con l’età: l’animale giovane ne

contiene fino al 75-80%, quello adulto intorno al 50%.

La sostanza secca (SS) degli alimenti, generalmente, è distinta in organica e

inorganica ma va considerato che negli organismi viventi la distinzione non è netta;

infatti, molte sostanze organiche contengono elementi minerali (le proteine

contengono zolfo, alcuni glicidi e lipidi contengono fosforo). La maggior parte della

sostanza secca dei foraggi è costituita da carboidrati mentre alcuni semi (arachidi)

hanno un elevato contenuto in protidi e lipidi. La parete della cellula vegetale è di

natura glucidica (soprattutto cellulosio) mentre, le pareti delle cellule animali sono,

soprattutto, di natura proteica inoltre, mentre la maggiore riserva energetica delle

piante è rappresentata da carboidrati (amido, fruttosani) negli animali è data da

grasso il quale è, invece, relativamente basso nelle erbe (40-50 g/Kg S.S.). Le

proteine sono la maggiore componente azotata sia nelle piante sia negli animali: nelle

piante, le proteine si trovano soprattutto sotto forma di enzimi e sono maggiori nelle

piante giovani rispetto a quelle in via di maturazione, negli animali le proteine sono

presenti nei muscoli, pelle, peli, piume, lana e unghie.

Gli acidi nucleici sono sostanze che contengono azoto e svolgono un compito

fondamentale nella biosintesi proteica in tutti gli organismi viventi, oltre che essere

portatori delle informazioni genetiche alle cellule viventi.

Gli acidi organici maggiormente presenti nelle piante e negli animali sono l’acido

citrico, fumarico, succinico e piruvico, i quali rivestono un ruolo fondamentale nel

metabolismo intermedio. Altri acidi organici quali l’acetico, il propionico, il

butirrico, e il lattico sono prodotti nei processi di fermentazione ruminale e degli

insilati.

Per quanto riguarda le vitamine va detto che i vegetali sono in grado di sintetizzare

tutte le vitamine necessarie per i processi metabolici, mentre, gli animali hanno poteri

di sintesi più limitati e, quindi, è necessario che le assumono con l’alimento.

La sostanza inorganica comprende oltre a carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto altri

elementi inorganici che secondo il loro contenuto vanno sotto il nome di

macroelementi e microelementi.

I macroelementi maggiormente presenti negli animali sono calcio e fosforo mentre

nei vegetali troviamo, soprattutto, potassio e silicio.

1.2. Idrati di carbonio o glucidi

In media, costituiscono i tre quarti della S.S. dei vegetali. Derivano dalla fotosintesi

clorofilliana e sono utilizzati dagli animali per scopi energetici. Essi si possono

definire sostanze poliossidrilate di natura aldeica, chetonica, alcolica o acida, loro

semplici derivati e alcuni prodotti della loro idrolisi.

La composizione dei glucidi è rappresentata dalla formula bruta CnH2nOn dove

idrogeno e ossigeno si trovano nel rapporto stechiometrico dell’acqua. Essi si

distinguono in carboidrati propriamente detti e olosidi quando i prodotti della idrolisi

sono soltanto zuccheri; mentre, se accanto agli zuccheri sono liberate altre sostanze

organiche (autocianidi, terpeni, fenili, steroidi, solfocianati, ac. cianidrico) si hanno

gli eterosidi o glucosidi. I composti glucidici importanti per la nutrizione sono gli

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11

zuccheri e, soprattutto, alcuni olosidi di alta complessità, come l’amido e il

cellulosio.

Monosi - I monosaccaridi hanno formula CnH2nOn a funzione polialcolica e aldeica o

chetonica e caratterizzati nella struttura a catena aperta dalle formule generali:

CHO-(CHOH)n-CH2OH e CH2OH-CO-(CHOH)n-1_CH2OH

che corrispondono, rispettivamente, agli zuccheri denominati aldosi e chetosi. Si

ripartiscono, a secondo del numero di atomi di carbonio, in triosi, tetrosi, pentosi ed

esosi. Fra i triosi troviamo due composti importanti, l’aldeide glicerica CH2OH-

CHOH-CHO e il diossiacetone CH2OH-CO-CH2OH, i quali non sono presenti negli

alimenti, ma si formano durante il metabolismo. Molto diffusi sotto forma di olosidi

polimeri, sono i pentosi, zuccheri a 5 atomi di carbonio fra i quali si ricordano:

- lo xilosio che si ottiene per idrolisi prolungata a caldo dal legno, dalla paglia e dai

foraggi grossolani;

- l’arabinosio, che si ottiene dall’idrolisi di varie gomme;

- il ribosio, zucchero che entra nelle molecole di ADN e ARN; esso non si trova negli

alimenti, ma è sintetizzato dall’organismo nel corso del metabolismo glucidico.

Gli zuccheri più importanti per la chimica della nutrizione sono gli esosi, a 6 atomi di

carbonio. Essi possono trovarsi in due diverse forme stereisomere, a ciclo

pentagonale (furanici) od esagonale (piranico). Il glucosio è il membro più

importante del gruppo. Si trova in tutti i tessuti animali e vegetali verdi, nella frutta e

nel sangue. Ruota a destra di 52,5° il piano della luce polarizzata e, quindi, è detto

destrosio.

Il fruttosio, invece, è un chetoso che presenta una forma -piranosica stabile ed una

-furanosica particolarmente reattiva. Ruota la luce polarizzata di 92° a sinistra e

quindi è detto levulosio. Si trova nella frutta e nel miele.

Il galattosio non si trova allo stato libero ma come elemento della molecola del

lattosio e di alcuni polisaccaridi complessi. Nell’organismo animale entra, in

combinazione con una base azotata e con acidi grassi, nella costituzione dei

cerebrosidi del tessuto nervoso.

Biosi. I biosi o disaccaridi sono zuccheri generalmente dotati di proprietà riducenti,

che derivano dalla combinazione glucosidica di due molecole di zuccheri e

l’eliminazione di una di acqua. Quando il legame si stabilisce fra il C1 di una

molecola e il C4 di una seconda molecola il disaccaride conserva le proprietà

riducenti perché vi è ancora un ossidrile glucosidico libero, mentre quando il legame

interessa i due ossidrili glucosidici, come nel saccarosio, lo zucchero non è più

riduttore. I composti che hanno interesse per l’alimentazione sono i seguenti:

Saccarosio: è lo zucchero della canna e della barbabietola da zucchero e si trova

anche nelle carote, mais, carrube, sorgo. La sua molecola è costituita da glucosio e

fruttosio, legati fra loro mediante i gruppi glucosidici. Esso è scisso per idrolisi acida

o dall’azione dell’enzima invertasi o sucrasi che si trova nel succo enterico.

Maltosio - è uno zucchero riduttore di scarso potere dolcificante. Si ottiene

dall’amido per azione idrolitica di un enzima (diastasi), è contenuto nel malto di orzo

o nei semi in germinazione. Mediante idrolisi acida o enzimatica (maltasi del succo

intestinale o del lievito di birra) si scinde in due molecole di glucosio

(glucopiranosio) dei due isomeri e .

Lattosio - è lo zucchero del latte ed ha proprietà riducenti. E’ composto da una

molecola di glucosio e da una di galattosio, che si liberano mediante idrolisi

acida od enzimatica. Per fermentazione batterica da origine ad acido lattico.

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Nell’intestino promuove lo sviluppo di una flora acidofila che si oppone ai fenomeni

putrefattivi ed, inoltre, favorisce l’assorbimento del calcio e del fosforo.

Cellobiosio - E’ il disaccaride che si libera nel corso della fermentazione batterica

della cellulosa. E’ riducente e consta di due molecole di glucosio.

Poliosi o polisaccaridi. In questo gruppo troviamo le sostanze di più larga diffusione

nel regno vegetale. I pentosani sono polisaccaridi che per idrolisi con acidi diluiti

producono pentosi (soprattutto xilosio), trattati con HCl concentrato a caldo danno

furfurolo. Si trovano, soprattutto, nei fieni e nelle paglie, costituiscono fino al 20%

degli idrati di carbonio di questi alimenti. I polisaccaridi più diffusi nei foraggi e nei

semi sono, però, gli esosani, cioè polimeri di esosi, principalmente fruttosio e

glucosio, che si liberano mediante idrolisi acida o enzimatica (digestione). I

principali sono:

Amido - E’ il più importante carboidrato alimentare e costituisce la sostanza nutritiva

di riserva più diffusa delle piante. Si accumula, soprattutto, nei semi (700 g/Kg), nei

tuberi e nelle radici (300 g/Kg). Sottoposto ad idrolisi graduale, l’amido dà origine

prima a sostanze ad alto peso molecolare che formano soluzioni colloidali, le

destrine, poi a maltosio ed, infine, a glucosio secondo lo schema:

(C6H10O5)n + n-1(H2O) nC6H12O6

amido glucosio

L’amido è formato da una mescolatura di due polisaccaridi aventi proprietà e natura

chimica diverse:

1) l’amilosio, solubile in acqua fredda, idrolizzabile rapidamente in maltosio, che si

colora con lo iodio in azzurro cupo e forma la parte centrale dei granuli;

2) l’amilopectina, si scioglie solo in acqua calda.

3) l’inulina è il polisaccaride di riserva della famiglia delle composite e si estrae,

specialmente, dai tuberi di dalia, di topinambur o dai carciofi.

4) il glicogeno è il polisaccaride dei tessuti animali.

1.2.2 Metabolismo degli idrati di carbonio

I monosaccaridi contenuti negli alimenti sono assorbiti come tali. I di e i

polisaccaridi subiscono, invece, la scissione idrolitica per azione di enzimi contenuti

nella saliva e nei succhi pancreatico ed intestinale (amilasi, maltasi, lattasi, sucrasi), e

sono, pertanto, ridotti a monosaccaridi che sono assorbiti attraverso la mucosa

intestinale, passando con la circolazione portale al fegato, e da questo alla

circolazione generale. Il principale prodotto proveniente dalla digestione dei

carboidrati è il glucosio, meno diffuso il fruttosio; mentre, negli animali lattanti

passano nella circolazione glucosio e galattosio in quantità equimolecolari.

Quanto alla cellulosa, è noto che questa non subisce alcun attacco idrolitico da

parte degli enzimi dei succhi digerenti, ma viene bensì scissa in un processo di vera e

propria fermentazione da numerosi microrganismi presenti nel rumine e negli altri

prestomaci dei ruminanti e nell’intestino cieco degli erbivori monogastrici. I prodotti

finali di questo processo fermentativo sono rappresentati da acidi grassi volatili

(acetico, butirrico, propionico) e da gas di fermentazione (metano e CO2).

Il metabolismo degli idrati di carboni comprende:

- anabolismo: comprende tutti quei processi che portano alla biosintesi degli

zuccheri stessi. La sintesi del glucosio è effettuata partendo da precursori più

semplici quali l'acido piruvico, l'acido lattico e gli aminoacidi: tale processo è detto

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13

gluconeogenesi. Dal glucosio sintetizzato o assorbito per via intestinale si forma per

polimerizzazione il glicogeno che si deposita soprattutto nel fegato e nel tessuto

muscolare striato

Utilizzazione glucidi nei ruminanti

RUMINE

MICRORGANISMI

RUMINALI

INTESTINO TENUE

ENZIMI PANCREATICI

(AMILOPSINA)

ENZIMI ENTERICI

(MALTASI, SACCARASI)

SANGUE

FEGATO

TESSUTI

MONOSACCARIDI

POLISACCARIDI

FIBRA

CO2, CH4

AGV:

AC. LATTICO

AC. PROPIONICO

AC. ACETICO

AC. BUTIRRICO

MONOSACCARIDI

Bocca

(Eruttazione)

. La sintesi di glicogeno è sotto l'influenza di fattori enzimatici ed ormonali. Tra gli

ormoni assumono notevole importanza:

- l'insulina: inducendo la polimerizzazione del glucosio ematico in glicogeno, ha

effetto ipoglicemizzante:

- glucagone: stimolando la mobilizzazione del glucosio dalle riserve epatiche ha

effetto iperglicemizzante.

Altro processo legato all'anabolismo dei glucidi è la lipogenesi, cioè la formazione di

grasso di deposito, che si forma quando l'apporto di carboidrati alimentari supera i

fabbisogni energetici dell'organismo; è su questo fenomeno, vista l'abbondanza di

carboidrati e la scarsezza di lipidi nelle diete degli animali, che si basa

l'ingrassamento. Il glucosio in eccesso è trasformato prima in acetil-CoA e

successivamente in acidi grassi; questi per esterificazione con il glicerolo, danno

origine ai trigliceridi che si depositano nel tessuto adiposo.

- Catabolismo: in questa fase i carboidrati sono utilizzati dall'organismo per

ottenere l'energia necessaria allo svolgimento di tutti i processi vitali e produttivi.

Tale via prende il nome di glicolisi e si compone di due fasi:

- anaerobica che si svolge in assenza di ossigeno in cui il glucosio dopo la

fosforilazione e successivi processi di scissione è trasformato in acido piruvico ed

acido lattico;

- aerobica in cui l'acido piruvico può essere utilizzato per la sintesi dei lipidi o può,

invece, andare incontro a demolizione totale, attraverso il ciclo di Krebs, con

produzione di CO2, H2O ed energia

1.3 Protidi

Le proteine o protidi sono sostanze quaternarie contenenti C (51-55%), O (21,5-

23,5%), H (6,5-7,3%), N (15,5-18%) e piccole quantità di S (0,1-2,5%) e/o P (0-

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1,5%), ma in alcune possono essere contenute tracce di Fe, Cu e Zn. Esse sono i

costituenti essenziali del protoplasma e del nucleo di tutte le cellule, rappresentando,

in volume, la metà del corpo (umano) e in peso in media il 16%. Oltre alla funzione

plastica esplicano quella catalitica (enzimi) regolando le reazioni chimiche che si

svolgono nella cellula.

Dal punto di vista nutrizionale concorrono in maggior misura, rispetto agli altri

elementi nutritivi, a plasmare l'organismo e a fornire il materiale per le produzioni

(latte, uova, lana, ecc.) e sono quelle che hanno il maggiore valore venale e, quindi, il

loro contenuto quantitativo definisce spesso il prezzo degli alimenti. Le proteine

alimentari adempiono dunque alle seguenti funzioni:

- formazione della sostanza vivente ed accrescimento dell'organismo;

- riparazione dell'usura dei tessuti e degli organi;

- sintesi delle proteine contenute nei secreti (latte) e in altre produzioni (uova, lana),

delle proteine del plasma, degli enzimi e dei vari ormoni;

- formazione di glucosio e glicogeno, dal quale l'organismo può ricavare l'energia

necessaria ai vari processi fisiologici, al lavoro muscolare, o può trasformare in

grasso di deposito;

- ossidazione dei chetoacidi o di altre sostanze originatesi durante il metabolismo,

con produzione di energia. Quindi, gli animali hanno bisogno, attraverso

l'alimentazione, di una quantità almeno minima di proteine (minimo proteico

assoluto) al fine di ristabilire il bilancio energetico alterato a seguito del consumo che

i tessuti subiscono durante le attività vitali.

Mediante idrolisi chimica od enzimatica delle proteine si liberano sostanze colloidali

ad alto peso molecolare (peptoni e polipeptidi) da cui successivamente si ricavano

miscele di composti cristalloidi, solubili e dotati di attività ottica; questi sono gli

aminoacidi ormai noti come i costituenti chimici delle molecole proteiche. Gli

aminoacidi conosciuti sono numerosi ma frequentemente se ne riscontrano solo 23

negli idrolisati delle proteine degli alimenti. Le complesse molecole proteiche

presenti nei tessuti e nei liquidi circolanti, nei vegetali ed animali, sono tutte formate

da un numero molto elevato di uno o differenti aminoacidi e quindi i circa 20

aminoacidi esistenti in natura combinandosi tra loro possono dare origine ad un

numero elevatissimo di proteine, ognuna con caratteristiche proprie. Gli aminoacidi

sono caratterizzati dall’avere un gruppo basico azotato, generalmente un

aminogruppo (-NH2) ed un gruppo carbossilico acido (-COOH). La maggior parte

degli aminoacidi che si trova nelle proteine naturali sono di tipo hanno cioè

l'aminogruppo legato all'atomo di carbonio adiacente al gruppo carbossilico;

possiedono quindi la seguente formula generale:

NH2 R-CH2-CH2-CH-COOH R-CH2-CH-CH2-COOH

| | |

R-C-H NH2 NH2

| -aminoacido -aminoacido

COOH

COOH COOH

| |

H2N-C-H H-C-NH2

| |

R R

L-aminoacido D-aminoacido

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15

Fa eccezione la prolina che ha un iminogruppo (NH), invece di un gruppo amminico

Essi si ottengono dall’idrolisi delle proteine, sia per via enzimatica sia con acidi o

alcali. Dal materiale biologico sono stati isolati oltre 200 aminoacidi ma solo una

ventina sono comunemente presenti nelle proteine.

I vegetali sintetizzano i protidi da composti chimici inorganici, gli animali, invece, li

devono ricevere preformati con l'alimentazione. Dei 23 aminoacidi che possono

costituire le più diverse proteine circa 13 (aminoacidi non essenziali o

biosintetizzabili) possono essere sintetizzati dall'organismo animale, partendo anche

da substrati non proteici, gli altri 10-12 (essenziali o abiosintetici) devono essere loro

somministrati in quanto non sintetizzabili. Ciò è valido, soprattutto, per i

monogastrici, in quanto i poligastrici ed il cavallo attraverso la flora microbica

dell'apparato digerente, sono in grado di sintetizzare anche questi ultimi 10-12.

L'essenzialità degli aminoacidi non riguarda tutte le specie, condizioni alimentari e

produttive del soggetto, né le diverse età dello stesso. Secondo Rose sono:

- aminoacidi essenziali: arginina, lisina, istidina, valina, leucina, isoleucina,

fenilalanina, treonina, metionina, triptofano e tirosina;

- aminoacidi non essenziali: acido aspartico, acido glutammico, acido

idrossiglutammico, glicina, alanina, norleucina, serina, cistina, cisteina, prolina,

idrossiprolina e diodotirosina.

Mentre, Mazza da un punto di vista organistico li classifica in :

- aminoacidi atti al mantenimento: glicina, alanina, leucina, subordinatamente acido

aspartico e acido glutammico;

- aminoacidi atti all'accrescimento: arginina, lisina, metionina, cistina;

- aminoacidi atti alla differenziazione: fenilalanina, tirosina, triptofano, e

subordinatamente istidina e prolina.

Le proteine si dividono in:

- semplici (oloproteine) le quali se sottoposte ad idrolisi danno solo aminoacidi; fra

esse ricordiamo le protamine che si trovano nello sperma dei pesci, gli istoni presenti

negli eritrociti degli uccelli, le prolamine diffuse nei semi dei cereali, le gluteine

presenti nel glutine del frumento, le albumine diffuse nel latte, nel siero, nell'uovo,

nei vegetali, le globuline presenti nel plasma sanguigno;

- coniugate o complesse (eteroproteine): oltre agli aminoacidi contengono altre

sostanze chimiche denominate gruppi prosteici delle proteine stesse. Le proteine

coniugate più importanti sono: fosfoprotidi presenti nella caseina del latte e nel rosso

d'uovo (ovovitellina), cromoprotidi presente nell'emoglobina del sangue, glicoprotidi

che si trovano nel tessuto connettivo e cartilagineo, nucleoprotidi presenti negli acidi

nucleinici.

In funzione della loro struttura le proteine sono distinte in:

- fibrose formate da catene polipeptidiche disposte parallelamente a formare lunghe

fibre; sono insolubili e formano gli elementi strutturali di base del tessuto connettivo

degli animali superiori; alcuni esempi sono dati da: collagene dei tendini e del tessuto

osseo, l'-cheratina dei capelli, delle corna, della pelle e delle penne e l'elastina del

tessuto connettivo elastico;

- globulari: costituite da più catene polipeptidiche avvolte a formare strutture sferiche

solubili in acqua; generalmente svolgono ruoli dinamici negli enzimi, negli anticorpi,

in alcuni ormoni e in molte proteine con funzione di trasporto quali l'albumina serica

e l'emoglobina.

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1.3.1 Disponibilità di aminoacidi

La maggior parte delle materie prime ricche in proteine, prima del loro

impiego, sono sottoposte a trattamenti quali quelli termici che hanno una certa azione

sulle proteine. Le farine proteiche di origine animale, come quelle di pesce o di carne,

sono sottoposte ad elevate temperature per inattivare i microrganismi e separare una

certa quota di grasso. Nella farina di soia, all’estrazione di olio segue la tostatura per

inattivare la maggior parte dei fattori antinutrizionali presenti. Questi processi

determinano, secondo la loro durata e la temperatura utilizzata, una riduzione della

digeribilità delle proteine. I gruppi amminici della lisina interagiscono con

formazione di legami incrociati i quali ostacolano l’accesso degli enzimi digestivi

all’interno della molecola proteica. La formazione di legame fra lisina ed alcuni

carboidrati porta alla sintesi di composti resistenti all’attacco enzimatico (reazione di

Maillard). Anche gli aminoacidi solforati (metionina, cistina) possono essere alterati

dal calore. In presenza di agenti ossidanti (perossidi dai grassi) si può avere la sintesi

di composti poco utilizzabili. Quindi, gli aminoacidi presenti in un dato alimento

possono andare incontro ad una riduzione della loro disponibilità che dipende dalla

natura della proteina e dal tipo di trattamento. Mentre un latte scremato disidratato

con cura e di ottima qualità presenta una disponibilità della lisina di circa il 100%, il

corrispondente valore nella farina di carne ed ossa, nella farina di piume o nel mais

sottoposti a brusca disidratazione può scendere al 60-70%. Invece, gli aminoacidi di

produzione industriale sono sempre disponibili totalmente. Da anni si è alla ricerca di

un metodo pratico in grado di misurare la quota disponibile degli aminoacidi, in

primo luogo della lisina ma, ancora oggi, non è disponibile un metodo rapido per la

determinazione della qualità delle proteine. A causa della variabilità nella

disponibilità degli aminoacidi nei singoli alimenti non è ancora stato stabilito se nella

formulazione dei mangimi, i calcoli debbano essere riferiti al contenuto totale dei

singoli aminoacidi o alla loro quota disponibile. In ogni caso, alcune tavole riportano

la quota disponibile ma, considerando che l’esatta valutazione della disponibilità

presenta delle difficoltà e che vi sono delle differenze anche nell’ambito della stessa

materia prima in funzione della sua origine, nella formulazione si prende ancora in

considerazione il contenuto totale in aminoacidi. Una stima della disponibilità degli

aminoacidi può essere utile per interpretare i risultati produttivi in sede di

allevamento. Considerando che, gli aminoacidi sintetici sono completamente

disponibili, essi possono essere sempre considerati nella loro totalità.

1.3.2. Utilizzazione e metabolismo delle proteine

Le proteine alimentari subiscono nell'apparato digerente una serie di attacchi

enzimatici e, quindi, sono idrolizzate ad aminoacidi i quali sono assorbiti dai villi

intestinali, entrano nel flusso sanguigno portale, giungono al fegato dove avviene

gran parte del metabolismo degli aminoacidi, compresa la loro degradazione.

La digestione vera e propria inizia nello stomaco, ma nei ruminanti le proteine

subiscono una forte proteolisi già nel rumine ad opera dei microrganismi ruminali.

Nel succo gastrico, il principale enzima proteolitico è la pepsina, secreta sotto forma

di pepsinogeno inattivo; la sua azione avviene in ambiente fortemente acido (pH =

1,5-2) ad opera della pepsina stessa. Questo enzima riduce gran parte delle proteine

in polipeptidi e in pochi aminoacidi liberi.

L'attività proteolitica prosegue nell'intestino tenue dove viene riversato il succo

pancreatico contenente gli enzimi tripsinogeno, chemiotripsinogeno e

carbossipeptidasi.

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17

Utilizzazione azoto nei ruminanti

Proteine

Carboidrati

Urea

100%

30-40%

60-70%

Ureasi

microbiche

Enzimi

microbici

Degradazione

Microbica

Saliva

Ru

min

e

Urea Ammoniaca Chetoacidi Aminoacidi

Proteine

microbiche

Abomaso e intestino

Proteine

microbiche

Proteine

alimentari

Enzimi

digestivi

Aminoacidi

Sangue Fegato

Ammoniaca

Aminoacidi

Urea

Aminoacidi

Ammoniaca

Urea

Apparato

urinario

Urea

Proteine di: latte, enzimi,

ormoni, ecc.

Il tripsinogeno viene attivato in tripsina dalla enterochinasi (enzima duodenale) e a

sua volta attiva il chemiotripsinogeno in chemiotripsina. Le proteasi pancreatiche

idrolizzano i polipeptidi in peptidi di piccole dimensione e in aminoacidi liberi. La

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degradazione dei peptidi viene poi completata dalle peptidasi prodotte dalla mucosa

intestinale.

La fase anabolica del metabolismo proteico è caratterizzata da tutti quei processi di

sintesi che avvengono utilizzando gli aminoacidi assorbiti: ricambio proteico,

costruzione di altre strutture cellulari, sintesi di proteine plasmatiche, ormoni,

enzimi, ecc.. La fase catabolica degli aminoacidi consente l'utilizzazione di questi

per la produzione di acido piruvico, acido chetoglutarico e acetati.

Tali metaboliti possono fornire energia (4,1 Kcal/g) oppure essere accumulati sotto

forma di glicogeno e grasso. I processi di deaminazione e di transaminazione sono

molto importanti in quanto permettono, rispettivamente, la liberazione di ammoniaca

dall'aminoacido e la sintesi di altri aminoacidi. Gran parte dell'ammoniaca viene

recuperata, la rimanente viene escreta sotto forma di urea, ammoniaca e acido urico.

Da un punto di vista di eliminazione dell'ammoniaca gli animali si distinguono in:

- ureotelici (vertebrati terrestri): eliminazione dell'azoto amminico sotto forma di

urea;

- ammoniotelici (animali acquatici): eliminano ammoniaca;

- uricotelici (uccelli e rettili terrestri): bevono poca acqua, eliminano azoto in forma

semisolida come sospensioni di acido urico.

Il metabolismo proteico globale negli animali in accrescimento è formato da due

quote distinte:

a) azoto assorbito = quantità di N trattenuto dall'organismo e trasformato in tessuti.

N assorbito = N da alimenti - N di escreti solidi.

c) azoto urinario = quantità di N eliminato giornalmente con le urine; negli animali

giovani esso è inferiore a quello assorbito perché una parte è trasformata in tessuti di

neoformazione; negli animali adulti, non in produzione, la quantità di azoto assorbito

eguaglia quella eliminata con le urine.

1.3.3 Valore biologico delle proteine

Rappresenta il rendimento di utilizzazione di una proteina: si ottiene dal

rapporto fra azoto trattenuto dall'organismo animale e quello effettivamente assorbito

ed è espresso in percentuale.

Ogni proteina è in grado di fornire, all'organismo dell'animale che la assume, un

differente complesso di aminoacidi che sono propri della costituzione della proteina

stessa. Dalla quantità e qualità di questi aminoacidi e dalla presenza o meno di alcuni

di essi, considerati essenziali, dipende il valore della proteina e la sua, più o meno

consistente, partecipazione al metabolismo animale e ai processi di sintesi e di

accrescimento od energetici dell'organismo e, quindi, il suo rendimento. Affermando

che il valore biologico della proteina del latte di vacca è di 90, nei riguardi

dell'accrescimento dei ratti, significa che il 90% dell'azoto contenuto nelle proteine

digeribili di questo alimento viene impiegato dall'organismo per la sintesi delle sue

proteine cellulari e il conseguente accrescimento. In generale, il valore biologico

delle proteine animali è superiore a quello delle proteine vegetali e ciò perché sono

più simili a quelle che costituiscono l'organismo animale. Praticamente, la stima del

valore biologico delle proteine si basa: a) sul controllo degli incrementi del peso vivo

di animali da laboratorio cui sono somministrate determinate quantità di proteina da

valutare o b) sostituendo una proteina di cui si conosce il valore biologico con una da

valutare e, infine, c) ponendo a confronto gruppi di animali con dieta apoproteica con

altri ai quali sono somministrati precisi quantitativi di proteina da valutare.

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19

1.3.4. Azoto non proteico e proteine sintetiche

Tra le sostanze contenute dagli alimenti o aggiunte agli stessi sono comprese

quelle che contengono azoto ma che si differenziano dalle proteine e, quindi, sono

dette sostanze azotate non proteiche, comunemente, indicate con la sigla NPN (Non

Protein Nitrogen). Tra esse ricordiamo, soprattutto, l'urea o carbammide - CO(NH2)2

-, sali di ammonio, biureto. L'urea viene impiegata nell'alimentazione dei ruminanti

in parziale sostituzione delle proteine. I microrganismi del rumine, mediante l’ureasi,

la trasformano in CO2 e ammoniaca; quest'ultima, nel metabolismo batterico viene

trasferita nei chetoacidi che vengono impiegati nelle sintesi proteiche cellulari dei

batteri del rumine. Le sostanze azotate non proteiche sono usate per ridurre i costi di

alimentazione senza sacrificare l'apporto proteico.

Negli ultimi anni si stanno sperimentando tecniche per la produzione sintetica di

proteine unicellulari partendo da idrocarburi paraffinici per la preparazione di

biomasse di natura fermentativa in cui i lieviti del genere Candida, Torulopsis,

Rhodotorula sono in grado di dare concentrati ricchi di aminoacidi (bioproteine).

Analoghi risultati sono stati ottenuti con l'utilizzo di particolari lieviti (Torula) su

substrati provenienti da residui solfitici della lavorazione della cellulosa.

Vanno aggiunti i solubili secchi di distilleria, residuati dalla distillazione dell'alcol

ottenuto mediante saccarificazione dell'amido dei vari cereali e successiva

fermentazione dei mosti. Sono ricchi di enzimi, vitamina B, e "fattori sconosciuti di

crescita" e contengono il 28-30% di proteina grezza. Dal melasso, dopo la

lavorazione per l’estrazione dell'acido glutammico si ricava un "concentrato proteico

di bietola", con sapore acidulo-salino e un contenuto in proteine del 30%.

Recentemente sono entrati in uso i proteolisati, in altre parole miscele di aminoacidi

atti a bilanciare la dieta alimentare in aminoacidi puri, apportando quelli necessari

per realizzare il rapporto ottimale per la maggiore utilizzazione dell'azoto alimentare.

Tenuto conto della scarsezza delle proteine convenzionali e del loro costo elevato è

opportuno per quanto sia possibile sostituirle con i proteolisati.

L'Aghina distingue gli alimenti azotati in due categorie:

- proteine plus (PP): comprendono quelle convenzionali quali la soia per i volatili e i

suini; la colza, il girasole e il lino per i ruminanti svezzati; il latte in polvere per

l'avviamento dei mammiferi; il pesce e la carne per quello delle specie avicole,

carnivore ed ittiche. Le proteine PP sono difficilmente sostituibili nelle formule per

mangimi destinati ai monogastrici, ma non altrettanto per i poligastrici.

- proteine risparmio (PR): sono rappresentate dalle proteine unicellulari per i

monogastrici e dall'azoto non proteico per i ruminanti dopo lo svezzamento e dagli

aminoacidi di sintesi per tutte le specie e per tutte le categorie di animali.

1.3.5 Proteine by-pass

Le fermentazioni ruminali, fondamentali nell'economia alimentare dei

poligastrici, sono fonte di notevoli complicazioni per l'utilizzazione delle proteine

soprattutto per gli animali ad elevate produzioni di latte e particolarmente all'inizio

della lattazione. La fisiologia digestiva dei poligastrici fa si che il rendimento

alimentare delle proteine sia notevolmente più basso di quello ottenibile con la

digestione diretta (intestinale) dei monogastrici. Il fabbisogno proteico è soddisfatto

nei ruminanti, in ragione del 30% dagli apporti alimentari, mentre la restante parte è

fornita dalle proteine citoplasmatiche sintetizzate dalla micropopolazione ruminale.

Tali microrganismi elaborano proprie proteine utilizzando prevalentemente,

attraverso reazioni di deaminazione, l'azoto contenuto negli aminoacidi di origine

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alimentare, in presenza di adeguate quantità di energia; generalmente si ottengono 22

g di proteine microbiche per ogni 100 g di sostanza organica fermentescibile. La

quantità totale di proteine disponibili per l'organismo animale risulta, tuttavia,

insufficiente per produzioni di latte superiori a 25 litri/giorno. Premesso che, tutte le

proteine alimentari subiscono processi fermentativi ruminali, il grado di

fermentescibilità varia in funzione di numerosi fattori quali il tempo di permanenza

degli alimenti nel rumine, la presenza di sufficienti quantità di energia nella dieta, lo

stato fisico dell'alimento. Anche razioni ad elevato contenuto energetico, 0,9 U.F./kg

SS con tasso proteico grezzo del 13% su S.S., che, peraltro, rappresenta il livello

proteico ottimale di utilizzazione, non riescono a coprire integralmente il fabbisogno

di composti azotati in bovine con forti produzioni. D'altra parte, l'innalzamento del

contenuto proteico della razione può determinare, se non è accompagnato da un

aumento proporzionale di energia, indispensabile per la sintesi microbica, un

incremento del livello ruminale di ammoniaca, con possibile pericolo di alcalosi

ruminale.

Da qui l'esigenza di utilizzare sostanze proteiche, le cosiddette proteine by-pass, che

passando indenni attraverso il rumine, si rendono completamente disponibili per

l'organismo attraverso le digestione a livello di intestino tenue. In questo modo si

soddisfano le necessità proteiche dell'animale senza, peraltro, dover aumentare il

contenuto energetico della razione. Per oltrepassare il rumine senza subire

fermentazioni, le proteine by-pass possono essere sottoposte a particolari trattamenti,

tra cui i più diffusi si basano sull'impiego del calore, uso di tannini, sostanze

chimiche particolari. Inoltre, bisogna ricordare che in alcuni alimenti (glutine di mais,

medica disidratata, farina di sangue, farina di carne) sono presenti buone percentuali

di proteine che naturalmente sono dotate di questa proprietà; mentre, le proteine della

farina di soia, del melasso, della farina di arachide e di girasole sono tra quelle che

subiscono la maggiore degradabilità (100-70%). Il trattamento termico riduce la

solubilità delle proteine nel rumine, un eccesso di calore può però diminuire la

digeribilità intestinale delle proteine o denaturare alcuni aminoacidi (lisina, cistina). I

tannini sono sostanze che si aggregano con le proteine limitandone la solubilità

ruminale; non è, comunque, ancora chiaro se compromettono l'utilizzazione proteica

anche a livello intestinale. L'uso di sostanze chimiche, soprattutto formaldeide (1-2

g/100 g proteina) si basa sul principio che la reazione tra formaldeide e proteina

diventa reversibile in ambiente fortemente acido, perciò, a livello gastrico le proteine

vengono liberate e si rendono disponibili per la digestione. Il concetto di proteggere

le strutture proteiche dalle fermentazioni ruminali si è recentemente esteso anche ai

singoli aminoacidi come la metionina, poco presente nelle proteine sintetizzate dai

microrganismi, la cui carenza costituisce sicuramente un fattore limitante nella

produzione del latte nelle grandi lattifere. L'uso di proteine e di aminoacidi by-pass

rimane a tutt'oggi conveniente per l'integrazione alimentare di razioni già complete

dal punto di vista energetico, destinate a bovine ad elevata produzione.

1.4 Lipidi

I lipidi costituiscono un grosso ed eterogeneo gruppo di sostanze organiche che,

composte da C, H e O, possiedono la comune caratteristica di essere solubili nei

solventi organici apolari come il cloroformio, l'acetone, gli eteri, alcuni alcol ed il

benzene. Oltre ad essere alimenti energetici per eccellenza (9,3 Kcal/g rispetto alle

4,1 dei glucidi e delle proteine), svolgono diverse funzioni fisiologiche: entrano a far

parte della membrana citoplasmatica dove partecipano al riconoscimento selettivo

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delle sostanze da filtrare, alcuni di essi esercitano particolari attività biologiche sotto

forma di vitamine ed ormoni. Essi vengono distinti in semplici e complessi.

- Lipidi complessi (grassi, oli, fosfolipidi, glicolipidi e le cere): contengono acidi

grassi; sono saponificabili in quanto formano per idrolisi alcalina, sali di acidi grassi;

si differenziano per la struttura della molecola a cui si legano gli acidi grassi.

Chimicamente, i grassi e gli oli sono molto simili, infatti vengono, comunemente,

entrambi chiamati grassi o gliceridi; si differenziano però per lo stato fisico a

temperatura ambiente che è solido per i primi e liquido per i secondi. I grassi sono

costituiti da acidi grassi a lunga catena, il cui unico gruppo carbossilico è esterificato

da un gruppo ossidrile del glicerolo, un alcol trivalente: i composti che si ottengono

vengono detti trigliceridi. Gli acidi grassi differiscono fra loro principalmente per la

lunghezza della catena e per numero e posizione dei legami insaturi.

Gli acidi grassi linoleico e linolenico sono definiti essenziali in quanto, non potendo

essere sintetizzati dall'organismo animale, devono essere somministrati con gli

alimenti; l'acido linoleico costituisce il precursore dell'acido arachidonico, assente nei

tessuti vegetali. Gli acidi grassi essenziali sono i precursori di un gruppo di sostanze

ormonosimili, le prostaglandine, le quali vengono sintetizzate nelle cellule bersaglio

degli ormoni e servono a modulare le risposte metaboliche di queste cellule agli

ormoni stessi. I grassi costituiti da acidi grassi insaturi possono subire l'ossidazione

dei legami etilenici che determinano un aumento della viscosità del liquido. Se il

processo di ossidazione è prolungato si formano i perossidi e derivati chetonici e,

quindi, l'irrancidimento dei grassi con alterazione delle proprietà organolettiche e

nutrizionali. Il fenomeno può essere evitato aggiungendo ai grassi sostanze

antiossidanti (fenoli, polifenoli, tocoferoli). I fosfolipidi costituiscono i componenti

fondamentali delle membrane cellulari; in essi uno dei gruppi ossidrilici del glicerolo

è esterificato dall'acido fosforico, mentre negli altri due da acidi grassi; si

differenziano per il tipo di acidi grassi e per le caratteristiche del componente legato

al fosfato. Ai fosfolipidi appartengono: le lecitine presenti nel tuorlo d'uovo, nel

fegato, nel tessuto nervoso, nella soia, e le cefaline presenti nel tessuto nervoso.

Si riportano di seguito alcuni acidi grassi naturali:

- acidi grassi saturi: Punto fusione

C3H7COOH Butirrico - 7,9

CH3(CH2)10COOH Laurico 43,9

CH3(CH2)12COOH Miristico 54,1

CH3(CH2)14COOH Palmitico 62,7

CH3(CH2)16COOH Stearico 69,6

CH3(CH2)18COOH Arachico 76,3

- acidi grassi insaturi:

CH3(CH2)5CH=CH(CH2)7COOH Palmitoleico 0

CH3(CH2)7CH=CH(CH2)7COOH Oleico 13

CH3(CH2)4CH=CHCH2CH=CH(CH2)7COOH Linoleico -5

CH3CH2CH=CHCH2CH=CHCH2CH=CH(CH2)7COOH Linolenico - 14,5

CH3(CH2)4CH=CH(CH)2)3CH=CH(CH2)3COOH Arachidonico - 49,5

I glicolipidi contengono, oltre a due acidi grassi, anche uno zucchero; costituiscono

circa l’80% della frazione lipidica dei cloroplasti delle piante superiori, sono inoltre

diffusi nel cervello, nel fegato, nei reni.

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- Lipidi semplici: non contengono acidi grassi e di conseguenza non sono

saponificabili; sono presenti nelle cellule in quantità minima, ma comprendono molte

sostanze ad elevata attività biologica come alcune vitamine ed ormoni. Appartengono

a questo gruppo i terpeni e gli steroidi.

I terpeni sono costituiti da multipli dell'isoprene, idrocarburo a 5 atomi di carbonio

(2-metil-1,3-butadiene); possono essere a struttura ciclica o lineare. I terpeni

costituiscono la componente aromatica di molti oli essenziali vegetali. Tra i terpeni

superiori ritroviamo i carotenoidi e le vitamine liposolubili A, E, K.

Gli steroidi sono sostanze con struttura di base tetraciclica. Il composto di maggiore

diffusione nei tessuti animali è il colesterolo, precursore di altri steroidi come gli

acidi biliari, il progesterone, gli estrogeni, gli androgeni, gli ormoni della corteccia

surrenale e il 7-deidrocolesterolo o provitamina D. Nei tessuti vegetali sono presenti

in differenti forme che prendono, complessivamente, il nome di fitosteroli. Tra questi

assume particolare importanza l'ergosterolo in quanto precursore della vitamina D2.

1.4.1. Utilizzazione e metabolismo dei lipidi

I grassi, pur presenti in quantità limitate negli alimenti, assumono un ruolo

fondamentale in quanto hanno funzioni energetiche e metaboliche. Nei poligastrici

subiscono un primo attacco enzimatico ad opera della popolazione batterica

simbionte; si verifica così l'idrolisi dei trigliceridi, dei galattolipidi, dei fosfolipidi e

degli steroidi con formazione di glicerolo, galattosio, basi azotate, fosfati, steroli e

acidi grassi liberi. A questa attività lipolitica partecipano anche i protozoi che,

inglobando i cloroplasti, digeriscono i lipidi di cui sono molto ricchi.

Successivamente gli acidi grassi insaturi vengono idrogenati dagli enzimi prodotti dai

batteri e dai protozoi.

Nello stomaco ghiandolare, sia dei monogastrici sia dei poligastrici, l'azione

lipolitica viene svolta dalla lipasi gastrica; tale enzima però manifesta una blanda

attività, soprattutto, a causa dell'ambiente fortemente acido. La digestione vera e

propria dei lipidi avviene nell'intestino tenue ad opera delle lipasi sia pancreatiche sia

enteriche. L'attività di tali enzimi è esaltata dall'ambiente basico e dalla presenza dei

sali biliari che, con la loro azione detergente, abbassano la tensione superficiale dei

grassi e ne favoriscono l'emulsionamento. L'idrolisi dei grassi porta alla formazione

prevalentemente di monogliceridi ed acidi grassi liberi. Gli acidi grassi a catena corta

(≤ 10-12 atomi C) ed il glicerolo passano nel circolo sanguigno portale, mentre quelli

a lunga catena ed i monogliceridi vengono riesterificati e, sotto forma di trigliceridi,

entrano nei capillari linfatici.

Il metabolismo intermedio dei lipidi si compone di una fase anabolica e di una fase

catabolica. Nella fase anabolica avviene la sintesi dei lipidi per riesterificazione di

alcol con acidi grassi provenienti o dall'idrolisi dei grassi alimentari o dal

metabolismo di zuccheri e proteine.

I grassi presenti nell'organismo animale possono essere distinti in grassi d'organo e

grassi di riserva. I grassi d'organo sono tutte quelle strutture molecolari che

partecipano alla formazione del protoplasma cellulare, delle membrane cellulari,

degli ormoni e delle vitamine; la loro presenza non dipende dal livello energetico

della razione e non vengono utilizzati come fonte di riserva.

I grassi di riserva sono rappresentati da trigliceridi che formano depositi adiposi con

funzione di riserva energetica; la presenza di questi lipidi è strettamente legata al

contenuto di alimenti energetici, grassi e glucidi, nella dieta. Le riserve adipose non

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sono stabili ma sono sottoposte ad un ricambio continuo che, in circa 2-3 settimane,

ne provoca il completo rinnovo.

Il glicerolo viene, molto probabilmente, ossidato prima ad aldeide glicerica e poi ad

acido piruvico che segue la via del metabolismo dei glucidi. Gli acidi grassi attivati,

cioè combinati al CoA, vengono invece demoliti attraverso una serie di -ossidazioni

che determinano il distacco successivo di molecole a 2 atomi di carbonio.

Questi frammenti si legano al CoA formando acetil-CoA che, nei mitocondri, entra

nel ciclo ossidativo terminale di Krebs producendo CO2 e H2O. Con questo

meccanismo di ossidazione-demolizione da 1 mole di acido grasso a n atomi di C si

ottengono n/2 moli di acetato. L'acetil-CoA entra a sua volta nel ciclo di Krebs dove

subisce una totale ossidazione che dà come prodotti terminali energia, CO2 e H2O.

1.5 Vitamine

Le vitamine sono bioregolatori di determinante importanza in quanto

presiedono, assieme agli ormoni, allo svolgimento di tutti i processi fisiologici sia

direttamente sia indirettamente attraverso meccanismi enzimatici.

Risposta produttiva degli animali alla somministrazione di vitamine e minerali

Risposta dell’animale

%

Fattori di variazione dei fabbisogni

reali

100

75

Stress

Variabilità biologica

50

Composizione dieta

Biodisponibilità

25

Infezioni

Interazioni fra

nutrienti

Parassitosi

Stabilità

Carenza Fabbisogno Optimum Eccesso

Apporto vitamine/minerali

In base alla solubilità vengono classificate in liposolubili, che si sciolgono nei grassi

e nei solventi apolari ed idrosolubili che si sciolgono in acqua e nei solventi polari.

Vitamine liposolubili - Le quattro vitamine liposolubili A, D, E, K sono tutti

composti isoprenoidi. La conoscenza delle loro funzioni fisiologiche è più scarsa

rispetto a quelle delle vitamine idrosolubili.

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La vitamina A è presente in due forme: la vitamina A1 o retinolo diffusa, soprattutto,

nei mammiferi e nei pesci marini e la vitamina A2, comune nei pesci di acqua dolce.

La vitamina A viene prodotta negli organismi animali partendo dal carotene,

pigmento vegetale di colore giallo-arancione, presente in tutti i tessuti clorofilliani, in

vari semi e frutti. I caroteni sono idrocarburi insaturi e sono presenti negli isomeri

dei quali il secondo presenta la maggiore attività provitaminica. In genere, i

foraggi verdi contengono l'85% dell'isomero , il 15% di quello e tracce di quello

. La conversione della provitamina in vitamina A avviene prevalentemente al livello

intestinale ed in minima parte anche nel fegato e nella ghiandola mammaria; la

trasformazione biochimica è mediata dalla presenza del carotenasi, complesso

enzimatico contenente Fe del gruppo delle ossigenasi e dall'ormone tiroxina.

Attualmente c'è la tendenza a considerare la vitamina A come un ormone piuttosto

che come un principio protettivo vero e proprio. La vitamina A interviene nel

mantenimento della capacità visiva in quanto costituisce parte integrante della

rodopsina o porpora visiva dei bastoncelli della retina. Altra funzione svolta da

questa vitamina è quella epitelio-protettrice; tale attività si esplica soprattutto a carico

dei tessuti secernenti muco dell'apparato digerente, respiratorio e urogenitale,

preservando dall'ossidazione i radicali solfidrici delle catene polipeptidiche cellulari e

inibendo così la formazione di cheratine. La cheratinizzazione degli epiteli

mucosecretivi è un processo degenerativo caratterizzato da una diminuzione della

permeabilità cellulare e degli scambi nutritivi. Ciò conduce a fenomeni di

desquamazione epiteliale e a processi ulcerativi delle mucose con conseguenti

possibili infezioni; da qui la denominazione di antinfettiva data a questa vitamina. La

vitamina A esercita una notevole influenza sulla fertilità. Infatti, è assai nota l'azione

sinergica fra questa e il progesterone e l'attività antagonista fra la stessa e gli

estrogeni. La funzionalità ovarica risulta alterata da condizioni di ipovitaminosi dal

momento che i follicoli possono diventare persistenti con possibili degenerazioni

cistiche. L'effetto cheratinizzante può coinvolgere l'endometrio e danneggiare lo

sviluppo della placenta con possibili malformazioni fetali o più frequentemente,

morte dell'embrione. Risulta difficile definire l'esatto fabbisogno alimentare di -

carotene anche perché questo composto viene, in massima parte, utilizzato per la

produzione di vitamina A, comunque, sembra che dosi quotidiane di 30 mg di

provitamina per q di peso vivo bastino a migliorare il tasso sanguigno in modo da

permettere una fertilità ottimale. Generalmente, gli stati carenziali si evidenziano

nelle grandi lattifere in cui l'aumento dei fabbisogni nutritivi ha accentuato lo

squilibrio tra foraggi e concentrati nella razione. Infatti, i fieni e gli insilati che una

vacca può consumare giornalmente riescono a coprire solo i bisogni di mantenimento

e per la produzione di 10 litri di latte. I principali organi di riserva del -carotene

sono il sangue, il fegato e il corpo luteo. Durante i periodi primaverili-estivi,

caratterizzati dalla presenza di foraggio fresco nella dieta, i titoli di -carotene e

quindi di vitamina A aumentano sia nel plasma sia nel latte. La concentrazione

carotenica dei tessuti vegetali diminuisce col progredire della maturazione della

pianta; la conservazione del foraggio implica delle perdite di caroteni che sono

rilevanti nel caso della fienagione e più contenute con l'insilamento e soprattutto con

la disidratazione.

I fabbisogni medi sono:

- bovini: 10.000 U.I./q peso vivo/giorno;

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- suini: 8.000-10.000 U.I./capo/giorno per verri e scrofe in lattazione; 1.200-2.200

U.I./giorno per lattonzoli fino a 8 settimane; 5.000-8.000 U.I. per q di peso vivo nelle

altre categorie.

La vitamina D (colecalciferolo, ergocalciferolo, antirachitica, calciofissatrice) è

presente in due forme chimicamente affini in quanto appartengono al gruppo degli

steroidi: la vitamina D2 o ergocalciferolo, di origine vegetale, e la vitamina D3 o

colecalciferolo, di origine animale. Entrambi i principi vitaminici attivi si originano

dai propri precursori, rispettivamente l'ergosterolo e il 7-deidrocolesterolo, per

irraggiamento ultravioletto. Essa svolge un ruolo fondamentale nel normale processo

di calcificazione delle ossa, la cui prima tappa consiste nella sintesi, operata dal

fegato, di un composto più attivo, il 25-idrossicolecalciferolo, che costituisce la

forma principale circolante. Questo composto viene ulteriormente metabolizzato nel

rene a 1,25- deidrossicolecalciferolo, che costituisce la forma biologicamente attiva

della vitamina D. Questa a livello intestinale, interviene favorendo l'assorbimento del

Ca++

per mezzo della biosintesi di proteine specifiche che, fungono da trasportatori

attivi attraverso le mucose. In questa sua azione, la vitamina D è complementata

dall'ormone paratiroideo prodotto nel momento in cui la concentrazione di Ca++

plasmatico scende sotto i valori normali. Tale ormone agisce sia sui reni, stimolando

la produzione di 1,25-deidrossicolecalciferolo, che sulle ossa dove è in grado di

mobilizzare il Ca++

accumulato in questo tessuto. Nonostante la vitamina D venga

denominata calciofissatrice, il suo ruolo biologico è quello di assicurare

l'assorbimento del calcio e di controllare l'eliminazione urinaria del fosforo poiché la

funzione mineralizzatrice è svolta invece da un enzima, la fosfatasi alcalina (ALP).

I sintomi più manifesti dovuti a stati di avitaminosi sono il rachitismo nei giovani

animali e l'osteomalacia negli adulti, entrambi causati da carente calcificazione del

tessuto osseo. Generalmente, in condizioni di allevamento adeguate non si verificano

stati carenziali in quanto è sufficiente che gli animali possano beneficiare di spazi

all'aperto e di ricoveri luminosi. L'unità di misura è l'unità internazionale (U.I.)

corrispondente a 0,025 mg di calciferolo puro, perciò 1 mg di questa vitamina

possiede l'azione biologica di 40.000 U.I.. I fabbisogni di vitamina D variano in

funzione della specie, dello stadio fisiologico e dei sistemi di allevamento. Stati di

ipervitaminosi possono portare ad eccessiva calcificazione del tessuto osseo, delle

cartilagini articolari e dei vasi sanguigni arteriosi.

La vitamina E (tocoferolo, antisterile) è molto diffusa nel mondo vegetale, specie nei

germi di cereali e nei relativi olii e nei germogli in genere si trova nelle parti verdi di

tutti i vegetali, nei fieni non dilavati. Nei prodotti di origine animale e nei tessuti

animali la vit. E è contenuta in piccole dosi, fatta eccezione per la placenta e per

l'ipofisi che ne sono, particolarmente, ricche. Essa esplica importanti funzioni nei

riguardi della sfera riproduttiva del maschio e della femmina. Tale effetto non sembra

però l'espressione di un meccanismo biologico molto generale, svolto dalla vit. E, il

cui compito fondamentale nella cellula animale vivente è quello di rappresentare

l'antiossidante fisiologico" che protegge la vit. A e gli acidi grassi saturi ed insaturi

da possibili fenomeni di auto ossidazione. Sembra svolga azione preventiva contro

l'aborto precoce e azione curativa nei riguardi di alcune forme di sterilità a base non

anatomica. Inoltre, partecipa a sintesi e processi metabolici, è dotata di proprietà

tensioattive ed è indispensabile per la genesi di molti enzimi e coenzimi, per la

sintesi di acido ascorbico e degli acidi nucleici. Aumenta la tolleranza dell'organismo

alle sostanze tossiche. Eventuali sintomi di carenza si fanno risentire sulla sfera

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genitale e può dipendere anche da carenza di selenio nella razione o dalla presenza di

elevati quantitativi di grassi, soprattutto se irranciditi.

Unità di misura = U.R. (unità ratto) = 3 di tocoferolo. I tocoferoli che costituiscono

la vitamina E sono quattro ma quelli più importanti sono quello e che possiedono

attività antiossidante ma diversa attività biologica.

La vitamina K (della coagulazione, antiemorragica) naturale è presente in due forme,

la K1 e la K2; esiste inoltre una terza forma, di sintesi, la K3 con attività vitaminica

superiore rispetto alle precedenti. E' notevolmente abbondante nelle parti verdi dei

vegetali; nei tessuti animali è scarsa, fatta eccezione per il fegato che ne contiene

discrete dosi. Negli animali viene sintetizzata a livello intestinale. La vitamina K

condiziona, da parte del fegato, la produzione dell'enzima proconvertina che a sua

volta catalizza le reazioni che portano alla formazione della protrombina, precursore

della trombina la quale accelera la conversione del fibrinogeno in fibrina, proteina

insolubile costituente la frazione fibrosa del coagulo di sangue. Raramente si

riscontrano carenze di vitamina K sia perché essa abbonda nei foraggi sia perché è

sintetizzata nel rumine dei poligastrici e nel ceco dei monogastrici. La scarsa flora

microbica intestinale nelle prime settimane di vita e, quindi, il deficiente apporto

endogeno di vitamina K è spesso associato alla comparsa di diatesi emorragiche negli

animali giovani (pulcini, suinetti).

Vitamine idrosolubili

La vitamina B è un gruppo di sostanze diverse costituite da almeno 15

elementi che, nonostante l’eterogeneità della loro struttura molecolare, hanno in

comune alcune proprietà: sono idrosolubili, contengono nella loro molecola un

atomo di azoto, svolgono funzione coenzimatica. Diverse vitamine del gruppo B

sono sintetizzate dalla flora microbica del digerente degli erbivori, la quale

nell'adulto può soddisfare appieno i fabbisogni dell'organismo. Le vitamine del

gruppo B partecipano alle tappe più significative del metabolismo intermedio come

coenzimi: esse, cioè, sono unite a principi specifici di natura proteica, formano

enzimi complessi che catalizzano svariate e fondamentali reazioni del metabolismo.

Sono sostanze indispensabili per il metabolismo (ac. folico, vit. B12) e più

particolarmente per i fenomeni biochimici relativi ai glucidi (tiamina, niacina,

biotina), ai lipidi (ac. pantotenico, colina) e ai protidi (riboflavina, piridossina).

Vitamina B1 o tiamina o aneurina (antineuritica, antiberiberica). Essa è diffusa in

molti tessuti vegetali verdi e in molti mangimi (crusca, avena, orzo, pula di riso); tra

gli alimenti di origine animale, ne contengono sufficientemente il fegato, cuore, reni,

carni in genere, tuorlo d'uovo e in dosi modeste il latte; il lievito di birra ne è

particolarmente ricco. Se ne perde molta con la cottura degli alimenti. Essa è legata al

metabolismo intermedio degli idrati di carbonio, stimola la funzione digestiva, regola

l'attività cardiaca e muscolare, regola la temperatura corporea, ha azione analgesica

contro le nevriti. La sua carenza nei polli determina polineurite e disturbi a carico

dell'apparato digerente, del cuore, e della termoregolazione. Si trova in commercio

sotto forma di cloridrato di tiamina.

Acido folico o folagina o ac. pteroilglutammico. Si trova in notevoli quantità nelle

parti verdi dei vegetali, nei cereali, nel fegato, nel lievito di birra. Viene sintetizzato

dalla microflora ruminale e del grosso intestino. Sembra indispensabile alla

emopoiesi e alla crescita dei pulcini, ha azione curativa nei riguardi di diverse forme

di anemia in quanto favorisce la formazione e maturazione degli eritrociti e dei

leucociti. Esiste una relazione tra ac. folico e immunità ed in unione alla vit. B12

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induce la produzione di agglutinine contro la Brucella abortis, Pasteurella multocida

e la Salmonella typhosa. La sua azione favorisce la formazione degli anticorpi

attraverso il metabolismo dell'acido pantotenico e la sintesi dell'acido nucleinico.

Vitamina B2 o riboflavina o lattoflavina o epatoflavina. E' diffusa nel regno vegetale,

ne sono ricchi i tessuti animali ed i prodotti di origine animale (latte, uova, farine di

pesce). Regola, insieme con altre sostanze, i processi di respirazione cellulare,

stimola la crescita, è indispensabile per la funzione visiva e per l'ottimale

funzionamento del sistema nervoso. Nei polli, una carenza di vit. B2 si manifesta con

arresto di accrescimento, diarrea e paresi delle zampe nei pulcini, con una diminuita

produzione di uova e percentuale di schiusa nelle ovaiole, con dermatiti diffuse nei

tacchini; nei suini con perdita dell'appetito, paresi degli arti posteriori, diarrea,

dermatite; negli equini sembra sia la causa della cosiddetta luna (oftalmite periodica).

Essa insieme alle altre vitamine del gruppo B agisce in sinergismo sia auxinico sia

terapeutico. I fabbisogni dei giovani animali sono abbastanza elevati e le quantità

apportate con gli alimenti non sempre sono soddisfacenti, quindi le integrazioni di

vit. B2 sono indispensabili in tutti i tipi di mangime.

Vitamina B3 o acido pantotenico (antidermatica del pulcino). Entra a far parte della

molecola del CoA che assolve alla funzione di trasportatore di gruppi acile nelle

reazioni enzimatiche di -ossidazione degli acidi grassi, nelle reazioni di sintesi degli

acidi grassi e di ossidazione dell'acido piruvico. Inoltre, determina l'acetilazione della

colina che sotto forma di acetilcolina costituisce il mediatore chimico nella

trasmissione degli impulsi nervosi a livello delle sinapsi fra i neuroni. L'acido

pantotenico è così definito a seguito della sua larga diffusione in natura: è, infatti,

presente nelle erbe, nei fieni e nei costituenti dei mangimi concentrati (crusche,

farine, ecc.). Generalmente, non si evidenziano stati carenziali anche perché tale

vitamina viene sintetizzata dalla microflora dell'apparato digerente.

Vitamina B6 o piridossina. Prima di essere utilizzata la piridossina viene convertita

in piridossale e piridossamina che formano, rispettivamente, i coenzimi piridossal

fosfato e piridossamina fosfato. I due coenzimi intervengono in reazioni enzimatiche

in cui avvengono trasformazioni di aminoacidi e trasferimento di gruppi amminici

(transaminazione). Si suppone che la vit. B6 intervenga anche nella produzione di

anticorpi nel sangue e nella sintesi dei grassi dagli aminoacidi. Essa viene definita

anche adermina in quanto svolge un'azione trofica sulla cute prevenendo il

manifestarsi di dermatiti. E' molto diffusa negli alimenti, soprattutto nella crusca di

frumento, nei sottoprodotti della molitura, nelle farine animali e nei germi dei semi.

Vitamina B12 o cobalamina (antianemica). Essa è la più importante di un gruppo di

sostanze ad azione e struttura simile, perciò si può parlare di gruppo delle vit. B12 :

- eucobalamine, hanno azione stimolante sul metabolismo proteico e la sintesi degli

acidi nucleici RNA e DNA;

- pseudocobalamine, sintetizzate dai microrganismi ruminali e del grosso intestino o

da altri microrganismi quali gli streptomiceti.

Esse sono caratterizzate dall'avere nella loro molecola il cobalto, che perciò è

necessario per la loro sintesi. La vitamina B12 è assente nei vegetali mentre, è

contenuta negli estratti epatici ed in vari alimenti di origine animale (farine di pesce,

farina di carne, siero di latte) e fa parte del complesso APF (animal protein factor).

La vitamina B12 è essenziale per l'accrescimento e per l'emopoiesi ed è indispensabile

per la sintesi degli acidi nucleici intervenendo nel metabolismo proteico e della

sintesi della colina e della metionina, in particolare, ed in quello lipidico e glucidico

catalizzando diverse reazioni enzimatiche. Ha notevole funzione antianemica e: a)

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nei polli, stimola la crescita ed influisce favorevolmente sulla schiusa delle uova e sul

vigore dei pulcini alla nascita; b) nei suini, oltre a stimolare l'accrescimento,

diminuisce la mortalità postnatale. Negli erbivori, il contenuto di vit. B12 nel fegato,

nei polmoni, rene, cervello, ghiandole salivari, pancreas, è dovuto all'assorbimento di

materiale microbico sintetizzato nel tubo digerente e nei carnivori a quello

proveniente da queste vie e dagli alimenti. La placenta è permeabile a questa sostanza

che può passare facilmente dalla madre al feto.

Vitamina B13 o acido orotico. E' un fattore di crescita dei ratti e dei suini ed è

presente nel lievito, nella pula di riso e nella caseina grezza.

Vitamina B14. Viene estratta dall'urina di esseri umani sani, possiede un’elevata

attività antianemica. Contiene azoto e fosforo ma non cobalto e solfo. Viene

considerata un ormone e pur differenziandosi nettamente dalla cobalamina,

rappresenta parte dei meccanismi chimici, necessari a completare il processo

emopoietico.

Vitamina H (biotina, fattore cutaneo, antiseborroica). È presente nel rosso

d'uovo (biotina), nel latte e nel fegato (biotina); nell'albume dell'uovo è presente

una proteina, l'avidina che inattiva la biotina. E' sintetizzata rapidamente dalla

microflora intestinale, per questo condizioni di carenza, in genere, si manifestano

solo quando si utilizza molto avidina. Come coenzima, partecipa alla costituzione di

enzimi che catalizzano varie reazioni del metabolismo dei glucidi, lipidi e protidi

(bioto proteina del fegato). Come cofermento è necessaria alla desaminazione

reversibile dei singoli aminoacidi. Favorisce la sintesi di acidi grassi insaturi, esplica

azione trofica sulla cute, è indispensabile allo sviluppo embrionale del pulcino,

influenza favorevolmente la produzione della lana.

Vitamina C o acido ascorbico (vit. antiscorbutica, fattore antinfettivo).

Chimicamente è un glucide del gruppo degli esosi il cui carattere acido è determinato

dalla presenza di due ossidrili enolici. Possiede proprietà riducenti ed è

biologicamente attivo sia nella forma ridotta che in quella ossidata. Possiede un ruolo

sinergico all'adrenalina ed interviene nella produzione del collagene da parte dei

fibroblasti; esercita infine un'attività trofica sui vasi capillari. La carenza, infatti,

comporta emorragie diffuse sottocutanee (scorbuto). L'acido ascorbico è necessario

nella dieta di pochi vertebrati, tra cui l'uomo, in quanto la maggior parte degli animali

superiori e le piante sono in grado di sintetizzarlo a partire dal glucosio e da altri

zuccheri semplici. La vitamina C è largamente diffusa nei vegetali verdi, negli

agrumi e nei semi in germinazione, è termolabile e si inattiva facilmente in presenza

di sostanze ossidanti. L'uso zootecnico prevalente di questa vitamina è come fattore

antistress.

Vitamina P o citrina (vit. della permeabilità capillare). E' sinergica all'acido

ascorbico sintomi di carenza sono da attribuire all'aumentata fragilità dei capillari

determinando, la loro rottura, emorragie sottocutanee; l'avitaminosi determina anche

un aumento della permeabilità dei capillari alle proteine.

1.6. Macrobromi Inorganici

Comprendono l'acqua e gli elementi minerali: calcio, fosforo, magnesio,

potassio, sodio, cloro e zolfo. Vengono definiti "macro" in quanto si tratta di

elementi presenti negli alimenti in quantità dosabili con i comuni metodi analitici.

L'acqua è il costituente più diffuso in tutti gli organismi viventi. Il corpo degli

animali giovani è costituito da circa 750 -800 gr di acqua per Kg mentre negli

animali adulti, in buone condizioni nutritive, il contenuto in acqua scende a 500 gr

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per Kg. Essa costituisce il solvente delle reazioni biochimiche che avvengono nelle

cellule, determina la caratteristica struttura e le proprietà biologiche delle proteine e

degli acidi nucleici oltre che delle membrane dei ribosomi e di molti altri componenti

cellulari. Essa interviene meccanicamente nella digestione, nell'assorbimento, nel

trasporto dei nutrimenti e nella eliminazione dei prodotti di scarto che ne derivano.

Agisce sulla termoregolazione in quanto funziona da tampone di calore. L'acqua

dell'organismo si distingue in: intracellulare (40%), extracellulare (20%);

quest'ultima si suddivide a sua volta in acqua del siero (5%) e interstiziale (15%). Le

richieste idriche dell'organismo vengono soddisfatte:

a) per via esogena con l'acqua di bevanda e/o quella contenuta negli alimenti;

b) per via endogena, per mezzo dell'acqua metabolica che si forma durante

l'ossidazione dei carboidrati e dei grassi; essa assume molta importanza negli insetti

che non bevono e negli animali in letargo, ma non negli animali di interesse

zootecnico.

L'acqua apportata con gli alimenti viene facilmente assorbita attraverso le pareti dei

prestomaci nei ruminanti e nell'ultimo tratto dell'intestino negli altri animali.

Generalmente, dato il diverso contenuto idrico degli alimenti, si stabiliscono i

fabbisogni di un animale in funzione della sostanza secca ingerita oppure in litri per

unità di peso. Per i bovini all'ingrasso sono necessari 8-10 litri/q peso vivo/giorno

oppure 2,5-3 litri/kg s.s. ingerita. Per le vacche in lattazione le richieste sono

notevolmente superiori, circa 4 l/kg S.S. ingerita. Una vacca da latte ha delle

esigenze d’acqua molto elevate, basti solo pensare che un litro di latte è costituito per

l’87% da acqua. In generale possiamo dire che i fabbisogni d’acqua di una bovina

variano nel corso dell’anno e sono influenzati da diversi fattori, tra cui i principali

sono: livello di produzione, ingestione di sostanza secca, temperatura e umidità

esterna.

Mediamente una bovina beve tra i 60 e i 90 litri d’acqua al giorno che possono

diventare circa 130 nei periodi più caldi e va ricordato che nelle bovine più

produttive questi valori incrementano del 10-20%, per soddisfare i fabbisogni legati

alla maggiore produzione di latte.

Un’insufficiente disponibilità d’acqua si può evidenziare dall’osservazione di aspetti

puramente produttivi o di tipo comportamentale. In particolare, si osserva: a)

diminuzione dell’ingestione alimentare, b) minore produzione di latte, c) riduzione

delle urine prodotte, d) feci dure, asciutte e costipate, e) animali che si abbeverano da

pozze di fango o di urina.

È importante verificare che i punti di abbeverata all’interno della stalla siano ben

accessibili dagli animali. Inoltre, si dovrebbe offrire un perimetro utile di abbeverata

di almeno 7-8 cm per capo; è importante poi che le vasche di abbeverata siano servite

con flussi d’acqua adeguati e/o dotate di una buona riserva d’acqua, altrimenti si

rischia che le bovine non bevano a sufficienza.

Un altro aspetto importante che aiuta a migliorare, notevolmente, l’assunzione

d’acqua da parte degli animali, è quello di curare la qualità dell’acqua d'abbeverata

con una periodica pulizia degli abbeveratoi.

I suini di circa 80-100 Kg possono consumare fino a circa 30 litri di acqua al

giorno mentre, le scrofe in lattazione circa 20-22 l. Nelle specie avicole si considera

un fabbisogno idrico pari al doppio del mangime consumato; per le ovaiole è

necessario un supplemento pari al doppio dell'acqua contenuta nelle uova. La

disponibilità continua di acqua di bevanda determina un maggior benessere negli

animali e, quindi, maggiori produzioni zootecniche. Oltre ad essere pulita, cioè priva

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di scorie, l'acqua deve essere potabile, cioè con giusto contenuto minerale (< 500-600

p.p.m.). Il 90-95% del contenuto minerale è rappresentato da: carbonati, bicarbonati,

clorati, solfati di sodio, potassio, magnesio e calcio.

Minerali

L'organismo animale per il 95,7%, del proprio peso è costituito da acqua,

proteine ed idrati di carbonio, cioè elementi plastici (C, H, O, N), il 4,2% da

macroelementi (hanno azione plastica) mentre i microelementi sono presenti in

tracce. Gli elementi minerali biogeni o macroelementi sono: Na, Mg, P, S, Cl, K, Ca

(elencati secondo il peso atomico) mentre i microelementi o minerali accidentali (con

azione oligodinamica, catalitica), in ordine alfabetico, sono: Al, Ag, As, Ba, B, Br,

Cs, Co, Cr, Fe, Fl, Li, Mn, Mo, Ni, Pb, Cu, Rb, Se, Sn, Ti, V, Zn.

I minerali sono privi di energia e di azoto ma sono essenziali per l’alimentazione

animale, peraltro, essi non possono essere sintetizzati, a differenza di altri principi

nutritivi, dall’animale e quindi devono essere presenti nella razione in quantità

sufficienti a soddisfare i fabbisogni. Per quanto riguarda le funzioni dei minerali

bisogna ricordare che:

a) alcuni sono fondamentali per la formazione dello scheletro e dei denti (calcio,

fosforo);

b) il fosforo entra nelle reazioni metaboliche che comportano trasferimento di

energia in tutte le cellule animali;

c) alcuni minerali sono necessari per la sintesi proteica: tra essi lo zolfo che fa parte

della molecola degli aminoacidi solforati (metionina, cistina, cisteina) inoltre,

fosforo, ferro, manganese, zinco, nichel e cromo sono componenti dell’RNA che è

indispensabile per tutte le sintesi proteiche;

d) la maggior parte dei microelementi ma anche qualche macroelemento (calcio)

entrano nei sistemi enzimatici che possono essere: 1) metalloenzimi dove c’è una

rigida associazione tra il metallo e la porzione proteica della molecola, ognuna delle

quali ha un numero fisso di atomi di un dato elemento e 2) complessi di

metalloenzimi dove l’associazione non è molto stretta e vi possono essere

sostituzioni tra elementi diversi;

e) alcuni minerali più abbondanti quali il Ca, P, Mg, Na, K, Cl rappresentano gli

elettroliti dei liquidi corporei e delle secrezioni digestive e sono indispensabili nelle

funzioni vitali quali la pressione osmotica, l’equilibrio acido-basico, il pH, la

permeabilità delle membrane, la trasmissione nervosa; così, sodio e potassio sono

abbondanti nelle secrezioni digestive, il fosforo nella saliva, il cloro nei succhi

gastrici, il calcio nella bile.

f) alcuni regolano il grado di eccitabilità neuromuscolare: calcio e magnesio la

deprimono, potassio e sodio aumentano l’eccitazione nervosa. In una situazione in

cui si ha un brusco calo ematico di magnesio e un aumento di potassio si verifica una

dismetabolia che va sotto il nome di tetania da erba; mentre, un livello insufficiente

di calcio dopo il parto predispone al collasso puerperale;

g) altri minerali hanno ruoli specifici e ben definiti: lo iodio è componente della

tirosina che regola il ritmo metabolico, il cobalto fa parte della vitamina B12, il ferro,

fra l’altro, serve per il trasporto dell’ossigeno da parte dell’emoglobina, il cromo è

un attivatore dell’insulina.

Stabilire i fabbisogni minerali diventa complicato in quanto diversi fattori

influenzano il destino dei minerali una volta ingeriti, così ad esempio:

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a) il comportamento degli animali varia con la specie e con le condizioni

fisiologiche: accrescimento, gravidanza, lattazione;

b) ci sono diverse interrelazioni tra i minerali,

c) esistono interferenze, nel calcolo della digeribilità, delle quote di origine

endogena;

d) una diversa solubilità e disponibilità dei prodotti e composti attraverso i quali i

minerali sono somministrati.

Comunque, oggi mediante l’uso di elementi marcati (radioattivi) si può essere più

precisi sul fabbisogno in minerale da parte degli animali

Circa il grado di utilizzazione dei minerali è bene ricordare che esso varia con gli

alimenti che li contengono e li veicolano:

a) il magnesio contenuto nei foraggi verdi è poco utilizzabile rispetto a quello

contenuto nei foraggi maturi;

b) per il fosforo fitinico, presente nelle farine di soia e di cotone e nei cereali e

cruscami (60% del fosforo totale) (la fitina è una combinazione di vitamina

(inositolo), fosforo e altri minerali quali calcio e magnesio) va detto che la sua

utilizzazione dipende dal rapporto Ca:P, dalla quantità di vitamina D disponibile, dal

pH dell’apparato digerente, dal livello di zinco nella dieta. Dal 30 al 90% dei fitati

sono idrolizzati (grazie alla fitasi) e metabolizzati dai microrganismi del rumine e ciò

significa che i ruminanti utilizzano meglio il fosforo fitinico rispetto ai monogastrici

per i quali il grado di utilizzazione è quasi nullo;

c) per il calcio la variabilità del grado di utilizzazione è leggermente inferiore a

quella del fosforo (20-80 vs 20-50%); comunque l’utilizzazione del calcio è bassa ed

è maggiore nei monogastrici che nei ruminanti. Il calcio contenuto nell’erba medica

per il 20-30% è sotto forma di ossalato e non è utilizzabile dai ruminanti. Lo stesso

discorso vale per il potassio. Nei bovini, sia il sodio che il potassio e il cloro vengono

assorbiti quasi interamente mentre solo il 3-4% del manganese viene assorbito.

Sull’assorbimento dei minerali influiscono molti fattori:

a) per alcuni (calcio, magnesio, zinco, ferro) la quantità assorbita diminuisce

all’aumentare di quella ingerita;

b) la fibra, in genere, e la cellulosa, in particolare, legano alcuni minerali (Ca, P,

Mg, Fe, Zn) rendendoli non utilizzabili dall’animale;

c) i ruminanti avrebbero una capacità di assorbimento degli oligoelementi più bassa

rispetto ai monogastrici; al riguardo vale l’esempio del rame che viene assorbito per

il 70% dal vitello lattante e solo per il 10% da quello già svezzato;

d) con l’avanzare dell’età dell’animale diminuisce l’assorbimento dei principali

macroelementi (Ca, P, Mg). Ciò, insieme alla diminuzione delle riserve di calcio e di

magnesio con l’avanzare dell’età, contribuisce alla maggiore incidenza della tetania

da erba e del collasso puerperale nelle femmine con più lattazioni rispetto alle

primipare;

e) l’assorbimento dei minerali è condizionato dallo stato fisiologico: nei bovini

l’assorbimento del calcio aumenta (del 30% circa) verso la fine della gravidanza e

l’assorbimento massimo si ha durante il 2-3° mese di lattazione; in pratica

l’organismo gravido o in lattazione si comporta come nelle fasi di crescita,

assumendo capacità anaboliche per far fronte all’elevato fabbisogno del feto a fine

gestazione e quello relativo all’elevata produzione di latte.

Per quanto riguarda l’eliminazione da parte dell’animale dei minerali in eccesso va

considerato che:

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a) un eccesso di minerali comporta per la maggior parte di essi (Ca, Mg, ecc.) un

loro minore assorbimento e quindi una maggiore escrezione con le feci;

b) il fosforo in eccesso verrebbe assorbito per la maggior parte e poi verrebbe

escreto con le urine mediante un processo che richiede Ca+ e Na

+, quindi un’eccesso

di P potrebbe causare una carenza secondaria di calcio e sodio;

c) alcuni minerali se somministrati in eccesso riducono l’assorbimento di altri: ad

esempio un eccesso di potassio riduce l’assorbimento del magnesio.

Contenuto in elementi minerali nel corpo animale

Macroelementi % Ppm

g/Kg Microelementi Ppm

g/Kg

Calcio 1,2 12.000 15 Ferro 50 20-80

Fosforo 0,7 7.000 10 Zinco 20 10-50

Magnesio 0,05 500 0,4 Rame 5 1-5

Sodio 0,14 1.400 1,6 Iodio 0.43 0.3-0,6

Potassio 0,17 1.700 2 Cobalto <0.04 0,02-0.1

Zolfo 0,15 1.500 1,5 Selenio Tracce 1-2

Cloro 0,10 1.000 1,1 Manganese 0.3 0,2-0,5

Fluoro Tracce

Cromo < 0.9

Molibideno < 0.07 1-4

Silice ?

Nichel < 0.14

Vanadio 0,3

Stagno 0,43

Non tutta la quantità di elementi minerali presente negli alimenti viene utilizzata

dall'animale; la quota disponibile è molto modesta: inferiore al 30% di quella

presente, per il magnesio, ed al 60% per il fosforo.

Macroelementi

Calcio - E' il costituente essenziale di tutte le cellule viventi e prevale

quantitativamente nelle cellule scheletriche degli organi animali, ma si trova in tutti

gli organi e liquidi organici. Nel sangue, il calcio è presente nella frazione plasmatica

e tende a diminuire come quantità nella femmina gravida; nei tessuti esso sembra

essere combinato con i colloidi protoplasmatici. Il Ca interviene, soprattutto, nella:

- calcificazione delle ossa e dei denti;

- coagulazione del sangue, gli ioni calcio catalizzano la trasformazione della

protrombina in trombina;

- coagulazione del latte: attraverso la formazione del paracaseinato di calcio;

- regolazione della permeabilità delle membrane cellulari;

- regolazione dell'equilibrio acido-basico del sangue;

- regolazione dell'irritabilità muscolare (agisce da moderatore).

Il Ca viene assorbito nella porzione superiore dell'intestino tenue, forse sotto la forma

inorganica e all'assorbimento contribuiscono: presenza in giusto rapporto del P,

presenza della vitamina D, presenza di altri componenti dell'alimento, reazione dei

succhi intestinali. L'utilizzazione del calcio e del fosforo è massima quando il

rapporto tra i due elementi è: 2/1 nei ruminanti, 0,8/1,2 nei suini, 1,5/2 nei pulcini,

3,5/4 nelle ovaiole. La deficienza di calcio nella dieta non porta ad una variazione del

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tasso di calcio nel sangue se non in casi di estrema carenza; anche i sintomi organici

di carenze di calcio (fragilità delle ossa, riduzione della produzione di latte)

avvengono solo dopo un lungo periodo di deficienza calcica. Ad un’alterazione del

metabolismo del calcio è collegata, invece, una forma morbosa che può manifestare

gravi conseguenze nelle vacche da latte: il collasso puerperale.

Fosforo. Oltre ad essere un costituente degli acidi nucleici, interviene nel

metabolismo di tutte le sostanze nutritive ed è presente in misura dello 0,95% nella

materia vivente dei mammiferi allo stato di fosfati, ortofosfati e derivati organici

fosforati. La maggior parte del P si trova nello scheletro. Il suo assorbimento è

facilitato dalla forma chimica dei prodotti fosforati ed è influenzato dal rapporto

calcio/fosforo infatti, quando uno dei due elementi è eccedente, l'altro viene

insolubilizzato per formare fosfato tricalcico e, quindi, diviene indisponibile per

l'organismo quell'elemento, tra il Ca e il P, presente nella dieta in minore quantità. I

sali di ferro riducono l'utilizzazione di P e l'assimilazione del Ca. La carenza di P è

più frequente rispetto a quella del Ca e negli animali giovani e in quelli all'ingrasso si

manifesta con: depravazione del gusto, scarso accrescimento, elevato indice di

conversione, rachitismo. Nelle femmine si hanno turbe delle ossa e dei denti,

infertilità, aborto, nascita di redi deboli, diminuita produzione di latte. Nel caso di

carente apporto alimentare di P l'animale è costretto a fare ricorso alle proprie riserve

ossee.

Potassio - Tutti i foraggi ne contengono in quantità superiori a quelle richieste dagli

animali. Il K+ è il principale catione endocellulare ed è localizzato soprattutto nei

muscoli (75%) e nel fegato, mentre solo il 5% si trova nelle ossa.

Esso regola la pressione osmotica cellulare, gli equilibri elettrolitici e acido-basici,

stimola l’eccitabilità neuromuscolare ed è coinvolto nel metabolismo dei glucidi.

Anche se la sua presenza è limitata in molti mangimi concentrati, il suo elevato

contenuto nei foraggi (2,5% nelle graminacee), soprattutto se giovani, e l’elevata

utilizzazione digestiva (90% circa) rende difficile una carenza negli erbivori.

Bisogna, invece, evitare eccessi di K (facili con l’ingestione di melasso di bietola non

depotassato, molta erba giovane) in quanto si può verificare una carenza di altri

elementi quali quella di Mg per un minor assorbimento e quella di Na e Cl per una

maggiore eliminazione con le urine. Per evitare ciò quando nella razione il rapporto

K/Na è maggiore di 3 bisogna integrare con Na. Il rapporto ottimale tra Ca e K è di

3/1. Tra i due elementi c'è antagonismo; il primo intensifica i processi ossidativi

dell'organismo, il secondo li deprime.

Sodio e Cloro - Sono due elementi molto richiesti dall'organismo il quale, fra l'altro,

non ha la possibilità di formare depositi da cui attingere nei momenti di bisogno. Il

sodio è contenuto in misura dello 0,2% ed è diffuso prevalentemente nel plasma

sanguigno dove rappresenta la quasi totalità delle basi ed ha, perciò, una funzione

preminente nella formazione della riserva alcalina e nella regolazione del pH del

sangue. Il cloro accompagna quasi sempre il sodio, tanto nei tessuti che negli umori

circolanti: il plasma sanguigno contiene, infatti, circa l'8%o di cloruro di sodio e

notevoli quantità di Cl-ioni sono presenti nel succo gastrico. Inoltre, il Cl è connesso

con il trasporto di CO2 nel sangue; il Cl-ione è importante per il normale equilibrio

osmotico dei liquidi dell'organismo ed è anche l'attivatore di alcuni enzimi (amilasi

salivare). La carenza di NaCl comporta perdita dell'appetito, diminuzione del peso,

riduzione della produzione lattea. L'integrazione della razione con NaCl è sempre

utile sia perché il fabbisogno degli animali difficilmente è coperto dalla quota

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presente negli alimenti e sia perché il potassio, presente negli stessi in quantità

elevate, richiede una più consistente presenza di Na.

Magnesio - E' presente nell'organismo in dose molto bassa (0,05% del peso corporeo)

ed è mineralizzato per la maggior parte nel tessuto osseo; il suo assorbimento avviene

prevalentemente nel tratto pilorico-duodenale dove l'ambiente è ancora

sufficientemente acido. Il tasso di assorbimento del Mg è molto variabile a secondo

dell’alimento che lo contiene, dell’età dell’animale e del livello di altri minerali nella

dieta (es. il potassio) In forma dinamica, cioè come ione, interviene nel meccanismo

dell'eccitabilità muscolare in sincronia con il calcio; inoltre, entra a far parte di

numerosi enzimi tra cui la fosfatasi alcalina. La carenza di Mg determina una caduta

della produzione lattea nelle lattifere, una crescita rallentata negli animali giovani,

aborto e involuzione uterina nelle femmine gravide, calcificazione dei tessuti molli,

ipereccitabilità accompagnata da manifestazioni tetaniche, aumento del metabolismo

basale. Considerando che, almeno nei ruminanti, esiste un controllo omeostatico che

permette di eliminare senza difficoltà moderati eccessi di Mg, ma non di fronteggiare

adeguatamente carenze dell’elemento, con il Mg è preferibile largheggiare piuttosto

che risparmiare. Comunque, un suo eccesso determina un aumento dell'eliminazione

urinaria del calcio tanto da determinare stati di rachitismo.

Zolfo - E' presente nell'organismo in ragione dell'1,5-2%; nella quasi totalità si trova

in forma organica (aminoacidi, vitamine) mentre si riscontrano solo minime tracce di

composti minerali. Una lieve integrazione minerale (solfato di sodio, o zolfo

finissimo) è consigliabile solo negli ovini per migliorare la qualità della lana

Microelementi

Sono principi protettivi in quanto assumono un ruolo preponderante nel

controllo del metabolismo animale come costituenti del gruppo prosteico di numerosi

enzimi. Inoltre, alcuni di essi svolgono anche funzioni di attivatori di enzimi (il

manganese attiva il funzionamento dell'arginasi), entrano nella genesi di ormoni

(iodio) e di vitamine (cobalto).

Ferro - Circa il 60-70% è contenuto nell'emoglobina, ma discrete quantità sono

contenute nella mioglobina e negli organi di riserva come il fegato, la milza e il

midollo osseo. Il suo assorbimento si verifica quasi totalmente nel duodeno;

nell'epitelio intestinale si coniuga ad una struttura proteica formando una

cromoproteina detta ferritina. Delle combinazioni organiche del ferro solo quella

porfirinica (emoglobina e mioglobina) non viene utilizzata alimentarmente in quanto

il microelemento non si libera dal nucleo tetrapirrolico. L'utilizzazione del ferro

alimentare viene influenzata da: fabbisogno organico, grado di acidità del duodeno,

caratteristiche dei componenti della razione, integrità della mucosa intestinale,

presenza di vitamina E. Il ferro è legato al trasporto di ossigeno in funzione della

capacità di tale elemento di cambiare valenza, entra a far parte del gruppo prosteico

dell'emoglobina (eme) e dei citocromi ed interviene nella formazione dell'enzima

succinico deidrogenasi. Il sintomo più marcato della carenza di ferro è l'anemia,

caratterizzata da globuli rossi piccoli, poveri di emoglobina ma in quantità normale

per ml di sangue. L'anemia ferropriva è frequente nei lattanti a causa sia delle scarse

riserve organiche, sia dell'insufficiente contenuto di tale elemento nel latte e sia per la

ridotta secrezione gastrica di HCl, principale responsabile della conversione dei sali

ferrici in ferrosi, più facilmente utilizzabili. Nei suinetti, la secrezione di HCl inizia

solo verso la terza settimana di vita; inoltre, in questi animali il tasso epatico del ferro

è di 30 mg/Kg alla nascita e di 90-100 mg/Kg nell'adulto. I suinetti quintuplicano il

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loro peso in circa 3 settimane, il latte fornisce solo il 10% del fabbisogno giornaliero

di ferro, per cui le riserve organiche si esauriscono in un paio di giorni. I suinetti

dovrebbero grufolare nel terreno (possibile solo negli allevamenti familiari) o

ricevere integrazione con composti ferrosi (preferibilmente stabili nella forma

ridotta) i quali dovrebbero contenere anche adeguate quantità di rame (mobilizza il

ferro e lo rende disponibile per la sintesi dell'emoglobina) e di cobalto (attiva

l'eritropoiesi). E' fondamentale la presenza di glucosio e di glicina che favoriscono la

sintesi del gruppo eme. Tali preparati, in genere somministrati per via orale,

dovrebbero avere un pH basso al fine sia di favorire un'anticipata acidificazione del

contenuto gastrico che di inibire lo sviluppo di germi patogeni.

Rame - Viene assorbito prevalentemente nel primo tratto del digiuno ed è presente

nel plasma, soprattutto, sotto forma di ceruloplasmina (glicometalloproteina). E'

accumulato soprattutto nel fegato e, in quantità minime, nel midollo osseo. Le sue

funzioni principali sono:

- legato alla ceruloplasmina, interviene nell'assorbimento e nella mobilizzazione del

ferro;

- interviene nella formazione della matrice proteica del tessuto osseo stimolando gli

enzimi preposti a tale funzione: una carenza di rame determina ispessimenti delle

articolazioni e frequenti fratture;

- attiva la funzionalità della tirosinasi, l'enzima che catalizza la sintesi del pigmento

cutaneo melanina a partire dall'aminoacido tirosina: uno stato carenziale di rame

determina infatti depigmentazione dei peli;

- allo stato di ione Cu++

è attivatore della tripsina, interviene sul sistema nervoso

centrale in quanto attiva la sintesi della mielina.

Generalmente, i foraggi non manifestano vistose carenze cupriche per cui è

sufficiente un minimo di integrazione minerale per soddisfare le esigenze organiche

degli animali.

Cobalto - Si trova localizzato nel fegato, reni e pancreas; l'assorbimento avviene solo

sotto forma di vitamina B12 e si verifica solo nel primo tratto dell'intestino tenue ed il

suo ruolo è legato a quella della vit. B12 di cui è parte integrante. Negli erbivori viene

sintetizzato nel rumine se poligastrici e nel crasso se monogastrici. Ha una notevole

azione emopoietica, se somministrato in dosi eccessive causa aumento dei globuli

rossi (policitemia). La concentrazione minima sufficiente a garantire un adeguato

apporto alimentare agli animali è di circa 0,1 mg/Kg s.s. della razione.

Iodio - Nei mammiferi è presente in quantità molto limitate (0,4 p.p.m.), è

indispensabile al funzionamento della tiroide dove si trova in concentrazione più

elevata e combinato alla proteina tireoglobulina ed agli ormoni tiroxina e 3,5,3'-

triiodotironina. La carenza di iodio determina una ridotta produzione di ormoni

tiroidei e, quindi, la comparsa del gozzo dovuto ad ipertrofia del tessuto ghiandolare

a causa di un marcato accumulo di precursori proteici degli ormoni. Negli animali

giovani, l'ipotiroidismo ritarda l'accrescimento e lo sviluppo sessuale; in quelli adulti,

riduce l'intensità dei calori ed il tasso di concepimento mentre aumenta gli aborti e la

ritenzione di placenta. La carenza di iodio può portare anche al prolungamento della

gestazione. Negli alimenti vi possono essere sostanze ad attività gozzigena (composti

solforati delle crucifere) che ostacolano sia l'assorbimento intestinale dello iodio che

la sua incorporazione nella tireoglobulina. Il limite minimo di questo elemento

necessario per evitare fenomeni carenziali è di 0,15 mg/Kg s.s. di alimento.

Manganese - E' concentrato, soprattutto, nei peli la cui costituzione è utilizzata come

indice del contenuto dell'elemento nell'organismo. L'assorbimento avviene

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prevalentemente sotto forma di Mg++

mentre l'escrezione si verifica per via biliare. E'

il costituente o l'attivatore di numerosi enzimi; interviene, inoltre, nell'attivazione di

molti enzimi come la fosfoesterasi, l'adenosina-trifosfoesterasi e numerose peptidasi.

E' indispensabile per la sintesi dell'ormone luteinizzante (LH). Una sua carenza

determina ritardi della pubertà, calori silenti, riduzione del tasso di concepimento e

della libido nei maschi, trofismo osseo (se la sua carenza è associata a quella della

colina e della biotina), condrodistrofia dei pulcini (accorciamento ed ispessimento

delle dita e sviluppo carente del becco). Esso deve essere presente nelle razioni in

ragione di 20-30 p.p.m. per i suini, 10-30 p.p.m. sulla sostanza secca per i bovini e

35-55 p.p.m. per le specie avicole.

Zinco - E' distribuito soprattutto nei capelli, peli, penne, ossa e denti. Si trova sempre

legato alle proteine e a volte entra a far parte di enzimi. Viene assorbito (non tutto

quello contenuto nella razione) nel tratto intestinale. Elevate quantità di calcio ne

inibiscono l'utilizzazione. Esso partecipa all'attività dell'anidrasi carbonica interessata

agli scambi gassosi fra i tessuti e partecipa al meccanismo responsabile della

calcificazione ossea, entra nelle attività delle fosfatasi, nell'amilasi pancreatica e nella

sintesi dell'insulina. Lo zinco risulta quindi indispensabile per l'accrescimento, per la

cheratinizzazione della pelle e dei peli, per l’osteogenesi e la condrogenesi e, forse,

per la normale funzionalità dei testicoli e dei tubuli seminiferi.

L'integrazione di zinco nelle miscele si effettua con l'aggiunta di sali quali il cloruro,

il carbonato, l'ossido, ma il più usato è il solfato eptaidrato.

Selenio - A concentrazioni minime esercita azione auxinica e riduce gli effetti della

carenza di vitamina E. L'azione antiossidante svolta dal selenio è dovuta al fatto che

esso entra nella costituzione dell'enzima glutatione-perossidasi, la cui funzione è

quella di sottrarre l'ossigeno eccedente prevenendo la formazione dei perossidi.

Le normali reazioni di ossidazione dei substrati energetici, che avvengono all’interno

delle cellule, portano alla formazione dei radicali liberi. La presenza di queste specie

reattive dell’ossigeno si ripercuote sull’equilibrio ossidativo cellulare richiedendo

l’intervento del sistema antiossidante per ridurre il processo di perossidazione dei

lipidi.

I sistemi enzimatici in grado di contrastare i radicali liberi sono rappresentati o da

sostanze“scavenger”(spazzini) o da sistemi enzimatici quali:

- superossido-dismutasi (zinco dipendente),

- glutatione perossidasi e catalasi (selenio dipendente),

- glutatione reduttasi localizzati in strutture subcellulari e nel citosol delle cellule

eucariote (Jacob, 1995, Therond et al., 2000).

Non sempre i sistemi di difesa antiossidante sono in grado di contrastare i radicali

liberi prodotti. Spesso per aumentare la capacità antiossidante dell’organismo si

rende necessaria un’integrazione alimentare con sostanze quali: pigmenti vegetali,

vitamine (vitamina C, vitamina E, caroteni), micronutrienti ed enzimi (selenio, rame,

zinco, glutatione, coenzima Q10, ecc.). L’attenzione del consumatore verso gli

“alimenti funzionali” che possano colmare le carenze della dieta senza ricorrere ad

integratori specifici è oggi crescente. Infatti, l’arricchimento intrinseco di un

alimento, piuttosto che un integrazione dall’esterno è vista con notevole favore.

Fra le varie sostanze antiossidanti, l’attività del selenio ha una importanza rilevante

in quanto è un costituente di diversi enzimi tra i quali l’unico di accertata importanza

per i mammiferi è la glutatione-perossidasi, enzima citosolico e mitocondriale che

prende parte alla formazione di alcune seleno-proteine, la cui espressione è affidata

ad alcuni geni e regolata da ormoni.

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La famiglia delle seleno-proteine include circa 20 proteine eucariote (organismi che

hanno organizzazione cellulare complessa, con nucleo distinto dal citoplasma)

l’espressione delle quali è altamente specifica per ciascun tessuto e dipende dalla

disponibilità di selenio. La glutatione perossidasi, insieme anche ad altri enzimi come

la tireodoxina reduttasi, è uno dei maggiori antiossidanti contenenti selenio

abbondantemente presenti a livello della ghiandola mammaria dove la sua funzione

principale è quella di rimuovere alcuni fra i più pericolosi radicali liberi come il

perossido d’idrogeno e i lipoperossidi.

I primi esperimenti sull’integrazione di alimenti con selenio sono stati condotti

all’inizio degli anni settanta, utilizzando la forma inorganica del selenio, la selenite

(selenito di sodio). Tale fonte permette di assorbire selenio in maniera passiva

dall’intestino e la parte in esubero viene escreta con le feci e le urine, alcune forme

organiche invece (ad esempio la seleno-metionina che presenta selenio al posto dello

zolfo) vengono assorbite sfruttando meccanismi attivi (come quelli degli aminoacidi)

e depositate a livello muscolare incrementandone le riserve.

Tali riserve si dimostreranno particolarmente utili in condizioni di stress come

accade subito dopo il parto per le bovine da latte, quando le richieste organiche

aumentano e contestualmente diminuisce la capacità d’ingestione degli animali. Lo

stesso benefico effetto è stato riscontrato anche in altre specie animali (come i polli )

ed anche nell’uomo.

A livello mammario, il selenio favorisce l’attivazione della glutatione perossidasi

ubicata nel citoplasma, che è considerato un enzima d’emergenza in quanto è in

grado di prevenire gli effetti dannosi legati ad uno stress ossidativo quali, ad

esempio, le mastiti; infatti la glutatione perossidasi è implicata in alcuni eventi

fisiologici come la regolazione della produzione delle citochine pro-infiammatorie

(IL-1, IL-6, TNF), indicate fra i principali fattori causali del così detto “stress da

malattia”.

Sempre nelle bovine da latte è stato dimostrato come un’elevata concentrazione di

selenio nelle razioni di questi animali comporti un innalzamento di questo

oligoelemento nel colostro e successivamente anche nel latte. Inoltre la

concentrazione di selenio nel sangue materno si ripercuote anche su quello del

nascituro.

L’integrazione della dieta con selenio diminuirebbe la frequenza di problematiche

ginecologiche postpartum quali metriti, ritenzioni di placenta, cisti ovariche.

In generale, l’attività immunomodulatrice del selenio e le sue proprietà antiossidanti

rappresentano sicuramente un grande vantaggio per gli organismi animali (uomo

compreso): stimola il sistema immunitario ed ha una azione antiossidante, essenziale

per la produzione delle cellule linfatiche; agisce inoltre come protettore del sistema

cardiovascolare.

Il selenio è un microelemento (oligoelemento) ed è presente nell’organismo in

piccole quantità ed anche il suo fabbisogno è piccolo, nell’ordine dei milligrammi, e

la legge ne regolamenta l’uso nei mangimi.

I microelemeti principali, per i quali la legge regolamenta l'addizione agli alimenti

zootecnici sono: il ferro (Fe), rame (Cu), zinco (Zn), manganese (Mn), iodio (I),

cobalto (Co), molibdeno (Mo) ed anche il selenio (Se).

La carenza di selenio concomitante a quella di vit. E può causare miodistrofia

enzootica dei vitelli e degli agnelli; nei suini causa decessi improvvisi, necrosi al

fegato e degenerazione muscolare. I foraggi sono carenti in selenio quando il terreno

è acido e quando si effettuano abbondanti concimazioni con solfati i quali inibiscono

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il selenio da parte delle piante. Alcune malattie pur non essendo causate da carenza di

selenio rispondono positivamente ad una sua somministrazione quali crisi di

svezzamento degli agnelli e dei vitelli, diarrea cronica del vitello, sterilità per

riassorbimento fetale nella pecora, ritenzione placentare di origine infettiva, mortalità

dei suinetti da somministrazione intramuscolare di ferro.

1.7 Ormoni ed Enzimi

Mentre, come già detto, le vitamine devono essere assunte in gran parte con

l'alimento, gli ormoni e gli enzimi sono prodotti dall'animale. Gli ormoni sono

sostanze indispensabili al normale decorso del metabolismo. Gli enzimi (o fermenti)

determinano il verso e la velocità delle reazioni chimiche, senza essere né alterati né

consumati; la loro attività biologica consiste nel sincronizzare le reazioni cellulari e

nel facilitare quelle reazioni metaboliche che in loro assenza avverrebbero con

estrema lentezza. Tra vitamine, ormoni ed enzimi esistono stretti rapporti reciproci e

tutti e tre sono detti "sostanze attive" o "biocatalizzatori".

Nell'alimentazione degli animali possono essere adottati dei prodotti contenenti

sostanze ormonali o ormonosimili per la stimolazione dell'accrescimento e dei

processi fisiologici di interesse economico quali la produzione della carne o del latte,

la regolazione dei cicli sessuali, ecc.:

- sostanze tireoattive in grado di provocare stati di ipertiroidismo, quali le proteine

iodate che stimolano la produzione del latte nelle bovine;

- sostanze tireostatiche, che provocano l'ipotiroidismo e quindi l'ingrassamento;

- estrogeni sintetici (vietati dalla legge) i quali esercitano azione metabolizzante,

stimolando la crescita.

Per gli enzimi vengono utilizzate preparazioni, contenenti enzimi amilolitici e

proteolitici, che aggiunte alla razione migliorano la digeribilità degli alimenti e

quindi consentono di utilizzare foraggi e mangimi di basso valore nutritivo.

1.8 Fattori Sconosciuti di Crescita

Vi sono alimenti che, se somministrati agli animali, hanno una particolare

efficacia (sull'accrescimento) non spiegabile soltanto in base al loro contenuto in

principi nutritivi. Gli stessi prodotti grezzi si considerano perciò portatori di fattori

sconosciuti di crescita (U.G.F: = unidentified growth factors). Tra essi ricordiamo:

- fattore pesce (solubili di pesce, farina e avanzi di lavorazione del pesce, farina di

fegato);

- fattore solubile di fermentazione (farina di semi di soia, lievito di birra, granturco,

fegato, farina residua di fermentazione degli streptomices, ecc.)

- fattore succo d'erbe (farina d'erba medica disidratata, succo di foraggi freschi, siero

essiccato, crema di latte essiccata);

- fattore protidico (gelatina, caseina, farina di soia);

- fattore tuorlo d'uovo (grasso del tuorlo d'uovo, lecitina).

1.9 Promotori di Performances e Additivi

Vi sono alcune sostanze non in grado o quasi di fornire energia che si

dimostrano capaci di migliorare le prestazioni (performances) degli animali. Fra esse

ricordiamo quelle che hanno proprietà auxiniche e quindi in grado di stimolare la

crescita, migliorare l'indice di conversione degli alimenti, la resistenza generale

dell'animale e il rendimento produttivo. Esse vengono dette "promotori di

performance"; invece, gli additivi sono sostanze (antiossidanti, emulsionanti,

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conservanti, addensanti, gelatificanti, coloranti, ecc.) capaci di proteggere gli alimenti

dall'irrancidimento o dagli effetti dannosi dell'umidità e/o della conservazione,

favorire la preparazione e la presentazione degli alimenti. Comunque, la differenza

tra promotori di performances e additivi è del tutto formale in quanto i primi sono

degli additivi ed entrambi mirano ad ottenere: più elevate produzioni, soddisfacente

stato sanitario, perfetta efficienza riproduttiva, minor costo alimentare. Per il

legislatore, gli additivi sono sostanze che possono, se incorporate nei mangimi,

influenzare favorevolmente le caratteristiche degli stessi e le produzioni animali.

Tutte le sostanze da aggiungere alle razioni alimentari destinate agli animali

domestici devono, nelle dosi impiegate:

- non avere conseguenze negative sulla quantità e qualità delle derrate ricavate dagli

animali stessi (carne, latte, uova, ecc.);

- non essere riscontrabili come residui, nei prodotti animali, in quantità tali da essere

nocive per il consumatore;

- essere stabili e ben definite chimicamente ed il loro controllo deve poter essere

effettuato con dei precisi metodi analitici di laboratorio;

- essere ammesse dalla legislazione vigente.

I promotori di performance a carattere auxologico e farmacologico in genere

vengono somministrati con gli alimenti in quanto questa via di somministrazione fa

risparmiare tempo e manodopera e nello stesso tempo assicura un dosaggio preciso a

tutti i soggetti in allevamento. Alcuni di questi vengono utilizzati a basso dosaggio e

per tutta la carriera produttiva dell'animale, esercitando un'azione positiva sulla

crescita e sugli indici di conversione degli alimenti. Altri sono utilizzati per lunghi

periodi con lo scopo di prevenire la diffusione di malattie infestive od infettive

(azione di profilassi). Altri, ancora, si somministrano solo quando insorgono malattie

infettive che richiedono una terapia di massa, o in fase di allattamento e/o

svezzamento. Tra essi ricordiamo:

Antibiotici e sulfamidici: nell'alimentazione degli animali molto giovani o in quelli

tenuti in ambienti molto affollati o in condizioni sanitarie precarie la razione

alimentare viene integrata con antibatterici i quali svolgono azione profilattica,

terapeutica ed auxinica attraverso il controllo alimentare del microbismo

gastrointestinale. Difatti gli antibatterici (antibiotici, sulfamidici e chemioterapici, in

genere), utilizzati attraverso l'alimentazione contrastano i microrganismi che causano

malattie aspecifiche e subcliniche, svolgono azione modulatrice sulla flora microbica,

assecondando quella più favorevole, per una più intensa sintesi nutritiva; ed anche

migliorano l'assorbimento dei principi nutritivi da parte delle mucose del tubo

digerente, grazie ad un'azione di sanitizzazione delle mucose stesse. L'impiego nei

non ruminanti degli antibatterici e dei promotori di performance consente di ottenere

benefici sul miglioramento dell'accrescimento (5-8%) e dell'indice di conversione

degli alimenti (3-6%). La loro azione è tanto maggiore quanto più elevato il livello di

intensificazione produttiva dell'allevamento e quanto più basso è il livello igienico.

In Italia, comunque, gli antibiotici sono vietati per fini alimentari, in zootecnia.

Coccidiostatici, furanici, vermifughi: generalmente sono supplementati nei cosiddetti

"mangimi medicati". I coccidiostatici vengono utilizzati contro la coccidiosi (polli,

conigli, suini, ruminanti). Sono di tipo non tossico né per gli animali né per i

consumatori dei relativi prodotti, e vengono somministrati nelle prime fasi della vita

e quando se ne ravvisi l'opportunità. I furanici oltre che sui batteri agiscono anche sui

protozoi; trovano impiego quali antisettici intestinali specie nelle enteriti da

alterazione della flora microbica, nelle gastroenteriti di origine incerta e sconosciuta,

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in quelle croniche, nelle enterocoliti nelle quali si richiedono somministrazioni di

antisettici intestinali prolungate, nelle affezioni miste da protozoi e batteri. In

generale, si possono considerare antisettici intestinali ed urinari ad azione locale. I

vermifughi utilizzati sono molti: polvere di tabacco, estratto etereo di felce maschio,

fenotiazine, tetracloruro di carbonio. Importante è intervenire per tempo sull'agente

responsabile e scegliere il prodotto più adatto.

Sostanze tampone: sono prodotti in grado di modificare il pH ruminale determinando

una variazione delle attività microbiche con conseguenti cambiamenti dei prodotti

finali delle fermentazioni e perciò nei quantitativi di acidi grassi volatili (AGV) che

si vengono formando e nei rapporti molari tra di essi. Nel caso di animali all'ingrasso,

si deve favorire la produzione di acido propionico a discapito degli altri; nelle vacche

in lattazione, invece, bisogna spingere verso la produzione di acido acetico. I prodotti

utilizzati sono carbonati, bicarbonati, sali di acidi grassi volatili, prodotti inerti

(residui del cemento), sali fosfatici di sodio. Essi vengono aggiunti alla dieta quando

si verifica un rapido cambiamento del tipo di alimentazione, quando si

somministrano elevati quantitativi di concentrato ad elevato tenore energetico. Infine,

esistono prodotti in grado di inibire la produzione di metano da parte della microflora

ruminale la quale comporta una perdita del valore energetico della dieta di circa il

10%.

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CAP. II. DIGESTIONE E ASSORBIMENTO DEI PRINCIPI NUTRITIVI

2.1 Generalità

Gli alimenti che compongono le diete delle varie specie animali sono

costituiti da una mistura di principi nutritivi a struttura molecolare più o meno

complessa e sono rappresentati da: proteine, lipidi, glucidi, vitamine, sali minerali,

acqua che per la maggior parte non possono essere assorbiti come tali. La serie di

processi meccanici, enzimatici, e microbiologici che determina la conversione dei

principi nutritivi contenuti negli alimenti in piccole molecole diffusibili ed

assimilabili, prende il nome di digestione.

Gli animali domestici, in base alle loro caratteristiche digestive, possono essere

distinti in quattro categorie:

a) Carnivori (cane e gatto) che presentano una digestione di tipo, esclusivamente,

enzimatica e scarso o nullo è per loro il significato della digestione microbica;

b) Erbivori poligastrici (bovini, ovini, caprini, camelidi) la cui dieta è costituita

principalmente da foraggi più o meno grossolani, subisce nell’apparato prestomacale,

un intenso processo di fermentazione microbica prima di sottostare all’azione degli

enzimi digestivi, che inizia nell’abomaso e si continua nell’intestino tenue;

c) Erbivori monogastrici (cavallo e coniglio), nei quali i processi fermentativi

microbici sono di notevole entità, ma si realizzano nella parte posteriore del tratto

digerente (cieco e colon), quando gli alimenti hanno già subito l’attacco enzimatico

in sede gastrica ed enterica (intestino tenue);

d) Onnivori (suini): pur potendo utilizzare una dieta simile a quella dell’erbivoro

monogastrico o del carnivoro presentano una digestione prevalentemente enzimatica,

anche se nel loro intestino crasso avvengono processi fermentativi microbici di una

certa entità.

I carnivori sono gli animali con l’apparecchio digerente meno sviluppato e a minor

capacità relativa; gli erbivori ruminanti, quelli con l’apparecchio digerente di

maggior capacità, per lo sviluppo preminente del tratto iniziale (prestomaci), subito

seguiti dagli erbivori monogastrici, nei quali lo sviluppo prevalente del canale

alimentare è a carico del cieco e, soprattutto, del colon; in posizione intermedia

troviamo gli onnivori.

Sviluppo relativo delle diverse porzioni del canale digerente

Specie

Stomaco

%

intestino %

Tenue cieco colon

Suini 29 33 (18) 8 30

Cane 63 23 (4) 2 12

Cavallo 9 21 (22) 16 54

Coniglio 15 12 (3,5) 23 50

Bovini 71 18 (46) 3 8

( ), in parentesi lunghezza in metri

L’attività del tubo digerente è caratterizzata da fenomeni meccanici e secretori. Tutti

questi processi sono coordinati da influenze nervose ed umorali, che assicurano

un’ordinata sequenza alle diverse fasi della digestione, a partire dalla triturazione

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dell’alimento ad opera dei denti durante la masticazione, proseguendo, con il

convogliamento del bolo nello stomaco attraverso l’esofago e con l’attività secretiva

e motoria dello stomaco stesso; eventi tutti che portano alla formazione del chimo.

I successivi movimenti dell’ingesta lungo il canale alimentare ed il loro

rimescolamento con i succhi pancreatici ed enterici dipendono poi dalla motilità

dell’intestino tenue, che è anch’essa coordinata da un’attività nervosa intrinseca ed

estrinseca, così come lo sono i movimenti della porzione terminale dell’intestino che

portano all’evacuazione delle feci. Le ghiandole annesse all’apparato digerente sono

controllate nella loro attività secretiva da influenze che sono:

- esclusivamente nervose, vedi ghiandole salivari situate all’inizio del tratto

digerente;

- nervose ed umorali, come nel caso delle ghiandole gastriche;

- prevalentemente umorali, come si verifica per la secrezione pancreatica, biliare ed

enterica. Gli ormoni del tratto digerente non sono secreti da ghiandole endocrine

differenziate ma da cellule disperse nella mucosa gastrointestinale.

2.2 Ingestione degli alimenti

L’inizio della digestione è caratterizzato prevalentemente da eventi

meccanici, consistenti nell’assunzione dell’alimento, nella sua masticazione e nella

deglutizione del bolo.

L’ingestione degli alimenti avviene nel momento in cui l’animale ne sente il bisogno

(appetito per gli alimenti solidi; sete per l’acqua). Quando i bisogni non sono

soddisfatti in tempo più o meno breve si ha che l’appetito si trasforma in fame,

mentre il bisogno di bere si fa più forte per l’abbassarsi del tenore normale di acqua

nell’organismo, soprattutto nel sangue e perché si ha una certa aridità della mucosa

orale e della laringe, associata ad una notevole riduzione della secrezione salivare.

Invece, quando i bisogni sono soddisfatti nell’animale si instaura un senso di sazietà

che inibisce per un certo periodo l’eccitazione dell’appetito.

Nel diencefalo esiste un centro della sazietà e un centro dell’appetito che si

influenzano reciprocamente, alternando periodicamente, l’ingestione e la sua

interruzione.

Negli animali, l’appetito può essere talvolta una sicura guida verso un’alimentazione

più appropriata. La scelta degli alimenti da parte degli animali è dettata dall’istinto:

essi sono capaci di scegliere le sostanze nutritive di cui sono carenti o di rifiutare

quelle che sono loro nocive, quando tali effetti si manifestano in tempi brevi.

Importante è la voluminosità degli alimenti ingeriti che deve essere tale da dare

all’animale il necessario senso di pienezza, apportando però all’organismo i principi

alimentari di cui abbisognano.

La prensione degli alimenti solidi avviene in modo diverso a secondo della specie

in funzione delle strutture utilizzate, che possono essere i denti, la lingua o le labbra.

Nei carnivori si può osservare anche l’uso degli arti anteriori.

Il cavallo ha le labbra estremamente mobili e sensibili e le usa per prendere il

foraggio dalla mangiatoia; mentre al pascolo, retrae le labbra e con i denti incisivi

rade l’erba alla base che poi con la lingua conduce sotto le arcate molari;

comportamento analogo si osserva nel cammello.

Il bovino utilizza la lingua rugosa e prensile con la quale afferra il fieno o la paglia e

li porta direttamente sotto i molari mentre al pascolo, avvolge con la lingua il

foraggio, lo porta fra gli incisivi inferiori e il cuscinetto dentale e, con un brusco

movimento in avanti della testa, lo sega utilizzando il margine tagliente degli incisivi

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inferiori; in questi animali le labbra sono scarsamente mobili e non partecipano

attivamente all’assunzione degli alimenti solidi.

Negli ovini e caprini, il labbro superiore è mobile e coadiuva notevolmente l’azione

della lingua nell’assunzione dei foraggi, soprattutto quando gli animali sono al

pascolo.

Il maiale, se al pascolo utilizza il grugno per scavare tuberi e radici dal terreno e con

il labbro inferiore appuntito li conduce nella cavità orale. Se in cattività, il maiale

effettua l’assunzione del pastone semiliquido nello stesso modo in cui ingerisce le

bevande.

I neonati prendono il latte mediante succhiamento del capezzolo serrato tra le labbra,

esercitato con la protrazione della lingua e determinando una aspirazione attraverso il

vuoto che è formato dalla porzione anteriore del cavo orale.

Per l’assunzione dei liquidi, i carnivori assumono le bevande utilizzando la porzione

libera della lingua, estremamente mobile, che viene ripiegata a guisa di spatola,

immersa nei liquidi e rapidamente retratta nella bocca.

Il maiale, invece, introduce le bevande nella cavità orale mediante un atto inspiratorio

eseguito a bocca semiaperta. Gli altri animali domestici assumono le bevande

attraverso un processo di suzione che attuano, dopo aver immerso la rima labiale

semichiusa al disotto del livello del liquido, retraendo la lingua a guisa di stantuffo di

una pompa; in questo modo, creano una pressione negativa nel cavo orale, con

conseguente richiamo di liquido.

I principali fattori che influiscono sul livello volontario di ingestione sono: fattore

animale, fattore ambiente e fattore alimento. Il fattore animale è dato dalla specie

(livello di ingestione maggiore negli ovini e nei caprini rispetto ai bovini), dalla mole

( il livello di ingestione varia con il peso metabolico), dal tipo di produzione (livello

di ingestione massimo con la produzione del latte e minimo con le altre produzioni),

dallo stadio produttivo (l’ingestione è minima prima e dopo il parto ed è massima

nella parte intermedia della lattazione), dal livello produttivo. Il fattore ambiente è

costituito dal clima (temperatura, umidità dell’aria, ventosità), dalle modalità

costruttive della stalla, dalle modalità di gestione della stalla (cambiamenti di

alimentazione, frequenza dei pasti, tipo di razione). Il fattore alimento è dato dalla

qualità dei foraggi (contenuto in fibra, lignificazione della fibra, digeribilità

dell’alimento, contenuto nergia/ Kg SS), dalla preparazione dei foraggi (i foraggi

sono ingeriti in maggior misura se tagliati corti anziché lunghi), dal tipo di alimento

(i foraggi verdi sono più appetiti rispetto a quelli secchi, così come le leguminose

rispetto alle graminacee e il fieno rispetto al fieno-silo e all’erba-silo).

Nel comportamento alimentare si individuano tre fasi fondamentali: appetitiva o di

ricerca, di prensione del cibo o atto consumatorio e di sazietà o di quiescenza. La fase

appetitiva è caratterizzata dalla ricerca motivata del cibo, attività per la quale ogni

animale fa uso delle funzioni sensoriali che ha più sviluppate: la vista, l’olfatto, il

gusto, ecc. A questa fase succede quella di prensione dell’alimento che si realizza

mediante schemi caratterizzati da forti differenze di specie. Lo stato di sazietà

rappresenta l’ultima fase del comportamento alimentare: l’animale non risponde più

allo stimolo scatenante (presenza del cibo) e cessa di manifestare i segni del

comportamento appetitivo, iniziando una fase di quiescenza. La nutrizione ha un

evidente significato omeostatico: quello di rifornire il materiale energetico e plastico

di cui l’organismo necessita in relazione al suo stato fisiologico ed ai suoi consumi.

Fisiologicamente parlando, l’assunzione del cibo rappresenta la risposta esecutiva

alla sensazione della fame che origina a livello di sistema nervoso centrale in seguito

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alla percezione di stimoli endogeni ed esogeni che segnalano all’organismo la

necessità del ricarico per il mantenimento dell’omeostasi. A livello di ipotalamo

esistono due nuclei molto importanti per il controllo di queste attività:

a) un nucleo laterale che rappresenta il centro della fame;

b) un nucleo medio-ventrale che rappresenta il centro della sazietà.

L’organizzazione del comportamento alimentare si basa principalmente sul

monitoraggio da parte di alcuni recettori nervosi centrali e periferici di alcune

costanti ematiche indicative dei livelli delle sostanze energetiche presenti, dello stato

dei depositi delle sostanze di riserva, dello stato di ripienezza dell’apparato

gastroenterico e del flusso dei metaboliti assimilati. Negli animali superiori, il

comportamento alimentare è influenzato anche da molti altri fattori endogeni ed

esogeni, con meccanismi innati ed appresi, che coinvolgono tutti i sensi.

L’attivazione del comportamento alimentare dipende:

a) soprattutto da un controllo glucostatico cioè dalla diminuzione dei livelli ematici

di metaboliti energetici quali glucosio (soprattutto), glicerolo, acidi grassi volatili

(soprattutto nei ruminanti) e corpi chetonici;

b) controllo termostatico: i centri della fame sono stimolati da un abbassamento della

temperatura del sangue che irrora il cervello.

Nei ruminanti, il glucosio ha meno importanza sull’assunzione dell’alimento rispetto

agli acidi grassi volatili (AGV), la cui concentrazione viene percepita dai recettori a

livello ruminale ed epatico e tramite il vago influenza i centri ipotalamici. Durante la

digestione si liberano ormoni gastroenterici, quali la colecistochinina, che a livello

centrale determina sazietà. L’animale regola l’ingestione, mediante la consistenza e

la frequenza dei pasti ed è importante il fatto che esso cessa di nutrirsi prima che gli

effetti assimilativi e metabolici del cibo possano farsi sentire.

Il pasto di solito ha fine con il riempimento dello stomaco, comunque, esiste anche

un controllo gastrico che tiene conto del valore nutritivo del cibo ingerito. Importanti

nella regolazione del comportamento alimentare sono i segnali provenienti dalle

terminazioni gustative: la palatabilità di ogni alimento stimola l’ingestione del cibo e

determina le preferenze alimentari.

In generale, in ogni individuo, una perdita di peso tende ad essere compensata da un

aumento dell’ingestione mentre, un aumento di peso provoca una diminuzione

dell’ingestione volontaria che tende a riportare il peso corporeo nelle condizioni

precedenti. Il punto di aggiustamento dell’equilibrio dipende da fattori genetici

connessi con i limiti della capacità di accumulo del tessuto adiposo, la quale può

essere condizionata in senso positivo o negativo, rispettivamente da eccessi o

deprivazioni alimentari avvenute durante lo sviluppo.

L’accrescimento, la gravidanza, la lattazione, gli stati di convalescenza sono

condizioni che aumentano l’assunzione alimentare, in relazione alle maggiori

necessità energetiche e plastiche. Durante i calori e immediatamente prima del parto,

l’assunzione alimentare diminuisce forse a causa dell’elevata concentrazione di

estrogeni, mentre, durante la gravidanza le elevate concentrazioni di progesterone

stimolano l’assunzione di cibo.

L’insulina, il GH, gli ormoni tiroidei, il paratormone, le endorfine, i tranquillanti, i

barbiturici aumentano l’ingestione alimentare mediante meccanismi non chiari,

mentre la colecistochinina, la calcitonina ed altri ormoni gastrici hanno azione

deprimente.

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La luce condiziona l’attività ingestiva negli animali ad abitudini diurne e ciò è

sfruttato, ad esempio, per stimolare l’accrescimento nei polli ed in altri animali da

carne.

Si parla di fame specifica quando un animale manifesta il bisogno di un determinato

nutriente e si orienta, potendo scegliere, verso l’alimento che ne contiene. La ricerca

spontanea del sodio, caratteristica negli erbivori, è presente in molti animali,

compreso l’uomo e si accentua negli stati carenziali spontanei o indotti

sperimentalmente.

Riguardo all’ingestione di alimenti dannosi, esistono meccanismi innati o appresi che

provvedono alla difesa dall’assunzione di sostanze dannose e tossiche e dalla

infestione di parassiti. Molte piante tossiche sono amare o irritanti e quindi spesso

vengono evitate e lo stesso avviene per i cibi contaminati da muffe, molto pericolose

per la presenza di tossine. Però, quando il pascolo è insufficiente gli animali si

alimentano anche con specie tossiche: gli avvelenamenti da ferula, da acetosella, da

veratro, da eliotropo, da felci avvengono generalmente solo quando il pascolo è

scarso.

Le capre si alimentano con un numero di essenze molto maggiore rispetto ai bovini e

agli ovini e sono protette dalla loro naturale capricciosità: spesso si vedono brucare

piante sicuramente tossiche ma dopo poche boccate passano a nuove essenze e

pertanto ne assumono in quantità non pericolose. Lo stesso avviene per le piante che

causano timpanite, infatti, le capre sono ghiotte di erba medica e di trifoglio ma

difficilmente ne ingeriscono quantità tali da causare timpanismo.

Molti animali che si cibano di un alimento nuovo che provochi loro un malessere

gastrointestinale rifiutano in seguito di cibarsene.

Nei confronti delle infestioni parassitarie il comportamento alimentare offre dei

meccanismi di difesa; quasi tutti gli erbivori sono coprofobi ed evitano nei limiti del

possibile di ingerire erbe contaminate con le feci sia proprie che di altre specie,

invece, i cavallini, gli agnelli e i capretti alle loro prime esperienze alimentari

possono ingerire paglia contaminata e feci e ciò è causa di infestione di nematodi e

coccidi. Gli ovini che pascolano radendo l’erba più vicino a terra rispetto ai bovini

sono più suscettibili di infestarsi raccogliendo un maggior numero di uova e di

embrioni di parassiti. La capre, che brucano la cima delle erbe e i cespugli sono

molto più difese, tranne nel periodo post-parto, quando le esigenze della lattazione le

spingono a laute foraggiate nei pascoli più ricchi.

L’assunzione di acqua è regolata in modo distinta da quella degli alimenti solidi,

anche se non è completamente indipendente. La regolazione dei liquidi corporei, di

cui la sete e l’assunzione di acqua rappresentano il momento comportamentale, è

devoluta ad un controllo neurovegetativo ed endocrino con l’ormone antidiuretico ed

il sistema renina-angiotensina-aldosterone come principali agenti. L’angiotensina ha

una potente azione dipsogena, fattore che coordina la regolazione endocrina con

quella comportamentale. Dal punto di vista comportamentale, oltre ai segnali

provenienti dal sangue, hanno importanza quelli provenienti dall’apparato digerente,

riguardanti la concentrazione osmotica e lo stato fisico dell’alimento. La qualità

dell’alimento, la sua secchezza o succosità, influisce notevolmente sull’assunzione di

acqua e la secchezza delle fauci è uno stimolo molto importante.

La temperatura ambiente influenza sensibilmente l’assunzione di acqua:

l’evaporazione a livello cutaneo, respiratorio, buccale è il principale meccanismo di

termoregolazione contro il caldo. L’allattamento richiede all’animale ingenti

introduzioni di acqua. Gli erbivori, in condizioni normali si abbeverano due volte al

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giorno ma alcune razze di essi in zone aride possono abbeverarsi molto più raramente

(una volta ogni 2-3 giorni). Animali affamati tendono a bere come attività dislocata,

animali assetati tendono a non assumere cibi secchi e polverulenti.

2.2.1 Previsione del consumo volontario di sostanza secca.

Ai fini di una corretta formulazione delle razione, recentemente si è data

importanza alla previsione di consumo volontario di sostanza secca nei bovini. I

sistemi più rispondenti allo scopo sembrano essere quello di Mertens (1987) e quello

francese delle unità di ingombro (UI). Il sistema Mertens parte dal presupposto che

gli animali consumano sostanza secca allo scopo di soddisfare i fabbisogni energetici

e tenendo conto di questo concetto si possono impostare due equazioni:

1) CSSa = Fb/Ed che indica il consumo di S.S. atteso (CSSa) nel rapporto fra il

fabbisogno dell’animale (Fb) e il contenuto di energia della dieta (Ed), che si può

esprimere in diversi modi (TDN, energia metabolizzabile/Kg, energia netta / Kg).

Questa equazione è valida per le diete il cui consumo non è limitato dall’ingombro e

quindi l’animale mangia tanto quanto gli serve. Ad esempio, se una bovina ha un

fabbisogno giornaliero di 63 MJ ed ha a disposizione una dieta con 7 MJ /kg di

energia netta, CSSa sarà uguale a 63/7 = 9Kg di sostanza secca al giorno.

2) CSSa = CI / VId, indica il consumo di sostanza secca atteso nel rapporto fra il

consumo massimo possibile per quell’animale o capacità d’ingestione (CI) ed il

cosiddetto volume di ingombro della dieta (VId) il quale potrebbe essere espresso

come concentrazione di NDF sulla sostanza secca (o in altri modi), ritenuta altamente

correlata in senso inversamente con la capacità di ingestione proporzionale. Così, se

la bovina di cui sopra può ingerire al massimo 4,0 Kg di NDF al giorno e per la

misura di ingombro si decide di prendere la frazione di NDF /Kg SS della dieta,

ponendo NDF = 0,5, il consumo atteso (CSSa) sarà pari a 4,0/0,5 = 8 Kg di sostanza

secca al giorno.

Il valore stimato con la seconda equazione è inferiore a quello della prima, perché

tiene conto dell’ingombro della dieta: quando l’animale ha ingerito 8 kg di sostanza

secca non può ingerirne altra perché limitato dalle caratteristiche fisiche

dell’alimento. In questo caso riesce a ingerire 5 x 8 = 40 MJ di energia netta e,

quindi , non potrà soddisfare il proprio fabbisogno energetico. Va sottolineato che,

fra i due valori quello più basso è più realistico e quindi è quello accettabile. Si

sarebbe potuta pure verificare la situazione opposta. Non importa quale unità di

misura si adotta perché sia il fabbisogno che la concentrazione energetica vengono

espressi nella stessa unità ed il rapporto è un numero puro mentre, è importante

stimare correttamente il fabbisogno e la concentrazione. Nelle vacche da latte,

secondo Mertens, la capacità di ingestione è, prudenzialmente dell’1,1 ± 0,1 % del

peso corporeo. I fabbisogni sono quelli indicati dall’NRC:

Fb (MJ/d) = 0,335 BW0,75

+ 3,096 FCM –20,58 L + 21,76 G dove:

BW0,75 = peso metabolico; FCM = quantità di latte prodotto al 4% di grasso, L =

perdite di peso, G = guadagno di peso.

Sempre secondo Mertens, le equazioni che correlano il contenuto in energia netta nei

foraggi (DEF = densità energetica del foraggio) con quelle di NDF sono:

a) DEF (MJ/kg S.S.) = 9,72 – 9,04 NDF (kg/ kg S.S.) per i foraggi di leguminose;

b) DEF (MJ/kg S.S.) = 11,98 – 10,96 NDF (kg/ kg S.S.) per i foraggi di graminacee.

Se ad esempio vogliamo alimentare una bovina da latte dalle seguenti caratteristiche:

- peso vivo = 700 Kg

- produzione latte = 24 Kg/d al 3,8% di grasso

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- non perde e non acquista peso

con una dieta con il 65% di fieno di medica con il 42% di NDF e il 35% di un

concentrato con il 10% di NDF, allora il livello di NDF della dieta completa è: 0,65 x

42 + 0,35 x10 = 30,8% e la densità energetica della dieta è:

Ed = 9,72-9,04 x 0,308 = 6,93 MJ/Kg S.S. e la capacità di ingestione della bovina

sarà:

CI = 0,011 x 700 = 7,7 kg NDF/d.

La quantità di latte corretto al 4% di grasso è:

FCM = Kg 24 x (0,4 + 0,15 x (% grasso) = 24 x (0,4 + 0,15 x 3,8) = 24 x 0,94 = Kg

22,6.

Il fabbisogno è: Fb = 0,335 x 7000,75

+ 3,09 x 22,6 = 0,335 x 136,1 + 3,09 x 22,6 =

115,43 MJ/d

Se applichiamo l’equazione 1, il consumo previsto è: CSSa = 115,43/ 7,7 = 14,99

kg/d.

Mentre, con l’equazione 2 avremo: CSSa = 7,7/0,308 = 25 kg/d. Il valore più basso

è quello da accettare. Se decidiamo di alimentare la bovina con solo fieno di medica,

la concentrazione energetica sarà pari a: 9,72 – 9,04 x 0,42 = 5,92 MJ/Kg S.S. ed il

valore di ingombro della dieta sarà di 0,42 kg/kg S.S. di NDF. Le due equazioni

allora daranno un consumo atteso di 115,43/5,92 = 19,50 Kg/d la prima e 7,7/0,42 =

18,3 Kg /d la seconda. I limiti del modello Martens stanno nel fatto che la

composizione dell’NDF può essere diversa da un alimento all’altro ed essi possono

essere superati prendendo in considerazione il modello Cornell che tiene conto delle

frazioni dei carboidrati a diversa degradabilità ruminale.

Sistema francese delle Unità di Ingombro

L’Unità di Ingombro (UI) della scuola francese (INRA) fa riferimento ad un

Kg di SS di un’erba giovane la cui sostanza organica abbia una digeribilità dell’80%,

corrispondente a 0,95 UFL e a 0,92 UFC. Questo tipo di alimento, mediamente,

viene consumato nella misura di 75 g di SS per kg di peso metabolico dai montoni

adulti. Il valore di ingombro misurato sull’ariete (VIA), da attribuire all’alimento è

dato dal rapporto: VIA = 75/QIA dove QIA= quantità di S.S. ingerita per Kg di peso

metabolico dell’ariete. Ad esempio, un foraggio che venga consumato

volontariamente nella quantità di 40 g/Kg0,75

, ha il valore di ingombro di 75/40 =

1,87. Conoscendo la capacità di ingestione dell’animale (CI), espressa in UI, ad

esempio 2,2 UI al giorno, per calcolare il consumo di S.S. atteso si fa il rapporto fra

la CI ed il VIA: CSSa = CI/VIA = 2,2/ 1,87 = 1,18 Kg S.S./d.

Per le bovine da latte, il valore di ingombro (VIL) è dato dal rapporto: VIL =

140/QIVL dove QIVL è la quantità di sostanza secca ingerita per Kg di peso

metabolico dalle bovine da latte. Per tutti gli altri bovini è: VIB = 95/QIG dove QIG

è la quantità di sostanza secca per kg di peso metabolico ingerita volontariamente in

manzette di razza Pie Noire. E’ possibile convertire un valore nell’altro utilizzando

delle equazioni di conversione:

QIVL = 78 + 0,826 QIA; QIG = 22,4 + 0,969 QIL; QIVL = 57 + 0,852 QIG

Il sistema francese è molto più complesso di quello che qui è stato semplificato;

infatti, di volta in volta andrebbero fatte delle correzioni a seconda della qualità degli

alimenti considerati: fieni di varia origine e natura, insilati vari, insilato di mais,

paglie e diete complete, nelle quali si tiene conto della componente concentrata e

della sua percentuale attraverso la “legge della variazione del tasso di sostituzione

marginale. Per evitare di effettuare di volta in volta i calcoli, dall’INRA, sono state

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approntate delle tabelle le quali partendo dal valore di ingombro del foraggio (VIF) di

base della dieta e dalla percentuale di concentrato, si legge direttamente il valore di

ingombro della razione (VIR). Dividendo poi la capacita di ingestione, anch’essa

riportata nelle tabelle, per il VIR, si arriva al consumo di S.S. atteso.

Una volta avvenuta l’assunzione degli alimenti, il processo nutritivo

comprende:

a) la digestione, data dall’insieme dei processi che avvengono nei vari tratti

dell’apparato digerente e che sono di natura chimica, fermentativa, enzimatica, ed

anche biologica, con l’intervento della microflora, attraverso la scissione dei principi

alimentari nei loro costituenti: separandone la porzione utilizzabile dallo stesso

organismo dalle scorie che vengono evacuate;

Correlazioni fra QIA, QIB e QIVL

50

70

90

110

130

150

50 60 70 80 90

QIA (g/Kg0.75

)

S.S

. in

geri

ta (

g/K

g0

.75)

Bovine da latte Manze Pie Noire Arieti

b) l’assorbimento, che è il fenomeno per cui i principi nutritivi liberatisi, durante la

digestione, attraversano mucose e/o pareti del tratto digerente per entrare

direttamente o attraverso determinati organi come il fegato, nel torrente sanguigno o

linfatico;

e) il metabolismo, quella serie di trasformazioni chimiche ed energetiche cui vanno

incontro i principi nutritivi una volta in circolo; favorite dalle condizioni di

temperatura, pressione e pH caratteristiche degli organismi, nonché dall’azione

catalitica degli enzimi e di quella regolatrice degli ormoni, oltreché di altri composti

ad azione bioregolatrice quali le vitamine e vari ioni di elementi minerali. Questi

processi complessi e quelli biochimici che avvengono sempre a livello dei tessuti e

organi vari sono definiti metabolismo e soddisfano le esigenze energetiche delle

singole cellule e dell’intero organismo.

2.3 Masticazione

E’ un processo prevalentemente meccanico che ha lo scopo di sminuzzare e

triturare l’alimento per aumentarne la superficie, e di conseguenza, per facilitare

l’azione idrolizzante degli enzimi digestivi. Essa viene attuata con i denti molari ed è

prolungata ed accurata negli erbivori monogastrici mentre, nei poligastrici la

masticazione che fa seguito alla prensione degli alimenti (masticazione prima) è

piuttosto sommaria ed ha lo scopo di formare un bolo grossolano il quale viene

deglutito e convogliato nel rumine; a questa farà seguito la masticazione mericica che

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è lunga ed accurata. I carnivori deglutiscono boli scarsamente masticati, sia perché i

loro molari presentano una conformazione inadatta ai processi di fine triturazione, sia

perché questi animali li utilizzano a modo di cesoie, compiendo atti masticatori che

avvicinano la mandibola alla mascella esclusivamente su un piano verticale. Gli

erbivori hanno, invece, molari piuttosto voluminosi e, per di più, forniti di cuspidi

che li rendono particolarmente adatti ad esercitare un’azione triturante sia sulle

cariossidi sia sui foraggi.

Inoltre, gli erbivori compiono movimenti masticatori che fanno scorrere la mandibola

sulla mascella in senso antero-laterale, si può comprendere che l’azione dei denti

sugli alimenti diventa analoga a quella di una macina. La mascella avendo una

larghezza maggiore di quella della mandibola, consente agli erbivori la masticazione

alternativamente da un solo lato. La masticazione è coadiuvata dall’intervento della

lingua e delle guance che con i loro continui movimenti, mantengono l’alimento

costantemente sotto i denti fino a che esso non risulti adatto alla formazione di un

bolo che verrà poi deglutito.

La masticazione è un atto volontario regolato da centri superiori, ma in pratica si

esplica come un atto riflesso involontario ogni volta che viene introdotto

dell’alimento in bocca.

Le vie nervose sensitive di questo atto riflesso sono contenute nella seconda e terza

branca del trigemino; le vie efferenti, in parte nella branca mandibolare per i muscoli

elevatori della mandibola e il muscolo miloioideo; in parte nel 7° nervo cranico, per i

muscoli delle labbra, delle guance e per il ventre caudale del muscolo digastrico; nel

12° nervo cranico o ipoglosso per i muscoli della lingua.

La masticazione è un atto meccanico di triturazione esercitato simultaneamente dalle

mandibole e dai denti molari ed è favorito dalla funzione passiva della volta palatina.

Con la triturazione si ha anche l’insalivazione che oltre a provocare il rammollimento

degli alimenti per favorirne la deglutizione dà soprattutto inizio, nella bocca, alla loro

digestione; con l’insalivazione si provoca, infatti, una prima scissione idrolitica dei

disaccaridi e polisaccaridi ad opera della ptialina (amido in destrine e maltosio).

2.3.1 - Saliva

Il compito della saliva è il mantenimento della umettazione boccale, oltre a funzioni

antibatteriche, lubrificanti e digestive nei confronti degli amidi e del glicogeno

alimentare.

Le ghiandole salivari concorrono alla formazione della saliva con secrezioni di tipo

mucosa e sieroso e le secrezioni sono diverse per la composizione in proteine, sali,

muco, enzimi. Le mucine sono glicoproteine con i residui glucidici rivolti verso

l’esterno, con la caratteristica di elevata solubilità ed idratazione e rendono viscosa la

soluzione in quanto si gonfiano; lubrificano la mucosa e quindi la proteggono mentre

impastandosi con il bolo alimentare (imbibizione) lo fanno rigonfiare. Il bolo viene

reso viscido e morbido e, quindi, viene agevolato il suo scivolamento nell’esofago

verso lo stomaco; inoltre, il rigonfiamento aumenta la superficie d’attacco del bolo da

parte dei succhi digestivi.

Il secreto sieroso, tipico della paratiroide, presenta una proteina diversa di natura

enzimatica, nota come ptialina o amilasi salivare; tale enzima ha il compito di

idrolizzare i legami 1--4 glucosidici, tipici dell’amido. Il pH ottimale della ptialina

è intorno a 6,7 e l’ambiente gastrico, fortemente acido, ne inibisce l’azione. I prodotti

finali della digestione con l’amilasi salivare sono il maltosio, il maltotrioso e le

destrine -limite.

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Nel complesso, la saliva si presenta come un liquido incolore, leggermente

vischioso, composto per più del 98% di acqua. I soluti sono organici (mucina,

ptialina, albumine, globuline, urea) e inorganici (Cl--, HCO3

-, HPO4

--, H2PO4

-, I

-, K

+,

Na+, Ca

++).

L’urea è presente soprattutto nella saliva dei ruminanti, grazie all’intensa attività

delle ghiandole salivari. L’urea è preziosa per la flora microbica ruminale in quanto

costituisce una fonte organica di azoto per la sintesi di aminoacidi. Una

concentrazione molto elevata di urea può portare ad un innalzamento drastico del pH

in quanto è una base forte. Inoltre, l’urea può trasformarsi in ammoniaca e

attraversare le pareti ruminali, passando in circolo e venendo a interferire con il

funzionamento di strutture nervose: passa per gradienti di concentrazione e di pH.

Lo ione bicarbonato HCO3-

ha il compito di tamponare l’acidità dell’ambiente

ruminale, dovuta alle fermentazioni. Nelle ghiandole salivari è presente anche

l’enzima anidrasi carbonica che accelera la reazione: HCO3- + H

+ = H2CO3 = CO2 +

H2O

La concentrazione di HCO3- nella saliva è più elevata di quella plasmatica, in fase di

secrezione elevata. La saliva a pH 7 è satura di Ca++

il quale bilancia l’usura del

dente e ne impedisce la decalcificazione. Il tartaro dentario è un deposito di sali di

Ca++

sul quale precipitano altre sostanze, dando un accumulo non normale.

Relativamente allo ione ioduro I-, le ghiandole salivari assorbono lo iodio dal plasma,

così che la sua concentrazione è più elevata che quella plasmatica; tale assorbimento

da un punto di vista funzionale è ancora poco chiaro. La concentrazione in K+

presente nel liquido salivare è molto maggiore di quella plasmatica e ciò perché a

livello di acini secretori il secreto è isotonico rispetto al liquido extracellulare ma

uscendo verso il dotto escretore si incontra una zona definita dotto striato nella quale

si ha assorbimento attivo di sodio e una eliminazione di potassio; tale processo ha

regolazione ormonale ed è sotto l’azione dell’aldosterone. Inoltre, si ha la secrezione

di ione bicarbonato concomitante. La quantità e la qualità della saliva variano

secondo la natura dei materiali introdotti in bocca: introducendo alimenti secchi o

soluzioni irritanti, si ottiene la secrezione abbondante di saliva acquosa di natura

soprattutto parotidea. Per la formazione del bolo, per la deglutizione è più utile una

saliva ricca di mucine, proveniente dalle ghiandole sottomascellari e sottolinguali.

Produzione di saliva nei bovini in funzione dell’alimento ingerito

Alimento Produzione di saliva

g/Kg di alimento

Velocità di assunzione

del cibo (Kg/minuto)

Pellettato 680 0,24-0,36

Insilati 1130 0,25-0,28

Fieno 3630 0,25-0,27

Erba fresca 940 0,27-0,28

Erba secca 3250 0,27-0,28

La modalità di secrezione della saliva nelle diverse ghiandole è diversa, infatti, nelle

ghiandole sottomascellari e sottolinguali la secrezione è continua e remittente

(aumenta nella masticazione) mentre, nelle ghiandole parotidi la secrezione è

intermittente (ad intervalli durante la masticazione). Per quanto riguarda le parotidi

ciò non è vero nei bovini. In caso di salivazione insufficiente si parla di xerostomia

mentre la salivazione abbondante si dice scialorrea.

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2.4 Deglutizione

E’ l’atto mediante il quale il bolo alimentare, più o meno masticato e insalivato,

a seconda della specie, passa dalla bocca, attraverso faringe ed esofago, direttamente

nello stomaco dei monogastrici o nel rumine dei poligastrici. Questo atto è

caratterizzato da una coordinata serie di eventi motori che interessano tutti gli organi

prima citati. L’atto deglutorio inizia come fenomeno volontario, ma diventa

successivamente riflesso durante la sua prosecuzione. Importanti per il suo insorgere

sono i movimenti della bocca e della lingua i quali, oltre ad amalgamare l’alimento

con la saliva, convogliano il bolo fra la base della lingua stessa e il palato duro, nella

posizione più adatta per essere deglutito.

La deglutizione avviene quando il bolo è sufficientemente masticato ed insalivato;

esso è spinto con l’aiuto della lingua contro la parete della faringe ed, attraverso

l’esofago, arriva allo stomaco dei monogastrici e nel rumine dei poligastrici. La

deglutizione è un atto riflesso che comincia con la raccolta volontaria del contenuto

orale sulla lingua, cui segue la propulsione di esso nella faringe. Si origina così

un’onda di contrazione involontaria dei muscoli della faringe, che spinge il bolo

nell’esofago. L’inibizione del respiro e la chiusura della glotide sono effetti

collaterali di questa risposta riflessa. A livello di giunzione gastroesofagea, vi è un

tratto di muscolatura che è tonicamente contratto, il quale si rilascia in via riflessa

nella deglutizione e permette il passaggio del bolo al corpo dell’esofago. Dietro al

materiale si forma un anello di contrazione muscolare e si ottiene un’onda

peristaltica, della velocità di circa 4 m al secondo. I liquidi scendono per gravità, se

l’individuo è in stazione eretta, precedendo l’onda peristaltica.

L’ormone gastrina ha la capacità di aumentare il tono dello sfintere nella giunzione

gastroesofagea, ma non raggiunge mai concentrazioni tanto elevate in condizioni

fisiologiche.

2.5. Fisiologia della digestione nei monogastrici

Il bolo alimentare una volta arrivato nel primo tratto dello stomaco si trova in un

mezzo alcalino per la presenza preponderante della saliva e quindi le amilasi salivari

possono continuare a demolire l’amido fino a quando l’acidità non le blocca.

Successivamente il bolo passa nella frazione gastrica, per la presenza di enzimi

gastrici (pepsina, chimosina, lipasi) e dell’acido cloridrico. Il bolo nello stomaco

entra per mezzo del cardias e si dispone in strati distinti. Il primo bolo viene spinto

alla periferia, verso la grande curvatura; i boli successivi si stratificano secondo sfere

concentriche, fino a che l’ultimo bolo inghiottito rimane nelle immediate vicinanze

del cardias. Si nota, quindi, una fase di riposo di circa un’ora durante la quale la

stratificazione rimane quasi immutata: lo strato più esterno del cibo viene ad essere

imbevuto dagli enzimi digestivi e dall’HCl del succo gastrico, mentre all’interno

della massa gastrica del cibo può continuare, fino a quando il pH non raggiunge

valori bassi, la digestione amilasica salivare. Lo stomaco accogliendo il bolo si

distende ed aumenta la sua capacità, senza tuttavia aumentare la pressione

endocavitaria per piccole o grandi quantità di cibo. Questo fenomeno è detto

rilassamento recettivo e indica l’esistenza di processi che permettono il rilassamento

del tono muscolare gastrico. Sul fatto, sono state fatte due ipotesi:

a) inibizione riflessa, operata dai plessi nervosi intramurali che inibiscono l’attività

meccanica del muscolo liscio;

b) riempimento passivo, degli organi cavi, secondo un principio piuttosto generale.

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La seconda ipotesi sembra la più probabile e sostiene che il rilassamento è dovuto

alla presenza di tessuto connettivo lasso fra le fibrocellule muscolari lisce, che

assorbirebbe la maggior parte della pressione esercitata internamente dal bolo. Tale

dilatazione interesserebbe la muscolatura liscia solo oltre un certo livello. Alla base

di queste teorie, vi è la legge di Laplace che correla la pressione intramurale T, quella

transmurale P e il raggio di curvatura R dell’organo cavo. La pressione in un organo

cavo è distribuita in eguale modo in tutte le direzioni: P = K x T/R; la costante K

varia in funzione della forma dell’organo (per un solido sferico semplice = 2).

Lo svuotamento dello stomaco è un processo lento: dopo il passaggio di una piccola

parte del chimo nel duodeno (in seguito all’onda di contrazione) si osserva un’onda

peristaltica duodenale che lo fa avanzare. La velocità di svuotamento è controllata da

vari fattori:

a) stato del duodeno: distensione, irritazione meccanica, presenza di soluzioni

ipertoniche e ipotoniche, presenza di prodotti di scissione (grassi, acidi grassi,

proteosi, peptoni, aminoacidi, glucidi) che inibiscono la motilità della muscolatura

gastrica e quindi ostacolano lo svuotamento dello stomaco;

b) enterogastrone: sostanza ormonale secreta nel duodeno e che ha effetto inibente

sulla motilità gastrica; essa giunge allo stomaco per mezzo del torrente circolatorio e

inibisce anche la secrezione acida gastrica;

c) riflesso enterogastrico: si tratta di un riflesso nervoso vagale che controlla

l’ampiezza ma non la frequenza della peristalsi gastrica; sembra che gli acidi e i

prodotti peptidici agiscano attraverso il meccanismo riflesso vagale mentre, i grassi e

i carboidrati attraverso quello umorale;

d) fenomeni psichici: lo stress e la paura inibiscono l’attività gastrica;

e) insulina: oltre che stimolare il nervo vago, influenza l’attività meccanica gastrica,

probabilmente, regolando l’assorbimento cellulare del glucosio attraverso l’azione

sui recettori specifici a livello dell’ipotalamo.

Per quanto riguarda il pH nel duodeno si ha un’azione di tamponamento dell’acidità

del chimo, per mezzo di tampone bicarbonato HCO3- / H2CO3 secreto dalla mucosa

enterica, che porta il valore del pH da 2 a 4 - 4,5; mentre, procedendo verso il colon,

a livello di secrezione biliare epatica e pancreatica, il pH si aggira intorno a 8.

Attività secretoria dello stomaco

La secrezione gastrica è data da tre tipi cellulari, posti in zone diverse e aventi

diverse secrezioni:

a) cellule principali o peptiche: secernono proteine ed enzimi digestivi;

b) cellule parietali od ossintiche con secrezione acida;

c) cellule mucipare: secernono mucine protettive (glicoproteine).

Mentre le cellule principali e parietali si trovano nel fondo e nel corpo dello stomaco

quelle mucipare si trovano nella porzione antrale.

La secrezione gastrica ha un pH inferiore a 1 e contiene:

a) HCl, pepsina e quantità trascurabili di lipasi;

b) mucine: hanno azione lubrificante e protettiva della mucosi gastrica nei confronti

della autodigestione;

c) acqua e piccole quantità di elettroliti (cloruri, bicarbonati di sodio);

d) fattore intrinseco di Castle, detto anche fattore antianemico e necessario per

l’assorbimento della vitamina B12

La produzione di HCl dalle cellule parietali si ha in risposta a determinati stimoli,

inizia quando l’animale decide di ingerire cibo (intervento cefalico) e aumenta

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gradualmente con la masticazione (intervento oro-faringeo) e la presenza di alimento

nello stomaco (intervento gastrico). Lo stomaco a riposo non secerne HCl ma sali

cloruri. L’acidità del succo gastrico varia in funzione della concentrazione di HCl

secreto dalle ghiandole parietali nell’unità di tempo. Quando il ritmo della secrezione

parietale è lento si ha una forte diluizione dell’acidità da parte delle secrezioni non

parietali ed il pH si alza. Il valore teorico dell’HCl secreto dalle cellule parietali è di

166 mEq/lt.

La cellula parietale presenta, nella parte rivolta verso il lume ghiandolare, un fitta rete

di canalicoli che si approfondano nel citoplasma cellulare, rivestiti da una membrana,

i quali danno una reazione intensamente acida; l’interno della cellula presenta invece

un pH quasi neutro (7,2). La secrezione di HCl quasi sicuramente avviene nei

canalicoli.

Il trasporto di ioni attraverso la mucosa gastrica è dato da due componenti:

a) componente di secrezione continua, basale;

b) componente secretoria dovuta a stimolazione da parte di agenti stimolanti.

Inoltre, il meccanismo di trasporto è diverso per i diversi ioni:

- Na+ è trasportato attivamente al plasma (trasporto legato ad una pompa metabolica

che consuma ATP e quindi energia) in cambio di K+, il quale viene diffuso

passivamente nel lume gastrico (serve al mantenimento della elettro-neutralità;

- Cl- entra passivamente nella cellula parietale grazie alla sua elevata permeabilità;

viene espulso nel lume gastrico mediante trasporto attivo (pompa metabolica);

- CO2 entra nella cellula per diffusione passiva (gradiente di concentrazione);

- H+ sembra provenire dalla dissociazione dell’H2CO3 e la sua secrezione lascia

all’interno della cellula una molecola basica, che viene eliminata soprattutto per

gradiente di concentrazione. Per ogni mole di H+ secreto nel lume gastrico, una mole

di HCO3- viene immessa nel flusso venoso gastrico. Dopo un pasto appetitoso, si può

notare nel plasma una elevata concentrazione di HCO3-, detta Marea alcalina

postprandiale.

La concentrazione plasmatica di HCO3- può essere tanto grande da ottenere una

escrezione transitoria di ione bicarbonato attraverso i reni. La reazione con cui si

forma HCO3- è una conseguenza e non una causa della secrezione di H

+ in quanto la

reazione è la seguente:

H2O OH- + H

+ espulso nel lume gastrico

CO2 + OH- HCO3

- espulso nel plasma

La CO2 tamponerebbe l’effetto dello ione OH- che danneggerebbe la cellula in caso

di accumulo intracellulare.

La secrezione di HCl assume valori intorno a 160 mEq/lt e ciò indica che il pH è

inferiore a 1 e visto che il pH cellulare ha valori intorno a 7 se ne deduce che esiste

un gradiente di concentrazione per gli ioni H+, diretto verso l’interno della cellula.

L’HCl ha azione batteriostatica, denatura le proteine e le rende strutturalmente più

idonee all’attacco degli enzimi proteolitici; attiva il pepsinogeno presente nel succo

gastrico trasformandolo in pepsina e crea le condizioni di pH (1-2.5) ottimali per

l’azione di questo enzima. Nella frazione gastrica il bolo è soggetto all’azione

proteolitica e viene trasformato in un impasto detto chimo.

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Secrezioni enzimatiche dello stomaco

Comprendono: 1) pepsina: è secreta come pepsinogeno dalle cellule

principali; l’attivazione del pepsinogeno in pepsina è dovuta all’ambiente acido (pH

= 2) creato dall’H+ che permette il distacco di un frammento peptidico che funge da

tappo sul sito attivo dell’enzima. L’azione della pepsina è migliorata dalla

denaturazione proteica ma l’effetto finale è quello di una leggera idrolisi con

frammenti polipeptidici;

2) rennina: è un enzima simile alla pepsina, la sua funzione è quella di far

precipitare la caseina del latte e renderla insolubile, sotto forma di paracaseinato di

Ca++

(caglio). La precipitazione della caseina permette che il latte rimanga più a

lungo nello stomaco e quindi aumentarne la digestione. Si trova nei lattanti e negli

animali giovani.

3) fattore intrinseco di Castle: è una proteina che presenta una notevole resistenza

all’idrolisi peptica, ha il compito specifico di legare la vitamina B12 e di proteggerla

dall’ambiente gastrico (acido). E’ secreta dalle cellule secernenti Cl-, così un

aumento della secrezione di Cl- ne indica anche uno di quello del fattore intrinseco;

4) mucine: non si tratta propriamente di enzimi, ma di glicoproteine che hanno il

compito di proteggere la mucosa gastrica dall’autodigestione e lubrificare il chimo.

Lo stimolo alla secrezione si ottiene grazie a tre tipi diversi di interventi:

1) intervento cefalico: è dato da stimoli di vario tipo (gusto, olfatto, visione, udito)

che provocano meccanismi riflessi, più o meno condizionati, di secrezione gastrica,

nota come succo gastrico dell’appetito;

Plasma Cellula parietale Lume

Na+

Pompa

K+

Diffusione passiva

K+

K+

Cl-

Pompa

Cl-

HCO3-

HCO3- + H

+ pompa

H+

H2CO3 anidride carboniosa

CO2 CO2 + H2O

ddp = - 60 mV

2) intervento gastrico: l’alimento svolge una certa azione sul canale alimentare di

tipo meccanico e chimico. L’entrata del bolo nello stomaco va a stimolare la

porzione pilorica dello stomaco, che non secerne HCl.

3) intervento duodenale: inizia quando il chimo acido gastrico entra nel duodeno, per

mezzo dello sfintere pilorico e la parete duodenale è distesa.

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Secrezioni presenti nell’intestino tenue

Nel tenue vi sono ghiandole parietali ed extraparietali che riversano il loro

secreto nel lume:

a) ghiandole del Brunner (parietali)

b) porzione esocrina del pancreas

c) fegato.

Il pancreas è una ghiandola extraparietale, composta da una porzione esocrina ed una

endocrina. La porzione esocrina ha la struttura tipica delle ghiandole acinose, le cui

unità secernenti hanno la forma di acini, con un dotto escretore che raccoglie il

secreto, rivestito da cellule centroacinose. I due tipi cellulari hanno diverse

secrezioni:

a) cellule degli acini: secrezione di enzimi digestivi;

b) cellule centro-acinose: secrezione di sali che servono al tamponamento dell’acidità

del chimo e alla protezione della mucosa intestinale. Si tratta essenzialmente di

bicarbonati che alzano il pH a valori di 7-8, ottimali per gli enzimi pancreatici. La

somma di tali secrezioni fornisce un succo pancreatico, composto da enzimi digestivi

ed elettroliti. Il pancreas esocrino, se a riposo, produce soprattutto cloruri di Na+ e

K+, mentre sotto stimolazione aumenta la produzione di bicarbonati, in modo che la

somma delle concentrazioni di HCO3- e Cl

- è costante. A qualunque ritmo secretorio

il succo pancreatico è isotonico rispetto al plasma. Il tampone bicarbonato, riversato

nel duodeno, tampona l’acidità del chimo e la porta a valori di neutralità o addirittura

di basicità: ne segue l’annullamento dell’attività della pepsina, che è attiva al 100%

ad un pH di circa 2. In compenso è favorita l’azione degli enzimi digestivi presenti

nel lume intestinale, che operano bene ad un valore di pH intorno a 7.

Gli enzimi pancreatici costituiscono circa il 95% della componente proteica del

secreto, e sono in grado di demolire tutti i principi alimentari nei costituenti più

semplici, permettendo una digestione quasi completa. Fra essi ricordiamo:

1) -amilasi pancreatica: è simile alla ptialina; agisce sull’amido e i polisaccaridi

con legami 1--4 glucosidici, fino alle ramificazioni 1--6. Il pH ottimale di

funzionamento è intorno a 6,9 e la sua attività cessa con pH al di sotto di 4,5. La sua

attività è maggiore nei monogastrici, mentre nei ruminanti è un enzima scarsamente

importante visto che i carboidrati sono attaccati dalla flora ruminale. Esso è resistente

all’idrolisi proteica in quanto la sua struttura è resa stabile dalla presenza di ioni

Ca++

.

2) lipasi pancreatiche: si tratta di enzimi che lavorano sui grassi neutri (soprattutto

trigliceridi) idrolizzando i legami esterici sugli atomi di C 1 e 3 del glicerolo, in una

reazione reversibile. Giunge nell’intestino in una forma già attivata e non è presente

nel secreto pancreatico dei ruminanti. I prodotti di degradazione della lipasi sono

glicerolo, acidi grassi e monogliceridi. Anche le lipasi sono resistenti all’idrolisi

proteica per la presenza di Ca++

nella struttura. L’attività delle lipasi sui grassi è

coadiuvata dalla presenza di aminoacidi, ioni Ca++

e soprattutto sali biliari. Tali

sostanze funzionano da agenti emulsionanti sulle micelle di grassi, srotolandole

nell’ambiente acquoso e aumentando la interfacies oleosa/idrica; ciò permette un

miglior attacco dei grassi da parte delle lipasi. Gli ioni Ca++

fungono da

saponificatori, portando in soluzione gli acidi grassi. Se si ha ipocalcemia, ciò può

essere dovuta ad alterazione del pancreas.

3) proteasi pancreatiche: per evitare l’autodigestione gli enzimi proteolitici, sono

secreti in forma inattiva e attivati una volta giunti in loco. Fra essi ricordiamo:

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a) tripsinogeno: è la forma inattiva della tripsina, endopeptidasi che agisce su un

legame peptidico il cui carbossile sia fornito da una lisina o un’arginina (aminoacidi

basici). L’attivazione dell’enzima avviene nel lume intestinale per opera

dell’enterochinasi, glicoproteina che stacca un frammento dalla molecola di

tripsinogeno, rendendolo attivo come tripsina. Una volta attiva, si ha un processo

autocatalitico per cui la tripsina è in grado di attivare altro tripsinogeno e anche altri

enzimi proteolitici;

b) chimotripsinogeno: è una endopeptidasi che agisce meglio ad un pH 8, scindendo i

legami carbossilici dove vi sono aminoacidi aromatici impegnati;

c) procarbossipeptidasi (A e B): si tratta di enzimi che staccano gli aminoacidi delle

catene proteiche partendo dal gruppo terminale -COOH. Il tipo A stacca tutti gli

aminoacidi, ad eccezione di lisina, arginina, ossiprolina che invece sono staccati dal

tipo B;

d) proelastasi e procollagenasi: sono proteasi adatte alla scissione del collagene e

dell’elastina, particolari proteine ricche in prolina, tipiche del tessuto connettivo.

4) nucleasi (RNA - asi e DNA - asi) sono enzimi che scindono i nucleotidi e gli

acidi nucleici, che agiscono sul contenuto dei nuclei cellulari, precedentemente

disgregati dall’azione di proteasi e lipasi;

5) colesterolo - esterasi: è una esterasi che rompe il legame fra il colesterolo ed un

altro composto, in genere un acido grasso.

6) fosfolipasi: si tratta di enzimi che agiscono sui fosfolipidi, esistenti in almeno

quattro tipi diversi (A, B, C, D) che staccano le molecole in punti diversi.

Le ghiandole duodenali del Brunner, si trovano solo nella porzione caudale

del tenue; la loro secrezione aumenta in proporzione all’ingestione di cibo. Nella

prima porzione del duodeno, il numero di tali ghiandole è maggiore e la loro

secrezione si presenta più viscosa e più ricca di ioni bicarbonato di quella del restante

duodeno. La funzione del secreto di tali ghiandole forse è quella di proteggere la

mucosa duodenale dall’acidità del chimo, neutralizzandola con il tampone

bicarbonato.

Secrezioni del fegato: la bile è prodotta dagli epatociti e riversata nei dotti

biliferi del fegato per esserne espulsa. Essa ha sia azione emulsionante nei confronti

dei grassi alimentari, sia azione di escrezione di alcune sostanze provenienti dal

catabolismo delle emoproteine. La bile prodotta può essere immagazzinata

gradualmente nella cistifellea per essere poi espulsa al momento del bisogno. Negli

animali privi di colecisti, quale il cavallo, essa è escreta direttamente nel duodeno

come un flusso continuo durante la giornata. La bile è composta per il 97% da una

porzione elettrolitica (HCO3-, Na

+, K

+, Cl

-) e per il 3% da una porzione non

elettrolitica (sali biliari, pigmenti biliari, fosfolipidi). I sali biliari sono il prodotto

terminale principale e la principale forma di escrezione del colesterolo e

costituiscono la metà della porzione non elettrolitica. Sono dati da numerosi acidi

biliari (acido colico, desossicolico, chenodesossicolico, iocolico, litocolico). Gli acidi

colico e chenodesossicolico sono detti sali biliari primari perché sintetizzati nel

fegato in questa forma; gli altri acidi si trovano solo nelle feci e sono detti sali

secondari. I sali biliari svolgono un’azione detergente per le loro proprietà

tensioattive: abbassano la tensione superficiale dei grassi e delle sostanze idrofobe in

ambiente acquoso, disponendosi attorno alle micelle in modo tale da renderle solubili

e permettono l’attacco da parte delle lipasi pancreatiche. In condizioni normali, solo

il 10% dei sali biliari è espulso con le feci: il resto è assorbito attivamente da parte

della mucosa dell’ileo, è immesso nel circolo ematico portale e raggiunge di nuovo il

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fegato. Questo ciclo di assorbimento ed escrezione è detto entero-epatico. E’ un

meccanismo che permette il risparmio di energia da parte dell’organismo in quanto la

produzione di sali biliari è abbastanza lenta. I sali biliari subiscono due processi:

a) accumulo, per essere escreti (cistifellea);

b) recupero, perché siano disponibili in quantità sufficiente per il pasto successivo.

Esiste un meccanismo di feed-back positivo basato sull’equilibrio ematico ed epatico

del colesterolo: quando il colesterolo è elevato, il fegato è stimolato ad assorbirlo e a

trasformarlo in sali biliari. La presenza dei grassi nell’intestino stimola la produzione

dell’ormone colecistochinina, che agisce sulla muscolatura della cistifellea e la

spinge a contrarsi e ad espellere la bile per mezzo di uno sfintere duodenale,

collegata ad esso per mezzo del dotto coledoco. Una ostruzione delle vie biliari

(calcolosi) porta ad accumulo eccessivo dei sali biliari e della bile in genere; ciò

comporta un blocco della sintesi dei sali biliari e un aumento del pool del colesterolo,

che si manifesta con aumento della colesterolemia.

Gli acidi biliari al livello digestivo sono importanti perché:

a) promuovono la digestione e l’assorbimento dei lipidi alimentari e delle vitamine

liposolubili;

b) stimolano le secrezioni enteriche e pancreatiche;

c) neutralizzano l’acidità del chimo gastrico;

d) normalizzano la flora batterica intestinale quale substrato per reazioni

biochimiche.

Succhi enterici

Sono dati dall’insieme dei prodotti della mucosa intestinale. La reazione è nel

complesso, di piccola entità e risulta isotonica rispetto al plasma. Oltre a sali ed

elettroliti il secreto contiene mucine e due proteine enzimatiche, un’amilasi e

l’enterochinasi, quest’ultima deputata all’attivazione del tripsinogeno. Nel succo

enterico si trovano anche altri enzimi associati a cellule di sfaldamento della mucosa.

Si tratta di enzimi solitamente associati alla superficie dei microvilli intestinali,

aventi il compito di completare la digestione e forse di carriers specifici attraverso la

mucosa. Tali enzimi sono: lattasi, saccarasi, maltasi e isomaltasi, cellobiasi,

colesterolo-esterasi, fosfatasi alcalina, ATP-asi, aminopeptidasi. La lattasi ha una

induzione inversa rispetto agli altri enzimi che demoliscono i glucidi; essa è presente

in gran quantità nell’intestino del neonato e scompare gradualmente con lo

svezzamento. Ciò comporta la perdita della capacità di digerire il lattosio e quindi il

latte. Nell’adulto, il lattosio è assorbito in minima parte per poi essere espulso con le

urine. La parte che non è assorbita, più cospicua, rimane nel lume intestinale dove

richiama acqua per fenomeni osmotici. Il lattosio è degradato dalla flora batterica

Lac+ e utilizzato per la sintesi di acidi grassi, che hanno azione tossica e aumentano

la peristalsi intestinale. Invece di avere riassorbimento dell’acqua, si osserva una

aumentata secrezione: si ha il fenomeno della diarrea. Il ritorno all’allattamento può

portare a gravi enteriti per la mancanza di lattasi. La diarrea cronica comporta una

grossa perdita di succo intestinale che provoca un’acidificazione dell’ambiente

intestinale (acidosi) per la perdita dei sali e dei bicarbonati. Inoltre, sono sottratti

dall’organismo elettroliti preziosi, quali il K+ e una grossa quantità di acqua, con il

rischio di disidratazione e depauperamento delle riserve saline. Gli enzimi saccarasi,

maltasi e isomaltasi mancano nel suino e nel vitello neonato, ma la loro sintesi è

indotta nel passaggio graduale dall’alimentazione lattea a quell’adulta.

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In sintesi, durante la chimificazione, le due valvole d’entrata e di uscita dello

stomaco (cardia e piloro) sono chiuse, la muscolatura si contrae e si ha la

mescolazione del chimo; successivamente le contrazioni favoriscono il passaggio del

chimo verso l’intestino. La digestione intestinale provvede all’ulteriore

trasformazione di quanto nel chimo è sfuggito ai succhi gastrici (proteine

parzialmente digerite, carboidrati intaccati solo in parte, lipidi praticamente

immodificati). Ciò è possibile grazie ai continui movimenti di mescolamento e di

trasporto alla frazione di enzimi che si trovano nell’intestino tenue e forniti dal

pancreas (succo pancreatico) e dalle ghiandole della mucosa intestinale (succo

enterico) nonché dalla bile del fegato. Il succo pancreatico è costituito da un

complesso di enzimi proteolitici (tripsina, chemiotripsina e carbossipeptidasi) che

attaccano le molecole proteiche scindendole in polipeptidi sempre più semplici, fino

alla liberazione di aminoacidi che avverrà per l’intervento di peptidasi presenti nel

succo enterico.

Inoltre, nel succo pancreatico è contenuta la lipasi pancreatica che trasforma i grassi

(trigliceridi in digliceridi, monogliceridi e glicerolo + acidi grassi liberi).

Il succo enterico, prodotto dal disfacimento delle cellule epiteliali della mucosa del

digiuno e dell’ileo, contiene enzimi proteolitici (complesso ereptico) che completano

la digestione delle proteine fino ad aminoacidi; un enzima lipolitico (lipasi enterica)

che trasforma il tripsinogeno in tripsina, le glucosidasi (maltasi, saccarasi, lattasi) che

scindono i disaccaridi (maltosio, lattosio, saccarosio) in monosi e le nucleotidasi e

nucleosidasi enteriche che scindono gli acidi nucleici in basi azotate, acido fosforico

e pentosi.

La bile del fegato, con i suoi acidi e pigmenti biliari, il colesterolo ed alcuni

acidi grassi rende i grassi atti a subire l’ulteriore e fondamentale azione digerente dei

succhi pancreatici.

Nel cieco e nel colon dei monogastrici esiste una flora microbica che è in grado di

intaccare parte della cellulosa degli alimenti ed anche certe strutture azotate di natura

non proteica.

L’impasto che si forma sotto l’azione dei succhi digerenti e dei movimenti

dell’apparato intestinale prende il nome di chilo ed i principi nutritivi in esso

contenuti sono assimilabili, mentre le sostanze sfuggite alla digestione e le scorie

sono destinate ad essere evacuate.

2.6. Vomito

Il vomito consiste nell’espulsione di contenuto gastrico attraverso l’esofago e

la bocca; esso è di solito un atto riflesso, il cui stimolo scatenante può avere varie

origini:

a) irritazione oro-faringea o della mucosa gastrointestinale;

b) cinetosi, fenomeno legato all’alterazione dei canali semicircolari, organo di senso

che informa il SNC sulla posizione del corpo nello spazio;

c) infiammazione delle vie genito-urinarie;

d) emozioni sgradevoli, importanti nell’uomo.

Questo riflesso è coordinato nel bulbo da un centro del vomito, il quale ha relazioni

con il centro della respirazione.

Il senso di nausea e l’eccessiva salivazione, infatti, precedono una serie di

inspirazioni profonde, che accompagnano i conati di vomito. Una inspirazione a

glotide chiusa provoca una depressione all’interno dell’esofago, grazie all’azione

della muscolatura respiratoria. Il diaframma si abbassa con violenza, i muscoli

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addominali si contraggono; contemporaneamente si ha la contrazione energica del

piloro e il rilassamento del fondo dello stomaco, del cardias e dell’esofago. La

pressione che si crea è sufficiente a spingere gli alimenti nell’esofago stesso. Oltre

alla nausea e alla salivazione, si accompagnano al vomito il senso di debolezza e il

pallore, lacrimazione e caduta della pressione sanguigna. Il vomito se è un fenomeno

raro, ha effetti benefici in quanto permette la liberazione da sostanze tossiche

eventualmente presenti; se è un fenomeno recidivo, è dannoso perché comporta una

grossa perdita di elettroliti, fra i quali è importante il K+.

2.8. Particolarità nei conigli

La digestione dei conigli è caratterizzata dalla ciecotrofia. L’attività del cieco

nel coniglio è da paragonare al rumine con la differenza che mentre nei ruminanti

s’instaura un ciclo alimentare interno (rumine reticolo omaso abomaso) nel

coniglio il ciclo comprende una fase esterna (cieco ano bocca stomaco

ileo), inoltre mentre nei ruminanti la flora microbica agisce sull’alimento appena

ingerito, quella ciecale agisce sui residui alimentari che hanno subito l’azione dei

succhi digerenti.

Nel coniglio il chilo a livello di ileo entrando nel cieco diviene in parte feci e

si dirige verso il colon per essere evacuato ed in parte si dirige verso la parte

appendicolare dello stesso cieco, dove sosta più o meno a lungo ed è sottoposto

all’azione degli enzimi cellulosolitici, che idrolizzano parzialmente la cellulosa, con

formazione di acidi grassi volatili (AGV) i quali, attraverso la mucosa, passano nel

sangue della vena mesenterica anteriore. Con la digestione enzimatica e microbica,

detta ciecotrofia, si ha la formazione del ciecotrofo che è rappresentato da pallottole

fecali soffici e morbide (ciecotrofo), avvolte in una pellicola di muco.

Il ciecotrofo (ricco in vitamine, proteine, aminoacidi) ha un preciso significato

nutrizionale dato che il suo contenuto, soprattutto, in aminoacidi varia notevolmente

in rapporto a quello della razione ed è tanto più alto quanto più essa è povera e

diversi aminoacidi (lisina, metionina, leucina, alanina, valina, ecc.) sono

costantemente molto più rappresentati nel ciecotrofo che non nell’alimento. Per

questo, il coniglio preleva con la bocca i ciecotrofi dall’ano, in genere ogni 24 ore, e

li riutilizza durante un secondo ciclo alimentare. Così, il coniglio rispetto agli altri

monogastrici, utilizza meglio la fibra grezza, aumenta la digeribilità degli alimenti,

ricicla l’acqua ed ottiene la copertura del 30% del proprio fabbisogno energetico e del

20% del proprio fabbisogno proteico.

2.8.1. Particolarità nei volatili

Gli uccelli prendono l’alimento con il becco. La bocca non ha funzione

masticatoria in quanto mancano i denti e la saliva é minima e serve solo per favorire

la deglutizione. Attraverso l’esofago, l’alimento è spinto, con movimenti volontari, in

una dilatazione dello stesso esofago che costituisce un punto di sosta dell’alimento da

2 a 24 ore. Nei colombi, il gozzo serve solo alla produzione del cosiddetto latte del

gozzo (latte che non ha niente a che vedere con quello dei mammiferi) che è secreto

da entrambi i genitori e serve per l’alimentazione dei piccoli nella prima settimana di

vita.

Nel gozzo si ha un rimescolamento ed una prima macerazione favorita dal secreto

delle ghiandole mucipare del gozzo e dall’acqua di abbeverata. Successivamente, il

cibo passa nel proventricolo o stomaco ghiandolare contenente HCl ed enzimi quali

la pepsina che attacca la proteine. L’alimento ricco di succo gastrico passa nel

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ventriglio o stomaco muscolare, il quale ha una potente muscolatura e lamine di

triturazione che insieme ai sassolini e la sabbia, ingeriti volontariamente

dall’animale, sminuzzano finemente il cibo il quale si trova anche sotto l’azione

chimica ed enzimatica (soprattutto peptica) dei succhi gastrici. Con il passaggio nel

duodeno si ha l’attacco dei succhi digestivi (pancreatici, enterici, epatici). Il chilo,

infine, passa nei ciechi, dove sosta 3-4 giorni, e si ha una parziale digestione della

cellulosa e la sintesi di vitamine del gruppo B.

2.8.2. Digestione nei lattanti dei poligastrici

I poligastrici lattanti si comportano come i monogastrici fino a quando i

prestomaci non diventano funzionali. In questi animali, i processi digestivi del latte

sono devoluti all’abomaso i cui succhi sono provvisti di enzimi amilolitici e

proteolitici, cui si aggiungono quelli del succo pancreatico ed enterico oltre le,

rispettive, lipasi pancreatica ed enterica. L’abomaso digerisce quindi le proteine, i

grassi ed il lattosio del latte. Il latte, dalla suzione, direttamente è deglutito ed avviato

all’abomaso attraverso la doccia esofagea. Nei succhi dell’apparato gastrointestinale,

l’enzima più importante per la digestione del latte, e precisamente della sua frazione

proteica, è il caglio o presame o chimosina. Altro enzima è la lipasi gastrica che

avvia la digestione dei globuli di grasso.

2.9. Fisiologia della digestione nei poligastrici

Va sottolineato che, i poligastrici oltre che avere la capacità di digerire le

sostanze alimentari in modo analogo ai monogastrici, hanno la possibilità, a mezzo

dei microrganismi del rumine, di fermentare i carboidrati e la cellulosa utilizzandone

i prodotti quale fonte di energia, di sintetizzare quasi tutte le vitamine (soprattutto

quelle del gruppo B) e di trasformare sostanze azotate semplici quali l’urea in

proteine batteriche.

Nei ruminanti, all’esofago fa seguito un complesso gastrico costituito da quattro

cavità di cui tre (rumine, reticolo e omaso) munite di mucose aghiandolari sono dette

prestomaci ed una con mucosa provvista di ghiandole che è il vero stomaco, o

“stomaco ghiandolare”, l’abomaso.

Il rumine svolge la funzione di stoccaggio e parziale demolizione degli alimenti, che

in questa sede subiscono una prima e profonda trasformazione, indispensabile per la

loro utilizzazione. L’alimento trasformato passa all’omaso solo quando, per l’azione

meccanica della masticazione e per l’attività microbica, raggiunge dimensioni

inferiori a 0,6 cm circa (ciò anche in funzione delle dimensioni dell’animale).

Alcuni composti (il 70-80% degli acidi grassi volatili) passano, invece, nel sangue

direttamente dal rumine, grazie alle papille, estroflessioni di 6-10 mm, presenti sulla

parete dello stesso.

Il reticolo contribuisce a selezionare il materiale che dal rumine passa all’omaso. La

sua parete, infatti, presenta sottili creste che formano delle cellette esagonali simili a

una rete (da qui il nome di reticolo) che trattengono le parti grossolane, mentre quelli

sufficientemente fini passano all’omaso.

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61

RUMINE

Funzioni

- Stoccaggio alimenti

- Parziale degradazione

- Assorbimento AGV

- Sintesi proteine e vitamine (idrosolubili, K)

Ambiente

- H2O = 85-90%

- Temperatura = 39-40 °C

- pH = 5,5 – 7,0:

< zuccheri più fermentescibili (farina, melassa)

(produzione ac. lattico più veloce)

> idrati di carbonio meno fermentescibili (cellulosa)

- Bolla gastrica:

a) Funzione : 1) mantenere le condizioni di anaerobiosi; 2) mantenere

distesa la parete ruminale

b) Composizione: CO2 = 60 - 70%,

CH4 = 30 – 40 %

H2 = piccole quantità

N2 = tracce

Il materiale trattenuto dalle cellette torna al rumine ed è rimasticato. Il reticolo ha

anche il compito di coordinare i movimenti del rumine che permettono il

rimescolamento del materiale in esso contenuto, il ritorno in bocca dello stesso e

l’eruttazione.

Il funzionamento di questi prestomaci è strettamente

collegato, al punto che si parla di “sistema rumine-

reticolo”. Le contrazioni del reticolo possono

determinare l’attraversamento della parete da parte di

corpi estranei, accidentalmente ingeriti, e

considerando che il reticolo si trova in prossimità del

cuore essi possono determinare pericarditi

traumatiche e/o compromissione della motilità

prestomacale e della ruminazione; questa sindrome,

detta anche “fil di ferro, può essere prevenuta

mediante immissione nel rumine-reticolo di speciali calamite.

L’omaso noto come centopelli o libro, ha funzioni di filtro tra rumine e abomaso per

impedire l’ingresso di materiale ancora grossolano. Nell’omaso è assorbita una

grossa quantità di acqua, al fine di consentire l’azione ottimale dei succhi gastrici a

livello dell’abomaso. In questa sede sono assorbiti anche gli acidi grassi volatili

sfuggiti all’assorbimento ruminale. Se dall’omaso passano all’abomaso acidi grassi

volatili in quantità superiori alla norma, sembra che s’instaurino condizioni che

predispongono alla sua dislocazione.

Ciò comporta un ridotto o impedito flusso di materiale con gravi conseguenze per lo

stato di salute. L’abomaso è la sede in cui hanno inizio le secrezioni gastriche vere e

proprie e dove il materiale è preparato alla successiva azione dell’intestino. Il

processo della digestione nei ruminanti è strettamente legato a precisi movimenti dei

prestomaci i quali consentono: il continuo rimescolamento del materiale ruminale,

l’espulsione delle rilevanti quantità di gas prodotti nel rumine, il ritorno in bocca

dell’alimento durante la ruminazione, il passaggio delle parti fini all’omaso.

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Lunghezza relativa dei prestomaci e dell'abomaso in ruminanti a differenti età

Il rallentamento dell’attività motoria dei prestomaci si ripercuote sempre

negativamente sullo stato di salute dell’animale; peraltro, quando l’animale è

“indisposto” per altre ragioni, i movimenti dei prestomaci rallentano fino ad

annullarsi (l’animale non rumina). Il rimescolamento del materiale ruminale, a

diverso livello di degradazione, è indispensabile sia per migliorare l’azione dei

microrganismi ruminali, sia per consentire il deflusso della fase liquida e delle parti

fini all’omaso, passaggio che avviene in concomitanza dei movimenti di

rimescolamento. Il rimescolamento avviene 1,8-2,2 volte al minuto e la sua

frequenza è maggiore con i cibi grossolani. Se la razione è povera di alimenti

grossolani (fibra lunga), l’acqua e le particelle fini sostano di più nel rumine, con

conseguente formazione di una poltiglia che intasa le papille riducendo così il

passaggio di sostanze nel sangue attraverso la parete del rumine. Sull’efficacia del

rimescolamento influisce anche la robustezza della parete ruminale, la quale

s’irrobustisce prima e in misura maggiore in animali che fin dallo svezzamento

ricevono adeguate quantità di fibra lunga (foraggi). Il ritorno in bocca delle parti

grossolane (ruminazione) ha lo scopo di permettere una nuova masticazione e

un’ulteriore insalivazione. Lo stimolo alla ruminazione aumenta in presenza di parti

grossolane e, quindi, maggiore è la quota fibrosa maggiore sarà la produzione di

saliva. Quest’ultimo fatto è molto importante, in quanto, la saliva ha funzioni

insostituibili, quali: impedire l’eccessivo abbassamento del pH ruminale, stimolare

l’attività dei microrganismi, avere azione antischiuma e, quindi, evitare il

meteorismo. L’espulsione dei gas, o eruttazione, è necessaria per eliminare i gas che

normalmente si formano in quantità rilevante durante le fermentazioni batteriche

(circa 600 litri/giorno). Se i gas non sono espulsi si ha meteorismo: il rumine gonfio

provoca, tra l’altro, una compressione dei polmoni, con conseguente riduzione della

capacità respiratoria, che può portare a soffocamento.

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Classificazione di alimenti in base alla fermentescibilità in vitro

a 8 e 24 ore di incubazione (valori rapportati all'orzo)

Alimenti

Valori di

Fermentescibilità

a 8 ore

Alimenti

Valori di

fermentescibilità

a 24 ore

Trebbie di birra 100.4 Polpe bietola 112

Orzo granella 100 Mais fiocchi dec. 112

Polpe di bietola 97.06 Maniaca 108

Farinaccio 95.06 Patata 101

Orzo fiocchi 93.9 Orzo gr. 100

Mais fiocchi dec. 93.54 Orzo fiocchi 97

Patata 80.5 Mais gr. 95

Mais f. e. 80.0 Mango 94

Tritello 79.8 Mais f.e. 92

Mais fiocchi 76.15 Trebbie di birra 90

Semola 75.9 Sorgo rosato 89

Riso pula 70.98 Farinaccio 87

Mais granella 66.39 Semola 82

Sorgo rosato 49 Tritello 74

Le caratteristiche fisico-chimiche del rumine dipendono dalla fisiologia delle cavità

prestomacali dei ruminanti e dalle attività metaboliche delle numerose specie

monocellulari che vi risiedono. Esse sono influenzate dall’apporto intermittente di

alimento e di acqua con l’ingestione di cibo, dall’eliminazione continua dei prodotti

del metabolismo fermentativo per assorbimento epiteliale nel rumine e nel reticolo,

dall’eruttazione di metano e di anidride carbonica e dal passaggio nel duodeno del

bolo ruminale, costituito da residui alimentari non digeriti, microrganismi e fase

liquida ruminale. La percentuale di acqua nel rumine si aggira intorno all’85-90%; la

temperatura è mantenuta relativamente costante intorno ai 39-40 °C. Il rumine ha un

potenziale ossido-riduttivo compreso tra 250 e 400 mVolt ed è in equilibrio con

un’atmosfera gassosa (bolla gastrica), la cui composizione è relativamente costante:

60-70% di CO2, 30-40% di metano, piccole quantità di H2 e tracce di azoto ed

ossigeno che provengono dall’aria ingerita con gli alimenti. La composizione gassosa

della bolla gastrica è tale da garantire condizioni di anaerobiosi. Il pH ruminale è

compreso tra 5,5 e 7,0 e varia in funzione del tipo di alimento. Con alimenti ricchi di

farine (amido) o di zuccheri rapidamente fermentescibili (melassa), la velocità dei

processi fermentativi, ed in particolare di quelli che si concludono con la produzione

di acido lattico, è tale da superare la capacità dell’organismo animale di contrastare

l’accumulo nel rumine di sostanze acide, attraverso il loro assorbimento o

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l’immissione di basi nel sistema e, quindi, dopo il pasto si verifica una rapida ed

intensa riduzione del pH. Con alimenti ricchi di cellulosa, le cui molecole non sono

immediatamente disponibili per i processi di fermentazione ossidativa, il pH

ruminale nel periodo interprandiale tende ad assumere valori più elevati. In ogni

caso, l’apporto continuo di saliva, nel corso del processo di ruminazione, si oppone a

variazioni eccessive del pH, grazie all’apporto costante di bicarbonati e fosfati. La

produzione di saliva varia in funzione della presentazione fisica dell’alimento ed

influenza significativamente il volume del liquido ruminale, dal momento che un

bovino, ad esempio, può produrre fino a 200 litri di saliva al giorno.

Nei ruminanti adulti, il rumine non solo rappresenta la cavità stomacale di maggiore

volume ma è quella che assieme al reticolo costituisce la stazione di sosta degli

alimenti sommariamente masticati e deglutiti: un vero e proprio tino di

fermentazione nel quale si realizzano fenomeni meccanici e microbiologici. Sempre

nei ruminanti adulti, la terza cavità, l’omaso o centopelli, oltre che assorbire i

principi nutritivi liberatisi durante la prima fase digestiva esercita un’azione abrasiva

sui restanti residui alimentari e di filtro e di regolatore del deflusso delle sostanze che

passano all’abomaso, che è uno stomaco ghiandolare con funzioni analoghe a quelle

dei monogastrici.

2.9.1. Digestione microbica ruminale

I ruminanti possono utilizzare la cellulosa, contenuta in quantità più o meno

rilevante nei foraggi, attraverso l’intervento della flora batterica, della fauna

protozoaria e dei funghi che vivono nel rumine. La colonizzazione del rumine da

parte dei microrganismi avviene già durante i primi giorni di vita, quando la madre

lambisce il figlio e quando il figlio lambisce la saliva della madre, unita al liquido

ruminale rigurgitato durante la ruminazione. La popolazione cellulare ruminale si

completa quando il giovane animale inghiotte foraggio parzialmente masticato da un

animale adulto.

I microrganismi ingeriti attraverso l’alimento sono sia aerobi sia anaerobi ma

solo questi ultimi, se dotati di un metabolismo compatibile con quello ruminale,

resteranno vitali all’interno del rumine dell’animale e vanno a completare la

popolazione cellulare. In generale, sia i batteri aerobi sia gli anaerobi facoltativi e gli

sporigeni sono meno rappresentati nell’animale adulto che nel giovane.

I batteri (8.109

- 4.10

10 cellule /ml nel rumine dell’adulto) si trovano liberi nella fase

liquida ruminale, adesi alle pareti del rumine e alle particelle del digesto o a protozoi.

La loro densità varia continuamente in ragione di vari fattori.

La disponibilità nella razione di monosaccaridi (melassa) od olosaccaridi

(concentrati), favorisce i batteri altamente fermentativi quali i lattobacilli che

producono acido lattico. Razioni contenenti polisaccaridi complessi (cereali, foraggi)

inducono un maggior sviluppo dei batteri degradativi ai quali seguono o si

accompagnano quelli ad attività fermentante. Il tipo di specie cellulare predominante

in ogni istante è condizionato dalla competizione per il substrato utilizzato ma anche

dalla disponibilità di azoto e altri nutrienti essenziali, quali i minerali, e dai valori del

pH ruminale. Una fermentazione ruminale molto intensa porta ad un abbassamento

del pH e, quindi, a una regressione di numerose specie e allo sviluppo di altre. Ad

una elevata crescita batterica corrisponde un aumento dei protozoi i quali avendo

attività predatoria nei confronti dei batteri ne controllano la densità. I protozoi ciliati

ingolfando e utilizzando i granuli di amido in sede intracellulare, sottraggono il

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polisaccaride all’attacco degradativo e fermentativo dei batteri, prevenendo un

accumulo di lattato e la conseguente acidosi intraruminale.

I batteri ruminali, in base alla loro attività metabolica principale ed al substrato

energetico da essi maggiormente utilizzato, li possiamo distinguere in:

a) cellulosolitici (Ruminococcus, Fibrobacter, Clostridium): attraverso la

produzione di enzimi idrolizzano le cellulose e ne rendono disponibili i residui

monosaccaridici per le fermentazioni ruminali. La demolizione della cellulosa è

molto più lenta rispetto a quella dell’amido per cui si ha un’intensa attività celluloso

litica, soprattutto, con razioni ricche in fibra;

b) emicellulosolitici: la demolizione delle emicellulose è più veloce rispetto a quella

della dellulosa;

c) amilolitici ( Streptococcus bovis, Bacteroides ruminicola): idrolizzano l’amido;

f) produttori di acido (Veillonella alcalescens, Veillonella gazogenes): producono

acido acetico, butirrico e propionico;

g) metanogeni (Methanobacterium ruminantium, Methanobacterium formicium):

partendo dalla CO2 e dall’H2, producono il metano il quale è eliminato con

l’eruttazione e, quindi, non è utilizzato dall’animale; l’H2 utilizzato da questi batteri

potrebbe essere utilizzato per la formazione di ac. propionico

h) lipolitici (Anaerovibrio lipolytica): idrolizzano i trigliceridi e formano glicerolo e

acidi grassi liberi;

i) proteolitici (Butyrivibrio fibrisolvens, Bacteroides ruminicola): utilizzano le

proteine come fonte di energia, forniscono aminoacidi liberi mediante idrolisi dei

legami peptidici delle proteine;

j) produttori di vitamine i quali sintetizzano la vitamina K e le vitamine del gruppo

B.

k) utilizzatori di acidi: vi appartengono i batteri in grado di utilizzare gli acidi

organici quali l’ac. lattico, succinico, fumarico, ossalico. Per evitare acidosi ruminale

risulta utile la trasformazione dell’ac. lattico in ac. propionico.

Questo tipo di classificazione pone dei limiti in quanto, mentre alcune specie

(Anaerovibrio lipolytica) utilizzano un unico strato energetico altre (Bacteroides

ruminicola), invece, svolgono più di una delle funzioni prima descritte.

Considerando l’attività predominante in relazione al solo metabolismo ossidativo

possiamo dividere i microrganismi in quattro gruppi:

a) degradativi: comprende batteri che depolimerizzano i polisaccaridi o l’amido in osi

più semplici come cellubiosio, maltosio, saccarosio, xilobiosio;

b) fermentativi: fermentano i glucidi, convertendoli in acidi grassi a corta catena

come acetato, propionato e butirrato a CO2 ed H2. La CO2 è in parte ridotta a metano

attraverso i batteri metanogeni;

c) azoto-fissatori: degradano i substrati azotati per formare, oltre ad acetato, acidi

grassi a catena ramificata e NH3 , indispensabili per la sintesi di altri aminoacidi e

quindi per la crescita cellulare;

d) metanogenetico: producono metano.

I protozoi compaiono nel rumine non prima della seconda settimana di vita, in

quanto la loro possibilità di persistere nel rumine dipende dalla disponibilità di

batteri e funghi, che sono per questi microrganismi la principale fonte alimentare.

Essi sono soprattutto ciliati e in minor misura flagellati. Così come i batteri, i

protozoi vivono liberi nella fase liquida ruminale oppure attaccati alle particelle

alimentari o alla parete del rumine e sono coinvolti nel metabolismo degradativo e

fermentativo ruminale. La loro concentrazione è di 105-10

8 cellule /ml di liquido

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ruminale e varia in funzione della dieta, del tempo di ritenzione del cibo nel rumine,

del tipo e del numero dei pasti giornalieri e delle condizioni fisico-chimiche del

rumine. Il numero massimo si osserva con diete ricche in fibre, quello minimo con

diete a base di concentrati. Prima del pasto, il numero di protozoi è bassissimo e

aumenta di circa 9 volte entro 40’ dal pasto, inizia a diminuire dopo 4 ore per tornare

ai valori minimi 6-8 ore dopo.

L’ingolfamento, da parte dei protozoi, dei batteri e di particelle alimentari porta ad un

aumento del tempo di ritenzione degli alimenti nel rumine, con un maggior attacco

degradativo degli stessi e un minor flusso del digesto al duodeno. La concentrazione

di ammoniaca ruminale in presenza di protozoi rispetto a quella del rumine defaunato

è considerevolmente maggiore per una aumentata degradazione proteica ed

utilizzazione delle catene carboniose degli aminoacidi, nonché del prolungato tempo

di ritenzione dell’alimento nel rumine. Con la defaunazione si osserva un maggior

flusso di composti azotati nel duodeno. Comunque, le proteine protozoarie sono più

digeribili che quelle batteriche e sono caratterizzate da un più elevato valore

nutritivo, per la presenza nel pool di aminoacidi di elevate concentrazioni di lisina.

Un ulteriore effetto indesiderabile, legato ai protozoi, è quello derivante dalla

compressione sull’accrescimento batterico ruminale a seguito della loro attività

predatoria e al loro consumo di energia. Comunque, i protozoi concorrono alla

digeribilità dei costituenti lignocellulosici della parete vegetale, sia perché hanno una

intensa attività degradativa nei confronti di alcuni polisaccaridi vegetali, sia

attraverso l’influenza che esercitano sulla popolazione batterica. In loro assenza,

infatti, la crescita batterica non controllata porta a variazioni tanto considerevoli delle

condizioni chimico-fisiche del rumine, da risultare pregiudizievoli per la

sopravvivenza degli stessi batteri. La presenza di protozoi influisce anche sul destino

finale delle catene carboniose di origine glucidiche. I maggiori prodotti del

metabolismo ossidativo protozoarico nel rumine sono lattato, acetato, butirrato, CO2,

H2. Il rapporto molare fra butirrato e propionato prodotti a seguito delle

fermentazioni ruminali, pari a 1,7 in presenza di protozoi, passa a 0,5 in loro assenza

mentre, aumenta la quantità di acidi grassi volatili (AGV). Poiché una elevata

disponibilità di propionato favorisce l’accrescimento somatico dell’animale, a fini

zootecnici, è stata sperimentata la defaunazione ruminale; i risultati sono stati

contraddittori e ciò in considerazione di quanto articolate e complesse siano le

interazioni fra le specie microbiche e protozoiche nel rumine.

I funghi anaerobi compaiono nel rumine 6-8 giorni dopo la nascita.

Appartengono alla classe Chytridiomycetes e sia il loro numero che le specie variano

in funzione del tipo di pasto dato all’animale. Con una dieta ad alto contenuto di

crusca di cereali, il numero dei miceti anaerobi nel rumine è massimo, con una dieta

povera di fibre, la popolazione fungina si riduce fino alla completa scomparsa di

alcune specie. In particolare, la crescita fungina è stimolata da diete a base di fieno e

concentrati ed inibita dalla somministrazione di mais e foraggio.

Il ciclo dei miceti consiste di una fase mobile, nella quale avviene la formazione di

zoospore uniflagellate o pluriflagellate, e una fase immobile riproduttiva con

formazione di un tallo vegetativo attaccato mediante rizoidi alle particelle vegetali.

Essi sono coinvolti nel metabolismo degradativo e fermentativo ma, al contrario dei

batteri e dei protozoi sono in grado di attaccare i tessuti lignocellulosici, che in

assenza dei miceti passerebbero indigeriti nelle feci. L’attività dei miceti ruminali è

favorita dal danneggiamento parziale dei tessuti lignificati durante la ruminazione. La

capacità di degradare la lignina è comunque limitata, infatti, mentre alcuni funghi

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sono in grado di degradare le pareti lignificate di alcune angiosperme, altre

angiosperme, le graminacee e alcune conifere sono resistenti all’attacco fungino.

Influenza dell’alimento ingerito sulla digestione nei ruminanti

Razione ricca di fibra

(60-100 % foraggio grossolano)

Razione ricca di concentrati

(35-60% di foraggio grossolano)

Ruminazione più lunga

(40-60 minuti/Kg S.S.)

Ruminazione più breve

(35-45 minuti / Kg S.S.)

Alta produzione di saliva

(12-14 litri/Kg SS)

Minore produzione di saliva

(10-12 litri / Kg S.S.)

Valore del pH ruminale più alto (6.0 - 6,8)

Minore valore del pH ruminale (5,4 - 6.0)

Maggiore produzione di acido acetico

(65-70 Mol. %)

Aumento della produzione di acido

propionico (30 - 35 Mol. %)

Concentrazione relativamente più bassa

degli AGV per l’assorbimento più lento

Concentrazione relativamente alta degli

AGV per l’assorbimento più veloce

pH (6,2-7) più favorevole alla

scomposizione batterica della cellulosa

pH (5,5 – 6,2) più favorevole alla

scomposizione batterica dell’amido

Digestione dei foraggi ottimale

Rapporto C2:C3 = 4:1 – 3:1

Produzione quanti-qualitativa di latte =

buona

- Inadeguata digestione dei foraggi

- Rapporto C2:C3 = 2:1 – 1,5:1

- Produzione quanti-qualitativa del latte =

bassa

- Ingrassamento degli animali ottimale

- Rischio di acidosi e problemi sanitari

Un’aumentata lignificazione si associa ad una diminuita digeribilità perché l’attività

dei miceti ruminali viene inibita da composti fenolici, che aumentano con il grado di

lignificazione. I funghi instaurano con i batteri metanogeni una simbiosi mutualistica,

infatti, i miceti ricavano dai batteri un aumento della velocità di idrolisi della

cellulosa dei tessuti vegetali, che rendono disponibile glucosio solubile, il quale

favorisce il benessere e la proliferazione fungina, a loro volta, i metanogeni sfruttano

l’idrogeno prodotto negli idrogenosomi posseduti anche da queste specie cellulari per

produrre metano.

Fra le sostanze del contenuto ruminale assume importanza la saliva, la cui

composizione è simile a quella dell’uomo (anche se quella dei ruminanti non

contiene ptialina e quindi non ha capacità idrolitica sull’amido). La saliva ha anche

funzione tampone in quanto neutralizza l’acidità proveniente dalla fermentazione

della cellulosa e degli idrati di carbonio (pH nel rumine = 6-7).

Il ruminante durante l’ingestione mastica gli alimenti solo sommariamente,

lasciandoli cadere attraverso l’esofago nel rumine, dove si accumulano e, sotto

l’azione della saliva, subiscono una prima macerazione. Successivamente, gli stessi

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alimenti sono riportati alla bocca sotto, forma di boli, dove sono accuratamente

masticati (masticazione mericica) abbondantemente insalivati e nuovamente

deglutiti. Il bolo mericico non ancora fermentato, di basso peso specifico a causa del

suo contenuto in fibra grezza, rimane nello strato superiore del rumine dove subirà

l’azione demolitrice della microflora. La parte già sensibilmente trasformata dai

batteri scende sul fondo e passa nell’omaso. Qui viene sottratta acqua (per non diluire

i succhi gastrici dell’abomaso) e lo stesso bolo se sufficientemente digerito e

immesso nell’abomaso.

Digestione della cellulosa e formazione degli acidi grassi volatili (AGV) nel

rumine

I carboidrati somministrati ai ruminanti sono rappresentati da monosaccaridi,

disaccaridi, sostanze pectiche, emicellulosa, lignina.

La fibra grezza nel rumine è scissa in: cellulosa, emicellulosa, lignina, cutina,

suberina, pentosani.

All’azione dei microrganismi del rumine, oltre la cellulosa soggiacciono anche gli

altri componenti strutturali della fibra grezza, nonché gli estrattivi inazotati (amido,

destrine, zuccheri).

La cellulosa per azione della -1,4-glucosidasi è depolimerizzata a cellubiosio e

cellulodestrine. Successivamente, il cellubiosio è scisso in glucosio o mediante una

fosforilasi in glucosio-1-fosfato. Il glucosio non è assorbito dalle pareti del rumine e

viene trasformato in acidi grassi a corta catena carboniosa (ac. Acetico 65%, ac.

Propionico 25%, ac. Butirrico 10%, ac. Valerianico e Isovalerianico 4-5%).

L’amido e le destrine sono scissi prima in maltosio o isomaltosio e poi in glucosio o

glucosio-1-fosfato ad opera, rispettivamente, delle amilasi, maltasi e maltosio-

fosforilasi. I fruttani vengono idrolizzati a fruttosio il quale può anche derivare dal

saccarosio. Le emicellulose sono la fonte di xilosio e acidi uronici; gli acidi uronici

possono derivare anche dalla scissione delle pectine e successivamente sono anche

essi convertiti a xilosio. Gli zuccheri semplici, provenienti dai processi fermentativi,

non sono assorbiti dalla parete ruminale ma si trovano in piccole quantità in quanto

vengono immediatamente metabolizzati dai microrganismi.

Acidi grassi volatili (VFA) nel liquido ruminale di bovini e ovini a varie diete

Animale Dieta Totale

AGV

Singoli AGV

(proporzioni molari)

(mmoli/l) Acetico Propionico Butirrico Altri

Bovini Erba insilata 108 0.74 0.17 0.07 0.03

Ovini Fieno: concentrati

1 :0 97 0.66 0.22 0.09 0.03

0.6:0.4 87 0.61 0.23 0.13 0.02

0.2:0.8 70 0.40 0.40 0.15 0.05

All’interno delle cellule batteriche si ha la seconda fase di degradazione dei

carboidrati e in sintesi consiste nella degradazione del fruttosio-1-fosfato ad ac.

piruvico attraverso la via metabolica di Embden-Meyerhof. L’ac. piruvico, a sua

volta, viene trasformato in acidi grassi volatili (AGV): ac. acetico, propionico,

butirrico a seconda della specie batterica. In queste reazioni si ha la produzione di

prodotti secondari: ac. formico e CO2; il primo viene metabolizzato ad anidride

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carbonica e idrogeno il quale viene utilizzato per reazioni di riduzione, produzione di

metano o eliminato con l’eruttazione.

La trasformazione dell’acido piruvico in AGV avviene come segue:

a) acido acetico: l’ossidazione avviene secondo due vie; la prima è quella del

sistema fosforoclastico tipico dei Coli aerogenes con formazione di acido acetico ed

ac. formico, la seconda è il sistema fosforoclastico dei clostridi con produzione di ac.

acetico e CO2;

b) acido propionico: la sua formazione prevede due vie di cui la prima è quella del

succinato che ha come prodotti intermedi gli acidi ossalacetico, malico, fumarico e

succinico; questa via è predominante con razioni ricche in cellulosa. La seconda via,

predominante con razioni ricche in amido, è quella dell’acrilato che consiste nella

riduzione diretta dell’acido piruvico in acido propionico via ac. lattico e acrilico.

c) Acido butirrico: la sua sintesi prevede la formazione di acetil- CoA dal piruvato il

quale si condensa con l’ac. acetico extracellulare. Come prodotti intermedi si hanno:

ac. acetacetico, ac. -idrossibutirrico ed il crotonil-CoA.

Metabolismo dei carboidrati nel rumine (da McDonald e coll., 1988)

Cellulosa Amido

Maltosio Isomaltosio

Glucosio 1-fosfato Glucosio

Pectine Acidi uronici Glucosio 6-fosfato Saccarosio

Fruttosio

Emicellulose Pentosi Fruttosio 6-fosfato Fruttani

Pentosani Fruttosio1,6 fosfato

Via Embden-Meyrhof

Acido piruvico

Formiato Acetil -CoA Ac. Ossalacetico Ac. Lattico

CO2 H Ac. acetacetico Ac. Malico

Metano Ac.

idrossibutirrico

Ac. Fumarico Ac. Acrilico

Crotonil -CoA Ac. Succinico

Ac. acetico Ac. Butirrico Ac. propionico

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In sintesi, nei processi cellulosolitici della microflora ruminale il 15% dell’energia

totale posseduta dalla cellulosa viene liberata sotto forma gassosa con produzione di

metano e idrogeno che vengono eliminati e, quindi, perduti per l’organismo animale,

il 10% sotto forma di calore utilizzato dai microbi per la loro moltiplicazione e

parzialmente dall’organismo animale per la termoregolazione, il 70% trasformato in

acidi grassi volatili a corta catena carboniosa che sono i prodotti più importanti della

digestione ruminale dei glucidi.

Nel rumine, tutti i glucidi sono principalmente fonte di glucosio e perciò di energia.

Questi zuccheri, sono captati dai microrganismi, e con l’intervento di ATP

energetico, subiscono complicate trasformazioni, con produzione finale degli AGV.

Il glucosio fornisce alla microflora del rumine energia utile per le molteplici funzioni,

mentre la quota che passa nel sangue fornisce precursori per la sintesi del lattosio ed

è elemento indispensabile per molte altre reazioni biochimiche, fra cui quella che

porta alla sintesi dell’acido ossalacetico che è una molecola indispensabile nel ciclo

di Krebs.

In alcuni casi, i batteri traggono energia da altre fonti: a) dalla produzione di metano

(metanogenesi), che nei prestomaci conduce alla formazione persino di 200 litri di

gas (di cui il 30% è metano, il 65% CO2 e il rimanente azoto e ossigeno); b) dalla

formazione di acido lattico.

Effetto della dieta sulla fermentescibilità dell’amido di diversi alimenti

Alimento

Rapporto foraggi/concentrato

alto basso

Mais

Degradabilità (%) a 6 ore:

3,5 21,6

Corn gluten feeds 17,6 45,3

Fiocchi di mais 14,4 42,6

Frumento 9,9 42,3

Farinaccio 14,7 50,1 - -

Gli AGV, invece, assorbiti dalle pareti ruminali e messi in circolo, trasferiscono al

corpo il 60-70% dell’energia contenuta nell’alimento e, inseriti nel ciclo metabolico,

gli forniscono composti carboniosi per la sintesi, principalmente, del grasso del latte.

La degradabilità ruminale della cellulosa e degli altri idrati di carbonio è soggetta a

notevoli variazioni e ciò perché è influenzata da diversi fattori ( pH, tipo di foraggio,

tipo di dieta, ecc.). La produzione di AGV può anche essere orientata verso la

produzione di uno anziché un altro: così negli animali da latte si preferisce far

abbondare i foraggi sui concentrati per far attestare la produzione di AGV sui valori

60:25:15% rispettivamente per ac. Acetico, ac. Butirrico e ac. Propionico.

Digestione e sintesi proteica nel rumine.

Solo il 30-35% delle proteine alimentari ingerite riesce a sfuggire alla degradazione

ruminale e quindi arriva indenne all’intestino. Il resto viene trasformato nel rumine in

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proteine microbiche mediante enzimi specifici, prodotti dai batteri, e con l’aiuto di

energia. L’attacco enzimatico avviene in due fasi:

1) si ha la rottura (idrolisi) dei legami polipeptidici, con liberazione di peptidi

(aminoacidi a catena corta) o di semplici aminoacidi;

2) si ha la deaminazione e la degradazione di tali molecole semplici, con produzione

di ammoniaca, residui di aminoacidi e di peptidi e qualche altro composto.

L’ammoniaca e gli altri prodotti della scissione sono captati dai batteri (riescono a

intercettare fino al 90% di azoto) ed elaborati a proteina del loro stesso corpo

(proteinogenesi). La cellula batterica contiene dal 44,4 al 55% di proteina. Il 30-40%

dei batteri viene ingerito dai protozoi ed avviato insieme ai batteri nell’abomaso e

all’intestino dove subiscono la classica digestione delle proteine. La digeribilità della

proteina batterica è di circa l’80%. Tali trasformazioni permettono di dire che “il

ruminante è un erbivoro per ciò che mangia ma è un carnivoro o pseudocarnivoro per

ciò che digerisce”. La proteinogenesi necessita di due condizioni basilari:

a) presenza di azoto: le proteine alimentari sono formate da frazioni più (albumine,

globuline) o meno (gluteline, prolamine ) solubili e quelle più solubili sono

degradate più velocemente. Così come detto per i glucidi, anche le proteine sono

degradate in proporzione diversa e la degradabilità dipende dalla loro natura e dai

trattamenti subiti. Ad esempio, la velocità di degradazione è molto elevata per gli

insilati, i cereali, molte farine ad elevato tenore proteico, è inferiore per i foraggi

verdi e soprattutto per quelli affienati ed è bassa per le materie prime proteiche

sottoposte a riscaldamento (erba disidratata, soia tostata, ecc.). I batteri cercano

soprattutto l’azoto ureico ma anche aminoacidi e peptidi: il rendimento della

trasformazione dell’azoto si ha quando esso si trova per il 75% come non proteico

e per il 25% come aminoacidico o peptidico. La proteosintesi è influenzata da

diversi fattori e situazioni fra cui:

- la capacità di lisi posseduta dai batteri, a sua volta dipendente dalla sua peculiare

capacità enzimatico-proteolitica,

- il mantenimento di un equilibrato e favorevole ambiente ruminale,

- dal buon rapporto fra velocità di degradazione e velocità di transito delle

particelle alimentari che a sua volta dipende dalla struttura e qualità dell’alimento,

dal livello di ingestione di sostanza secca, dal tempo di permanenza dell’alimento nel

rumine.

b) presenza di energia: da essa dipende l’attività microbica di riproduzione e di

proteinogenesi. La quota principale di energia deriva per l’80% dai carboidrati, per il

20% dalle proteine e in maniera trascurabile dai grassi. Un contributo energetico non

indifferente è dato dalla metanogenesi: va ricordato che da una mole di metano si

ottengono 4 ATP, da 100 g di carboidrati fermentati 2,5-3 ATP e da 100 g di proteina

solo 1,2-1,5 ATP. La migliore garanzia per l’ottenimento di ATP energetico per il

lavoro di lisi e di sintesi proteica si ha in presenza di glucidi ad alta velocità di

fermentazione e la conseguente produzione di acido acetico. Il costo energetico in

ATP risulta più elevato quando è destinato a produrre proteina batterica piuttosto che

altri composti della cellula batterica (grassi, carboidrati). Il 45% dell’ATP disponibile

viene utilizzato per il mantenimento dei batteri, il 45% per la loro moltiplicazione e il

10% viene perso. Quando aumenta la diluizione del contenuto ruminale (produzione

di saliva, altro), viene risparmiato ATP per il mantenimento a favore della

moltiplicazione batterica e della sintesi. Molti studi condotti hanno stabilito che

grosso modo da 100 g di sostanza organica fermentata nel rumine si ottiene una

produzione di 16-22 g di proteina batterica, mentre secondo studi tedeschi si

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produrrebbero 15 g di proteina batterica per MJ di energia netta latte (ENl) presente

nel rumine e quindi traducendo tale energia in UFL si avrebbero 108-110 g di

proteina batterica per ogni UFL. Questi valori possono elevarsi razionalizzando al

meglio gli equilibri nutritivi della dieta o inserendo vitamina PP (5 g/capo/giorno) e

in quest’ultimo caso la proteosintesi può aumentare anche del 30-50%.

E’ stato ipotizzato che nelle bovine la sintesi batterica è ottimale con diete contenenti

circa il 13% di proteina sul secco. Con una normale razione non spinta, è prevedibile

una produzione giornaliera di 1.800 g di proteina batterica grezza, che avendo una

digeribilità intestinale dell’80% corrisponde a circa 1400-1500 g di proteina

digeribile. Le esperienze di Virtanen, indicano che è possibile coprire una produzione

di 40 kg di latte nel ciclo di produzione di 305 giorni (13 kg al giorno, mediamente)

fornendo alla microflora solo urea quale fonte azotata, dimostrando così l’elevato

grado di captazione dell’azoto di cui sono capaci i batteri ruminali.

Forzando oltre il 13% la concentrazione proteica alimentare su S.S., bisogna

provvedere ad un proporzionale adeguamento dei valori energetici della razione.

Quando la microflora non dispone di sufficiente energia fermentativa, almeno il 75%

della quota di proteina eccedente quel 13% si arresta allo stadio di ammoniaca la

quale si accumula nel rumine dove in parte è trattenuta in urea che, nella migliore

delle ipotesi è riciclata attraverso la saliva nel rumine o eliminata con le urine.

Comunque, è il fegato l’organo fondamentale che partecipa a tutti i processi di

detossificazione, ma le sue capacità non sono illimitate e, inoltre, necessita di energia

che gli viene fornita sotto forma di glucosio.

Esempio di utilizzo di una proteina nei ruminanti

Proteina grezza alimentare ingerita = g 3170 Energia: 129 Mj di ENl

Degradazione = 65,6 =

g 2080 g 1090

Quota by-pass = 34,4%

Sintesi ruminale* = g 1935 + g 1090

All’intestino = g 3025 di proteina pura

Digeribilità 80% = g 2420 di proteina digeribile all’intestino

Metabolizzabilità 70% = g 1964 di proteina metabolizzabile intestinale

* La sintesi di proteina microbica è di 15 g per ogni MJ

L’eventuale sovraccarico metabolico di ammoniaca non bruciata, allora, causa

degenerazione del tessuto epatico, stato tossico di alcalosi, squilibri ormonali, ridotto

assorbimento di calcio e fosforo, passaggio di urea nel sangue e latte, ipofertilità.

2.9.2. Metabolismo delle sostanze azotate nel rumine

L’azoto ingerito con gli alimenti può essere proteico o non proteico (urea, ammidi,

nitrati, nitriti). In media, le sostanze azotate non proteiche rappresentano circa il 15-

20% dell’azoto totale. L’urea per essere utilizzata deve essere prima trasformata in

ammoniaca e ciò avviene ad opera delle ureasi batteriche. In presenza di energia

sufficiente, l’ammoniaca viene trasformata in proteina batterica. In assenza di energia

o in presenza di quantità elevate di ammoniaca essa viene assorbita in parte dalla

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parete ruminale, attraverso il sangue giunge al fegato dove viene detossificata

mediante trasformazione in urea la quale viene escreta in parte con le urine, in parte

con il latte e una certa quantità (circa il 20%) torna al rumine attraverso la saliva.

Con livelli ancora più elevati di ammoniaca nel rumine si può avere la saturazione

della capacità di ureogenesi epatica e l’innalzamento del tenore ematico di

ammoniaca con conseguenti gravi intossicazioni (alcalosi).

Esempio di utilizzo di un aminoacido (metionina) nel ruminante

Metionina ingerita = g 54

Metionina nella quota di proteina

degradabile (65,6%) = g 35,40

Metionina contenuta nella proteina

di sintesi microbica (g 0,0018 x 1.935)*

= g 34,83

+

Metionina nella quota di

proteina by-pass =

g 18,60

Totale metionina che va all’intestino =

g 53,43

Digeribilità 80% = g 42,75 di metionina digeribile all’intestino

Metabolizzabilità 70% = g 29,92 di metionina metabolizzabile

* La metionina nella proteina microbica è di 1,8 g ogni 100 g di proteina

Con l’aumentare dell’ammoniaca nel rumine, aumenta il pH che riduce il grado

di dissociazione dell’ammoniaca aumentandone l’assorbimento attraverso la parete

ruminale; in questi casi i tenori di urea e ammoniaca aumentano a livello del plasma

e dei tessuti e liquidi degli organi riproduttori, con effetti tossici nei riguardi degli

spermatozoi, degli ovuli e degli embrioni. Questi inconvenienti possono essere

eliminati:

a) utilizzando come fonti di azoto non proteico, sostanze che liberano l’ammoniaca

gradualmente (urea, biureto, ecc.);

b) impiegando vitamina PP, sotto forma di acido nicotinico alla dose di 6-10

g/capo/giorno, la quale avrebbe un effetto antitossico nei confronti di eccesso di

ammoniaca, aumentando la velocità di ripristino dei valori fisiologici a livello

ematico.

Delle proteine alimentari, una quota (circa il 30%, variabile con il tipo alimento)

sfugge alla degradazione ruminale (proteina by-pass) e raggiunge l’intestino dove in

parte viene assorbita e in parte escreta con le feci; il rimante 70% circa viene

degradata dai microbi ruminali con produzione di aminoacidi i quali possono essere

inglobati dalla microflora o essere deaminati con produzione di ammoniaca e catene

carboniose o decarbossilati con produzione di ammine. La degradazione delle

proteine si ha ad opera di proteasi endocellulari che scindono le proteine in peptidi.

Gli aminoacidi liberati dalle proteine e quelli liberi possono essere utilizzati per la

sintesi proteica sia dalla microflora che dalla microfauna oppure deaminati con

produzione di ammoniaca e delle rispettive catene carboniose le quali possono essere

utilizzate a scopi energetici e trasformate, così come avviene per i carboidrati, in

AGV. La flora batterica è capace di sintetizzare tutti gli aminoacidi ma per alcuni di

essi (valina, isoleucina e leucina) è necessaria la presenza di acidi grassi ramificati

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(ac. isobutirrico, ac. Z-metil butirrico e ac. isovalerianico). I ruminanti riescono a

vivere e le vacche a produrre fino a 45-50 qli di latte con razioni prive di proteine ma

con adeguati apporti di fonti di azoto non proteico.

2.9.3. Digestione dei grassi nel rumine

I grassi che pervengono nel rumine, subiscono una scissione ad acidi grassi e

glicerolo ad opera di enzimi batterici. Il glicerolo viene convertito in acido

propionico e successivamente nel fegato in glucosio mentre, gli acidi grassi insaturi

vengono saturati dai batteri e dai protozoi in gran parte in acido stearico; la

saturazione avviene mediante captazione dell’idrogeno in eccesso che continuamente

si forma durante le fermentazioni e che, peraltro, qualora si accumulasse in quantità

eccessive, condurrebbe al blocco delle funzioni ruminali. Utile risulta anche la

riduzione della quantità di grassi insaturi in quanto un eccesso potrebbe deprimere

l’attività fermentativa dei batteri. I batteri stessi utilizzano parte del grasso presente

nel rumine. La principale fonte di energia e dei prodotti carboniosi utili alla sintesi

del latte nel ruminante, comunque, è rappresentata dagli AGV. Quindi, è importante

nei ruminanti da latte fornire fibra alimentare e favorire un’adeguata vitalità della

microflora utile per la fermentazione dei composti cellulosici. Qualora la produzione

di latte superi i livelli fisiologici deve essere fornito un surplus di energia di altra

origine e, contrariamente a quanto avviene nei monogastrici, essa non può essere

rappresentata da grassi insaturi in quanto essi sono mal tollerati ed avvolgerebbero i

microbi deprimendone l’azione cellulosolitica. D’altra parte se si sopperisse alla

carenza energetica con troppo amido insorgerebbero fenomeni di acidosi. Il

problema, negli ultimi tempi, è stato risolto sfruttando la capacità che hanno i grassi e

gli olii contenuti in certi semi (soia, cotone) di non turbare l’ambiente ruminale,

essendo facilmente trasferiti all’intestino, al quale apportano grassi a lunga catena i

quali sono molto utili all’organismo. Peraltro, l’industria produce miscele di grassi

saturi ed insaturi di tipo diverso, a media e lunga catena di atomi di carbonio,

stabilizzati e non soggetti all’irrancidimento (grassi by-pass). Questi a livello

ruminale sono inerti e giunti all’abomaso dove il pH è fortemente acido, rilasciano la

loro parte grassa che poi subisce la normale scissione in acidi grassi e glicerolo.

2.9.4. Metabolismo dei lipidi nel rumine

Negli alimenti per i ruminanti, i lipidi sono presenti soprattutto sotto forma

esterificata come mono e digalottogliceridi nei foraggi e come trigliceridi nei

concentrati. Gli acidi grassi più presenti sono quelli insaturi dei quali l’ac. linolenico

rappresenta il 60% degli acidi grassi totali e poi abbiamo ac. linoleico, oleico,

palmitoleico, ecc., mentre, gli ac. grassi saturi rappresentano circa il 15% del totale.

Nel rumine, i legami acil-esteri dei trigliceridi, fosfolipidi, galattogliceridi, metil- ed

etil esteri, ecc. vengono idrolizzati dalle lipasi batteriche e si ha la produzione di

acidi grassi liberi, galattosio e glicerina. I batteri che maggiormente producono lipasi

sono l’Anaerovibrio lipolytica le cui lipasi idrolizzano i trigliceridi contenenti ac.

grassi a media e lunga catena ed il Butyrivibrio fibrisolvens in grado di idrolizzare la

fosfatidilcolina e la fosfatiletanolamina. I protozoi intervengono soprattutto

nell’idrolisi dei digalattogliceridi in galattosio e digliceridi.

Il galattosio e la glicerina successivamente vengono fermentati ad AGV, mentre, gli

ac. grassi poliinsaturi vengono trasformati prima in monoeni e dopo, almeno in parte,

in ac. stearico. Una piccola quota degli ac. grassi poliinsaturi sfugge a questo

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processo di idrogenazione e giungono all’intestino comunque, la maggior parte degli

ac. grassi che raggiunge il tenue è data da quelli saturi (ac. palmitico, stearico).

Recentemente, si è tentato di aumentare il tenore lipidico delle razioni per ruminanti,

soprattutto in lattazione, allo scopo di aumentare la concentrazione energetica senza

far ricorso all’amido. Comunque, i grassi aggiunti alla razione, soprattutto se di

origine vegetale, tendono a ridurre il tenore lipidico del latte dovuto ad un effetto

negativo sulla microflora cellulosolitica. Il fenomeno non trova facile spiegazione e

potrebbe essere dovuto:

a) rivestimento fisico delle particelle di cellulosa da parte del grasso;

b) minore disponibilità di alcuni cationi in seguito alla formazione di complessi

insolubili con gli ac. grassi a lunga catena;

c) effetti diretti di tossicità di alcuni ac. grassi nei confronti della microflora

ruminale;

d) formazione di isomeri trans nei processi di idrogenazione degli ac. grassi

poliinsaturi;

e) formazione di perossidi.

La maggior parte di questi inconvenienti può essere evitata utilizzando lipidi protetti

dall’attacco ruminale. Per la protezione il globulo di grasso viene rivestito con sottile

strato proteico denaturato mediante trattamento termico o con formalina o ancora

mediante una reazione di salificazione fra acidi grassi e cationi, in modo particolare

con calcio. Gli acidi grassi salificati, cosiddetti “saponi, per la maggior parte non

sono solubili a livello ruminale, ma vengono idrolizzati nell’abomaso in presenza di

pH acido.

2.9.5 Degradazione e sintesi di vitamine nel rumine

Nel rumine alcune vitamine vengono degradate:

a) il 93% della vitamina C ed il 60% della vitamina A vengono distrutti in 6 ore;

b) le perdite di riboflavina, niacina, acido folico e vitamina B12 risultano elevate;

c) per la vitamina E la degradazione è molto più elevata quando essa si trova sotto

forma di DL-alfatocoferilacetato;

d) la tiamina, l’ac. pantotenico e la colina vengono degradate, rispettivamente per il

48, 78 e 70%;

e) le perdite di vitamina B6 e biotina risultano trascurabili.

La degradazione delle vitamine a livello ruminale sembra essere più elevata in

presenza di elevate quantità di concentrati ricchi in amido nella razione. In condizioni

normali, nel rumine vengono sintetizzate tutte le vitamine del gruppo B (idrosolubili)

e la vitamina K (liposolubile). Comunque, in condizioni di squilibri ruminali o di

esasperati fabbisogni (livelli produttivi elevati, intenso ingrassamento) possono

insorgere fenomeni carenziali come ad esempio la poliencefalomalacia, causata da

una carenza di tiamina. Peraltro, la sintesi di alcune vitamine è influenzata dalla

presenza di alcune sostanze (es. il cobalto per la vitamina B12). Fra i batteri in grado

di sintetizzare vitamine ricordiamo il Flavobacterium vitarumen ed il Clostridium

butyricum.

2.9.6. Tempi di degradabilità ruminale dei diversi alimenti

I tempi di degradazione ruminale sono molto variabili in funzione del principio

alimentare interessato:

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a) per le frazioni fibrose più digeribili, la degradazione si completa in 12-24 ore,

per quelle meno digeribili (foraggi lignificati) avviene in qualche giorno: i foraggi

macinati sono degradati più velocemente che non quelli lunghi, la fibra delle polpe di

bietola è più fermentescibile di quella della paglia;

b) gli zuccheri e gli acidi organici degli insilati sono degradati molto velocemente,

tempi leggermente più lunghi sono richiesti dall’amido: l’amido del frumento e

dell’orzo è più fermentescibile e più velocemente degradabile di quello del mais e del

sorgo, quello cotto lo è più di quello crudo;

c) nell’ambito dei foraggi vi sono differenze nella degradabilità dovute alla diversa

struttura e composizione dei glucidi, in particolare modo di quelli parietali, in

rapporto al tipo botanico (più lenta nelle graminacee rispetto alle leguminose), alle

diverse parti della stessa pianta (foglie, steli), allo stadio di sviluppo (più veloce per

quello precoce rispetto a quello tardivo).

2.9.7. Biotecnologia del rumine

Le conoscenze disponibili sui modulatori del processo fermentativo ruminale

sono ancora frammentarie, comunque, è ormai stabilito che a ciascuna situazione

alimentare corrisponde un determinato equilibrio della micropopolazione ruminale,

equilibrio che può essere variato agendo sul tipo e la qualità delle sostanze

degradabili (specialmente glucidi), la forma fisica degli alimenti, il numero dei pasti,

la quantità di fibra, il rapporto foraggi/concentrati, l’utilizzazione dei foraggi verdi ed

altro.

Destino dei nutrienti nel rumine

Amido Cellulosa NPN Proteine Grassi

acetato Propionato butirrato NH3 -chetoacidi Grassi

saturi

Quota

by-pass

-OH butirrato

Proteine microbiche

Assorbimento

Digestione post-ruminale

Metabolismo

dell’ospite

Ad esempio, in una situazione in cui nella razione prevalgono i foraggi si ha

un aumento dei batteri cellulosolitici e si ha un rallentamento della degradazione

della cellulosa, un’abbondante produzione di saliva e ciò porta ad una buona stabilità

del pH (6,4) e ad una elevata velocità del ricambio del liquido ruminale (5-12% /ora);

si instaura una fermentazione di tipo “acetico” e sono favoriti anche i batteri

metanogeni, con una sensibile perdita di energia della razione in forma di metano

(circa 12% dell’energia grezza ingerita), ma con una maggiore quantità di energia

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indirizzata verso la sintesi di proteine microbiche. Quando, invece, nella razione

prevalgono i concentrati, sono favoriti i batteri amilolitici e quelli produttori di acido

lattico. Il conseguente abbassamento del pH, cui concorre anche una minore

insalivazione, deprime i batteri cellulosolitici e metanogeni e i protozoi. Il ricambio

della fase liquida rallenta (3,5% per ora) e si riduce la produzione di acetato mentre

aumenta quella del propionato (25-30%) e del butirrato (12-15%); in questo caso le

perdite energetiche sono minori, poiché la formazione di metano si riduce al 6%

circa, ma si deprime contestualmente l’efficienza della sintesi proteica.

Per quanto attiene alla protezione dei principi alimentari pregiati, la soluzione ideale

sarebbe quella di lasciare alla micropopolazione ruminale solo i glucidi strutturali

(cellulosa ed emicellulosa) e le forme azotate non proteiche (urea) o, comunque, le

proteine meno efficienti dal punto di vista del fattore limitante.

Le fermentazioni ruminali possono essere modulate attraverso diverse vie:

a) tecniche di alimentazione, sono essenzialmente due:

1) autoalimentazione dell’animale sotto controllo elettronico computerizzato:

l’operatore assegna ad ogni animale un numero di porzioni di alimento adeguato alle

necessità, che l’animale ripartisce spontaneamente nel corso della giornata, ma non

può superare i limiti stabiliti dall’allevatore sulla base del rendimento e del suo stato

di benessere o malattia;

3) tecnica del piatto unico o unifeed, consiste nel miscelare i vari componenti

alimentari della razione in rapporti adeguati alle specifiche necessità

dell’allevamento in atto. Questo metodo può essere applicato anche da solo poiché il

singolo animale, in genere, ingerendo quantità variabili di alimento completo, si

autoregola.

Destino delle sostanze azotate presenti nel rumine

Proteine Azoto non

proteico (NPN)

Proteine by-pass

Proteine degradati

ad NH4

Pool dell’NPN

Pool dell’urea

plasmatica

Proteine

microbiche

Digestione

intestinale

Feci

Urine

Metabolismo

dell’ospite

d) composizione della razione: diviene importante il rapporto foraggi:concentrati;

l’amido o gli zuccheri molto fermentescibili se ad elevata quantità causano una

intensa attività fermentativa soprattutto di tipo propionico fino ad arrivare a quella

lattica che può penalizzare la digestione ruminale degli alimenti e ciò si ha

soprattutto se il pH si abbassa di molto.

Gli americani consigliano razioni contenenti carboidrati per il 28% a rapida

fermentazione (zuccheri solubili), per il 32% carboidrati a media fermentazione

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(pectine e amido molto degradabili, prodotti fioccati) e per il 40% carboidrati a lenta

fermentazione (amido di mais, amido di patate). Il tenore in fibra grezza della razione

non dovrebbe scendere al di sotto del 15-16%. I tenori ottimali di NDF e ADF della

razione sono, rispettivamente del 32-36% e 20-22%. Ciò porta a un tenore in NDF, a

secondo del livello produttivo, tra lo 0,85 e l’1,2% del peso vivo, peraltro, il 70-80%

dell’NDF dovrebbe essere apportato da foraggi.

e) frequenza dei pasti, con pasti più frequenti il biochimismo ruminale è più lineare,

non si hanno brusche variazioni di pH e la flora è di tipo cellulosolitico, per cui il

rapporto acetato/propionato rimane >3, una condizione favorevole per le vacche

lattifere, essendo l’acetato un substrato per la sintesi degli acidi grassi destinati alla

secrezione nel latte;

f) foraggi verdi, hanno un’azione di stimolo sulle fermentazioni ruminali che è

dovuta alla presenza di zuccheri solubili a lenta liberazione con abbondanza di acqua;

e) additivi chimici modulatori delle fermentazioni ruminali, sono una serie di

sostanze in grado di intervenire positivamente sull’attività dei microrganismi

ruminali le quali vengono somministrate per perseguire alcuni obiettivi:

1) migliorare l’utilizzazione della quota fibrosa della razione che è limitata sia dalla

modesta efficienza energetica delle fermentazioni anaerobiche, sia dalla intensità

della degradazione delle proteine alimentari durante la loro permanenza nel rumine;

2) aumentare l’energia utilizzabile dai microbi del rumine e, di conseguenza, la loro

biomassa spostando l’equilibrio fra gli acidi volatili a favore dell’acido acetico e

riducendo le perdite di fermentazione sotto forma di CO2 e metano che oscillano tra

il 6 e il 19%;

3) ottimizzare le proteinogenesi batteriche, sempre attraverso un aumento della

disponibilità di energia, riducendo così l’entità della degradazione delle proteine

alimentari: un’efficiente integrazione di proteine nelle strutture microbiche riduce il

numero di atomi di carbonio degli amminoacidi che vengono ossidati nelle

fermentazioni;

4) aumentare il by-pass proteico del rumine e, quindi, la disponibilità di amminoacidi

essenziali per l’animale;

5) controllare situazioni di stress metabolico dovute a cambiamenti bruschi di regime

alimentare, che comportano fermentazioni anomale e la produzione di sostanze

tossiche, con ripercussioni negative sulla fertilità e sullo stato di salute dell’animale.

A fianco dei modulatori delle fermentazioni ruminali con effetto auxinico, per

interferenza diretta con l’attività microbica, altri modulatori possono essere efficaci

attraverso meccanismi meno selettivi. Una maggiore diluizione del contenuto

ruminale può essere ottenuta aumentando il tenore salino della razione, inducendo

così l’animale a bere più acqua, con la conseguenza di favorire lo sviluppo microbico

ed orientare le fermentazioni verso l’acido acetico. La slaframina, un metabolita

fungino isolato da Rhizotoma leguminicola, stimola la secrezione salivare fino al 50-

60% nei bovini alimentati con concentrati, senza ridurre il consumo alimentare, e

porta ad un miglior controllo fisiologico del flusso del digesto ruminale verso

porzioni caudali del tubo digerente. Trova un utile riscontro anche l’impiego di

alcune sostanze fisiologiche che favoriscono le fermentazioni ruminali aumentando

la proteinogenesi ed il by-pass proteico; fra queste l’acido nicotinico e la sua

ammide, l’acido fumarico e la bentonite sodica. La nicotinammide esercita anche un

effetto extravitaminico, svolgendo un’azione sedativa in presenza di condizioni di

stress e, forse, stimolando l’assunzione di cibo.

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f) inibitori della metanogenesi, alcune sostanze quali il tricloroacetammide,

tricloetanolo, tricloroadipato, tricloropivalato hanno effetti tossici sui batteri

metanogeni e, purtroppo, anche sulle altre specie microbiche ruminali, determinando

una diminuzione della efficienza di degradazione della materia organica alimentare

ed una minore sintesi microbica, effetti messi in evidenza specialmente in ruminanti

alimentati con razioni ricche di concentrati. Inoltre, risultano pericolose per la salute

dell’animale e dell’uomo e vengono allontanate dall’ambiente in tempi molto lunghi.

g) antibiotici ionofori, devono il proprio nome al loro meccanismo d’azione

fondamentale che consiste in un’azione facilitante lo scambio di cationi attraverso le

membrane batteriche. Più impiegati sono il Monensin che è quello più studiato, il

Lasalocid, il Salinomicin ed il Narasin. Essi hanno la capacità nel processo di

trasporto di ioni in membrane che normalmente non possiedono tale attività. Il

Monensin e il Salinomicin interferiscono solo sul trasporto di ioni monovalenti (Na e

K) in particolare, mentre, il Lasalocid interessa anche gli ioni bivalenti (Ca e Mg). I

batteri della fermentazione acetica sono quelli più sensibili agli antibiotici ionofori.

Essi, di conseguenza, ostacolano la conversione del piruvato ad acido acetico

attraverso la via fosforoclastica che libera acido formico che, successivamente, viene

scisso in CO2 e metano; quindi si ha una minore produzione di acido acetico e di

metano. Nei riguardi dei batteri lattici ha una azione più spiccata il Lasalocid rispetto

al Monensin. Gli antibiotici ionofori modificano il rapporto acetico/propionico a

favore di quest’ultimo (soprattutto se al Monensin si associa acido nicotinico),

riducono la proteogenesi microbica e la degradazione delle proteine alimentari e della

sostanza organica. Fra i limiti di queste molecole vi è il fatto che inibiscono la

metanogenesi, almeno in parte, nelle feci e ciò rappresenta un inconveniente nel caso

in cui esse dovessero essere impiegate per la produzione di biogas.

Papille ruminali

Rumine sano Acidosi acuta

L’aggiunta di Monensin alla razione alimentare determina un aumento della

produzione di propionato a scapito di quella dell’acetato e del butirrato, con solo

minime variazioni del lattato. Alcuni studi in vitro hanno messo in evidenza che

l’antibiotico è inibitore di vari ceppi batterici producenti lattato, di batteri formanti

acido formico e della produzione di idrogeno. Gli antibiotici ionofori possono ridurre

la quantità di alimento assunto giornalmente infatti, è stato osservato che il monesin

può ridurre il consumo di una razione alimentare a base di granelle dal 10 al 16%. La

riduzione della produzione di metano con l’uso di monesin va dal 4 al 31%; esso, a

differenza di altri inibitori della metanogenesi, non produce un eccesso di H2. Il

monesin riduce il fabbisogno proteico del ruminante, in quanto diminuisce

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l’ossidazione degli aminoacidi liberatisi nel liquido ruminale, per l’idrolisi dei legami

peptidici e la degradazione ruminale delle proteine della razione. Con il monesin

aumenta di circa il 15% il turnover del glucosio poiché l’antibiotico fa diminuire la

quantità di amminoacidi glucogenetici avviati alla gluconeogenesi. Una maggiore

quantità di proteine alimentari non degradate arriva all’abomaso e, quindi, al

duodeno per essere digerite a livello intestinale. L’uso continuo di monesin, nei

bovini fa diminuire l’azoto microbico nell’abomaso, suggerendo che il risparmio

delle proteine alimentari dall’attacco microbico ruminale concorra a limitare la

disponibilità di NH3 per la crescita batterica. Il monesin, inoltre, inibendo i batteri

responsabili della deaminazione del triptofano e della produzione dei suoi derivati

indolici, contrasta gli effetti nocivi di questi cataboliti a livello polmonare.

Il monesin anticipa la pubertà e, attraverso la produzione di propionato, favorisce la

secrezione ipofisaria di LH (ormone luteinizzante) in risposta alla somministrazione

di Gn-RH (fattore rilasciante gonadotropine dall’ipotalamo); inoltre, riduce l’anaestro

postpartum e causa un aumento del peso alla nascita dei vitelli, probabilmente come

conseguenza del più intenso anabolismo causato dall’uso del farmaco.

L’impiego del monesin, come fattore di crescita per giovani bovini, è autorizzato

negli Stati Uniti (non in Europa), con una dose raccomandata di 200

mg/capo/giorno. La somministrazione deve essere interrotta prima della macellazione

e sono necessari controlli sistemici per determinare l’assenza di quote residue nei

tessuti destinati al consumo, ciò in quanto, i residui stessi hanno effetti tossici non

trascurabili per il consumatore. I segni d’intossicazione da monesin negli animali

riguardano: postura preferenziale coricata, anorresia, atassia moderata, rigidezza dei

movimenti, flaccidità muscolare, diarrea, dispnea e morte.

Effetto di diversi livelli di impiego di un complesso cellulasi/xilanasi

(rapporto 2/1) sulle performance di bovine alimentate con razioni a base di

fieno e insilato di medica

Parametro

Livello di cellulasi/xilanasi (mg/kg SS )

Controllo Basso

1,25

Medio*

2,5

Alto

5,0

Assunzione s.s. kg/d 24,4 26,2 26,2 26,6

Latte, kg/d 39,6 40,8 45,9 41,2

Grasso, % 3,99 3,83 4,00 3,75

Proteine, % 2,95 2,87 2,88 2,85

Efficienza, kg latte/kg s.s. 1,82 1,64 1,86 1,62

*il il livello enzimatico intermedio si è dimostrato più efficace.

Trattamenti fisici: per i foraggi si fa in genere riferimento alla trinciatura, che se

non inferiore a 1-2 cm, mantiene buona parte delle caratteristiche fisico-meccaniche

dei foraggi, ai fini di un regolare stimolo alla ruminazione, con una normale funzione

ruminale, ma con il vantaggio di aumentare la quantità di alimento ingerita.

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Con la macinatura (< 0,6 cm), la digeribilità degli alimenti si riduce per una minore

permanenza nel rumine e possono comparire effetti nocivi assai rilevanti. Infatti, lo

sminuzzamento eccessivo della razione porta a lesioni del rumine, ad ascessi epatici,

a meteorismo cronico e a calcoli urinari. L’incidenza di queste complicazioni

diminuisce con l’adozione di misure profilattiche che consistono, principalmente, nel

distribuire una piccola quantità di paglia.

I trattamenti operati sui cereali, in genere, accelerano i processi fermentativi ruminali.

In ordine di velocità fermentativa crescente abbiamo: granella secca intera > granella

conservata umida > granella frantumata > granella finemente macinata > granella

sottoposta a trattamento idrotermico. Le quantità di propionato e lattato sono tanto

maggiori quanto maggiori e violenti sono stati i processi fermentativi. Anche la

stessa fonte dell’amido ha effetti al riguardo: mais e sorgo > orzo. L’amido non deve

giungere nell’intestino in quantità eccessive, per la presenza in questa sede di

quantità di -amilasi non adeguate ad un sovraccarico di substrato. Ad essa si può

porre un parziale rimedio con dei tamponi intestinali, quali carbonati di calcio, ossido

di magnesio che, favorendo l’avvicinarsi del pH alla neutralità, aumentano l’attività

specifica dell’enzima. Per contro, l’assorbimento di elevate quantità di glucosio

dall’intestino causa nelle lattifere la sindrome del latte magro.

Protezione proteica con aldeidi, ha lo scopo di ridurre o inibire l’attacco microbico

sulle proteine, senza influire negativamente sul flusso del digesto e quindi

sull’efficacia di utilizzazione dell’alimento nel metabolismo animale. La formaldeide

permette un’effettiva protezione proteica, senza rendere l’alimento indigeribile a

livello intestinale. Anche altre aldeidi quali l’acetaldeide, la glutaraldeide e il

gliossale, possono essere utilizzate per il fine medesimo. La principale reazione

coinvolta è la carbamilazione degli -amminogruppi terminali delle proteine e dei

gruppi amminici presenti nelle catene laterali degli amminoacidi che possiedono tale

caratteristica. I batteri ruminali non sono in grado di metabolizzare i metilesteri di

quattro amminoacidi essenziali (leucina, treonina, valina e lisina) mentre gli

amminoacidi non modificati sono facilmente degradabili. Utilizzando dialdeidi, come

la gluteraldeide, si possono anche creare ponti intramolecolari fra gli amminoacidi

basici. Il trattamento della proteina alimentare con formaldeide e analoghi favorisce

la ritenzione di azoto da parte dell’animale, con un aumento della concentrazione

amminoacidica ematica.

Protezione proteica con tannini, il tannino è un composto chimico con peso

molecolare variabile tra 500 e 300 D, contenente gruppi fenolici-idrossilici capaci di

formare sulla proteina un reticolo di protezione. Le proteine rivestite di tannino sono

parzialmente protette dalla degradazione ruminale e vengono idrolizzate

nell’abomaso. In alcuni casi, tuttavia, ad esempio con il sorgo, il trattamento con

tannini riduce il rendimento energetico, rendendo le proteine resistenti anche alla

digestione post-ruminale.

Integrazione della razione alimentare con aminoacidi: in animali con forti

produzione di latte e di carne, alcuni aminoacidi e specialmente quelli solforati non

sono disponibili in quantità adeguate e possono rappresentare un fattore limitante

della razione. Così, la lisina e la metionina sono aminoacidi co-limitanti per la

produzione del latte in bovine alimentate con insilati di frumento e concentrati,

contenenti il 60% di grano e il 25% di avena, la lisina è limitante in razioni senza

l’apporto di leguminose e la metionina in razioni al 4% di farina di soia.

L’integrazione di diete carenti con zolfo, solfato sodico o DL-metionina migliora

l’accrescimento ponderale e la produzione del latte. Solo il 20-30% della metionina

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aggiunta alla razione raggiunge il duodeno, cosicché sono stati fatti numerosi sforzi

per proteggere questo aminoacido dalla ossidazione ruminale. In sospensioni di

microrganismi ruminali alimentati con urea come sola fonte di azoto, l’aggiunta di

metionina permette una migliore sintesi delle proteine sia microbiche che

protozoiche. La metionina stimola in ambito ruminale anche la sintesi lipidica,

fornendo gruppi metilici nella sintesi della fosfatidilcolina. Gli amminoacidi possono

essere protetti con l’incapsulamento, risultato che può essere ottenuto preparando un

composto costituito dal 20% di DL-metionina, dal 20% di caolino e dal 60% di

tristearina: il prodotto così ottenuto ha un nucleo di metionina disperso in un colloide

di caolino rivestito da una pellicola idrofobica di tristearina. Altri materiali sono stati

usati allo stesso scopo, quali amido acrilato, polimeri immidamminici; essi si basano

sul fatto di essere resistenti alle condizioni fisico-chimiche del rumine, ma di

disgregarsi ai valori di pH caratteristici dell’abomaso.

2.10. Assorbimento dei principi utritivi

In seguito alla digestione, i principi alimentari vengono scissi nei relativi

principi nutritivi (aminoacidi, zuccheri semplici, acidi grassi) e come tali vengono

assorbiti attraverso la mucosa intestinale, nella quale sono presenti i villi intestinali i

quali sono dotati di un vaso linfatico, detto chilifero centrale, e da una fitta rete

capillare: attraverso i primi passano i gliceridi, gli acidi grassi a lunga catena, il

colesterolo e, nei primi giorni di vita, le immunoglobuline mentre, la via ematica

viene utilizzata dall’acqua, dai sali inorganici, dagli aminoacidi, dai monosaccaridi,

dagli acidi grassi a catena corta e dal glicerolo.

Meccanismi di assorbimento

Molecole cariche

Passivo le sostanze seguono

un certo gradiente

elettrolitico

Gradiente di concentrazione

Trasporto attivo (pompe metaboliche)

Trasporto

mediato

le sostanze sono

trasportate da carrier

Diffusione facilitata

Diffusione a scambio

L’assorbimento è il processo di trasporto delle particelle ingerite che va dal

lume intestinale al circolo sistemico; ciò avviene, soprattutto, ad opera delle cellule

dell’epitelio della mucosa che riveste il tenue.

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Nei monogastrici la principale sede dell’assorbimento dei principi nutritivi è

l’intestino tenue la cui superficie della mucosa è aumentata notevolmente dalla

presenza dei villi. L’assorbimento può avvenire con:

a) per trasporto passivo, quando la concentrazione del principio nutritivo è più

elevato all’esterno che all’interno della cellula;

b) per trasporto attivo, più veloce rispetto al primo e necessita di un trasportatore

specifico sul quale si trovano due siti di attacco: uno per il sodio (Na+) e l’altro per il

principio nutritivo da trasportare;

c) pinocitosi (cellula che beve): è un processo importante in molti neonati di

mammiferi in quanto permette di assorbire le immunoglobuline del colostro.

L’assorbimento avviene grazie alla capacità della membrana cellulare di captare

grosse molecole che si trovano in sospensione o in soluzione.

Il trasportatore una volta depositato il principio nutritivo ed il sodio nella

cellula ripassa la membrana e si rende disponibile per il trasporto di altri principi; il

sodio viene allontanato dalla cellula per mezzo della cosiddetta “pompa del sodio” e

una volta ritornato nel lume intestinale si lega ad un altro trasportatore. Gli zuccheri e

gli aminoacidi vengono assorbiti soprattutto attraverso questa via.

I fattori che possono influenzare i processi di assorbimento sono:

a) area di flusso: nel tenue le pliche intestinali aumentano notevolmente la superficie

disponibile al contatto con il chimo, coadiuvate dai villi e dai microvilli;

b) circolazione: il trasporto avviene nei vasi sanguigni e nei vasi chiliferi linfatici,

che seguono le estroflessioni della mucosa e formano una rete diffusa sotto le cellule

epiteliali. Questa disposizione riduce al minimo la distanza che il materiale assorbito

deve compiere all’interno della mucosa; inoltre, le sostanze assorbite vengono

allontanate rapidamente. Va notato che il flusso sanguigno capillare è circa 1000

volte maggiore della velocità di formazione della linfa;

c) potenziale elettrico: le particelle cariche vengono assorbite con velocità diverse e

ciò causa l’esistenza di una separazione di cariche fra i due lati della membrana, con

la creazione di una differenza di potenziale. Un contributo alla differenza di

potenziale è dato dal trasporto attivo di Na+ verso l’interno della mucosa, che rende

la parete luminale più negativa rispetto all’interno; tale disposizione sembra

influenzare più l’assorbimento degli ioni bivalenti che quelli monovalenti;

d) permeabilità epiteliale: varia entro ampi limiti; le dimensioni delle particelle

sono molto importanti in quanto più piccole sono esse maggiore è la velocità di

assorbimento e ciò forse perché sulla membrana ci sono pori di diverse dimensioni.

La permeabilità dipende anche dal meccanismo di trasporto, infatti, il glucosio è

assorbito prima dei pentosi, che hanno dimensioni più piccole, in quanto è sottoposto

a trasporto attivo. Sulla permeabilità delle sostanze influisce anche la liposolubilità.

Si pensa che esistano diversi tipi di trasportatori e che alcuni di essi possono

veicolare più di un principio nutritivo (es.: il trasportatore del glucosio è uguale a

quello dello xilosio). La natura dei trasportatori non è conosciuta, comunque, il

trasportatore del D-glucosio isolato dai villi intestinali del criceto è una proteina con

peso molecolare di 55.000.

L’assorbimento dell’acqua avviene per diffusione passiva lungo tutto il tubo

gastroenterico, negli erbivori, mentre nei carnivori l’acqua deve essere assorbita

attivamente, soprattutto a livello dell’ileo e del colon. Negli erbivori, l’acqua viene

escreta nell’ileo e riassorbita nel crasso, per la presenza di processi fermentativi. I

fattori che determinano il movimento di acqua sono:

- la forza osmotica, relativamente ai gradienti di concentrazione;

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- differenza di pressione idrostatica esistente fra lume e capillari;

- trasporto delle sfere di solvatazione, da parte di sostanze che vengono assorbite

portando con sé le molecole di acqua associate. Dei tre, la forza osmotica è quella più

importante.

La digestione dei carboidrati porta alla formazione di zuccheri semplici la

quale avviene sulla superficie della membrana dei villi; gli aldosi, quali il glucosio,

vengono trasportati con trasporto attivo, mediato da proteine carrier aiutate da un

cofattore di trasporto, lo ione Na+ e attraverso il sistema portale giungono al fegato. Il

fegato è in grado di controllare il flusso di glucidi nel sangue e di modificarli

metabolicamente prima di immetterli nel circolo. Il meccanismo di assorbimento dei

chetosi non è chiaro, peraltro, per il fruttosio sembra che il trasporto sia sodio

indipendente e per questo monosaccaride è dubbio il trasporto attivo in quanto la

velocità di assorbimento è pari a circa la metà di quella del glucosio e galattosio. Per

i vari zuccheri la velocità di assorbimento, a parità di concentrazione segue l’ordine

decrescente: galattosio, glucosio, fruttosio, mannosio, xilosio e arabinosio.

L’assorbimento dei monosaccaridi può essere inibito da vari fattori, fra cui la

fluorizina, che interferisce con il trasporto attivo e con il carrier.

Nell’intestino tenue i grassi digeriti si trovano sotto forma di micelle miste;

per il loro assorbimento sembra che le componenti lipidiche siano assorbite per

diffusione passiva nelle cellule della mucosa del digiuno mentre, i sali biliari

verrebbero assorbiti nell’ileo, con meccanismo di trasporto attivo. Dopo

l’assorbimento, si ha sintesi di trigliceridi nei chilomicroni (goccioline di grasso in

dispersione colloidale) i quali dal vaso linfatico dei villi raggiungono il dotto toracico

e, quindi, la circolazione generale. I chilomicroni sono così costituiti: trigliceridi

86%, colesterolo 3%, fosfolipidi 9%, lipoproteine 2%. Gli acidi grassi a corta e

media catena non richiedono sali biliari, né la formazione di micelle e, quindi,

possono essere assorbiti molto rapidamente dal lume intestinale e direttamente

versati nel sangue del sistema portale. L’assorbimento di questi acidi grassi è Na-

dipendente e avviene, contro gradiente di concentrazione, per trasporto attivo. Nei

polli, il sistema linfatico è trascurabile e la maggior parte dei grassi arriva nel sangue

portale come lipoproteine di bassa densità.

Dalla digestione delle proteine si liberano aminoacidi e oligopeptidi di basso

peso molecolare. Gli oligopeptidi entrano nelle cellule epiteliali della mucosa del

tenue e qui vengono idrolizzati da specifiche di- e tri-peptidasi. Gli aminoacidi

vengono assorbiti nel piccolo intestino con meccanismo di trasporto attivo, che nella

maggior parte dei casi é Na-dipendente e quindi giungono al fegato attraverso il

sangue del circolo portale. Il sodio non è necessario per l’assorbimento della glicina,

prolina e lisina. I sistemi descritti per il trasporto degli aminoacidi possono essere

classificati in quattro gruppi:

a) per aminoacidi neutri, con carica totale nulla;

b) per aminoacidi acidi quali i dicarbossilici (aspartato, glutammato);

c) per aminoacidi basici: lisina, arginina, ornitina, cisteina

d) per iminoacidi e glicina.

Aspartato e glutammato vengono assorbiti dalla cellula, ma all’interno

subiscono dei processi di transaminazione, cosicché il prodotto riversato nel sangue è

alanina.

Alcuni aminoacidi possono essere veicolati da più di un sistema. Abbiamo già detto

che nei neonati è possibile l’assorbimento di proteine inalterate con il meccanismo

della pinocitosi.

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L’assorbimento degli aminoacidi è compiuto per il 40-50% circa nel duodeno, poi

continua in tutto il tenue (digiuno e ileo). Con un pasto di carne magrissima e molto

proteica, la digestione e l’assorbimento sono completati in un’ora.

I minerali vengono assorbiti sia per semplice diffusione sia con meccanismo

di trasporto attivo. Le modalità con le quali vengono assorbiti tutti i minerali non

sono state precisate. Per il calcio l’assorbimento è regolato dall’1,25-

diidrossicolicalcio fenolo ed è influenzato da diversi fattori, infatti, è favorito da un

pH basso ed è ostacolato dalla presenza di ossalati e fitati e da un eccesso di fosforo,

inoltre, l’assorbimento aumenta con il fabbisogno dell’animale.

L’assorbimento del ferro, generalmente, è indipendente dalla fonte alimentare;

l’animale tende a tesaurizzare il ferro corporeo e per questo esiste una modalità di

regolazione dell’assorbimento del ferro che evita il suo accumulo nell’organismo.

Negli animali adulti, in genere, viene assorbito poco ferro a meno che non sia in

corso qualche grave emorragia o uno stato di gravidanza; per i cani è stato osservato

che l’assorbimento può essere 20 volte maggiore negli animali anemici rispetto a

quelli sani.

Le vitamine liposolubili A, D, E e K attraversano la mucosa intestinale per

semplice diffusione, in seguito all’azione dei sali biliari e, all’interno delle cellule, si

possono combinare con le proteine ed entrare nella circolazione generale come

lipoproteine. La vitamina A può giungere al lume intestinale come estere del retinolo

o come -carotene. Negli altri animali, a differenza dei bovini, il -carotene può

essere assorbito solo dopo che è stato trasformato in retinolo, acidi grassi e altri

composti. Il retinolo una volta assorbito viene esterificato con l’acido palmitico

all’interno della cellula (palmitato di retinolo), viene emesso dalla cellula e assorbito

dai vasi linfatici, per essere condotto al fegato. Il trasporto alla retina oculare è

mediato da una proteina plasmatica che gli permette il riconoscimento da parte di

recettori specifici; il retinolo viene staccato dal complesso con la proteina e assorbito.

La vitamina D viene assorbita e condotta come tale nella linfa; a livello della mucosa

intestinale viene attivata e favorisce la sintesi di una proteina in grado di legare lo

ione Ca++

, responsabile del suo assorbimento dal lume intestinale.

Le vitamine idrosolubili ad eccezione della B12 sono tutte assorbite per

processi di diffusione passiva. La vitamina B12 ha un sistema di trasporto specifico,

legato alla presenza di una proteina secreta nel lume gastrico, il fattore intrinseco di

Castle, diverso nei diversi tipi di animali. Il complesso Vit. B12-fattore intrinseco

viene riconosciuto da recettori presenti nelle cellule della mucosa dell’ileo dove si ha

lo scambio della Vit. B12 e il suo passaggio all’interno della cellula.

Nel rumine si ha l’assorbimento di diverse sostanze che avviene sia per

semplice diffusione sia per meccanismo di trasporto attivo. In questa sede,

l’assorbimento riguarda soprattutto gli AGV: circa il 75% di essi viene assorbito nel

rumine-reticolo, il 20% nell’omaso e nell’abomaso e solo il 5% raggiunge l’intestino

tenue. L’assorbimento degli AGV è per diffusione, in base al gradiente di

concentrazione fra ambiente ruminale e cellule epiteliali e sangue. La velocità di

assorbimento aumenta con il diminuire del pH ruminale e quindi gli AGV sono

assorbiti più velocemente sotto forma indissociata. L’ac. butirrico viene

metabolizzato dall’epitelio del rumine che lo utilizza come substrato energetico

trasformandolo in corpi chetonici (ac. -idrossibutirrico, ac. acetacetico, acetone) e

tutto ciò causa una concentrazione molto bassa di ac. butirrico nella vena porta la

quale porta il sangue proveniente dalle rete capillare sottoepiteliale del rumine al

fegato. Una certa permeabilità della parete ruminale si ha anche per altre sostanze

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quali: glucosio, ammoniaca, CO2, H2O e sali minerali. Il sodio mediante meccanismo

di trasporto attivo contro gradiente dal rumine passa al sangue con dispendio di

energia. Altri elementi interessati all’attraversamento della parete ruminale sono il

cloro, il fosforo, il potassio il calcio e il magnesio: per questi ultimi due

l’assorbimento è rallentato da elevate concentrazioni di potassio; questo fenomeno

probabilmente è una delle cause della tetania da erba o ipomagnesiemia che si

verifica in particolare modo in animali che ingeriscono alimenti ricchi in proteine,

calcio e potassio.

2.10.1. Defecazione

Le feci sono composte da residui alimentari non digeriti, prodotti della

digestione, prodotti di fermentazione e putrefazione, composti dei succhi digerenti,

materiale che deriva dalla desquamazione della mucosa intestinale, prodotti di

escrezione, cellule microbiche, ecc.

La defecazione è un atto riflesso con il quale l’animale espelle dal canale alimentare

il materiale indigerito e i prodotti di escrezione dell’intestino.

Lo stimolo alla defecazione si ha quando le feci sono entrate nell’ampolla rettale e vi

hanno prodotto un certo grado di distensione. Quando l’ampolla rettale contiene feci

a sufficienza, la contrazione del colon e il rilascio degli sfinteri anali portano alla

evacuazione delle feci. I riflessi interessano solo le porzioni sacrali del midollo

spinale.

Produzione di feci in diverse specie e categorie animali

Deiezioni

Specie Categoria Peso medio

(Kg/capo)

(capo/anno)

Q

q/peso vivo

q

Bovini

Vacche da latte

Vitelli

Vitelloni

tori adulti

600

125

300

1.000

180

30

65

180

30

24

21,5

18

Suini

Scrofe con suinetti

Verri adulti

Suini da ingrasso

Magroni

200

300

100

30

30

30

20

10

15

10

20

33

Avicole Galline ovaiole

Polli

2

1

0.72

0,36

36,5

36,5

Ovi-caprini

Pecore

Capre

Agnelloni

60

35

18

15

9

5

25

25

28

Equini Fattrici e stalloni

Puledri

700

200

150

50

21,5

25

Cunicola Fattrici

Conigli ingrasso

4

2

1,6

0,8

40

40

La dilatazione dell’ampolla rettale o l’irritazione della mucosa (es. i purganti come la

glicerina) costituiscono lo stimolo diretto alla defecazione. Uno stimolo indiretto è

costituito dal cosiddetto riflesso gastro-colico, che sarebbe responsabile della

tendenza alla defecazione nelle ore postprandiali.

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87

L’atto della defecazione è parzialmente volontario: ciò riguarda il rilascio dello

sfintere anale esterno, ma può comprendere anche l’azione sinergica dovuta alla

contrazione del diaframma e dei muscoli addominali. Il riflesso della defecazione

viene espletato due o più volte nella giornata, secondo la specie e, la quantità di feci

varia notevolmente con l’animale considerato (15-20 Kg nel cavallo; 15-45 Kg nel

bovino).

La diarrea può essere causata da almeno tre cause diverse: aumento della

velocità di transito delle feci, diminuzione dell’assorbimento, aumento delle

secrezioni intestinali. Essa può presentarsi in forma:

a) acuta: si risolve in poco tempo ma è violenta; essa porta alla perdita di una

notevole quantità di acqua, legata ad una emoconcentrazione ed ipovolemia, il

sangue diventa più viscoso e lo scambio gassoso a livello dei tessuti è rallentato; ciò

causa un aumento di CO2 e di cataboliti acidi, con abbassamento del pH e quindi un

peggioramento delle condizioni di salute. L’acidosi metabolica causa fuoriuscita di

K+ dalle cellule (ipopotassemia) e ciò può causare blocco della contrazione cardiaca e

infarto.

b) cronica: ha carattere permanente e si risolve in un periodo di tempo piuttosto

lungo; presenta una elevatissima morbilità e mortalità. Nell’organismo porta alla

comparsa di reazioni adattative e difensive, quali la riduzione della minzione e

l’aumento della tendenza al bere per compensare la perdita sistematica di acqua e

sali. Comunque, l’ingestione di acqua, povera di sali (soprattutto K+) apporta pochi

benefici in quanto si ha ipopotassemia e diminuzione delle concentrazioni saline

organiche.

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CAP. III. METABOLISMO

3.1. Generalità

Il metabolismo è l’insieme dei processi chimici che avvengono

nell’organismo vivente e può essere distinto in:

a) catabolismo: processo che porta alla degradazione di composti a sostanze

semplici;

a) anabolismo: sono processi metabolici che partendo da sostanze semplici portano

alla formazione (sintesi) di composti complessi.

Con il catabolismo si rende disponibile l’energia necessaria di cui l’organismo ha

bisogno per il lavoro meccanico e per il lavoro chimico richiesto per la sintesi dei

carboidrati, delle proteine e dei lipidi. Il metabolismo dei carboidrati parte dalle

sostanze prodotte con la loro digestione e sono rappresentate da glucosio e, in misura

minore galattosio e fruttosio nei monogastrici.

Nei poligastrici, la maggior parte dei carboidrati alimentari nel rumine è trasformata

in acido acetico, acido propionico, acido butirrico e piccole quantità di acidi volatili a

catena ramificata. L’acido butirrico viene metabolizzato nel passaggio attraverso la

parete del rumine e giunge al sangue sotto forma di acido -idrossibutirrico (BHBA).

L’acido acetico e propionico attraversano la parete ruminale immodificati e insieme

all’acido idrossibutirrico raggiungono il fegato attraverso il sangue della vena porta.

L’ac. acetico e il BHBA dal fegato passano ai vari organi e tessuti dove vengono

utilizzati quali fonte energetica e per la sintesi di acidi grassi, invece, l’acido

propionico nel fegato viene trasformato in glucosio il quale in parte è trasformato in

glicogeno, e come tale viene immagazzinato, in parte viene trasformato in acidi

grassi, coenzimi ridotti e L-glicerol-3-fosfato, usato per la sintesi dei trigliceridi e

infine una quota di glucosio dal fegato passa nel sangue e portato ai vari tessuti dove

viene utilizzato quale fonte di energia, coenzimi ridotti e per la sintesi di glicogeno e

di acidi grassi.

La digestione delle proteine produce aminoacidi e peptidi di basso peso molecolare

che sono assorbiti dai villi intestinali, immessi nel sangue portale attraverso il quale

giungono al fegato, dove entrano a far parte del pool di aminoacidi. Essi possono

essere usati per la sintesi delle proteine o entrando nella circolazione generale, vanno

ad unirsi agli aminoacidi provenienti dal catabolismo dei vari tessuti e, quindi,

partecipano alla sintesi delle proteine corporee e alle altre sostanze azotate di grande

importanza biologica. Gli aminoacidi che superano il fabbisogno vengono portati al

fegato e trasformati in chetoacidi, con liberazione di ammoniaca. I chetoacidi

possono essere impiegati per la sintesi di aminoacidi o quali fonte energetica;

l’ammoniaca, in parte trova impiego per processi di aminazione e per la quasi totalità

è trasformata in urea che viene escreta con le urine o riciclata nella saliva. Nei

poligastrici, una notevole quantità di ammoniaca può essere assorbita dal rumine e

con il sangue portale giungere al fegato ove viene trasformata in urea, poi escreta o

riciclata al rumine, con la saliva o attraverso la parete dei visceri.

La maggior parte dei lipidi alimentari passa nel vaso chilifero del villo ed i

chilocromi che si formano, giungono attraverso il dotto toracico, nel sangue della

circolazione generale. I chilocromi sono particelle di circa 500nm di diametro, con un

involucro di natura lipoproteica. Piccole quantità di trigliceridi alimentari vengono

idrolizzati nel tratto intestinale a glicerolo e acidi grassi di basso peso molecolare,

che vengono direttamente versati nel sangue portale. I chilocromi circolanti giungono

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al fegato ed i trigliceridi che li costituiscono sono idrolizzati. Gli acidi grassi così

prodotti, come quelli liberi che il fegato preleva dal sangue, possono essere

catabolizzati con produzione di energia oppure utilizzati per la sintesi di trigliceridi.

Questi ultimi rientrano nel sangue sotto forma di lipoproteine e con il sangue

giungono ai vari tessuti e organi, dove possono essere impiegati per la lipogenesi o

per la produzione di energia o per la sintesi di acidi grassi. Fatta eccezione per il

fegato, l’idrolisi è presupposto per l’assorbimento. Gli acidi grassi catabolizzati in

eccesso, rispetto al fabbisogno energetico del fegato, sono trasformati in -

idrossibutirrato ed acetoacetato, trasportati ai vari tessuti dove vengono utilizzati a

fini energetici.

3.2 Metabolismo energetico

L’unità di misura dell’energia è la caloria termochimica (cal), che corrisponde

al valore calorico dell’acido benzoico standard di riferimento; in pratica si usa la

chilocaloria (1 Kcal = 1000 cal) o la megacaloria (1 Mcal = 1.000.000 cal) in quanto

la cal è una’unità di misura troppo piccola. Il Joule (J) è il lavoro compiuto dalla

forza di un Newton quando il suo punto di applicazione si sposta di un metro ed è =

0,239 cal; 1 cal = 4,184 J; anche il J è una unità di misura molto piccola e, quindi, si

usa il chilojoule (KJ) e il megajoule (MJ).

La maggior parte delle reazioni di sintesi che avvengono all’interno dell’animale

sono endoergoniche e, quindi, è necessario un apporto di energia affinché esse

possano avvenire e tale energia può derivare dai processi catabolici esoergonici.

Affinché l’energia liberata dai processi catabolici possa essere usata dai processi

endoergonici è necessario che tra i due processi si stabilisca un legame e ciò avviene

mediante composti che partecipano ad entrambi i processi: prendono l’energia che si

sviluppa dal catabolismo e la rendono disponibile per i processi endoergonici. Il più

importante di questi mediatori nell’animale è rappresentato dall’adenosina trifosfato

(ATP), formata dall’adenina (base purinica) e dal D-ribosio (zucchero).

L’esterificazione dell’ossidrile dell’atomo di C5 dello zucchero con l’acido fosforico

dà luogo all’adenosina monofosfato (AMP) e successive aggiunte di radicali fosforici

portano all’adenosina difosfato (ADP) e all’adenosina trifosfato (ATP). Quando la

produzione di ATP da ADP è accoppiata direttamente ad una reazione si parla di

fosforilazione a livello del substrato, ma la maggior parte dell’ATP è formato per via

indiretta. Il meccanismo della fosforilazione ossidativa non è stato ancora chiarito,

ma si ritiene che la formazione di ATP abbia luogo durante il trasferimento

dell’idrogeno dal NAD+ ridotto al FAD, durante il trasferimento di elettroni dal

citocromo b al citocromo c1 e dal citocromo a3 all’ossigeno, così come

schematizzato:

NADH (+ H+) + ½ H2O + 3ADP +3Pi > NAD

+ + 3ATP + H2O

L’ossidazione di ogni mole di NAD+ ridotto produce quindi tre moli di ATP, da ADP

e fosfato inorganico. L’energia immagazzinata nell’ATP viene usata per il lavoro

muscolare e per i processi vitali che servono all’organismo animale per mantenersi e

produrre. Sia la contrazione che il rilassamento muscolare richiedono energia, la

quale è fornita dalla scissione dell’ATP ad ADP e fosfato inorganico. L’energia

fissata dall’ATP può anche essere usata per reazioni nelle quali il gruppo fosforico è

ceduto ad accettori di diversa natura (es. D-glucosio) e quindi aumentando il loro

contenuto energetico sono resi idonei per successive reazioni biosintetiche. In altre

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reazioni, come nel primo stadio della lipogenesi, l’ATP fornisce l’energia necessaria

scindendosi in AMP e fosfato inorganico:

Acetato + CoA + ATP Acetilcoenzima A + AMP + pirofosfato.

La quantità di energia che si rende disponibile con il distacco di ognuno dei due

gruppi fosforici terminali dell’ATP varia a seconda delle condizioni in cui avviene

l’idrolisi. Si ritiene che nelle condizioni normali delle cellule intatte essa sia di 52 KJ

per mole-1

, ma può variare con il pH, con la concentrazione di ioni magnesio e la

concentrazione di ATP, ADP e fosfato. I legami fosforici dell’ATP sono

comunemente considerati in maniera non del tutto corretta “altamente energetici”.

L’accumulo di energia sotto forma di ATP è un fenomeno transitorio; quando la

produzione di energia supera il fabbisogno immediato, essa viene immagazzinata in

forma più permanente in prodotti che costituiscono una riserva di energia, come la

fosfocreatina dei muscoli che si forma dalla creatinina quando l’ATP è prodotto in

eccesso rispetto al fabbisogno; il fenomeno opposto si verifica quando la

disponibilità di ATP è insufficiente.

NH2 NH≈P

| |

C = NH2 C = NH2+

| Creatina cinasi |

N - CH3 + ATP N - CH3 + ADP

| |

CH2 CH

| |

COO-

COO-

Creatina Fosfocreatina

La maggior parte dell’energia è, comunque, immagazzinata sotto forma di grassi di

deposito, insieme a modeste quantità di glicogene; in alcune circostanze anche le

proteine vengono usate quale fonte di energia.

Fonti di energia:

a) Glucosio: la principale via catabolica attraverso la quale il glucosio

fornisce energia comprende due parti:

1) la prima detta glicolisi, capace di fornire energia anche in condizioni anaerobiche,

porta dal glucosio all’acido piruvico (via Embden-Meyerhof). Il glucosio viene

fosforilato con due moli di ATP e si ha il fruttosio difosfato il quale viene scisso e si

formano due moli di gliceraldeide - 3- fosfato; successivamente si formano altre 2

moli di ATP e quindi da una molecola di glucosio si formano 4 moli di ATP, ma

poiché due moli di ATP erano stati usati inizialmente per la fosforilazione, la

produzione netta di ATP da ADP è di due moli per ogni mole di glucosio. In

condizioni aerobiche, il NAD+ ridotto che si è prodotto al passaggio 7 può essere

ossidato lungo la catena respiratoria con la produzione di 3 moli di ATP per mole di

coenzima ridotto e quindi in condizioni aerobiche la glicolisi produce 8 moli di ATP

per ogni mole di glucosio. Sempre in condizioni aerobiche, il piruvato è ossidato fino

ad anidride carbonica ed acqua con ulteriore produzione di energia. La prima tappa

di questo processo consiste nella decarbossilazione ossidativa del piruvato in

presenza di tiamina difosfato. La deidrogenazione è operata dal NAD+ e 3 moli di

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ATP si formano da ADP. L’acetil-CoA è poi completamente ossidato ad anidride

carbonica ed acqua nel ciclo degli acidi tricarbossilici (ciclo di Krebes o ciclo

dell’acido citrico). Nel ciclo si hanno 4 deidrogenazioni, tre delle quali con

intervento di NAD+ e una con intervento del FAD, il che comporta la formazione di

11 moli di ATP da ADP. Inoltre, una mole di ATP si forma a livello del substrato

nella reazione che porta da succinil-CoA ad acido succinico. Dunque, l’ossidazione

di ogni mole di acido piruvico produce 15 moli di ATP. L’energia immagazzinata

corrisponde a quella di 38 legami fosforici altamente energetici e può essere calcolata

moltiplicando 38 x 52 = 1976 KJ/mole-1

di glucosio, il cui contenuto totale di energia

libera è di 2870 KJ e questo significa che l’accumulo di energia libera nell’organismo

animale, almeno in condizioni cellulari ottimali, si verifica con un rendimento pari a

1976/2870 = 0,69.

In condizioni anaerobiche, non vi è disponibilità di ossigeno per la fosforilazione

ossidativa del NAD+ e, quindi, per ottenere una modesta liberazione di energia dalla

scissione continua del glucosio a piruvato, è indispensabile che il NAD+ ridotto

venga nuovamente ossidato. L’ossidazione del NAD+ ridotto, in queste condizioni, è

ottenuta attraverso la riduzione del piruvato a lattato catalizzata dal lattato

deidrogenasi:

CH3

|

|

C = O

|

|

COO-

Lattato deidrogenasi

NADH (+H+) NAD

+

CH3

|

|

CHOH

|

|COO-

Piruvato

Lattato

Così, è possibile la produzione di due moli di ATP, da ogni mole di glucosio, anche

in condizioni di anaerobiosi, come può verificarsi nell’esercizio muscolare intenso e

prolungato. Il lattato che si forma in parte viene portato al fegato dove viene

trasformato in glicogeno.

Nell’organismo, il glucosio può essere metabolizzato anche attraverso la via dei

pentoso-fosfati, nella quale si ha ossidazione diretta del glucosio a fosfogluconato o

anche come shunt dell’esomonofosfato. Il ciclo dei pentoso-fosfati assume

importanza nel citoplasma delle cellule epatiche, nel tessuto adiposo e nella

ghiandola mammaria in attività secretoria. Il risultato di questo ciclo è la rimozione

di un atomo di carbonio del glucosio come anidride carbonica e la produzione di due

moli di NAD+ ridotto.

Glucosio-6-fosfato + 12 NADP+ > 6 CO2 + PO4

3- + 12 NADPH (+ H

+)

A differenza del NAD+ ridotto, il NADP

+ non è utilizzato per la produzione di ATP

attraverso la fosforilazione ossidativa; la principale funzione del ciclo dei pentoso-

fosfati è infatti, quella di produrre i pentosi, necessari per la sintesi dei nucleotidi e il

NADP+ ridotto occorrente per diverse sintesi biologiche ed, in particolare, per la

lipogenesi. Peraltro, il NADP+ ridotto può essere trasformato in NAD

+ ridotto e,

quindi, servire indirettamente come fonte di ATP.

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b) glicogeno: il glicogeno per essere utilizzato come fonte di energia deve essere

prima scisso in glucosio e la sua scissione, nell’organismo, avviene in presenza di

fosfato inorganico ed è catalizzata dalla glicogeno-fosforilasi. L’enzima catalizza la

scissione dei legami glicosidici 1,4 a cominciare dall’estremità non riducente della

catena. Vengono così liberate molecole di glucosio-1-fosfato, fino al punto di

ramificazione. Quindi, in presenza di oligotransferasi, si libera una destrina limite

con legame glicosico1,6; il glucosio viene messo successivamente in libertà per

scissione del legame1,6 ad opera di una oligo-1,6-glucosidasi, mentre l’ulteriore

attività della fosforilasi produce altro glucosio-1-fosfato. Il risultato finale della

scissione del glicogenolisi (fosforolisi) è la produzione di glucosio-1-fosfato accanto

ad una piccola quantità di glucosio. Il glucosio-1-fosfato ad opera di una

fosfoglutomutasi, è trasformato in glucosio-6-fosfato che poi segue la via Embden-

Meyerhof o entra nel ciclo dei pentoso-fosfati come il rimanente glucosio.

La produzione di glucosio-6-fosfato a partire dal glicogeno non comporta consumo di

ATP e, pertanto, la produzione di energia è in questo caso leggermente superiore a

quella che si ottiene a partire dal glucosio.

c) acido propionico: esso dal rumine, attraverso la parete ruminale, dove in parte

viene trasformato in acido lattico, passa al fegato dove è utilizzato per la produzione

di glucosio. La prima tappa prevede la trasformazione del propionato in succinil-CoA

il quale entra nel ciclo degli acidi tricarbossilici e convertito in malato; in questa

trasformazione si formano 3 moli di ATP. Il malato passa nel citoplasma dove è

trasformato in ossalacetato e in fosfoenolpiruvato. Dal fosfoenolpiruvato,

percorrendo a ritroso alcune tappe della glicolisi, viene sintetizzato fruttosio difosfato

il quale è trasformato in fruttosio-6-fosfato dalla esoso-difosfatasi, poi in glucosio-6-

fosfato ed, infine, in glucosio per intervento della glucosio-6-fosfatasi. Il glucosio

può essere utilizzato a fini energetici; il bilancio dell’energia nella degradazione del

glucosio sintetizzato a partire dal propionato può essere così schematizzato:

Moli ATP

+ -

da 2 moli di propionato a 2 moli di succinil-coenzima A 6

da 2 moli di succinil-coenzima A a 2 moli di malato 6

da 2 moli di malato a 2 moli di fosfoenolpiruvato 6 2

da 2 moli di fosfoenolpiruvato a 1 mole di glucosio 8

da 1 mole di glucosio ad anidride carbonica ed acqua 38

Totale 50 16

Guadagno netto di ATP 34

Quindi, si ha un guadagno di 17 moli (34/2) di ATP per ogni mole di acido

propionico.

Piccole quantità di questo acido sono presenti nel sangue periferico o come

conseguenza di una incompleta rimozione da parte del fegato o a seguito della

ossidazione di acidi grassi a numero dispari di atomi di carbonio.

Questo propionato può essere usato direttamente per la produzione di energia, lungo

la via del fosfoenolpiruvato: piruvato, acetil-coenzima A e ciclo degli acidi

tricarbossilici.

Questo processo è leggermente più redditizio, infatti, si ha un guadagno netto

di una mole in più di ATP:

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Moli ATP

+ -

da 1 mole di propionato a 1 mole di succinil-CoA 3

da 1 mole di succinil-CoA a 1 mole di malato 3

da 1 mole di malato a 1 mole di fosfoenolpiruvato 3 1

da 1 mole di fosfoenolpiruvato a 1 mole di acetil-CoA 4

da 1 mole di acetil-CoA ad anidride carbonica ed acqua 12

Totale 22 4

Guadagno netto di ATP 18

d) acido butirrico: viene assorbito dalle pareti del rumine e dell’omaso ed in questa

sede è trasformato in -idrossibutirrato il quale può essere utilizzato, quale fonte di

energia, da molti tessuti e soprattutto dai muscoli scheletrici. Attraverso diversi

passaggi si forma acetil-CoA il quale viene, successivamente, metabolizzato nel ciclo

degli acidi tricarbossilici con lo sviluppo della seguente energia:

Moli ATP

+ -

da 1 mole di butirrato a 1 mole di b-idrossibutirrato 5 5

da 1 mole di idrossibutirrato a 2 moli di acetil-CoA 3 2

da 2 moli di acetil-CoA ad anidride carbonica ed acqua 24

Totale 32 7

Guadagno netto di ATP 25

Se il passaggio di acetoacetato ad acetoacetil-CoA avviene attraverso l’intervento del

succinil-CoA si risparmiano due moli di ATP e così il guadagno netto passa da 25 a

27 moli di ATP.

e) acido acetico: nei ruminanti è il principale prodotto della digestione dei carboidrati

ed è il solo AGV presente nel sangue periferico in notevole quantità. Molti tessuti lo

utilizzano quale fonte di energia: l’acetato viene attivato, in presenza di acetil-CoA

sintetasi, ad acetil-CoA che poi viene ossidato nel ciclo degli acidi tricarbossilici con

la produzione di 12 moli di ATP per mole di acido; considerando che 2 legami

fosforici altamente energetici sono usati inizialmente per l’attivazione dell’acetato, il

guadagno netto di ATP si riduce a 10 moli/mole di acetato.

f) grassi: le riserve organiche di trigliceridi vengono mobilitate a scopo energetico

per azione delle lipasi che catalizzano la produzione di acidi grassi e glicerolo.

Il glicerolo è glicogenetico e si inserisce nella via della glicolisi come

fosfodiossiacetone fosfato.

Il glucosio può essere sintetizzato seguendo a ritroso la reazione aldolasica con

produzione di fruttosio-1,6-difosfato, poi convertito a glucosio con l’intervento della

esoso difosfatasi, della glucosofosfato isomerasi e della glucosio-6-fosfatasi.

Se il glucosio è usato per produrre energia, il rendimento energetico del glicerolo è il

seguente:

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Moli ATP

+ -

da 2 moli di glicerolo a 2 moli di fosfodiossiacetone 6 2

da 2 moli di fosfodiossiacetone a 1 mole di glucosio

da 1 mole di glucosio ad anidride carbonica ed acqua 38

Totale 44 2

Guadagno netto di ATP/mole di glicerolo 21

Il diidrossiacetonefosfato può anche entrare nella via della glicolisi ed essere

metabolizzato, via piruvato, nel ciclo degli acidi tricarbossilici ad anidride carbonica

ed acqua e in questo caso si guadagna una mole di ATP:

Moli ATP

+ -

da 1 mole di glicerolo ad 1 mole di fosfodiossiaceton 3 1

da 1 mole di fosfodiossiacetone ad 1 mole di piruvato 5

da 1 mole di piruvato ad anidride carbonica ed acqua 15

Totale 23 1

Guadagno netto di ATP/mole di glicerolo 22

La maggior parte dell’energia, gli animali la ricavano dagli acidi grassi la cui via di

degradazione è rappresentata dalla -ossidazione, che consiste in un progressivo

accorciamento della catena carboniosa per distacco di due atomi di carbonio per

volta. Prima tappa della -ossidazione è l’attivazione dell’acido grasso con il CoA in

presenza di ATP e di Acil-CoA sintetasi: ne risulta un acil-CoA che, attraverso una

serie di reazioni, è trasformato in acil-CoA con due atomi di carbonio in meno. Il

distacco dell’acetil-CoA comporta la sintesi di 5 moli di ATP. L’acil-CoA che

residua subisce la stessa serie di reazioni e il processo continua finché l’intera catena

carboniosa dell’acido grasso è trasformata in acetil-CoA, che entra nel ciclo degli

acidi tricarbossilici per essere completamente ossidato ad anidride carbonica ed

acqua. Nel corso dell’ossidazione di ciascuna mole di acetil-CoA vengono

sintetizzate 12 moli di ATP. Poiché l’acil-CoA sintetasi, che comporta consumo di

ATP, interviene solo nella prima tappa della demolizione di ciascuna molecola di

acido grasso, la produzione di ATP, a parità di dispendio energetico, è maggiore

negli acidi grassi a lunga catena carboniosa che non in quelli a corta catena. Così la

produzione di ATP dal palmitato (16 atomi di carbonio) è la seguente:

Moli ATP

+ -

da 1 mole di palmitato a 8 moli di acetil-CoA 35 2

da 8 moli di acetil-CoA ad anidride carbonica ed acqua 96

Totale 131 2

Guadagno netto di ATP/mole di palmitato 129

g) aminoacidi: la degradazione degli aminoacidi ha luogo soprattutto a livello del

fegato e, in minor misura, nel rene mentre non si verifica nel tessuto muscolare.

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95

La prima tappa della degradazione ossidativa degli aminoacidi è la rimozione del

gruppo amminico attraverso la deaminazione o la transaminazione. Nella

transaminazione il gruppo aminico è trasferito all’atomo di carbonio in posizione

di un chetoacido, di norma l’acido -chetoglutarico con il risultato della

produzione di un altro chetoacido e di glutammato. Le reazioni sono catalizzate da

aminotrasferasi o transaminasi. Il glutammato formato, come quello che proviene

dalla digestione degli alimenti o dal catabolismo delle proteine dei tessuti, può subire

la deaminazione ossidativa in presenza di glutammico deidrogenasi e mentre l’-

chetoglutarrato che si è formato trova impiego in altre transaminazioni, il coenzima

ridotto è riossidato attraverso la fosforilazione ossidativa. Vi sono D- e L-

aminoacido-ossidasi che sono flavoproteine e catalizzano la produzione di chetoacidi

ad ammoniaca, ma la loro importanza per il metabolismo degli animali è modesta.

Prodotto finale della degradazione degli aminoacidi è l’acetil-CoA, che viene poi

inserito nel ciclo degli acidi tricarbossilici per trarne energia; esso può essere

prodotto direttamente, come nel caso del triptofano e della leucina, o via piruvato

(alanina, glicina, serina, treonina e cisteina), oppure via aceto-acetil CoA

(fenilalanina, tirosina, leucina, lisina e triptofano). Altri aminoacidi sono degradati

attraverso vie più o meno complesse con produzione di -chetoglutarrato,

ossalacetato, fumarato e succinil-CoA che entrano nel ciclo degli acidi tricarbossilici

e producono acetil-CoA, via fosfoenolpiruvato.

Il catabolismo degli aminoacidi porta alla formazione di ammoniaca che è fortemente

tossica; una parte di questa trova impiego in reazioni di aminazione nella sintesi degli

aminoacidi. In questo caso, l’ammoniaca reagisce con l’a-chetoglutarrato per dare

glutammato, che viene usato per reazioni di sintesi. La reazione è l’opposto della

desaminazione ossidativa, ma il NADP+ prende qui il posto del NAD

+. La maggior

parte dell’ammoniaca è escreta per via renale, come urea nei mammiferi e come

acido urico negli uccelli.

L’ureogenesi avviene nel fegato e consta di due fasi che richiedono entrambe energia

sotto forma di ATP:

a) consiste nella formazione di carbamil-fosfato da anidride carbonica e ammoniaca,

in presenza di carbamil-fosfato sintetasi:

O O

Carbamil fosfato sintetasi || ||

CO2 + NH4+ + H2O NH2-C-O-P- O

2ATP 2ADP + 2Pi

|

O

Carbamil fosfato

b) il carbamil-fosfato reagisce con l’ornitina, dando via al ciclo di reazioni che

portano alla formazione di urea. Il secondo gruppo aminico occorrente per la sintesi

dell’urea è prelevato dall’aspartato e si ha la produzione di fumarato, che si inserisce

nel ciclo degli acidi tricarbossilici. Anche l’ammoniaca che viene assorbita

direttamente dal rumine subisce la stessa serie di reazioni; l’urea che ne deriva è

escreta per la maggior parte con le urine ma una certa quantità (in funzione

dell’apporto alimentare di azoto) viene riciclata, o attraverso la saliva o direttamente

attraverso la parete ruminale. La produzione di acido urico comporta la previa

incorporazione dell’ammoniaca nella glutamina per reazione con l’acido glutammico.

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La glutamina è poi inserita in una serie di reazioni con il ribosio-5-fosfato, la glicina

e l’aspartato, che portano all’acido inosinico che contiene un nucleo purinico:

8ATP

2 glutamina + glicina + aspartato acido inosinico + fumarato

Con l’eliminazione del residuo di ribosio-5-fosfato, si forma ipoxantina che subisce

due ossidazioni, NAD+ dipendenti, per dare xantina ed infine acido urico.

L’eliminazione di due moli di ammoniaca comporta la perdita netta di 4 moli di

ATP; inoltre, vengono utilizzati 2 moli di glutammato, 1 mole di glicina, 1 mole di

aspartato e viene prodotta 1 mole di fumarato. Nel valutare il rendimento energetico

degli aminoacidi è necessario tenere conto dell’energia occorrente per la sintesi di

urea e di quella che si ottiene dall’ossidazione dello scheletro carbonioso

dell’aminoacido. Se si prende come esempio l’aspartato, occorre considerare che esso

è innanzi tutto convertito ad ossalacetato e glutammato, per reazione con l’-

chetoglutarato. L’ossalacetato è ossidato, via fosfoenolpiruvato, nel ciclo degli acidi

tricarbossilici. Il glutammato, per deaminazione, rigenera -chetoglutarato ed il suo

gruppo aminico è utilizzato per la sintesi dell’urea, cui partecipa la deaminazione di

una mole di aspartato, donde liberazione di una mole di fumarato, poi convertito a

malato, quindi a fosfoenolpiruvato ed infine completamente ossidato ad anidride

carbonica ed acqua nel ciclo degli acidi tricarbossilici:

Moli ATP

+ -

da 1 mole di aspartato a glutammato + ossalacetato 0 0

da 1 mole di ossalacetato a CO2 e H2O 16 1

da 1 mole di glutamato ad a-chetoglutarato 3 0

da 1 mole di ammoniaca+1 mole di aspartato ad urea e fumarato 0 4

da 1 mole di fumarato a CO2 e H20 19 1

Totale 38 6

Guadagno netto di ATP da 2 moli di aspartato 32

Bisogna considerare che il costo energetico medio per la produzione di una mole di

ATP è di 85,2 KJ, e l’energia ottenuta per ogni P speso è di 52 KJ.

Rendimento energetico di alcuni principi nutritivi

Principio

Nutritivo

Mole di ATP/mole

di principi attivi

Mole di ATP/100

g di principi attivi

Calore di

combustione per

mole di ATP (KJ)

Glucosio 38 21,2 ( 4) 73,8 ( 1)

Acido propionico 17 22,9 ( 3) 89,8 ( 5)

Acido acetico 10 16,7 ( 5) 87,5 ( 3)

Acido butirrico 26 38,5 ( 2) 84,0 ( 4)

Acido aspartico 16 12,2 ( 6) 98,0 ( 6)

Tripalmitina 409 50,7 ( 1) 78,3 ( 2)

( ) i numeri in parentesi indicano l’ordine di rendimento

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97

3.3. Sintesi proteica

Le proteine vengono sintetizzate a partire dagli aminoacidi: quelli che si

formano fra i prodotti finali della digestione e quelli sintetizzati per sintesi

intraorganica. L’aminazione può avvenire in via diretta, come nella conversione

dell’-chetoglutarato a glutammato il quale può subire una ulteriore aminazione e

dare glutamina, ma di maggior rilievo sono le reazioni di transaminazione con vari

chetoacidi per dare aminoacidi. Anche altri aminoacidi, quali l’alanina e la glicina

possono subire la transaminazione i quali reagendo con il fosfoidrossipiruvato danno

serina. Il glutammato è anche fonte di prolina. Gli aminoacidi possono anche

formarsi per reazione fra chetoacidi e sali di ammonio od urea, come avviene per

l’arginina che viene sintetizzata nel ciclo dell’urea.

Il raggiungimento delle cellule da parte degli aminoacidi attraverso il sangue richiede

il dispendio di energia in quanto la concentrazione di aminoacidi nella cellula può

essere fino a cento volte superiore a quella del sangue e, quindi, il trasferimento nella

cellula avviene contro un gradiente di concentrazione. Un continuo scambio avviene

tra aminoacidi del sangue e delle cellule, ma non fra aminoacidi liberi e quelli

presenti nelle proteine tissutali. Queste proteine vengono demolite e sintetizzate e il

tempo occorrente per il loro rinnovo varia nei diversi tessuti; così le proteine del

fegato hanno una semi-vita di 7 giorni mentre il collagene è così stabile da essere

considerato quasi completamente inerte.

La sintesi proteica può essere divisa in quattro tappe:

a) attivazione dei singoli aminoacidi: la prima tappa è enzimatica e richiede la

presenza di ATP per la formazione di un complesso:

aminoacido + ATP + enzima > enzima amino-acil AMP + pirofosfato

il gruppo amino-acilico viene poi trasferito su una molecola di RNA transfer (tRNA):

enzima amino-acil AMP + tRNA > amino-acil tRNA + AMP + enzima. Entrambe le

reazioni sono catalizzate da una singola aminoacil-sintetasi MG2+

-dipendente e

specifica per l’aminoacido e per il tRNA. Queste sintetasi sanno discriminare fra i 20

aminoacidi naturali, ma la loro specificità non è assoluta. La molecola del tRNA è

composta da una catena di nucleotidi i cui ripiegamenti sono stabilizzati da legami di

idrogeno. Ad una estremità della catena vi è una sequenza terminale di basi, ad

esempio: _C

_C

_A

_OH (citidina-citidina-adenosina). L’aminoacido è legato al ribosio

del resto adenosinico terminale. Frequentemente, l’altra estremità della catena

termina con un nucleotide contenente guanina. Esiste almeno un tRNA per ciascun

aminoacido ma un solo aminoacido per un determinato tRNA. L’aminoacido legato

al tRNA viene trasportato sui ribosomi dove avviene la sintesi proteica. Questi

formano degli aggregati noti come polisomi, legati ad una molecola di RNA

messaggero (mRNA) che, fissandosi sui ribosomi, funge da matrice nella sintesi delle

proteine. È la sequenza delle basi dell’mRNA che determina la sequenza degli

aminoacidi nella struttura primaria della proteina che viene sintetizzata. I singoli

aminoacidi sono legati selettivamente sulla superficie del mRNA messaggero, in

corrispondenza di ogni determinato gruppo di tre basi, triplette di basi che

costituiscono le parole del codice, note come codon, e che sono specifiche per ogni

aminoacido. Il tRNA che porta un determinato aminoacido corrispondente al suo

specifico codon si fissa su l’RNA messaggero, in corrispondenza di una tripletta di

basi complementari, nota come anti-codon. Negli organismi superiori, i ribosomi

consistono di una subunità piccola (40 S; S = unità Svedberg, in funzione della

sedimentazione nell’ultra-centrifuga) e di una subunità grande (60 S). Durante la

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sintesi proteica, la catena del peptide che si allunga è attaccata al componente più

grande.

b) inizio della formazione della catena peptidica: questo processo esige la

formazione di un complesso fra la subunità più piccola del ribosoma componente del

RNA messaggero e un tRNA che lega formil-metionina o metionina (AA1). Il

componente ribosomale più grande viene attaccato a questo complesso.

L’inserimento del residuo aminoacido comporta un dispendio energetico

corrispondente all’idrolisi di un legame fosforico altamente energetico del GPT.

c) allungamento della catena peptidica: l’aminoacido richiesto, AA2, viene

sistemato al codon n+1 tramite il suo specifico tRNA; l’energia occorrente è fornita

da un legame altamente energetico del GPT. Si forma così un legame peptidico fra

AA1 e AA2 ed il tRNA per la formil-metionina viene espulso. L’RNA messaggero si

sposta poi sul ribosoma ed il codon n+2 va ad occuppare quella precedentemente

occupata da n+1. Questo spostamento richiede dispendio di un altro legame

altamente energetico del GPT.

d) termine della sintesi: quando viene raggiunto un codon che non codifica alcun

aminoacido termina l’allungamento della catena (es.: UAA, UAG, UGA) e quando la

catena è completa si stacca dal ribosoma ed il residuo di formil-metionina rimosso

per via enzimatica, in quanto non fa parte della struttura proteica. La catena

polipeptidica rappresenta la struttura primaria della proteina; essa poi assume la

struttura secondaria a spirale, stabilizzata da legami di idrogeno; infine, le catene

peptidiche si avvolgono e si ripiegano assumendo nello spazio la disposizione che

caratterizza la loro struttura terziaria stabilizzata da legami di idrogeno, legami salini

e ponti disolfurici. Le strutture terziarie polimerizzandosi danno luogo alla struttura

quaternaria. La protidosintesi non prevede l’aggiunta di aminoacidi a peptidi

preformati ma ha inizio con un aminoacido e la catena polipeptidica è realizzata per

successive aggiunte di singoli aminoacidi. La sintesi non ha luogo se tutti gli

aminoacidi necessari non sono disponibili al momento giusto e in tal caso gli

aminoacidi disponibili sono rimossi e possono essere catabolizzati. L’energia

necessaria per la protidogenesi è fornita dall’idrolisi dell’ATP e del GPT e la

produzione di ogni mole di questi fosfageni richiede all’animale un dispendio di 85,2

KJ. Supponendo che il peso molecolare medio degli aminoacidi occorrenti per una

data proteina, espresso in grammi, sia 100 e che nella stessa proteina il numero degli

aminoacidi necessario per costituirla si n, il numero dei legami peptidici sarà n-1 (ma

per un esempio pratico si può calcolare che ciascun aminoacido richieda la

formazione di un legame peptidico), si può stabilire il bilancio energetico:

Energia ((KJ)

Spesa | Accumulata

100 g di aminoacido 2437

2 moli di ATP (attivazione) 170,4

1 mole di GPT (inizio) 85,2

1 mole di GPT (allungamento) 85,2

100 g di proteine 2437

2777,8 2437

Rendimento energetico = 2437/2777,8 = 0,88

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99

3.4. Sintesi dei grassi.

I trigliceridi presenti nei grassi di deposito possono derivare dai gliceridi del

sangue o possono essere sintetizzati a partire da acil-CoAs e L-glicerol-3-fosfato.

L’acetil-CoA è prodotto nei mitocondri per decarbossilazione ossidativa del piruvato,

per degradazione ossidativa di certi aminoacidi o per -ossidazione di acidi grassi a

lunga catena. L’acetil-CoA, per reazione con l’ossalacetato, è trasformato in citrato e

questo diffonde nel citoplasma dove rigenera acetil-CoA.

ATP-citrato liasi

Citrato + CoA Acetil-CoA + ossalacetato

ATP ADP

L’acetil-CoA può anche passare nel sangue legato alla carnitina. Nei ruminanti,

l’acetato viene assorbito direttamente dall’intestino e forma acetil-CoA in presenza di

acetil-CoA sintetasi; l’energia occorrente è fornita dall’idrolisi dell’ATP e AMP.

Questa è la maggiore fonte di acetil-CoA per le specie ruminanti, nelle quali l’attività

dell’ATP-citrato liasi è estremamente ridotta

Per la sintesi degli acidi grassi esistono due sistemi:

a) sistema citoplasmatico molto attivo che porta alla produzione di acido palmitico a

partire da acetil-CoA; è un sistema attivo al livello del fegato, reni cervello, polmoni,

ghiandola mammaria e tessuto adiposo. Esso richiede NADP+ ridotto, ATP, anidride

carbonica e ioni manganese (Mn2+

). In un primo momento si ha la trasformazione

dell’acetil-CoA in malonil-CoA:

COOH

Acetil-CoA carbossilasi |

CH3 + ATP + H2O + CO2 CH3 + ADP + Pi

Mn2+

|

COS.CoA COS.CoA

Il malonil-CoA reagisce poi con la proteina acil-trasportatrice (ACP), in presenza di

malonil transferasi per dare il complesso malonil-ACP. L’acetil-CoA si unisce con

l’ACP in presenza di acetil transferasi e reagisce con il malonil-ACP allungando la

catena di due atomi di carbonio con formazione del complesso butirril-ACP il quale

può successivamente reagire con il complesso malonil-ACP determinando un

ulteriore allungamento della catena di due atomi di carbonio e dando, quindi, caproil-

ACP. Successive reazioni con malonil CoA determinano un ulteriore allungamento

della catena, fino al complesso palmitil ACP. A questo punto il processo di sintesi si

arresta; l’acido palmitico viene liberato per azione di una deacilasi. Quindi la

reazione può essere così schematizzata:

CH3.COS.CoA + 7COOH.(CH2)COS.CoA + 14 NADPH (+ H+)

Acetil CoA Malonil CoA

CH3.(CH2)14.COO- + 7CO2 + 14 NADP

+ + 6H2O + 8 HS.CoA

Palmitato CoA

b) sistema mitocondriale che provvede all’allungamento della catena degli acidi

grassi preformati, mediante aggiunta di due atomi di carbonio, tramite l’acetil-CoA.

Il processo richiede ATP, NAD+ ridotto e NADP

+ ridotto e comporta

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l’incorporazione di acetil-CoA nella molecola di acidi grassi a media e lunga catena

carboniosa. Non si sa con precisione se la sintesi di acetil-CoA abbia luogo in situ.

I prodotti che si ottengono sono acidi grassi saturi a 18, 20, 22 e 24 atomi di

carbonio, generalmente ottenuti a partire dall’acido palmitico sintetizzato a livello

citoplasmatico. L’allungamento degli acidi grassi a lunga catena, sia saturi che

insaturi, può anche aver luogo nel reticolo citoplasmatico con impiego di malonil

CoA quale fonte del frammento bicarbonioso. Gli acidi grassi insaturi con un solo

doppio legame possono essere sintetizzati dall’organismo a partire da acidi saturi con

catena carboniosa della stessa lunghezza. Così, l’acido palmitoleico e l’oleico sono

formati, rispettivamente, dall’acido palmitico e da quello stearico. Nei mammiferi gli

acidi poliinsaturi sono derivati dal palmitoleico e dall’oleico e se i doppi legami si

trovano fra il gruppo metilico terminale ed il settimo atomo di carbonio, dal linoleico

e dal linolenico. Questi due acidi non vengono sintetizzati dall’organismo dei

mammiferi e, quindi, si devono somministrare con la dieta. Le reazioni di

desaturazione che si verificano nella produzione degli acidi grassi polinsaturi sono

NADP+ dipendenti e si verificano soprattutto nel fegato.

Sintesi del L-glicerol-3-fosfato: il suo precursore è il fosfobiossiacetone prodotto

dalla reazione aldolasica nel corso della glicolisi. Il biossiaceton-fosfato è ridotto

dalla glicerol-3-fosfato deidrogenasi che è NADP+ dipendente. Può essere prodotto

anche dal glicerolo che si forma per scissione dei trigliceridi, in una reazione che

richiede ATP.

Sintesi dei trigliceridi: la prima tappa è l’acilazione, in presenza di glicerolfosfato

acil transferasi, dei gruppi alcolici liberi del glicerol-3-fosfato mediante due molecole

di acetil-CoA, con produzione di acido fosfatidico. La reazione decorre

preferibilmente con acidi grassi a 16 e 18 atomi di carbonio. L’acido fosfatidico è poi

defosforilato a digliceride che reagisce con una terza molecola di acetil-CoA per dare

il trigliceride. Una sintesi diretta di trigliceridi, a partire da monogliceridi, ha luogo

nella mucosa intestinale di animali superiori. Il rendimento della sintesi lipidica può

essere calcolato tenendo presenti le vie descritte. Il calcolo per la tripalmitina a

livello citoplasmatico potrebbe così essere riassunto:

Energia (KJ)

spesa trattenuta

8 moli di acetato 6996,0

8 moli acetato ad acetil-CoA 1363,2

7 moli acetil-CoA a malonil-CoA 596,4

7 aggiunte di malonil-CoA 3578,4

Energia per 1 mole di palmitato 12354,0

Energia per 3 moli di palmitato 37602,0

½ mole di glucosio 1401,5

½ mole di glucosio a diidrossiacetonfosfato 85,2

1 mole di idrossiacetonfosfato a

1 mole di L-glicerol-3-fosfato 255,6

Energia per mole di L-glicerol-3-fosfato 1742,3

Energia totale per 1 mole di tripalmitina 39344,3

Energia accumulata per 1 mole di tripalmitina 32037,0

Rendimento della sintesi = 32037,0 / 39344,3 = 0,81

La formazione di glucosio a partire da molecole più semplici, come l’acido

propionico ed i chetoacidi è stata già descritta prima. Va aggiunto che il glucosio è

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utilizzato per la sintesi di altri due importanti carboidrati: il glicogeno che è il più

importante glucide di riserva ed il lattosio la cui sintesi è specifica della ghiandola

mammaria.

La fonte immediata per la sintesi del glicogeno è rappresentata dalla uridin-fosfo-

glucosio (UDPG), che può derivare da diversi zuccheri. Il glicogeno è prodotto per

reazione dell’uridindifosfoglucosio con molecole primer, la più attiva delle quali è

proprio il glicogeno. Anche composti che hanno un minimo di 4 residui di glucosio

possono servire da primer, ma in questo caso la reazione è lenta, in quanto la sua

velocità è correlata alla complessità della molecola primer. La sintesi implica una

reazione fra l’uridinfosfoglucosio ed il quarto gruppo idrossilico dell’estremità non

riducente della catena primer, ed è catalizzata dalla glicogeno sintetasi. I legami 1,6

che caratterizzano le numerose ramificazioni della molecola del glicogeno sono

formati da frammenti oligosaccaridici terminali, composti di sei o sette residui di

glucosio, che vengono staccati dall’estremità del glicogeno e trasferiti sull’idrossile

in posizione 6 di un residuo di glucosio all’interno della catena. La reazione è

catalizzata dalla glicogenosintetasi (1,4-1,6 transglicosilasi).

Il lattosio si forma dalla condensazione di una molecola di glucosio e una di

galattosio. Il glucosio è facilmente disponibile, ma il galattosio deve essere

sintetizzato a partire dal glucosio, il che implica una inversione sterica dell’atomo di

carbonio 4. Il glucosio è prima trasformato in glucosio-1-fosfato, poi in

uridindifosfoglucosio e in uridindifosfogalattosio per azione della UDO galattosio-4-

epimerasi, chiamata anche galatto-waldenasi. Il galattosio si forma per reazione

dell’UDP-D-galattosio con D-glucosio in presenza di un sistema enzimatico, la

lattosio sintetasi. Il sistema enzimatico in gioco è un complesso dell’enzima

galattosil-transferasi con -lattoalbumina. L’enzima è presente anche nella

mammella non in lattazione, ma è debolmente attivo; con l’inizio della lattazione, la

ghiandola mammaria produce -lattoalbumina ed è in sua presenza che la galattosil-

transferasi diventa molto attiva. Il rendimento energetico della sintesi del lattosio può

essere così calcolato:

KJ

2 moli di glucosio

da 2 moli di glucosio a 2 moli di glucosio-1-fosfato

da 1 mole di glucosio-1-fosfato a galattosio-1-fosfato

Energia occorrente per 1 mole di lattosio

Energia contenuta in 1 mole di lattosio

5606,0

170,4

85,2

5861,6

5648,4

Rendimento energetico = 5648,4 / 5861,6 = 0,96

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CAP. IV. VALUTAZIONE CHIMICO FISIOLOGICA DEGLI ALIMENTI

La prima condizione per poter alimentare razionalmente gli animali è quella

di conoscere e saper valutare gli alimenti loro destinati, in modo da poterli scegliere a

seconda della specie, dell’età e della produzione, realizzando il massimo utile

economico dalla trasformazione dei foraggi e dei mangimi in carne, latte, uova, lana,

lavoro ed altre produzioni o prestazioni.

Gli alimenti devono essere sottoposti a due tipi di valutazione: chimica e fisiologica.

4.1. Valutazione chimica

Per la legge italiana (n. 281 del 15 febbraio 1963 e seguenti) nei mangimi bisogna

indicare:

- umidità e per riflesso la sostanza secca

- protidi grezzi

- lipidi grezzi

- fibra grezza

- estrattivi inazotati

- ceneri

La valutazione chimico-funzionale di un alimento viene fatta su piccole quantità

(campione) prelevate dalla partita, dal silo, dal campo che si vogliono esaminare.

Per effettuare un buon campionamento esistono varie metodiche: metodo ISO,

metodo NGD, metodo CEE, metodo ufficiale G.U. n. 165 del 15/6/1978 e altri. Tutti

i metodi tengono conto della consistenza della partita, del tipo di prodotto da

analizzare, del tipo di confezione e del tipo di controllo da eseguire.

Nel prelievo dei campioni bisogna fare in modo che essi siano rappresentativi della

massa che si vuole analizzare e, nello stesso tempo, si deve evitare che si verifichino

alterazioni o contaminazioni del prodotto. I recipienti usati devono essere puliti e

sterili, asciutti e sigillabili e il trasporto al laboratorio deve avvenire nei tempi o con

le procedure eventualmente necessarie per la conservazione (refrigerazione,

congelamento, ecc.). Il numero e le dimensioni dei campioni da raccogliere saranno

tanto più grandi quanto maggiore ed eterogenea è la massa di alimento da valutare.

Per partite di alimenti alla rinfusa si suggeriscono 7 o più campioni, se il peso della

massa è inferiore a 2,5 tonnellate, mentre per pesi superiori il numero dei campioni

sarà uguale o maggiore di √20 n , dove n è il numero di tonnellate della partita, fino

ad un massimo di 40. Per assicurare la rappresentatività, i campioni devono essere

prelevati a caso e a vari livelli della massa o, in alternativa, suddividendola

idealmente in più parti approssimativamente uguali e prelevando un campione per

ciascuna parte. Le eventuali parti visibilmente danneggiate o alterate, vanno

allontanate oppure separate e campionate a parte. I singoli campioni si riuniscono in

campioni finali in congruo numero (es.: 1-2 fino a 10 tonnellate e 3-4 oltre 10

tonnellate della massa da valutare). Ciascun campione finale, adeguatamente

mescolato, fornirà poi uno o più sub-campioni (almeno 500 g) per le analisi di

laboratorio. Inoltre, è necessario registrare tutti i dati inerenti i particolari della partita

o dell’ambiente e quelli necessari all’identificazione dell’alimento (luogo, data, tipo

di alimento, provenienza, ecc.).

Il campionamento varia in funzione dell’alimento da analizzare:

a) Foraggi freschi o miscele unifeed: il campione si preleva al momento della

somministrazione; si prelevano numerosi campioni (20-30) di circa mezzo Kg

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ciascuno, in diversi punti della massa e si pongono in un unico recipiente, dopo averli

mescolati accuratamente si prelevano 2 Kg dei quali 0,5 Kg vengono utilizzati subito

per determinare la S.S. e 1,5 Kg vengono inviati al laboratorio di analisi. Per la

determinazione della S.S. il campione si pone in un contenitore di peso noto (tara),

quale può essere un bustone di carta; la busta una volta riempita viene forata per far

uscire l’umidità una volta che verrà posta in stufa; terminata l’operazione, la busta

con il campione di foraggio o di unifeed viene pesata con una bilancia abbastanza

precisa (± 1 g) e si registra il peso lordo e quello netto, quindi, il campione si pone in

stufa a 65 °C finché non raggiunge un peso costante tra le ultime due pesate (sono

necessari circa 3 giorni).

Esempio di calcolo della S.S. di un alimento

Prima dell’essiccazione

Dopo l’essiccazione

Peso lordo (tara + alimento 530 g - 130 g -

Tara 30 g = 30 g =

Peso alimento 500 g 100 g

% S.S. alimento: (100 : 500) x 100 = 20%

g S.S./Kg alimento = 20 : 100 = x : 1000;

x = 20 x 1000 / 100 = 200 g

b) Insilati: la tecnica di prelevamento dei campioni è uguale a quella dei foraggi

freschi. E’ molto importante la rapidità nel prelievo del campione, particolarmente

per quanto riguarda la costipazione e la compressione del foraggio nel doppio

sacchetto di plastica o in un contenitore a chiusura ermetica. Nel caso in cui le analisi

non possono essere effettuate subito il campione va conservato a 0 °C per

determinare la S.S. al massimo entro 4 giorni mentre per le altre determinazioni da

eseguire sul fresco (pH, acidi organici, azoto ammoniacale) il campione va

conservato in freezer.

c) Foraggi secchi: trattandosi di materiale poco soggetto a variazioni biochimiche,

il prelievo dei campioni si può fare anche nel luogo di conservazione. Di tutta la

massa bisogna prendere diversi campioni di circa 200 g ciascuno per un totale di 5-10

Kg. Dopo una eventuale trinciatura e un accurato mescolamento verrà estratto il

campione finale di circa un Kg che verrà inviato al laboratorio di analisi. Se le analisi

non possono essere fate subito, conviene determinare la sostanza secca direttamente

in azienda.

d) Mangimi concentrati: il prelevamento dovrà essere effettuato in più punti della

partita al fine di ottenere, mescolando le singole porzioni, un campione

rappresentativo della massa di circa 1,5 – 2 Kg.

Lo schema di analisi dei costituenti chimici adottato in molti paesi, compresa l’Italia,

è quello definito “analisi tipo”, che segue lo schema Wende.

Il contenuto di umidità di un alimento si determina per differenza di peso, su

un campione del peso di 4-5 grammi, posto in stufa a 103 °C per 4 ore. In queste

condizioni, l’acqua evapora e rimane la sostanza secca. Per gli alimenti ricchi di

acqua quali i foraggi verdi è necessaria una preessiccazione, che viene condotta a 65

°C fino al raggiungimento di un peso costante (generalmente due giorni) al fine di

consentirne la conservazione.

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Anche a questa temperatura, alcune sostanze possono evaporare o alterarsi

(vitamine, enzimi, acidi grassi volatili) e, quindi, per esse è necessario utilizzare

campioni freschi. Quando le quantità di sostanze volatili sono tali da provocare una

elevata sovrastima dell’umidità, come nel caso degli insilati, è necessario operare una

aggiustamento del reale tenore di sostanza secca mediante opportune correzioni, che

tengono conto del tenore di AGV, NH3 e etanolo, determinati sul tal quale:

perdite di volatilizzazione (g/kg) =

etanolo + N-NH3 + AGV x 0,85 + acido lattico x 0,14

La determinazione dei protidi grezzi è fatta convenzionalmente rilevando

l’azoto totale (metodo Kjeldahl) presente nel campione e moltiplicando per il

coefficiente 6,25 in quanto il contenuto medio in azoto delle diverse proteine è del

16% (6,25 = 100 : 16).

Con il metodo Kjeldahl, attraverso il trattamento con acido solforico

concentrato, l’azoto presente, ad eccezione di quello che eventualmente si trova sotto

forma di nitriti o nitrati, viene trasformato in solfato di ammonio - (NH4)2SO4 – il

quale viene trattato con idrossido di sodio (NaOH) e quindi si libera ammoniaca che

viene dosata e titolata, generalmente, per via colorimetrica.

I lipidi grezzi si determinano attraverso l’estratto etereo ricavato con l’apparecchio

Soxlet con etere etilico anidro. Nel solvente, però, non si disciolgono solo i lipidi ma

anche tutta una serie di composti che hanno come unica caratteristica comune, la

liposolubilità quali: pigmenti presenti nei foraggi, cere, resine, acidi organici (acetico,

propionico, butirrico, lattico, ecc.), alcoli, steroli, vitamine liposolubili (A, D, E, K).

Invece, alcuni lipidi non vengono estratti e l’etere estrae male i saponi: la loro

presenza necessita una prima estrazione dei lipidi seguita da una idrolisi acida prima

di eseguire l’estrazione vera e propria; lo stesso procedimento conviene applicarlo

per le farine proteiche di origine animale (carne, pesce, sangue), trebbie di birra

essiccate, lieviti disidratati, sottoprodotti lattiero-caseari e ai prodotti contenenti

lipidi protetti contro la degradazione ruminale.

Per lipidi grezzi si intendono, quindi, tutte le sostanze liposolubili presenti nel

campione analizzato: LG = lipidi digeribili + altre sostanze liposolubili.

La fibra grezza è costituita per il 50 - 80% da cellulosa, per il 10-15% da lignina e

per il 20% da emicellulosa. Si determina convenzionalmente con il metodo Wende

attraverso trattamenti successivi del campione con una soluzione bollente di acido

solforico (0,26 N), quindi, con una soluzione di idrossido di potassio di determinata

concentrazione (0,23 N). Se gli alimenti hanno un contenuto lipidico superiore

all’8% della S.S. le idrolisi vanno precedute da una estrazione delle sostanze

lipidiche con etere.

L’esigenza di distinguere meglio tra i carboidrati più prontamente e totalmente

utilizzabili da quelli utilizzabili più lentamente e in minor misura o addirittura non

utilizzabili dai ruminanti ha portato al sistema d’analisi (van Soest) al detergente e

delle frazioni fibrose (NDF, ADF, ADL) in cui la frazione fibrosa della parete

cellulare vegetale può essere scomposta. In sintesi, van Soest distingue tre livelli di

disponibilità per, il ruminante, dei componenti della cellula vegetale:

a) disponibilità totale: dove il livello effettivo della digestione è determinato dalla

competizione tra i livelli di digeribilità e di flusso degli alimenti attraverso il

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digerente. Appartengono a questa classe tutte le sostanze contenute nel citoplasma

(zuccheri, amido, lipidi, proteine e aminoacidi, acidi organici, minerali, vitamine);

b) disponibilità parziale: oltre alla limitazione prima detta vi è quella dovuta a

legami con la porzione disponibile, enzimaticamente non idrolizzabili. Vi

appartengono i carboidrati strutturali quali la cellulosa e le emicellulose, la cui

disponibilità varia notevolmente con il tipo botanico e con il suo stadio di

maturazione;

c) disponibilità nulla: sono comprese la lignina, la cutina, i prodotti originatisi con

la reazione di Maillard e altre sostanze indigeribili.

Il principio su cui si basano i metodi di analisi al detergente si basa sulla

diversa solubilità dei carboidrati strutturali e dei costituenti del contenuto cellulare in

ambiente acido, neutro e alcalino. Infatti, mentre le emicellulose sono solubili sia in

ambiente acido che alcalino ma non in quello neutro, la cellulosa è solubile solo in

ambiente molto acido e la lignina in ambiente alcalino

Frazionamento dei carboidrati parietali secondo il metodo van SOST

Alimento Pectine, emicellulose, cellulosa, lignina

Attacco con detergente neutro

Fibra neutro detersa

(NDF = parete cellulare)

Emicellulose, cellulosa, lignina

Attacco con un detergente acido

(distruzione delle emicellulose)

Fibra acido detersa

(ADF)

Cellulosa,

Lignina

Contenuto cellulare e

pectine

Attacco con acido solforico al 72%

(distruzione della cellulosa)

Lignina acido detersa (ADL)

Lignina

La caratterizzazione del contenuto in carboidrati strutturali secondo l’analisi “Van

Soest” prevede il trattamento del campione con una soluzione a pH neutro (soluzione

neutro-detergente) che solubilizza il contenuto cellulare mentre lascia nel residuo le

pareti cellulari (normalmente dette NDF che deriva da Neutral detergent fibre) che

sono costituite da emicellulose, cellulosa, lignina e ceneri insolubili in ambiente

acido (silice).

Successivamente, si impiega una soluzione acida per solubilizzare le emicellulose; il

residuo così ottenuto, fibra acido detergente o ADF viene trattato con una soluzione

fortemente acida (H2SO4, 72%) per solubilizzare la cellulosa, lasciando nel residuo

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lignina e ceneri acido solubili, che vengono separate per incenerimento in muffola.

Più dettagliatamente si ha:

a) Fibra neutro detersa (NDF) – Il campione viene bollito per un’ora in una

soluzione neutra (pH di circa 7) di sodio lauril solfato e di acido

etilendiaminotetracetico (EDTA). Quasi tutte le sostanze contenute nel succo

cellulare (minerali, vitamine, proteine e aminoacidi, acidi organici, lipidi e pigmenti,

vitamine, ecc.) e le pectine vanno in soluzione e vengono quindi rimosse dal

campione. L’amido non si idrolizza a pH 7 e quindi prima dell’analisi al detergente

neutro va sottoposto all’attacco enzimatico (amilasi). Dopo il lavaggio con il

detergente neutro il residuo è costituito da fibra resistente al detergente neutro o fibra

neutro detersa o NDF nella quale sono incluse: emicellulose, cellulosa, lignina e

cutina, cioè quell’insieme di sostanze nutritive non rapidamente né totalmente

disponibili per l’animale. Peraltro, l’NDF essendo costituita soprattutto dalle frazioni

strutturate dei carboidrati, esprime bene l’ingombro dell’alimento a livello ruminale

e, quindi, un elevato contenuto in NDF equivale a un grande ingombro mentre un

basso contenuto corrisponde a un piccolo ingombro. I vantaggi derivanti dalla

determinazione dell’NDF rispetto alla FG possono essere evidenziati se

consideriamo, ad esempio, un fieno di medica e uno di festuca i quali hanno entrambi

un contenuto in fibra grezza del 33% circa rispetto alla S.S. ma quello di festuca ha

un maggiore contenuto di NDF: utilizzando questi due foraggi come base foraggera

della razione, a parità di minerali e proteine, l’ingestione alimentare e la produzione

di latte sono più elevate negli animali che ingeriscono fieno di medica rispetto a

quelli alimentati con la festuca.

b) Fibra acido detersa (ADF) – Il residuo NDF viene bollito per un’ora con acido

solforico 0,5 M associato a bromuro di acetiltrimetilammonio e con ciò si ha la

solubilizzazione delle proteine e delle emicellulose della parete cellulare. Rimangono

ora la cellulosa e la lignina e tale residuo va sotto il nome di “fibra resistente al

detergente acido” o “fibra acido detersa” o ADF. Tale analisi può essere fatta

direttamente sul campione di partenza ma in questo caso l’ADF contiene anche una

certa quantità di pectine e quindi i valori sono sempre superiori rispetto a quelli della

determinazione dell’ADF dall’NDF (in genere di + 1,4 punti percentuali sulla S.S.

per i concentrati). Il residuo ADF non contiene residui di amido ma può contenere

sostanze azotate (specie quelle danneggiate dal calore) e tannini. I tenori in ADF

degli alimenti sono sempre più elevati di quelli in fibra grezza: 3-4% in più per i

foraggi, 20% in più per gli altri alimenti. In Irlanda, la determinazione analitica

dell’ADF è stata modificata (MADF) per meglio correlare l’ADF alla digeribilità dei

foraggi: essi vengono essiccati a 95 °C, bolliti per più tempo e ad un pH più basso.

Comunque, l’elevata temperatura usata per l’essiccamento impedisce di utilizzare

l’ADF quale rivelatore di eventuali danni da calore alle proteine.

c) Lignina acido detersa – Il trattamento dell’ADF con acido solforico al 72%

consente la solubilizzazione della cellulosa e, quindi, il residuo “lignina acido

detersa” o ADL comprende la parte non digeribile della cellula vegetale e cioè la

lignina ed eventualmente cutina e silice.

Per scomporre l’ADF in cellulosa, lignina e ceneri acido insolubili essa può anche

essere trattata con un solvente a base di permanganato di potassio mediante il quale si

solubilizza la lignina che viene calcolata per differenza e definita lignina

permanganato. Il residuo che resiste all'azione del permanganato è costituito da

ceneri acido insolubili (determinate per incenerimento in muffola) e dalla cellulosa,

calcolata per differenza, che include la cutina. La lignina non è un vero carboidrato

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ma viene inclusa fra questi in quanto la sua struttura a ragnatela è intimamente

connessa con quella delle emicellulose e della cellulosa delle quali limita fortemente

la digeribilità e quindi la disponibilità per l’animale. In media, ogni punto

percentuale in più di lignina in rapporto alla S.S. aumenta di 3,8% la quantità di

parete (NDF) non digeribile. Nel caso in cui l’ADF è determinato sull’ADF calcolato

sul residuo NDF anziché direttamente sul campione esso risulterà leggermente

inferiore (0,14% sulla S.S., nei concentrati). Tra gli alimenti concentrati, per uno

stesso tenore in fibra grezza il tenore in ADL è estremamente variabile. La

determinazione dell’ADL benché di notevole interesse teorico, ha avuto poca

diffusione sia perché si tratta di un’analisi poco piacevole, con un reagente pericoloso

da manipolare in un’analisi che sporca molto sia perché i valori di ADL sono sempre

piuttosto bassi (1-14% della S.S.) e, quindi, le possibilità di errore sono elevate. La

determinazione della lignina può essere effettuata anche mediante il metodo

Christian, che prevede due attacchi sequenziali con acido solforico concentrato (72%

in peso) e con soluzione detergente acida (etiltrimetilammoniobromuro) direttamente

sul campione. In questo modo si ha l’idrolisi della cellulosa, emicellulose, estrattivi

inazotati, proteine e grassi. Con questo metodo, i passaggi analitici per la

determinazione dell’ADL sono ridotti e, quindi, si riduce l’errore analitico e aumenta

la riproducibilità dei risultati. Con il metodo Christian, il contenuto in lignina risulta

più elevato rispetto a quello determinato con il sistema van Soest e ciò avviene,

soprattutto, per gli alimenti lignificati come le paglie (3-5% in più sulla S.S.) per i

quali il metodo Christian sembra preferibile.

Per ceneri si intende quella frazione dell’alimento ottenuta

dall’incenerimento a 500-550 °C in muffola per 3 ore e, comunque, fino a quando

tutto il carbonio è stato rimosso e rimane solo il contenuto inorganico. Va

considerato che le ceneri contengono anche materiale di origine organica come zolfo

e fosforo, contenuti nelle proteine mentre, non contengono sostanze inorganiche

quali quelle a base di cloro, sodio, potassio, fosforo e zolfo che si volatilizzano

durante la combustione, così come elementi quali lo iodio e il selenio.

Il termine sostanze minerali, con cui questa frazione è anche indicata non significa

che i vari elementi siano tutti contenuti nel campione già allo stato inorganico. La

percentuale in ceneri dei prodotti di origine animale fornisce una indicazione del loro

contenuto in calcio e fosforo, perché il rapporto fra le ceneri totali e questi due

elementi è piuttosto costante. Nel caso, invece, degli alimenti vegetali le sostanze

minerali sono estremamente variabili, non solo per quantità, ma anche per

composizione per cui il dato globale delle ceneri non consente illazioni sul

significato nutritivo di questa frazione. La determinazione del contenuto in ceneri se

non approfondita serve semplicemente come elemento di calcolo per risalire agli

estrattivi inazotati o, per differenza alla sostanza secca, alla sostanza organica. Un

rilievo importante fra le altre sostanze minerali può acquisire la silice per i mangimi

composti contenenti sottoprodotti della lavorazione del riso. Le ceneri non

contengono energia e, quindi, il loro contenuto negli alimenti, a parità di altre

condizioni, è inversamente proporzionale al valore energetico dell’alimento. Valori

molto elevati, rispetto a quelli mediamente riportati nelle tabelle, del contenuto in

ceneri di un alimento stanno a significare che l’alimento è contaminato di terra

oppure ad esso è stata aggiunta della sabbia, silice, sale o carbonato di calcio.

Gli estrattivi inazotati sono un gruppo di sostanze non classificate con i metodi

precedenti analitici tra le quali i carboidrati solubili (amido, disaccaridi,

monosaccaridi) detti estrattivi inazotati digeribili. La determinazione degli estrattivi

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inazotati grezzi non proviene dall’analisi chimica dal momento che viene ottenuta

con la seguente formula:

E.I.G. = S.S. - (P.G. + L.G. + F.G. + ceneri)

Sul risultato si riversa, quindi, la somma algebrica degli eventuali errori commessi

nelle varie fasi delle singole analisi.

La necessità di conoscere sempre più sia la composizione degli alimenti sia i

fabbisogni nutritivi degli animali ha indotto sempre più a ricorrere ad analisi degli

alimenti che un tempo venivano effettuate solo a scopi sperimentali. Fra esse

ricordiamo soprattutto:

a) Determinazione dell’amido – Si utilizzano soprattutto due metodi:

- Polarimetrico mediante il quale l’amido viene idrolizzato con acido cloridrico

e sulla soluzione ottenuta si effettua una misura del potere rotatorio della luce;

- Enzimatico che prevede la dispersione dell’amido e il suo trattamento con

amiloglucosidasi e il glucosio che si ottiene viene misurato con lo spettrofotometro

(metodo della glucosio-ossidasi).

Per alimenti contenenti amido (tuberi, cereali, cruscami) il metodo polarimetrico

fornisce valori di 3-5 punti percentuali (sulla S.S.) superiori a quelli forniti dal

metodo enzimatico. Inoltre, esso a causa dell’idrolisi delle pectine e delle

emicellulose, causata dall’HCl, fornisce valori non trascurabili anche in alimenti che

non ne contengono affatto quali le polpe di bietola.

b) Analisi qualitativa degli insilati: per i prodotti conservati mediante insilamento

(foraggi, polpe di bietola suppressate, trebbie di birra, scarti di frutta) né l’analisi tipo

né quella delle frazioni fibrose sono sufficienti ad indicare la qualità del prodotto.

Affinché l’insilamento abbia successo è necessario che si instaurino determinate

fermentazioni che producendo acidi organici a partire dai glucidi solubili in acqua

garantiscono una certa acidità dell’ambiente e quindi l’inattivazione di batteri, muffe

e lieviti nocivi. Nell’alimento insilato bisogna trovare, soprattutto, acido lattico e, in

minor misura, acido acetico mentre dovrebbero essere assenti o presenti solo in

tracce l’ac. Propionico, l’ac. Butirrico e gli alcoli (soprattutto etanolo) che indicano

un’attività dei lieviti. Gli acidi grassi volatili (acetico, propionico, butirrico) e gli

alcoli vengono determinati mediante gascromatografia in fase gassosa mentre, l’acido

lattico è valutato mediante reazione enzimatica (metodo di Noll).

L’azoto ammoniacale nell’insilato non deve superare il 7% di quello totale ed esso

sulla S.S. è così calcolato: 0,05147 x ppm NH3 / % PG

Peraltro, negli insilati non è da trascurare la determinazione del pH e la eventuale

presenza di sostanze tossiche o indesiderabili.

La già citata legge 281/63 richiede poi dati analitici riguardanti:

- vitamine, antibiotici, elementi oligodinamici ed altri principi attivi per gli

integratori ed i mangimi integrati;

- betacarotene per la farina di erba medica disidratata;

- cloruro di sodio per la farina di pesce;

- zuccheri totali per il melasso e le carrube.

Usualmente, per avere un’idea sulle caratteristiche generali dell’alimento sottoposto

ad analisi chimica si dovrà tenere conto soprattutto: dell’umidità, della fibra grezza

che oltre un certo limite, deprime la digeribilità abbassandone il valore nutritivo, e

del contenuto in proteine che normalmente determina il prezzo dell’alimento e

suggerisce la sua utilizzazione in funzione dell’età e dello stato fisiologico

dell’animale e delle produzioni che si desiderano dall’animale stesso.

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4.2. Valutazione fisiologica

Nella valutazione fisiologica degli alimenti si tiene conto della digeribilità, relazione

nutritiva, azione dietetica, appetibilità, conservabilità, equilibrio acido basico e del

loro valore nutritivo.

4.2.1 Digeribilità

E' necessario conoscere il grado di utilizzazione dei vari principi nutritivi di

cui l'alimento è portatore cioè la loro digeribilità o meglio il rapporto % fra le singole

sostanze nutritive trattenute e le singole sostanze nutritive grezze contenute

nell'alimento, rapporto che va sotto il nome di coefficiente di digeribilità (CD). Se

non viene diversamente specificata, la digeribilità si riferisce alla sostanza secca

(S.S.) dell’alimento.

Per es. se una bovina ingerisce 5 kg di fieno al 90% di S.S. (quindi ingerisce 4,5 kg

di SS) ed elimina 1,5 kg con le feci, la digeribilità della SS del fieno in oggetto sarà:

(4,5 - 1,5)/4,5 = 0,67 oppure (4,5 - 1,5)/4,5 x 100 = 67%

I coefficienti di digeribilità possono essere determinati per tutti i componenti della

sostanza secca: sostanza organica, azoto, estratto etereo, fibra neutro detersa (NDF) e

lo stesso dicasi per l’energia contenuta nell’alimento.

Così, ad esempio, se 5 becchi hanno ingerito 1,5 kg/capo/giorno di S.S. di fieno e la

quantità di S.S. escreta con le feci è stata di 0,70 kg/capo/giorno e considerando che

l’analisi del fieno e delle feci ha dato la seguente composizione (g/kg S.S.):

Sostanza

organica

Proteine

Grezze

Estratto

Etereo

Fibra

grezza

Estrattivi

inazotati

Fieno 850 90 12 340 408

Feci 800 100 12 300 388

moltiplicando per 1,5 e 0,70 rispettivamente i contenuti del fieno e delle feci si ha:

Sostanza

secca

Sostanza

organica

Proteine

grezze

Estratto

etereo

Fibra

grezza

Estrattivi

inazotati

Quota

consumata -

1,5 1,275 0,135 0,018 0.51 0,612

Quota escreta

=

0,70 0,56 0,07 0,0084 0,21 0,2716

Quota digerita 0,80 0,715 0,065 0,0096 0,30 0,3404

e i coefficienti di digeribilità saranno:

Sostanza

secca

Sostanza

Organica

Proteine

grezze

Estratto

etereo

Fibra

Grezza

Estrattivi

inazotati

0,80 : 1,5

= 0,53

(53%)

0,71 : 1,27

= 0,56

(56%)

0,06 : 0,13

= 0,48

(48%)

0,01 : 0,02

= 0,53

(53%)

0,3 : 0,51

= 0,59

(59%)

0,34 : 0,61

= 0,56

(56%)

e quindi la composizione del fieno in termini di principi alimentari digeribili è la

seguente (g/kg S.S.):

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Sostanza

Organica

Proteine

Grezze

Estratto

etereo

Fibra

grezza

Estrattivi

Inazotati

850 x 0,56 =

476

90 x 0,48 =

43,2

12 x 0,53 =

6,36

340 x 0,59 =

200,6

408 x 0,56 =

228,48

In questo caso è stato utilizzato del fieno, che può essere somministrato da solo agli

animali; nel caso dei mangimi concentrati, i quali se vengono somministrati da soli

possono causare disturbi digestivi, la loro digeribilità viene determinata

somministrandoli insieme ad un foraggio di nota digeribilità.

In questo esempio, i becchi hanno ingerito 1,5 kg di sostanza secca di fieno il cui

contenuto in energia lorda è pari a 18.0 MJ/kg e quindi l’energia lorda consumata da

ciascun animale è pari a 18 x 1,5 = 27 MJ. Gli 0,70 kg di S.S. delle feci contenevano

18,7 MJ/kg e quindi un totale di 13,09 MJ per giorno. La digeribilità apparente di

quel fieno è risultata perciò (27 - 13,1)/27 = 13,9/27 = 0,515 e l’energia digeribile

contenuta nella sostanza secca dello stesso fieno è uguale: 18,0 x 0,515 = 9,3 MJ/kg.

In vivo, il coefficiente di digeribilità si calcola prendendo un gruppo di animali,

tenuti singolarmente in box e muniti di mezzi idonei per la raccolta separata delle

feci e delle urine. Gli animali sono alimentati per 7-14 giorni con l'alimento da

esaminare, il quale va accuratamente mescolato in modo da uniformarne la

composizione. Successivamente, per un altro periodo di 8-10 giorni (a seconda della

specie e della mole), sono controllati sia i quantitativi dello stesso alimento da

ognuno assunto (ingesta), che i quantitativi delle feci e delle urine (separate), emesse

(escreta). Nei monogastrici, le feci riferibili ad una data ingestione di cibo possono

essere identificate mediante l’impiego di sostanze colorate indigeribili (ossido di

ferro) aggiunta al primo ed ultimo pasto del periodo sperimentale: l’inizio e la fine

della raccolta delle feci prendono posto, rispettivamente, alla comparsa e alla

scomparsa dell’alimento colorato. Nei poligastrici, si considera che un lasso di tempo

di 24-48 ore sia sufficiente per l’eliminazione dei residui e quindi il controllo delle

feci inizia 1-2 giorni dopo la somministrazione dell’alimento da determinare; in essi

non è possibile somministrare sostanze colorate per identificare l’alimento in quanto

il pasto colorato si mescola con quello già presente nel rumine.

Nei mammiferi, vengono preferiti i maschi alle femmine perché in essi è più facile la

raccolta delle feci e delle urine, si impiegano soggetti che stanno bene in salute e

devono essere, preferibilmente, animali docili. Per i piccoli animali si impiegano

gabbie metaboliche dove è possibile raccogliere separatamente le feci dalle urine

invece, nei grossi animali (bovini, ovini) si usano sacchi di gomma, opportunamente

adattati. Per le femmine, un dispositivo speciale consente di raccogliere le feci in un

sacco e deviare le urine. Nei polli, la digeribilità è difficile determinarla in quanto le

feci vengono eliminate insieme alle urine attraverso la cloaca; comunque, i composti

presenti nelle urine sono soprattutto di natura azotata e le feci possono essere

chimicamente separate dalle urine se i composti azotati delle prime possono essere

separati da quelli fecali. Questa separazione è basata sul fatto che l’azoto urinario in

maggior parte si trova sotto forma di acido urico, mentre la maggior parte dell’azoto

fecale è sotto forma di proteine. E’ anche possibile modificare l’anatomia dei polli

con un intervento chirurgico in modo che l’emissione delle feci sia separata da quella

delle urine.

Specie nei ruminanti, ai fini delle prove di digeribilità, i pasti devono essere

somministrati ogni giorno alla stessa ora e la quantità di alimento non deve variare di

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giorno in giorno. Infatti, quando l’ingestione di alimento è irregolare può capitare, ad

esempio, che se l’ultimo pasto del periodo di prova è insolitamente abbondante, il

relativo aumento delle feci può verificarsi dopo che è stata ultimata la raccolta delle

feci e, quindi, la produzione fecale verrebbe sottostimata e la digeribilità

sovrastimata.

Quanto detto serve a impostare un bilancio fra ingesta ed escreta e calcolare

percentualmente quanto è stato trattenuto, e quindi digeribile.

Il coefficiente così determinato è apparente perché:

a) nei ruminanti dalla fermentazione dei carboidrati si forma, tra l’altro, il metano e

la CO2 che non vengono assorbiti ma eliminati con l’eruttazione;

b) le feci non sono costituite solo da alimenti non digeriti ma vi sono anche prodotti

metabolici (microbi, cellule parietali, prodotti di scarto quali gli enzimi).

Un animale alimentato con un dieta priva di azoto continuerà ad eliminare azoto con

le feci (azoto metabolico fecale) e l’eliminazione è correlata positivamente con la SS

ingerita;

c) le feci sono ricche di sostanze estraibili con etere (non sono lipidi) e minerali

(soprattutto calcio) di origine metabolica.

Un’altra differenza fra digeribilità apparente e reale scaturisce dalla conversione di

sostanze che si trovano in una data frazione all’analisi dell’alimento (es. FG) e in

un’altra all’analisi delle feci (es. negli estrattivi inazotati o nei lipidi). Ciò significa

che la FG è stata trasformata in altre sostanze, non necessariamente digerite.

Considerando, comunque, che la determinazione della digeribilità reale è assai

difficile: ai fini applicativi si riconoscono universalmente i coefficienti di digeribilità

apparente.

Impiego degli indicatori per determinare la digeribilità

Quando è difficile determinare i consumi di alimento ingerito o di feci emesse

individualmente (animali alimentati in gruppo) la digeribilità viene determinata

aggiungendo all’alimento delle sostanze non digeribili (lignina) e determinando la

concentrazione di queste sostanze sia nell’alimento, sia in campioni di feci di ciascun

animale e la digeribilità è data dal rapporto fra le due concentrazioni. Ad esempio, se

la concentrazione dell’indicatore è 5 g/kg S.S. nell’alimento e 10 g/kg S.S. nelle feci,

vuol dire che metà della S.S. ingerita è stata digerita e assorbita dall’animale. La

digeribilità in questo caso viene determinata applicando la seguente equazione:

(g indicatore/kg feci - g indicatore/kg alimento)/g indicatore/kg feci.

L’indicatore può essere un costituente naturale dell’alimento o una sostanza chimica:

quest’ultima però è difficile mescolarla ad alimenti quali ad esempio il fieno ed in

questo caso si utilizza un componente naturale dell’alimento che è noto per non

essere digeribile, quale la lignina. Oggi si usano altri indicatori, quali la fibra acido

detersa e le ceneri acido insolubili (sono formate principalmente da silice). Fra gli

indicatori chimici quello più usato è il cromo sotto forma di ossido (Cr2O3), in

quanto:

a) è pressoché insolubile, quindi, indigeribile;

b) è improbabile che sia presente come costituente importante dell’alimento.

Per l’erba consumata al pascolo, pur potendo utilizzare la lignina come indicatore in

quanto è un costituente naturale dell’erba, il calcolo della digeribilità è più difficile e

ciò perché è difficile ottenere campioni di erba che siano rappresentativi di quelli

consumati. Gli animali al pascolo, infatti, scelgono le erbe più giovani e non quelle

mature, le foglie e non gli steli e quindi è molto probabile che analizzando un

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campione di pascolo raccolto con la falciatrice contenga maggiori quantità di

elementi fibrosi (lignina compresa) superiori rispetto a quelli contenuti nel foraggio

consumato dall’animale. Per ottenere un campione rappresentativo si può usare un

animale con fistola esofagea (apertura dal lume dell’esofago fino alla superficie della

cute). Chiudendo quest’apertura con un tappo l’alimento passa dalla bocca allo

stomaco se, invece, il tappo si toglie l’erba ingerita può essere raccolta in un sacco

posto all’apertura della fistola. I campioni dell’erba così ottenuti possono essere

analizzati ed il loro tenore in indicatore può essere confrontato con quello delle feci.

In vitro, la digeribilità si calcola utilizzando il metodo in << due tempi in vitro>>:

a) in un primo momento, si fa incubare, per 48 ore, il campione finemente macinato

in liquido ruminale tamponato, in condizioni anaerobiche;

b) nel secondo tempo i batteri sono uccisi per acidificazione con HCl, fino a pH 2 e

vengono poi digeriti, incubandoli con pepsina per oltre 48 ore. Il residuo insolubile

viene filtrato, essiccato e calcinato; la sua sostanza organica, sottratta a quella

presente nell’alimento, consente una stima della sostanza organica digeribile.

E' evidente che il processo digestivo preso a modello e schematizzato è quello dei

poligastrici, perciò solo a questi vanno riferiti i risultati. La digeribilità determinata in

vitro, generalmente, è più bassa di quella determinata in vivo ed esistono equazioni

per passare dall’una all’altra. Oppure ad ogni lotto di campioni di alimento,

sottoposto ad analisi in vitro della digeribilità, vengono associati alcuni campioni dei

quali si conosce la digeribilità in vivo e la differenza media riscontrata, per tali

campioni, tra i coefficienti di digeribilità in vivo e quelli in vitro viene sommata ai

coefficienti di digeribilità in vitro dei campioni in esame per ottenere il valore di

digeribilità corretto. Per ottenere risultati il più possibile ripetibili è necessario

operare in condizioni standard non solo durante le analisi, ma anche a livello della

dieta degli animali dai quali si preleva il liquido ruminale mediante apposita fistola,

da utilizzare per la prima fase della digestione in vitro. Negli ultimi anni, per evitare

di mantenere gli animali da cui prelevare il liquido ruminale, per la digeribilità in

vitro anziché liquido ruminale si utilizzano enzimi cellulosolitici che però danno

risultati meno affidabili del liquido ruminale

La digeribilità in vitro viene attualmente impiegata per:

a) valutazione dei foraggi aziendali;

b) valutazione di campioni di piante destinate alla riproduzione;

c) valutazione dell’erba ingerita al pascolo e raccolta da animali con fistola esofagea.

Il liquido ruminale viene raccolto da animali con fistola i quali possono essere anche

utilizzati per la stima della digeribilità di piccoli campioni di alimento; questi

campioni (3-5 g di S.S.) sono posti in sacchetti di fibra sintetica, permeabili con pori

di misura standard (400-1600 m2). I sacchetti vengono posti nel rumine con una

sonda e incubati per 24-48 ore, dopo vengono tolti, lavati ed essiccati per determinare

la quantità di sostanza secca dell’alimento che vi è rimasta, cioè non digerita. Questa

tecnica, detta tecnica della digeribilità in sacco, anche se trova dei problemi legati

alla scelta del momento più appropriato di incubazione, trova applicazione nella

valutazione delle singole proteine che vengono demolite a livello ruminale e della

velocità con cui essa avviene.

La stima, invece, della digeribilità in base alla composizione chimica dell'alimento

tiene conto del fatto che il contenuto delle frazioni fibrose nell'alimento condiziona

fortemente la digeribilità globale e quella dei singoli principi nutritivi.

Mediante equazione di regressione lineare è possibile stimare la digeribilità dei dati

analitici, nelle quali la variabile indipendente è rappresentata dal contenuto in fibra o

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lignina, infatti, la digeribilità diminuisce con l'aumentare della fibra grezza, passando

dal 75-90% con un contenuto del 2% al 35-40% con un contenuto del 50%.

Digestione e digeribilità nei vari tratti dell’apparato digerente

I principi nutritivi possono essere assorbiti in diverse parti del tratto digerente

e a seconda del luogo dove vengono digeriti e assorbiti i costituenti alimentari danno

origine a principi diversi e quindi il valore nutritivo, per l’animale, dei singoli

costituenti dipenderà, non solo dal grado in cui verranno digeriti ma, anche dal luogo

dove verranno digeriti. Un carboidrato, ad esempio, quale è l’amido può essere

fermentato e assorbito nel rumine come acidi grassi volatili (e metano) o può essere

digerito nell’intestino tenue ed essere assorbito come glucosio. Per valutare la

digeribilità nei vari tratti dell’apparato digerente si può far ricorso alle fistole alle

quali è applicato un tubo di gomma con tappo a vite e che possono essere applicate a

livello di rumine, di stomaco o di intestino. Un esempio del controllo digestivo nelle

successive porzioni del tubo digerente, viene riportato da Beever e coll. (1972; Br. J.

Nutr., 28, 347) i quali utilizzarono pecore incannullate al duodeno e nella parte

terminale dell’ileo in modo da controllare la digestione a livello di stomaco, di

piccolo intestino e grosso intestino.

Digestione dell’erba disidratata, trinciata o sfarinata e pellettata

Costituenti

alimentari

Forma del

Foraggio

percentuale digerita in:

stomaco piccolo

intestino

Grosso

intestino

Totale

Sostanza

Organica

Trinciato

Pellettato

0,52

0,45

0,27

0,20

0,04

0,13

0,83

0,78

Cellulosa Trinciato

Pellettato

0,80

0,56

0,02

-0,02

0,05

0,23

0,87

0,77

Come si può osservare dalla tabella la digeribilità totale della sostanza organica

dell’erba pellettata è risultata più bassa rispetto a quella dell’erba trinciata e ciò

perché la digestione microbica della prima è stata in parte trasferita dal rumine al

grosso intestino; le differenze risultano più accentuate per la cellulosa.

L’azoto delle proteine che entrano nel rumine può lasciare il rumine stesso nella

stessa forma o sotto forma di proteine microbiche se è stato utilizzato dai

microrganismi ruminali o sotto forma di ammoniaca se le proteine sono state

degradate ma l’azoto non è stato utilizzato dai batteri.

Il destino delle proteine alimentari nei ruminanti può essere determinato con la

raccolta dell’ingesta nelle successive sezioni del tubo digerente, cosi come può essere

osservato nell’esempio di MacRae e Ulyatt (1974; J. Agric. Sci. Camb., 82, 309) che

somministrarono nella pecora 800 g/giorno/capo di sostanza organica di due tipi di

loglio:

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Loglio

Perenne

Loglio in

rotazione

N totale (g/giorno)

1) nell’alimento

2) al duodeno

3) all’ileo terminale

4) nelle feci

38

28

9

6

35

32

9

7

Proporzioni dell’N alimentare

digerito

5) nello stomaco

6)nel piccolo intestino

7) nel grosso intestino

8) Totale

0,3

0,5

0,1

0,9

0,1

0,6

0,1

0,8

N proteico assorbito (g/giorno)* 9) nel piccolo intestino 15 19

N amino acido assorbito

(g/giorno)

10) nel piccolo intestino 15 18

* Proteine calcolate moltiplicando per 6,25 l’azoto non ammoniacale

Benché le due diete fossero similari per contenuto di azoto, la quantità di azoto perso

a livello ruminale (assorbimento di ammoniaca) è stata maggiore per il loglio

perenne, fra l’altro, per questa erba è risultata minore la quantità di azoto assorbito

nel piccolo intestino sia come azoto totale, sia come proteine e sia come aminoacidi.

Le differenze tra l’azoto totale e l’azoto proteico assorbiti riflettono l’assorbimento di

ammoniaca che raggiunge l’intestino; quelle fra l’azoto proteico e azoto

aminoacidico sono in larga misura riconducibili all’azoto degli acidi nucleici delle

proteine microbiche. Un’ulteriore perdita di azoto, forse sotto forma di ammoniaca,

si ha a livello di grosso intestino. Quindi il loglio in rotazione, benché contenesse una

quantità di azoto leggermente inferiore e di digeribilità più bassa, ha offerto agli

animali un apporto azotato, in termini di aminoacidi assorbiti, di circa il 25%

superiore, rispetto al loglio perenne; con quest’ultimo, peraltro, dell’azoto totale

apparentemente assorbito (32 g/giorno), meno della metà (15 g/giorno) lo è stato

sotto forma di aminoacidi.

Fattori che influenzano la digeribilità

La digeribilità varia in funzione di diversi fattori fra i quali, la composizione

chimica degli alimenti ed eventuali trattamenti subiti, la specie animale.

a) Alimento - Il contenuto in protidi è correlato negativamente con la fibra grezza,

per cui un alto contenuto in azoto è indice di buona digeribilità, soprattutto, se le

proteine sono di origine animale.

Un eccesso di amido e di zuccheri nella dieta dei poligastrici riduce la digeribilità

della cellulosa in quanto i batteri sono portati ad utilizzare questi idrati di carbonio e

trascurare la fibra. Per aumentare la digeribilità delle proteine e dei grassi è

necessario che il rapporto adipo-proteico degli alimenti sia compreso tra 1/3 e 1/5

dato che un eccesso in grassi deprime appunto la digeribilità sia delle proteine che dei

grassi. La digeribilità risulta correlata negativamente con la quantità di alimento

ingerito.

c) Trattamenti degli alimenti – Sia i foraggi sia i concentrati possono essere

sottoposti a trattamenti meccanici, fisici, chimici o a combinazione dei tre allo scopo

sia di migliorarne l’appetibilità e/o la digeribilità sia per diminuirne gli sprechi e

facilitarne la manipolazione. I foraggi possono essere sottoposti a:

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- Trinciatura: la trinciatura del foraggio a particelle di 2-3 cm consente da un lato

una minore possibilità di selezione da parte dell’animale e dall’altro un aumento

della quantità di foraggio ingerito, infatti, il minor ingombro ruminale comporta una

maggiore velocità di transito del foraggio attraverso il canale digerente. Quindi, la

trinciatura, specie se molto spinta, diminuisce la digeribilità dell’alimento,

comunque, globalmente l’animale ricava più energia in quanto ha la possibilità di

ingerire più sostanza secca.

- Macinazione ed eventuale cubettatura: tali processi alterano la struttura del

foraggio e non va dimenticato che per i ruminanti, specie per quelli in lattazione, la

struttura del foraggio assicura una struttura fisica della razione che è il presupposto

indispensabile per una normale attività masticatoria e ruminativa dell’animale e

costituisce il sistema più naturale e sicuro per minimizzare i rischi di forme di

dismetabolie.

- Trattamento con soda o ammoniaca: si pratica soprattutto per foraggi ricchi di

lignina, quali le paglie e gli stocchi. L'ammoniaca e, soprattutto, la soda sono basi

forti. Quest’ultima viene nebulizzata, sotto forma di soluzione al 30% di NaOH, sulla

paglia in ragione di 12-15 litri/qle. Essa rompe i legami tra la lignina e le altre

frazioni della parete cellulare, rendendo queste ultime più digeribili (aumento dal 40

al 60%) dalla microflora ruminale. Il trattamento con ammoniaca, in misura del 3-5%

in peso della S.S., migliora in maniera meno soddisfacente rispetto alla soda la

digeribilità (aumento del 10% circa) ma esso comporta un aumento del tenore azotato

dell’alimento trattato. Entrambi i trattamenti sono poco praticabili a livello aziendale

ma esistono delle ditte specializzate in tal senso. Il foraggio viene macinato,

idrolizzato e poi pellettato. Per valutare se un foraggio è stato trattato con una dose

sufficiente di soda basta misurare il pH, che dovrebbe essere intorno a 10. Infatti,

concentrazioni di soda inferiori al 3% non aumentano sufficientemente la digeribilità

e del valore nutritivo del foraggio però, concentrazioni elevate possono diminuire

l’appetibilità per l’eccessiva compattezza del pellet che se ne ottiene.

I mangimi concentrati possono essere sottoposti:

- macinazione: i semi possono essere macinati più o meno finemente; per i

ruminanti, la macinazione dovrebbe essere grossolana in quanto una macinazione

fine, spesso seguita da pellettatura, causa un passaggio troppo veloce dell’alimento

nel tubo digerente. Per i cereali ad alta fermentescibilità (orzo, frumento), la

macinazione spinta della granella aumenta notevolmente la superficie esposta

all’attacco degli enzimi amilolitici della microflora ruminale, con aumentato rischio

di acidosi. Quindi bisogna dosare nel tempo il rilascio di energia dai vari alimenti che

compongono la razione: una quota deve essere disponibile subito per i ruminanti da

latte, specie se ad elevata produzione e, quindi, si utilizzano alimenti ricchi in amido

e zuccheri ma il rilascio non deve essere eccessivamente concentrato in poco tempo.

La macinazione delle granaglie sembra inutile per gli ovini e i caprini che masticano

bene il cibo, mentre, è efficace per i suini e per gli animali con dentatura inefficiente

- Rullatura a secco: i semi trattati in tal modo (schiacciati) rispondono bene ai

requisiti di aumentare il livello di ingestione e della velocità di rilascio dell’energia

senza alterare la funzionalità ruminale. Peraltro, questo trattamento è tra i più

economici.

- Fioccatura: la fioccatura e, soprattutto, l’estrusione di un cereale comporta la

rottura tra le diverse molecole di amido e un inizio di gelatinizzazione dell’amido

stesso; una volta nel rumine i granuli di amido saranno attaccati velocemente dalla

flora amilolitica e la loro idrolisi che era già iniziata con il trattamento di fioccatura o

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con quello di estrusione, verrà completata rapidamente; il glucosio prodotto verrà

rapidamente fermentato ad acido piruvico e questo, a sua volta, verrà trasformato in

acidi grassi volatili, soprattutto acido propionico. La forte produzione di questi acidi

farà scendere il pH del rumine a valori inferiori a 6 o addirittura sotto il 5,5 e a questo

punto la flora lattica prende il sopravvento e producendo acido lattico farà scendere

ulteriormente il pH. Questo è il quadro dell’acidosi ruminale, nel corso della quale

viene progressivamente inibito lo sviluppo dei batteri cellulosolitici e, quindi,

diminuisce la digeribilità delle componenti fibrose della razione e si ha: meno

ruminazione, meno masticazione, minore produzione di saliva e, quindi, minore

potere tampone nei confronti dell’acidità ruminale, ecc. Comunque, la fioccatura

sembra utile negli animali da carne, soprattutto bovini.

- Cottura: in genere è inutile per suini e polli.

Per i ruminanti da latte, trattamenti quali la fioccatura, l’estrusione, la

micronizzazione, la cottura a vapore devono essere limitati a pochi Kg di alimento (2

-3 per i bovini) somministrato insieme ad altri alimenti e, possibilmente, diluito

durante la giornata, soprattutto, se il prodotto una volta fioccato o estruso viene

macinato ed eventualmente pellettato. Tale pratica è adottata da diverse ditte

mangimistiche per aumentare la concentrazione energetica di determinati mangimi

composti; in effetti, la femmina che ha partorito da poco e che si trova nella fase più

produttiva di latte, risponde bene alla somministrazione di cereali così trattati, visto il

forte fabbisogno di energia prontamente utilizzabile per sostenere l’alta produzione

di latte. Nei ruminanti è l’acido propionico il principale precursore del glucosio dal

quale deriva a sua volta. Nel rumine, l’amido dei cereali viene rapidamente

idrolizzato a glucosio e questo fermenta ad acido propionico il quale viene assorbito

dalla parete ruminale, attraverso il sangue arriva al fegato dove viene convertito in

glucosio, il quale raggiunge gli organi vitali e le cellule della ghiandola mammaria

per la sintesi del lattosio. Considerando che c’è una correlazione positiva tra la sintesi

di lattosio e la produzione di latte, i trattamenti prima citati sono in grado di

aumentare la produzione di latte ma con il rischio di alterare l’equilibrio ruminale e

dell’insorgenza di turbe dismetaboliche delle quali un abbassamento del contenuto in

grasso del latte è frequentemente il primo e più evidente sintomo.

d) Specie animale - Le diverse capacità di digestione e di utilizzazione degli alimenti

dipendono dalla struttura anatomica e dallo sviluppo dell'apparato digerente delle

singole specie domestiche, nonché dal particolare decorso dei diversi atti fisiologici:

dalla masticazione, alla intensità delle azioni enzimatiche dei succhi, alla velocità di

passaggio degli alimenti, alla più o meno attiva partecipazione dei batteri alla

digestione del cellulosio; degli organismi animali. Le specie erbivore presentano una

capacità di digestione della fibra grezza maggiore delle specie onnivore: in

particolare i ruminanti sono degli eccellenti utilizzatori dei foraggi e degli altri

alimenti ricchi di cellulosio. Gli ovini rispetto ai bovini fanno registrare valori più

elevati di digeribilità apparente dell’azoto e in generale degli alimenti molto

digeribili ma coefficienti di digeribilità più bassi per le frazioni fibrose, specie se di

foraggi qualitativamente scadenti e lignificati.

4.3. Relazione nutritiva

Nel preparare le razioni per gli animali è opportuno sapere per ognuno degli

alimenti quale sia il rapporto fra il contenuto digeribile di idrati di carbonio e grassi

(elementi energetici) e il contenuto in protidi digeribili (elementi plastici). Detto

rapporto è denominato relazione nutritiva (RN) ed è indicato:

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R.N. = (Estrat. inazotati digeribili + Fibra diger. + Lipidi diger. x 2.25(1)

) / Protidi

digeribili.

Ad esempio, per un alimento la cui costituzione in sostanze digeribili è: protidi 8,5%,

lipidi 1,0%, estrattivi inazotati 30%, fibra 10,0% la relazione nutritiva sarà:

RN = ((1,0 x 2,25) + 30 + 10) : 8,5 = 42,25 : 8,5 = 5 (stretta)

La R.N. si dice bassa, media o alta quando il valore è rispettivamente di 15, 6 e >7.

Gli animali in pieno accrescimento e le femmine in lattazione richiedono una R.N. di

4-4.5 a 6-7; i soggetti in prestazione dinamica di 8,5-10, gli animali di riforma

all'ingrasso di 9-11 e quelli adulti a riposo di 1114.

Alimenti con RN: bassa o stretta (<5) Media ( 6) alta (> 7)

Farina di sangue 0,1 crusca di orzo 6,0 avena macinata 7,2

Farina di carne 0,4 fieno ottimo di prato 6,0 mais 11,2

Farina di soia 0,9 Frumento macinato 6,6 polpe secche di bietola 13,2

Farina di lino 1,0 miglio 6,9 paglia di frumento 43,0

Farina di colza 1,5 tutoli di mais 50,0

Pisello da foraggio 2,4

Semola glutinata di mais 2,5

Erba di ottimo pascolo 3,5

Erba di medica 3,6

Crusca di frumento 4,3

La relazione nutritiva è solo un indice sintetico per giudicare se un alimento è più o

meno idoneo per essere impiegato nella composizione di razioni per animali aventi

differenti esigenze proteiche in funzione dell’energia digeribile totale della razione.

Nel razionamento dei polli e dei suini si tiene, invece, conto del rapporto energia

metabolizzabile/proteina (EM/P); polli e suini, infatti, quando sono alimentati ad

libitum limitano il loro consumo in alimenti al soddisfacimento delle loro esigenze

energetiche.

EM : P = Energia metabolizzabile per Kg di mangime (Kcal/kg) / % di proteine grezze

Quindi è necessario che nel mangime siano, soprattutto, incluse sostanze proteiche in

quantità percentuali sufficienti, da ciò il rapporto energia/proteina, anzidetto, che

indica quanta E.M. ogni Kg di mangime deve fornire per ogni punto percentuale di

proteina grezza contenuta nello stesso mangime, in modo che l'animale cui è

destinato possa soddisfare ad un tempo le proprie esigenze energetiche e proteiche.

4.4. Equilibrio acido-basico

Nell'organismo animale la costanza della reazione (del pH) nel sangue e nei tessuti

dipende da un complesso equilibrio fra l'entrata e l'uscita degli alimenti acidogeni

(fosforo, cloro, zolfo, formatori di anioni) e degli alimenti alcalogeni (sodio,

potassio, calcio, magnesio, formatori di cationi), con prevalenza di questi ultimi. Per

1Il contenuto in lipidi digeribili si moltiplica per 2,25 per equiparare il valore energetico dei lipidi a

quello degli estrattivi inazotati e della fibra

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mantenere lo stato acido-basico dei liquidi corporei nelle giuste condizioni,

l'organismo si avvale di tre meccanismi basati: a) azione di sostanze tampone di

natura chimica (bicarbonato, proteine protoplasmatiche, fosfati emoglobina); b)

adattamento respiratorio delle concentrazioni dell'acido carbonico (la CO2 che si

forma nei processi respiratori reagisce con l'acqua formando acido carbonico); c)

eliminazione di idrogenioni o bicarbonatoioni attraverso i reni.

Alterazioni dello stato acido-basico a livelli tali che i normali meccanismi di

regolazione non siano in grado di correggere portano a disturbi:

a) di acidosi se le quantità totali di acidi nei liquidi corporei sono superiori a quelli

normali,

b) di alcalosi nei casi in cui sono le basi a porsi a livelli superiori a quelli normali.

La reazione acida o basica che l'alimento viene a formare nel corpo dipende, perciò,

non dall’acidità o basicità misurabile nella dieta alimentare bensì dalla composizione

quanti-qualitativa in sostanze minerali degli alimenti stessi; anche gli acidi organici

(citrico, malico, ossalico, lattico, acetico, propionico, butirrico, ecc.) presenti negli

alimenti o formatisi a livello digestivo, perciò, non concorrono a formare un

eccedente acido in quanto dopo la loro demolizione digestiva e la successiva

ossidazione a livello metabolico, lasciano in genere un residuo basico.

Per valutare l'influenza degli alimenti sull'equilibrio acido-basico dell'organismo, a

livello metabolico, è stato proposto di calcolare, in base all'analisi delle ceneri, le

differenze fra elementi acidi e basici (denominata residuo acido o basico),

esprimendo questo valore in grammi equivalenti di acido o di base in soluzione

normale per Kg di alimento. Soprattutto, nelle femmine in lattazione e negli animali

in accrescimento si devono somministrare mangimi con eccedente basico di 0,5-0,8

per Kg di sostanza secca ingerita.

4.5. Appetibilità

L'appetibilità riveste molta importanza nella valutazione degli alimenti.

L'odore, il sapore e la gustosità di un alimento eccitano i centri nervosi e stimolano

l'appetito, favorendone l’assunzione da parte dell'animale. Sono detti di buona bocca

gli animali che consumano volentieri e con profitto anche gli alimenti più scadenti.

L'indice di assunzione volontaria di cibo da parte dell'animale è subordinata al

contenuto in alimenti del tubo digerente ed è, principalmente, in funzione del grado

di rapidità con cui la fibra viene demolita e trasformata e, quindi, dalla velocità del

complesso della digestione della razione; velocità che dipende dalla microflora

ruminale e/o intestinale: alcuni, inerenti alla natura del foraggio (lignificazione dei

tessuti) altri, da fattori relativi alla costituzione della dieta (deficienza azotata o

minerale, presenza di sostanze batteriostatiche che portano ad una parziale inattività

della microflora).

La gustosità di un alimento è determinata dalla sua composizione in alcuni

specifici costituenti chimici che attribuendo odori o sapori particolari, ne

condizionano l'appetibilità da parte dell'animale. In genere, l'animale si abitua

gradatamente a gradire un determinato alimento. Gli alimenti possono essere resi

gustosi aggiungendo particolari prodotti (melasso, sale pastorizio, sostanze

aromatizzanti), in qualità di condimenti.

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119

4.6. Conservabilità

La conservabilità degli alimenti dipende dalle caratteristiche intrinseche

dell'alimento stesso quali l'umidità (non deve superare il 15% nel fieno e nella paglia

e il 10% nella farina). Percentuali di grasso superiori al 5-6% possono provocare

irrancidimento.

4.7. Azione dietetica

Prima di far entrare un alimento nella razione bisogna accertarsi che la

somministrazione nelle dosi e nel tempo che si ritengono opportuni non sia dannosa

per gli animali e non sia fattore di abbassamento o deprezzamento della produzione.

Ad esempio, non deve abbassare la produzione di latte, né conferire cattivi odori o

sapori al latte, oppure nuocere alle caratteristiche di caseificazione del latte.

L'alimento non deve avere effetti negativi sulla funzionalità digerente (stipsi,

diarrea), non deve apportare caratteristiche negative nei depositi adiposi (grasso

giallo o particolarmente molle), non deve provocare stati di tossicità o fenomeni di

irritazione delle mucose o lasciare residui di metalli pesanti e/o di prodotti chimici

(diserbanti, anticrittogamici) che possono passare al latte o alla carne, provocando

fenomeni di accumulo.

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CAP. V. UTILIZZAZIONE BIOLOGICA DEGLI ALIMENTI

5.1. Produzione energia

L'animale è una macchina chemiodinamica nella quale l'energia viene fornita

dagli elettroni dei legami covalenti delle sostanze nutritive che vengono scissi nel

corso dei fenomeni metabolici. Bruciando un campione di un alimento nella bomba

calorimetrica, attraverso il suo calore di combustione si può definire la quantità di

energia chimica potenziale che lo stesso alimento possiede cioè la sua Energia Lorda

Totale (E.L.). La bomba calorimentrica consiste in un robusto recipiente metallico

(bomba) inserito in un serbatoio isolato contenente acqua. Il campione di alimento

viene messo nella bomba dove viene posto ossigeno sotto pressione. Controllata la

temperatura dell’acqua, si avvia la combustione dell’alimento con un meccanismo

elettrico. Il calore prodotto dall’ossidazione è assorbito dalla bomba e trasmesso

all’acqua che la circonda. Ad equilibrio raggiunto, si rileva nuovamente la

temperatura dell’acqua. Il calore prodotto è poi valutato dall’aumento della

temperatura e dal peso dell’acqua presente nel calorimetro e dal calore specifico

dell’acqua e della bomba. La bomba calorimetrica è usata per determinare il

contenuto in energia lorda degli alimenti interi e dei loro costituenti e quello dei

tessuti animali e dei prodotti di escrezione. In pratica, però, per la stima dell'energia

lorda di un alimento si parte dalla sua composizione chimica grezza applicando i

seguenti coefficienti:

proteine 5,40 Kcal/grammo

lipidi 9,72 "

fibra grezza 4,59 "

estrattivi inazotati 4,24 "

Energia lorda contenuta in alcune sostanze

Sostanza MJ*/Kg di

sostanza secca

Sostanza MJ*/Kg di

sostanza secca

Principi alimentari:

Glucosio

Amido

Cellulosa

Caseina

Grasso del latte

Grasso semi oleaginosi

15,6

17,7

17,5

24,5

38,5

39,0

Alimenti:

Granella di mais

Granella di avena

Paglia di avena

Farina estr. lino

Fieno di prato

Latte al 4% di grasso

18,5

19,6

18,5

21,4

18,9

24,9

Prodotti delle fermentazioni:

Ac. Acetico

Ac. Propionico

Ac. Butirrico

Metano

14,6

20,8

24,9

55,0

Tessuti animali privi di ceneri:

Muscolo

Grasso

23,6

39,3

* 1 MJ = 239 Kcal

I grassi contengono una quantità di energia che è di circa 2,25 volte quella degli idrati

di carbonio e delle proteine e ciò è dovuto al diverso rapporto: (Carbonio+Idrogeno)/Ossigeno

che è maggiore nei grassi; cioè questi ultimi si trovano in uno stato di minore

ossidazione e sono perciò in grado di sviluppare maggiore energia quando vengono

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ossidati. Anche le proteine hanno un più alto contenuto in energia lorda, rispetto ai

carboidrati.

Mediamente, i comuni alimenti contengono circa 18,5 MJ/Kg di sostanza secca, ne

contengono quantitativi maggiori quelli ricchi in grasso (panello di lino) e

quantitativi inferiori alla media gli alimenti ricchi in ceneri le quali non forniscono

energia.

Nelle varie tappe dell'utilizzazione da parte dell'animale, si verificano delle perdite di

energia lorda:

- con la digestione una parte di energia passa nelle feci assieme ad una quota di

alimento indigerito (10-30% nei monogastrici e 20-50% nei poligastrici)2 mentre la

rimanente, detta energia digeribile (E.D.), rimane a disposizione dell'animale;

Calcolo energia digeribile di un fieno somministrato ad un ovino

1) Fieno (S.S.) somministrato all’ovino (Kg/capo/d) = 1,50 Kg

2) Alimento eliminato con le feci (S.S.) = 0,70 Kg

3) Fieno digerito 0,80 Kg

3) Energia lorda per Kg di S.S. di fieno = 18,0 MJ

4) Energia per Kg di feci = 18,7 MJ

- Energia lorda ingerita = 18 x 1,5 = 27,0 MJ

- Energia eliminata con le feci = 18,7 x 0,70 = 13,1 MJ

- Energia trattenuta = 27 - 13,1 = 13,9 MJ

- Digeribilità (apparente) = (27 - 13,1)/27 = 0,515

- Energia digeribile contenuta nel fieno = 18 x 0,515 = 9,3 MJ/Kg

- all'E.D. va sottratta l'energia eliminata con le urine (urea, 3-5% dell'E.L.) e con i gas

di fermentazione gastro-intestinale (metano, 4-10% dell'E.L. nei ruminanti, invece

nei monogastrici tale perdita è trascurabile. L’energia dell’urina è dovuta a sostanze

che contengono azoto, come l’urea, l’acido ippurico, la creatinina e l’allantoina, ed

anche composti non azotati come l’acido glucuronico e l’acido citrico. I gas

combustibili persi dal rumine sono quasi interamente rappresentati da metano, la cui

produzione è strettamente legata alla ingestione di alimento; al livello alimentare di

mantenimento si perde circa l’8% dell’energia lorda (12% di quella digeribile) come

metano. A livelli alimentari più elevati, questa proporzione si riduce al 6-7% e il calo

è maggiore con alimenti altamente digeribili. Il contenuto in energia metabolizzabile

di un alimento si valuta con prove di alimentazione simili a quelle di digeribilità ma

bisogna raccogliere oltre le feci anche l’urina e il metano. Le gabbie metaboliche per

ovini e suini sono dotate di un dispositivo per la raccolta delle urine. Nei bovini le

urine vengono raccolte con sacchi di gomma attaccati sotto l’addome nei maschi e

sopra la vulva nelle femmine; per gravità o per aspirazione l’urina finisce poi nei

sacchi di raccolta. La quantità di metano prodotta viene misurata ponendo l’animale

nella camera respiratoria e quando non si dispone di ciò essa viene calcolata pari

2Essa è tanto più elevata quanto più l'alimento è ricco di cellulosa. Nei ruminanti aumenta quando

l'alimento è macinato finemente, dato che si riduce il suo tempo di permanenza nel rumine ed è ridotta

l'intensità della degradazione microbica

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all’8% dell’energia ingerita; inoltre, nei ruminanti può essere ottenuta moltiplicando

per 0,8 l’energia digeribile, ciò significa che circa il 20% dell’energia digeribile è

escreta con le urine e con il metano. Nei polli, le feci e le urine vengono escrete

insieme per cui la valutazione dell’energia metabolizzabile diviene più facile. I polli

adulti vengono messi a digiuno fino a completo svuotamento dell’apparato digerente,

poi vengono alimentati forzatamente con un solo pasto dell’alimento in esame. Le

escreta vengono raccolte fino a completa eliminazione del pasto; per valutare le

perdite endogene, contemporaneamente, vengono raccolte le piccole quantità di

escreta di altri polli tenuti a digiuno. L’energia di queste ultime escreta viene tolta

dall’energia delle escreta degli animali alimentati, per poter stimare l’energia

metabolizzabile reale e non quella apparente.

I principali fattori che influiscono sul valore dell’energia metabolizzabile di un

alimento sono gli stessi che influiscono sulla digeribilità dell’alimento.

Il rapporto EM/ED, cioè la resa con la quale l’energia digeribile viene convertita in

energia metabolizzabile si calcola con la formula (INRA, 1988):

EM/ED = 0,8417 – 0,00099 FG – 0,00196 + 0,0221 LA

Dove la fibra grezza (FG) e la proteina grezza (PG) sono espresse in % sulla sostanza

organica (SO) e il livello alimentare (LA) è espresso dal rapporto tra l’EM ingerita e

l’EM necessaria al mantenimento dell’animale. Dalla formula si vede che il rapporto

EM/ED diminuisce all’aumentare del contenuto in fibra grezza e di proteina grezza e

ciò è dovuto alle maggiori perdite di energia sotto forma di metano all’aumentare

della fibra e alle maggiori perdite di energia con le urine all’aumentare delle proteine.

La stessa formula indica che il rapporto EM/ED aumenta con l’aumentare del livello

alimentare (LA). Ciò si verifica sia con i singoli alimenti che per razioni composte:

a) per gli alimenti singoli (es. fieno) all’aumentare del livello di ingestione aumenta

anche la velocità di transito nel digerente, con conseguente minor tempo di

digestione ruminale, minore fermentazione acetica a carico della fibra e minore

produzione di metano ad essa associata (quindi minore perdita di energia);

b) considerando la razione composta, aumentando il livello produttivo, il ruminante

riceve una razione sempre più ricca in concentrati e povera in fibra e oltre ad una

maggiore peristalsi intestinale si ha una maggiore fermentazione propionica anziché

acetica e quindi una minore perdita di energia con il metano.

Considerando che il livello alimentare (LA) medio utilizzato dai francesi negli studi

di digeribilità dei foraggi è uguale a 1,7 multipli del mantenimento e poiché tale

valore è simile a quello sul quale sono state impostate le diverse prove di digeribilità

dei concentrati, la precedente formula può essere così semplificata:

EM/ED = 0,879 – 0,00099 FG – 0,00196 PG

Dove FG e PG sono espresse ugualmente in % sulla S.O. e il termine noto 0,879 è

uguale a 0,8417 x 1,7.

Per bovine femmine a media o elevata produzione di latte (25-30 litri/giorno)

bisognerebbe utilizzare un livello alimentare uguale a 3 se non 3,5 e quindi

bisognerebbe ridurre il coefficiente di digeribilità dell’energia (dEL) tabulato e

riferito al livello di mantenimento e nello stesso tempo si dovrebbe modificare la

formula per il calcolo del rapporto EM/ED. Con la prima correzione si riduce il

valore nutritivo mentre, con la seconda lo si aumenta; pertanto le due operazioni si

compensano a vicenda e, quindi, almeno al momento, non sembra opportuno

modificare il metodo di calcolo proposto dall’INRA in Francia. La stessa INRA

suggerisce di aggiungere ai fabbisogni una quota aggiuntiva per tenere conto degli

effetti associativi tra foraggi e concentrati e l’aggiunta deve essere tanto più elevata

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quanto più scadente è la qualità del foraggio e quanto più elevato è il livello

produttivo.

I ricercatori francesi per non tabulare per uno stesso alimento diversi valori nutritivi

riferiti ai diversi livelli alimentari hanno agito sui fabbisogni; così una vacca che

produce 25 l/giorno di latte e mangia 2,5 volte quello che le serve per mantenersi

(LA = 2,5) utilizzerà con meno efficienza l’alimento rispetto a una con un livello

alimentare più basso e quindi per essa il fabbisogno in UFL è leggermente maggiore.

L’EM rappresenta la quantità di energia alimentare utilizzabile dai vari tessuti

dell’organismo ed è costante, per un dato alimento o razione, quale che sia la

funzione per cui è utilizzata (accrescimento, ingrasso, lattazione). Nell’organismo

essa deriva dai prodotti terminali della digestione i quali sono presenti in quantità che

variano con la composizione della dieta e con le condizioni digestive. In pratica, per

le razioni classiche per ruminanti l’EM è prodotta per il 60% dagli AGV, per il 15-20

dagli aminoacidi, per il 5-10% dagli acidi grassi dei lipidi alimentari e per l’1-5% dal

glucosio.

DETERMINAZIONE ENERGIA CONTENUTA IN ALIMENTI DESTINATI A

RUMINANTI

a) Energia lorda: (Hoffmann e Schiemann, 1980):

EL (MJ/Kg S.S.) =

0,239 x PG + 0,398 x LG + 0,200 x CG + 0,175 x EI

dove PG, LG, CG, ed EI sono i contenuti (% sulla S.S.) di proteina grezza, lipidi grezzi,

cellulosa grezza ed estrattivi inazotati;

b) Energia digeribile: (Hoffmann e Schiemann, 1980):

ED (MJ/Kg S.S.) =

0,239 x PG x dPG + 0,379 x LG x dLG + 0,183 x Cg x dCG + 0,170 x EI x dEI

c) Energia metabolizzabile: (Nehring e Haenlein, 1973):

EM (MJ/Kg S.S.) =

0,181 x PG x dPG + 0,323 x LG x dLG + 0,150 x CG x dCG + 0,152 x EI x dEI.

Il valore in energia metabolizzabile di un alimento, ovviamente, varia con la specie

animale cui l’alimento è destinato; nei monogastrici l’energia persa come metano è

trascurabile e ciò significa che gli alimenti come i concentrati hanno un maggior

contenuto in energia metabolizzabile. Il valore in energia metabolizzabile di un

alimento può variare anche a seconda se gli aminoacidi che apporta siano

dall’animale trattenuti e utilizzati per le sintesi proteiche, oppure deaminati ed il loro

azoto escreto con le urine, come urea. Anche il modo con cui gli alimenti vengono

preparati può, in alcuni casi, influire sul loro valore in energia metabolizzabile.

Infatti, nei ruminanti la macinazione e la pellettatura dei foraggi aumentano le perdite

fecali di energia ma queste perdite possono, almeno in parte, trovare compensazione

nella minore produzione di metano mentre, per i polli, la macinazione dei cereali non

influenza il contenuto in energia metabolizzabile. L’aumento del livello alimentare

nei ruminanti determina una sensibile riduzione della digeribilità degli alimenti,

quindi anche il loro valore in energia metabolizzabile. Le perdite di energia come

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metano possono essere ridotte aggiungendo alla razione degli inibitori della

metanogenesi e fra questi soprattutto un coccidiostatico: il monesin, che è largamente

usato come stimolante di crescita nell’alimentazione dei bovini da carne e nei conigli.

- l'E.M. subisce un’ ulteriore perdita dovuta al dispendio per l'utilizzazione degli

alimenti (digestione, fermentazione, assimilazione) e alla conseguente produzione di

calore irradiato (extracalore) dovuto all'azione dinamico-specifica degli alimenti (per

ottenere l'effetto utile di 100 Kcal occorre somministrare agli animali 105 Kcal se

trattasi di glucidi, 114 se sono lipidi e 130 nel caso delle proteine); l'azione dinamico

specifica è lo stimolo metabolico che le sostanze nutritive assorbite, specie

aminoacidi, esercitano con conseguente esaltata termogenesi.

Utilizzazione dell’energia o bilancio energetico

Energia lorda ( = calore di combustione) (100%)

Energia fecale

a) alimento indigerito

b) microbi intestinali e loro prodotti

c) secrezioni nell’intestino crasso

d) sfaldamento cellulare nell’intestino crasso

Energia digeribile = energia del cibo digerito) (40-90%)

Energia urine

Energia metano

Energia metabolizzabile (35-85%)

(5%) (5-10 % nei ruminanti

Aumento di calore Energia netta (15-65%)

Usata per il

Mantenimento

Usata per la per la

produzione (carne, latte, uova, fibra)

(energia ritenuta o bilancio energetico)

Produzione totale di calore

Da parte dell’animale

L’ingestione di un alimento è seguita da perdite di energia sotto forma di calore

prodotto dall’animale ed eliminato nell’ambiente o direttamente (radiazione,

conduzione, convezione) o indirettamente attraverso l’evaporazione di acqua. Se ad

un animale a digiuno viene somministrato dell’alimento, la sua produzione di calore

aumenta (incremento metabolico) e l’incremento può essere espresso in termini

assoluti (MJ/kg di S.S. di alimento) o relativi, quale proporzione dell’energia lorda o

dell’energia metabolizzabile.

La principale causa di questo incremento di calore è il limitato rendimento energetico

delle razioni attraverso le quali i principi nutritivi assorbiti vengono metabolizzati.

Ad esempio:

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a) quando il glucosio è ossidato per la formazione di ATP, il rendimento dell’energia

libera catturata è solo di circa lo 0,69 e quindi per lo 0,31 la sua energia è persa come

calore;

b) il legame di un aminoacido all’altro richiede il dispendio di 4 legami altamente

energetici e se l’ATP che li fornisce è stato ottenuto dall’ossidazione del glucosio,

circa 2,5 MJ di energia viene persa come calore per ogni kg di proteine sintetizzate.

Un consumo di energia si verifica per la masticazione dell’alimento e per il suo

transito lungo il canale digerente e siccome l’energia chimica usata dall’organismo

per qualsiasi lavoro è degradata a calore, ne consegue inevitabilmente un incremento

di calore prodotto. Altro lavoro svolto all’interno dell’organismo è il movimento di

sostanze (ioni Na+, K

+) contro gradienti di concentrazione; anche questo lavoro

comporta un consumo di legami fosforici altamente energetici.

Nei ruminanti, una parte dell’energia che è persa come calore deriva dall’attività dei

microrganismi che vivono nell’apparato digerente; questa quota è nota come calore

di fermentazione ed è stimata pari al 5-10% dell’energia lorda dell’alimento.

Tolte queste perdite dall'E.M. rimane l'energia netta (E.N.) che servirà all'animale

per il suo mantenimento fisiologico (ENm) e per le sue produzione (ENp).

L'energia netta di mantenimento serve all'animale per espletare le funzioni

fisiologiche vitali (respirazione, circolazione, secrezioni endocrine ed esocrine,

nonché il tono muscolare che costituiscono il metabolismo basale), per il lavoro

muscolare dei movimenti spontanei e per la termoregolazione.

L'energia di mantenimento e gravidanza (ENmg) oltre che per il mantenimento serve

per gli invogli fetali, i fluidi fetali, l'accrescimento del feto, dell'utero e della

placenta. L'ENa (accrescimento) soddisfa le esigenze dipendenti dall'incremento

ponderali dei tessuti e dei depositi di grasso. L'ENl (lattazione) serve all'animale per

sopperire ai fabbisogni relativi alla produzione di latte in funzione della quantità e

del tenore lipidico. L'ENpd (prestazioni dinamiche) serve a sopperire ai fabbisogni

relativi a prestazioni dinamiche (lavoro, traino, corsa).

5.2 Metodi di misura del calore prodotto e ritenzione di energia

La produzione di calore può essere valutata direttamente con mezzi fisici, con

l’impiego di un calorimetro per l’animale (calorimetria diretta) oppure si stima

controllando gli scambi respiratori dell’animale, mediante camera respiratoria

(calorimetria indiretta).

Calorimetria diretta

Nelle 24 ore la perdita di calore da parte dell’animale è uguale a quello prodotto e la

perdita si ha per irradiazione, conduzione, convezione e per evaporazione di acqua

dai polmoni. Le perdite per evaporazione si valutano controllando il volume dell’aria

che è aspirata nella camera e misurando il suo livello di umidità all’entrata e

all’uscita. Nella maggior parte dei calorimetri, la perdita di calore è desunta dalla

quantità di acqua che circola nella camera e dalla differenza della sua temperatura

all’entrata e all’uscita del calorimetro. L’incremento metabolico dovuto ad un

alimento allo studio è dato dalla differenza del calore prodotto dall’animale a due

livelli alimentari come indicato in figura. I due livelli sono necessari perché una parte

del calore prodotta è dovuta al metabolismo basale dell’animale. Nell’esempio sotto

riportato, i due livelli di alimentazione adottati sono stati di 40 e 100 MJ di energia

metabolizzabile. L’incremento di 60 MJ (BD, nella figura) ha motivato l’aumento

CD nella produzione di calore, cioè un aumento di 24 MJ e quindi un rapporto pari a:

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CD/BD o 24/60 = 0,4. Per ragioni di semplicità, la relazione fra produzione di calore

ed energia metabolizzabile ingerita è rappresentata da una retta (AB) ma

generalmente ciò non si verifica.

80

60 C

Produzione di calore

(MJ/giorno)

40

B D

20 A E

0

20 40 60 80 100

Energia metabolizzabile ingerita (MJ/giorno)

A = metabolismo basale; B e C rappresentano il calore prodotto a seguito

dell’ingestione di 40 e 100 MJ, rispettivamente, di energia metabolizzabile

Il controllo dei singoli alimenti viene eseguito somministrandoli da soli a due livelli

se, invece, si tratta di un alimento che, normalmente, non viene dato da solo il livello

più basso può essere ottenuto con un alimento che può essere dato da solo (fieno nei

ruminanti) e il livello più alto dalla razione base + l’alimento da valutare (es. avena).

I calorimetri per animali sono costosi per cui, il più delle volte, si ricorre alla

calorimetria indiretta.

Calorimetria indiretta.

I carboidrati, i grassi e le proteine vengono ossidati dall’organismo animale

con produzione di calore come negli esempi:

a) glucosio: C6H12O6 + 6 O2 > 6 CO2 + 6 H2O + 2,82 MJ

b) tripalmitina: C3H5(OOC.C15H31)3 + 72,5 O2 > 51 CO2 + 49 H20 + 32.04 MJ

In un animale che copre tutto il fabbisogno energetico ossidando solo glucosio, il

consumo di un litro di ossigeno corrisponde alla produzione di 2828/(6 x 22,4) =

20,95 kJ di calore. Questi valori sono noti come equivalenti termici dell’ossigeno e

sono usati in calorimetria indiretta per valutare la produzione di calore, a partire dal

consumo di ossigeno.

In un animale che catabolizza solo miscele di grassi, l’equivalente termico

dell’ossigeno è 19,61 kJ/l ed è 19,73 kJ/l se calcolato con l’equazione b) sopra

riportata. In genere, però, gli animali traggono la loro energia da una miscela di

principi nutritivi e, quindi, è necessario conoscere quanto ossigeno è stato consumato

per ogni principio nutritivo. Per conoscere ciò si parte dal quoziente respiratorio

(QR) che è il rapporto fra volume di CO2 prodotta e volume di O2 consumato

dall’animale. Considerando che, in determinate condizioni di temperatura e

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pressione, eguali volumi di gas contengono un eguale numero di molecole, il QR può

essere calcolato dalle molecole di CO2 prodotte e di O2 consumato. Dall’equazione a)

il QR dei carboidrati risulta 6 CO2 / 6 O2 = 1 e dall’equazione b) quello dei grassi

risulta 51 CO2 / 72,5 O2 = 0,70.

Calcolo della produzione di calore di un bovino desunta dagli scambi respiratori e

dalla escrezione urinaria di azoto

Risultati delle prove per 24 ore

O2 consumato

CO2 prodotta

N escreto con le urine

392,0 l

310,7 l

14,8 g

Calore per il metabolismo proteico

Proteine ossidate

calore prodotto

O2 consumato

CO2 prodotta

14,8 x 6,25

92,5 x 18,0

92,5 x 0,96

92,5 x 0,77

92,5 g

1665 kJ

88,8 l

71,2 l

Calore per il metabolismo glucidico e lipidico

O2 consumato

CO2 prodotta

QR per quota non proteica

equivalente termico dell’O2 per QR = 0,79

calore prodotto

392,0 - 88,8

310,7 - 71,2

303,2 x 20,0

303,2 l

239,5 l

0,79

20,0 kJ/l

6064 kJ

Produzione totale di calore 1665 + 6064 7729 kJ

Se il QR di un animale è noto, le proporzioni in cui i carboidrati e i grassi sono stati

ossidati possono essere determinate usando delle apposite tabelle. Per esempio, un

QR di 0,9 indica che è stata ossidata una miscela del 67,5% di glucidi e 32,5% di

grassi; l’equivalente termico per questa miscela è quindi 20,60 kJ/l. Nella miscela

ossidata sono, in genere, presenti anche proteine e la quantità di proteine

catabolizzate può essere stimata dall’azoto eliminato con le urine, tenendo presente

che ad ogni grammo di proteina ossidata corrisponde l’escrezione urinaria di 0,16 g

di azoto (N).

Il calore medio di combustione delle proteine è di 22,2 kJ/g ma varia con la

composizione in aminoacidi; peraltro, considerando che le proteine non vengono

ossidate completamente, in quanto l’azoto non viene ossidato, il calore prodotto dal

catabolismo di un g di proteina diventa 18,0 kJ. Per le proteine il QR è di 0,8, infatti,

per ogni g di proteina ossidata si producono 0,77 l di CO2 e si consumano 0,96 l di

O2.

Il calore non viene prodotto solo quando i principi nutritivi organici sono ossidati, ma

anche quando vengono usati per la sintesi di componenti cellulari ma in questo caso

il calore prodotto comporta variazioni negli scambi respiratori uguali a quelle che si

osservano quando i principi nutritivi vengono ossidati completamente. Il rapporto fra

produzione di calore e scambi respiratori è alterato se la combustione dei grassi e dei

carboidrati è incompleta come avviene, ad esempio, in presenza di dismetabolie quali

la chetosi nella quale, gli acidi grassi non sono completamente ossidati a CO2 e H2O

ed il carbonio e l’idrogeno abbandonano il corpo animale come corpi chetonici. Una

incompleta ossidazione si osserva nei ruminanti anche in condizioni normali, in

quanto un sottoprodotto della fermentazione dei carboidrati nel rumine è il metano;

per questo motivo, la produzione di calore calcolata dagli scambi respiratori, nei

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ruminanti, viene corretta deducendo 2 kJ per ogni litro di metano. Per semplicità,

alcune volte la produzione di calore viene calcolata controllando solo il consumo di

ossigeno. In questo caso se si adotta un QR di 0,82 ed un equivalente termico

dell’ossigeno di 20,0, l’errore della stima non dovrebbe superare il 3,5%. Inoltre,

considerando che l’equivalente termico dell’ossigeno per l’ossidazione delle proteine

è di 18,8 kJ/l e non è molto diverso da 20,0 utilizzato per l’ossidazione dei

carboidrati e i lipidi, se il calore prodotto dalle proteine è solo in piccola parte non si

ritiene dover fare una valutazione separata e, quindi, la determinazione dell’azoto

escreto con le urine può essere tralasciata.

L’apparecchiatura più comunemente usata per misurare gli scambi respiratori negli

animali è la camera respiratoria che può essere a circuito chiuso o a circuito aperto.

E’ costituita da una camera a tenuta d’aria, dove viene collocato l’animale e gli è

possibile mangiare, bere, essere munto; inoltre è possibile raccogliere le feci e le

urine. In quella a circuito aperto, l’aria è aspirata all’interno della camera e poi

eliminata, durante il passaggio si arricchisce di CO2 e cede O2. Sia l’anidride

carbonica che l’ossigeno possono essere valutati confrontando il volume e la

composizione dell’aria che entra ed esce dalla camera. Nella camera a circuito chiuso

l’aria che circola nella camera perde H2O e la CO2 passando attraverso soluzioni che

l’assorbono (idrato potassico, calce sodata) ritorna alla camera depurata; l’ossigeno

consumato dall’animale è rimpiazzato tramite una erogazione controllata di ossigeno

puro. Il peso dell’anidride carbonica prodotta si determina dall’incremento in peso

del materiale che l’assorbe. Sia il consumo di ossigeno che la produzione di anidride

carbonica devono essere alla fine corrette, sulla scorta delle differenze fra le quantità

presenti nell’aria che circola nell’apparecchio, all’inizio e alla fine dell’esperimento.

Il metano può accumularsi nell’aria che circola e la quantità presente è determinata

alla fine dell’esperimento. La camera a circuito chiuso richiede un’apparecchiatura

sofisticata per misurare, campionare e analizzare l’aria che vi circola mentre, quella a

circuito aperto non richiede ciò ma presenta l’inconveniente della necessità di un

grande quantitativo di materiale assorbente (per un bovino necessitano 100 kg di

calce sodata per assorbire la CO2 che produce giornalmente e 250 kg di gel di silice

per assorbire il vapore acqueo. Ultimamente, è stata costruita una camera a circuito

misto che elimina gli inconvenienti sopra detti.

Misura della ritenzione di energia mediante il bilancio del carbonio e dell’azoto.

Nell’animale in accrescimento o all’ingrasso, l’energia viene immagazzinata,

soprattutto, sotto forma di proteine e di grassi, mentre le riserve glucidiche sono

modeste e relativamente costanti. Le quantità di proteine e di grassi sintetizzati

possono essere stimate misurando la quantità di carbonio e azoto in entrata e in uscita

dall’organismo e, quindi, per differenza, le quantità ritenute. L’energia ritenuta può

essere calcolata moltiplicando le quantità dei principi alimentari immagazzinati per i

rispettivi valori calorici. Sia l’azoto che il carbonio entrano nell’organismo solo con

gli alimenti però mentre l’azoto lascia l’organismo con le feci e le urine, il carbonio è

rilasciato anche come metano e anidride carbonica e, quindi, la determinazione

richiede la camera respiratoria. Le modalità per calcolare l’energia accumulata,

partendo dai dati ottenuti con il bilancio del carbonio e dell’azoto, sono più

facilmente illustrate considerando un animale che abbia sintetizzato sia grasso che

proteine; in tale animale, le quantità di carbonio e di azoto sono maggiori di quelle

escrete (bilancio positivo). La quantità di proteine immagazzinate è calcolata

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129

moltiplicando l’azoto trattenuto x 6,25 (1000/160) considerando che le proteine

corporee contengono 160 g di N/kg.

Calcolo dell’energia ritenuta (e del calore prodotto) nella pecora

Risultati dell’esperimento (per 24 ore) C (g) N (g) Energia (MJ)

Entrate 684,5 41,67 28,41

Escrezioni con le feci 279,3 13,96 11,47

Escrezioni con le urine 33,6 25,41 1,50

Escrezioni come metano 20,3 - 1,49

Escrezioni come CO2 278,0 - -

Bilancio 73,3 2,30

Energia metabolizzabile disponibile - - 28,41 - 14,46 = 13,95

Immagazzinamento di proteine e grasso

Proteine immagazzinate

Carbonio ritenuto come proteine

Carbonio ritenuto come grassi

Grassi immagazzinati

2,30 x 6,25 =

14,4 x 0,512 =

73,3 - 7,4 =

65,9 : 0,746 =

14,4 g

7,4 g

65,9 g

88,3 g

Ritenzione di energia e produzione di

calore

Energia ritenuta come proteine

Energia ritenuta come grassi

Totale energia ritenuta

Produzione di calore

14,4 x 23,6 =

88,3 x 39,3 =

0,34 + 3,47 =

13,95 - 3,81 =

0,34 MJ

3,47 MJ

3,81 MJ

10,14 MJ

Le proteine contengono anche 512 g di C/kg e basandoci su questo dato è facile

stabilire quanto carbonio è stato impegnato per la sintesi proteica. Il resto del C

trattenuto è immagazzinato come grassi e siccome questi contengono 746 g C/kg, le

quantità accumulate si ottengono dividendo per 0,746 il dato relativo al bilancio del

C, diminuito della quota di questo elemento utilizzata per la sintesi delle proteine.

L’energia corrispondente alle proteine ed ai grassi sintetizzati è valutata usando i

valori calorici medi dei tessuti corporei, che variano da una specie all’altra. Per i

bovini e gli ovini vengono consigliati: 39,3 MJ/kg per i grassi e 23,6 MJ/kg per le

proteine.

5.3. Utilizzazione dell’energia metabolizzabile per il mantenimento.

Per il mantenimento, l’animale ossida i principi nutritivi degli alimenti soprattutto

per coprire le spese energetiche per il lavoro e se i principi nutritivi non sono forniti

l’animale ossida le sue riserve di grasso. Quando i principi nutritivi non sono

sufficienti, il compito di provvedere alla sintesi di ATP occorrente è in gran parte

trasferito dalle riserve lipidiche dell’organismo ai principi nutritivi assorbiti. Se

l’energia di questi principi nutritivi assorbita è trasferita all’ATP con lo stesso

rendimento che caratterizza l’utilizzazione dei grassi corporei, l’animale non

produrrà alcun calore extra all’infuori di quello dovuto al consumo, alla digestione ed

all’assorbimento dell’alimento.

Il calore di fermentazione rientra in questa categoria, come quello proveniente dal

lavoro di digestione, dalla masticazione dell’alimento, dal suo transito lungo il tratto

digerente, dall’assorbimento dei principi nutritivi e dal loro trasporto nei tessuti.

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Utilizzo energia

Spese energetiche

mantenimento

a) Ossidazione principi alimentari

b) ossidazione riserve corporee

Catabolismo grassi Produzione di energia: catturata da ATP

Rendimento energia

metabolizzabile per

mantenimento

a) Grassi = 0,70

- Monogastrici = 0,70

b) Glucosio:

- Poligastrici < 0,70 per perdite con fermentazioni

c) Proteine: rendimento diminuito del 20% per perdite

dovute a sintesi di urea

d) AGV: - differiscono molto fra loro

- rendimento più elevato se si usano miscele

rispettando le proporzioni presenti nel rumine

- rendimento più basso di quello del glucosio

Rendimento energia: monogastrici > poligastrici:

- rendimento AGV < glucosio

- perdita energia come calore di fermentazione

L’energia libera che deriva dal catabolismo dei grassi viene catturata

dall’ATP con un rendimento che può essere calcolato dalle reazioni descritte in

precedenza e stimata dell’ordine di 0,67; il glucosio ha un rendimento analogo, circa

0,70. Nei poligastrici il rendimento è ridotto a causa delle fermentazioni ruminali, ma

queste perdite si possono evitare iniettando il glucosio direttamente nell’abomaso.

Quando le spese energetiche del mantenimento sono sostenute dalle proteine, un

aumento di calore che è di circa 0,2 ed è dovuto in parte alla richiesta di energia per

la sintesi dell’urea. Nei ruminanti, l’energia per il mantenimento è in gran parte

assorbita sotto forma di acidi grassi volatili e da esperienze condotte su pecore a

digiuno, infondendo nel rumine i singoli acidi grassi volatili puri è risultato che

esistono delle differenze notevoli fra il rendimento con cui l’energia dei singoli acidi

è utilizzata. Però, quando questi acidi vengono somministrati insieme, sotto forma di

miscele che rispecchiano i rapporti estremi fra acidi volatili che possono trovarsi nel

rumine, il loro rendimento di utilizzazione appare uniformemente alto; comunque,

questo rendimento è inferiore a quello del glucosio e ciò insieme al fatto che i

ruminanti perdono energia sotto forma di calore di fermentazione, porta alla

conclusione che per il mantenimento, l’energia metabolizzabile è utilizzata con un

rendimento maggiore nei monogastrici, che assorbono il glucosio come tale.

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131

Rendimento dell’utilizzazione per il mantenimento dell’energia metabolizzabile

in vari principi alimentari e alimenti

Ruminanti Suini Pollame

Costituenti alimentari

Glucosio

Amido

olio di oliva

caseina

0,94 (1,0)*

(0,82)*

0,95

0,88

0,97

0,76

0,89

0,97

0,84

Prodotti di

fermentazione

ac. Acetico

ac. Propionico

ac. Butirrico

miscela a**

miscela b**

0,59

0,86

0,76

0,87

0,86

Concentrati

Mais

dieta bilanciata

0,80

0,81

Foraggi

Loglio essiccato

fieno di prato

fieno di medica

erba insilata

0,76

0,70

0,82

0,65-0,71

* i valori in parentesi si riferiscono a somministrazione con sonda duodenale

** miscela a = acetico 0,25; propionico 0,45; butirrico 0,30; Miscela b = acetico 0,75; propionico 0,15; butirrico 0,10

5.4. Utilizzazione dell’energia metabolizzabile ai fini produttivi

L’energia può essere accumulata nei grassi di deposito, nei muscoli, nel latte,

nelle uova, nella lana ed è contenuta principalmente nei grassi e nelle proteine di

questi prodotti ad eccezione del latte dove molta energia è contenuta sotto forma di

carboidrati (lattosio).

Il rendimento con il quale l’energia metabolizzabile è usata ai fini produttivi dipende,

soprattutto, dal rendimento energetico delle vie metaboliche che portano alla sintesi

dei grassi e delle proteine, a partire dai principi nutritivi assorbiti. In generale, la

sintesi sia dei grassi che delle proteine rappresenta un processo assai più complicato

rispetto al catabolismo, ciò perché tutti i materiali necessari per la sintesi devono

essere disponibili e devono essere disponibili nelle giuste proporzioni e usati al

momento giusto. Ciò rende difficile valutare il rendimento teorico dei processi di

sintesi. La sintesi di un trigliceride da acetato e glucosio avviene con un rendimento

teorico dello 0,81 mentre il rendimento dovrebbe essere maggiore se la sintesi dei

grassi parte dai trigliceridi alimentari.

Nella sintesi delle proteine, il costo energetico per legare i singoli aminoacidi è

relativamente basso e, quindi, se questi sono tutti presenti e nelle giuste proporzioni,

il rendimento teorico della proteinogenesi è all’incirca dello 0,88, questo valore si

abbassa se alcuni aminoacidi devono essere sintetizzati e altri deaminati. La sintesi

del lattosio a partire dal glucosio può avvenire con un rendimento di 0,94 ma, nella

vacca da latte, il glucosio utilizzato proviene in gran parte dall’acido propionico ed in

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parte da aminoacidi (gluconeogenesi); per questo, nei ruminanti il rendimento della

sintesi del lattosio è più basso.

Utilizzo energia per produzioni

Energia

a) Accumulata in:

- grassi deposito, muscoli

- latte, uova, lana

b) Contenuta in: grassi, proteine, lattosio (latte)

Rendimento

energia

produttiva

a) Rendimento energetico delle vie metaboliche per la sintesi di

grassi e proteine

b) Presenza nella giusta misura del materiale necessario alla sintesi

Sintesi

grassi

a) Da acetato e glucosio: rendimento = 0,81

b) Da trigliceridi alimentari: rendimento più elevato

Sintesi

proteine

a) In presenza di tutti gli aminoacidi nelle giuste proporzioni:

rendimento = 0,88

b) Rendimento più basso se è necessaria la sintesi e/o deaminazione

di aminoacidi

Sintesi

lattosio

a) da glucosio: rendimento = 0,94

b) da ac. Propionico e aminoacidi: rendimento più basso (poligastrici)

d

Quando l’apporto di alimento aumenta, l’energia metabolizzabile in eccesso,

rispetto al fabbisogno di mantenimento, sopporta l’intero carico delle spese

metaboliche, dunque un rendimento nella sua utilizzazione sempre più basso. Il

concetto è illustrato nella figura sotto riportata:

- quando l’apporto di energia metabolizzabile sale da 0 al livello di mantenimento

(AC), la produzione di calore aumenta del tratto BC;

- a livello di mantenimento, l’apparente incremento di calore è BC/AC, la linea che

indica il metabolismo basale è presa come base di calcolo;

- quando l’apporto di energia metabolizzabile sale al livello di mantenimento,

diminuisce la produzione di calore dovuta al metabolismo dei grassi di deposito

(triangolo ADE); il rapporto BD/AC rappresenta perciò una stima più realistica del

rendimento dell’energia metabolizzabile dell’alimento usata per il mantenimento

- la linea di base DE, in questo caso, è nota come valore base minimo della

produzione di calore

- al di sopra del livello di mantenimento l’incremento di calore è espresso dal

rapporto FG/BG

Questi dati sono stati calcolati prendendo in considerazione le più opportune vie

metaboliche, ma quando si considera il rendimento con il quale l’energia

metabolizzabile può essere utilizzata, è importante non dimenticare che esso viene

ridotto da quelle perdite di energia riconducibili al consumo, alla digestione e

all’assorbimento degli alimenti. Misurando in un animale, il rendimento energetico

con cui una singola sostanza, come una proteina o un singolo prodotto, come il latte,

vengono sintetizzati si incontra la difficoltà dovuta al fatto che gli animali è solo

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raramente che immagazzinano energia solo sotto forma di una singola sostanza o di

un solo prodotto.

Rapporto tra la produzione di calore e l’ingestione di energia metabolizzabile. La

produzione di calore totale è indicata dalla linea ABF

2 F

Produzione di

Produzione di Calore a livello

calore (multipli del B G di mantenimento

metabolismo basale

1 A C Metabolismo basale

E D Valore base minimo della

Produzione di calore

0 1 2

Apporti di energia metabolizzabile (multipli del fabbisogno di mantenimento)

Un’eccezione è data dall’animale adulto, né gravido, né in lattazione, per il quale si

considera che l’energia venga immagazzinata quasi interamente sotto forma di

grasso. Nel caso di principi alimentari puri, i monogastrici utilizzano il grasso con

maggior rendimento dei carboidrati e questi con maggior rendimento delle proteine.

Il rendimento è minore nei poligastrici rispetto ai monogastrici. Il rendimento per il

mantenimento è più elevato rispetto a quello della produzione del grasso e la ragione

principale è dovuta al fatto che l’incremento nella produzione di calore dovuta ai

principi alimentari, ed agli alimenti, misurata al di sotto del mantenimento non

rappresenta il vero rendimento della conversione energetica, ma il rendimento

relativo rispetto all’utilizzazione delle riserve organiche (soprattutto grasso). In un

animale che digiuna, la produzione del calore è dovuta:

a) trasferimento dell’energia dal grasso all’ATP;

b) utilizzazione dell’ATP per i processi di importanza vitale.

La seconda importante differenza nel rendimento degli alimenti, se utilizzati per il

mantenimento oppure per l’ingrasso, sta nella grande variabilità che caratterizza gli

alimenti destinati ai ruminanti.

Utilizzazione dell’energia metabolizzabile per la produzione del latte e delle

uova

Queste produzioni animali raramente avvengono da sole; in genere sono

accompagnate da guadagno o perdita di grasso o di proteine del corpo della lattifera o

dell’ovaiola. Ciò significa che, la stima del rendimento specifico della sintesi del latte

o delle uova deve usualmente essere ottenuta tramite una ripartizione matematica

dell’intera energia metabolizzabile utilizzata dall’animale. Dai risultati di ricerche

ultime risulta che:

- l’energia metabolizzabile viene utilizzata dalle lattifere con un rendimento medio

dello 0,60, che è poco influenzato dalla natura della dieta;

- le riserve organiche d’energia possono essere convertite in latte con un rendimento

energetico dello 0,80;

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- gli animali in lattazione se accumulano energia (soprattutto sotto forma di grasso)

realizzano questi accumuli utilizzando l’energia metabolizzabile con un insolito

rendimento (0,60).

Rendimento energia per la produzione del latte e delle uova

Produzione latte

a) Rendimento energia alimentare = 0,60

b) “ “ riserve corporee = 0,80

Animali in lattazione vs

Animali ingrasso

- maggior rendimento energia: accumulo energia sotto

forma di lattosio, acidi grassi a catena corta

a) rendimento sintesi grasso di riserva = 0,60

b) proteine del latte allontanate dal corpo e non soggette a

turnover degli aminoacidi

Sintesi uova

a) rendimento energia metabolizzabile = 0,60 - 0,70

b) rendimento sintesi proteica = 0,45 - 0,50

c) “ “ lipidica = 0,75 – 0,80

d) “ “ tessuti corporei = 0,75 – 0,80

Il maggior rendimento dell’animale in lattazione rispetto a quello all’ingrasso, forse

in parte, è dovuto all’accumulo di energia nel latte sotto forma di lattosio e di acidi

grassi a corta catena; il maggior rendimento della sintesi delle proteine del latte può

dipendere dal fatto che queste proteine vengono rapidamente allontanate dal corpo e

non subiscono il turnover di aminoacidi che caratterizza la maggior parte delle

proteine dell’organismo. Si ritiene che le galline utilizzino l’energia metabolizzabile

per la sintesi delle uova con un rendimento dello 0,60 - 0,70; la sintesi delle proteine

dell’uovo avverrebbe con un rendimento dello 0,45 - 0,50 e quella dei lipidi con una

resa dello 0,75-0,80. Nelle galline ovaiole, anche la sintesi dei tessuti corporei

avviene con un rendimento elevato (0,75 - 0,80).

In sintesi, con i metodi moderni, l’energia contenuta in alimenti destinati ai ruminanti

può essere così determinata:

a) Energia lorda: si stima in base all’analisi tipo con equazioni che attribuiscono a

ciascun costituente chimico il suo contenuto energetico medio (Hoffmann e

Schiemann, 1980):

EL (MJ/Kg S.S.) = 0,239 x PG + 0,398 x LG + 0,200 x CG + 0,175 x EI

dove PG, LG, CG, ed EI sono i contenuti (% sulla S.S.) di proteina grezza, lipidi

grezzi, cellulosa grezza ed estrattivi inazotati;

b) Energia digeribile: viene stimata a partire dalla composizione chimica tipo e dai

coefficienti di digeribilità dei suoi componenti (Hoffmann e Schiemann, 1980):

ED (MJ/Kg S.S.) = 0,239 x PG x dPG + 0,379 x LG x dLG + 0,183 x Cg x dCG +

0,170 x EI x dEI

c) Energia metabolizzabile: la stima si ottiene con apposite equazioni, basate sul

contenuto di principi nutritivi digeribili (Nehring e Haenlein, 1973):

EM (MJ/Kg S.S.) = 0,181 x PG x dPG + 0,323 x LG x dLG + 0,150 x CG x dCG

+ 0,152 x EI x dEI.

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Rendimento per l’ingrasso dell’energia metabolizzabile (da McDonald et al., 1992)

Ruminanti Suini Polli

Principi alimentari

Glucosio 0,54 (0,72)* 0,74

Saccarosio 0,58 0,75 0,75

Amido 0,64 0,76 0,78

Cellulosa 0,61 0,71

Olio di arachidi 0,58 0,86 0,78

Proteine miste 0,51 0,62 0,55

Caseina 0,50 (0,65) 0,60

Prodotti di fermentazione

Acido acetico 0,33-0,60 0,60

Acido propionico 0,56

Acido butirrico 0,62

Miscela A** 0,58

Miscela B** 0,32

Acido lattico 0,75

Etanolo 0,72

Concentrati

Orzo 0,60 0,77 0,73

Avena 0,61 0,68 0,73

Mais 0,62 0,78 0,74

Farina di estrazione di arachidi 0,54 0,58 0,64

Farina di estrazione di soia 0,48 0,57 0,64

Foraggi

Loglio essiccato (giovane) 0,52

Loglio essiccato (maturo) 0,34

Fieno di prato 0,30

Fieno di medica 0,52

Erba insilata 0,21-0,61

Paglia di frumento 0,24

*I valori in parentesi si riferiscono a somministrazione per sonda duodenale

** Miscela A = acetico 0,25; propionico 0,45; butirrico 0,30

Miscela B = acetico 0,75; propionico 0,15; butirrico 0,10

Rispetto ai coefficienti di valore energetico dei componenti chimici impiegati per la

stima dell’ED, quelli utilizzati per la stima di EM sono diminuiti soprattutto per la

PG e la CG, che contribuiscono rispettivamente alle perdite energetiche urinarie e

con i gas di fermentazione.

L’INRA propone di stimare l’EM a partire dall’ED: EM = ED x EM/ED dove:

EM/ED = 0,8417 - 9,9 x 10-5

x CG - 1,96 x 10-4

x PG - 0,0221 x LA

in cui CG e PG sono i tenori di cellulosa grezza e proteina grezza espressi in g/KG di

sostanza organica e LA o livello alimentare è il rapporto fra l’EM ingerita e quella

necessaria per il mantenimento dell’animale (ad es. LA = 3 quando l’energia ingerita

è tripla di quella necessaria).

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Calcolare l’EN di un fieno avente le seguenti caratteristiche

PG LG CG EI

Composizione chimica (% S.S.) 8,5 1,6 32,8 49,6

Digeribilità (%) 46 27 61 65

EL = 0,239 x 8,5 + 0,398 x 1,6 + 0,200 x 32,8 +0,175 x 49,6 = 17,9 MJ/Kg S. S.

ED = 0,239 x 8,5 x 0,46 + 0,379 x 1,6 x 0,27 + 0,183 x 32,8 x 0,61 + 0,170 x

49,6 x 0,65 = 10,2 MJ/Kg S. S.

EM = 0,181 x 8,5 x 0,46 + 0,323 x 1,6 x 0,27 + 0,150 x 32,8 x 0,61 + 0,152 x

49,6 x 0,65 = 8,7 MJ/Kg S. S.

q = 8,7/17,9 = 0,49

Km = 0,054 + 0,287 x 0,49 = 0,69

Kl = 0,600 + 0,240 x (0,49 - 0,57) = 0,58

Ka = 0,06 + 0,780 x 0,49 = 0,39

ENm = 8,7 x 0,69 = 6,0 MJ/Kg S.S:

ENl = 8,7 x 0,58 = 5,0 MJ/Kg S.S:

ENa = 8,7 x 0,39 = 3,4 MJ/Kg S.S:

Questa equazione indica, quindi, come il rapporto fra EM e ED sia circa l’85% e

venga ridotto con l’aumentare del tenore in fibra grezza e proteina grezza

nell’alimento per effetto del contributo positivo di queste sostanze rispettivamente

alla produzione di metano e all’escrezione di energia urinaria, mentre sia aumentato

dal crescere del livello alimentare che, implicando una maggiore ingestione,

comporta una diminuzione del tempo di permanenza nel rumine e quindi delle

perdite di fermentazione.

d) Energia netta: in via preliminare è necessario calcolare la metabilizzabilità

dell’Energia lorda, espressa dal rapporto q = EM/EL.

Visto che l’energia lorda contenuta nella sostanza secca degli alimenti è abbastanza

costante, il rapporto q è solo un modo differente per esprimere il contenuto di EM

nell’alimento e, quindi, i coefficienti K di utilizzazione dell’EM in EN varieranno al

crescere di q in maniera molto simile a quanto si verifica al crescere della

concentrazione di EM sulla sostanza secca. Considerando che il valore di K è

proporzionale a q può essere ricavato con particolari equazioni:

Km = 0,054 + 0,287 x q (Van Es, 1978)

Kl = 0,600 + 0,240 x (q - 0,57) (Van Es, 1975)

Ka = 0,06 + 0,780 x q (Blaxter, 1974)

e l’energia netta viene calcolata moltiplicando EM per q

I ricercatori dell’INRA, per semplificare la valutazione degli alimenti, hanno

considerato che gli animali in accrescimento destinano circa i 2/3 dell’EM al

mantenimento e 1/3 all’accrescimento-ingrasso.

Il coefficiente di utilizzazione dell’EM di questi animali (Kma) sarà quindi per 2/3

dovuto al Km e per 1/3 al Ka dell’alimento considerato e quindi si può impostare

l’equazione:

Kma = Km x Ka x 1,5/ Ka + 0,5 x Km e la stima con questo sistema si conclude

calcolando le UF carne e latte:

UFC = EM x Kma / 7,62; UFL = EM x Kl / 7,11

dove 7,62 rappresenta il valore energetico (MJ/Kg) di una UFC e corrisponde

all’energia netta di mantenimento e di ingrasso di un Kg di orzo, mentre 7,11 è il

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valore calorico di una UFL e corrisponde all’energia netta di lattazione di un Kg di

orzo.

Utilizzo energia in animali in accrescimento

Utilizzo Energia

metabolizzabile

2/3 per mantenimento

1/3 per accrescimento

Coefficiente

utilizzazione

E.M.

a) 2/3 dovuto al Km

Kma = Km x Ka x 1,5/Ka + 0,5 x Km

b) 1/3 dovuto al Ka

U.F.

UFC = EM x Kma / 7,62

UFL = EM x Kl / 7,11

UFC

60% E.M. orzo (11,3 MJ/Kg t.q.) usata per mantenimento (Km = 75,6 %)

40% E.M. usata per l’accrescimento (Ka = 55,4 %)

Rendimento medio Km + Ka = 67,5

(67,5 x 11,3 = 7,62)

UFL Kl = 63% che moltiplicato x 11,3 = 7,11

Il valore più elevato fornito per l’UFC rispetto all’UFL deriva dal fatto che, nel primo

caso, circa il 60% dell’EM dell’orzo (11,3 MJ/ Kg t.q.) è utilizzato per il

mantenimento con un Km del 75,6% e il restante 40% è impiegato per

l’accrescimento con un Ka del 55,4%, con un rendimento medio del 67,5% che,

moltiplicato per 11,3 dà 7,62 MJ. Nel caso della produzione del latte, invece, si

considera un Kl del 63%, che fornisce quindi 7,11 MJ

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CAP. VI. DETERMINAZIONE DEL VALORE NUTRITIVO DEGLI ALIMENTI

6.1. Generalità

La determinazione del valore nutritivo degli alimenti ha sempre rivestito un

ruolo centrale negli studi dei nutrizionisti. Per un razionamento scientifico degli

animali bisogna affrontare due problemi principali:

a) la valutazione dei loro fabbisogni in principi alimentari;

b) la scelta degli alimenti che possano soddisfare queste esigenze.

Per i fabbisogni dell’animale si prendono in considerazione, soprattutto, quelli

energetici e ciò perché i principi alimentari che forniscono energia sono quelli più

rappresentati negli alimenti e, quindi, se una razione dovesse essere formulata

tenendo soprattutto conto degli altri fabbisogni, se poi dovesse essere carente da un

punto di vista energetico richiederebbe un cambiamento radicale. Invece, una carenza

di minerali o vitamine può essere corretta aggiungendo alla razione degli integratori.

Altra caratteristica che distingue i principi apportatori d’energia dagli altri è il modo

in cui le prestazioni produttive rispondono alle quantità fornite. La disponibilità

d’energia imprime il passo all’attività produttiva e l’animale dimostra di rispondere

regolarmente ad ogni cambiamento dell’apporto energetico. Quando, però, altri

principi sono disponibili in quantità appena sufficienti, rispetto al fabbisogno, è

probabile che l’animale ingerisca una maggiore quantità d’energia. Così facendo, si

ha un accumulo di grasso di deposito e di conseguenza potrebbe aumentare il

fabbisogno di minerali e vitamine coinvolti nei sistemi enzimatici della lipogenesi e

allora si potrebbe instaurare una carenza di questi principi. Da ciò la conclusione che

ci deve essere un buon equilibrio fra l’apporto d’energia e gli altri principi nutritivi

della dieta.

L’energetica alimentare si occupa di due aspetti importanti:

a) la misura del valore energetico degli alimenti;

b) la misura dei fabbisogni energetici degli animali.

Il valore energetico degli alimenti può essere espresso in energia: lorda, digeribile,

metabolizzabile, netta. L’energia netta sembrerebbe l’espressione più logica in

quanto rappresenta direttamente l’energia richiesta dall’animale. Il metodo

dell’energia netta non è, comunque, così semplice come può sembrare in quanto i

singoli alimenti dimostrano un valore in energia netta che varia per le differenti

funzioni animali (mantenimento, produzione della carne, produzione del latte) e

quindi le tavole che riportano il valore nutritivo degli alimenti dovrebbero indicare

due o più valori di energia netta per ogni alimento; ciò significa che, i metodi di

razionamento basati sull’energia netta sono molto approssimativi. Invece, il valore

nutritivo in energia metabolizzabile può essere espresso, con maggiore

approssimazione, con un unico valore ed è per questo che l’energia metabolizzabile

viene di preferenza usata per indicare il valore nutritivo degli alimenti in parecchi

metodi di razionamento. Con l’energia metabolizzabile, però, il valore nutritivo degli

alimenti ed i fabbisogni degli animali non sono direttamente paragonabili, in quanto

l’energia metabolizzabile, a differenza di quella netta, non rappresenta direttamente

l’energia richiesta dall’animale. Per superare l’ostacolo bisogna poter calcolare

l’equivalenza fra energia metabolizzabile ed energia netta in ogni specifica situazione

di razionamento; cioè, bisogna conoscere il rendimento con il quale l’energia

metabolizzabile è utilizzata per le varie produzioni (carne, latte, uova).

Una grande attenzione è stata rivolta alla formulazione di unità di misura del

valore energetico degli alimenti di facile applicazione. I metodi per valutare il valore

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energetico degli alimenti attualmente utilizzati sono: unità amido, unità foraggiere, il

T.D.N. e l'energia netta.

6.2. Metodo delle unità amido

Il metodo è stato messo a punto da Kellner e prende come unità di misura del

valore nutritivo l'energia contenuta in un Kg di amido; l'unità amido (U.A.)

rappresenta un’unità di energia netta corrispondente a 2356 Kcal. Le prove di

alimentazione sono state condotte in camere respiratorie su bovini adulti di 600-650

Kg di peso vivo; fu stabilita la razione di mantenimento, con la cui somministrazione

gli animali non manifestavano variazioni di peso, poi sono state aggiunte nella dieta

di base quantità unitarie di vari principi nutritivi e di foraggi. Le prove furono fatte in

camera respiratoria per avere la possibilità di effettuare il bilancio del carbonio e

dell'azoto e, quindi, determinare il guadagno o la perdita dell'organismo. Di seguito si

riporta un esempio ripreso dal Borgioli:

Azoto Carbonio

Entrata

g

Uscita

g

Entrata

g

Uscita

g

Alimenti 390,55 5.668,2

Feci 105,69 1.456,9

Urina 263,76 283,3

Gas respiratori e digestivi - 3.247,9

Guadagno - + 21,10 - + 680,1

Totali 390,55 390,55 5.668,2 5.668,2

Proteine sintetizzate dall’organismo = 21,6 x 6 = 126,6 g

Contenuto delle proteine in C: 126,6 x 0,5254 = 66,5 g

Carbonio fissato sotto forma di grassi: 680,1 - 66,5 = 613,6 g

Grasso sintetizzato dall’animale: 613,6 x 1,307 = 802,2 g

Il bilancio dell'animale si chiude con un guadagno di 21,1 g di azoto, equivalenti a

21,1 x 6 = 126,6 g di proteine sintetizzate dall'organismo (per le proteine della carne

il valore medio del coefficiente stechiometrico è 6 anziché 6,25). Queste sostanze

proteiche contengono 126,6 x 0,5254 = 66,5 g di carbonio, che vanno detratti dal

guadagno complessivo di questo elemento; cioè 680,1 - 66,5 = 613,6 sono i grammi

di carbonio fissati nel corpo dell'animale sotto forma di grasso in quanto, le

variazioni del contenuto di glicogeno sono trascurabili se l'animale si trova in

condizioni normali di nutrizione. La quantità di carbonio predetta, moltiplicata per la

costante stechiometrica 1,307, dà infine la quantità di grasso che si è accumulata

nell'organismo del bovino (= 802,1 g).

Il bilancio materiale dell'idrogeno e dell'ossigeno non è generalmente necessario

perché esistono rapporti ben definiti fra il contenuto in N e C degli escreti ed il

contenuto in H e O dei medesimi.

Con i suoi esperimenti, Kellner osservò che: 1 Kg di amido si trasforma in 248 g di

grasso, 1 Kg di proteine in 235 g e 1 Kg di grassi (di semi oleosi) si trasforma in 598

g di grasso. Queste quantità furono definite potere adipogeno delle varie sostanze

nutritive.

Fatto uguale ad 1 il valore adipogeno dell'amido (248 g/Kg, pari a 2.360 Kcal), si

possono ricavare, per rapporto, i diversi equivalenti riferiti alla quota digeribile di:

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Proteine pure 0,94

Grassi dei foraggi 1,91

Grassi di concentrati non oleosi 2,12

Grassi di semi oleosi e derivati 2,41

Carboidrati (fibra grezza + estrattivi inazotati 1,00

di cui va tenuto conto nel calcolo del valore amido teorico di un alimento,

conoscendo il suo contenuto in sostanze nutritive digeribili.

In pratica, considerato il costo energetico del lavoro digestivo ed assimilativo degli

alimenti, il loro potere adipogeno risulta più basso rispetto a quello ricavabile tenuto

conto delle loro sostanze digeribili e del predetto valore adipogeno. Secondo Kellner,

i coefficienti di utilizzazione per i quali moltiplicare i valori amido teorici sono pari

a: 100% o poco meno per i concentrati in genere; 60-90% per i foraggi verdi ed

insilati; 50-80% per i fieni e 20-50% per la paglia. Un modo semplice per trovare il

valore amido reale di un alimento conoscendone la composizione chimica consiste

nel togliere al valore amido teorico una quota ottenuta moltiplicando per i seguenti

coefficienti:

fibra (%) fattore correzione

superiore a 16 0.58 U.A.

16-14 0,53 "

12-14 0,48 "

10-12 0,43 "

8-10 0,38 "

6-8 0,34 "

3-5 0,29 "

Le detrazioni relative a contenuti intermedi di fibra si possono calcolare per

interpolazione lineare, secondo la formula: Df = 0,58 - 0,0242 (16- f) dove con Df è

indicata la detrazione e con f il contenuto percentuale in fibra.

Es.: Calcolare il valore nutritivo reale in unità amido di un'erba fresca (s.s. = 24 Kg)

aventi le seguenti caratteristiche:

Grezzi

g

digeribilità

%

digeribili

g

Protidi 2,40 71 1,70

Lipidi 0,80 50 0,40

Estrat. Inazot. 9,60 66 6,33

Fibra 6,80 43 2,92

Il suo valore nutritivo in unità amido teoriche è pari a:

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Protidi digeribili 1,70 x 0,94 = 1,598

Lipidi digeribili 0,40 x 1,91 = 0,764

Estrat. inazotati 6,33 x 1,00 = 6,330

Fibra digeribile 2,92 x 1,00 = 2,920

Totale 11,612

Da questo bisogna togliere il "coefficiente di utilizzazione" che è uguale:

6,80 (contenuto in fibra) x 0,36 (ricavato dalla formula di cui sopra) = 2,448;

quindi, le unità amido reali saranno 11,612 - 2,448 = 9,164.

Gli incrementi di peso, attribuibili ad un aumento della quantità di depositi adiposi,

trattandosi di animali adulti, fornivano quindi un'indicazione sul valore adipogenetico

delle diverse sostanze alimentari. Le prove di alimentazione con foraggio misero in

luce che, in effetti, era depositata una quantità di grasso inferiore a quella teorica;

questa riduzione risultò direttamente proporzionata al contenuto in fibra grezza, in

quanto tale composto era causa di maggiore lavoro digestivo e di aumento di perdite

dovute all'elevata produzione di gas di fermentazione ruminale.

Gli alimenti furono quindi distinti in due gruppi:

- alimenti a produttività piena, in cui i valori teorici sono molto prossimi a quelli

ottenuti sperimentalmente;

- alimenti a produttività parziale, caratterizzati da valori teorici nettamente superiori

rispetto a quelli reali.

Queste detrazioni, proposte da Kellner, risultarono eccessive finendo per penalizzare

il valore dei foraggi rispetto a quello dei concentrati.

Per quanto concerne il calcolo della digeribilità dei principi alimentari, i dati più

attendibili sono quelli che si ottengono da prove di digeribilità in vivo su animali

(bovini, ovini) appositamente alimentati per tali determinazioni. Tale metodo è però

molto oneroso e di solito ci si avvale dei coefficienti di digeribilità tabulati per i

diversi alimenti (Morrison, INRA, Kellner).

Purtroppo, la maggior parte degli alimenti, per ragioni fisiologiche e di appetibilità,

non possono essere somministrati da soli, ma è necessario ricorrere all’aggiunta di un

alimento base a digeribilità nota. Il successivo calcolo della digeribilità dell’alimento

in studio presuppone che la somministrazione di un alimento unito ad altri non

influisca sulla sua digeribilità e su quella degli altri componenti della razione. Spesso

ciò non è vero: l’aggiunta di concentrati a una dieta basata su foraggi, per esempio

porta, perlopiù, a una riduzione della digeribilità della frazione fibrosa, causa il

rapido attacco della flora microbica sugli estrattivi inazotati dei concentrati con

produzione di acidi grassi volatili (AGV) e conseguente abbassamento del pH che

deprime l’attività dei batteri cellulosolitici. L’effetto opposto si nota quando a un

alimento fibroso (es. paglia) è aggiunto un supplemento proteico che favorisce lo

sviluppo della microflora ruminale. Per meglio chiarire il concetto, riportiamo un

esempio tratto da un lavoro di Malossini e Martilllotti (1972). Si supponga che il

prodotto A presenti un coefficiente di digeribilità (DA) dell’80% e B del 60% e che

A entri nella razione nel rapporto del 35%. In assenza di interazione, la digeribilità

(DT) della miscela A + B è:

DT = (35 x80) + (65 x 60) : 100 = 67%

Se invece l’aggiunta di A deprime la digeribilità di B, in modo che questa scenda, per

es.: al 58%, si ha:

DT = (35 x 80) + (65 x 58) : 100 = 65,7%

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Poiché l’incognita è DA, si ottiene: DA = (100 x (65,7 - 60) : 35) + 60 = 76,3%

La digeribilità di A risulta, quindi, sottostimata. In maniera analoga si incorrerebbe in

un errore di sovrastima nel caso di interazione positiva. In ogni caso, è sempre

preferibile utilizzare i dati dei diversi coefficienti di digeribilità tabulati per i vari

alimenti piuttosto che desumerli dalla tabella Leroy; quest’ultima fornisce i

coefficienti di digeribilità dei vari principi alimentari in funzione del contenuto in

fibra sulla sostanza secca.

Tabella - Coefficienti di digeribilità dei principi alimentari in funzione del tenore in

fibra grezza dei foraggi (da Leroy)

Coefficienti di digeribilità

% fibra sulla

sostanza secca

Protidi Lipidi Estrattivi

inazotati

Fibra

2 83,5 77,5 89,5 78,5

3 82,5 76,5 88,75 77,75

4 81,5 75,5 88 77

5 80,5 74,5 87 76

6 80 73,5 86 75

7 79 72,75 85 74,25

8 78 72 84 73,5

9 77,25 71 83,25 72,5

10 76,5 70 82,5 71,5

11 75,75 69 81,75 70,5

12 75 68 81 69,5

13 74 67,25 80 68,75

14 73 66,5 79 68

15 72,25 65,75 78,25 67,25

16 71,5 65 77,5 66,5

18 69,5 63 75,5 64,5

20 68 61 74 62,5

22 66,5 59,5 72,5 61

24 65 57,5 70,5 59

26 63 56 69 57,5

28 61.5 54 67 55,5

30 60 52,5 65,5 54,5

32 58 50,5 63,5 52,5

34 56 49 62 51

36 55 47,5 60 49,5

38 53 45,5 58,5 47,5

40 51.5 44 56,5 46

42 49,5 42 55 44

44 48 40 53 42

46 46 38,5 51,5 40,5

48 44,5 37 50 39

50 43 35 48 37

Tali coefficienti sono spesso assai approssimativi e penalizzano la digeribilità degli

alimenti ricchi in fibra, senza distinguere di che fibra si tratti (paglia e fettucce di

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bietola hanno fibre ben diverse). Attualmente, le UF alimentari vengono per lo più

calcolate applicando i coefficienti di digeribilità di Leroy.

Per una maggiore comodità di calcolo e per una maggiore precisione in caso di valori

di fibra intermedi a quelli tabulati da Leroy, si riportano le seguenti equazioni

ricavate dalla tabella di Leroy:

1) dPG = (84,8714 - 0,09343 x FG) /100

2) dLG = (78,9 - 0, 088 x FG) /100

3) dFG = (89,2857 - 0,08571) x FG) / 100

4) dEI = (91,3571 - 0,08714 x FG) / 100

(dove FG = g/kg SS)

E' da sottolineare però che l'U.A. assume differenti valori energetici nelle

varie produzioni, nelle diverse specie ed età degli animali e del singolo individuo. Per

effetto della migliore utilizzazione dell'energia metabolizzabile il contenuto

dell'energia netta dell'unità amido è di: 3.100 Kcal per il mantenimento, 2.950 per la

produzione del latte e 2.360 Kcal per l'accrescimento e l'ingrasso. Ciò indica che, il

rendimento dell'energia è maggiore se è utilizzata per il mantenimento e minore se

utilizzata per la produzione della carne. Nelle singole specie la stessa U.A. assume i

seguenti valori:

bovini g 248 di grasso = 2.360 Kcal

ovini g 310 " " = 2.950 "

suini g 367 " " = 3.550 "

conigli g 273 " " = 2.590 "

polli g 252 " " = 2.390 "

In sintesi per calcolare le UA di un alimento o di una razione bisogna effettuare i

seguenti passaggi:

1) determinazione analitica o stima mediante tabelle del contenuto in PG, LG, FG,

ed EI;

2) calcolo dei coefficienti di digeribilità di PG, LG, FG, ed EI;

3) calcolo del contenuto in principi nutritivi digeribili (PD, LD, FD, ed EID)

dell’alimento (es. PD = PG x dPG (g/kg t.q.);

4) calcolo del valore amido lordo (VAL):

PD x coeff. adipogenetico corrispondente = VA delle proteine +

LD x coeff. adipogenetico corrispondente = VA dei lipidi +

FD x coeff. adipogenetico corrispondente = VA della fibra grezza +

EID x coeff. adipogenetico corrispondente = VA degli estrattivi inazotati = VAL

5) calcolo del valore amido netto (VAN) dell’alimento

VAN = VAL - (grammi FG s.t.q. x coefficiente di correzione)

Da esse si possono calcolare le UF:

6) calcolo delle UF dell’alimento UF/kg alimento = VAN x 1,43

eventualmente si può calcolare l’EN dell’alimento:

EN-latte (kJ/kg) = UF x 8054

6.3. Metodo scandinavo o delle unità foraggiere (U.F.)

L'unità foraggiera esprime il valore energetico di 1 Kg di semi di orzo o di 2,5

Kg di fieno normale; corrisponde a circa 2075 Kcal per la produzione del latte (1

U.F. permette la produzione di 3 Kg di latte al 3,4% di grasso) e a 1650 Kcal per la

produzione della carne nei bovini. La determinazione sperimentale delle U.F. fu

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strutturata in modo tale da poter verificare le variazioni della produzione di latte

conseguente all'uso di foraggi diversi. Furono presi più gruppi con almeno sei

animali, omogenei per età, peso vivo, produzione media, epoca di parto, ecc. Tutti i

gruppi sperimentali erano alimentati per 3 settimane con fieno normale,

successivamente nel giro di una settimana l'alimento di base era sostituito con una

quantità identica del foraggio da valutare a tutti i gruppi tranne quello di controllo.

Per circa 4-6 settimane era controllata la produzione di latte. Terminato tale periodo,

agli animali era fornito di nuovo l'alimento di base per altre tre settimane; questa fase

concludeva il ciclo. Es.:

- animali gruppo A (controllo): fieno normale

- animali gruppo B: fieno normale di cui 5 Kg sostituiti con 5 Kg di fieno di erbaio

- animali gruppo C: fieno normale di cui 5 Kg sostituiti con fieno di trifoglio;

Il foraggio fornito al gruppo B determina un aumento di 0,65 Kg di latte rispetto al

controllo. Considerando che 5 Kg di fieno normale forniscono 2 U.F. (1 U.F. = 2,5

Kg di fieno normale) si ha che il valore energetico di 5 Kg di fieno di erbaio è: 2 U.F.

+ 0,65/3 Kg (si divide per tre in quanto 1 U.F. permette la produzione di tre litri di

latte) = 2,22 U.F. per cui 1 Kg di fieno di erbaio contiene 0,44 U.F (2.22 U.F. : 5 Kg).

E' possibile la conversione delle U.A. in U.F. e viceversa: 1 U.A. = 1,43 U.F = 2360

Kcal mentre 1 U.F. = 0,70 U.A. = 1650 Kcal.

Questi coefficienti permettono di ricavare le U.F. di un alimento qualsiasi partendo

dalla sua composizione chimica dopo aver ricavato le U.A. reali; permette, inoltre, di

legare questa unità di misura allo schema analitico Wende.

Questi metodi di razionamento hanno dei limiti. Il valore nutritivo in U.F.,

rappresentando una stima dell'energia netta dell'alimento per il mantenimento e la

produzione del latte (l'unità amido invece rappresenta una stima dell'energia netta di

un alimento per la sintesi e la deposizione del grasso) diviene inadatto per la stima

dell'energia netta per il mantenimento e l'accrescimento. Difatti, mentre 1 Kg di orzo

somministrato ad animali in lattazione permette la produzione di 2,33 l di latte al 4%

di grasso e quindi corrisponde a 1730 Kcal (2100 per 3 litri al 3,4%), se invece è

somministrato ad animali in accrescimento e all'ingrasso è in grado di fornire 1850

Kcal per il mantenimento e l'accrescimento.

6.4. Metodo delle U.F. latte e carne

In Italia la commissione ASPA (Associazione Scientifica di Produzione

Animale) ha suggerito che le attuali U.F. dovrebbero essere sostituite con quelle

francesi: U.F. latte (U.F.L.) e U.F. carne (U.F.C.), per le notevoli somiglianze di

sistema agricolo, condizioni climatiche e vicinanza genetica fra le razze allevate. Il

sistema delle U.F. francesi è legato a quello delle U.F. di cui conserva i seguenti

parametri:

- l'espressione dell'energia come energia netta (E.N.);

- la conversione in U.F. che equivale all'energia netta di un Kg di semi di orzo

contenente l'86% di sostanza secca e 2720 Kcal di energia metabolizzabile;

- le procedure analitiche nel calcolo dell'energia netta a partire da quella digeribile

passando attraverso l'energia metabolizzabile.

Il metodo si basa sul rendimento di utilizzazione dell'energia netta rispetto all'energia

metabolizzabile (K = E.N./ E.M.) che risulta decrescente, rispettivamente, per il

mantenimento, la lattazione e l'accrescimento. Il rendimento di utilizzazione

dell'E.M. (K) è:

- mantenimento Km = 0,78

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- produzione latte Kl = 0,64

- ingrasso o accrescimento Kia = 0,55.

Inoltre, le differenze aumentano con la diminuzione della concentrazione energetica

delle razioni. In funzione della produzione richiesta i valori energetici sono espressi

in:

- U.F.L. per femmine in lattazione, in gestazione in asciutta e per animali con crescita

moderata (< 750 g al giorno di accrescimento)

- U.F.C. per animali con forte accrescimento o all'ingrasso.

Le differenze fra i valori in UFL e UFC di uno stesso alimento sono minime per gli

alimenti concentrati e maggiori per i foraggi in cui variano in funzione della

diminuzione della digeribilità. Questo sistema è basato su una struttura fisiologica

definitiva, ma nuovi dati dovuti ad ulteriori verifiche possono essere inseriti senza

difficoltà.

Determinazione schematica dell’UFL e dell’UFC (da Tisserand)

1 Kg di orzo in granella (86 % SS)

EL

3.800 Kcal

utilizzazione 84,7%

ED

3.220 Kcal

utilizzazione 84,5%

EM

2.721 Kcal

kl = 0,636

Km kf

kmf 0,681

EN l EN m EN c

2,33 l di latte km/kl = 1,2 2/3 1/3 LPA = 1,5

1 UFL = 1.730 Kcal 1 UFC = 1.855 Kcal

LPA = livello produttivo animale

Per chiarire il metodo francese delle nuove unità foraggere bisogna tenere conto che

l’energia metabolizzabile (E.M.) messa a disposizione dell’organismo animale è

utilizzata secondo un coefficiente di utilizzazione K che varia in funzione della

digeribilità dell’alimento e del rapporto q tra i contenuti di E.M. e di E.L., e

soprattutto in funzione della specie animale e del tipo di utilizzazione

(mantenimento, accrescimento, ingrasso, lattazione). Difatti, l’energia netta che ne

deriva è:

E.N. = E.M. x (E.M. / E.L. + K) = E.M. x (q + K)

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Il coefficiente di utilizzazione o rendimento K, ancora poco conosciuto per i suini e

per i volatili è per gli stessi elevato e relativamente stabile. Per i ruminanti invece,

varia più o meno intensamente dato che dipende:

- sia dalla composizione degli alimenti (contenuto in fibra grezza e di protidi grezzi)

in funzione del rapporto q tra E.M. e E.L.

- sia dal rendimento ricavabile dalla trasformazione dell'E.M. in E.N., che è più

elevato per il mantenimento (0,67-0,75) che per la lattazione (0,58-0,62) e per

l’ingrasso (0,32-0,55). Quindi, per i ruminanti si hanno differenti valori del

coefficiente di utilizzazione o rendimento K. Rendimenti che si esprimono in

funzione del rapporto q = E.M. /E.L. e secondo le seguenti equazioni:

Km = 0,287 (q + 0,0554)

Kl = 0,240 (q x 0,57) + 0,60

Kf (ingrasso) = 0,780 (q + 0,006)

Nel caso della produzione di latte, esiste un rapporto costante tra Km e Kl che è

uguale a 1,20 per cui è anche possibile prendere come unità di misura il valore in

E.N. dell’orzo. Così l’U.F. latte proposta dalla scuola francese corrisponde a 1730

Kcal di latte prodotto al 4% di grasso (cioè 2,33 Kg di latte). Per la produzione della

carne, non essendovi rapporto costante tra Km e Kia, quando si abbia un livello

produttivo pari a 1,5 si può considerare che l’E.N. sia utilizzata per i 2/3 per il

mantenimento e per 1/3 per la produzione della carne. Così l’U.F. carne corrisponde

a 1855 Kcal.

In media, per gli alimenti in genere, kia, km e kl stanno nel rapporto 1,0 : 1,30 : 1,25.

Così se un animale richiede 30 MJ (cioè 3 kg di amido equivalenti) per il

mantenimento, questo valore va diviso per 1,30 per esprimerlo in termini di energia

netta per l’ingrasso (23 MJ 0 2,3 kg di amido equivalenti) ed analoga è la procedura

per adattare il fabbisogno energetico per la produzione del latte. Ma va tenuto

presente che i rapporti variano notevolmente da un alimento all’altro; ad esempio, il

rapporto km : kia è più ampio per gli alimenti più grossolani

6.5. Metodo dell’E.M. attraverso il calcolo del T.D.N. -

La conoscenza del contenuto in sostanze nutritive digeribili di un alimento

(cioè del total digestible nutrients o T.D.N.) espresso come percentuale e calcolato

secondo la formula:

T.D.N. = (% proteine digeribili x 1 + % estrattivi inazotati digeribili x 1 + % fibra

grezza digeribile x 1 + % lipidi digeribili x 2,25) non è elemento sufficiente per

valutare il valore nutritivo dell’alimento stesso, infatti, oltre che trascurare le perdite

che si hanno per la perdita dell’utilizzo della dieta alimentare, con il T.D.N. si

attribuisce ai principi digeribili il medesimo valore nutritivo qualunque sia la natura

degli alimenti nei quali sono contenuti. Si pensi, ad esempio, alla paglia che per avere

lo stesso valore nutritivo di un Kg di orzo ne occorrono 3,33 Kg, mentre il rapporto

tra i due T.D.N. è appena di 1,85 (che è anche il rapporto dell'E.M. dei due alimenti).

Per questo, il valore in T.D.N. è utilizzato soprattutto per la determinazione dell'E.M.

degli alimenti (e per polli e suini, delle razioni loro destinate).

E’ stato valutato che 1 Kg di T.D.N. fornisce: 4000 Kcal se utilizzato dai

monogastrici e vitelli allattanti e 3600 Kcal se utilizzato dai ruminanti; si può quindi

esprimere con sufficiente approssimazione, conoscendo il T.D.N., l'E.M. stimando

4,1 Kcal/g per vitelli non svezzati, suini e altri monogastrici e 3,65 Kcal/g per i

ruminanti. L’unità di misura dell'E.M. è lo Joule, ma poiché essa è un’entità molto

piccola si preferisce il mega Joule (MJ = 106J = 239 Kcal).

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147

Rendimento dell’utilizzazione dell’energia metabolizzabile nei ruminanti per il

mantenimento, l’accrescimento e la produzione di latte

Metabolizzabilità (qm) 0,4 0,5 0,6 0,7

Energia metabolizzabile (MJ/kg S.S.) 7,4 9,2 11.0 12,9

Mantenimento (km) 0,643 0,678 0,714 0,750

Accrescimento e ingrasso (kf) 0,318 0,396 0,474 0,552

Lattazione (kl) 0,560 0,595 0,630 0,665

Equazioni: km = 0,35qm + 0,503; kf = 0,78qm + 0,006; kl = 0,35qm + 0,420

Il sistema di valutazione dell’energia attualmente usato in Inghilterra per i ruminanti

è quello descritto da Blaxter (1965), nel quale il valore energetico degli alimenti è

espresso in termini di energia metabolizzabile ed il valore in energia metabolizzabile

di una razione è calcolato addizionando i contributi energetici dei singoli alimenti

che la compongono e i fabbisogni energetici degli animali sono espressi in termini

assoluti, come energia netta. La caratteristica essenziale dell’interfaccia è

rappresentata da una serie di equazioni che consentono di prevedere il rendimento

dell’energia metabolizzabile per il mantenimento e per la produzione della carne e

del latte.

a) prevedere l’incremento ponderale di un manzo all’ingrasso del peso di 300 kg e

che riceve 4,5 kg di fieno (4 kg di SS)/d e 2,2 kg di mais in granella (2,0 kg SS)

Animale Alimento tal

quale

kg di

SS

Energia metabolizzabile (EM)

MJ/kg SS MJ/giorno

Manzo di 300 kg fieno 4,5 kg 4 8 32

mais 2,2 kg 2 14 28

totale 6 22 60

EM/kg SS = 60/6 = 10 MJ

Metabolizzabilità = 10/18,4 = 0,54 (qm)

Km = 0,692; Kf = 0,427

Fabbisogno giornaliero di mantenimento = 23 MJ energia netta (EN)

Fabbisogno in energia metabolizzabile = 23/0,692 = 33 MJ

Energia fornita oltre il mantenimento = 60 - 33 = 27 MJ

Energia utilizzata per l’incremento in peso = 27 x 0,427 = 11,5 MJ

Contenuto (presunto) per kg di peso vivo = 15 MJ

Incremento in peso del manzo = 11,5/15 = 0,77 kg/giorno

Le previsioni sono fatte tenendo conto della concentrazione di energia

metabolizzabile nella dieta, sebbene questa sia espressa come rapporto fra energia

metabolizzabile (EM) ed energia lorda (EL) e non come MJ/kg; questo rapporto

EM/EL da alcuni è chiamato metabolizzabilità.

La metabolizzabilità può essere convertita in MJ EM/kg S.S., moltiplicandola per

18,4, concentrazione media dell’energia lorda nella sostanza secca dell’alimento.

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Anche se km e kl presentano variazioni con il variare della metabolizzabilità (qm),

queste variazioni sono molto più piccole rispetto a quelle di kia per il quale per

alimenti poveri di (qm = 0,4) è solo il 50% di km, mentre per alimenti ricchi (qm = 0,7)

kf è il 74% di km

b) un manzo di 300 kg che si deve accrescere di 770 g al giorno, oltre che di 3 kg di

fieno di quanto mais ha bisogno?

- si calcola prima quanta energia è necessaria per l’aumento di 0,770 kg al giorno;

0,77 x 15 = 11,55 MJ

- questo valore bisogna convertirlo in energia metabolizzabile e ciò sembra

impossibile visto che bisogna conoscere Kf e noi non possiamo determinarlo in

quanto non conosciamo la concentrazione in EM della dieta, che non abbiamo ancora

definito; allora bisogna lavorare in termini di energia netta e modificare l’interfaccia

fra fabbisogno del bovino allo studio e apporto di alimento:

a) fabbisogno bovino = (23 MJ per il mantenimento + 11,55 MJ per l’aumento in

peso) = 34,55 MJ

b) interfaccia: si adatta un valore del rendimento dell’EM per il mantenimento e la

produzione (Kmp)

c) il rendimento, per qualsiasi tipo di alimento, dipende dalle quote di EN necessarie

rispettivamente per il mantenimento e la produzione

d) le quote suddette variano con il livello produttivo dell’animale (LPA):

LPA = (ENm + ENp)/ENm = 23 + 11,55/23 = 1,50

e) la formula per ottenere Kmp è: Kmp = (ENm + ENp)/(ENm/Km + ENp/Kf) che

espressa in termini di LPA diventa: Kmp = LPA/(1/Km + (LPA - 1)/Kp)

f) a questo punto si calcola l’energia netta del fieno (EM/kg SS = 8MJ; qm = 0,43):

dalle equazioni precedentemente riportate risulta che Km = 0,654 e Kp = 0,348 e

quindi Kmp sarà uguale a 1,50/ (1/0,654 + (1,50-1)/0,348) = 0,506 e ENmp sarà = 8 x

0,506 = 4,05 MJ/kg SS

g) si calcola l’energia netta del mais (EM/kg SS = 14MJ; qm = 0,76) per il quale Km =

0,77 e Kf = 0,60

Kmp = 1,50/(1/0,77 + (1,50 -1 )/0,60) = 0,70

ENmp = 14 x 0,70 = 9,8 MJ/kg SS

h) considerato che 3 kg di fieno (2,7 kg SS) = 10,94 MJ EN/giorno, il mais dovrà

apportare 34,55 - 10,94 = 23,61 MJ EN/giorno

i) calcolo quantità mais necessaria = 23,61:9,85 = 2,40 kg SS o 2,70 kg mais tal quale

l) infine possiamo stabilire la razione giornaliera del manzo = 3 kg di fieno + 2,7 kg

di mais

c) calcolare il fabbisogno energetico di una bovina di 500 kg che produce 20

kg/giorno di latte al 4% di grasso e definire quanta SS deve ingerire l’animale

considerando che la concentrazione, per l’alimento considerato è di 11 MJ/kg SS

Come detto in precedenza il rendimento dell’energia metabolizzabile per la

produzione del latte (Kl) varia con MJ EM/kg SS e quindi per un razionamento

accurato bisognerebbe fare gli stessi calcoli riportati per i bovini da carne;

considerando, però, che la concentrazione in energia metabolizzabile delle diete per

bovine da latte, rispetto a quelle per bovini da carne, non presenta un’elevata

variabilità si adottano valori relativamente costanti per Km (0,72) e Kl (0,62). Invece,

i calcoli del razionamento delle lattifere spesso sono complicati in quanto la lattifera

può perdere (soprattutto nelle prime fasi della lattazione) o acquistare (alla fine della

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lattazione) peso. Se la vacca aumenta di peso il suo fabbisogno deve essere

considerato come la somma del mantenimento, della produzione di latte e la

produzione di grasso; mentre se perde peso bisogna considerare il contributo dato

dalle riserve di grasso per il mantenimento e la produzione di latte. Peraltro, così

come avviene per i ruminanti in accrescimento, anche per i bovini da latte bisogna

considerare dei fattori di correzione che tengano conto della riduzione dell’energia

metabolizzabile degli alimenti in funzione del livello alimentare. Fatte queste

precisazioni calcoliamo il fabbisogno energetico della bovina in questione:

Fabbisogno di mantenimento = 34 MJ di EN quindi 34/0,72 = 47 MJ EM/giorno

Fabbisogno per la produzione di un kg di latte = 3,13/0,62 = 5,05 MJ EM/kg

Fabbisogno per la produzione di 20 kg di latte = 5,05 x 20 = 101 MJ EM

Fabbisogno energetico totale della bovina = 47 + 101 = 148 MJ EM

Sostanza secca occorrente = 148/11 = 13,5 kg/giorno

6.6. Metodo della energia netta

Questo metodo (Armsby) è stato studiato misurando il metabolismo

energetico (E) dell’animale corrispondente ad una razione di base e quello (E1)

dovuto alla somministrazione aggiuntiva di una quantità nota (t) dell’alimento in

esame: E.N. = Mt - (E1 - E) dove Mt = energia metabolizzabile della quantità t di

alimento e (E1 - E) = incremento metabolico. Quest’ultimo dato esprime la differenza

fra il calore prodotto dalla razione di base addizionata della quota di alimento in

esame e quello dovuto al solo alimento di base. L’autore riprese ed ampliò le ricerche

di Kellner introducendo il concetto secondo il quale contrariamente a quanto fino ad

allora ritenuto, la quota di energia non utilizzata non era dovuta solo alla frazione

alimentare non digerita ma anche all’incremento metabolico o extracalore cui

l’animale va incontro a seguito della somministrazione dell’alimento in più.

L’incremento metabolico varia proporzionalmente alla sostanza secca della razione e

a seconda della natura dell’alimento.

L’energia metabolizzabile assume i seguenti valori:

- foraggi grossolani 3500 Kcal/kg di T.D.N. o 3,5 Mcal

- alimenti concentrati con meno del 5% di grassi digeribili 3900 Kcal/kg di T.D.N. o

3,9 Mcal

- alimenti concentrati con più del 5% di grassi digeribili 4000 Kcal/kg di T.D.N. o

4,0 Mcal.

Le stesse prove fornirono coefficienti di valore compreso fra 0,78 e 1,43 che,

moltiplicati per il contenuto di sostanza secca dei vari alimenti presenti nella razione

permettono la determinazione dell’incremento metabolico.

I coefficienti di conversione dell’energia netta nelle altre unità di misura del valore

energetico sono :

1000 Kcal = 0,605 U.F. = 0,423 U.A.

1 U.A. = 1,43 U.F. = 2360 Kcal

1 U.F. = 0,70 U.A. = 1650 Kcal

Il metodo dell’energia netta ha avuto scarsa diffusione perché l’energia netta varia in

funzione di numerosi parametri quali la composizione degli alimenti e le

caratteristiche degli animali.

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6.7. Previsione del contenuto energetico degli alimenti

La precisione di un sistema di razionamento dipende dall’accuratezza con cui

si riesce a valutare il contenuto energetico dei singoli alimenti o della razione. Il

contenuto energetico si può valutare ricorrendo o alle tabelle o all’analisi chimica

degli alimenti oppure alla valutazione della digeribilità attraverso la fermentazione in

vitro. Peraltro, molti Paesi obbligano i produttori di mangimi a dichiarare il

contenuto energetico del mangime (soprattutto energia metabolizzabile) e, quindi, si

rendono necessari metodi semplici per determinare l’energia stessa. In Inghilterra, il

contenuto energetico dei mangimi destinati ai polli, suini e ruminanti è determinato

usando le seguenti equazioni:

a) polli: EM apparente (MJ/kg) = 0,034 EE + 0,0165 PG + 0,0172 AM + 0,0158

ZUC; l’equazione si basa su fattori che riguardano i singoli principi alimentari, ad

esempio, il fattore per l’estratto etereo sta a significare che 0,0345/0,0393 = 0,88

dell’energia lorda dell’estratto etereo degli alimenti per polli è metabolizzabile;

b) suini: ED (MJ/kg) = 17,38 + 0,0105 PG + 0,0114 EE - 0,0317 FG - 0,0402 CT;

l’equazione parte da un valore costante che si corregge maggiorandolo, in funzione

del contenuto del mangime in estratto etereo ed in proteine grezze, e diminuendolo,

in base al contenuto in fibra grezza e ceneri;

c) ruminanti: EM (MJ/kg SS) = 11,78 + 0,00654 PG + 0,000665 EE2 - (0,00414

EE x FG) - 0,0118 CT; anche in questo caso si parte da un valore costante che è

adattato in base al contenuto proteico ed in ceneri del mangime, ma il plusvalore

dovuto al contenuto in estratto etereo è ridotto per tenere conto dell’interazione fra

contenuto lipidico e fibra grezza, cioè per tenere conto che l’estratto etereo deprime

la digeribilità della fibra a livello ruminale.

EE = estratto etereo, PG = proteine grezze; AM = amido; ZUC = zuccheri; FG =

fibra grezza; CT = ceneri totali (tutti espressi in g/kg SS)

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151

CAP. VII. SISTEMI DI VALUTAZIONE DELLE PROTEINE

7.1. Valutazione nei monogastrici

Nei monogastrici, il problema della valutazione quanti-qualitativa delle proteine

da somministrare è stato risolto da molto tempo e per ogni specie e categoria di

animale sono stati definiti i fabbisogni relativi alla proteina grezza e digeribile e ai

singoli aminoacidi essenziali e nello stesso tempo per ogni alimento sono stati

determinati gli apporti proteici e aminoacidici.

Il rendimento con cui le proteine assorbite sono utilizzate dall’organismo differisce

molto da una proteina all’altra. Ciò ha indotto a studiare metodi di valutazione delle

proteine basati sulla risposta dell’animale alla proteina considerata. Fra questi ne

riassumiamo qualcuno:

a) coefficiente di efficienza proteica (CEP): si può definire come l’incremento in

peso di una ratto per unità di peso della proteina ingerita:

CEP = incremento in peso (g)/proteina consumata (g).

Il CEP varia con l’età e il sesso degli animali, con la durata del periodo sperimentale

(in genere 4 settimane) e con il livello proteico della dieta (generalmente 100 g/kg di

alimento). I valori di CEP in genere sono stabiliti facendo il paragone con una

caseina standard con un determinato CEP. Una modifica di questo metodo consiste

nel confrontare il guadagno di peso del gruppo sperimentale (a) e la perdita di peso

del gruppo con dieta aproteica (b) per valutarne la ritenzione proteica netta (RPN)

così calcolata:

RPN = (guadagno di peso del gruppo a - perdita di peso del gruppo b)/g di

proteina consumata. b) valore proteico grezzo (VPG): sono confrontati gli incrementi in peso di pulcini

alimentati con una dieta base contenente 80 g di proteina grezza per kg con quelli di

un altro gruppo dove la stessa dieta è stata addizionata con 30 g/kg della proteina in

esame e con quelli di un 3° gruppo ricevente la dieta base arricchita di 30 g/kg di

caseina. Il VPG della proteina in esame è ottenuto dal rapporto fra il maggior

incremento in peso del gruppo a) che l’ha ricevuta e il maggior incremento di peso

del gruppo b) che ha ricevuto la caseina:

VPG = incremento in peso del gruppo a/incremento in peso del gruppo b.

Le determinazioni di CEP, RPN e VPG oltre che essere dispendiose in termini di

moneta (servono molti animali) e personale tecnico (rilievi giornalieri per ogni

singolo animale), hanno il difetto di basarsi sull’incremento ponderale che potrebbe

non essere in rapporto con la proteina allo studio. Una più accurata valutazione delle

proteine può essere fatta prendendo in considerazione il bilancio dell’azoto, dove è

misurato sia l’azoto ingerito che quello eliminato con le feci e le urine e con

eventuali prodotti contenenti azoto (latte, lana, uova).

Si possono avere tre possibilità: a) animali in equilibrio di azoto: N ingerito = N

eliminato; b) bilancio di azoto positivo (come nell’esempio): N ingerito > N

eliminato; c) bilancio di azoto negativo: N ingerito < N eliminato

c) valore di sostituzione delle proteine (VSP): valuta la capacità di una determinata

proteina a realizzare lo stesso bilancio di azoto ottenibile con la stessa quantità di una

proteina standard (proteina dell’uovo o del latte); sono fatte due prove di bilancio

dell’azoto: una con la proteina da testare e l’altra con la proteina standard e VSP sarà

uguale:

VPS = (bilancio N proteina standard - bilancio N proteina da testare) / N

ingerito

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Il VSP misura il rendimento con cui l’animale utilizza una determinata proteina, altri

metodi misurano l’utilizzazione della proteina digerita e assorbita.

Bilancio dell’azoto in un suino Hampshire del peso vivo di 42 kg alimentato

con una razione contenente farina di soia come fonte proteica

Quantità (g) giornalmente

Azoto Ingerite eliminate

nell’alimento

nelle feci

nelle urine

trattenuto

19,82

-

-

-

-

2,02

7,03

10,77

19,82 19,82

Bilancio positivo = + 10,77 g/giorno

d) valore biologico (VB): stabilisce in che misura una proteina è utilizzata

dall’animale per la sintesi di componenti azotati dell’organismo e può definirsi come

la quantità di azoto assorbita che è ritenuta dall’animale. Dopo aver determinato il

bilancio dell’azoto i dati ottenuti si usano per calcolare il valore biologico:

VB = (N ingerito - (N fecale + N urinario))/(N ingerito - N fecale).

Considerando che parte dell’azoto delle feci e delle urine non proviene dall’alimento

ma proviene dal rinnovo di varie strutture proteiche e secrezioni la formula su

riportata andrebbe corretta per la quota di azoto fecale metabolico (NFM) e

dell’azoto urinario endogeno e quindi:

VB = (N ingerito - ((N fecale - NFM)- (N urinario - NUE))/((N ingerito - (N fecale -

NFM)).

Per determinare il valore biologico:

a) il maggior apporto proteico deve essere rappresentato dalla proteina in esame;

b) la quantità ingerita deve consentire un’adeguata ritenzione di azoto (se la quantità

di proteina ingerita è elevata si ha catabolismo di aminoacidi che porta a sottostimare

il VB;

c) anche i principi alimentari inazotati devono essere adeguati, altrimenti l’animale

per coprire le esigenze energetiche catabolizza le proteine;

d) la dieta deve essere adeguata per tutti gli altri aspetti.

Calcolo del V.B. di una proteina per il mantenimento e la crescita del ratto

Alimento consumato giornalmente (g)

% azoto nell’alimento

mg di azoto ingeriti giornalmente

Azoto totale escreto giornalmente con le urine (mg)

Azoto endogeno escreto giornalmente con le urine (mg)

Azoto totale escreto giornalmente con le feci (mg)

Azoto fecale metabolico escreto giornalmente (mg)

6,00

1,043

62,6

32,8

22,0

20,9

10,7

VB = (62,6 - (20,9 - 10,7) - (32,8 - 22,0)) : ((62,6 - (20,9 - 10,7)) = 0,79

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V.B. delle proteine di vari alimenti per il mantenimento e l’accrescimento di

giovani suini

Alimenti VB

Latte

Farina di pesce

Farina di soia

Farina di seme di cotone

Farina di seme di lino

Mais

Orzo

Piselli

0,95-0,97

0,74-0,89

0,63-0,76

0,63

0,61

0,49-0,61

0,57-0,71

0,62-0,65

I VB riportati nella tabella si riferiscono al mantenimento e all’accrescimento. Per il

solo mantenimento il VB può essere calcolato dal bilancio dell’azoto; al di sotto delle

condizioni di equilibrio dell’azoto, esiste un rapporto lineare fra N ingerito e bilancio

dell’azoto che è rappresentato dall’equazione: y = bx - a dove:

y = bilancio dell’azoto;

x = azoto assorbito;

a = perdita azoto a digiuno proteico;

b = frazione dell’azoto assorbito che è trattenuta nell’organismo ed è uguale al VB

per il mantenimento.

L’utilità di una proteina per l’animale dipende dalla sua digeribilità e dal VB; il

prodotto di questi due valori è definito utilizzazione netta della proteina (UNP),

mentre, il prodotto fra UNP e la % di proteine grezze presenti nell’alimento

rappresenta il valore proteico netto (VPN) e dà la misura della quota proteica

effettivamente metabolizzabile. Il VB di una proteina dipende dal numero e dal tipo

di aminoacidi presenti nella sua molecola e sarà tanto più elevato quanto più la

composizione della proteina alimentare si avvicina a quella che l’organismo deve

sintetizzare. In genere, le proteine che presentano una carenza o un eccesso di un

particolare aminoacido hanno un basso VB. Considerato che esiste un’azione

complementare tra le proteine le diete contenenti diverse proteine hanno spesso un

VB maggiore di quelle che ne contengono poche. Tra le proteine animali e vegetali

sono le prime ad avere un maggior VB ad eccezione, ad esempio, della gelatina che è

carente in diversi aminoacidi indispensabili. La composizione aminoacidica della

proteina che deve essere sintetizzata varia notevolmente con la specie animale e con

le prestazioni produttive.

Per una normale crescita del ratto, del suino, del pulcino, ad esempio, lisina,

triptofano, istidina metionina, fenilalanina, leucina, isoleucina, treonina, valina ed

arginina sono aminoacidi essenziali. Per l’uomo l’istidina non è indispensabile e per

il pulcino e necessaria anche la glicina e la prolina. Alcuni aminoacidi in parte

possono essere sostituiti da altri come osservato per la metionina che può essere

parzialmente sostituita dalla cistina e la tirosina dalla fenilalanina.

Oggi ci sono tecniche veloci e convenienti per valutare la composizione in

aminoacidi delle proteine.

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7.2. Valutazione nei poligastrici

Nei poligastrici, a causa della mediazione del rumine, il problema della

valutazione qualitativa delle proteine è più complesso. Fino a poco tempo fa, il

metodo della proteina grezza (PG = N x 6,25) era il solo impiegato per quantificare il

contenuto proteico degli alimenti e i fabbisogni dei ruminanti. Questo sistema non

fornisce alcuna indicazione circa la reale composizione della frazione azotata degli

alimenti, né sulla digeribilità, né tantomeno sulle trasformazioni operate dalla

microflora ruminale. Per un certo tempo si è utilizzato, anche, il sistema delle

proteine digeribili (PD) il quale si basa sul calcolo della digeribilità dell’N x 6,25

nell’intero tratto digerente, ottenuta come bilancio fra quantità ingerita e quantità

escreta con le feci. Le PD non si sono però dimostrate un’unità di misura

soddisfacente per il razionamento dei ruminanti le cui diete si basano soprattutto su

foraggi nei quali il valore N x 6,25 e in PD è notevolmente superiore al reale

contenuto in aminoacidi. Fra l’altro, la maggior parte dell’azoto aminoacidico

ingerito con gli alimenti non è utilizzato direttamente come tale dal ruminante ma va

incontro a degradazioni e riconversioni ad opera della popolazione microbica

ruminale e, quindi, il termine “digeribili” appare non esatto. Pertanto, sono stati

messi a punto altri metodi per valutare le proteine fra cui:

a) il sistema francese delle proteine digeribili nell’intestino (PDI);

b) il sistema americano delle proteine assorbite nell’intestino (AP);

c) il sistema Cornell (Cornell Net Carbohydrate & Protein System)

7.2.1. Sistema francese

Il sistema francese si propone di determinare il valore azotato di ogni alimento in

termini di quantità di aminoacidi realmente assorbiti nell’intestino tenue, siano essi

derivanti dalle proteine alimentari non degradati nel rumine che derivanti dalla

proteina della massa microbica prodotta nel rumine. Secondo il sistema francese, le

PDI possono essere PDIN o PDIE a seconda che il fattore limitante per la sintesi

microbica ruminale sia l’azoto degradabile o l’energia fermentescibile,

rispettivamente. Comunque, le PDI sono costituite da due componenti:

a) le PDIA che rappresentano gli aminoacidi assorbiti nell’intestino provenienti dalle

proteine alimentari non degradate nel rumine;

b) le PDIM che rappresentano gli aminoacidi assorbiti nell’intestino provenienti dalla

proteina di cui è costituita la massa microbica ruminale. Poiché, la popolazione

microbica si sviluppa in funzione dell’azoto e dell’energia disponibili a livello

ruminale, le PDIM possono essere PDIMN o PDIME a seconda che il fattore

limitante per la sintesi microbica ruminale sia l’azoto degradabile o l’energia

fermentescibile, rispettivamente. Il ragionamento fatto è il seguente: se un alimento è

somministrato da solo, il suo valore in PDIM è determinato dalla sua caratteristica

che maggiormente limita la proteosintesi microbica. Sarebbe, quindi, il PDIMN per i

cereali i quali forniscono più energia che azoto alla popolazione ruminale; sarebbe,

invece, il PDIME per le farine proteiche nelle quali l’azoto degradabile è

predominante rispetto all’energia che i microrganismi del rumine possono utilizzare.

Invece, quando l’alimento è un componente di una razione mista il suo contributo

alla proteosintesi ruminale può aumentare grazie all’azione complementare svolta

dagli altri ingredienti della razione. Così, ogni alimento è caratterizzato da un tenore

in PDIN e da uno in PDIE: il più basso dei due indica il valore azotato minimo

dell’alimento, il più alto indica il valore azotato potenziale, cioè quello

potenzialmente raggiungibile con opportune associazioni. Quando si adotta il sistema

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PDI si devono sommare da un lato i valori di PDIN e dall’altro quelli di PDIE dei

vari alimenti compresi nella razione; si otterranno così due valori totali di PDIN e

PDIE: l’apporto di PDI della razione sarà dato dal più basso di questi due valori. In

una razione ben formulata i valori di PDIN e PDIE sono pressoché uguali e siamo

nella situazione di equilibrio tra energia ed azoto nella razione. Lo scarto tra i due

valori non dovrebbe superare i 200 g in vacche ad elevata produzione di latte.

Comunque, un deficit delle PDIN rispetto alle PDIE di 8 g/UFL sarebbe compensato

dall’urea endogena riciclata.

Per il calcolo delle PDI degli alimenti, la scuola francese ha considerato quattro

caratteristiche degli alimenti stessi:

1) il contenuto in proteine grezze (PG) o meglio in sostanze azotate totali;

2) la degradabilità teorica (DT) dell’azoto ottenuta mediante nylon bags posti nel

rumine di vacche fistolate. La cinetica di degradazione delle sostanze azotate è

valutata a partire da misure effettuate dopo un tempo di permanenza di 2-4-8-16-24-

48 ore. Tali registrazioni consentono di calcolare la DT che è quella ottenuta con un

tasso di passaggio delle particelle del 6% all’ora. In realtà, si è visto che il valore

teorico DT sovrastima la degradabilità reale delle proteine degli alimenti; questa

discrepanza può essere corretta moltiplicando la quota proteica non degradata per il

coefficiente 1,11;

3) la digeribilità reale nell’intestino (dr) delle proteine alimentari non degradate nel

rumine;

4) il contenuto in sostanza organica fermentescibile (SOF) ricavata dal tenore in

sostanza organica digeribile (SOD) e dalla composizione chimica dell’alimento

stesso.

Ai fini pratici il valore delle PDI degli alimenti è calcolato applicando le seguenti

formule:

1) PDIA (g/kg SS) = (N x 6,25) x 1,11 x (1- DT) x dr dove:

PDIA = proteine digeribili nell’intestino di origine alimentare;

(N x 6,25) = sostanze azotate totali dell’alimento;

1,11 = fattore di correzione della DT;

(1 - DT) = quota proteica by-pass;

dr = coefficiente di digeribilità reale nell’intestino delle proteine non degradate nel

rumine;

2) PDIME (g/kg SS) = SOF x 0,145 x 0,8 x 0,8 dove:

PDIME = proteine digeribili nell’intestino di origine microbica quando il fattore

limitante è l’energia fermentescibile;

SOF = sostanza organica fermentescibile, data dalla SOD (sostanza organica

digeribile) meno i lipidi, le proteine grezze non degradabili e, per gli insilati, gli acidi

grassi volatili, l’acido lattico e gli alcoli;

0,145 = coefficiente per il calcolo delle quantità di proteina microbica sintetizzata

fissata in 145 g/kg di SOF;

0,8 = proporzione di azoto aminoacidico presente nella proteina batterica;

0,8 = coefficiente di digeribilità intestinale della proteina batterica;

3) PDIMN (g/kg SS) = (N x 6,25) - 1 - 1,11 x (1- DT) x 0,9 x 0,8 x 0,8 dove:

PDIMN = proteine digeribili nell’intestino di origine microbica quando il fattore

limitante è l’azoto degradabile;

(N x 6,25) = sostanze azotate totali presenti nell’alimento;

1 - 1,11 x (1- DT) = quota proteica alimentare degradabile;

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0,9 = coefficiente di captazione dell’azoto alimentare degradabile da parte dei

microrganismi ruminali;

0,8 = proporzione di azoto aminoacidico presente nella proteina batterica;

0,8 = coefficiente di digeribilità intestinale della proteina batterica.

Ad esempio volendo considerare una farina di estrazione di soia contenente il 55% di

proteina grezza sulla S.S., con degradabilità pari al 62% e la digeribilità post-

ruminale pari al 80% si ha:

PDIA= 55 x (1 - 0,62) x 0,90 = 18,8 = 188 g /Kg S.S.

PDIMN; assumendo:

a) frazione di proteina grezza degradata = 55%

b) efficienza di incorporazione dell’azoto ammoniacale (da essa liberato) nella

proteina microbica = 90%

c) la frazione di amminoacidi della proteina microbica = 80%

d) digeribilità post-ruminale della proteina microbica = 80%

si ha: PDIMN = 55 x 0,62 x 0,90 x 0,64 = 19,6 = 196 g/Kg S.S.

PDIME; assumendo:

a) sostanza organica fermentescibile (S.O.F.) dell’alimento (proteine non

degradabili, lipidi grezzi, prodotti di fermentazione negli insilati = 65% S.S.

b) proteina microbica che si può formare dalla S.O.F. = 145 g/Kg)

c) frazioni di aminoacidi e digeribilità post-ruminali = 64%

si ha: PDIME = 65 x 0,145 x 0,64 = 6,0 = 60 g/Kg S.S.

A questo punto il valore delle PDI può essere espresso:

a) PDIN = PDIA + PDIMN = 18,8 + 19,6 = 38,4 = 384 g/Kg S.S.

b) PDIE = PDIA + PDIME = 18,8 +6,0 = 24,8 = 248 g /Kg S.S.

Se la farina di soia fosse somministrata da sola il suo valore di PDI sarebbe uguale a

248 g/Kg S.S. e si avrebbe un eccesso di proteina degradabile che non potrebbe

essere trasformata in proteina microbica per carenza di energia. Per sfruttare al

massimo la sintesi proteica si potrebbe aggiungere alla soia un alimento con eccesso

di PDIE.

Aggiungendo, ad esempio, delle polpe secche di barbabietola che apportino 65 g di

PDIN e 98 g di PDIE per Kg di S.S., si vede che ogni Kg di questo alimento vi è un

eccesso di 33 g di PDIE. Mescolando 4 parti di polpe di bietola (che apportano 132 g

di PDIE in eccesso rispetto al PDIN) e 1 di farina di soia (che apporta 136 g di PDIN

in eccesso) si ottiene quindi una miscela equilibrata in cui PDIN = 384 + 65 x 4 =

644 g e PDIE = 248 + 98 x 4 = 640 g. Teoricamente ciò consente di non sprecare

proteina sotto forma di ammoniaca

7.2.2. Sistema AP

Il Consiglio Nazionale delle Ricerche americano ha messo a punto un sistema

di valutazione delle proteine similare a quello francese, che va sotto il nome di AP

(Absorbed Protein). Con questo sistema le proteine sono distinte in:

a) proteine alimentari degradabili a livello ruminale ((DIP);

b) proteine alimentari indegradabili (UIP);

c) proteine alimentari indigeribili (IIP).

Le proteine alimentari degradabili (a cui va aggiunta l’urea proveniente dal circolo

sanguigno) sono convertite in proteina batterica e protozoaria (BCP); la produzione

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di quest’ultima è calcolata in funzione dell’ingestione giornaliera di ENl per le

vacche da latte e di TDN per gli animali in accrescimento. A differenza del sistema

francese, la produzione di BCP dipende solo dall’energia della razione e non

dall’apporto in azoto degradabile. Per la quota di proteine alimentari indegradabili

(UIP), anche il sistema americano ricorre ai valori di degradabilità ottenuti in prove

in situ con bovine fistolate. I fabbisogni giornalieri delle varie categorie di animali

sono espressi in g giornalieri di UIP e DIP. Benché il sistema americano delle AP

abbia avuto scarsa diffusione in Italia, è stata recepita la distinzione delle proteine in

UIP (proteina alimentare by-pass) e DIP (proteina alimentare degradabile a livello

ruminale). Tali parametri sono utilizzati comunemente nel razionamento accanto ai

valori di proteina grezza (PG) e di proteine digeribili nell’intestino (PDI) al fine di

conseguire una valutazione il più possibile completa del valore proteico degli

alimenti da un lato e dei fabbisogni dall’altro. Infatti, i fabbisogni in proteine by-pass

(UIP) delle bovine variano in funzione del livello produttivo, in quanto in

corrispondenza di elevate produzioni la proteina batterica non è sufficiente per

quantità e qualità a coprire le necessità degli animali.

7.2.3. Sistema Cornell o CNCPS

Il sistema Cornell, denominato CNCPS, contrariamente agli altri sistemi che

valutano gli alimenti della razione e i fabbisogni per gli animali in maniera statica,

cerca di tenere conto delle variazioni del metabolismo che conseguono all’intervento

di numerosi fattori e delle interrelazioni esistenti tra questi fattori. La valutazione

dell’apporto energetico e proteico degli alimenti da un lato e dei fabbisogni dall’altro

è considerata, perciò, in maniera dinamica come funzione di una serie di variabili che

comprendono il tipo di razione e la sua influenza sulle fermentazioni ruminali, il tipo

di animale, le caratteristiche ambientali e le tecniche di allevamento. Il sistema

comprende, innanzitutto, un modello per la predizione delle fermentazioni ruminali,

la stima dei prodotti finali delle fermentazioni e dei prodotti che sfuggono alla

degradazione ruminale. La flora batterica ruminale è suddivisa in due gruppi: i batteri

che fermentano i carboidrati non strutturali (CNS) e quelli che fermentano i

carboidrati strutturali (CS). Questa distinzione riflette differenze, non solo a livello di

fonti energetiche ma, anche di fonti azotate e di velocità di crescita delle diverse

specie batteriche. Infatti, i batteri CNS che fermentano i carboidrati non strutturali

(amido, pectine, zuccheri, ecc.) sono in grado di utilizzare sia N ammoniacale che

aminoacidi e peptidi come fonte azotata, possono effettuare la proteolisi e sono

caratterizzati da una crescita molto rapida. Invece, i batteri CS fermentano solo i

carboidrati strutturali, usano solo azoto ammoniacale per la proteosintesi, non

fermentano peptidi o aminoacidi e hanno una crescita lenta. In questo sistema, la

crescita dei microrganismi ruminali non è considerata una semplice funzione

dell’ingestione di sostanza organica o di energia ma è messa in relazione con molti

fattori:

a) predazione da parte della fauna protozoaria,

b) tenore in carboidrati della razione e il tasso di fermentazione di questi,

c) presenza a livello ruminale di N di natura amminoacidica e peptidica per la sua

influenza positiva sulla crescita ruminale,

d) entità della secrezione salivare che influenza il pH e, conseguentemente, la crescita

microbica e che dipende a sua volta dal rapporto foraggi/concentrati della razione.

Nel sistema Cornell le sostanze azotate sono divise in 5 frazioni: A) azoto non

proteico (NNP), immediatamente disponibile nel rumine, B1) proteina rapidamente

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degradabile nel rumine, B2) proteina mediamente degradabile nel rumine, B3)

proteina legata all’NDF, lentamente degradabile nel rumine, C) proteina legata

all’ADF, indegradabile mentre, gli idrati di carbonio sono divisi in 4 frazioni: A)

carboidrati degradati nel rumine rapidamente (zuccheri), B1) carboidrati degradati

nel rumine a velocità intermedia (amidi e pectine), B2) carboidrati degradati nel

rumine lentamente (emicellulose e cellulosa), C) frazioni fibrose non digeribili.

Le quantità di carboidrati e di azoto alimentare digerite nel rumine dipendono dai

tassi di fermentazione e di passaggio. Il tasso di fermentazione (Kd) o degradabilità,

è una proprietà dell’alimento, mentre, il tasso di passaggio (kp) è calcolato in

funzione dell’ingestione, della dimensione delle particelle dell’alimento, della densità

e del tipo di alimento (foraggio o concentrato). Successivamente al rumine, il sistema

Cornell calcola quale può essere l’assorbimento intestinale delle frazioni proteiche e

dei carboidrati che derivano dalla crescita microbica o che arrivano all’intestino non

degradati: ogni frazione ha un suo coefficiente di utilizzazione digestiva.

I nutrienti totali realmente digeribili (TDN vero) derivano, quindi, dalla somma delle

proteine, dei carboidrati e dei grassi a cui vanno sottratti quelli persi con le feci; è

importante sottolineare che, poiché i valori dei nutrienti persi con le feci variano in

funzione delle caratteristiche dell’intera razione, dell’apporto delle diverse frazioni di

carboidrati e proteine e della conseguente crescita della flora microbica ruminale,

anche i TDN di un alimento calcolato con il sistema CNCPS non è un valore fisso ma

variabile. A partire dal TDN disponibile della dieta sono, successivamente, calcolati i

valori di EM e EN. Le proteine metabolizzabili sono determinate a partire dalle

proteine assorbite al livello intestinale di origine alimentare e batterica (escluse

quelle degli acidi nucleici batterici che passano inutilizzate). Il sistema Cornell

calcola, inoltre, a partire dalle diverse fonti, i fabbisogni in proteine e in energia a

seconda della produzione di latte, del peso vivo e di fattori ambientali e manageriali

che influenzano l’ingestione di sostanza secca. La conoscenza dei fabbisogni teorici e

il calcolo dei nutrienti disponibili con la dieta dà la possibilità di aggiustare razioni

per bovini da latte e da carne in modo che rispondano alle esigenze stimate. Il sistema

CNCPS si distingue dagli altri sistemi anche perché include un modello per la

determinazione dei fabbisogni e degli apporti della razione in singoli aminoacidi

essenziali assorbiti a livello intestinale.

7.3 . Degradabilità delle proteine

Alla base dei sistemi di valutazione delle proteine nei ruminanti sta il concetto di

degradabilità ed il grado in cui le proteine alimentari sono degradate nel rumine, per

l’influenza che questo parametro esercita sul valore delle proteine come fonte di

azoto per i microrganismi ruminali e di aminoacidi assorbiti a livello dell’intestino

tenue. La quantità di proteina che sfugge alla degradazione può essere stimata in vivo

e in vitro. Per la stima in vivo si misura l’azoto alimentare ingerito e l’azoto non

ammoniacale e quello microbico che passano nel duodeno e la degradabilità

dell’azoto alimentare è così espressa:

Degradabilità = 1 - (N duodenale non ammoniacale - N microbico) / N

alimentare ingerito

Il metodo richiede un’accurata misurazione del flusso duodenale e dell’azoto

microbico. La frazione microbica, in genere, è identificata per mezzo di indicatori

quali l’acido ribonucleico e gli aminoacidi marcati Co 35

S, 32

P, 15

N. La

concentrazione dell’indicatore nei microrganismi è misurata in un campione di

liquido ruminale. La formula prima riportata non tiene, però, conto che l’azoto

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duodenale contiene una quota non trascurabile di azoto di origine endogena e, quindi,

è preferibile applicare la seguente:

Degradabilità = 1 - ((N duodenale non ammoniacale - (N microbico + N

endogeno)) / N alimentare ingerito.

La quota di origine endogena rappresenta circa 50-200 g/kg di azoto duodenale, ma

siccome è molto difficile da quantificare, in genere, si adotta il valore medio di 150

g/Kg.

In vitro, la degradabilità delle proteine si valuta facendo incubare l’alimento in

sacchetti di fibra sintetica immersi nel rumine. Il valore della degradabilità è dato

dalla differenza fra la quantità di azoto inizialmente presente nel sacchetto e quella

rimasta al termine della incubazione ed è espresso in proporzione alla quantità

iniziale:

degradabilità = (azoto iniziale - azoto residuo dopo l’incubazione)/azoto iniziale.

In questo caso, gli errori sono dovuti soprattutto alla dimensione del campione, alla

misura e alla porosità del sacchetto.

Degradabilità delle proteine alimentari

Classe Degradabilità Alimenti

A

B

C

D

0,71-0,90

0,80*

0,51-070

0,60*

0,31-0,50

0,40*

< 0,31

Fieno, insilati, orzo

Fiocchi di mais, farina di soia cotta

Farina di pesce

Lupinella essiccata

* considerato come media di gruppo

Valori indicativi di degradabilità ruminale dell’azoto in alcuni alimenti

(INRA, 1988):

Alimento % Alimento %

Foraggi verdi e insilati

70-80

Farina di estrazione di arachide

73

Fieni 66 Farina di estrazione di soia 62

Farina di avena 78 Farina di estrazione di girasole 77

Farina di frumento 74 Panello di lino 62

Farina di mais 42 Granelle macinate di oleaginose 90

Farina di orzo 74 Granella di soia estrusa 49

Crusca di frumento 76 Farina di medica disidratata 60

Glutine di mais 27 Farina di pesce 45

Trebbie di birra 45 Farina di carne 50

Polpe di bietola 48

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CAP. VIII. FATTORI NUTRITIVI DEGLI ANIMALI E FATTORI DI

RAZIONAMENTO

8.1. Nuove concezioni sul valore nutritivo degli alimenti e della razione nel suo

complesso.

L’indicazione del valore nutritivo degli alimenti non può essere considerata

come un dato preciso ed assoluto, qualunque sia il metodo adottato per la sua

determinazione. Nell’utilizzazione degli alimenti da parte degli animali, giocano un

ruolo principale la complessità dei fenomeni metabolici, l’individualità dei singoli

utilizzatori, l’ambiente in cui vivono, le produzioni loro richieste nonchè la

composizione della razione ed il livello nutritivo della dieta. Il livello nutritivo di un

alimento varia secondo:

- la razione in cui entra a far parte;

- la variabilità individuale della specie e della razza dell’animale cui è somministrato;

- la produzione richiesta all’animale.

La razione alimentare ha un differente rendimento:

- secondo gli alimenti di cui è costituita;

- il rendimento decresce con il crescere del livello nutritivo, in pratica in funzione

della quantità di alimento consumato dall’animale;

- il rendimento cresce con l’aumentare del rapporto tra E.M. ed E.L., vale a dire con

la concentrazione nutritiva del piano alimentare cui l’animale è sottoposto.

E’ necessario che la razione sia bilanciata in quanto, per ogni specie animale e tipo di

produzione, solo se la razione è bilanciata, l’E.N. raggiunge il suo valore più elevato

e la stessa razione il suo massimo valore nutritivo. I piani alimentari ed il

razionamento sono definiti in base al tipo di animale (specializzazione, razza, età) ed

alle produzioni richieste, secondo esperienze acquisite in precedenti turni di

allevamento, quando è possibile, utilizzando come base mangime o foraggi di

produzione aziendale. Ciò, perché, i fabbisogni degli animali ed i fattori di

razionamento, riportati nei testi e nelle pubblicazioni, vanno considerati solo come

valori medi al pari della composizione degli alimenti e non come dati esatti da

adottare in qualunque circostanza.

8.2. Fabbisogni degli animali

Volendo analizzare i fabbisogni degli animali si deve considerare il problema

da due diverse angolature. L’una interessa i fabbisogni relativamente ad energia, a

proteine ed aminoacidi, sali minerali e vitamine; l’altra riguarda le specifiche

esigenze legate all’espletamento delle funzioni vitali dell’organismo,

all’accrescimento ed all’ingrasso, alle diverse produzioni e stati fisiologici

dell’animale. Il fabbisogno quali-quantitativo complessivo che ne deriva va tradotto

in una razione bilanciata che, oltre a soddisfare le suddette esigenze soddisfi anche i

requisiti di voluminosità, appetibilità, ed economicità della stessa razione e

dell’alimentazione nel suo insieme. I fabbisogni energetici, proteici, minerali e

vitaminici nonché di sostanza secca, sono così distinti:

- mantenimento,

- accrescimento,

- ingrasso,

- produzione del latte,

- riproduzione e lo stato di gravidanza,

- prestazioni dinamiche,

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- asciutta,

- termoregolazione,

anche se a volte, alcuni di questi fabbisogni sono tra loro cumulabili e/o accumulati.

Nel razionamento, le esigenze nutritive degli animali saranno soddisfatte dalla

razione alimentare agendo sui seguenti elementi:

- sul valore nutritivo totale della razione,

- sul contenuto ottimale in proteine digeribili, assicurando la presenza degli

aminoacidi indispensabili,

- sulla sostanza secca (s.s.) totale della razione, assicurando una giusta voluminosità

degli alimenti somministrati,

- sul contenuto ottimale in vitamine e sostanze minerali.

8.2.1. Fabbisogni di mantenimento

L’organismo animale utilizza una parte, più o meno, considerevole dei

principi nutritivi che gli provengono dall’alimentazione per ricavare l’energia

necessaria alle sue funzioni fisiologiche fondamentali, come la digestione, la

circolazione sanguigna, la respirazione, la termoregolazione, il tono muscolare e i

movimenti spontanei, nonché la reintegrazione delle sostanze perdute nei processi

metabolici. Il fabbisogno energetico dell’animale a completo digiuno, mantenuto in

un ambiente termostatato e che, quindi, non svolge alcun lavorio digestivo, non

assorbe sostanze nutritive e non incrementa il metabolismo dei tessuti e non ha

dispendi per la termoregolazione è chiamato energia basale o energia di metabolismo

basale o semplicemente metabolismo basale (M.B.). Il metabolismo basale, infatti,

corrisponde alla quantità di energia necessaria nelle condizioni di riposo e di digiuno

e dà un’idea dell’intensità del ricambio energetico caratteristica per ogni singolo

animale.

Sul metabolismo basale influiscono fattori quali l'età dell'animale, il sesso, il tipo

costituzionale, la razza, il ciclo estrale, lo stato fisiologico, il clima, la stagione, il

periodo di lattazione. Esso aumenta in maniera esponenziale, e non in maniera

lineare, con il peso vivo dell'animale. Difficilmente però, l'animale si trova a digiuno

e in perfetto riposo. Se, ad esempio, ha ingerito degli alimenti ha bisogno di energia

per la digestione e l'assorbimento; se si trova in un ambiente freddo deve

termoregolarsi, se è al pascolo consuma energia per la ricerca del cibo. Pertanto, è più

giusto affermare che il fabbisogno nutritivo di mantenimento è l'E.M. che assicura

l'equilibrio nel bilancio materiale ed energetico degli animali, allorché in questi non

sussiste alcun’attività funzionale di interesse economico, difatti corrisponde al

ricambio energetico proprio di uno stato in cui l'animale (non gravido e non in

lattazione) non aumenta e non diminuisce di peso per un periodo piuttosto lungo.

Fabbisogni energetici. Essi sono direttamente proporzionali al peso metabolico

dell'animale (rapporto fra area/volume o peso vivo dell'animale). Il peso metabolico è

espresso come potenza del peso vivo con esponente inferiore ad 1, ed è espresso con

uno dei seguenti simboli internazionali: PV0,75

o W0,75

o Kg0,75

. Agli effetti pratici del

razionamento e per qualsiasi tipo di razione, i fabbisogni energetici di mantenimento

nei ruminanti, per esempio, corrispondono a 1,2 volte il consumo di energia durante

l'inedia (MB). Una vacca che per il metabolismo basale consuma giornalmente: 70,5

Kcal E.N. /PV0,75

il fabbisogno energetico sarà 70,5 x 1,2 = 84,6 Kcal E.N. cui è da

aggiungere un 10-20% a seconda dell'età per l'accrescimento.

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Es: vacca di 500 kg in prima lattazione = (5000,75

x 70,5 x 1,2) + 20% = (105,74 x

84,6) + 20% = 8945,4 + 1789,1 = 10734,47 Kcal ENm.

Se pesa 550 kg ed è in seconda lattazione, per l'accrescimento si aggiunge il 10% e

quindi il fabbisogno sarà 10568,57 Kcal ENm.

E' stato osservato che il fabbisogno in ENm è:

- 77 Kcal per kg di peso metabolico nei giovani bovini castrati,

- 120 Kcal /kg PV0,75

per vitelli lattanti e animali giovani,

- 60 Kcal/kg PV0,75

per gli ovini.

Prendendo come unità di misura l'U.F. o l’E.M., i fabbisogni energetici di

mantenimento sono riportati nelle tabelle.

Fabbisogni proteici - I fabbisogni proteici di mantenimento tendono a sopperire le

perdite azotate dei metaboliti endogeni eliminati con le urine e dei protidi enzimatici

metabolici escreti con le feci. Il fabbisogno proteico di mantenimento risulta

proporzionale al peso metabolico.

Stima del fabbisogno proteico per il mantenimento, partendo dall’azoto endogeno totale

e dalle altre perdite di azoto (desquamazione cutanea, peli)

Perdita di azoto endogeno = 42 g/giorno

perdita cutanea di azoto (desquamazione, peli) = 2 g/giorno

perdita totale di azoto = 44 g/giorno

perdita totale di proteina: 44 x 6,25 = 275 g/giorno

Valore biologico nel bovino delle proteine digerite e assorbite = 0,8

Fabbisogno proteine digerite e assorbite nell’intestino = 275 : 0,8 = 344 g/giorno

Somministrando i 344 g tutti come proteina microbica (degradabilità = 1)

e considerando:

a) digeribilità reale delle proteine microbiche = 0,85

b) contenuto in AA delle PG = 0,80 (0,2 = acidi nucleici)

la quantità di proteina richiesta sarà 344/(0,85 x 0,80) = 506 g/giorno

Supponendo che:

a) si producano 8,3 g di proteina microbica per 1 MJ di EM consumata

b) la vacca ingerisca 61 MJ EM/giorno (mantenimento)

nel suo intestino giungono: 8,3 x 61 = 506 g/giorno (coincide con il fabbisogno

della vacca)

Se la degradabilità delle proteine fosse 0,7 la quantità della proteina nella dieta dovrà

essere (per assicurare il fabbisogno dei microbi) = 506/0,7 = 723

Adesso si calcola la quantità minima di PG della dieta della vacca:

se la razione contiene 11 MJ EM/kg SS l’ingestione di SS sarà: 61/11 = 5,54 kg/giorno

e il tenore minimo in proteina:

a) degradabilità = 1: 506/5,54 = 91 g/kg SS

b) degradabilità = 0,7: 723/5,54 = 130 g/kg SS AA = aminoacidi

Nei bovini, esso è di 3 g di proteina digeribile per kg di peso metabolico. In pratica,

poiché il rendimento delle proteine somministrate con la razione varia secondo il

valore biologico delle proteine stesse (e non sempre è possibile conoscere con

esattezza il V.B. delle proteine di una razione mista) si fa riferimento alle tabelle di

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163

razionamento specifiche che riportano con una certa larghezza, i fabbisogni per le

diverse categorie di animali.

Grosso modo, però, per le vacche da latte, i bovini adulti, gli equini e i suini si stima

un fabbisogno proteico di mantenimento di 60 g di proteina digeribile per q di peso

vivo. Per gli ovini detto fabbisogno è elevato a 80 g/q.

Fabbisogni minerali e vitaminici. Non esistono particolari fabbisogni per sopperire ai

consumi per il mantenimento degli animali. Comunque, per le vacche in lattazione e

per gli ovini si raccomanda la somministrazione di adeguati quantitativi di fosforo,

calcio, magnesio, potassio e sodio:

bovini - mg/kg PV: P 25, Ca 18, Mg 3, K 50, Na 10

ovini - " " 30, " 20, " 3,5 " 20, " 8

Per le vitamine, i fabbisogni di mantenimento variano da soggetto a soggetto in

relazione allo stato nutritivo e/o di salute.

Fabbisogni nutritivi degli ovini per il mantenimento (INRA, 1978)

Peso

vivo

Kg

Variazioni

di peso

(Kg/mese)

Apporto giornaliero Capacità di

ingestione

UEM

UFL (1)

Proteine

digeribili

(g)

Ca

g

P

g

40

-2

-1

0

+1

+2

0,37

0,45

0,53

0,64

0,75

30

37

44

51

58

3,0

2,0

1,6

50

-2

-1

0

+1

+2

0,46

0,54

0,62

0,73

0,84

33

40

47

54

61

3,5

2,5

1,8

60

-2

-1

0

+1

+2

0,55

0,63

0,71

0,82

0,93

40

47

54

61

68

4,0

3,0

2,0

70

-2

-1

0

+1

+2

0,64

0,72

0,80

0,91

1,02

47

54

61

68

75

4,5

3,5

2,3

(1) da aggiungere il 25% per il pascolamento: il valore va aumentato con pascoli scadenti e poco produttivi e va ridotto

con pascolo intensivo e erba abbondante

Contenuto in sostanza secca della quota di mantenimento. La razione di

mantenimento non deve essere voluminosa in modo eccessivo. Il suo indice di

voluminosità (s.s./UF x 100) deve adeguarsi a quello dell'intera razione che secondo

Leroy non deve superare i 2-2,1 nei bovini, 1,2 nei suini, 1,6 negli equini, 1,8 negli

ovini.

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Fabbisogno di mantenimento negli equini: le esigenze di mantenimento del cavallo

adulto a riposo, cui spetta solo la quota di mantenimento, giornalmente sono pari a

0,9 UF e 65-70 g di proteine digeribile per qle di peso vivo. Per soddisfare le

esigenze energetiche, gli equini necessitano più di idrati di carbonio e meno di

proteine, rispetto a quanto avviene, ad esempio nei bovini, e ciò perché essi per la

contrazione dei muscoli utilizzano soprattutto glucosio, fosforo e vit. B1.

Fabbisogni di mantenimento per i caprini: i fabbisogni energetici di mantenimento

variano in funzione del peso degli animali, dello stato fisiologico, delle condizioni

ambientali e del sistema di allevamento. Essi, in genere, sono inferiori nelle capre

tenute a stabulazione fissa rispetto a quelle che pascolano (se il tragitto per procurarsi

il pascolo è molto lungo e i terreni sono accidentati i fabbisogni di mantenimento

aumentano fino al 50%) e in quelle tenute in stalla (minore attività motoria, minore

spese energetiche per la termoregolazione). Una capra di 60 Kg di peso vivo

necessita di 0,8 UFl al giorno e, quindi, 296 UFl all’anno.

I fabbisogni proteici sono proporzionali al peso metabolico dell’animale e sono pari a

2,14 g di PD e 2,20 g di PDI per Kg di peso metabolico.

8.2.2. Fabbisogni di accrescimento

L'accrescimento consiste nella moltiplicazione ed aumento di volume delle

cellule che formano i tessuti e gli organi di un animale, dal momento del suo

concepimento al momento in cui questo raggiunge l'età adulta.

Se il livello alimentare è alto, la crescita è rapida e l’animale raggiunge un

determinato peso ad un’età più giovane, invece, una riduzione del livello alimentare

determina un minore accrescimento e addirittura diminuzione in peso. Anche la

qualità della dieta ha la sua influenza così, ad esempio, gli animali che hanno

ricevuto una razione scarsa in proteine hanno una composizione corporea diversa da

quelli che hanno ricevuto una razione adeguata dal punto di vista proteico.

Il peso dell’animale può essere riferito all’intero peso corporeo o al suo corpo vuoto,

la sua carcassa o la massa corporea senza grasso. Per ciò che ci riguarda, ai fini delle

esigenze nutritive, l’animale è considerato soprattutto in termini di composizione

chimica (e di valore energetico) del suo corpo, intero o vuoto.

I fenomeni di moltiplicazione e di aumento di volume si accompagnano e s’integrano

attraverso la crescita (aumento di peso) e lo sviluppo (modificazione nella

conformazione e forma corporea). Ciò indica che, le varie parti del corpo crescono in

diversa misura e, quindi, le proporzioni cambiano man mano che l’animale raggiunge

la maturità. Il rapporto fra il peso di una parte del corpo ed il peso totale

dell’individuo può essere indicato dalla seguente equazione di tipo allometrico di

Huxley: y = bxa;

oppure log y = log b + a log x; dove y = peso della parte del corpo

in esame; x = peso dell’animale; a = coefficiente di crescita; b è una costante. Se il

valore di a è superiore all’unità significa che la parte cresce in modo più rapido

rispetto all’intero corpo dell’animale e una parte che ha questo comportamento si

afferma che “matura tardi” mentre, per le parti con coefficiente inferiore all’unità si

afferma che “maturano prima”.

Ad esempio, se il grasso ha coefficiente a = 1,5 e il muscolo e le ossa hanno

coefficienti di 0,99 e 0,80, rispettivamente, significa che il grasso è un componente

che matura tardi, mentre il muscolo e, soprattutto, le ossa maturano presto. La parte

interessata può essere una regione del corpo (testa, taglio di carne tipico in sede

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commerciale), una parte ottenuta per dissezione (osso, muscolo, grasso) o un

componente chimico (acqua, proteine, estratto etereo, ceneri).

Coefficienti di crescita per l’acqua, le proteine, i grassi ed il contenuto energetico

nell’intero corpo vuoto di ovini

30

20

0,74

Energia

... 1000

------

acqua

10

1,59

500

1,99

Kg Energia

(MJ)

6

0,80 200

4

- -

proteine

-------

grassi

100

2

50

20 30 40 50 60

Peso del corpo vuoto (kg)

Ad esempio, i dati riportati in figura indicano che gli incrementi di peso del corpo di

ovini che crescono da 20 a 30 kg contengono 133 g di proteine, 313 g di grasso e

16,3 MJ/kg mentre gli incrementi ponderali di ovini che crescono da 50 a 60 kg

contengono 113 g di proteine, 682 g di grasso e 26,0 MJ/kg. In genere, quando un

soggetto diventa adulto diminuisce la % di acqua e di proteine e aumenta quella del

grasso nel suo organismo. Se il principio allometrico di Huxley fosse esattamente

applicato agli individui di una stessa specie, l’allevatore sarebbe in grado di produrre

animali con una specifica composizione della carcassa semplicemente portandoli ad

un determinato peso. Comunque, la composizione del corpo non è determinata solo

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dal peso del corpo ma anche da altri fattori quali la tecnica di allevamento, il sesso,

l’alimento e, quindi, il controllo della qualità della carne non è semplice.

Peraltro, da un punto di vista nutrizionale, bisogna considerare anche la

composizione delle parti anatomiche o delle parti dissezionate della carcassa, in

quanto è in stretto rapporto con il valore della carne degli animali.

100

Coefficienti di crescita delle ossa, Muscolo 0,992 dei muscoli e del grasso della car- 10 cassa di suino (da McMeekan e coll., 1964)

Kg Ossa 0,804

1

0,1

Grasso 1,499

0,01 1 10 100

Peso del corpo vuoto (kg)

Le modifiche nelle proporzioni del corpo durante lo sviluppo sono importanti da un

punto di vista nutrizionistico, in quanto, influenzano i fabbisogni alimentari degli

animali.

Il loro andamento è rapido dalla nascita alla pubertà, poi rallenta man mano che lo

sviluppo e il peso vivo si avvicinano a quello dell'età adulta, proprio della specie,

della razza e del tipo di soggetto. In genere, l'aumento di peso medio giornaliero nei

bovini e nei suini si ricava dalla tabella di Armsby anche se non tiene conto della

razza, del tipo e dell'individualità. Durante la crescita e lo sviluppo si ha una diversa

utilizzazione della disponibilità nutritiva, da parte dei vari tessuti e organi.

La misura più comune dell’accrescimento degli animali di interesse zootecnico è

rappresentata dall’incremento in peso ma, questa misura è molto grossolana perché i

cambiamenti di peso comprendono anche le variazioni di peso del contenuto

intestinale che, nei poligastrici concorrono spesso all’aumento del peso vivo in

misura del 20%.

I fabbisogni energetici, minerali e vitaminici di accrescimento vanno assommati a

quelli di mantenimento.

I fabbisogni energetici di accrescimento aumentano con il procedere della crescita

e dello sviluppo (e quindi dell'età) ma sono relativamente più elevati nei giovani.

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Composizione e contenuto in energia dell’aumento in peso, osservati in animali di

diverse specie, età e peso vivo

Composizione dell’incremento in peso (kg)

Animali Peso vivo

(kg) Età Acqua Proteine Grasso Ceneri Energia

MJ/kg

Polli: Livornese

bianca

(a lenta crescita)

0,23

0,7

1,4

4,4 sett.

11,5 sett.

22,4 sett.

695

619

565

222

233

144

56

86

251

39

37

22

6,2

10,0

12,8

Ovini:

femmine

Shropshire

9

34

59

1,2 mesi

6,5 mesi

19,9 mesi

579

480

251

153

163

158

248

324

528

22

31

63

13,9

16,5

20,8

Suini:

femmine

Duroc-Jersey

23

45

114

-

-

-

390

380

340

127

124

110

460

470

520

29

28

24

21,0

21,4

23,3

Bovini:

giovenche

Holstein

70

230

450

1,3 mesi

10,6 mesi

32,4 mesi

671

594

552

190

165

209

84

189

187

-

-

-

7,8

11,4

12,3

Calcolare la quantità di proteine e grassi che può depositare un suino di 60 kg che ha la capacità di

depositare 31 g/giorno di proteina a livello alimentare di mantenimento e 4,43 g in più per ogni MJ

di EM oltre il mantenimento, il quale ingerisce 25 MJ di EM al giorno:

Fabbisogni energia per ritenzione proteine = 42,3 MJ/kg

Fabbisogni energia per ritenzione grassi = 53,5 MJ/kg

Contenuto Energia lorda delle proteine = 23,7 MJ/kg

Contenuto Energia lorda dei grassi = 39,6 MJ/kg

Kf proteine = 23,7/42,3 = 0,56;

Kf grassi = 39,6/53,5 = 0,74

EM ingerita = 25 MJ/giorno

EM per mantenimento = 0,639 x 600,67

= 9,9 MJ/giorno

EM produzione = 25 - 9,9 = 15,1 MJ/giorno

Proteine depositate = 31 + 4,43 x 15,1 = 98 g (0,1 kg)

EM usata per le proteine = 42,3 x 0,1) = 4,23 MJ

EM usata per i grassi = 15,1 - 4,23) = 10,87 MJ

Grasso depositato = 10,87 / 53,5 = 0,203 kg

Peso tessuto magro depositato = 98 / 0,213 = 460 g (0,46 kg);

(si valuta dal contenuto proteico)

Incremento totale del corpo vuoto =

magro + grasso = 0,46 + 0,20 = 0,66 kg/giorno

Contenuto energetico dell’incremento =

(0,1 x 23,7) + (0,20 x 39,6) = 10,3 MJ

e quindi 10,3 / 0,66 = 15,61 MJ /kg

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I fabbisogni in U.F. riferiti all'accrescimento di un Kg di peso vivo, sono alle varie

età e per le diverse specie, quelli evidenziati nelle tabelle.

I fabbisogni proteici di accrescimento sono stimati tenendo conto che nei giovani

animali i tessuti sono più ricchi di acqua (75% rispetto al 45% degli adulti) e le

proteine concorrono per il 20% circa alla costituzione del loro corpo, mentre negli

animali adulti la % si abbassa al 15-16%.

Quindi, nei giovani, dove la sintesi proteica è più intensa e la fissazione delle

proteine più elevata, le esigenze proteiche sono notevoli, tenuto conto anche del più

accentuato accrescimento dell'età giovanile. Per i bovini si calcola, mediamente, un

fabbisogno proteico di accrescimento di 230-250 g di proteine digeribili per kg di

accrescimento.

I fabbisogni minerali e vitaminici per l'accrescimento negli animali giovani sono

proporzionalmente più elevati che negli adulti e, soprattutto, per le vitamine bisogna

tenere conto che nella giovane età oltre che una maggiore quantità di caroteni e di

vitamina A, la vitamina D è indispensabile anche per il metabolismo del calcio, del

fosforo e che nei giovani non sono presenti i fenomeni di sintesi che si rilevano (o si

possono rilevare) negli animali adulti. I fabbisogni medi di tutti gli animali, di

qualsiasi specie sono calcolati tenendo conto della loro età fisiologica cioè della %

del peso dell'animale giovane rispetto al peso dell'età adulta.

8.2.3. Allattamento

a) vitelli - I mammiferi sono forniti di mammelle che secernono il latte per la

nutrizione dei neonati, durante il primo periodo della loro vita. Lo stomaco e

l’intestino dei neonati sono di scarsa capacità e contengono il meconio che è una

sostanza vischiosa, accumulatasi durante lo sviluppo fetale. Nei primi giorni di vita,

il neonato ha bisogno di un alimento (colostro) che in poco volume contenga,

soprattutto, proteine, sali minerali e vitamine ed anche anticorpi di cui il neonato

stesso è sprovvisto.

Il colostro è di colore bianco-giallastro, più denso del latte comune, di sapore

dolciastro-salato e di odore caratteristico. E’ più digeribile e più nutriente del latte ed

ha una leggera azione purgativa che favorisce l’eliminazione del meconio.

L’elevato contenuto in proteine del colostro è dovuto soprattutto alle globuline le

quali sono importantissime per la formazione degli anticorpi. Con l’alimentazione

colostrica, soprattutto nelle prime 24-36 ore, le gammaglobuline nel sangue del

neonato aumentano notevolmente dandogli la difesa immunitaria e a ciò contribuisce

anche la vitamina A e i caroteni che sono presenti nel colostro in quantità 10 volte

superiore a quella del latte. La vitamina D nel colostro è presente 3 volte in più

rispetto al latte mentre il calcio e il fosforo fino a 2-3 volte. Nel latte sono contenute

solo tracce di rame e ferro mentre nel colostro sono contenute quantità fino a 20 volte

in più. Per i vitelli nati nel tardo inverno, in aggiunta al colostro, è preferibile

somministrare una dose giornaliera di 1,5-2 milioni U.I. di vitamina A e ciò perché

essa in questo periodo è carente nel colostro. L’assorbimento intestinale degli

anticorpi nel neonato è influenzato da:

- le favorevoli condizioni anatomiche che consentono agli anticorpi, presenti nel

colostro, di passare inalterati nel sangue attraverso la mucosa intestinale, si verificano

entro le 24-36 ore dalla nascita;

- la permeabilità dell’intestino del neonato agli anticorpi si mantiene al suo livello

massimo entro le prime 12 ore, poi cala rapidamente;

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- le successive ingestioni di colostro, fatte al momento opportuno, non sono

controindicate anzi, il loro effetto si accumula;

- l’immunità passiva più elevata viene raggiunta mediante il frazionamento del

colostro in più pasti di modesto volume.

In conclusione, il neonato nei primi giorni e, soprattutto, nelle prime 6 ore di vita

deve avere un’alimentazione a base di colostro e, possibilmente, di quello della

madre, a circa 40 °C. Mancando la possibilità di somministrare al neonato il colostro,

è possibile sostituire le sostanze in esso contenute e non contenute nel latte normale

con un poco di olio di ricino, qualche uovo sbattuto e della vitamina A e D; mentre,

per sopperire alla immunoglobuline si possono somministrare delle gammaglobuline

e del siero iperimmune anticoli fornito dall’industria farmaceutica. Inoltre, esiste la

possibilità di somministrare al neonato del colostro di altre madri della stessa

azienda, opportunamente raccolto in sacchetti e congelato per poi scongelarlo a 40 °C

al momento dell’uso.

Il latte è l’alimento ideale per la nutrizione dei giovani nati e ciò per due ragioni

fondamentali:

- esso contiene i principi alimentari necessari ai neonati per il loro sviluppo nel

primo periodo di vita;

- dato lo scarso sviluppo dell’apparato digerente i neonati possono utilizzare solo

un alimento concentrato liquido.

Allattamento artificiale - In commercio si trovano miscele lattee (latte ricostituibile)

adatte per essere sciolte in acqua e somministrate ai vitelli con il poppatoio o con il

secchio. Esse, generalmente, sono a base di polvere di latte magro, grassi vegetali ed

animali, vitamine ed integrativi. Il latte ricostituito, essendo più completo e nutritivo

del latte naturale, è capace di assicurare l’accrescimento dei vitelli in modo regolare

per un lungo periodo di tempo e, soprattutto per l’ingrasso, è capace da solo di

produrre animali fino al peso di 200-220 Kg. Ciò è dovuto al fatto che:

1) la somministrazione del latte ricostituito permette di far assumere al vitello tutti i

principi alimentari e tutta l’energia indispensabile per un rapido accrescimento;

2) dato lo scarso sviluppo dell’apparato digerente dei vitelli, sarebbe per loro

impossibile utilizzare per un lungo periodo solamente il latte naturale, il quale non è

sufficientemente nutritivo.

L’alimentazione a base di latte ricostituito può protrarsi fino alla macellazione dei

vitelli da ingrasso (vitelli a carne bianca) mentre, per quelli da allevamento, invece,

anche per favorire uno sviluppo ruminale, il latte ricostituito deve essere

precocemente integrato con concentrati e foraggi secchi. In particolare:

- se trattasi di soggetti destinati all’allevamento (riproduzione, vitelloni da

ingrasso) dal 10° giorno oltre al latte bisogna somministrare una miscela adatta di

concentrati e dalla 3a settimana si somministra anche del buon fieno polifita;

- se trattasi di soggetti destinati al macello (vitellone precocissimo o mezzo

lattone, ultra baby-beef o barley-beef) dalla seconda settimana bisogna integrare la

razione lattea con una buona miscela di concentrati a base, soprattutto, di cereali.

In tutti i casi, i vitelli devono disporre di acqua da bere a volontà.

In genere, dal 10° al 14° giorno di vita è conveniente somministrare al vitello una

miscela asciutta (miscela di avviamento) nella quale come componenti risulti anche

la polvere di latte magro e abbondanti dosi di vitamine; dopo il 40° giorno si

somministrano miscele complementari o di svezzamento che possono essere

acquistate o costituite in parte, da prodotti aziendali e in parte da mangimi acquistati.

Peraltro, sono in commercio dei nuclei proteici, vitaminici e minerali che miscelati in

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varie proporzioni percentuali con granaglie e cruscami, possono dare miscele di

mangimi concentrati bilancianti la razione giornaliera, adatti per l’alimentazione

delle diverse specie animali alle differenti età.

Nell’alimentazione del vitello bisogna considerare:

- sia un’alimentazione troppo scarsa che quella troppo abbondante sono dannose

infatti, nel primo caso oltre ad avere un lento accrescimento si può avere una

depravazione dell’appetito e il vitello affamato è spinto ad ingerire materiali dannosi

per il suo stomaco non ancora irrobustito, nel secondo caso, invece, si possono

verificare fenomeni di diarrea da dieta che abbassano la resistenza del vitello e lo

rende più attaccabile dalle infezioni batteriche;

- i vitelli da vendere come vitelli grassi da latte o a carne bianca devono essere

alimentati esclusivamente con latte;

- per i vitelli da vendere a 350 o più Kg, mantenendo però il colore rosa chiaro

delle carni (barley-beef o mezzo lattone) l’alimentazione lattea deve essere integrata

con adatte miscele di concentrati (cereali in granella schiacciati);

- i vitelli da rimonta e quelli per la produzione del baby-beef e del vitellone,

inizialmente devono essere alimentati con latte, poi devono ricevere, in aggiunta al

latte, un’adatta miscela di concentrati ed acqua a volontà e dalla 3a settimana di vita

devono disporre di un buon fieno di erbe falciate giovani. Soprattutto, per i futuri

vitelloni, successivamente, il fieno sarà sostituito da silo-mais e il concentrato dal

pastone di mais con le dovute integrazioni di proteine e minerali e il latte sarà

definitivamente sospeso.

Svezzamento: per svezzamento si intende la sospensione dell’alimentazione lattea ed

il passaggio a mangimi normali (concentrati, fieno, insilati) e questa tecnica è in

continua evoluzione. La durata del periodo di svezzamento dipende dalla futura

carriera del vitello, dalla disponibilità e dal costo di alimenti idonei al soggetto in

quell’età, alla disponibilità di manodopera e alla preparazione tecnica della stessa.

Comunque, lo svezzamento deve realizzarsi in modo tale da non causare situazioni

stressanti (crisi di svezzamento). A seconda della destinazione degli animali, lo

svezzamento dovrà avvenire in modi e tempi diversi:

- - per vitelli destinati ad essere ingrassati come baby-beef o vitelloni lo

svezzamento sarà precoce o precocissimo (35-60 giorni);

- - per vitelle destinate alla rimonta esso sarà precoce o più tardivo (60-90 giorni);

- - per vitelli maschi destinati alla riproduzione lo svezzamento sarà più tardivo

(90-120 giorni).

b) bufali - Premesso che, il parto anche nella bufala debba avvenire in ambiente

igienicamente valido che può essere identificato in una sala parto razionale od in un

ambiente all'aperto ma non affollato, preferibilmente un prato erboso, è necessario

separare il vitello dalla madre al fine di non abituarlo a succhiare dalla mammella. In

ogni caso, è opportuno che esso effettui almeno una poppata di colostro direttamente

dalla madre. Successivamente, deve essere posto in una gabbia metallica da

disinfettare ad ogni ciclo. Per almeno 5 gg è opportuno fornire colostro a circa 37°C

in due somministrazioni giornaliere ed in quantità limitate a 2- 3 litri per poppata. La

prima somministrazione di latte, a mano, è opportuno che sia effettuata quando il

vitello mostra appetito, il che significa che ha ben digerito il colostro succhiato

direttamente dalla mammella. Questo accorgimento è fondamentale; è preferibile

saltare un pasto (12 ore di digiuno non influenzano la vitalità) piuttosto che fornire al

neonato metà razione, che potrebbe determinare disturbi digestivi e fargli assumere

latte freddo. La mancanza di appetito, infatti, ritarda l'assunzione con conseguente

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abbassamento della temperatura del latte e compromissione della coagulabilità della

caseina nel 4° stomaco. Dopo 6-7 gg è opportuno somministrare, in ragione di circa

5-6 l/giorno, suddivisi in due poppate, latte ricostituito. Quest'ultimo va preparato

miscelando 120 g di polvere con 880 g di acqua alla temperatura di circa 40°-44° C.

Questa quantità deve restare fissa fino all'età di 40 gg. Nell'intervallo tra le due

poppate è bene lasciare a disposizione acqua ed incominciare a somministrare, a circa

20 gg, piccole quantità di fieno di prato polifita e mangime composto integrato per

svezzamento precoce. Dopo i 40 gg, la quantità di latte va ridotta di un litro ogni 2

settimane in modo da svezzare completamente i vitelli intorno ai 3 mesi. In questa

fase e nella successiva e fino ai 6 mesi è opportuno somministrare fieno ad libitum e

mangime composto integrato (m.c.i.) al 15% in protidi grezzi ed al 13% circa di

cellulosa (sul tal quale). Sono da preferirsi i m.c.i. ricchi di cellulosa digeribile che

non provocano alterazioni della flora ruminale in caso di eccessiva assunzione. Con

tale tecnica, all'età di 6 mesi i soggetti dovrebbero superare il peso di circa 170 kg

con un razionamento medio tra i 3 ed i 6 mesi di circa 1,8 UFC/q di peso vivo ed un

rapporto foraggio/concentrato di 1:1. Dopo questa fase, seconda la destinazione

futura, sarà effettuato un razionamento differenziato.

c) agnelli – poco dopo la nascita l’agnello cerca la mammella della madre ed inizia

la suzione del colostro che dura 4-5 giorni. Dopo ci si comporta in funzione della

destinazione dell’agnello. Così, ad esempio, nel Lazio, Sardegna e Sicilia si tende a

valorizzare il latte delle pecore e il mercato richiede l’agnello da latte o abbacchio di

circa 8-10 Kg di peso vivo e l’allattamento (l’agnello utilizza solo latte materno) dura

circa 25 giorni. In Puglia (Tavoliere) e Toscana Maremma Grossetana), invece

l’allattamento dura 7-8 settimane (agnello pesante di 16-18 Kg) e gli agnelli oltre il

latte materno o quello ricostituito hanno un supplemento di concentrati. Nell’Italia

settentrionale, in genere, l’allattamento si protrae per 3-4 mesi (agnello bianco) con

latte della madre o ricostituito e con integrazione della dieta con concentrati a partire

dal 35° giorno di età.

Gli agnelli da rimonta devono allattare per almeno 3 mesi e lo svezzamento avviene

gradatamente in due settimane circa.

Anche nell’allevamento ovino si va diffondendo l’allattamento artificiale e questa

tecnica permette di:

- assicurare un regime alimentare più costante agli agnelli che, nelle condizioni di

allattamento naturale, vanno soggetti alla variabilità quanti-qualitativa della

produzione lattea materna;

- allevare agnelli gemelli per i quali la produzione di latte materna è insufficiente;

- ridurre la frequenza di malattie negli agnelli, sottratti al contagio da parte delle

pecore;

- ridurre il periodo di interparto, soprattutto nelle razze da carne;

- aumentare il peso di macellazione degli agnelli delle razze da latte che,

tradizionalmente, vengono macellati a pesi molto modesti;

- poter conferire più latte all’industria casearia, soprattutto negli allevamenti da

latte.

La riuscita dell’allattamento artificiale dipende dalla corretta applicazione delle

norme riguardanti i tempi ed i sistemi di somministrazione. Il momento più idoneo

per dare inizio all’allattamento artificiale è compreso tra le 48 e le 72 ore dalla

nascita. L’adattamento dell’agnello alla tettarella del distributore del latte presenta

qualche difficoltà per cui è richiesta all’operatore molta attenzione e pazienza. Un

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buon sistema è quello di lasciare gli agnelli a digiuno per un pò di tempo dopo la

separazione dalle madri, in modo da renderli affamati e disposti ad attaccarsi alla

tettarella. Nella fase iniziale, gli agnelli vanno seguiti singolarmente, aiutando quelli

che non riescono ad adattarsi ricorrendo, se necessario, all’uso di un biberon

individuale.

Il passaggio dal colostro al latte artificiale spesso provoca turbe dell’apparato

digerente che si manifestano con fenomeni di diarrea o meteorismo. Il latte artificiale

per essere perfettamente tollerato, deve coprire non solo i fabbisogni nutritivi ma

rispettare anche la funzione digestiva e, quindi, diviene importante il contenuto di

sostanza secca, proteine e grassi. Per avere lo stesso residuo secco di quello del latte

di pecora, quello in polvere va impiegato in ragione di 160-250 g/litro di acqua; in

genere, la concentrazione più bassa è usata per l’alimentazione ad libitum, quella più

alta se la somministrazione è razionata. Per avere un rapporto energia/proteina

similare a quello di pecora il latte artificiale dovrebbe contenere un 27-30% di grassi

e un 21-23% di proteine. Per quanto riguarda il numero di somministrazioni

giornaliere, si ritiene che una somministrazione ad libitum sia più idonea rispetto a

quella ripartita in 3-4 pasti. Infatti, con l’alimentazione ad libitum la frequenza delle

poppate riduce la quantità di latte ingerito per poppata evitando così gli inconvenienti

nei giovani animali. Nei primi giorni, per far assumere quantità sufficienti di latte

agli agnelli si consiglia di somministrarlo ad una temperatura di 37-38 °C,

successivamente si può dare anche freddo.

Nei piccoli allevamenti il latte può essere distribuito anche individualmente,

mediante biberons forniti di tettarelle in lattice, suddividendo gli agnelli in gruppi

omogenei per peso ed età. Negli allevamenti di medie dimensioni, invece, si ricorre a

secchi muniti di tettarelle; mentre, nei grandi allevamenti si usano le allattatrici

meccaniche od elettromeccaniche. Le allattatrici hanno i seguenti vantaggi:

- rapidità di preparazione del latte;

- possibilità di somministrare il latte alla temperatura voluta e di mantenere la sua

concentrazione su valori quasi costanti;

- possibilità di conservare lo stato chimico-fisico del latte, data la presenza di

agitatori che lo omogeneizzano durante la preparazione e la sosta.

I ricoveri nei quali si pratica l’allattamento artificiale devono essere asciutti,

illuminati, esenti da correnti d’aria, con umidità relativa non superiore al 75% e con

temperatura oscillante tra 14 e 20 °C. I locali e le attrezzature (soprattutto secchi,

tettarelle, allattatrici) devono essere ben lavati e disinfettati.

Il consumo pro capite di latte artificiale (espresso come sostanza secca) nella prima

settimana è mediamente di 250 g giornalieri per raggiungere i 350-400 g verso la 5a

settimana. Gli incrementi ponderali giornalieri sono di circa 150-180 g nella prima

settimana e, successivamente, vanno gradatamente aumentando fino a raddoppiare.

Gli indici di conversione della farina lattea in carne, nelle prime 4-5 settimane

oscillano tra 1,1 e 1,3.

Svezzamento degli agnelli – per i soggetti destinati al macello (abbacchio, agnello

pesante da latte) lo svezzamento coincide con la macellazione mentre, per quelli

destinati alla rimonta, per i castrati, per gli agnelli che prima della macellazione

devono essere ingrassati si hanno due tipi di svezzamento:

- - svezzamento naturale, a 90-120 giorni, (soprattutto per soggetti da rimonta)

seguito da alimentazione mista a pascolo e a mangimi concentrati;

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173

- - svezzamento precoce, a 7-8 settimane, seguito da alimentazione intensiva da

ingrasso all’ovile, o mista al pascolo (agnello bianco, agnellone, castrato).

L’agnello può essere svezzato in modo brusco o graduale: il primo è più indicato

quando si pratica l’allattamento artificiale, il secondo quando gli agnelli sono allattati

dalle madri.

d) capretti – Per l’allattamento e lo svezzamento del capretto vale quanto già detto

per l’agnello. Le relative tecniche anche qui dipendono dal tipo di allevamento

(intensivo, estensivo) e dalla destinazione dei soggetti (macello, rimonta), nonché

dall’utilizzazione che si intende fare del latte materno (allattamento dei capretti,

vendita, trasformazione).

I capretti si abituano più facilmente all’allattamento artificiale e ciò, tenuto anche

conto della convenienza economica di utilizzare il latte caprino per la caseificazione,

i capretti sono allattati con latte bovino o con latte ricostituito più di quanto non lo

siano gli agnelli.

L’alimentazione lattea dura da 4 settimane a 6 mesi, e l’allattamento può essere

naturale o artificiale. Negli allevamenti estensivi o in quelli da carne prevale

l’allattamento naturale e di lunga durata, mentre in quelli intensivi da latte prevale

l’allattamento artificiale di breve durata.

È però sempre fondamentale che il capretto appena nato assuma, entro le prime ore di

vita, il colostro, ricco di immunoglobuline che lo proteggono da infezioni di batteri e

virus. Se il colostro non è assunto direttamente dalla madre, per evitare contagio da

CAEV (artrite-encefalite virale delle capre) o perché la madre è morta, bisogna

somministrare circa 100 ml di colostro/Kg di peso vivo per 2-3 pasti giornalieri. In

questi casi il colostro sarà congelato, se proveniente da animali sani, o di vacca.

Dopo due giorni di somministrazione di colostro, si passa al latte intero di capra o di

vacca o a latte in polvere ricostituito, fino ad almeno alla quarta-quinta settimana.

Se si impiega latte in polvere ricostituito, questo deve essere di buona qualità, con un

tenore in grasso tra il 15 e il 25% e in proteine tra il 20 e il 25% sul secco; non deve

avere eccesso di lattosio per non indurre diarrea.

Un’alternativa al latte in polvere è il latte acido, che ha il vantaggio di ridurre i

disturbi digestivi.

I sistemi di somministrazione sono principalmente tre: con allattatrice (lupa), con

secchio multi-biberon o con canaletta.

Con l’allattatrice si ha 1 tettarella ogni 15 capretti ed è conveniente in allevamenti

con più di 70 capretti; il latte è disponibile durante tutto il giorno e l’ingestione è

maggiore, anche se non è possibile controllare l’assunzione di latte dei singoli

capretti.

Il sistema a secchio prevede 1 tettarella a capretto e la somministrazione avviene tre

volte al giorno, ma l’ingestione di latte è inferiore rispetto ai sistemi automatici e la

richiesta di manodopera maggiore. Con il sistema a canaletta ogni capretto ha a

disposizione 25-30 cm di canaletta entro cui si trova il latte.

Per l’alimentazione delle caprette da rimonta l’obiettivo è quello di prepararle in

modo che verso i 7-8 mesi possano affrontare la gravidanza in maniera ottimale,

almeno negli allevamenti di tipo intensivo. Per far questo è necessario che, al

momento del primo salto, raggiungano un peso corporeo pari al 60% del peso vivo

adulto e, al momento del parto, un peso pari al 75% del peso vivo adulto. Pertanto,

l’allattamento sarà protratto fino a 3-4 mesi, riducendo il latte gradatamente dal 3°

mese.

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.Confronto tra latte in polvere spray e latte acido

Tipo Caratteristiche Vantaggi Svantaggi

Latte in

polvere

spray

latte bovino scremato

essiccato con metodo

spray, distribuito con

allattatrice, secchio

multi-biberon,

canaletta

accrescimenti più

veloci, più simile al

latte materno,

maggior controllo

sull’ingestione dei

singoli animali

somministrazione solo a

caldo, una volta ricostituito

degrada rapidamente, va

preparato di volta in volta,

maggior impiego di

manodopera, > costo,

Latte

acido

non contiene latte in

polvere, ma

sottoprodotti caseari e

sieroproteine,

distribuito con

secchio multi-biberon

e canaletta

preparazione e

somministrazione a

freddo (>15°C), dura

diverse ore dopo

essere preparato,

sempre a

disposizione dei

capretti, minor

impiego di

manodopera, < costo

< controllo dell’ingestione

dei singoli animali,

accrescimenti più lenti,

Svezzamento - La tecnica di svezzamento varia a seconda del tipo di allevamento. In

quello estensivo o semi-estensivo, dove i capretti crescono sotto le madri, lo

svezzamento avviene nell’arco di 2-6 mesi in modo graduale. In quello intensivo,

invece, avviene o in modo progressivo o con passaggio netto da latte ad alimento

solido.

Negli allevamenti intensivi, dove si mira, soprattutto, alla produzione del latte,

l’allattamento dei capretti è praticato solo nei primi 7-15 giorni con il latte della

madre, somministrato al secchio o al biberon, successivamente, almeno per 5

settimane, con latte ricostituito al quale vanno aggiunti gradatamente fieno e

concentrati nonché alcune ore giornaliere di pascolo razionato.

Lo svezzamento dovrebbe cominciare quando il capretto ha raggiunto un peso pari a

2,5 volte quello della nascita. Lo svezzamento graduale rende più facile il cambio di

dieta.

I concentrati specifici per svezzamento e accrescimento devono avere un contenuto

proteico elevato (18-20% per svezzamento e 16-18% per accrescimento); è

consigliabile somministrare il concentrato inizialmente in più pasti ed in piccole dosi

per suscitare la curiosità dei capretti e favorire l’ingestione. È importante che i

capretti abbiano sempre a disposizione acqua fresca e pulita e facilmente accessibile.

I foraggi devono essere di ottima qualità e a disposizione già dalla 3° settimana, per

favorire lo sviluppo del rumine. Il pascolo rappresenta un’ottima risorsa per

l’allevamento delle caprette da rimonta, ma è necessario osservare alcune

precauzioni:

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non far pascolare le caprette su parcelle già pascolate da ovi-caprini, per evitare il

rischio di parassitosi;

il pascolo deve avere essenze appetibili e tagliate da poche settimane o pascolate

in precedenza da bovini o equini (altezza del cotico erboso 7-12 cm);

l’uscita al pascolo deve avvenire intorno ai 4-5 mesi per animali svezzati a 2 mesi;

il tempo dedicato al pascolamento deve essere graduale e progressivo nell’arco di

2 settimane, per non creare squilibri alimentari.

Relativamente al fabbisogno dei becchi va considerato che, per il mantenimento essi

sono analoghi a quelle delle capre adulte, con una richiesta energetica superiore del

10%. Durante la stagione di monta, invece, i fabbisogni crescono del 15% circa. A

partire da 6 settimane prima delle monte e per tutta la loro durata, bisogna integrare

con concentrati ricchi in cereali (300-600 g/giorno, secondo il peso). Il contenuto in

fosforo della razione deve però essere limitato, per non provocare litiasi urinaria, con

disturbi all’attività sessuale.

e) suinetti - La produzione di latte nella scrofa necessita di uno stato di quiete in

quanto qualsiasi eccitazione dovuta a rumori, a cambi di porcilaia, presenza di

personale non addetto all’allevamento provoca rapidamente scariche di adrenalina

capaci di arrestare la produzione di latte e di restringere il lume dei canali galattofori.

I lattonzoli poppano ogni 1-3 ore sia di giorno che di notte, le poppate diradano con

l’età. I suinetti poppando stimolano essi stessi la produzione di latte secondo il

meccanismo schematizzato:

- effettuano un vigoroso massaggio della mammella e del capezzolo per 30 secondi;

- ognuno si attacca al proprio capezzolo di elezione aspettando che il latte scenda;

- iniziano la vera e propria suzione che dura circa 20 secondi.

Successivamente, ripetono le stesse operazioni per 3-4 volte: per ogni suzione

ingurgitano 20-40 g di latte, pari a 60-120 g per poppata e a 600-1.200 g durante le

24 ore.

Il latte di scrofa ha un elevato potere nutritivo (1.200 Kcal di EL/Kg). Ogni scrofa

che allatta produce 6 g di S.S. del latte per ogni Kg di peso vivo (contro i 5 della

capra e i 3 della vacca. Mediamente, produce 5,3-5,5 Kg di latte al giorno con punte

massime di 9 Kg ed un totale per l’intera lattazione di 300-350 Kg.

La quantità di latte prodotto varia con l’età e il numero di lattazioni; l’aumento di

peso avuto dalla scrofa durante la gestazione; l’entità della nidiata; la posizione di

mammella considerata (quelle anteriori possono erogare fino al 60% di latte in più).

Il picco massimo di produzione tende a cadere dopo la 3a settimana di lattazione ma,

già dal 10° giorno la lattazione comincia a manifestare una progressiva insufficienza

energetica. Considerando, invece, che i fabbisogni nutritivi dei suinetti aumentano

sempre di più in modo continuo e rapido, già alla fine della 2a settimana di vita il

solo latte materno non è più sufficiente a soddisfare le esigenze caloriche di una

nidiata di 10 suinetti. A parte l’aspetto energetico, il latte di scrofa non riesce ad

apportare sufficienti quantità di principi nutritivi (vi è anche carenza di ferro)

necessari per il normale accrescimento e per il mantenimento di un buono stato di

salute dei suinetti. Quindi, già dalla prima-seconda settimana bisogna somministrare

mangimi complementari del latte materno, di adatta composizione. Essi, detti anche

mangimi di preavviamento, vanno distribuiti a volontà nella gabbia da parto,

contengono anche polvere di latte e devono essere ben appetiti per spingere i suinetti

a ingerirne sempre di più prima dello svezzamento. La farina deve essere macinata a

grana non molto fine oppure, può essere somministrata sotto forma di cubetti ed è

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preferibile incorporare alla miscela idonee quantità di zucchero e sostanze appetibili

o, appetizzanti opportunamente odorizzate con aromi graditi all’animale.

Svezzamento: nonostante gli incontestabili progressi compiuti nella tecnica, lo

svezzamento è ancora l’operazione che crea più problemi all’allevatore a causa delle

possibili diarree, ritardi di crescita, stress e malattie che ne possono derivare.

Il momento ottimale per lo svezzamento è in relazione all’andamento della

produzione lattea della scrofa, dall’organizzazione dell’allevamento e dalla

disponibilità di ricoveri e di attrezzature nonché dai riflessi che la interruzione della

lattazione ha sull’efficienza riproduttiva della scrofa. Tradizionalmente, lo

svezzamento avveniva a 50-60 giorni di età, oggi si tenta di anticiparlo per aumentare

il numero annuo (2,3 – 2,5) dei parti nella scrofa. Orientativamente, si ha

convenienza a ridurre la durata della lattazione e, quindi, anticipare l’epoca dello

svezzamento solo nella misura in cui ciò non provochi turbe sanitarie e

dell’accrescimento nei suinetti, o della riproduzione nelle scrofe.

f) puledri - Il puledro comincia a succhiare il latte materno poco dopo la nascita, se

occorre bisogna aiutarlo a trovare i capezzoli e invogliarlo a succhiare in quanto è

necessario che assuma il colostro entro 36 ore; se, nonostante ciò, non si abitua è

necessario mungere la cavalla e somministrare il colostro con un biberon a piccole

dosi, almeno ogni due ore e per un totale di 2-2,5 litri al giorno. In caso la madre non

producesse colostro, bisogna procurarsi il colostro di un’altra cavalla dello stesso

allevamento oppure si somministra al puledro un leggero purgante per liberarlo del

meconio e praticare un’iniezione di siero di cavallo per immunizzarlo. In genere, il

puledro poppa ad intervalli di ½-1 ora all’inizio e con intervallo maggiore

successivamente. Verso il 3° mese ingerisce 10-15 litri di latte al giorno. Dopo 15-20

giorni dalla nascita, conviene mettere a disposizione del puledro erba e fieno e,

successivamente, avena e mangime in pellets fino ad arrivare a 1-1,5 Kg di

concentrato al giorno, verso i 3-4 mesi.

In casi particolari, una volta fatto assumere il colostro, il puledro sarà sottoposto ad

allattamento artificiale il quale sarà praticato con latte ricostituito oppure con latte

vaccino con aggiunta di acqua (2 litri di latte e uno di acqua), un po’ di zucchero e un

integratore vitaminico (soprattutto Vit. A e D3).

Il Gratani suggerisce che il latte per l’allattamento artificiale dei puledri sia costituito

da: 5 parti di latte bovino fresco + 3 parti di acqua + 35 g di zucchero per ogni litro di

miscela ed esso va somministrato come segue:

- mezzo litro, ogni due ore nella prima settimana;

- 12 litri, suddivisi in 6 pasti, nella 2a e 3

a settimana

- 14 litri, suddivisi in 4 pasti, dalla 4a all’8

a settimana;

- 14 litri, suddivisi in tre pasti, dalla 9a settimana.

Mentre, Jackson consiglia una miscela composta da: 120 g di latte bovino + 120 g di

acqua calda + un cucchiaino di acqua di calce la quale va somministra in dose di 250

g ogni 2 ore nella 1a settimana, successivamente dilazionare ogni 2 ore fino a portare

le poppate giornaliere a 4 dopo il primo mese di vita.

Bisogna considerare che, il puledro raddoppia il peso alla nascita già a 45 giorni di

vita e lo triplica tra i 90 e i 100 giorni.

Svezzamento: con l’adozione dell’allattamento materno allo stato brado o semibrado,

il puledro si abitua gradualmente a consumare dosi crescenti di erba e alla

diminuzione progressiva del latte della madre la quale, peraltro, se di nuovo in

gravidanza impedisce al puledro di poppare ed è, quindi, giunto il momento di

separare definitivamente il puledro dalla fattrice. Nell’allevamento a sistema stallino

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o semistallino, quando si ritiene che sia giunto il momento dello svezzamento si

permette al puledro di poppare solo 4 volte al giorno per poi passare gradatamente,

nel giro di 3-4 settimane, a 0.

g) conigli - La produzione massima di latte nella coniglia ha il suo picco tra i 16 e i

18 giorni dal parto, quando la stessa produce 200 g di latte al giorno. L’allattamento

naturale dura 7 settimane, circa, e in caso di necessità, il latte di coniglia è difficile se

non addirittura impossibile imitare. Quindi, in caso di prematura morte della coniglia

o per la sua mancanza di latte, è preferibile collocare i suoi redi presso altre coniglie

allattanti, confondendoli nella nidiata, dopo aver fatto loro assumere il comune odore

caratteristico strofinandoli con il pelo depositato nel nido. Il numero di capezzoli

nella coniglia varia da 6 a 10 e una buona fattrice dovrebbe avere 8-10 capezzoli

funzionanti. La pesata della nidiata permette di apprezzare la portata lattifera della

fattrice, infatti, va considerato che, approssimativamente, 1 grammo di incremento

ponderale richiede due grammi di latte. In genere, conviene pesare la nidiata alla

nascita e poi a 20 giorni e a parità di numero dei componenti la nidiata, la produzione

lattifera giornaliera media corrisponderà a circa un decimo della differenza tra i due

pesi. I coniglietti sono privi di peli e ciechi fino a 10-12 giorni; la madre li allatta una

volta al giorno ad intervalli regolari, verso i 12-14 giorni essi sono in grado di uscire

dal nido e a 15-16 giorni di iniziare l’assunzione di alimenti solidi (pellets e fieno

foglioso). A 20 giorni, l’alimentazione dei coniglietti è ancora esclusivamente a base

di latte, mentre a 24 -25 giorni essa scende al 50% e a 35 giorni, la produzione di

latte è insignificante.

Svezzamento: lo svezzamento dei coniglietti è legato al ritmo riproduttivo delle

fattrici e all’organizzazione aziendale e può essere: precocissimo, precoce,

fisiologico, tardivo. Negli allevamenti in cui si praticano ritmi riproduttivi

semiestensivi, con accoppiamenti a 10 giorni dal parto (sono i più numerosi), lo

svezzamento fisiologico può essere effettuato a 27-30 giorni dalla nascita, con

soggetti aventi un peso di almeno 350-380 g; invece, negli allevamenti con ritmo

riproduttivo intensivo lo svezzamento è precoce e cioè a 18-20 giorni. Per

l’applicazione di queste tecniche è necessario dotare la gabbia della fattrice di una

mangiatoia e di un abbeveratoio supplementari, ai quali possono accedere solo i

coniglietti che si devono abituare a mangiare appena usciti dal nido. Il mangime

fornito ai coniglietti deve essere sotto forma di pellet, altamente nutritivo e

facilmente digeribile, cioè deve rappresentare un buon sostitutivo del latte materno.

Alcuni suggeriscono di somministrare anche piccole quantità di fieno di medica

foglioso.

8.3. Fabbisogni di ingrasso

La carne è costituita da fasci muscolari più o meno infiltrati di grasso

(marezzatura). La formazione della carne quindi è connessa con l'accrescimento.

Quando si parla di ingrasso, perciò:

a) qualora si tratti di animali giovani, s’intende accelerare l'accrescimento (e la

formazione di fasci muscolari) favorendo anche un'adeguata ma non eccessiva

produzione di grasso e quella rifinitura che promuove la maturazione della carne;

b) qualora si tratti di animali adulti s’intende favorire quel moderato accrescimento

del tessuto muscolare ancora possibile, data l'età, ma soprattutto, una progressiva

deposizione di grasso del tessuto connettivo sottocutaneo, perimuscolare ed

inframuscolare che fanno assumere all'animale quelle caratteristiche proprie del

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soggetto ingrassato ed alla relativa carne migliori qualità organolettiche di tenerezza

e sapidità.

Negli animali adulti, i fabbisogni di ingrasso si concretizzano nell'aggiunta ai

fabbisogni di mantenimento di supplementi energetici, proteici e vitaminici

proporzionati al grado ed alla rapidità di ingrassamento desiderato. Nei bovini adulti,

ad esempio, per i quali i fabbisogni energetici di mantenimento sono 0,85 UFC /q,

quelli di ingrasso vanno da 0,7 a 1,40 UFC/q ed i fabbisogni proteici sono di 100-150

g di proteina digeribile per q di peso vivo. Negli animali giovani, i fabbisogni di

ingrasso tengono conto che in una prima fase (messa in carne; magronaggio nei suini)

si somministra un’alimentazione ricca sotto il profilo proteico, minerale e vitaminico

allo scopo di accelerare al massimo lo sviluppo muscolare e scheletrico; in un

secondo periodo (finissaggio) bisogna aumentare la quota energetica della razione (2-

2,5 volte la quota di mantenimento) facendo uso di alimenti ricchi in estrattivi

inazotati, in modo da permettere l'ulteriore accrescimento dello scheletro e delle

masse muscolari favorendo anche la deposizione di grasso e quella rifinitura di cui si

è detto. Bisogna però evitare l'eccessiva grassosità che deprezza il valore

dell'animale. Per i bovini, i piani alimentari sono basati sui livelli nutritivi:

alto: 2-3 UFC./q p.v.

medio: 1,8-2,0 UFC./q p.v.

Bovini – la tecnica di ingrassamento deve essere tale da provocare il massimo

sviluppo delle parti muscolari con un adeguato deposito di grasso intramuscolare.

Ciò è possibile solo attraverso un’alimentazione intensiva la quale consente anche di

anticipare i tempi di macellazione e, quindi, una maggiore tenerezza delle carni e una

maggiore produzione di carne magra con un massimo sviluppo di tagli pregiati. I

piani alimentari da adottare nell’ingrassamento differiscono a seconda del tipo di

animale che si intende produrre:

- vitello da latte a carne bianca (200-250 kg): sono destinati all’ingrasso i vitelli

subito dopo la fase colostrale, ad 8-10 giorni circa. L’allevamento è fatto detenendo i

vitelli, per circa 150 giorni in gabbie di dimensioni tali da limitare il movimento

dell’animale, pur consentendogli di alzarsi e coricarsi comodamente. Durante le

prime 24 ore dall’arrivo nell’allevamento, i vitelli sono tenuti a digiuno,

somministrando solo 2-3 litri di acqua bollita e zuccherata. Nel secondo giorno ha

inizio l’alimentazione esclusivamente a base di latte ricostituito. Bisogna considerare

che il colore della carne di questi animali deve essere rosa-chiaro e questo colore è

dovuto allo stato anemico, dipendente dall’alimentazione lattea e dalla mancanza di

ferro nel tipo di alimento usato. La polvere di latte che viene utilizzata è

completamente priva di ferro e bisogna fare attenzione che anche l’acqua usata per

ricostituire il latte non sia ferruginosa. Nel primo periodo di ingrassamento, i vitelli

devono ricevere un’integrazione minerale comprendente anche gli oligoelementi

indispensabili, ferro compreso; per soddisfare questa esigenza, l’integrazione viene

somministrata per tutto il primo mese di ingrasso e poi sospesa. Le diverse case

produttrici di latte ricostituibile suggeriscono il modo di preparazione del latte e la

sua concentrazione in funzione dell’età dell’animale; queste indicazioni devono

servire solo come orientamento ma l’allevatore deve variare l’alimentazione tenendo

conto delle caratteristiche individuali del singolo animale. Il miglior indice per il

dosaggio del latte da somministrare ad ogni vitello è rappresentato dall’esame della

consistenza e del colore delle feci, nonché dall’assenza nei vitelli di timpanismo.

Il vitello da latte grasso se ha ricevuto un’appropriata alimentazione presenta dorso e

cosce pienamente carnosi, uno strato di grasso sulla carcassa e una sufficiente

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formazione di grasso sui lombi, grasso bianco con giusta consistenza, la carne è quasi

bianca, tenera ma non molle.

- vitellone precocissimo o “mezzo lattone” o barley-beef per gli inglesi e ultra

baby-beef o children-beef per gli americani (8-11 mesi di età, 300-350 Kg di peso.

Il Preston (Università di Aberden) ha messo a punto un piano che si divide in due

periodi: 1) riguarda la tecnica di alimentazione dalla nascita allo svezzamento; 2)

dallo svezzamento alla macellazione (350 Kg). Nella prima fase, i vitelli sono

alimentati solo con latte ricostituito, fino al raggiungimento del peso di 70-80 Kg; a

partire dalla quarta settimana di età, essi ricevono anche una miscela di concentrati.

Lo svezzamento è praticato bruscamente quando gli animali hanno raggiunto il peso

prima detto. La fase di ingrasso inizia quando i vitelli hanno raggiunto il peso di 120-

140 Kg. Il mangime è somministrato ad libitum e per avere i migliori risultati

bisogna fare in modo tale da raggiungere un livello massimo di ingestione ed

utilizzazione degli alimenti da parte degli animali. La razione ideale per bovini a

rapido accrescimento deve contenere una quantità massima di concentrati amidacei

(cereali), integratori sufficienti a soddisfare i fabbisogni nutritivi degli animali e una

quantità minima di fibra necessaria al fine di assicurare la salute degli stessi. Se

vengono esclusi completamente i foraggi, la razione deve contenere almeno il 65% di

orzo e il 35% di avena. In America, considerata l’elevata produzione di mais, questo

cereale sostituisce l’orzo in miscele composte da farine di estrazione di semi di

cotone, fieno di medica sfarinato, ecc. Inoltre, secondo gli americani la fibra grezza

deve rappresentare almeno il 10% della razione.

Tra le tecniche attuate in Italia, degna di nota è quella proposta dal Borini la quale si

differenzia da quella di Preston per il fatto che nella fase intermedia

dell’ingrassamento, si aggiunge alla miscela di concentrati il 15-20% di farina di

fieno di medica allo scopo di stimolare la funzionalità ruminale e prevenire il

meteorismo. Peraltro, questa variante rende il razionamento più economico.

- vitellone precoce o baby-beef (11-14 mesi di età, 400-450 Kg di peso): conviene

partire da giovani vitelli da latte, in quanto il trattamento alimentare deve essere per

tutto il periodo ad un livello tale da favorire al massimo lo sviluppo delle porzioni

muscolari, con la formazione di un leggero strato di grasso, soprattutto, nell’ultima

fase di allevamento e cioè quella che va sotto il nome di finissaggio. Così facendo si

ottengono soggetti carnosi, con colore della carne di un rosso non carico, tenerezza e

succosità della carne corrispondenti a quelle richieste dal consumatore. Gli alimenti

utilizzati per il baby-beef sono essenzialmente tre:

- latte ricostituito che viene somministrato fino a 2 mesi di vita;

- fieno: si comincia a somministrare dalla 2-3a settimana, può essere somministrato a

volontà fino al peso di 230 Kg ma deve essere d’ottima qualità e nella mangiatoia

deve stare sempre fieno fresco; superati i 230 Kg non bisogna somministrare più di

2-3 Kg/capo giorno di fieno;

- miscela di mangimi concentrati: deve essere composta, soprattutto, da cereali (orzo

e mais schiacciati e pastone di mais) opportunamente integrati, facendo in modo che

il contenuto proteico della miscela sia del 13-14% e quello di fibra non inferiore

all’8-10%.

- vitellone (15-18 mesi di età, 500-600 Kg di peso): per la sua produzione si può

considerare razionale l’adozione di un piano di alimentazione:

- alto fino a 12 mesi;

- medio da un anno fino a 30-35 giorni dalla macellazione;

- alto nel periodo di finissaggio.

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Fabbisogni nutritivi dei vitelli nelle diverse fasi di ingrassamento

Peso

vivo

Kg

Incremento medio giornaliero (Kg)

1,000 1,250 1,500

U.F.

Proteine

digeribili

g

S.S.

Kg

U.F.

Proteine

digeribili

g

S.S.

Kg

U.F.

Proteine

digeribili

g

S.S.

Kg

150 3,3 506 4,4 3,9 601 4,5 - - -

200 3,9 558 5,4 4,3 653 5,6 4,8 750 5,8

250 4,3 606 6,3 4,7 701 6,8 5,1 795 7,0

300 4,9 656 7,7 5,1 749 8,0 5,6 842 8,2

350 5,3 706 8,5 5,5 799 8,8 5,9 890 9,2

400 5,6 720 9,1 6,0 812 9,5 6,4 905 9,8

450 5,9 770 9,8 6,7 860 10,2 7,2 955 10,5

500 6,3 785 10,5 7,2 870 11,0 7,7 970 11,4

550 6,7 790 11,8 7,6 875 12,2 8,0 978 12,6

600 7,0 795 12,5 7,9 880 13,1 8,5 985 13,5

Negli ultimi tempi, si consiglia di utilizzare quale alimento il mais nelle sue diverse

forme (insilato integrale, pastone di pannocchie, granella) in quanto ha un costo per

UF fornita più contenuto rispetto ad altri prodotti. Inoltre, per ridurre i costi di

produzione si possono utilizzare sottoprodotti industriali (polpe di bietola, buccette

d’uva e di pomodoro, ecc.). Per il piano alimentare alto e medio il mangime

concentrato dovrebbe entrare nella razione in ragione di Kg 1 e 0,5 per qle di peso

vivo dell’animale, rispettivamente. La razione si completata utilizzando foraggi

aziendali (insilati di mais) fino ad ottenere 1,8-2,0 UFC/qle peso vivo, nel primo e

ultimo periodo (allevamento e finissaggio) e 1,6-1,8 UFC/qle nel secondo periodo

(ingrasso). Varianti a tale tecnica si possono avere in funzione del tipo genetico

dell’animale e della disponibilità di alimenti a minor costo.

- Suini – L’alimentazione nel bilancio di gestione dell’allevamento suino incide per

il 70% e la riduzione dei costi alimentari può ottenersi mediante un’adeguata e

razionale organizzazione dell’allevamento e delle tecniche adottate, con un’adeguata

alimentazione ed un corretto razionamento in rapporto a: tipo di allevamento,

genotipo dell’animale, tipo di suino che si vuole produrre (leggero da macelleria,

pesante da salumificio).

La razione alimentare può essere somministrata sotto forma:

a) umida, praticata negli allevamenti collegati con l’industria lattiero-casearia dove

si ha necessità di utilizzare il siero e/o latticello; in genere, si usa per produrre suini

da salumificio;

b) asciutta, il concentrato è distribuito tal quale in forma di farina o pellettato;

questo tipo di distribuzione dà migliori risultati fino a quando il suino non ha

raggiunto i 50 Kg di peso vivo e nella produzione del suino da macelleria.

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181

Il livello alimentare e, cioè, la quantità di mangime composto che viene

somministrato agli animali in rapporto al peso vivo si può considerare:

- alto, l’alimentazione è ad libitum e ciò consente condizioni di tranquillità nei

soggetti in quanto non si ha competizione per la conquista del cibo; una masticazione

e un’insalivazione adeguata del cibo e, quindi, un maggior assorbimento e un

accrescimento uniforme del gruppo; minore manodopera richiesta; ridotto sviluppo

del truogolo; impiego di distributori semplici ed automatici. Di contro, se la base

genetica dei soggetti non è uniforme, vi possono essere soggetti molto voraci che si

cibano di continuo per cui alla macellazione si riscontra una quantità eccessiva di

grasso e nello stesso tempo si è sprecato dell’alimento.

- basso: si distribuisce una quantità di alimento inferiore a quella richiesta

dall’animale; la quantità di alimento che si distribuisce si chiama razione; questo

sistema permette: ai suini di raggiungere più agevolmente pesi elevati (160-180 Kg),

migliorare l’indice di conversione degli alimenti, ottenere carcasse magre.

In generale, somministrando un 25% in meno di alimento rispetto a quello che

l’animale avrebbe ingerito volontariamente si registra una diminuzione del 19,5%

dell’incremento ponderale giornaliero, un miglioramento del 6,6% circa dell’indice

di conversione degli alimenti ed una riduzione dello spessore del lardo dell’8,7%. I

tempi di allevamento si allungano leggermente ma si possono raggiungere pesi più

elevati senza che gli animali ingrassino eccessivamente.

Per quanto riguarda la scelta degli alimenti, bisogna considerare che, il maiale è un

animale onnivoro e che unendo più alimenti semplici si può produrre un mangime

composto capace di soddisfare sia le esigenze nutrizionali degli animali nelle diverse

fasi di accrescimento che il minor costo di produzione della miscela. Comunque,

nelle miscele di finissaggio del suino pesante devono prevalere il mais e l’orzo in

quanto apportano particolari caratteristiche alla carne e alla consistenza del grasso

mentre, per il suino leggero possono essere utilizzati altri alimenti alternativi ai

cereali.

Il valore calorico della dieta si esprime, preferibilmente, con l’energia digeribile e ciò

sia per motivi di praticità (è facilmente determinabile anche in vivo) sia perchè essa è

indipendente da fattori biologici-ambientali. Peraltro, anche in modo

approssimativo, è possibile trasformare l’energia digeribile (ED) in Energia

metabolizzabile (EM = ED x 0,95) o in TDN (TDN = ED : 45). Risultano, invece in

disuso, il sistema delle U.F. e delle U.A.

Per quanto riguarda l’apporto proteico (N x 6,25) e, soprattutto, aminoacidico delle

diete per suini si parla di “proteina ideale” che considera una dieta in grado di

apportare gli aminoacidi essenziali o abiosintetici negli stessi rapporti inter se con cui

risultano presenti nel muscolo.

- Nel nostro Paese si producono tre tipi di suini:

a) suino leggero o suino magro da macelleria il quale viene macellato a 100-110 Kg

di peso vivo ed è ricco di tagli carnosi. L’alimentazione ha una certa influenza,

soprattutto, nel periodo di accrescimento (nel passaggio dai 25-30 ai 50-60 Kg) ed in

quello di finissaggio sul tipo di suino che si vuole ottenere ed in particolare sulla

carcassa per quanto riguarda il rapporto carne/grasso. Per l’accrescimento ed il

finissaggio del suino magro è necessario e conveniente economicamente, raggiungere

un’elevata concentrazione energetica del mangime e cioè almeno 3.100-3.200 Kcal di

ED/Kg di mangime sul tal quale e questo è possibile mantenendo i valori della fibra

al disotto del 5% sul tal quale. La quantità di mangime da somministrare deve variare

dal ad libitum al 75% dell’ad libitum, la fibra non deve superare il 4,8 e il 5,7%,

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rispettivamente per le fasi di accrescimento e di finissaggio mentre, le proteine e gli

aminoacidi devono soddisfare le esigenze degli animali anche se le stesse, in base

all’unità di peso, diminuiscono con l’avanzare dell’età.

b) suino medio-pesante, di 135-145 Kg, alla macellazione presenta un discreto busto

utilizzabile e dei prosciutti che possono essere cotti o stagionati.

c) suino pesante da salumificio di 150-180 Kg. L’ingrasso del suino pesante

comprende quattro periodi fisiologici in corrispondenza dei quali l’animale prende il

nome di lattone (25-40 Kg), magroncello (40-60 Kg), magrone (60-100 Kg) e grasso

(100-160 Kg e oltre). Una metodica capace di fornire una risposta soddisfacente è

quella che prevede un razionamento variabile per quantità di energia a seconda dei

periodi in cui viene suddiviso il ciclo produttivo: livello nutritivo alto nella fase di

lattone e magroncello; medio alto per la fase di magrone e basso per quella di

finissaggio realizzabile mediante la somministrazione giornaliera di mangime che in

percentuale del peso vivo è compresa tra 4 e 3,7; 3,7 e 3; 3 e 2, rispettivamente. Se

nella razione è compreso il siero, i valori sopra detti devono essere ridotti in quanto

esso, per ogni Kg, contiene circa 65-70 g di sostanza secca e 230-250 Kcal di ED. Va

precisato, inoltre, che la sostanza secca apportata dal siero non deve superare il 30%

di quella della razione nella fase di accrescimento, il 20% in quella di finissaggio e

che il rapporto tra siero e concentrato non deve essere superiore a 4:1. Nei periodi di

accrescimento e finissaggio, i fabbisogni in proteina grezza, espressi in percentuale

del mangime, sono di circa 18, 16, 14 e 12, rispettivamente per le fasi di lattone,

magroncello, magrone e di ingrasso (finissaggio). Questi valori permettono un

accrescimento giornaliero di circa 650-700 g e indici di conversione oscillanti tra 3,8

e 4.

8.3.1. Esigenze alimentari dei bufali per la produzione della carne

L'allevamento dei maschi non ha mai trovato uno sbocco economico

interessante. Le cause dello scarso interesse per quest’attività sono molteplici e sono

da addebitarsi sia agli stessi allevatori sia alla miope mentalità dei commercianti che

non hanno intravisto nel bufalo un prodotto qualificante del loro banco di vendita, ma

un mezzo per frodare il consumatore al qual è stato sempre "rifilata", tranne qualche

sporadica iniziativa, carne di bufalo per quella bovina. In un periodo in cui è

diminuita la vendita della carne bovina, considerata dal consumatore con molta

diffidenza, per i noti trattamenti auxinici ed ormonali, tale atteggiamento

probabilmente ha nuociuto agli stessi commercianti che avrebbero potuto inserire

nella loro gamma un prodotto alternativo richiesto dalla massaia. Nel recente

passato, le carni di coniglio, di agnello e di altre specie hanno costituito un’attrattiva

del banco di vendita per quei consumatori, che hanno fatto registrare un’evoluzione

del gusto e hanno ridotto l'acquisto delle carni di maggior consumo (bovino-suino).

La mancata qualificazione della carne, contrariamente ai vantaggi derivanti dalla

valorizzazione del latte di bufala, ha ormai dissuaso gli imprenditori ad allevare i

maschi il cui prezzo di mercato è al di sotto all’effettivo costo di produzione.

Nel passato, una parte dei vitelli era allevata in quanto costituiva, in ogni caso,

un'entrata per l'azienda, che disponeva di superfici maggiori altrimenti inutilizzate.

L'allevamento di tipo estensivo contribuiva ad esitare sul mercato soggetti di 4 q di

qualità scadente, che risentiva della disponibilità stagionale dei foraggi e

raggiungevano il peso di macellazione a circa 3 anni. La resa al macello era inferiore

al 50% e la carne era particolarmente dura e caratterizzata dall'odore di muschio,

derivante dall'abitudine degli animali a trovare refrigerio nei cosiddetti tonzi o

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183

caramoni, sorta di pozzanghere che essi stessi scavavano nel terreno. In definitiva,

l'allevatore prestava poca cura all'allevamento dei maschi che, allevati con modiche

quantità di latte materno (secondo l'usanza succhiavano da tre capezzoli nel primo

mese e da due e da uno nel secondo e terzo mese), allo svezzamento raggiungevano il

peso di circa 60 - 70 Kg, successivamente ricevevano fieno scadente ed erano lasciati

al pascolo dopo i 6 mesi. Le infestioni di parassiti gastrointestinali e il barbone

(pasteurella bubaliseptica) operavano una selezione naturale e rallentavano la crescita

dei soggetti esorbitanti la rimonta e destinati al macello. Il tutto contribuiva a

diminuire il valore commerciale dei bufali giustificando in parte la scarsa valutazione

di mercato imposta dai macellai. La reciproca convenienza da parte degli allevatori

di esitare, sul mercato, soggetti allevati senza impegno di capitali con pascoli

marginali o con i residui della foraggiata delle bufale, e da parte dei commercianti di

acquistare, ad un prezzo di poco inferiore a quello reale, bufali da vendere in

macelleria per bovini, alla lunga non ha giovato all'immagine della carne bufalina

che, anche in caso di richiesta, era scarsamente reperibile da parte del consumatore.

Con le mutate tecniche di gestione aziendale, abbandono del pascolo e messa a

coltura dei terreni, l'allevamento di maschi per il macello induceva l'imprenditore a

stornare per un’attività poco redditizia parte della produzione aziendale (insilato e

fieno), destinata altrimenti alle bufale da latte che producevano una derrata richiesta e

ben remunerata. La mancanza di un mercato della carne bufalina giocava a sfavore

anche di quegli allevatori, veramente pochi, che producevano un vitellone con

caratteristiche qualitative non dissimili da quelle del bovino.

Ai vitelli da rimonta è opportuno somministrare, secondo la disponibilità aziendale,

una foraggiata che assicuri mediamente 4,5 UFL e 700 g di PG tra i 6 ed i 20 mesi di

vita, che rappresenta l'età media al primo salto. All'età di 600 gg (20 mesi), la

rimonta dovrebbe raggiungere il peso di 370 kg e, quindi, in 420 gg dovrebbe essere

in grado di crescere 210 kg pari ad un incremento giornaliero di 500 g. Per assicurare

tale accrescimento sono sufficienti 10 kg di insilato primaverile (orzo, veccia,

avena), 2,5 kg di fieno di medica ed 1,6 kg di polpe secche; nel caso in cui l'azienda

non disponga di fieno di medica ma di fieno di graminacee, le polpe secche vanno

sostituite con 800 g di soia o con 1 kg di nucleo al 40% di PG.

Per la produzione del vitellone da carne è necessario offrire una SS con maggiore

densità energetica e minore percentuale di FG, al fine di ottenere degli incrementi

maggiori. Diete con una percentuale di FG che oscilla dal 16,3% al 26,6% assicurano

incrementi ponderali di circa 800-900 g/die e una resa al macello di circa il 55%, solo

nel caso in cui la percentuale di FG è inferiore al 20%; le carcasse che si ottengono

con tali razionamenti non sono gradite dal macellaio perché ricoperte di grasso,

difficilmente separabile durante la dissezione dei vari tagli.

E' preferibile penalizzare l'accrescimento di circa 100 g (700-800 g/die) con un

razionamento meno spinto (0,5 UFC/die) e con un rapporto foraggi/concentrati di 2

che assicurano carcasse più magre e una resa di circa il 53%.

Finora ci si è sempre riferiti alla produzione di un vitellone di un peso inferiore ai

4 q senza accennare ad altri tipi di produzione.

I tentativi fatti finora per creare un mercato del vitello bufalino a carne bianca, del

peso vivo di circa 180 kg non hanno trovato consensi. Attualmente, il prezzo del

latte ricostituito è tale che il kg di incremento si ottiene ad un costo non competitivo.

Occorrono 1,7 kg di latte da ricostituire per ottenerne uno d'incremento di peso vivo.

E' stato dimostrato che la resa al macello migliora soltanto dopo i 6 q ma dopo i

380 kg si verifica una flessione della velocità di accrescimento e l'aumento di resa

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che si osserva è dovuta, prevalentemente, ad una maggiore deposizione di grasso. Ciò

si verifica in quanto la maturazione della carcassa e, quindi, l'infiltrazione di grasso,

modifica precocemente, rispetto al bovino, la composizione chimica dei tessuti

corporei che richiedono, pertanto, più energia per il mantenimento con conseguente

peggioramento dell'indice di conversione dell'unità nutritiva. Dopo i 380 kg, infine,

si avverte l'odore di muschio, poco gradito al consumatore, che la castrazione attenua

ma non elimina.

Abbiamo già affermato che soggetti di 380 kg con un incremento giornaliero di

800 g presentano una resa del 53-54% e quindi producono una carcassa di 200 kg che

fornirà 125 kg di carne (62% della carcassa).Un vitellone bovino di pari peso non

presenta delle rese molto diverse: 56% resa al macello, 62% resa in carne della

mezzena. Sotto certi aspetti la carne di bufalo è da ritenersi superiore in quanto è più

ricca di Ac. stearico ed Ac. oleico, che si sono dimostrati neutri nella colesterolemia

dell'uomo, e di Ac. linoleico che è un acido grasso essenziale. Non esistono

sostanziali differenze con quella bovina per quanto riguarda la quantità globale di

proteine anche se alcuni aminoacidi essenziali (lisina, fenilalanina, tirosina, treonina

e valina) sono meno rappresentati. Dal punto di vista aminoacidico, tuttavia, la carne

di bufalo risulta più equilibrata in quanto si discosta meno dallo schema distributivo

proposto dalla FAO/OMS per i fabbisogni dell'uomo. Il contenuto vitaminico-

minerale è leggermente diverso da quello della carne bovina, quella di bufalo risulta

meno ricca di riboflavina, di Ca e contiene maggiori quantità di vitamina B6, B12, Fe

e K.

8.4. Fabbisogni per la produzione del latte

La produzione di latte implica la conversione di principi nutritivi in latte. Una

vacca da latte altamente produttiva può produrre in una sola lattazione una quantità di

sostanza secca sotto forma di latte, 3-4 volte superiore a quella contenuta nel suo

stesso organismo. I fabbisogni alimentari dipendono dalla quantità di latte prodotto e

dalla sua composizione. Qualitativamente, i latti delle varie specie hanno una

composizione simile, ma le quantità delle varie frazioni presenti, come le proteine e i

grassi, variano da specie a specie.

Il maggior costituente del latte è l’acqua, nella quale sono sciolti molti elementi

inorganici, sostanze azotate solubili come gli aminoacidi, la creatina e l’urea,

l’albumina, che è una proteina idrosolubile, insieme al lattosio, agli enzimi, alle

vitamine idrosolubili del complesso B e alla vitamina C. In sospensione colloidale, in

questa soluzione, vi sono sostanze inorganiche quali composti del calcio e del fosforo

e la caseina; in questa fase acquosa vi è dispersa una sospensione di minuscoli

globuli di grasso del latte.

Questa fase lipidica contiene i veri trigliceridi del latte (circa 980 g/kg) assieme ad

altre sostanze associate ai grassi, come i fosfolipidi, il colesterolo, le vitamine

liposolubili, i pigmenti, tracce di proteine e metalli pesanti. La fase lipidica,

generalmente, è indicata come “grasso” e i restanti costituenti del latte, diversi

dall’acqua, sono indicati come “sostanze non grasse” o <<SNF>> o residuo magro.

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Composizione del latte nelle varie specie zootecniche (g/kg)

Specie Grassi Residuo

magro

Proteina

grezza

Lattosio Ca P Mg

Vacca 37 90 34 48 1,2 0,9 0,12

Capra 45 87 33 41 1,3 1,1 0,20

Pecora 74 119 55 48 1,6 1,3 0,17

Scrofa 85 120 58 58 2,5 1,7 0,20

Asina 5 15 68

1 10

2 21

4 28

6 30

10 28

15 24

25 21

35 18

40 15

Curva di lattazione nei bovini

0

5

10

15

20

25

30

35

1 2 4 6 10 15 25 35 40

Settimane dal parto

kg

Nei bovini, la produzione di latte dipende dalla razza, il ceppo, l’individuo, lo stadio

di lattazione. In genere, la produzione aumenta dal parto fino al 35° giorno circa, poi

decresce regolarmente, di circa 2,5% a settimana, fino alla fine della lattazione. In

alcuni soggetti, la produzione è massima all’inizio della lattazione, poi decresce

rapidamente. In modo approssimativo, la punta massima di produzione può essere

calcolata come un duecentesimo della produzione lattea prevista, oppure 1,1 volte la

produzione registrata due settimane dopo il parto; ad esempio, per una vacca che 15

giorni dopo il parto produce 20 kg di latte si può prevedere una punta massima di 22

kg giornalieri di latte. Il fatto che, successivamente, la produzione declini del 2,5%

per settimana è utile per controllare le deviazioni dalla norma nel corso della

lattazione.

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Unità misura

Energia

1 Kcal = 1000 cal

1 J = 0,239 cal

1 KJ = 239 cal

1 Kcal = 4,184 KJ

1 MJ = 1000 KJ = 1000.000 di J

1 MJ = 239 Kcal

Contenuto energetico latte 4% di grasso 740 Kcal = 3,10 MJ

UFl

Contenuto energia netta = 7,24 MJ = 1730 Kcal

Necessarie per produrre 1 litro di latte al 4% di grasso = 0,44

1 UFl corrisponde a 2,33 l latte al 4% grasso

Contenuto del latte al 3,7% di grasso Esigenze per la produzione

(considerando la metabolizzabilità)

Proteine = 35 g

Grasso = 37 g

Lattosio = 49 g

Ceneri: 7 g

Calcio: 1,21 g

Fosforo: 0,95 g

Energia = 3,05

50 g (proteine digeribili)

3,7 g

1,5 g

5,08 MJ EM

Il soddisfacimento delle esigenze nutritive delle femmine in lattazione non deve

limitarsi alle specie delle quali si utilizza il prodotto per l'alimentazione umana,

diretta, o per la trasformazione casearia (bovini, ovini, caprini, bufalini) ma tenere

conto delle altre specie dato che questa produzione è importante ai fini

dell'allevamento della prole, soprattutto se i parti sono plurimi.

8.4.1. Esigenze per la produzione del latte nei bovini

Una vacca che pesa 500 kg di peso che, nel corso della lattazione produca

4.000 kg di latte dà una produzione pari a 8 volte il suo peso e attraverso la

mammella emette una quantità di sostanze nutritive pari a 2,5 volte il peso delle

sostanze contenute nel suo stesso organismo, e con 20 litri di latte al 3,7% di grasso

(produzione media di una buona lattifera) in un giorno produce: 740 g di grasso, 700

g di proteine, 980 g di lattosio, 140 g di sostanze minerali di cui 25 g di calcio e 20 g

di fosforo, per un totale di 14.600 Kcal.

Alle esigenze della lattazione, le femmine dei mammiferi fanno fronte ricorrendo alle

proprie riserve organiche ed ai contenuti della razione. In particolare, nelle prime fasi

della lattazione, le vacche da latte forti produttrici, si trovano nell’impossibilità

fisiologica di assorbire e metabolizzare (assumendoli dagli alimenti loro

somministrati) tanto Ca e P quanto ne richiede il latte prodotto, quindi, devono

necessariamente ricorrere alle riserve contenute nel loro scheletro.

Ne conseguono fatti di demineralizzazione, che restano nei limiti fisiologici qualora

con l'alimentazione siano apportati sufficienti quantitativi di questi due elementi che

saranno reintegrati nello stesso scheletro durante le successive fasi della lattazione o

durante l'asciutta. L'interparto nella vacca è normalmente di 300-350-400 giorni e si

suddivide in quattro fasi che corrispondono a quattro momenti diversi

dell'alimentazione: alta, media, bassa produzione e asciutta.

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187

Parametri produttivi in vacche da latte (Smith, 1982) (modificato)

Vacche

Latte

prodotto

Kg/d

Max assunzione S.S.

Kg/d

Durata deficit

Energetico

Alta

produzione

50

24,6 alla

14^ settimana

Fino alla 21^ settimana

Media

produzione

32,5

19,5 alla

13^ settimana

Fino alla 13^ settimana

Bassa

produzione

27,5

18,3 alla

13^ settimana

Fino alla 10^ settimana

I primi tre momenti s’identificano nella curva di lattazione che esprime il potenziale

genetico della vacca da latte, il quarto momento (asciutta) è, altrettanto, delicato

perché è in grado di restituire all'animale quanto prelevato dal proprio organismo con

la precedente lattazione e di prepararla alla successiva. L'applicazione della tecnica di

alimentazione, della lattifera per fasi, è favorita dai moderni sistemi computerizzati

che controllano e regolano, animale per animale, il rapporto

alimentazione/produzione/peso forma, corrispondendo ad ogni vacca l'alimentazione

che le è dovuta, agendo, soprattutto, sui quantitativi giornalieri di concentrati

(distributori automatici/dosatori a collare).

Fabbisogni S.S. bovina da latte

a) equazione che tiene conto del PV e del latte prodotto al 4%

- S.S. = (PV x 0,0185) + (Kg latte al 4%) x 0,305

Es. calcolare la S.S. consumata da una bovina di 600 Kg e che produce 32,5 Kg di

latte al 3,5%

1) trasformazione latte al 3,5% in latte standard:

32,5 x (0,4 + 0,15 x 3,5 = Kg 30 al 4% di grasso

2) calcolo S.S. = (600 x 0,0185) + (30 x 0,305) =

11,1 + 9,15 = 20,25 Kg S.S.

b) si ricorre a tabelle che, tenendo conto del peso vivo e della produzione di latte,

danno un valore che va moltiplicato per il peso vivo:

Esempio precedente: fattore di moltiplicazione = 3,5

- S.S. richiesta = 600 x 3,5 = 21 Kg

Va considerato:

1) nei primi 90-100 giorni di lattazione l’ingestione si riduce di un 15% rispetto al

valore teorico

2) per sollecitare una buona produzione ruminale di AGV il rapporto

foraggi/concentrati deve essere:

- 60 : 40 per basse produzioni

- 50 : 50 per medie produzioni

- 40 : 60 per alte produzioni

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Fabbisogni UFl bovina da latte

Si possono usare due metodi di calcolo:

a) a) considerare i fabbisogni per il mantenimento e per la produzione di latte al 4%:

- mantenimento = 1,4 + 0,006 x PV

- produzione = 0,44 x kg latte al 4%

Es. Vacca di 600 Kg, produzione 32,5 al 3,5% di grasso

(32,5 x (0,4 + 0,15 x 3,5 = Kg 30 al 4% di grasso):

- mantenimento = 1,4 + (0,006 x 600) = 1,4 + 3,6 = 5,0 UFl

- produzione = 30 x 0,44 = 13,2 Ufl

Totale 18,2 UFl

b) b) l’UFl va riferita alla S.S. che la bovina dovrebbe ingerire ed il suo valore è

proporzionale all’entità della produzione:

- 80% per bassa produzione

- 88% per media produzione

- 90% per alta produzione

Es. nell’esempio precedente la bovina dovrebbe ingerire 19,7 Kg di S.S. e quindi 19,7 x

0,90 = 17,73 UFl

Accorgi-

menti

- Gli alimenti vengono digeriti meno con l’inserimento di elevate quantità

di concentrati: deprimono l’attività dei batteri cellulosolitici e riducono il

livello energetico della razione e quindi bisognerebbe supplementare la

razione di 0,1 – 1,5 UFl a secondo la qualità del foraggio

- In animali al pascolo bisogna prevedere un supplemento di 20% e 50%

UFL, rispettivamente se in pianura e montagna

- Un supplemento di 0,4 – 0,7 e di 0,1 – 0,2 UFL è previsto per le primipare

e le pluripare, rispettivamente per l’accrescimento

I fabbisogni nutritivi della lattazione, sotto il profilo energetico, proteico, minerale e

vitaminico, dipendono dal quantitativo di latte prodotto e dalla sua composizione

(soprattutto il grasso), che varia da specie a specie e per la percentuale di grassi e di

proteine, anche da razza a razza se non da animale ad animale (ereditabilità del

contenuto in grasso: h2 = 0,8; per le proteine = 0,5). Leroy suggerisce che,

mediamente bisogna somministrare 0,38 U.F. con 60 g di proteine digeribili x Kg di

latte prodotto. In pratica, secondo Borgioli, si calcolano i fabbisogni in unità

foraggere per ogni kg di latte facendolo coincidere con tanti centesimi di unità, quanti

sono i grammi di grasso contenuti in un kg di latte:

0,34 per 1 Kg di latte al 3,4% di grasso

0,38 " " " " 3,8% "

0,40 " " " " 4,0 % "

fermo restando i 60 g di proteina digeribile. Necessità che si rende indispensabile

soddisfare, soprattutto, quando la produzione giornaliera supera i 20 kg di latte.

Comunque, è necessario tenere conto di una quota di maggiorazione del 12-15% in

quanto ci possono essere delle discrepanze tra valore nutritivo teorico dei foraggi e

dei mangimi ed il valore nutritivo reale e sia perché il fabbisogno di mantenimento e

quello della produzione di latte (unità) aumentano con il livello nutritivo e

produttivo. I fabbisogni proteici di lattazione sono soddisfatti con i 60 g di protidi

digeribili/kg di latte, ma nei monogastrici è necessario somministrare aminoacidi

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189

essenziali in quanto non sono in grado di sintetizzarli. Per i minerali, non vanno

trascurati il Ca e il P. Il fabbisogno vitaminico non presenta problemi quando la

lattifera usufruisce d’alimentazione verde, con l'alimentazione secca, invece, bisogna

somministrare caroteni e vitamina A in quantità di 20-25 mg/kg di latte prodotto. Per

i monogastrici bisogna somministrare le diverse vitamine.

Negli ultimi anni, nell’alimentazione della bovina da latte assumono importanza:

A) il rapporto foraggi: concentrati: normalmente è espresso in percentuale della

sostanza secca totale apportata dalla razione, dipende dallo stadio fisiologico

dell’animale (asciutta, lattazione), in secondo luogo dal livello produttivo e, infine,

dalla qualità dei foraggi. I due parametri, che meglio sintetizzano il valore nutritivo

di un foraggio, sono il contenuto in fibra (NDF) e in energia (UFL), entrambe

espresse sulla sostanza secca per poter meglio confrontare più facilmente i foraggi a

diverso tenore d’umidità. Va precisato che, il silomais va considerato un foraggio a

se stante in quanto circa metà della sua S.S. è ascrivibile alla granella che ha un

contenuto energetico simile a quello di un concentrato.

Controllo dello stato di nutrizione della bovina

Presentazione Punteggio

I processi trasversi delle vertebre lombari sono facilmente distinguibili al tatto e risultano

appuntiti: notevole è la depressione fra spina dorsale ed anca. Attorno alla coda vi è una

profonda cavità, la cute è aderente allo scheletro per assenza di grasso (troppo magra)

1

I processi trasversi delle vertebre lombari possono essere identificati individualmente al

tatto, ma si sentono arrotondati; la depressione fra spina dorsale ed anche è ben visibile.

La cavità attorno alla coda è meno profonda, ma le ossa sono ancora prominenti; vi è

traccia di grasso nel sottocute e la pelle è flessibile

2

Processi trasversi arrotondati e la depressione fra spina dorsale ed anca è meno evidente.

Cavità attorno alla coda poco pronunciata e con grasso presente in misura modesta, ma le

ossa del bacino si sentono bene.

2,5

I processi trasversi delle vertebre lombari si possono sentire soltanto con una certa

pressione e la depressione fra spina dorsale ed anca è leggera. La presenza di grasso è

ben percettibile anche sulla punta della natica, la pelle è morbida e le ossa del bacino si

sentono ancora.

3.0

I processi trasversi si sentono solo con notevole pressione e sopra lo strato è spesso per

cui la depressione fra spina dorsale ed anca è pressoché scomparsa. L’area attorno alla

coda è quasi riempita di grasso, la pelle è morbida e flessibile mentre le ossa si sentono

con difficoltà

3,5

I processi trasversi non si sentono più e non si apprezza la depressione fra la linea della

spina dorsale ed anca. Il grasso sulla punta della natica è ben visibile ed è soffice al tatto;

la cavità attorno alla coda è totalmente scomparsa (troppo grassa)

4.0

Punteggio ottimale nelle diverse fasi:

al parto................................. 3,0-3,5

2-3 mesi dopo il parto .......... 2,0 meglio se 2,5

fine lattazione ...................... 3,0

La Cornell University ha proposto la seguente formula per stimare la quantità di SS

giornalmente ingerita dalla bovina da latte:

SS ingerita (kg/d) = PV (kg) x 0,0185 + latte 4% (kg) x 0,305.

Per calcolare la produzione di latte corretta:

Kg latte 4% = kg latte x (0,4 + 0,15 x % di grasso del latte);

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ad esempio, 45 kg di latte al 3,6% di grasso equivalgono a:

45 x (0,4 + 0,15 x 3,6) = 42,3 kg latte 4% (FCM).

B) la concentrazione energetica - il fabbisogno energetico viene espresso in UFL/kg

SS: il valore minimo (0,80 UFL/ kg SS) si ha per produzioni di latte inferiori a 15 kg

FCM/giorno, quello massimo (0,97 UFL/kg SS) per produzioni superiori a 40 kg

FCM/giorno. Con produzioni comprese tra 15 e 40 kg FCM/giorno, la

concentrazione energetica della razione si può calcolare con la seguente equazione:

UFL/kg SS = FCM x 0,0062 + 0,7204

Se la bovina è in asciutta, la concentrazione energetica consigliata è pari a 0,65

UFL/kg SS che dovrebbe passare a 0,80 negli ultimi 15 giorni prima del parto.

Il fabbisogno energetico giornaliero complessivo per una bovina è dato dalla somma:

1) mantenimento: UFL /d = 1,4 + 0,006 x kg PV

2) produzione di latte: UFL/d = 0,44 x kg FCM (va considerato che un kg di FCM

contiene 3096 kJ, mentre, un’UFL ne ha 7113 e, quindi, per la produzione di un kg di

FCM la bovina necessita di 3096/7113 = 0,44 UFL

3) ricostituzione riserve corporee: UFL/d = 4,5 x kg di incremento ponderale

giornaliero (le riserve corporee sono costituite da grasso che ha un contenuto

energetico di 31.380 KJ e quindi per ogni kg di incremento ponderale la bovina avrà

bisogno di 31.380/7113 = 4,5 UFL circa); per le primipare, per ogni kg di incremento

giornaliero si dovrebbero somministrare 3 UFL, considerando che il loro incremento

è dovuto anche alle masse muscolari e ossee che hanno un minor contenuto

energetico.

Rapporti (orientativi) foraggi/concentrati, espressi sulla SS, delle bovine in lattazione, in

funzione della qualità del foraggio e del livello produttivo

Foraggio

NDF UFL/kg SS

Kg di latte al 4% di grasso

% SS Asciutta < 15 15-20 21-25 26-30 31-35 36-40 > 40

> 60 0,6 85 : 15 65 : 35 60 : 40 50 : 50 45 :55 40 :60 - -

50-60 0,7 90 : 10 70 :30 65 : 35 55 : 45 50 :50 45 :55 40 :60 35: 65

45-50 0,8 - 75 : 25 70 : 30 60 : 40 55 :45 50: 50 45: 55 40 :60

< 45 0,9 - 80 : 20 75 : 25 65 : 35 60 :40 55 :45 50:50 45 :55

I fabbisogni energetici possono anche essere espressi in EM ed essere derivati con

metodi fattoriali. Ciò comporta il calcolo del valore in EL del latte prodotto, che può

essere usato per stimare il fabbisogno energetico netto per la produzione del latte. La

determinazione dell’EL del latte comporta l’impiego della bomba calorimetrica o

un’analisi chimica dettagliata; i tenori in grasso, carboidrati e proteine sono poi

moltiplicati per i rispettivi valori energetici ed i prodotti ottenuti sono sommati.

L’Agricultural Research Council (1980) ha proposto la seguente equazione per

calcolare il contenuto energetico del latte:

EL latte (MJ/kg) = 1,509 + 0,0406 F

in cui F = contenuto lipidico del latte in g/kg. Valutazioni più accurate si possono

avere prendendo in considerazione anche il residuo magro (SNF) utilizzando la

seguente equazione:

EL latte (MJ/kg) = 0,0386 F + 0,0206 SNF - 0,2553

Successivamente, si calcola l’energia necessaria per soddisfare il fabbisogno in EN e

per questo è necessario conoscere il rendimento dell’utilizzazione dell’EM, per la

produzione del latte (kl) che, secondo i dati di Forbes, Fries e Kellner è di 0,70 per

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191

diete che consentono una normale fermentazione ruminale (acido acetico prodotto

rispetto agli altri acidi grassi volatili = 50-60%). Quando, invece, la proporzione di

acido acetico scende al di sotto del 50% la vacca non è in grado di sintetizzare in

quantità sufficiente gli acidi grassi a breve e media catena carboniosa, che

contribuiscono in larga misura a formare il grasso del latte; mentre se, l’acido acetico

supera il 65% il rendimento di utilizzazione dell’energia si abbassa così come

avviene per le altre produzioni.

Kl varia da 0,51 a 0,81 ma generalmente è 0,60-0,65. Van Es, ritiene che il

rendimento dell’utilizzazione dell’energia metabolizzabile, per la produzione del

latte, dipende dalla metabolizzabilità (qm) della dieta, definita come il rapporto fra

EM (MJ/kg s.s.) corrispondente al livello di mantenimento ed EL della dieta (MJ/kg

s.s.). Vale a dire q = EM/EL. I suoi rapporti secondo i dati olandesi (a) e americani

(b) sono: (a) Kl = 0,385 + 0,38 qm; (b) kl = 0,466 + 0,28 qm

dove kl = rendimento dell’utilizzazione dell’EM per la produzione del latte, a peso

dell’animale costante. Più recentemente, si è ritenuto opportuno calcolare kl come

0,35 qm + 0,42. Inoltre, si suppone che il valore in EL della S.S. della dieta di tutti gli

alimenti sia costante e pari a 18,4 MJ/kg e, quindi, la precedente relazione può essere

così modificata: kl = 0,019/M / S.S. + 0,42 dove M/s.s. è la concentrazione di EM

nella S.S. (MJ/kg) e kl può quindi essere calcolato dalla concentrazione energetica

della dieta. Per gli insilati e le miscele ad alto titolo lipidico, che frequentemente

costituiscono la maggior parte della razione della vacca da latte, è preferibile la

seguente equazione:

EL (MJ/kg) = 0,0226 PG + 0,0407 EE + 0,0192 FG + 0,0177 EI

dove PG (proteina grezza), EE (estratto etereo), FG (fibra grezza) e EI (estrattivi

inazotati) sono espressi in g/kg.

Quando non sono disponibili i relativi dati per gli insilati si calcola un’EL = 19,2

MJ/kg s.s. e per gli alimenti con elevato contenuto lipidico EL = 19,4 MJ/kg s.s.

mentre, come abbiamo già detto, per gli altri alimenti si considera un valore d’EL =

18,4 MJ/kg s.s.

Il fabbisogno d’energia metabolizzabile per la produzione del latte (Ml) può essere,

quindi, considerato: Ml (MJ/kg) = EL del latte / (0,35 qm + 0,42). Così, per una

vacca che produce latte al 4% di grasso e con un residuo magro di 90 g/kg e che

riceve una razione con qm = 0,6, il fabbisogno di Ml è di 5,02 MJ /kg latte prodotto.

La vacca da latte, normalmente, perde o guadagna peso: nel primo caso ricorre alle

proprie riserve per mantenere il suo livello di produzione di latte, nel secondo caso

significa che la razione è messa in riserva. Il valore energetico del guadagno di peso è

mediamente di 26 MJ/kg. Il rendimento con il quale l’EM è depositata nei tessuti

(kg), nelle femmine in lattazione è più alto che in quelle che non lo sono ed è,

leggermente, più basso di kl e oggi è considerato kg = 0,95 kl. Per ogni kg di

guadagno in peso, significa che 26/0,95 kl MJ d’EM della dieta non sono utilizzabili

per la produzione del latte o che, questa quantità d’EM è superiore rispetto a quella

richiesta per il mantenimento e per la produzione del latte. In termini d’energia netta,

ogni kg di guadagno di peso può essere considerato come un’aggiunta di 26/0,95 =

27,36 MJ, oltre il fabbisogno di lattazione. In merito al rendimento dell’utilizzazione

per la produzione del latte dell’energia mobilitata dai tessuti corporei, va considerato

che esso è di circa 0,84; ciò significa che per ogni kg di tessuto corporeo mobilitato

26 x 0,84 = 21,84 MJ d’energia sono emessi come latte. Oltre all’energia per la

produzione del latte, la lattifera ha bisogno dell’energia per il mantenimento che può

essere così calcolata: Em (MJ/giorno) = 0,53 (W/1,08)0,67

+ 0,0043 W; il coefficiente

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0,0043, per attività muscolare, si riferisce a vacche che vivono in condizioni normali

di riposo, non legate; si basa sul tempo che l’animale rimane in piedi (circa 14 ore), il

numero di volte che cambia posizione (nove volte al giorno) e camminerebbe per

circa 500 m al giorno.

Il coefficiente può essere così calcolato:

Attività Costo energetico Energia spesa

MJ/ kg/giorno

Posizione eretta (14 ore) 10 kJ /kg/giorno 0,0058

Cambiamenti di posizione (9) 0,26 kJ/kg 0,0023

Cammino (0,5 Km/giorno) 2 J /kg/metro 0,0010

Totale 0,0091

Il rendimento dell’utilizzazione dell’energia metabolizzabile della dieta, per il

mantenimento (km) può essere così calcolato: km = 0,35 qm + 0,503 e il fabbisogno

d’EM per il mantenimento corrisponde a:

Mm (MJ/giorno) = (0,53 (W/1,08)0,67

+ 0,0091W)/ (0,35 qm + 0,503).

Calcolare il fabbisogno di EM di una vacca del peso di 6 q, che produce 30 kg di latte

al giorno al 4% di grasso, perde 0,4 kg/giorno di peso corporeo, la cui dieta ha un

qm = 0,6

EM = 0,53 (600/1,08)0,67

+ 0,0091 x 600 42,04 MJ giorno

km = 0,35 x 0,6 + 0,503 0,713

El = 30(1,509 + 0,0406 x 40)

kl = 0,35 x 0,6 + 0,42

Eg = - 0,4 x 0,26

93,99 MJ/giorno

0,630

- 10,4 MJ/giorno

Energia risparmiata per perdita di peso (10,4 x 0,84) + 8,74 MJ/giorno

Mm = 42,04/0,713

Ml = (93,99 - 8,74)/0,630

58,96 MJ / giorno

135,32 MJ/giorno

Fattore di correzione per il livello alimentare (1 + 0,018

Mp/Mm)

1,041

Mmp = (135,32 + 58,96) x 1,041 202,25 MJ/giorno

Margine di sicurezza = 5%

EM raccomandata (202,25 x 1,05) 212 MJ/giorno

Calcolo dell’EL del latte

Componenti g/kg EL MJ/kg EL MJ/kg latte

Grasso 40 38,12 1,52

Proteine 34 24,52 0,83

Carboidrati 47 16,54 0,78

Latte 3,13

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193

Composizione del latte in alcune razze bovine (g/kg)

Shorthorn Friesian Ayrshire Gurnsey

Grasso 35,3 34,6 36,9 44,9

Residuo magro 87,4 86,1 88,2 90,8

Proteine 33,2 32,8 33,8 35,7

Lattosio 45,1 44,6 45,7 46,2

Ceneri 7,6 7,5 7 7,7

Calcio 1,21 1,13 1,16 1,30

Fosforo 0,96 0,90 0,93 1,02

Valore energetico (MJ/kg) 3,04 3,09 3,40

C) concentrazione proteica: almeno all’inizio, un’elevata concentrazione proteica

tende ad aumentare la produzione di latte, spesso, però, ciò si accompagna a

problemi d’ordine sanitario. La percentuale di PG, sul secco, varia dal 14 (bovine che

producono meno di 15 kg FCM/d) al 18% (per produzioni superiori a 40 kg FCM/d)

mentre, per produzioni intermedie le PG sono calcolate con l’equazione:

PG (% SS) = FCM x 0,144 + 12,008).

Per le bovine in asciutta, il contenuto di PG sulla SS è del 12%: oscillazioni del 3 e

6% sono consentite per le bovine in lattazione e in asciutta, rispettivamente.

L’aumento del tenore proteico deve essere seguito da una maggiore concentrazione

energetica della dieta ed, in modo particolare, d’amido e di zuccheri per dare la

possibilità ai microbi ruminali di utilizzare più efficacemente l’azoto, che si libera

dalle proteine e, quindi, impedire un innalzamento del tasso ammoniacale nel rumine

e d’urea nel sangue e nel latte. La concentrazione ottimale, in amidi e zuccheri, è del

19% sulla SS per produzioni fino a 15 kg di latte e passa al 26% per produzioni

superiori a 40 kg; per produzioni intermedie i fabbisogni sono calcolati con

l’equazione (sono ammesse variazioni del 10%): Amido + zuccheri (% SS) = FCM

x 0,2 + 17,4

Peraltro, aumentando la concentrazione proteica della razione deve aumentare anche

quella delle proteine by-pass (UIP). Con produzioni giornaliere di latte inferiori ai 15

kg FCM le UIP dovrebbero essere il 30% delle PG e le PDI il 9% della SS. Con

produzioni comprese tra 15 e 40 kg FCM sono impiegate le seguenti equazioni:

- UIP (% PG) = FCM x 0,34 + 24,28

- PDI (% SS) = FCM x 0,132 + 6,324

L’oscillazione consentita è del 6 e 3%, rispettivamente, per le UIP e le PDI. Nelle

bovine in asciutta il contenuto ottimale di PDI sulla SS è dell’8%

In sintesi la quantità di PDI (g/d) da somministrare alle bovine è di:

- mantenimento: 0,65 x kg PV

- produzione di latte: 55 x kg FCM (L’INRA in Francia consiglia 48 g anziché 55)

- accrescimento: 300 x kg d’incremento ponderale

- gestazione: 200 nell’ultimo mese di gestazione.

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0.5 0.7

0.6 0.7

0.7 0.55

0.8

0.9

Rendimento energetico della lattazione

0

0.1

0.2

0.3

0.4

0.5

0.6

0.7

0.8

0.3 0.4 0.5 0.6 0.7 0.8 0.9

Proporzione molare dell'acido acetico rispetto agli altri acidi grassi volatili del

rumine

Ren

dim

en

to d

ell'u

tilizzazio

ne d

ell'E

M

Il fabbisogno di proteine degradabili nella vacca in lattazione dipende dalla taglia

dell’animale, dalla quantità di latte che produce e dalle variazioni del suo peso

corporeo. Da questi fattori dipende il fabbisogno energetico e, quindi, il fabbisogno

di proteine dei microrganismi ruminali. Questo può essere calcolato pari a 8,34 g per

MJ di EM/giorno per le diete miste, 8,67 g per le diete a base di insilati e 7,84 g per

le diete costituite solo da insilati. Oltre che il fabbisogno microbico bisogna

considerare la richiesta proteica a livello dei tessuti dell’animale e cioè:

a) una quota per il mantenimento pari a 2,19 g/kg W0,75

;

b) una quota per il latte calcolata come proteine del latte (g / kg) x 0,95.

Quando il tenore proteico del latte non è conosciuto, può essere desunto dal tenore in

grasso (G), utilizzando l’equazione di regressione di Gaines e Overman:

Proteine (g/kg) = 21,7 + 0,31 G

o, altrimenti, si usa il contenuto proteico medio delle razze allevate nella zona. L’uso

del fattore 0,95 è giustificato dal fatto che la quota di azoto non proteico del latte è

considerata come materiale di escrezione di sostanze già utilizzate dall’organismo e

pertanto già precedentemente prese in considerazione.

c) una quota relativa alle perdite di proteine a livello della cute, per perdita di peli e

desquamazioni che è pari a: 0,1125 g/kg W0,75

;

d) una quota relativa alle variazioni di peso corporeo; si considera che i tessuti

corporei contengono 150 g di proteine per kg e che le proteine dei tessuti sono usate

per la produzione del latte con un rendimento dello 0,75 e che per ogni kg di peso

corporeo perso il fabbisogno di proteine si riduce di 150 x 0,75 = 112 g di proteine. Il

fabbisogno di proteine dei tessuti (PT) può essere coperto da proteine microbiche,

sintetizzate nel rumine.

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195

Calcolare il fabbisogno proteico per una vacca che produce 30 kg di latte al giorno

contenente 32 g /kg di proteine e che perde 0,4 kg di peso corporeo al giorno

Fabbisogno di EM (MJ/giorno)

fabbisogno di PDR (g/giorno) = 8,34 x 202,3

Proteine per il mantenimento (g/giorno) 2,19 x 6000,75

Proteine cutanee (g/giorno) = 0,1125 x 6000,75

Produzione del latte (g/giorno) = 32 x 0,95 x 30

Perdita di tessuto (g/giorno) = 0,4 x 112

PT (g/giorno) = 265,5 + 13,6 + 912 – 44,8

Fabbisogno di PNDR (g/giorno) 1,47 PT - 6,6 EM

Apporti consigliati di PDR (g/giorno) = 1687,2 x 1,05

Apporti consigliati di PNDR (g/giorno) = 335,7 x 1,05

fabbisogno di proteine grezze = 1772 + 352

202,3

1687,2

265,5

13,6

912,0

44,8

1146,3

335,7

1772

352

2124*

*Se la miscela di proteine PDR e PNDR non è ideale il fabbisogno può aumentare notevolmente

Usando i fattori 0,80, 0,80 e 0,85 rispettivamente per calcolare la quantità di proteine

vere nelle proteine grezze microbiche, per il valore biologico e per la digeribilità di

queste proteine, il contributo delle proteine microbiche può essere così calcolato:

PDR x 0,8 x 0,8 x 0,85 oppure 8,34 EM x 0,8 x 0,8 x 0,85.

la differenza fra i fabbisogni dei tessuti e la fornitura di proteine microbiche

deve essere compensata dalle proteine non degradabili a livello ruminale così

calcolate:

PNDR (g/giorno) = (PT - (8,34 EM x 0,8 x 0,8 x0,85))/ (0,8 x 0,85)

e semplificando si ha: PNDR (g/giorno) = 1,47 PT - 6,6 EM

D) contenuto in fibra: più che sulla fibra grezza bisogna porre attenzione sulle

frazioni fibrose (Van Soest): NDF (esprime l’ingombro della razione e quindi la

capacità di ingestione) e ADF (comprende le frazioni meno digeribili e, quindi, è

correlata negativamente con il valore nutritivo).

Almeno un terzo dell’NDF totale deve provenire da foraggi a fibra lunga strutturata

(NDF-FLS), cioè che possiedono una dimensione superiore a 3 cm.

Livello produttivo

< 15 15-40 > 40 Asciutta

NDF (% FG) 39 FCM x (-0,29) + 41,92 30 60

ADF (% FG) 24 FCM x (-0,08) + 23,44 21 38

FG (% SS) 20 FCM x (-0,08) + 19,44 17 30

E) contenuto lipidico: esso deve aumentare gradatamente con l’aumentare della

produzione lattea, ciò al fine di soddisfare le esigenze energetiche senza abbondare

con le sostanze amidacee. Bisogna considerare che, soprattutto, gli oli interferiscono

negativamente con le fermentazioni batteriche a livello ruminale e, quindi, l’impiego

oltre certi limiti deve essere caratterizzato da grassi con buona capacità di by-pass

ruminale (sego, semi integrali di cotone ma solo se di buona qualità, grassi e oli

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idrogenati, acidi grassi salificati con calcio); peraltro, vanno utilizzati grassi di facile

digestione a livello intestinale.

L’estratto etereo sul secco deve essere del 3% in bovine che producono meno di 15

kg di latte e del 6% in quelle che superano i 40 kg di produzione. Per produzioni

intermedie vale l’equazione (variazione consentita 10% in più o in meno):

EE (% SS) = FCM x 0,0743 + 2,5684.

F) contenuto in calcio e fosforo: il rapporto Ca/P dovrebbe essere di 1,7 - 2 per le

bovine in lattazione e di 1,3 per quelle in asciutta.

Livello produttivo

< 15 15-40 > 40 Asciutta

Calcio (% SS) 0,6 FCM X 0,01 + 0,42 0,85 0,42

Fosforo (% SS) 0,35 FCM X 0,003 + 0,3 0,42 0,32

Variazioni ammesse: 5-10%

Il fabbisogno netto di calcio e fosforo per il mantenimento dovrebbe essere,

rispettivamente, intorno a 16 e 14-28 mg/kg di peso vivo, per bovini che pesano circa

500 kg. Oltre a coprire il fabbisogno di mantenimento, Ca e P devono sopperire alla

produzione del latte. Per calcolare i fabbisogni alimentari, è necessario conoscere

l’utilizzabilità degli apporti alimentari che è rispettivamente di 0,68 e 0,58 per calcio

e fosforo. Recenti indagini indicano che un apporto di 25-28 g di calcio e 25 g di

fosforo al giorno è sufficiente per bovine che producono 4540 kg di latte all’anno per

4 lattazioni, il che indica un fabbisogno di 1,1-1,32 g di calcio e 1,1 g di fosforo per

kg di latte. Comunque, bisogna considerare che, è meglio abbondare un poco rispetto

al fabbisogno, per assicurare una normale durata di vita e una soddisfacente attività

riproduttiva. Anche apporti molto abbondanti di calcio e di fosforo sono, in genere,

inadeguati per soddisfare il fabbisogno di questi due minerali della vacca che si trova

all’inizio della lattazione, mentre alla fine della lattazione stessa e durante l’asciutta

si verifica un accumulo. I bilanci negativi all’inizio della lattazione sono considerati

normali, in quanto non è evidente nessun effetto negativo, purché in seguito le riserve

organiche vengano ripristinate e, quindi, i fabbisogni di calcio e fosforo sono stimati

sulla base della produzione totale della lattazione. Molti ritengono che, un apporto

adeguato per una bovina che produca 45 q di latte nel corso della lattazione deve

essere di 45 g di calcio e 60 g di fosforo al giorno, per altri l’apporto deve essere di

39 g di calcio e 33 g di fosforo.

Se la carenza in Ca e P è notevole si può avere un indebolimento delle ossa e la loro

rottura se, invece, è meno spinta determina una precoce riduzione dell’attività

secretoria della mammella e, quindi, una minore produzione di latte. Nelle diete

carenti di fosforo, il rapporto Ca/P può essere molto importante il quale generalmente

dovrebbe essere di 1:1 - 2:1.

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197

35 -500 200

40 -350 300

45 -100 500

50 400 600

55 800 700

-1000

-800

-600

-400

-200

0

200

400

600

800

1000

5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55

Stadio della lattazione (settimane)

g

Calcio Fosforo

Calcolare le esigenze nutritive per una bovina di 5 qli che produce 20 litri di

latte/giorno al 3,7% di grasso

Mantenimento Produzione Totale

Energia Met. 47 MJ

Energia netta 32 MJ

UFl (0,9 x 5) = 4,5

Proteine diger. 350 g

Calcio 35 g

Fosforo 25 g

5,08 x 20 = 101,6 MJ

3,05 x 20 = 61 MJ

0,44 x 20 = 8,8 UFl

50 x 20 = 1000 g

3,7 x 20 = 74 g

1,5 X 20 = 30 g

47 + 101,6 = 148 MJ/d

32 + 61 = 93 MJ/d

4,5 + 8,8 = 13,3 UFl/d

350 +1000 = 1350 g/d

35 + 74 = 109 g/d

25 + 30 = 55 g/d

Esigenze in minerali e vitamine delle bovine

Elementi Stato fisiologico

Minerali Asciutta Lattazione

Potassio (% SS) 0,65 0,9-1,1

Magnesio (% SS) 0,17 0,22-0,28

Sodio (% SS) 0,12 0,16-0,10

Cloro (% SS) 0,18 0,25-0,3

Zolfo (% SS) 0,16 0,2-0,22

Ferro (mg/kg SS) 70 70

Cobalto (mg/kg SS) 0,1 0,1

Rame (mg/kg SS) 12 12

Manganese (mg/kg SS) 60 60

Zinco (mg/kg SS) 60 60

Iodio (mg/kg SS) 0,4 0,8

Selenio (mg/kg SS) 0,3 0,3

Vitamine

A (UI/kg SS) 15.000 7000

D (UI/kg SS) 1500 1000

E (mg/kg SS) 40 25

Oscillazione: 10% massimo

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Nel calcolare l’apporto di magnesio va considerato che il fabbisogno per il

mantenimento è di 3 mg per kg di peso corporeo e di 0,125 g per kg di latte prodotto.

Alle bovine in lattazione, generalmente, viene dato un supplemento di sodio cloruro

il quale viene aggiunto al mangime o viene messo a disposizione sotto forma di rulli

o di blocchi; bisogna preoccuparsi soprattutto del sodio in quanto il cloro è ben

rappresentato nelle diete.

Fabbisogni nutritivi per la produzione del latte nelle bovine

Latte al 4% di grasso (kg)

<15 15-20 21-25 26-30 31-35 36-40 >40 Asciutta

UFL/kg SS 0,8 0,83 0,86 0,9 0,93 0,95 0,97 0,65

PG (% SS) 14 14,7 15,2 16 16,8 17,5 18 12

UIP (% PG) 30 30 32,5 34 35,5 37 38

PDIN (% SS) 9 9,2 9,5 10,2 10,7 11,2 11,5 8

PDIE (% SS) 9 9,2 9,5 10,2 10,7 11,2 11,5 8

Estratto etereo

(% SS)

3,5

4

4,2

4,5

5

5,5

6

NDF (% SS) 39 37 35 33,5 32,5 31 29 60

NDF-FLS minimo

(% SS)

11,1

10,5

10

9,6

9,3

8,9

8,6

ADF (% SS) 24 23 22,6 22,2 21,8 21,4 21 38

FG (% SS) 20 19 18,6 18,2 17,8 17,4 17 30

Amidi e Zuccheri

(% S.S.)

20 21 22 23 24 25 26

Calcio (% S.S.) 0,6 0,6 0,65 0,7 0,75 0,8 0,85 0,42

Fosforo (% S.S.) 0,35 0,35 0,37 0,39 0,4 0,41 0,42 0,32

In presenza di carenza di sodio si ha perdita di appetito, pelo opaco e ruvido,

debolezza, apatia, dimagrimento, riduzione della produzione del latte. Carenze di sale

e bassi livelli di sodio si manifestano nel sangue e nelle urine già dopo tre settimane

nelle vacche altamente produttive, se la razione non è ben integrata, mentre, la

perdita di appetito, il calo di peso e l’abbassamento della produzione di latte si

evidenziano dopo un anno circa. Il fabbisogno netto di sodio è di circa 0,60 g/kg di

latte prodotto e di 8 mg/kg di peso corporeo. In genere, si consiglia di integrare con

28 g al giorno di cloruro di sodio, oltre quello presente negli alimenti, oppure si

aggiungono 15 kg per tonnellata di mangime concentrato.

8.4.2. Alimentazione delle bovine da latte ad alta produzione (BLAP)

Trovandoci di fronte a bovine dotate di grande attitudine produttiva (BLAP) si

pongono problemi di gestione dell’allevamento e, primo fra tutti, quello della scelta

di una corretta alimentazione. E’ necessario far coincidere le quantità di energia,

proteine, minerali e vitamine realmente ingerite dalle bovine, con i suoi fabbisogni

effettivi. Ciò non è di facile attuazione considerando che, i fabbisogni oltre che essere

diversi da animale ad animale variano nel corso della lattazione. Sono state

identificate diverse necessità della vacca in funzione del periodo in cui si trova e ciò

in quanto, oltre al potenziale genetico, diversi fattori concorrono a delineare la curva

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199

di lattazione: piano alimentare, modalità di distribuzione della razione, tipo di

stabulazione, tecnica di mungitura.

Quindi l’interparto è stato diviso in quattro fasi:

a) 0-90 giorni post-parto: questo periodo è il più critico: al sistema digestivo è

chiesto di utilizzare improvvisamente grosse quantità di carboidrati e ciò perchè i

fabbisogni energetici e proteici sono, rispettivamente, 3-4 e 6-7 volte superiori a

quelli di mantenimento e, quindi l’alimentazione deve basarsi soprattutto su razioni

ad elevata

Sostanze usate nella bovina da latte

Prodotto Azione Uso

Aminoacidi

protetti

Sopperiscono alla carenza di aminoacidi nelle

alte produzioni

Dosare in base all’analisi

della razione

Avopa-

rcina

Antibiotico non assorbibile. Controlla la flora batterica

senza alterare il rapporto tra AGV. Migliora l’assorbimento

degli aminoacidi e il tenore lipidico del latte

- 4-10 mg / Kg di

mangime

- 100 mg/capo/giorno

Bentonite

sodica

Ha azione assorbente, modula la microflora ruminale,

aumenta la quantità di AGV (soprattutto ac. Acetico) in

razioni ricche in concentrati e povere in fibra. Previene

l’acido da eccesso di ac. lattico

1% della S.S. della

razione.

20 g/Kg concentrato

Glicole

propilenico

Alcol bivalente che viene metabolizzato nel

rumine e trasformato in glucosio dal fegato. Ha

rapido effetto energetico e disintossicante. A

dosi moderate previene l’acetonemia subclinica

mentre a dosi elevate cura le forme conclamate

- uso preventivo acetonemia

suclinica: 150 g/capo/d per

20 giorni post-parto

- uso curativo: 300-500

g/capo/d per pochi giorni

Grassi

protetti

Forniscono energia supplementare nelle alte lattazioni.

Apportano alla mammella ac. Grassi a lunga catena. Sono

disponibili anche con aminoacidi by-pass

100-500 g/capo/d

secondo fabbisogni

Lievit

i

Stimolano la funzionalità dei batteri del rumine, specie di quelli

cellulosolitici. Favoriscono più elevate produzioni di latte con più alto

titolo lipidico

30-50 g

al giorno

Lisati

proteici

Aumentano la vitalità dei protozoi e le attività microbiche ruminali,

specie quella acetica. Migliorano l’utilizzo dell’azoto e della fibra

grezza. Aumentano la resa caseinica del latte e quindi quella in

formaggio.

8-10

g/capo/d

Magnesio ossido Aumenta il pH nell’intestino dove migliora l’effetto

dell’enzima amilasi e la digestione dell’amido

2-5 g/Kg S.S

razione

Magnesio solfato e

carbonato

Agiscono nel rumine meglio dell’ossido con azione

alcalinizzante, specie se associati con sodio bicarbonato.

2 g/Kg S.S

razione

Metionin

a

Buon terreno di coltura per i batteri ruminali, favorisce la

produzione di AGV, con effetto sui grassi del latte

5 o più g/capo/d

secondo produzione

Metionina

protetta

Migliora la produzione lattea e la persistenza della lattazione.

Favorisce il tenore lipidico e proteico del latte, migliorandone la

frazione caseinica. Ha effetto protettivo sul fegato

10-15

g/capo/d

Sodio

bicar-

bonato

Regola il pH nel rumine ed impedisce deviazioni verso

valori di acidità. Ha effetto appetizzante e aumenta il

tenore lipidico del latte

- 1-1,2% della razione

- 50 g/capo/d con fieno

- 100 g/capo/d consilomais

Vitamina

PP

Stimola la crescita dei batteri ruminali e la proteogenesi.

Opera a che a livello metabolico. Favorisce il tenore

lipidico e proteico del latte, con miglioramento della

frazione caseinica.

1-2 g/capo d; 5-10 g se per

vacca grassa, chetosi e

patoprotettore

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concentrazione di principi nutritivi (concentrati). Queste razioni possono però

presentare carenze di fibra effettiva la quale è necessaria per stimolare

meccanicamente il rumine, stabilizzare il pH (non al disotto di 6,2), modulare la

produzione di AGV (l’ac. Acetico dovrebbe essere del 50-60% sul totale),

scongiurare l’insorgenza di acidosi e gravi forme di inappetenza. Peraltro, si ricorda

che la fibra se carente causa un abbassamento del tenore lipidico del latte e, quindi,

non dovrebbe essere al disotto del 17-18% sulla S.S. di cui almeno un terzo apportata

da foraggi con fibra strutturata lunga. In questo periodo, le bovine producono spesso

40-50 Kg di latte al giorno e, mentre è facile coprire i fabbisogni proteici, minerali,

vitamici (ricorrendo spesso agli integratori) è difficile coprire quelli in energia.

Quindi, è necessario preparare la vacca alle elevate ingestioni di concentrati già

nell’ultima fase di asciutta (steaming-up) e aumentando gradatamente la

somministrazione fino a raggiungere, verso la 10-12a settimana, i quantitativi

necessari (i concentrati comunque non devono rappresentare più del 65% della

sostanza secca totale). Specialmente le grandi lattifere, comunque, avranno un

progressivo calo di peso, durante i primi 2-3 mesi di lattazione (30-50 Kg) e ciò

perché una bovina di statura media (600 Kg) può ingerire alimenti solo per produrre

30-35 Kg di latte al giorno e per il resto deve ricorrere alla proprie riserve corporee.

Ciò non deve preoccupare in quanto la buona lattifera lo fa con molta facilità e senza

danni per il proprio organismo. Invece, bisogna evitare che il calo di peso oltrepassi

certi limiti altrimenti si incorre in gravi rischi di chetosi e altre turbe (sindrome della

vacca magra). La vacca magra, oltre che produrre meno latte rispetto alle sue

potenzialità genetiche, evidenzia infertilità legata alla mancanza dei calori post-parto.

b) 91-200 giorni post-parto: in questa fase i picchi di produzione sono stati già

raggiunti, l’ingestione di sostanza secca è massima, i fabbisogni per la produzione

sono coperti e si comincia ad avere un recupero del peso. La razione deve essere

bilanciata per controllare il declino della curva di lattazione e per permettere alla

bovina di recuperare le riserve corporee: in questa fase la diminuzione di produzione

si considera normale se è del 5-10% al mese. Il recupero di peso non deve essere

eccessivo, specialmente per quelle vacche che non sono rimaste gravide nella prima

fase, altrimenti ingrasserebbero troppo. Il metabolismo della vacca deve rimanere di

tipo chetogenetico e non glucogenetico: questo pericolo si corre quando la bovina

ingerisce quantità eccessive di carboidrati facilmente fermentescibili che tra l’altro

determinano: a) riduzione del grasso nel latte, b) ingrassamento dell’animale, c)

diminuzione di produzione.

c) Da 211 giorni post-parto all’asciutta: in questo periodo bisogna soprattutto

controllare lo stato fisiologico e il ristabilirsi del peso corporeo e nello stesso tempo

far calare lentamente la produzione di latte. L’animale deve riassumere il peso forma

senza ingrassare, la funzionalità del rumine deve essere ristabilita riducendo

gradualmente carboidrati e proteine ed aumentando i foraggi.

d) asciutta: il periodo dell'asciutta che poi è la sospensione della secrezione lattea da

parte della femmina dei mammiferi, nella generalità delle specie nelle quali il latte è

prodotto per la sola alimentazione del neonato, come fenomeno fisiologico

conseguente allo svezzamento. Invece, nelle femmine nelle quali l'uomo sollecita il

prolungamento della produzione del latte attraverso la mungitura è opportuno che la

lattazione sia sospesa alla fine della gestazione. Alla vacca in lattazione, gravida, è

concesso un periodo più o meno lungo di riposo, sospendendo la mungitura 40-50

giorni prima del parto per dare modo alla stessa vacca di prepararsi per il parto e la

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successiva lattazione e di perdere quell'aspetto di vigorosa magrezza e di estrema

angolosità che è tipico delle buone produttrici. In questo periodo, l'animale ha la

possibilità di ricostruire quanto prelevato dal proprio organismo durante la lattazione

e riparare alle usure, soprattutto della ghiandola mammaria. Inoltre, l'animale si deve

costituire delle scorte per far fronte agli imponenti fabbisogni delle fasi iniziali della

lattazione, quando la portata lattea è particolarmente elevata, non è più così

indispensabile in quanto l'alimentazione razionale della lattifera è ormai entrata nella

pratica comune e la copertura di questi fabbisogni è conseguibile attraverso un

razionamento nelle varie fasi della lattazione. Del resto, le stesse scorte possono

interessare solo l'energia (grasso), vitamine liposolubili e taluni minerali, mentre per

le proteine e la maggior parte dei minerali non si può parlare di vere e proprie scorte.

D'altra parte, non si può far ingrassare molto l'animale in quanto ciò predispone

all'acetonia e al collasso puerperale, così come gli eccessi di calcio aumentano il

rischio dello stesso collasso e quelli di proteina aggravano le conseguenze di questi e

di altre malattie di tipo dismetabolico. L'alimentazione in questo periodo deve tenere

conto della potenzialità produttiva (genetica), dell'animale e del suo stato di

alimentazione e di gravidanza avendo cura che in aggiunta ai fabbisogni di

mantenimento e di gravidanza siano soddisfatti anche quelli dell'asciutta

considerando l'animale stesso come se fosse in produzione di un quantitativo medio

giornaliero di latte e, soprattutto, ponendo particolare attenzione a:

- non eccedere in energia, proteine, calcio;

- non devono mancare elementi fibrosi a bassa concentrazione energetica e poveri di

calcio;

- devono essere soddisfatte le esigenze di vitamina A, E, caroteni, fosforo,

oligoelementi

-

Patologie puerperali frequenti nella vacca grassa (da Ballarini)

Turbe genitali:

- Difficoltà di parto; Ritenzione placentare;

- Metriti; Infertilità

Turbe della produzione di latte

- Edema della mammella; Mastiti

- Scarsa produzione di latte

- Riduzione del contenuto lipidico del latte

Turbe metaboliche

- Steatosi epatica e renale

- Collasso puerperale ipocalcemico

- Paresi puerperale; Chetosi; Tetanie

Turbe digestive

- Indigestioni ruminali

- Abomasiti ed ulcere abomasali

- Dislocazioni dell’abomaso

Turbe varie

- Sindromi podali

- Rifondimento acuto o cronico

- deve essere favorito nell'animale il passaggio all'alimentazione di forzatura cui

dovrà essere necessariamente sottoposto dopo il parto; per la realizzazione di questo

punto e, soprattutto, per assuefare l'apparato digerente dell'animale all'assunzione dei

4-6 kg giornalieri di concentrato, necessari all'inizio della lattazione, si pratica il

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cosiddetto steaming-up attraverso la somministrazione durante gli ultimi giorni prima

del parto, in aggiunta alla razione prefissata per l'asciutta, in quantitativi di cereali

(mais, orzo) in graduale aumento (da 1 a 3-4 kg/giorno).

Considerando che, la popolazione microbica del rumine per adeguarsi ad un nuovo

tipo di alimentazione necessita di un certo periodo di tempo (2-4 settimane) lo

steaming-up varrà anche a favorire la selezione degli anzidetti microrganismi in base

alle caratteristiche fisiche e di composizione chimica degli alimenti che costituiranno,

appunto, gran parte della razione della prima fase della lattazione.

Nel caso dell'alimentazione della fattrice da carne in asciutta bisogna fare distinzione

rispetto alla vacca da latte dell'inizio della lattazione e il tipo di alimentazione, più

idoneo allo scopo. Se, infatti, nella lattifera si deve favorire la spinta lattea e,

soprattutto, cercare di coprire il divario fra fabbisogno ed ingestione, un’esigenza

contraria si presenta per la fattrice da carne la cui utilizzazione deve attenuare la

secrezione lattea iniziale. Giacché tutto il latte è destinato al redo, i cui fabbisogni

sono assai modesti alla nascita per poi accrescersi gradualmente finché la sua

capacità di ingerire altri alimenti lo renderà meno dipendente dal latte materno, la

produzione di latte dovrà seguire tale evoluzione se si vorranno evitare gravi rischi

per il redo (diarrea per eccesso di latte ingerito) o per la fattrice (mastiti). Per ottenere

il risultato, prima indicato, è consigliabile, oltre ad impedire l'eccessivo

ingrassamento (che nella fattrice adulta comporta l'ingestione di non oltre 5-6 U.F.

contro le 6-7 della lattifera), bisogna ridurre l'apporto energetico-proteico nelle

ultime fasi della gravidanza e nei primi giorni di lattazione. L'aumento sarà, invece,

consigliabile quando il vitello avrà superato i 25-30 giorni di vita e richiederà più

latte; tale aumento fungerà, inoltre, da stimolo per un recupero della funzione

riproduttiva e favorirà il successivo concepimento, quindi la fertilità (flushing).

Circolo vizioso della Sindrome Vacca Grassa (da Ballarini)

Eccessivo stato di ingrassamento

al parto

Infertilità ed inizio della gravidanza

oltre il 95° giorno dal parto

Allungamento del periodo di

asciutta con prolungamento di

un’alimentazione troppo

energetica

Cessazione della lattazione quando la

gravidanza non è ancora arrivata al 7°

mese

In sintesi durante il periodo di asciutta occorre:

- somministrare buoni foraggi ricchi di fibra per stimolare l’attività ruminale;

- impedire un eccessivo ingrassamento, somministrando non più di 2-3 kg di

concentrato al giorno e mantenendo un rapporto foraggi concentrati di 70/30;

- usare foraggi di cui si prevede l’impiego anche nel successivo periodo di

lattazione e ciò al fine di predisporre la flora batterica ruminale;

- praticare lo steaming-up;

- regolare l’apporto in minerali: l’apporto di calcio e fosforo dovrà avere un

rapporto di 2:1 (50-60 g di Ca e 30-40 g di P), evitando l’apporto massiccio di

foraggi di leguminose le quali sono molto ricche in calcio;

- costituire buone riserve in vitamine liposolubili (A, D, E);

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203

- far riassumere il peso forma ed una leggera “messa in carne” ma evitare

l’ingrassamento in quanto esso se eccessivo causa molti inconvenienti, sia durante

il parto che nella prima fase della lattazione (sindrome della vacca grassa).

8.4.3. Modalità di somministrazione degli alimenti

Nelle grandi lattifere, il problema di fondo è quello di soddisfare le loro esigenze,

soprattutto energetiche, mantenendo il biochimismo ruminale in condizioni ottimali

rispetto alla produzione sfruttata. Ciò può essere raggiunto:

- somministrando in modo molto frazionato gli alimenti (10-14 pasti) il che

consente anche un normale andamento delle fermentazioni ruminali;

- somministrando i vari alimenti di base opportunamente trinciati e mescolati tra di

loro, in modo da favorire l’ingestione volontaria e di garantire un adeguato apporto

energetico e di fibra;

- provvedere alla somministrazione individuale di quel tanto di mangimi

concentrati che occorre ad ogni singola bovina per completare i propri fabbisogni

energetici, proteici, minerali e vitaminici.

La realizzazione di modalità pratiche di alimentazione che tendono a soddisfare le

esigenze sopra elencate si può avere, in stalle a stabulazione libera, mediante:

1) adozione dell’unifeed o piatto unico: è una tecnica di alimentazione che prevede la

somministrazione di razioni complete e bilanciate, opportunamente trinciate e

miscelate, somministrate ad libitum, mediante l'ausilio di appositi carri miscelatori, a

gruppi omogenei di bovine. Tale tecnica ha acquisito un notevole impulso grazie

all'impiego di insilati, in virtù delle caratteristiche di tali alimenti che assicurano

contemporaneamente alla razione: appetibilità, umidità, alta energia, fibra digeribile.

Sebbene la tecnica "unifeed" abbia assunto una notevole diffusione negli allevamenti

di medie-grandi dimensioni e opportuno precisare che:

A) una buona conduzione dell'alimentazione non e esclusiva di chi pratica " unifeed "

ed, anzi, persistono situazioni nelle quali non è possibile introdurre tale tecnica per

motivazioni economico-strutturali;

B) l'applicazione corretta dell'unifeed non è cosi semplice come può sembrare.

Richiede una pratica lunga e meticolosa che necessita di mesi o anni di continue

correzioni ed aggiustamenti, anche in relazione al notevole numero di fattori che

interferiscono con la formulazione della razione;

C) la soluzione universale non esiste, ogni azienda costituisce una realtà con proprie

problematiche (disponibilità di manodopera, tipo e qualità di foraggi, strutture

aziendali, ecc.) per cui nel rispetto delle indicazioni tecnico-nutrizionali è necessario

un adeguamento "personalizzato".

D) la formulazione di una buona razione richiede la valutazione di un sempre

maggior numero di variabili. Per quanto riguarda la qualità del latte, emerge che, in

virtù dell'introduzione di una corretta tecnica dell'unifeed si ottengono alcuni

interessanti risvolti positivi: il tenore del grasso si accresce (anche se l'aumento del

grasso può determinare problemi vedi quote latte) l'attitudine alla coagulazione

migliora, la quantità di cellule somatiche si riduce.

Resta tuttavia il fatto che, per ottenere migliori livelli qualitativi (più proteine e

caseine, meno spore, ecc.) occorre approfondire le relazioni intercorrenti tra

componenti della razione, stato endocrino – fisiologico dell'animale e sintesi

ruminali.

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In questo ambito diverrà certamente fondamentale "mirare" l'alimentazione della

lattifera in modo da orientare adeguatamente taluni meccanismi endocrini ed ottenere

i miglioramenti produttivo - qualitativi desiderati.

I vantaggi più evidenti consistono in una più semplice preparazione e

somministrazione della razione, una diminuzione dei fenomeni di competizione e di

disturbo alla mangiatoia, una impossibile selezione da parte dell’animale di un

determinato alimento più gradito. La disponibilità ad libitum dell’alimento consente,

inoltre, un numero più elevato di pasti che, insieme alla costante ed equilibrata

miscelazione dei componenti, determina una maggiore costanza del pH e dei

fenomeni biochimici del rumine. L’unifeed vero e proprio, cioè alimentando le

bovine esclusivamente in mangiatoia con le 2-3 miscelate giornaliere, non è

facilmente praticabile nelle nostre aziende in quanto il numero delle lattifere allevato

non è tale da permettere la formazione di diversi gruppi omogenei necessari per una

corretta alimentazione collettiva. Pertanto, si rende necessario somministrare con il

carro miscelatore solo parte della razione (di base), per poi integrare con

l’autoalimentazione quanto è dovuto ad ogni singola bovina.

3) Autoalimentazione: si tratta di particolari tramogge (box o stazioni di

alimentazione) capaci di contenere la miscela di mangimi concentrati,

specificatamente formulata secondo le necessità di “bilanciamento della razione” del

gruppo di bovine cui è destinata. La distribuzione della miscela è regolata da

un’apparecchiatura elettronica o da un computer (a mezzo trasponder applicato al

collare o attraverso una trasmittente fissata nello stomaco della bovina che viene poi

recuperata alla macellazione) in modo che ogni bovina, debitamente riconosciuta

dall’impianto (generalmente il ciclo di 24 ore è diviso in 1.440 minuti e, in pratica,

ogni animale, per ciascun minuto trascorso tra un’utilizzazione e l’altra, può avere

1/1440 della razione di sua spettanza), abbia a disposizione nella giornata molte

piccole dosi di concentrato (esistono anche autoalimentatori elettronici non collegati

a computer per i quali l’allevatore deve, ogni 2-3 giorni, regolare a mano

l’apparecchiatura del collare fissando il quantitativo di concentrato che la bovina

deve avere durante la giornata), fino a raggiungere il quantitativo totale che le

compete, secondo le proprie individuali necessità date dallo stato fisiologico, dal

livello e dallo stadio di lattazione, ecc., e per bilanciare la quota di razione base che

può aver assunto volontariamente dalla mangiatoia.

L’elaboratore memorizza la quantità di concentrati non consumati e li mette a

disposizione dello stesso animale nel ciclo successivo e se l’impianto è collegato al

computer fornisce all’allevatore l’elenco dei soggetti (lista di allarme) che per

qualsiasi motivo non hanno consumato per intero la razione loro assegnata.

I vantaggi derivanti dall’autoalimentazione, soprattutto quella computerizzata, sono:

- le piccole dosi distribuite in più riprese, durante le 24 ore, oltre che favorire la

funzionalità del rumine, non fanno diminuire l’appetito e il gradimento per i foraggi

della razione base, anzi ne aumentano l’ingestione in quanto i concentrati richiamano

la fibra e viceversa;

- permette la realizzazione nella mandria di due o tre soli gruppi (gruppo delle

bovine in asciutta, gruppo delle bovine in lattazione che a sua volta può essere diviso

in due, in funzione dello stadio della lattazione).

I vantaggi derivanti dall’adozione dell’unifeed e dell’autoalimentazione possono

essere così riassunti:

- aumento della produzione di latte del 5-8%;

- aumento fino al 10% dell’ingestione volontaria;

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- miglioramento del 4-5% dell’efficienza di utilizzazione degli alimenti;

- più costanza della curva di lattazione;

- riduzione delle forme di acetonemia e di acidosi;

- minore perdita di peso nella prima fase della lattazione;

- maggior peso delle primipare a fine lattazione;

- possibilità di mascherare alimenti poco appetibili, purché buoni;

- impossibilità per l’animale di scegliere o scartare qualche componente della

razione;

- minore incidenza delle mastiti, delle malattie podali e delle forme di infertilità;

- riduzione della manodopera per la distribuzione degli alimenti e semplificazione

delle operazioni di controllo degli alimenti;

- possibilità di meccanizzazione completa;

- aumento del tenore proteico e lipidico del latte;

- minor costo di produzione per Kg di latte.

8.4.4 Alimentazione e qualità del latte

Le caratteristiche qualitative minime del latte destinato al consumo diretto o alla

caseificazione sono contenute nella legge 169/1989 e nel D.P.R. 54/97 e vengono

riassunte in tabella. Va, inoltre, ricordato che il regolamento CEE 1525/98

stabilisce che il livello massimo ammesso nel latte di aflatossina MI è di 0,05

ppb.

Requisiti minimi del latte da destinare al consumo diretto o alla trasformazione.

Latte trattato termicamente Latte alta qualità

Peso specifico a 20°C > 1.028 > 1.028

Estratto secco magro (%) < 8,5 > 8,5

Proteina (%) > 2,8 > 3,2

Indice crioscopico (0C) 0,52 0,52

Contenuto in cellule somatiche < 400.000 < 300.000

Il produttore è, quindi, obbligato a rispettare le caratteristiche sopra riportate, ma

è anche stimolato a migliorare le caratteristiche qualitative del latte in quanto

queste condizionano il pagamento dello stesso.

Contenuto lipidico

Negli anni la selezione genetica si è orientata in modo diverso per quanto

riguarda la percentuale lipidica del latte; la tendenza attuale è quella di

privilegiare il contenuto lipidico intorno al 3,7%. Il contenuto lipidico del latte

è un parametro che riveste un’importanza fondamentale, in quanto:

a) un contenuto inferiore ai capitolati di vendita comporta una penalizzazione

del prezzo del latte;

b) un'incontrollata riduzione fino al limite estremo dell’inversione del rapporto

grasso/proteina è sicuramente indice di alterata funzionalità ruminale;

c) elevati livelli di grasso del latte determinano una riduzione della quantità di

latte che l'allevatore può produrre nell'ambito del sistema "quote/latte", dato che

le quote sono calcolate anche sulla quantità di grasso prodotta.

L'alimentazione influenza in modo significativo il tenore lipidico del latte, infatti

opportuni interventi nutrizionali possono determinare variazioni anche di due

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punti percentuali di questo parametro.

II grasso del latte è costituito per il 98% da gliceridi, di cui il 95% trigliceridi, il

2-3% di digliceridi e lo 0,1 % di monogliceridi, il rimanente 2% è costituito da

fosfolipidi, lipoproteine, sostanze non saponificabili. Per quanto riguarda la

composizone acidica è utile ricordare che, gli acidi grassi a corta catena, che

possiedono da quattro a 12 atomi di carbonio, vengono sintetizzati a livello

mammario e derivano dall'acido acetico e dal -idrossibutirrato, prodotti dalle

fermentazioni ruminali. Gli acidi grassi a media catena, da 14 a 16 atomi di

carbonio, sono in parte sintetizzati a livello mammario ed in parte captati come

tali dal sangue, mentre, gli acidi grassi a lunga catena, da 18 atomi di carbonio,

sono captati come tali dal sangue.

È importante sapere anche che:

1. il tenore lipidico del latte si abbassa durante la stagione calda e si alza durante

la stagione fredda;

2. esiste una stretta correlazione tra il pH del fluido ruminale e il tenore lipidico

del latte, infatti si può predire il pH del fluido ruminale dalla percentuale di

grasso del latte attraverso la seguente equazione: pH fluido ruminale = 4,44 +

0,46 x % di grasso del latte;

3. la percentuale di grasso del latte tende a decrescere all'inizio della lattazione,

indicativamente nei primi due controlli funzionali a scadenza mensile e a risalire

dal terzo controllo;

4. la variazione negativa tra il primo e secondo controllo dovrebbe essere di 0,4 -

0,5 punti percentuali;

5. percentuali di grasso superiori al 4,8 % all'inizio della lattazione, cioè in

corrispondenza del primo controllo, che in ogni caso dovrebbe essere effettuato

nei primi 45 giorni di lattazione, in particolare se associate a percentuali di

proteina inferiori a 3,2%, sono indice di chetosi;

6. la percentuale di grasso dovrebbe essere superiore a quella di proteina, la quale

dovrebbe essere pari nella Frisona a circa l'85% della percentuale di grasso,

quindi, non si dovrebbero mai osservare, in condizioni di corretta gestione,

inversioni del rapporto grasso/proteina del latte;

Principali acidi grassi del grasso del latte in bovine alimentate con diete senza grassi

aggiunti o con l'aggiunta di alimenti ricchi di lipidi e di grassi protetti a livello ruminale

(saponi di calcio) (Contarini et al., 1996)

Acidi Grassi Controllo Semi di Cotone Semi di Soia Saponi di Calcio

C4:0 4,30 4,25 4,77 4,22

C6:0 2,39 2,31 2,33 2,21

C8:0 1,49 1,38 1,39 1,21

C10:0 2,90 2,46 2,61 2,57

C12:0 3,34 2,72 2,93 2,97

C14:0 11,57 9,64 10,17 10,14

C16:0 29,33 26,81 26,96 28,11

C18:0 9,86 12,83 11,19 10,26

C18:1 22,29 26,01 25,73 26,44

C18:2 2,23 2,78 2,65 2,85

7.la composizione acidica del latte varia durante la lattazione, in quanto all'inizio

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207

della lattazione la percentuale di acidi grassi a lunga catena è superiore, poiché si

verifica, comunque, una certa lipomobilizzazione;

8. la composizione acidica del latte è influenzata dalla somministrazione di lipidi,

con un aumento degli acidi grassi a lunga catena ed una riduzione di quelli a

corta catena.

Se si desidera incrementare il tenore in grasso del latte si dovrà, innanzi tutto,

aumentare la sintesi endogena mammaria, quindi, si dovranno orientare le

fermentazioni ruminali a produrre maggiori quantità di acetato e butirrato. Tale

obiettivo può essere raggiunto tramite:

1. aumento del rapporto foraggio/concentrato della razione, che equivale ad

aumentare il tenore in fibra e quindi la produzione ruminale di acido acetico;

2. aumento della quota di sottoprodotti fibrosi caratterizzati da elevata

degradabilità ruminale della fibra, es. polpe di barbabietola, oppure semi integrali

di cotone che, inoltre, apportano dei grassi;

3. macinazione grossolana dei cereali;

4. verificare che il 75% dell'NDF della razione provenga da foraggi e che sia

sufficiente l'apporto di NDF;

5. adeguato sfruttamento del potere tampone e della capacità di scambio

cationico delle materie prime;

6. utilizzo di una quota di fieno di erba medica (1-2 kg) o di paglia (0,4 - 0,5 kg)

quando nella razione sono presenti fieni di prato stabile di terzo o quarto taglio

che, essendo molto sottili, stimolano poco sia la motilità ruminale sia la

salivazione;

7. evitare la somministrazione di grassi vegetali non protetti, in quanto gli acidi

grassi insaturi riducono l'attività dei batteri cellulosolitici e, quindi, la produzione

di acido acetico;

8. somministrazione di sostanze tamponanti, es. bicarbonato di sodio, (100-200 g

capo/d), eventualmente insieme con ossido di magnesio in rapporto 3:1;

9. somministrazione di lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae), in quanto in grado

di ridurre la concentrazione di acido lattico nel fluido ruminale;

10. somministrazione di malato;

11. somministrazione di acetato di sodio.

Oltre a questi interventi, quando si deve aumentare la concentrazione di grasso di

latti ipolipidici, cioè con percentuali di grasso inferiori a 3,0%, si può anche

ricorrere all'utilizzo di grassi protetti, ad es. saponi di calcio, il che comporta un

aumento della quota di acidi grassi a lunga catena. Bisogna però ricordare che

tale intervento non sempre fornisce risultati positivi in quanto la

somministrazione di energia così effettuata determina un aumento produttivo con

un effetto di diluizione, quindi con una riduzione o nessuna variazione del tenore

lipidico del latte. Può essere utile, inoltre, somministrare fattori lipotropi, quali

colina (20-25g/capo/d) e metionina (10-30 g/capo/d). La depressione del tenore

lipidico del latte può essere dovuta, oltre ad una carenza di precursori, come

precedentemente descritto, anche ad un effetto diretto di alcuni metaboliti a

livello mammario. Infatti, una produzione eccessiva di acidi grassi trans a livello

ruminale, che si verifica quando la razione contiene oli vegetali, ed il rapporto

foraggio:concentrato è decisamente a favore del concentrato, cioè un apporto in

foraggio inferiore al 50%, comporta una riduzione della percentuale di grasso del

latte. Gli acidi grassi trans si formano a seguito della incompleta

bioidrogenazione degli acidi grassi insaturi. In queste condizioni, il contenuto del

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grasso in acidi grassi trans sale da un normale 5-6% fino al 15%. Questo

incremento può essere considerato negativamente per la salute dell'uomo, però si

deve ricordare che aumenta notevolmente, circa cinque volte, il contenuto del

grasso in CLA (coniugato dell'acido linoleico o C18:2 cis-9, trans-11), il quale

riveste funzioni interessanti per la salute umana, essendo un fattore

anticancerogeno. Inoltre, verificandosi le condizioni sopra descritte,

aumenterebbe anche la percentuale nel grasso del latte di trans-11 18:1, il quale

pare possa essere trasformato a CLA nell'organismo umano.

Contenuto in proteina

Il contenuto in proteina del latte è un parametro che riveste un'importanza

fondamentale in quanto:

a. una riduzione comporta una penalizzazione del prezzo del latte e un’inferiore

resa casearia;

c. una riduzione è indice di un non corretto bilancio tra le diverse fonti

energetiche e proteiche della razione;

d. bassi tenori proteici sono spesso correlati con fenomeni di ipofertilità a loro

volta sostenuti da carenza energetica.

La percentuale di proteina del latte fornisce indicazioni sul contenuto in azoto

dello stesso, deriva, infatti, dal prodotto del contenuto di azoto per 6,37, ma

non permette di conoscere la distribuzione delle varie frazioni azotate.

Composizione della proteina del latte.

Frazione %

Caseine 78,0

Lattoglobuline 8,5

Lattoalbumine 4,0

Albumine ematiche 0,8

Immunoglobuline 2,0

Proteoso-peptoni 1,7

NPN (urea, nucleotidi, aminoacidi etc.) 5,0

L'alimentazione può influenzare il tenore proteico del latte in modo molto

meno significativo rispetto al tenore lipidico; infatti, opportuni interventi

nutrizionali possono determinare variazioni di 0,1-0,4 punti percentuali di

questo parametro, Gli aminoacidi utilizzati dalla mammella per le sintesi

proteiche derivano dalla proteina microbica sintetizzata a livello ruminale e

dalla proteina alimentare non degradata nel rumine che raggiunge il duodeno.

L'assunzione di aminoacidi non essenziali da parte della mammella è variabile

e dato che l'escrezione nel latte di alcuni aminoacidi non essenziali è talvolta

superiore rispetto all'assunzione, sembra logico pensare che, a livello di

mammella, avvenga una sintesi di aminoacidi non essenziali. Per quanto

riguarda, invece, l'utilizzazione degli aminoacidi essenziali da parte della

mammella questi possono essere suddivisi in due gruppi principali:

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Utilizzazione degli aminoacidi essenziali da parte della mammella

1° Gruppo 2° Gruppo

Assunti dalla ghiandola mammaria nella

stessa quantità con cui vengono secreti

nel latte:

metionina, istidina, tirosina, fenilalanina

e triptofano

Assunti dalla ghiandola mammaria in

quantità superiore a quella con cui vengono

secreti nel latte:

lisina, isoleucina, treonina, valina, leucina e

arginina

Ne consegue che, gli aminoacidi del 1° gruppo possono essere limitanti per la

sintesi proteica a livello della ghiandola mammaria; è, infatti, noto che il

principale aminoacido limitante per la produzione di latte è la metionina.

Tuttavia, anche gli amino acidi del 2° gruppo potrebbero essere limitanti per la

sintesi proteica a causa di un insufficiente trasporto nelle cellule epiteliali

mammarie o perché vengono utilizzati per altri processi metabolici.

È importante sapere inoltre che:

1. il tenore proteico del latte si abbassa durante la stagione calda e si alza

durante quella fredda;

2. la percentuale in proteina del latte tende a decrescere all'inizio della

lattazione, indicativamente nel primo controllo funzionale a scadenza

mensile, e a risalire dal secondo controllo;

3. la variazione tra il primo e secondo controllo dovrebbe essere di 0,4 - 0,5

punti percentuali;

4. la percentuale di proteina del latte per la Frisona italiana dovrebbe essere

intorno all'85%, con variazioni di 0,3 - 0,5 punti percentuali, della

percentuale di grasso;

5. la somministrazione di grassi, in particolare se non protetti a livello ruminale e

ricchi di acidi grassi insaturi, comporta una riduzione del tenore proteico del

latte fino a 0,2 punti percentuali in quanto esercitano un'azione negativa sui

batteri ruminali diminuendone le sintesi proteiche e, quindi, riducendo la

disponibilità per le sintesi mammarie. I grassi potrebbero agire negativamente

anche in sede post-ruminale e tale effetto potrebbe essere spiegato con un

rallentamento della secrezione di somatotropina ed un aumento della resistenza

all'insulina a livello mammario, che comporta un inferiore utilizzo di

aminoacidi ematici.

Se si desidera aumentare il tenore in proteina del latte si dovrà innanzitutto

incrementare la quantità totale di aminoacidi che raggiunge l'intestino, il che

permette un maggiore assorbimento e quindi una maggiore disponibilità a

livello mammario e controllare il profilo aminoacidico della proteina realmente

disponibile a livello duodenale, in modo tale da aumentare l'assorbimento di

aminoacidi essenziali e limitanti per la sintesi proteica mammaria,

principalmente metionina.

Il primo obiettivo, cioè l'aumento della quantità di aminoacidi disponibili a

livello intestinale, può essere raggiunto tramite:

1. riduzione del rapporto foraggio/concentrato della razione, che equivale ad

aumentare il tenore in energia della razione e quindi le sintesi proteiche dei

microrganismi ruminali;

2. aumento della percentuale di carboidrati non strutturali della razione (NSC),

che dovrebbe essere compresa tra 35 e 41% s.s. oppure essere in un rapporto

con l'NDF pari a 0,9-1,2;

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3. somministrazione di fonti amilacee a diversa fermentescibilità ruminale in

modo che il 60-70% dell'amido totale sia degradato a livello ruminale;

5. assicurazione di una corretta percentuale di proteina grezza della razione e

utilizzazione di fonti proteiche poco degradabili a livello ruminale, in modo

tale che il rapporto proteina degradabile/proteina non degradabile sia

compreso tra 60/40 nei primi quattro mesi di lattazione, tra 65/35 tra quattro

e sette mesi e tra 68/32 nell'ultima fase della lattazione e che la proteina

solubile sia pari al 50% della proteina degradabile;

6. valutazione della proteina metabolizzabile (MP), che è la somma della

proteina batterica, prodotta a livello ruminale, e della proteina non

degradabile a livello ruminale.

Il raggiungimento del secondo obiettivo, cioè il controllo del profilo

aminoacidico della proteina disponibile a livello intestinale, può essere

raggiunto:

1. somministrando fonti proteiche poco degradabili a livello ruminale,

caratterizzate da elevato valore biologico della proteina, ad esempio trebbie

di birra, distillers di cereali.

2. utilizzando aminoacidi protetti a livello ruminale, cercando di mantenere un

rapporto tra metionina e lisina di circa 1 e 3 e facendo in modo da

soddisfare i seguenti fabbisogni, che potranno essere calcolati con opportuni

programmi di razionamento:

3.

Fabbisogni in metionina e lisina delle bovine da latte.

Fabbisogni secondo Rulquin

Metionina (% proteina metabolizzabile) 2.10 - 2,50

Lisina (% proteina metabolizzabile) 6,50 - 7,20

Fabbisogni secondo Schwab

Metionina (% AA essenziali a livello duodenale) 4.5-5.0

Lisina (% AA essenziali a livello duodenale) 14,4-16,0

A titolo riassuntivo si riporta il contributo teorico della proteina microbica sul

fabbisogno totale proteico a tre diversi livelli produttivi in funzione

dell'efficienza della sintesi microbica.

Contributo teorico della proteina microbica sul fabbisogno totale proteico a tre diversi

livelli produttivi in funzione dell'efficienza della sintesi microbica (Stern, 1994).

Efficienza della sintesi microbica

(g di N/ kg SO degradata)

Produzione latte al 4% di grasso

(kg)

25 35 45

Contributo teorico della proteina

microbica sul fabbisogno totale (%)

20 49 42 39

30 73 64 59

40 98 85 79

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211

Dalla tabella risulta evidente che l'intervento più efficace, in quanto più

economico per aumentare la quantità di proteina a livello duodenale, è

massimizzare la sintesi proteica microbica ruminale.

Contenuto in urea

L'urea presente nel latte viene sintetizzata a livello epatico a partire

dall'ammoniaca. Nel ruminante, l'ammoniaca ha una duplice origine: endogena,

derivante dai processi di gluconeogenesi da aminoacidi introdotti in eccesso con

la dieta, ed esogena di provenienza ruminale.

I fattori in grado di influenzare il contenuto di urea del latte sono:

a) tenore in proteina grezza della dieta;

b) rapporto tra proteina degradabile, non degradabile e solubile a livello

ruminale;

c) tenore in NSC della dieta; degradabilità ruminale degli NSC.

Il mantenimento di livelli ottimali di urea nel latte è condizionato dalla

disponibilità contemporanea di energia e di proteina a livello ruminale

caratterizzate da cinetiche di degradazione simili. Quando la dieta contiene un

eccesso di proteina degradabile e solubile a livello ruminale, associata ad un

insufficiente apporto di NSC, cioè ad un insufficiente apporto di energia, si rende

disponibile ammoniaca, che verrà trasformata in urea a livello epatico la quale,

non essendo possibile un adeguato riutilizzo a livello ruminale, determinerà un

aumento del tenore di urea nel plasma e nel latte.

Range di riferimento del tenore in urea del latte

Eccesso proteina

degradabile e solubile

Carenza NFC

Ridotta ingestione

Ridotta produzione

Epatopatie

Rischi di chetosi e zoppie

Problemi di fertilità

Valori di urea superiori

a 35 mg/100ml

Carenza proteina

degradabile e solubile

Eccesso NFC

Ridotta ingestione

Ridotta produzione

Rischi di acidosi

Rischi di fertilità

Valori di urea inferiori

a 23 mg/100ml

La sintesi di urea è un processo che richiede energia, il che aggrava il deficit

energetico che si osserva all'inizio della lattazione.

Il contenuto in urea del latte è correlato positivamente con il livello produttivo;

inoltre, tende ad aumentare nei primi due mesi di lattazione.

I valori di urea nel latte e nel plasma si equivalgono ed il passaggio dell'urea dal

sangue al latte avviene nell'arco di un'ora circa.

Al fine di non creare confusione si riportano i fattori di conversione per

trasformare l'urea ad azoto ureico e per trasformare le unità di misura, da mg a

mmoli e viceversa:

per trasformare il valore di urea in azoto ureico: dividere per 2,18

Esempio: 35 mg/100 ml di urea corrispondono a 16 mg azoto ureico

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per trasformare il valore di urea da mg/100 ml a mmoli/l: dividere per 6,03

Esempio: 35 mg/100 ml urea corrispondono a 5,8 mmoli/l urea.

La conoscenza dei valori di urea nel latte, determinati con regolarità, ad es. 2

volte al mese, è importante perché:

permette di individuare tempestivamente squilibri tra le frazioni proteiche e di

NSC della dieta;

elevate concentrazioni di urea nel latte alla fecondazione possono causare

insuccesso della fecondazione o una morte molto precoce dell'embrione,

infatti, l'aumento dell'azoto ureico ematico determina un aumento del pH

uterino che crea un ambiente inadatto allo sviluppo dell' embrione, inoltre diete

con percentuali elevate di proteina, soprattutto di proteina degradabile e

solubile, a livello rurninale, comportano una riduzione del tasso di

progesterone ematico;

un incremento del tenore in urea del latte, a parità di azoto presente,

determina un peggioramento dell'attitudine alla caseificazione, infatti

diminuirà proporzionalmente la quota di caseina.

Per la determinazione del livello in urea del latte ci si può avvalere di kit

diagnostici disponibili sul mercato e utilizzabili direttamente in azienda per

uno screening iniziale e, se viene evidenziato un problema, si deve procedere

ad analisi approfondite in laboratorio.

La riduzione del tenore in urea del latte può essere raggiunta modificando la

composizione della dieta nei seguenti punti:

1.quantità e qualità della proteina;

2.contenuto e fermentescibilità della frazione di NSC;

3.inclusione di additivi.

Per quanto concerne i primi due punti sarà necessario controllare, verificare e

adeguare:

il tenore proteico in funzione della produzione;

la percentuale di proteina degradabile e solubile;

1'apporto di proteina metabolizzabile e di lisina e metionina a livello

intestinale tramite opportuni programmi di razionamento;

il tenore in NSC in funzione della produzione;

la fermentescibilità degli NSC.

Per quanto concerne il terzo punto sarà necessario includere nella dieta:

lievito di birra, in quanto in grado di ridurre il tenore di ammoniaca a livello

ruminale;

estratto di Yucca schidigera, in quanto in grado, come il lievito di birra, di

ridurre il tenore di ammoniaca a livello ruminale;

adsorbenti, quali bentonite, etc.

Contenuto in cellule somatiche

Le cellule somatiche sono normalmente presenti nel latte, il loro contenuto nel

latte di animali la cui ghiandola mammaria non presenta fenomeni

infiammatori è pari o inferiore a 50.000/ml. L'aumento del tenore in cellule

somatiche deriva da un trauma o da fenomeni infiammatori, da mastiti, per cui

le cellule somatiche rappresentano un buon parametro per valutare la sanità

della mammella.

La vigente normativa, D.PR. 54/97, prevede che il tenore massimo di cellule

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somatiche debba essere inferiore a 400.000/ml per il latte trattato termicamente

e a 300.000/ml per il latte di alta qualità. Oltre al limite imposto dalla

legislazione, vi è un interesse diretto dell'allevatore a mantenere valori bassi di

cellule somatiche; infatti, all'aumentare del loro contenuto la produzione di

latte diminuisce, con riduzioni che vanno dal 5% per valori di cellule

somatiche fino a 200.000/ml al 20% per valori intorno a 1.500.000/ml e si

riduce anche il premio sul prezzo del latte.

Le cellule somatiche sono composte da neutrofili, macrofagi, linfociti e da una

piccola percentuale di cellule dell’epitelio ghiandolare. Esse rappresentano il

meccanismo di difesa della mammella nei confronti dei microrganismi

patogeni; infatti, la rapida mobilizzazione di leucociti dal sangue al latte è

indispensabile per organizzare i meccanismi di difesa locali contro le mastiti.

L'alimentazione non rappresenta la principale causa dell'aumento delle cellule

somatiche nel latte, tuttavia può svolgere un ruolo importante in quanto in

grado di condizionare la risposta immunitaria della bovina e, quindi, la

capacità di difesa nei confronti di microrganismi, ad es. Staphylococcus aureus,

Streptococcus agalactiae, Streptococcus uberis, E. coli, etc.

La maggior parte degli aumenti del contenuto in cellule somatiche si osserva

nei primi mesi di lattazione, in concomitanza con fenomeni di bilancio

energetico negativo. La bovina subito dopo il parto si trova in una situazione

di depressione immunitaria; inoltre, patologie metaboliche, quali chetosi,

acidosi, etc., inducono un'ulteriore riduzione della risposta immunitaria. A

tutto ciò si aggiunga che, le micotossine, talvolta presenti negli alimenti

somministrati alle bovine, esercitano un'azione immunosoppressiva. Non si

dimentichi che, anche l'ipocalcemia determina un aumento del cortisolo

plasmatico, che ha un'azione immunodepressiva. Ne consegue che, una

corretta profilassi nutrizionale dei fenomeni di mastite comporta:

somministrazione di diete bilanciate nelle varie componenti: proteina,

carboidrati, micronutrienti;

riduzione dell'entità del bilancio energetico negativo all'inizio della

lattazione;

prevenzione dei fenomeni di ipocalcemia;

controllo e contenimento della presenza di micotossine degli alimenti.

Oltre agli aspetti di carattere generale, si può intervenire tramite la

somministrazione di dosaggi superiori a quelli necessari a soddisfare i

fabbisogni di mantenimento e di produzione di alcuni micronutrienti in grado di

stimolare la risposta immunitaria. I principali micronutrienti in grado di stimolare

la risposta immunitaria e, quindi, contenere il numero di cellule somatiche nel

latte sono: zinco, rame, selenio, vitamina E, vitamina A.

Infatti, considerando che lo zinco svolge un ruolo fondamentale nella produzione

di cheratina e che ad ogni mungitura le bovine perdono circa il 40% della

cheratina presente nel canale del capezzolo, è plausibile ritenere che la

somministrazione di zinco possa aumentare la produzione di cheratina e, quindi,

migliorare la barriera che si oppone all'entrata dei microrganismi presenti sul

capezzolo a fine mungitura. Inoltre, lo zinco svolge un ruolo importante nello

stimolare la risposta immunitaria, in particolare nello stimolare la produzione di

linfociti T. La biodisponibilità dello zinco è decisamente superiore nelle forme di

zinco chelato con aminoacidi, forme organiche, per cui è utile somministrare una

quota dello zinco sotto forma organica. Il quantitativo di zinco da somministrare,

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come integrazione, dovrebbe essere almeno di 100 ppm.

Il rame è un oligolemento coinvolto nel meccanismo di controllo delle cellule

somatiche in quanto gioca un ruolo nello stimolare la risposta immunitaria dato

che è presente nelle proteine ceruloplasmina e superossido dismutasi.

Quest'ultima aiuta a proteggere le cellule dai danni causati dagli ossidanti che si

formano durante i processi di fagocitosi. Il quantitativo di rame da somministrare

con l'integrazione dovrebbe essere almeno di 30 ppm.

Il selenio è in grado di convertire i perossidi di idrogeno ad acqua attraverso

l'azione dell'enzima glutatione perossidasi. Il perossido di idrogeno è prodotto dai

neutrofili e da altre cellule della serie bianca per uccidere i microrganismi,

tuttavia è anche dannoso per le cellule, quindi è necessario un meccanismo di

autodifesa attuato appunto dalla glutatione perossidasi. Il quantitativo di selenio

da somministrare con l'integrazione dovrebbe essere almeno di 0,3 ppm, anche in

questo sarebbe da preferire una quota sotto forma organica.

Quale fattore antiossidante e stimolante l'attività fagocitaria, la vitamina E è in

grado di esercitare un'azione di prevenzione nei confronti dell'insorgenza di

mastiti. La soglia ematica di vitamina E al di sotto della quale possono aumentare

i fenomeni di mastite è di 3,5-4 mg/ml. In particolare, intorno al parto i livelli

ematici di vitamina E tendono a diminuire, sia per una ridotta assunzione di

alimento e sia per un inferiore trasporto della vitamina nel plasma. Per cui nel

periodo di transizione potrebbe essere utile ricorrere ad un'integrazione

supplementare di questa vitamina arrivando ad integrarne la dieta con 2 g/capo/d.

L'integrazione di vitamina E dovrebbe essere di 1000 mg/capo/d in asciutta e di

500-1000 mg/ capo/d durante la lattazione.

Carenze di vitamina A e -carotene aumentano l'incidenza di mastiti in quanto

entrambe sono coinvolte nei meccanismi di difesa dell'organismo nei confronti

delle infezioni infatti, stimolano la funzione linfocitaria nella risposta

immunitaria cellulo-mediata e aumentano la secrezione di citochine come

l'interleuchina e l'interferone, che incrementa la resistenza alle infezioni. Inoltre,

la vitamina A stimola la produzione di anticorpi contro microrganismi patogeni. I

quantitativi di vitamina A da somministrare a bovine da latte dovrebbero essere

di 150.000-200.000 UI/capo/ giorno in asciutta e di 200-400.000/capo/giorno in

lattazione.

Contenuto in molecole bioattive

Le macrocomponenti del latte apportano i principi nutritivi per l'alimentazione

del neonato. Oltre a tali componenti sono presenti nel latte altre molecole, che

svolgono un'azione sia nutrizionale (vitamine, microelementi) che una funzione

biologica "extranutrizionale" più complessa. Molte di queste molecole bioattive

sono derivate dalla proteolisi delle proteine del latte (caseina, -lattoalbumina,

lattoferrina). Anche la frazione lipidica del latte contiene diversi componenti che

svolgono un ruolo positivo nella prevenzione dell'aterosclerosi o nella risposta

immunitaria.

Fra questi particolare attenzione è stata posta al contenuto in coniugati dell'acido

linoleico (CLA), una famiglia di molecole che deriva dai processi di

bioidrogenazione ruminale e di cui è stata evidenziata la potenzialità inibente la

carcinogenesi. Numerosi ormoni e fattori di crescita vengono prodotti a livello di

ghiandola mammaria e/o trasferiti dal sangue al latte attraverso meccanismi di

passaggio paracellulare o per transcitosi.

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Principali molecole bioattive presenti nel latte e loro attività biologica

Molecole Effetti

Peptidi agonisti degli oppiodi (caseomorfine, lattorfine),

Peptidi antagonisti degli oppioidi (casoxine, lattoferroxine),

Fosfopeptidi delle caseine

Funzionalità gastroenterica

e digeribilità

Caseokinine (ACE-I e peptidi inibitori),

Caseoplatenina (peptidi da k-caseina), Modulazione emodinamica

Lattoferrina e peptidi

Glucomacropeptidi della A k-caseina,

Oligosaccaridi nel latte, Lattoferrina e peptici,

Caseomorfine

Substrati per la flora

intestinale

Lattoferrina, Lisozima, Lattoperossidasi, Lattoferricina,

Glicolipidi, Sfingolipidi Difesa non immunitaria

IgG, IgA, IgM, Peptidi immunomodulatori delle caseine,

Citochine, Fattori di crescita Immunità passiva

Peptidi delle caseine, Lattoferrina e peptidi,

Fattori di crescita, Peptidi delle caseine,

Lattoferrina e peptidi

derivati, Citochine, Fattori di crescita

Immunoregolazione/

Antinfiammatori

Ormoni e fattori di crescita nel latte (prolattina ed altri),

Citochine, Peptidi delle caseine, Lattoferrina

Crescita e sviluppo

intestinale/neuroendocrino

CLA, Sfingomieline, Acido butirrico, -carotene, Vitamine

A e D Attività anticarcinogenica

Principali ormoni e fattori di crescita presenti a livello mammario

Fattore Specie Effetto

IGF-I, IGF-II Bovino, pecora, suino, roditore Mitogenico, mediato da IGFBP

TGF- Bovino, pecora e altre specie Mitogenico

EGF Topo Mitogenico, modulatore

delle funzioni cellulari

Anfireguline Pecora Mitogenico

MDGI Bovino, capra e pecora Fattore di differenziazione

TGF-l, 2, 3 Topo, bovino Inibizione sviluppo lobo-alveolare

e sintesi proteica

Prolattina Ratto, pecora, capra Mitogenico,

fattore di differenziazione

GH Cane, uomo, bovino Mitogenico

Fra le proteasi presenti nel latte è di primaria importanza il sistema enzimatico

plasmina-plasminogeno-attivatore del plasminogeno (PA) ed inibitori (PAI). Nei

mammiferi è stata dimostrata la presenza di due forme di PA: tipo tissutale (t-

PA) e tipo urochinasi (u-PA). Le due diverse forme di PA sono il prodotto di

un'espressione genica differente, sebbene entrambe catalizzino l'attivazione del

plasminogeno (PC) a plasmina (PL).

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La plasmina idrolizza molto efficacemente le e le caseine con evidenti

ripercussioni sulle caratteristiche qualitative del latte in termini di proprietà di

coagulazione del latte e resa casearia. La concentrazione di plasmina nel latte è

generalmente bassa, ma può variare in base allo stadio di lattazione ed allo stato

di salute della ghiandola mammaria. Nella specie bovina è stato evidenziato un

aumento significativo dei livelli di plasmina a fine lattazione e in campioni di

latte ad elevato contenuto in cellule somatiche. Gli effetti negativi sulla qualità

del latte risultano più evidenti negli animali con ciclo produttivo

prevalentemente ad andamento stagionale, quali pecore e capre. Infatti,

essendo tale complesso enzimatico maggiormente attivo negli stadi avanzati di

lattazione e durante i processi involutivi, ne risulta che tale attività è particolar-

mente accentuata nel latte raccolto in alcuni periodi dell'anno, corrispondenti

al calo di produzione lattea.

Il ruolo fisiologico svolto dalla plasmina e dall'attivatore del plasminogeno a

livello della ghiandola mammaria sembra strettamente correlato ai processi di

involuzione che si instaurano con l'avanzare della lattazione e che prevedono

l'attiva degradazione da parte della plasmina dei componenti le matrici

extracellulari e conseguentemente della struttura dell’epitelio mammario.

Livelli crescenti di plasmina ed attivatore del plasminogeno sono stati

osservati nel latte bovino e bufalino durante la fase d'involuzione attiva della

ghiandola mammaria.

8.4.5 Formulazione di mangimi e premiscele

Principi generali e software per la formulazione dei mangimi

La formulazione dei mangimi può essere effettuata sia manualmente, sia tramite

l'ausilio di software specifici i quali permettono:

a) velocità di calcolo, eliminazione di eventuali errori manuali e possibilità di

controllare numerosi parametri nutrizionali insieme;

b) ottimizzazione del costo sulla base di vincoli imposti sulle materie prime e

sulle caratteristiche analitiche dei mangimi.

Nella formulazione di un mangime è importante valutare la quantità dello stesso

che sarà consumata, giornalmente e in media, dagli animali in modo tale da

stimare il quantitativo dei singoli ingredienti effettivamente consumati. Per le

bovine da latte si possono prevedere i seguenti consumi medi: bovine in asciutta:

2 kg; bovine in lattazione nei primi 210 d: l0 kg; manze: 2 kg; vitelli da rimonta:

1,5 kg. Dopo bisogna effettuare la ripartizione percentuale nel mangime delle

materie prime energetiche, fibrose, proteiche, degli additivi ed integratori nel

mangime, che è riportata nella tabella, considerando l'impiego di insilato di mais

nella razione.

Ripartizione percentuale delle materie prime energetiche, fibrose,

proteiche, degli integratori e degli additivi nel mangime.

Materie Bovina Manze Vitelli

Prime in lattazione in asciutta

Energetiche 50 33 35 55

Fibrose 10 37 30 15

Proteiche 35 25 30 25

Integrazione e additivi 5 5 5 5

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Formulazione manuale (quadrato di Pearson)

Un metodo per formulare un mangime manualmente è quello di definire la

percentuale di inclusione di alcune materie prime, calcolata sulla base

dell'assunzione giornaliera e, quindi, calcolare la percentuale dei principali

alimenti apportatori di energia e di proteina, cioè cereali e farina di estrazione

di soia, tramite il quadrato di Pearson.

Si ipotizzi di voler formulare un mangime caratterizzato da un tenore proteico

pari al 21% sul tal quale e con una concentrazione energetica pari a 1,05 UFL.

Tale mangime è destinato a bovine nella prima fase di lattazione, per cui si

dovranno introdurre una quota di proteina poco degradabile a livello ruminale,

ad es. 3% di glutine di mais, una quota di lipidi protetti, ad es. 3% di saponi di

calcio, nonché una quota di alimenti fibrosi caratterizzati da elevata

degradabilità ruminale, ad es. 10 % di polpe di bietola e che la quota di

integrazione di macro, microelementi e vitamine sia pari al 4%. Sulla base del

contenuto in proteina e del tenore energetico delle polpe di bietola, dei saponi

di calcio e del glutine di mais l'apporto di questi tre alimenti è di 0,20 UFL e

30 g di proteina per kg di mangime; restano quindi da apportare 0,85 UFL

(1,05 - 0,20) e 180 g di proteina (210-30) che saranno da integrare con il

rimanente 80% (100 - (10+3+3+4) del mangime. Per stabilire la quota di

cereali e di farina di estrazione di soia che dovranno essere inseriti nel

mangime si può fare ricorso al quadrato di Pearson. Tale metodo consente di

definire i rapporti che due ingredienti con concentrazioni diverse di un

nutriente (ad es. proteina grezza) devono avere per raggiungere una

concentrazione intermedia. Il quadrato di Pearson consente risoluzioni al 100

%, quindi a questa percentuale vanno ricondotti i valori, in modo tale che poi,

inserendone 80 parti, il tenore energetico e proteico siano quelli voluti; ne

consegue che i nuovi valori del mangime saranno:

proteina grezza: 18%/0,8 = 22,5%

Il quadrato di Pearson si imposta e si risolve nel seguente modo:

1. disegnare un quadrato;

2. inserire la percentuale di proteina del mangime (22.5%) al centro del

quadrato;

3. porre la percentuale di proteina del mais nell'angolo superiore sinistro del

quadrato e la percentuale di proteina della farina di estrazione di soia nell' an-

golo superiore destro;

9,0 mais 44,0

f .e.s.

22,5 PG

21,5 13,5

4.sottrarre la percentuale di proteina del mais da quella del mangime (22,5 – 9

= 13,5) e trascriverla nell'angolo inferiore destro del quadrato. Sottrarre la per-

centuale di proteina del mangime dalla percentuale di proteina della farina di

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estrazione di soia (44 - 22,5 = 21,5);

5. sommare le due differenze e dividere ogni singola differenza per la somma tra le

due:

(13,5/35)x100 = 38,5, che rappresenta la percentuale di farina di estrazione di soia da

inserire

(21,5/35)x100 = 61,5, che rappresenta la percentuale di mais da inserire.

Tali valori vanno però ricondotti a 80 parti: 38,5 x 0,8 = 30,8 % di farina di estrazione

di soia; 61,5 x 0,8 = 49,2 % di mais

Il mangime sarà quindi costituito da:

Materie prime Proteina

% (g/kg) UFL

Mais 49,2 45,36 0,54

Farina di estrazione di soia 30,8 135,52 0,31

Polpe di bietola 10 9,00 0,09

Glutine di mais (57% PG UFL 1.09) 3 21,00 0,03

Saponi di calcio 3 ---- 0,08

Integratore 4 ---- ----

Totale 100 210,88 1,054

Ovviamente si potranno calcolare anche tutti gli altri nutrienti apportati, ad es. nel

caso specifico il mangime apporta il 44% di NFC, il 13,8 di NDF, 1'1% di calcio e lo

0,56% di fosforo.

Nell'esempio si è ritenuto di considerare prioritarie la precisione nella definizione del

tenore proteico del mangime e, quindi, in questo senso, si è applicato il quadrato di

Pearson per la definizione di tale parametro.

È evidente da quanto esposto che l'utilizzo del quadrato di Pearson è ancor più veloce

tra due ingredienti in quanto non occorre riposizionare a 100.

Calcolo con software specifici

La formulazione di mangimi tramite l'ausilio di software specifici che

consentono la realizzazione di mangimi in modalità di ottimizzazione, cioè la

creazione di un mangime caratterizzato da caratteristiche specifiche al minor

costo possibile, presuppone che al software vengano fornite tre informazioni

basilari:

1. costo degli ingredienti (materie prime, integratori ed additivi);

2. un range di valori (minimo e massimo) delle componenti analitiche del

mangime (vincoli sulle caratteristiche analitiche);

3. un range di valori di introduzione (minimo e massimo) delle singole materie

prime (vincoli sulle materie prime).

Sulla base di queste informazioni il software calcola la quantità dei singoli

ingredienti da introdurre nel mangime rispettando i vincoli imposti sulle

caratteristiche analitiche al minimo costo.

Ovviamente, questo metodo è molto più preciso e veloce del metodo di calcolo

manuale e permette di controllare numerosi parametri del mangime finito in

modo tale da ottenere la soluzione migliore al minimo costo. I singoli

programmi possono poi offrire altre numerose informazioni all'utente, ad es.

nel caso di materie prime non utilizzate dal software perché troppo costose, il

costo di convenienza di utilizzo, la percentuale massima di utilizzo di una certa

materia prima poco costosa su cui è stato posto un vincolo massimo di utilizzo,

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la gestione del magazzino, la gestione dei cartellini, etc.

Nei software di formulazione di mangimi la quantità di materie prime

utilizzabili, contenute nell'archivio alimenti, è generalmente molto elevata

come anche il numero di dati analitici e, nella maggior parte dei software, è

possibile introdurre nuovi dati analitici per aggiornare l'archivio alimenti con

informazioni che si rendono via via disponibili.

8.4.6. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella bufala

L'alimentazione della bufala è oggi praticata utilizzando i fabbisogni

ricavati per analogia dalla specie bovina.

Non sempre utili risultano, infatti, i dati delle ricerche condotte in India, Pakistan,

Sud est asiatico ed Egitto, in quanto ottenuti su entità etniche diverse dalla bufala

mediterranea allevata in Italia. In quei paesi il latte di bufala è destinato al consumo

diretto e le condizioni socioeconomiche risultano completamente diverse da quelle

italiane. Ne consegue che, i fabbisogni suggeriti al di fuori dell'Italia, peraltro

suffragati da una limitata sperimentazione, risultano solo in parte idonei per la nostra

bufala.

Negli allevamenti italiani, anche in quelli tecnologicamente più avanzati, non si

pratica in genere un razionamento diversificato per gruppi di produzione. In tal modo

si penalizzano i capi più produttivi e si alimentano in eccesso quelli con produzioni

inferiori alla media. L'adozione di accorgimenti tesi ad individualizzare il

razionamento, attuato ormai su ampia scala nell'allevamento bovino (unifeed,

unifeed-trasponder, etc.) non riesce, nel caso della bufala, ad ovviare a questi

inconvenienti. In questa specie, infatti, la differente produzione tra i capi dipende non

soltanto dalla quantità ma anche dal tenore lipidico del latte che, come è noto,

presenta un range di variabilità più ampio rispetto ai bovini.

Confronto del latte di bufala con quello bovino

Vacca

FCM 4%

Bufala Bufala

FCM 4%

Proteine g/kg 31 45 26, 47

Lipidi g/kg 40 87 51.18

Lattosio g/kg 48 48 28, 16

Cal 740 1258 740

Ca g/kg 1, 2 1, 8 1, 06

P g/kg 0, 9 1, 1 0, 65

Mg g/kg 0, 6 0, 9 0, 53

Cal/g proteine 23.9 27.6 28

Fabbisogni:

PG g/kg

83

120

71

PDI g/kg 48 70 41

UFL/kg 0, 44 0, 74 0, 44

MJ EN/kg 3, 1 5, 2 3, 1

Ca g/kg 3, 5 5, 3 (6, 5) 3, 7

P g/kg 1, 7 2, 1 (2,5) 1, 2

Mg g/kg 1, 0 1, 5 0, 88

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In base alle indagini effettuate in 5 allevamenti della Campania dove le bufale in

lattazione erano allevate in un gruppo unico è emerso che le produzioni giornaliere

oscillavano tra 1 e 21 kg ed il tenore in grasso tra 5,3 e 13,5%. Risulta evidente come

nella bufala sia necessario, per individualizzare il razionamento, costituire gruppi non

solo in funzione dello stadio di lattazione ma anche del livello produttivo, che varia

con il tenore lipidico del latte che andrebbe accertato frequentemente. Questa

soluzione è di quasi impossibile attuazione nella pratica.

Pertanto, nell’attesa che siano studiati in maniera più approfondita i fabbisogni

daremo dei suggerimenti, sicuramente perfettibili, ma che finora hanno dato dei

risultati apprezzabili. Il tecnico deve adattarsi alle strutture aziendali quando queste,

per diversi motivi, non possono essere modificate. Da un punto di vista strettamente

pratico è opportuno differenziare il razionamento in funzione delle aziende che

dispongono di almeno due gruppi in produzione ed uno in asciutta, da quelle che

riuniscono in un unico gruppo i soggetti in lattazione. Nell'ambito di queste due

condizioni è opportuno adottare criteri diversi in funzione dell'addensamento dei

parti in un periodo molto ristretto (marzo-luglio nelle aziende in cui è stato raggiunto

l'obiettivo della destagionalizzazione; luglio-novembre nell’altro caso) o in funzione

di un’equa distribuzione degli stessi nel corso dell'anno.

Nel primo caso, il razionamento è relativamente più semplice in quanto, almeno dal

punto di vista dello stadio di lattazione, il gruppo sarà alquanto omogeneo e il

razionamento andrà adattato alla produzione media.

Nel secondo caso, gli accorgimenti dovranno mirare a variare il razionamento di base

in funzione della disponibilità foraggiera aziendale. Occorrerà, infine, diversificare,

per quanto possibile, la quantità di mangime composto integrato distribuito in sala di

mungitura in modo da adeguare il razionamento di base alla quantità di latte prodotto

da ciascun soggetto.

E' opportuno considerare che nelle bufale l'assunzione di sostanza secca varia con il

peso vivo, con la produzione e lo stadio di lattazione e che, come già detto, la

composizione chimica del latte è molto variabile. La composizione chimica del latte

di bufala è influenzata dalla dieta più che nella vacca. Nella Frisona la percentuale

di grasso può variare dal 3 al 4,2% quello in proteine dal 2,7% al 3, 25% in funzione

del soddisfacimento dei fabbisogni. Nella bufala, la percentuale di grasso oscilla

mediamente dal 6 al 13% e quello in proteine dal 3,8% al 5,5% e ciò anche in

funzione del soddisfacimento dei fabbisogni nutritivi. Il fabbisogno in energia,

pertanto, per litro di latte di vacca varia da 0,35 a 0,46 UFL mentre, nella bufala

risulta compreso tra 0,62 e 1,2 UFL. Nel caso della vacca, un adeguato apporto

energetico può migliorare anche del 24% il tenore in grasso del latte e un

razionamento in eccesso determina sprechi che possono portare alla sindrome della

vacca grassa; nella bufala quest’inconveniente esiste ma è meno dannoso. Un

eccesso nel razionamento della bufala comporta, infatti, una sensibile modificazione

della composizione chimica del latte, che sotto certi aspetti limita l’entità degli

sprechi.

Dopo il 5° mese di lattazione se è assicurato ad una bufala un razionamento di 10

UFL è molto probabile che ad una produzione lattea di 6 litri corrisponderà una

percentuale in grasso dell'8,5% e di proteine del 4,5% e ad una di 5 litri una

percentuale in grasso dell'11% e di proteine del 5%. Non sarà facile, comunque, dare

dei suggerimenti definitivi in quanto la bufala non presenta ancora un habitus

lattifero tale da utilizzare nella maniera più efficiente il razionamento. Attualmente,

con il patrimonio genetico esistente occorre razionare al di sopra dei fabbisogni

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teorici per assicurare una buona persistenza della lattazione. Esperienze recenti,

infatti, hanno dimostrato che la bufala presenta un'ottima persistenza se riesce a

produrre un latte più ricco in grasso e proteine dopo aver raggiunto l'acme della curva

di lattazione. La vera persistenza nella bufala, infatti, non va valutata esclusivamente

in litri di latte ma in termini di residuo secco totale, o meglio, in latte corretto al 4%

di grasso. Sotto questo punto di vista la diminuzione produttiva, dopo che si è

raggiunta la massima produzione giornaliera, è meno intensa, se sono assicurate per

litro di latte più unità nutritive.

Da quanto finora esposto traspare che, è fondamentale conoscere innanzi tutto qual è

il consumo di sostanza secca della mandria e, in funzione di questo, formulare una

dieta idonea che tenga conto dello stadio di lattazione medio delle bufale.

Il consumo in sostanza secca varia, come si è detto, in funzione dello stadio di

lattazione, del peso vivo, della capacità galattopoietica della mandria, della

composizione chimica della dieta (densità energetica in particolare) e

dell'appetibilità degli alimenti. I foraggi verdi, per esempio, sono più appetiti e

contribuiscono a determinare un consumo di sostanza secca molto elevato cui

corrisponde, però, un miglioramento produttivo di breve durata. L'elevata assunzione

di foraggi verdi, infatti, favorisce (soprattutto erbaio di sorgo, trinciato fresco di mais

ceroso, granturchino ed erba di prato) fermentazioni ruminali troppo rapide, accelera

la peristalsi intestinale, e ne influenza negativamente l'assorbimento delle sostanze

nutritive. Non è infrequente riscontrare, a parità di peso e di stadio di lattazione,

assunzioni medie giornaliere di sostanza secca che variano da 20 a 16 kg. I maggiori

consumi di sostanza secca si registrano tra i 50 ed i 150 gg dal parto, prima e dopo

essi sono inferiori. Nella bufala, come nella vacca, avviene una minore assunzione di

sostanza secca nella prima fase della lattazione, quando cresce la produzione; una

flessione dei consumi si registra, inoltre, mediamente dopo sei mesi di lattazione o

meglio quando la produzione di latte è inferiore ai 5 litri.

Da una rassegna di Mudgal (India, 1988) emerge che i fabbisogni energetici per il

mantenimento espressi in energia metabolizzabile (EM), sono compresi tra 94,33

Kcal per kg di P0,75

e 188 Kcal per kg di P0. 75

per la bufala mentre per la vacca

risultano di 130 Kcal per kg di P0,75

. Questi dati espressi in UFL corrispondono per

una vacca di 500 kg ad un fabbisogno di mantenimento di 5,03 UFL laddove,

secondo i fabbisogni francesi (0,6 UFL/q + 1, quattro UFL), necessitano 4,4 UFL.

Analogamente secondo i dati indiani occorrerebbero per una bufala di pari peso da

7,3 UFL (Kcal 188 per kg di P0,75

) a 3, 65 UFL (Kcal 94,33 per kg di P0,75

). La

differenza esistente per la vacca tra i dati suggeriti dagli indiani e quelli francesi può

dipendere dalle diverse condizioni climatiche in cui si è operato nonché dallo stato di

nutrizione degli animali utilizzati. Analoghe considerazioni possono farsi per la

bufala per la quale ci sembra, allo stato attuale delle conoscenze, di poter suggerire

gli stessi fabbisogni utilizzati per la bovina. Bufale eccessivamente grasse presentano

fabbisogni più elevati e sottoporle ad un razionamento più ristretto risulterebbe

vantaggioso sotto il profilo sia fisiologico sia economico.

Per la produzione del kg di latte corretto al 4% (750 Kcal) Mudgal riferisce

fabbisogni in energia metabolizzabile compresi tra 1603 Kcal e 1863 Kcal

corrispondenti a 0,587 UFL e 0,682 UFL mentre per la vacca, sempre secondo i dati

indiani, occorrono da 1165 Kcal EM a 1199 Kcal EM e quindi 0,427 UFL - 0,439

UFL, valori sovrapponibili a quelli suggeriti da francesi.

Per quanto riguarda il fabbisogno proteico Mudgal riferisce per il mantenimento

della vacca grammi 2,25 - 2,31 di proteine digeribili (PD) pari a grammi 3,35 - 3,44

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di proteine grezze (PG) per kg di P0.75

; nella bufala occorrerebbero, invece, grammi

3,2 - 3,5 di PD pari a grammi 4,8- 5,2 di PG per kg di P0,75

. Per la produzione lattea

gli indiani suggeriscono valori compresi tra grammi 130 e 150 di PD nella vacca e tra

grammi 126 e 163 di PD nella bufala per ogni 100 grammi di proteine prodotte con il

latte.

Per una vacca di 600 kg occorrono, pertanto, grammi 407 - 418 di PG (inferiori

pertanto del 20% circa rispetto a quelli utilizzati in Italia) mentre per una bufala di

pari peso sono suggeriti grammi 579 - 628 di PG. Per 1 kg di latte di vacca con il

3,2% di proteine occorrono pertanto 63 - 72 grammi di PG e per un litro di latte di

bufala con il 4% di PG occorrono 75 - 97 grammi di PG. L'estrema variabilità dei

dati riportati per la bufala e la differenza tra i fabbisogni suggeriti dagli indiani e

quelli adottati per le vacche da latte allevate in Italia, inducono a ritenere che è

alquanto artificioso estrapolare le esperienze indiane alla bufala mediterranea di

ceppo italiano. Quest’osservazione è avvalorata dalla diversità esistente tra il clima, il

tipo genetico, l'attitudine galattopoietica dei soggetti e la qualità del latte prodotto e

relative interazioni tra i fattori summenzionati, che si registrano in India e nell'Italia

meridionale. Le esigenze nutritive aumentano con la produzione e, a parità di latte

prodotto, la loro conversione è migliore nei soggetti dotati di più spiccate

caratteristiche lattifere. L'aggiornamento dei fabbisogni è giustificato dall'evoluzione

del patrimonio genetico. Riteniamo, pertanto, che i dati riportati da Mudgal siano

utili come base di riferimento. Da ricerche condotte in Italia, emerge che per la

produzione di 1 kg di latte di bufala corretto al 4% sarebbero necessarie da 0,36 a 0,

63 UFL, secondo lo stadio di lattazione. Mediamente, l'esigenza energetica per la

suddetta produzione è risultata di 0,5 UFL e quindi rispetto alla vacca la capacità

della bufala di convertire energia degli alimenti in latte è stata inferiore del 12%:

nelle bufale indiane la differenza con la vacca è stata del 31%. Negli allevamenti in

cui sono stati rilevati valori più elevati di grasso (8 - 8,8%) e di protidi (4,4 - 4,6%) il

fabbisogno è risultato più elevato: 0,513 UFL. Questi risultati spiegano in parte la

variabilità dei dati riportati dagli indiani rispetto a quelli del nostro ambiente; il

fabbisogno energetico per produrre 1 kg di latte al 4% dipende, infatti, anche dal

livello nutritivo della razione e dalla composizione chimica del latte che si ottiene;

quest'ultimo varia in funzione di quanto detto ma anche in funzione delle capacià

genetiche dei soggetti. Quando il livello nutritivo è superiore a 2,5 l'efficienza

energetica si abbassa. Riteniamo, tuttavia, nell’attesa di ricerche più approfondite,

che non sia del tutto inesatto attribuire alla bufala un fabbisogno per il latte corretto

al 4% analogo a quello della bovina. Con livelli nutritivi più elevati si registra,

infatti, uno spreco fisiologico che può non rivelarsi tale, dal punto di vista

economico, qualora assicuri una composizione chimica del latte più rispondente alle

esigenze del caseificio. Per gli allevatori che trasformano direttamente il prodotto o

lo conferiscono a cooperative, che hanno già affrontato il discorso della qualità del

latte non dovrebbero esistere dubbi sulla scelta economica più conveniente.

In merito all'aspetto proteico, le soluzioni risultano più complesse in quanto i

consumi di sostanza secca riferiti da Mudgal sono compresi all'inizio della lattazione

tra kg 11,25 e kg 14,57, pari al 2,5 - 2,89% del peso vivo. Da questi dati si evince

che per una bufala del peso vivo di 450 kg con produzione di 10 litri di latte con il

4% di proteine occorrono 1.338 grammi di PG (488 grammi di PG per il

mantenimento ed 850 grammi per la produzione), la suddetta quantità riportata ad un

consumo di sostanza secca di 13 kg, (kg 11, 25 + 14, 57) /2, equivale ad un’incidenza

di PG sulla s.s. del 10, 29%. Nel caso di una bufala mediterranea di ceppo italiano

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223

del peso di kg 600 con pari produzione e con consumo di s.s. di kg 17,33 (2,89% del

p. v.) occorrerebbero grammi 1450 di PG (600 grammi per il mantenimento ed 850

grammi per la produzione) che inciderebbero sulla s.s. per l'8,37%. Questo valore,

non garantisce una buona funzionalità della micropopolazione ruminale. Per i protidi

grezzi, pertanto, bisogna tenere conto oltre che dei fabbisogni anche della loro

incidenza sulla s. s.; quest'ultima non deve essere inferiore all'11% anche nelle bufale

in asciutta. Motivi di ordine pratico, imposti da un'alimentazione di gruppo,

suggeriscono di mantenere costante nel corso della lattazione la percentuale di PG

della dieta intorno a valori del 12% che sono sufficienti a garantire i fabbisogni di

bufale con produzione inferiore ai 14 litri. Al di sotto dei 14 litri sarebbero

sufficienti anche quantità di PG per Kg di s.s. comprese tra 90 e 100 grammi che,

come si è già detto difficilmente garantirebbero un’ottimale funzionalità di

popolazione ruminale. E' preferibile, pertanto, adottare diete che comportano un

eccesso proteico che nella bufala, almeno apparentemente, non sembrano

determinare gli stessi inconvenienti che si registrano nella bovina. Nella prima fase

di lattazione e per bufale con produzioni superiori ai 14 kg (4% di protidi nel latte)

occorre una percentuale di PG/s. s. superiore al 12, 5%. Quando il consumo di

sostanza secca si normalizza, dopo circa 50 giorni dal parto, tenori proteici del 12%

sulla s. s. sono in grado di soddisfare le esigenze di bufale con produzione di 18 kg

(4% di protidi). Soltanto per le campionesse occorrerà adottare piani di razionamento

diversi e modulare la percentuale di PG sulla s.s. con mangimi composti integrati

opportunamente formulati.

Non è escluso che una bufala possa produrre un latte con maggiori quantità di grasso

e proteine anche quando i fabbisogni non siano assicurati. Questa eventualità,

tuttavia, può verificarsi soltanto nella prima fase di lattazione purché siano

disponibili riserve da metabolizzare accumulate, in particolare, alla fine della

lattazione precedente o anche durante l'asciutta. Nelle prime settimane dopo il parto,

la bufala come la bovina, è nella fase catabolica della lattazione e può utilizzare i

depositi adiposi per soddisfare i fabbisogni sia di mantenimento sia di produzione;

questa condizione fisiologica è transitoria in quanto mentre si può ottenere un latte

"più ricco" rispetto alla copertura dei fabbisogni nei primi 2 o 3 mesi dopo il parto,

successivamente saranno solo gli apporti nutritivi a garantire la quantità e la qualità

del latte. Sui fenomeni produttivi gioca un ruolo importante la potenzialità genetica

del soggetto. Apporti nutritivi inferiori ai fabbisogni modificano poco la quantità ma

molto la composizione chimica del latte di una bufala, altamente produttiva,

viceversa un soggetto con minori capacità galattopoietiche diminuirà la quantità e

adeguerà la composizione chimica allo stadio di lattazione. Va tenuto presente,

infine, la capacità del soggetto a produrre un latte con determinate caratteristiche (in

particolare % di grasso e proteine). Una bufala che, geneticamente, produce latte con

pochi lipidi e proteine non sarà in grado di trasferire nel suo secreto i principi

nutritivi assunti in eccesso e quindi li trasformerà in grasso di deposito. Quando si

effettua un razionamento è opportuno, pertanto, adeguarlo allo stato di nutrizione,

alla sensibilità del mercato a valutare in maniera differenziata la qualità del latte ed

infine alle caratteristiche produttive della mandria. Queste ultime possono essere

modificate con la selezione.

Non è facile tenere conto di questi suggerimenti per le aziende che non

dispongono di gruppi di produzione; tuttavia, riteniamo che alcune considerazioni

possono risultare utili al tecnico, che dovrà formulare una dieta.

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Nelle mandrie in cui i parti sono concentrati in pochi mesi, quando la distanza media

dal parto è di circa 90 gg, frequentemente il consumo medio di sostanza secca è di

circa 20 kg. In questa fase se si riscontra una produzione media giornaliera di 13,8

kg e si somministra una s.s. con densità energetica di 0,8 UFL/kg s.s. saranno

disponibili mediamente 16 UFL (kg 20 di s.s. x 0,8 UFL = 16 UFL) di cui 11 UFL

(16 UFL - 5 UFL x mantenimento) per la produzione. Ad ogni litro di latte saranno

assicurate, pertanto, 0,797 UFL che consentiranno la produzione di un latte con l'8%

di grasso e il 4,5% di protidi. Una densità energetica inferiore determinerà una

diversa composizione chimica del latte: a 0,75 e a 0,7 di densità energetica

corrisponderà rispettivamente un latte con il 7% di grasso ed il 4,4% di protidi ed un

latte con il 6,3% di grasso e il 4% di protidi. Ciò si verificherà se la quantità di latte

prodotto non diminuirà; tale evenienza è possibile se la capacità galattopoietica delle

bufale è elevata. Le mandrie costituite da soggetti che dispongono di riserve

energetiche da poter utilizzare forniranno latte con composizione chimica migliore

rispetto a quanto riferito anche quando la densità energetica è inferiore a 0,8; in

questo caso, tuttavia, se la capacità di assunzione della s.s. non sarà elevata, non si

registrerà una buona persistenza della produzione.

Va detto, inoltre, che, se nella prima fase di lattazione il razionamento non

assicura produzioni ottimali, la minore quantità di latte prodotto non sarà più

recuperato anche quando la dieta dovesse risultare rispondente ai fabbisogni nel

prosieguo della lattazione.

Da alcuni dati, si evince che per bufale con produzioni di circa 18 litri è necessaria

una densità energetica di 0,85 per ottenere un latte accettabile dal caseificio (6,9% di

grasso e 4,5 di protidi). Per queste bufale occorre diminuire la % di fibra grezza della

dieta. Questo suggerimento sembrerebbe illogico poiché è noto che dalla fibra

grezza originano gli ac. grassi volatili necessari alla formazione del grasso. Va

tenuto presente, tuttavia, che il grasso del latte origina per circa il 50% dagli

ac.grassi prodotti dalle fermentazioni ruminali e per il rimanente deriva dai

trigliceridi circolanti; questi ultimi sono ceduti alla ghiandola mammaria nella misura

in cui sono reintegrate le riserve corporee. I depositi adiposi, in particolare, possono

cedere trigliceridi fino a quando essi sono disponibili; necessita, pertanto, un

apporto continuo di energia attraverso l'assunzione con la dieta di sostanze nutritive

digeribili; queste ultime sono presenti nella s.s. in misura inversamente

proporzionale al tenore in fibra grezza. Bisogna, in ogni caso, assicurare una

percentuale in fibra grezza del 19 - 20% sulla s.s. per garantire un efficiente

biochimismo ruminale; per le bufale più produttive occorre, quindi, non eccedere con

l'apporto di fibra grezza al fine di garantire apporti energetici idonei a reintegrare le

riserve corporee; ciò assicura un turnover lipidico efficiente e tale da garantire una

quantità di grasso mobilizzabile che può essere trasferito nel latte. Per queste bufale,

e nella prima fase produttiva, occorre che la densità energetica suggerita sia ottenuta

ricorrendo ad alimenti che forniscono una quantità totale di zuccheri solubili e di

amido, rispettivamente, non superiori ad 800 g e a 3 kg, al fine di avere delle ottimali

fermentazioni ruminali e una glicemia che consenta un’idonea utilizzazione dei

grassi di deposito. Questi dati sono da ritenersi prudenziali poiché non esistono in

letteratura ricerche specifiche per la bufala. E' opportuno, pertanto, che questi

accorgimenti siano adottati con l'ausilio di un tecnico che suggerirà, eventualmente,

nella formulazione criteri diversi per il razionamento sostituendo alla percentuale di

fibra grezza quella dell'NDF.

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225

Nell'ultima fase di lattazione, quando la produzione giornaliera è inferiore a 6 kg,

la bufala diminuisce i consumi e riceve il concentrato una sola volta al giorno in

quanto il numero di mungiture si riduce da 2 ad 1; in questo caso la densità

energetica della dieta diminuisce in misura proporzionale alla differenza che esiste

tra la densità energetica del mangime e quella della sostanza secca dei foraggi

distribuiti in mangiatoia. Quando i consumi sono inferiori ad 11 kg di sostanza secca

e la densità energetica è pari a 0,7 (9 kg s.s. da foraggi in mangiatoia con densità

energetica media di 0,65 e 2 kg di mangime in sala di mungitura con densità

energetica di 0,95: [9 kg s.s. x 0, 65 + 2 kg s.s. x 0,95]/ 11 kg s.s. = 0,7), ad una

produzione di latte di 5 litri corrisponde una composizione chimica del 5% di grasso

e del 3, 8% di protidi. In questa fase, la bufala non è in grado di attingere alle proprie

riserve lipidiche perché i processi catabolici a fine lattazione sono meno intensi. Ne

deriva che, soprattutto quando la produzione giornaliera è bassa ed i consumi sono

diminuiti, non è opportuno ridurre la densità energetica della dieta in quanto si

ottiene un latte meno ricco di residuo intero. Non bisogna sottovalutare questo

suggerimento in quanto il latte prodotto da bufale a fine lattazione è utile per

migliorare il latte di massa, soprattutto quando è notevole l'incidenza nella mandria

delle bufale i cui fabbisogni non sono coperti e che, pertanto, producono un latte con

un residuo intero intorno al 16%.

Ricordiamo che quanto più la densità energetica è bassa tanto minore sarà

l'assunzione di sostanza secca e all'aumentare della densità energetica la capacità di

ingestione non aumenta indefinitamente, in quanto al di sopra di certi valori essa

inizia a diminuire.

Con diete caratterizzate da 0,8 - 0,82 UFL/kg s.s. si registra una diminuzione della

percentuale di grasso indipendentemente dall'apporto energetico assicurato con la

razione; con densità energetica elevata, infatti, aumenta la glicemia e diminuisce la

mobilizzazione dei grassi di deposito e il loro contributo alla formazione della

componente lipidica del latte. Queste considerazioni suggeriscono, pertanto, di

assicurare una densità energetica costante, nel corso della lattazione, prossima a 0,8

UFL/kg s.s. ; valori più elevati risultano vantaggiosi nella prima fase della lattazione

e nelle primipare, poiché in entrambi i casi la capacita' di ingestione è inferiore. Per

questi soggetti è preferibile, tuttavia, elevare la densità energetica della dieta con

mangimi caratterizzati da un tenore in cellulosa compreso tra l'11% e il 13% sulla

sostanza tal quale.

In merito all'apporto minerale ricordiamo che il latte di bufala, rispetto a quello di

vacca, è più ricco di calcio (g 2÷1,7 vs 1,1 - 1,2) e di fosforo (g 1,15÷1,3 vs 0,85 -

0,95). Ne consegue che anche i fabbisogni dovrebbero essere più elevati. Ricerche

specifiche dovranno puntualizzare questo aspetto; allo stato attuale riteniamo

sufficiente un apporto per litro di latte di 6÷6,5 g di Ca e di 2,2÷2,5 g di P, cui va

aggiunto il fabbisogno di mantenimento consigliato per la vacca. Per una bufala di

600 kg con produzione di 12 litri, pertanto, scaturiscono fabbisogni globali di 110 g

di Ca e 56 g di P, quantitativi che i normali razionamenti non sempre garantiscono se

non sono effettuate adeguate integrazioni.

Per le vitamine e gli oligoelementi possono allo stato attuale delle conoscenze,

essere adottati gli schemi utilizzati per i bovini.

Ulteriore accorgimento, da tenere presente nel razionamento, è quello di

maggiorare i quantitativi globali di principi nutritivi da somministrare alla mandria in

funzione del numero delle primipare presenti, per garantire i fabbisogni necessari a

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completare l'accrescimento. Per ogni primipara è opportuno aggiungere alla razione

totale 1 UFL, 150 g di PG, 10 g di Ca e 5 g di P da modulare sulla sostanza secca.

I fabbisogni della bufala in gestazione possono ritenersi anch'essi sovrapponibili a

quelli della vacca; è opportuno, in questo caso, far coincidere l'ottavo mese della

bufala con il settimo mese di gravidanza della vacca al fine di compensare la

differente durata della gravidanza. Risulta, in ogni caso, fondamentale adeguare il

razionamento a quello che è lo stato di nutrizione a fine lattazione.

E' importante, tuttavia, tenere presente che il periodo dell'asciutta (3-4 mesi) nella

bufala è più lungo rispetto alla vacca. Una carenza di 10 grammi di P al giorno nella

vacca si traduce a fine gestazione in un debito complessivo di 600 grammi, laddove

nella bufala lo stesso errore, perpetuato per un periodo più lungo, produce un deficit

complessivo di 1.200 grammi. Nella maggior parte delle aziende è praticato un

razionamento insufficiente sotto il profilo minerale e vitaminico. Queste carenze

associate all'impiego di insilati mal conservati e di fieni ammuffiti sono alla base dei

prolassi vaginali ed uterini che rappresentano una delle patologie più comuni della

fase puerperale.

8.4.7. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella pecora

Il latte di pecora si differenzia da quello di vacca e di capra per alcuni aspetti che

dipendono dalle sue caratteristiche fisico-chimiche. Si presenta di colore bianco

porcellanato, ha un odore intenso e una viscosità molto maggiore di quella del latte

vaccino. È pertanto poco adatto al consumo fresco mentre, essendo particolarmente

ricco di caseine, presenta una resa in caseificazione doppia rispetto al latte vaccino.

L’acidità varia normalmente tra 8 e 9° SH, mentre il pH ha valori tra il 6.6 e il 6.7.

Una delle sue peculiarità riguarda l’elevata concentrazione di calcio, cosa che

mantiene il valore dell’acidità piuttosto basso (effetto tampone). Queste

caratteristiche favoriscono un più lungo periodo di conservazione del prodotto, una

volta refrigerato a temperature inferiori ai 10°C. Inoltre, la peculiare composizione in

acidi grassi del latte ovino, in particolare la presenza di acido caprilico e caprico nei

trigliceridi della materia grassa, influiscono in modo determinate sul sapore e sugli

aromi dei derivati.

Le frazioni proteiche del latte di pecora sono molto simili a quelle delle più

importanti specie lattifere.

La lattazione della pecora solitamente dura 12-20 settimane; il massimo della

produzione si ha nella seconda e terza settimana, poi declina gradatamente. Circa il

38% della produzione totale si ha nel primo mese, il 30% nel secondo mese, il 21%

nel 3° mese e l’11% nel 4° mese di lattazione.

11

12,5

11

9

8

7

5

5

4

3

1

3 5 7 9 11 13 15 17 19

Curva di lattazione in pecore Suffolk

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227

I fabbisogni energetici e proteici di lattazione sono proporzionalmente superiori a

quelli dei bovini in quanto il latte è più grasso e con un più alto contenuto proteico.

Si utilizzano 0,6 U.F. e 80 g di proteina digeribile per kg di latte prodotto.

Il fabbisogno netto di energia per il mantenimento (Em) può essere così calcolato:

Em = 0,226 (W/1,08)0,75

+ 0,0106 W

Per le pecore tenute all’aperto bisogna tenere presente la maggiore attività muscolare.

Per quelle tenute in pianura si può usare il valore 0,0225 anziché 0,0106 mentre per

quelle che pascolano in collina va usato 0,0337. Il contenuto energetico del latte di

pecora è uguale:

VEl (MJ/kg) = 0,0328 G + 0,0025D + 2,20;

dove G = contenuto in grasso e D = giorno di lattazione.

Composizione del latte in diverse razze

Razza

Grasso

min. max Proteine

min. max.

Sarda

Comisana

Barbaresca

Bergamasca

Laticauda

6,14 7,88

6,20 10,60

7,10 10,90

9,07 11,50

6,64 8,94

5,83 6,32

5,55 5,82

5,85 6,50

7,42 8,06

5,46 6,72

Quando non sono disponibili dati sulla composizione del latte si può adottare il

valore di 4,6 MJ/kg. Il valore energetico dei tessuti corporei mobilizzati dalla pecora

variano nel corso della lattazione da 17 a 38 MJ/kg ed è più elevato all’inizio della

lattazione.

In mancanza di dati precisi si è proposto di adottare (come per la vacca e la capra) il

valore di 26 MJ/kg. Ogni kg di tessuto mobilizzato fornisce: 26 x 0,84 = 21,84 MJ di

energia netta come latte ed ogni kg di peso guadagnato aumenta il fabbisogno di

energia netta dell’animale di: 26/0,95 = 27,36 MJ.

Proteine - Il fabbisogno (g/giorno) di PDR è di 8,34 di EM ingerita e quello di

proteine alimentari non degradabili nel rumine (g/giorno) è pari a 1,47 proteine

tissutali richieste - 6,67 di EM ingerita. Il fabbisogno dei tessuti comprende quello

necessario per il mantenimento (2,19 g/kgW0,75

), quello per la produzione lattea (53

g/kg) e quello necessario o reso disponibile dalla variazione di peso del corpo (130

g/kg per il guadagno e 98 g/kg per la perdita di peso).

Elementi minerali - Le perdite endogene (fabbisogno netto per il mantenimento) di

calcio, fosforo e magnesio sono rispettivamente di 16, 30 e 3 mg/kg di peso corporeo.

Il fabbisogno netto per la produzione del latte è di 1,6 g di Ca, 1,3 g di P e 0,17 g di

Mg.

Si può presumere che la disponibilità di questi minerali presenti nella dieta sia dello

0,51 per il calcio, 0,58 per il fosforo e 0,17 per il magnesio.

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Esigenze nutritive pecore in lattazione

Composizione

latte di pecora (g)

Grasso 74, residuo magro 119, proteina grezza 55,

lattosio 48, calcio 1,6, fosforo 1,3, magnesio 0,17

Durata lattazione

12-20 settimane

Produzione latte

38% 1° mese 30% 2° “

21% 3° “ 11% 2° “

Contenuto energetico

latte

E latte (MJ/Kg) = 0,0328 G + 0,0025 D + 2,20

Contenuto medio = 4,6 MJ/Kg

Valore energetico

tessuti corporei

17 – 38 MJ/Kg (più elevato inizio lattazione)

Valore medio = 26 MJ/Kg

Energia netta:

Tessuti mobilizzati

Guadagno peso

26 x 0,84 = 21,84 MJ

26 : 0,95 = 27,36 MJ

ESIGENZE

Energia: Km = 0,7 Kl = 0,62

- Mantenimento:

0,226 (W/1,08)0,75 +

0,0106* W

*per pecore che pascolano in pianura = 0,0225

* “ “ “ “ collina = 0,0337

UFl = 0,045 W0,75

- Produzione:

4,6/0,62 = 7,42 MJ/Kg = 1,02 UFl

UFl = 0,42/Kg latte al 4% di grasso

- E.M. fornita da perdite corporee = 26 MJ/Kg

Proteine:

- Proteine degradabili = 8,34 g /MJ energia ingerita

- Proteine non degradabili =

1,47 x proteine tissutali – 6,67 x EM ingerita

Proteine tissutali =

a) Mantenimento: 2,19 g/ W0,75

b) Produzione latte: 53 x 0,95 g /Kg

c) Guadagno peso: 130 g/Kg

d) Perdita peso: 98 g /Kg

Mantenimento Produzione*

Calcio: PV x 0,016/0,51 Kg x 1,6/0,51

Fosforo: PV x 0,03/0,58 Kg x 1,3/ 0,58

Magnesio: PV x 0,003/0,17 Kg x 0,17/0,17

* latte al 4% di grasso

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229

Calcolare i fabbisogni alimentari di una pecora allevata in pianura, di 75 kg, in 4^ settimana

di lattazione, che allatta due agnelli e che riceve una dieta con qm = 0,60 e perde 100 g di peso

al giorno

Mm (MJ/giorno) = 0,226 x (75/1.08)0.75

+ 0,0106 x 75

km = 0,35 x 0,6 + 0,503

Mm (MJ/giorno)

El (MJ/giorno) = 2,31 x 4,7

kl = 0,35 x 0,6 + 0,42

Ml (MJ/giorno)

Mg (MJ/giorno) = (0,1 x 21,84/0,63)

Correzione LA (1 + 0,018 Mp/Mm)

Mmp (MJ/giorno) = (Mm + Ml + Mg) x 1, 0283

RDP (g/giorno) = 8,34 x 23,13

UDP (g/giorno) = 1,47 x 199 - 6,67 x 23,13

Ca (g/giorno) = (75 x 0,016 + 2,31 x 1,6)/0,51

P (g/giorno) = (75 x 0,03 + 2,31 x 1,3)/ 0,58

Mg (g/giorno) = (75 x 0,003 + 2,31 x 0,17)/0,17

6,23

0,713

8,74

10,86

0,63

17,23

- 3,47

1,0283

23,13

193,0

138,3

9,6

9,1

3,6

LA = livello alimentare; UDP = proteine non degradabili nel rumine

Fabbisogni energetici e proteici delle pecore a fine gravidanza

Peso

Kg

Tipo di

Gravidanza

Settimane prima del parto

6-5 4-3 2-1

UFL

n.

PDI

g

UFL

n.

PDI

g

UFL

n.

PDI

G

40 Singola 0,62 67 0,72 87 0,85 102

Gemellare 0,64 72 0,75 95 0,90 110

50 Singola 0,72 72 0,84 90 0,98 105

Gemellare 0,74 77 0,94 102 1,15 125

60 Singola 0,80 80 0,94 100 1,14 115

Gemellare 0,82 90 1,02 115 1,32 140

70 Singola 0,88 90 1,02 115 1,22 130

Gemellare 0,90 110 1,10 135 1,40 150

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231

Fabbisogni alimentari delle pecore in lattazione, per litro di latte prodotto

Mesi dopo lo Composizione latte

%

Esigenze per litro di latte

Svezzamento grasso proteine UFL (n.) PDI

(g)

Ca (g) P (g)

1-2 5,8 4,9 0,59 74

6,2 5,3 0,62 80 6,4 2,5

3-4 6,5 5,5 0,64 83

7,5 6 0,72 90 6,4 2,5

5-6 8 6,2 0,75 93

9 6,2 0,80 93 7,0 2,8

Aspetti concernenti l’alimentazione delle pecore nelle diverse fasi del

ciclo produttivo:

a) Fase finale di gravidanza-primi mesi di lattazione

La produzione di latte nei primi 2-3 mesi di lattazione dipende da numerosi fattori, in

parte legati alle caratteristiche degli animali (mole, livello genetico, stato

d’ingrassamento, prolificità), in parte legati alle condizioni di allevamento

(disponibilità alimentari, condizioni meteorologiche). Poiché la produzione lattea nei

primi mesi di lattazione influenza in maniera marcata la produzione dei mesi

successivi, è importante dedicare a questa fase una particolare attenzione. Uno dei

fattori che condiziona in maniera più evidente il livello produttivo delle pecore nei

primi mesi di lattazione è dato dal loro stato d’ingrassamento. Infatti, anche alla

presenza di razioni di elevata qualità è pressoché inevitabile che nei primi mesi di

lattazione le pecore abbiano un bilancio energetico negativo. Questo perché dopo il

parto, la produzione lattea, e quindi i fabbisogni degli animali, crescono più

rapidamente dell'ingestione alimentare. Per di più, molto spesso i primi mesi di

lattazione coincidono con il periodo invernale, durante il quale la disponibilità di

erba è limitata dalle basse temperature ambientali ed il pascolamento è reso

difficoltoso dalle condizioni meteorologiche avverse e dalle poche ore di luce.

Pertanto, nei primi due mesi di lattazione è inevitabile che le pecore producano una

parte del latte mobilizzando le loro riserve lipidiche e proteiche. Questo processo è

da considerarsi normale purché le perdite di peso non siano troppo intense. In genere,

esse non dovrebbero superare il 15% del peso corporeo nelle prime 6-8 settimane di

lattazione, dopodiché le pecore dovrebbero cominciare a guadagnare peso. In termini

di BCS, l'INRA suggerisce che da un BCS ottimale al parto di 3,25-3,5 si possa

arrivare a un BCS con un minimo di 2,0-2,5 alla 6-8a settimana di lattazione, con un

calo massimo di un BCS in 6 settimane. Perdite di peso maggiori comporterebbero

sicuramente un calo repentino della produzione lattea, difficilmente recuperabile

nelle fasi successive della lattazione, con possibili condizioni di chetosi e probabili

problemi riproduttivi nella fase dei salti. Le pecore da latte in condizioni di bilancio

energetico fortemente negativo tendono a ridurre la produzione lattea in maniera più

evidente delle vacche. Infatti, mentre in queste ultime il miglioramento genetico ha

comportato una diffusione di animali che per il loro quadro ormonale hanno una

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vocazione lattifera molto spinta, nel caso degli ovini da latte il progresso genetico è

stato inferiore ed i caratteri ancestrali di conservazione della vita sono spesso più

marcati, portando ad una interruzione della produzione quando le condizioni di stress

alimentare sono eccessive.

Per queste ragioni, è molto importante far sì che le pecore inizino la lattazione

con una quantità adeguata di riserve lipidiche. Poiché in animali al pascolo

l'ingestione giornaliera massima è pressoché impossibile da ottenere, per

l'impossibilità di somministrare razioni con quantità molto elevate di concentrati,

appare chiaro che la presenza di sufficienti riserve lipidiche sia una condizione

irrinunciabile per l'ottenimento di elevati livelli produttivi. Occorre, comunque,

segnalare che anche l'eccessivo ingrassamento può avere effetti negativi sulla

produzione di latte, perché quantità eccessive di grasso viscerale comprimono il

rumine riducendo l'ingestione alimentare.

b) Piena lattazione: dal quarto mese alla monta

Dal punto di vista nutrizionale una definizione esatta del momento di passaggio

da inizio a piena lattazione dovrebbe essere basata, più che sui mesi di lattazione,

sul fatto che gli animali siano in bilancio energetico negativo o positivo,

rispettivamente nella prima e seconda fase. Nelle aree mediterranee, questo

spartiacque generalmente coincide con l'inizio della ripresa vegetativa (da

febbraio ai primi di aprile, secondo le latitudini e le altitudini). Pertanto, per 2-3

mesi la fase di piena lattazione coincide con il periodo dell'anno in cui si ha la

massima disponibilità di erba. In questi casi, l'ingestione al pascolo è,

generalmente, molto elevata e gli obiettivi tecnici principali dovrebbero essere di:

- massimizzare la produzione di latte;

- consentire un graduale recupero delle riserve corporee perse nella prima parte

della lattazione;

- evitare che le pecore con bassi livelli produttivi ingrassino eccessivamente.

Questi tre obiettivi sono difficilmente perseguibili quando pecore di livelli

produttivi molto diversi sono tenute nello stesso gregge e, quindi, sottoposte agli

stessi trattamenti alimentari. Infatti, a causa dell'elevata eterogeneità dei livelli

produttivi, i fabbisogni nutritivi sono così diversi da rendere impossibile una

corretta integrazione alimentare.

La più comune conseguenza di questo fatto è che gli animali più produttivi siano

sotto alimentati, con conseguente eccessivo dimagrimento, e quelli meno

produttivi siano sovralimentati, con conseguente eccessivo ingrassamento.

Siccome nel gregge la classe delle pecore con produzioni al di sopra della media

è quella che produce la maggiore quantità del latte aziendale, la ipoalimentazione

di questa classe comporta notevoli danni economici. Per di più, gli animali che

arrivano alla monta troppo grassi o troppo magri tendono ad avere minore

fecondità rispetto a quelli in buone condizioni d’ingrassamento. In sostanza,

l'adozione di corrette tecniche alimentari non può prescindere dalla suddivisione

del gregge (già dai primi mesi di lattazione) in almeno due gruppi creati sulla

base del livello produttivo degli animali. I gruppi possono essere formati sia sulla

base del livello produttivo degli animali che del loro stato di ingrassamento.

Benché dopo qualche mese di lattazione i due criteri siano correlati, la

produzione di latte è forse un indice più facile da misurare del BCS e, comunque,

rappresenta il principale obiettivo produttivo dell'azienda.

Mentre in allevamenti confinati, il razionamento per gruppi non comporta

particolari problemi, nel caso degli allevamenti bradi o semibradi questa tecnica

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complica sicuramente l'organizzazione aziendale.

In pecore al pascolo, comunque, la gestione dell'alimentazione di gruppi a

diverso livello produttivo può essere condotta secondo almeno due tecniche:

a) i gruppi sono mantenuti in appezzamenti diversi per tutto il periodo in cui si

ritiene che essi debbano avere trattamenti alimentari separati. I diversi gruppi

sono munti separatamente e quelli più produttivi ricevono dosi più elevate di

mangime alla mungitura. Con questa tecnica è anche possibile destinare i pascoli

migliori alle pecore più produttive. La formazione di diversi gruppi di pecore è

pratica comune negli allevamenti, anche se essi generalmente sono creati in

funzione della gestione della riproduzione e non per migliorare il razionamento

alimentare;

b) tutti gli animali sono mantenuti assieme al pascolo ma i diversi gruppi

produttivi sono distinti con appositi segni colorati sul vello. Al momento della

mungitura, le pecore sono fatte passare in appositi corral dotati di cancelli di

separazione, dove un operatore separa le pecore in gruppi in base al segno sul

vello. I diversi gruppi sono, quindi, munti separatamente e ricevono le

integrazioni in funzione del loro livello produttivo. Alla fine della mungitura le

pecore vengono riunite e portate nello stesso pascolo. Questa tecnica, diffusa

soprattutto in Israele, semplifica la gestione dei pascoli ma, ovviamente, richiede

la costruzione di corral e di recinti di separazione che, comunque, possono essere

costruiti con materiale di recupero e necessita di un certo lavoro per la

separazione degli animali prima di ciascuna mungitura.

Sarebbe anche possibile costruire impianti di mungitura che distribuiscano dosi

diverse di mangime in funzione del livello produttivo delle pecore. Tuttavia, sia

per ragioni economiche che gestionali, questi tipi di impianti non hanno ancora

trovato applicazione pratica.

In sintesi, l'obiettivo principale dovrebbe essere quello di consentire elevate

ingestioni di erba. Nella parte iniziale della primavera, data l'elevata disponibilità

di pascolo, eventuali integrazioni con concentrati non dovrebbero più avere il

senso di incrementare l'apporto complessivo di nutrienti ma di migliorarne il

bilanciamento. A fine primavera, invece, l'integrazione assume di nuovo una

notevole importanza, soprattutto, se non si dispone di irrigazione e si fa

affidamento su pascoli di graminacee. In questo caso l'integrazione dovrebbe

tener conto del loro basso contenuto di proteine e gli integratori alimentari

dovrebbero avere un’elevata concentrazione proteica. Nel caso, invece, di

disponibilità di colture foraggere irrigue, il contenuto proteico dei concentrati

dovrebbe essere molto più basso, per evitare che eventuali eccessi possano

pregiudicare l’attività riproduttiva delle pecore.

Problemi particolari posti dal pascolo costituito da erbe in stadi giovanili

Nel periodo invernale, ma spesso anche nel tardo autunno e all'inizio della

primavera, l'erba pascolata dalle pecore è molto ricca di proteine e povera di

fibra. L'elevato contenuto in proteine è frequente sia nelle leguminose sia nelle

graminacee. Su queste ultime, in particolare, la concentrazione di proteina è

spesso molto più elevata di quanto in genere non si creda. Infatti, a causa dello

stadio giovanile in cui si trovano le piante e delle concimazioni azotate cui sono

spesso sottoposte, le loro concentrazioni in proteina grezza superano di solito il

25% e spesso arrivano a oltre il 30%. Per di più, una buona metà di queste

proteine è di tipo solubile, che quindi fermenta in pochissimi minuti una volta

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ingerita. In queste condizioni molto spesso le pecore al pascolo assumono anche

più del doppio della proteina che gli servirebbe per soddisfare i fabbisogni

proteici. Come già detto, la proteina in eccesso è trasformata in urea, che è

eliminata con le urine e che in parte va a finire anche nel latte. La misurazione

dell'urea nel latte ha consentito di evidenziare che, perlomeno nelle condizioni

dell'Italia meridionale, nel periodo invernale molto spesso le pecore sono in

eccesso proteico. Questo può comportare, oltre che una perdita di latte, anche

un'altra serie di problemi:

- aumento delle cellule somatiche nel latte,

- delle mastiti e degli edemi mammari;

- maggiore frequenza di zoppie ed enterotossiemie;

- riduzione della fertilità;

- affaticamento del fegato,

- riduzione delle difese immunitarie;

- diarree.

La situazione è spesso peggiorata con l'uso di mangimi ricchi in proteine.

Siccome questi mangimi sono particolarmente costosi, la loro utilizzazione

comporta, allo stesso tempo:

- aggravio dei costi aziendali,

- diminuzione della produzione di latte e

- peggioramento dello stato sanitario degli animali.

Questi mangimi andrebbero usati solo in tarda primavera, quando l'erba è povera

di proteine, o quando i pascoli hanno poca erba e le pecore sono alimentate

prevalentemente con fieni di graminacee maturi. Allo stesso tempo, le erbe del

periodo invernale hanno un basso contenuto in fibra e stimolano poco la

ruminazione delle pecore. Questo è vero soprattutto nei casi di inverni miti e

molto piovosi, che consentono la crescita veloce ed abbondante di erba con

limitata produzione di fibra. La carenza di fibra comporta che le pecore ruminino

poco, producano poca saliva, che contenendo sostanze ad effetto tampone

contribuisce a controllare il pH ruminale, e digeriscano male l'erba e gli altri

alimenti. Spesso in queste situazioni di sub-acidosi ruminale diminuisce la

percentuale di grasso del latte. Se la carenza di fibra è molto forte, si può avere

anche acidosi ruminale conclamata.

Per ridurre i rischi connessi all'uso di erbe giovani, si possono adottare una serie

di tecniche alimentari:

alla mungitura, utilizzare mangimi pellettati o alimenti aziendali con poca

proteina (non più del 12-13%, possibilmente a bassa degradabilità ruminale), con

un buon contenuto in fibra (intorno al 17-20% di fibra grezza, 25-35% di NDF) e

ricchi in amidi. Si dovrebbe utilizzare una miscela di amidi che fermentano

lentamente (mais o sorgo) e velocemente (orzo, avena o grano), per far sì che nel

rumine si abbiano amidi in fermentazione sia nelle prime ore di pascolamento

(mattino) che nelle ore successive (pomeriggio). Questo dovrebbe consentire di

migliorare la sincronizzazione della fermentazione delle proteine del pascolo con

quella degli NSC degli integratori energetici;

evitare di concimare i pascoli con troppo azoto e di mandare le pecore su

pascoli concimati da pochi giorni;

ridurre le ore di pascolamento, mandando le pecore al pascolo a fine mat-

tina. Ciò evita anche l'ingestione di erba bagnata dalla rugiada. Se si usa questa

tecnica, bisogna, comunque, evitare di mandare al pascolo le pecore troppo

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affamate. Siccome nell'intervallo tra prima mungitura e inizio del

pascolamento le pecore rimangono senza mangiare per diverse ore, può essere

molto utile somministrare alimenti ricchi di energia e di fibra digeribile e

poveri in proteine poco prima che esse entrino nel pascolo. Per questo terzo

pasto gli alimenti più adatti sono, in ordine di preferenza, le polpe di bietola,

gli insilati di mais, gli insilati tardivi di triticale, le granelle di orzo o di avena.

Si possono anche usare mangimi pellettati, purché essi abbiano le

caratteristiche appena descritte. L'introduzione della tecnica del terzo pasto

porta grandi vantaggi:

- riduce la fame delle pecore, evitando che nelle prime ore di pascolamento

ingeriscano quantità eccessive di erba e, quindi, di proteine;

- consente ai batteri del rumine di avere energia per sfruttare al meglio le

proteine ingerite;

- consente di diluire in un numero maggiore di pasti le integrazioni alimentari.

Infatti, l'adozione del terzo pasto non comporta (anche se consente) un uso di

maggiori quantità di mangime. Se, ad esempio, si somministrano 300 grammi

di mangime per mungitura, con la stessa quantità giornaliera si possono fare 3

pasti (le due mungiture + il pasto poco prima dell’ingresso al pascolo) da 200

grammi ciascuno. Diverse aziende ovine da latte ormai adottano questa tecnica

con ottimi risultati produttivi e sanitari;

controllare il contenuto di urea nel latte per sapere se la proteina della razio-

ne è in eccesso;

controllare le feci: quando si osserva diarrea o feci molto molli e scure, è

probabile che si abbia eccesso proteico;

somministrare fieno di buona qualità per la notte. Tuttavia, quando l'erba è

abbondante, le pecore generalmente ingeriscono poco fieno, specie quando

questo è scadente (troppo maturo o ammuffito).

Uso dei fieni ed importanza della loro qualità

In certi periodi dell'anno il fieno costituisce l'unica fonte fibrosa della razione. A

causa della bassa capacità digestiva delle pecore, elevati livelli d’ingestione di

fieno possono essere ottenuti solamente quando la sua qualità è ottima, cioè

quando il suo contenuto di NDF e lignina è basso e lo stato di conservazione è

ottimale. Se il contenuto fibroso dei fieni è troppo elevato, come accade quando

si ritardano troppo i tagli per massimizzare la produzione di SS per ettaro,

l'ingestione è penalizzata, con conseguente calo delle produzioni, uso eccessivo

di concentrati e rischio d’insorgenza di disordini alimentari.

Per aumentare l'ingestione di fieni scadenti esistono due tecniche:

- la trinciatura;

- consentire agli animali di scegliere le parti migliori dei fieni, accettando che si

abbiano notevoli scarti in mangiatoia. Questi scarti sono più elevati con l’utilizzo

di fieni poco digeribili, come dimostrato da studi condotti su capre in lattazione.

Alimentazione con la tecnica della razione completa

Negli ultimi anni un numero crescente di aziende ovine da latte ha adottato la

tecnica di alimentazione basata sulla somministrazione di razioni complete

miscelate (unifeed). Un numero ancora maggiore di allevatori sta valutando se

adottare questa tecnica. Nella maggior parte dei casi, l'unifeed è praticato da

pochi anni e spesso è associato ad alcune ore di alimentazione al pascolo. Le

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principali motivazioni che spingono gli allevatori a considerare questa tecnica

riguardano:

a) la possibilità di aumentare in maniera considerevole il carico animale

mantenibile, mediante la produzione di insilati di erba e di mais o la

somministrazione di erba fresca tagliata giornalmente;

b) la possibilità di migliorare notevolmente la qualità della vita degli operatori

aziendali, con la riduzione delle ore di lavoro (perché non è più necessario

seguire gli animali al pascolo, trasferirli da un campo ad un altro o addirittura da

un corpo aziendale ad un altro) ed il miglioramento della qualità del lavoro stesso

(aumentano le attività meccanizzabili o al coperto).

La seconda motivazione, ancora più della prima, è presa in grande considera-

zione dai giovani allevatori, non più disposti a rinunciare a una qualità della vita

comparabile a quella di altre categorie di allevatori ed agricoltori.

Tuttavia, in molte aziende ovine l'introduzione dell'unifeed ha comportato, oltre

ai normali problemi di adattamento alla nuova tecnica, cali, a volte consistenti,

della produzione lattea degli animali. Questo ha portato molti allevatori a

utilizzare una tecnica mista, basata sulla somministrazione di una miscelata la

mattina, seguita da alcune ore di pascolo a metà giornata e, spesso ma non

sempre, da un'altra miscelata somministrata al rientro degli animali dal pascolo.

Molti dei problemi produttivi riscontrati con l'introduzione dell'unifeed sono

dovuti a un'errata tecnica di preparazione della miscelata, comunemente basata

sull'adozione integrale della tecnica di preparazione tipica dei bovini da latte.

Pertanto, l'adozione di questa tecnica non può prescindere dalle differenze di

capacità digestiva e dimensione ottimale della fibra tra ovini e bovini. A causa di

queste differenze, nella preparazione di razioni unifeed per ovini è necessario:

a) macinare la base foraggera in maniera molto più spinta di quanto non si faccia

per i bovini. In questo modo si favorisce una maggiore ingestione alimentare, con

effetti positivi sulle produzioni. Mentre nel caso dei bovini un'eccessiva

riduzione della dimensione delle particelle può portare ad una consistente

riduzione della ruminazione e della salivazione e può indurre acidosi ruminale,

negli ovini è praticamente impossibile, con i carri unifeed esistenti, ridurre le

particelle fibrose al punto da rendere pericolosa la razione. Le pecore, infatti,

ruminano intensamente particelle fibrose che nei bovini sarebbero troppo piccole

perché stimolino la ruminazione. Un altro vantaggio della macinazione spinta è

che si riduce il rischio che le pecore possano selezionare i componenti della

razione. Accade spesso, infatti, che razioni unifeed per ovini preparate trinciando

la base foraggera alle dimensioni ottimali generalmente adottate per i bovini

consentano alle pecore di ingerire per primi i concentrati, con notevoli rischi

d’insorgenza di acidosi, e quindi i foraggi;

b) utilizzare foraggi ottimi, dello stesso livello qualitativo di quelli in genere

somministrati a vacche in lattazione di elevato livello produttivo. Come già detto,

negli ovini l'ingestione alimentare è condizionata dalla fibrosità degli alimenti in

misura maggiore rispetto ai bovini. Dato che con razioni unifeed le pecore

scelgono molto di meno gli alimenti che non con razioni tradizionali, se esse

sono costrette ad utilizzare alimenti molto fibrosi riducono in maniera

considerevole l'ingestione e le produzioni di latte. In sostanza, se la base

foraggera è troppo fibrosa, è meglio utilizzare la tecnica di alimentazione

tradizionale, che consente alle pecore di scartare le parti peggiori dei foraggi;

c) preferire, se utilizzati nella razione, sottoprodotti con fibra altamente

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digeribile (ad esempio buccette di soia, polpe di bietola, pastazzo di agrumi);

d) utilizzare insilati ottimi. In molte aziende ovine si producono e utilizzano

insilati troppo maturi (e quindi troppo fibrosi) e/o conservati male, probabilmente

a causa della scarsa esperienza degli allevatori ovini nella loro produzione. Sia

l'eccessiva fibrosità sia le sostanze prodotte dalle fermentazioni anomale

riducono considerevolmente l'ingestione e la produzione di latte. Oltretutto, gli

insilati che hanno subito fermentazioni anomale contengono elevate quantità di

spore di batteri butirrici, che, trasferendosi nel latte, causano notevoli alterazioni

nei formaggi a lunga conservazione. Per questa ragione, molti caseifici ovini

rifiutano il latte di pecore alimentate con insilati.

In conclusione, l'adozione dell'unifeed nelle aziende ovine da latte richiede oltre

che un'attenta valutazione economica dei costi e dei benefici associati a questa

tecnica, la produzione di foraggi di ottima qualità ed una notevole attenzione alle

modalità di miscelazione della razione completa. Questi requisiti sono

indispensabili per garantire risultati produttivi soddisfacenti.

Utilizzazione e somministrazione di alimenti concentrati

Spesso i concentrati sono somministrati in corrispondenza delle due mungiture

giornaliere. Se si usano concentrati ricchi di amidi e le quantità somministrate

sono elevate, è probabile che si abbiano in breve tempo elevate produzioni di

propionato nel rumine. Questo può determinare riduzione del pH ruminale,

minore attività dei batteri cellulosolitici e diminuzione della digeribilità della

fibra. Nei casi peggiori si può avere acidosi ruminale. A volte si riscontrano casi

di acidosi anche quando la dose media di concentrati somministrati non è elevata.

Ciò generalmente dipende dalle modalità di somministrazione, che a volte

favoriscono la competizione delle pecore, lasciando spazio a quelle più

aggressive, che sono spesso anche le più produttive.

Per ridurre i picchi di produzione di propionato ed i rischi associati al basso pH

ruminale, la dose giornaliera di concentrati dovrebbe essere suddivisa in più di

due pasti. Ad esempio, un terzo pasto potrebbe essere somministrato la notte in

ovile o la mattina poco prima di portare le pecore al pascolo. Per evitare

eccessiva competizione fra gli animali, sarebbe opportuno dotarsi di sistemi di

cattura e di mangiatoie (soprattutto negli impianti di mungitura meccanica)

dotate di setti individuali.

Nel caso di utilizzazione di granelle molto fermentescibili, come quelle di orzo,

grano e avena, è consigliabile evitare trattamenti che ne incrementino

ulteriormente la velocità di degradazione, come la fioccatura, la macinazione e la

schiacciatura, anche se talvolta la fioccatura dell'orzo ha avuto effetti positivi

sulla produzione di latte. Le granelle intere stimolano la ruminazione e riducono

la velocità d’ingestione. Poiché gli ovini con la masticazione (e in particolare con

la ruminazione) sminuzzano intensamente anche le granelle, la perdita di quantità

significative di queste nelle feci è improbabile. Qualora ciò accadesse, sarebbe

un segno di alterazioni del metabolismo ruminale (acidosi) o di scarsa attività

ruminativa delle pecore.

Solamente nel caso in cui si utilizzino granelle a bassa velocità di degradazione

(mais e sorgo), la macinazione, la fioccatura e la schiacciatura possono essere

consigliate, soprattutto in animali di elevato livello produttivo, che abbiano

quindi elevate velocità di transito degli alimenti. Nel caso del mais, è

sconsigliabile l'utilizzazione di granelle intere anche per evitare che le pecore più

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anziane, con dentatura non più completamente efficiente, abbiano difficoltà ad

ingerirle. In questo caso, comunque, una grossolana rottura delle cariossidi è

sufficiente per evitare il problema.

Per ridurre i rischi associati ad elevate ingestioni di amidi, si possono sostituire

parte delle granelle con alimenti ricchi di energia ma che non favoriscono

l'acidosi ruminale, come tutti gli alimenti ricchi di pectine (polpe di bietola,

buccette di soia, pastazzo di agrumi) e come i semi di cotone. In alternativa, si

possono utilizzare mangimi pellettati ricchi di fibra strutturata.

L'utilizzazione di sostanze tampone può essere molto utile per ridurre i rischi

associati all'uso di elevate dosi di concentrati. Ad esempio, si è visto che

l'aggiunta di miscele di bicarbonato di sodio (64%) e di bicarbonato di potassio

(34%) in quantità pari al 3,5% della sostanza secca della razione consentiva di

mantenere il pH a livelli accettabili in agnelloni alimentati con razioni molto

ricche di granella di orzo.

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239

8.4.8. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella capra

Il grasso del latte caprino è più ricco in acidi grassi a catena corta e media, a basso

peso molecolare, che determinano la formazione di globuli di grasso di diametro

medio (da 0,1 a 1 micron) analogo a quello del latte umano e di molto inferiore a

quello nel latte vaccino. Pertanto, la frazione lipidica del latte di capra risulta più

digeribile rispetto a quella del latte vaccino. Anche l’assenza (o quasi) di una

particolare caseina rende il latte di capra molto simile a quello umano, nel quale

questa sostanza è pure assente, e ciò comporta la formazione di un coagulo più

soffice e più rapidamente degradato dagli enzimi gastrici. Tale caratteristica di alta

digeribilità fa del latte di capra un alimento impiegato dai nutrizionisti nei trattamenti

dietetici di soggetti colpiti da intolleranza alimentare verso il latte vaccino.

L’importante lavoro svolto in questi anni sia dalla ricerca sia dall’industria

alimentare ha determinato una giusta rivalutazione dei prodotti dell’allevamento. E le

qualità organolettiche e nutrizionali intrinseche del latte di capra e dei derivati hanno

contribuito al recente successo commerciale di questi prodotti.

I valori relativi alle esigenze di mantenimento della capra sono molto discordanti e

mediandoli tra di loro (Sauvant e Morand-Fehr, 1991) si ottiene un valore medio

giornaliero di EMm di 445 kJ/kg PM, pari a circa 320 kJ/kg PM di ENm,

considerando una efficienza di conversione della EMm in ENm del 72% circa.

Il fabbisogno energetico netto per la produzione del latte corrisponde al contenuto

energetico unitario del latte (EL) per il quantitativo prodotto. Secondo Sauvant e

Morand_Fehr (1991) la variazione energetica per g di grasso per litro di latte è pari a

46,6 KJ e il contenuto energetico medio di un litro di latte al 4% di grasso è di 2971

kJ. Da ciò si calcola:

EL = (KJ/kg) = 2971 + 466 x (grasso % - 4).

In sintesi il fabbisogno energetico netto totale per le capre in lattazione è:

ENlatte (kJ) = 320 x PM +2971 x FCM dove PM è il peso metabolico e FCM i kg di

latte corretto al 4% di grasso. Volendo esprimere in UFL e sapendo che 1 UFL =

7113 kJ di ENlatte, abbiamo: UFL totali = 0,045 x PM + 0,42 x FCM. Se gli

animali vanno al pascolo bisognerebbe aggiungere 0,02 UFL per Km percorso in

pianura e 0,03 UFL per ogni 100 metri di dislivello.

Considerando i fabbisogni in EM, va tenuto presente che il fabbisogno netto di

energia per il mantenimento, in condizioni di stabulazione, può essere pari a 0,272

MJ/kg W0,75

. Questo dato va aumentato di circa il 25% per gli animali al pascolo. Il

valore energetico del latte di capra è dato da:

VEl (MJ/kg) = 0,04G + 1,66, dove G è il contenuto in grasso (g/kg).

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240

Valore energetico e composizione chimica del latte di capra (100 g di parte edibile)

Energia

KCal

KJ

Calorie da proteine (%)

Calorie da carboidrati (%)

Calorie da grassi (%)

76.0

320.0

20,0

23,0

57,0

Vitamine

Tiamina (B1)

Riboflavina (B2)

Niacina (B3)

Vitamina A

(Retinolo eq.)

Vitamina C

Minerali

Calcio

Ferro

Fosforo

Magnesio

Potassio

Rame

Selenio

Zinco

Quantità

0.05 mg

0.11 mg

0.30 mg

86.00 μg

1.00 mg

Quantità

(mg)

141.00

0.10

106.00

13.00

180.00

0.03

1.90

0.31

Composizione chimica

Parte edibile

Acqua (g)

Proteine (g)

Carboidrati (g)

di cui: zuccheri solubili

(g)

amido (g)

Grassi (g)

di cui: saturi (g)

monoinsaturi (g)

polinsaturi (g)

Fibra totale (g)

Colesterolo (mg)

Quantità

100 %

86.30

3.90

4.70

4.70

0.0

4.84

3.32

1.36

0.16

0.0

10.0

Quando questo dato non è disponibile, si può adottare un valore di 3,46 MJ/kg.

Inoltre, in assenza di dati precisi si consiglia di adottare 0,7 e 0,62 rispettivamente

per km e kl. I fabbisogni di energia metabolizzabile per il mantenimento sono di 0,39

e 0,49 MJ/kg W0,75

per animali tenuti rispettivamente in stabulazione o al pascolo;

per la produzione del latte si può presumere un fabbisogno di 3,46/0,62 = 5,6 MJ/kg.

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241

ESIGENZE NUTRITIVE CAPRE IN LATTAZIONE

Composizione

latte di capra (g)

Grasso 45, residuo magro 87, proteina grezza 33, lattosio 41,

calcio 1,3, fosforo 1,1, magnesio 0,20

Durata lattazione

8-12 settimane

Contenuto energetico latte E latte (MJ/Kg) = 0,04 G + 1,66

Contenuto medio = 3,46 MJ/Kg

Valore energetico tessuti

corporei

17 – 30 MJ/Kg (più elevato inizio lattazione)

Valore medio = 26 MJ/Kg

Energia netta: Tessuti

mobilizzati

Guadagno peso

26 x 0,84 = 21,84 MJ

26 x 0,95 = 27,36 MJ

ESIGENZE

Energia: Km = 0,7 Kl = 0,62

- mantenimento:

0,272 MJ/Kg0,75

( + 25% per animali al pascolo)

UFl = 0,045 W0,75

- Produzione:

3,46/0,62 = 5,6 MJ/Kg

UFl = 0,42/Kg latte al 4% di grasso

- E.M. fornita da perdite corporee = 35 MJ/Kg

Proteine:

- Proteine degradabili = 8,34 g /MJ energia ingerita

- Proteine non degradabili =

1,47 x proteine tissutali – 6,67 x EM ingerita

Proteine tissutali =

e) Mantenimento: 2,19 g/ W0,75

f) Produzione latte: 33 x 0,95 g /Kg

g) Guadagno peso: 150 g/Kg

h) Perdita peso: 112 g /Kg

Mantenimento Produzione*

Calcio: PV x 0,02/0,51 Kg x 1,3/0,51

Fosforo: PV x 0,03/0,58 Kg x 1,1/ 0,58

Magnesio: PV x 0,0035/0,17 Kg x 0,26/0,17

* latte al 4% di grasso

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242

Produzione e composizione (g/kg) del latte di varie razze di capre

Razza Grasso Proteine

grezze

Calcio Fosforo Produzione

per lattazione

(Kg)

Anglo-Nubian

British Saanen

British Alpine

British Toggenburg

56

41

43

45

38,5

31,0

32,7

34,1

1,56

1,26

1,37

1,44

1,39

1,04

1,18

1,26

840

1325

1135

1077

Fabbisogni energetici e proteici della capra da latte

Fabbisogni energetici Fabbisogni proteici *

Stato fisiologico UFL/kg

PM

UFL/kg

FCM

UFL/kg

SS

PDI/kg

PM (g)

PDI/g PG latte

(g)

Mantenimento 0,045 2,3

Lattazione 0,42 1,55

Asciutta:

Gravidanza:

3° mese

0,65

4° mese 0,75 3,7

5° mese 0,85 5,0 * Primipare: aggiungere 13 g di PDI per la crescita (360 g PDI/kg incremento ponderale

* Pluripare dopo 4° mese di lattazione: aggiungere 4 g PDI (100 g PDI/kg incremento ponderale

Fabbisogni proteici - Il fabbisogno (g/giorno) di proteine degradabili nel rumine

(PDR) può essere valutato pari a 8,34 MJ di EM ingerita e quello di proteine non

degradabili (PNDR) pari a 1,47 proteine tissutali richieste - (6,67 di EM ingerita).

Calcolo dei fabbisogni di una capra di 50 kg che produce 5 kg di latte

con 40 g di grasso/kg e perde 50 g di peso corporeo al giorno

Mm (MJ/giorno) = 0,30 x 500.75

Ml (MJ/giorno) = 5 x 5,6

Mg (MJ/giorno) = 0,05 x 35

Mm + Mp (MJ/giorno)

Correzione LA (1 + 0,018 Mp/Mm)

Mmp (MJ/giorno) = 33,5 x 1,064

RDP (g/giorno) = 8,34 x 35,7

TP (g/giorno) =

UDP (g/giorno) = 1,47 x 192 - 6,67 x 35,7

Ca (g/giorno) = (50 x 0,02 + 5 x 1,3)/0,51

P (g/giorno) = (50 x 0,03 + 5 x 1,1)/ 0,58

Mg (g/giorno) = (50 x 0,0035 + 5 x 0,20)/0,17

7,3

28,0

- 1,8

33,5

1,064

35,7

298

192

44,1

14,7

12,1

6,9

Mg = EM per la variazione di peso; LA = livello alimentare;

UDP= proteine non degradabili nel rumine

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243

Il fabbisogno proteico dei tessuti comprende quello necessario per il mantenimento

(2,19 g/kg W0,75

), quello per la produzione di latte (33 x 0,95 g/kg) e quello relativo

al guadagno di peso (150 g/kg) o alla mobilizzazione dei tessuti (112 g/kg).

Fabbisogni minerali - le perdite endogene (per il mantenimento) sono di 20 mg di

Ca, 30 mg di P e 3,5 mg di Mg per kg di peso corporeo. Il fabbisogno netto per la

produzione del latte è di 1,3 g di Ca, 1,1 g di P e 0,26 g di Mg per kg di latte.

Fabbisogni minerali giornalieri della capra da latte

Ca P Mg K Na

Mantenimento

(mg/kg PV)

67

46

18

56

19

Lattazione (g/kg latte) 4,2 1,5 0,7 2,3 0,5

4 e 5° mese di gestazione 4,2 1,1 0,2 0,3 0,2

In sintesi nell’alimentazione delle capre bisogna considerare che quelle allevate per la

produzione di latte presentano fabbisogni alimentari ben precisi in funzione delle

diverse fasi della vita e del ciclo riproduttivo. Maggiore è il livello produttivo,

maggiori sono anche i fabbisogni energetici e nutrizionali e, di conseguenza, più alti

saranno anche i costi di allevamento.

Per questo motivo è necessario conoscere in modo approfondito le esigenze

nutrizionali degli animali allevati, allo scopo di formulare diete che possano

soddisfare tali esigenze e che possano aiutare a prevenire determinate patologie, quali

malattie metaboliche o carenze.

Durante il periodo di asciutta e gravidanza l’alimentazione deve essere tale da

mantenere la capra in una condizione corporea ottimale, evitando un eccessivo

ingrassamento che può creare problemi al parto.

Bisogna considerare che:

fino al terzo mese di gestazione, il fabbisogno alimentare è come quello del

mantenimento;

a partire dal quarto mese di gestazione, i fabbisogni aumentano in modo esponenziale

fino al parto;

al termine della gestazione il livello di ingestione tende a diminuire, soprattutto, per

la riduzione del volume ruminale, dovuta alla crescita del/i feto/i.

A partire dal quarto mese di gestazione, è necessario raggiungere 0,75 UFL/Kg S.S.,

fino ad arrivare a 0,85 UFL/Kg S.S. al quinto mese.

Per raggiungere questi valori, è bene:

non eccedere con il concentrato, ma utilizzare foraggi di elevata qualità e appetibilità,

in modo da massimizzare l’ingestione;

mantenere il volume del rumine elevato, per evitare un calo di ingestione a inizio

lattazione;

non far ingrassare le capre durante la gestazione, per prevenire la tossiemia gravidica.

Durante la lattazione, il periodo più critico è quello dal parto al picco di lattazione,

poiché il livello di ingestione si riduce portando ad un bilancio energetico negativo.

Questo è compensato con la mobilizzazione del grasso di riserva, che se troppo

intensa porta a chetosi. È bene quindi evitare, in gravidanza, da un lato un eccessivo

utilizzo di concentrati, che riducono la mobilità e il volume ruminale, causando

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diminuzione di ingestione, e dall’altro indurre nella capra gravida uno stato di

iponutrizione, che causa eccessiva lipomobilizzazione.

Nel caso di capre ad alta produzione, è necessario somministrare, dopo 3-4 settimane

dal parto, una razione con un livello energetico di 1-1,05 UFL/Kg SS. È consigliabile

raggiungere questo valore gradualmente, per non provocare dismetabolie e ancora

non eccedere con i concentrati.

Dal 2°-3° mese di lattazione, la capacità di ingestione aumenta e la produzione di

latte diminuisce. In questo periodo cessa la lipomobilizzazione e comincia il deposito

di grasso; è necessario quindi ridurre il contenuto energetico della razione per evitare

ingrassamento delle capre, diminuendo la quantità di concentrati nella dieta.

Strategie alimentari nella capra da latte

Le sole conoscenze dei fabbisogni energetici non sono sufficienti per una corretta

alimentazione degli animali. La capra, più degli altri ruminanti, è capace di

accumulare riserve energetiche sotto forma di tessuto adiposo, riserve che sono

suscettibili di essere mobilizzate durante il ciclo produttivo per tamponare eventuali

squilibri tra apporti e fabbisogni.

A fine gestazione la capacità d'ingestione della capra, in rapporto al peso vivo,

diminuisce proprio quando il feto richiede quantità crescenti di energia. In effetti,

all'avvicinarsi del parto la capra tende a mobilizzare quantità crescenti delle sue

riserve adipose e a ridurre l'attività anabolica energetica. Nella prima settimana di

lattazione, quando sono richiesti i massimi fabbisogni energetici, la capacità

d'ingestione della capra si accresce lentamente per raggiungere il massimo alla 4-5a

settimana di lattazione. In questa fase il deficit energetico spesso è uguale ai fabbi-

sogni di mantenimento.

La capra compensa lo squilibrio venutosi a creare mobilizzando intensamente le

riserve adipose cui corrisponde un tasso elevato di acidi grassi non esterificati

(NEFA) nel plasma e una diminuzione del peso vivo e del grasso nel latte. Intorno al

2° mese di lattazione, il bilancio energetico tende a divenire positivo, il tenore in

NEFA diminuisce e il grasso del latte aumenta. In questa fase, la lipogenesi aumenta

progressivamente e gli animali incominciano ad aumentare di peso, ricostituendo le

riserve corporee che raggiungono il massimo durante i primi tre mesi di gestazione.

Queste conoscenze sono indispensabili per programmare l'alimentazione della capra

nel corso del suo ciclo produttivo e riproduttivo.

Poiché il sistema foraggero aziendale è difficilmente modificabile nel corso dell'anno,

l'unico intervento possibile è sul livello energetico e azotato della razione e quindi sul

rapporto energia-azoto.

Si è detto precedentemente che, a fine gestazione la capacità d'ingestione della capra

in rapporto al peso vivo raggiunge i valori minimi; in questa fase è indispensabile

intervenire con una razione alimentare rapportata ai fabbisogni e formata dai migliori

foraggi aziendali (elevata digeribilità e ingestibilità) e da concentrati. Questi ultimi,

al quarto mese di gestazione, vanno distribuiti nella misura di 200-300 g/capo/d in

modo da avere una concentrazione energetica della razione di 0,75 UFL/Kg di S.S.

poi vanno progressivamente aumentati a 400-600 g/capo/d (concentrazione

energetica della razione 0,85 UFL/Kg di S.S.).

Nel corso dei primi due mesi di lattazione, i concentrati vanno aumentati a 600-800

g/capo/d (concentrazione energetica della razione 0,90-0,95 UL/Kg di SS), poi da

metà lattazione è sufficiente distribuire 300-500 g/capo/d (concentrazione energetica

della razione 0,80 UFL/Kg di SS) e a fine lattazione 200-300 g/capo/d

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(concentrazione energetica della razione 0,75 UFL/Kg di SS) (40).

Durante il periodo di asciutta, l'utilizzazione di buoni foraggi può limitare il ricorso

ai concentrati purché la razione alimentare abbia una concentrazione energetica di

circa 0,65 UFL/Kg di S.S., diversamente una distribuzione di 100-200 g di

concentrato si rende indispensabile. Questa strategia alimentare non solo è la più

efficace per la ricostituzione delle riserve energetiche dell'animale ma ha anche un

effetto positivo sulla persistenza della lattazione.

Nel corso degli ultimi mesi di gestazione e dei primi di lattazione è indispensabile

evitare l'errore di aumentare bruscamente i concentrati o di somministrarli in eccesso

perché un simile comportamento non solo limita l'ingestione di foraggio, ma provoca

facilmente tossiemia di gestazione e turbe di carattere digestivo con conseguente

aumento della mortalità pre e post-natale e diminuzione della produzione di latte.

In effetti, conviene aumentare o diminuire i concentrati lentamente in modo che

l'animale abbia il tempo di adattarsi al diverso regime alimentare.

La strategia alimentare delle capre al pascolo si presenta complessa sia a livello di

razionamento sia a quello di sistema foraggero.

Le esperienze acquisite in questi ultimi anni dimostrano come le capre con il solo

pascolamento riescano a prelevare l'energia sufficiente per il mantenimento e solo

parzialmente quella necessaria alla produzione (le differenze fra le diverse

popolazioni sono abbastanza contenute). All'aumentare della capacità produttiva

dell'animale aumenta anche il deficit energetico; gli animali a bassa produzione

ingeriscono mediamente il 40% in meno dei fabbisogni energetici di mantenimento e

produzione, mentre, quelli ad alta produzione circa il 60% in meno. Gli apporti

azotati risultano invece largamente superiori ai fabbisogni negli animali in

mantenimento e deficitarii di circa il 20% per quelli in produzione .

Per quest'ultimi, il bilancio energetico e proteico varia sensibilmente nel corso della

lattazione. Il deficit energetico risulta massimo all'inizio della lattazione, con circa

1000 kcal EN (0,59 UFL), scende e rimane costante per tutta la fase intermedia della

lattazione a circa 700 kcal EN (0,41 UFL) ed, infine, raggiunge il minimo all'asciutta

dove la differenza tra ingestione e fabbisogni è trascurabile.

Il bilancio proteico, invece, è leggermente negativo nella prima metà della lattazione

mentre nella seconda diviene positivo. Per colmare il deficit energetico e proteico

degli animali in produzione, la razione alimentare da distribuire come integrazione

dovrà essere altamente energetica e a basso tenore proteico.

A puro titolo indicativo possiamo dire che, per gli animali al pascolo con produzione

di circa 400 Kg di latte, può essere sufficiente distribuire 500-600 g/capo/d di

concentrato a valore energetico di 1,0-1,2 UFL e contenuto in proteina grezza del 10-

14%. Durante il periodo di asciutta è sufficiente intervenire con circa 150-200 g di

concentrato per garantire la copertura dei fabbisogni di mantenimento.

Nel corso dell'ultimo decennio, in molti paesi, le tecniche di alimentazione della

capra hanno seguito l'evoluzione osservata nel passato per i bovini e gli ovini.

L'insilato e i foraggi verdi tendono a sostituire sempre più il fieno e il pascolamento.

Tuttavia, ancora oggi, in molti sistemi d'allevamento il fieno e il pascolamento

rappresentano l'alimentazione di base e nell'immediato risultano difficili da sostituire.

La capra manifesta l'attitudine di scegliere le parti più nutritive del foraggio

distribuito. Tale comportamento è più evidente per il fieno di leguminose - del quale

le capre prediligono le foglie (+ 40% circa nell'ingerito rispetto al distribuito) e lo è

meno per quello di graminacee. Al peggiorare della qualità del fieno aumenta l'azione

selettiva della capra e, quindi, il tasso di rifiuto. Per questa ragione spesso il valore

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nutritivo del fieno ingerito può essere nettamente diverso da quello distribuito.

Nel razionamento delle capre non bisogna trascurare questo aspetto comportamentale

che si riflette sul livello d'ingestione: una somministrazione di fieno di buona qualità

superiore ai bisogni non modifica di molto il livello di ingestione delle capre, mentre

se il fieno è scadente il livello di ingestione aumenta all'aumentare della quantità

distribuita.

Disponendo, quindi, di fieno di buona qualità conviene razionare la distribuzione,

mentre se il fieno è scadente, una distribuzione ad libitum è la più indicata.

L'alimentazione della capra basata sul solo fieno è teoricamente possibile per gli

animali a bassa produzione.

Alimentando le capre con solo fieno di medica o con quello di graminacee di buona

ingestibilità è possibile coprire i bisogni per la produzione di 1-1,2 kg di latte.

Tuttavia è consigliabile far ricorso anche ai concentrati per evitare carenze o squilibri

a livello nutrizionale. La quantità di concentrato della razione in nessun caso deve

superare la quantità di fieno, di fatto a parità di apporto energetico, gli animali

alimentati con razioni alimentari il cui apporto fieno-concentrato è favorevole al

fieno, forniscono una produzione quanti-qualitativa superiore a quella fornita dagli

animali alimentati con razioni il cui rapporto è favorevole ai concentrati.

Utilizzazione dei foraggi verdi

La problematica relativa all'alimentazione in stalla con foraggi verdi non differisce di

molto da quella affrontata precedentemente per il fieno. Anche per i foraggi verdi la

capra manifesta tassi di rifiuto estremamente variabili in rapporto alla specie e varietà

vegetale, nonché allo stadio vegetativo e alle modalità di distribuzione.

In generale, si osserva come le leguminose distribuite a pianta intera siano meglio

utilizzate rispetto alle graminacee, mentre distribuite come trinciato tali differenze

tendono a ridursi. Lo stadio vegetativo della pianta e il suo contenuto in sostanza

secca influenzano, in maniera non trascurabile, il livello di utilizzazione dei foraggi

verdi. Le capre utilizzano meglio i foraggi verdi quando il contenuto in SS supera il

16-20% e questo si verifica generalmente nella fase intermedia di accrescimento

della pianta. L'alimentazione con soli foraggi verdi di buona ingestibilità consente di

coprire i bisogni per la produzione di 2-3 kg di latte ma, come per il fieno, anche in

questo caso è consigliabile far ricorso ai concentrati per assicurare un'alimentazione

più equilibrata.

L'intensificazione della produzione foraggera e i progressi realizzati sia nella

raccolta, e sia nelle tecniche di insilamento hanno stimolato gli allevatori di capre ad

utilizzare prima sporadicamente e poi con sempre maggiore frequenza gli insilati.

Dalle esperienze condotte in questi anni sugli animali in lattazione, si è osservato che

il consumo degli insilati (Mais, Lolium, Dactylis, Medica) è normalmente inferiore

(23 g di S.S./Kg di P.V.) a quello del fieno (32 g di S.S./kg di P.V.) e dei foraggi

verdi (38 g di S.S./kg di P.V.), mentre, il tasso di rifiuto dovuto alla selezione

effettuata dagli animali risulta più basso. Praticamente, è possibile aumentare il

consumo degli insilati aggiungendo alla razione una piccola quantità di fieno (400 -

600 g). L'utilizzazione dell'insilato di mais in maniera non controllata ha fatto regi-

strare in diversi allevamenti problemi di carattere sanitario (riguardanti l'apparato

digerente e il sistema nervoso) che si manifestano particolarmente a fine gestazione e

nei primi due mesi di lattazione. L'utilizzazione dell'insilato come elemento unico

della razione, anche se permette di ottenere risultati produttivi abbastanza soddisfa-

centi, non è praticamente consigliabile per i rischi che una tale utilizzazione com-

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porta, tuttavia esso può essere utilizzato efficacemente purché, nella razione, il rap-

porto fieno-insilato si collochi tra 1: 1 e 1: 3.

L'unifeed non è altro che una miscela di alimenti trinciati le cui caratteristiche

nutritive e di accettabilità da parte degli animali dipendono dalla natura e dalla con-

tribuzione specifica di ciascun alimento utilizzato. Nella preparazione dell'unifeed è

importante che il rapporto fra i diversi alimenti sia ben bilanciato in modo che la

miscela, da considerare come unico alimento, sia ben equilibrata a livello nutrizio-

nale. Di conseguenza è importante scegliere gli alimenti non tanto sulla base delle

loro caratteristiche nutrizionali individuali quanto su quelle della loro complementa-

rietà che, opportunamente utilizzata, permette di ottenere una miscela più appetibile e

meglio equilibrata.

Calcolo di una razione unifeed (capre di 40 kg di P.V. e produzione di 2 kg di latte).

Bisogni energetici = 1,42 UFL giorno

Alimenti utilizzati Composizione in % della SS Composizione in % sul totale

Fieno di medica 38 19

Insilato di loiessa 33 68

Concentrato 29 13

Quantità di S.S. da distribuire: 1,42/ 0,85 = 1,67 kg/capo/giorno.

L'unifeed contiene il 41 % di ss, per kg di miscela e quindi è da distribuire:

1,67/0,41= 4, 070 kg di unifeed/capo/giorno,

'

La variazione negativa o positiva nella produzione di un kg di latte comporta il

seguente aggiustamento:

0,4 UFL/0,85 X 0,41 = 1,14 kg di Unifeed

Le capre alimentate con l'unifeed non hanno eccessiva possibilità di scegliere le parti

da ingerire per cui tutti gli alimenti presenti nella miscela sono utilizzati nello stesso

rapporto stabilito al momento della preparazione. La riduzione del fenomeno

selettivo si ripercuote positivamente sul tasso di rifiuto che per l'unifeed difficilmente

supera il 5% contro il 15-40% che normalmente si ha per tutti gli altri foraggi .

Un’appropriata miscela di alimenti per le capre dovrebbe avere un tasso di umidità

compreso tra il 55 e il 70%, una concentrazione energetica elevata ad inizio

lattazione (0,85-0,88 UFL/kg s.s.) e più bassa nel periodo di asciutta (0,70 UFL/kg

s.s.), un apporto in fibra di 0,6-1 kg ed, inoltre, dovrebbe soddisfare l'insieme dei fab-

bisogni azotati, minerali e vitaminici.

L'utilizzazione dell'unifeed presenta indubbi vantaggi:

- minore spreco di alimenti;

- possibilità di utilizzare nella miscela anche alimenti non molto appetibili o

sottoprodotti;

- guadagno di tempo della distribuzione;

- minore variabilità nella quantità e qualità degli alimenti ingeriti;

- migliore armonizzazione del gusto degli alimenti.

D'altra parte però è necessario avere una attrezzatura adeguata che richiede un costo

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248

d'investimento variabile in rapporto al tipo di macchina. Per piccoli allevamenti è

sufficiente avere una trincia foraggi e un miscelatore di alimenti, mentre negli

allevamenti di una certa consistenza la soluzione ideale è rappresentata dal carro

unifeed.

Razione per capre (40 kg di PV e con produzioni di 2 kg di latte al 4% di grasso)

Quantità

distribuita,

g

S.S.

ingerita,

g

Note

a) Fieno di Medica 1400 1050 15% rifiuto, 5% umidità

Insilato di mais 2200 530 20% rifiuto, 70% umidità

Polpe di barbabietola disidratate

330 290

11 % umidità, consumo

totale

b) Erba consumata al pascolo 4500 1120 75% umidità

Concentrato 500 440 13% umidità, consumo

totale

c) Fieno di pascolo 2000 1200 30% rifiuto, 15% umidità

Polpe disidratate di barbabietola 335 300 11 % umidità, consumo

totale

Concentrato 390 340 13% umidità, consumo

totale

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249

8.4.9 Esigenze nutritive per la produzione del latte negli equini

Gli studi condotti sugli aspetti quantitativi e qualitativi della produzione di latte degli

equidi si sono rivelati di grande utilità non solo per la stima dei fabbisogni nutritivi

della fattrice e del redo, peraltro di notevole impatto pratico nell’alimentazione di

soccorso per equidi domestici e selvatici, ma anche di grande interesse per l’impiego

dello stesso nell’alimentazione umana, con particolare riferimento alla fase neonatale

di pazienti affetti da allergie multiple, oltre che nell’industria parafarmaceutica e/o

cosmetica. Occorre, peraltro, segnalare a questo riguardo, che nonostante le proprietà

nutrizionali e terapeutiche del latte di asina siano note fin dall’antichità, assai limitati

sono i riferimenti scientifici disponibili.

Alcuni studi hanno chiaramente evidenziato che il latte di asina, le cui caratteristiche

composizionali e organolettiche sono più vicine a quello di donna, può costituire

alimento d’elezione sia per i bambini con difficoltà alimentari nei primi mesi di vita,

spesso refrattari ad altri trattamenti, consente fra l’altro al neonato la formazione di

un normale e completo sistema immunitario sia per soggetti in età geriatrica

intervenendo nei processi di osteogenesi, nella terapia dell’arteriosclerosi, nel

recupero degli infartuati cardiaci, nei casi di senescenza precoce, nelle diete

ipocolesterolemiche.

Le razze maggiormente allevate e, comunque meglio indicate, per la produzione di

latte, sono quelle più pesanti, come la razza Martina Franca e la Ragusana, più idonee

semplicemente per una questione di rendimento in quanto la quantità di latte prodotta

è in relazione alla mole dell’animale, tutto sommato in questa tipologia di

allevamenti non mancano soggetti meticci o frutto di incroci, sicuramente meno

costosi, più gestibili e ideali per iniziare questo tipo di attività.

La mammella dell’asina si differenzia da quella della bovina o della pecora per

l’assenza della “cisterna”, una cavità intermammaria con funzione di raccolta del

secreto liberato dal tessuto ghiandolare. Nella mammella dell’asina, quindi, non

essendoci possibilità di raccolta, le quantità di latte ottenute ad ogni mungitura sono

molto inferiori rispetto a quelle fornite dai ruminanti. Le quantità medie di latte

ottenute ad ogni mungitura possono variare dai 300 ai 750 ml con picchi di 1200,

1500 ml in relazione alla mole e al periodo di mungitura dell’asina. Il modo migliore

per ottenere una maggior quantità giornaliera di latte da un asina è imitare la modalità

di allattamento del puledro: piccoli ma numerosi atti di suzione, ciò suggerisce di

mungere le asine almeno tre volte al giorno, fornendo così un continuo stimolo

produttivo per il tessuto ghiandolare. Alla mungitura, talvolta, la presenza del redo è

fondamentale per il rilascio del latte in seguito all’attivazione di un riflesso, per

ovviare a tale situazione si sta diffondendo la pratica di separare definitivamente il

puledro dalla madre immediatamente dopo l’assunzione del colostro già al primo

parto. I puledri verranno alimentati al biberon con un latte a formula artificiale o con

lo stesso latte asinina.

La cavalla è una forte produttrice di latte tanto che la produzione media nel

picco di lattazione (2°e 3° mese), è stimata al 3,5% del peso vivo dell’animale.

Ciò significa che a seconda della razza e del tipo genetico la produzione varia da 15 a

30 l di latte/giorno.

Anche se il latte di cavalla ha un valore energetico più basso di quello bovino,

essendo sì più ricco di zuccheri ma più basso di grassi, i fabbisogni nutritivi al picco

di lattazione sono circa il doppio rispetto a una fattrice in asciutta e gravida all’8°

mese.

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Le carenze nutrizionali nel primo periodo di lattazione, oltre a comportare una

minore fertilità, sicuramente penalizzano lo sviluppo e la salute del puledro, dato che

la fattrice ancor prima di esaurire le riserve corporee ridurrà la produzione di latte.

La percentuale di proteina grezza sulla SS della razione complessiva (foraggio +

concentrati) dovrà essere del 13 -15%, con un livello energetico espresso in U.F.C.

(Unità Foraggere Cavallo) di circa l’80 - 85%.

Il concentrato (mangime commerciale o miscela aziendale) dovrà essere diverso a

seconda del foraggio utilizzato e somministrato in più pasti giornalieri per migliorare

l’utilizzazione ed evitare il rischio di coliche o altre patologie.

Va curata la formulazione non solo dei mangimi ma di tutta la razione, prestando

particolare attenzione alla quantità e alla qualità delle proteine e al corretto livello

energetico.

Un buon concentrato adatto per le fattrici nel picco della lattazione può essere

utilizzato come base e con qualche accorgimento anche per i puledri sotto madre, che

a partire dal 3°-4° mese di vita si giovano di una buona integrazione alimentare.

Molti preparati commerciali per cavalli adulti non sono idonei a coprire i fabbisogni

minimi di proteine e di alcuni aminoacidi essenziali e limitanti (in particolare la

lisina), necessari per la produzione di latte e il corretto accrescimento dei puledri.

Alimenti buoni apportatori di proteine e di lisina e facilmente disponibili sono ad

esempio: la soia, la buona medica, il latte in polvere e i lieviti secchi. Il fieno di prato

e i cereali, in genere, hanno valore proteico e aminoacidico inferiore, anche se i

cereali sono ricchi di amido e quindi energetici.

La quantità di energia che passa nel latte è data dalla quantità di latte prodotto e dal

contenuto energetico del latte stesso. La produzione di latte, negli equini, è molto

variabile ed è poco conosciuta. Il contenuto energetico di un Kg di latte decresce con

l’avanzare della lattazione: 575 Kcal nei primi 15 giorni, 550 nella 2^ quindicina

post-parto, 525 nel 2° mese, 500 nel resto della lattazione. Durante i primi tre mesi,

la secrezione giornaliera di calorie è pari a 5.000 – 7.000 per le giumente da sella e

9.000-12.000 Kcal per le giumente di razza pesante e ciò in funzione di una

produzione di latte che è, rispettivamente di 10-13 e 16-25 Kg. Il fabbisogno

energetico di gravidanza o di lattazione è stato calcolato dividendo la quantità di

energia fissata o escreta per il corrispondente rendimento dell’EM per questi

fabbisogni.

I rendimenti nella giumenta non sono stati ancora studiati per cui si considerano i

valori intermedi tra quelli dei ruminanti e quelli della scrofa: 25% per la gravidanza e

65% per la lattazione. Quindi tra l’8° e l’11° mese di gravidanza le UFC passano da

0,5 a 1,1 nelle giumente da sella (500 Kg) e da 0,65 a 1,4 nelle giumente di 700 Kg.

Il fabbisogno in UFC per la produzione di un Kg di latte è di 0,31 nel primo mese di

lattazione e di 0,29 nel periodo successivo.

Va curata l’integrazione vitaminico-minerale facendo attenzione sia alle carenze che

agli eccessi, ma soprattutto al giusto rapporto fra i nutrienti.

Mediamente, un kg di buon concentrato copre la produzione di 3 l di latte, ma nel

calcolo della razione va considerato anche l’apporto dovuto alla quantità e alla

qualità dei foraggi di base.

In sostanza, tanto per fare un esempio, se per una fattrice di tipo mesomorfo, di circa

sei quintali di peso, al 2° - 3° mese di lattazione abbiamo a disposizione del fieno di

prato di 1° taglio di media qualità, dovremo utilizzare una razione comprendente

circa 8 - 10 kg di fieno e 5 - 7 kg di mangime con il 16 - 18 % di proteina grezza.

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Se, invece, del fieno di prato avessimo a disposizione del foraggio di medica, la

percentuale di proteina del concentrato dovrà essere più bassa, e in alcuni casi con

fieni di medica molto fogliosi e teneri sarà opportuno utilizzare solo miscele di

cereali opportunamente integrate.

Le necessità alimentari del cavallo sono, in generale, variabili e individuali e il

rendimento della razione può dipendere da tanti fattori, quali il carattere, il tipo

genetico, il peso vivo, il tipo di produzione che si vuole ottenere, ma spesso e molto

più semplicemente anche da un corretto programma di interventi dentari e dalla

frequenza delle sverminazioni.

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8.4.10. Esigenze nutritive per la produzione del latte nei suini

Bisogna considerare che la scrofa allatta numerosi suinetti. I fabbisogni di

lattazione sono stimati in: 0,65 U.F. e 85 g di protidi digeribili per kg di latte. In

termini di energia digeribile (ED) i fabbisogni della scrofa sono:

Gravidanza Lattazione (10 suinetti)

Primipare Pluripare Primipare Pluripare

5.700 6.500 14.200 16.000

6.600 7.800 16.500 20.000

bisogna ricordare che:

- Energia metabolizzabile (EM) = 0,96 ED

- 1 Unità foraggiera (UF) = 3100 Kcal di ED

- 1 kg di TDN = 4000 Kcal di EM

Un apporto giornaliero di 7500 Kcal di ED sembra corrispondere bene ai fabbisogni

delle scrofe in gravidanza. Sembra inutile far variare gli apporti di energia in

funzione dello stadio di gestazione in quanto ciò non sembra riflettersi positivamente

sulle performances riproduttive della scrofa. L’alimentazione ad libitum può essere

consigliata per femmine che allattano almeno 10 suinetti e nel caso di lattazioni di

durata inferiore a 35 giorni. Per scrofe meno prolifiche o svezzamenti più tardivi è

consigliabile ridurre l’apporto energetico di 1000 Kcal/giorno di ED per ogni suinetto

allattato in meno rispetto ai 10. Formulando miscele con un contenuto energetico di

3100 Kcal/giorno (= 1 UF) di ED è facile calcolare la quantità di concentrato da

somministrare. Durante l’allattamento, il livello alimentare deve essere alto, per

assicurare un’alta resa in latte; gli standard danesi consigliano di giungere a 5,5

kg/giorno di concentrato 15 giorni dopo il parto per figliate di 10 suinetti, da

correggere di 0,25 kg per ogni suinetto in più o in meno.

Fabbisogni minerali e vitaminici nei suini per kg di dieta

Scrofe gravide

(110-160 kg)

Scrofe

allattanti

(140-200 kg)

Verri

(110-180 kg)

Calcio % 0,75 0,6 0,75

Fosforo % 0,5 0,4 0,5

NaCl % 0,5 0,5 0,5

-carotene mg 8,1 6,6 8,1

Vitamina A UI 4100 3300 4100

Vitamina D UI 275 220 275

Tiamina (B1) mg 13,2 11 13,2

Riboflavina (B2) mg 4,2 3,3 4,2

Niacina (PP) mg 22 17,6 22

Acido pantotenico mg 16,5 13,2 16,5

Vitamina B12 13,2 11 13,2

Per quanto riguarda l’apporto proteico, bisogna considerare che:

- l’eliminazione giornaliera di proteine con il latte è di circa 360 g per 8-10 suinetti e

va da 300 g nella prima settimana a 400 g e più alla 4^ settimana. Considerando il

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coefficiente di ritenzione dell’azoto pari al 50%, il fabbisogno proteico non supera gli

850 g/d. Per lattazioni inferiori a 20 giorni e quando il numero dei suinetti è al di

sotto di 8 i fabbisogni proteici sono inferiori a 700 g.

- durante la gravidanza l’effetto dell’apporto proteico sul livello di riserve azotate

corporee indica un fabbisogno di 250-280 g di proteine al giorno, cioè 40 g di

proteine ogni 1000 Kcal di ED.

Fabbisogni della scrofa in aminoacidi durante l’allattamento e la gravidanza (%

sulla razione)

Aminoacidi Gravidanza Allattamento

lisina * 0,42 0,69

metionina + cistina * 0,28 0,36

treonina * 0,34 0,51

triptofano 0,07 0,13

* vanno leggermente aumentati durante la gravidanza nel caso delle primipare

in quanto devono completare la crescita

Fabbisogni minimi dei suini in oligoelementi in mg/kg di dieta

Rame Ferro Zinco Iodio Manganese Selenio

6 80 50 0,2 12 0,1

8.5. Fabbisogni per la riproduzione e lo stato di gravidanza

L'apporto energetico, proteico, minerale e vitaminico, attraverso

l'alimentazione, riveste una notevole importanza sia per accelerare nell'animale il

raggiungimento della pubertà sia per il verificarsi dei normali fenomeni di

spermatogenesi e di ovogenesi, che per favorire lo sviluppo nell'utero materno,

dell'uovo fecondato e il normale procedere della gravidanza.

Età e taglia alla pubertà di bovini Holstein allevati con differenti piani alimentari

Alla pubertà

Sesso Piano alimentare (in %

degli standard adottati per il

TDN)

Età

(settimane)

Peso (kg) Altezza al

garrese (cm)

Alto (129) 37 270 108

Femmine Medio (93) 49 271 113

Basso (61) 72 241 113

Alto (150 37 292 116

Maschi Medio (100) 43 262 116

Basso (66) 51 236 114

Per quanto riguarda l'alimentazione dei giovani animali in vista della pubertà, anche

se deve essere particolarmente adeguata ai loro fabbisogni, occorre non eccedere

soprattutto sotto il profilo energetico, al fine di scongiurare uno stato di eccessivo

ingrassamento che può pregiudicare la libido nei maschi e l'ovulazione nella

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femmina. La spermatogenesi e l'ovogenesi sono fenomeni che sono avvantaggiati da

una buona alimentazione, soprattutto, nei giorni che precedono la monta e/o i cicli

estrali, sia negli ovini che nei suini. L'effetto positivo dell'integrazione alimentare a

breve termine (flushing) sul tasso di ovulazione è ben conosciuto ed il flushing, in

alcuni Paesi, costituisce una comune pratica di allevamento. Nella pecora, il tasso di

deiscenza follicolare è strettamente legato al peso vivo e sino al raggiungimento del

peso soglia caratteristico della razza, più questo è elevato maggiore è il tasso di

ovulazione; una volta superato il peso soglia le pecore potrebbero anche non ovulare.

Il meccanismo mediante il quale il flushing aumenta il tasso di ovulazione non è

chiaro. Tale aumento è stato osservato già dopo soli 4-6 giorni di superalimentazione,

e considerando che 4-6 giorni non sono sufficienti a far registrare aumenti di peso in

risposta al livello nutritivo si è ipotizzato che le pecore rispondano sia alla dieta che

ai prodotti catabolici delle loro riserve corporee. Secondo alcuni autori, l'aumento del

tasso di ovulazione non è causato dall'energia contenuta nell'alimento ma dalle

proteine, secondo altri il fenomeno è da ascrivere sia alle proteine che all'energia. Un

maggior tasso di ovulazione in risposta all'aumento di proteine nella dieta è stato

registrato solo in presenza di un livello energetico basso (4 MJ di energia

metabolizzabile/pecora/giorno); Davis e coll. (1981), invece, osservano il fenomeno

non a bassi livelli energetici (6,25 MJ ME/pecora/giorno) ma a quelli moderati (11,1

MJ). L’uso dei lupini come integratori alimentari deve la sua efficacia sul tasso di

ovulazione al contenuto in proteine che presentano una bassa degradabilità ruminale;

a conferma di ciò, un aumento di azoto nella dieta sotto forma di urea non condiziona

alcun incremento nel tasso di ovulazione. Quando l'influenza sul tasso di ovulazione

è stata attribuita all'effetto esercitato dalle proteine della dieta, è stato osservato che

la risposta fisiologica all'integrazione alimentare si instaura entro sei giorni o al

massimo entro un ciclo estrale; laddove l'effetto è stato attribuito soprattutto

all'energia, la durata del trattamento è stata di 30 giorni o più. Ad ogni modo, il

periodo del ciclo estrale più suscettibile all'alimentazione sembra essere compreso tra

il 10 e il 14° giorno. E' bene, inoltre, ricordare come alcune ricerche indichino che

pecore più leggere o iponutrite rispondano meglio all'effetto flushing e che mentre

esiste una marcata influenza del periodo stagionale sul tasso di ovulazione durante

l'attività ovarica, poco si sa circa l'effetto flushing praticato nei diversi momenti della

stagione sessuale.

Nel maschio, la produzione giornaliera di spermatozoi fluttua ampiamente in

armonia con il peso dell'animale. Nell’ariete allevato nelle zone temperate, il periodo

di maggiore attività testicolare non è l'autunno, come ci si potrebbe aspettare visto

che gli ovini esprimono la loro attività sessuale soprattutto con fotoperiodo

decrescente, ma la primavera e l'inizio dell'estate quando la disponibilità di pascolo e

il peso vivo sono al massimo. Ciò indica che l'ariete ignora il segnale fotoperiodico e

risponde, invece, largamente al regime nutrizionale generato dal clima. Considerando

che è più facile influenzare la nutrizione rispetto al peso corporeo, risulta quindi

possibile controllare la capacità spermatogenetica degli arieti attraverso le

caratteristiche quanti-qualitative dell'alimento fornito. Oldham e collaboratori (1978)

osservarono elevati aumenti del volume testicolare con diete ricche di proteine ed

energia. Negli arieti, i testicoli si accrescono di circa 25 g/settimana e per ogni quota

extra di parenchima testicolare la produzione nemaspermatica giornaliera aumenta di

circa 500.000 unità. In risposta all'alimentazione, l'aumento della massa testicolare è

dovuto soprattutto all'aumento del tessuto dei tubuli seminiferi e in particolare modo

dell'epitelio seminifero contenente le cellule germinali e quelle del Sertoli. Inoltre, la

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massa muscolare può essere considerevolmente aumentata da un supplemento di

alimentazione ed essere ridotta da un'alimentazione ristretta. Bisogna considerare

che, durante la stagione di monta, i maschi dedicano meno tempo ad alimentarsi e

quindi il loro peso corporeo e le dimensioni testicolari, se non si interviene

adeguatamente, diminuiscono rapidamente. Il meccanismo mediante il quale il livello

alimentare influenza la spermatogenesi è stato recentemente chiarito e sono state

differenziate risposte a livello cerebrale, pituitario e gonadale. A seguito

dell'integrazione alimentare, si avrebbe un aumento della frequenza dei picchi di LH

entro 2 giorni, della concentrazione di FSH entro 5-10 giorni e delle dimensioni

testicolari entro 3-4 settimane. Gli stimoli nutrizionali sono mediati, almeno in parte,

dal sistema ipotalamico attraverso la secrezione pulsatile di Gn-RH e non agiscono

direttamente ma indirettamente attraverso un meccanismo di feedback negativo che è

sotto il controllo del testosterone e dell'inibina.

L'alimentazione oltre che adeguata da un punto di vista quantitativo, deve essere

curata da quello qualitativo in quanto alcune sostanze contenute negli alimenti

possono alterare la fisiologia riproduttiva. Infatti, è stato osservato che alcuni

substrati ad attività estrogeno simile, contenuti normalmente nei foraggi e nei

mangimi, possono determinare induzione dell'estro in femmine immature o

interferire con i loro processi riproduttivi. Nei maschi tale effetto può causare una

riduzione dell'attività gonadale.

Nella maggior parte dei casi, l'esatta natura del principio attivo non è stata definita,

ma i composti più comuni appartengono al gruppo degli isoflavoni, dei cumestani e

dei lattoni dell'acido resorcilico. Gli isoflavoni più noti, e con effetto sull'estro, sono

la genisteina e la biocianina A. La presenza dei cumestani nell'erba medica e nel

trifoglio ladino può essere ridotta utilizzando prodotti agrochimici che combattano

gli attacchi fungini, oppure utilizzando piante immature. Mentre gli isoflavoni e i

cumestani sono prodotti intrinseci della pianta, i lattoni dell'acido resorcilico sono

metaboliti secondari di alcune specie fungine (Fusarium) fra i quali va ricordato

soprattutto lo zearalenone. Particolare importanza riveste la supplementazione della

razione durante il periodo della gravidanza. Con il progredire dello stato gravidico, la

gestante sopporta un maggior consumo energetico, usura più accentuata degli

apparati (vascolare, emuntorio, dell'utero), lo sviluppo del feto. La stessa

alimentazione deve soddisfare le necessità plastiche ossidative dello stesso feto in

formazione e di elementi organico-minerali, il cui consumo è esaltato dall'intenso

ricambio accrescitivo. Ciò, soprattutto durante l'ultimo periodo della gravidanza in

quanto il feto o i feti hanno un accrescimento molto più elevato dopo i due terzi della

gravidanza. Per la vacca si valutano i fabbisogni considerando come se:

- al 7° mese producesse 2 kg di latte oltre quello prodotto

- all'8° " " " 4 " "

- al 9°" " " 6

Quindi, i fabbisogni sono circa:

Mese di

gestazione

U.F. Proteine (g) Ca (g) P (g) Caroteni (mg)

6

7

8

9

0,5

1,0

1,5

2,0

50

100

200

300

-

10

13

16

-

8

11

14

-

22

30

38

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Per le cavalle, la supplementazione si fa negli ultimi 3-4 mesi di gravidanza.

Per le scrofe, qualunque sia il livello alimentare della razione (basso, medio, alto), i

fabbisogni organici dei feti dei suinetti in zuccheri, grassi, protidi e minerali hanno la

priorità sui corrispettivi fabbisogni della scrofa. Al contrario, per quanto riguarda gli

oligoelementi e la vitamina A contenuti nella razione essi vanno al feto solo se ve ne

sono in quantità sufficienti per la scrofa stessa che, quindi in questo secondo caso, ha

la priorità sui feti. Pertanto, bisogna aver cura che siano soddisfatte le esigenze

minerali e vitaminiche della scrofa e dei propri feti e di non provocare un eccessivo

ingrassamento della stessa e di mantenere un adeguato trattamento alimentare durante

tutto il periodo della gravidanza, salvo aumentare nell'ultimo mese ricordando che i

fabbisogni aumentano con il succedersi delle gravidanze nella medesima scrofa e

l'aumentare del suo peso.

Così le esigenze diventano:

Esigenze nutritive della scrofa in gravidanza

Gestazione Peso

Kg

U.F.

Proteine

digeribili (g)

Ca

g

P

g

Vitamina (U.I.):

A D

1a 2,1 240 15 12 9.000 10.000

200

2,3

275

17

13

9.000

10.000

Successive

250

2,5

300

19

14

9.000

10.000

Nella pecora in gestazione, il fabbisogno nutritivo varia in funzione del numero dei

feti e dalla distanza dal parto. Durante le prime 3-4 settimane dopo l’accoppiamento,

il 15-30% degli ovuli possono andare perduti o perché non fecondati o perché si è in

presenza di una alimentazione non corretta che può provocare la mortalità

embrionale. In questa fase bisogna evitare cambi bruschi nel livello alimentare. Nel

secondo e terzo mese di gestazione, il peso del feto aumenta di poco e la placenta

completa la sua formazione ma i livelli di produzione lattea possono essere ancora

elevati. Peraltro, nel calcolo della razione è necessario considerare che la pecora deve

cominciare a provvedere alla ricostituzione delle riserve corporee che sono state

mobilitate per sostenere la lattazione. Alla fine del terzo mese, il peso del feto

rappresenta il 15% di quello finale; il 70% della sua crescita avviene nelle ultime 6

settimane e in questo periodo le richieste alimentari aumentano notevolmente per

soddisfare la rapida crescita del feto e la preparazione della mammella prima del

parto. Orientativamente, una pecora con un solo feto richiede il doppio di alimento

rispetto ad una in asciutta ed il triplo se la gravidanza è gemellare. Alla fine del terzo

mese, se non si vuole compromettere la produzione di latte successiva, è necessario

che la pecora gravida sia messa in asciutta.

Con animali al pascolo fare un corretto razionamento diventa difficile. Un buon

pascolo può soddisfare le esigenze della pecora fino alla seconda metà del quarto

mese di gestazione; successivamente è necessario integrare la razione gradatamente

con concentrati (fino ad arrivare a 0,3-0,4 Kg/capo/giorno) soprattutto in presenza di

gravidanze gemellari. Ciò, sia perché i fabbisogni aumentano sia perché la capacità di

ingestione diminuisce notevolmente. Se la qualità del pascolo è scadente oltre al

concentrato bisogna somministrare anche del fieno o dell’insilato.

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Esigenze nutritive della pecora in gravidanza

Mesi di

gravidanza

S.S.

Kg

T.D.N.

kg

U.F.

n.

Protidi

digeribili

(g)

Ca

g

P

g

Caroteni

mg

< 3 1.26 0.70 0.67 60 3.3 2.6 2

3,5 – 5 1.71 1.02 1.07 87 4.4 3.3 7

Nelle capre, nelle ultime sei settimane di gravidanza, per soddisfare i

fabbisogni energetici alla quota di mantenimento si aggiungono circa 0,45 UFl

mentre, i fabbisogni proteici, giornalieri, sono pari a 9,6 g di PD e 7,6 g di PDI per

Kg di capretto nato.

8.5.1. Effetti della malnutrizione durante la gravidanza

Sia un eccessivo sia un inadeguato apporto alimentare influenzano

negativamente la gravidanza. Le uova fecondate possono morire ai primi stadi

(mortalità embrionale) oppure continuano a svilupparsi in modo anomalo e

successivamente il feto che ne deriva muore e: a) può essere riassorbito in utero; b)

espulso prima della fine della gravidanza (aborto) o, infine, c) portato fino alla fine

della gravidanza e nasce morto. Una malnutrizione meno grave può ridurre sia il peso

alla nascita, sia la vitalità dei nati per mancanza di forze o per insufficienti riserve (ad

esempio energetiche). In alcuni casi non è il feto ma la madre a risentire della

malnutrizione e ciò perché il feto ha la priorità nei riguardi dei principi nutritivi e, se

la madre ne riceve in quantità non sufficienti, le sue riserve vengono usate per far

fronte ai fabbisogni del feto. Ciò è molto evidente nel caso del ferro: il feto può

esserne adeguatamente rifornito anche quando la madre è anemica. Ma la protezione

offerta al feto non è assoluta, infatti, in caso di carenze gravi e prolungate, ne

possono soffrire sia la madre che il feto. Il grado di protezione varia anche da un

principio nutritivo all’altro così, ad esempio, le pecore a seguito di insufficienti

apporti energetici possono perdere anche fino a 15 kg di sostanze corporee e dare alla

luce agnelli normali, mentre una carenza di vitamina A non causa apparenti effetti

sulla madre ma causa gravi anomalie nei nati. Gli effetti dell’ ipoalimentazione in

gravidanza possono dipendere anche dalle riserve della madre ed in generale le

carenze hanno conseguenze più gravi quando la gestazione è inoltrata, ma questa

regola ha delle eccezioni; la carenza di vitamina A nella prima parte della gravidanza,

intervenendo sullo sviluppo iniziale di certi organi, può causare anormalità del nato

ed anche la sua morte.

Effetti sul figlio - La morte del feto si ha solo in presenza di gravi carenze in principi

nutritivi; le proteine e la vitamina A sembrano maggiormente implicati comunque

sono state segnalate morti del feto anche con carenze di iodio, calcio, riboflavina e

acido pantotenico. La carenza di vitamina A causa alterazioni degli occhi e

malformazione delle ossa, la carenza di iodio causa il gozzo nel nascituro e, nei

maiali, una completa mancanza di setole la quale può essere dovuta anche a una

carenza di riboflavina durante la gravidanza. In presenza di carenza di rame nella

pecora in gravidanza si osserva negli agnelli una difficoltà a mantenersi in piedi.

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258

8.6. Fabbisogni per prestazioni dinamiche

Oggi parlare di lavoro ci si riferisce a servizi di traino, trasporti someggiati,

prestazioni di sella, gara o diporto, corsa piana o ad ostacoli, galoppo, corsa al trotto.

Il lavoro può essere leggero, medio, pesante. Il lavoro si svolge attraverso le

prestazioni dinamiche, fornite dalla contrazione dei muscoli scheletrici fenomeno che

si svolge a spese del glicogeno del sangue che deriva dal metabolismo degli idrati di

carbonio assunti con l'alimentazione. Per questo, i fabbisogni nutritivi per le

prestazioni di servizi sono essenzialmente di idrati di carbonio per far fronte al

dispendio energetico del lavoro muscolare e al conseguente accresciuto metabolismo

energetico.

Tipo di

lavoro

Equini Bovini

U.F. Proteine

(g)

U.F. Proteine

(g)

Leggero 1/2 quota

mantenimento

100-150 1/2 quota

Mantenimento

100-120

Medio 2/3 quota

mantenimento

150-175 2/3 quota mantenimento 130-150

Pesante 1 + 1/2 quota

mantenimento

180-200 1 quota mantenimento 160-175

Lo stesso apporto proteico è importante per il miglioramento delle prestazioni, così

come riveste una certa importanza anche un aumento del fosforo, dato che lo sforzo

lavorativo induce una maggiore eliminazione urinaria di fosfati e di creatina, ed

anche maggiori quantitativi di vitamine in quanto partecipano direttamente al

metabolismo dei glucidi. I fabbisogni per le prestazioni dei servizi riferiti a 100 kg di

peso vivo in aggiunta a quelli di mantenimento sono riportati in tabella.

8.6.1. Alimentazione degli equini

I fabbisogni nutritivi sono stati determinati quasi sempre empiricamente, sulla

base di quelli dei ruminanti. Le necessità nutritive del cavallo variano in dipendenza

dell’usura plastica e del dispendio energetico che sono correlati con la costituzione,

l’età, il peso del soggetto (quota di mantenimento) e al tipo, intensità e durata delle

prestazioni così come l’accrescimento, la gravidanza, l’allattamento (quota di

produzione). Per il cavallo adulto a riposo la quota di mantenimento è rappresentata

da 0,9 U.F. e 65-70 g di PD/q PV. Per soddisfare le esigenze energetiche ha maggiore

bisogno di idrati di carbonio e meno proteine rispetto ai bovini; ciò in quanto per la

contrazione dei muscoli (e quindi per il lavoro), utilizza glucosio, fosforo e vitamina

B1.

Per quanto riguarda l’energia, i ricercatori francesi dell’INRA hanno scelto di

adottare una procedura molto simile a quell’utilizzata per i bovini e quindi sia il

valore nutritivo sia i fabbisogni sono stimati come energia netta ed espressi come

unità foraggiera cavallo (UFC) che corrisponde al contenuto in EN di un Kg di orzo

standard (2.200 Kcal). Per calcolare il valore energetico di un alimento in UFC si

divide la sua energia netta (EN, in Kcal) per quello dell’orzo di riferimento (2.200

Kcal). L’EN si calcola attraverso i seguenti passaggi:

a) Energia lorda (EL) attraverso la composizione chimica;

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259

b) Energia digeribile (ED) = EL x dE (digeribilità energia);

c) Energia metabolizzabile (EM) = Ed x (EM / ED);

d) Energia netta (EN) = EM x Km; Km = rendimento dell’EM per il mantenimento;

e) Valore energetico UFC = EL x dE x (EM / ED) x Km x (1 : 2.200).

Il procedimento è similare a quello utilizzato per determinare le UFl e UFc nei

ruminanti e quindi permette di utilizzare tutte le conoscenze disponibili per ciascuna

delle tappe e di integrare i dati successivi senza essere costretti a modificare la

struttura del sistema. I vari parametri sono calcolati come segue:

a) EL e dE: sono stati misurati in modo diretto nelle prove di digeribilità sui cavalli

o stimate in base alla composizione chimica dell’alimento;

b) Passaggio da ED a EM: si è partiti da bilanci realizzati su cavalli che ricevevano

differenti razioni e si è calcolata la relazione con le percentuali in fibra grezza (FG) e

in sostanze azotate (SAT) della razione (g / Kg S.S.) e il livello alimentare (LA):

100 EM /ED = 88,01 – 0,02356 FG – 0,0217 SAT + 5,95 LA

(Sxy = 2,02; R = 0,720; n = 75)

Considerando che il valore energetico degli alimenti viene calcolato per il

mantenimento (LA = 1), la relazione diviene:

100 EM / ED = 93,96 – 0,02356 FG – 0,0217 SAT

Il rapporto EM / Ed varia con l’alimento: 83% per la paglia di frumento, 83-85% per

il fieno, 88-91 % per i cereali.

c) Km: per i vari alimenti la cui digeribilità era stata stimata nel cavallo, si è

calcolato il rendimento Km applicando alla percentuale (E, %) dell’energia assorbita

da ciascun prodotto terminale, i valori di Km conosciuti: glucosio 85%, acidi grassi

a lunga catena 80%, aminoacidi 70% ( come nel suino), miscela AGV 63-68%, in

senso inverso rispetto alla proporzione dell’acetato, come nel ruminante:

Km = (0,85 x E glucosio) + (0,80 x E acidi grassi) + (0,70 x E aminoacidi) + (0,63-

0,68 x E AGV).

I valori di Km variano con l’alimento nello stesso senso della proporzione di energia

assorbita sotto forma di glucosio e, quindi, in gnerale, nello stesso senso della

digeribilità della sostanza organica o dell’energia. Essi sono: 80% per il mais, 68%

per un buon fieno, 63% per le paglie di frumento o di orzo.

Più recentemente i valori di Km sono stati messi in relazione con la composizione

chimica dell’alimento per poter stabilire delle equazioni previsionali per categoria di

alimenti e la precisione è risultata migliorata tenendo conto del tenore in glucidi

citoplasmatici (zuccheri e amido) o in sostanza organica digeribile (SOD).

Es. di calcolo dell’UFC a partire dall’orzo standard (86% di S.S.)

EL = 3.800 KCAL

ED (dE= 0,82) = 3.110 “

EM (EM /ED) = 0,90) = 2.800 “

EN (Km = 0,785) = 2.200 “ = 1 UFC

Il valore energetico in UFC degli alimenti viene riportato nelle tabelle in UFC con

valori che variano da 0,35 per la paglia a 1,32 per il mais. Le differenze, tra i vari

alimenti, sono dovute alla diversa digeribilità della S.O. e al contenuto in fibra: così

il contenuto energetico della paglia di frumento è pari al 41% di quello dell’orzo in

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260

Ed, al 38% in EM e al 31% in UFC. Rispetto alle UFl dei ruminanti, i valori delle

UFC sono similari nel caso delle granaglie e dei residui della molitura dei cereali ma

sono più bassi per i semi proteaginosi, i panelli e soprattutto per i foraggi - 0,05 per i

foraggi verdi e per i fieni di leguminose, - 0,10 per i foraggi di graminacee, - 0,15 per

i foraggi insilati.

I fabbisogni energetici di mantenimento del cavallo espressi in EM o di EN per

Kg0,75

sembrano essere, rispettivamente, di 120 e 84 Kcal (120 x 0,70) o 0,38 UFC

(84 : 2.200). Ciò indica che, per il mantenimento di cavalli di 500, 600 e 700 Kg

sono necessarie rispettivamente 4,0, 4,5 e 5,2 UFC. Questi valori minimi sono riferiti

a giumente e castroni di razze da tiro a riposo e dovrebbero essere aumentati con

l’incremento generale del metabolismo (stallone, periodo di lavoro) e con l’attività

spontanea legata al temperamento:

Aumento dei fabbisogni di

mantenimento (%)

Cavalli

Da tiro Da sella Di sangue

A riposo

In periodo di lavoro

Stalloni a riposo

Stalloni in riproduzione

0

5

10

20-30

5

10

15

25-35

10

15

20

30-40

Fabbisogni per la gravidanza e la lattazione della giumenta

La quantità di energia richiesta ogni giorno dai prodotti del concepimento (feto,

invogli, placenta, mammella) è bassa durante i primi 2/3 della gravidanza;

successivamente aumenta rapidamente e così nel passaggio dall’8° all’11° mese la

richiesta energetica aumenta da 350 a 850 Kcal/giorno nelle giumente da sella e da

500 a 1.200 Kcal nelle giumente di razza pesante. A queste si aggiungono i

fabbisogni energetici per il mantenimento del feto, i quali non sono molto conosciuti

ma bisogna considerare che il rendimento di utilizzazione dell’EM per

l’accrescimento dei prodotti di concepimento è molto bassa, almeno nelle specie

dove è stato studiato: 15% nella pecora e nella vacca, 30-40% nella scrofa.

.

UFC raccomandate negli ultimi 4 mesi di gravidanza nella giumenta

Peso vivo (Kg) UFC / giorno

Giumenta

Neonato (1)

Mantenime

nto

Gravidanza (2) mese

8° 9-10° 11°

200

300

400 sella

500 sella

600 tiro

700 tiro

800 tiro

24

32

40

48

55

61

68

2,0

2,7

3,6

4,2

4,6

5,2

5,7

0,25

0,35

0,40

0,50

0,55

0,65

0,70

0,40

0,50

0,65

0,75

0,90

1,00

1,10

0,55

0,75

0,90

1,10

1,25

1,40

1,55

(1) = peso del puledro alla nascita (Kg) = 0,45 peso della madre (Kg0,75

)

(2) = Energia fissata durante la gravidanza = peso neonato x 1.280 Kcal /Kg (tenore in

energia lorda) x 1,2 (energia fissata dagli invogli, utero, mammella)

- l’energia si deposita per il 14% all’8° mese, 21% al 9° mese, 23% al 10° e 31% all’11°

- rendimento EM = 25%

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261

Fabbisogni in sostanza secca dei cavalli adulti (% rispetto al peso vivo) (da Perùchon)

Peso vivo (kg)

Cavalli adulti 270 360 450 540 630 720 810

Mantenimento 1,42 1,33 1,26 1,2 1,16 1,12 1,08

e lavoro leggero 1,9 1,8 1,7 1,6 1,5 1,5 1,4

e lavoro medio 2,2 2,0 1,9 1,8 1,8 1,7 1,6

e lavoro pesante 2,5 2,3 2,2 2,1 2,1 2,0 1,9

Gravidanza e lavoro leggero 2,0 1,8 1,7 1,7 1,6 1,6 1,5

Lattazione e lavoro leggero 3,0 2,6 2,5 2,4 2,3 2,2 2,1

Fabbisogni in proteine digeribili e in T.D.N. espressi in % sulla sostanza secca

occorrente giornalmente ai cavalli (da Peruchon)

Condizioni dell’animale

e tipo di lavoro

Proteine digeribili Sostanze nutritive

digeribili

1 anno 2 anni 3 anni 1 anno 2 anni 3 anni

In accrescimento:

Mantenimento...............

e lavoro leggero

e lavoro medio

e lavoro pesante

10,3

-

-

6,0

5,9

5,9

5,8

5,2

5,1

5,1

5,0

62,5

-

-

62,5

63,5

65

67

62,5

63,5

65

67

Adulti

Mantenimento

e lavoro leggero

e lavoro medio

e lavoro pesante

4,9

4,8

4,8

4,7

62,5

62,5

62,5

66,5

Gravide (ultimo periodo) 5,3 62,5

In lattazione 8,2 71,4

Per l’accrescimento, va considerato che la quantità di energia richiesta è data dal

prodotto: incremento di peso vivo giornaliero x tenore energetico dell’incremento.

L’energia contenuta nella massa che si accresce è funzione del tenore in lipidi,

aumenta con l’età dell’animale e con il livello di accrescimento ponderale. Così, tra il

6° e 30° mese, e tra i 350 e i 650 Kg di peso, passa da 2.100 a 2.800 Kcal /Kg di

accrescimento nei puledri di razze pesanti; per gli stessi, da 6 a 12 mesi, essa è di

1.500-2.000 e 2.550 Kcal per incrementi di peso vivo di 0,5-1,0 e 1,4 Kg,

rispettivamente.

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262

Fabbisogni in calcio e fosforo espressi in % sulla sostanza secca occorrente

giornalmente ai cavalli (da Peruchon)

Condizioni dell’animale Calcio Fosforo

e tipo di lavoro 1 anno 2 anni 3

anni

1 anno 2 anni 3 anni

In accrescimento:

Mantenimento...............

e lavoro leggero

e lavoro medio

e lavoro pesante

0,38

-

-

0,23

0,23

0,23

0,23

0,19

0,19

0,19

0,19

0,33

-

-

0,23

0,23

0,23

0,23

0,20

0,20

0,20

0,20

Adulti

Mantenimento

e lavoro leggero

e lavoro medio

e lavoro pesante

4,9

4,8

4,8

4,7

0,17

0,17

0,16

0,16

0,19

0,19

0,18

0,18

Gravide ultimo periodo 5,3 0,20 0,20

In lattazione 8,2 0,22 0,20

Fabbisogni in vitamine espressi in UI e in mg per kg di sostanza secca occorrente

giornalmente ai cavalli (da Peruchon)

Condizioni

dell’animale Vitamina A

UI/kg

Vitamina D3

UI/kg

Vitamina B2

mg/kg

e tipo di lavoro 1

Anno

2

anni

3

anni

1

anno

2

anni

3

anni

1

anno

2

ann

i

3

anni

In accrescimento:

Mantenimento....e

lavoro leggero

e lavoro medio

e lavoro pesante

12000

-

-

-

11000

11000

11000

13000

10000

10000

10000

12000

500

-

-

-

500

550

550

600

45

500

500

550

3,3

-

-

-

2,8

2,8

2,8

3,3

2,5

2,5

2,5

3,0

Adulti

Mantenimento

e lavoro leggero

e lavoro medio

e lavoro pesante

10000

10000

12000

12000

400

450

450

500

2,5

2,5

2,5

2,5

Gravide ultimo

periodo

13000

600

3,0

In lattazione 15000 700 3,7

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263

8.7. Fabbisogni per la termoregolazione

Come si è già detto, solo una parte dell'energia metabolizzabile viene

trasformata in produzione (accrescimento, latte, carne, lana, prestazioni dinamiche)

mentre il resto è degradata a calore. I mammiferi e gli uccelli riescono a mantenere

costante il calore del loro corpo indipendentemente dalla temperatura ambientale in

cui vivono (termoregolazione). Praticamente, l'organismo animale oltre a produrre

calore, ne assorbe dall'esterno quando la temperatura ambientale è più elevata di

quella corporea e ne cede per evaporazione polmonare, per evaporazione cutanea,

con le feci, con le urine, con il latte (nel caso delle lattifere). L'animale a difesa dal

caldo ambientale, aumenta la dispersione con la vasodilatazione cutanea, accelerando

il battito cardiaco e la respirazione, sudando, riducendo il pannicolo adiposo

sottocutaneo, sfoltendo il pelo del proprio mantello. A difesa dal freddo, esso riduce

la dispersione del calore corporeo con la vasocostrizione cutanea, aumentando il

tessuto adiposo sottocutaneo, accelerando la crescita di un mantello folto e ricco di

sottopelo. La termoregolazione si ripercuote sui fabbisogni alimentari e su quello che

si dice appetito. Infatti, i consumi alimentari si elevano quando l'animale deve

combattere contro il freddo; mentre si riducono nel caso inverso, divenendo più

elevata la richiesta di acqua di abbeverata. I fabbisogni nutritivi degli animali posti in

condizioni ambientali tali da sollecitare l'intervento della termoregolazione non sono

stati quantitativamente e qualitativamente definiti. In genere bisogna mitigare quando

più possibile le condizioni climatiche, intervenire con una razione più abbondante in

glucidi nei periodi freddi e con alimenti più freschi e acquosi durante il caldo.

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264

Alimentazione di altre specie di interesse zootecnico

8.8.1. Conigli - Secondo dati ottenuti presso la stazione sperimentale Fontana

(California), un mangime per conigli dovrebbe possedere 1.250 Kcal/kg di energia

netta e il valore energetico dei mangimi composti integrati pellettati oscilla tra

1.300-1.600 Kcal/kg. Naturalmente, le esigenze variano con lo stato fisiologico e lo

stadio riproduttivo.

Contenuto in sostanze nutritive digeribili e proteine

Stato fisiologico Sostanze nutritive

digeribili

(% dei mangimi)

Fabbisogno

proteico

(% su SS)

Mantenimento riproduttori 55 13-14

Gestazione 58 16-17

Lattazione 70 18-19

Accrescimento e ingrasso 65 17-18

Fabbisogni in aminoacidi, minerali e vitamine dei conigli da 4 a 12 settimane

Aminoacidi Minerali Vitamine

%

alimento

Elemento Quantità Quantità

Metionina

+ cistina

0,6 Calcio (%) 0,8 A (UI/100g) 500

Lisina 0,6-0,65 Fosforo (%) 0,5 D (UI/100g) 90

Arginina 0,8 Potassio (%) 0,8 E (ppm) 50

Treonina 0,55 Sodio (%) 0,4 B1 (ppm) 2

Triptofano 0,15 Cloro (%) 0,4 B2 (ppm) 8

Istidina 0,35 Magnesio (%) 0,04 B6 (ppm) 2

Isoleucina 0,6 Cobalto (ppm) 1 PP (ppm) 60

Leucina 1,05 Rame (ppm) 5 B12 (ppm) 0,01

Fenilanalina

+tirosina

1,2 Zinco (ppm) 50 Ac. pantotenico

(ppm)

20

Valina 0,7

Per quanto riguarda le esigenze proteiche, bisogna considerare che il coniglio a 1

settimana raddoppia il proprio peso e ad otto lo aumenta di 30 volte circa.

Relativamente alle esigenze in grasso, va detto che a differenza dei ruminanti, dove

si hanno turbe digestive allorquando la quantità di grassi digerita supera 1 g per kg di

peso vivo/giorno, nei coniglietti tale quantità può arrivare a 5 g. Si raccomanda di

fornire dal 2 al 3,5% di grassi, nella razione di mantenimento dei riproduttori maschi

e femmine e dal 3 al 5,5% in quella delle femmine gravide e allattanti.

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265

Fabbisogni minerali e vitaminici nella dieta in diversi stadi fisiologici nei conigli

Elementi (Adulti) Mantenimento Gravidanza Lattazione

Minerali:

Calcio (%) 0,6 0,8 1,1

Fosforo (%) 0,4 0,5 0,8

Potassio (%) - 0,9 0,9

Zinco (ppm) 50 70 70

Vitamine:

A (UI/100 g - 900 900

D (UI/100 g) 50 90 90

K (ppm) - 2 2

I conigli, rispetto ai ruminanti, utilizzano in minor misura la fibra grezza la quale,

oltre che essere importante ai fini delle fermentazioni del cieco, ha soprattutto azione

meccanica in quanto favorisce la peristalsi intestinale. Il livello ottimale di fibra della

razione dovrebbe aggirarsi intorno al 14-19%. I livelli più elevati sono raccomandati

per i futuri riproduttori mentre quelli più bassi sono consigliati per le gestanti,

durante l’allattamento e nei soggetti da carne. Un contenuto in fibra al di sotto del

14% causa fenomeni di tricofagia. Il coefficiente d’utilizzazione (CUD) della fibra è

molto variabile nei coniglietti svezzati, infatti, è massimo 40 giorni dopo lo

svezzamento (40%), successivamente decresce fino stabilizzarsi intorno al 25%.

I fabbisogni della specie cunicola per quanto riguarda i minerali e le vitamine sono

poco conosciuti.

8.8.2. Volatili.

a) Pollo da carne: l’alimentazione del pollo da macellare deve mirare ad

ottenere pelle gialla o bianca, liscia, carni sode senza odori o sapori sgradevoli. Si

distinguono due periodi:

- avviamento (primi 35 giorni di vita), durante il quale, l’alimento deve contenere per

kg di sostanza secca 1900-2500 Kcal d’energia, il 24% di proteina grezza e un

elevato contenuto in vitamine ed elementi minerali;

- finissaggio: è rappresentato dalle 3-4 settimane che precedono la macellazione, in

cui il tasso proteico scende al 20% e il contenuto energetico aumenta a 2000-2600

Kcal/kg SS.

In entrambi i periodi è molto importante l’apporto d’aminoacidi (lisina, metionina,

arginina, triptofano e cisteina), elementi minerali (soprattutto calcio) e vitamine.

b) pollo da allevamento: interessa pulcini e pollastre destinate alla produzione

d’uova o alla riproduzione per le quali è preferibile evitare forzature al fine di

prolungare la produttività. Anche qui distinguiamo due periodi:

- il primo va dalla nascita fino a 8 settimane e il mangime è somministrato a volontà;

è consigliabile un buon mangime del tipo indicato per i polli da carne;

- nel 2° periodo (dai due ai 5 e 6 mesi rispettivamente per le razze leggere e pesanti)

si può praticare:

a) un’alimentazione ad libitum con mangime composto integrato a basso tenore

proteico (13% PG) ed energetico (1200 Kcal/kg alimento) e con elevato tenore in

fibra (14%); ciò facendo si ritarda la deposizione del primo uovo;

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266

b) alimentazione ad libitum con mangimi composti integrati aventi il 16% di

proteine, il 7% di fibra e 1700-1800 Kcal/kg d’alimento; complessivamente favorisce

la produzione di uova.

c) ovaiole - si distinguono tre periodi: 1) va dalla 22^ (inizio deposizione) alla

42^ settimana di età, 2) dalla 42 alla 62^ settimana, 3) dalla 62^ fino al momento in

cui la produzione scende al di sotto del 55%.

Il fabbisogno energetico per kg di miscela si aggira sui 1900-2200 Kcal di energia

netta o 2800-3000 Kcal di energia metabolizzabile mentre, il contenuto proteico della

razione è in funzione della quantità di alimento ingerito giornalmente dalle ovaiole;

un ruolo di primissimo piano agli effetti di un’elevata produzione è giocato dai

singoli aminoacidi (la carenza di un solo aminoacido essenziale compromette la

produzione).

Fabbisogni proteici delle ovaiole

Fabbisogni PG (g/d)

1° periodo 2° periodo 3° periodo

Produzione uova 5,6 6,0 5,3

Mantenimento 3,0 3,0 3,0

Accrescimento 1,2 - -

Totale 10,2 9,1 8,4

Fabbisogno giornaliero

in PG della dieta

18,0

16,0

15,0

La razione giornaliera di un’ovaiola non dovrebbe contenere meno del 2,5-3% di

calcio (polvere di marmo, gusci d’ostrica).

Contenuto in aminoacidi e in elementi minerali (escluso calcio) nei mangimi

composti per ovaiole

Fabbisogni in % della dieta Minerali (20 - oltre 40 settimane)

Aminoacidi 22-42 settimane 42-62 settimane Elementi Fabbisogni

Arginina 0,9 0,8 Fosforo % 0,55

Istidina 0,34 0,3 Sodio % 0,15

Isoleucina 0,9 0,8 Potassio % 0,3

Leucina 1,35 1,2 Cloro % 0,15

Lisina 0,72 0,64 Magnesio mg/kg 500

Metionina 0,36 0,32 Manganese mg/kg 33

Cistina 0,29 0,26 Zinco mg/kg 30

Fenilanalina 0,79 0,7 Ferro mg/kg 40

Tirosina 0,36 0,32 Rame mg/kg 5

Treonina 0,63 0,56 Molibideno mg/kg 2

Triptofano 0,18 0,16 Selenio mg/kg 0,1

Valina 0,9 0,8 Iodio mg/kg 0,3

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267

Contenuto in calcio e vitamine in mangimi per ovaiole

Fabbisogno in calcio (% ) Fabbisogni in vitamine

Mangime

consumato

g/capo/d

% deposizione

Vitamine

Produzione

uova da

consumo

Produzione

uova da

cova

50 60 70 80 90 A UI/kg 10.000 12.000

80 2,8 3,3 3,8 4,3 4,8 D3 UI/kg 2.000 2.000

90 2,5 3,0 3,4 3,9 4,3 E UI/kg 20 20

100 2,3 2,7 3,1 3,5 3,9 K3 mg/kg 3,5 4,0

110 2,1 2,4 2,8 3,2 3,6 B2 mg/kg 4,0 5,0

120 2,0 2,3 2,6 3,0 3,3 Acido pant. mg/kg 5,0 14,0

130 1,8 2,1 2,4 2,8 3,1

140 1,7 2,0 2,3 2,6 2,9

d) tacchini - Nella prima settimana di vita si somministra mangime sfarinato o

sbriciolato al 28% di proteina grezza, lo stesso mangime è somministrato fino

all’ottava settimana ma il tasso proteico scende gradualmente al 25, 20 e anche al

17% nelle ultime settimane

Caratteristiche chimiche e nutritive dei mangimi composti integrati destinati ai tacchini

Età (settimane) 0-4 5-8 9-12 13-16 >17

Proteine % 28-30 24-26 21-22 18-20 14-16

Lisina % 1,6-1,8 1,4-1,5 1,1-1,2 0,9-1 0,6-0,8

Metionina % 0,55-065 0,45-0,55 0,38-0,4 0,33-0,36 0,25-0,30

Met. + Cistina % 1,0-1,07 0,90-0,95 0,7-0,8 0,63-0,67 0,45-0,55

Calcio % 1,2-1,4 1,2-1,4 1-1,2 0.9-1 0,7-0,9

Fosforo utilizzabile % 0,7-0,8 0,65-0,75 0,60-0,65 0,55-0,60 0,35-0,45

Energia metabolizzabile

a) calorie/kg

b) MJ/kg

2750-2860

11,5-12

2750-2860

11,5-12

2790-2910

11,7-12,2

2840-2970

11,9-12,4

2840-2970

11,9-12,4

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8.8.3. Cenni sulle esigenze nutritive dei pesci

L’acquacoltura è l’insieme delle attività e delle tecnologie riguardanti la

produzione di organismi acquatici attraverso il controllo di una o più fasi del loro

ciclo biologico e dell’ambiente in cui essi si sviluppano. La produzione

dell’acquacoltura italiana è attualmente stimata attorno a 130.000 tonnellate/anno.

Essa si articola in due comparti:

a) quello delle acque salmastre e marine che fa riferimento soprattutto alla

miticoltura ( circa 85.000 t/anno);

b) quello delle acque dolci: che riguarda le produzioni lacustri (circa 10.000 t/anno),

alla anguicoltura (2.550 t/anno), alla pescigattocoltura (1.550 t/anno) ed alla

carpicoltura (500 t/anno).

Gli aspetti più importanti relativi alla alimentazione delle specie ittiche riguardano:

- economico, mano mano che si risolvono i problemi intrinseci all’allevamento

intensivo, assume maggiore importanza la voce alimentare; ad es. nell’allevamento

della trota e del branzino l’alimentazione pesa sulle spese di allevamento per il 60%

ed in alcuni casi può arrivare fino all’80%:

- ambientale: in casi di elevati valori di densità e di forzature alimentari, il mangime

non utilizzato crea problemi di inquinamento;

- sanitario: bisogna meglio studiare i rapporti esistenti fra alimentazione e sanità del

pesce;

- gestionale: rapporto fra qualità dell’alimento, modalità di somministrazione e

caratteristiche del pesce.

Negli allevamenti intensivi si procede alla formulazione di mangimi che permettono

di ottenere le massime rese produttive (indici di conversione intorno a 1-1,5 e in

alcuni casi anche 2). La produzione di alimenti commerciali a costi ridotti

presuppone la conoscenza:

- dei fabbisogni nutrizionali degli animali allevati;

- delle caratteristiche e dei contenuti nutritivi degli alimenti;

- delle caratteristiche merceologiche ed economiche delle materie prime necessarie

alla loro formulazione.

Inoltre, bisogna considerare che: a) l’alimento deve essere considerato non solo come

apportatore di principi nutritivi e di sostanze ad azione oligodinamica, ma anche

come modulatore delle difese organiche e del sistema immunitario; b) è importante la

consistenza e la tenuta in acqua del mangime; c) l’ottenimento di incrementi

ponderali redditizi nell’allevamento intensivo sono legati a diete ricche in proteine

(25-50%).

Generalmente le diete per pesci vengono classificate in:

a) secche; b) umide (pastone di pesce crudo e di scarti della pesca) sono in genere più

economiche ma di più difficile reperibilità, possono contenere agenti patogeni e se

non utilizzate dai pesci possono costituire fonte di inquinamento idrico.

I pesci rispetto agli animali terrestri sono caratterizzati da una mancata necessità di

assicurare una omeotermia corporea, ridotte spese energetiche per il mantenimento

della stazione eretta e per il movimento, un minor costo del catabolismo proteico

dato che il prodotto finale è l’ammoniaca anziché l’urea o l’acido urico (ogni 2 moli

di azoto catabolico eliminati come ammoniaca invece che sotto forma di urea si

risparmiano 3 moli di ATP). Livelli ottimali di incrementi ponderali richiedono la

conoscenza dei fabbisogni energetici: le carenze di energie causano l’utilizzo delle

proteine ai fini energetici mentre, l’eccesso di energia può comportare una carenza

relativa di proteine e di principi alimentari e l’autoinquinamento dell’allevamento. Le

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tecniche di valutazione dei fabbisogni energetici nei pesci sono analoghe a quelle

utilizzate per gli altri animali: calorimetria, incrementi ponderali, macellazioni

comparative. E’ opportuno definire un rapporto ottimale fra energia digeribile e

proteine (ED/P) che va da 3 a 9,7 per il pesce gatto, a 8,3 per la carpa.

I pesci di solito utilizzano carboidrati a basso peso molecolare, mentre, quelli ad

elevato peso molecolare sono utilizzati in maniera assai differente dalle diverse

specie ittiche; ad es. l’amido di mais crudo è utilizzato per il 40% nella trota e per il

60% nel pesce gatto. Il tipo di trattamento subito dai cereali, ne condiziona

l’utilizzabilità, quindi i trattamenti che migliorano la digeribilità enzimatica

dell’amido ne migliorano l’utilizzazione anche se non c’è proporzionalità fra

aumento di degradabilità enzimatica e miglioramento delle performance, a parità di

livello di inserimento, almeno nella trota. I trattamenti più efficaci sono quelli in

grado di indurre maggiore digeribilità dell’amido ed è importante notare che migliora

solo la velocità di crescita e non l’efficienza in termini di incrementi ponderali, ma

migliora l’efficienza energetica data la maggiore quota di energia depositata come

lipidi, nelle carni.

Gli acidi grassi insaturi ed insaturi sono una ottima fonte di energia. I dati

disponibili sulla utilizzabilità dell’energia alimentare nei pesci sono espressi

prevalentemente come energia digeribile, mentre, sarebbe più opportuno esprimerli

in termini di energia metabolizzabile, cioè sotto forma di energia realmente

disponibile a livello tissutale.

Ripartizione dell’utilizzazione dell’energia alimentare nei pesci

E.P.

- energia produttiva tessuti

- prodotti sessuali

E.M.

E.G. (alimenti)

E.D.

H.E.

- produzione di calore

- HeE

- HjE (attività volontaria)

- HiE (heat increment)

E.B. (branchie)

E.U. (urine)

E.S. (superficie corporea

E.F. (feci)

L’Heat increment (HiE) derivante dalla utilizzazione degli alimenti ingeriti è molto

più basso nei pesci che non nei mammiferi (3-5% nella trota rispetto al 30%),

soprattutto, perché nei primi vi è un più basso costo di escrezione dei cataboliti

azotati. Anche il fabbisogno energetico per il mantenimento (attività volontarie (HiE)

+ metabolismo basale (HeE)) nei pesci è inferiore ripetto agli animali terrestri da

reddito infatti, contro una produzione di calore (in una trota di 4 g), di 57 Kcal/kg di

peso metabolico (P0,63

) nelle 24 ore, i valori corrispondenti per i mammiferi e per gli

uccelli (P0,75

) sono pari a 70 e 83 Kcal/kg, con un incremento rispettivamente del 22

e 45%.

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I lipidi sembrano un’importante fonte energetica per l’alta concentrazione di calorie e

per l’apporto di acidi essenziali, inoltre, sono veicoli per le vitamine liposolubili e

per gli steroli essenziali per i crostacei. Essi sono coinvolti in molti aspetti del

metabolismo, a livello di membrana come fosfolipidi ed esteri degli steroli, come

fattori protettivi essenziali (PUFA, vit. F), come precursori delle prostaglandine,

come struttura base degli ormoni steroidei. Il maggiore o minore fabbisogno di

specifici acidi grassi polinsaturi, da parte delle diverse specie ittiche, è strettamente

legata alla loro capacità di desaturare a omega-3 o di allungare le catene carboniose. I

pesci di acque fredde richiedono in genere una miscela di omega-3 e omega-6, la

Tilapia solo omega-6.

Le condizioni ambientali (temperatura, salinità) possono influenzare il fabbisogno in

differenti acidi grassi (EFA). Non tutte le specie hanno una particolare esigenza in

omega-3 e omega-6 ed il fabbisogno in EFA oscilla fra lo 0,5 e il 2% della SS della

razione. La maggior parte delle specie ittiche è in grado di sintetizzare gli steroli a

partire dall’ac. mevalonico e dall’acetato, ma ciò è insufficiente per molti crostacei

come il Penaeus japonicus per il quale si suggerisce un livello alimentare di

colesterolo dallo 0,5 al 2%.

Le proteine svolgono un ruolo assai rilevante nella alimentazione dei pesci in quanto

oltre alla tipica funzione plastica svolgono una precisa funzione energetica (anche se

molto costosa). I livelli proteici necessari per le diverse specie sono molto più elevati

rispetto a quelli di altre specie monogastriche quali i polli e i suini e ciò è giustificato

dalla tendenza degli aminoacidi ad essere ossidati direttamente per fornire energia,

dalla lenta attività proteosintetica del muscolo dei pesci, dalla scarsa capacità di

utilizzare gli zuccheri a livello digestivo e metabolico. Gli aminoacidi identificati

come essenziali sono: arginina, istidina, isoleucina, lisina, metionina, fenilanalina,

treonina, triptofano e valina.

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CAP. IX DISMETABOLIE LEGATE AD ERRORI ALIMENTARI

9.1 Dismetabolie dei ruminanti

I principi nutritivi della razione influenzano i processi digestivi e metabolici e quindi

lo stato di salute e la produttività degli animali. L'alterazione dei processi digestivi si

traduce in disturbi dell' apparato digerente e quindi della digestione e assorbimento

dei principi nutritivi; invece l'alterazione dei processi metabolici porta alla rottura

dell'omeostasi interna dell'organismo e quindi all'alterazione di uno o più

metabolismi critici. L'allevatore e, soprattutto, il veterinario nei confronti di tali

problemi devono considerare l'allevamento in toto e non il singolo individuo il quale

può rappresentare, invece, il campanello di allarme.

L'alimentazione è uno dei fattori che determinano le cosiddette "malattie

condizionate" (tossinfezioni da c1ostridi, mastiti, parassitosi). Le turbe dell'apparato

digestivo di natura alimentare che colpiscono gli animali adulti sono spesso

attribuibili alla diretta conseguenza di repentini cambi di alimentazione, a deficit o

eccessi nutrizionali. Tra esse ricordiamo: meteorismo ruminale, acidosi e alcalosi

ruminale.

È utile ricordare che, nella pecora rispetto ai bovini, il volume totale dei prestomaci

in rapporto al peso dell'animale è inferiore, mentre si ha una maggiore efficacia della

masticazione e una minore velocità di transito dei solidi attraverso l'apparato

digerente (20 contro 28 ore). Il bovino sembra digerire meglio i foraggi grossolani

mentre, la pecora è capace di utilizzare meglio gli amidi e possiede una maggiore

capacità di ingestione della sostanza secca in rapporto al peso corporeo.

I disturbi più insidiosi e pericolosi per l'allevamento sono quelli che, non essendo

caratterizzati da una specifica sintomatologia, non vengono diagnosticati e,

perdurando nel tempo, causano altre patologie. I disturbi dei processi fermentativi e

digestivi possono causare scarsa utilizzazione dei componenti della razione (energia,

proteine, minerali, vitamine) o produzione di sostanze tossiche o inibenti che

influenzano negativamente la funzionalità di organi e apparati.

Fra i disturbi dei prestomaci ricordiamo:

- Indigestione semplice: la causa più frequente è rappresentata da un repentino

passaggio a diete con alte quantità di carboidrati facilmente fermentescibili, basso

contenuto in fibra e, spesso, associate a un elevato apporto di proteine solubili (erba i

fase di crescita). Nel caso in cui prevalgono i carboidrati si sviluppano maggiormente

i batteri capaci di un rapido metabolismo i quali tollerano un pH tendenzialmente

basso, il che fa diminuire o scomparire del tutto i protozoi dal rumine.

Se sono presenti contemporaneamente grandi quantità di proteine solubili prevalgono

i batteri con attività ureasica con conseguente produzione di ammoniaca del rumine

ed alcalinizzazione del suo contenuto. L'ammoniaca che sfugge alle fermentazioni

ruminale, attraverso il circolo arriva al fegato dove viene convertita in urea

provocando un aumento della sua concentrazione nel sangue (> 60 mg/dl, negli

ovini).

La fermentazione dei carboidrati porta alla formazione di AGV che, se in grande

quantità, inibiscono la motilità del rumine e quindi le fermentazioni stesse; ne

consegue un ripristino della motilità dell'organo nel giro di pochi giorni. Questo tipo

di alimentazione fa diminuire la masticazione, la quantità di saliva prodotta e,

soprattutto, impedisce la stratificazione dell'alimento con conseguente maggiore

velocità di transito. Peraltro, l'accumulo di sostanze osmoticamente attive sia nel

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rumine che nell'intestino richiama acqua e, quindi, provoca diarrea di tipo osmotico.

Oltre all'anoressia, in questi casi è dato dalla diarrea che:

a) Nel caso caso di concentrati è di colore marrone-grigio con presenza di grani

indigeriti;

b) Nel casoso di alimentazione a base di pascolo è di colore marrone-verdastro.

Queste turbe possono essere prevenute evitando bruschi cambi di alimentazione e

somministrando fibra, meglio se lunga. Nel concentrato è indispensabile anche

aggiungere dei tamponi ruminali, quali il bicarbonato di sodio o tamponi intestinali

come l’ossido di magnesio. Una buona fermentazione dei carboidrati necessita anche

apporti di azoto, zolfo e minerali essenziali.

- Acidosi ruminale: l'acidosi ruminale può essere acuta o cronica.

La forma acuta è causata da una eccessiva ingestione di carboidrati facilmente

fermentescibili (cereali, mangimi, insilati, frutta, radici) che causano produzione di

acido lattico e diminuzione del pH ruminale, senza un preventivo adattamento del

rumine. La gravità dell'acidosi varia in funzione della quantità e tipo di alimento,

nonché dal grado di specializzazione della microflora ruminale.

Una produzione di lattato prolungata fa abbassare il pH ruminale fino a 5-5,5 e fa

aumentare l' osmolalità nel rumine; tutto ciò porta alla uccisione dei protozoi e di

altri microrganismi che utilizzano l'acido lattico, mentre aumenta la popolazione dei

batteri producenti acido lattico.

Nella prima fase della fermentazione acida si producono molti AGV i quali sono più

deboli rispetto all'acido lattico e, quindi, si legano all'idrogeno fungendo da tamponi

e con il risultato di essere assorbiti più rapidamente e se l'assorbimento attraverso la

parete ruminale è eccessivo si ha un'acidosi sistemica. Peraltro, grosse quantità di

AGV non dissociati nella mucosa della parete ruminale causano stasi ruminale. Con

1'acido lattico aumenta la pressione osmotica del liquido ruminale che da circa 280

Osm/L può passare al doppio; ciò condiziona un richiamo di acqua dal comparto

vascolare, con conseguente aumento e fluidificazione del contenuto ruminale che a

sua volta provoca una distensione dell' organo (idrorumine) e notevole disidratazione.

La diminuzione dei liquidi organici fa diminuire il volume del sangue e la

diminuzione della perfusione periferica causa uno stato ipossico che aggrava

l’acidosi sistemica. Considerando che l'acido lattico è un agente corrosivo, quando

raggiunge elevate concentrazioni può distruggere l'epitelio ruminale (ruminite

tossica). Con il tempo, il rumine può cicatrizzare ma gli ascessi possono liberare

emboli batterici che possono raggiungere il circolo portando alla formazione di

ascessi epatici metastatici. Inoltre, va considerato che l'alterato metabolismo della

microflora ruminale può portare alla formazione di grandi quantità di istamina

aggravando, così, la patologia.

Generalmente, sono più colpiti gli animali in lattazione meno quelli in stato avanzato

di gravidanza e le femmine da rimonta (forse per una minore capacità di ingestione).

Nell’acidosi acuta, il primo sintomo è rappresentato da una distensione del rumine e

da spasmi addominali che provocano dolore e sono accompagnati da anoressia totale;

successivamente, gli animali smettono di ruminare e alcuni sembrano ubriachi o

parzialmente ciechi, la frequenza cardiaca aumenta e si ha una profusa diarrea, le feci

assumono colore chiaro e forte odore acido. In seguito, si ha disidratazione e se si

hanno danni renali si verifica 1'anuria. 24-48 ore dopo 1'animale è costretto al

decubito anche perché può comparire una podoflemmatite acuta.

- L’acidosi subacuta e cronica: sono causate da razioni ricche in carboidrati e povere

di fibra strutturata. La forma subacuta si osserva ad inizio lattazione quando vengono

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somministrati molti carboidrati o gli animali sono portati in pascoli rigogliosi senza

un periodo di adattamento. I sintomi sono quelli dell'indigestione semplice che però

perdurano per diversi giorni. Peraltro, si possono verificare zoppie (laminite asettica),

mastiti (aumento cellule somatiche nel latte), eccessivo calo di peso, diminuzione

produzione lattea. La forma cronica colpisce soprattutto gli animali all'ingrasso dove

la popolazione microbica ruminale si adatta alle elevate quantità di cereali ingerite

dall'animale e si sviluppano, soprattutto, batteri producenti acido lattico il quale non

si accumula ma viene metabolizzato dai batteri. Si produce una elevata quantità di

AGV che fa abbassare leggermente il pH ruminale, ridurre la motilità ruminale,

ridurre il numero di specie microbiche (soprattutto protozoi) con conseguente scarso

utilizzo della componente proteica della dieta. L'aumento dell'acido propionico e

butirrico stimola la proliferazione delle papille dell'epitelio ruminale portando ad una

paracheratosi ruminale che a sua volta riduce l'assorbimento degli AGV e aumenta la

suscettibilità ai traumi e all'infiammazione del tessuto profondo della parete

ruminale. Le lesioni prodotte lasciano passare i batteri che arrivano al fegato e altri

tessuti dove causano ascessi epatici. I sintomi più evidenti sono: ridotto appetito,

ipocinesia ruminale, ritardo dell'accrescimento, sintomi di risposta infiammatoria

cronica. In alcuni casi si verificano la laminite e la necrosi cerebrocorticale o

polioncefalomacia forse perchè la fermentazione acida del rumine conduce alla

produzione di tossine quali istamina e tiaminasi.

Timpanite o meteorismo - E' un disordine digestivo caratterizzato da una eccessiva

produzione di gas di fermentazione ruminale, soprattutto C02 che per cause varie non

vengono eruttati con la stessa rapidità con la quale si formano. Oltre ad una possibile

predisposizione soggettiva, le cause che possono determinare il rigonfiamento del

rumine sono diverse: possono essere di natura meccanica, per ostruzione

dell'esofago; di natura fisiologica per condizioni di pH troppo distanti da quello

ottimale (pH 5-6), che riducono la motilità delle pareti del rumine; di natura chimica,

per la presenza di particolari sostanze nell'alimento che oltre a ridurre i movimenti

peristaltici, interferiscono nell'eruttazione dei gas. La causa, comunque, più diffusa è

individuabile in una errata formulazione della razione alimentare che si verifica

quando predominano le foraggiere fresche, soprattutto le leguminose allo stadio

vegetativo che precede la fioritura, ricche di carboidrati facilmente fermentescibili, di

proteine, di acqua e povere di fibra. Poiché tali essenze sono molto appetite, l'animale

tende ad ingerirne grosse quantità senza svolgere una accurata masticazione; di

conseguenza diminuisce anche la quantità di saliva prodotta che, per la presenza di

discrete percentuali di sali, svolge una funzione tensioattiva inibente la formazione di

schiuma.

Quando l'alimento giunge nel rumine, i microrganismi ruminali proliferano

fermentando i carboidrati con produzione anche di CO2 e CH4, i quali vengono

espulsi per via orale con l’eruttazione, mentre nel caso della timpanite vengono

trattenuti dalla viscosità del liquido ruminale, dovuta alla presenza relativamente alta

di proteine nell'alimento. Si forma così una massa schiumosa che trattiene i gas di

fermentazione e che aumentando progressivamente di volume esercita una notevole

pressione sulle pareti del rumine riducendone la motilità. Di conseguenza, l'alimento

sosta in tale prestomaco e non riesce a defluire nelle cavità gastriche successive: ciò

incentiva la proliferazione di microrganismi e le conseguenti fermentazioni,

innescando un rapporto di causa effetto senza possibilità di risoluzione naturale. A

gonfiore ruminale manifesto, si può intervenire introducendo nel rumine particolari

sali che riducono la tensione superficiale del liquido favorendo l'emissione dei gas,

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oppure sostanze antibiotiche che inibendo lo sviluppo microbico, riducono l'entità

delle fermentazioni. In caso di stadio troppo avanzato, è consigliabile incidere il

fianco sinistro al centro del cavo del fianco con un tre quarti e lasciando il fodero del

tre quarti in loco si effettua una puntura che permette il deflusso dei gas. La

prevenzione consiste nel somministrare agli animali, insieme ai foraggi freschi, anche

foraggi ricchi di fibra; non bisogna far pascolare gli animali in prati di leguminose

bagnate; bisogna somministrare prima foraggi secchi e poi quelli freschi. La

timpanite può assumere talora andamento cronico e ciò si verifica soprattutto negli

animali all'ingrasso i cui regimi alimentari prevedono un uso massiccio e sistematico

di mangimi ad alto valore energetico e, quindi, molto ricchi di carboidrati.

Tossicosi da urea e da eccesso proteico (alcalosi) - La tossicosi da urea è un

disordine metabolico digestivo determinato da un eccesso di questa sostanza nella

razione dei poligastrici. L'urea a livello ruminale, viene trasformata in ammoniaca e,

come tale, successivamente utilizzata dai microrganismi simbionti per la sintesi delle

proteine cellulari. Qualora la concentrazione di urea nella dieta sia eccessiva si

verifica un innalzamento del pH ruminale e, conseguentemente, alcalosi con arresto

della peristalsi dell'organo, blocco della digestione e timpanite. L'alcalosi ruminale

inibisce, infatti, l'attività della micropopolazione simbionte per cui gran parte delle

macromolecole, come la cellulosa e l'amido, rimangono indigerite e ristagnano nel

rumine; inoltre, l'ambiente alcalino, alterando la normale permeabilità delle pareti

ruminali, favorisce la diffusione dell'ammoniaca nel sangue.

In condizioni di iperammonemia nel sangue si verifica ipertrofia nel fegato, danni

all'apparato urinario, danni al sistema nervoso che determinano dapprima stati

convulsivi e successivamente coma e morte dell'animale.

Nella fase iniziale della tossicosi si può intervenire somministrando alimenti con

elevata concentrazione di carboidrati che incentivano la proliferazione batterica e

quindi l'assorbimento di ammoniaca; inoltre, all'aumento dell'attività microbica fa

seguito una più intensa produzione di acidi grassi volatili (AGV) che abbassano il pH

ruminale ripristinando le normali condizioni di motilità. Oltre ai carboidrati, è

consigliabile somministrare sostanze acide, ad esempio aceto in soluzione al 50%.

Nella fase avanzata della tossicosi, quando cioè cominciano ad evidenziarsi

manifestazioni tetaniche, non è più possibile alcun tipo di intervento.

Anche la somministrazione di eccessive quantità di proteine può determinare stati

tossici; infatti, le proteine nel rumine subiscono un processo di deaminazione che

porta alla formazione di ammoniaca libera, con le conseguenze già descritte. Oltre ad

alterazioni di tipo digestivo, però si verificano e sono ben più gravi alterazioni di tipo

metabolico con effetti negativi sulle produzioni economiche e sulla fertilità

dell'animale, dovute anche alla formazione di corpi chetonici che contribuiscono ad

aggravare stati di chetosi.

Turbe intestinali

Il principale sintomo delle turbe intestinali è la diarrea, causata da alterazioni

alimentari. Nei ruminanti, le feci molli sono dovute spesso a disturbi delle

fermentazioni ruminali e all’elevata velocità di transito. I meccanismi che sono

coinvolti nella diarrea sono il malassorbimento (atrofia dei villi), il sovraccarico

osmotico, attività secretoria aumentata, elevata motilità e aumento della pressione

idrostatica tra comparto ematico e lume intestinale. Nelle turbe causate da errata

alimentazione prevale il meccanismo osmotico a causa di un aumento della velocità

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di transito, che porta all'intestino quantità superiori a quelle che possono essere

assorbite di carboidrati e lipidi; le quantità indigerite e non assorbite si accumulano

nel grosso intestino con aumento dei processi fermentativi e delle particelle attive

osmoticamente. L'aumento delle fermentazioni nel grosso intestino possono

predisporre l'instaurarsi di forme infettive quali le gastroenterotossiemie da clostridi e

l'infezioni da Listeria monocytogenes la quale si verifica soprattutto con la

somministrazione di insilati con pH superiore a 5.

Va ricordato che, nella pecora rispetto al bovino la velocità di transito degli alimenti

è maggiore e, quindi, la funzione di filtro dei prestomaci può più facilmente essere

compromessa. La somministrazione di granelle di cereali (orzo) tal quali può far sì

che esse non vengano digerite a livello ruminale ed essere fermentate nel grosso

intestino: si consiglia di controllare se nelle feci vi è molta granella indigerita.

Inoltre, si consiglia di bagnare la granella per 8-12 ore prima di somministrarla o

ricorrere alla schiacciatura o fioccatura.

Collasso puerperale (paresi post-partum, febbre del latte, parto alla testa)

E' un disordine metabolico causato da un'alterazione dell'equilibrio minerale del

calcio nei liquidi organici. La eziologia del collasso puerperale deriva in massima

parte da una insufficienza dei fattori ormonali, in specie le ghiandole paratiroidee,

che normalmente operano per mantenere costante il livello del calcio nel sangue, e

non è perciò affatto condizionata dalle quantità di calcio presenti nella dieta

alimentare, la cui quota di utilizzazione nutritiva non può essere influenzata da

maggiori momentanee esigenze fisiologiche, mentre viene depressa in presenza di

maggiori quantità negli alimenti. La calcemia scende da un valore normale di 9-12

mg % a livelli di 5-6 mg % ed anche meno, la fosfatemia e la magnesemia possono

viceversa mantenersi intorno a valori normali (4-9 e 2-3 mg %, rispettivamente)

oppure abbassarsi e il collasso assume maggiore gravità e può dare origine a ricadute.

La malattia si manifesta entro 2-5 giorni dal parto con paresi (incapacità della bovina

ad alzarsi). Questo sintomo può essere preceduto da spasmi muscolari, andatura

incerta e barcollamento del treno posteriore; successivamente, la bovina si distende

senza più tentare di alzarsi. Cade in uno stato comatoso, lo sguardo diventa cupo,

fisso, le pupille si dilatano ed il musello si presenta asciutto. Nello stato di paresi, i

muscoli del tratto intestinale perdono di tono e si può anche verificare il prolasso del

retto. La temperatura dell'animale si abbassa a 36,5-38 °C. Se la malattia compare a

lattazione avanzata, i sintomi possono essere confusi con quelli di altre forme

morbose come l'acetonia, ma in quest'ultimo caso le urine sono più scure per la

presenza di corpi chetonici. I soggetti più colpiti sono le grandi lattifere dal 3° parto

in poi. Molto probabilmente esiste una certa predisposizipne ereditaria verso il

collasso, per la trasmissione di caratteri che determinano un'insufficiente capacità di

adattamento dei meccanismi regolatori del ricambio minerale Durante la fase di

asciutta, corrispondente agli ultimi due mesi di gravidanza, la bovina utilizza buona

parte del calcio per l'ossificazione del feto; in prossimità del parto una parte del

calcio viene sottratta dalla ghiandola mammaria che inizia la secrezione del colostro.

In condizioni normali, l'organismo provvede a tali necessità incentivando la

mobilizzazione del calcio dalle riserve ossee ed aumenta la capacità di assorbimento

intestinale del calcio presente negli alimenti. L'utilizzazione del calcio fissato nel

tessuto osseo dipende dalla funzionalità delle ghiandole paratiroidee che, a loro volta,

sono condizionate dalla presenza del fosforo. L'assorbimento intestinale del calcio

alimentare è invece influenzato da numerosi fattori, quali:

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276

- età dell'animale in quanto è maggiore nei giovani:

- rapporto Ca/P durante le ultime 3 settimane di asciutta; se è troppo largo predispone

al collasso in quanto riduce la quota di calcio assorbita dopo il parto. Se, quindi, la

razione prevede un largo impiego di foraggere leguminose dove il rapporto Ca/P è >

5 si rende necessaria l'integrazione con sali fosfatici privi di calcio;

- presenza di vitamina D;

- diminuzione dell'appetito (frequente dopo il parto).

La prevenzione, anziché l'aumento del calcio nella dieta, deve prevedere la

stimolazione della mobilizzazione delle sostanze minerali ossee per dar loro modo di

confluire nel sangue per mantenervi costante il tasso calcico. Ciò, si ottiene sia

causando tale mobilizzazione artificialmente (somministrazione di massicce quantità

di vitamina D), sia attivando il normale fattore endogeno (la paratiroide), mediante

somministrazione di alimenti ricchi in fosforo, prima dell'inizio della lattazione

La terapia consiste nella somministrazione di sali di calcio e di magnesio e

contemporaneamente vitamina D per favorire l'assorbimento intestinale del calcio. Se

la malattia non è curata in tempo si possono manifestare fenomeni di

autointossicazione, infezioni batteriche, traumatismi. La prevenzione si basa nella

somministrazione di vitamina D (10.000 U.I.) circa 7 giorni prima del parto e

nell'utilizzo di diete con rapporto Ca/P di 1: 1.

Tetania da erba - E' un disordine metabolico indotto da un'alterazione del rapporto

Mg/K che si verifica soprattutto nelle vacche in lattazione, a seguito del passaggio

drastico dall'alimentazione secca a quella verde.

Il pascolamento, particolarmente all'inizio della primavera, fornisce foraggi molto

appetiti perché teneri e succulenti ed il bestiame tende a consumarne in grandi

quantità. Tali essenze sono però caratterizzate da un'alta percentuale di K e da uno

scarso tenore in Mg. Poiché questi elementi sono dei regolatori del meccanismo della

eccitabilità neuromuscolare: il K ha funzione eccitante; il Mg in sincronia con il Ca

ha un ruolo moderatore, ne emerge un'alterazione complessiva di tale meccanismo.

La sintomatologia ha andamento progressivo ed è caratterizzata da stati di

nervosismo, perdita di appetito, salivazione abbondante, calo della produzione lattea,

convulsioni e tetania, fino ad arrivare a stati comatosi ed anche morte dell'animale.

Quando la disfunzione si manifesta bisogna intervenire immediatamente sugli

animali con iniezioni di composti fisiologici di magnesio per via intramuscolare e di

calcio per via endovenosa. Contemporaneamente, l'alimentazione viene integrata con

composti minerali e si sospende la somministrazione di foraggio verde.

Preventivamente si possono effettuare concimazioni con concimi magnesiaci nei

terreni che presentano carenze di Mg, in modo tale che il contenuto di questo

elemento nel foraggio raggiunga valori dello 0,2% sulla sostanza secca.

Dismetabolie legate al metabolismo energetico

- Acetonemia o chetosi - L'acetonemia è una dismetabolia che colpisce

prevalentemente le grandi lattifere. Essa si manifesta con riduzione dell'appetito,

perdita di vivacità, respiro affannoso, eccessiva salivazione, dimagrimento e quindi

ridotta produzione di latte e fertilità. La chetosi insorge nel momento in cui nel

sangue si modifica il rapporto tra il contenuto di glucosio e quello dei corpi chetonici

(acido acetoacetico, acido idrossibutirrico, acetone) a favore di questi ultimi. La

chetosi è una patologia legata ad intensa lipomobilizzazione che comporta un

notevole flusso di acidi grassi non esterificati (NEF A) al fegato e ad un' eccessiva

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produzione, oltre la capacità d'utilizzo da parte dell'organismo, di acetil-coenzimaA,

proveniente dalla -ossidazione degli acidi grassi; in tale condizione avviene la

condensazione di due molecole di acetil-coenzimaA con produzione finale di β-

idrossibutirrato, acetoacetato ed acetone, noti con il nome di corpi chetonici e che

vanno a concentrarsi nel sangue.

In condizioni normali, la demolizione dei lipidi di riserva porta alla produzione di

acetil-CoA il quale entra nel ciclo metabolico terminale. La mancata produzione di

acido piruvico comporta l'arresto del ciclo di Krebs e, di conseguenza, la mancata

utilizzazione dell'acetil-CoA che, per condensazione, va a formare i corpi chetonici.

Nel fegato si verifica una più o meno accentuata tendenza alla steatosi dovuta, in

parte, all'accumulo di una parte dei NEFA riesterificati in trigliceridi e in parte per

diminuita sintesi di lipoproteine necessarie a trasportare i grassi del fegato al sangue

e ai tessuti periferici. La steatosi epatica comporta una ridotta efficienza dell'epatocita

che, si traduce anche in un versamento di bilirubina coniugata dal fegato al circolo

sanguigno con un suo conseguente aumento nel sangue. L'origine della chetosi è,

comunque, molto complessa e oltre che al deficit energetico va attribuita a numerosi

meccanismi neurormonali responsabili del metabolismo glicolipidico. Infatti, la

mobilizzazione dei lipidi di deposito inizia già prima del parto e tale processo è

determinato da alcune variazioni ormonali. Secondo qualche autore, l'ormone più

coinvolto è l'insulina (una sua diminuzione comporta un aumento dei NEFA),

mentre, secondo altri, oltre all'insulina assumono un ruolo non indifferente il

glucagone e l'ormone somatotropo, i quali determinano una mediocre utilizzazione

periferica permanente dei principi nutritivi al fine di aumentare i nutrienti-base per la

sintesi del latte. In definitiva, quindi, la chetosi può essere considerata una sindrome

dismetabolica a forte componente neurormonale che si caratterizza per alterazioni del

metabolismo glicolipidico con ipoglicemia più o meno marcata e presenza di corpi

chetonici nel sangue e nelle urine. L’ipoglicemia determina una minore disponibilità

di energia per l'organismo con rallentamento di tutti i processi biologici implicati nel

mantenimento e nell'anabolismo degli animali. La chetosi può, quindi, essere causa

scatenante di altre affezioni (ipofertilità, aumento di cellule somatiche nel latte,

immunodepressione).

Il momento più critico per la comparsa della malattia nelle lattifere è il periodo post-

partum quando l'appetito è generalmente ridotto e le richieste energetiche molto

elevate. Il fatto diventa grave nelle bovine grasse, che potendo utilizzare le proprie

riserve adipose, avvertono di meno lo stimolo ad alimentarsi. L'insorgenza della

chetosi è incentivata dalla presenza nella dieta di sostanze chetogeniche, come l'acido

butirrico che a livello metabolico dà origine all'acido β-idrossibutirrico; negli insilati

che hanno subito processi fermentativi anomali tale sostanza raggiunge livelli molto

alti. La dismetabolia è influenzata sia dalla carenza di sali minerali e vitamine nella

dieta, in quanto alcune di tali sostanze costituiscono parte integrante di strutture

enzimatiche ed ormonali che intervengono nel metabolismo dei corpi chetonici

stessi, sia dalle tecniche di allevamento come dimostra la maggiore frequenza di

questa patologia in condizioni di stabulazione permanente rispetto agli animali tenuti

al pascolo, considerando che il moto favorisce la combustione dei corpi chetonici

La patologia può essere prevenuta con una corretta alimentazione. Nelle vacche in

asciutta bisogna evitare l'eccessivo ingrassamento, salvo arricchire la razione nelle

ultime due settimane prima del parto per integrare le riserve di glucosio e di

glicogeno che l'animale utilizzerà nella prima fase di lattazione per coprire l'intensa

richiesta energetica; mentre negli animali in lattazione la razione deve essere

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formulata in modo da non superare un contenuto in proteine del 12-14% sulla s.s., da

garantire un contenuto in fibra del 18-20% sulla s. s. e da limitare o escludere insilati

con tenore in acido butirrico superiore all' 1-1 ,5%. Negli ultimi anni si è diffuso, con

risultati positivi, l'utilizzo del glicole propilenico (1,2-propandiolo) miscelato nella

razione unifeed o nell'acqua di bevanda.

Una dismetabolia simile si verifica. nella pecora e va sotto il nome di tossiemia

gravidica o chetosi della pecora o ancora malattia degli agnelli gemelli. Essa è

causata da un bilancio energetico negativo risultante dalle aumentate richieste del

feto o dei feti in rapido accrescimento che si verifica nelle ultime 2-4 settimane pre-

parto. Vengono colpite soprattutto le pecore con più di 1 lattazione ma anche

primipare con gravidanze gemellari. Le cause sono da attribuire all'ingestione di

foraggi scadenti o a una diminuita ingestione volontaria in pecore gravide troppo

grasse. Peraltro, brusche variazioni alimentari, presenza di altre malattie (pedaina,

parassiti intestinali), stress ambientali possono ridurre l'ingestione alimentare e

favorire la tossiemia alla cui insorgenza contribuisce anche la carenza di altri

nutrienti quali colina e biotina. Così come avviene in tutti i ruminanti, le pecore non

sono in grado di regolare le richieste di glucosio del feto e, quindi, devono attingere

dalle riserve corporee in presenza di apporti alimentari. Il glucosio necessario ai

fabbisogni energetici dei tessuti e del feto in buona parte viene sintetizzato o dal

fegato a partire dall'acido propionico o attraverso la neogluconeogenesi a partire dagli

aminoacidi glucogenetici, dal lattato e dal glicerolo oppure deriva dalla digestione

intestinale degli amidi sfuggiti all'attacco ruminale. Quando i precursori del glucosio

e il glucosio derivante dalla digestione intestinale sono insufficienti si verifica

ipoglicemia che porta alla depressione del sistema nervoso centrale.

Nei primi stadi della malattia gli animali presentano ipoglicemia, livelli elevati di

NEFA, iperchetonemia e chetonuria. Nella forma più avanzata e con insufficienza

renale si osserva una riduzione fino al 50% del bicarbonato; i livelli ematici di β-

idrossibutirrato aumentano (> 1 mmol/l), i feti si possono presentare in avanzato stato

di decomposizione; il fegato è ingrossato, pallido, friabile e con superficie di taglio

untuosa (steatosi epatica di vario grado).

Per la prevenzione, le pecore vanno osservate singolarmente nelle ultime settimane di

gravidanza e andrebbero individuate le gravidanze gemellari. Come indice di spia

può essere utilizzato il β-idrossibutirrato e se la sua concentrazione supera i 4,8 mg/dl

(0,8 mmol/l) bisogna aumentare il livello nutritivo.

9.2 Principali disturbi degli equini dovuti all’alimentazione

I disturbi dovuti all'alimentazione sono, nella maggior parte dei casi, dovuti a

degli errori di razionamento.

I disturbi attribuibili all'alimentazione sono numerosi e, talvolta, difficili da

diagnosticare. I più ricorrenti sono la mioglobinuria, l'arrembatura, le coliche: essi

sono molto spesso dovuti ad errori grossolani di razionamento. Le patologie

osteoarticolari sono le più insidiose. Esse sono legate ad errori del razionamento

minerale e/o vitaminico.

L'osteofibrosi è l'affezione più grave e la più comune legata ad un errato

razionamento fosfo-calcico. Essa colpisce i giovani cavalli (puledri di un

anno o più anziani) ma anche gli adulti. In taluni luoghi, l'osso è la sede di

una modificazione chiamata metaplasia fibrosa, che è una sorta di

proliferazione anarchica dei tessuti fibrosi che possono tradursi in un

ispessimento o in una deformazione locale della superficie ossea. L'osso

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diventa inoltre più fragile. Queste lesioni si osservano sia a livello della testa

(ispessimento simmetrico delle ossa della faccia: "testa di ippopotamo"

osservate talvolta negli asini dei mugnai) o, più spesso, a livello degli arti

(soprosso, spavenio, callosità dure in genere, ben conosciute dai cavalieri).

Allorché queste deformazioni risiedono a livello delle articolazioni o delle

guaine tendinee, esse determinano gravi zoppie, permanenti ed intermittenti.

L'osteofibrosi è legata ad una carenza di calcio associata il più delle volte ad un

eccessivo apporto di fosforo. Essa è, dunque, favorita dalle razioni molto ricche in

cereali, l'abuso di pastoni (mashes) a base di crusca, l'utilizzazione di foraggi di

mediocre qualità senza leguminose, una scelta sbagliata nella integrazione minerale.

L'apporto di vitamina D senza correzione in calcio è egualmente nociva. Non bisogna

perdere di vista che non si tratta solamente di assicurare gli apporti minimi di calcio

previsti dalle tabelle degli apporti, ma di mantenere allo stesso tempo un rapporto

Ca/P dell'ordine di 1,5 per "equilibrare", all'occorrenza, l'effetto di un eccessivo

apporto di fosforo.

Il rachitismo si traduce in anomalie dello sviluppo e dell'accrescimento osseo (difetto

di mineralizzazione) e delle deformazioni dello scheletro (ipertrofia delle estremità

ossee) nell'animale in accrescimento. Esso è dovuto ad un apporto difettoso di calcio

e/o fosforo, associato ad una carenza di vitamina D. Di fatto, esso è relativamente

raro nel cavallo in rapporto all'osteofibrosi. Conviene, tuttavia, essere vigili in ciò che

concerne gli apporti di fosforo negli animali in accrescimento, ogni qualvolta i

foraggi utilizzati siano di cattiva qualità o si impieghino alimenti particolarmente

privi di fosforo (per esempio le polpe di barbabietola disidratate).

L'osteomalacia ha le stesse cause del rachitismo, ma interessa le ossa che hanno

portato a termine il loro accrescimento e che sono oggetto di insufficiente

mineralizzazione. Non provoca deformazioni importanti.

Alterazioni dell'appetito e affaticamento eccessivo: l'insufficienza cronica degli

apporti di cloruro di sodio si traduce in una alterazione dell'appetito, nell'ispidità del

crine o nell'apparizione precoce di segni di fatica nello sforzo. L'eccesso di cloruro di

sodio è eccezionale.

Malattia del muscolo bianco: una sola carenza in oligoelementi ha un'importanza

primaria nel cavallo: è la carenza di selenio. Essa è responsabile della malattia del

muscolo bianco che può essere osservata molto precocemente, qualche settimana

dopo la nascita o sugli animali adulti. È legata all'apparizione di una degenerazione

muscolare di colore biancastro (da cui deriva il nome corrente della malattia) a livello

dei muscoli scheletrici o del cuore, provocando delle difficoltà motorie più o meno

importanti, od una morte violenta per insufficienza cardiaca. Nei cavalli da carne

adulti, la carenza in selenio favorisce ugualmente le lesioni fibrolipomatose che

rappresentano una causa importante del sequestro al macello. La carenza in selenio è

legata ad una deficienza dei foraggi stessi, che a sua volta dipende da una carenza del

terreno. Si può rimediare con l'integrazione minerale o per iniezione di composti a

base di selenio, alla giumenta in gestazione o in lattazione. Questi apporti devono

essere fatti in modo molto rigoroso, perché l'eccesso di selenio può provocare una

gravissima intossicazione. L'apporto di vitamina E associata a selenio ha un effetto

coadiuvante.

Equilibrio concernente gli oligoelementi: le carenze sono molto rare nel cavallo

rispetto ai ruminanti. Una carenza in zinco può, tuttavia, essere osservata

traducendosi in modificazioni cutanee (caduta dei peli, ispessimento della pelle,

eczema). Il gozzo del puledro può apparire ugualmente allorché le giumente siano

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carenti in iodio.

Gli eccessi di oligoelementi sono talvolta da temere. Il selenio, negli alimenti è molto

tossico alla quota di circa 5 mg/kg nella razione totale. Esso provoca la caduta dei

crini, delle deformazioni e successivamente la caduta degli zoccoli ed infine la

paralisi più conosciuta col nome di "malattia alcalina". Il fluoro è tossico oltre la

quota di 50 mg/kg di razione alimentare. Il suo eccesso provoca rigidità nell'andatura,

zoppie, deformazioni ossee e lesioni alla dentizione.

Comportamenti alimentari particolari

La coprofagìa è molto frequente e naturale nel giovane puledro dopo la nascita.

Compare all'età di circa un mese, nel momento in cui l'attività microbica

dell'intestino non è ancora sufficientemente sviluppata. Essa è eccezionale nell'adulto

e sovente considerata come una turba del comportamento dovuta alla noia, da una

deviazione del gusto o dalla distribuzione di un regime ricco in alimenti concentrati.

Il masticamento del legno: in scuderia il cavallo mastica frequentemente il legno del

truogolo o del battifianco. I regimi molto ricchi in alimenti concentrati favoriscono

questo comportamento particolare. La distribuzione di paglia (segnatamente in

lettiera) può limitarlo.

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CAP. X. ALIMENTI PER IL BESTIAME

10.1. Classificazione degli alimenti

Gli alimenti per il bestiame sono distinti in foraggi, prodotti complementari dei

foraggi e mangimi concentrati. I foraggi a loro volta, si suddividono in foraggi verdi,

fieni e insilati e possono essere costituiti da leguminose, graminacee o essere polifiti.

Classificazione degli alimenti per il bestiame

Foraggi:

leguminose, graminacee,

polifiti (35 - 90 UF/q)

Foraggi verdi (11-20 UF/q; SS = 15-22%

Fieni (35 - 55 UF/q; SS = 87%)

Insilati

Prodotti complementari

dei foraggi

25 - 50 UF/q

Cereali: paglie, stocchi,

piante legnose: foglie, sarmenti, frasche

residui: vinificazione, oleifici, trebbiatura

Mangimi concentrati

> 60 UF/q

media = 65 - 120 UF/q

semi di piante erbacee e legnose

trasformazione di prodotti vegetali: cereali, panelli,

residui zuccherificio

trasformazione prodotti animali: caseificio, carni, pesce

I foraggi verdi costituiscono la base alimentare degli erbivori, soprattutto, nei sistemi

d’allevamento brado e semistallino. Il loro valore nutritivo è compreso tra 11 e 20

U.F./q e sono molto acquosi.

10.1.1. Fattori che influenzano la composizione e il valore nutritivo dei foraggi

La loro composizione chimica e valore nutritivo variano in funzione di diversi fattori:

- lo stadio di vegetazione, in quanto le erbe giovani rispetto a quelle mature

contengono maggiori quantità di proteine (20-25%) e vitamine e meno fibra grezza.

Gli elementi minerali (Ca, P) ed il valore nutritivo decrescono con l'avanzare dello

stadio vegetativo. Quando le piante crescono, aumenta la loro necessità di tessuti

strutturali e, quindi, di carboidrati strutturali (cellulosa ed emicellulosa) e di lignina.

La digeribilità della sostanza organica può arrivare fino all’85 % nell’erba giovane da

pascolo in primavera e ridursi fino al 50% nell’erba del periodo invernale. Anche se

c’è una correlazione tra digeribilità e stadio vegetativo, nel senso che essa diminuisce

nelle piante mature, in primavera vi è un periodo di circa un mese durante il quale la

digeribilità dell’erba rimane pressoché costante. La fine di questo periodo, in alcune

specie di piante, coincide con l’inizio della spigatura; in seguito, la digeribilità della

sostanza organica può diminuire rapidamente. La digeribilità è influenzata dal

rapporto foglia/steli dell’erba: nell’erba molto giovane lo stelo è più digeribile delle

foglie, ma mentre col progredire del ciclo vegetativo la digeribilità delle foglie

diminuisce molto lentamente, quella dello stelo si riduce molto rapidamente. La

diminuzione della digeribilità, con il crescere della pianta, influenza anche i valori in

energia netta i quali sono ridotti anche dall’alto contenuto in cellulosio; infatti,

questo polisaccaride favorisce a livello ruminale, un’elevata produzione di acido

acetico, la cui utilizzazione per la produzione dei grassi di deposito avviene con

rendimento modesto.

- fattori ambientali, le condizioni ideali per la produzione di un buon foraggio

occorrono con clima temperato e buona distribuzione delle piogge. Mentre la luce

arricchisce i foraggi di carboidrati, l'acqua ne aumenta il contenuto in P, ma ne

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diminuisce quello in calcio. La differenza nella composizione tra le erbe delle zone

temperate e quelle tropicali, oltre che dal clima, dipende anche dalla categoria di

piante che crescono in questi due ambienti. Le specie di erbe che vivono nelle zone

temperate appartengono alla categoria di piante dette in C3 nelle quali un composto a

tre atomi di carbonio, l’acido fosfoglicerico, è un importante intermedio nella

fissazione fotosintetica della CO2. Invece, nelle zone tropicali la maggior parte delle

erbe appartengono alla categoria detta in C4, per la via fotosintetica che le

caratterizza; in esse, infatti, la CO2 è inizialmente fissata in una reazione nella quale

si forma un composto a 4 atomi di carbonio, l’ossalacetato. I bassi tenori proteici,

spesso trovati nelle erbe delle zone tropicali, rappresentano una caratteristica delle

piante in C4 che è associata alla capacità di sopravvivere in condizioni difficili per

quanto riguarda la fertilità del suolo. Inoltre, nelle erbe delle zone tropicali il

carboidrato maggiormente rappresentato è l’amido mentre in quelle delle zone

temperate sono accumulati soprattutto fruttosani.

- terreni e concimazioni: le caratteristiche del terreno possono influenzare,

soprattutto, la composizione minerale dei foraggi. L’acidità del terreno condiziona

l’assorbimento di molti microelementi da parte della pianta, ad esempio, il

manganese e il cobalto sono poco assorbiti dalle piante coltivate in terreni calcarei e,

mentre le piante cresciute su terreni acidi sono povere in molibideno, quelle prodotte

in terreni calcarei ne sono talmente ricche da causare sindromi patologiche agli

animali che le utilizzano.

Concimazioni adeguate influiscono notevolmente sul contenuto minerale delle piante

e in particolare le concimazioni azotate favoriscono l’accumulo di proteina grezza

dell’erba ed influenzano il contenuto in nitrati e amidi. I fertilizzanti, anche

indirettamente, possono influire sul valore nutritivo dell’erba dei prati,

modificandone la composizione botanica. Così, ad esempio, le leguminose non

crescono su terreni carenti di calcio ma abbondanti apporti di azoto al terreno

stimolano la crescita dell’erba, e nello stesso tempo deprimono lo sviluppo del

trifoglio

- epoca del taglio, lo sfalcio dovrebbe essere effettuato all'inizio della fioritura

quando si ha un buon equilibrio tra valore nutritivo complessivo per ettaro e

contenuto in proteine digeribili, calcio, fosforo e vitamine.

10.1.2. Foraggi di leguminose

La famiglia delle leguminose è rappresentata da circa 18.000 specie che

hanno la caratteristica di crescere in simbiosi con batteri fissatori di azoto e di essere

molto resistenti alla siccità. Fra esse ricordiamo soprattutto l’erba medica e i trifogli.

Molte leguminose quali il trifoglio sotterraneo, il trifoglio pratense e l’erba medica,

contengono composti ad attività estrogena. Gli estrogeni presenti nei trifogli sono

soprattutto gli isoflavoni mentre, nella medica vi è generalmente il cumestrolo. Gli

isoflavoni e i cumestroli che si trovano in natura hanno un’attività estrogena

relativamente modesta, ma essa può aumentare a seguito del metabolismo ruminale.

Il trifoglio bianco normalmente non contiene attività estrogena, ma se infestate da

funghi possono produrre cumestrolo in notevole quantità. Il consumo di erbe ricche

di estrogeni nelle pecore può provocare infertilità grave e mortalità negli agnelli dopo

la nascita. La sterilità può durare per lunghi periodi anche dopo che le pecore sono

state tolte dal pascolo ricco di estrogeni. La causa principale di questa infertilità è la

mancata fecondazione, associata ad una scarsa penetrazione dello sperma

nell’ovidutto. Un’infertilità temporanea può registrarsi nelle pecore che si alimentano

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con erbe da pascolo contenenti estrogeni nel periodo degli accoppiamenti. I bovini

non sembrano subire conseguenze così gravi come quelli constatabili negli ovini.

Erba medica: ha un elevato contenuto in proteina grezza (15-26% su s.s.), calcio (14

g), magnesio, carotene e vitamine del gruppo B, ma il contenuto di fosforo è piuttosto

scarso (3-3,5 g/kg s.s.). Il valore nutritivo dell'erba fresca è, in media, di 14-16

U.F./q. Viene adoperata soprattutto per gli animali in accrescimento e per le lattifere.

L'erba degli sfalci precoci e, soprattutto se bagnata di rugiada, può causare il

meteorismo del rumine, dovuto ad una saponina che, impedisce l'eliminazione dei

gas di fermentazione.

Trifoglio pratense, per composizione e caratteristiche nutritive il foraggio verde del

trifoglio pratense o violetto è molto vicino a quello della medica. Il contenuto

proteico si aggira intorno al 16-20%, mentre, il valore nutritivo è di 12-15 U.F. /q.

Può causare fenomeni di meteorismo, ma in modo meno preoccupante rispetto alla

medica.

Trifoglio ladino, è molto consigliato soprattutto per le lattifere ed il giovane

bestiame. Fornisce circa 13-15 U.F./q.

Altre leguminose degne di nota sono la lupinella e la sulla.

10.1.3. Foraggi di crucifere

In campo agricolo assumono molta importanza i cavoli da foraggio, la colza,

le rape e il ravizzone; alcune di esse sono coltivate soprattutto per sfruttarne la radice.

I cavoli da foraggio sono coltivati in aree temperate e forniscono foraggio verde

durante l’inverno, ma in aree più siccitose possono essere usati come supplemento

del pascolo estivo. Essi hanno un basso contenuto in sostanza secca (circa 14%) che è

ricca di proteine (15%), di carboidrati solubili (20-25%) e di calcio (1-2%);

generalmente sono molto digeribili ad eccezione degli steli legnosi.

Il cavolo cappuccio è coltivato sia per il consumo umano sia per l’alimentazione

degli animali. Le foglie sono imbricate le une sulle altre formando una palla, ha una

bassa proporzione di stelo e pertanto è poco fibroso rispetto ai cavoli da foraggio, alla

colza e al ravizzone.

Il valore nutritivo della colza e del ravizzone è similare a quello dei cavoli.

Tutte le crucifere coltivate sia per il foraggio, sia per le radici e sia per la produzione

di olio, contengono sostanze gozzigene. In quelle coltivate come foraggio, queste

sostanze sono del tipo tiocianato ed interferiscono sulla captazione di iodio da parte

della ghiandola tiroide; i loro effetti possono essere neutralizzati aumentando la

quantità di iodio nella dieta. In tutti gli animali che consumano questi foraggi si può

sviluppare un gozzo più o meno voluminoso, ma gli effetti più dannosi si osservano

in agnelli nati da pecore che sono state alimentate con crucifere durante la gestazione

i quali possono nascere morti o deformi. Nei bovini è stato ipotizzato, ma non

confermato, che le femmine che consumano cavoli da foraggio possono eliminare

con il latte una certa quantità di principi gozzigeni tale da provocare il gozzo nei

vitelli che allattano. Nei ruminanti, le crucifere possono causare un’anemia emolitica

ed in casi estremi il contenuto ematico di emoglobina può ridursi ad un terzo del suo

valore normale mentre, gli eritrociti sono distrutti così rapidamente che l’emoglobina

appare nelle urine (emoglobinuria). Il fatto è riconducibile alla presenza nelle

brassicacee di un aminoacido insolito, l’S-metilcisteina sulfossido, che nel rumine è

ridotto a dimetil disolfuro che danneggia i globuli rossi. Il foraggio verde di crucifere

contiene 12-20 g/kg SS di S-metilcisteina sulfossido e per non incorrere nei danni

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che esso può provocare occorre evitare che questi foraggi costituiscano più di un

terzo della sostanza secca totale della razione.

10.1.4. Foraggi dei prati polifiti.

La composizione del prato naturale è molto varia ed è in relazione alle

condizioni pedo-climatiche. Fra le specie più rappresentate ricordiamo: graminacee,

leguminose, composite, ombrellifere, rosacee, labiate, crucifere, ecc..

Il foraggio verde dei prati polifiti asciutti, falciati entro il periodo della fioritura delle

graminacee più diffuse, in media contiene: sostanza secca 22-27%, proteina

digeribile 2-2,5%, valore nutritivo 14-18 U.F. /q. La composizione della SS dell’erba

da pascolo è molto variabile: il contenuto in proteine grezze può variare da 30 g/kg

nelle erbe molto mature fino a 250-300g/kg nelle erbe molto giovani e cresciute in

terreni ben concimati. Il tenore in fibra grezza in genere è inversamente

proporzionale a quello delle proteine e può variare da 200 g/kg a 400 g/kg nelle erbe

molto mature. Se il raccolto è destinato alla conservazione, diviene molto importante

il contenuto in acqua il quale è molto alto nei primi stadi vegetativi, 75-85%, per poi

diminuire intorno al 65% nelle piante mature. Esso, oltre che dallo stadio vegetativo

è influenzato dalle condizioni climatiche. Fra i carboidrati idrosolubili dei foraggi

ricordiamo i fruttosani e gli zuccheri (glucosio, fruttosio, saccarosio, raffinosio,

stachiosio) la cui concentrazione nella S.S. oscilla dal 4% in alcune varietà di erba

mazzolina al 30% in alcune varietà di Lolium italicum; la concentrazione di

carboidrati negli steli a volte può essere anche 3-4 volte superiore a quella delle

foglie e, generalmente, è massima poco prima della fioritura. Il contenuto in cellulosa

ed emicellulose è rispettivamente del 20-30 e 10-30% sulla S.S., e così come per la

lignina, esso aumenta con l’invecchiare della pianta. I principali composti azotati dei

foraggi sono rappresentati dalle proteine, per le quali si assiste ad una diminuzione

del loro contenuto con l’avanzare del ciclo vegetativo ma non ad una variazione delle

proporzioni dei singoli aminoacidi. Anche tra le varie specie di erba, la composizione

in aminoacidi delle proteine non è molto variabile e ciò in quanto circa il 50% delle

proteine cellulari è rappresentato da un singolo enzima, la ribuloso 1,5-difosfato

carbossilasi, che gioca un ruolo importante nella fissazione fotosintetica dell’anidride

carbonica. Inoltre, le proteine dell’erba sono ricche di arginina e contengono elevati

quantitativi di acido glutammico e lisina e hanno un valore biologico per la crescita

più elevato rispetto a quelle dei semi. Fra gli aminoacidi delle proteine dell’erba

limitanti per la crescita ricordiamo l’isoleucina e soprattutto la metionina. L’azoto

non proteico varia nell’erba con lo stadio fisiologico ed è più elevato se le condizioni

di crescita della pianta sono favorevoli. I principali componenti della frazione di

azotato non proteico sono rappresentati da aminoacidi e amidi, come la glutamina e

l’asparagina, che sono interessati nella sintesi proteica. Vi può essere anche la

presenza di nitrati i quali possono avere effetti tossici sugli animali ruminanti; ciò

perché nel rumine i nitrati sono ridotti a nitriti, i quali ossidano il ferro ferroso

dell’emoglobina portandolo allo stato ferrico e quindi trasformano l’emoglobina in

metaemoglobina, che è incapace di combinarsi con l’ossigeno per trasportarlo ai vari

tessuti del corpo. Gli animali in questi casi presentano tremori, barcollamento,

respiro frequente e affannoso e in alcuni casi si può avere la morte dell’animale

stesso. I sintomi tossici si verificano in animali che ingeriscono erbe con un

contenuto in N nitrico di 0,7 g/kg S.S., comunque, la concentrazione letale è più

elevata (> 2,2 g/kg S.S.). I nitrati sono più pericolosi se ingeriti improvvisamente e

velocemente e i loro effetti dannosi sono attenuati dalla presenza dei carboidrati

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solubili nei foraggi. Il contenuto dei nitrati nelle erbe varia con la specie e la varietà

di queste e con le concimazioni e, generalmente, è proporzionale al contenuto

proteico.

Il contenuto lipidico delle erbe, determinato come estratto etereo, è relativamente

basso e generalmente non supera i 60 g /kg S.S.. I componenti di questa frazione

comprendono i trigliceridi, i glicolipidi, le cere, i fosfolipidi e gli steroli. I trigliceridi

si trovano solo in piccola quantità, il maggior componente è rappresentato dai

galattolipidi che costituiscono il 60% dei lipidi totali presenti. L’acido linolenico è il

principale acido grasso il quale rappresenta il 60-75% del totale degli acidi grassi,

seguono l’acido linoleico e l’acido palmitico.

Il contenuto minerale delle erbe da pascolo è molto variabile e dipende dalla specie,

dallo stadio vegetativo, dalle caratteristiche del suolo, dalla tecnica colturale e dai

fertilizzanti impiegati.

I foraggi verdi sono molto ricchi in caroteni, i precursori della vitamina A i quali,

nella S.S. di erba molto giovane, possono essere presenti in quantità di 550 mg/kg;

un’erba di questo tipo copre cento volte il fabbisogno di una vacca al pascolo che ne

mangi in normali quantità. Le erbe in crescita contengono solo limitate quantità di

vitamina D ma contengono i relativi precursori; probabilmente il maggior contenuto

in vitamina D nelle erbe mature rispetto a quelle giovani è dovuto alla presenza di

foglie morte nelle quali la vitamina D2 può prodursi per irradiazione dell’ergosterolo.

La maggior parte dei foraggi è ricca in vitamina E e di molte vitamine del gruppo B,

soprattutto riboflavina.

10.1.5. Foraggi di erbai

Gli erbai sono colture monofite o consociate di piante foraggiere a breve ciclo

vegetativo, che forniscono un solo taglio consumato allo stato verde o destinato

all'insilamento. Possono essere colture annuali o più spesso intercalate fra due colture

principali. Fra essi ricordiamo:

- Erbaio di avena. Si sfalcia in primavera al momento o poco prima della fioritura; è

appetito dagli animali e molto indicato per gli equini, bovini da carne e da lavoro.

Contiene il 18-21% di sostanza secca, 1,3-2% di protidi digeribili ed ha un valore

nutritivo di 13-15 U.F./q.

- Erbaio di orzo. Si utilizza tra la fine dell'inverno e l'inizio della primavera; le

caratteristiche nutritive sono quasi uguali a quelle dell'erbaio di avena.

- Mais da foraggio. L'erbaio di mais è caratterizzato da un’elevata percentuale di

estrattivi inazotati (50-64%), da un basso contenuto in proteina grezza (8-10%) e da

un tenore di fibra compreso tra il 28 e il 24%, rispettivamente nel foraggio verde in

fioritura e nella pianta a maturazione cerosa delle cariossidi. Il foraggio di mais può

essere insilato facilmente in quanto il contenuto zuccherino è elevato (3-6%).

Fra gli erbai di leguminose ricordiamo: favetta da foraggio, veccia, trifoglio

(incarnato e alessandrino).

10.1.6. Radici e tuberi

Barbabietole da foraggio. Contengono il 12% di sostanza secca, 10% di

estrattivi inazotati, 1% di fibra e 12 U.F./q. Sono indicate per gli animali da ingrasso

e, così come per le rape, se impiegate in quantità eccessive, causano diarrea.

- Patate. Essendo molto appetibili e ricche in amido sono indicate per gli animali

all'ingrasso. Mentre ai bovini possono essere somministrate crude, per i suini è

preferibile cuocerle.

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Nell'alimentazione animale sono impiegate anche: rape, carote, barbabietole da

zucchero, patate dolci, ecc.

10.2. Pascoli

Il foraggio verde, oltre che essere somministrato agli animali, può essere da

questi pascolato direttamente, il che consente una riduzione dei costi alimentari e la

ginnastica funzionale per gli animali.

Una moderna tecnica di pascolamento deve mirare a:

- utilizzare l'erba ad uno stadio vegetativo giovanile, quando è più digeribile,

appetibile, ricca di proteine ed ha un più elevato contenuto in U.F.;

- prolungamento della stagione di pascolo e maggiore uniformità nella produzione

del cotico erboso;

- mantenimento delle buone caratteristiche della flora e della fertilità del terreno,

difesa dalla degradazione;

- aumento sensibile delle produzioni zootecniche ottenibili dalle unità di superficie

pascolative.

Questi obiettivi possono essere

realizzati mediante l’adozione dei

seguenti interventi tecnici e pratiche di

buon governo dei pascoli:

- suddivisione degli appezzamenti

mediante recinti elettrici mobili in

parcelle di estensione tale da fornire 2-

3 giorni di pascolo;

- concimazione iniziale del prato con

elementi azotati, fosfatici e potassici;

- suddivisione del bestiame in due o

più gruppi sufficientemente omogenei

rispetto ai bisogni nutritivi che saranno fatti pascolare successivamente in ciascuna

parcella;

- immissione di un forte carico di bestiame, in maniera da utilizzare tutto il foraggio

disponibile nel giro di 2-3 giorni;

- disponibilità di un numero di parcelle tale da consentire, con la rotazione del

pascolo, che ognuna goda di un periodo di riposo sufficiente a permettere la crescita

dell'erba fino all'altezza ottimale di circa 15 cm;

- esecuzione, subito dopo terminato il pascolo di

ogni parcella, di un complesso di operazioni

colturali atte a favorire la ripresa vegetativa e a

mantenere bene il cotico erboso (sfalcio delle

infestanti, spargimento delle deiezioni,

irrigazione, fertilizzazione). In queste condizioni

e in presenza di prati-pascoli di media

produttività il carico di bestiame per ettaro e per

due giorni di pascolamento si aggira intorno ai

150 q, cioè 20-25 capi grossi/ettaro/turno. Va tenuto presente che ogni capo grosso

(bovini) necessita di circa 40-55 kg di erba fresca al giorno.

Le capacità di carico dei pascoli vanno legate a diversi fattori:

a) fattori vegetali, si intendono quegli elementi di carattere quantitativo, come la

superficie dei terreni pascolativi e quantitativo, come la produttività della cotica

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erbosa, il valore alimentare e l’appetibilità dell’erba, che sono riferiti alla produzione

vegetale;

b) fattori climatici: influenzano la distribuzione della produzione foraggiera nel corso

dell’anno promuovendo o limitando i ritmi di accrescimento dell’erba. Ad esempio,

nell’arco alpino, il periodo di pascolo è limitato dalla presenza delle masse nevose

per un considerevole periodo dell’anno e, quindi, può considerarsi concentrato nella

stagione estiva. In questo intervallo si riscontra, inoltre la coincidenza del massimo di

piovosità annuale e quindi la produzione vegetale si mantiene pressoché uniforme per

tutta la durata dell’alpeggio (giugno-settembre). Nelle regioni centrali e meridionali

dell’Italia, invece, la produzione vegetale risente notevolmente del differente

andamento stagionale. La produzione rispecchia anche qui la pluviometria delle

stazioni meteorologiche con un massimo di produzione nel periodo primaverile, una

parziale ripresa produttiva in autunno, dopo il drastico calo del periodo estivo

corrispondente alla fase di maggior indisponibilità idrica.

c) fattori fisici: sono compresi gli elementi geo-

pedologici e quelli topografici. Essi sono

individuati con uno studio comparato del suolo,

considerato sia come matrice chimico-fisica, che

come parametro di variabilità geo-morfologica.

Gli elementi altitudinali di pendenza e di

esposizione di un terreno, insieme alle sue

caratteristiche pedologiche, giocano un ruolo

importante nella determinazione della quantità e

della qualità dei foraggi prodotti, non solo, ma altrettanta importanza assumono nei

riguardi della conservazione dell’assetto naturale dei territori montani. Un esempio di

questa rilevanza si ha nelle zone a marcata pendenza dove il carico di bestiame

dovrebbe essere sotto dimensionato a priori per limitare i danni prodotti dal calpestio.

Lo stesso principio vale, in analogia, per le zone maggiormente esposte a qualsiasi

forma di degrado dove il danno degli animali è amplificato dalla fragilità delle

cotiche;

d) fattori zootecnici: la determinazione

del carico dei pascoli deve tenere conto

in primo luogo, della o delle specie

animali allevate con particolare

riferimento al comportamento alimentare

specifico. Molto importante è la

valutazione dei parametri, come ad

esempio, il coefficiente e il livello

d’ingestione, il modo d’assunzione

dell’erba mentre, successivamente,

nell’ambito della specie vanno

individuati i fabbisogni alimentari, tenendo conto della razza, del sesso, della

categoria e del livello produttivo. Inoltre, non bisogna trascurare la gestione pastorale

con l’analisi delle tecniche di pascolamento e delle modalità d’esercizio quali la

natura e la distribuzione dei punti d’acqua, dei ricoveri e delle recinzioni e la

disponibilità delle scorte alimentari per i periodi di maltempo.

Abbeveratoio

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10.2.1. Carico di bestiame

Per realizzare un corretto dimensionamento del carico di bestiame pascolante

si può usare:

- il metodo tradizionale, su basi essenzialmente empiriche:

a) nelle zone alpine e prealpine, in genere, si fa riferimento ai bovini adulti (capo

grosso) e per le altre specie si ricorre a delle tabelle d’equivalenze:

1,25 vacche in asciutta = 5 pecore di grossa taglia

1 manza di due anni = 6 pecore di piccola

taglia

2 manzette di 1-2 anni = 0,3 cavalli adulti

4 vitelli < 1 anno = 1 puledro

Il carico di bestiame varia in ragione inversa alla produttività dei pascoli, così nelle

zone dove la produzione di fieno è di 4-5 q/Ha, il numero di bovini adulti è pari a

0,5/Ha mentre, nelle zone prealpine dove la produzione è di 8-10 q/ha il numero di

capi grosso consentiti per ettaro è di circa 0,7-0,8.

b) nelle zone appenniniche, le produzioni foraggiere risentono maggiormente

dell’andamento climatico stagionale e delle differenti tecniche pastorali messe in

atto. In queste zone, la specie di riferimento per la determinazione del carico è

quell’ovina e il carico medio per ettaro è generalmente indicato in 5 ovini adulti,

Inoltre, ci si riferisce alle seguenti equivalenze:

1 pecora da late = 1,25 pecore adulte

1 cavallo o un mulo = 6 capi ovini

1 asino = 4 capi ovini

1 bovino adulto = 8 capi ovini

1 capra = 3 capi ovini

1 maiale = 3 capi ovini

In queste zone, un pascolo che fornisce 5 qli/Ha di fieno consente un carico medio di

2 pecore/Ha per un periodo di 120 giorni, mentre, una produzione di 12 qli/Ha può

sopportare un carico maggiore di 6 pecore/Ha.

- metodi moderni: i metodi per la determinazione del carico dei pascoli tengono

generalmente conto della produttività della superficie di pascolo e dei fabbisogni

delle specie animali allevate durante tutto il periodo di pascolamento. La formula

applicata allo scopo è: C = (P x S) : (F x D) dove:

C = n. dei capi grossi di 500 kg di peso

P = produzione del pascolo espressa in U.F./Ha o in kg sostanza secca/Ha

S = superficie di pascolo in ettari

F = fabbisogno nutritivo giornaliero per capo

D = durata del pascolamento in giorni.

Più recentemente, Talamucci e collaboratori (1980) ha proposto la seguente formula:

C = (P x S) : (F x D) x Ka x Kp x Ke dove: Ka = coefficiente di valore alimentare;

Kp = coefficiente di pendenza del terreno; Ke = coefficiente d’esposizione del

terreno.

Questa formula consente di valutare l’influenza che i fattori ambientali possono

esercitare sul calcolo generale del carico. Per stabilire i valori di tali indici si fa

riferimento alle varie situazioni, ricercando di volta in volta tutti i parametri che

consentono di attribuire giudizi quantitativi. Il coefficiente Ka è calcolato mediante

piccoli inventari floristici, compiuti su aree di 2-3 m2, finalizzati a stabilire

l’incidenza che le specie vegetali presenti hanno sul totale della produzione

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foraggiera; a queste specie sono poi attribuiti i rispettivi valori alimentari (valori

pastorali o foraggieri) secondo la classificazione di Gerola e Gerola (1955). Il

coefficiente Kp, si ottiene dividendo il terreno pascolato in 3 classi alle quali è

assegnato un dato valore: 1,0 per pendenza compresa tra 0 e 15%; 0,9 per pendenza

compresa tra 16 e 25%; 0,8 per pendenza compresa tra 26 e 35%.

Anche il coefficiente Ke, è calcolato mediante il confronto con tre classi di

riferimento utilizzando i seguenti valori: 1,00 per esposizioni comprese tra NO e NE;

0,90 per esposizioni comprese tra SE e SO; 0,95 per esposizioni intermedie.

Questo metodo è risultato valido soprattutto

nelle zone alpine e prealpine, mentre, in altre

zone della penisola dovrebbe essere

affiancato da altri indici maggiormente

differenziati, soprattutto quelli che fanno

riferimento alla stima del valore alimentare

medio dei foraggi. Il Consiglio Nazionale

delle Ricerche (CNR) ha proposto un modello

di pascolamento nelle malghe e negli alpeggi

che si articola attraverso l’esame di tre

sottoinsiemi espressi da altrettanti parametri, contenuti in un’equazione detta della

<<produttività utile del cotico con il pascolamento>>:

a) il cotico pascolato ha la funzione di descrivere gli elementi qualitativi

(composizione del cotico) e quantitativi (produttività) dell’alimentazione del

bestiame, al pascolo. Per valutarlo con il parametro si fa riferimento alla

produzione potenziale del cotico ed ad indici tabulati descriventi il tasso

d’infestazione, il metodo di pascolamento, le cure colturali effettuate, le migliorie

apportate;

b) la spazio di pascolamento descritto dal parametro , esprime la tipologia della

superficie sottoposta ad alpeggio con riferimento al cotico, alla capacità d’utilizzo, al

tipo di pascolamento, alle strutture di gestione, alla presenza di punti d’abbeverata;

c) il periodo di pascolamento comprende gli elementi temporali legati all’uso del

pascolo durante il periodo di monticazione; il parametro esprime, quindi, le

modalità secondo le quali il fattore temporale può influenzare l’utilizzo pabulare del

cotico da parte del bestiame.

La determinazione di questi tre parametri serve ad esprimere l’equazione della

produttività utile del cotico Y = . ; dove, y rappresenta l’alimentazione

disponibile per il bestiame al pascolo, valutata in tonnellate di fieno/anno (Cera e

coll., 1981). In alcuni studi condotti in Val Rendena, finalizzati all’elaborazione di

proposte metodologiche per la pianificazione dei pascoli alpini (Bezzi e coll., 1978),

la stima della produttività è stata eseguita valutando in numerose aree campione la

quantità di foraggio prodotto ed il suo tenore analitico in sostanze nutritive grezze ed

in sali minerali. Il valore nutritivo dei foraggi ottenuto da analisi chimiche, è stato

espresso in unità foraggiere (UF), unità amido (UA) ed in unità foraggere latte

(UFL). Queste stime possono essere ritenute valide per il calcolo del valore nutritivo

dei foraggi di buona qualità ovvero non, o limitatamente, infestati da piante tossiche

o poco appetibili. Quando, invece, ci si trova in presenza di foraggi scadenti a causa

di pascoli aventi scarso valore nutritivo e composti da una % significativa di piante

non appetite dal bestiame, si ritiene più utile l’applicazione di metodi non basati sulla

determinazione diretta del valore nutritivo ma sull’applicazione d’analisi di tipo

floristico-biologico che conducono al medesimo risultato. L’applicazione di questo

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metodo indiretto prevede per ogni specie l’attribuzione pabulare di valori, gli indici

di bontà, di Stachlin, compresi fra 100 e 300 e variabili secondo la specie, lo stato

fisiologico, il percentuale presente sul totale. Quando si perviene alla valutazione

nutritiva dei foraggi utilizzando questi indici, si determina il cosiddetto <<valore

pastorale>> (Bezzi e coll., 1978). Il valore pastorale può risultare utile quando è

necessario correggere il valore nutritivo, espresso in UF, di pascoli invasi da

infestanti. Ad esempio, foraggio a dominanza di Deschampsia caespitosa, specie non

appetita dal bestiame, può fornire dei valori nutritivi pari a 50 UF/q di SS, ma avere

valore nutritivo nullo per il bestiame. Il valore pastorale appare di notevole utilità

anche come parametro di confronto tra pascoli il cui foraggio non possiede alcuna

valutazione chimica e pascoli di cui invece si conosce il valore nutritivo espresso in

UF. In questi casi si ottengono delle UF denominate UF pastorali (UFP) che hanno il

merito di integrare gli aspetti chimici e naturalistici dei foraggi presi in esame, dato

che forniscono anche il loro livello d’appetibilità al di là dei semplici dati forniti

dalle analisi chimiche. Il calcolo del carico di bestiame, secondo questo metodo,

prevede la conoscenza dei fabbisogni nutritivi del bestiame oltre che della

produttività dei vari tipi di pascolo espressa in UFP.

La necessità dei metodi per la valutazione delle

risorse pascolative che non siano basati

esclusivamente su dati produttivi, peraltro di

difficile determinazione, ma anche

sull’effettivo consumo foraggiero da parte del

bestiame e su analisi floristiche, risulta molto

sentita sia nelle regioni a carattere più

marcatamente mediterraneo della nostra

penisola (Rubino e coll., 1983), sia nel

territorio francese (Dorée e coll., 1979), dove

queste metodologie sono di rilevante importanza. All’Istituto Nazionale Francese per

le Ricerche Agronomiche (INRA) la produttività foraggiera degli alpeggi è calcolata

indirettamente per mezzo di un sistema rivelatore, rappresentato dalla vegetazione;

sono esclusi, infatti, i sistemi classici, basati sulla misura della quantità di erba

prodotta vista l’impossibilità di distinguere, con questi metodi, l’apporto percentuale

delle specie pabulari sulla biomassa vegetale complessiva. Uno di questi metodi

utilizzati per la stima della produzione foraggera (Dorée e coll., 1979) e del carico di

bestiame, può essere riassunto in due frasi:

a) elaborazione cartografica del territorio di pascolo in

zone omogenee;

b) valutazione del livello produttivo di ciascuna zona

di pascolo dell’intero alpeggio.

Viene effettuato un campionamento della vegetazione

al fine di individuare le diverse <<facies ecologiche>>

componenti il pascolo; all’interno di ciascuna di esse, la produttività foraggera si

valuta mediante il calcolo del valore pastorale, quindi si estendono i risultati ottenuti

alla produttività totale dell’alpeggio ed alla sua capacità di carico. Con questo

metodo, valutando i carichi effettivi in rapporto ai carichi stimati, si può determinare

il coefficiente di sfruttamento dei pascoli e si può stabilire un calendario di

pascolamento adeguato allo stadio di sviluppo ottimale della vegetazione sulla scorta

delle informazioni ricavate dalle produzioni di ciascuna particella di pascolo.

Recinto fisso in legno

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10.2.2. Tecniche di pascolamento:

Le tecniche di pascolamento possono essere considerate come l’espressione

del livello organizzativo raggiunte dalle imprese pastorali per utilizzare le risorse

foraggiere disponibili in un determinato ambiente. La scelta tecnica degli allevatori

può essere influenzata da numerosi fattori, alcuni attinenti alle condizioni sociali e

culturali, altri riguardanti la struttura fondiaria, la natura topografica e geopedologica

del terreno, la qualità dei pascoli, ecc..Man mano che si passa dal sistema

d’allevamento a carattere estensivo, o sistema pastorale puro, ai sistemi

d’allevamento semiestensivi e intensivi, sono messe in atto tecniche di pascolamento,

sempre più specializzate che consentono, unitamente ad altri interventi agronomici,

una migliore utilizzazione dei pascoli e un incremento delle produzioni animali. Con

la razionalizzazione del sistema di pascolamento si tende, infatti, a:

- prolungare la stagione di pascolo;

- regolarizzare la disponibilità d’erba, in modo da superare quei contrasti di natura

climatica che non consentono sempre di soddisfare le esigenze nutritive degli

animali;

- incrementare il carico d’animali per unità di superficie pascolativa;

- migliorare le condizioni del cotico;

- prevenire le più comuni malattie degli animali al pascolo, parassitosi in modo

particolare.

Le tecniche di pascolamento più note sono:

a) pascolo continuato: è una forma di pascolo incontrollato, con ampie superfici

disponibili per il bestiame. Gli animali soggiornano nell’area di pascolo finché ne

traggono alimenti; l’intervento dell’uomo è limitato così come limitate sono le

attrezzature per il contenimento degli animali. A prima vista sembra una tecnica di

pascolamento molto semplice, in realtà risulta piuttosto impegnativa se si vogliono

evitare effetti negativi. Infatti, si ritiene che il pascolamento continuato degradi

facilmente la biomassa vegetale, in termini sia quantitativi sia qualitativi. Fra le

principali cause di ciò possiamo segnalare:

- la selezione alimentare operata dagli animali determina una riduzione delle piante

più appetite e l’invasione di specie infestanti o, comunque, poco appetibili;

- il continuo consumo delle specie più appetite non tiene conto dei periodi di riposo

pascolativi, necessari alle piante per accumulare quelle sostanze di riserva che

saranno utili per i successivi ricacci;

- le zone di pascolo sono utilizzate in modo diverso; le zone pianeggianti e ricche di

pascoli sono battute molto più frequentemente dagli animali, con il risultato che

l’aggravio del carico per unità di superficie comporta un inevitabile danneggiamento

delle cotiche erbose. Al sovraccarico delle zone più lussureggianti si contrappone

spesso un carico sotto dimensionato dei terreni più scomodi, con conseguenti sprechi

foraggieri;

- in mancanza di un controllo diretto, il transito ed il riposo degli animali nelle

medesime zone possono determinare profondi sentieramenti ed accumulo di

deiezioni.

In ultima analisi, il pascolo incontrollato, o continuato, può far variare le potenzialità

produttive dei pascoli, compromettendo seriamente i cicli della riproduzione

vegetale.

b) pascolo a rotazione: questa tecnica presuppone l’esistenza di sezioni di pascolo

opportunamente recintate ed utilizzate dagli animali in maniera discontinua. Una

forma di pascolo a rotazione può essere rappresentata dalla successione nello stesso

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settore di pascolo di animali della stessa specie, appartenenti a diverse categorie

produttive (vitelli, vacche da latte, ecc.). La principale limitazione alla diffusione di

questa tecnica è data dallo scarso periodo di riposo delle cotiche, fatto che va a

limitare la produzione foraggiera complessiva. Si preferisce, allora, destinare alle

categorie d’animali con più elevati fabbisogni nutritivi i pascoli più vicini e più ricchi

e inviare gli altri animali nelle zone meno accessibili (lontane, scoscese, ecc.). La

presenza degli animali (in termini di densità e di durata) è in funzione del ciclo

vegetativo dell’erba e quindi delle disponibilità foraggiere periodiche ed in funzione

delle esigenze alimentari degli animali. Tra le attrezzature aziendali necessarie per il

contenimento degli animali, le recinzioni assumono importanza fondamentale; esse

possono essere fisse o mobili. Le recinzioni fisse sono impiegate di solito per

delimitare il perimetro aziendale e sono generalmente in legno, filo spinato o in rete;

le recinzioni mobili si adattano meglio alla realizzazione delle parcelle e sono molto

pratiche e convenienti quelle elettriche.

c) pascolo parcellare o razionato: consente di mettere a disposizione degli animali

una piccola parte della superficie pascolativa, sufficiente a soddisfare le esigenze

nutritive giornaliere di una mandria o di un gregge. Questa tecnica, a carattere

intensivo, prevede per una sua corretta applicazione un costante impegno di

manodopera per l’allestimento delle parcelle e per lo spostamento del bestiame.

Inoltre, è indispensabile valutare correttamente la produzione foraggiera ed il carico

di bestiame istantaneo medio che deve essere applicato, al fine di non pregiudicare i

futuri cicli vegetativi delle piante. Il pascolo parcellare determina un maggior costo

per la manodopera e per il materiale di recinzione, ma consente di sfruttare al meglio

la produzione foraggiera permettendo, tra l’altro, un adeguato periodo di riposo della

cotica. Per una razionale applicazione di questa tecnica pascolativa non sono

sufficienti calcoli matematici basati sul rapporto fabbisogno/produzione, ma occorre

far riferimento alla flessibilità di utilizzazione dei pascoli ed alle variazioni dei tempi

di riposo dei pascoli in funzione delle condizioni climatiche, topografiche ed in

funzione della natura del suolo. Questi concetti generali sono espressi in maniera

organica da alcune leggi fondamentali elaborate da Voisin nel dopoguerra:

- perché l’erba pascolata possa dare la massima produttività è necessario che fra due

tagli successivi trascorra un tempo sufficiente a consentire all’erba di: a)

immagazzinare nelle sue radici le riserve indispensabili per un inizio di

germogliamento vigoroso, b) realizzare un’esplosione d’accrescimento (o gran

produzione giornaliera per ettaro);

- il tempo totale di occupazione di una parcella deve essere sufficientemente corto in

modo che l’erba tagliata nel primo giorno o al principio del pascolamento non sia di

nuovo tagliata dagli animali prima che questi lascino il recinto;

- è necessario migliorare l’appetibilità del pascolo in modo che gli animali possano

assumere la maggiore quantità di erba e che questa sia della migliore qualità

possibile;

- perché un bovino possa dare un rendimento regolare non deve rimanere in uno

stesso recinto più di tre giorni. I rendimenti saranno massimi se il bovino non rimane

più di un giorno nello stesso recinto. Questi principi di pascolamento razionale

tengono conto della biologia vegetale e non riducono l’utilizzazione dei pascoli ad un

semplice conto matematico. Particolarmente interessanti sono i concetti di

<<flessibilità di utilizzazione dei pascoli>> e di <<variazione dei tempi di riposo del

pascolo in funzione dei diversi climi e delle diverse zone>>. Il metodo Voisin tiene

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293

conto delle finalità economiche delle produzioni zootecniche e può essere

considerato come modello-guida per lo sfruttamento intensivo dei pascoli.

Residuo del foraggio nel pascolo, in condizioni meteorologiche normali e con

un appropriato inizio del pascolamento (da Rieder e coll., 1983)

Tipo di pascolo %

Pascolo libero

pascolo a rotazione

pascolo razionato

35-70

25-35

20-25

Nelle condizioni reali occorre avere dei punti di riferimento che possano orientare le

scelte pastorali. In pratica, si ritiene che il pascolamento debba essere sospeso, come

limite massimo, quando la cotica è stata ridotta all’altezza di 2-3 cm (Jannelli, 1980).

La superficie giornaliera necessaria agli animali può essere calcolata in base

all’altezza del cotico, tenuto presente che ad ogni cm di altezza dovrebbe

corrispondere una quota disponibile di 100 kg di sostanza secca per ettaro (Rieder e

coll., 1983). Se si considera che il fabbisogno giornaliero di un bovino adulto è di 17

kg/giorno di SS, le superfici di pascolo varieranno in base all’altezza media del

cotico nel modo seguente:

Superficie di pascolo necessaria, giornalmente, ad un bovino adulto, in

funzione dell’altezza del cotico

Altezza media del cotico

(cm)

Superficie necessaria

(m2/vacca/giorno)

18

23

28

33

120

80

65

50

L’immissione del bestiame nei terreni di pascolo dovrebbe avvenire, in linea

generale, quando l’erba si trova al giusto stadio vegetativo. L’erba giovane è molto

digeribile ed ha un elevato tenore in proteine ma è carente in sostanza secca..

L’utilizzo dei foraggi negli stadi vegetativi precoci comporta una limitazione delle

potenzialità vegetative future. L’erba consumata in avanzata fase di maturazione è

ricca di fibra grezza e quindi è scarsamente digeribile. Quindi, per ogni pascolo

bisogna stabilire il punto di equilibrio tra gli aspetti quantitativi e quelli qualitativi

della produzione vegetale. In pratica, il pascolamento può iniziare quando l’erba

raggiunge un’altezza di 10-15 cm per la specie bovina e di 5-10 cm per le specie

ovina e caprina (Corleto, 1980).

10.2.3. Riposo del pascolo

Dopo ogni fase di utilizzazione, i pascoli necessitano di un periodo di riposo

indispensabile per la ricostituzione delle riserve degli apparati radicali. Il riposo

facilita un rapido ricaccio e la disseminazione delle piante più consumate dal

bestiame (Corleto, 1980). E’ stato calcolato che dopo ogni turno di pascolo

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avvengono incrementi della produzione foraggiera, variabili secondo il periodo di

riposo (Rieder e coll., 1983):

- 25 qli nella prima settimana

- 45 qli nella seconda settimana

- 75 qli nella terza settimana.

Si tratta, in ogni modo di valori medi e si deve tenere presente che sono largamente

influenzati da diversi fattori, quali le condizioni meteorologiche, la velocità di

ricaccio, ecc. All’inizio della stagione di pascolo (maggio-giugno) è generalmente

sufficiente un periodo di riposo di circa 20-25 giorni; al termine della stagione di

pascolo questo periodo arriva a 45-50 giorni e può arrivare a 60 giorni nelle zone a

pascolo invernale. La riduzione del periodo ottimale di riposo comporta notevoli

perdite produttive:

- riduzione della produzione ad un terzo con tempi di riposo dimezzati;

- riduzione della produzione ad un decimo, con tempi di riposo ridotti ad un terzo.

10.3. Foraggi insilati

L'insilamento, rispetto alla fienagione, offre alcuni vantaggi in quanto

permette:

- di disporre di foraggi freschi durante la stagione fredda o durante la siccità estiva,

utile soprattutto per la produzione lattea;

- di conservare foraggi che non si prestano ad essere affienati (vedi granturco);

- una minore perdita di sostanza secca e di valore nutritivo dei foraggi insilati rispetto

a quelli affienati;

- una minore impiego di mano d'opera;

- una minore cubatura, necessaria, per conservare il foraggio in silo anziché in

fienile;

- eliminazione degli incendi.

I foraggi da insilare devono subire un parziale essiccamento (35-40% di sostanza

secca per le graminacee e 50-60% per le leguminose), in quanto:

a) una limitata disponibilità di acqua, ostacolando il proliferare di batteri, consente di

insilare essenze foraggiere difficili, come le leguminose, e di contenere le perdite

dovute alle fermentazioni e ai liquidi di percolazione, anche se contestualmente si

verifica un aumento delle perdite di campo;

b) la riduzione dell’umidità favorisce lo sviluppo dei lattobacilli rispetto ai clostridi e

quindi influenza nel verso giusto la qualità degli insilati;

c) il preappassimento aumenta l’appetibilità dell’insilato, dato che l’ingestione di

sostanza secca aumenta con il diminuire degli acidi organici dell’alimento. Così, una

bovina ingerisce 5-7 kg di sostanza secca se l’insilato contiene l’80-85% di acqua

mentre ne ingerisce 9-11 kg se l’umidità dell’alimento è del 70% o meno.

I foraggi, una volta messi nei sili, vanno soggetti ad una serie di fenomeni biochimici

che così si susseguono:

- respirazione: con questo processo è consumato l'ossigeno della massa e si

produce CO2; l'intensità di tale fenomeno è in relazione:

a) alla quantità di ossigeno presente nella massa la quale è legata allo stadio

vegetativo, al grado di appassimento o di maturazione, alla lunghezza del taglio, alla

rapidità delle operazioni di insilamento, al grado di costipamento, alla chiusura più o

meno ermetica del silo; in genere l’aria dell’insilato dovrebbe essere privata del suo

ossigeno entro 12 ore;

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295

b) alla temperatura infatti, l’attività respiratoria cresce con l’aumento della

temperatura sino a 40 °C, sviluppando mediamente 4 cal/g di carboidrati

metabolizzati: nelle prime 24-36 ore la T non dovrebbe superare i 30 °C, se la T

continua ad aumentare significa che c’è ricambio di ossigeno nella massa.

c) pH della massa: la respirazione diminuisce con l’aumentare dell’acidità fino a

cessare con pH di 3,5;

- fenomeni autolitici: interessano la degradazione degli idrati di carbonio in alcol,

acetaldeide, acido piruvico e acido lattico e delle proteine in peptidi e aminoacidi.

- fermentazioni batteriche: rappresentano le trasformazioni più importanti

dell'insilamento. In base al tipo di batteri che le determinano possiamo distinguere:

a) fermentazione acetica: è dovuta ai batteri coliformi (aerobacter) che possono

svilupparsi anche in presenza di ossigeno; si trovano alla superficie del terreno e

nelle erbe e sono i primi a svilupparsi nel silo. Essi agiscono sugli zuccheri formando

acido acetico e CO2 ma anche alcol e acido lattico. L’acidificazione inizia quindi con

questi batteri la quale ha però una resa scadente in quanto si perde CO2 e vengono

degradati gli aminoacidi. La fermentazione acetica inizia contemporaneamente o

poco dopo la respirazione e non dura più di 2-3 giorni, arrestandosi quando il pH

scende a valori di 4,5;

b) fermentazione lattica: questa fermentazione è essenziale per la buona riuscita della

conservazione del foraggio. Ha inizio dal 2° giorno di conservazione e termina 15-20

giorni dopo, quando il pH è compreso tra 3,8 e 4,2; a tale pH è inibita l'azione dei

batteri butirrici e proteolitici. I batteri lattici sono i responsabili della fermentazione

lattica e appartengono fondamentalmente a quattro generi: Lactobacillus,

Streptococcus, Leuconostoc e Pediococcus. Questi batteri si sviluppano nei primi tre

giorni di conservazione preferendo temperature comprese tra i 20 e i 30 °C, perciò

sono denominati a fermentazione fredda. Essi attaccano gli zuccheri (glucosio,

fruttosio, pentosani) formando, a seconda del substrato e della specie, acido lattico

(fermentazioni omolattiche) o insieme di acido lattico e di acido acetico o di etanolo

(fermentazioni eterolattiche). L’acido lattico ha un elevato potere acidificante e

quindi la sua produzione crea un abbassamento del pH dell’insilato fino a livelli tali

(3-4) da inibire lo sviluppo dei microrganismi dannosi. Per un buon sviluppo dei

batteri lattici è necessaria nel foraggio la presenza di zuccheri facilmente

fermentescibili (6-7% sulla s.s.) inoltre, va eliminata rapidamente l’aria dalla massa

insilata per bloccare la respirazione, che avviene proprio a spese degli zuccheri ;

c) fermentazione butirrica: i batteri butirrici causano la fermentazione butirrica che è

nettamente dannosa all'insilamento. Consiste nella trasformazione, ad opera dei

clostridi, degli zuccheri e dell'acido lattico ad acido butirrico, con produzione di H2 e

CO2. I batteri responsabili prediligono condizioni di aerobiosi e temperatura elevata.

d) fermentazione proteolitica: i batteri di tale fermentazione si distinguono in

proteolitici in senso stretto se limitano la loro azione alla idrolisi proteica ed in

putrifici se metabolizzano gli aminoacidi con produzione di ammine, ammoniaca,

fenoli, H2S. Detti batteri (Clostridi, Bacillus, Proteus) si moltiplicano solo a valori di

pH superiori a 5,3-5,5. Da quanto detto, è logico che per la buona riuscita dell'insilato

è necessario avere i seguenti accorgimenti:

- è preferibile trinciare il foraggio per facilitare la fuoriuscita dei succhi vegetali e

quindi accelerare i processi di fermentazione;

- è necessario comprimere bene il foraggio e chiudere ermeticamente il silos per

creare condizioni di anaerobiosi e quindi facilitare la fermentazione lattica che,

peraltro, è favorita da T di 20-25 °C.

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La trinciatura assume un’importanza basilare nella riuscita dell’insilamento. Più il

foraggio è tagliato corto, meglio si pressa e minore è la quantità di aria, dannosa alle

fermentazioni favorevoli, che rimane nel silo. La trinciatura accelera anche l’uscita

dalle cellule vegetali dei succhi che costituiscono il substrato ottimale per l’attività

dei batteri lattici. Essa, inoltre, è particolarmente vantaggiosa per i foraggi

difficilmente fermentescibili o di forma ingombrante e nel caso di sili privi di

chiusura ermetica come quelli orizzontali. Le foglie e i colletti di barbabietola,

specialmente quando sono sporchi di terra, non vanno trinciati. L’insilamento senza

trinciatura può essere effettuato purché si verifichino le seguenti condizioni:

- insilare erba giovane, non bagnata e fortemente preappassita;

- riempire il silo velocemente;

- usare dispositivi di chiusura ermetica o coperchi a pressione.

La lunghezza di trinciatura può variare da 0,5 a 3 cm in funzione dell’essenza

foraggiera (minore nell’insilato di mais) e del grado d’umidità (maggiore nei foraggi

verdi) e deve contemperare le esigenze della compressione con quelle della

produttività del cantiere di raccolta.

Un buon insilato presenta le seguenti caratteristiche: integrità dei tessuti vegetali,

odore gradevole, sapore acidulo, buona appetibilità, assenza di muffe, pH 3,8-4,2;

acido lattico 7-12% sulla sostanza secca; contenuto in azoto ammoniacale non

superiore al 10-12% rispetto a quello totale.

10.3.1. Metodi di insilamento

Metodo cremasco o italiano: il silo ha una forma cilindrica ed un volume di

100-500 m3

circa. Il foraggio è messo nella torre quando l'umidità è scesa al 45-50%,

previa trinciatura specialmente per i foraggi a steli grossi e resistenti. La massa di

foraggio va costipata energicamente onde favorire la flora lattica ed evitare la flora

butirrica. Per favorire lo sviluppo della fermentazione lattica occorre allontanare la

maggior quantità possibile di aria dal foraggio e impedire che essa vi penetri

successivamente. Le perdite dovute alle fermentazioni dannose saranno tanto minori

quanto più rapida ed energica è stata la costipazione.

Metodi di insilamento per i foraggi verdi:

a) Insilamento con acidificazione naturale

(sistema americano): si adatta soprattutto per la

conservazione del granturco e del sorgo i quali

sono raccolti a maturazione cerosa della

pannocchia o della spiga, trinciati e sfibrati.

Non è necessario costipare bene il foraggio, né

chiudere il silo col coperchio in quanto,

essendo questi foraggi ricchi di zuccheri (5-10%), si ha una notevole attività

respiratoria che satura l'ambiente di CO2 e quindi è favorita la fermentazione lattica

ed il raggiungimento dell'acidità ideale per la conservazione del foraggio.

b) acidificazione artificiale (metodo finlandese): Si basa sull'aggiunta di acidi

minerali diluiti per realizzare subito un pH compreso fra 3,5-4 in modo da favorire lo

sviluppo dei lattobacilli. In genere si usa una miscela composta dal 12% di HCl, 2%

di H2SO4 e 86 litri di acqua. La miscela si somministra in misura di 5-8 litri per q.

La somministrazione per lunghi periodi di insilati così acidificati sposta l'equilibrio

acido-basico del sangue verso condizioni di acidosi e pertanto si consiglia di

aggiungere alla razione 3,5 g di una miscela, composta dall'80% di carbonato di

Silo a torre

Silo a torre

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calcio e 20% di carbonato di sodio, per ogni kg di insilato oppure si può ricorrere

all'acidificazione degli insilati mediante acidi organici (formico, formolo).

L'acidificazione artificiale offre la possibilità di insilare foraggio fresco anche se

bagnato, di conservare le erbe povere in zuccheri e di ridurre le perdite di sostanza

secca, digeribilità e caroteni.

c) insilamento con l'aggiunta di sostanze zuccherine o antifermentative: la

conservazione dei foraggi poveri in zuccheri (leguminose) è possibile mediante

l'aggiunta di sostanze zuccherine o l’intima mescolanza delle leguminose con foraggi

e alimenti ricchi di glucidi fermentescibili in modo da favorire la produzione di acido

lattico.

In genere sono aggiunti:

- foraggi di graminacee (mais, sorgo) nella misura del 25-30%;

- barbabietole da zucchero sfettucciate;

- melasso di bietola o di canna;

- sostanze chimiche ad azione batteriostatica selettiva (SO2).

10.3.2. Sostanze conservanti

La conservazione di foraggi ricchi di acqua e/o di proteine, l’adozione di

tecniche non adeguate di raccolta e trinciatura del foraggio e di caricamento e

chiusura del silo, e la necessità in genere di migliorare l’efficienza della

conservazione inducono molto spesso a ricorrere a sostanze conservanti in grado di

modulare positivamente i processi fermentativi. Queste sostanze sono distinte in otto

classi, a seconda del tipo di azione che svolgono.

Acidificanti diretti: essi causano un rapido abbassamento del pH della massa e quindi

un’azione selettiva sulla microflora, favorendo lo sviluppo di quella lattica. Fra i più

importanti ricordiamo l’acido formico che viene venduto in soluzione all’85%, che

deve essere diluito in acqua in rapporto 1:2 prima dell’impiego. Tale miscela va

distribuita in rapporto di circa 5 litri per q di prodotto fresco. Il ricorso a sostanze

acidificanti è particolarmente indicato per foraggi molto umidi e per quelli a ridotta

fermentescibilità.

Caratteristiche

buoni insilati

integrità dei tessuti

foglie ben attaccate

colore verde giallastro o verde bruno

odore gradevole, aromatico acetico

sapore acidulo

buona appetibilità

assenza di muffe tranne nello strato superficiale

pH = 3,8-4,2

acido lattico = 7-12% su sostanza secca

acidi volatili = 3-4%

degradazione limitata delle proteine (N ammoniacale < 10-12% / N

totale

assenza o solo tracce di ac. butirrico

Inibitori delle fermentazioni: lo scopo dell’aggiunta di queste sostanze è quello di

inibire le attività fermentative dei microrganismi. La formaldeide, compatibilmente

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con le disposizioni legislative, viene utilizzata maggiormente,. Essa è impiegata sotto

forma di formalina in dosi di 60 g per q di prodotto verde. L’impiego di questa

sostanza può, tuttavia, creare problemi al momento del desilamento per l’instabilità

aerobica dell’insilato trattato dovuta alla presenza di zuccheri non fermentati.

Recentemente, è stato dimostrato che anche l’ammoniaca può ostacolare le attività

microbiche. In questo caso il principio può essere apportato direttamente (ammoniaca

anidra) o mediante precursori, quali l’urea e il bicarbonato di ammonio. La dose da

impiegare è di circa 3 kg di NH3 per quintale di sostanza secca del foraggio da

insilare.

Stimolatori delle fermentazioni: sono compresi

additivi che hanno lo scopo di favorire la

produzione di acido lattico in foraggi con limitate

disponibilità di zuccheri fermentescibili. Molto

utilizzato è il melasso che dà i migliori risultati in

foraggi con almeno il 25% di sostanza secca

mentre in foraggi molto umidi o bagnati o in

quelli già in fermentazione, non è consigliabile in

quanto si possono stimolare i batteri dannosi e

aumentare le perdite di liquidi di percolazione. In

genere s’impiega il 2% di melasso per le

graminacee e il 4% per le leguminose. Si possono

inoltre usare lo zucchero grezzo per uso

zootecnico (1-2%) e le fettucce essiccate integrali di barbabietola, le quali sono più

adatte per foraggi molto acquosi. Il substrato fermentescibile può essere aumentato,

ricorrendo ad enzimi in grado di degradare i carboidrati strutturali (cellulosa ed

emicellulosa) e l’amido con produzione di zuccheri utilizzabili dai microrganismi

fermentanti.

Inoculi microbici: per aumentare la produzione di acido lattico si possono

aggiungere, mediante appositi dispositivi, dei fermenti lattici i quali anticiperebbero

la fermentazione lattica e di conseguenza determinerebbero una minore produzione

di acido butirrico e di ammoniaca libera, la cui presenza diminuisce sia il valore

nutritivo che l’appetibilità dell’insilato.

Inibitori del deterioramento aerobico: sono additivi che riducono le perdite di

superficie e trovano maggiore utilità nei sili orizzontali. Più usato è l’acido

propionico, che va distribuito in ragione dell’1,5% della sostanza secca.

Antibiotici: sono sostanze che selezionano la flora batterica in modo da favorire certe

fermentazioni a scapito di altre. In maggior misura vengono utilizzate la bacitracina e

la streptomicina. L’uso degli antibiotici è, comunque, regolamentato da disposizioni

legislative, al fine di evitare l’insorgenza di fenomeni di resistenza ai trattamenti

chemioterapici che potrebbero compromettere la sanità degli allevamenti.

Miglioratori delle caratteristiche nutritive: quando si hanno foraggi che già in

partenza hanno uno scarso valore nutritivo e/o carenze di proteine, elementi minerali

al momento dell’insilamento si possono aggiungere prodotti in grado di migliorarne

la qualità. Fra questi prodotti vanno annoverate: a) le polpe secche di barbabietola, b)

l’urea (500 g/q trinciato) che oltre ad elevare il contenuto azotato stimolerebbe

l’attività batterica e aumenterebbe la produzione di acidi organici. L’urea ed i sali

minerali vanno somministrati facendo attenzione a non far elevare di molto il pH e

non vanno utilizzati per foraggi di difficile insilamento.

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Prodotti limitanti le perdite di percolamento: come già detto la fuoriuscita di liquidi

di percolazione significa perdita di principi nutritivi. Risulta utile limitare queste

perdite mediante aggiunta di polpe secche di bietola e paglie di cereali. L’aggiunta di

tali prodotti non deve, comunque, far elevare eccessivamente il contenuto in sostanza

secca per non modificare il percorso delle fermentazioni in quanto ciò potrebbe

ridurre il valore nutritivo e l’appetibilità del prodotto ottenuto.

10.3.3. Strutture di insilamento

La quantità di insilato da produrre è in funzione del numero dei capi di

bestiame allevati e della quantità di alimento conservato utilizzabile nel

razionamento. Il numero e le dimensioni dei sili dipendono dal tipo di foraggio, dalla

produttività e dall’estensione delle aree destinate alla coltura delle foraggiere e dalla

necessità di rinnovare frequentemente il fronte di taglio.

E’ opportuno insilare separatamente i

diversi tagli e tipi di foraggio. Visto

che in condizioni normali già nei primi

tre giorni di fermentazione deve essere

formato il 75% dell’acido lattico,

occorre riempire i contenitori con la

massima velocità al fine di limitare al

minimo l’infiltrazione di aria; quindi,

per l’insilamento si dispone solo di uno

due giorni. In questo tempo si dovrebbe

riempire per intero un silo orizzontale e

per i 3/4 un silo a torre, per evitare il

riscaldamento del foraggio e il

conseguente avvio di fermentazioni dannose. Tutto ciò implica un adeguato parco

macchine aziendale, che può essere aumentato ricorrendo all’aiuto di altri agricoltori

oppure a conto-terzisti.

10.3.4. Tipi di silo

Sili a torre a chiusura ermetica - Vanno scomparendo per le difficoltà di

meccanizzazione e l’alto impiego di manodopera oltre che per l’elevato costo

dell’investimento iniziale. Tipi moderni di sili a torre (acciaio, vetroresina) sono

quelli ciclatori i quali permettono di aggiungere nuovo alimento dall’alto man mano

che si preleva dalla base. Dato l’elevato costo e le caratteristiche che li

contraddistinguono si adattano più a conservare concentrati che foraggi. In questi sili,

per evitare l’ingresso di aria al momento del prelievo (depressione, differenza di

temperatura tra interno ed esterno) sono previsti appositi sistemi di compensazione

(polmoni compensatori, valvole apposite) i quali sono più importanti nei sili costruiti

in acciaio i quali rispetto a quelli di vetroresina sono meno isolanti.

Sili orizzontali a trincea - Sono quelli più diffusi nelle aziende agricole medio-grandi,

devono avere un volume minimo di 100 m3 per ridurre il più possibile la superficie

esterna. Vanno riempiti in due giorni e quindi bisogna avere una vasta area coltivata

a foraggio da insilare (5-8 ha di prato di primo taglio, 8-10 ha di prato di 2° taglio, 2-

2,5 ha di mais). Per le dimensioni assumono importanza l’altezza e la larghezza.

L’altezza, influenzando il rapporto tra superficie esposta e volume di prodotto

insilato, condiziona l’entità delle perdite provocate da ammuffimenti superficiali. Per

la larghezza, da un lato è necessaria una certa ampiezza per facilitare le operazioni di

Silo a platea

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300

carico (manovra dei mezzi) dall’altro si deve limitare la larghezza per contenere entro

certi limiti la superficie del fronte di taglio del silo; bisogna considerare che questa

superficie è esposta all’aria e se non viene rinnovata giornalmente (bisognerebbe

asportare uno strato di almeno 15-20 cm) è soggetta a fenomeni di ossidazione e di

ammuffimento. Ciò significa che, se l’insilato viene utilizzato durante tutto l’anno si

deve avere un silo o una serie di sili della lunghezza di 55-75 m (365d x 0,15 m/d =

54,8 m; 365 d x 0,2 m/d = 73 m). A livello pratico, le dimensioni di un silo possono

essere determinate con l’ausilio dell’abaco ove, noti il numero di capi e l’ingestione

di insilato, si può determinare in funzione dell’altezza desiderata, la larghezza del

manufatto. Il silo a trincea, generalmente, è costituito da due pareti laterali e da una

parete di fondo; alcune volte la parete di fondo manca e il carico e scarico viene fatto

da entrambe le testate. Per la copertura del silo si impiegano teli di polietilene o in

polivinilcloruro dello spessore di 0,10-0,15 mm, di colore chiaro e preferibilmente

non trasparenti. La pavimentazione viene realizzata in calcestruzzo mentre in base

alle pareti laterali abbiamo:

- sili realizzati in opera

- sili realizzati con elementi prefabbricati appoggiati o fissati al suolo.

Sili orizzontali a platea: I sili mobili a platea, adatti per foraggi trinciati, vengono

realizzati su superfici livellate con pavimento di cemento o di asfalto. Per una buona

compressione meccanica del foraggio occorre una superficie larga almeno 8 m e

lunga 15 m circa. L’altezza del cumulo dovrebbe aggirarsi intorno a 1,5-2 m, mentre

la lunghezza e la larghezza vengono determinate dalle misure del telone di

sottofondo che, su tutti i lati, dovrebbe sporgere per lo meno di mezzo metro dal

cumulo. Ultimati i lavori di caricamento, il cumulo va coperto con teli di plastica e

per assicurare l’aderenza della plastica al terreno conviene realizzare un cordolo

perimetrale di terreno o di sabbia, mentre per tenere il telo ben aderente alla massa

insilata si può ricoprire il silo con sacchi di sabbia, o altro materiale pesante.

Strutture per l’insilamento in materiale plastico - I teli di materiale plastico offrono,

oltre a numerose possibilità di applicazione, anche il vantaggio del basso costo di

investimento. Essi trovano impiego soprattutto per l’insilamento di foraggi trinciati o

di foraggi imballati. Nei piccoli allevamenti trovano utile impiego i vacum i quali

sono dei grandi sacchi che, durante la fase di carico, sono sostenuti da una struttura in

vetroresina o in rete metallica per ottenere un’uniforme sistemazione del prodotto.

Una volta terminato il carico, i sacchi vengono chiusi, viene eliminata l’aria tramite

un decompressore e vengono tolte le strutture di supporto.

10.4. Fieni

Lo scopo della fienagione è quello di ridurre il contenuto in acqua del

foraggio verde fino ad un livello tale da inibire l’azione degli enzimi vegetali e

microbici Derivano dall’essiccazione delle erbe, durante la quale il contenuto in H2O

passa dall'80 al 10-20%. I fieni si distinguono in fieni polifiti (prato naturale) e fieni

di leguminose (medica, trifoglio, lupinella, sulla). I prati possono fornire tre tagli se

asciutti e 5 se irrigui, di cui i primi 4 affienabili.

L'epoca più conveniente di sfalcio corrisponde al principio della fioritura delle specie

foraggiere più diffuse e va detto che lo sfalcio può essere ritardato nei climi umidi,

ma deve essere anticipato in quelli aridi. Le caratteristiche di un buon fieno sono:

- composizione botanica, deve essere rappresentata soprattutto da graminacee e

leguminose, mentre le altre famiglie non dovrebbero essere più del 15% in peso;

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301

- rapporto tra foglie e steli: la qualità è maggiore quando il contenuto in foglie,

rispetto a quello degli steli, è elevato;

- colore: deve essere verde chiaro, mentre un colore giallastro paglierino indica che il

fieno deriva da erbe mature o dilavate;

- odore: deve essere gradevole e più o meno aromatico;

- assenza di muffe.

Perdite tecniche della fienagione

Durante la fienagione si hanno perdite dovute ad azione di enzimi vegetali e

microbici, ossidazione chimica, lisciviazione e per azione meccanica:

a) azione degli enzimi vegetali e dei microrganismi: le principali modifiche riguardano i

carboidrati solubili ed i composti azotati; all’inizio si hanno processi a carico di

singoli carboidrati idrosolubili, come la formazione di fruttosio per idrolisi dei

fruttosani mentre quando il processo di essiccamento si prolunga, avvengono

notevoli perdite di esosi a seguito della respirazione e queste perdite motivano un

aumento della concentrazione di altri costituenti della pianta, specialmente dei

componenti della parete cellulare, che si riflette sul contenuto in fibra.

Composizione chimica, valore nutritivo e produttività (% su sostanza secca) del

trifoglio pratense a seconda dello stadio vegetativo

Stadio vegetativo S.S.

%

Proteina

grezza

Lipidi

grezzi

Cellulosa

grezza

Estrattivi

inazotati

Ceneri UFL

Molto giovane 17 25 3,5 18 42,5 11 84

Prefioritura 17 21 3,8 24 42,2 9 78

Inizio fioritura 19 18 3,7 27 43,3 8 77

Fine fioritura 21 16 3,3 28 45,7 7 66

Evaporazione dell’acqua durante l’essiccamento del fieno (20% di

umidità residua

Peso (kg)

600

85 %

500

Contenuto idrico

400

300

200 kg, 60%

200

123 kg, 35%

100

100 kg, 20%

80 kg (SS)

Taglio 1° giorno 2° giorno 3° giorno

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302

Con la respirazione si ha la trasformazione degli idrati di carbonio in CO2 e H2O, si

verifica fino a quando l'erba non arriva ad un contenuto in acqua del 40% o meno.

Nell’erba appena tagliata, le proteasi presenti nelle sue cellule rapidamente

idrolizzano le proteine a peptidi ed aminoacidi; all’idrolisi fa seguito una certa

degradazione di specifici aminoacidi.

Se il tempo è cattivo e l’essiccamento si prolunga, si possono avere alterazioni legate

all’attività dei batteri e dei funghi. Il fieno ammuffito assume un sapore sgradevole e

può essere dannoso per gli animali a causa della presenza di micotossine inoltre,

questi fieni possono contenere actinomiceti che sono responsabili di una sindrome

allergica che colpisce l’uomo ed è nota come malattia polmonare del contadino.

b) ossidazione: quando l’erba viene essiccata in campo subisce dei processi

ossidativi i cui effetti si possono osservare sui pigmenti, molti dei quali vengono

distrutti, così i caroteni possono passare da 150-200 mg/kg nella sostanza secca

dell’erba fresca a 2-20 mg/kg nel fieno. L’essiccamento rapido su treppiedi o in

fienile consente una migliore conservazione dei caroteni. Di contro, la luce solare ha

un effetto benefico sul contenuto in vitamina D, che si forma per irradiazione

dell’ergosterolo, presente nelle piante verdi.

c) lisciviazione: le perdite per lisciviazione sono dovute alla pioggia e sono maggiori

se la pioggia interviene quando l’erba è già parzialmente essiccata. Queste perdite

riguardano minerali solubili, zuccheri e componenti azotati. La pioggia può inoltre

prolungare l’azione degli enzimi presenti nelle cellule e causare, quindi, maggiori

perdite di principi nutritivi e favorire l’insediarsi di muffe.

d) perdite meccaniche: tali perdite ammontano a circa il 5-15%; durante

l’essiccazione le foglie perdono acqua più rapidamente degli steli, quindi diventano

fragili e si rompono facilmente. Va considerato che le foglie allo stadio del fieno,

sono più ricche degli steli in principi nutritivi digeribili e quindi il valore nutritivo

del fieno si riduce sensibilmente con tali perdite. Con l’uso delle macchine che

permettono lo schiacciamento degli steli, i tempi di essiccamento fra steli e foglie si

differenziano di poco e quindi si possono ridurre le perdite meccaniche. Inoltre, la

compressione in balle del foraggio in campo, quando ha ancora un contenuto in

umidità del 30-40%, ed il suo successivo essiccamento, per ventilazione artificiale,

può notevolmente ridurre le perdite meccaniche.

Modifiche che avvengono durante la conservazione del fieno

A fienagione ultimata, il fieno può contenere dal 10 al 30% di umidità; a

valori di umidità più elevati, si possono avere delle modifiche di carattere chimico

dovute all’azione di enzimi presenti nei vegetali o prodotti da microrganismi. La

respirazione cessa a circa 40 °C, ma i batteri termofili possono agire fino a 72 °C; al

disopra di questa temperatura, l’ossidazione chimica può causare un ulteriore

riscaldamento e il calore che si accumula all’interno della massa può causare

autocombustione. Il riscaldamento prolungato può avere effetti negativi sul contenuto

proteico del fieno. Si formano nuovi legami all’interno e fra le catene peptidiche ed

alcuni di questi legami sono resistenti all’idrolisi operata dalle proteasi con

conseguente minore digeribilità delle proteine stesse. La sensibilità delle proteine agli

effetti del calore aumenta in presenza di zuccheri; le reazioni di Maillard sono il

risultato di una serie complessa di reazioni chimiche che iniziano con la

condensazione fra il gruppo carbonilico di una zucchero riducente e l’amino gruppo

libero di un aminoacido o di una proteina. La temperatura ha un effetto importante

sulla velocità di queste reazioni: esse sono novemila volte più rapide a 70 che a 10

°C. La lisina è l’aminoacido particolarmente sensibile a queste reazioni. I prodotti

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303

all’inizio sono incolori, alla fine diventano marroni; il colore bruno scuro dei fieni

che hanno subito un notevole riscaldamento, e di altri alimenti, va soprattutto

attribuito alla sintesi di Maillard. Le perdite di caroteni, durante la conservazione del

fieno, dipendono in larga parte dalla temperatura. Sotto i 5 °C è probabile che le

perdite siano poche o nulle, mentre possono essere notevoli in ambiente caldo.

Peraltro, le modifiche che hanno luogo durante la conservazione finiscono con

l’aumentare la % dei costituenti delle pareti cellulari e quindi causano una riduzione

del valore nutritivo.

Complessivamente, le perdite meccaniche e quelle dovute alla respirazione e

fermentazione, per una fienagione ben condotta e non ostacolata dal maltempo, si

aggirano su 1/5 della sostanza secca, 1/4 del valore nutritivo ed 1/3 delle proteine

digeribili.

L'essiccazione dell'erba può avvenire direttamente sul terreno oppure la si può

accelerare utilizzando alcuni accorgimenti:

- disposizione dell'erba su fili di ferro collegati a robusti paletti;

- fienagione mediante impianti di ventilazione forzata del foraggio già appassito

sul fino ad un tenore dell'umidità del 35-40% e quindi sottoposto a ventilazione in

appositi locali (tettoie, fienili, torri da fieno).

Questo sistema, anche se costoso, consente

la riduzione delle perdite e di affienare

anche in condizioni meteorologiche

sfavorevoli. L’erba falciata viene lasciata

appassire in campo fino a raggiungere un

tenore di umidità inferiore al 50%; il

foraggio una volta raccolto sfuso o

imballato, viene posto in fienili attrezzati

con appositi sistemi di ventilazione

mediante i quali l’aria, a temperatura

ambiente o riscaldata, viene fatta passare

attraverso la massa foraggiera fino a ridurre l’umidità al di sotto del 20%. Questo tipo

di fienagione, detto in due tempi, presenta i seguenti vantaggi:

a) riduzione del tempo di essiccamento in campo a uno o due giorni, con

eliminazione quasi completa dei rischi di natura meteorologica;

b) diminuzione delle perdite meccaniche;

c) miglioramento della qualità del foraggio, per la possibilità di praticare lo sfalcio al

momento più opportuno e per la riduzione delle perdite di sostanze nutritive.

Le dimensioni, la potenza e il costo dell’impianto di essiccazione dipendono:

a) dalla quantità di acqua da eliminare;

b) dal tempo disponibile per l’essiccamento definitivo;

c) dall’umidità relativa e dalla temperatura dell’aria.

Ad esempio, per ottenere un q di fieno con 20 kg di acqua e 80 kg di sostanza secca,

occorre far evaporare da 533 kg di foraggio fresco 453-20 = 433 kg di acqua. Per

ridurre l’umidità dall’85 al 60% durante l’essiccazione in campo nella prima giornata

devono evaporare 333 kg di acqua; nella seconda giornata, per portare il contenuto di

umidità dal 60 al 35%, l’evaporazione interessa 76 kg di acqua, mentre nel terzo

giorno la quantità di acqua evaporata si riduce a soli 24 kg e l’umidità scende al 20%.

L’entità del processo di essiccazione in campo si rallenta con la progressiva riduzione

della percentuale di umidità del fieno. Alla fine della seconda giornata già il 95%

dell’acqua da eliminare contenuta nell’erba è evaporata, per cui le elevate perdite di

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304

principi nutritivi che si verificano nella

fienagione sono dovute prevalentemente

all’umidità residua. Le perdite possono

essere ridotte, ricorrendo all’essiccazione

definitiva nel fienile. In questo caso

occorrono solo 1 o 2 giorni di bel tempo per

appassire sufficientemente il foraggio fresco

da sottoporre a ventilazione forzata, tenendo

presente che tanto più bassa è la % di

umidità al momento della raccolta, meno

acqua occorre eliminare con la ventilazione e più velocemente si raggiunge il

risultato finale. Entro poche ore dall’immagazzinamento il fieno umido inizia a

riscaldarsi, con conseguente perdita di sostanze nutritive e diminuzione della

digeribilità delle proteine. Il passaggio di aria attraverso la massa foraggiera ostacola

questo riscaldamento ed elimina l’umidità eccessiva. Tale processo deve essere

ultimato entro 6-8 giorni, al massimo, altrimenti si possono verificare elevate perdite

di fermentazione ed ammuffimento del foraggio. Occorre perciò far passare

attraverso la massa foraggiera una quantità di aria sufficiente a portare la % di

umidità al di sotto del 20%.

Nell’essiccazione artificiale si deve tenere presente che:

a) una presenza di umidità del 40% al momento della raccolta richiede

l’evaporazione di 33 kg di acqua/q di fieno (20% di umidità residua);

b) un metro cubo di aria può assorbire in media 1 g di acqua;

c) l’essiccazione deve essere completata entro 8 giorni, con circa 100 ore di

ventilazione complessiva (soprattutto nelle ore più calde del giorno).

Ne risulta che in 100 ore occorrono 33.000 m3 di aria/q di fieno. Un tenore di umidità

del 40% richiede una portata specifica di ventilazione di 0,1 m3 di aria/secondo/q di

fieno; tale portata sale a 0,15 m3

di aria/secondo/q di fieno se l’umidità è del 47%.

L’aria deve passare attraverso la massa

foraggiera con diffusione regolare a

pressione omogenea; perciò occorre

immagazzinare il fieno in strati soffici e

regolari. La distribuzione, quindi, deve

avvenire in modo uniforme, evitando di

compattare la massa; a tale scopo, è molto

diffuso l’impiego di soffiatrici con tubo

telescopico e testata distributrice oscillante.

La capacità di essiccamento dell’aria può

essere migliorata riscaldandola e ciò può essere utile in presenza di masse foraggiere

con umidità superiore al 40-45%, oppure in aree con clima sfavorevole. Questo

procedimento consente di ridurre il processo di essiccazione a un terzo del tempo

normale o di eliminare dal fieno una quantità tripla di acqua.

Ciò corrisponde alla possibilità di asportare 100 kg di acqua da un fieno con il 60%

di umidità nello stesso tempo in cui si eliminano 33 kg di acqua per ogni q di fieno

con il 40% di umidità. Per riscaldare l’aria si usano appositi bruciatori, muniti di

scambiatori di calore. Si distinguono due sistemi:

a) riscaldamento leggero di 3-8 °C;

b) riscaldamento forte di 30-40 °C.

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Per il riscaldamento leggero si possono adoperare installazioni per la ventilazione ad

aria ambiente. Per fienili con capacità di 150-250 m3 la potenza dei bruciatori deve

essere di 20.000-40.000 Kcal/h; per aumentare la temperatura dell’aria di 3 °C

occorre in media 1 kcal/m3. Il riscaldamento forte è impiegato in maniera limitata e

necessita di installazioni con una superficie di essiccamento da 20 a 50 m2. Si carica

il foraggio umido, a mano o meccanicamente, in strati fino a due metri di altezza e

dopo 1-2 giorni quello essiccato viene tolto per far posto alla successiva partita.

Si utilizzano installazioni la cui potenza va dalle 100.000 alle 150.000 Kcal/h.

Fieni di prati polifiti

Essi presentano una grande variabilità nelle loro caratteristiche organolettiche

e nutritive, in relazione alla composizione botanica, epoca dello sfalcio, natura del

terreno, tecnica ed esito della fienagione. In genere possiamo dire che il taglio

maggengo è più apprezzato per i cavalli e i vitelloni all'ingrasso; il taglio agostano è

più fibroso e quindi va meglio per i bovini adulti, mentre al giovane bestiame ed alle

lattifere andrebbero destinati i fieni ricchi di leguminose, fogliosi ed aromatici. Un

fieno di media qualità di prato polifita e con prevalenza di graminacee contiene 9-

9,5% di proteina grezza, 27-28% di fibra, 5-5,6% di ceneri ed ha un valore nutritivo

di 40 U.F./q (fieno normale).

Fieni di leguminose

Hanno un elevato contenuto proteico (7-12% di proteina digeribile), sono

ricchi di calcio altamente assimilabile, caroteni e vitamina B. Fra essi ricordiamo

soprattutto:

- fieno di medica, con valore nutritivo di 40-52 U.F./q;

- fieno di trifoglio pratense e trifoglio ladino con valore nutritivo uguale o superiore a

quello della medica; è poco consigliato negli equini perché può causare indigestione

e meteorismo intestinale;

- fieno di lupinella, contrariamente a quanto avviene per i fieni di medica e di

trifoglio non viene considerato riscaldante e quindi indicato per i cavalli.

Conservanti del fieno

L’impiego dei conservanti ha l’obiettivo di conservare il fieno con un

contenuto in umidità superiore al normale. Sono stati utilizzati diversi prodotti ma

quelli che hanno suscitato maggiore interesse sono l’acido propionico e il suo

derivato, meno volatile, il dipropionato di ammonio. Più recentemente, il successo

del trattamento della paglia con ammoniaca anidra ha incoraggiato studi sugli effetti

del trattamento del fieno con lo stesso gas. L’ammoniaca anidra, iniettata in cataste di

balle di fieno umido coperte di plastica, si è dimostrata in grado di aumentare la

stabilità in condizioni aerobiche ed anaerobiche, e di migliorare il valore nutritivo.

Determinazione valore nutritivo del fieno:

Metodo Watson = U.A. = 87,64 - 0,69 X; dove X = % protidi + % fibra x 2;

Esempio: fibra 27,5%; proteine 9,1%; sostanza secca = 85%;

fibra = (27,5 x 100)/85 = 32,3; proteina grezza = (9,1 x 100)/85 = 10,7; X = 32,3 x 2

+ 10,7 = 75,3;

Unità amido = 87,64 - 0,69 x 75,3 = 35,9

Unità foraggiere = 35,9 x 1,43 = 51,3

Va considerato che i fieni inglesi a cui fa riferimento Watson hanno meno fibra dei

nostri.

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306

Metodo delle unità amido: si calcola il valore amido teorico di 100 kg e si detraggono

0,58 UA/kg fibra; per utilizzare questo metodo bisogna conoscere la composizione

chimica del fieno

Sistema basato sul giudizio soggettivo della qualità del fieno, utilizzato in Germania

1) colore:

naturale tendente al verde

parzialmente decolarato o ingiallito

fortemente ingiallito

bruno-nero bruciato

2) apparenza e consistenza (struttura):

ricco di foglie e morbido

poche foglie, tendenzialmente duro

molto povero di foglie, ruvido

quasi privo di foglie, con steli legnosi e duri

3) odore:

buono, aromatico da fieno

scipito, odori estranei, bruciato

di muffa o di marcio

4) impurità:

assenti

ridotte

elevate

I punteggi ottenuti nelle voci 1-4 vengono sommati.

Punti

7

5

2

0

7

5

2

0

3

1

0

3

1

0

Punti

20-16

15-10

9-5

4-0

Classi di qualità

ottima-buona

discreta

mediocre

cattiva

Perdite

basse

medie

alte

molto alte

Note:

- l’ingiallimento è dovuto a piogge o ad un eccessivo tempo di essiccamento in

campo. Il fieno imbrunito dal riscaldamento presenta una ridotta digeribilità

- l’apparenza dipende dalla specie di pianta e dall’epoca dello sfalcio; il fieno di

piante foraggiere avvicendate contiene normalmente più steli di quello di un

prato stabile inoltre, una consistenza dura e pungente del fieno può essere

dovuta a perdite subite durante la fienagione;

- le foglie frantumate comportano un giudizio negativo solo se presenti in

percentuale elevata.

Va osservato che: a) il fieno putrido, fortemente ammuffito o marcio, viene

considerato guasto e non può essere somministrato; b) - il fieno ottenuto

mediante ventilazione ad aria calda ha un valore nutritivo superiore a quello

ottenuto con altri sistemi di essiccamento

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307

10.4.1. Disidratazione artificiale dell'erba

L’essiccazione artificiale dell'erba, ed in particolare della medica, va

assumendo notevole importanza in diversi paesi. L'erba da destinare alla

disidratazione deve provenire da leguminose, essere giovane (25-30 cm di altezza) e

ricca di foglie in modo da avere un optimum di proteine, caroteni e vitamine. La

composizione media di una tale erba disidratata è: umidità 7-9%, proteina grezza 18-

24%, estrattivi inazotati 38-41%, ceneri 10-12,5% e, comunque , per essere di buona

qualità non deve contenere meno del 20% di protidi e più del 22% di fibra. Il

disidratatore impiegato deve consentire una rapida evaporazione dell'acqua dai tessuti

vegetali, in modo che la T delle foglie e degli steli non superi un livello oltre il quale

si verificano fenomeni di denaturazione delle proteine e di altri composti nutritivi. Le

farine delle erbe disidratate vengono largamente impiegate nella preparazione di

miscele bilanciate per il loro utile apporto in caroteni, calcio, vitamine del complesso

B e microelementi minerali.

Una certa ossidazione dei caroteni può verificarsi specialmente quando il foraggio

secco, durante lunghi periodi di conservazione , è esposto alla luce e all’aria; la farina

di erba disidratata può perdere fino a metà del suo contenuto in caroteni in 7 mesi di

conservazione. Una farina di ottima qualità può avere un contenuto in caroteni di

circa 250 mg/kg SS, ma in condizioni eccezionali può raggiungere anche i 450

mg/kg. Poiché la irradiazione degli steroli non può avere luogo durante il rapido

processo di disidratazione artificiale, il contenuto in vitamina D di questi foraggi è

molto basso. Oggi, il foraggio disidratato oltre che nei polli e nei suini viene

impiegato anche nei ruminanti in sostituzione di concentrati proteici e cereali,

somministrati con insilati o fieno. L’associazione insilato - erba disidratata consente

un netto aumento della ingestione di sostanza secca. La digeribilità apparente delle

proteine grezze subisce una modesta riduzione con la disidratazione ma questo

svantaggio viene compensato dal maggior apporto in aminoacidi all’animale, in

quanto è maggiore la quota di proteina del foraggio disidratato che sfugge alla

degradazione dei microrganismi ruminali e che viene quindi digerita a livello

intestinale. In recenti ricerche condotte sugli ovini , la proporzione dell’azoto

aminoacidico totale ingerito, che è risultata apparentemente assorbita a livello del

piccolo intestino, è stata dello 0,41 per il foraggio fresco e dello 0,51 per quello

disidratato. Considerando che con la conservazione si hanno perdite notevoli in

caroteni, xantofille e vitamina E a seguito di processi ossidativi, in passato il foraggio

stesso veniva conservato in celle frigorifere mentre oggi i processi ossidativi vengono

ridotti conservando il prodotto sotto gas inerti; molte industrie, anche per proteggere

il foraggio quando viene tolto dai gas inerti, aggiungono ai foraggi disidratati degli

antiossidanti.

Dopo l’essiccamento, il foraggio è trattato in modo diverso, secondo gli animali cui

è destinato. Per suini e polli, esso viene, di norma, macinato e poi immagazzinato,

come farina o come pellet; per i ruminanti, il foraggio disidratato può essere usato

come foraggio lungo o più comunemente compresso in forme diverse, come pellet o

come pallottole dette wafer. Un pellet è un agglomerato ottenuto con una pressa

rotante (pellettatrice) che trasforma il foraggio macinato in formelle di varie

dimensioni, in funzione della filiera usata; il wafer è, invece, prodotto a partire da

foraggio disidratato trinciato, che viene appallottolato

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CAP. XI. PRODOTTI COMPLEMENTARI DEI FORAGGI E SOTTOPRODOTTI

ALIMENTARI

In generale, si tratta di alimenti fibrosi, poveri di proteine e di valore nutritivo

sensibilmente inferiore a quello dei fieni di media qualità.

11.1 Paglie di cereali

Oltre a servire da lettiera, sono impiegate, più o meno largamente, nell'alimentazione

dei bovini, ovini ed equini, come razione di mantenimento. Il valore nutritivo è di 17-

21 U.F./q per la paglia di grano, 25-30 U.F per quella d’avena e 15-22 per la paglia di

orzo. La paglia possiede una scarsa capacità nutritiva allo stato tal quale a causa del

contenuto elevato di lignina e lignocellulosa; in genere contiene l’80-85% di S.S. di

pareti cellulari di cui il 39-40% costituito da cellulosa, il 22-33% da emicellulosa, il

6-15% da lignina e il 3-8% da silice. Il tenore proteico è irrisorio (2-3%) così come la

digeribilità la quale dipende essenzialmente da:

a) cause intrinseche della paglia (specie vegetale, varietà, metodi di raccolta);

b) sistemi di somministrazione al bestiame;

c) metodiche di trattamento della paglia (industriali e non).

La paglia può essere somministrata da sola o integrata con azoto (urea) e sali

minerali; in quest'ultimo caso il valore nutritivo è pressappoco raddoppiato.

La digeribilità ed il valore nutritivo della paglia possono essere, notevolmente,

aumentati trattando la stessa con metodi fisici, chimici e biologici.

- Metodi fisici - Tra essi si ricorda la macinatura che aumenterebbe l’ingestione

volontaria: l’effetto sarebbe maggiore con foraggi scarsamente digeribili, nei quali,

comunque, il fattore limitante è dato dalla scarsezza di azoto. Con la macinatura la

digeribilità aumenterebbe di circa il 30%, peraltro, si avrebbe un effetto additivo del

15% tra macinatura e trattamento con alcali. In Canada si usa la cottura della paglia

per un’ora, che ne aumenta la digeribilità di 15-17 punti. Ciò consente di ottenere un

prodotto con il 55% di S.S. e con un pH basso (3,5-3,8) a causa della liberazione di

acidi organici. Ultimamente si è tentato di aumentare la digeribilità della paglia

mediante trattamento con raggi gamma le cui radiazioni aumenterebbero la

digeribilità dei materiali ad elevato tenore in fibra (Ibrahim e Pearce, 1980) ma,

rimane il problema dei costi molto elevati del trattamento.

- Trattamenti chimici

a) In umido - Il trattamento umido più conosciuto è quello messo a punto negli anni

’20 da Beckman che consiste nella immersione della paglia in una soluzione di

idrossido di sodio all’1,5-2% per 18-20 ore: la quantità di acqua necessaria per ogni

kg di paglia è di 8-10 litri. Successivamente, la soluzione acqua-soda viene lavata per

18-20 ore e quindi la paglia è pronta per la somministrazione agli animali. Il

materiale ottenuto contiene circa il 20% di S.S. e un contenuto in sodio dello 0,5-

0,6% mentre, la perdita di S.S. è del 20-25%. L’efficacia del trattamento dipende dal

tempo di trattamento e dalla quantità di soda utilizzata. Per quanto riguarda il tempo

di immersione la digeribilità della sostanza organica varia dal 59% con immersione

di 1,5 ore al 71% con immersione di 12 ore; generalmente si consiglia una

immersione di 6 ore. Mentre, per la quantità di soda da impiegare sembra che

quantità al di sopra dei 14 Kg per qle di paglia non migliorano ulteriormente la

digeribilità anche se in Norvegia, dove tale metodica è usata su larga scala, agli

animali viene somministrata paglia trattata con 20 Kg di soda/qle, in ragione di 15-20

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309

Kg per vacca oppure il 30-50% del foraggio di base. Con il metodo Beckman, la

digeribilità della paglia aumenta di 14-27 punti percentuali, valori nettamente

superiori a quelli ottenuti con i metodi a secco dove la quantità di soda non può

superare i 5-6 Kg in quanto l’eccesso non può essere lavato. Gli svantaggi del

metodo, invece, sono rappresentati da un elevato fabbisogno in acqua, da una elevata

perdita di sostanza secca, dal notevole grado di inquinamento ambientale, dalla

necessità dei trattamenti giornalieri. I problemi di inquinamento ambientale prodotti

dalle acque di lavaggio sono stati risolti adottando il metodo Torgrimsby per il quale

sono necessari tre contenitori collegati tra di loro da un piano inclinato: il primo di

essi (A) contiene circa mille litri di soluzione all’1,5% di NaOH necessari per 100 kg

di paglia, il secondo (B) ha una capacità di 2 mila litri, il terzo (C) di mille litri. La

metodica prevede l’immersione, per 19 ore, di 100 kg di paglia nel contenitore A

dopodiché essa è trasferita nel contenitore B dove reagisce con paglia fresca

precedentemente immessa. Dopo 4 ore, quest’ultima viene portata nel recipiente A

dove si aggiungono 4 kg di NaOH mentre la paglia già passata nel contenitore A e B

viene immersa in C, dopodiché viene lavata sul piano inclinato con circa 300 litri di

acqua, susseguentemente riciclata nella vasca C. Quindi alla fine del trattamento di

100 kg di paglia, giornalmente si aggiungono 300 litri di acqua e 4 kg di idrossido di

sodio: il prodotto ottenuto ha un contenuto in sostanza secca di circa il 20% e un

contenuto in sodio del 2% sulla sostanza secca. La digeribilità della sostanza

organica dal 38% passa al 70%.

immersione

con NaOH

1° lavaggio 2° lavaggio

A b C

A

B

C

Livello

terreno

Metodo Beckman modificato da Torgrimsby

L'aumento della digeribilità è dovuto alla rottura dei legami non covalenti fra

lignina, cellulosa ed emicellulose.

b) a secco – Questi sistemi hanno il vantaggio di eliminare la fase del lavaggio della

paglia trattata e quello di poter meccanizzare tutte le operazioni. Mentre, rimane da

risolvere il problema rappresentato dalla impossibilità di adottare livelli di soda

maggiori di 4-5% e ciò è un inconveniente considerando che l’aumento della soda si

ripercuote favorevolmente sulla digeribilità. La metodica prevede diverse fasi:

1) la paglia viene portata a un molino a martelli dal quale, attraverso un ciclone,

perviene al trattamento che consiste in 10-15 litri di una soluzione al 30-45% di

NaOH/100 kg di paglia;

2) pellettatura, essa oltre ad aumentare la densità della paglia da 50 a 500 kg/m3,

causa un riscaldamento della massa a circa 90 °C. Sia la pressione che la temperatura

determinatesi influiscono favorevolmente anche perché si verifica una immediata e

completa penetrazione della soda nella paglia. Spesso i pellettes che escono dalla

cubettatrice, prima di passare al raffreddatore, vengono fatti sostare per 15-20 minuti

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in quanto, se raffreddati subito, subiscono un veloce rialzo della temperatura nel

magazzino.

Con questo trattamento, i componenti sensibili all’azione degli alcali, i legami

lignina-emicellulosa e lignina-cellulosa sono sottoposti ad idrolisi: ciò rende la

frazione emicellulosica più solubile e i carboidrati costituenti la parete cellulare più

fermentescibili. La % di emicellulose che si rende più disponibile dipende dall’entità

del trattamento e in media si aggira intorno al 30-50%

Inoltre, la rottura, o meglio, l’idrolisi del legame lignina-cellulosa consente di rendere

quest’ultima più facilmente aggredibile dagli enzimi presenti nel tubo digerente. Non

tutti i legami lignina-cellulosa sono attaccati dagli alcali e la percentuale di rottura

varia con il tipo e la varietà della paglia: quella di leguminose è meno sensibile al

trattamento con NaOH.

Quando la cellulosa assorbe la soda, le fibre che la compongono subiscono una

profonda disorganizzazione nella loro struttura cristallina, che si trasforma in

un’aggregazione non differenziata, aumentando così la superficie di attacco alle

cellulasi batteriche. L’agente chimico non distrugge la parete cellulare ma la

modifica soltanto, infatti, alle normali analisi chimiche la paglia normale evidenzia

più fibra di quella non trattata.

Prestazioni produttive di bovini e ovini alimentati con razioni contenenti foraggi

trattati o non trattati con alcali* (Greenhalgh, 1983; Agricultaral Progress; 58, 11)

Specie NaOH

No Si

NH3

No SI

Bovini

N. esperimenti

Foraggi nella dieta (%)

Digeribilità**

Ingesta (Kg/giorno)**

Guadagno di peso (kg/giorno)

17

64

0,56 0,64

7,2 8,1

0,62 0,82

10

61

0,58 0,63

6,8 7,8

0,40 0,71

Ovini

N. esperimenti

Foraggi nella dieta

Digeribilità**

Ingesta (g/giorno)**

Guadagno di peso (g/giorno)

10

66

0,57 0,65

994 1259

39 126

7

65

0,52 0,62

1156 1147

73 99

* Foraggi usati: paglia di frumento, di orzo, di riso e stocchi e tutoli di mais

** della sostanza secca totale della razione

In seguito all’attacco con la soda, teoricamente, il valore in energia metabolizzabile

dovrebbe passare da 5,8 a 9,1 MJ/Kg S.S., con un aumento di oltre il 50%. Esistono

pareri contrastanti sull’uso prolungato della paglia trattata a secco con soda, a causa

di una ingestione piuttosto elevata di sodio ma il trattamento si dimostra efficace in

quanto aumenta l’appetibilità, la digeribilità e quindi il valore nutritivo del prodotto.

Peraltro, i profili di organo determinati con analisi del sangue e delle urine non hanno

evidenziato alterazioni a carico della funzionalità renale ed epatica, nonché del

bilancio idrico, elettrolitico e del ricambio minerale.

c) trattamento con ammoniaca - Anziché l’idrato di sodio, può essere utilizzata

l’ammoniaca anidra o l'idrato di ammonio. Se l’ammoniaca è utilizzata in modo

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appropriato aumenta la digeribilità della paglia nella stessa misura in cui lo fa l’idrato

di sodio ma nello stesso tempo aumenta il tenore proteico della paglia, agisce da

fungicida ed evita il problema dei residui di alcali che pone l’idrato di sodio. Ogni

eccesso di ammoniaca si volatilizza rapidamente quando il materiale trattato è

esposto all’aria; peraltro, questo fatto rappresenta uno svantaggio in quanto la paglia

deve essere tenuta chiusa in contenitori a tenuta d’aria. Il tempo di trattamento varia

da diverse settimane, a basse temperature, a sole poche ore a temperatura elevata. Per

ogni tonnellata di paglia le dosi raccomandate sono di 30-35 kg di ammoniaca anidra

e in questo dosaggio essa aumenta il contenuto proteico del materiale trattato di 50

g/kg di sostanza secca.

Se la reazione avviene in contenitori rigidi, isolati termicamente e con

condizionamento della temperatura, la durata del trattamento si riduce a 24 ore. In

Francia e in Danimarca è possibile trattare da 2 a 4 rotoballe al giorno e il ciclo

operativo è cosi composto:

- preriscaldamento, della durata di un’ora, con il quale il forno si porta a 35 °C;

- iniezione e trattamento (14 ore), iniezione dell’ammoniaca sotto forma liquida in

ragione di 40 Kg/tonnellata di paglia. Trattamento della paglia ad una temperatura di

95 °C per il ciclo di 24 ore, a 70 °C per un ciclo di 48 ore:

- riposo, questo tempo è di 6 ore nel ciclo di 24 ore, di 30 ore nel ciclo di 48 ore;

- aerazione (3 ore): ventilazione con aria fresca per espellere l’ammoniaca non

fissata;

- scarico: la paglia così trattata può essere somministra agli animali.

L’ammoniaca è una base più debole dell’idrossido di sodio e quindi il miglioramento

della digeribilità della paglia ottenuto è più basso (in media di 15 punti percentuali,

usando 3 Kg di ammoniaca/100 Kg di paglia). Le prove condotte dall’INRA in

Francia indicano che il trattamento con ammoniaca condiziona un arricchimento

della paglia sia in proteine grezze che in proteine solubili: si verifica inoltre una

maggiore ingestione di S.S.; peraltro aumentano i coefficienti di digeribilità della

S.S., della sostanza organica e delle proteine grezze. Una buona paglia ammonizzata

dovrebbe presentare i seguenti valori: UFL 0,60-0,65; PDIE 62 g; PDIN 50 g; MAD

20-34 g; UE 39 g/Kg P0,75

.

Una forma più economica e sicura di ammoniaca è l’urea, che si decompone in

ammoniaca quando subisce l’azione dell’enzima ureasi:

NH2-CO-NH2 + NH2 + H2O = 2NH3 + CO2.

Le paglie conterrebbero una quantità di enzima sufficiente per realizzare questa

reazione. In ricerche condotte nel Bangladesh, usando paglia di riso accumulata in

fosse scavate nel terreno, l’aggiunta di 30 kg di urea per tonnellata di paglia ne ha

elevato in contenuto in proteina grezza da 29 a 59 g/kg S.S. e la digeribilità della

sostanza organica da 0,45 a 0,54, in un periodo di 20 giorni. In ogni modo, resta

ancora da dimostrare che l’urea, nel migliorare la digeribilità delle paglie, sia

veramente efficace come l’ammoniaca e l’idrato di sodio.

Residui della coltivazione del granturco: gli stocchi, cime e foglie, cartocci e tutoli

sono largamente impiegati nell'alimentazione dei bovini. In genere conviene

trinciarli, sfibrarli e insilarli con l'aggiunta di 300 g/qle di acido formico ed

eventualmente urea (200 g/qle).

Paglie di leguminose: le paglie delle leguminose da granella sono piuttosto

grossolane, ma possono essere utilizzate come alimenti per il bestiame purché

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trinciate e inumidite. Rispetto alle paglie dei cereali, sono più ricche in proteina

grezza e più povere di cellulosio.

Loppe e pule: le loppe di frumento e avena hanno un valore nutritivo pressoché

uguale a quello di un fieno scadente (23-30 U.F./qle); paragonabili ad un fieno

polifita di media qualità sono invece le loppe di medica e trifoglio (protidi digeribili

6-7%, U.F. 45-47/qle).

11.2 Foglie di alberi e residui di potatura

Le foglie di albero in genere contengono il 55-65% d’umidità, il 4,5-12% di

protidi, il 14-22% di fibra grezza, 45-70% di estrattivi inazotati. Il valore nutritivo

varia tra 14 (lentisco) e 74 (ornello) U.F/qle. Molto appetibili agli animali sono le

fogli di gelso, olmo. Le foglie di castagno, carpino, faggio contengono tannini quindi

possono provocare fenomeni di stitichezza. In genere, le foglie vanno raccolte, al

massimo, entro settembre in quanto già prima di ingiallire perdono parte delle

sostanze nutritive digeribili. Le foglie di vite, pur essendo appetibili dagli animali,

bisogna somministrarle con cautela per la presenza di insetticidi e/o anticrittogamici.

Della vite possono essere utilizzati anche i sarmenti che, vanno però sfibrati e

macinati. Per gli animali da lavoro e per gli ovini nell'Italia centromeridionale sono

utilizzate le foglie e le frasche di olivo.

11.3 Foglie, colletti e polpe fresche di bietola

Le foglie ed i colletti forniscono circa 12 U.F./qle. Possono causare

degli inconvenienti quali diarrea, conferimento di odore e sapore sgradevole al latte,

demineralizzazione. Le polpe di bietola presentano gli stessi inconvenienti delle

foglie e dei colletti; per lo più sono insilate. Le cime di barbabietola sia da foraggio

sia da zucchero bisogna somministrarle con cautela agli animali in quanto possono

causare diarrea, altri disturbi e raramente anche la morte degli animali. Il rischio

sembra ridursi se le foglie si lasciano appassire. Gli effetti tossici sono stati attribuiti

all’acido ossalico ed ai suoi sali, i cui tenori si riducono con l’essiccamento. Studi più

recenti indicano che gli ossalati non si riducono con l’appassimento e ciò indica che

sono altre le sostanze incriminate e che, invece, con l’appassimento si riducono.

11.4. Radici

Principali caratteristiche delle radici sono l’elevato contenuto in acqua (75-

94%) ed il basso contenuto in fibra grezza (4-13%). La sostanza organica delle radici

è formata soprattutto da zuccheri ed è altamente digeribile (80-87%). Le radici sono

normalmente povere in proteina grezza. La composizione è in parte condizionata

dalla stagione così, ad esempio, il contenuto in SS è maggiore nelle radici prodotte

durante le stagioni calde e siccitose rispetto a quelle coltivate durante la stagione

fredda e umida. Anche la dimensione della radice ha la sua influenza sulla

composizione, infatti, quelle grosse contengono meno SS e fibra grezza e sono più

digeribili che quelle piccole. In passato, le radici erano considerate come

un’alternativa agli insilati nell’alimentazione dei ruminanti mentre, oggi si ritiene che

possano sostituire anche i cereali. Le radici sono modeste fonti di vitamine ad

eccezione delle carote che sono ricche di betacarotene, la provitamina A. Fra esse,

ricordiamo la rutabaga, le rape, le barbabietole da foraggio, semizuccherine e da

zucchero.

Le barbabietole, sia da foraggio sia semizuccherine e da zucchero, appartengono tutte

alla specie Beta vulgaris e per comodità sono in genere classificate secondo il loro

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contenuto in sostanza secca. Le barbabietole da foraggio sono quelle che contengono

meno sostanza secca (90 -120 g/kg in quelle a basso contenuto e 120-150 in quelle a

medio contenuto), meno zuccheri ma più proteine al contrario delle barbabietole da

zucchero che sono più ricche in zuccheri (soprattutto saccarosio) e in sostanza secca

ma più povere in proteine; le barbabietole semizuccherine rappresentano la vie di

mezzo. I valori in EM calcolati sulla sostanza secca variano da circa 12 a 14 MJ/Kg e

quelli più alti riguardano la barbabietola da zucchero.

Normalmente le barbabietole da foraggio dopo essere state raccolte sono

immagazzinate per alcune settimane, in quanto se somministrate appena raccolte

possono esercitare un certo effetto purgativo il quale è dovuto alla presenza di nitrati

che, durante la conservazione vengono convertiti in asparagina. Diversamente dalle

rape, le barbabietole da foraggio non alterano la qualità del latte quando

somministrate alle lattifere.

Le barbabietole semizuccherine a medio tenore in s.s. contengono da 140 a 180 g/kg

di sostanza secca, mentre le varietà ad alto contenuto in S.S. possono contenere fino a

220 g/kg. E’ necessario adottare precauzioni nell’alimentazione dei bovini con

barbabietole semizuccherine ad alto tenore in s.s. in quanto un loro eccessivo

consumo può causare disturbi dell’apparato digerente, ipocalcemia e anche la morte

degli animali. I disturbi probabilmente sono legati all’elevato contenuto in zuccheri

di queste radici. Nell’alimentazione dei suini, invece, le barbabietole semizuccherine

in elevate concentrazioni nella razione danno soddisfacenti risultati, ma il periodo di

ingrasso è più lungo che con l’uso di barbabietole da zucchero. La digeribilità della

sostanza organica delle barbabietole semizuccherine è molto elevata, circa il 90%.

La barbabietola da zucchero, generalmente, è coltivata per la produzione industriale

dello zucchero ma a volte è utilizzata nell’alimentazione soprattutto delle vacche e

dei suini. Dopo l’estrazione dello zucchero si ottengono due sottoprodotti:

a) polpe di barbabietola: dopo l’estrazione dello zucchero rimane un residuo

chiamato polpa di barbabietola; il contenuto in acqua di questo sottoprodotto è di

circa l’80-85% e le polpe possono essere vendute fresche per l’alimentazione di

animali in produzione zootecnica o più frequentemente, causa le difficoltà di

trasporto, esse sono essiccate fino a far scendere il contenuto in acqua al 10%. Poiché

il processo di estrazione asporta i principi alimentari solubili in acqua, il residuo

secco risulta principalmente costituito da polisaccaridi delle pareti cellulari e quindi

il tenore in fibra è relativamente elevato (20%), il contenuto in proteina grezza (10%)

e in fosforo è basso. A causa dell’elevato contenuto in fibra non vengono, di norma,

utilizzate nell’alimentazione dei polli e dei suini ma in larga misura nei bovini e

ovini all’ingrasso e soprattutto nelle lattifere;

b) melasso di barbabietola: dopo la cristallizzazione e la separazione dello zucchero

dall’estratto acquoso, rimane un liquido denso, nerastro, chiamato melasso il quale

contiene il 70-75% di s.s. della quale circa il 70% è rappresentata da zuccheri. La

sostanza secca del melasso contiene solo il 2-4% di proteine grezze e la maggior

parte di queste si trova sotto forma di composti di azoto non proteico, ivi inclusa

un’ammina, la betaina, che è responsabile dell’odore di pesce che si libera nel corso

dell’estrazione. Il melasso è un alimento con azione lassativa e quindi è

somministrato in piccole quantità. Di norma è aggiunto alle polpe di bietola e in

questo caso esse sono chiamate polpe di barbabietola secche melassate. Fra i prodotti

utilizzati per assorbire melasso sono segnalati la crusca, le trebbie di birra, gli

embrioni di malto, il luppolo esaurito. Il melasso, generalmente, è impiegato in

misura del 5-10% nella preparazione dei mangimi pellettati; esso non solo migliora il

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sapore del prodotto aumentandone l’appetibilità ma agisce anche da agente legante.

Peraltro, visto che rappresenta una fonte ricca, relativamente economica, di zuccheri

solubili, il melasso viene a volte usato come additivo nella produzione di insilati.

11.5.Tuberi

I tuberi differiscono dalle radici in quanto contengono amido o fruttosani,

anziché saccarosio o glucosio, quale principale carboidrato immagazzinato. Il loro

contenuto in sostanza secca è più elevato ed è più basso il tenore in fibra grezza

perciò si adattano meglio per l’alimentazione dei polli e dei suini.

Composizione chimica e valore alimentare delle radici, sottoprodotti delle radici e dei

tuberi (su sostanza secca)

Radici:

rape

barbabietola:

da foraggio

semizuccherina

da zucchero

Sottoprodotti delle

radici:

melasso

polpe di barbab. da

zucchero

Tuberi:

manioca

patate

topinambur

patate dolci (batata)

S.S.

(g/kg)

80

110

160

230

750

860

880

210

200

320

Sostanza

organica

(g/kg)

922

933

926

970

931

918

970

957

945

966

Proteina

grezza

(g/kg)

122

100

60

48

40

92

30

110

75

39

Fibra

grezza

(g/kg)

111

58

45

48

0

144

43

38

35

38

Degradaz.

proteica

nel rumine

0,85

0,85

0,85

-

0,80

0,70

0,80

0,85

-

-

EM*

(MJ/kg)

11,2

12,4

12,5

13,7

12,0

12,5

12,8

13,3

13,2

12,7

* per i ruminanti

Patate - Il principale componente delle patate è l’amido (70% sulla S.S.) il quale è

presente sotto forma di granuli che variano di dimensioni secondo la varietà. Il

contenuto in zuccheri delle patate, appena raccolte, raramente supera i 50 g/kg di S.S.

mentre, in quelle immagazzinate i valori sono superiori; il contenuto è influenzato

dalla temperatura del magazzino: valori particolarmente alti (300 g/kg S.S.) sono stati

trovati in patate conservate a -1 °C. Lo zucchero a sua volta può essere ossidato con

produzione di anidride carbonica durante la respirazione; l’attività respiratoria

aumenta con la temperatura. Il contenuto in proteine grezze è di circa l’11% sulla

S.S., ma circa la metà di queste vi figura sotto forma di composti azotati non proteici.

Uno di questi composti è l’alcaloide solanidina che si trova libera o anche in

combinazione come glucoside, quali la solanina e la caconina. La solanidina ed i suoi

derivati sono tossici per gli animali e provocano forme di gastroenteriti. Il livello di

alcaloide può essere alto in patate esposte alla luce le quali si presentano verdi per la

produzione di clorofilla. I tuberi verdi dovrebbero quindi essere usati con prudenza,

anche se la rimozione delle gemme e della buccia, nella quale è concentrata la

solanidina, ne riduce la tossicità. Peraltro la solanidina è più concentrata nei tuberi

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immaturi rispetto a quelli maturi. Il rischio di tossicità può essere inoltre ridotto

cuocendo le patate a vapore o in acqua; in quest’ultimo caso, l’acqua dove sono stati

cotti i tuberi non va somministrata agli animali. Nei suini, la digeribilità delle

proteine delle patate con la cottura passa da circa il 23% al 70%; ciò sarebbe dovuto

alla presenza di un inibitore termolabile delle proteasi nelle patate crude che sarebbe

distrutto con la cottura. La cottura è necessaria nei suini e nei polli ma non nei

ruminanti dove, probabilmente, il fattore inibitore delle proteasi è distrutto a livello

ruminale. Per i suini e i polli il valore in EM delle patate cotte è analogo a quello del

mais, circa 14-15 MJ/kg S.S.

Le patate sono povere in elementi minerali, ad eccezione del potassio che vi abbonda

e relativamente elevato è anche il contenuto in fosforo il quale è parte integrante della

molecola di amido e per il 20% si trova sotto forma di fitati. Le patate possono essere

conservate allo stato fresco o essiccate: le patate cotte sono passate attraverso rulli

riscaldati per produrre fiocchi di patate essiccate oppure i tuberi affettati sono

essiccati direttamente in corrente d’aria e successivamente sono ridotti in farina.

Manioca - è un arbusto perenne, tropicale, che produce tuberi alla base del fusto i

quali sono usati per la produzione di fecola, la tapioca, per l’alimentazione umana,

ma sono anche usati per l’alimentazione di bovini, suini e polli. Il contenuto in EM è

similare a quello delle patate mentre risulta più elevato il contenuto in sostanza secca

e più basso quello in proteine grezze. Sia la pianta sia i tuberi di manioca in un certo

senso sono velenosi in quanto contengono due glucosidi cianogenetici (la linamarina

e la lotoustralina) che si scindono rapidamente liberando acido cianidrico. Per ridurne

gli effetti dannosi si ricorre alla bollitura oppure i tuberi sono grattugiati e spremuti o

macinati e la polvere ottenuta è poi pressata. La farina è impiegata in parziale

sostituzione dei grani di cereali, con l’avvertenza di correggere il deficit proteico che

ne deriva. Dopo l’estrazione dell’amido dalla manioca rimane un elevato contenuto

in fibra grezza (27% su S.S.) che va usato in misura limitata nei monogastrici

11.6. Sottoprodotti dell’orzo

Per la produzione della birra, l’orzo è bagnato e fatto germinare e durante

questo processo che dura circa 6 giorni, si ha lo sviluppo di un sistema enzimatico

(diastasi o amilasi) capace di idrolizzare l’amido a destrine e maltosio, le reazioni

enzimatiche, comunque, sono maggiori in una fase successiva detta mashing la quale

serve a realizzare le condizioni favorevoli all’azione degli enzimi sulle proteine e

sull’amido. Prima del mashing i grani sono essiccati avendo cura di non inattivare gli

enzimi e il prodotto così ottenuto è detto malto; le radichette e i germi sono rimossi

dal malto e sono venduti come:

- germi o embrioni di malto, i quali contengono il 27% di proteine, sono impiegati

prevalentemente nei ruminanti e negli equini in quanto hanno un elevato contenuto in

fibra grezza e non hanno un elevato contenuto energetico. Gli embrioni di malto

assorbono rapidamente acqua e ad evitare che si gonfino nello stomaco sono

inumiditi abbondantemente prima di somministrarli agli animali; inoltre, essi hanno

sapore amarognolo e quindi razioni che ne contengono elevate quantità risultano

poco appetite agli animali. Il malto è frantumato e vi sono aggiunte piccole quantità

di altri cereali quali mais e riso; la miscela è trattata con acqua e la temperatura del

mash aumenta fino a 65 °C. Con il mashing, l’amido è convertito a destrine e

maltosio e piccole quantità di altri zuccheri. Dopo che il processo mashing è

completato il liquido zuccherino o mosto di malto è separato per filtrazione dai

residui insolubili, che prendono il nome di:

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- trebbie di birra, le quali se fresche contengono il 70-76% di acqua e possono

essere somministrate a bovini, ovini, cavalli o in alternativa essere insilate. Esse

possono essere essiccate (10% di umidità) e vendute come trebbie secche. La

degradabilità delle proteine delle trebbie, a livello ruminale è di 0,6 contro lo 0,8

delle proteine dell’orzo. Successivamente, il mosto di malto è bollito con luppolo

che gli conferisce il caratteristico aroma; poi è filtrato, ottenendone un residuo che è

essiccato e venduto come:

- luppolo esaurito, esso è un prodotto fibroso che può essere paragonato ad un fieno

di qualità mediocre rispetto al quale è meno appetibile forse perché amarognolo e più

che per l’alimentazione del bestiame è utilizzato come fertilizzante. Il mosto di malto

è fatto fermentare con l’aggiunta di lievito in un recipiente aperto e per alcuni giorni

durante i quali la maggior parte degli zuccheri è trasformata in alcol e anidride

carbonica. A fermentazione avvenuta, il lievito è separato per filtrazione, essiccato e

venduto come:

- lievito di birra essiccato, il quale contiene circa il 42% di proteine, è altamente

digeribile e può essere utilizzato per tutte le categorie di animali. Inoltre, esso è

un’importante fonte di vitamine del gruppo B, è relativamente ricco in fosforo ma

povero di calcio. In distilleria, i materiali solubili possono essere estratti, come

avviene nella fabbricazione della birra oppure l’intera massa è sottoposta a

fermentazione; l’alcol è poi separato per distillazione; dopo filtrazione, il materiale

che rimane è venduto come borlande fresche o secche.

Altri sottoprodotti: pastazzo di agrumi, vinacce, sanse di oliva.

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317

CAP. XII. MANGIMI CONCENTRATI

Sono caratterizzati da un alto contenuto in sostanze nutritive digeribili, un

basso contenuto in fibra grezza e da un valore nutritivo pari o maggiore a quello dei

foraggi migliori. Sono richiesti soprattutto per gli animali che necessitano di razioni

con valore nutritivo elevato (animali in accrescimento, lattifere). I concentrati

possono essere di origine vegetale (cereali, leguminose da granella, semi di altre

piante, residui della lavorazione del riso, residui dell'estrazione dell'olio di semi

oleosi, residui dello zuccherificio, residui di altre industrie) e animale (residui

dell'industria lattiero-casearia, residui delle industrie delle carni e del pesce, altri

prodotti).

Mangimi concentrati

Caratteristiche

Alto contenuto in SND

Scarso contenuto in fibra

Valore nutritivo > migliori fieni (75-125 UF/qle

Impiego

Lattifere con produzioni giornaliere > 20 Kg

Bovini da carne a sviluppo precoce (2-3 U.F/qle)

Suini da allevamento e ingrasso (4-5 UF/qle)

Esigenze

Lattifera con 25 l di latte

al 3,5% di grasso

razione 12,8 UF:28 Kg di fieno o

100 Kg erba fresca

proteine?

Razione

voluminosa

Aumento lavoro peristaltico

Dilatazione e sfiancamento dell’addome

Ridotta digeribilità dei foraggi

Animali giovani - minore capacità utilizzazione foraggi grossolani

- maggiore fabbisogno nutritivo rispetto al peso

12.1 Mangimi di origine vegetale

12.1.1 Cereali

Essi hanno un valore nutritivo compreso tra 80-115 U.F./qle, un contenuto

proteico tra 8-12%, un basso contenuto in fibra grezza (2-5%) e sono ricchi in

estrattivi inazotati (60-70%). Sono poveri in calcio (< 0,1%), ma ricchi in fosforo

(0,3-0,4%). Le proteine dei cereali sono carenti di metionina, lisina, triptofano. I

cereali, ad eccezione della granella di mais giallo, sono privi di vitamina D e di

caroteni. Sono relativamente ricchi di tiamina (vitamina B1), ma poveri di riboflavina

(vitamina B2); il contenuto in niacina è elevato nell’orzo e nel frumento e scarso

negli altri cereali. Quanto detto vale per le farine integrali dato che le vitamine si

trovano nella porzione esterna del seme, che costituisce le crusche e i cruschelli.

12.2.1 Trattamenti intesi ad aumentare il valore nutritivo dei cereali

Le cariossidi possono essere somministrate allo stato secco oppure umido.

Generalmente, quelle secche sono sottoposte ad una serie di trattamenti chimico-

fisici (macinazione, schiacciatura, fioccatura, estrusione, cottura, micronizzazione,

imbibizione) per aumentarne l’appetibilità, la digeribilità e quindi il valore nutritivo.

Le diverse tecniche possono essere raggruppate in due tipi fondamentali: processi a

caldo, nei quali si ha impiego di calore o il calore si genera nel corso del trattamento

e processi a freddo nei quali la temperatura della granella non subisce variazioni

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significative. Fra i processi a caldo figurano la fioccatura, la micronizzazione, la

tostatura e la pellettatura a caldo.

La fioccatura aumenta la digeribilità in maniera considerevole (8-12%); si ottiene

esponendo le cariossidi al vapore per circa 10 minuti (gelatinizzazione dell’amido

che diviene più solubile e quindi più digeribile) e nel successivo schiacciamento fino

allo spessore di circa 1 mm (aumenta la superficie di attacco enzimatico). Essa è

usata spesso per i semi di mais i quali sono prima sottoposti all’azione del vapore,

poi passati attraverso rulli, riscaldati o non, per produrre fiocchi sottili, che sono

successivamente raffreddati ed essiccati. I fiocchi di mais sono considerati più graditi

agli animali e dimostrano coefficienti di digeribilità superiori a quelli della granella.

Il trattamento a vapore e la fioccatura fanno aumentare la proporzione di acido

propionico fra gli acidi grassi volatili che si formano nel rumine.

La micronizzazione è un processo che indica un modo di cottura mediante raggi

infrarossi (prodotti da ceramiche refrattarie scaldate); le granelle sono poi schiacciate

fra rulli e quindi raffreddate; in questo processo, i granuli di amido si gonfiano, si

rompono e gelatinizzano rendendosi più sensibili all’attacco enzimatico a livello

intestinale.

La pellettatura a caldo, almeno nei polli, sembra offrire migliori risultati rispetto a

quella a freddo, infatti, si osservano migliori incrementi ponderali e indici di

utilizzazione dell’alimento.

Fra i processi a freddo risultano la macinazione, la rullatura, la schiacciatura, la

pellettatura a freddo e l’aggiunta di acidi organici o di alcali.

La macinazione aumenta l’efficienza di masticazione nei bovini e nei suini e facilita

la mescolanza con altre sostanze alimentari; la superficie esposta all’attacco degli

enzimi aumenta con il grado di finezza delle farine determinando, entro certi limiti

(2,5-3 mm), una maggiore digeribilità.

Gli acidi organici, soprattutto l’acido propionico, sono a volte aggiunti alle granelle

molto umide in veste di inibitori delle muffe. Alcuni Fusarium sono spesso presenti

sulla granella ammuffita ed è noto che questi funghi producono metaboliti, come lo

zearalenone, che nei suini possono causare vulvo-vaginiti e una sindrome

caratterizzata da incoordinazione dei movimenti e zoppicature. Il trattamento con

idrato di sodio recentemente è stato proposto come alternativa al trattamento

meccanico (rullatura) dei semi di cereali e ha lo scopo di ammorbidire gli invogli

esterni, senza esporre l’endosperma ad una rapida fermentazione ruminale;

attualmente i risultati non sono soddisfacenti anche perché la digeribilità sembra

abbassarsi. Il ricorso a questi trattamenti, comunque, non sempre risulta necessario,

soprattutto quando le cariossidi sono destinate ad alcune categorie di ruminanti

(vitelli in svezzamento, bovini all’ingrasso dove le cariossidi macinate o fioccate

sarebbero fermentate quasi esclusivamente a livello ruminale provocando, oltre ad

una perdita di energia, l’ispessimento della parete ruminale con la conseguente

riduzione della sua funzionalità assorbitiva. Con la somministrazione delle granelle

intere diminuisce l’intensità delle fermentazioni ruminali il che insieme all’azione

meccanica della forma fisica (effetto foraggio), favorisce un regolare sviluppo del

rumine nei vitelli in svezzamento e un’attività microbica che facilità l’assorbimento

degli acidi grassi volatili attraverso la parete ruminale. Peraltro, una parte dell’amido

non utilizzato nel rumine sarebbe digerita, senza perdite di energia, a livello del

duodeno ad opera dell’-amilasi.

I cereali di più largo consumo sono:

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- mais: è insostituibile soprattutto negli animali da ingrasso, il suo valore nutritivo è

compreso tra 105-112 U.F./qle. Benché sia un’eccellente fonte di energia digeribile,

esso è povero di proteine (9-14% su S.S.) e le sue proteine hanno un basso valore

biologico. Le principali proteine sono: a) la zeina, è la più importante ma è carente

negli aminoacidi essenziali triptofano e lisina, b) la glutelina, si trova in minor

quantità, nell’endosperma e nel germe, e rappresenta una migliore fonte dei due

aminoacidi.

Recentemente è stata prodotta una nuova varietà, l’Opaque-2, che si caratterizza per

un maggior contenuto in lisina e un diverso rapporto zeina:gluteina rispetto alle

varietà normali. L’Opaque-2 ha un maggior valore alimentare per i suini, uomo e

pulcini ma solo nelle diete ricche in metionina. Un’altra varietà, la Floury-2 contiene

una maggiore quantità sia di lisina sia di metionina.

Sotto l'aspetto mangimistico distinguiamo:

a) mais tipo yellow a seme dentato ed endosperma farinoso (66% di amido) preferito

per l'alimentazione dei bovini e suini all'ingrasso;

b) mais tipo Plata a cariosside poco dentata e frattura semivitrea; è consigliato per il

pollame;

c) mais tipo Marano a cariosside non dentata e frattura vitrea; questo tipo è l'ideale

per l'alimentazione delle ovaiole e dei polli in quanto è molto ricco in xantofille che

passano nel tuorlo delle uova e nel grasso sottocutaneo dei polli.

- orzo: il suo valore nutritivo è stato preso come unità di misura nel metodo

scandinavo, in quello delle UF latte e carne e nel metodo delle UF cavallo, perciò 1

qle di orzo corrisponde a 100 U.F., ma nelle migliori qualità può salire a 104-106

U.F.. Il valore in energia metabolizzabile (MJ/kg S.S.) è di circa 13 per i ruminanti,

13,7 per i suini e 12,5 per i polli.

La sua somministrazione produce un miglioramento nello stato di nutrizione degli

animali. Oltre che essere considerato un alimento rinfrescante, nei suini migliora la

qualità del lardo e della carcassa.

Il contenuto in proteine grezze della granella è varia dal 6 al 16% sulla S.S. ed esse

sono carenti dell’aminoacido lisina. Il contenuto lipidico in genere è inferiore a 25

g/kg S.S. Viene usato soprattutto nei bovini da carne, vecchie lattifere, suini da

allevamento o da ingrasso, nonché nei cavalli. Nel sistema di alimentazione per i

bovini, detto barley beef, i vitelli sono ingrassati con razioni che contengono circa

l’85% di orzo schiacciato e nelle quali sono esclusi i foraggi. In questo sistema l’orzo

è trattato in modo tale che la spata rimanga intatta e l’endosperma sia esposto; i

risultati migliori si ottengono facendo passare la granella fra due rulli con un

contenuto di umidità del 16-18%. La conservazione dell’orzo con elevata umidità

può causare la formazione di muffe e allora è necessario conservarlo in condizioni

anaerobiche o trattandolo con degli inibitori delle muffe, come l’acido propionico.

Alimentando i ruminanti con diete ad alto contenuto in concentrati si possono correre

dei rischi, come il meteorismo; per ciò è necessario abituare gradualmente gli animali

a questo tipo di alimentazione. Inoltre, le diete ad elevatissimo contenuto in cereali

devono essere integrate con vitamina A e D e con minerali. L’orzo prima di

somministrarlo ai polli deve essere privato delle ariste per evitare disturbi digestivi.

- avena: è un alimento tradizionale dei cavalli, ma è utilizzato largamente negli altri

animali (da allevamento, giovani riproduttori maschi). Ha la proprietà di stimolare il

tono neuro-muscolare, probabilmente dovuta al valore biologico della proteina

rispetto agli altri cereali (78%) e/o al maggior contenuto in fosforo (0,33-0,35%).

Fornisce 80-90 U.F. che possono salire a 115 nei fiocchi di avena.

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- sorgo: rispetto agli altri cereali è meno apprezzato perché il tegumento è ricco di

tannini e per la minore appetibilità. E’ utilizzato maggiormente nei bovini e nei suini

da ingrasso, di meno nelle ovaiole a causa della sua carenza di carotenoidi

pigmentati. Sembra che alcune varietà contengano una sostanza capace di ritardare

l'impiumamento e l'accrescimento dei pulcini, predisponendoli al cannibalismo.

- frumento: quando vi sia la convenienza economica può sostituire il mais e l'orzo; ha

un valore nutritivo di 103 U.F./qle.

- segale: è usata soprattutto nei paesi dell'Est.

12.3 . Semi di leguminose

I semi di leguminose, rispetto a quelli di cereali, sono più ricchi in proteine

(20-38%), calcio (0,10-0,15%) e fosforo (0,3-0,5%) e sono più poveri in estrattivi

inazotati (35-50%) e fibra grezza (5-8%). Fra essi ricordiamo soprattutto:

- fave: contengono il 20-25% di protidi grezzi con un ottimo livello di lisina e

metionina. Il valore nutritivo è 100-102 U.F./qle. Sono un ottimo alimento per il

bestiame giovane e per i riproduttori.

Non devono essere usate in dosi troppo elevate perché causano disturbi digerenti; alle

lattifere non bisogna somministrare più di 1-2 kg il giorno per non alterare il sapore

del latte.

- veccia: ha un valore nutritivo pressoché uguale a quello delle fave. È poco

consigliata nei suini perché può causare inconvenienti (indigestioni, dermatiti) e nei

cavalli dove si può avere una sindrome tossica (latirismo).

- lupini: contengono molti protidi (32-40%), ma sono poco appetiti perché

amarognoli; spesso possono causare intossicazioni dovute alla lupaina (alcaloide) e

alterano il sapore del latte e del burro.

12.4. Semi diversi:

- carrube. Più che i semi sono usate le silique. Allo stato secco contengono estrattivi

inazotati (70%), proteine (6%), fibra grezza (9%). Spesso sono impiegate per rendere

appetibili altri alimenti. Si usano soprattutto negli equini e nelle vacche da lavoro. Il

valore nutritivo e di 92-95 U.F./qle.

- ghiande. Le ghiande di quercia, farnia, cerro e leccio sono ottime per l'ingrasso dei

suini. Forniscono 104 U.F./qle.

12.5. Residui della macinazione dei cereali

I cruscami del frumento sono distinti in crusca, cruschello, tritello e farinetta.

In genere contengono il 13-16% di protidi grezzi, 52-63% di estrattivi inazotati e 5-

10% di fibra. Sono ricchi in vitamine del gruppo B (tiamina, nicotamide, acido

pantotenico, colina) e in fosforo. Il valore nutritivo è 75-80 U.F. per la crusca, 80-82

per il cruschello, 97 per il tritello e 98 per le farinette. La crusca è il mangime più

usato per i bovini in quanto è molto appetibile ed ha azione dietetica lassativa. E’

somministrata soprattutto agli animali giovani e a quelli in lattazione. Negli equini,

lunghe somministrazioni possono causare calcoli intestinali e una sindrome morbosa

a carico delle ossa, dovuta allo squilibrio tra P e Ca. I suini in fase di ingrasso, la

crusca la digeriscono e utilizzano poco.

Il cruschello, rispetto alla crusca, è più ricco in protidi (15-16%) ed ha un migliore

equilibrio Ca/P. E' preferibile usarlo negli animali giovani e dopo lo svezzamento.

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Il tritello contiene dal 14 al 17% di protidi grezzi ed il 54-58% di estrattivi inazotati;

mentre le farinette sono meno ricche di proteine grezze (13,5-14,5%). Questi due

cruscami vanno molto bene nelle miscele di svezzamento e di ingrasso.

12.6. Residui della lavorazione del riso

Sono rappresentati da:

- lolla: è priva di valore nutritivo in quanto contiene molta fibra (40-42%) e ceneri

ricche di silice;

- pula: è molto ricca in fosforo (1,8%) e vitamine del complesso B ed ha un valore

nutritivo di 75-80 U.F.. Il suo impiego è indicato per i bovini e gli equini, ma non per

i suini all'ingrasso;

- farinaccio di riso: fornisce 95-105 U.F.; essendo più ricco di amido rispetto alla

pula si presta bene per le miscele da destinare agli animali all'ingrasso;

- granoverde e risina: forniscono rispettivamente 103 e 106 U.F./qle; vanno bene

soprattutto come becchime per i polli.

12.7. Residui dell'estrazione dell'olio dai semi oleosi

I principali procedimenti usati per l’estrazione dell’olio sono due: il primo

impiega la pressione, il secondo usa un solvente organico, normalmente l’esano e in

alcuni casi il tricloroetilene per sciogliere l’olio presente nei semi. Alcuni semi

(arachide, cotone, girasole) presentano un guscio, ricco di fibra, di bassa digeribilità,

che ne diminuisce il valore nutritivo. Il guscio può essere totalmente o parzialmente

rimosso mediante frantumazione e setacciatura, in altre parole attraverso il processo

di decorticazione. I semi destinati all’estrazione dell’olio sono frantumati e

schiacciati per produrre scaglie con uno spessore di circa 0,25 mm che sono

sottoposte a cottura, alla temperatura di 104 °C per 15-20 minuti. La temperatura poi

è elevata fino a 110-115 °C finché il contenuto in acqua è ridotto a circa il 3%. Il

materiale poi è passato attraverso un cilindro orizzontale perforato nel quale ruota

una struttura a vite di passo variabile; si ottengono pressioni fino a 40 MN/m2. Ciò

che residua dopo la pressione esercitata dalla vite ha un contenuto in olio che oscilla

tra il 2,5 e 4%. Le presse cilindriche utilizzate sono chiamate expeller e il metodo di

estrazione è detto processo expeller. Solo il materiale che ha un contenuto in olio

inferiore al 35% è adatto per l’estrazione con solventi, se, invece, il contenuto è

maggiore è necessario sottoporre prima il materiale a pressione per ridurre il

contenuto in olio.

Il materiale prima deve essere ridotto a scaglie e poi o si fa passare il solvente

attraverso le scaglie o queste sono immerse nel solvente e il prodotto che né deriva,

in genere, ha un contenuto lipidico inferiore all’1% e contiene residui del solvente

che possono essere eliminati con il riscaldamento.

Circa il 95% dell’azoto dei semi oleaginosi è presente nelle farine sotto forma di

proteine. Normalmente, la loro digeribilità è del 75-90% e sono di buona qualità. Il

valore biologico di queste proteine è più elevato rispetto a quelle dei cereali e, per

alcune di esse, si avvicina a quello delle proteine delle farina di pesce o di carne.

Comunque, la loro qualità è inferiore a quella delle proteine animali in quanto non

hanno una composizione amminoacidica equilibrata, infatti, spesso hanno un basso

contenuto in cistina, metionina e lisina. La qualità delle proteine di un determinato

seme oleaginoso è relativamente costante ma è influenzata dal metodo di estrazione.

Le alte temperature e pressioni adottate con il processo expeller abbassano la

digeribilità e denaturano le proteine e quindi ne abbassano il valore nutritivo. Per i

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ruminanti, la denaturazione può risultare positiva in quanto può provocare una

riduzione della degradabilità ruminale delle proteine stesse. Le alte temperature e le

pressioni possono anche esercitare un utile controllo nei riguardi di principi dannosi

come il gossipolo e alcune sostanze gozzigene.

Quando l’estrazione è fatta con solventi, non entrano in gioco le alte pressioni e le

temperature sono relativamente basse e, quindi, il valore proteico delle farine così

ottenute e similare a quello del seme di partenza. I panelli di semi oleaginosi possono

dare un notevole contributo al contenuto energetico della dieta, specie quando il loro

tenore lipidico è elevato. Ciò, dipende dal procedimento impiegato: le farine di soia

expeller possono avere un contenuto in olio del 6,6% e un contenuto in energia

metabolizzabile di 14 MJ/kg S.S. mentre, le farine di soia estratte con solventi

contengono l’1,7% di olio e 12,3 MJ di energia metabolizzabile per kg di sostanza

secca.

Comunque, l’uso incontrollato di panelli ad elevato tasso lipidico può provocare

disturbi digestivi e se l’olio è insaturo si può osservare un diminuita consistenza del

burro e del grasso di deposito, nonché effetti negativi sulla qualità della carcassa. Le

farine di estrazione hanno usualmente un elevato contenuto in fosforo, il che aggrava

la situazione nei riguardi del contenuto in calcio, che è generalmente basso. Buono è

il contenuto in vitamine del gruppo B, mentre è modesto il contenuto in caroteni e

vitamina E.

Si dicono panelli i residui che provengono dalla estrazione per pressione, mentre si

chiamano farine di estrazione se l'olio è stato estratto mediante solventi. Le farine

contengono una percentuale di grassi (0,7-1,5%) inferiore a quella dei panelli (5-8%)

e sono meno nutritive. I panelli e le farine hanno elevato tenore in proteine (22-50%)

la quale è piuttosto carente in lisina e metionina.

Essi sono mangimi di alto valore nutritivo ed a relazione nutritiva stretta perciò sono

adatti a bilanciare razioni di foraggio poveri di proteine e a soddisfare le esigenze

delle buone lattifere e degli animali all'ingrasso. La differenza in valore nutritivo tra i

panelli e le farine è di circa 5-8 U.F. in favore dei primi. Vanno ricordati:

- panello e farina di estrazione di soia: sia il panello sia le farine sono mangimi

eccellenti per gli animali in accrescimento in quanto sono ricchi di proteina (44-45%)

ed il valore biologico di questa (glicinina) è il più elevato fra gli alimenti vegetali per

la ricchezza in lisina e triptofano. Il valore biologico della soia aumenta con la

cottura in quanto sono distrutti il fattore antitripsinico e altre sostanze tossiche.

- panello e farina di arachide: è un alimento eccellente per tutti gli animali in quanto

non presenta effetti negativi sulla qualità della carne e del latte e ha un elevato

contenuto proteico (44-50%). Il panello fornisce circa 105 U.F..

- panello di lino: è impiegato nell'alimentazione delle vacche in produzione, cavalle e

scrofe che allattano, animali in accrescimento. Non va somministrato ai suini e ai

vitelli da carne, altrimenti sia il grasso sia il lardo risultano piuttosto teneri. Nei

pulcini rallenterebbe la crescita.

- farina di cotone: la farina proveniente da semi sgusciati contiene circa il 47-50% di

proteine grezze di cui il 40% digeribili e circa 92-100 U.F./qle. Non dovrebbe essere

usata in dosi superiori al 15% della razione in quanto contiene un pigmento

(gossipolo) che causa intossicazioni e lesioni epatiche e renali nei polli, suini e

vitelli. Nei bovini adulti il fenomeno non si verifica, ma dosi eccessive causano un

indurimento del burro ed un suo leggero sapore di sego. Nelle ovaiole quantità

superiori al 5-7% nelle miscele causano nel tuorlo un colore olivastro con macchie di

colore ruggine alla superficie.

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- panello di cocco: è povero in proteine (20%), ma la sua somministrazione favorisce

la produzione di latte ricco in grasso e di burro consistente, come pure di grasso e

lardo di ottima qualità.

- farina di girasole: si può usare sia la farina di semi sgusciati che interi. La prima è

ricca di proteine (40-45%) e valore nutritivo (90 U.F./qle) e si presta molto bene per

gli animali in accrescimento e da ingrasso. La seconda si utilizza soprattutto nei

bovini adulti, comprese le lattifere.

- panello di mais o di granone: rispetto agli altri panelli è povero in proteine (12-

16%), ma ricco in estrattivi inazotati (60-62%) e povero in fibra. Contiene 98-100

U.F./qle. E' indicato per i bovini da carne, suini all'ingrasso.

- panelli e farine di colza: in media contengono il 32-33% di proteina grezza e un

valore nutritivo di 83 e88-90 U.F., rispettivamente per le farine e i panelli. Se

somministrati in dosi eccessive (> 1 kg il giorno nei bovini) possono causare disturbi

gastroenterici dovuti agli isotiocianati che possono essere comunque evitati se i

panelli e le farine sono portati a T > 95 °C in quanto si distrugge l'enzima che causa

l'idrolisi dei glucosinolati contenenti gli isotiocianati. Inoltre i semi di colza, e quindi

le farine, contengono il tioxazolidone che ha azione antitiroidea. Nei polli quantità

elevate di farine (> 5-8%) conferiscono sapore sgradevole alle uova ed una sindrome

emorragica al fegato.

12.8. Residui dell'industria dello zuccherificio:

- melasso: è un sottoprodotto della estrazione dello zucchero dalla barbabietola o

dalla canna. E' costituito da 3,5-7% di protidi grezzi; 60-65% di estrattivi inazotati;

8-9% di ceneri. Il valore nutritivo è di 72-74 U.F.. E' da considerarsi un alimento

tipicamente energetico ed allo stesso tempo un eccellente condimento per altri

mangimi e foraggi poco appetibili.

- polpe secche o fettucce di barbabietole: questo mangime è molto ricco in estrattivi

inazotati (60-62%), ma povero in protidi digeribili. Ha un valore nutritivo di 85 U.F..

Oltre a rendere più appetibili gli alimenti conferisce buone qualità al lardo e al latte.

Altri sottoprodotti sono il concentrato proteico di bietole che si ottiene dall'estrazione

del glutammato monosodico, dal melasso e le borlande che si ottengono dal residuo

della distillazione dell'alcol dal melasso.

12.9. Residui industriali di estrazione e fermentazione:

- manioca è un’euforbiacea dai cui tuberi si estrae l'amido per uso alimentare o

industriale;

- farina glutinata o glutine di mais: sono i sottoprodotti principali della estrazione

dell'amido dalla granella di mais privata del germe che è sottoposto all'estrazione

dell'olio. La farina glutinata contiene il 20-22% di protidi grezzi, il 50-52% di

estrattivi inazotati, il 7% di fibra e il 2% di grassi. Il glutine è più ricco in protidi (40-

60%) ed in U.F. (104-108), inoltre è ricco in xantofille (80-160 mg/kg) perciò è

consigliato nell'alimentazione dei polli.

- trebbie di birra essiccate: contengono il 21-25% di proteine; per la composizione

chimica e le proprietà dietetiche possono essere paragonate alla crusca di frumento,

ma sono meno appetibili. Nei bovini migliorano la qualità del latte, mentre

nell'alimentazione dei suini sono poco adatte.

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12.10 Mangimi di origine animale (la legge ne vieta l’uso nei poligastrici)

Per lo più derivano dalla lavorazione del latte, della carne e del pesce. Oltre

che per il rilevante contenuto in proteine, fosforo e calcio si distinguono per l'azione

nutritiva decisamente stimolante sull'accrescimento e benefica per la fertilità dei

riproduttori, deposizione delle uova, vitalità e resistenza organica dei pulcini e dei

maialetti. Queste proprietà sono conferite dall'elevato contenuto in aminoacidi

essenziali, elementi minerali e vitamine del complesso B (riboflavina, acido

pantotenico, colina, vitamina B12).

Residui dell'industria lattiero casearia

Il latte bovino contiene circa l’87,5% di acqua e 12,5% di sostanza secca, di

questa circa il 3,75% è rappresentata da grasso e la rimanente quota (residuo magro)

contiene 3,3 % di proteine 4,7% di lattosio e 0,75% di ceneri. La maggior parte del

grasso del latte è rappresentata da trigliceridi neutri, che si caratterizzano per avere

un alto contenuto in acidi grassi a breve catena carboniosa e che rappresentano

un’ottima fonte energetica. Il loro valore calorico è circa 2,25 volte superiore a quello

del lattosio.

Circa il 5% dell’azoto non è proteico e il 78% dell’azoto totale presente è sotto forma

di caseina che è la principale proteina del latte ed ha un elevato valore nutritivo;

peraltro, è leggermente scarsa in aminoacidi solforati, cistina e metionina; comunque,

questi aminoacidi abbondano nella -lattoglobulina e per questo il valore biologico

del latte si aggira intorno a 0,85. Quando la polvere di latte si usa in sostituzione

della farina di carne o di pesce la dieta va integrata con sali inorganici, soprattutto

calcio e fosforo e va tenuto presente che le ceneri del latte hanno un basso contenuto

di magnesio e sono quasi assenti di ferro. Il latte è ricco in vitamina A, riboflavina,

tiamina ma è scarso in vitamina D ed E e vitamina B12. Fra i sottoprodotti del latte

ricordiamo:

a) latte magro e latticello: possiedono rispettivamente lo 0,1 e 0,4-0,5% di grasso.

Oltre che di grasso sono carenti in vitamine liposolubili (A, tocoferoli, caroteni).

Contengono 14-15 U.F./qle e la loro energia lorda è di circa 1,5 MJ/kg in confronto

ai 3,1 MJ/kg del latte intero. Per i suini il latte magro è impiegato allo stato liquido in

dose di 3-6 kg/giorno oppure ad libitum (se il prezzo è conveniente) e i suini riescono

a consumarne fino a 20-24 litri il giorno insieme a circa 1 kg di farina. Queste dosi

possono provocare diarrea se non si usano degli accorgimenti: deve essere

somministrato sempre allo stato fresco o sempre acido, si può aggiungere un litro di

formalina ogni 1000 litri di latte scremato. Nell’alimentazione dei polli, il latte

scremato è usato sotto forma di polvere e in quantità di circa 150 kg per tonnellata di

alimento. Il latte scremato in polvere contiene fino al 35% di proteine che sono però

carenti in cistina, la cui qualità varia secondo il metodo di preparazione: con il

metodo roller, il latte scremato è sottoposto a temperature più elevate rispetto al

metodo spray e quindi il valore biologico delle proteine si abbassa.

Il latte magro in polvere: è ricco in calcio (1,3%) e fosforo (1,0%) ed ha un valore

nutritivo di 125 U.F./qle. E' utilizzato nelle miscele per lo svezzamento dei vitelli e

dei suinetti.

b) siero: Nel processo di caseificazione la caseina precipita trascinando con sé la

maggior parte del grasso e circa la metà del calcio e del fosforo.

Il siero che rimane è il risultato della divisione dei componenti del latte a seguito

della coagulazione enzimatica operata dalla rennina. E’ impiegato soprattutto per i

suini all'ingrasso; ha un valore nutritivo basso (9 U.F./qle) ed un contenuto

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energetico pari a 1,1 MJ/kg. Contiene proteine (lattoalbumina e lattoglobulina) ad

elevato valore biologico e presenta un buon equilibrio tra vitamine idrosolubili,

calcio e fosforo. L'industria lattiera oggi produce grosse quantità di siero in polvere,

molto utilizzato per la preparazione del latte artificiale e miscele di svezzamento.

Residui delle industrie della carne e del pesce

Sono particolarmente apprezzati come integratori proteici e minerali delle

miscele o delle razioni di concentrati.

- farine di carne: sono definite come il prodotto ottenuto dall’essiccamento e

macinazione di carcasse o parti di carcasse di animali a sangue caldo, se necessario

dopo aver eliminato il grasso con un’adeguata procedura. Esse non dovrebbero

contenere peli, crini, corna, unghie, pelle, contenuto dello stomaco e degli intestini e

dovrebbero essere prive di solventi organici. I prodotti con un contenuto lipidico

superiore all’11% vanno indicati come < ricchi in grasso > mentre i prodotti che

contengono ossa sono definiti < farine di carne ed ossa >. Le farine di carne sono

essiccate per riscaldamento in forni a vapore ed il grasso che scola durante la

disidratazione è eliminato; un’ulteriore e maggiore quantità di grasso è tolta per

pressione ed il residuo è macinato per ottenere il prodotto finale. Nei processi a

umido, il materiale è riscaldato a vapore dopo aver aggiunto acqua ed il grasso che si

separa è scremato; si lascia quindi decantare ciò che rimane ed il liquido

supernatante è eliminato. Questo procedimento consente di ottenere un prodotto ad

elevato titolo proteico. Il residuo è sottoposto a pressione per togliere un’ulteriore

quantità di grasso; è quindi essiccato e macinato. Le farine di carne, generalmente,

contengono il 60-70% di proteine mentre, le farine di carne ed ossa ne contengono

45-55% ma sono più ricche in ceneri (soprattutto calcio, fosforo e manganese). Il

contenuto in grasso mediamente è del 9% ma può variare dal 3 al 13% e, anche,

soddisfacente è il contenuto in vitamine del gruppo B (riboflavina, colina,

nicotinammide, e vitamina B12). Le proteine delle farine di carne sono di buona

qualità e nell’uomo adulto hanno un valore biologico di 0,67: sono molto ricche in

lisina ma povere in metionina e triptofano, inoltre sembra che contengano fattori

sconosciuti di crescita (fattore enterico di crescita che è presente nell’intestino del

suino, fattore Ackerman e un fattore di crescita localizzato nelle ceneri). Come per le

farine di pesce, anche quelle di carne trovano maggiore applicazione

nell’alimentazione dei monogastrici. La loro preparazione deve essere molto accurata

in quanto se non efficacemente sterilizzate (almeno 100 °C) possono contenere agenti

patogeni dannosi per la saluta degli animali che le utilizzano.

In sintesi il valore nutritivo delle farine di carne varia tra 93-105 U.F. secondo

la qualità; contengono il 53-65% di proteina grezza, il 10-12% di grassi ed il 16-27%

di ceneri. Non devono contenere più del 4,4% di fosforo altrimenti ricadono nella

categoria tankage (carne e ossa). Il valore biologico delle loro proteine è 75-80.

- farine di pesce e solubili di pesce: contengono il 67-70% di proteine che hanno un

valore biologico (78-82%) molto elevato perché sono decisamente ricche in

aminoacidi essenziali. Inoltre, sono ricchi in vitamine del complesso B ed elementi

minerali (soprattutto calcio e fosforo). Le farine di pesce secondo l’associazione

internazionale di Fish Meal Manufactures sono così classificate:

a) farine ad alto titolo proteico che hanno più del 68% di proteine e meno del 9% di

grassi (molte farine di aringhe);

b) farine a normale titolo proteico, compreso fra 64 e 68% e possono avere fino al

13% di grassi (molte farine di provenienza sud americana);

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c) farine a normale titolo proteico, ma a basso tenore lipidico: contengono dal 64 al

68% di proteine e fino al 6% di lipidi (scarti di lavorazione del pesce);

d) farine a titolo proteico standard, compreso fra 60 e 64% (farine americane

Menhaden).

Le farine di pesce sono prodotte:

a) mediante essiccamento in recipienti scaldati a vapore ed il procedimento può

avvenire sotto vuoto, oppure non sfruttare la ridotta pressione;

b) essiccazione a fiamma, la farina è prodotta in un tamburo rotante, mediante

corrente di aria calda; rispetto all’essiccamento a vapore questo procedimento è più

drastico e può esercitare effetti indesiderati sulla qualità delle proteine.

Nelle farine prodotte in modo razionale la digeribilità delle proteine è

compresa fra il 93 e il 95% mentre in quelle che hanno subito il trattamento termico

esagerato può scendere fino al 60%. La qualità delle proteine delle farine di pesce è

normalmente alta, ma assai variabile, come risulta dai valori biologici nel ratto (0,36-

0,82). Le proteine della farina di pesce hanno un elevato contenuto in lisina,

metionina e triptofano; rappresentano quindi un valido correttivo delle diete a base di

cereali ed in particolare delle diete che contengono grandi quantità di mais. Elevato è

anche il contenuto in elementi minerali: calcio 8%, fosforo 3,5% ed elevate quantità

di oligoelementi utili quali il manganese, ferro e iodio. Inoltre, le farine di pesce

rappresentano una buona fonte di vitamine ed in particolare di colina, vitamina B12 e

riboflavina; il loro valore nutritivo è accresciuto dal fatto che contengono alcuni

fattori di crescita, generalmente indicati come Animal Protein Factors (APF). Le

farine di pesce trovano maggiore impiego nell’alimentazione dei giovani

monogastrici, il cui fabbisogno di proteine e di aminoacidi essenziali è

particolarmente elevato e la cui crescita è stimolata dal contenuto in APF delle farine

in oggetto. In genere, negli animali giovani si usano diete con 150 Kg di farine per

tonnellata di alimento, negli animali adulti tale quantitativo scende a 50 kg. La

riduzione è giustificata da motivi economici e dal fatto che gli animali adulti hanno

meno esigenze in proteine e per evitare che le carcasse assumano un sapore di pesce;

quest’ultimo aspetto va considerato anche per gli animali che producono uova e latte.

Nei ruminanti, le farine di pesce assumono importanza quale fonte di proteine non

degradabili a livello ruminale e ciò è importante per i soggetti con rapida crescita e

per le femmine gestanti e in lattazione. Generalmente si usano 50 kg di farina per

tonnellata di alimento. Contrariamente a quanto ritenuto fino ad oggi il valore in

energia metabolizzabile delle farine di pesce non è di 11,1 ma 14 MJ/kg S.S. Le

farine di pesce non devono contenere più di 60 mg di nitriti/kg di alimento che abbia

un’umidità del 12% e devono essere titolati come sodio nitrito, il che equivale a 14

mg di azoto da nitriti/kg S.S.

- farine di sangue: sono ottenute per essiccamento del sangue degli animali da

macello e dei polli, si preparano facendo passare del vapore fluente attraverso il

sangue fino alla temperatura di 100 °C, sufficiente per ottenere la sterilizzazione e

provocarne la coagulazione. La porzione solida è poi pressata per farne uscire il siero

rimasto e dopo si procede all’essiccamento a vapore ed alla macinazione. La farina di

sangue ha colore cioccolato scuro e con odore caratteristico. Contiene circa l’80% di

proteine grezze (58-78% di protidi digeribili), piccole quantità di ceneri e grassi e

circa il 10% di acqua. Dal punto di vista alimentare, è importante quale fonte

proteica: è ricca in lisina, arginina, metionina, cistina e leucina ma è povera di

isoleucina e rispetto alla farina di pesce o di carne contiene meno glicina. Il valore

biologico della proteina di sangue è basso a causa dello squilibrio esistente fra gli

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aminoacidi inoltre, essa è poco digeribile e ciò può essere utile in quanto ha una

bassissima degradabilità ruminale (0,20). Il loro contenuto in U.F è di 80-

110/qle.Negli uccelli adulti la farina di sangue è utilizzata in dose di 10-20

kg/tonnellata mentre, le normali dosi per i poligastrici e monogastrici adulti sono di

circa 50 kg/tonnellata; quantitativi superiori a 100 kg/tonnellata causano diarrea; nei

suinetti non dovrebbero essere usate.

Altri sottoprodotti

Altri prodotti animali sono la lettiera avicola essiccata e sterilizzata, la pollina

essiccata e disidratata le quali sono utilizzate per l’alimentazione dei ruminanti. La

loro composizione dipende dalla loro origine. La lettiera dei broiler allevati a terra

contiene paglia, trucioli di legno o segatura perciò è più ricca in fibra grezza rispetto

alle deiezioni delle ovaiole allevate in batteria. Entrambi i tipi di deiezioni hanno un

elevato contenuto in ceneri ed è maggiore per quelle delle ovaiole (28% sulla S.S.), la

digeribilità è bassa e il contenuto in EM medio è di circa 7,5 MJ/kg S.S.. Il contenuto

in proteine grezze è compreso fra 25 e 35% e hanno una digeribilità del 65%. La

maggior parte dell’azoto è sotto forma di composti non proteici, soprattutto urati i

quali devono essere convertiti prima in urea e poi in ammoniaca per essere utilizzati

dagli animali. Considerando che la trasformazione in urea è lenta, lo sperpero e i

rischi di intossicazione sono inferiori rispetto agli alimenti che contengono urea. Per

quanto riguarda il calcio e il fosforo, le deiezioni delle ovaiole contengono il 6,5% di

calcio e il rapporto calcio:fosforo è di 3:1, quelle dei broilers contengono meno

calcio ma c’è un miglior equilibrio con il fosforo infatti, il rapporto è di circa 1:1.

Una delle maggiori preoccupazioni in merito all’impiego delle deiezioni

nell’alimentazione del bestiame è la presenza di agenti patogeni (salmonelle) e di

pesticidi e di residui dei farmaci. Comunque, il trattamento termico che comporta

l’essiccamento e il modo di insilamento del materiale sembrano garantire un

soddisfacente controllo dei patogeni ed i pesticidi non hanno ancora posto dei

problemi. I pericoli posti dai residui di medicinali possono essere scongiurati

sospendendo la somministrazione di deiezioni 3 settimane prima della macellazione.

Per le deiezioni bisogna indicare la quantità di acido urico espresso come proteine

grezze, se dell’1% o più, e la quantità di calcio se supera il 2%.

12.12. Sostanze tossiche o antinutritive presenti negli alimenti zootecnici

Si distinguono in :

a) sostanze naturali, le quali causano intossicazioni episodiche o accidentali e senza

gravi perdite;

b) micotossine, pericolose soprattutto nei volatili e suini.

Fra le sostanze naturali ricordiamo: glucosidi isotiocianogeni (senape, colza) e

cianogenetici (sorgo, lino, soia, senape, veccia, ecc.), alcaloidi (lupini, fieno greco),

estrogeni (medica, trifogli, soia), sostanze anticoagulanti (melilotus, soia cruda),

sostanze ad azione antinutritiva (fagioli, fave, piselli, cotone, soia). Le micotossine si

dividono in:

- alfa tossine di cui si conoscono i tipi B1 (la più tossica e cancerogena), B2, G1, G2,

M1, M2. Sono responsabili di lesioni al fegato, ai reni, alla mucosa intestinale. Sono

presenti soprattutto nel mais, sorgo, arachide.

- ocratossine, meno pericolose delle precedenti

- tricoteceni

- zeralenone

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CAP. XIII. INTEGRATORI E ADDITIVI

Gli integratori sono quei prodotti che non sono veri alimenti, ma derivati

tecnologici chico-industriale o da sintesi, i quali possiedono concentrazioni elevate di

uno o più componenti minerali o azotati o vitaminici, si da limitare l'impiego nelle

razioni e miscele alimentari in percentuale molto ridotte ( 0,5-3%).

Possono avere due funzioni:

a) esplicano azione di stimolo sull'accrescimento e/o di difesa del microbismo e dalle

infezioni e parassitosi di allevamento (antibiotici, anticoccidici, estrogeni);

b) esplicano funzioni attinenti alla buona presentazione e conservazione dei prodotti

mangimistici (antiossidanti, leganti, stabilizzanti) o dell'efficacia nutritiva

(convulsionanti nei sostituti del latte) o a conferire proprietà pigmentanti alle

miscele usate nell'alimentazione dei polli.

13.1. Integratori minerali

- fosforiti: contengono fosfato tribasico di calcio (75-80%), carbonato di calcio e

fluoruri. Dato che il fluoro produce lesioni progressive delle ossa e dei denti la sua

percentuale non deve superare l'1%;

- farina di ossa: sono consentite le farine sgelatinate e sterilizzate contenenti un

minimo di P del 13% e massimo l'1,4% di azoto;

- fosfati di calcio: sono usati soprattutto il fosfato bicalcico e tricalcico;

- carbonato di calcio: nei pulcini e nei suini si usa soprattutto il carbonato di calcio

grezzo;

- cloruro di sodio: è noto come "sale pastorizio" (NaCl grezzo e denaturato). In una

miscela minerale bilanciata il NaCl deve rappresentare il 33-50 se destinata ai bovini

e il 15-25% se per i suini.

13.2. Integratori azotati e proteici

- Urea: l'urea tecnica impiegata nell'alimentazione dei ruminanti fin dallo

svezzamento è un composto molto solubile ed igroscopico che è miscelato con

carbonato di calcio per evitare la formazione di grumi. Sotto questa forma contiene il

43% di azoto (15-16% di proteina grezza).

L'urea è scissa dai batteri ruminali in ammoniaca, CO2 e H2O. L'azoto ureico non

dovrebbe superare 1/3 dell'azoto totale altrimenti avvengono accumuli d'ammoniaca

nel sangue con conseguenti fenomeni di intossicazione.

Aminoacidi - L'aggiunta di aminoacidi alla dieta rende possibile una maggiore

utilizzazione delle proteine e, ciò accade quando si addizionano gli aminoacidi

indispensabili che si trovano al minimo. Soprattutto nei polli e nei suini e, se si fa

ricorso a concentrati a base di cereali (soia esclusa), gli aminoacidi che più bisogna

addizionare sono la lisina e la metionina.

Grassi - I grassi di origine animale (sego, lardo) o vegetale sono usati

nell'alimentazione sia per aumentare l'energia metabolizzabile dei mangimi, sia per

migliorare alcune caratteristiche organolettiche delle miscele (eliminare la

polverosità, migliorare il colore, l'aspetto, l'appetibilità, ecc.).

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13.3. Integratori vitaminici e vitamine

- lievito di birra: è ricco soprattutto in tiamina, piridossina e pantotenato; inoltre

contiene l'ergosterolo che, se sottoposto a raggi ultravioletti, si trasforma in vitamina

D2

Concentrati vitaminici e vitamine: caroteni (farina di medica e carote disidratate),

vitamina A e D3 (oli di fegato di pesce).

13.4 Antibiotici

Sono sostanze organiche, sintetizzate soprattutto da muffe e streptomiceti, ad

azione batteriostatica e battericida.

In campo zootecnico essi svolgono un'azione auxinica di promozione della crescita in

quanto bloccano la microflora subpatogena e parasaprofita del tubo digerente e

favoriscono lo sviluppo dei microrganismi che sintetizzano la vitamina B12 e la

riboflavina. Nei polli e nei suini, dopo somministrazione di antibiotici si ha aumento

della crescita del 10-15% ed una maggiore utilizzazione degli alimenti del 5-10%.

Nei ruminanti la loro azione è benefica soprattutto durante l'allattamento e lo

svezzamento (maggiore accrescimento, minori infezioni), ma non negli adulti.

I più impiegati sono le tetracicline, bacitracine, oleandomicine, spiramicine,

eritromicine. Un antibiotico particolare è il Monesin detto anche Rumensin, il quale,

intervenendo sulla microflora del rumine, determina una maggiore produzione di

acido propionico ed una riduzione di acido acetico e quindi un aumento

dell'utilizzazione della razione nei bovini da carne.

Va ricordato che l'impiego di antibiotici va sospeso 48 ore prima della macellazione e

che un uso troppo prolungato può causare fenomeni di sensibilizzazione allergica

negli animali e di resistenza nei patogeni.

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13.5 Tecnica Mangimistica

Organizzazione di un mangimificio

Un mangimificio si articola in più servizi:

1) Servizio ricezione: è il servizio più importante perché da esso dipende la qualità

del prodotto finito. Le migliori formule esigono, per fornire buoni risultati, materie

prime accuratamente controllate e classificate. Le fabbriche che producono mangimi

di buona qualità possiedono sempre un’organizzazione di ricezione molto rigorosa e

seria. La ricezione è l’occhio del servizio acquisti e deve essere sempre informata in

modo completo e continuo dei diversi acquisti in corso. Non appena il servizio

acquisti ha stipulato un contratto deve compilare una scheda che rimette al servizio

ricezione, indicando qualità, date e mezzi di consegna. Il controllo quantitativo delle

merci è affidato alla ricezione mentre, quello qualitativo richiede, spesso, l’intervento

del laboratorio.

2) Servizio acquisti: è preposto al reperimento delle materie prime scelte, in

funzione della loro quantità, valore biologico e nutritivo, sui mercati nazionali ed

internazionali. Esso è in continuo contatto con la ricezione e con il laboratorio per le

informazioni sulla serietà dei fornitori. Inoltre, il servizio acquisti indica la qualità

della merce alla ricezione.

3) Laboratorio chimico: è adeguatamente attrezzato per il controllo qualitativo

delle materie prime e del prodotto finito. Il servizio ricezione fa pervenire i campioni,

prelevati secondo le norme prescritte, al laboratorio che procederà al controllo e

trasmetterà i risultati ai due servizi:

a) ricezione, che potrà far entrare la merce, classificarla e sottoporla, eventualmente,

ai necessari trattamenti;

b) acquisti, che potrà intervenire immediatamente, se necessario, presso i fornitori.

4) Servizio tecnico: provvede alla formulazione delle miscele, all’esame di nuovi

prodotti offerti dalle industrie biochimiche e farmaceutiche, allo studio della loro

efficacia e all’eventuale applicazione ed inserimento in nuove formule. Imposta e

segue le prove sperimentali di controllo.

5) Direzione commerciale: provvede al potenziamento e all’espansione

commerciale.

Preparazione mangimi:

Melassatura

La melassatura dei mangimi si effettua allo scopo di conferire ad essi una migliore

qualità di presentazione e di sofficità, di ridurre la polverosità e per aumentare, nello

stesso tempo, la digeribilità, l’appetibilità ed il valore nutritivo. Nella preparazione

dei pellets, inoltre, il melasso è un coadiuvante per ottenere una maggiore

consistenza.

Il melasso è una sostanza sciropposa, pastosa, brunastra e deriva, principalmente,

dalla canna e dalla barbabietola da zucchero. In tecnica mangimistica interessa

conoscere il grado di assorbibilità del melasso nei confronti dei vari ingredienti di

comune impiego nella preparazione dei mangimi composti. Il grado di assorbimento

dipende anche dalla granulometria del mangime, dal suo contenuto in umidità e

aumenta con la temperatura del melasso. Generalmente, nei mangimi composti non si

riesce a introdurre più del 10% di melasso e ciò è dovuto a problemi, non solo, di

assorbibilità ma anche di confezionamento e conservazione in quanto i prodotti

melassati pongono diversi problemi (riscaldamento, fermentazione, ammuffimento,

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impiccamento) i quali sono solo parzialmente risolvibili (es. aggiunta di ac.

Propionico direttamente al melasso). L’umidità nel melasso non dovrebbe superare i

due terzi del contenuto in zuccheri ( es. contenuto in zuccheri = 25%; contenuto in

umidità = 2/3 x 25 = 17%) dello stesso melasso. Le tecniche di melassatura sono

diverse:

- melassatura diretta a caldo (metodo industriale),

- melassatura diretta a freddo,

- melassatura indiretta mediante supporto.

Il primo sistema è l’unico impiegato in mangimistica in quanto è rapido, economico e

consente una perfetta omogeneizzazione del melasso con gli altri ingredienti della

miscela (assenza di grumi).

La macchina utilizzata è detta melassatrice e ne esistono diversi tipi:

- un comune miscelatore orizzontale attrezzato per spruzzare all’interno della massa

il melasso;

- un miscelatore orizzontale e cilindrico speciale con dosatori per farine e melasso

- un miscelatore verticale a cilindro con iniezione del melasso.

Oggi, nell’industria mangimistica viene utilizzata, soprattutto, la melassatrice rapida

che permette non soltanto l’aggiunta di quantità elevate di melasso ma può essere

usata anche per la grassatura.

Le principali norme che riguardano la melassatura sono:

1) dato che il melasso arriva al mangimificio mediante cisterne ed i serbatoi sono

posti, generalmente, nei sotterranei, si rendono necessarie tubazioni con angoli di

inclinazione non inferiori a 30° mentre, se i depositi sono al di sopra del livello

stradale necessitano pompe e compressori;

2) al di sotto di t ambientali di 10° C è necessario riscaldare il punto di scarico del

melasso;

3) i serbatoi per il melasso dovrebbero essere di acciaio smaltato o di calcestruzzo

piastrellato,

4) le tubazioni dovrebbero essere di plastica, visto che quelle in ferro vengono

corrose entro due anni al massimo;

5) per facilitare lo scorrimento del melasso dai serbatoi verso la melassatrice si

devono porre all’uscita serpentine a vapore;

6) la temperatura che facilita il pompaggio è intorno a 38° C;

7) il fondo del serbatoio deve essere inclinato per facilitare la raccolta delle impurità

che si formano con il tempo;

8) per evitare energia supplementare di pompaggio le tubature devono presentare il

minor numero possibile di gomiti e curve;

9) per mantenere la temperatura della massa costante i serbatoi e le tubazioni devono

essere isolati termicamente;

10) nel sistema di trasporto interno del melasso si può verificare la caramellizzazione

e la cristallizzazione che possono essere evitati spurgando la rete delle tubazioni con

vapore, al termine di ogni pompaggio;

11) prima che il melasso arrivi dal serbatoio di deposito a quello di lavorazione è

necessario farlo passare su un concentratore a disidratazione;

12) la nebulizzazione del melasso nel miscelatore-melassatrice si ottiene a mezzo di

aria compressa o con vapore a pressione (2-3 atm);

13) è opportuno prevedere che in caso di arresto di alimentazione di farina la pompa e

l’iniettore del melasso vengano immediatamente arrestati;

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14) usando pompe a portata regolabile (montare sul circuito un contatore e dei filtri) è

possibile un dosaggio esatto del melasso;

15) per poter pellettare facilmente un prodotto non bisogna superare il 6% di melasso

in quanto, per effetto della compressione, lo sciroppo zuccherino spremuto

all’esterno e premuto contro le pareti surriscaldate (40-60° C) dei canali della filiera

forma uno strato collante che rallenta l’espulsione del pellet;

16) percentuali elevate di melasso durante la pellettatura ne fanno diminuire il

coefficiente di scorrimento ed abbassano, di conseguenza, il rendimento della

macchina, determinando inoltre irregolarità di lavoro per cui i pellets risultano

opachi;

17) per pellettare un mangime con oltre il 6% di melasso è preferibile usare filiere

fisse;

18) i pellets che contengono più del 6% di melasso sono di più difficile manipolazione

e conservazione in quanto scorrono male e si bloccano nei raffreddatori (quelli

classici, di tipo verticale);

19) per pellets ad alto contenuto di melasso sono da preferire i raffreddatori

orizzontali oppure a tazza e per il loro deposito andrebbero usati serbatoi a forma

piatta (più larghi che alti);

20) nella produzione di tali pellets si può anche impiegare un ausiliare della

fabbricazione del tipo antimpaccante (disidratante)

21) per la produzione di pellets ad alto contenuto in melasso si raccomanda:

a) macinazione fine degli ingredienti (griglia 1,5-2) per favorire l’assorbimento;

b) riscaldamento della massa per favorire l’assorbimento;

c) temperatura di espulsione non troppo elevata (40-50 °C);

d) spostamento dei pellets con un nastro trasportatore a nastro inclinato e non con

elevatore;

e) lavorazione mai a freddo e raffreddatore (orizzontale) alimentato molto

regolarmente;

f) immagazzinamento dei pellets in serbatoi di grandi dimensioni ( al fine di evitare

il bloccaggio);

g) confezionamento mai in sacchi troppo stretti ed esclusivamente di pellets freddi e

ben asciutti;

h) evitare l’eccesso di umidità (troppo vapore) che fa gonfiare i pellets dopo il

raffreddamento;

i) la conicità dei fori della filiera deve essere perfetta per evitare mancanza di

compressione e quindi indurre sgretolamento dei pellets dopo il raffreddamento;

j) adozione del sistema detto “ad addizioni progressive” (in 2-3 volte) e utilizzare

miscele ad elevato contenuto in fibra (10-20 %).

Inoltre, bisogna ricordare che i liquidi come i melassi si attaccano sulle pareti di tutto

l’impianto e che durante la lavorazione si possono formare piccoli grumi ad alta

concentrazione di liquido. Perciò, nel caso della fabbricazione di mangimi composti

integrati (mci) è consigliabile non superare l’aggiunta del 5% di liquidi e adottare un

rimescolatore ad alta velocità (melassatrice) che permetta l’ottenimento di un

prodotto uniforme e senza grumi.

Grassatura

La grassatura degli alimenti zootecnici, se effettuata entro determinati limiti, serve a

migliorare l’aspetto e l’utilizzazione delle miscele di concentrati, ad eliminare la

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polverosità, a favorire la pellettatura, ad elevare la concentrazione energetica degli

alimenti, ad aumentare l’appetibilità e quindi l’assunzione di alimento

L’impiego per incorporazione, nel caso delle miscele in farina o per rivestimento, nel

caso delle miscele in pellet o dei concentrati diversi estrusi, dei grassi o degli oli

comporta diversi problemi:

a) trasporto

I grassi vengono trasportati al mangimificio in fusti, autocisterne, vagoni cisterna. Per

poterli scaricare in maniera rapida e ininterrotta, si utilizzano preferibilmente

contenitori isolati termicamente: in questo caso se il percorso è breve la perdita di

calore sarà così bassa che non necessita nessun riscaldamento per lo scarico. I fusti

sono generalmente di 200 litri e nelle raffinerie il grasso viene fatto affluire in essi

allo stato liquido ma, se si tratta di grasso animale esso giunge al mangimificio allo

stato solido per cui dovrà essere liquefatto prima del suo impiego.

Le autocisterne, invece, possono trasportare il grasso allo stato liquido in quanto sono

termicamente isolate e munite di sistema di riscaldamento (T massima del grasso 77-

82 °C). Il mezzo di scarico generalmente è per caduta libera ma ciò non sempre è

possibile. I vagoni cisterna, generalmente trasportano il grasso a 60-70 °C e lo

scarico è simile a quello delle autocisterne.

b) immagazzinamento

Per ciascun tipo di grasso nel mangimificio dovrebbero esserci due cisterne; ciò al

fine di poter effettuare una pulizia minuziosa delle cisterne e non avere interruzione

di lavoro. Per non mantenere tutto il grasso immagazzinato a temperatura di fusione

(50-55 °C) è consigliabile mantenere una cisterna a temperatura media costante utile

per l’impiego e l’altra a temperatura ambiente o raffreddata. Infatti, se si devono

conservare grassi per più di due settimane è necessario raffreddarli, onde evitare

rischi di deterioramento. Le cisterne di stoccaggio dovrebbero essere verticali e

munite di un fondo inclinato o conico. Bisogna considerare che tutti i grassi

contengono piccole quantità di corpuscoli sospesi (particelle fini di proteine, saponi

metallici, ecc.) che si ammassano durante il periodo di immagazzinamento nel fondo

della cisterna: nel caso delle cisterne verticali a fondo inclinato la superficie di

contatto fra queste impurità e il grasso fuso è ridotta al minimo. Le cisterne, inoltre,

devono essere munite di un sistema a spirale di riscaldamento, un sistema di

controllo della temperatura e di un dosatore. Se il grasso viene utilizzato

giornalmente non è necessario riscaldare la cisterna di stoccaggio oltre i 60 °C,

considerando che un grasso a questa temperatura può essere conservato per non più

di 4 giorni in quanto dopo irrancidisce.

Per riscaldare i grassi solidi necessitano 0,6 Kcal/Kg di grasso per ogni grado

centigrado e, in generale, si stima che un Kg di vapore possa fondere da 7 a 7,5 Kg

di grassi. La fusione può essere ottenuta mediante iniezione diretta di vapore nel

grasso e in questo caso l’acqua di condensa può avere effetti negativi sulla qualità del

grasso se esso non viene consumato molto rapidamente. Per i fusti, il riscaldamento

può essere di tipo elettrico e necessitano circa 5 ore per fondere il contenuto di circa

150 Kg (200 litri) di grasso. Durante il periodo di stoccaggio i grassi non devono

essere sottoposti a riscaldamento. Se la quantità di grassi è destinata ad essere

utilizzata entro 15 giorni è bene mantenerli allo stato liquido intorno a 50 °C, così

facendo la quantità di energia richiesta è sempre inferiore a quella necessaria per il

riscaldamento e la fusione.

I due fattori che più nuocciono al grasso e ne accelerano il deterioramento sono l’aria

e l’acqua. La prima favorisce l’ossidazione e l’irrancidimento, la seconda accelera

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334

l’idrolisi con aumento del contenuto in acidi grassi liberi. Non dovrebbero essere

utilizzate cisterne arrugginite in quanto l’ossido di ferro agisce come potente

catalizzatore. Se si vuole conservare del grasso che è stato fuso mediante iniezione

diretta di vapore bisogna riscaldarlo a 70-80 °C per 2-3 ore per separarlo dall’acqua

che si deposita sul fondo con le impurezze e che vengono eliminate insieme. Prima di

ogni carico della cisterna (o almeno ogni 3 mesi) è necessario un trattamento

completo e radicale. La tecnica da impiegare per la pulizia utilizza lavaggi con acqua

calda, con vapore, con soluzione di soda bollente , con detergenti e asciugatura finale

per evitare arruginimento.

c) dosaggio e miscelazione dei grassi

Quando il grasso è impiegato giornalmente, viene portato ad una temperatura di

manipolazione di 70-85 °C. Le pompe più in uso per la grassatura sono quelle ad

ingranaggio, rotative e dotate di motore elettrico. Tutto l’impianto deve assicurare:

- un buon funzionamento

- la regolazione permanente della temperatura

- la qualità dei grassi circolanti

- la pressione durante la distribuzione.

Come già detto, i grassi possono essere aggiunti:

a) alle miscele farinose per miscelazione (incorporazione)

b) alle miscele pellettate per polverizzazione (rivestimento).

Se non si dispone di melassatrice, è preferibile usare miscelatori speciali in quanto

quelli ordinari pongono il problema della formazione di grumi o di croste.

La miscelazione grassi-farine può essere realizzata con il metodo continuo o con

quello discontinuo; con il secondo l’addizione massima sarà del 5%. Con il metodo

continuo si ottiene una migliore distribuzione delle particelle di grasso anche con

elevate quantità di introduzione (25-30 %). Vengono utilizzati miscelatori orizzontali

o verticali. I miscelatori continui orizzontali sono cilindrici, con un asse centrale

munito di lame che girano a grande velocità, quelli verticali hanno meno lame ed il

grasso è aggiunto sotto forma di pioggia. All’inizio della miscelazione il grasso deve

avere una temperatura più elevata in quanto l’impianto è freddo. Fino al 5%, i grassi

possono essere aggiunti con il miscelatore principale, al di sopra di tale valore

bisogna attrezzarsi di un miscelatore continuo supplementare (tipo melassatrice).

Avendo i due miscelatori, si può preparare una premiscela grassata di soia o mais

fino al 25-30 %, da portare nel miscelatore principale come qualsiasi altro

ingrediente.

Per la grassatura dei sostitutivi del latte a base di latte magro in polvere o del siero di

latte in polvere esistono 2 metodi:

- grassatura del latte scremato liquido (sprayzzazione)

- grassatura del latte magro polvere (grassatura meccanica).

Il primo metodo interessa le latterie e non il mangimificio, il secondo, invece,

interessa il mangimista poiché può avvenire attraverso sistemi di miscelazione simili

a quelli impiegati normalmente, ma dotati di particolari accorgimenti. Il grasso viene

incorporato partendo dal principio che fini particelle di grasso devono essere

ricoperte da fini particelle di latte (o di siero) in polvere. In genere, si possono

ottenere prodotti grassati fino al 30% che, allo scioglimento in acqua, non presentano

separazione della parte grassa. Tale risultato si ottiene facendo in modo che

all’addizione del grasso liquido le particelle cristallizzino immediatamente e ciò

avviene con temperature di 2-5 °C. Se il prodotto finito contiene una quantità di

grasso superiore a quello dovuto assomiglierà ad una miscela grassata che, posta su

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335

di un pezzo di carta bibula, formerà immediatamente macchie di unto. In queste

condizioni l’aria verrà a contatto con la superficie grassa, determinandone un rapido

deterioramento che abbassa la qualità del prodotto.

Polverizzazione dei grassi - I prodotti pellettatti non dovrebbero avere una

percentuale di grasso incorporato superiore al 2-3% altrimenti diventano friabili. Un

dosaggio supplementare di grasso può essere effettuato mediante nebulizzazione

(sprayzzazione) sul pellet dopo la compressione-estrusione. Il grasso polverizzato

non solo deve rivestire il pellet ma deve entrare all’interno e la penetrazione dipende:

a) composizione della miscela

b) contenuto in grasso della miscela

c) umidità del prodotto

d) temperatura del pellet.

Riguardo la composizione della miscela, i cruscami assorbono più grasso rispetto al

mais perché sono meno grassi, come pure i prodotti ad un più elevato contenuto in

fibra favoriscono la penetrazione del grasso. Esiste un rapporto diretto tra legame

capillare del contenuto in umidità e la capacità di assorbimento del grasso. Subito

dopo l’espulsione, i pellets contengono in legame capillare una parte dell’umidità

acquisita durante la loro preparazione e durante il raffreddamento e lo stoccaggio

una parte di questa acqua viene persa e vengono liberati, completamente o

parzialmente, i sistemi capillari strutturali e quindi il grasso penetra negli interstizi

capillari, a condizione che il fenomeno di adesione capillare sia più elevato degli

attriti interni del liquido che vi penetra. Quanto più la temperatura si innalza al di

sopra del punto di fusione dei grassi, tanto più la sostanza fluidificata penetra con

facilità.

I principali sistemi di polverizzazione dei grassi sono:

1) polverizzazione sopra pellets ancora caldi: si ha il vantaggio che pellets e grasso

hanno la stessa temperatura; comunque, l’umidità ancora presente ostacola la

penetrazione del grasso;

2) polverizzazione sopra pellets freddi: i pellets hanno una elevata capacità di

assorbimento in quanto hanno perso acqua ma la penetrabilità del grasso è limitata, in

quanto essendo essi freddi si ha una solidificazione del grasso prima della

penetrazione;

3) polverizzazione sopra pellets, seguita da riscaldamento: questo sistema unisce i

vantaggi dei due precedenti ma è più costoso per l’energia addizionale richiesta per il

riscaldamento.

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336

CAP. XIV. ESEMPI DIETE E RAZIONI

L'obiettivo finale dell'alimentazione è quello di stabilire, mediante calcoli

appropriati ed una semplice scelta qualitativa e quantitativa dei foraggi e/o mangimi

disponibili nell'azienda agraria e sul mercato, delle diete o delle razioni che

rispondono dal punto di vista energetico, proteico, vitaminico e minerale e quindi a

sostenere determinati livelli produttivi compatibili con le capacità dell'animale. Il

calcolo delle razioni richiede la conoscenza di due serie di elementi:

- i fabbisogni nutritivi espressi procapite necessari per il calcolo di razioni, o come

composizione percentuale di diete bilanciate adatte per una certa categoria di

animale;

- la composizione ed il valore energetico degli alimenti fra i quali è possibile o

conveniente operare una scelta, nella formulazione delle razioni e delle diete.

I metodi per la stima dei bisogni nutritivi sono diversi, ma tutti tengono conto dei

seguenti elementi:

1) valore energetico della razione, espresso in unità nutritive (U.F:, U.A.), in S.N.D.

od in energia metabolizzabile (E.M.);

2) contenuto minimo in protidi digeribili completato da quello in aminoacidi

indispensabili delle diete o razioni destinate ai polli e ai suini;

3) contenuto in sostanza secca delle razioni, espresso in Kg come valore indicativo di

un volume alimentare adeguato al peso degli animali;

4) contenuto in elementi minerali, raccomandato come ottimale per lo stato di salute

ed il conseguimento di elevate produzioni;

5) contenuto in caroteni e vitaminico, minimo o raccomandato, limitato alle vitamine

A, D, E per i ruminanti ed esteso a tutte le vitamine idrosolubili per i suini e le specie

avicole.

Esercizi:

5 becchi hanno ingerito 1,5 kg/capo/giorno di S.S. di fieno e la

quantità di S.S. escreta con le feci è stata di 0,70 kg/capo/giorno e considerando

che l’analisi del fieno e delle feci ha dato la seguente composizione (g/kg S.S.):

Sostanza

organica

Proteine

Grezze

Estratto

etereo

Fibra

grezza

Estrattivi

inazotati

Fieno 850 90 12 340 408

Feci 800 100 12 300 388

Calcolare la digeribilità, la relazione nutritiva, il valore nutritivo (U.A., U.F., indice

volumetrico, le PDI)

a) calcolo della digeribilità:

moltiplicando per 1,5 e 0,70, rispettivamente, i contenuti del fieno e delle feci si ha:

Sostanza

secca

Sostanza

organica

Proteine

grezze

Estratto

etereo

Fibra

grezza

Estrattivi

inazotati

Quota

consumata -

1,5 1,275 0,135 0,018 0.51 0,612

Quota escreta

=

0,70 0,56 0,07 0,0084 0,21 0,2716

Quota digerita 0,80 0,715 0,065 0,0096 0,30 0,3404

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337

e i coefficienti di digeribilità saranno:

Sostanza

secca

Sostanza

Organica

Proteine

grezze

Estratto

etereo

Fibra

Grezza

Estrattivi

inazotati

0,80 : 1,5

= 0,53

(53%)

0,71 : 1,27

= 0,56

(56%)

0,06 : 0,13

= 0,48

(48%)

0,01 : 0,02

= 0,53

(53%)

0,3 : 0,51

= 0,59

(59%)

0,34 : 0,61

= 0,56

(56%)

e quindi la composizione del fieno in termini di principi alimentari digeribili è la

seguente (g/kg S.S.):

Sostanza

Organica

Proteine

Grezze

Estratto

etereo

Fibra

grezza

Estrattivi

Inazotati

850 x 0,56 =

476

90 x 0,48 =

43,2

12 x 0,53 =

6,36

340 x 0,59 =

200,6

408 x 0,56 =

228,48

In questo esempio, i becchi hanno ingerito 1,5 kg di sostanza secca di fieno il cui

contenuto in energia lorda è pari a 18.0 MJ/kg e quindi l’energia lorda consumata da

ciascun animale è pari a 18 x 1,5 = 27 MJ. Gli 0,70 kg di S.S. delle feci contenevano

18,7 MJ/kg e quindi un totale di 13,09 MJ per giorno. La digeribilità apparente di

quel fieno è risultata perciò (27 - 13,1)/27 = 13,9/27 = 0,515 e l’energia digeribile

contenuta nella sostanza secca dello stesso fieno è uguale: 18,0 x 0,515 = 9,3 MJ/kg.

b) Relazione nutritiva:

(200,6 + 228,48 + 6,36 x 2,25) : 43,2 = 443,39 : 43,2 = 10,26

il fieno in questione ha una relazione nutritiva larga e quindi non andrebbe, almeno

da solo, somministrato in animali in accrescimento o ad elevata produzione lattea

c) Calcolo delle unità amido e foraggere classiche: - Unità amido

Principi nutritivi % Coefficiente

digeribilità

Sostanze

digeribili

Coefficiente

adipogenetico

Unità amido

lorde

Proteine grezze 9 0,48 4,32 0,94 4,06

Lipidi grezzi 1,2 0,53 0,64 1,91 1,22

Fibra grezza 34 0,59 20,01 1 20,01

Estrattivi inazotati 40,8 0,56 22,85 1 22,85

Totale U.A. teoriche 48,14

U.A: nette = 48,14 – (34 x 0,58) = 48,14 – 19,72 =

U.A. nette/Kg S.S. fieno = 28.42 : 100 =

28,42

0,284

d) Unità foraggere: (28,42 x 2360 x 1,43) = 95911,82 : 2100 = 45,67

Unità foraggere/ Kg S.S. fieno = 45,67 : 100 = 0,46

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Calcolo energia lorda: (formula di Hoffman e Schiemann) EL (MJ/Kg S.S) =

0,239 x PG + 0,398 x LG + 0,200 x FG + 0,175 x EI =

0,239 x 9 + 0,398 x 1,2 + 0,200 x 34 + 0,175 x 40,8 =

2,151 + 0,478 + 6,80 + 7,14 = 16,57 MJ

Calcolo energia digeribile: ED (MJ/Kg S.S) =

0,239 x PG x dPG + 0,379 x LG x dLG + 0,183 x FG x dFG + 0,170 x EI x dEI =

0,239 x 9 x 0,48+ 0,379 x 1,2 x 0,53 + 0,183 x 34 x 0,59 + 0,170 x 40,8 x 0,56 =

1,03 + 0,24 + 3,67 + 3,82 = 8,76

Calcolo energia metabolizzabile: EM (MJ/Kg S.S) =

0,181 x PG x dPG + 0,323 x LG x dLG + 0,150 x FG x dFG + 0,152 x EI x dEI =

0,181 x 9 x 0,48+ 0,323 x 1,2 x 0,53 + 0,150 x 34 x 0,59 + 0,152 x 40,8 x 0,56 =

0,78 + 0,20 + 3,01 + 3,47 = 7,46

Tutto ciò può essere riassunto nella tabella:

Principi nutritivi grezzi g/Kg SS

(A)

Digeribilità

(B)

Coefficiente*

( C )

Energia %

Proteine

EL (MJ/Kg S.S) = A x C

ED (MJ/Kg S.S) = A x B x C

EM (MJ/Kg S.S) = A x B x C

9

0,48

0,239

0,239

0,181

2,15

1,03

0,78

100

48

76

Lipidi

EL (MJ/Kg S.S) = A x C

ED (MJ/Kg S.S) = A x B x C

EM (MJ/Kg S.S) = A x B x C

1,2

0,53

0,398

0,379

0,323

0,48

0,24

0,20

100

50

83

Fibra

EL (MJ/Kg S.S) = A x C

ED (MJ/Kg S.S) = A x B x C

EM (MJ/Kg S.S) = A x B x C

34

0,59

0,200

0,183

0,150

6,80

3,67

3,01

100

54

82

Estrattivi inazotati

EL (MJ/Kg S.S) = A x C

ED (MJ/Kg S.S) = A x B x C

EM (MJ/Kg S.S) = A x B x C

40,8

0,56

0,175

0,170

0,152

7,00

3,88

3,47

100

55

89

Totale

EL (MJ/Kg S.S) = 2,15 + 0,48 + 6,80 + 7,00 =

ED (MJ/Kg S.S) = 1,03 + 0,24 + 3,67 + 3,88 =

EM (MJ/Kg S.S) = 0,78 + 0,20 + 3,01 + 3,47 =

16,43

8,82

7,46

100

54

84

*tiene conto dell’energia /Kg SS per i singoli principi nutritivi

Calcolo dell’energia netta:

- si considera la metabolizzabilità dell’energia lorda: q = EM/EL = 7,46/16,43 =

0,45

- poi si calcolano i vari K:

- Km = 0,287q + 0,554 = 0,287 x 0,45 + 0,554 = 0,68

- Kl = 0,24 (q – 0,57) + 0,6 = 0,24 x 0,08 + 0,6 = 0,62

- Ka = 0,78q + 0,06 = 0,78 x 0,45 + 0,06 = 0,41

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- e infine l’energia netta per i diversi usi da parte dell’animale:

ENm = 7,46 x 0,68 = 5,07 MJ x 239 = 1211,7 Kcal

ENl = 7,46 x 0,62 = 4,62 MJ x 239 = 1104,2 “

ENa = 7,46 x 0,41 = 3,06 MJ x 239 = 731, 3 “

UFl = 1104,2 : 1730 = 0,64

UFc = 7,46 x (2/3 . 0,68 + 1/3 . 0,41) = 7,46 x 0,59 = 4,40 MJ x 239 = 1051,6 Kcal

1051,6 : 1850 = 0,57

Calcolo UF classiche:

considerando un coefficiente di utilizzazione di 0,60 per l’EM abbiamo:

7,46 x 0,60 = 4,48 MJ che moltiplicato per 239 = 1070,7 Kcal

UF = 1070,7 : 2100 = 0,51

Calcolo UFl = (7,46 x 0,64 x 239) : 1730 = 1141,08 : 1730 = 0,66

Calcolo UFc = (7,46 x 0,68 x 239) : 1850 = 1212, 40 : 1850 = 0,65

e) Indice volumetrico (I.V.) = 1 : 0,65 = 1,54

f) Sintesi proteica a livello ruminale:

- Considerando che il fieno contiene:

- 9% (90 g) di proteina grezza della quale:

- 60 g (67%) sono degradabili e

- 30 (33%) by-pass

- SOF = 476 – 30 – 12= 434 g = 43,4 %

- Si ha

PDIA = 9 x (1 – 0,67) x 0,90 = 2,67 = 26,7 g /Kg SS

PDIMN = 9 x 0,67 x 0,90 x 0,8 x 0,8 = 3,47 = 34,7 g /Kg SS

PDIME = 43 x 0,145 x 0,8 x 0,8 = 3,99 = 39,9 g/Kg SS

PDIN = 26,7 + 34,7 = 61,4

PDIE = 26,7 + 39,9 = 66,6

E’ preferibile un leggero eccesso di PDIE in quanto l’animale con l’urea salivare

ricicla una parte di azoto.

Se al posto del fieno avessimo utilizzato un alimento con il 79% di sostanza organica

fernentescibile (SOF):

PDIA = 9 x (1 – 0,67) x 0,90 = 2,67 = 26,7 g /Kg SS

PDIMN = 9 x 0,67 x 0,90 x 0,8 x 0,8 = 3,47 = 34,7 g /Kg SS

PDIME = 79 x 0,145 x 0,8 x 0,8 = 7,33 = 73,9 g/Kg SS

PDIN = 26,7 + 34,7 = 61,4

PDIE = 26,7 + 73,9 = 100

Per ottimizzare la sintesi proteica a livello ruminale aggiungiamo della farina di soia

che apporta 384 g/Kg SS di PDIN e 248 g/Kg SS di PDIE, in ragione di 0,3 Kg si ha:

PDIN = = 61,4 + 384 x 0,3 = 61,4 + 115,2 = 176,6

PDIE = = 100 + 248 x 0,3 = 100 + 74,4 = 174,4

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Esercizio

Calcolare la razione per una bovina che:

- pesa 6 qli (3a lattazione),

- produce 34 Kg di latte al giorno al 3,7 % di grasso, 3,2 % di proteine

- perde 0,5 Kg al giorno di peso,

Km = 0,7; kl 0 0,64; Peso metabolico = 6000,75

= 121,23 kg

Calcoliamo prima le esigenze dì mantenimento:

Trasformo il latte in latte standard:

kg latte x (0,4 + 0,15 x % grasso latte) = 34 x (0,4 + O,5 x 3,7) = 3,4 x 0,955 = 32,5

kg

Perdita peso:

Energia = 0,5 Kg x 26 MJ x 0,84 = 13 x 0,84= 10,92 MJ = 10.920 KJ

Proteine = 0,5 Kg x 112 g = 56 g

Esigenze Energetiche

Mantenimento: 1,4 + 0,006 x 600 Kg = 5,0 UFl

Produzione: 0,44 x 32,5 = 14,3 UFI

Totale = 19,3 UFl

UFL risparmiate per perdita peso = 10.920: 7113 = 1,53 UF1

UFI da somministrare = 19,3 - l,53 =17,8 x 1,05 = 18,7 UFL

Esigenze proteiche:

PDR = 8,34/MJ EM ingerita

EM = 18,1 UFl x 1730 Kcal: 239: 0,64 (Kl) = 211 MJ

Fabbisogno PDR == 8,34 x 211 = 1760 g (= 99 g per UFl)

mantenimento: 2.19 X 6000,75

= 265,5 ( = 44 g per q)

proteine cutanee = 0,1125 x 600°,75

= 13,6 ( = 2,3 g per q)

proteine latte = 32 x 0,95 x 34 = 1033,6 g

Non conoscendo il contenuto in proteine del latte sì applica l’equazione che tiene

conto del contenuto in grasso: 21,7 + 0,31x 3,7 = 33,2 g/litro

perdita peso = 0,5 Kg x 112g = 56 g

Proteine tissutali (PT) = P mantenim. + prot Cut + P. latte - P. perd. Peso =

265,5 + 13,6 + 1033,6 - 56 = 1312,7 - 56 = 1256,7

Fabbisogno PNDR = 1,47 x PT – 6,6 EM = 1,47 x 1256,7 - 6,6 x 211 = 1847,35 -

1393 = 455 g

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341

E' consigliabile moltiplicare i fabbisogni di PDR e PNDR per 1,05 e quindi si ha:

PDR = 1760 x 1,05 = 1848 g

PDNR = 455 x 1,05 = 478 g

Fabbisogno proteine:

PDR + PDNR = 1840 + 478 = 2326 g

Di cui 79% PDR e 21% PDNR

Sostanza secca:

mantenimento: 600 x 0,0185 = 11,1 kg

produzione: 32,5 x 0,305 = 9,9 kg

totale = 21kg

Per le proteine volendo considerare il sistema francese abbiamo:

PG (% SS) = FCM x 0,144 + 12,008 = 32,5 x 0,144 + 12,008 = 16,7 % SS e quindi

21.000 x 16,7/100 = 3507 g - 56 (perdita tessuti) = 3451

UIP (% PG) = FCM x 0,34 + 24,28 = 32,5 x 0,34 + 24,28 = 35,3 % PG e quindi 3451

x 35,3/l00 = 1218g .

PDIN o PDIE (% SS) = FCM x 0,132 + 6,324 = 32,5 x 0,132 + 6,324 = 10,6 % SS e

quindi 21.000 x 10,6/100 = 2226

Fabbisogni in minerali:

calcio: 35 g per mantenimento + 3,7 x 32,5 (prod. latte) = 35 + 120,25 = 155, 25 g

fosforo: 25 g per manten.+ 1,5 x 32,5 (prod. Latte) = 25 + 48,75 = 73,75

Magnesio: 1,8 g per mantenim.+ 0,125 x 32,5 = 1,8 + 4,06 = 5,86 g

Fabbisogoo di lipidi (% su S.S.): 32,5 x 0,0743 + 2,5684 = 4,980% che espresso in g =

21000 x 4,98/100 = 1045,8 g

Fabbisogno in fibra:

FG ( % su SS) = FCM x (- 0,08) + 19,44 = - 0,08 x 32,5 + 19,44 = - 2,6 + 19,44 =

16,84 %

NDF (% su FG) = FCM x (- 0,29) + 41,92 = -9,42 + 41,92 = 32,5%

ADF (% su FG) = FCM x (- 0,08) + 23,44 = - 2,6 + 23,44 = 20,8 %

Ciò significa che ogni Kg di sostanza secca:

deve contenere: 0,89 UFI, 110,2 g di proteine, 4,98 % di lipidi,

In sintesi per calcolare la razione per bovini da latte si considera:

1) peso vivo dell' animale, età, sistema di allevamento, eventuale gravidanza;

2) livello produttivo e trasformazione del latte prodotto in latte al 4% di grasso:

FCM= 34 x (0,4+ 0,15 x 3,7)= 32,5

3) stima ingestione SS = PV x 0,0185 + Kg FCM x 0,305 = 600 x 0,0185 + 32,5 x

0,305 = Il,1 + 9,91 = 21 Kg

4) concentrazione energetica: UFL /Kg SS = FCM x 0,0062 + 0,7204 =

32,5 x 0,0062 + 0,7204 = 0,92 e quindi per 21 Kg di SS = 19,3 UFL totali della

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342

razione:

sono da togliere 1,53 UFL per la perdita di peso e quindi vanno somministrate 17,8

UFL che conviene moltiplicare x 1,05 e quindi 17,8 x 1,05 = 18,7 UFL

5) concentrazione proteica:

PG (% SS) = FCM x 0,144 + 12,008 = 32,5 x 0,144 + 12,008 = 16,7 % SS e quindi

21.000 x 16,7/100 = 3507 g - 56 (perdita tessuti) = 3451

UIP (% PG) = FCM x 0,34 + 24,28 = 32,5 x 0,34 + 24,28 = 35,3 % PG e

quindi 3451 x 35,3/100 = 1218 g

PDIN o PDIE (% SS) = FCM x 0,132 + 6,324 = 32,5 x 0,132 + 6,324 = 10,6 % SS e

quindi 21.000 x 10,6/100 = 2226

6) contenuto in fibra: considerando solo il contenuto in NDF si ha:

NDF (% SS) = FCM x (- 0,29) + 41,92 = 32,5 x ( - 0,29) + 41,92 = 32,5% SS e,

quindi, 21.000 x 32,5/100 = 6825 g

- almeno un terzo deve essere apportata da foraggi strutturati e quindi 6825 : 3 =

2275g

7) rapporto foraggi:concentrati: considerando la produzione della bovina dovrebbe

essere di.60:40;

- ciò significa che dei 21.000 g di SS I2.600 devono. provenire dai foraggi e 8.400 dai

concentrati '

- considerando che in azienda si ha silo mais e fieno di medica e che solo il fieno

apporta NDF-FLS bisogna calcolarla su questo: fieno di medica (Kg SS) = g NDF-

FLS I % NDF fieno x 100 = 2275: 50 x 100 = 4.550 g SS fieno e quindi 5,3 Kg tal

quale (4.550: 0.86)

- per differenza si ha la quantità SS di silomais: 12.600 - 4.550 = 8050 g SS = 24,4

Kg tal quale

8) Concentrazione energetica del concentrato

– dai foraggi ottengo:

silomais: 8050 x 0,90 : 1000 = 7,2 UFL

fieno medica: 4550 x 0,67 : 1000 = 3,05 UFL

Totale 10,2 UFL (56% del totale)

- avrò bisogno di un mangime che abbia una concentrazione energetica di 1,01

UF/Kg SS (18,7 - 10,2): 8400 g x 1000)

9) Concentrazionè proteica del concentrato - dai foraggi ottengo:

silomais: 8050 x 8,5 : 100 = 684 g PG

fieno medica: 4550 x 17,5 : 100 = 796 g PG

Totale 1480 g PG (43%)

- avrò bisogno di un mangime che apporti gli altri 1971 g e che quindi abbia il 23,5

% di PG SS (1971: 8400 x100);

L'allevatore dispone di pastone di mais (spiga + tutolo) che contiene il 57% di SS e

1'8,6% SS di PG e decide di utilizzarne 10 Kg tal quale e quindi avremo:

SS = 10 x 57: 100 = 5,7 Kg

PG= 5,7 x 86 = 490 g

Rimangono da soddisfare1971 - 490 = 1481 g di PG che potrebbero ottenersi

utilizzando 3,5 Kg di farina di soia con 1'88% di SS e 47 % PG % SS.

SS = 3,5 x 88 :100 = 3,08 Kg

PG = 3,1 x 470 = 1457 g

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343

Fabbisogni bovina da latte

Latte standard (4% grasso) =

I FCM

kg latte x (0,4+ 0,15 x % grasso latte) =

Aggiunte per Kg di peso

guad.:

energia

proteine

26 MJ/Kg: 0,95 = 27,35 MJ =

150: 0,95 = 157 g/kg =

Detrazioni per Kg di peso

perso:

Energia

Proteine

26 MJ/Kg x 0,84 =

150 x 0,75 = 112 g/kg perso =

Ingestione SS (Kg):

mantenimento

produzione

totale

PV x 0,0185 =

Kg FCM x 0,305 =

UFL:

mantenimento

produzione

totale

1,4 + 0,006 x Kg peso vivo =

0,44 x kg FCM =

NDF (% SS)1 FCM x (- 0,29) + 41,92 =

FG (% SS) FCM x (- 0,08) + 19,44 =

Concentrazione:

energetica UFL /Kg SS

proteica PG (% SS)

FCM x 0,0062 + 0,7204 =

FCM x 0,144 + 12,008 =

UIP %PG FCM x 0,34 + 24,28 =

PDI(% SS) FCM x 0,132 + 6,324 =

Lipidi (% SS) FCM x 0,0743 + 2,5684 =

Calcio (% S.S.) 2 (± 5-10 %) FCM x 0,0 l + 0,42 =

Fosforo (% SS 2 (± 5-10 % FCM x 0,003 + 0,3

Magnesio 3 mg/kg (mantenimento) + 0,125 g/ kg FCM =

Vitamine: (oscillazione max

10%)

A (UI/ kg SS) 70.000 (15.000)* =

D (UI/ kg SS) 1000 (1.500)* =

E (UI/ kg SS) 25 (40)* =

1 1/3 di NDF deve provenire da foraggi strutturati

2 rapporto Ca/P = 1,7 - 2 bovine in lattazione e 1,3 per quelle in asciutta

* i valori in parentesi si riferiscono a bovine in asciutta

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344

Fabbisogni bovina da latte

Latte standard (4% grasso) = I

FCM

34 x (0,4+ 0,15 x 3,7) = 32,5

Aggiunte per Kg di peso guad.:

energia

proteine

26 MJ/Kg: 0,95 = 27,35 MJ =

150: 0,95 = 157 g/kg =

Detrazioni per Kg di peso perso:

Energia

Proteine

26 MJ x 0,5 x 0,84 = 10,92 MJ = 10.920 Kj

150 x 0,75 x 0,5 = 56 g =

Ingestione SS (Kg):

mantenimento

produzione

totale

60 0 x 0,0185 = 11,10 kg

32,5 x 0,305 = 9,91 kg

21,0 kg

UFL:

mantenimento

produzione

perdita peso

totale

1,4 + 0,006 x 600 = + 5,0 UFL

0,44 x 32,5 = + 14,3UFL

1,53 UFL

17,77 x 1,05 = 18,7 UFL

NDF (% SS)1

Da foraggi strutturati = 1/3

32,5 x (- 0,29) + 41,92 = 32,5% = 6825 g

6825 :3 = 2275 g

FG (% SS) 32,5 x (- 0,08) + 19,44 = 16,84% = 3564 g

Concentrazione:

energetica UFL /Kg SS

proteica PG (% SS)

32,5 x 0,0062 + 0,7204 = 0,92

32,5 x 0,144 + 12,008 = 16,7% = 3507 – 56 = 3451 g

UIP % PG 32,5 x 0,34 + 24,28 = 35,3 % = 1218 g

PDI(% SS) 32,5 x 0,132 + 6,324 =10,6% = 2226 g

Lipidi (% SS) 32,5 x 0,0743 + 2,5684 = 4,98% = 1046 g

Calcio (% S.S.) (± 5-10 %) 32,5 x 0,0 l + 0,42 = 0,74% = 155 g

Fosforo (% SS 2 (± 5-10 % 32,5 x 0,003 + 0,3 = 0,40% = 84 g

Magnesio 0,003 g x 600 + 0,125 x 32,5 = 5,9 g

Vitamine: (oscillazione max 10%)

A (UI/ kg SS) 70.000 x 21 = 1.470.000 U.I.

D (UI/ kg SS) 1000 x 21 = 21.000 U.I.

E (UI/ kg SS) 25 x 21 = 525 mg

1 1/3 di NDF deve provenire da foraggi strutturati

2 rapporto Ca/P = 1,7 - 2 bovine in lattazione e 1,3 per quelle in asciutta

* i valori in parentesi si riferiscono a bovine in asciutta

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345

Alimenti S.S. UF/Ikg PG PDIN PDIE UlP NDF Lipidi Ca P

% SS % SS % SS % SS % PG % g/Kg g/Kg g/Kg

SS t.q. t.q t.q

Silo-mais 33 0.9 8,5 5,2 6,6 31 43 14 1,2 0,6 .

Fieno 86 0,67 17,5 11 9 28 50 25 14 2,3

medica

Pastone 57 1.1 8,6 6,1 9,8 60 15 30 0.2 1,1

di mais

Farina di 88 1.1 47 30 24 35 15 30 2,7 6,5

soia

Alimenti Kg Kg UFl PG UIP PDIN PDIE NDF Lipidi Ca p

tq S.S. g g g g g g g g

Silo-mais 24,4 8,0 7,2 680 210 416 528 3440 342 29 15

Fieno medica 5,3 4,5 3,0 787,5 220 495 405 2250 132 74 12

Totale foraggi 29,7 12,5 10,2 1467 430 911 933 5690 474 103 27

Pastone mais 10 5,7 6,3 490 294 348 559 855 300 2 11

Farina soia 3,5 3,1 3,4 1457 510 930 744 465 105 9,4 23

Tot. conc. 13,5 8,8 9,7 1947 804 1278 1303 1320 405 11,4 34

Totale raz. 43 21,3 19,9 3414 1234 2189 2236 7010 879 114,4 61

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Esigenze

Kg UFl PG UIP PDIN PDIE NDF Lipidi Ca P

S.S. g g g g g g g

Animale 21 18,7 3451 1218 2226 2226 6825 1046 155 74

Soddisfatte 21,3 19,9 3414 1234 2189 2236 7818 879 114A 61

dalla

razione I

Differenza + + - + - + + - - -

% 0,3 1,2 37 16 37 10 185 167 40,6 13

1,4 6,4 1,07 1,3 1,7 0,4 2,7 16 26 17,6

1) Calcolare la digeribilità e le unità foraggiere di un alimento somministrato ad

un bovino:

Alimento:

fieno ingerito kg 5

umidità 13%

E.L. = 18 MJ/kg S.S.

feci kg 2 S.S.

La sostanza secca del fieno è pari all’87 % e quindi per i 5 kg di fieno si ha:

(5 x 87) : 100 = 4,35 kg S.S.

S.S. trattenuta = 4,35 - 2 = kg 2,35

Digeribilità fieno = (4,35 - 2) : 4,35 = 0,54 o 54%

E.L. = 4,35 kg x 18 MJ = 78,3 MJ

E.D. = 78,3 x 0,54 = 42,8 MJ

Dall’ED. togliendo l’energia persa con le urine (5%) e con il metano (12%) si ottiene

l’energia metabolizzabile:

Energia urine (Eu) = 42,8 x 5 : 100 = 2,11 MJ

Energia metano (Em) = 42,8 x 12 : 100 = 5.07 MJ

Energia metabolizzabile = E.D. - Eu - Em = 42,8 - 2,11 - 5,07 = 35,1 MJ

Considerando un coefficiente di utilizzazione dell’EM = 0,60, l’Energia Netta (EN)

sarà:

35,1 MJ x 0,60 = 21,06 MJ che moltiplicato per 239 sarà = 5033 Kcal

Considerando che:

1 UF classica = 2100 Kcal

1 UF latte = 1730 Kcal

1 UF carne = 1850 Kcal

si ha :

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347

UF/ 5 kg fieno = 5033 : 2100 = 2,40 UF classiche

UF/kg fieno = 2,40 : 5 = 0,48

Considerando poi Kl = 0,636 e Kf = 0,681 si avrà:

a) UFl / 5 Kg di fieno = (35,1 x 239 x 0,636) : 1730 = 5335,34 : 1730 = 3,08

UFl / Kg di fieno = 3,08 : 5 = 0,62

b) UFc / 5 Kg fieno = (35,1 x 239 x 0,681) : 1850 = 5712,84 : 1850 = 3,09

UFc / Kg fieno = 3,09 : 5 = 0,62

2) calcolare l’energia digeribile di un fieno somministrato ad un ovino

- Fieno somministrato (s.s.) all’ovino (Kg/capo/d) = 1,50 Kg

- Alimento eliminato con le feci (s.s.) = 0,70 Kg

- Fieno digerito (1,50 – 0,70 Kg) = 0,80 Kg

Energia loroda per Kg s.s. fieno = 18,0 MJ

Energia per Kg di feci = 18,7 Mj

Energia lorda ingerita = 18 MJ x 1,5 kg = 27,0 MJ

Energia eliminata con le feci = 18,7 MJ x 0,70 Kg = 13,1 MJ

Energia trattenuta (digeribile ) = MJ (27 – 13,1) = 13,9 MJ

Digeribilità (apparente) dell’energia = (27 – 13,1)/27 = 0,515

Energia digeribile contenuta nel fieno = 18 x 0,515 = 9,3 MJ/Kg

3) Calcolare la razione per bovine da latte. Bisogna considerare:

a) peso vivo medio individuale - è necessario conoscere il peso vivo degli animali; in

caso di razionamento di gruppo si prende il valore medio che nel nostro caso è di 650

kg;

b) livello produttivo medio: bisognerebbe presupporre un dato superiore a quello

medio che tenga conto, da un lato, il tentativo di migliorare la produzione di latte e,

dall’altro, di non penalizzare le bovine più produttive all’interno del gruppo; per

risolvere quest’ultimo problema è stato messo a punto un sistema di correzione (lead

factors) che aumenta per ciascun gruppo di produzione la quantità di latte su cui

calcolare la razione.

Nel nostro caso, l’allevamento è diviso in due gruppi produttivi (50% ciascuno) ed il

gruppo ad alta produzione, nell’ultimo mese ha prodotto 30 kg di latte/capo/giorno e

quindi impostiamo il razionamento per 35,1 (30 x 1,17) al 3,5% di grasso e dalle

formule viste in precedenza trasformiamo il valore in latte standard (corretto al 4% di

grasso):

latte 4% = 35,1 x (0,4 + 0,15 x 3,5) = 32,5 kg

Fattori di correzione per la formulazione di razioni unifeed per bovini da latte (lead

factors)

Bovine in ogni gruppo Gruppo di produzione

% Alto Medio Basso

100 0 0 1,32 - -

70 0 30 1,22 - 1,21

50 0 50 1,17 - 1,23

30 0 70 1,14 - 1,25

33 33 33 1,14 1,10 1,21

25 25 50 1,13 1,07 1,23

25 50 25 1,13 1,14 1,21

50 25 25 1,18 1,08 1,21

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348

c) stima dell’ingestione di sostanza secca: per stimare il livello ingestivo la formula

più utilizzata è quella proposta da Cornell: SS ingerita = PV (kg) x 0,0185 + latte 4%

(kg) x 0,305 e quindi:

SSI = 650 x 0,0185 + 32,5 x 0,305 = 21,9 kg/d/capo

d) concentrazione energetica: in base ai fabbisogni avremo:

UFL/kg SS = latte 4% x 0,0062 + 0,7204 = 32,5 x 0,0062 + 0,7204 = 0,92 e per 21,9

kg SS avremo 20,19 UFL totali della razione;

e) concentrazione proteica: secondo quanto detto in precedenza avremo:

PG (% SS) = latte 4% x 0,144 + 12,008 = 32,5 x 0,144 + 12,008 = 16,7% SS

e quindi per 21,9 kg SS avremo 3655 g PG;

UIP (% PG) = latte 4% x 0,34 + 24,28 = 32,5 x 0,34 + 24,28 = 35,3% PG e quindi

per 21,9 kg SS e 16,7% SS avremo bisogno di 1291 g di UIP;

PDIN o PDIE (% SS) latte 4% x 0,132 + 6,324 = 32,5 x 0,132 + 6,324 = 10,6% SS e

quindi avremo un fabbisogno di 2324 g di PDI;

f) contenuto in fibra: tenendo conto solo del contenuto in NDF avremo:

NDF (% SS) = latte 4% x (-0,29) + 41,92 = 32,5 x (-0,29) + 41,92 = 32,5% SS e

quindi per 21,9 kg SS avremo bisogno di 7116 g di NDF e poiché almeno un terzo di

questo NDF deve essere somministrato da foraggi strutturati avremo bisogno di 2348

g di NDF-FLS (7116 x 1/3)

g) rapporto foraggi : concentrati: immaginando di avere a disposizione silomais (33%

SS, 0,90 UFL/ kg SS, 8,5 PG % SS, 5,2 PDIN % SS, 6,6 PDIE % SS, 31 UIP %

PG e 43 NDF % SS) e fieno di medica 2° taglio (86 % SS, 0,67 UFL/kg SS, 17,5

PG % SS, 11 PDIN % SS, 9 PDIE % SS, 28 UIP % SS e 50 NDF % SS) e cercando

di avere una concentrazione energetica della base foraggiera intorno a 0,85 UFL/kg

SS dovremmo impostare un rapporto foraggi : concentrati di 60 : 40 (vedi tabella).

Da questo deriva che di 21,9 kg di SS totali dovremo prevedere 13140 g di SS da

foraggi e 8760 g di SS da concentrati.

Per quanto riguarda i foraggi dovremo prima di tutto soddisfare il fabbisogno minimo

in NDF-FLS e poiché il silomais non apporta questa fibra strutturata dovremo

calcolarla solo sul fieno di medica, e quindi: fieno di medica (kg SS) = g NDF-

FLS/% NDF fieno x 100 = 2348/50 x 100 = 4696 g SS che vuol dire 5460 g di fieno

di medica tal quale (4696/0,86 = 5460). Per differenza avremo bisogno di 8444 g di

SS da silomais, in altre parole 25,6 kg di tal quale da silomais (8444/0,33 = 25558)

h) concentrazione energetica del concentrato: calcolo quante UFL della dieta è

possibile coprire con la somministrazione dei foraggi:

- dal fieno di medica: g SS x UFL/kg SS/1000 = 4696 x 0,67/1000 = 3,15 UFL

- dal silomais: 8444 x 0,90/1000 = 7,60 UFL

quindi dai foraggi ottengo 10,75 UFL, ovvero il 53% del totale della razione, ed avrò

bisogno di mangimi che abbiano una concentrazione energetica di 1,078 UFL/kg SS

((20,19 -10,75 UFL) /8760 g x 1000)

i) concentrazione proteica del concentrato: calcolo quante PG sono coperte dalla

somministrazione dei foraggi:

- dal fieno di medica: g SS x PG % SS/100 = 4696 x 17,5/100 = 822 g PG

- dal silomais 8444 x 8,5/100 = 718 g PG e quindi dai foraggi ottengo in totale 1540

g di PG che coprono il 42% del fabbisogno totale della razione, ed avrò bisogno di un

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mangime che mi apporti i restanti 2115 g di PG, ovvero che abbia il 24,1 % di PG SS

(2115/8760 x 100)

l) scelta dei concentrati: potendo utilizzare il computer sarà possibile immettere

molte materie prime e lasciare che il computer scelga la combinazione migliore in

funzione anche della minimizzazione del costo della razione, tenendo sempre conto

dei limiti nutrizionali di ciascuna materia prima. immaginiamo che l’allevatore abbia

la possibilità di usare pastone di spiga di mais (granella + tutolo) con le seguenti

caratteristiche: 57% SS, 1,15 UFL/kg SS, 8,6% PG SS, 6,1 PDIN % SS, 9,8 PDIE %

SS, 60 UIP % PG e 15% NDF SS. Per semplicità utilizziamo 8,5 kg di tal quale (4,85

kg SS) e quindi dal pastone ricaviamo: UFL = 1,15 x 4,85 = 5,58; PG = 8,6 x

4,85/100 x 1000 = 417 g; NDF = 15 x 4,85/100 x 1000 = 727 g. Bisogna cercare a

questo punto un concentrato proteico che abbia la possibilità con 3910 g SS di

coprire 3,86 UFL (20,19 - 10,75 - 5,58 UFL), 1698 g di PG (2115 - 417 g PG) e 99 g

di NDF (7116- 4696 x 50/100 - 8444 x 43/100 - 4850 x 15/100 = 409 g NDF): questo

mangime dovrà quindi avere le seguenti concentrazioni: 0,97 UFL/kg SS, 43,4% PG

SS, 10,5% NDF SS. La farina di soia può fare al caso nostro, infatti ha le seguenti

caratteristiche: 88% SS, 1,10 UFL/kg SS, 47 PG % SS, 35 PDIN % SS, 24 PDIE %

SS, 35 UIP % PG, 15 NDF % SS. Proviamo a valutare la razione in funzione delle

UIP totali, che risultano dalla somma delle UIP di ciascun alimento (UIP % PG x g

PG/100):

- da fieno di medica: 28 x 822/100 = 230 g

- da silomais: 31 x 718/100 = 223 g

da pastone di mais: 60 x 417/100 = 250g

- da farina estrazione soia: 35 x 3910/100 = 643 g

In totale dalla razione abbiamo 1346 g che coprono ampiamente i fabbisogni in UIP

che sono 1291 g.

In conclusione la razione così formulata è composta da:

- fieno di medica 2° taglio: 4696 g SS 5,5 kg tal quale

- silomais (33% SS): 8444 g SS 25,6 kg tal quale

- pastone di mais: 4850 g SS 8,5 kg tal quale

- farina estrazione soia: 3910 g SS 4,5 kg tal quale

L’analisi prevista a partire da questa razione sarà:

- sostanza secca da somministrare: 4696 + 8444 +4850 + 3910 = 21,9 kg

- rapporto foraggi : concentrati: (4696 + 8444) / (4696 + 8444 + 4850 + 3910) = 60 :

40 sul secco

- UFL totali = 3,15 + 7,60 + 5,58 + 1,1 x 3,91 = 20,63 (erano previste 20,19)

- UFL/kg SS = 20,63/21,9 = 0,94 (previsto 0,92)

- PG totali = 822 + 718 + 417 + 47/100 x 3910 = 3795 g (previsti 3655g)

- PG (% SS) = 17,3% (previsti 16,7%)

- UIP totali = 230 + 223 + 250 + 643 = 1346 g (previsti 1291 g)

- UIP (% PG) 1346/3795 = 35,5 % (previsto 35,3%)

- PDIN totali = 5,2 x 8444/100 + 11 x 4696/100 + 6,1 x 4850/100 + 35 x 3910/100 =

2620 g

- PDIE totali = 6,6 x 8444/100 + 9 x 4696/100 + 9,8 x 4850/100 + 24 x 3910/100 =

2394 g

La differenza tra le PDIE e le PDIN apportate dalla razione è di 226 g, quindi

leggermente superiore ai 200 g che sono il limite massimo per evitare sbilanciamenti

della razione tra l’apporto energetico e proteico ai microrganismi ruminali. Inoltre il

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350

contenuto in PDI della razione (in questo caso PDI = PDIE risultando inferiori alle

PDIN) risulterà di 10,9 % SS (2394/21900 x 100), contro un contenuto previsto di

10,6 % SS

- NDF totale = 4696 x 50/100 + 8444 x 43/100 + 4850 x 15/100 + 3910 x 10,5/100 =

7117 g

- NDF (% SS) 7117/21900 x 100 = 32,5%

La razione quindi pare ben bilanciata almeno per i nutrienti più importanti

4) Calcolo della razione per una vacca da latte di 5 anni (non più in

accrescimento) del peso di 550 Kg, che produce 14 litri di latte il giorno con il

4% di grasso ed è al 5° mese di gravidanza (non ha bisogno di supplementazione

per lo stato gravidico).

Si calcolano prima i fabbisogni:

Fabbisogno nutritivo Mantenimento Produzione latte Totale

Unità foraggiere n. 4,4 14 x 0,4 = 5,6 10

Proteina digeribile g 60 x 5,5 = 330 14 x 60 = 840 1170

Sostanza secca Kg 17

Calcio g 33 14 x 4,2 = 58,8 92

Fosforo g 24 14 x 1,7 = 23,8 48

Caroteni mg 400

L'azienda dispone di erba medica ad inizio fioritura, fieno maggengo di prato

naturale di media qualità, insilato di granturchino:

Quantità Componenti nutritivi della razione

Alimenti

Kg

U.F. Prot. dig

g

Sostanza

secca

kg

Ca

g

P

G

Caro-

teni

mg

Erba

medica

15 15x0,14 = 2,1 15x32= 430 3,75 87,0 12,8 450

Fieno di

prato

7 7x0,40 = 2,8 7x40 =280 5,95 15,5 13,1 120

Granturchi

-no insil.

28 28x0,12 = 3,4 8x28 = 224 5,60 15,1 12,3 330

Crusca 2,5 2,5x0,75= 1,9 2,5 x 110 =

275

2,20 3,3 31,4

TOTALE 52,5 10,2 1209 17,50 120,9 69,6 900

Nel calcolo dei quantitativi dei singoli costituenti la razione, necessari per far

raggiungere alla stessa un giusto contenuto in U.F., proteine digeribili, Ca, P, caroteni

e di sostanza secca si andrà per tentativi, variando i singoli quantitativi fino ad avere

un risultato soddisfacente; oppure, si provvede all'aggiustamento con concentrati ed

integrativi.

La razione formulata soddisfa con un certo margine di sicurezza sia il bisogno

energetico che proteico e molto largamente ai fabbisogni in calcio, fosforo e caroteni.

Per la sostanza secca vi è un modesto eccesso di 0,5 Kg, ma poiché essa corrisponde

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351

a poco più del 3% del peso dell'animale e gli alimenti utilizzati sono sicuramente

appetibili, è da ritenere che la razione sia interamente consumata.

5) Trovare la razione giornaliera di una bovina da latte di razza Frisona

Italiana con le seguenti caratteristiche:

- peso vivo Kg 550

- produzione giornaliera di latte = 25 kg/giorno al 3,9% di grasso.

a) razione di mantenimento:

U.F. = 0,75/q; Proteine digeribili = 60 g/q; Ca = 4,5 g/q; P = 4,5 g/q

b) razione di produzione:

U.F. = 0,4/kg latte al 4% di grasso; Proteine digeribili = 60 g/kg latte; Ca = 3 g/Kg

latte; P = 2 g/Kg latte;

c) razione giornaliera di:

sostanza secca = 3-3,5% del peso vivo; fibra grezza = 18-22% della sostanza secca di

cui il 50% come fibra strutturata; vitamina A = 100.000 - 150.000 U.I.

Foraggi Composizione

Aziendali S.S. % P.D. % F.G. % U.F. Ca % P % Vit. A

Silomais

(maturazione cerosa)

28

1,4

26,3

23,5

0,28

0,21

-

fieno di medica

(inizio fioritura)

90

11,4

29,8

45,7

1,25

0,23

0,26

Granella orzo 85 7,5 4,6 100 0,07 0,40 -

Calcolo delle esigenze nutritive:

Razione

Mantenimento Produzione Totale

U.F. 0,75 x 5,5 = 4,125 0,4 x 25 = 10 14,125

P.D. g 60 x 5,5 = 330 60 x 25 = 1500 1830

Ca g 4,5 x 5,5 = 24,75 3 x 25 = 75 99,75

P g 4,5 x 5,5 = 24,75 2 x 25 = 50 74,75

S.S. Kg = 3-3,5% PV = (3-3,5 x 550) = 16,5-19,5

F.G. Kg = 18-22% su S.S. = 2,97-4,23

Quantità di foraggi somministrati giornalmente

Kg S.S.

Kg

F.G.

Kg

P.D.

Kg

U.F. Ca

g

P

G

Vit. A

silomais 16 4,41 1,18 0,22 3,68 12,54 9,41 73.710*

fien. medica 7 6,30 1,88 0,80 3,2 78,75 14,49

gran. orzo 5 4,25 0,19 0,37 5,0 2,97 17,0

Totale 28 15.03 3,25 1,39 11,88 94,27 40,9 73.710

* Vit. A = (26 mg x 6,30 Kg x 450 U.I.) = 73.710

Questa razione è sufficiente a coprire le quote per il mantenimento e la produzione di

circa 19 litri di latte; quindi, occorre integrare con mangimi del commercio per

soddisfare i fabbisogni di produzione, per altri 6 Kg di latte.

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Calcolo dell'integrazione con concentrati

Alimenti S.S.

%

F.G.

%

P.D.

%

U.F. Ca

%

P

%

Vit. A

U.I.

Polpe di bietola 91 20,9 4,1 84,2 0,75 0,11 -

Farina di soia

(estrazione 50%)

90 3,0 42,2 105,0 0,27 0,72 -

Quantità di concentrati somministrati giornalmente

Alimenti

Kg

S.S.

kg

F.G.

Kg

P.D.

Kg

U.F. Ca

g

P

g

Vit. A

U.I.

Polpe di

bietola

2

1,82

0,38

0,08

1,68

13,69

2.002

-

Farina di soia

(estrazione

50%)

1 0,90 0,027 0,422 1,05 2,43 6,48 -

Totale 2,72 0,407 0,502 2,73 16,12 8,482 -

Pertanto la composizione della razione giornaliera impiegata è:

Alimento Quantità (Kg)

Silomais

Fieno di medica

Granella di orzo

Polpe di bietole

Soia farina estrazione

16

7

5

2

1

Contenuto della razione

S.S.

Kg

F.G.

Kg

P.D.

kg

U.F. Ca

g

P

g

Vit. A

U.I.

17,75 3,65 1,892 14,61 110,39 49,38 73.710

Fabbisogni teorici della bovina

S.S.

Kg

F.G.

Kg

P.D.

kg

U.F. Ca

g

P

g

Vit. A

U.I.

17,875 3,6 1,83 14,12 99,75 74,75 100.000

Rapporto Ca/P = 2,23 : 1.

La tolleranza ammessa nel calcolo delle U.F. e delle P.D: é, rispettivamente, + 0,5 e

+ 250g

I bisogni di vitamine, particolarmente A, e in quelli minerali sono aggiustati con

l'impiego di integratori

Nella composizione degli alimenti i valori delle F.G., del calcio e del P sono riferiti

alla sostanza secca, quelli delle P.D. al tal quale.

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6) Calcolare il valore nutritivo (V.N.) in U.F., la relazione nutritiva (R.N.) e

l'indice di voluminosità (I.V.) di un alimento avente la seguente composizione

chimica:

acqua = 63%, proteina 17,94%, grasso 2,31%, ceneri 6,03%, fibra grezza 34,39%,

estrattivi inazotati = 39,33%.

- calcolo sostanza secca = 100-63 = 37

- calcolo coefficienti digeribilità:

fibra grezza = 34,39% scarto: 35-30 = 5; 35-34,39 = 0,61; 54,5 - 50,2 = 4,3 (scarto

fibra); 5 : 4,3 = 0,61 : x; x = 4,3 x 0,61/5 = 0,52

proteine: 60,0 - 55,7 = 4,3; 5 : 4,3 = 0,61 : x; x = 4,3 x 0,61/5 = 0,52

grassi: 5 : 7,3 = 0,61 : X; X = 7,3 x 0,61/5 = 0,89

estrattivi inazotati: 5 : 4,5 = 0,61 : x; x = 4,5 x 0,61/5 = 0,79

i coefficienti di digeribilità, quindi, sono:

proteine: 55.7 + 0,52 = 56,22

grassi = 48,2 + 0,89 = 49,09

estrattivi inazotati = 61 + 0,79 = 61,79

fibra grezza = 50,2 + 0,52 = 50,72

- calcolo delle sostanze nutritive digeribili:

proteine 17,94 x 0,5622 = 10,08 prot. digeribili

grassi 2,31 x 0,4909 = 1,13 grassi "

estrattivi inazotati 39,33 x 0,6179 = 24,30 estrat. inaz. "

fibra grezza 34,39 x 0,5072 = 17,44 fibra "

- calcolo della relazione nutritiva:

R.N. = (estrat. inaz. dig. + fibra diger. + grassi diger. x 2,25) : proteine digeribili =

(24,30 + 17,44 + 1,13x 2,25) : 10,08 = 4,34 (è una relazione stretta).

- calcolo del valore nutritivo:

si calcolano prima le unità amido teoriche (moltiplicando le sostanze nutritive

digeribili per il coefficiente adipogenetico):

proteine 10,08 x 0,94 = 9,48

grassi 1,13 x 1,91 = 2,15

fibra 17,44 x 1 = 17,44

estrat. inaz. 24,30 x 1 = 24,30

Totale U.A. teoriche = 53,37

Dalle unità amido teoriche si risale a quelle reali, mediante i fattori di correzione;

essendo la fibra grezza pari 34,99 quindi > di 16 il fattore di correzione è 0,58:

34,39 x 0,58 = 19,94; U.A. reali = 53,37-19,94 = 33,44

- calcolo del V.N. in U.F.; basta fare la conversione delle U.A. in unità foraggiere:

1 U.A. = 1,43 U.F. quindi 33,43 U.A. x 143 = 47,80 U.F.

- riferimento del V.N. in U.F. a 100 Kg di sostanza secca:

100 : 47,80 = 37 : x; x = 47,80 x 37/100 = 17,68

- calcolo dell'indice volumetrico:

I.V. = sostanza secca totale : U.F. totali = 37 : 17,68 = 2,09

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7) stabilire una razione media giornaliera, per un gruppo di vitelli da carne, con

un peso di 250 Kg e col presupposto di avere un incremento medio/d di 1200 g.

- in azienda sono presenti i seguenti foraggi: silomais a maturazione cerosa, fieno di

medica e come concentrato si dispone di farina di estrazione di arachide addizionata

del 2,5% di fosfato bicalcico e dello 0,5% di sale pastorizio con oligoelementi.

I bisogni nutritivi si ricavano direttamente dalle tabelle (I.N.R.A., N.R.C.) e sono: 4,9

U.F., 585 g di protidi digeribili, 6,8 Kg di sostanza secca; 27 g di calcio, 21 g di

fosforo; 60 mg di caroteni. La composizione della razione è quella riportata in tabella

nella quale sono indicati, nella colonna sinistra delle U.F., delle P.D. e della SS. i

valori dei singoli alimenti riferiti ad un Kg.

Alimenti kg Unità

foraggiere

prot. diger.

G

sost. secca

Kg

Ca

g

P

G

Carote-

ni mg

Silomais

14

0,23 3,22

14 196

0,28 3,92

10,3

7,3

80

fieno

medica

2

0,45 0,90

115 230

0,85 1,70

21.2

4,0

50

Arachide

farina

estr.

0,8

1,0 0,80

430 344

0,90 0,72

1,5

4,4

-

fosfato.

Bicalcico

.

-

-

-

-

4,8

3,7

-

Totali 16,8 4,92 770 6.34 37,8 19,4 130

La razione proposta risponde bene ai fabbisogni di unità foraggiere, proteine, calcio e

fosforo il quale presenta un deficit trascurabile. Il contenuto in sostanza secca è

minore di quello previsto ma, ciò costituisce un vantaggio per i bovini all'ingrasso e,

dipende dall'impiego di un foraggio di base (il silomais) raccolto a maturazione

cerosa e quindi contiene un’elevata concentrazione nutritiva.

8) Calcolare la razione di mantenimento per pecore di 40 Kg in buona

condizione corporea

Fabbisogni: mantenimento 0,52 UFL 42 g PDI

Pascolamento (20% mantenimento) 0,10 UFL

Totale 0,62 UFL 42 g PDI

- Alimenti disponibili: - fieno di prato stabile mediocre: 0,62 UFL; 50 g PDIN; 63 g

PDIE; 6,5 g Calcio; 2,5 g fosforo

- Capacità di ingestione prevista: Kg 1,2 = 1 Kg di sostanza secca (2,5 Kg S.S. per

100 Kg di peso vivo)

- Apporti alimentari: 0,62 UFL; 50 g PDI; 6,5 g Calcio; 2,5 g Fosforo.

I fabbisogni sono soddisfatti (al limite) con un Kg di S.S. (pari a 1,2 Kg tal quale) di

un fieno di qualità mediocre.

Ciò indica che i fabbisogni di mantenimento di una pecora sono soddisfatti da una

razione costituita da solo foraggio ed anche di qualità mediocre. Le pecore, anche se,

fossero di peso maggiore (es. 70 Kg di peso vivo, con fabbisogno di 0,80 per il

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mantenimento e 0,16 per il pascolamento) i fabbisogni sarebbero sempre coperti se la

capacità di ingestione non scendesse sotto i 2,5 Kg di S.S. per 100 Kg di peso vivo.

9) calcolo della razione per pecore a fine gravidanza di 60 Kg e con

prolificità di 1,5:

Fabbisogni di mantenimento 0,71 UFL g PDI

Gestazione (75% mantenimento) 0,53 "

Totale 1,24 “ 128

- Alimenti disponibili:

a) fieno di medica 0,67 UFL, 112 g PDIN, 94 PDIE, 15 g Calcio, 2,5 g fosforo;

b) orzo 1,16 UFL, 0,79 PDIN, 102 g PDIE, 0,7 g Calcio, 4,0 g fosforo;

- Capacità ingestione prevista: Kg 1,3 di S.S. = 1,5 Kg tal quale;

Apporti giornalieri UFL PDIN PDIE Calcio Fosforo

Fieno Kg 1,0 (0,85 SS.) 0,57 95 80 12 2

Orzo Kg 0,5 (0,435 SS.) 0,50 34 44 1,7

Totale 1,07 129 124 12 3,7

La razione è adeguata in proteine e calcio, carente in fosforo; l'energia è leggermente

in eccesso a 45 giorni dal parto e leggermente in difetto a una o due settimane dal

parto (la pecora farà ricorso alle proprie riserve corporee). I fabbisogni non

potrebbero essere coperti con solo fieno, considerando che un buon fieno contiene

massimo 0,75 UFL/Kg e che a fine gravidanza la pecora non ha un’elevata capacità

di ingestione.

10) Calcolo della razione per pecore di 60 Kg con produzione di latte di 1,5

Kg/giorno:

- Fabbisogni di mantenimento: UFL 0,71 PDI 57 g

" Produzione " 0,98 " 135 g

Totale " 1,69 " 192 g

- Alimenti disponibili:

a) fieno di medica: 0,62 UFL, 105 g PDIN, 88 g PDIE, 15 g calcio, 2,5 g fosforo;

b) orzo: 1,16 UFL, 79 g PDIN, 102 g PDIE, 0,7 g calcio, 4,0 g fosforo

- Capacità di ingestione prevista: Kg 2,1 di S.S. (Kg 3,5 per q peso vivo)

- Apporti giornalieri UFL PDIN PDIE Calcio Fosforo

- fieno Kg 1,6 (1,3 SS.) 0,84 143 120 20 3,4

- orzo Kg 0,9 (0,78 S.S.) 0,90 62 80 - 3,1

Totale 1,74 205 200 20 6,5

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356

11) Valutare una razione per vacche da latte impiegando i sistemi UF e UFL

Data la razione per bovine da latte di 650 kg con una produzione giornaliera media di

30 kg di latte al 3,6% di grasso, equivalente a 28,2 kg al 4% di grasso:

Alimento % SS kg tal quale kg SS

Silomais 35 16 5,6

Fieno di medica 88,5 5,5 4,9

Mangime composto 87,5 11 9,6

Intera razione 61,8 32,5 20,1

Rapporto foraggi : concentrati (5,6 + 4,9)/9,63 = 10,5 : 9,63 =

= 52% foraggi e 48% concentrati

Analisi chimica alimenti SS SO PG LG FG NDF ADF ADL EI Cene-

ri

Silomais g/kg SS 1000 945 82 33 200 630 55 g/kg t.q. 350 331 29 12 70 220 19

Medica g/kg SS 1000 906 155 23 300 428 94 g/kg t.q. 885 802 137 20 266 379 83

Mangime g/kg SS 1000 910 200 45 85 302 98 23 580 90 g/kg t.q. 875 796 175 39 74 264 86 20 508 79

Metodo UF classica

a) silomais: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità per un

contenuto di FG di 200g/kg SS sono:

Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:

(g/kg t.q.)

DPG = (84,8714 - 0,08343 x 200)/100 = 0,682

DLG = (78,9 - 0,088 x 200)/100 = 0,613

DFG = (80,2857 - 0,08571 x 200)/100 = 0,631

DEI = (91,3571 - 0,08714 x 200)/100 = 0,739

PD = 29 x 0,68 = 20

LD = 12 x 0,613 = 7,4

FD = 70 x 0,631 = 44

EID = 220 x 0,739 = 163

Valore amido lordo (VAL) = 20 x 0,94 + 7,4 x 1,91 + 44 + 163 = 238

Valore amido netto (VAN) = 238 - (70 x 0,34) = 214

UF/kg silomais t.q. = 214 x 1,43/1000 = 0,306

UF/kg silomais secco. = 0,306/0,35 = 0,874

Enl (kJ/kg SS) = 0,874 x 8054 = 7039

b) fieno di medica: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità per

un contenuto di FG di 300g/kg SS sono:

Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:

(g/kg t.q.)

DPG = (84,8714 - 0,08343 x 300)/100 = 0,60

DLG = (78,9 - 0,088 x 300)/100 = 0,525

DFG = (80,2857 - 0,08571 x 300)/100 = 0,54

DEI = (91,3571 - 0,08714 x 300)/100 = 0,65

PD =137 x 0,60 = 82

LD = 20 x 0,525 = 10

FD =266 x 0,54 = 144

EID =379 x 0,65 = 246

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357

Valore amido lordo (VAL) = 82 x 0,94 + 10 x 1,91 + 144 + 246 = 486

Valore amido netto (VAN) = 486 - (266 x 0,58) = 332

UF/kg medica t.q. = 332 x 1,43/1000 = 0,475

UF/kg medica secca = 0,475/0,885 = 0,537

Enl (kJ/kg SS) = 0,537 x 8054 = 4325

c) mangime composto: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità

per un contenuto di FG di 85g/kg SS sono:

Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili: (g/kg

t.q.)

dPG = (84,8714 - 0,08343 x 85)/100 = 0,78

dLG = (78,9 - 0,088 x 85)/100 = 0,715

dFG = (80,2857 - 0,08571 x 85)/100 = 0,73

dEI = (91,3571 - 0,08714 x 85)/100 = 0,84

PD =175x 0,78 = 136

LD = 39 x 0,715 = 28

FD =74 x 0,73 = 54

EID =508 x 0,84 = 427

Valore amido lordo (VAL) = 136 x 0,94 + 28 x 2,12 + 54 + 427 = 668

Valore amido netto (VAN) = 668 - (74 x 0,34) = 643

UF/kg mangime t.q. = 643 x 1,43/1000 = 0,920

UF/kg mangime secco = 0,920/0,875 = 1,051

Enl (kJ/kg SS) = 1,051 x 8054 = 8468

Valore nutritivo intera razione

UF/kg t.q. kg t.q. UF totali kg SS

silomais 0,306 16 4,896 5,6

medica 0,475 5,5 2,216 4,87

mangime 0,920 11 10,12 9,63

Totale 0,542 32,5 17,628 20,1

UF/kg SS = 17,68:20,1 = 0,877

Metodo delle UFL

a) silomais:

EL (KJ/Kg SO) = 19573; dSO = 0,71 (INRA 1988; N. 428)

dE = 1,001 x 0,71 - 0,0286 = 0,682; ED (KJ/Kg SO) = 19573 x 0,682 = 13349

EM/ED = 0,9080 - 0, 000099 x 200/0,945 - 0,000196 x 0,82/0,945 = 0,87

EM (KJ/Kg SO) = 13349 x 0,87 = 11614; q (EM/EL) = 11614/19573 = 0,593

Kl = (0,4632 + 0,24 x 0,593) = 0,6055; ENl (KJ/Kg SO) = 11614 x 0,6055 = 7033

ENl (KJ/Kg SS) = 7033 x 0,945 = 6646; UFL /Kg SS = 6646/7113 = 0,934

b) fieno di medica

EL (KJ/Kg SO) = 18958 - 46 + 7,26 x 82/0,906 = 19569; dSO = 0,60 (INRA 1988;

N. 552)

dE = 0,985 x 0,60 - 0,02556 = 0,565; ED (KJ/Kg SO) = 19569 x 0,565 = 11065

EM/ED = 0,9080 - 0,000099 x 300/0,906 - 0,000196 x 0,155/0,906 = 0,842

EM (KJ/Kg SO) = 11065 x 0,842 = 9313; q (EM/EL) = 9313/19569 = 0,476

Kl = (0,4632 + 0,24 x 0,476) = 0,5774; ENl (KJ/Kg SO) = 9313 x 0,5774 = 5378

ENl (KJ/Kg SS) = 5378 x 0,906 = 4872; UFL /Kg SS = 4872/7113 = 0,685

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358

c) mangime concentrato

EL (KJ/Kg SO) = 23,9 x 200 + 39,75 x 45 + 20,04 x 85 + 17,45 x 580 = 18393

EM (KJ/Kg SO) = 13640 + 1,90 x 200/0,91 + 14,715 x 45/0,91- 16,89 x 85/0,91 =

13208

q (EM/EL) = 13208/(18393/0,91) = 0,6534; Kl = (0,4632 + 0,24 x 0,6534) = 0,62

ENl (KJ/Kg SO) = 13208 x 0,0,62 = 8189; ENl (KJ/Kg SS) = 8189 x 0,91 = 7452

UFL /Kg SS = 7452/7113 = 1,048

Le UFL calcolate possono essere raffrontate a quelle stimate mediante equazione:

UFL/kg SO = 1,1987 + 0,0001 x 200/0,91 + 0,00134 x 45/0,91 - 0,007 x 85/0,91 -

0,00232/0,91 = 1,163

UFL/kg SS = 1,163 x 0,91 = 1,058

Valore nutritivo in UFL dell’intera razione

UFL/kg SS Kg SS UFL totali

Silomais 0,934 5,6 5,23

Medica 0,685 4,87 3,34

Mangime 1,048 9,63 10,09

Totale 0,928 20,1 18,66

UFL/kg SS = 18,66/20,1 = 0,928

Il calcolo delle UFL, come detto in precedenza, dà un valore energetico per gli stessi

alimenti diverso rispetto al calcolo delle UF classiche: in particolare con il calcolo

delle UF sarebbero penalizzati i foraggi ad alto contenuto in fibra (0,537 UF e 0,685

UFL per il fieno di medica) e sovrastimati i concentrati che generalmente hanno un

basso contenuto in fibra (1,051 UF e 1,048 per il mangime).

12) Valutare una razione per bovini da carne mediante i sistemi UF e UFC

Una razione per bovini da carne medio-tardivi di 500 kg e che hanno un

accrescimento di 1 kg /giorno, è costituita da:

Alimento % SS kg t.q. kg SS

silomais 35 12 4,2

pastone di granella 75 3 2,25

paglia di frumento 88 0,5 0,44

mangime composto 87 1,8 1,57

Totale 51,2 17,3 8,46

Rapporto foraggi concentrati: (4,2 + 0,44)/8,46 = 55 : 45

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359

Analisi chimica alimenti

SS SO PG LG FG NDF ADF ADL EI Ceneri

Silo-

mais

g/kg SS 1000 945 71 25 200 672 55

g/kg t.q. 350 331 25 8,8 70 235 19

Pasto-

ne

g/kg SS 1000 950 96 45 23 786 50

g/kg t.q. 750 712 72 34 17 590 38

Paglia g/kg SS 1000 944 49 18 420 457 66 g/kg t.q. 878 829 43 16 369 401 58

Mangi

-me

g/kg SS 1000 910 350 30 75 200 94 20 455 90

g/kg t.q. 870 792 305 26 65 174 82 17 396 78

Metodo UF classica

a) silomais: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità per un

contenuto di FG di 177g/kg SS sono:

Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili: (g/kg

t.q.)

DPG = (84,8714 - 0,08343 x 177)/100 = 0,701

DLG = (78,9 - 0,088 x 177)/100 = 0,633

DFG = (80,2857 - 0,08571 x 177)/100 = 0,651

DEI = (91,3571 - 0,08714 x 177)/100 = 0,759

PD = 25 x 0,701 = 17,5

LD = 8,8 x 0,633 = 5,6

FD = 62 x 0,651 = 40

EID = 235 x 0,759 = 178

Valore amido lordo (VAL) = 17,5 x 0,94 + 5,6 x 1,91 + 40 + 178 = 245

Valore amido netto (VAN) = 245 - (62 x 0,34) = 224

UF/kg silomais t.q. = 224 x 1,43/1000 = 0,320

UF/kg silomais secco. = 0,320/0,35 = 0,914

Enl (kJ/kg SS) = 0,914 x 8054 = 7364

b) pastone di granella: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità

per un contenuto di FG di 23 g/kg SS sono:

Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:

(g/kg t.q.)

DPG = (84,8714 - 0,08343 x 23)/100 = 0,830

dLG = (78,9 - 0,088 x 23)/100 = 0,769

dFG = (80,2857 - 0,08571 x 23)/100 = 0,783

dEI = (91,3571 - 0,08714 x 23)/100 = 0,894

PD = 72 x 0,83 = 59,8

LD = 34 x 0,769 = 26,1

FD = 17 x 0,783 = 13,3

EID = 590 x 0,894 = 527

Valore amido lordo (VAL) = 59,8 x 0,94 + 26,1 x 2,12 + 13,3 + 527 = 652

Valore amido netto (VAN) = 652 - (17 x 0,29) = 647

UF/kg pastone t.q. = 647 x 1,43/1000 = 0,925

UF/kg pastone secco = 0,925/0,75 = 1,24

Enl (kJ/kg SS) = 1,24 x 8054 = 9987

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360

c) paglia di frumento: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità

per un contenuto di FG di 420 g/kg SS sono:

Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:

(g/kg t.q.)

DPG = (84,8714 - 0,08343 x 420)/100 = 0,498

dLG = (78,9 - 0,088 x 420)/100 = 0,419

dFG = (80,2857 - 0,08571 x 420)/100 = 0,443

dEI = (91,3571 - 0,08714 x 420)/100 = 0,548

PD = 43 x 0,498 = 21,4

LD = 16 x 0,419 = 6,7

FD = 369 x 0,443 = 163

EID = 401 x 0,401 = 220

Valore amido lordo (VAL) = 21,4 x 0,94 + 6,7 x 1,91 + 163 + 220 = 416

Valore amido netto (VAN) = 416 - (369 x 0,58) = 202

UF/kg paglia t.q. = 202 x 1,43/1000 = 0,289

UF/kg paglia secca = 0,289/0,878 = 0,329

Enl (kJ/kg SS) = 0,329 x 8054 = 2651

d) mangime composto: dalle tabelle di Leroy si ricava che i coefficienti di digeribilità

per un contenuto di FG di 55g/kg SS sono:

Coefficienti digeribilità Principi alimentari digeribili:

(g/kg t.q.)

DPG = (84,8714 - 0,08343 x 65)/100 = 0,794

dLG = (78,9 - 0,088 x 65)/100 = 0,732

dFG = (80,2857 - 0,08571 x 65)/100 = 0,747

dEI = (91,3571 - 0,08714 x 65)/100 = 0,857

PD =305x 0,794 = 242

LD = 26 x 0,732 = 19

FD =65 x 0,747 = 49

EID =396 x 0,857 = 339

Valore amido lordo (VAL) = 305 x 0,94 + 19 x 2,12 + 49 + 396 = 772

Valore amido netto (VAN) = 772 - (65 x 0,34) = 750

UF/kg mangime t.q. = 750 x 1,43/1000 = 1,073

UF/kg mangime secco = 1,073/0,87 = 1,23

Enl (kJ/kg SS) = 1,23 x 8054 = 9933

Valore nutritivo intera razione

UF/kg t.q. kg t.q. UF totali kg SS

Silomais 0,320 12 3,84 4,3

Pastone 0,925 3 2,78 2,25

paglia 0,289 0,5 0,15 0,44

Mangime 1.073 1,8 1,93 1,57

Totale 0,502 17,3 8,69 8,46

UF/kg SS = 8,69:8,46 = 1,027(valore molto elevato)

Metodo delle UFC

a) silomais:

EL (KJ/Kg SO) = 19573; dSO = 0,71 (INRA 1988; N. 428)

dE = 1,001 x 0,71 - 0,0286 = 0,682; ED (KJ/Kg SO) = 19573 x 0,682 = 13349

EM/ED = 0,879 - 0,000099 x 177/0,945 - 0,000196 x 0,71/0,945 = 0,846

EM (KJ/Kg SO) = 13349 x 0,846 = 11290; q (EM/EL) = 11290/19573 = 0,577

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361

Km+i = (0,3358 + 0,577 x 0,577 + 0,6508 x 0,577 + 0,005)/ (0,9235 x 0,577 +

0,2830)= 0,6194;

ENC (KJ/Kg SO) = 11290 x 0,6194 = 6993

ENC (KJ/Kg SS) = 6993 x 0,945 = 6608; UFC /Kg SS = 6608/7615 = 0,868

b) pastone di granella

EL (KJ/Kg SO) = 23,9 x 96 + 39,75 x 45 + 20,04 x 23 + 17,45 x 786 - 33 = 18227

dSO = 0,78 (INRA 1988; N. 434)

dE = 0,78 - 0,015 = 0,765; ED (KJ/Kg SS) = 18227 x 0,765 = 13944

EM/ED = 0,879 - 0, 000099 x 23/0,950 - 0,000196 x 96/0,950 = 0,857

EM (KJ/Kg SO) = 13944 x 0,857 = 11947; q (EM/EL) = 11947/18227 = 0,655

Km+i = (0,3358 + 0,655 x 0,655 + 0,6508 x 0,655 + 0,005)/ (0,9235 x 0,655 +

0,2830)= 0,648;

ENC (KJ/Kg SS) = 11947 x 0,648 = 7741

UFC /Kg SS = 7741/7615 = 0,891

c) paglia di frumento

EL (KJ/Kg SO) = 18958 - 46 + 7,26 x 43/0,944 = 19243; dSO = 0,42 (INRA 1988;

N. 571)

dE = 0,985 x 0,42 - 0,02949 = 0,384; ED (KJ/Kg SO) = 19243 x 0,384 = 7391

EM/ED = 0,879 - 0,000099 x 420/0,944 - 0,000196 x 49/0,944 = 0,825

EM (KJ/Kg SO) = 7391 x 0,825 = 6096; q (EM/EL) = 6096/19243 = 0,317

Km + i = (0,3358 + 0,317 x 0,317 + 0,6508 x 317 + 0,005)/(0,9235 x 0,317 + 0,2830)

= 0,4256;

ENC (KJ/Kg SO) = 6096 x 0,4256 = 2595

ENC (KJ/Kg SS) = 2595 x 0,944 = 2449; UFC /Kg SS = 2449/7615 = 0,322

c) mangime concentrato

EL (KJ/Kg SO) = 23,9 x 350 + 39,75 x 30 + 20,04 x 75 + 17,45 x 455 = 19000

EM (KJ/Kg SO) = 13640 + 1,90 x 350/0,91 + 14,715 x 30/0,91- 16,89 x 75/0,91 =

13489

q (EM/EL) = 13489/(19000/0,91) = 0,646;

Km+i = (0,3358 x 0,646 x 0,646 + 0,6508 x 0,646 + 0,005)/(0,9235 x 0,646 +

0,2830) = 0,643

ENc (KJ/Kg SO) = 13489 x 0,643 = 8673; ENc (KJ/Kg SS) = 8673 x 0,91 = 7893

UFC /Kg SS = 7893/7615 = 1,036

Valore nutritivo in UFC dell’intera razione

UFC/kg SS Kg SS UFC totali

Silomais 0,868 4,2 3,65

Pastone 0,891 2,25 2,00

Paglia 0,322 0,44 0,14

Mangime 1,036 1,57 1,63

Totale 0,877 8,46 7,42

UFC/kg SS = 7,42/8,46 = 0,877

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13) Fare un razionamento standard per un cavallo di razza tale che gli adulti

raggiungano il peso vivo di 450 Kg, avente 24 mesi di età e un peso vivo di 360

kg che effettua un lavoro medio.

I fabbisogni in SS espressi in % del PV (e tenuto conto del peso di adulto) sono il

2,47% e vale a dire:

kg 360 x 2,47/100 = 8,89 kg SS

La sostanza secca (vedi tabella) della razione da somministrare al cavallo deve

contenere:

PG % = 5,9; TDN % = 65,0; Ca % = 0,23; P % = 0,23; Vit. A UI/kg = 11.000;

Vit. D UI/kg = 550;

in altre parole deve contenere 8,89 kg di SS con:

8,89 x 65/100 = 5,778 kg TDN e

8,89 x 5,9/100 = 0,524 kg di PG

volendo adottare il sistema standard di razionamento e avendo a disposizione fieno di

medica, fieno di prato polifita ed avena per tentativi si ricava:

Alimenti Quantità

kg

Proteine

digeribili

kg

TDN

kg

SS

kg

Fieno di medica 4 4 x 10,5/100 = 0,42 4 x 50,3/100 = 2,012 4

Fieno di prato

polifita

3 3 x 2,1/100 = 0,063 3 x 49,6/100 = 1,488 3

Avena 2 2 x 9,4/100 = 0,188 2 x 72,2/100 = 1,444 2

Concentrati 1 1 x 8/100 = 0,08 1 x 58/100 = 0,580 1

Totale 10 0,75 5,524 10

Qualora si voglia utilizzare fieno, avena e concentrato si può utilizzare il sistema

standard se, invece si vogliono utilizzare altri prodotti presenti in azienda va usato il

sistema scandinavo delle UF oppure i fabbisogni riportati nelle tabelle in TDN

possono essere tradotti in UF con la formula di Moore:

y = 1,9 X - 48,9, dove y sono le UF e X la % di TDN contenuta nella SS.

Es. di cui sopra:

a) 5 TDN SS = (20,12 + 14,88 + 14,44 + 5,8) = 56,24

b) UF % = 1,9 x 56,24 – 48,9 = 57,95 %

c) UF (necessarie) = 57,95 x 10/100 = 5,79

Del resto:

fieno medica 4 x 0,50 UF = 2

fieno prato 3x 0,40 UF = 1,2

avena 2 x 1 UF = 2

concentrato 1 x 0,7 UF = 0,7

totale 5,9

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363

14. Calcolare i fabbisogni di un cavallo da lavoro di 45 mesi il cui peso da adulto

sarà di 630 kg, in diverse utilizzazioni, partendo dalla SS e dal TDN necessari

per arrivare alle UF (da Tesi):

Tipo

Lavoro

Fabbisogni

SS (kg) TDN (kg) PG (g) Ca (g) P (g) UF

Riposo 630x1,4 =

8,82

8,82x62,5 =

5,51

8,82x5,2 =

459

8,82x0,19 =

16,76

8,82x0,2 =

17,64

UF %=(1,9x62,5-48,9)=

69,85

UF* = 69,85x 8,82/100=

6,16

Leggero 630x1,8 =

11,34

11,34x63,5 =

7,2

11,34x5,1 =

578

11,34x0,19 =

21,55

11,34x0,2 =

22,68

UF % = 1,9 x 63,5 - 48,9 =

71,75

UF* = 71,75 x 11,34/100

=

8,14

Medio 630x2,0 =

12,60

12,6x65 =

8,19

12,6x5,1 =

643

12,6x0,19 =

23,94

12,6x0,2 =

25,20

UF % = 1,9 x 65 - 48,9 =7

4,6

UF* = 74,6 x 12,6/100 =

9,4

Pesante 630x2,3 =

14,49

14,49x67 =

9,71

14,49x5 =

724

14,49x0,19 =

27,53

14,49x0,2 =

28,98

UF% = 1,9 x 67 - 48,9 =

78,4

UF* = 78,4 x 14,49/100 =

11,36

* = UF necessarie

15 ) Calcolare la razione per una pecora che pesa 40 Kg, si trova al 30° giorno di

lattazione, produce 2 litri di latte al 7,4 % di grasso e perde 250 g di peso

corporeo al giorno.

Km = 0,7 Kl = 0,62 Peso metabolico = 400,75

= 17,37 Kg

Trasformo il latte in latte standard:

kg latte x (0,4 +0,15 x % grasso latte) = 2 x (0,4 + 0,15 x7,4) = 3,02 litri

Perdite corporee:

Energia = 26 MJ x 0,250 x 0,84 = 5,46 MJ

Proteine = 98 g/Kg = 24,5 g

Esigenze

Energia

Mantenimento: UFl = 0, 045 P0,75

= 0,045 x 17,37 = 0,78

ENm = (0,78 x 1730) = 1394,4 Kcal ; 1394, 4: 239 = 5,83 MJ

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364

Produzione: UFl = 0,42 /Kg latte al 4% = 0,42 x 3,02 = 1,27

ENl = 1,27 x 1730 = 2197 Kcal; 2197 : 239 = 9,19 MJ

EM = 5,83 : 0,7 + 9,19 : 0,62 = 8,33 + 14,82 = 23,15 MJ

EM ingerita = EMm + l – EMp = 23,15 – 5,46 = 17,69 MJ

Esigenze proteiche:

b) proteine degradabili = 8,34 g/MJ energia ingerita = 8,34g x 17,69 = 147,5 g

2) proteine non degradabili = 1,47 x proteine tissutali* – 6,67 x EM ingerita

*manten. = 2,19 g/P0,75

; prod. = 53 x 0,95 g/Kg; perd. peso = 98 g/Kg

1,47 x ( 2,19 x 17,37 – 24,5 + 53x0,95x 3,02) = 1,47 x (74,23 – 24,5 + 152,06) –

6,67 x 17,69 = (1,47 x 201,79) – 117,99 = 296,6 – 117,99 = 178,61 g

Minerali Mantenimento Produzione Totale

Ca (g)

P (g)

Mg (g)

40 x 0,016/0,51 = 1,25 g

40 x 0,03/0,58 = 2,07 g

40 x 0,003/0,17 = 7,06

3.02 x 1,6/0,51 = 9,47

3,02 x 1,3/0,58 = 6,77

3,02 x 0,17/0,17 = 3,02

10,72

8,84

10,08

16 ) Calcolare la razione per una capra al pascolo che pesa 40 Kg, si trova al 70°

giorno di lattazione, produce 2 litri di latte al 4,4 % di grasso e guadagna 100 g

di peso corporeo al giorno.

Km = 0,7 Kl = 0,62 Peso metabolico = 400,75

= 17,37 Kg

Trasformo il latte in latte standard:

kg latte x (0,4 +0,15 x % grasso latte) = 2 x (0,4 + 0,15 x 4,4) = 2,12 litri

Guadagno corporeo:

Energia = 26 MJ /Kg : 0,95 = 2,6 : 0,95 = 2,74 MJ

Proteine = 150 g/Kg = 15 g

Esigenze Energetiche

Mantenimento: 0,389 MJ/P0,75

+ (25% per pascolo) = 6,76 + 1,69 = 8,45 MJ

Produzione: 5,6 MJ x 2,12 = 11,87 MJ

Totale = 8,45 + 11,87 = 20,32 MJ

EM ingerita = EMm + p + EMg = 20,32 + 2,74 = 23,06 MJ

UFl = (EMm x 0,7 + EMp x 0,62) x 239 : 1730 =

= (8,45 x 0,7 + ((2,74+11,87) x 0,62)) x 239 : 1730 =

= (5,91 + 9,06) X 239 : 1730 = 14,97 x 239 : 1730 = 2,07 UFl

Facendo i calcoli direttamente con le UFL:

a) Mantenimento: UFL 0,045 x 17,37 = 0,782 UFL

Pascolo: “ 0,011 x 17,37 = 0,195 “

Guadagno peso “ 0,234 “

b) Produzione: UFL 2,12 x 0,42 = 0,890 “

Totale 2,10 UFL

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365

Esigenze proteiche:

1) proteine degradabili = 8,34 g/MJ energia ingerita = 8,34g x 23,06 = 192,32 g

2) proteine non degradabili = 1,47 x proteine tissutali* – 6,67 x EM ingerita

* manten. = 2,19 g/P0,75

; prod. = 33 x 0,95 g/Kg; guad. peso = 150 g/Kg

1,47 x ( 2,19 x 17,37 + 15 + 33 x 0,95 x 2,12) = 1,47 x (38,04 + 15 + 66,46) – 6,67

x 23,06 = (1,47 x 119,5) – 153,8 = 175,66 – 153,8 = 21,85 g

Minerali Mantenimento (40 Kg) Produzione (2,12 litri) Totale

Ca (g)

P (g)

Mg (g)

40 x 0,02/0,51 = 1,56

40 x 0,03/0,58 = 2,07

40 x 0,0035/0,17 = 0,82

2,12 x 1,3/0,51 = 5,40

2,12 x 1,1/0,58 = 4,02

2,12 x 0,26/0,17 = 3,24

1,56 + 5,40 = 6,96

2,07 + 4,02 = 6,09

0,82 + 3,24 = 4,06

Calcolare la razione per un gruppo di suini nella fase 35 - 60 kg, che si accrescono di 700 g/d.

EM Kcal 6.320

SS g 1.800

U.F. 2,4

PG g 280

Aminoacidi indispensabili

(g)

Macroelement

i

(g)

Vitamine

Lisina 12,2 Ca 11 A u.i. 2.600

Arginina 3,6 P 9 o -carotene mg 10,4

Istidina 3,2 Na 2 D u.i 300

Isoleucina 8,8 Cl 2,6 E u.i 22

Leucina 10,4 K 4 K mg 4,4

Metionina + cistina 8,0 Mg 0,8 Riboflavina

mg

4,4

Fenilalanina + tirosina 12,2 Niacina mg 24

Treonina 7,8 Microelementi

(mg)

Ac. Pantotenico mg 22

Triptofano 2,2 Fe 100 B12 mg 22

Valina 8,8 Zn 100 Colina mg 1.100

Mn 4 Tiamina mg 2,2

Cu 6 B6 mg 2,2

I 0,2

8

Biotina mg 0,20

Se 0,3

0

Folacina mg 1,2

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Calcolare la razione per una scrofa che pesa 180 kg e allatta 8 suinetti

EM Kcal 15.180

SS 2,5 % PV (kg) 4,3

U.F 5,8

PG 13 % ss (kg) 0,56

Aminoacidi indispensabili

(g)

Macroelementi

(g)

Vitamine

Lisina 19 Ca 36 A u.i. 9.600

Arginina 12 P 24 o -carotene mg 38

Istidina 18 Na 9 D u.i 950

Isoleucina 33 Cl 14 E u.i 47

Leucina 28 K 9 K mg 9,5

Metionina + cistina 17 Mg 2 Riboflavina mg 14

Fenilalanina + tirosina 40 Niacina mg 47

Treonina 20 Microelementi

(mg)

Ac. Pantotenico mg 57

Triptofano 6 Fe 380 B12 mg 71

Valina 26 Zn 240 Colina

mg

5.940

Mn 48 Tiamina mg 4,8

Cu 24 B6

mg

4,8

I 0,7 Biotina

mg

0,5

Se 0,5 Folacina mg 2,8

Preparare un mangime per agnelli svezzati a 42 gg e da macellare a 100 gg

Ingredienti

(%)

Componenti

Soia Favino Lupino Pisello

Mais 12.0 12.0 18.0 10.0

Avena 18.0 15.0 12.0 8.0

Orzo 12.0 5.0 26.0 -

Erba medica 17.5 17.0 5.0 22.5

Paglia 5.0 4.0 8.5 3.0

Melasso 1.7 1.7 1.7 1.7

Farina soia 12.0 - - -

Favino farina - 25.0 - -

Lupino farina - - 25.0 -

Pisello farina - - - 25.0

Cruschello 17.0 15.5 - 25.0

Olio di soia 1.0 1.0 - 1.0

Carbonato di calcio 1.8 1.8 1.8 1.8

Fosfato bicalcico 1.0 1.0 1.0 1.0

Cloruro di sodio 0.5 0.5 0.5 0.5

Integr. vitaminico 0.5 0.5 0.5 0.5

Totale 100 100 100 100

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367

Principi nutritivi

Componenti

Soia Favino Lupino Pisello

Protidi grezzi (%) 16.88 17.07 17.2 16.82

Lipidi grezzi (%) 4.49 4.26 4.43 4.20

Fibra grezza (%) 13.02 12.78 13.73 13.45

NDF (%) 29.37 30.45 29.53 31.21

ADF (%) 15.23 15.40 13.32 15.53

Energia metabolizzabile (MJ/kg) 11.11 11.12 10.82 11.08

Livelli nutrivi mangime per ovaiole (% SS)

Pulcini

0-6 settimane

Pollastre

6-20 settimane

Ovaiole

> 20 settimane

EM kcal/kg 2750-2860 2800-2920 2800-2915

Proteine 17-18 15-15,5 15,5-16

Grassi 3-4 3-4 3-4

Cellulosa 3,5-4 4-5 3-4

Calcio 0,9 0,8 3

Fosforo totale 0,75 0,7 0,8

Fosforo utilizzabile 0,45 0,4 0,5

Rapporto tra EM (kcal) e proteine

Razione EM (kcal)/proteine

Pulcini 0-4 settimane 14,2

Polla strino da carne (finissaggio 15,4

Pollame da uova:

a) Pollastrelle 18,6

b) Adulte:

Leggere 18,3

Semipesanti 19,4

Pesanti 20,7

Aminoacidi indispensabili g/1000 kcal EM

Metionina 1,27

Metionina + cistina 2,4

Lisina 3,55

Triptofano 0,70

Glicina 3,40

Arginina 3,65

Valina 2,75

Fenilalanina 2,50

Leucina 4,95

Isoleucina 2,15

Treonina 2,15

Istidina 1,10

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368

TABELLE

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369

Tab. Al. Fabbisogni nutritivi giornalieri di mantenimento e di accrescimento vitelle e

manze di razze lattifere (NRC, 1978, mod.)

Peso Accresci- UF. EM TDN Protidi Ca P Vit.A Vit.D S.S.

vivo mento n. Mcal Kg grezzi g G X 1.000 U.l. Kg

g/d g U.l.

50 500 1,79 4,82 1,230 198 10 6 2,1 330 1,450

700 2,08 5,36 1,350 243 12 7 2,1 330 1,450

75

400 1,84 5,56 1,460 254 12 7 3,2 495 2,100

600 2,26 6,36 1,640 296 14 8 3,2 495 2,100

800 2,65 7,08 1,800 341 16 8 3,2 495 2,100

100

400 2,12 6,78 1,810 336 15 8 4,2 660 2,800

600 2,57 7,64 2,000 380 17 9 4,2 660 2,800

800 3,01 8,47 2,180 426 19 1 4,2 660 2,800

150

400 2,60 8,90 2,400 455 17 11 6,4 990 4,000

600 3,17 9,97 2,640 491 18 11 6,4 990 4,000

800 3,73 Il,03 2,880 528 20 12 6,4 990 4,000

200

400 3,19 Il,20 3,040 571 19 13 8,5 1.320 5,200

600 3,82 12,39 3,310 604 21 14 8,5 1.320 5,200

800 4,42 13,52 3,560 640 22 15 8,5 1.320 5,200

250

400 3,64 13,15 3,590 665 21 15 10,6 1.650 6,300

600 4,39 14,57 3,910 689 22 16 10,6 1.650 6,300

800 5,06 15,82 4,190 719 23 17 10,6 1.650 6,300

300

400 4,14 14,80 4,030 713 22 17 12,7 1,980 7,000

600 4,93 16,49 4,430 755 23 17 12,7 1.980 7,200

800 5,65 17,83 4,730 782 24 18 12,7 1.980 7,200

350

400 4,55 15,99 4,340 738 23 17 14,8 2.310 7,420

600 5,43 18,21 4,900 812 26 19 14,8 2.310 8,000

800 6,14 19,56 5,200 841 26 19 14,8 2.310 8,000

400

400 4,92 17,76 4,850 833 24 19 17,0 2.640 8,500

600 5,85 19,61 5,270 856 25 20 17,0 2.640 8,600

800 6,65 21,11 5,610 876 26 21 17,0 2.640 8,600

500 400 5,72 20,26 5,510 900 27 21 21,2 3.300 9,500

600 6,78 22,26 5,960 903 27 21 21,2 3.300 9,500

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370

Tab. A2. Fabbisogni nutritivi totali giornalieri per una bovina da latte di 600 Kg

Peso vivo UFL ENL PDI (g) Ca (g) P (g) Cl (g)

Vacca in asciutta gestante:

prima del 7° mese di gestazione 5,0 35,6 395 36 27 11,0

7° mese di gestazione 5,9 41,9 470 45 30 12,0

8° mese di gestazione 6,6 46,9 530 52 32 14,0

9° mese di gestazione 7,6 54,0 600 61 35 16,0

Vacca che produce latte al 4% di

grasso

2,5 6,1 43,4 520 47 30 12,0

5,0 7,1 50,5 645 57 35 14,0

7,5 8,2 58,3 770 67 40 15,0

10,0 9,4 66,8 895 78 45 15,3

12,5 10,6 75,4 1020 89 50 16,1

15,0 11,8 83,9 1145 100 54 16,9

17,5 13,0 92,4 1270 108 58 17,8

20,0 14,2 101,0 1395 115 62 18,6

22,5 15,4 109,5 1520 123 66 19,4

25,0 16,7 118,7 1645 130 71 20,2

27,5 17,9 127,3 1770 135 73 21,0

30,0 19,2 136,5 1895 140 75 21,9

32,5 20,5 145,8 2020 145 77 22,7

35,0 21,8 155,0 2145 150 80 23,5

Correzione per differenze di 1 qle

di peso VIVO 0,6 4,3 50 6 5 1,5

Vitamine ( U.I.) : A = 60.000; D = 6.000; E = 350

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371

Tab.A3 - Fabbisogni giornalieri totali per vitelloni

PV

(Kg)

IGA

(Kg)

ENC

(MJ) UFC

PDI (g)

Ca P (g)

Cl

(g)

Vitamine (U.I.) (g)

Tipo da latte

200

l,0 30,4 4,0 473 30 16 A = 14.000

1,2 34,2 4,5 526 35 18 5,7 D = 1.200

1,4 37,3 4,9 577 40 20 E = 115

1,6 38,4 5,4 626 45 22

300

l,0 41,1 5,4 535 37 22 A = 21.000

1,2 45,7 6,0 585 42 25 7,4 D = 1.800

1,4 51,0 6,7 633 47 28 E = 155

1,6 52,6 7,4 677 52 31

400

l,0 51,0 6,7 588 45 31 A = 28.000

1,2 57,1 7,5 636 50 34 8,7 D = 2.400

1,4 63,2 8,3 679 55 36 E = 195

1,6 65,4 9,2 720 60 38

500 l,0 60,9 8,0 637 55 35 A = 35.000

1,2 67,7 8,9 681 61 38 9,6 D = 3.000

1,4 74,6 9,8 721 68 40 E = 235

Tipo da carne francese

300

l,0 37,3 4,9 554 37 22 A = 21.000

1,2 40,3 5,3 610 42 25 6,8 D = 1.800

1,4 43,4 5,7 665 47 28 E = 155

1,6 46,4 6,1 718 52 31

400

l,O 46,4 6,1 613 45 31 A = 28.000

1,2 49,5 6,5 669 50 34 8,3 D = 2.400

1,4 53,3 7,0 722 56 36 E = 195

1,6 57,1 7,5 773 58 38

500

l,0 54,8 7,2 667 55 35 A = 35.000

1,2 58,6 7,7 722 61 38 9,6 D = 3.000

1,4 63,2 8,3 774 68 40 E = 235

1,6 67,7 8,9 823 70 40

600 l,0 62,4 8,2 718 59 36 A = 42.000

1,2 67,7 8,9 771 65 39 10,7 D = 3.600

1,4 72,3 9,5 822 66 39 E = 275

Razza bianca italiana

300

l,0 35,8 4,7 560 37 22 A = 21.000

1,2 38,1 5,0 590 42 25 6,4 D = 1.800

1,4 40,3 5,3 630 47 28 E = 155

1,6 43,4 5,7 680 52 31

400

l,0 45,7 6,0 750 45 31 A = 28.000

1,2 47,9 6,3 790 50 34 8,4 D = 2.400

1,4 51,7 6,8 850 56 36 E = 195

1,6 54,8 7,2 900 58 38

500 l,0 54,8 7,2 745 55 35 A = 35.000

1,2 58,6 7,7 900 61 38 9,7 D = 3.000

1,4 62,4 8,2 960 68 40 E = 235

600 l,0 63,9 8,4 960 59 36 A = 42.000

1,2 67,7 8,9 1010 65 39 10,0 D = 3.600

1,4 72,3 9,5 1090 66 39 E = 275

IGA = incremento giornaliero atteso; CI = capacità ingestione

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372

Tab. A4 - Fabbisogni totali giornalieri per vitel1e e manze ad elevato accrescimento

PV

(Kg)

IGA

(Kg)

ENC

(MJ) UFC

PDI

(g)

Ca

(g)

P

(g) CI

Vit.

(u.i.)

150 0,8 26,6 3,5 330 20 lO A = 9.000

l,O 32,0 4,2 370 25 13 5,8 D = 770

1,2 38,1 5,0 420 30 16 E = 65

250 0,8 32,7 4,3 430 28 18 A = 14.000

l,O 38,1 5,0 474 34 20 7,0 D = 1.200

1,2 44,1 5,8 514 40 22 E = 100

350 0,8 40,3 5,3 500 33 23 A = 18.000

l,O 45,7 6,0 550 41 28 8,5 D = 1.500

1,2 53,3 7,0 580 46 29 E = 130

450 0,8 50,2 6,6 535 39 29 A = 22.000

l,O 57,1 7,5 563 50 33 9,5 D = 1.900

1,2 64,7 8,5 585 55 36 E = 160

TAB 5 –Fabbisogni per bovini da riproduzione

Categoria PV

(kg) UFL ENL (MJ) PDI

Ca

g

P

g Vit. A

Manze gravide

(ultimi 3 mesi)

350 5,4 410 16 24 16 22.000

400 5,8 435 18 25 18 24.000

450 6,3 465 19 26 19 26.000

Vacche gravide

(ultimi 3 mesi)

450 4,9 355 14 15 14 23.000

550 5,7 380 16 18 16 27.000

650 6,4 435 20 22 20 30.000

Vacche con vitello

(primi 4 mesi pst -parto)

450 7,3 545 21 26 21 36.000

550 8,1 600 24 29 24 41.000

650 8,8 650 27 33 27 46.000

Tori riproduttori

(attività media)

700 6,8 590 26 26 26 52.000

800 7,5 600 27 27 27 53.000

900 8,2 610 31 31 31 56.000

1000 8,9 620 32 33 32 66.000

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373

TAB. A6 – Fabbisogni giornalieri per vitelli da latte da macello

PV

kg

IGA

g/d

EM

MJ

PD

g

SS

g

PD/SS

%

EM/ES

MJ/kg

Ca

g/kg SS

P

g/kg SS

50

500 14,94 182 760

750 18,45 225 940 24 19.7 13 7

900 20,58 251 1045

75

800 21,97 268 1115 1000 26,23 320 1335 24 19,7 13 7 1200 29,50 359 1500

100

1000 30,17 333 1510 1200 34,60 381 1735 22 20,0 13 7

1400 39,41 435 1975

150

1000 38,24 378 1890 1200 43,89 433 2165 20 20,3 13 7 1400 50,08 495 2475

200

1000 46,31 508 2540

1200 49,45 577 2885 20 18,2 13 7

1400 56,04 652 3260

Minerali (mg/Kg SS di sostituto del1atte: Fe = 10; Cu = 5; Zn = 50; Mn = 50; 1= 0,12; Se = 0,10; Co

= 0,10;

Vitamine (/Kg S.S.): A= 48.000 u.i.; D = 3.000 u.i.; E = 35 mg; K = 2 mg; Ac. Ascorbico = 100 mg;

Bj = 6 mg; B2 = 3 mg; niacina = 14 mg; B6 = 2 mg; ac. Pantotenico = 12 mg; ac. Folico = l mg; B12 =

60 μg ; biotina = 120 μg ; colina = 1,5 g.

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374

Tab. A7 - Fabbisogni medi giornalieri di pecore

PV Tipo Settimane UFL ENL PDI Ca P Vit. A Vit. D

(Kg) parto al parto (MJ) (g) (g) (g) (u.i.) (u.i.)

Mantenimento

40 - - 0,52 3,69 42 3,0 2.0 2200 220

50 - - 0,62 4,41 50 3,5 2,5 2350 278

60 - - 0,71 5,05 57 4,0 3,0 2820 333

70 - - 0,80 5,69 64 4,5 3,5 3760 388

Gestazione

6 0,62 4,41 67 5,1 3,2 2000 230

S 4 0,72 5,12 87 7,4 3,8 3600 230

2 0,85 6,04 102 7,4 3,8 3600 230

40

6 0,64 4,55 72 5,6 3,4 2000 230

G 4 0,75 5,33 95 8,2 4,2 3600 230

2 0,90 6,40 110 8,2 4,2 3600 230

6 0,72 5,12 72 6,0 3,2 2350 278

50

S 4 0,84 5,97 90 8,7 3,8 4250 278

2 0,98 6,97 105 8,7 3,8 4300 278

6 0,74 5,26 77 7,3 3,5 2350 278

G 4 0,94 6,68 102 1l,4 4,5 4250 278

2 1,15 8,18 125 1l,4 4,5 4300 278

6 0,80 5,69 80 6,7 3,7 2820 333

S 4 0,94 6,68 100 9,4 4,3 5100 333

2 1,14 8,1l 115 9,4 4,3 5100 333

60

6 0,82 5,83 90 8,0 4,0 2820 333

G 4 1,02 7,25 115 12.0 5,0 5100 333

2 1,32 9,39 140 12,0 5,0 5100 333

6 0,88 6,26 90 6,5 3,7 3290 388

S 4 1,02 7,25 115 9,2 4,3 5950 388

2 1,22 8,67 130 9,2 4,3 5950 388

70

6 0,90 6,40 110 8,0 4,0 3290 388

G 4 1,10 7,82 135 12,0 5,0 5950 388

2 1,40 9,95 150 12.0 5,0 5950 388

Per arieti e pecore alla monta bisogna maggiorare i fabbisogni del 25%

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375

Tab. A8- Fabbisogni giornalieri per la produzione di un litro di latte nella pecora

Mesi dopo Composizione latte (%) UFL PDI Ca P Vit. A Vit. D

lo svezza- Grasso Proteine (g) (g) (g) (u.i.) (u.i.)

mento

1-2

5,8 4,9 0,59 74 6,4 2,5 3.200 180

6,2 5,3 0,62 80 6,4 2,5 3.200 180

3-4

6,5 5,5 0,64 83 6,4 2,5 3.200 180

7,5 6,0 0,72 90 6,4 2,5 3.200 180

5-6 8,0 6,2 0,75 93 6,4 2,5 3.200 180

9,0 6,2 0,80 93 6,4 2,5 3.200 180

Tab. A9 - Fabbisogni totali medi giornalieri per agnelli e agnelloni

PV

(Kg)

IGA

(g)

ENC

(MJ) UFC

PDI

(g)

Ca

(g)

P

(g)

Vit. A

(u.i)

Vito D

(u.i.)

15 150 3,50 0,46 79 4,2 1,7 700 100

200 4,41 0,58 100 5,3 2,1 700 100

250 5,17 0,68 117 6,4 2,6 700 100

300 5,94 0,78 134 7,5 3,0 700 100

20 150 5,17 0.68 100 4,6 2,0 940 133

200 5,48 0,72 124 5,7 2,4 940 133

250 6,47 0,85 146 6,8 2,9 940 133

300 7,38 0,97 167 8,0 3,4 940 133

25 150 5,33 0,70 158 5,2 2,3 1190 167

200 6,54 0,86 163 6,4 2,9 1190 167

250 7,76 1,02 168 7,6 3,4 1190 167

300 8,83 1,16 180 8,9 4,0 1190 167

30 150 6,62 0,87 120 5,8 2,7 1410 176

200 8,22 1,08 149 7,1 3,4 1410 176

250 9,66 1,27 175 8,5 4,0 1410 176

300 Il,03 1,45 200 9,7 4,6 1410 176

35 150 7,91 1,04 125 8,0 3,9 1645 194

200 9,89 1,30 157 8,0 3,9 1645 194

250 Il,64 1,53 185 9,5 4,7 1645 194

300 13,32 1,75 211 10,9 5,3 1645 194

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376

Tab. A10- Caratteristiche di composizione delle miscele per suini

Starter Grower Finisher Scrofe Scrofe

5-25 Kg 25-70 Kg oltre 70 gestanti e in latta-

Kg verri zione

ED, Kcal/Kg 3.500 3.200 3200 3.000 3.100

MJ/kg 14,6 13,4 13,4 12,6 13,0

EM, Kcal/Kg 3250 3030 3030 2840 2930

MJ/Kg 13,6 12,7 12,7 11,9 12,3

Proteina grezza (%) 20-22 17 15 12 14

Aminoacidi (%):

Lisina 1,4 0,8 0,7 0,4 0,6

Metionina + Cisteina 0,8 0,5 0,4 0,3 0,4

Triptofano 0,3 0,2 0,1 0,1 0,1

Treonina 0,8 0,5 0,4 0,3 0,4

Leucina 1,0 0,6 0,4 0,3 0,7

Isoleucina 0,8 0,5 0,5 0,3 0,4

Valina 0,9 0,6 0,4 0,4 0,4

Istidina 0,3 0,2 0,2 0,1 0,2

Arginina 0,4 0,3 0,2 0,2 0,4

Fenilalanina + Tirosina 1,3 0,8 0,7 0,3 0,7

Minerali:

Ca,g/Kg 12 9 8 10 8

P, g/Kg 8 6 5 6 6

NaCl, g/Kg 3 3 3 3 3

Fe, mg/Kg 100 90 80 80 80

Cu, mg/Kg 10 10 10 10 10

Zn, mg/Kg 100 100 100 100 100

Mn, mg/Kg 40 40 40 40 40

Co, mg/Kg 0,5 0,2 0,1 0,1 0,1

Se, mg/Kg 0,3 0,1 0,1 0,1 0,1

I, mg/Kg 0,6 0,2 0,2 0,6 0,6

Vitamine:

A, UI/Kg 10.000 7.000 5.000 5.000 5.000

D, UI/Kg 2.000 1.500 1.000 1.000 1.000

E, mg/Kg 20 15 10 10 10

K, mg/Kg l 0,8 0,5 0,5 0,5

Tiamina, mg/Kg 1 1 1 1 1

Riboflavina, mg/Kg "

4 3 3 3 3 "

Pantotenato di Ca, mg/Kg 10 8 8 8 8

Niacina, mg/Kg 15 10 10 10 10

Biotina, mg/Kg 0,1 0,05 0,05 0,1 0,1

Acido folico, mg/Kg 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5

B12, mg/Kg 0,03 0,02 0,02 0,02 0,02

Colina cloruro, mg/Kg 800 600 500 500 500

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377

TAB. 11- Caratteristiche di composizione di miscele per polli da carne

settimane

1 2 >3 1 2 >3 1 2 >3 1 2 >3

EM, kcal/kg 2900 2900 2900 3000 3000 3000 3100 3100 3100 3200 3200 3200

Proteina grezza, % 21,5 19,6 18,2 22,2 20,4 18,9 23,0 21,0 19,5 23,7 21,7 20,1

Aminoacidi, %

Lisina 1,1 1.0 0,8 1,2 1,0 0,9 1,2 1,1 0,9 1,2 1,1 0,9

Metionina 0,5 0,4 0,4 0,5 0,4 0,4 0,5 0,5 0,4 0,5 0,5 0,4

Metionina+cisteina 0,8 0,8 0,7 0,9 0,8 0,7 0,9 0,8 0,7 0,9 0,8 0,8

Triptofano 0,2 0,2 0,2 0,2 9,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2

Tronina 0,7 0,6 0,5 0,7 0,6 0,5 0,7 0,6 0,5 0,7 0,7 0,5

Glicina+serina 1,9 1,6 1,3 1,9 1,7 1,4 2,0 1,8 1,4 2,1 1,8 1,5

Leucina 1,6 1,4 1,1 1,6 1,4 1,2 1,7 1,5 1,2 1,7 1,5 0,2

Isoleucina 0,9 0,8 0,6 0,9 0,8 0,7 1,0 0,8 0,7 1,0 0,9 0,7

Valina 1,0 0,9 0,6 1,0 0,9 0,6 1,0 0,9 0,6 1,1 1,0 0,6

Istidina 0,5 0,4 0,3 0,5 0,4 0,3 0,5 0,4 0,3 0,5 0,4 0,4

Arginina 1,2 1,0 0,9 1,3 1,1 0,9 1,3 1,1 0,9 1,3 1,1 1,0

Fenilalanina + tirosina 1,5 1,3 1,1 1,6 1,4 1,1 1,6 1,4 1,1 1,7 1,5 1,2

Minerali

Ca, g/kg 10 9 8 10 9 8 11 10 9 11 10 9

P, g/kg 7 7 6 7 7 6 7 7 6 7 7 6

NaCl, g/kg 3 3 3 3 3 3 3 3 3 3 3 3

Fe,mg/Kg 40 40 15 40 40 15 40 40 15 40 40 15

Cu,mg/Kg 3 3 2 3 3 2 3 3 2 3 3 2

Zn,mg/Kg 40 40 20 40 40 20 40 40 20 40 40 20

Mn,mg/Kg 70 70 60 70 70 60 70 70 60 70 70 60

Co,mg/Kg 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2

Se,mg/Kg 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1

I,mg/Kg 1 1 1 1 1 1 l 1 1 1 1 1

Vitamine

A, UI/kg x 1000 1O 10 1lO 1O 1O 1O 1O 1O 1O 1O 1O 1O

D3 UI/kg 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500 1500

E, mg/kg 15 15 1O 15 15 1O 15 15 1O 15 15 1O

K3, mg/kg 5 5 4 5 5 4 5 5 4 5 5 4

Tiamina, mg/kg 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 -

Riboflavina, mg/kg 4 4 4 4 4 4 4 4 4 4 4 4

Pantotenato, mg/kg 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5 5

Niacina, mg/kg 25 25 15 25 25 15 25 25 15 25 25 15

Piridossina, mg/kg 2 2 1,5 2 2 1,5 2 2 1,5 2 2 1,5

Biotina, mg/kg 0,1 0,1 0,1 O, l 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1

Ac. Folico, mg/kg 0,2 0,2 - 0,2 0,2 - 0,2 0,2 - 0,2 0,2 -

B12, mg/kg 0,1 0,1 0,01 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,01 0,01 0,1 0,01

Colina cloruro, mg/kg 500 500 500 500 500 500 500 500 500 500 500 500

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378

Tab. A12- Composizione delle miscele per galline (Rip. = riproduzione; Ov. = ovodeposizione)

Rip. Ov. Rip. Ov. Rip. Ov. Rip. Ov. Rip. Ov.

EM, Kcal/Kg 2500 2500 2600 2600 2700 2700 2800 2800 2900 2900

PG,% (T < 25°C) 14,5 - 15,1 - 15,8 15,6 16,2 16,0 17,0 16,7

PG,% (T> 25°C) 16,0 16,7 17,4 17,1 18,0 17,7 18,7 18,4

Aminoacidi, %:

Lisina 0,8 0,8 0,8 0,8 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9

Metionina 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,4 0,4

Metionina + Cisteina 0,6 0,6 0,6 0,6 0,7 O) 0,7 0,7 0,7 0,7

Triptofano 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2

Tronina 0,6 0,6 0,6 0,6 0,7 0,7 0,7 0,7 0,7 0,7

Glicina + Serina 0,8 0,8 0,8 0,8 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9

Leucina 1,2 1,2 1,3 1,3 1,3 1,3 1,4 1,4 1,4 1,4

Isoleucina 0,8 0,8 0,8 0,8 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9

Valina 0,8 0,8 0,8 0,8 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9 0,9

Istidina 0,3 0,3 O) 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3

Arginina 1,0 1,0 1,0 1,0 1,1 1,1 1,1 1,1 1,2 1,2

Fenilalanina+ Tirosina 1,1 1,1 1,1 1,1 1,2 1,2 1,2 1,2 1,3 1,3

Minerali:

Ca, g/Kg 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40

P, g/Kg 6 6 6 6 6 6 6 6 6 6

NaCl, g/Kg 3 3 3 3 3 3 3 3 3 3

Fe, mg/Kg 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40

Cu, mg/Kg 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2

Zn, mg/Kg 40 40 40 40 40 40 40 40 40 40

Mn, mg/Kg 60 60 60 60 60 60 60 60 60 60

Co, mg/Kg 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2

Se, mg/Kg 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1 0,1

I,mg/kg 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8

Vitamine:

A, UI./Kg x 1000 10 8 10 8 10 8 10 8 10 8

D3, UI./Kg 150

0 1000 1500 1000 1500 1000 1500 1000 1500 1000

E, mg/Kg 15 5 15 5 15 5 15 5 15 5

K3, mg/Kg 4 2 4 2 4 2 4 2 4 2

Tiamina, mg/Kg 2 2 2 2 2 2 2 2 2 2

Ribof1avina, mg/Kg 4 4 4 4 4 4 4 4 4 4

Pantotenato, mg/Kg 12 5 12 5 12 5 12 5 12 5

Niacina, mg/Kg 33 26 33 26 33 26 33 26 33 26

Piridossina, mg/Kg 1 - 1 - 1 - 1 - 1 -

Biotina, mg/Kg 0,2 0,1 0,2 0,1 0,2 0,1 0,2 0,1 0,2 0,1

Ac. Folico, mg/Kg 0,9 0,4 0,9 0,4 0,9 0,4 0,9 0,4 0,9 0,4

B12, mg/Kg 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01 0,01

Colina cloruro, mg/Kg 600 300 600 300 600 300 600 300 600 300

Ac. Linoleico, mg/kg 8 10 8 10 8 10 8 10 8 10

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379

Tab. B1. Caratteristiche analitiche di alcuni alimenti (espresse sul tal quale)

Foraggi verdi

So

stan

za s

ecca

%

Pro

tein

e g

rezz

e %

UF

L/q

le

Fib

ra g

rezz

a %

Lip

idi

%

Cen

eri

%

ND

F g

/ K

g

AD

F g

/kg

Cal

cio

g/k

g

Fo

sfo

ro g

/kg

Pro

tein

a

deg

rad

abil

e g

/kg

Protei

n by-p

ass g

7kg

Pro

tein

a so

lubi

le g

/kg

PD

IN g

/kg

PD

IE g

/kg

Erb. Misto prato stabile 18 3,8 15 5,2 0,8 1,8 110 68 1,5 0,7 28 IO 27 23

Erba pascolo di pianura 18 2,5 15 5 0,5 1,7 105 62 1,2 0,6 20 5 23 20

Erba di pascolo di montagna 18 3 14 4,2 0,5 2 96 56 1,3 0,6 22 8 19 17

Erba medica (media) 18 5 14 6 0,8 2 115 65 3,5 0,6 36 14 21 16

Erbaio Lanndsberger 21 4,2 16 5,2 l 2,3 100 70 0,3 0,1 30 12

Erbaio Trifoglio ladino 19 3,2 14 5 0,5 2,2 85 50 3 0,8 23 9 22 16

Erbaio Loietto italico 18 2 16 5 0,6 2 93 57 '1,2 0,8 13 7 12 15

Erbaio Festuca pratense 19 2,5 14 7 0,6 2,3 125 85 0,7 0,5 18 7 17 13

Erbaio Festuca arundinacea 20 2,3 16 6 1,3 2,1 110 65 0,8 0,6 17 6 16 12

Erbaio Triticale 20 3,5 17 4,2 0,6 1,7 85 53 0,7 0,6 25 10

Erbaio Granturchino giovane 18 1,7 13 4,6 0,3 1,8 80 50 0,7 0,5 12 5 12 17

Erbaio Granturchino maturo 25 2,3 18 5,8 0,5 2 120 70 l 0,7 16 7 15 22

Erba di marcite 18 2,1 15 4,3 0,8 1,8 78 55 l 0,7 15 6

Erbaio di orzo 20 2 15 6 0,4 2 110 75 0,6 0,5 14 6 13 14

Erbaio di avena 28 3,2 16 10 0,6 2,5 160 120 l 1,3 23 9 22 26

Erbaio di colza 15 2,8 15 4,2 0,8 1,5 80 55 2 0,5 20 8

Erbaio di veccia 20 3,5 17 4,5 0,5 1,8 95 50 0,8 0,7 26 9 26 20

Erbaio Dactylis g10merata 18 2,2 15 5 0,5 2 100 60 0,8 0,7 15 7 32 23

Erbaio Fleo pratense 20 2,2 15 6,5 0,6 1,5 125 83 0,8 0,5 15 7 11 14

Erbaio Poa pratense 23 3,5 17 6 0,8 1,7 120 70 1,2 l 26 9

Erbaio segale giovane 23 2,7 18 7,7 0,8 1,7 130 96 l 0,8 19 8

Erbaio sorgo maturo 25 1,6 18 7 0,8 1,5 125 85 l 0,3 11 5

Fieni

Polifita 87 IO 62 27 2,3 8 487 307 5 2,5 63 37 20 68 70

Medica (media) 87 16 57 27 2 7,8 378 342 14 2,3 1I5 45 32 93 76

Trifoglio alessandrino 88 17 58 27 2,6 12 450 290 13 2,6 108 59 95 72

Trifoglio incarnato 86 12 52 27 2,4 7,5 480 320 IO 2 80 40

Trifoglio ladino 88 15 60 24 3,6 7,6 410 320 15 2,5 105 45

Trifoglio pratense 87 16 58 23 3,5 7,3 410 290 12 2,2 1I3 47

Loglio perenne 88 10 60 30 2,3 7,3 550 360 3 2,4 70 20 60 70

Loglio italico loiessa 88 11 58 27 2 7,2 560 360 3,5 2,6 75 20 60 65

Festuca pratense 87 8 59 27 2 7,5 500 370 3,5 2 55 25 52 58

Festuca arundinacea 88 8,5 55 27 2,1 8,7 580 380 3,5 2 60 25 55 62

Trigonella fieno greco 85 11 45 30 2,6 5 570 390 14 2 78 32

Landsberger 90 16 58 23 5 10 430 287 12 2,5 1I0 55

Graminacee mediocri 88 9,3 57 29 2,2 5,3 480 350 3 1,5 65 28 60 68

Avena 87 8,5 55 30 2 7 500 350 2,5 1,5 60 25

Veccia 87 18 52 24 2,1 10 420 300 12 3 120 60

Vigna sinensis 89 19 24 23 2,5 11 450 290 14 3 125 65

Sulla 88 13 55 27 1,8 9,5 465 385 10 3 85 45

Dactylis g1omeratafleo pratense 85 8,7 56 27 2 8 485 285 2,7 2 57 30 73 74

Fleo pratense 87 8 52 30 2 5 490 325 3,5 1,8 52 28

Segale 89 7,5 53 35 7 5 600 430 2,7 1,8 48 27

Loietto + medica 87 12 65 27 2 7,6 486 242 8,5 2,3 93 32 24 76 70

Loietto + trifoglio 87 12 65 25 2,5 7,3 483 340 7,7 2,3 90 30

Paglie:

Paglia di frumento 90 3,7 26 40 1,3 7 765 486 2,7 0,8 12 25 - 30 34

Paglia di orzo 89 3,7 37 38 1,3 6,5 712 525 2,7 0,7 10 27 32 33

Page 381: Lezioni di ALIMENTAZIONE E NUTRIZIONE ANIMALE Corso di ... · - fattore economico della produzione animale. 1.1.1 Alimentazione e benessere animale: ... Misurazione del benessere

380

Silomais 35% S.S. 35 2,6 30 7,6 1 2 170 80 1,2 0,7 18 8 13 15 23

Silomais 32% S.S. 33 2,5 27 7 0,9 1,8 156 74 1,1 0,6 17 7,5 12 14 21

Silomais 30% S.S. 30 2,3 25 6,5 0,8 1,7 145 68 1 0,6 16 7 11 15 22

Fienosilo polifita 50 5,6 36 15 1,5 4,6 270 160 2,5 1 37 19

Prato stabile verde 28 3,4 22 8,5 0,8 0,8 160 90 1,5 0,6 22 12

Fienosilo loietto 35 3,6 28 13 1,3 3,5 220 135 1,8 1,2 23 13

Loietto perenne verde 20 2,1 17 5,7 0,7 2 105 60 1 0,6 15 6

Loietto italico - loiessa 27 2,2 20 6 0,6 2 138 75 1 0,6 16 6

Fienosilo di medica 47 7,8 30 11 2 3,5 210 115 7 1,5 50 28 35

Medica verde 33 6,3 24 8,5 1 3,6 167 90 3,5 0,8 40 23 19 37 22

Orzo 33 3 24 IO 1 3 150 105 1,5 I 22 8 15 20

Trebbie di birra 25 6,2 22 4 2,5 1,2 70 45 0,7 1,2 40 22

Barbabietole polpe 12 1,7 11 4 0,3 I 68 45 1,5 0,3 11 6

Pastone mais granella 68 7 82 1,3 3,1 0,9 30 17 0,3 1,3 39 31 25

Pastone mais grano e tutolo 60 5,4 65 2,5 2,8 0,9 50 30 0,2 1,1 35 19 23

Granturco stocchi 35 2 21 13 0,4 3,5 250 135 0,7 0,4 15 5

Avena e veccia 25 3,6 15 6,7 1 2 120 70 1,6 0,7 20 16

Cereali e fiocchi:

Mais 88 8,8 110 2,2 3,7 1,3 85 30 0,2 2,7 32 56 10 73 100

Orzo 88 10 100 6 2 2,3 170 60 0,5 3,7 85 20 37 68 92

Frumento 88 11 103 2,3 2 1,7 120 30 0,6 3,6 90 30 75 95

Avena 88 11 90 10 4,5 4 290 140 0,7 3,5 85 25 64 72

Segale 88 10 102 2,3 1,5 2 115 37 0,7 3,5 76 24 69 90

Sorgo 88 11 101 2,4 3 1,8 93 42 0,3 3,2 73 34 78 97

Miglio 88 12 87 9,3 3,7 3,6 270 97 0,5 2,8 73 43 96 107

Triticale seme 87 12 105 3,3 2 2 120 40 0,6 3,5 90 28 77 94

Mais fiocchi 88 9 115 2,5 3 1,5 123 26 1,2 2,6 57 38 69 85

Orzo fiocchi 88 12 103 4,3 2 2,5 125 46 0,5 2,7 90 30 80 100

Avena fiocchi decorticati 88 14 117 2 7,2 2,6 55 21 0,7 3,8 105 35 100 52

Mais pannocchie 86 5,3 70 4,3 2,7 1 200 70 0,1 1,5 35 18

Cruscami:

Crusca di fiumento 88 14 78 10 4,2 5 400 130 1,4 13 112 30 57 92 75

Cruschello di fiumento 88 16 80 9 4,5 5 365 112 1,2 9,5 115 35 58 80 95

Tritello di fiumento 88 15 82 6 3 4 250 75 1,3 9 120 40 96 83

Farinaccio di fiumento 88 15 101 6 3 3,5 240 77 1 7 120 35 93 80

Farinetta di fiumento 88 14 100 3.5 2,6 2,5 150 40 1 5 105 40 76 80

Pula di riso commerciale 88 12 82 12 12 11 360 150 0,8 14 80 40 65 63

Puletta di riso 88 9 70 15 8 18 300 180 60 30

Farinaccio di riso 89 13 81 5.7 8,5 7 160 85 0,5 12 86 44 98 90

Loppe di orzo 88 3 40 30 1,5 13 90 50 4 2 22 8

Tritello di segale 89 15 85 7 3,7 5 210 100 1,5 13 92 58

Tab. B1. Caratteristiche analitiche di alcuni alimenti (espresse sul tal quale)

Insilati

So

stan

za s

ecca

%

Pro

tein

e g

rezz

e %

UF

L/q

le

Fib

ra g

rezz

a %

Lip

idi

%

Cen

eri

%

ND

F g

/ K

g

AD

F g

/kg

Cal

cio

g/k

g

Fo

sfo

ro g

/kg

Pro

tein

a

deg

rad

abil

e g

/kg

Protei

n by-p

ass g

7kg

Pro

tein

a so

lubi

le g

/kg

PD

IN g

/kg

PD

IE g

/kg

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381

segue

Alimenti diversi:

Manioca farina

Carrube frante denocciol.

Patate secche disidratate

Urea: * = Kg'kg

Grasso by-pass

So

sta

nza

sec

ca

%

Pro

tein

e g

rezz

e %

UF

L/q

le

Fib

ra g

rezz

a %

Lip

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%

Cen

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%

ND

F g

/ K

g

AD

F g

/kg

Ca

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g/k

g

Fo

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ro g

/kg

Pro

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a

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rad

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ile

g/k

g

Prote

in by

-pas

s g7k

g

Pro

tein

a

solu

bil

e

g/k

g

PD

IN g

/kg

PD

IE g

/kg

87 2,5 100 4 0,5 5 104 63 2 1 20 5 15 60

90 5 67 7 2,7 3 237 198 3 0,6 50 - -

89 3,7 102 2,7 0,5 4 124 45 0,8 1,5

99 278 - - - - - - - - 2,7* - - 1,5* -

95 325 90 90

Alimenti proteici e semi:

Soia fe. 44% 90 44 103 7 1,1 6 180 80 2.7 6.5 317 123 88 307 213

Soia fe. 48% 90 48 105 4 1,7 6 100 60 2.8 6.9 345 135 96 340 230

Soia semi interi 90 35 114 6,5 18 6 130 85 2.5 5.8 198 182 60 220 78

Cotone far. estrazione 91 37 80 13 1.5 6.5 367 250 2 lO 324 86 287 123

Cotone semi interi 90 20 115 20 20 3.6 430 295 1.4 4 115 95 68 160 127

Cotone panel. decorticato 91 42 92 9 8 6.7 270 195 3 7 255 170 298 247

Girasole far. e. decortic. 90 39 80 16 8.3 7 320 215 4.5 12 265 125 260 155

Girasole pan. decortic. 90 39 91 14 8.5 6.5 335 230 4 6.6 280 110 272 170

Girasole pan. Semidecort. 92 32 57 20 8 6.5 345 300 3.5 7.5 225 95 230 140

Girasole f.e. integrale 90 23 58 30 2 5 450 320 5.5 7 160 75 178 135

Arachide panel 92 50 104 7,8 6.8 5.3 130 90 2 6 870 170 320 175

Arachide f.e. 91 49 102 lO 1.4 5.7 170 128 1.6 6 345 145 332 181

Colza farina estrazione 90 36 93 12 2.2 7.2 220 150 7 lO 250 100 246 150

Lino farina estrazione 90 35 88 9,3 1.7 6.2 243 170 3.5 8.3 217 133 237 167

Lino panello 90 32 100 9,8 7.5 5.6 198 125 4 8 183 142 133 240 173

Sesamo farina estrazione 90 44 80 7,5 1.7 ·12 20 17 310 130 285 155

Pomodoro semi far. estro 90 34 60 27 1.2 6.5 4 7 220 120

Glutine mais 60% 90 62 110 2,6 2.7 2 61 21 1 3.2 190 430 500 463

Glutine mais 40% 90 43 105 4 2.8 2.4 92 1.6 4 130 300 300 253

Germe di frumento 88 36 112 2,5 IO 5 165 53 0.8 10 174 186

Germe di mais far. Estr. 90 20 100 11 1.8 3 396 117 I 5 144 56 90 115

Germe di mais panello 91 22 106 10 7.5 2.5 260 75 0.6 4.5 160 60 96 115

Germe di riso intero 90 18 107 6 18 8 250 154 0.5 17 82 98

Medica disidr. 17% 92 17 70 25 2.8 9.5 400 320 16 2.5 85 85 110 83

Guar. Far. Estraz. 91 44 90 12 5 6 0.3 0.6

Semola glut. 17% 88 17 93 10 2.6 4.5 385 120 1 7 135 40 35 120 105

Semola glut. 20% 90 22 102 7,5 3.5 7 350 140 1.2 4.8 184 46 38 130 115

Lino seme 91 23 135 7 35 5 125 75 2.3 6.3 190 40 33 132 58

Lenticchie semi 88 25 96 3,5 1.8 3 1.2 4.2

Fave semi 88 26 100 7,5 1.3 3.5 108 82 1.2 6 198 62 152 90

Veccia seme 88 27 100 6,5 1.6 3.5 183 92 1.6 4.5 210 60 157 88

Pisello seme 86 23 100 5,5 1.6 2.8 140 65 0.8 4.5 130 85

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INDICE

Pag.

CAP. I. PRINCIPI NUTRITIVI

1.1 1.1 Generalità

1.1.1 1.1.1 Alimentazione e benessere animale

1.1.2 1.1.2 Alimentazione e qualità dei prodotti

1.1.3 Alimentazione e impatto ambientale

1.14 Alimentazione qualità e sicurezza dei prodotti animali

1.1.5 Principi alimentari

1.2.1 Idrati di carbonio o glucidi

1.2.2 Metabolismo degli idrati di carbonio

1.3 Protidi

1.3.1. Disponibilità di aminoacidi

1.3.2. Utilizzazione e metabolismo delle proteine

1.3.3 Valore biologico delle proteine

1.3.4. Azoto non proteico e proteine sintetiche

1.3.5 Proteine by-pass

1.4 Lipidi

1.4.1. Utilizzazione e metabolismo dei lipidi

1.5 Vitamine

1.6. Macrobromi Inorganici

1.7 Ormoni ed Enzimi

1.8 Fattori Sconosciuti di Crescita

1.9 Promotori di Performances e Additivi

CAP. II. DIGESTIONE E ASSORBIMENTO PRINCIPI NUTRITIVI

2.1 Generalità

2.2 Ingestione degli alimenti

2.2.1 Previsione del consumo volontario di sostanza secca

2.5 Masticazione

2..3.1 Saliva

2.6 . Deglutizione

2.6. 2.5 Fisiologia della digestione nei monogastrici

2.6. Vomito

2.8. Particolarità nei conigli

2.8.1. Particolarità nei volatili

2.8.2. Digestione nei lattanti dei poligastrici

2.9. Fisiologia della digestione nei poligastrici

2.9.1. Digestione microbica ruminale

2.9.2. Metabolismo delle sostanze azotate nel rumine

2.9.3. Digestione dei grassi nel rumine

2.9.4. Metabolismo dei lipidi nel rumine

2.9.5 Degradazione e sintesi di vitamine nel rumine

2.9.6. Tempi di degradabilità ruminale dei diversi alimenti

2.9.7. Biotecnologia del rumine

2.10. Assorbimento dei principi nutritivi

2.10.1. Defecazione

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CAP. III. METABOLISMO

3.1. Generalità

3.2 Metabolismo energetico

3.3. Sintesi proteica

3.4. Sintesi dei grassi.

CAP. IV. VALUTAZIONE CHIMICO FISIOLOGICA ALIMENTI

4.3. Valutazione chimica

4.4. 4.2 Valutazione fisiologica

4.2.1 Digeribilità

4.3. Relazione nutritiva

4.4. Equilibrio acido-basico

4.5. Appetibilità

4.6. Conservabilità

4.7. Azione dietetica

CAP. V. UTILIZZAZIONE BIOLOGICA DEGLI ALIMENTI

5.1. Produzione energia

5.2 Metodi di misura del calore prodotto e ritenzione di energia

5.3. Utilizzazione dell’energia metabolizzabile per il mantenimento

5.4. Utilizzazione dell’energia metabolizzabile ai fini produttivi

CAP. VI. DETERMINAZIONE VALORE NUTRITIVO ALIMENTI

6.3. Generalità

6.4. Metodo delle unità amido

6.3. Metodo scandinavo o delle unità foraggiere (U.F.)

6.4. Metodo delle U.F. latte e carne

6.5. Metodo dell’E.M. attraverso il calcolo del T.D.N.

6.6. Metodo della energia netta

6.7. Previsione del contenuto energetico degli alimenti

CAP. VII. SISTEMI DI VALUTAZIONE DELLE PROTEINE

7.3. Valutazione nei monogastrici

7.4. Valutazione nei poligastrici

7.4.1. Sistema francese

7.2.2. Sistema AP

7.2.3. Sistema Cornell o CNCPS

7.4 . Degradabilità delle proteine

CAP. VIII. Fattori nutritivi degli animali e fattori di razionamento

8.1. Nuove concezioni sul valore nutritivo degli alimenti e della

razione

8.2. Fabbisogni degli animali

8.2.1. Fabbisogni di mantenimento

8.2.2. Fabbisogni di accrescimento

8.2.3. Allattamento

8.3. Fabbisogni di ingrasso

8.3.1. Esigenze alimentari dei bufali per la produzione della carne

8.4. Fabbisogni per la produzione del latte

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8.4.1. Esigenze per la produzione del latte nei bovini

8.4.2. Alimentazione delle bovine da latte ad alta produzione

8.4.3. Modalità di somministrazione degli alimenti

8.4.4. Alimentazione e qualità del latte

8.4.5. Formulazione mangimi e premiscele

8.4.6. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella bufala

8.4.7 Esigenze nutritive per la produzione del latte nella pecora

8.4.8. Esigenze nutritive per la produzione del latte nella capra

8.4.9 Esigenze nutritive per la produzione del latte negli equini

8.46. Esigenze nutritive per la produzione del latte nei suini

8.5. Fabbisogni per la riproduzione e lo stato di gravidanza

8.5.1. Effetti della malnutrizione durante la gravidanza

8.6. Fabbisogni per prestazioni dinamiche

8.6.1. Alimentazione degli equini

8.7. Fabbisogni per la termoregolazione

8.8. Alimentazione di altre specie di interesse zootecnico

8.8.1. Conigli

8.8.2. Volatili.

8.8.3. Cenni sulle esigenze nutritive dei pesci

CAP. IX DISMETABOLIE DA ERRORI ALIMENTARI

9.1 Dismetabolie dei ruminanti

9.2 Principali disturbi degli equini dovuti all’alimentazione

CAP. X. ALIMENTI PER IL BESTIAME

10.2. Classificazione degli alimenti

Fattori che influenzano il valore nutritivo dei foraggi

10.1.2. Foraggi di leguminose

10.1.3. Foraggi di crucifere

10.1.4. Foraggi dei prati polifiti.

10.1.5. Foraggi di erbai

10.1.6. Radici e tuberi

10.2. Pascoli

10.2.1. Carico di bestiame

10.2.2. Tecniche di pascolamento:

10.2.3. Riposo del pascolo

10.3. Foraggi insilati

10.3.1. Metodi di insilamento

10.3.2. Sostanze conservanti

10.3.3. Strutture di insilamento

10.3.4. Tipi di silo

10.4. Fieni

10.4.1. Disidratazione artificiale dell'erba

CAP. XI. PRODOTTI COMPLEMENTARI E SOTTOPRODOTTI

ALIMENTARI

11.1 Paglie di cereali

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11.2 Foglie di alberi e residui di potatura

11.3 Foglie, colletti e polpe fresche di bietola

11.4. Radici

1.5.Tuberi

11.6. Sottoprodotti dell’orzo

CAP. XII. MANGIMI CONCENTRATI

12.2 Mangimi di origine vegetale

12.1.1 Cereali

12.2.1 Trattamenti intesi ad aumentare il VN dei cereali

12.3 . Semi di leguminose

12.4. Semi diversi:

12.5. Residui della macinazione dei cereali

12.6. Residui della lavorazione del riso

12.7. Residui dell'estrazione dell'olio dai semi oleosi

12.8. Residui dell'industria dello zuccherificio:

12.9. Residui industriali di estrazione e fermentazione:

12.10 Mangimi di origine animale

12.12. Sostanze tossiche o antinutritive presenti negli alimenti

CAP. XIII. INTEGRATORI E ADDITIVI

13.1. Integratori minerali

13.2. Integratori azotati e proteici

13.3. Integratori vitaminici e vitamine

13.4 Antibiotici

13.5 Tecnica Mangimistica

CAP. XIV. ESEMPI DIETE E RAZIONI

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