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Lez. 2. La fattispecie Lezione n. 2 di diritto fallimentare Anno accademico 2013/2014

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Lez . 2 . La fattispecie. Lezione n. 2 di diritto fallimentare Anno accademico 2013/2014. La fattispecie. Come già esaminato nell’analisi delle ragioni della specialità del diritto fallimentare, la disciplina del concorso si applica ad una fattispecie con i seguenti elementi costitutivi: - PowerPoint PPT Presentation

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Lezione n. 2 di diritto fallimentareAnno accademico 2013/2014

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La fattispecie

Come già esaminato nell’analisi delle ragioni della specialità del diritto fallimentare, la disciplina del concorso si applica ad una fattispecie con i seguenti elementi costitutivi:

a) Imprenditore commerciale fallibile;b) In condizioni di insolvenza o crisi.

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L’accertamento costitutivo

La disciplina speciale del diritto concorsuale non si applica al solo configurarsi della fattispecie con i suoi elementi costitutivi, ma necessita di un accertamento giudiziale che dia certezza alla sua esistenza e quindi all’applicazione del regime speciale (una pronuncia di natura costitutiva: la dichiarazione di fallimento; l’accertamento dell’insolvenza nella l.c.a.; l’ammissione al concordato).

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Il presupposto oggettivo

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Crisi e insolvenza

Sinora è stata data una nozione molto generica di crisi, quale elemento obiettivo della fattispecie, ora questo concetto deve essere definito sul piano giuridico.

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Insolvenza

Si trae dall’art. 5, 2° comma:“inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”E’ il presupposto del fallimento in senso stretto, come autonoma procedura fallimentare.

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Crisi

Il concetto più generale di crisi si ricava dall’art. 160, 1° comma; ma particolarmente dall’ u.c. della disposizione: “ai fini di cui al primo comma, per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza” (modifica dovuta alla l. n. 51/06). Il riferimento normativo, pure nella sua genericità, fa capire che il concetto di crisi è un genus, a cui appartiene come species quello dell’insolvenza.La crisi è il presupposto del concordato preventivo e degli accordi concorsuali.

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Interpretazione del concetto di insolvenza

E’ necessario muovere dai riferimenti normativi dell’art. 5:

- “inadempimenti”;- “incapacità di adempiere alle obbligazioni”;- “regolarmente”;- “fatti esteriori”.

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Inadempimenti

Per inadempimenti il legislatore non intende una pluralità di inadempimenti, ma anche un solo inadempimento, ovvero l’incapacità dell’imprenditore ad adempiere ad una sua obbligazione.L’inadempimento non deve essere originato da una contestazione del credito, poiché in tal caso fin tanto che non è accertato con sentenza passata in giudicato, giustifica un inadempimento. Ma il giudice del processo che accerta la fattispecie potrà condurre una cognizione incidentale e valutare se il credito è o meno fondato e trarne le dovute conseguenze.

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Regolarmente

Anche un inadempimento capace di estinguere l’obbligazione ma che non utilizzi mezzi normali, come il denaro o i titoli di credito (assegni, cambiali, ecc.) è da intendere come inadempimento agli effetti dell’insolvenza.Esempio: la cessione dei beni come modalità di pagamento (datio in solutum) è sintomatica di insolvenza.

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I fatti esteriori

Sono indicati come alternativi alla illiquidità dell’imprenditore ed integrano quei fatti, la cui rilevanza penale è attribuita solo a seguito della dichiarazione di fallimento alla quale è legittimato per questa ragione il pubblico ministero:

- la fuga dell’imprenditore;- la chiusura dei locali dell’impresa;- il trafugamento o la sostituzione o diminuzione

fraudolenta dell’attivo;- l’esagerazione fraudolenta del passivo.

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Lo sbilancio patrimoniale

Un imprenditore che manifesti un evidente sbilancio patrimoniale, con prevalenza del passivo sull’attivo, non è ancora in condizioni di insolvenza, poiché potrebbe avere agio di ricorrere al credito e quindi essere in grado di adempiere alle sue obbligazioni.

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Il concetto giuridico di crisi

Il legislatore non è così chiaro nel concetto giuridico di crisi, per il quale si rende necessaria un’interpretazione sistematica, che tenga conto anche del recente passato ante riforma.

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Temporanea difficoltà ad adempiere

Originariamente la legge del 1942 contemplava un autonoma procedura (amministrazione controllata), fondata sulla “temporanea difficoltà ad adempiere” (art. 187, oggi abrogato).La riforma ha assorbito nel concordato tale procedura: evidentemente il concordato muove anche dalla temporanea difficoltà ad adempiere.

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Il concetto di crisi reversibile

Mentre l’insolvenza coincide per lo più con il concetto di crisi irreversibile e conduce, come il fallimento in senso stretto, alla liquidazione ed estinzione dell’impresa; il concetto di crisi che contempla come ipotesi l’insolvenza, richiude in sé anche il concetto di temporanea difficoltà ad adempiere, da intendersi come crisi reversibile la quale non conduce normalmente alla liquidazione ed estinzione dell’impresa.

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Esempi

Esempi di crisi reversibile sono:- lo sbilancio patrimoniale, di cui abbiamo escluso la

natura di sintomo di insolvenza;- il rischio di insolvenza: imprenditore che

nell’adempimento delle proprie obbligazioni si trova in palese affanno nel reperimento della liquidità.Un’improvvisa perdita della capacità reddituale (un profitto o utile diminuito), non è indice di temporanea difficoltà

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Irregolarità di gestione

Esiste, invero, un ulteriore presupposto oggettivo, diverso dall’insolvenza o dalla crisi, sul quale si può fondare una particolare procedura concorsuale: la liquidazione coatta amministrativa.Si tratta della “irregolarità di gestione”, da intendere come gestione dell’impresa in violazione delle norme di legge e di regolamento.

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Ratio

La liquidazione coatta è la procedura concorsuale dedicata alle grandi imprese (bancarie, assicurative, fiduciarie, cooperative) nelle quali è prevalente l’intento di una continuità dell’impresa ma dove per il maggior rilievo dell’interesse generale coinvolto si tiene conto non solo dell’insolvenza o della crisi ma anche della grave irregolarità di gestione.

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I casi di irregolarità di gestione

- Nelle imprese fiduciarie o bancarie: la violazione di legge o di regolamento;

- nelle imprese assicurative, l’esercizio dell’impresa in difetto di autorizzazione ministeriale;

- nelle imprese bancarie e assicurative, le perdite patrimoniali o la mancata costituzione delle riserve di legge.

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l’accertamento incidentale della insolvenza

Tuttavia in sede di liquidazione coatta avviata su irregolarità della gestione è possibile richiedere l’accertamento della insolvenza, agli effetti della piena applicazione delle regole del fallimento in senso stretto (revocatorie fallimentari; speciali reati dell’imprenditore insolvente).

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Il presupposto soggettivo

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Imprenditore commerciale fallibile

Il presupposto soggettivo della fattispecie richiama due concetti giuridici:

1. l’imprenditore commerciale;2. l’imprenditore commerciale fallibile.

Ne consegue che l’imprenditore commerciale non è di per sé fallibile se non rientra nelle categorie di fallibilità disciplinate nell’art. 1. Quindi l’imprenditore commerciale è categoria più ampia dell’imprenditore commerciale fallibile, che è una sua specificazione.

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Il professionista intellettuale

Ancorché organizzi la propria attività mediante universalità di beni reali e personali destinati alla produzione di beni e servizi, il professionista intellettuale non è fallibile (l’art. 2238 c.c. richiama il titolo secondo, art. 2082 c.c. e ss., ma non l’art. 2221 c.c. sulla fallibilità.)

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L’imprenditore agricolo

Per tradizione storica è escluso dal diritto concorsuale l’imprenditore agricolo, originariamente per essere soggetto, più di ogni altro imprenditore, al fattore di rischio ambientale che giustificava il beneficio.Oggi il rischio ambientale per l’imprenditore agricolo è fortemente diminuito, particolarmente in alcune fattispecie di imprenditore agricolo nella nozione ampia dovuta all’art. 2135 c.c., dopo la riforma con d. lgs. n. 228/2001.

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La nuova nozione di imprenditore agricolo

Infatti non costituisce più elemento essenziale dell’imprenditore agricolo l’inerenza al fondo propria delle originarie attività di coltivazione, allevamento e selvicoltura, che contraddistingueva la sottoposizione dell’impresa agricola al fattore ambientale (art. 2135, 1° comma c.c., che ipotizza dette attività tipiche)

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segue

Ciò che contraddistingue oggi la nozione di agrarietà dell’impresa è tuttavia lo sfruttamento di un ciclo biologico, di carattere vegetale o animale (“che utilizzano o possono utilizzare il fondo…”); pertanto l’inerenza al fondo non è più caratteristica necessaria neppure delle attività tipiche (art. 2135, 2° comma c.c.).

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Esempi di imprenditori agricoliSono esempi di sfruttamento di ciclo biologico senza inerenze al fondo:

- l’acquacoltura;- l’allevamento di razze canine (attività cinotecnica);- l’allevamento di bachi da seta;- l’apicoltura;- le colture idroponiche;- l’allevamento industriale in batteria;- le coltivazioni in serra.

Tutte attività in cui l’inerenza al fondo viene meno e il fattore ambientale è dunque meno significativo.

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Le attività connesseSecondo una tecnica legislativa pregevole, l’art. 2135 c.c. contiene un terzo comma il quale introduce una clausola generale di estensione della nozione di agrarietà verso le attività connesse alle ipotesi tipiche, ove elemento essenziale è il carattere accessorio rispetto ad un’attività agricola principale.Si tratta di attività latu sensu industriali o commerciali che usano prodotti “prevalentemente” risultato delle attività tipiche.Rientrano nell’agrarietà anche le attività di valorizzazione dell’ambiente, ovvero le attività di ricezione ed ospitalità (c.d. agriturismo).

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Critica

La particolare ampiezza della nozione di impresa agricola, il venir meno dell’inerenza al fondo e del rischio ambientale, lo sconfinamento in attività latu sensu industriali, rende storica l’esclusione dell’imprenditore agricolo dalla fallibilità e costituisce una remora alla regola economica della eliminazione dell’impresa insolvente.

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Il lento inserimento dell’imprenditore agricolo

L’art. 182 – bis, laddove regola la procedura degli accordi di ristrutturazione, non richiama l’art. 1 della legge fallimentare e riferisce il procedimento agli imprenditori tout court: quindi anche all’imprenditore agricolo.

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La nozione di imprenditoreLa esclusione del professionista intellettuale e dell’imprenditore agricolo, rende comunque necessaria l’individuazione dalla nozione di imprenditore (art. 2082 c.c.), come colui che esercita:

1. “professionalmente”, ovvero non occasionalmente;2. “un’attività economica organizzata” (donde il rilievo

dell’organizzazione dei beni, ovvero dell’azienda, come elemento precipuo dell’impresa commerciale);

3. “al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi” (corrispondente alle attività economiche in senso stretto di natura industriale o agricola – produzione – e di natura commerciale – scambio).

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…e quella di imprenditore commerciale

L’art. 2195 c.c. specifica poi le attività proprie dell’imprenditore commerciale:

1. l’attività industriale in senso stretto;2. l’attività commerciale in senso stretto;3. alcune attività di servizio non corrispondenti alle prime,

come il trasporto, l’attività bancaria e quella assicurativa;4. altre attività ausiliarie, secondo il criterio elastico di

adattamento all’evoluzione della fattispecie: è il caso dell’esercizio di impresa da parte di un agente di commercio, di un mediatore, di un intermediario finanziario; l’attività di estrazione mineraria.

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La spendita del nome

Ricavandosi il concetto dall’art. 147, 2° comma, sulla fallibilità del socio di fatto illimitatamente responsabile, anche l’imprenditore occulto, ovvero che non appare all’esterno dei rapporti usando un prestanome, è fallibile, facendosi leva su un rapporto sociale di fatto tra imprenditore occulto e imprenditore apparente e costruendo la fallibilità di entrambi.

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La nozione di imprenditore commerciale fallibile

La nozione di imprenditore commerciale non coincide esattamente con la nozione di imprenditore fallibile, che è più ristretta come si è detto: è una sua species. A tal proposito, dopo la riforma, nella sua ultima evoluzione dovuta alla novella del 2007, non è più utilizzabile nella individuazione dell’ imprenditore commerciale non fallibile, il concetto, desumibile dall’art. 2083 c.c., di piccolo imprenditore, su cui ha fatto leva la dottrina e la giurisprudenza prima della riforma.

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La sopravvivenza dell’art. 2221 c.c.

L’art. 2221 c.c. non è stato colpito dalla riforma ed ancora oggi esclude dalla fallibilità gli imprenditori commerciali coincidenti con un ente pubblico e i piccoli imprenditori.Tale disposizione, su cui avevano fatto leva i nostalgici del concetto di piccolo imprenditore, è stata tacitamente abrogata dall’art. 1. Quest’ultimo fuoriesce da un concetto qualitativo di imprenditore esente dal fallimento, in favore di un concetto puramente quantitativo, e non usa più il termine “piccolo imprenditore”.

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La pluralità delle fonti del passato

Sulla nozione di piccolo imprenditore nel passato vi era dibattito tra la nozione qualitativa dell’art. 2083 c.c. e la nozione quantitativa dell’art. 1, vecchio tenore, e di alcune leggi speciali.L’art. 2083 sanciva un concetto qualitativo di piccolo imprenditore: l’artigiano, il piccolo commerciante e il coltivatore diretto. Poi poneva il concetto elastico, secondo la nota tecnica legislativa, della prevalenza del lavoro proprio e dei propri familiari sugli altri fattori della produzione.

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La contraddizione con la nozione quantitativa

Le altre disposizioni, come l’art. 1, vecchio tenore, ponevano una nozione quantitativa: - imponibile dell’imposta di ricchezza mobile; capitale investito (requisiti l’uno abrogato dalla riforma tributaria e l’altro dichiarato incostituzionale); mentre la legge sull’artigianato (l. n. 443/85) fissava requisiti numerici legati al numero degli occupati nell’impresa che contraddicevano il requisito della prevalenza del lavoro proprio e della propria famiglia, di cui all’art. 2083 c.c.

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L’evoluzione giurisprudenziale

La giurisprudenza innanzi alla conflittualità delle fonti, preferiva adottare il criterio qualitativo dell’art. 2083 c.c., anche se corretto da ultimo (giurisprudenza degli anni 90 in poi) con il criterio quantitativo in via interpretativa ricavato da una valutazione sul patrimonio e la redditività dell’impresa. Solo se superanti certe soglie prestabilite dai tribunali, l’imprenditore poteva dirsi fallibile.

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La riforma del 2006

Con la prima riforma dovuta al d. lgs. n. 5 del 2006, senza escludere l’applicabilità del criterio qualitativo dell’art. 2083 c.c., che fu ritenuto rilevante (il legislatore usava ancora il linguaggio di piccolo imprenditore non fallibile) si introducono i concetti di :

- Investimento non superiore alla somma di € 300.000,00;- Ricavi lordi – comprensivi dell’imposta – nella media degli

ultimi tre anni,inferiore a € 200.000,00.Sarebbe stata sufficiente la presenza di uno dei due requisiti per escludere la fallibilità, facendosi rientrare l’imprenditore nella nozione di piccolo imprenditore non fallibile.

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Segue. L’onere della prova

La disposizione non chiariva a carico di chi fosse l’onere probatorio (il carattere impeditivo delle circostanze faceva pensare che fosse l’imprenditore convenuto in giudizio per la sua dichiarazione di fallimento, ad avere il relativo onere, anche per la vicinanza alla prova).

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I dubbi interpretativiOltre alla concomitanza dell’applicazione residuale dell’art. 2083 c.c. (secondo alcuni solo la mancata applicazione di questo criterio poteva consentire l’applicazione dei criteri residuali dell’art. 1) i presupposti erano tutt’altro che chiari:

- Non vi era alcun riferimento temporale alla nozione di capitale investito (attuale? nella media degli ultimi tre anni?) Inoltre non era chiaro se il capitale investito fosse riferito al capitale fisso o al capitale circolante.

- Dei ricavi lordi, non era chiaro se fossero ricompresi anche attività non derivanti strettamente all’impresa e se nel periodo triennale fosse o meno compresa l’annualità del deposito della domanda per la dichiarazione di fallimento.

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La novella del 2007

Stante i dubbi interpretativi della novella del 2006, ma soprattutto causa una improvvisa caduta quantitativa dei fallimenti, il legislatore dovette intervenire con la novella del 2007 non utilizzando più la nozione di piccolo imprenditore, ma la nozione da noi usata di imprenditore non fallibile, escludendo alla radice dunque l’applicabilità dei criteri di cui all’art. 2083 c.c.

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L’imprenditore non fallibile dell’art. 1

L’art. 1, unico applicabile, fissa tre requisiti che devono essere tutti rinvenuti nell’imprenditore non fallibile, il cui onere della prova è totalmente a carico dell’imprenditore convenuto.

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Attivo patrimoniale

“Avere avuto nei tre esercizi antecedenti il deposito dell’istanza… un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad € 300.000,00”. Si risolvono i nodi del passato in quanto si rimette un limite temporale e si definisce l’attivo patrimoniale come capitale fisso: richiamandosi i valori dell’attivo riportati nello stato patrimoniale, ai sensi dell’art. 2424 c.c.

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Ricavo lordo

“Avere realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data del deposito dell’istanza di fallimento…ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad € 200.000,00”. Si risolvono i problemi interpretativi: esclusione dell’anno di esercizio del deposito della domanda; superamento del concetto di media; ricomprensione anche di attività non tipiche dell’impresa. Il carattere lordo ricomprende l’imposta e le spese.

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Debiti

“Avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad € 500.000,00”.Il riferimento è al momento della domanda e riguarda anche debiti non esigibili.

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I debiti esigibili al momento della domanda

I debiti esigibili devono ammontare almeno a € 30.000,00 al momento della domanda, secondo l’ulteriore criterio dell’art. 15 u.c. e in tal caso l’onere della prova non è dell’imprenditore convenuto, ma del richiedente attore.

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Ratio

L’art. 15 si spiega per evitare che la procedura fallimentare diventi un recupero crediti.

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L’imprenditore sociale escluso dal concorso

L’art. 1 abroga altresì la preesistente regola su una fallibilità senza limiti delle società commerciali, in quanto definite ex lege come imprese non piccole.Il criterio poneva un’evidente disparità di trattamento e per tale ragione già ante riforma il legislatore era intervenuto per escludere dalla fallibilità le piccole società artigiane organizzate nelle forme della snc, della sas, della coop e della srl con unico socio (l. n. 133/97), ma restava fuori da una disciplina analoga la piccola società commerciale, sempre fallibile.

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Il nuovo tenore dell’art. 1

L’art. 1 non contiene più oggi l’esclusione dall’annovero della piccola impresa delle società commerciali e assimila il regime dell’imprenditore persona fisica al regime dell’imprenditore sociale agli effetti della fallibilità.

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Il patrimonio separato

Nell’ambito delle società commerciali (spa), è stato dato rilievo ad un atto volontario quale quello della costituzione di un “patrimonio separato” destinato ad uno specifico affare (con destinazione del patrimonio alla garanzia dei soli debiti funzionali a detto affare: art. 2447 – bis c.c.).Il patrimonio separato ha rilievo anche nel diritto concorsuale, poiché la finalità è preservata anche dopo la dichiarazione di fallimento (art. 155) e in caso di impossibilità di collocare a terzi il patrimonio separato procederà la sua liquidazione mediante le regole non del concorso ma della liquidazione volontaria (art. 156).

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Il socio illimitatamente responsabile

Esiste una fattispecie non assimilabile a quella dell’imprenditore commerciale insolvente a cui è tuttavia applicabile il diritto fallimentare: il socio illimitatamente responsabile nelle società di persone (socio della snc, socio accomandatario della sas), art. 147, 1° comma. La ratio è costituita dalla necessità di disciplinare l’illimitata responsabilità del socio con il suo patrimonio mediante le regole della liquidazione del patrimonio sociale per una migliore tutela dei creditori (non per evidenziare una sorta di titolarità indiretta dell’impresa del socio, che costituisce un artificio interpretativo).

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Casi applicativi

Il socio accomandante che si ingerisce nella gestione, senza essere munito di procura speciale per singoli affari, assume illimitata responsabilità (art. 2320 c.c.) e dunque fallisce con la società.Il socio tiranno che utilizza la società “come cosa propria” e il socio dominante il quel per la dimensione della sua quota esercita i poteri della maggioranza, non rispondono per ciò illimitatamente e dunque non sono fallibili, possono al massimo essere destinatari di un’azione di responsabilità come amministratori di fatto della società.

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Il socio occulto

Il socio che cela il proprio rapporto sociale nella società di persone con responsabilità illimitata, ma conferisce e partecipa agli utili e alle perdite, può essere dichiarato fallito ex art. 147/4.Detto fallimento può esser preteso non solo dai creditori e dal p.m. ma anche da altro socio fallito.

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Regole processuali applicabiliAl socio di fatto sono applicabili le regole dell’imprenditore fallito, quanto al diritto di contraddire nel procedimento per la dichiarazione di fallimento e i poteri impugnatori della sentenza.Tuttavia i fallimenti restano distinti, se pur coordinati (con gestione e liquidazione separate), salvo alcune regole di coordinamento:

- identità degli organi fallimentari;- effetto dell’insinuazione nel fallimento sociale anche nel

fallimento del singolo socio, con una sola domanda;- la chiusura del fallimento sociale implica chiusura del fallimento

individuale, salvo che il fallito non sia a sua volta imprenditore individuale.

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Società occulta

La giurisprudenza applica correttamente il criterio anche alla società occulta, quando nella forma dell’impresa individuale è esercitata di fatto in realtà una società di persone: è un modo per dichiarare la fallibilità dell’imprenditore occulto, il quale costituisce di fatto una società con un imprenditore apparente, suo prestanome.

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Società apparente

Diversa la soluzione per la società apparente che denuncia in realtà un’impresa individuale, poiché per la prevalenza della situazione di fatto sulla situazione di diritto, conduce al fallimento del solo imprenditore individuale, non potendo la spendita essere elemento sufficiente per la dichiarazione di fallimento.

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L’imprenditore cessato

La qualità di imprenditore commerciale insolvente deve essere attuale e non cessata entro l’anno (art. 10).La ratio è l’inevitabile disgregazione del patrimonio dell’impresa dopo la sua cessazione, che rende antieconomico il procedimento.

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Nozione di cessazione

Per cessazione deve intendersi non solo la cessazione delle attività tipiche, ma anche la cessazione di ogni attività che inerisca la liquidazione (ad esempio cessione di beni strumentali).Con l’ultimo atto liquidatorio cessa l’impresa.

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La presunzione di cessazione

L’art. 10 presume la cessazione dell’impresa con la formale cancellazione dal registro delle imprese, rovesciando l’onere della prova sulla circostanza della prosecuzione al soggetto legittimato a chiedere il fallimento (presunzione che integra l’inversione dell’onere della prova).

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Il sopravvenire dell’insolvenza entro l’anno

L’imprenditore cessato entro l’anno può essere dichiarato fallito solo se entro l’anno è sopravvenuta altresì l’insolvenza, requisito richiesto per il suo fallimento.

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La morte dell’imprenditore

L’art. 11 assimila alla cessazione, la mancata riferibilità soggettiva dell’impresa nel caso di morte dell’imprenditore persona fisica: il fallimento può essere dichiarato entro l’anno dalla morte se entro tale termine si è manifestata insolvenza.L’erede che non ha confuso i patrimoni può chiedere il fallimento del de cuius.

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Il problema dell’impresa collettiva

Sotto la disciplina previgente alla riforma la giurisprudenza ha sempre ritenuto inapplicabile la normativa dell’imprenditore cessato e deceduto (estinto) all’impresa sociale, assumendo che l’impresa sociale non può mai considerarsi cessata solo che persista un rapporto obbligatorio o una qualunque obbligazione passiva.

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La corte costituzionale

La corte costituzionale con sentenza n. 19/00 ha ritenuto opportuno intervenire assimilando la cancellazione della società dal registro delle imprese alla morte dell’imprenditore individuale. Ne rimaneva comunque esclusa la cessazione di fatto che non fosse accompagnata da una formale cancellazione (ovvero l’applicazione dell’art. 10 all’imprenditore sociale).

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L’attuale regime

Il nuovo art. 10 assimila nell’applicazione dell’impresa cessata, imprenditore individuale e imprenditore sociale. Tuttavia l’impresa sociale cessa dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, con una presunzione iuris et de iure, insuscettibile di prova contraria, con prevalenza dei motivi di certezza giuridica rispetto alla certezza dei creditori (i quali hanno avuto pubblicità della cessazione e ne sono stati consapevoli), salvo che non sia cancellata d’ufficio.

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La società irregolare e la società di fatto

La società mai iscritta al registro o la società di fatto dovrebbero essere assimilate all’imprenditore individuale e quindi essere considerate cessate, in difetto di pubblicità, dal termine effettivo della loro liquidazione, ovvero dall’ultimo atto di gestione e/o liquidazione compiuto.

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Il fallimento del socio cessato

Ugualmente la giurisprudenza previgente alla riforma aveva escluso l’applicabilità degli artt. 10 e 11 alla cessazione e alla morte del socio, stabilendo la fallibilità del socio cessato o deceduto se l’insolvenza si fosse già verificata al momento dello scioglimento del vincolo sociale o peggio ancora se fosse già sorto il credito per il quale si è giunti all’insolvenza successiva.

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La corte costituzionale

Con le sentenza nn. 66/99 e 319/00 la corte costituzione per la evidente irrazionalità e disuguaglianza, ha dichiarato l’incostituzionalità delle norme laddove non sono state ritenute applicabili al socio cessato o deceduto.Principi applicabili anche al caso della trasformazione della società da società di persone a società di capitali.

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L’attuale regime

Oggi l’art. 147, 2° comma, estende al socio cessato o deceduto l’applicazione degli artt. 10 e 11.Il fallimento del socio cessato o deceduto è comunque possibile entro l’anno se il fallimento si è manifestato in relazione a debiti preesistenti.E’ necessario perché avvenga la cessazione o si dia rilievo alla morte che vi sia un’osservanza delle formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati (iscrizione nel registro delle imprese).

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Gli enti pubblici

Le imprese esercitate sotto il regime degli enti pubblici ex art. 1 non sono fallibili, ma soggette (esclusivamente)a liquidazione coatta amministrativa.