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1 Diritto Penale Parte generale Vol. ST22 – Edizione IV LEZIONE DI DIRITTO PENALE 1 FONTI DEL DIRITTO PENALE E PRINCIPIO DI LEGALITÀ (a cura di Massimiliano Di Pirro) In questa lezione analizzeremo alcuni aspetti estremamente dibattuti relativi alle fonti e al principio di legalità (inteso, quest’ultimo, nella sua latitudine più ampia, comprensiva dei corollari dell’irretroattività e della determinatezza-tassatività). Sul piano terminologico si ricorda che, a seguito dell’assorbimento della Comunità europea nell’Unione europea con l’adozione del trattato di Lisbona del 2009, non è più corretto parlare di norme e principi “comunitari” ma è opportuno parlare di norme e principi “eurounitari” o “europei”. Per le nozioni generali sulle fonti del diritto penale e sul principio di legalità formale- sostanziale si rinvia ai manuali. Per chi utilizza il nostro manuale di diritto penale (parte generale) di Luigi Delpino, collana Studi superiori, ed. 2013, si rinvia alla Sezione III, capitoli 1-6. ****** 1. L’incidenza del diritto europeo e delle norme Cedu sul sistema penale 1.1. Norme nazionali ed europee. In termini generali, la non applicazione di una norma nazionale da parte del giudice è possibile soltanto qualora si sia in presenza di un contrasto tra una puntuale norma interna con un altrettanto puntuale precetto europeo che dovrebbe essere applicato al posto della norma interna incompatibile con esso. Questa situazione può verificarsi, ad esempio, quando un principio generale posto dal trattato dell’Unione europea sia stato specificato e concretizzato da una decisione della Corte di giustizia, assumendo così, la norma europea, carattere immediatamente precettivo, e dandosi pertanto luogo a un rapporto di applicabilità-non applicabilità, in quanto l’applicazione di una norma esclude l’applicabilità dell’altra. Quando, invece, si è in presenza di una situazione di non conformità della norma interna con principi generali dell’ordinamento europeo, il giudice nazionale ha il dovere di operare un’interpretazione conforme, ma se questa non è possibile il giudice non potrebbe far altro che sollevare una questione pregiudiziale di interpretazione davanti alla Corte di giustizia o una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost. Non si tratterebbe, infatti, di non applicare la norma italiana per applicare al suo posto la norma europea incompatibile, ma di disapplicare o eliminare la norma interna per la non conformità con un principio generale dell’ordinamento europeo, compito che spetta esclusivamente alla Corte costituzionale, la cui sfera di attribuzioni verrebbe aggirata se si ammettesse una sorta di controllo diffuso di compatibilità europea affidato a ciascun giudice (Cass. pen. 18767/2012).

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Diritto Penale Parte generale Vol. ST22 – Edizione IV

LEZIONE DI DIRITTO PENALE 1

FONTI DEL DIRITTO PENALE E PRINCIPIO DI LEGALITÀ (a cura di Massimiliano Di Pirro)

In questa lezione analizzeremo alcuni aspetti estremamente dibattuti relativi alle fonti e al principio di legalità (inteso, quest’ultimo, nella sua latitudine più ampia, comprensiva dei corollari dell’irretroattività e della determinatezza-tassatività). Sul piano terminologico si ricorda che, a seguito dell’assorbimento della Comunità europea nell’Unione europea con l’adozione del trattato di Lisbona del 2009, non è più corretto parlare di norme e principi “comunitari” ma è opportuno parlare di norme e principi “eurounitari” o “europei”. Per le nozioni generali sulle fonti del diritto penale e sul principio di legalità formale-sostanziale si rinvia ai manuali. Per chi utilizza il nostro manuale di diritto penale (parte generale) di Luigi Delpino, collana Studi superiori, ed. 2013, si rinvia alla Sezione III, capitoli 1-6.

****** 1. L’incidenza del diritto europeo e delle norme Cedu sul sistema penale 1.1. Norme nazionali ed europee. In termini generali, la non applicazione di una norma nazionale da parte del giudice è possibile soltanto qualora si sia in presenza di un contrasto tra una puntuale norma interna con un altrettanto puntuale precetto europeo che dovrebbe essere applicato al posto della norma interna incompatibile con esso. Questa situazione può verificarsi, ad esempio, quando un principio generale posto dal trattato dell’Unione europea sia stato specificato e concretizzato da una decisione della Corte di giustizia, assumendo così, la norma europea, carattere immediatamente precettivo, e dandosi pertanto luogo a un rapporto di applicabilità-non applicabilità, in quanto l’applicazione di una norma esclude l’applicabilità dell’altra. Quando, invece, si è in presenza di una situazione di non conformità della norma interna con principi generali dell’ordinamento europeo, il giudice nazionale ha il dovere di operare un’interpretazione conforme, ma se questa non è possibile il giudice non potrebbe far altro che sollevare una questione pregiudiziale di interpretazione davanti alla Corte di giustizia o una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost. Non si tratterebbe, infatti, di non applicare la norma italiana per applicare al suo posto la norma europea incompatibile, ma di disapplicare o eliminare la norma interna per la non conformità con un principio generale dell’ordinamento europeo, compito che spetta esclusivamente alla Corte costituzionale, la cui sfera di attribuzioni verrebbe aggirata se si ammettesse una sorta di controllo diffuso di compatibilità europea affidato a ciascun giudice (Cass. pen. 18767/2012).

 

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1.2. Competenza penale indiretta dell’Unione europea. Con specifico riferimento alla normativa penale, occorre sottolineare che, sebbene la legislazione penale e le norme di procedura penale rientrino nella competenza degli Stati membri, su tale ambito del diritto può tuttavia incidere il diritto dell’Unione europea, nel senso che gli Stati membri devono fare in modo che la propria legislazione penale rispetti il diritto dell’Unione. Gli Stati, cioè, non possono applicare una normativa penale che comprometta la realizzazione degli obiettivi perseguiti da tale direttiva e da privare così quest’ultima del suo effetto utile (Corte giustizia 6-12-2011, n. 329/11). Può ritenersi sussistente, quindi, una competenza penale indiretta dell’Unione europea, intesa come obbligo, per gli Stati membri, di introdurre sanzioni penali laddove siano necessarie per garantire piena efficacia all’applicazione del diritto europeo (Corte di giustizia 23-10-2007, causa C-440/05). A tal fine, le norme dell’Unione europea devono presentare un grado di chiarezza tale da poter essere utilizzate per la qualificazione della fattispecie penale, conformemente al principio di legalità sancito dall’art. 49, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, al cui rispetto gli Stati membri sono tenuti quando infliggono una pena diretta a sanzionare l’inosservanza di disposizioni del diritto dell’Unione, e implica che la legge definisca chiaramente i reati e le pene che li reprimono (Corte di giustizia 31-3-2011, causa C-546/09, Aurubis Balgaria; 3-5-2007, causa C-303/05, Advocaten voor de Wereld). 1.3. Il ruolo della Cedu. La Corte costituzionale, fin dalle sentenze “gemelle” del 2007 (Corte cost. n. 348 e n. 349 del 2007) ha statuito che, nel sistema delle fonti, alle disposizioni della Cedu debba essere assegnato un rango sub-costituzionale, nel senso che: - attraverso il meccanismo di adattamento previsto dall’art. 117, co. 1, Cost., esse integrano il relativo precetto della Carta fondamentale e diventano parametro di legittimità costituzionale delle altre norme dell’orientamento di fonte secondaria; - il giudice nazionale, nell’applicare una norma del diritto interno, è sempre tenuto a interpretarla in maniera non solo costituzionalmente orientata, ma anche convenzionalmente orientata (ossia, conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo), considerando sia le disposizioni formalmente cristallizzate nell’articolato della Cedu, sia le stesse norme come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Tale criterio generale ha trovato numerose attuazioni nella giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 1 e 113 del 2011; 93/2010; 138/2010; 187/2010). Tuttavia la Consulta, nel tentativo di affinare quel “meccanismo di adeguamento” del diritto interno alle norme di fonte sovranazionale, ha puntualizzato la portata applicativa di questo principio, chiarendo che la stessa Corte costituzionale - e, dunque, anche il giudice comune chiamato a effettuare, in prima battuta, quella verifica di compatibilità - non può sindacare l’interpretazione della Cedu fornita dalla corte di Strasburgo poiché le norme della Cedu devono essere applicate nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma può soltanto valutare come e in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma Cedu, nel momento in cui va a integrare il comma 1 dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che ne consegue in termini di interpretazione e bilanciamento; alla Corte costituzionale, così come ai giudici comuni, compete, insomma, di valutare la giurisprudenza europea in modo da rispettarne la sostanza,

 

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ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tenere conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (Corte cost. 236/2011). In altri termini, il giudice nazionale, lungi dall’essere vincolato a conformarsi al risultato dell’esegesi autentica operata dalla Corte europea, può interpretare la norma della Cedu, con l’unico limite di rispettare la sostanza delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di Strasburgo. L’incidenza della Cedu sulla normativa penale interna è stata recentemente affrontata dalla “sentenza Esposito” (Cass. pen., sez. fer., 35729/2013), che ha concluso la tormentata vicenda dei diritti televisivi Mediaset. Tra le numerose questioni affrontate dalla sentenza emerge l’interpretazione dell’art. 6, par. 3, lett. d), Cedu, che prevede il diritto di ogni accusato di interrogare o far interrogare i testimoni a carico e di ottenere la convocazione e l’interrogazione dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni di quelli a carico. La sentenza Esposito ha precisato che tale disposizione non risulta violata dal provvedimento che disponga l’acquisizione delle dichiarazioni rese dal testimone residente all’estero e non comparso per essere sentito nel corso del processo, quando la sentenza di condanna non si sia basata in misura esclusiva o determinante sulla deposizione di colui che l’imputato non sia stato in condizioni di interrogare o far interrogare. Esaminando le numerose sentenze della Corte europea relative alla disposizione in esame (Corte europea diritti dell’uomo 18-5-2010, Ogaristi c. Italia; 19-10-2006, Majadallah c. Italia) si rileva chiaramente che, per i giudici di Strasburgo, è configurabile una violazione dell’art. 6, par. 3, lett. d), Cedu solo se la sentenza di condanna si è basata in misura esclusiva o determinante sulla deposizione di chi l’imputato non sia stato in condizioni di interrogare o far interrogare, ad esempio laddove l’affermazione della colpevolezza dell’imputato si sia fondata sulla deposizione resa nella fase delle indagini da un unico testimone che l’accusato non sia stato messo in condizioni di poter esaminare nel contraddittorio (Corte europea diritti dell’uomo 18-5-2010, Ogaristi c. Italia). Questa situazione è ben diversa da quella nella quale la motivazione della sentenza di condanna pronunciata dai giudici di merito si basi in via minimale e assolutamente residuale sulle dichiarazioni rese dal teste nella fase delle indagini, essendo altri e ben più numerosi gli elementi di prova orale e documentale - acquisiti nel pieno rispetto del principio del contraddittorio - evidenziati a carico dell’imputato. Tale soluzione interpretativa risulta coerente con il consolidato indirizzo secondo il quale le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono - conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza europea, in applicazione dell’art. 6 Cedu - fondare in modo esclusivo o significativo l’affermazione della responsabilità penale (Cass. S.U. 27918/2010; conf. Cass. pen. 4-4-2012): d’altro canto, seguendo la medesima impostazione si è aggiunto che una lettura costituzionalmente e convenzionalmente conforme della disposizione dettata dall’art. 526, co. 1bis, c.p.p. comporta che il divieto di utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali assunte dal pubblico ministero e acquisite mediante lettura per sopravvenuta impossibilità di ripetizione è destinato a operare solo quando le dichiarazioni medesime costituiscono il fondamento esclusivo o determinante dell’affermazione di colpevolezza (Cass. pen. 23-9-2009, Marinkovic; conf. Cass. 6-5-2010, Mzoughia).

 

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1.4. L’attività di allibratore tra normativa europea e norme penali interne. La contaminazione tra normativa europea e diritto penale interno è stata indagata, in numerose occasioni, dalla Cassazione riguardo al reato di esercizio abusivo di attività di gioco o di scommessa ex art. 4, L. 401/1989, dove si è posto il problema di stabilire se tale norma incriminatrice sia o meno incompatibile con i principi europei sulla libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi. La Corte di giustizia Ue, con la sentenza Placanica 6-3-2007, ha specificato i principi generali posti dall’art. 49 Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) - e, prima ancora, dall’art. 43 Trattato CE - in tema di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi, affermando che tale disposizione impedisce alla normativa nazionale, da un lato, di escludere dal settore dei giochi d’azzardo gli operatori costituiti sotto forma di società di capitali le cui azioni sono quotate nei mercati regolamentati e, dall’altro, di sanzionare penalmente i soggetti che esercitano l’attività di raccolta di scommesse in assenza della concessione o dell’autorizzazione di polizia richieste dalla normativa nazionale, qualora questi soggetti non abbiano potuto ottenere le autorizzazioni a causa di un rifiuto, da parte dello Stato membro, contrario alle norme europee. Nella sentenza Schindier 24-3-1994 la Corte di giustizia ha precisato che una normativa nazionale che vieti agli organizzatori di lotterie di altri Stati membri di promuovere le loro lotterie e di venderne i biglietti (sia direttamente sia per il tramite di agenti locali) nel proprio Stato costituisce un ostacolo alla libera prestazione dei servizi di cui all’art. 49 Tfue, anche se questa normativa può risultare giustificata se persegue scopi legati alla tutela dei consumatori e alla protezione dell’ordine sociale. Nella sentenza Lara del 21-9-1999 la Corte di giustizia ha poi precisato che una normativa nazionale che impedisca agli operatori di altri Stati membri di mettere in circolazione apparecchi automatici per giochi d’azzardo costituisce un ostacolo alla libera prestazione dei servizi di cui all’art. 49 del Trattato, ma può essere giustificata per motivi connessi alla tutela dei consumatori e alla protezione dell’ordine sociale. Analogamente, nella sentenza Zenatti del 21-10-1999 si è precisato che una normativa nazionale restrittiva, che riservi a taluni enti il diritto di esercitare scommesse sportive, può essere giustificata, qualora non comporti alcuna discriminazione in base alla nazionalità, da esigenze di interesse generale, quali la tutela del giocatore, la lotta alle frodi e alle infiltrazioni criminali, sempre che le restrizioni imposte dalla normativa non siano sproporzionate rispetto a tali esigenze. Da ultimo, la Corte di giustizia 16-2-2012 ha ribadito che: - lo Stato italiano non può applicare sanzioni penali, per l’attività di raccolta di scommesse esercitata senza concessione o autorizzazione di polizia, a persone legate a un operatore che era stato escluso dalle gare in violazione del diritto dell’Unione, anche dopo la nuova gara destinata a rimediare a tale violazione, qualora quest’ultima gara e la conseguente attribuzione di nuove concessioni non abbiano rimediato all’illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara; - l’art. 49 Tfue, nonché i principi di parità di trattamento e di effettività, impediscono che uno Stato membro possa proteggere le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti prevedendo determinate distanze minime tra gli esercizi dei nuovi concessionari e quelli ditali operatori esistenti; Sulla base dei suddetti principi la Cassazione ha più volte sostenuto che le disposizioni di cui all’art. 88 t.u.l.p.s. (Testo unico leggi di pubblica sicurezza) e all’art. 4, co. 4bis, L. 401/1989 non sono in contrasto con i principi europei della libertà di stabilimento e della

 

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libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione europea, poiché la normativa nazionale persegue finalità di controllo per motivi di ordine pubblico idonee a giustificare le restrizioni nazionali ai citati principi europei (Cass. pen., S.U., 23271/2004; Cass. 7695/2012). La citata sentenza delle Sezioni Unite ha rilevato che il controllo per finalità di ordine e sicurezza pubblici è presente non solo in sede di concessione per l’esercizio delle scommesse (in relazione, ad esempio, all’idoneità dei locali), ma anche di rilascio dell’autorizzazione o licenza di polizia richiesta dall’art. 88 t.u.1.p.s., in quanto non può essere rilasciata a chi ha determinati precedenti penali, può essere negata a chi ha riportato condanne per particolari delitti, non può essere data a chi sia stato condannato per reati contro la moralità pubblica o il buon costume o per giochi d’azzardo, per delitti commessi in stato di ubriachezza, per contravvenzioni concernenti la prevenzione dell’alcoolismo, o per abuso di sostanze stupefacenti e non può essere concessa a chi è incapace di obbligarsi; inoltre, gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza possono accedere in qualunque momento nei locali destinati all’esercizio delle scommesse e assicurarsi degli adempimenti prescritti dalla legge, dai regolamenti o dall’autorità. 1.5. L’ingresso clandestino nel territorio dello Stato. L’art. 10bis D.Lgs. 286/1998 incrimina l’ingresso e la permanenza illegale dei cittadini non appartenenti all’Unione europea e degli apolidi, gli uni e gli altri indicati nel testo normativo come "stranieri" (art. 1, co. 1), sanzionando le medesime condotte con la pena dell’ammenda. Tale norma ha superato il vaglio di costituzionalità: la Corte costituzionale, infatti, con la sent. 250/2010 ha precisato che la l’art. 10bis non punisce la condizione personale e sociale di straniero clandestino o comunque irregolare, ma uno specifico comportamento, costituito dal “fare ingresso” e dal “trattenersi” nel territorio dello Stato; si tratta, dunque, di una condotta attiva istantanea (varcare illegalmente i confini nazionali) oppure di una condotta omissiva permanente (non lasciare il territorio nazionale pur non avendo titolo per il soggiorno legale in esso). La rilevanza penale di tali condotte è correlata alla concreta lesione del bene giuridico tutelato, individuabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, secondo un determinato assetto normativo, in vista di beni pubblici di sicuro rilievo costituzionale. In ambito europeo occorre ricordare la direttiva rimpatri (direttiva 2008/115), che si occupa del rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e non si prefigge l’obiettivo di armonizzare integralmente le norme degli Stati membri sul soggiorno degli stranieri. Tale direttiva, quindi, non vieta che il diritto di uno Stato membro qualifichi il soggiorno irregolare alla stregua di reato e preveda sanzioni penali per scoraggiare e reprimere la commissione di siffatta infrazione. Tuttavia, uno Stato non può applicare una disciplina penale idonea a compromettere l’applicazione delle norme e delle procedure comuni sancite dalla direttiva 2008/115, privando così quest’ultima del suo effetto utile (Cote di giustizia 28-4-2011, El Dridi). Tali norme e procedure sarebbero compromesse se lo Stato membro interessato, dopo aver accertato il soggiorno irregolare del cittadino di un Paese terzo, anteponesse all’esecuzione della decisione di rimpatrio, o addirittura alla sua stessa adozione, un procedimento penale idoneo a condurre alla reclusione nel corso della procedura di rimpatrio, poiché tale modo di procedere rischierebbe di ritardare l’allontanamento.

 

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Per quel che attiene alla compatibilità della fattispecie penale di cui all’art. 10bis con la direttiva rimpatri, la Corte di giustizia, con decisione del 6-12-2012, causa C-430/11, Md Sagor, ha stabilito che l’art. 10bis non contrasta con la direttiva rimpatri laddove prevede, come reato, dell’ingresso e del soggiorno illegale. In particolare, ha rilevato, richiamando la propria giurisprudenza precedente, che le disposizioni della direttiva rimpatri non impediscono al legislatori nazionale di affidare al giudice penale la decisione del rimpatrio, fatta salva l’esigenza che le persone siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità, dando la prevalenza al rimpatrio volontario rispetto a quello forzato con la fissazione di un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni per la partenza volontaria (art. 7, par. 1 e 2, della direttiva). Fanno eccezione al principio del rimpatrio volontario (considerando 10 della direttiva): a) i casi in cui sussiste rischio di fuga; b) quelli in cui la domanda di soggiorno regolare sia stata respinta in quanto

manifestamente infondata o fraudolenta; c) i casi in cui la presenza dell’interessato nel territorio nazionale costituisca un pericolo

per l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica o la sicurezza nazionale (art. 7, par. 4), fermo l’obbligo che tali misure siano proporzionate e non eccedano un uso ragionevole della forza (art. 8, par. 4).

In sintesi, la disapplicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 10bis sarebbe giustificata nel caso di irrogazione della sanzione sostitutiva dell’espulsione senza la fissazione del termine per la partenza volontaria, salve le eccezioni sopra richiamate, da valutare caso per caso. Si tratta di aspetti pertinenti al profilo sanzionatorio del fatto-reato che, nella sua struttura essenziale, non contrasta con la direttiva in materia di rimpatri. Pertanto, la mera previsione di una sanzione penale per l'ingresso o il soggiorno illegale dello straniero nel territorio nazionale, non accompagnata da misure di rimpatrio forzato incompatibili con la normativa europea, è rispettosa dei vincoli derivanti dall'ordinamento europeo, ai sensi dell'art. 117, co. 1, Cost. (Cass. pen. 29776/2013). 2. Principio di legalità 2.1. Retroattività della lex mitior e crisi del giudicato. In via preliminare occorre chiarire che, a fondamento del principio di retroattività della norma più favorevole al reo, consacrato all’art. 2, co. 2-4, c.p., dimora il principio del favor libertatis, per il quale al cittadino deve essere assicurato il trattamento penale più mite tra quello vigente al momento del fatto e quello previsto dalle leggi successive, purché precedenti la sentenza definitiva di condanna. La medesima ratio sta alla base del principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole, anch’esso previsto dall’art. 2 c.p., al comma 1, che, rispetto al primo ha fondamento costituzionale nell’art. 25, co. 2, Cost., secondo cui nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. In realtà, sarebbe più corretto individuare la copertura costituzionale del principio nel canone di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. Infatti, deve ritenersi discriminatorio punire in maniera differenziata soggetti responsabili della medesima violazione soltanto in ragione della

 

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diversa data di commissione del reato o che, a causa del diverso tempus regit actum, uno di tali soggetti continui a essere punito mentre l’altro si sottragga a qualsiasi sanzione penale. Il principio di retroattività della legge penale più favorevole è stato scandagliato con particolare rigore in ambito sovranazionale. Ai sensi dell’articolo 46 Cedu, gli Stati contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e al Comitato dei Ministri è affidato il compito di vigilare sull’esecuzione di tali sentenze, con la conseguenza che lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico di adottare, sotto il controllo del detto Comitato, le misure generali o individuali per porre fine alla violazione constatata, eliminarne le conseguenze e scongiurare ulteriori violazioni analoghe. Quando la Corte europea, alla quale è affidato il compito istituzionale di interpretare e applicare la Cedu (art. 32), accerta violazioni della stessa connesse a problemi sistematici e strutturali dell’ordinamento giuridico nazionale, pone in essere la c.d. “procedura di sentenza-pilota”, che si propone di aiutare gli Stati contraenti a risolvere a livello nazionale i problemi rilevati, in modo da riconoscere alle persone interessate, che versano nella stessa condizione della persona il cui caso è stato già specificamente preso in considerazione, i diritti e le libertà garantite dalla Cedu, come dispone l’art. 1, offrendo loro la riparazione più rapida e alleggerendo il carico della Corte sovranazionale, che, altrimenti, dovrebbe esaminare moltissimi ricorsi sostanzialmente simili (Corte europea 22-6-2004, Broniowski c. Polonia). La giurisprudenza della Corte europea, originariamente finalizzata alla soluzione di specifiche controversie relative a casi concreti, si è caratterizzata nel tempo per una evoluzione improntata alla valorizzazione di una funzione para-costituzionale di tutela dell’interesse generale al rispetto del diritto oggettivo. Sempre più frequentemente, infatti, le sentenze della Corte, nel rilevare la contrarietà alla Cedu di situazioni interne di portata generale, danno indicazioni allo Stato responsabile sui rimedi da adottare per rimuovere la rilevata disfunzione sistemica nel proprio ordinamento interno. La tecnica delle cd. “sentenze-pilota”, affidata dapprima alla prassi, in difetto di un’esplicita base normativa, è stata recentemente formalizzata nel regolamento di procedura della Corte, emendato a tale scopo nel 2011. La necessità degli ordinamenti interni di assicurare, anche a prescindere da un intervento del giudice europeo sul caso concreto, il rispetto degli obblighi convenzionali, così come già individuati dalla Corte europea, di porre fine a persistenti violazioni degli stessi e di prevenire nuove violazioni, pone certamente delicati problemi giuridici sulla tenuta di situazioni già definite con sentenze passate in giudicato ma in palese contrasto con i diritti fondamentali tutelati convenzionalmente. La Corte costituzionale ha chiarito gli effetti prodotti dalle pronunce del giudice sovranazionale nel nostro ordinamento, nel senso di una maggiore resistenza delle norme Cedu, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, rispetto alle leggi ordinarie interne, che devono essere interpretate, ove possibile, in maniera conforme alle prime. Di fronte a violazioni della Cedu di carattere oggettivo e generale, già in precedenza stigmatizzate in sede europea, la mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte europea che si sia pronunciata su quella violazione non può essere di ostacolo a un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale (ossia, derivante dalla violazione di norme della Cedu), anche sacrificando il valore della certezza del giudicato, da ritenersi recessivo

 

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rispetto ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona. La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare quando risulti compromesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale certamente è quello che incide sulla libertà: s’impone, pertanto, in questo caso di emendare “dallo stigma dell’ingiustizia” una tale situazione. Sotto questo profilo, la sentenza della Corte europea 17-9-2009, Scoppola c. Italia, presenta i connotati sostanziali di una “sentenza pilota”. Tale pronuncia, in particolare, affronta il delicato problema dell’effettiva articolazione del principio nulla poena sine lege consacrato nell’art. 7 Cedu (“Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso”), se cioè abbia una portata meramente negativa, quale divieto di applicazione retroattiva sia della norma incriminatrice sia di un trattamento sanzionatorio più sfavorevole, ovvero se contenga anche un implicito riflesso positivo, costituito dalla esigenza di applicazione della legge sopravvenuta più favorevole. La Corte di Strasburgo, innovando la precedente giurisprudenza in senso restrittivo, afferma che tale norma: - garantisce il principio di irretroattività delle leggi penali più severe; - impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice applichi quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l’effetto che, nell’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione dell’art. 7 Cedu l’applicazione della pena più sfavorevole al reo. A tale conclusione la Corte europea perviene privilegiando, nell’interpretazione della Convenzione, un “approccio dinamico ed evolutivo”, che renda “le garanzie concrete ed effettive, e non teoriche ed illusorie”. Ne consegue la violazione dell’art. 7 nel caso in cui non venga inflitta all’imputato la pena più mite tra quelle previste dalle diverse leggi succedutesi dal momento del fatto a quello della sentenza definitiva. Nel caso esaminato nella sentenza Scoppola si sono succedute nel tempo tre diverse disposizioni di legge: a) l’art. 442, co. 2, c.p.p., dopo la declaratoria d’incostituzionalità nella parte in cui

prevedeva la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione di anni trenta (sent. 176/1991), precludeva, tra il 1991 e il 1999, l’accesso al rito abbreviato per gli imputati di delitti punibili con l’ergastolo;

b) la L. 479/1999 (legge Carotti),entrata in vigore il 2 gennaio 2000, reintroduceva la previsione, nel caso di giudizio abbreviato, della sostituzione della pena dell’ergastolo con quella della reclusione di anni trenta;

c) il D.L. 341/2000, entrato in vigore il 24 novembre 2000 e convertito dalla L. 4/2001, stabilisce, in via di interpretazione autentica, che “nell’articolo 442, co. 2 c.p.p., l’espressione "pena dell’ergastolo" deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno” e aggiunge, in chiusura del comma 2, il periodo “Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo”.

 

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Sulla base di tale quadro normativo la Corte di Strasburgo ritiene che il sig. Scoppola, essendo stato ammesso al rito abbreviato nel vigore della L. 479/1999, avrebbe avuto diritto, ai sensi dell’art. 7 Cedu, a vedersi infliggere la pena di anni trenta di reclusione, più mite rispetto sia a quella prevista (ergastolo con isolamento diurno) dall’art. 442 c.p.c. nel testo vigente al momento della commissione del fatto, sia a quella prevista (ergastolo senza isolamento diurno) dal D.L. 341/2000 in vigore al momento del giudizio. È indubbio che tale sentenza enuncia, in linea di principio, una regola di giudizio di portata generale, che, in quanto tale, è astrattamente applicabile a fattispecie identiche a quella esaminata e, quindi, il giudice dell’esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola c. Italia, può sostituire la pena dell’ergastolo, inflitta all’esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l’applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole, anche a costo di porre in crisi il “dogma” del giudicato, perché altrimenti si legittimerebbe l’esecuzione di una pena illegittima, con conseguente violazione del principio di parità di trattamento tra condannati che versano in una identica posizione. Diverso è il caso di una pena rivelatasi illegittima perché inflitta all’esito di un giudizio ritenuto dalla Corte europea non equo, ai sensi dell’art. 6 Cedu: in questa ipotesi, l’apprezzamento, vertendo su eventuali errores in procedendo e implicando valutazioni strettamente correlate alla fattispecie specifica, non può che essere compiuto caso per caso, con l’effetto che il giudicato interno può essere posto in discussione soltanto di fronte a un vincolante dictum della Corte europea su quella specifica fattispecie. Numerosi sono gli esempi nei quali la giurisprudenza ha avvertito la necessità di adeguare le pronunce dei giudici di cognizione alle norme della Cedu nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo e ha ritenuto, pertanto, di potere superare il principio della intangibilità del giudicato, anche al di fuori delle ipotesi previste dal codice di rito, tanto da pervenire, con la sentenza n. 113/2011 della Corte costituzionale, a una declaratoria d’incostituzionalità dell’articolo 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede la revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea. La crisi dell’irrevocabilità del giudicato è riscontrabile, del resto, già nell’art. 2, co. 3, c.p., secondo cui la pena detentiva inflitta con condanna definitiva si converte automaticamente nella corrispondente pena pecuniaria, se la legge posteriore al giudicato prevede esclusivamente quest’ultima, regola questa che deroga a quella posta invece dallo stesso art. 2, co. 4, c.p. (primato della lex mitior, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile). A tale novità normativa può essere accostato, in via analogica, il novum dettato dalla Corte europea in tema di legalità della pena: in entrambi i casi, l’esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell’esecuzione di una pena contra legem prevale sulla tenuta del giudicato, che deve cedere, anche in executivis, alla più alta valenza fondativa dello statuto della pena. Tale principio, d’altra parte, è stato già affermato da Cass. pen. 27-10-2011, Hauohu, che ha ravvisato il potere del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena inflitta a chi sia stato condannato per un delitto aggravato dalla propria condizione di clandestinità ex art. 61, n. 11bis, c.p., in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità di tale aggravante (sent. n. 249/2010), con eliminazione della frazione di pena in eccesso, da considerarsi illegittima e, pertanto, non eseguibile.

 

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In forza dello stesso principio, consolidato è l’orientamento giurisprudenziale circa la possibilità di emendare, in sede esecutiva, l’illegalità della pena accessoria inflitta con condanna irrevocabile (Cass. pen. 13-10-2010, Di Marco). Questa prospettiva ha ora ricevuto conferma con la sentenza 210/2013 della Corte costituzionale, che ha ritenuto ammissibile una modifica parziale del giudicato, nel quadro dell’incidente di esecuzione, a fronte del sopravvenuto accertamento, ad opera della Corte europea, dell’illegittimità convenzionale della norma sanzionatoria applicata dal giudice della cognizione, la quale si traduce in una sua illegittimità costituzionale per effetto dell’art. 117, co. 1, Cost. Pertanto, l’accertamento sopravvenuto, da parte della Corte costituzionale, della Corte di giustizia europea o della Corte europea dei diritti dell’uomo, della totale o parziale illegittimità costituzionale, convenzionale o europea, della norma penale applicata dal giudice, nella sua parte precettiva o sanzionatoria, rende illegittima anche l’esecuzione della pena. 2.2. Uso di gruppo di sostanze stupefacenti. Il principio di legalità è venuto in rilievo, sotto il profilo della determinatezza della fattispecie, con riferimento al reato di consumo di gruppo di sostanze stupefacenti. La norma di riferimento (art. 75 d.P.R. 309/1990), infatti, contiene espressioni “elastiche”, che hanno dato vita a interpretazioni opposte. Sul tema sono intervenute recentemente le Sezioni Unite (Cass. pen. S.U. 25401/2013), affermando che il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nell’ipotesi di acquisto congiunto e in quella di mandato all’acquisto collettivo a uno dei consumatori, non è penalmente rilevante ma integra l’illecito amministrativo sanzionato dall’art. 75 d.P.R. 309/1990, a condizione che: a) l’acquirente sia uno degli assuntori; b) l’acquisto avvenga sin dall’inizio per conto degli altri componenti del gruppo; c) sia certa sin dall’inizio l’identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all’acquisto. Questo intervento a Sezioni Unite si è reso necessario per dirimere il contrasto tra quell’orientamento secondo il quale il consumo di gruppo di stupefacenti è penalmente rilevante sia nell’ipotesi del mandato all’acquisto sia nell’ipotesi dell’acquisto in comune e la diversa tesi secondo la quale il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nel caso di acquisto in comune sia in quello del mandato all’acquisto collettivo a uno degli assuntori e nell’originaria conoscenza dell’identità degli altri, costituisce un’ipotesi di uso esclusivamente personale dei partecipanti al gruppo, e quindi integra l’illecito amministrativo di cui all’art. 75 e non il reato di cui all’art. 73, co. 1 bis. Le Sezioni Unite hanno abbracciato questa seconda tesi, criticando l’affermazione secondo la quale l’“uso non esclusivamente personale” (penalmente rilevante) dovrebbe essere interpretato nel senso di “uso non individuale”. In realtà, per escludere il reato è necessario che la droga sia destinata totalmente (esclusivamente) all’uso personale e neppure in parte alla cessione a soggetti terzi estranei all’acquisto ed alla detenzione. L’avverbio “esclusivamente”, dunque, evidenzia che la non punibilità riguarda solo i casi in cui la sostanza non è destinata a terzi ma all’utilizzo personale degli appartenenti al gruppo che la codetengono. Su questo argomento erano già intervenute le Sezioni Unite con la sentenza 28-5-1997 (p.m. nel proc. Iacolare) che aveva affermato la rilevanza amministrativa della condotta

 

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dell’appartenente al gruppo che assuma l’incarico di procedere materialmente all’acquisto della droga da destinare all’uso comune. A tale sentenza si richiamano anche le Sezioni Unite del 2013. Secondo la sentenza Iacolare sussiste l’illecito amministrativo di cui all’art. 75 d.P.R. 309/1990, e non il reato previsto dall’art. 73 dello stesso d.P.R., non solo nel caso di “acquisto contestuale” di sostanza stupefacente per uso personale da parte di tutti gli appartenenti a un gruppo, ma anche in quello in cui solo alcuni dei componenti del gruppo avevano proceduto all’acquisto della sostanza per conto (su mandato) degli altri e poi avevano proceduto alla materiale suddivisione della stessa. Pertanto, anche nell’ipotesi del “mandato ad acquistare” il fatto doveva considerarsi solo amministrativamente rilevante, dovendosi applicare agli acquirenti in nome e per conto degli altri appartenenti al gruppo la disciplina civilistica del “mandato” e i relativi effetti quanto all’acquisto e alla disponibilità della sostanza. Tutti gli appartenenti al gruppo, fin da subito, in virtù del mandato conferito, acquistano la disponibilità pro quota della sostanza, con l’effetto che la successiva ripartizione per l’uso in comune deve considerarsi penalmente non significativa. Dopo la modifica dell’art. 73 d.P.R. 309/1990 ad opera della L. 49/2006 la questione del trattamento sanzionatorio dell’uso di gruppo era stata rivisitata dalla giurisprudenza. Infatti, la fattispecie incriminatrice (art. 73, co. 1bis, lett. a), d.P.R. 309/1990) è configurata come sussistente, tra l’altro, quando la condotta, per il quantitativo della sostanza o per gli altri parametri di riferimento, sia dimostrativa di un “uso non esclusivamente personale” della sostanza stupefacente. Ciò comportava, secondo alcuni, il superamento dell’orientamento giurisprudenziale espresso dalla sentenza Iacolare, che restringeva l’”uso di gruppo” in ambito esclusivamente amministrativo. Dalla norma incriminatrice riformulata dalla L. 49/2006 si faceva discendere, infatti, la rilevanza penale dell’uso che non fosse esclusivamente “personale” (individuale), poiché – si diceva - il legislatore, con questa espressione, aveva preso una posizione negativa nei confronti della rilevanza solo amministrativa delle condotte in genere riconducibili all’”uso di gruppo”. Con il che doveva ammettersi la rilevanza penale non solo dell’uso di gruppo qualificato dal conferimento, esplicito o implicito, da parte degli appartenenti al gruppo, del “mandato ad acquistare” la droga solo a uno o ad alcuni degli appartenenti al gruppo, ma anche dell’”uso di gruppo collettivo”, qualificato dall’acquisto in comune della droga da parte di tutti gli appartenenti al gruppo per l’assunzione in comune. Nell’uno come nell’altro caso, infatti, l’uso non sarebbe esclusivamente “personale”, e, per l’effetto, sarebbe comunque di rilevanza penale. Una conferma di tale opzione ermeneutica la si ricavava dal “nuovo” art. 75, co. 1, d.P.R. 309/1990, laddove il fatto amministrativo è costruito eccettuando le ipotesi “di cui all’art. 73, co. 1bis”, quindi anche le ipotesi di detenzione destinate “a un uso non esclusivamente personale”. In realtà, la disciplina normativa di riferimento non è affatto chiara e sono intervenute nuovamente le Sezioni Unite nel 2013, confermando che non sono punibili penalmente, e rientrano pertanto nella sfera dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75, l’acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti destinate all’uso personale che avvengano fin dall’inizio anche per conto di soggetti diversi dall’agente, quando è certa fin dall’inizio l’identità dei medesimi nonché manifesta la loro volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo, perché l’omogeneità della condotta dell’acquirente rispetto allo scopo degli altri componenti del gruppo caratterizza la detenzione quale codetenzione e impedisce che il

 

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primo si ponga in rapporto di estraneità e, quindi, di diversità rispetto ai secondi, con conseguente impossibilità di connotare la sua condotta quale cessione. Qualora, invece, l’acquirente non sia anche uno degli assuntori o abbia effettuato l’acquisto senza averne ricevuto mandato dagli altri, non sarebbe ravvisabile un’omogeneità teleologia tra le condotte e la consegna della droga sarebbe qualificabile come cessione, sia pure gratuita, o spaccio. Occorre quindi che l’acquirente sia uno degli assuntori, che l’acquisto avvenga fin dall’inizio per conto degli altri componenti il gruppo, al cui uso personale la sostanza è destinata, e che quindi sia certa sin dall’inizio l’identità di questi altri soggetti i quali abbiano in un qualunque modo manifestato la volontà sia di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi sia di concorrere ai mezzi finanziari occorrenti all’acquisto. Ricorre, invece, una normale ipotesi di cessione qualora tutte queste condizioni non si verifichino, come nel caso in cui il soggetto abbia ceduto per il consumo in comune sostanza di cui era autonomamente in possesso per averla acquistata senza alcun mandato degli altri, ovvero abbia acquistato su mandato di terzi ma senza essere a sua volta assuntore, ovvero abbia ceduto parte della droga a soggetti estranei al gruppo dei mandanti. Del resto, stante il significato equivoco delle espressioni utilizzate dall’art. 73, questa tesi appare più conforme ai principi di tassatività, di legalità e di riserva di legge, evitando che sia rimessa al giudice l’enucleazione in malam partem della norma incriminatrice. 2.3. Il maltrattamenti verso i dipendenti è maltrattamento verso familiari o conviventi? Il principio di determinatezza e tassatività della fattispecie penale è messo a dura prova da una fattispecie di frequente applicazione, qual è l’art. 572 c.p., che punisce i maltrattamenti contro familiari e conviventi. In particolare, si è posto il problema di stabilire se le condotte persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione, pur essendo astrattamente riconducibili alla nozione di mobbing, sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata (c.d. straining), secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale possono integrare il delitto di maltrattamenti verso familiari o conviventi (art. 572 c.p.) soltanto qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura parafamiliare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (Cass. 6-2-2009, Perotti; 22-9-2010; 10-10-2011; 11-4-2012). La modulazione di tale rapporto, dunque, avuto riguardo alla ratio della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità” o “convivenza”, poiché è soltanto nel limitato contesto di un tale rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: si pensi, in via esemplificativa, al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista. L’inserimento di tale figura criminosa tra i delitti contro l’assistenza familiare si pone in linea, del resto, con il ruolo che la stessa Costituzione assegna alla “famiglia”, quale società intermedia destinata alla formazione e all’affermazione della personalità dei suoi

 

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componenti, e nella stessa prospettiva ermeneutica vanno letti ed interpretati soltanto quei rapporti interpersonali che si caratterizzano, al di là delle formali apparenze, per una natura parafamiliare. Siffatta connotazione, tuttavia, deve escludersi se la posizione lavorativa è inquadrata all’interno di una realtà aziendale complessa, la cui articolata organizzazione — attraverso la previsione di “quadri intermedi” — non implica l’instaurarsi di quella stretta e intensa relazione diretta tra il datore di lavoro e il dipendente, che appare in grado di determinarne una comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare. Ne discende il manifestarsi di una realtà connotata da una marginalizzazione dell’intensità dei rapporti intersoggettivi, nel senso che non ne viene esaltato quell’aspetto personalistico strettamente connesso alla dinamica relazionale “supremazia-soggezione”, individuabile fra soggetti che si trovano ad operare su piani diversi. Se, da un lato, l’art. 572 c.p. ha “allargato” l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endofamiliare, è pur vero, dall’altro, che la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti in materia familiare ed espressamente indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli, sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di un generico rapporto di subordinazione/sovraordinazione. Da qui la ragione dell’indicazione del requisito della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse, ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell’art. 572 c.p. di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile (il c.d. mobbing in una realtà lavorativa), con evidente profilo di irragionevolezza del sistema (Cass. pen. 28-3-2012). Né infine, potrebbero trarsi, al riguardo, argomenti in senso contrario dall’analisi della recente interpolazione del testo normativo attraverso la modifica introdotta dalla L. 172/2012, recante “ratifica ed esecuzione della convenzione del consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno”. La legge citata ha sostituito l’art. 572 c.p., novellandone la rubrica, ora denominata “maltrattamenti contro familiari e conviventi”, e aggiungendo i conviventi nel novero dei soggetti passivi del reato, ma la natura abituale e la struttura del reato di maltrattamenti (prima “in famiglia o verso fanciulli”, ora “contro familiari e conviventi”) sono rimaste sostanzialmente immutate. Le novità, infatti, riguardano essenzialmente l’inasprimento del trattamento sanzionatorio e l’estensione della tutela nei confronti di persone “comunque conviventi”, in una prospettiva orientata, per un verso, a valorizzare l’incidenza della relazione intersoggettiva nell’ambito di operatività della fattispecie, e, per altro verso, ad allargare anche ad un rapporto di mera “convivenza” — non necessariamente qualificato dalla particolare natura del legame che ha portato alla sua instaurazione — la rilevanza del

 

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rapporto “familiare”, ferme restando le altre relazioni di tipo non propriamente familiare, la cui elencazione è rimasta immutata. Peraltro, esclusa la configurabilità del delitto di maltrattamenti, la condotta vessatoria non è, nei suoi contorni storico-fattuali, necessariamente irrilevante sul piano giuridico. Al riguardo, invero, sulla base di una costante linea interpretativa, deve rilevarsi che nella materialità del delitto di cui all’art. 572 c.p. rientrino non soltanto percosse, minacce, ingiurie, privazioni imposte alla vittima, ma anche atti di scherno, disprezzo, umiliazione ed asservimento idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali alla vittima. Ne consegue che è riservato alla valutazione del giudice di merito accertare se singoli episodi vessatori rimangano assorbiti nel reato di maltrattamenti (ad esempio, lesioni non volute) o integrino, invece, ipotesi criminose autonomamente volute dall’agente e, pertanto, concorrenti con il delitto di cui all’art. 572 c.p. (Cass. 29-5-1990, Penna). In tale prospettiva si è più volte affermato che il delitto di lesioni personali volontarie non può ritenersi assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia, trattandosi di illeciti che concorrono materialmente tra loro per la diversa obiettività giuridica (Cass. pen. 7-5-1986, Vita), così da configurare un reato autonomo in concorso materiale con quello di maltrattamenti (Cass. pen. 11-5-2004, Di Bella; 28-3-2012). Pertanto, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. mobbing) possono integrare il delitto di cui all'art. 572 c.p., anche nel testo modificato dalla L. 172/2012 esclusivamente se, il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assume natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense e abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Cass. pen. 28-3-2013, n. 28603). 2.4. Il delitto di stalking. Di non agevole individuazione è la condotta tipica del delitto di atti persecutori (c.d. stalking) previsto dall’art. 612bis c.p. La Cassazione, con una recente pronuncia (Cass. pen. 4-4-2013, n. 27798) ha affermato che, se è vero che per la configurabilità del reato si richiede la reiterazione delle condotte di violenza e minaccia, è altresì evidente che non occorre una lunga sequela di azioni delittuose per ritenere integrato il reato, essendo sufficiente che esse siano di numero e consistenza tali da ingenerare nella vittima il fondato timore di subire offesa alla propria integrità fisica o morale e da provocare nella stessa un perdurante e grave stato d’ansia, ovvero un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto. Per colorare la condotta di un sufficiente grado di determinatezza e tassatività, non può ritenersi sufficiente una qualunque condotta che costringa la persona offesa a modificare le proprie abitudini di vita, ma occorre un mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana, quale può riconoscersi, ad esempio, nell’avvertita necessità, da parte della vittima, di utilizzare per i propri spostamenti percorsi diversi da quelli abituali, ovvero di modificare gli orari per lo svolgimento di determinate attività, come pure di cessarle del tutto, ovvero ancora di staccare gli apparecchi telefonici nelle ore notturne (Cass. pen. 27-11-2012, n. 20993). Questa opzione privilegia un’opzione ricostruttiva della fattispecie in termini di reato di evento, abbracciando la tesi di una parte della dottrina (VALSECCHI, Il delitto di atti persecutori (il c.d. stalking), in MAZZA-VIGANÒ, Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, Torino, 2009, 243), e si discosta dal prevalente orientamento giurisprudenziale

 

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che, invece, predilige un’interpretazione in termini quantitativi del concetto di “reiterazione” (Cass. pen. 21-1-2010; Cass. pen. 7-4-2011). In dottrina, il requisito della reiterazione è stato particolarmente valorizzato da MAUGERI, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, 161, che lo interpreta in una dimensione maggiormente conforme ai principi di tipicità e offensività nel momento in cui l’autrice sottolinea che “la reiterazione ostinata rappresenta il fattore empirico criminologico che è stato assunto dal legislatore ad elemento su cui si fonda, che attribuisce il diverso e maggiore disvalore dello stalking a condotte che altrimenti potrebbero, al limite, integrare le meno gravi fattispecie di minaccia e molestie; rappresenta l’elemento ... su cui si impernia l’offesa agli interessi tutelati, il nucleo di disvalore, il tipo di offesa descritto nella fattispecie in esame”. In relazione al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, misura cautelare prevista dall’art. 282ter c.p.p. e finalizzata, tra l’altro, alla repressione dei fatti di stalking, secondo un orientamento (Cass. pen. 4-4-2013) il provvedimento che pone all’indagato il divieto di avvicinarsi a tutti i luoghi frequentati dalla persona offesa senza di indicarli in maniera specifica deve considerarsi nullo per la sua indeterminatezza, dal momento che la norma in questione, nella parte in cui esige espressamente l’indicazione di “luoghi determinati”, è da considerare sostanzialmente violata (Cass. pen. 7-4-2011): in altri termini, esprimendo in termini negativi il medesimo principio, se si tratta di luoghi ben conosciuti dall’obbligato e chiaramente identificabili — come, nel caso di specie, la dimora della persona offesa, il suo luogo di lavoro e la dimora dei suoi prossimi congiunti — il provvedimento applicativo della misura non può dirsi affetto da genetica indeterminatezza. Tuttavia, in giurisprudenza non sono mancate prese di posizione decisamente più rigorose assunte con riferimento all’applicazione della misura cautelare ex art. 282ter c.p.p. proprio in relazione a fattispecie di stalking (Cass. pen. 16-1-2013), nell’ambito delle quali è stata sostenuta l’irrilevanza dell’individuazione specifica di luoghi di abituale frequentazione della persona offesa, sulla base dell’argomento per cui la ratio della misura in questione sarebbe quella di vietare l’avvicinamento alla vittima nel corso della sua vita quotidiana, ovunque essa si svolga, nei casi in cui la condotta dello stalker abbia i connotati di una persistente e invasiva ricerca di contatto in qualsiasi luogo in cui essa si trovi. Con la norma in questione, dunque, il legislatore prenderebbe atto dell’insufficienza di una tutela “statica” dell’incolumità della vittima, laddove le circostanze rendano concreto il pericolo di un’aggressione della stessa nel corso dello svolgimento della sua vita di relazione. Peraltro, una simile opzione ricostruttiva non troverebbe smentita nella direttiva del parlamento europeo e del consiglio Ue n. 2001 del 13 dicembre 2011, in tema di “ordine di protezione europeo”, il cui art. 5, lett. c), prevede in particolare che un ordine di protezione europeo possa essere emesso solo se nello Stato di emissione è stata precedentemente adottata una misura di protezione che imponga all’aggressore “il divieto ... dell’avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro definito”: secondo i giudici di legittimità la direttiva ben si adatta al contenuto della misura cautelare previsto dall’art. 282 ter c.p.p. dal momento che essa si limita a richiedere soltanto una definizione del “perimetro” all’interno del quale scatta la protezione (come accade nelle ipotesi in cui sia prescritto a taluno di rimanere ad una distanza minima esattamente quantificata dal soggetto a tutela del quale viene emesso il provvedimento).

 

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Poiché, però, in ragione della peculiarità del reato di stalking è assolutamente imprevedibile che le due persone vengano occasionalmente in contatto, sarebbe più ragionevole - oltre che “di maggior garanzia per gli stessi diritti di colui che viene gravato dal divieto” - imporre allo stalker il divieto di avvicinarsi a tutti i luoghi frequentati dalla vittima o comunque di allontanarsi da detti luoghi in ogni occasione di incontro. Questa tesi, individuando nella stessa persona offesa (e non nei luoghi da essa frequentati) il riferimento centrale del divieto di avvicinamento, è certamente ispirata più ad una tutela sostanziale della vittima che ai presupposti formali di applicabilità della misura. Tuttavia, a parte l’assoluta impossibilità di prevedere il “come”, il “dove” e “quante volte” la vittima e il carnefice possano occasionalmente incontrarsi, non si può fare a meno di considerare come essa si ponga in torsione col principio per il quale la tutela costituzionale della libertà personale, intesa come diritto inviolabile del cittadino, comporta che ogni restrizione di essa vada adottata nei casi e modi previsti dalla legge, con esclusione quindi di ogni possibilità di interpretazione estensiva o analogica (Cass. pen. 15-2-1988). 2.5. Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale. Il divieto di analogia in malam partem che vige nel sistema penale, corollario del principio di legalità, ha fatto ritenere che, a fronte della mera omissione della denuncia di un reato da parte di un pubblico ufficiale, in assenza di elementi idonei a dimostrare che tale condotta mirasse ad aiutare il reo, ad eludere le investigazioni e assicurarsi il profitto del reato stesso, non è integrato il delitto di favoreggiamento. È configurabile, al più, il reato di omessa denuncia se ricorrono tutti gli elementi di tale specifico reato. Se, ad es., un appartenente alla polizia di Stato subisce il furto della propria autovettura e, una volta contattato da chi ne ha la disponibilità, paga una somma di denaro per ottenerne la restituzione, senza denunciare l’estorsione ai suoi danni, non sussiste il reato di omessa denuncia qualora egli abbia acquisito la notizia di reato a seguito di una conversazione di natura privata, svoltasi al di fuori dell’esercizio delle funzioni e non connessa in alcun modo ad esse. Infatti, gli appartenenti alla polizia di stato, non essendo quest’ultima una struttura militare, non possono ritenersi in servizio permanente effettivo fuori dall’esercizio delle funzioni (Cass. pen. 15923/2013). Con riferimento alla configurabilità del reato di favoreggiamento, anche se su un piano astratto dovesse ritenersi l’omissione di denuncia quale azione mirata in favore del reo, varrebbe il principio di specialità: avremmo cioè un concorso di norme che non potrebbe che risolversi mediante il principio di specialità in favore della norma che prevede espressamente la condotta “speciale”, ovvero il reato di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale di cui all’art. 361 c.p. L’esclusione che la condotta di omissione di denuncia integri di per sé il favoreggiamento riguarda, ovviamente, la sua configurazione in astratto, mentre non è da escludere che, in casi concreti, tale omissione rappresenti, in tutto od in parte, la “condotta mirata” a favorire il reo. Al riguardo, e proprio con riferimento alla condotta del pubblico ufficiale che rivesta anche la qualifica di polizia giudiziaria, vanno citate due decisioni, le quali affermano che, laddove la condotta integri sia il favoreggiamento che l’omessa denunzia, va applicato solo il primo e più grave reato. In un primo caso, si legge: “atteso che l’intera condotta antigiuridica della ricorrente appare inquadrabile in un contesto di favoreggiamento, il reato di omessa denuncia attribuito all’imputata dovrebbe, se finalizzato anch’esso a favorire l’indagato, essere sussunto per

 

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assorbimento nel più grave contestato reato di favoreggiamento di cui all’art. 378 c.p.” (Cass. 2-7-2012, B. e altri). L’”intera condotta” consisteva in una pluralità di attività specificamente finalizzate a consentire al “favorito” di eludere le indagini. In un secondo caso, invece, un dipendente della polizia di Stato non solo “ostacolava le investigazioni dell’autorità ... ritardando nell’inviare la relazione di servizio” ma le sviava perché escludeva espressamente “che il fatto potesse essere dovuto a un attentato dinamitardo” ed in questo contesto ometteva “di denunciare il danneggiamento dell’autovettura”; in conseguenza, la corte affermava: “ la condotta di favoreggiamento è consistita nell’omessa denuncia dell’attentato da parte dell’imputato, sicché la fattispecie di cui all’art. 361 c.p. risulta assorbita in quella di cui all’art. 378 c.p.” (Cass. 16-6-2011, Bevilacqua). In entrambe le vicende l’omissione della denuncia faceva parte della più ampia condotta espressamente mirata, nell’intenzione dei responsabili, al favoreggiamento. Quest’ultimo reato, del resto, è “a condotta libera” per cui è possibile che la condotta mirata al favoreggiamento integri, in tutto o in parte, un altro reato; e, rispetto alla configurabilità nel caso concreto di più reati, nelle due sentenze citate è stata esclusa l’applicazione del reato meno grave non in base al criterio di specialità ex art. 15 c.p. (che rileva in astratto) ma in base al criterio dell’assorbimento, che riguarda l’interferenza in concreto fra le più fattispecie criminose (ovvero l’applicazione sostanziale del principio processuale del ne bis in idem). In questi casi, quindi, si è fatto riferimento al principio di assorbimento, ritenendo che, nel caso concreto, il reato a condotta libera (il favoreggiamento) più grave esaurisse compiutamente l’intero disvalore del fatto. 2.6. L’acquisto di prodotti con marchi contraffatti. Sempre sul crinale dell’esatta individuazione della norma applicabile, in ossequio al principio di stretta legalità del diritto penale, si pone il problema di stabilire se l’acquirente finale di un prodotto con marchio contraffatto, o comunque di origine e provenienza diversa da quella indicata, risponda dell'illecito amministrativo previsto dall’art. 1, co. 7, D.L. 35/2005, conv. in L. 80/2005, poi modificato dalla L. 99/2009, di ricettazione (art. 648 c.p.) o di acquisto di cose di sospetta provenienza (art. 712 c.p.). La giurisprudenza più recente ritiene configurabile l’illecito amministrativo, per la prevalenza del primo rispetto ai predetti reati alla luce del rapporto di specialità desumibile, oltre che dall'avvenuta eliminazione della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca reato”, dalla precisa individuazione del soggetto agente e dell'oggetto della condotta nonché dalla rinuncia legislativa alla formula “senza averne accertata la legittima provenienza”, il cui venir meno consente di ammettere indifferentemente dolo o colpa. Questa tesi è stata abbracciata da Cass. S.U. 22225/2012, che ha ricostruito la vicenda legislativa che aveva preso le mosse dall’intervento del D.L. 35/2005, con cui era stata introdotto l’illecito amministrativo dell’acquisto di prodotti con segni distintivi contraffatti o di provenienza diversa da quella indicata sui beni. La sentenza ha evidenziato che il percorso legislativo della norma, destinata a rafforzare il sistema di lotta contro la contraffazione, si è caratterizzato per una più intensa repressione delle condotte poste in essere dai soggetti diversi dagli acquirenti finali, per la progressiva eliminazione, nell’individuazione della condotta illecita, della condizione di consapevolezza relativa alla provenienza illegittima dei prodotti, per l’esclusione della clausola di riserva, inizialmente prevista nella formulazione della disposizione per l’ipotesi di acquisto da parte

 

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degli acquirenti finali, poi eliminata per costoro e introdotta per la prima volta, invece, per le fattispecie concernenti i soggetti diversi dagli acquirenti finali. Analizzando queste specificità della progressiva sistemazione del dettato normativo, la decisione ha individuato due profili decisivi per sostenere il carattere speciale della fattispecie descrittiva dell’illecito amministrativo rispetto alla figura delittuosa della ricettazione. Il primo è rappresentato dall’inserimento dell’illecito amministrativo ex art. 1, co. 7, D.L. 35/2005 per un fatto che in precedenza ricadeva nell’orbita della norma penale (circostanza rilevante ai fini dell’individuazione della specialità dell’illecito amministrativo, in quanto operante “in tutti i casi in cui, ad una condotta penalmente sanzionata, si aggiunga una disciplina normativa che la preveda anche come violazione di natura amministrativa. A meno che il legislatore abbia inteso affiancare la sanzione amministrativa a quella penale, l’interprete deve privilegiare l’interpretazione che valorizza la specialità, ritenendo la depenalizzazione della condotta in precedenza costituente reato che sia presa in considerazione dalla nuova normativa e, nel caso inverso, optando per la sola ipotesi penalmente sanzionata (Cass. S.U. 28-10-2010, Di Lorenzo). Il secondo aspetto riguarda le differenze strutturali tra il delitto di ricettazione e l’illecito amministrativo (differenze che toccano il soggetto responsabile della violazione amministrativa, ossia solo l’acquirente finale; l’oggetto materiale della condotta illecita, rappresentato da un particolare genus di beni di provenienza illecita; il requisito psicologico, indifferente per la configurazione dell’illecito amministrativo che si realizza sia per dolo che per colpa), che fanno ulteriormente risaltare il carattere di specialità della norma sanzionata in via amministrativa. Infine, in uno sforzo di armonizzazione del sistema penale e amministrativo destinato al contrasto della contraffazione nella materia della proprietà industriale ed intellettuale, la decisione segnala il parallelismo che, sulla scorta dell’interpretazione prescelta, si stabilisce rispetto alla disciplina dettata in materia di acquisto di prodotti realizzati in violazione di opere tutelate dal diritto d’autore, dove la condotta realizzata a uso esclusivamente personale — a differenza delle condotte realizzate a fini di commercializzazione — costituisce illecito amministrativo ai sensi dell’art. 174ter L. 633/1941 (Cass. 30-4-2009, Cannariato). Dispensa giurisprudenziale La retroattività della lex mitior si applica anche all'illecito amministrativo? Trib. Cremona 11-9-2013, n. 447

SOLLEVA

eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 1 L. 689/1981, in quanto contrastante con gli art. 3 e 117 Costituzione, in relazione all’art. 7 Cedu, all’art. 15 del Patto internazionale dei diritti civili e politici e all’art. 49 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

MOTIVI

 

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L’art. 1 L. 689/1981, intitolato “principio di legalità”, prevede che nessuno possa essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Non viene ripetuto perciò il principio dell’applicazione retroattiva della lex mitior, ossia l’applicazione della legge successiva più favorevole all’autore della violazione (art. 2, co. 2, c.p.). Tale lacuna deve ritenersi in contrasto con l’art. 3 Cost. e col principio di ragionevolezza e uguaglianza. Malgrado la Corte costituzionale si sia già pronunciata in senso negativo sul punto (Corte cost. 501/2002, 245/2003), si ritiene che l’evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni, anche della stessa Consulta, imponga di riconsiderare la questione. Infatti la Corte (Corte cost. 393/2006), occupandosi della legittimità costituzionale della L. 251/2005, ha recentemente chiarito che la retroattività della legge più favorevole, pur non essendo prevista espressamente dalla costituzione (a differenza dell’irretroattività della legge sfavorevole), nemmeno in ambito penale, deve comunque considerarsi espressione di un principio generale dell’ordinamento, legato ai principi di materialità e offensività della violazione, dovendosi adeguare la sanzione alle eventuali modificazioni della percezione della gravità degli illeciti da parte dell’ordinamento giuridico. Sebbene il principio dell’applicazione retroattiva della lex mitior non sia assoluto, ha spiegato in quell’occasione la Corte, a differenza di quello di cui all’art. 2, co. 1, c.p. (e art. 25, co. 2, Cost.), che la sua deroga deve essere giustificata da gravi motivi di interesse generale (Corte cost. 393/2006, 236/2011), dovendo in tal senso superare un vaglio positivo di ragionevolezza e non un mero vaglio negativo di non manifesta irragionevolezza. Devono cioè essere individuati gli interessi superiori, di rango almeno pari a quello del principio in discussione, che ne giustifichino il sacrificio. Non si ravvisano tuttavia nella specie motivi tali da supportare il sacrificio al trattamento più favorevole, come dimostra anche la considerazione che, in altri settori, il legislatore ha recentemente introdotto norme del tenore dell’art. 2, co. 2, c.p. Possono citarsi l’art. 23bis d.P.R. 148/1988 (introdotto dall’art. 1 L. 326/2000) in materia di illeciti valutari, l’art. 3 D.Lgs. 472/1997 sulle violazioni tributarie (Cass. 1656/2013), l’art. 46 D.Lgs. 112/1999 in materia di concessioni del servizio di riscossione, l’art. 3 D.Lgs. 231/2001 in materia di responsabilità amministrativa degli enti per illecito penale. Malgrado si tratti di settori speciali, non sussiste una differenza ontologica tra gli illeciti amministrativi oggetto delle norme citate e la disciplina generale della L. 689/1981, né si rinvengono motivi di interesse generale tali da giustificare il diverso trattamento. Sussiste quindi violazione dell’art. 3 Cost. anche per ciò che riguarda il principio di uguaglianza, assunte le norme citate come tertium comparationis. Circa il fatto che le sentenze sopra richiamate riguardano specificatamente la materia penalistica, non pare che ciò possa costituire un serio ostacolo alla loro applicazione anche al settore degli illeciti amministrativi. La dottrina italiana si è infatti da tempo orientata nel senso di ritenere che non sussiste una differenza ontologica tra illeciti penali e illeciti amministrativi, sicché la scelta del legislatore di sanzionare una certa condotta tramite l’una o l’altra sanzione dipende e deve essere ispirata unicamente al principio di sussidiarietà (bisogno e meritevolezza di pena), nell’ottica di un diritto penale minimo.

 

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I tradizionali corollari del principio di legalità e riserva di legge in materia penale, pertanto, sebbene in passato siano stati riferiti alla sola materia penale, tendono oggi invece ad essere considerati espressione di limiti generali al potere punitivo dello Stato, e ciò anche con riferimento all’applicazione retroattiva della lex mitior, nel senso che l’essenza afflittiva della potestà sanzionatoria – anche amministrativa - dovrebbe essere rapportata alla valutazione che storicamente l’ordinamento operi della condotta che intende reprimere. Le stesse norme sopra citate che, nel corso degli anni, hanno esteso l’applicazione retroattiva della lex mitior anche a specifici settori di illecito amministrativo sono segno di questa evoluzione della sensibilità giuridica. Tale omogeneità tra illecito penale e amministrativo, dal punto di vista delle garanzie minime, connota del resto anche il quadro sovranazionale, ove pure interessanti argomenti possono trarsi dall’evoluzione della giurisprudenza della Cedu sull’art. 7 della Convenzione (sentenza Scoppola c. Italia 2009 e Mihai Roma c. Romania 2012), anche alla luce dell’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e dell’art. 49 della Carta di Nizza. Va premesso che la Corte di Strasburgo ha più volte ricordato che l’applicazione delle garanzie previste dall’art. 7 non dipende dalla qualificazione da ciascun ordinamento attribuita all’illecito e alle sue conseguenze sanzionatorie, altrimenti sarebbe assai semplice per gli Stati eludere i dettami della Convenzione. La Corte ha quindi elaborato una nozione autonoma di materia penale, legata a parametri sostanziali, tra cui la natura del precetto violato e la gravità della sanzione prevista, con la conseguenza che il nomen iuris attribuito da ciascun ordinamento ad una fattispecie afflittiva non è che il punto di partenza per valutare la concreta applicabilità delle garanzie convenzionali. Così, con riferimento alla natura della precetto violato, la Corte ha ritenuto fondamentale che la norma sia diretta alla generalità dei consociati e che il precetto abbia finalità preventiva, repressiva, punitiva (cfr Corte EDU Ziliberg c. Moldavia, Corte EDU Paykar Yev c. Armenia). Nel determinare il carattere penale o meno di una sanzione cioè, la Corte ne considera l’afflittività, usando come stella polare il finalismo della sanzione stessa, ricostruendo in termini di dissuasione e al tempo stesso di repressione, secondo un modello tipicamente punitivo. Quanto alla gravità della sanzione, non è necessario ch’essa comporti la privazione della libertà personale (cfr Corte EDU Kadubec c. Slovacchia), essendo sufficiente che il soggetto subisca anche solo delle conseguenze finanziarie, tenendosi presente che comunque non va considerata la sanzione in concreto applicata, ma la sanzione più grave che l’ordinamento avrebbe potuto applicare. Se dunque si fa applicazione di tali criteri agli illeciti amministrativi e alle relative sanzioni, non vi è alcuna difficoltà a ritenere che anch’essi rientrino nel fuoco dell’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. D’altro canto, tornando alla giurisprudenza della Corte EDU sull’art. 7, non può trascurarsi che, nel 2009, con la sentenza 2009 Scoppola c. Italia, la Corte stessa, in parte mutando propri precedenti orientamenti, ha espressamente affermato che il principio dell’applicazione della legge più favorevole al reo deve considerarsi implicito nell’art. 7 della Convenzione, anche alla luce dell’importanza acquisita dal principio in parola nel panorama giuridico europeo e internazionale. Il revirement è stato giustificato proprio anche dalla necessità di adeguare il sistema di tutele CEDU alle altre carte dei diritti presenti nel panorama internazionale (ad es. art.

 

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15 Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici, art. 49 Carta dei Diritti dell’Unione Europea). Trattasi di una decisione ispirata al c.d. maximum standard, ossia all’esigenza di conformare il livello di tutela assicurato dalle norme convenzionali a quello riconosciuto da analoghe e omologhe disposizioni di matrice sovranazionale, che, nel caso di specie, hanno espressamente innalzato il principio dell’applicazione della lex mitior al rango di principio fondamentale del diritto penale, nell’accezione sopra esposta (lo stesso iter argomentativo del resto di Corte cost. 393/2006). Il tutto è stato quindi confermato in tempi recenti nella sentenza Corte europea 2012 Mihai Toma c. Romania, dove espressamente si afferma che l’art. 7 della Convenzione, da un lato, proibisce l’applicazione retroattiva della legge penale che vada a detrimento dell’accusato, dall’altro “garantisce l’applicazione della legge più favorevole al reo”, con una statuizione lapidaria che sembra superare anche i residui margini di discrezionalità che la Corte Costituzionale aveva lasciato al legislatore nella sentenza 236/2011 (bilanciamento con altri interessi di pari rango). L’acquisita natura di garanzia convenzionale del principio della retroattività della lex mitior, unitamente all’inclusione dell’illecito amministrativo e delle relative sanzioni nella materia penale ai sensi della Convenzione, comporta quindi la necessità di riconsiderare – superandolo - l’orientamento giurisprudenziale consolidato (Cass. 6712/1999, S.U. 890/1998, Cass. 8074/1998, 11928/1995), avallato in passato dalle sentenze 501/2002 e 245/2003 della Corte Costituzionale, sfavorevole all’applicazione alla materia delle sanzioni amministrative del principio in esame. Per i motivi suddetti le questioni sollevate non possono ritenersi manifestamente infondate. La questione non può essere risolta per via interpretativa, in quanto esiste consolidata giurisprudenza (vero e proprio diritto vivente) della Cassazione, oltre a precedenti negativi della Corte costituzionale, che in più occasioni hanno ribadito la non applicabilità del principio della al settore degli illeciti amministrativi, rifiutando un’applicazione analogica dell’art. 2, co. 2, c.p., anche alla luce dell’art. 14 preleggi (Cass. 6712/1999, Cass. S.U. 890/1998, Cass. 8074/1998) e considerando i limitati casi in cui il principio della retroattività della lex mitior opera come casi settoriali, non estensibili oltre il loro ristretto ambito di applicazione. Inoltre, come già evidenziato dalla Corte costituzionale nelle sentenze 347-348/2007, l’unico rimedio in caso di contrasto tra la normativa italiana e quella convenzionale, laddove non sia possibile un’interpretazione conforme (come nella specie, stante il diritto vivente contrario), non potendosi ricorrere alla tecnica della disapplicazione (prerogativa del diritto comunitario), è il rinvio alla Consulta per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost. [...]. La vendita di semi di cannabis con indicazione delle modalità di coltivazione non è punibile ex art. 82 d.P.R. 309/1990 ma può rilevare come istigazione al delitto di coltivazione di sostanze stupefacenti ex art. 414, co. 1, n. 1, c.p. Cass. pen. S.U. 18-10-2012, n. 47604

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

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La questione sottoposta al vaglio delle sezioni unite è la seguente: «Se integra il reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti la pubblicizzazione e la messa in vendita di semi di piante idonee a produrre dette sostanze con la indicazione delle modalità di coltivazione e della resa». Sul tema, la giurisprudenza di legittimità si è espressa in modo contrastante. Un primo orientamento [....] interpreta l’art. 82, co. 1, d.P.R. 309/1990 (Testo unico stupefacenti) nel senso che la condotta istigatoria in esso delineata comprende l’attività di pubblicizzazione di semi di piante idonee a produrre sostanze stupefacenti con precisazioni sulla coltivazione delle stesse. L’argomentazione posta alla base della conclusione si incentra nel rilievo che, anche in mancanza di pubblicità volta ad esaltare la qualità del prodotto e l’uso dello stupefacente che si ricava dalle piante, la normale finalità della coltivazione è l’ottenimento e l’utilizzo della droga. Sussiste, pertanto, un’interconnessione tra pubblicizzazione di semi, coltivazione degli stessi e utilizzo di sostanze stupefacenti. ... Un’altra decisione, quella di Cass. 5 marzo 2001, Gobbi (id., Rep. 2001, voce cit., n. 39), è stata in tale modo massimata: «Ai fini della configurabilità del reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti occorre che l’agente, per il contesto in cui opera e per il contenuto delle sue esortazioni, abbia, sul piano soggettivo, l’intento di promuovere tale uso e, dal punto di vista materiale, di fatto si adoperi, con manifestazioni verbali, con scritti o anche con il ricorso al linguaggio ‘simbolico’ affinché l’uso di stupefacenti da parte dei destinatari delle sue esortazioni sia effettivamente realizzato (fattispecie nella quale la corte ha escluso il reato nel caso di volantinaggio da parte di studenti favorevoli alla liberalizzazione di droghe leggere)». Una diversa opinione (espressa da Cass. 17-1-2012, Bargelli) si discosta dalle precedenti, movendo dal principio giurisprudenziale secondo il quale la vendita di semi di piante dai quali sono ricavabili sostanze stupefacenti non costituisce reato perché riconducibile agli atti preparatori privi di potenzialità causale rispetto alle attività vietate. Alla luce di tale principio, la sentenza interpreta il rapporto tra la fattispecie penale dell’art. 82, co. 1, riferita a chi pubblicamente istiga all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, e l’illecito amministrativo, di cui al successivo art. 84, concernente la propaganda pubblicitaria di sostanze o preparazioni comprese nelle tabelle previste dall’art. 14. In particolare, rileva che la condotta dell’art. 84 non possa consistere in una propaganda finalizzata alla vendita, ma semplicemente in un’opera di diffusione senza induzione all’acquisto; nella condotta dell’art. 82, invece, si riscontra un qualcosa di aggiuntivo che spinge all’uso del prodotto da parte del destinatario della propaganda. Ne consegue che, nei casi in cui la pubblicità si soffermi solo sull’illustrazione delle caratteristiche delle piante che nascono dai semi e sulle modalità della loro coltivazione, il reato dell’art. 82 non può ritenersi sussistente perché l’azione non è idonea a suscitare consensi ed a provocare il concreto pericolo dell’uso di stupefacenti da parte dei destinatari del messaggio. Innanzi tutto, è opportuno precisare che ogni tipo di inserzione pubblicitaria avente per oggetto prodotti droganti deve essere oggetto di divieto. Il principio ha un fondamento sovrannazionale nell’art. 10, co. 2, della convenzione di Vienna del 1971, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 385/1981, che stabilisce: «Ciascuna parte, tenendo debito conto delle norme della sua Costituzione, proibirà le inserzioni pubblicitarie riguardanti le sostanze psicotrope e destinate al grosso pubblico». Il nostro ordinamento, nell’alveo della lotta alla droga, colpisce, con una forte anticipazione della tutela penale, ogni forma di propaganda degli stupefacenti e ogni condotta di stimolo alla creazione, diffusione o al consumo degli stessi.

 

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Non è, tuttavia, inseribile, nel settore della inibita propaganda, la mera offerta in vendita di semi dalla cui pianta sono ricavabili sostanze stupefacenti; l’attività che ha tale oggetto di per sé non è vietata, configurandosi come atto preparatorio non punibile perché non idoneo in modo inequivoco alla consumazione di un determinato reato per la considerazione che non è dato dedurre la effettiva destinazione dei semi (Cass. 1-9-1988, Lanzuisi; 17-1-2012, Bargelli). [....] Il fondamentale elemento discretivo tra le due fattispecie (i residui sono di minore significatività in rapporto al quesito in esame) deve essere reperito nella tipologia delle condotte; una loro precisa individuazione esclude già che in certe ipotesi nascano problemi di conflitto. La pubblicità è in genere concisa, non mira a proporre modelli di comportamento ed a persuadere il pubblico facendo leva sulle presunte ragioni ideologiche che stanno alla base della scelta suggerita; quindi, non è conciliabile con la nozione di proselitismo. Il messaggio pubblicitario non implica un rapporto personale tra il propagandista e il destinatario con opera di diretto influenzamento dell’uno sull’altro, per cui è da scartare che possa essere classificato nel novero dell’induzione. Rimane la condotta di istigazione effettuata pubblicamente (secondo la disposizione definitoria dell’art. 266, ult. co., c.p.) che presenta un labile confine con quella di propaganda, dato che il legislatore ha usato nello stesso contesto normativo termini diversi, occorre che l’interprete non li omologhi e cerchi di individuare i rispettivi ambiti di applicazione, sì da rendere ragionevole la scelta della differente risposta punitiva. Sul punto, la citata sentenza della Cass. 17 gennaio 2012 ha focalizzato la distinzione, ponendo l’accento sulle caratteristiche del messaggio pubblicitario che, nell’art. 84, deve essere asettico e non deve indurre i destinatari all’acquisto o all’uso del prodotto stesso. La corte condivide questa impostazione, anche se sono eccezionali le ipotesi di propaganda pubblicitaria che non invoglino all’acquisto; tuttavia, il criterio individuato nella sentenza è l’unico reperibile che, sul piano strutturale, diversifichi le condotte, incida significativamente sul livello dell’offesa ed abbia come ricaduta di condurre la previsione dell’art. 84 nell’alveo di una ipotesi marginale e di scarsa lesività. Si ritiene, pertanto, che rientri nella propaganda pubblicitaria la condotta di chi si limita in modo asettico e neutro a rendere noto al pubblico l’esistenza della sostanza veicolando un messaggio non persuasivo e privo dello scopo immediato di determinare all’uso di stupefacenti. La delineata esegesi del rapporto tra norme trova riscontro nella clausola di riserva dell’art. 84, 2° comma, non valutata dalla giurisprudenza che si è occupata dell’argomento. Il legislatore si è reso conto che il termine propaganda può essere interpretato con parametri non bene definiti e che tra le sue previsioni non sussiste un rapporto di specialità risolvibile ai sensi dell’art. 9 L. 689/1981, bensì di gravità crescente, ed ha fornito una chiave per risolvere il conflitto apparente di norme. Occorre ora prendere in considerazione la fattispecie concreta e verificare se, come sostenuto dal ricorrente, sia corretto il suo inquadramento nella ipotesi di reato dell’art. 82, sotto la previsione dell’istigazione all’uso di stupefacenti; sul tema, la corte non condivide la opinione delle sentenze che hanno risposto positivamente, perché la condotta contestata solo indirettamente ed eventualmente conduce al consumo di sostanze droganti. Non è possibile equiparare la nozione di stupefacente a quella di pianta dalla quale, con determinati procedimenti chimici neppure menzionati nella pubblicità, è ricavabile una sostanza drogante che, allo stato naturale, è compresa nelle tabelle; una simile esegesi non

 

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rientra nel novero di una plausibile interpretazione estensiva perché travalica l’ambito dei possibili significati letterali, sia pure amplificati all’estremo, del termine stupefacente e dilata il fatto tipico integrandolo con un’ipotesi non espressamente inclusa con palese violazione del principio di tassatività e del divieto di analogia nel diritto penale. Quanto precisato sul divieto dell’analogia (valevole anche per le sanzioni amministrative per il principio di legalità inserito nell’art. 1, co. 2, L. 689/1981) non è trasferibile anche all’art. 84 per il quale la propaganda può essere effettuata anche indirettamente, cioè, facendo sorgere nel pubblico — in modo obliquo, dissimulato o per associazioni di idee — il riferimento implicito alla sostanza stupefacente. La citata norma, tuttavia, non è applicabile perché l’offerta del prodotto da parte degli imputati era correlata da ulteriori, allettanti specificazioni. La precisazione rende il caso non inquadrabile nella previsione dell’art. 84, perché il messaggio non era neutro ed asettico: indicando i metodi botanici più appropriati per la resa dei semi, la pubblicità invitava i destinatari all’acquisto dei semi come attività prodromica al successivo comportamento consistente nella coltivazione di piante dalle quali è estraibile una sostanza stupefacente. Quest’ultima condotta è vietata dall’art. 26 t.u. stupefacenti e prevista come delitto dal successivo art. 73, co. 3, perché accresce la disponibilità di droghe con conseguente pericolo di diffusione illecita delle stesse. Poiché gli imputati istigavano a commettere un reato con le modalità esecutive dell’art. 266, co. 4, c.p., il caso può rientrare nella previsione dall’art. 414 c.p.; tale fattispecie si pone come norma generale e non è applicabile in presenza di reati di istigazione più specifici. In virtù di questo principio, il giudice ha rilevato che il delitto previsto dall’art. 82 sarebbe una specie rispetto alla previsione codicistica; la tesi non è condivisibile perché raffronta il reato di istigazione a delinquere con quello di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti che deve essere escluso per la già detta ragione. L’esatta comparazione tra norme, rapportata all’ipotesi che ci occupa, porta a concludere che l’art. 82 non è strutturato come species rispetto al genus dell’art. 414 c.p., perché non annovera tra le condotte punibili l’illegale coltivazione di stupefacenti. [....] È anche inconferente, per il perfezionamento della fattispecie dell’art. 414 c.p., l’esito dell’azione istigatrice, in virtù della clausola di indifferenza inserita nel 1° comma (che costituisce una deroga al generale principio contenuto nell’art. 115 c.p.), ma è necessaria la potenziale offensività della condotta che è richiesta per tutti i reati anche quando il precetto tenda ad evitare la messa in pericolo del bene oggetto di tutela penale. Occorre, pertanto, una ponderazione — riservata al magistrato di merito e da effettuarsi con giudizio ex ante — circa la reale efficienza dell’azione stimolatrice a spronare le persone con modalità tali da persuaderle a passare all’azione e da porsi come antecedente adeguato per indurle a commettere il fatto illecito (sulla natura di delitto di pericolo concreto della fattispecie dell’art. 414 c.p., v., tra le altre, Cass. 5-6-2001, Vencato). Si evidenzia, inoltre, che, per la configurabilità del delitto ex art. 414 c.p. non è richiesta la punibilità in concreto della condotta istigata, ma è necessario che la stessa sia prevista dalla legge come reato. Sul punto, occorre tenere nel debito conto il principio enucleato dalle sezioni unite che (dopo avere precisato come costituisca un reato di pericolo astratto qualsiasi attività di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali è estraibile una sostanza stupefacente) hanno ricordato il canone nullum crimen sine iniuria sotteso a tutti i reati che, secondo la

 

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giurisprudenza costituzionale, opera per il legislatore in astratto e per gli interpreti in concreto quale criterio ermeneutico. Consegue che necessita se la condotta contestata all’agente ed accertata sia assolutamente inidonea a mettere a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva; tale ipotesi ricorre quando la sostanza ricavabile dalla coltivazione non produca un effetto drogante rilevabile (sez. un. 24 aprile 2008, Di Salvia, id., Rep. 2008, voce Stupefacenti, n. 48).