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1 Letteratura italiana 7A Prof.ssa Clizia Carminati Dispense corso anno accademico 2010-2011 La dispensa riporta i testi cui si è fatto riferimento a lezione, nello stesso ordine in cui sono stati presentati, e costituisce parte integrante dell’esame per gli studenti frequentanti. 1. Autobiografia: racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità. (definizione di Philippe Lejeune, Il patto autobiografico 1° ed. francese 1975) 2. Forse di me avrai sentito dir qualcosa; quantunque poi sia dubbio che un nome piccolo e oscuro come il mio possa arrivare così lontano nello spazio e nel tempo. E probabilmente ti piacerà sapere che uomo io fui o quale fu lo scopo delle mie opere; innanzitutto quelle la cui fama sia pervenuta fino a te o anche quelle che avrai sentito appena nominare. Sul primo punto, di sicuro, molte saranno le voci e le opinioni; ognuno tende infatti a parlare non per amor di verità ma come gli aggrada: e non c’è misura né per le lodi né per il vituperio. Io fui, in realtà, uno dei vostri; un piccolo uomo mortale. […] La giovinezza mi ingannò, la maturità mi catturò, la vecchiaia infine mi corresse. In gioventù soffrii d’un amore tremendo, comunque unico e casto; e più a lungo ancora avrei sofferto, se una morte acerba ma utile non avesse completamente spenta una fiamma già languente. (Francesco Petrarca, Seniles, XVIII epistula posteritati’) 3. Io dunque mi chiedo come spero farai anche tu e mi dolgo e addirittura, se può star bene per un uomo, piango ancora chiedendomi: perché mai in vecchiaia stiamo vivendo anni così peggiori rispetto a quelli della nostra fanciullezza? […] Non mi pare che intanto sia inutile o senza motivo di gioia ricordare un po’ il nostro passato: perciò volgi indietro gli occhi insieme a me, quanto più lontano puoi. […] Proprio al confine tra infanzia e fanciullezza, ci trasferimmo quasi contemporaneamente in Francia… (Francesco Petrarca, lettera a Guido Sette Seniles, X, 2) 4. Voi ch' ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond' io nutriva 'l core in sul mio primo giovenile errore quand'era in parte altr' uom da quel ch' i' sono, del vario stile in ch' io piango et ragiono fra le vane speranze e 'l van dolore,

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Letteratura italiana 7A

Prof.ssa Clizia Carminati

Dispense corso anno accademico 2010-2011

La dispensa riporta i testi cui si è fatto riferimento a lezione, nello stesso ordine in cui sono stati

presentati, e costituisce parte integrante dell’esame per gli studenti frequentanti.

1. Autobiografia: racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria

esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della

sua personalità.

(definizione di Philippe Lejeune, Il patto autobiografico – 1° ed. francese 1975)

2. Forse di me avrai sentito dir qualcosa; quantunque poi sia dubbio che un nome piccolo e

oscuro come il mio possa arrivare così lontano nello spazio e nel tempo.

E probabilmente ti piacerà sapere che uomo io fui o quale fu lo scopo delle mie opere;

innanzitutto quelle la cui fama sia pervenuta fino a te o anche quelle che avrai sentito appena

nominare.

Sul primo punto, di sicuro, molte saranno le voci e le opinioni; ognuno tende infatti a parlare

non per amor di verità ma come gli aggrada: e non c’è misura né per le lodi né per il

vituperio. Io fui, in realtà, uno dei vostri; un piccolo uomo mortale. […]

La giovinezza mi ingannò, la maturità mi catturò, la vecchiaia infine mi corresse.

In gioventù soffrii d’un amore tremendo, comunque unico e casto; e più a lungo ancora avrei

sofferto, se una morte acerba ma utile non avesse completamente spenta una fiamma già

languente.

(Francesco Petrarca, Seniles, XVIII – ‘epistula posteritati’)

3. Io dunque mi chiedo – come spero farai anche tu – e mi dolgo e addirittura, se può star bene

per un uomo, piango ancora chiedendomi: perché mai in vecchiaia stiamo vivendo anni così

peggiori rispetto a quelli della nostra fanciullezza? […]

Non mi pare che intanto sia inutile o senza motivo di gioia ricordare un po’ il nostro passato:

perciò volgi indietro gli occhi insieme a me, quanto più lontano puoi. […] Proprio al confine

tra infanzia e fanciullezza, ci trasferimmo quasi contemporaneamente in Francia…

(Francesco Petrarca, lettera a Guido Sette –Seniles, X, 2)

4. Voi ch' ascoltate in rime sparse il suono

di quei sospiri ond' io nutriva 'l core

in sul mio primo giovenile errore

quand'era in parte altr' uom da quel ch' i' sono,

del vario stile in ch' io piango et ragiono

fra le vane speranze e 'l van dolore,

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ove sia chi per prova intenda amore,

spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sí come al popol tutto

favola fui gran tempo, onde sovente

di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,

e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente

che quanto piace al mondo è breve sogno.

(Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, I)

5. Sublime specchio di veraci detti,

Mostrami in corpo e in anima qual sono:

Capelli, or radi in fronte, e rossi pretti;

Lunga statura, e capo in terra prono;

Sottil persona in su due stinchi schietti;

Bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;

Giusto naso, bel labro, e denti eletti;

Pallido in volto, più che un re sul trono:

Or duro, acerbo, ora pieghevol, mite;

Irato sempre, e non maligno mai;

La mente e il cor meco in perpetua lite:

Per lo più mesto, e talor lieto assai,

Or stimandomi Achille, ed or Tersite:

Uom, se’ tu grande, o vil? Muori, e il saprai.

(Vittorio Alfieri, ‘sonetto autoritratto’)

6. Gabriello Chiabrera nacque in Savona l'anno della salute 1552 a' diciotto di giugno, e

nacque quindeci giorni dopo la morte del padre. […] Giunto Gabriello all'età di anni nove fu

condotto a Roma ove Giovanni faceva dimora; et ivi fu nudrito con maestro in casa, da cui

apparò la lingua latina; in quegli anni lo prese una febbre; e dopo due anni lo percosse una

altra, la quale sette mesi il tenne senza sanità, e l'inviava a morire etico. Giovanni suo zio

per farlo giocondo con la compagnia di altri giovinetti il mandava al colegio de' PP.

Giesuiti; et ivi prese vigore, e fecesi robusto; et udì letioni di filosofia anzi per vivere, che

per apprendere; e così visse fino all'età di venti anni; […] Avenne che senza sua colpa fu

oltraggiato da un gentil huomo romano; et egli vendicossi; e potendo meno, gli convenne

abbandonare Roma; né per dieci anni valse ad ottenere la pace. Ma egli si era come

dimenticato di Roma, e vinto dal grande otio in patria erasi dato alla dolcezza degli studii; e

cosi menò sua vita senza altro pensare. [...]

Questo è quanto si possa ricordare di Gabriello come di un communale cittadino; e poco

monta saperlo. Di lui come di scrittore forse altri haverà vaghezza di intendere alcuna cosa;

et io lealmente dirò in questa maniera. […]

Fu di communale statura; di pelo castagno; le membra hebbe bene formate; solamente hebbe

difetto negli occhi, e vedeva poco da lunge; ma altri non se ne avedeva; nella sembianza appariva pensoso, ma poi usando congli amici era giocondo; era pronto all'ira, ma a pena

ella sorgeva in lui, che elli si ammorzava; pigliava poco cibo, né dilettavasi molto nei

condimenti artificiosi; ben beveva molto volentieri, ma non già molto, et amava di spesso

cangiare vino, et anco bicchieri; il sonno perdere non potea senza molestia; scherzava

parlando, ma d'altrui non diceva male con rio proponimento.

(Gabriello Chiabrera, autobiografia – ca. 1635)

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7. Nacque Giovan Battista Marino in Napoli, e nacque certamente poeta: perciò che dal bel

principio in fin all’ultimo termine della vita sua ebbe tanto familiari le Muse, che con le sue

leggiadrissime poesie ha maggiormente arricchito l’Italia, e non solo essa, ma tutta l’Europa

ne gode. A Giovan Francesco suo padre, che fu cittadino e giureconsulto napolitano, il

maestro del figliuolo soleva in questa sentenza sempre favellare: - Beato voi, che avete

questo figlio: grand’uomo riuscirà -, conoscendo che a gran riuscita lo portava l’eminenza

dell’intelletto suo. [...]

Il Cavalier Marino fu molto inclinato a gli amori, facile ad adirarsi ed a deporre lo sdegno,

di pensieri liberi e schietti, generoso e magnanimo, benefico e ufficioso con gli amici,

attissimo al negozio, sofferente ne i travagli, accorto nel dissimulare, sincero nel rimetter

l’ingiurie, coraggioso e bravo quando stimò necessario rissentirsi. [...]

Quanto alla constituzione del corpo, mostrò la natura altresì di non avere, o aver di poco

mancato alla necessaria e perfetta simmetria: posciaché era si statura non di molto eccedente

l’ordinaria, di faccia lunghetta ma non disdicevole, di fronte spaciosa, d’occhi azzurri ed

acuti, di bocca anzi grande che no con labbra grossette, di naso non grande, non picciolo,

non simo, non curvo, ma retto e di proporzionata misura[…], di bella carnagione, quando le

fatiche ed i disagi de’ suoi continui studi non l’avessero mortificata e resa macilenta, come

s’è detto; di pelame che tirava al biondo, se bene l’età cominciava a colorirlo di bianco;

nutriva poca barba, e portava una capellatura lunga fin sotto gli orecchi, la quale sì come per

natura non era folta, così non era per artificio colta né acconcia. Era di gesti e movimenti

leggiadri, ma tal ora spiranti impazienza o denotanti astrazione: onde pareva anco in viso

malinconico, se ben per altro era d’aspetto grato e gentile.

(Giovan Battista Baiacca, Vita del Cavalier Marino, 1625)

8. È un’impresa spinosa, e più di quanto sembri, seguire un andamento così vagabondo come

quello del nostro spirito; penetrare le profondità opache delle sue pieghe interne; scegliere e

fissare tanti minimi aspetti dei suoi moti. Ed è un passatempo nuovo e straordinario che ci

allontana dalle comuni occupazioni del mondo, sì, e anche dalle più considerevoli. […] Non

c’è descrizione tanto difficile come la descrizione di se stessi, né certo altrettanto utile.

(Michel de Montaigne, Essais, De l’exercitation)

9. Mi reputo molto fortunato di avere avuto, fin dalla giovinezza, l’opportunità di seguire certe

vie che m’hanno condotto ad alcune considerazioni e massime, da cui ho formato un metodo

atto ad accrescere gradualmente la mia conoscenza e ad elevarla a poco a poco al più alto

punto che la mediocrità del mio ingegno e la brevità della mia vita le consentiranno di

raggiungere. [...]

Sarò lieto di mostrare in questo discorso quali sono le vie che ho seguite e di ritrarre come in

un quadro la mia vita, affinché ciascuno possa formarsene un giudizio. […]

Il mio proponimento non è d’insegnare qui il metodo che ciascuno deve seguire per

indirizzare bene la sua ragione, ma soltanto di mostrare in che modo ho cercato d’indirizzar

la mia. […] Io non presento questo scritto che come una storia, o, se vi pare, come una

favola, in cui, in mezzo a taluni esempi che possono essere imitati, se ne trovano forse molti

altri che si avrà ragione di non seguire; spero che esso sarà utile ad alcuni, senza essere nocivo a nessuno, e che tutti mi ringrazieranno della mia franchezza.

(René Descartes, Discours de la méthode, 1637)

10. Penso di raccogliere la vita d'alcuni letterati viventi d'Italia scritte da loro stessi e di

pubblicarle. In queste vite vorrei che questi signori stendessero la storia de' loro ingegni,

cioè da chi abbiano apparato il metodo de' loro studi, perché abbiano seguita più l'autorità di

questo o di quel maestro, di questo o di quell'autore, in somma più questa che quella scuola;

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che libri abbiano sin ad or pubblicati; se ne' libri da lor pubblicati vi ritrovino di che pentirsi

e ritrattarsi; quali sieno, se ne hanno, i loro oppositori e quali i loro apologisti; quali altre

opere pensino di pubblicare. Vorrei che stendessero, per rendere l'opera più curiosa e

rispondente al titolo, la loro nascita, patria, impieghi, avventure, ma non già i loro costumi,

per non obbligarli a confessarsi in pubblico.

(Giovan Artico di Porcìa, lettera a Lodovico Antonio Muratori, 1721)

11. Nostra intenzione dunque si è di esporre al pubblico per mezzo delle loro stesse penne le

Notizie d’alcuni letterati viventi d’Italia e de’ loro studi. […]. Questa istoria dovrà, siccome

testé s’è poi accennato, da essi scriversi, contezza in essa dando del tempo della lor nascita,

del nome de’ loro padri, e della loro patria, e di tutte quelle avventure della loro vita, che

render la ponno più ammirabile, e più curiosa, e che onestamente da essi senza carico del

loro buon nome, e senza pena d’ un giusto rossore puote al mondo, ed ai posteri

comunicarsi. Appresso o separatamente raccontando, o intrecciando, secondo l’occasione, o

secondo lor genio, alle accennate notizie quelle de’ loro studi, una più distinta narrazione

verran descrivendo di questi, stendendola con le più esatte circostanze, e minute. […]

Fatto dal nostro letterato questo discernimento per le accennate ed altre scienze, e bell’arti

da lui imparate, e additati gli abusi delle scuole, se avenuto gli sarà d'osservarne, passerà a

ragionare di quella scienza, o arte, a cui con istudio particolare s'è appigliato, l'opere

notando, che ha pubblicato, o è per pubblicare, quali autori abbia seguiti, o imitati, e perché;

e perché pure gli altri trattanti la stessa materia abbia schifati; se nell'opere sue di che

ritrattarsi, o pentirsi ritrovi, le critiche accennando, e le apologie, che fatte si sono, o si

potrebbero fare contro, o in difesa loro […]

Qui è dove li preghiamo a svilupparsi dalle catene dell'amor proprio; e sciolti da ogni privata

passione dichiararsi per lo bene pubblico, la piccola gloria di far illustri solamente se stessi

posponendo alla vera, e grande di giovare a una intera nazione.

(Giovan Artico di Porcìa, Progetto ai letterati d’Italia per iscrivere le loro vite, 1721)

12. Della vanità, s'ella nol sa, purtroppo n'ho la mia parte in capo, bench'io mi vada ingegnando

di ricoprirla; ma come sottrarla ora al guardo del pubblico, se debbo parlare di me

medesimo, quando fin l'esporre i propri difetti, non che le proprie lodi a chi s'intende del

cuore dell'uomo si fa conoscere bene spesso per uno scaltro e finissimo amor di noi stessi?

Tuttavia vada come si voglia: il comandamento viene da intenzion troppo buona e da

padrone arbitro de' miei voleri: mi darà licenza il pubblico che anche in questo io

l'ubbidisca, giacché vien creduto che l’ ubbidirla possa tornare in vantaggio del pubblico

stesso.[...]

Ora dunque le dirò che il metodo de' miei primi studi fu il comune degli altri, avendo anch'io

succiata dalle pubbliche scuole la lingua latina coll'altre arti e scienze susseguenti; se non

che ne' miei più teneri anni mi avvenni in alcuni romanzi, i quali tanto mi solleticarono il

gusto, che quanti ne potei mai ottenere, tutti con incredibile avidità divorai, fino a portarli

meco alla mensa, pascendo con più sapore allora di quelle favole la mia curiosità, che il

corpo de' cibi. S'io dirò che questa lettura servì non poco a svegliarmi l'ingegno, a facilitarmi

lo stile e ad invogliarmi sempre più di leggere, forse dirò il vero. Ma debbo nello stesso

tempo intimare massimamente ai giovanetti che non venisse lor mai talento d'imitare un sì

pericoloso esempio; perciocché quand'anche potessero qualche cosa guadagnare dalla parte

dell'ingegno, potrebbono perdere molto da quella de' costumi. [...]

Mi verrà finalmente chiedendo V. S. Illustrissima che nuovo lavoro io abbia fra le mani, ben

sapendo ella che d'ordinario ognuno suol morire nel suo mestiere. Quasi non mi attento a

dirlo, tanto è grandiosa un'altra impresa che medito [i Rerum Italicarum scriptores].[...]

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Ed ecco, riveritissimo mio sig. conte, un abbozzo de' miei poveri studi, e dell'ordine, o

disordine da me tenuto in essi. Ma vo' ben aggiugnere due altre parole intorno ad un punto,

che è il più essenziale di tutti. Cioè vo' dir francamente ad ogni persona studiosa che di

leggieri andranno a finir male le applicazioni e il metodo di un letterato, s'egli con tanto

studiare non istudia nel medesimo tempo due importantissime cose e non le fa eziandio

comparire in tutti i suoi libri. Ha egli, dico, da imparar sopra tutto ad essere uomo onorato e

uomo dabbene. Quest'obbligo l'ha chiunque entra nel consorzio de' mortali e professa la

divina legge di Cristo; ma più debbono attendervi le persone di lettere, al sapere ch'egli non

vivono né scrivono solamente a se stessi, ma anche al pubblico, e i lor sentimenti ed esempli

passano colle lor opere pubblicate ad istruire nel bene o nel male infinite altre persone.

(Lodovico Antonio Muratori, risposta a Giovan Artico di Porcìa, 1721)

13. Il signor Giambattista Vico egli è nato in Napoli l'anno 1670 da onesti parenti, i quali

lasciarono assai buona fama di sé. Il padre fu di umore allegro, la madre di tempra assai

malinconica; e cosí entrambi concorsero alla naturalezza di questo lor figliuolo.

Imperciocché, fanciullo, egli fu spiritosissimo e impaziente di riposo; ma in età di sette anni,

essendo col capo in giú piombato da alto fuori d'una scala nel piano, onde rimase ben cinque

ore senza moto e privo di senso, e fiaccatagli la parte destra del cranio senza rompersi la

cotenna, quindi dalla frattura cagionatogli uno sformato tumore, per gli cui molti e profondi

tagli il fanciullo si dissanguò; talché il cerusico, osservato rotto il cranio e considerando il

lungo sfinimento, ne fe' tal presagio: che egli o ne morrebbe o arebbe sopravvivuto stolido.

Però il giudizio in niuna delle due parti, la Dio mercè, si avverò; ma dal guarito malore

provenne che indi in poi e' crescesse di una natura malinconica ed acre, qual dee essere degli

uomini ingegnosi e profondi, che per l'ingegno balenino in acutezze, per la riflessione non si

dilettino dell'arguzie e del falso. [...]

Quindi, dopo lunga convalescenza di ben tre anni, restituitosi alla scuola della gramatica,

perché egli speditamente eseguiva in casa ciò se gl'imponeva dal maestro, tale speditezza

credendo il padre che fusse negligenza, un giorno domandò al maestro se 'l suo figliuolo

facesse i doveri di buon discepolo; e, colui affermandoglielo, il priegò che raddoppiasse a lui

le fatiche. Ma il maestro scusandosene perché il doveva regolare alla misura degli altri suoi

condiscepoli, né poteva ordinare una classe di un solo e l'altra era molto superiore, allora,

essendo a tal ragionamento presente il fanciullo, con grande animo priegò il maestro che

permettesse a lui di passare alla superior classe, perché esso arebbe da sé supplito a ciò che

gli restava in mezzo da impararsi. Il maestro, più per isperimentare ciò che potesse un

ingegno fanciullesco che avesse da riuscire in fatti, glielo permise, e con sua meraviglia

sperimentò tra pochi giorni un fanciullo maestro di se medesimo. [...]

Mancato a lui questo primo, fu menato ad altro maestro, appo ’l quale si trattenne poco

tempo, perché il padre fu consigliato mandarlo da' padri Gesuiti, da' quali fu ricevuto nella

loro seconda scuola. Il cui maestro, avendolo osservato di buon ingegno, il diede avversario

successivamente a' tre piú valorosi de‘ suoi scolari, de‘ quali egli, con le «diligenze» che

essi padri dicono, o sieno straordinarie fatiche scolastiche, uno avvilì, un altro fe' cadere

infermo per emularlo, il terzo, perché ben visto dalla Compagnia, innanzi di leggersi la

«lista» che essi dicono, per privilegio d'«approfittato» fu fatto passare alla prima scuola. Di

che, come di un'offesa fatta a essolui, il Giambattista risentito, e intendendo che nel secondo

semestre si aveva a ripetere il già fatto nel primo, egli si uscí da quella scuola e, chiusosi in

casa, da sé apprese sull'Alvarez ciò che rimaneva da' padri a insegnarsi nella scuola prima e

in quella dell'umanità, e passò l'ottobre seguente a studiare la logica. Nel qual tempo,

essendo di està, egli si poneva al tavolino la sera, e la buona madre, risvegliatasi dal primo

sonno e per pietà comandandogli che andasse a dormire, più volte il ritruovò aver lui

studiato infino al giorno. Lo che era segno che, avvanzandosi in età tra gli studi delle lettere,

egli aveva fortemente a diffendere la sua stima da letterato. [...]

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Da sì fatta disperazione (tanto egli è pericoloso dare a' giovani a studiar scienze che sono

sopra la lor età!) fatto disertore degli studi, ne divagò un anno e mezzo. Non fingerassi qui

ciò che astutamente finse Renato Delle Carte d'intorno al metodo de' suoi studi, per porre

solamente su la sua filosofia e mattematica ed atterrare tutti gli altri studi che compiono la

divina ed umana erudizione; ma, con ingenuità dovuta da istorico, si narrerà fil filo e con

ischiettezza la serie di tutti gli studi del Vico, perché si conoscano le propie e naturali

cagioni della sua tale e non altra riuscita di litterato. [...]

Errando egli così fuori del dritto corso di una ben regoIata prima giovanezza, come un

generoso cavallo e molto e bene esercitato in guerra e lunga pezza poi lasciato in sua balìa a

pascolare per le campagne, se egli avviene che oda una tromba guerriera, riscuotendosi in lui

il militare appetito gestisce d'esser montato dal cavaliere e menato nella battaglia; cosí il

Vico, nell'occasione di una celebre accademia degl'Infuriati, restituita a capo di moltissimi

anni in San Lorenzo, dove valenti letterati uomini erano accomunati co' principali avvocati,

senatori e nobili della città, egli dal suo genio fu scosso a riprendere l'abbandonato

cammino, e si rimise in istrada.

Egli la pensò fino alle cinque ore della notte antecedente, in ragionando con amici e tra lo

strepito de’ suoi figliuoli, come ha uso di sempre o leggere o scrivere o meditare. [...]

Ma non altronde si può intendere apertamente che ’l Vico è nato per la gloria della patria e

in conseguenza dell’Italia, […] che da questo colpo di avversa fortuna, onde altri arebbe

rinunziato a tutte le lettere, […] egli non si ritrasse punto di lavorare altre opere. [...]

E nel fine dell'anno 1725 diede fuori in Napoli, dalle stampe di Felice Mosca, un libro in

dodicesimo di dodeci fogli, non piú, in carattere di testino, con titolo: Princìpi di una

Scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni, per li quali si ritruovano altri principi del

diritto naturale delle genti, e con uno elogio l'indirizza alle università dell'Europa. In

quest'opera egli ritruova finalmente tutto spiegato quel principio, ch'esso ancor

confusamente e non con tutta distinzione aveva inteso nelle sue opere antecedenti.

(Giovan Battista Vico, autobiografia, 1728)

14. E, come si vede, scrissela da filosofo; imperocché meditò nelle cagioni così naturali come

morali e nell’occasioni della fortuna; meditò nelle sue, ch’ebbe fin da fanciullo, o

inclinazioni o avversioni più ad altre spezie di studi ch’ad altre; meditò nell’opportunitadi o

nelle travversie onde fece o ritardò i suoi progressi; meditò, finalmente, in certi suoi sforzi di

alcuni suoi sensi diritti, i quali poi avevangli a fruttare le riflessioni sulle quali lavorò

l’ultima sua opera della Scienza nuova, la qual appruovasse tale e non altra aver dovuto

essere la sua vita letteraria.

(Vico, Aggiunta all’autobiografia, 1731)

15. Prendo a scrivere la mia vita e quanto siami accaduto nel corso della medesima, non già

perché io presuma di proporla a’ lettori per esempio da imitare le virtú forse da me

esercitate, o da sfuggire i vizi de' quali fui contaminato; ovvero perché contenesse fatti

egregi e memorandi e fuor del corso ordinario delle umane cose adoperati - poiché son

persuaso che, sicome in me non furono estreme virtú od estrema dottrina da imitare, cosí mi

lusingo che non vi saran estremi vizi oppure estrema ignoranza da fuggire. Prendo a scriverla perché, trovandomi ritenuto fra le angustie d'un castello, dove privo di ogni umano

commercio traggo miseramente i miei giorni; e dubitando, per la mia età cadente, non

dovessi quivi finirla; quindi, e per alleggerire in parte la noia e il tedio, e perché,

avvicinandomi alla fine, rammentando con la mente tutte le mie passate gesta, possa ritrarre

conforto dalle buone e pentimento delle ree.

Sono ancora a ciò spinto dal riflettere che, avendomi il mio destino condannato ad esser

bersaglio dell'invida maladicenza di molti miei nemici, i quali non meno presero a

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malmenare i miei libri che a detrarre e malignare le mie azioni, intendo che gli amatori della

verità ne abbiano una sincera e fedele narrazione, e non si dia occasione a' maligni di

oscurarle, o lividamente rapportarle. E poiché, dopo il mio naufragio, vari miei scritti

andarono sparsi di qua e di là, perché tutti sappiano separare i veri da' falsi, che potrebbero

gli invidiosi, forse, a me ascrivere, manifesto qui fedelmente, uno per uno, quali fosser i

miei propri e legittimi parti. Ma sopra tutto prendo a scriverla perché sia a gli altri di

documento, e spezialmente a gli uomini probi ed onesti ed amanti del vero, quanto sia per

essi dura e malagevole la strada che avran da calcare […].

Se, adunque, in essa non vi leggeranno fatti illustri ed egregi, avrà almanco questo pregio:

che altri, avendola innanzi agli occhi, prenda da sé guardia e abbiala per guida e scorta in

passando un mare sí crudele e tempestoso, pieno di sirti e di perigliosi scogli, dove

facilmente potrebbe urtare e sommergersi. Forse potrà anche riuscire di loro utile, in

leggendo nel corso della medesima quanto gli uomini sovente si affatichino indarno fra studi

vani ed inutili, e le preziose ore del tempo inutilmente consumino fra ricerche di cose vane

che niente conducono, né per regger la nostra vita nella strada della virtù, de’ buoni costumi

e delle opere oneste e commendabili presso Dio e presso gli uomini probi, né per illuminare

le nostre menti nelle cognizioni delle scienze utili e necessarie; anzi per maggiormente

invilupparle tra questioni vane ed astratte, delle quali, dopo essersi lungamente affaticati, ne

sapranno molto meno che prima, quando cominciarono ad investigarle.

Io nacqui da onesti parenti a' sette di maggio dell'anno 1676, in una terra dei monte

Gargano, nella Puglia de' Dauni chiamata Ischitella, prossima a' lidi dei mare Adriatico,

dirimpetto all'isole Diomedee, ora dette di Tremiti. Allevato nell'infanzia dalla non men pia

che savia mia madre, Lucrezia Micaglia, ed erudito negli esercizi di pietà con somma

accuratezza e religione, fui mandato a scuola ad apprender grammatica dall'arciprete di

quella chiesa, uomo versato nella lingua latina per quanto comportava la condizione del

luogo, ma molto più commendabile per la sua probità e per l'esemplari ed incorrotti suoi

costumi. [...]

Nella mia adolescenza mancò poco che non tornassi in quello stato nel qual fui prima di

nascere, poiché, infermato di febre ancorché non gravemente, il medico, poco riflettendo al

mio gracile temperamento, mi diede una purgazione preparata con antimonio superiore alle

mie forze; sicché, di sopra con vomiti, e di sotto con profluvi continui, mancò poco che non

esalassi l'anima fra le braccia della mia cara madre. Ma, sicome il pericolo fu grave, così,

quelli cessati, in breve tempo tornai al pristino stato di perfetta salute. [...]

A questo mio naturale si aggiunse che, oltre l'occupazione de' tribunali, tenendo sopra le

spalle il grave peso ond'io volli caricarmi, di proseguire l'intrapresa Istoria civile del Regno,

temeva non mi fosse d'impedimento, accrescendo maggiori occupazioni forensi. A questo

fine, per non mancare ad ambedue, avea distribuito cosí i mesi ed i giorni dell'anno: i

quindici giorni delle ferie pasquali e gli altri tanti delle feste natalizie, sicome quelle dei

carnevale e tutti gli altri giorni festivi che occorrono nel corso dell'anno, quando non fossi

stato impedito da qualche scrittura forense che non pativa dilazione, io l'impiegava al lavoro

dell'Istoria civile. Ma, sopra tutto, mi giovava delle ferie estive e vindemmiali, come piú

lunghe, le quali io, lontano dagli strepiti dei foro, solea passarle nella solitudine di Posilipo

[…].

Nelle ferie estive e vindemmiali trasferiva ogni anno a "Due Porte" il mio domicilio, dove,

non tralasciando il mio mattutino e vespertino esercizio in camminare per quelle campagne,

tutto il rimanente dell'ore si consumava in proseguire il lavoro dell'intrapresa Istoria. Per

questo mio ritiro, e perché, anche dimorando in città, poco solea farmi vedere nelle

conversazioni e nelle altre brigate d'amici a passare il tempo allegro (poiché, se altri potevan

farlo, non io, che oltre le occupazioni del foro avea sopra le spalle quest'altro peso), ne

acquistai presso gli amici il soprannome di "solitario Piero," alludendo all'eremita del Tasso.

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E se bene alcuni sapessero che io travagliava per dover dare alla luce qualche opera,

nulladimanco, poiché io non comunicai se non all'Aulisio ed al Capasso e ad alcuni pochi

strettissimi miei amici l'idea di quella, chi s'immaginava che io componessi l'istoria delle

leggi e magistrati del regno di Napoli, altri che io tessessi le vite de' giurisconsulti

napolitani, e chi una cosa e chi un'altra. Ed io gli lasciava in questi pensieri, per non

insospettire alcuno. [...]

Non devo tralasciare fra tante mie fatiche e noiose occupazioni, che per rilasciar alquanto il

mio animo non trovassi due maniere di sollevarlo: la prima innocente, la seconda da

condonarsi alla debolezza e fragilità dell'umana natura. Prendeva gran piacere degli ameni

lidi del mare di Posilipo e delle campagne e deliziose vedute di "Due Porte," dove io solea

portarmi. Queste mi facevan dimenticare e posporre tutti i diporti della città, de' teatri ed

altre feste e pompe del real palazzo. Ogni tumultuoso spettacolo, ogni concorso della

moltitudine era da me lontano, e fui sempre amante della solitudine fra colli, pianure e valli.

L'altro mio sollievo e ristoro era di godere non men delle belle fattezze del corpo che delle

belle doti dell'animo d'una donzella, che io, con volere di sua madre vedova, e de' fratelli,

ebbi verginella in mio potere; e non fu se non per tema di maggior male, poiché la lor

povertà, e l'avvenenza della giovane, forse l'avrebbe condotta a peggior destino. Con lei, che

m'amava tanto quanto era da me riamata, e che io avea posta in città, in sicura custodia di

donne oneste e sovente l'avea per compagna nelle mie solitudini di Posilipo e "Due Porte,"

alleggeriva le mie tetre e malinconiche occupazioni, poiché teneva somma cura del mio

corpo e delle mie cose domestiche: io riposavo in lei, né mi dava altro impaccio che de' miei

studi. Ebbi da questa onesta e castissima donna due figliuoli: un maschio ed una femmina. E

ben si conobbe quanto ella fosse savia e dotata di somma pietà e virtú; che, costretto io a

partir da Napoli per l'imperial corte di Vienna, ella volle chiudersi in monastero con la

bambina che avea seco, dove, menando una vita santissima, non ne volle uscir mai,

lasciando il figliuol maschio alla cura di mio fratello. [...]

E’ già scorso un anno e siamo entrati nel secondo, che in questa solitudine soffro la pena ed

il tedio d'una vita misera e noiosa, e come fuori del mondo. Da che ci fui menato, niente so

di ciò che sia avvenuto in quella o di pace, o di guerra, o di altro, e molto meno de' miei

congionti ed amici; sicché sembrami il mio vivere un'immagine di morte.

A questo fine, se mai venissi io qui a mancare, avendomi ella [= la sorte] esposto come

bersaglio a gli occhi di tutti, e resomi noto assai piú per l'incessanti e fiere sue persecuzioni,

che per le mie opere divolgate alle stampe, affinché tutti siano informati de' miei

avvenimenti e sappiano discernere il vero da falsi rapporti, de' quali non dubbito che avrà

ingombrate le menti de' piú semplici, ho voluto, dandomene opportunità quest’ ozio e questa

solitudine, dar al mondo una verace e fedel narrazione della mia vita e quanto nel corso della

medesima siami avvenuto.

Forse avverrà che alcuni, mossi da spirito di pietà e di compassione, sospireranno morto chi,

vivo, disprezzarono o non curarono.

A me, che non per odio altrui o per disprezzo, ma unicamente per amor della verità e per

investigarla fra l'oscurità de' più incolti e tenebrosi secoli ho sofferte tante fatiche e travagli,

se accaderà fra queste alpestri rupi lasciar il mio corpo esanime, pregherò Iddio, ch‘è la

Verità istessa, che accolga il mio spirito in pace: e sicome per lei ho sofferti tanti strazi e

martirii, giusto è che finalmente diale tranquillità e riposo.

Pregherò pure i paesani e viandanti che traversando per questi monti, e dovendo, nel passar

per la Savoia in Francia, calcar la strada donde non molto lontano vedesi il castello di

Miolans, volti i loro pietosi occhi al gran sasso sotto il quale giaceranno sepolte le mie

fredde ossa, mossi da spirito di pietà, in passando lor dicano: «Ossa aride ed asciutte, abbiate

quella pace e riposo che vive non poteste ottener giammai».

(Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo, 1736-37)

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16. Ecco il solo ritratto d’uomo, dipinto esattamente al naturale e assolutamente fedele al vero,

che esiste e che mai probabilmente esisterà. Chiunque voi siate, che la mia sorte o la mia

fiducia hanno reso arbitro di queste pagine, io vi scongiuro, per le mie sventure, per le vostre

viscere, e a nome dell’intiera specie umana, di non annientare un’opera utile e unica,

un’opera che può servire come prima pietra di paragone per quello studio degli uomini che è

ancora certamente da cominciare e di non privare l’onore della mia memoria dell’unico

sicuro documento sul mio carattere che non sia stato sfigurato dai miei avversari. E foste

infine voi stessi uno dei miei implacabili nemici, desistete dall’esserlo verso le mie ceneri, e

non perpetuate la vostra ingiustizia crudele sino al tempo in cui né voi né io esisteremo più,

affinché possiate almeno una volta offrirvi la nobile prova d’essere stato generoso e buono

quando avreste potuto essere malefico e vendicativo; ammesso che il male inflitto a un

uomo che non ne ha mai fatto e voluto fare, possa assumere il nome di vendetta.

(Jean-Jacques Rousseau, Confessions, proemio)

17. Che non si obietti che, essendo soltanto un uomo del popolo, io non abbia nulla da dire che

meriti l’attenzione dei lettori. Ciò può esser vero degli avvenimenti della mia vita: ma io

scrivo meno la storia di quegli avvenimenti che quella dello stato della mia anima nel

momento in cui sono accaduti. E le anime non sono più o meno illustri che quando hanno

sentimenti più o meno grandi e nobili, idee più o meno vive e numerose. I fatti non sono,

qui, che delle cause occasionali. Qualunque sia l’oscurità in cui sono vissuto, se ho pensato

più e meglio di un re, allora la storia della mia anima è più interessante che quella della sua.

(Rousseau, Confessions, ms. di Neuchâtel)

18. Tutte le carte che avevo raccolto per supplire alla mia memoria e guidarmi in quest’impresa,

passate in mani altrui, non ritorneranno mai più nelle mie. Su una sola guida fedele posso

ormai contare, la catena dei sentimenti che hanno caratterizzato il progredire del mio essere,

e, da essi, quella degli eventi che ne son stati la causa o l’effetto. […] Ho promesso la storia

della mia anima, e per scriverla fedelmente non m’occorrono altre memorie: è sufficiente,

come ho fatto sin qui, che io penetri nel mio intimo. [...] I dolci ricordi dei miei begli anni

trascorsi con tanta pace quanta innocenza mi hanno lasciato mille impressioni incantevoli

che mi piace rievocare senza fine. Presto si vedrà quanto sono diversi quelli del resto della

mia vita, e il ricordo me ne rinnova l’amarezza. Guardandomi bene dall’inasprire quella del

mio stato con tali tristi memorie, le scarto per quanto m’è possibile, e spesso vi riesco al

punto da non poterle più ritrovare all’occorrenza. Questa facilità di dimenticare i mali è una

consolazione che il cielo mi ha risparmiato fra quelli che un giorno la sorte mi avrebbe

accumulato sul capo.

(Rousseau, Confessions, libro VII)

19. Mi inoltro in un’impresa senza precedenti, l’esecuzione della quale non troverà imitatori.

Intendo mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della sua natura; e quest’uomo sarò

io.

Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quanti ho

incontrati; oso credere di non essere fatto come nessuno di quanti esistono. Se pure non

valgo di più, quanto meno sono diverso. Se la natura abbia fatto bene o male a spezzare lo

stampo nel quale mi ha formato, si potrà giudicare soltanto dopo avermi letto. [...]

La tromba del giudizio finale suoni pure, quando vorrà: con questo libro fra le mani mi

presenterò al giudice supremo. Dirò fermamente: «Qui è ciò che ho fatto, ciò che ho

pensato, ciò che sono stato. Ho detto il bene e il male con identica franchezza. Nulla ho

taciuto di cattivo e nulla ho aggiunto di buono, e se mi è occorso di usare, qua e là, qualche

trascurabile ornamento, l’ho fatto esclusivamente per colmare i vuoti della mia debole

memoria; ho potuto supporre vero quanto sapevo che avrebbe potuto esserlo, mai ciò che

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sapevo falso. Mi sono mostrato così come fui, spregevole e vile, quando lo sono stato,

buono, generoso, sublime quando lo sono stato: ho disvelato il mio intimo così come tu

stesso l’hai visto. Essere esterno, raduna intorno a me la folla innumerevole dei miei simili;

ascoltino le mie confessioni, piangano sulle mie indegnità, arrossiscano delle mie miserie.

Scopra ciascuno di essi a sua volta, con la stessa sincerità, il suo cuore ai piedi del tuo trono;

e poi che uno solo osi dirti: «Io fui migliore di quell’uomo.» [...]

Sono nato a Ginevra nel 1712, da Isaac Rousseau, cittadino, e da Suzanne Bernard,

cittadina. [...]

Mia madre possedeva per difendersi qualcosa di più forte della pura virtù: amava

teneramente suo marito; lo sollecitò a ritornare: egli lasciò tutto e venne a casa. II triste

frutto di questo ritorno fui io. Dieci mesi più tardi, venni al mondo debole e malaticcio;

costai a mia madre la vita e la mia nascita fu la prima delle mie sventure. Non ho mai saputo

come mio padre sopportò quella perdita, ma so che non se ne consolò mai. Credeva di

rivederla in me, senza poter dimenticare che io gliel’avevo tolta; non mi abbracciò mai

senza che io avvertissi dai suoi sospiri, dalle sue strette convulse, che un rimpianto amaro si

mescolava alle sue carezze; e che perciò erano anche più tenere. [...]

*

Durante due intieri anni non fui né testimone né vittima d’un sentimento violento. Tutto nel

mio cuore nutriva le disposizioni ricevute dalla natura. Non conoscevo nulla di più affasci-

nante che veder tutti contenti di me e d’ogni cosa. Mi ricorderò sempre che al tempio,

rispondendo al catechismo, nulla mi turbava di più, se m’accadeva di esitare, come scorgere

sul viso della signorina Lambercier segni d’inquietudine e di pena. Questo solo già mi

affliggeva, più della vergogna di sbagliare in pubblico, che pur mi addolorava

estremamente; poiché, poco sensibile alle lodi, lo fui sempre molto alla vergogna, e posso

qui dire che il timore dei rimproveri della signorina Lambercier mi angosciava meno del

timore di rattristarla.

Nondimeno, ella non mancava all’occorrenza di severità, al pari di suo fratello; ma poiché

questa severità, quasi sempre giusta, non era mai astiosa, me ne affliggevo, ma non mi

ribellavo. Mi rincresceva più deludere che venire punito, e un segno di malcontento m’era

più crudele di un castigo corporale. È per me imbarazzante spiegarmi meglio, ma necessario.

Come nutriva per noi l’affetto di una madre, la signorina Lambercier ne esercitava anche

l’autorità, che la spingeva talvolta fino al punto di infliggerci il castigo che si dà ai bambini,

quando l’avevamo meritato. Per molto tempo si limitò alla minaccia, e questa minaccia di un

castigo per me del tutto nuovo mi spaventava moltissimo; ma poi che l’ebbi subito, lo trovai

meno terribile, in realtà, di quanto me l’ero aspettato, e ancora più strano è come quel

castigo mi affezionasse anche più a colei che me l’aveva inflitto.

Occorreva veramente tutta la schiettezza di questo affetto e tutta la mia naturale dolcezza,

per impedirmi di cercare di meritarmi nuovamente un trattamento del genere: perché avevo

trovato nel dolore, nella vergogna stessa, una mescolanza di sensualità che mi aveva lasciato

più desiderio che timore di subirlo una volta ancora dalla stessa mano.

La recidiva, che allontanavo senza temerla, arrivò senza mia colpa, vale a dire senza ch’io lo

volessi, e ne approfittai, posso dire, in tranquillità di coscienza. Ma quella seconda volta fu

anche l’ultima: la signorina Lambercier, essendosi indubbiamente resa conto, da qualche

indizio, che il castigo non otteneva il suo scopo, dichiarò di rinunciarvi e che la affaticava

troppo. Avevamo dormito fino a quel momento nella sua camera, e, d’inverno, qualche

volta, perfino nel suo stesso letto. Due giorni dopo ci sistemarono in un’altra stanza; e da

quel momento godetti il privilegio, al quale avrei volentieri rinunciato, d’essere trattato da

lei come un ragazzo maturo.

Chi crederebbe che quel castigo da bambino, ricevuto a otto anni per mano d’una donna di

trenta, abbia potuto determinare i miei gusti, i miei desideri, le mie passioni, la mia

personalità per il resto della vita, e precisamente nel senso opposto a quello che sarebbe

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dovuto derivarne naturalmente? Nel momento stesso in cui i miei sensi si accesero, i miei

desideri cedettero a un tale inganno che, limitati a quanto avevano provato, non

s’indirizzarono alla ricerca d’altre motivazioni. [...]

Non solo, dunque, fu così che con un temperamento ardentissimo, assai lascivo e precoce,

trascorsi la pubertà senza desiderare né conoscere altri piaceri dei sensi all’infuori di quelli

dei quali la signorina Lambercier m’aveva molto innocentemente dato l’idea […]. Perciò ho

trascorso la vita ad agognare e a tacermi presso le creature che più ho amato; e, non osando

mai dichiarare la mia inclinazione, la trastullavo perlomeno con rapporti che me ne

conservassero l’idea.

Starmene ai ginocchi di un’amante imperiosa, obbedire ai suoi ordini, implorarne il perdono

erano per me dolcissimi godimenti, e la più viva delle immaginazioni m’infiammava il

sangue quando più avevo l’aria di un amante timidissimo. S’immagina facilmente come

questo modo di far l’amore conceda solo lenti progressi, e quanto poco sia pericoloso per la

virtù di quelle che ne sono l’oggetto. Dunque ho posseduto ben poco, ma non ho tralasciato

di godere molto a modo mio, vale a dire con l’immaginazione. [...]

Ho compiuto il primo e più penoso passo nel labirinto oscuro e fangoso delle mie

confessioni. La cosa più difficile a dirsi non è la più colpevole, ma piuttosto la più ridicola e

vergognosa. Da questo momento son sicuro di me. […]

*

Chi crederebbe, per esempio, che una delle basi più solide dell’animo mio venne temprata

nella medesima sorgente da cui mi colarono nel sangue lussuria ed effeminatezza? […]

Un giorno stavo studiando la lezione, solo nella stanza contigua alla cucina; la fantesca

aveva posto ad asciugare sulla piastra del camino i pettini della signorina Lambercier.

Quando venne a ritirarli, ne trovò uno in cui tutti i denti di lato erano rotti. Di chi la colpa

del guasto? Nessuno all’infuori di me era entrato nella stanza. M’interrogano: nego d’aver

toccato il pettine; il reverendo e la signorina si uniscono, mi esortano, mi urgono, mi

minacciano; persisto con testardaggine; ma il convincimento era troppo forte ed ebbe partita

vinta di tutte le mie proteste […] ma quella volta [il castigo] non mi venne inflitto dalla

signorina Lambercier. Scrissero allo zio Bernard, che accorse. […]

Non riuscirono a strapparmi la confessione che esigevano; e, pur ripreso varie volte e posto

nella più spaventosa situazione, fui irremovibile: avrei sofferto la morte, e mi ci ero risolto.

[…] Uscii dalla prova crudele letteralmente a pezzi, ma trionfante.

Oggi sono trascorsi quasi cinquant’anni da quell’evento, e non ho paura ormai di venir

punito daccapo per lo stesso fatto; ebbene, dichiaro alla luce del sole che ne ero innocente,

che non avevo né rotto né toccato quel pettine. […]

Figuratevi un carattere timido e docile nella vita ordinaria, ma ardente, fiero, indomabile

nelle passioni, un bambino governato sempre dalla voce della ragione, sempre trattato con

dolcezza, equità, condiscendenza, che non aveva nemmeno il sospetto dell’ingiustizia e che,

per la prima volta, ne sperimenta una così tremenda proprio da parte di coloro che adora e

rispetta sopra tutti: quale capovolgimento d’idee, quale disordine di sentimenti, quale

sconvolgimento nel cuore, nella mente, in tutto il piccolo essere intelligente e morale!

Sento, scrivendo questo, che il polso ancora mi si accelera; quegli istanti mi saranno sempre

presenti, campassi mill’anni. Quel primo sentimento della violenza e dell’ingiustizia è

rimasto così profondamente scavato nell’animo mio, che tutti i pensieri che mi ci conducono

mi restituiscono la prima emozione, e quel sentimento, in origine relativo solo a me, ha

preso una tale consistenza, si è talmente staccato da qualsiasi interesse personale, che il

cuore mi si infiamma allo spettacolo o al racconto d’ogni azione ingiusta, qualunque ne sia

l’oggetto e il luogo ove sia stata commessa, come se l’effetto ricadesse su di me. […]

Là fu il termine della serenità della mia vita infantile.

(Rousseau, Confessions, libro I)

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20. Non ho promesso di offrire ai lettori un grande personaggio, ho promesso di descrivermi

come sono; e per conoscermi nell’età matura bisogna avermi conosciuto bene in gioventù.

Siccome gli oggetti suscitano su di me in generale minor impressione del loro ricordo, ed

essendo le mie idee tutte in immagini, i primi segni che si sono impressi nel mio cervello vi

sono rimasti, e quelli incisi successivamente anziché cancellarli si sono combinati con gli

altri. […]

(Rousseau, Confessions, libro IV)

21. Nel descrivere i miei viaggi, mi sento come quando li vivevo: non vorrei mai arrivare. Il

cuore mi batteva di gioia avvicinandomi alla mia cara Mamma, eppure non mi affrettavo. Mi

piace camminare a mio agio e fermarmi quando mi aggrada. La vita ambulante è quella che

fa per me. [...]

Ciò che rimpiango maggiormente, per i particolari della mia vita di cui ho perso il ricordo, si

è di non aver tenuto un diario dei miei viaggi. Non ho mai pensato tanto, tanto vissuto, tanto

sentito di esistere, non sono mai stato tanto me stesso – se così si può dire – come in quelli

che ho compiuto solo e a piedi. La marcia ha qualcosa che mi anima e ravviva le idee: sono

quasi incapace di pensare quando sto fermo, e bisogna che il mio corpo si scuota affinché lo

spirito gli si accompagni. [...]

Camminare a piedi col bel tempo, in un bel paese, senza fretta, e avere per meta un oggetto

piacevole: ecco fra i modi di vivere il più caro ai miei gusti. Del resto, si sa già che cosa

intendo per bel paese. Mai paese di pianura, per bello che fosse, parve tale ai miei occhi. Mi

ci vogliono torrenti, rupi, abeti, fondi boschi, montagne, scoscesi sentieri da salire o

discendere, precipizi ai miei fianchi da farmi paura. Provai quel piacere, e lo gustai in tutto il

suo incanto, avvicinandomi a Chambéry. [...]

Non lontano da una gola chiamata Pas-de-l’Echelle, sotto al gran passaggio scavato nella

roccia in località detta Chailles, corre e ribolle in orridi abissi un fiumicello che sembra

abbia consumato millenni a scavarli. Sull’orlo del sentiero hanno costruito un parapetto per

scongiurare le disgrazie: ciò mi consentiva di contemplare il fondo e di guadagnarmi

vertigini a mio perfetto agio; giacché quel che c’è di più piacevole nella mia passione per i

luoghi dirupati è che mi danno il capogiro, e mi piace molto la vertigine purché mi senta al

sicuro. Ben appoggiato al parapetto, sporgevo il naso, e restavo lì ore intere, intravvedendo

di tanto in tanto quella spuma e quell’acqua azzurra di cui udivo il mugghiare attraverso le

strida dei corvi e degli uccelli rapaci che volavano di roccia in roccia e di fratta in fratta,

cento tese sotto di me. Dove il pendio era abbastanza uniforme e la sterpaglia abbastanza

rada per lasciar passare dei sassi, andavo a cercarne lontano i più grossi che riuscivo a

portare, li ammucchiavo sul parapetto, e poi, lanciandoli uno dopo l’altro, mi divertivo a

vederli rotolare, rimbalzare e volare in mille schegge prima di toccare il fondo del preci-

pizio.

Più vicino a Chambéry ebbi uno spettacolo simile in senso contrario. Il sentiero passa ai

piedi della più bella cascata che abbia mai visto. La montagna è talmente scoscesa che l’ac-

qua si stacca di netto e piomba in un’arcata, lontano quanto basta perchè si possa passare, tra

roccia e cascata, qualche volta senza bagnarsi. Ma se non si prendono bene le misure, ci si

trova facilmente ingannati, come accadde a me: infatti, a causa dell’ altezza estrema, l’acqua

si divide e cade polverizzandosi, e avvicinandosi troppo a quella nuvola senza avvedersi

subito che ci si bagna, in un istante si è fradici.[…]

(Rousseau, Confessions, libro IV)

22. Leggere mangiando fu sempre un mio capriccio; in mancanza d’un colloquio a quattr’occhi,

ciò costituisce per me il surrogato della compagnia che mi manca. Così, divoro prima una

pagina, poi un boccone, ed è come se il libro pranzasse con me.

(Rousseau, Confessions, libro VI)

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23. Non solo mi costa render le idee: faccio anche fatica ad averne. Ho studiato gli uomini e mi

ritengo un ottimo osservatore, tuttavia non so scorger nulla di quanto vedo; non vedo bene

se non ciò che mi rammento, e non ho spirito se non nei miei ricordi. Di tutto quanto si dice,

si fa o succede in mia presenza non avverto nulla, non penetro nulla: la sola esteriorità è

quanto mi colpisce. Ma, dopo, tutto mi ritorna alla mente: ricordo il luogo, il tempo, il tono,

lo sguardo, il gesto, la circostanza; nulla mi sfugge. Allora, da quanto è stato fatto o detto,

ricavo quanto si era pensato, ed è raro che sbagli.

(Rousseau, Confessions, libro III)

24. - Chi è? - diss'io con voce malferma pei singhiozzi che mi agitavano ancora il petto.

L'uscio s'aperse allora e la Pisana, mezzo ignuda nella sua camicina, a piedi nudi, e tutta

tremante di freddo, saltò d'improvviso sul mio letto.

- Tu? cosa hai?... cosa fai?... - le dissi io non rinvenendo ancora dalla sorpresa.

- Oh bella! ti vengo a trovare e ti bacio, perché ti voglio bene - mi rispose la fanciulletta. -

Mi sono svegliata che la Faustina disfaceva il tuo letto, e siccome seppi che non volevano

piú lasciarti dormire nella nostra camera, e che ti avevano messo con Martino, son venuta

quassù a vedere come stai, e a domandarti perché sei scappato oggi e non ti sei piú fatto

vedere.

- Oh cara la mia Pisana, cara la mia Pisana! - mi misi a gridare stringendomela di tutta forza

sul cuore.

- Non gridar tanto che ci sentano poi in cucina - rispose ella accarezzandomi sulla fronte. -

Cos'hai qui? - la aggiunse sentendosi bagnata la mano e guardandola contro il chiaro del

lume.

- Sangue, sangue; sei tutto insanguinato!... Hai qui sulla fronte un'ammaccatura che ne getta

fuori a zampilli!... Cos'hai fatto? sei forse caduto o hai dato in qualche spino?

- No, non fu nulla... è stato contro la merletta della porta - risposi io.

- Bene, bene; comunque la sia, lascia far a me a guarirti - soggiunse la Pisana. E mi mise la

bocca sulla ferita baciandomela e succiandomela, come facevano le buone sorelle d'una

volta sul petto dei loro fratelli crociati; e io le veniva dicendo:

- Basta, basta, Pisana: ora sto benissimo! non mi accorgo nemmeno piú d'essermi fatto male!

- No, esce ancora un poco di sangue - rispondeva ella, e mi teneva ancora la bocca sulla

fronte, serrata con tal forza che non pareva una bambina di otto anni.

Finalmente il sangue fu stagnato, e la vanerella insuperbiva di vedermi tanto beato come era

di quelle sue carezze. [...]

- Sí; ma mi dispiace quasi, che tu arrischi cosí di buscarti dalla mamma qualche castigo.

- Se dispiace a te, a me non importa, anzi mi piace - ella rispose con un atto di vezzosa

superbietta, squassando la testa all'indietro per liberarsi la fronte dai capelli disciolti che la

avevano ingombra […]

- E lascia che io ringrazi te; - la soggiunse, inginocchiandomisi vicino e baciuzzandomi la

mano - perché seguiti a volermi bene anche quando son cattiva. Ah sí! tu sei proprio il

fanciullo piú buono e piú bello di quanti me ne vengono dintorno, e non capisco come non

mi castighi mai di quelle malegrazie che ti faccio qualche volta.

- Castigarti? perché mai, Pisana? - io le andava dicendo. - Levati su piuttosto, e lascia che ti

faccia lume, che cosí al freddo puoi ammalarti!

- Eh! - sclamò la piccoletta. - Sai pure che io non mi ammalo mai! Prima di andar via voglio

proprio che tu mi castighi, e che mi strappi ben bene i capelli per le cattiverie che ho

commesse contro di te. - E la mi prendeva le mani mettendomele sulla sua testolina.

- Ohibò! - diceva io ritraendole - piuttosto ti bacerei!

- Voglio che tu mi strappi i capelli! - soggiunse ella riprendendomi le mani.

- Ed io invece non voglio! - risposi ancora.

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- Come non vuoi? ed io ti dico che vorrai! - la si mise a strillare. - Strappami i capelli,

strappami i capelli, se no grido tanto che verranno qua sopra e mi farò pestare dalla mamma.

Io per acchetarla presi con due dita una ciocca delle sue treccie e me la attorcigliai intorno

alla mano, giocarellando.

- Tira dunque, via; tirami i capelli - ella soggiunse un po' stizzita, ritraendo di furia la testa

in modo che la mia mano dovette seguirla per non farle troppo male. - Ti dico che voglio

esser castigata! - continuò pestando i suoi piedini e le ginocchia contro il pavimento che era

di pietre tutte sconnesse.

- Non far cosí, Pisana, che ti guasterai tutta.

- Or dunque strappami i capelli!

Io tirai pian piano quella ciocca che aveva fra le dita.

- Piú forte, piú forte! - disse la pazzerella.

- Cosí dunque - diss'io facendo un po' piú di forza.

- No cosí! piú forte ancora - riprese ella con atto di rabbia. E mentre io non sapeva che fare,

la dimenò il capo con tanto impeto e cosí improvvisamente che quella ciocca de' suoi capelli

mi rimase divelta fra le dita. - Vedi? - aggiunse allora tutta contenta. - Cosí voglio esser

castigata quando lo voglio!... e a rivederci dimani, Carlino; e non moverti di là se no non

vengo piú a spasso con te.

Io mi stetti attonito ed immobile con quella ciocca fra le dita mentr'ella guizzò dalla porta e

richiuse l'uscio: e poi feci per correrle dietro col lume ma la era già scomparsa dal corritoio.

Scommetto che se la sua mamma nel castigarla le avesse strappato uno di quei capelli, ella

ne avrebbe strepitato tanto da metter sottosopra la casa ed anche ora mi maraviglia che la

sopportasse quel dolore senza batter palpebra; tanto potevano in lei la volontà e la bizzarria

infin da bambina.

*

Debbo tuttavia soggiungere che quella che parrà a taluni frivola e cocciuta ostinazione di

fanciullo, a me sembrò fin d'allora e la sembra tuttavia una bella prova di fedeltà e di

gratitudine. Fu allora la prima volta che l'animo mio ebbe a lottare fra piacere e dovere; né

io titubai un istante ad appigliarmi a quest'ultimo. [...]

Fors'anco quel primo sacrificio, cui mi disposi tanto volonterosamente e per sí frivolo

motivo, diede alla mia indole quell'avviamento che non ho poi cessato dal seguir quasi

sempre in circostanze piú gravi e solenni. [...]

E cosí le circostanze dell'infanzia, se non governano l'intero tenore della vita, educano

sovente a modo loro quelle opinioni che formate una volta diventano per sempre gli

incentivi delle opere nostre. Perciò badate ai fanciulli, amici miei; badate sempre ai fanciulli,

se vi sta a cuore di averne degli uomini.

(Ippolito Nievo, Le confessioni d’un Italiano, cap. III)

25. CARLO GOZZI A’ SUOI CONCITTADINI FRATELLI

Io fo pubblicare colla stampa un libro intitolato: Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi,

scritte da lui medesimo, e da lui pubblicate per umiltá.

Cotesto libro da me cominciato a scrivere l'ultimo giorno d'aprile dell'anno 1780 condotto a

fine nell'anno stesso, e che contiene il corso de’ non considerabili avvenimenti relativi alla mia vita, dalla mia infanzia sino all’anno sopra accennato, fu costretto dalla violenza a

rimanere inedito e imprigionato sino al tempo presente.

Nella dedicatoria ch’io fo di quel mio libro agli amati miei concittadini, dirò loro qualche

cosa piú delle violenze e delle sopraffazioni, che ho dovuto soffrire da parecchi, un tempo

detti « Grandi », sopra alcuni casi che stanno nelle mie Memorie, e lo dirò loro soltanto per

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farli ridere, se mi riesce, come fecero rider me, per quell'istinto che Dio m’ha voluto donare,

imperturbabile, indifferente e sempre risibile sugli eventi a’quali va soggetta l’umanitá.

Sembrerà impossibile che, scrivend’ io le inutili e frivole memorie della mia vita l‘anno

1780, sia giunto ad empiere due tomi d’un volume palpabilissimo. Piú riflessioni da non

curare, che accidenti da leggere volentieri, accrebbero la mole.

Que’ due tomi sono pieni d’inezie opportunissime a far sbavigliare e dormire coloro che

patiscono delle vigilie, ma io li pubblico per umiltà.

Sono scritti divisi in capitoli facetamente e comicamente al possibile, perch’ io non mi sono

mai giudicato persona seria e d’importanza.

Non mi costrinsi a proccurare di scriverli coll’'esattezza, col sapore e colle grazie della

nostra lingua, un giorno tanto in pregio e ridotta ormai un bastardume da non poter piú

legittimarla.

Il miglior capitale che contenga il mio libro è una candida veritá, la qual veritá può

accrescere in me, per avventura, argomento d’umiliazione per il giudizio degli uomini

inclinati alle cose sublimi.

Scrissi soltanto le memorie della mia vita, delle mie debolezze e degli errori miei, che

furono molti, perch’io non scrivo le memorie della vita, delle debolezze e degli errori altrui,

che non so quanti sieno, salvo ciò che ebbe con me relazione.

Siccome dall’anno 1780 Dio mi ha lasciata la respirazione sino all'anno 1797 in cui siamo,

abborrend’io l'ozio, mi intrattenni scrivendo anche un terzo tomo, nel quale, oltre alle

memorie della mia vita posteriori a quelle de’ due primi tomi, inserisco la mia romorosa

commedia, intitolata: Le droghe d'amore, che io realmente trassi da una commedia di Tirso

de Molina. scrittore spagnuolo, intitolata: Celos con celos se curan, riducendola io ad uso

de’ nostri teatri, insin dal dicembre 1775. […]

PROEMIO

Se credessi d’essere un uomo la cui vita contenesse delle imprese considerabili, da gran

santo, da gran soldato, da gran filosofo e infine da gran letterato, non avrei certamente la

folle ambizione di scrivere di mio pugno delle memorie intorno a quella e di pubblicarle.

Lascerei quest’ uffizio a’ romanzieri, che cercano di far maravigliare de’ lettori, o a de’

zelanti che proccurano di dare degli utili specchi d’esempio alla posterità.

Ho veduti troppi uomini, non privi affatto di qualche buon attributo, rendersi ridicoli,

perdere ogni merito, e tirarsi addosso delle sciagure per una stolta gigantesca presunzione

che hanno di loro medesimi.

Costoro, accecati dalla superbia, si vestono d’un comico noli me tangere, che gli fa

adombrare come puledri viziosi.

Se per avventura si degnano di credersi in necessità di fare a se stessi un’apologia, non

sanno farla che col dipingersi semidei […].

Lo studio maggiore ch’io abbia fatto fu quello di formare un processo continuo a me stesso,

di rintuzzare quel petulante amor proprio che fa dire a parecchi coll’andatura, coll’aspetto,

collo sguardo: - Guardatemi, contemplatemi, ammiratemi, riveritemi, temetemi.[…]

Darò pure un ritratto originale del mio cuore, de’ modi del mio pensare e del mio

temperamento, perché gli animi avvelenati e ingegnosi, che volessero spassarsi a fare di me

qualche maligna pittura, possano farla senza allontanarsi dal vero, e per non ricevere delle

mentite.

Abbiamo tutti una specie di lente ottica nell’intelletto, che col suo riverbero ci presenta gli

oggetti di questo mondo.

Se ho qualche particella di filosofia, inclino più a Democrito che ad Eraclito a’ riverberi di

questa lente.

Circostanze d'allora della mia famiglia, e mia risoluzione d'allontanarmi da quella.

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Il numero della fratellanza nostra in quel tempo era stato diminuito dalla morte, ma con

parsimonia. Eravamo ridotti quattro maschi e cinque femmine. Un maschio ed una femmina

si erano accordati di troncare il loro corso d’affanni in età fresca, e morirono.

Le spese non proporzionate colle rendite e con una numerosa prole da non poter più

appagare con un confortino o un bamboccio, e qualche litigio passivo, che scemò d'alcune

campagne il patrimonio, incominciarono a far nascere de' pensieri alquanto oscuretti, indi

ridussero in pochi anni la famiglia in angustia.

Mio fratello Gasparo s’era già ammogliato per una geniale astrazione poetica. Anche la

poesia ha de’ pericoli.

Quest'uomo veramente particolare per la sommersione che fece di tutto se medesimo sui

libri e nelle indefesse applicazioni letterarie, non meno che nell’essere uno di que’ filosofi

che si possono chiamare persone indolenti in tutto ciò che non sente di letteratura, apprese

da Francesco Petrarca ad innamorarsi.

Una giovane, che aveva però due lustri più di lui, ch’era di nome Luigia, di cognome

Bergalli, e tra le pastorelle d’Arcadia Irminda Partenide, poetessa di fantasia, come si può

vedere dall’opere sue a stampa, fu la Laura del mio fratello, il quale, per non essere

canonico come il Petrarca, se l’ ha sposata petrarchescamente, ma legalmente.

(Carlo Gozzi, Memorie inutili)

26. PREFAZIONE DELL'AUTORE

Non c'è autore, buono o cattivo, la cui vita non figuri o in testa alle sue opere o nelle

memorie del suo tempo.

E’ vero che non bisognerebbe narrare la vita di un uomo se non dopo la morte; ma codesti

ritratti ritardati somigliano forse agli originali? Se un amico se ne incarica, gli elogi alterano

la verità; se un nemico, al posto della critica si trova la satira.

La mia vita non è interessante; ma potrebbe capitare che, tra qualche tempo, si trovi nel

cantuccio di un'antica biblioteca una collezione delle mie opere. Si sarà forse curiosi di

sapere chi fosse quell'uomo singolare che s'è proposto la riforma del teatro nel suo paese,

che ha messo sulla scena o sotto i torchi centocinquanta commedie, sia in versi che in prosa,

sia di carattere che di intreccio, e che ha veduto da vivo diciotto edizioni del suo teatro.

Certamente si dirà: - Quell'uomo doveva essere assai ricco; perché mai ha abbandonato la

patria?-. Ahimè! è bene far sapere alla posterità che Goldoni ha trovato soltanto in Francia

riposo, tranquillità e benessere, e che ha conchiuso la sua carriera con una commedia

francese che, sul teatro di quella nazione, ha avuto un felice successo.

Ho pensato che soltanto l'autore poteva delineare un'idea sicura e completa del suo carattere,

delle sue peripezie e dei suoi scritti; e ho creduto che pubblicando da vivo le memorie della

sua vita, non smentite dai contemporanei, la posterità potrebbe poi fidarsi della sua buona

fede.

Ciò che mi inquieta e mi preme in questo momento è la storia della mia vita. Non è

interessante, ripeto, ma quello che finora ne ho dato nei diciassette primi volumi è stato

accolto così bene che il pubblico mi incita a continuare; tanto più che quello che ho detto

finora non tocca che la mia persona, e quanto mi rimane da dire deve trattare del mio teatro in particolare, di quello italiano in generale, e in parte di quello francese che ho veduto da

vicino. I costumi delle due nazioni, i loro gusti confrontati, tutto quanto ho veduto e tutto

quanto ho osservato potrebbe riuscire gradevole, e persino istruttivo per i dilettanti.

Mi impegno perciò a lavorare quanto più potrò, e lo faccio con indicibile piacere, per

giungere al più presto possibile a parlare della mia cara Parigi che m'ha accolto tanto bene,

che m'ha tanto divertito e utilmente occupato.

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Comincio col rifondere e mettere in francese tutto quello che c'è nelle prefazioni storiche dei

diciassette volumi del Pasquali. E’ il ristretto della mia vita, dalla nascita fino all'inizio di

quella che in Italia si chiama la riforma del teatro italiano. Si vedrà in che modo il genio

comico che sempre m'ha dominato si è rivelato, in che modo si è sviluppato, gli inutili sforzi

fatti per disgustarmene e i sacrifici da me compiuti per quell'imperioso idolo che m'ha

trascinato. Sarà la prima parte delle mie memorie.

La seconda parte deve comprendere la trama di tutte le mie opere, il segreto delle

circostanze che me ne hanno fornito l'argomento, l'esito buono o cattivo delle mie

commedie, le rivalità eccitate dai miei successi, le cabale che ho sprezzato, le critiche che ho

rispettato, le satire che ho sopportato in silenzio, le inimicizie dei comici che ho superato. Si

vedrà che l'umanità è dappertutto la stessa, che la gelosia si incontra dappertutto e che

dappertutto l'uomo pacifico e calmo riesce alla fine a farsi voler bene dal pubblico e a

stancare la perfidia dei nemici.

La terza parte di queste memorie comprenderà la mia emigrazione in Francia. Sono così

contento di poterne parlare a mio bell'agio che son stato tentato di cominciare di lì la mia

opera; ma in tutto occorre metodo: sarei forse stato costretto a ritoccare le due parti

precedenti, e non mi piace tornare sul già fatto.

Ecco tutto quanto avevo da dire ai miei lettori: li prego di leggermi e di farmi la grazia di

credermi; la verità è sempre stata la mia virtù prediletta, mi sono sempre trovato soddisfatto

di lei; m'ha risparmiato la fatica di studiare la menzogna, e m'ha scansato il dispiacere di

arrossire.

Capitolo I Nascita e genitori

[...] Dava la commedia, dava l’opera in casa sua; tutti i migliori comici, tutti i musicisti più

celebri erano ai suoi ordini; arrivava gente da tutte le parti. lo son nato in quel baccano, in

quell'abbondanza; potevo forse sprezzare gli spettacoli? Potevo non amare l'allegria?

Mia madre mi mise al mondo quasi senza dolore, perciò mi volle anche più bene; non detti

in gridi, vedendo la luce per la prima volta; tale mansuetudine pareva manifestare fin

d’allora il mio pacifico carattere, che di poi non s'è mai smentito.

Ero il tesoro della casa: la balia diceva che ero intelligente; mia madre si incaricò di

educarmi, mio padre di divertirmi. Fece costruire un teatro delle marionette: le faceva

ballare lui stesso insieme a tre o quattro amici; e io, a quattro anni, trovavo che era un

delizioso divertimento.

Mia madre si trovò sola a capo della casa, con sua sorella e due figliuoli. Mise in pensione il

minore, non volle occuparsi d'altro che di me, volle allevarmi sotto i suoi occhi. Ero dolce,

placido, ubbidiente; a quattro anni leggevo, scrivevo, sapevo a memoria il catechismo; mi

diedero un precettore.

Mi piacevano molto i libri: imparavo facilmente la grammatica, i principi della geografia e

quelli dell'aritmetica; ma la mia lettura preferita era quella degli autori comici. Ce n’erano

parecchi nella piccola biblioteca di mio padre; li leggevo sempre nei momenti di libertà, ne

copiavo persino i passi che mi piacevano di più. Purché non mi trastullassi con giuochi

puerili, mia madre non badava alla scelta delle mie letture.

[…] All’età di otto anni ebbi l’ardire di abbozzare una commedia. Me ne confidai per primo

con la bambinaia, alla quale parve graziosa; mia zia si fece beffe di me; mia madre mi sgridò

e insieme mi abbracciò; il mio precettore sostenne che c’era più spirito e più buon senso di

quanto comportasse la mia età; ma la cosa più strana fu che il mio padrino, uomo di legge,

più ricco di denaro che di cognizioni, non volle mai credere che fosse roba mia.[…]

Capitolo V La barca dei comici

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Dodici persone, attori e attrici, un suggeritore, un macchinista, un trovarobe, otto domestici,

quattro cameriere, due nutrici, bambini d'ogni età, cani, gatti, scimmie, pappagalli, uccelli,

piccioni, un agnello: era l'arca di Noè.

La barca era assai capace, c'erano parecchi scompartimenti, ogni donna aveva la sua nicchia

con tende; avevano preparato per me un buon letto accanto al direttore, tutti erano

accomodati per bene.

L'intendente generale del viaggio, che nel contempo era cuoco e cameriere, suonò una

campanella, era il segnale della colazione; tutti si radunarono in una specie di sala che

avevano arrangiata in mezzo alla barca, sopra le casse, i bauli e i fagotti; su una tavola ovale

c'era caffè, tè, latte, pane abbrustolito, acqua e vino.

La prima amorosa domandò un brodo, non ce n'era, si infuriò; la ci volle tutta per calmarla

con una tazza di cioccolata; era la più brutta e la più difficile.

Dopo la colazione fu proposta una partita, aspettando il pranzo. Giuocavo abbastanza bene a

tressette, era il giuoco preferito di mia madre che me l'aveva insegnato.

Si stava per cominciare un tressette e un picchetto, ma una tavola di faraone impiantata sul

ponte attirò tutti; la banca prometteva divertimento piuttosto che interesse, il direttore non

l'avrebbe altrimenti tollerata. Si giuocava, si rideva, si scherzava, si facevan burle; la

campana annuncia il pranzo, ci andiamo.

Maccheroni! tutti ci si buttan sopra, ne divoriamo tre zuppiere; umido di bue, pollo freddo,

lombo di vitello, dessert e ottimo vino; ah, che buon pranzo! il miglior condimento è

l'appetito.

Restammo a tavola quattro ore; suonammo vari strumenti, cantammo molto; la servetta

cantava incantevolmente, la guardavo con attenzione, mi faceva uno strano effetto; ahimé!

capitò un'avventura che interruppe i piaceri della compagnia: un gatto scappò dalla gabbia,

era il micio della prima amorosa, che chiamò tutti in aiuto. Lo si rincorse; Il gatto, che era

selvatico come la padrona, sgusciava, saltava, si nascondeva dappertutto; vedendosi

inseguito, s'arrampicò sull'albero. Madama Clarice svenne; un marinaio s'arrampica per

pigliarlo, il gatto si slancia in mare e ci resta; ecco la padrona disperata, vuol ammazzare

tutte le bestie che vede, vuol buttare la cameriera nella tomba del suo caro micetto; tutti

piglian la parte della cameriera; la lite si fa generale. Arriva il direttore, ne ride, scherza,

carezza l'afflitta dama che finisce per ridere lei stessa, ed ecco dimenticato il gatto.

Ma basta, penso; e forse è abusare del lettore trattenerlo con queste miserie, che non ne

valgon la pena.

- Sì, m'hanno detto che nonostante le rimostranze e i buoni consigli, a dispetto di tutti, avete

avuto l'impertinenza di lasciare Rimini improvvisamente.

- Ma cos'avrei fatto a Rimini, papà? per me era tempo perduto.

- Ma come, tempo perduto! lo studio della filosofia è tempo perduto!

- Ah! la filosofia scolastica, I sillogismi, gli entimemi, i sofismi, i nego, probo, concedo; ve

ne rammentate, papà?

(Lui non riesce a reprimere un leggero movimento delle labbra che svelava la voglia che

aveva di ridere; io ero abbastanza sveglio da accorgermene, e mi feci coraggio).

- Ah! papà, - soggiunsi, - fatemi imparare la filosofia dell'uomo, la buona morale, la fisica

sperimentale.

- Via, via; come sei tornato a casa?

- Per mare.

- Con chi?

- Con una compagnia di attori.

- Di attori?

- Sono brava gente, papà.

- Come si chiama il direttore?

- Sulla scena fa Florindo, lo chiamano Florindo de' Maccaroni.

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- Ah, ah! lo conosco; è un brav’uomo; faceva la parte di Don Giovanni nel Convitato di

pietra; ebbe l'idea di mangiare i maccheroni di Arlecchino, ecco il perché del soprannorne.

- Vi garantisco, papà, che quella compagnia...

- Dov'è andata quella compagnia?

- E’ qui.

- E’ qui?

- Sì, papà.

- Dà rappresentazioni qui?

- Sì, papà.

- Andrò a vederla.

- E io, papà?

- Tu, birbante! Come si chiama la prima amorosa? - Clarice.

- Ah, ah! Clarice!... ottima, brutta, ma assai spiritosa. - Papà...

- Allora dovrò andare a ringraziarli?

- E io, papà...

- Sciagurato!

- Vi domando perdono.

- Via, via; per questa volta...

CAPITOLO XVI Osservazioni a proposito del Bourru Bienfaisant. Conversazione con Gian

Giacomo Rousseau sullo stesso argomento.

[…] Riferirò il mio colloquio con il cittadino di Ginevra. Il risultato della nostra

conversazione non è gran che interessante; non si parla che superficialmente della mia

commedia; ma ho colto quest'occasione per parlare di quell'uomo straordinario che aveva

talenti eccezionali, con incredibili pregiudizi e debolezze.

Salgo quindi al quarto piano della casa indicata; busso, mi aprono; vedo una donna né

giovane, né bella, né cortese. Domando se il signor Rousseau è in casa; c'è, non c'è, mi dice

la donna, che al più credo sia la governante; e mi domanda il nome. Mi nomino.

- Signore, - mi dice, - siete aspettato, vado ad annunciarvi a mio marito.

Entro un momento dopo; vedo l'autore dell'Emilio che sta copiando musica; me l'avevan

detto, fremevo in silenzio; mi accoglie in modo schietto, affabile. Si alza e mi dice,

tendendomi un foglio:

- Vedete un poco se c'è qualcuno che copia musica bene come me; sfido chicchessia a farmi

vedere uno spartito che esca dalla stampa così bello e preciso come esce dalle mie mani;

andiamo a scaldarci, - soggiunse, e bastò un passo per accostarci al caminetto.

Non c'era fuoco, domandò legna, la portò la signora Rousseau; mi alzo, mi tiro da parte,

offro la sedia alla signora:

- Non scomodatevi, - disse il marito, - mia moglie ha il suo lavoro.

Avevo il cuore affranto: vedere il letterato fare il copista; vedere sua moglie far la serva, era

uno spettacolo desolante per i miei occhi, e non riuscivo a nascondere il mio stupore e il rnio

dolore: tacevo. Lo scrittore, che non è sbadato; si avvede che qualcosa non va nel mio

spirito; mi interroga, sono costretto a confessargli la ragione del mio silenzio e del mio

sbalordimento.

- Ma come, - mi dice, - mi compiangete perché faccio il copista? Credete che farei meglio

scrivendo libri per gente che non sa leggere, e per fornire articoli a giornalisti malevoli?

Sbagliate: amo appassionatamente la musica, copio ottimi originali, il che mi dà da vivere,

mi diverte, e tanto mi basta. Ma voi, - continuò, - voi che cosa fate? Siete venuto a Parigi per

lavorare con gli attori italiani: sono dei poltroni, non ne voglion sapere dei vostri lavori;

andatevene, tornate a casa; so che vi siete desiderato, che vi si aspetta.

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- Signore, - gli risposi, interrompendolo, - avete ragione, avrei dovuto lasciar Parigi, avessi

considerato la noncuranza degli attori Italiani; ma altre ragioni m'hanno trattenuto. Ho

appena composto una commedia in francese..

- Avete composto una commedia in francese, - mi risponde, stupito, - e che cosa ne volete

fare?

- Darla al teatro.

- A che teatro?

- Alla Comédie Française.

- M'avete rimproverato di sciupare il tempo; ma siete voi che lo buttate via senza frutto.

- Ma la commedia è stata accettata.

- E’ mai possibile? Non me ne meraviglio; gli attori non hanno buon senso, accettano e

respingono a casaccio. Sarà forse ricevuta, ma non sarà rappresentata, e se la rappresentano

peggio per voi.

- Ma come potete giudicare un lavoro che non conoscete?

Conosco il gusto degli italiani e quello dei francesi, sono troppo distanti tra loro; e, con

vostra licenza, non è alla vostra età che si comincia a scrivere e a comporre in una lingua

straniera.

- Sono considerazioni giuste, signore, ma si possono superare gli ostacoli. Ho affidato il mio

lavoro a gente intelligente, a gente esperta, e ne sono sembrati soddisfatti.

- Vi lusingano, vi ingannano, cascherete in trappola. Fatemi vedere la vostra commedia: io

sono schietto, sono veritiero, vi dirò la verità.

Appunto lì lo volevo portare, non per consultarlo. ma per vedere se una volta letta la

commedia avrebbe persistito in quella mancanza di fiducia che aveva in me. Il manoscritto

era nelle mani del copista della Comédie française; promisi al signor Rousseau che glielo

avrei fatto vedere appena lo avessi ricevuto, e avevo l'intenzione di mantener la promessa.

Nel capitolo seguente si vedrà quale fu la ragione che me ne dissuase.

CAPITOLO XVII Seguito del capitolo precedente. Aneddoti che concernono Rousseau.

Alcune riftessioni sull'argomento.

Son tre anni che è comparso un libro intitolato Le confessioni di G. G. Rousseau, cittadino di

Ginevra: sono aneddoti della sua vita scritti da lui stesso. Non ha riguardo per sé in

quell'opera; anzi mette avanti certe stranezze sul suo conto che gli potrebbero nuocere, se la

sua celebrità non lo mettesse al di sopra di ogni critica.

Ma conosco un aneddoto degli ultimi anni della sua vita che non si trova nelle Confessioni.

Forse lo scrittore l'ha dimenticato o non ha avuto tempo di metterlo con gli altri, perché il

libro è postumo. È un aneddoto che non mi riguarda specialmente, ma lo accenno perché fu

la ragione che mi impedì di mandare a Rousseau il mio Bourru bienfaisant.

Quel dotto straniero aveva amici e parecchi ammiratori a Parigi; M*** era l'uno e l'altro;

amava, stimava e insieme complangeva Rousseau, conoscendone sia le strettezze che il

talento.

M*** propose al letterato ginevrino un appartamento mobiliato, assai grazioso e comodo,

vicino al giardino delle Tuilerìes; e per non offendere la delicatezza dell'amico, glielo offri

allo stesso prezzo che pagava alla locanda. Rousseau si avvide dell'intenzione del generoso

uomo, gli oppose un brusco rifiuto, e strillò altamente che non voleva essere ingannato.

M***, che era filosofo sì, ma anche francese, e sapeva unire filosofia e cortesia, non si

adontò del rifiuto; conosceva l'uomo e gli perdonava le debolezze, non smise di frequentarlo

e tranquillamente saliva al quarto piano per conversare con lui.

Aveva sentito parlare delle Confessioni di Giangiacomo, aveva voglia di conoscerle per

intero o in parte; e siccome lui stesso aveva composto dei caratteri del tempo, alla maniera

di Teofrasto e di La Bruyére, propose all'amico la lettura vicendevole delle loro opere.

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Il signor Rousseau accettò la proposta, a patto che M*** accettasse un pranzo frugale in via

Platrière; M*** gli osservò che si sarebbero trovati assai meglio a casa sua.

- Non importa, - replicò l'altro, - voglio che sia a casa mia, altrimenti non ne faremo niente;

al massimo, - soggiunse, - vi permetto di portare una bottiglia di vino, quello che mi danno

qui è pessimo.

Il francese, docile, si sottomette; ma sfortunatamente era troppo generoso e cortese, manda

una cesta con sei bottiglie di ottimo vino e sei bottiglie di malaga. La cosa indispone il

ginevrino. Arriva il francese, se ne accorge, domanda perché.

- Non berrerno, - dice quello, indispettito, - dodici bottiglie noi due soli, ne ho levata una

dalla cesta, basta per una cena frugale; portate via,immediatamente il resto, o altrimenti non

farete cena con me.

La minaccia non era tremenda, ma il convitato aveva interesse alla lettura; aveva il

domestico con sé, gli fa portar via la cesta; Rousseau è soddisfatto, e legge

lui per primo. La disputa del vino aveva fatto perder tempo; la lettura è interrotta dalla

signora Rousseau che aveva bisogno della tavola per apparecchiare; avrebbero potuto

leggere anche senza, ma la cena fu servita subito: una bella pollastra, insalata e basta.

Terminata la cena, tocca a M*** a leggere; legge un capitolo, va benissimo, è applaudito; ne

legge un altro, Rousseau si alza, passeggia irritatissimo, scuro. Interrogato sul perché di

quella rabbia:

- Non si va, - dice, - in casa della brava gente per insultarla.

- Ma come! - fa l'altro, - di che cosa vi lagnate?

- Non avete a che fare con uno sciocco, - ripiglia il filosofo, - avete disegnato il mio ritratto,

caricando le tinte, con intenzione satirica: è una cosa orrenda, indegna!..

- Un momento, - dice il francese, - vi voglio bene, vi stimo, voi mi conoscete; ho voluto

dipingere un uomo duro, fastidioso, scorbutico... se ne vede spesso in società.

- Già, già, - ripiglia Rousseau, - so che ho quella nomina nello spirito degli ignoranti; li

compiango e li disprezzo; ma non tollererò che un uomo come voi, che un amico, *** vero o

falso, mi venga in casa a farsi beffe di me.

M*** ebbe un bel dire e un bel fare, non riuscì a nulla; l'altro s'era montato la testa, e male;

finì che bisticciarono sul serio, e ci fu uno scambio reciproco di lettere pungenti.

Ero amico del letterato francese; lo vidi l'indomani della sua lite con Rousseau, in un salotto

dove spesso ci incontravamo; egli raccontò il fatto accaduto: alcuni ridevano, altri facevano

riflessioni.I feci le mie: Rousseau era burbero, lui stesso l'aveva ammesso nella lite con

l'amico; non aveva che da essere benefico, avrebbe detto che il modello del mio Bourru

bienfaisant era lui; mi guardai bene dall'espormi ai suoi malumori, e non mi feci più vedere.

Quell'uomo era nato con felicissime disposizioni, ne diede varie prove, ma apparteneva alla

religione P. R. [la religione protestante, Prétendus Réformés], compose opere non ortodosse;

fu costretto a lasciare la Francia che aveva adottato per sua patria; quella sciagura lo rese di

umore difficile. Reputava ingiusti gli uonimi, li disprezzava, e quel disprezzo non potea

risolversi a suo vantaggio.

Quante generose offerte, quante protezioni non respinse! Preferiva il suo giaciglio a un

palazzo; alcuni vedevano grandezza di spirito in quella sua fierezza altri non ci vedevano

che orgoglio. Comunque sia, era degno di compassione; le sue debolezze non faceva danno

a nessuno, i suoi talenti l'avevan fatto degno di rispetto. È morto da filosofo, come era

vissuto e la repubblica delle lettere deve esser grata all'uom generoso che ha onorato le sue

ceneri.

CAPITOLO XL E ULTIMO Compimento dell'autore. Sue scuse. Alcune parole su due

autori italiani. Conclusione dell'opera.

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Eccomi giunto all'anno 1787, ottantesimo della mia età, che ho stabilito termine delle mie

memorie. I miei ottant'anni sono compiuti; la mia opera pure; il prospetto è stato distribuito,

i sottoscrittori hanno superato le mie speranze e il disegno del mio ritratto è terminato.

Il signor Cochin ha gentilmente voluto adoperare la sua matita per ornare il mio lavoro.

Questo celebre uomo, segretario e storiografo dell'accademia reale di pittura e cavaliere

dell'ordine del re, non soltanto ha consentito al mio desiderio e alla mia ambizione, ma mi

ha prevenuto con la più pura amicizia e la generosità più premurosa. Tutto è finito, tutto è

pronto: ora mando i miei tre volumi alla stampa e il ritratto all'incisore.

Quest'ultimo capitolo non può quindi toccare gli avvenimenti dell'anno in corso, ma non

sarà inutile per sdebitarmi di alcuni obblighi che ancora mi rimangono da adempiere.

Comincio ringraziando le persone che hanno avuto abbastanza fiducia in me per onorarmi

con la loro sottoscrizione.

Non parlo delle bontà e dei benefici del re e della corte; non è qui il luogo di farne parola.

Ho menzionato nella mia opera alcuni amici miei, anche alcuni miei protettori. Domando

loro scusa se ho ardito farlo senza il loro consenso; non per vanità, l'occasione m'ha fatto

venire i loro nomi sotto la penna; il cuore ha afferrato il momento e la mano non s'è rifiutata.

Ecco per esempio una di quelle fortunate occasioni che dico: questi ultimi giorni sono stato

malato. Il signor conte Alfieri m'ha fatto l'onore di venirmi a trovare; conoscevo i suoi

talenti, la sua conversazione m'ha fatto capire il torto che avrei avuto, se lo avessi

dimenticato.

È un letterato coltissimo, eruditissimo, che eccelle soprattutto nell'arte di Sofocle e di

Euripide; su quel grandi modelli ha concepito le sue tragedie. Ce ne sono state due edizioni

in Italia; una dev'essere attualmente sotto i torchi di Didot, qui a Parigi. Non starò a parlarne

diffusamente, tutti sono in grado di vederle e di giudicarle.

In questi medesimi giorni di convalescenza il signor Caccia, banchiere a Parigi, mio

compatriota e amico, mi mandò un libro che gli avevano spedito per me dall'Italia. È una

raccolta di epigrammi e madrigali francesi tradotti in italiano dal signor conte Roncali, di

Brescia, negli stati veneti. Quel garbato poeta non ha tradotto che i pensieri; ha detto le

stesse cose con meno parole, e ha trovato nella sua lingua frizzi non meno brillanti e

spiritosi che nella lingua originale.

Ebbi l'onore di vedere il signor Roncali a Parigi, dodici anni fa, ed ora mi lascia sperare che

avrò il bene di rivederlo; il che mi lusinga infinitamente; ma, di grazia, veda di spicciarsi,

perché la mia carriera è assai avanti e, ahimè, sono stanchissimo.

Mi sono accinto a un'opera troppo lunga, troppo laboriosa per la mia età, e ci ho messo tre

anni, sempre col timore di non avere il piacere di vederla terminata.

E tuttavia eccomi qui, grazie a Dio, e mi lusingo di vedere i tre volumi stampati, distribuiti,

letti... E se non saranno lodati, spero almeno che non saranno disprezzati.

Non mi si accuserà di vanità o di presunzione, se ho ardito sperare qualche barlume di grazia

per le mie memorie, perché se avessi creduto di spiacere assolutamente, non mi sarei presa

tanta briga; e se nel bene e nel male che dico di me la bilancia pende dalla parte del bene, ne

vado debitore piuttosto alla natura che alla volontà.

Tutta l'applicazione che ho messo nella costruzione delle mie opere è stata di non sciupare la

natura, e tutta la cura che ho messo nelle memorie è stata di non dir altro che la verità.

La critica delle mie opere potrebbe avere come scopo la correzione e il perfezionamento

della commedia; la critica delle mie memorie non produrrebbe niente in favore della

letteratura.

Se tuttavia ci fosse qualche scrittore che volesse occuparsi di me soltanto per affliggermi,

sciuperebbe il suo tempo. Sono nato pacifico; ho sempre mantenuto la mia calma, alla mia

età leggo poco e non leggo che libri divertenti.

(Carlo Goldoni, Mémoirs)

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27. J’ai été toujours un tissu d’inconséquences, et j’ai réuni dans mon caracthère tous les

contrastes possibles. […]

Je ne m’employois à rien, un amour propre démesuré me fit croire au dessus de tous les

emplois, si j’avois pourtant pensé juste, j’aurois vu, qu’en tout pays, et en tout tems, il est

libre à chacun d’en exercer le plus noble, qui est d’etre utile à l’humanité. […]

Le fait est, que je n’ai jamais été utile à personne, et qu’en déplorant l’aveuglement de ceux

qui perdent leur tems, j’ai toujours flotté au gré de mes passions, et très mal employé le

mien.

Dieu: Qu’on l’enregistre dans la classe des originaux suportables.

(Vittorio Alfieri, Esquisse du jugement universel)

28. Così per molto tempo, quando, stando sveglio di notte, ripensavo a Combray, non ne rividi

mai se non quella specie di lembo luminoso, che si stagliava in mezzo a tenebre indistinte,

simili a quelle che la vampa d'un fuoco di bengala o qualche proiettore elettrico illuminano e

sezionano in un edificio, di cui le altre parti restino immerse nel buio: alla base, piuttosto

larga, il salottino, la sala da pranzo, il richiamo dell'oscuro viale donde sarebbe giunto

Swann, l'autore inconscio delle mie tristezze, il vestibolo per cui m'incamminavo verso il

primo gradino della scala, che mi era tanto duro salire, e che costituiva da sola il tronco assai

stretto di quella piramide irregolare; e in cima, la mia camera da letto col piccolo corridoio

dalla porta a vetri per cui entrava la mamma; in una parola, sempre veduto alla stessa ora,

isolato da ogni cosa che vi potesse essere intorno, stagliandosi solo nell'oscurità, lo scenario

strettamente indispensabile (come quello che si vede indicato a capo delle vecchie

commedie per le rappresentazioni in provincia) al dramma dello spogliarmi, come se

Combray non fosse consistita che in due piani riuniti da un'angusta scala, e come se là non

fossero mai state che le sette di sera.

A dire il vero, a chi m'avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray racchiudeva

anche altre cose ed esisteva in altre ore. Ma, poiché quel che avrei ricordato mi sarebbe stato

offerto soltanto dalla memoria volontaria, la memoria dell'intelligenza, e poiché le notizie

che essa dà sul passato non mi serbano nulla, non avrei mai avuto voglia di pensare a quel

resto di Combray. Tutto questo, in verità, era morto per me.

Morto per sempre? Forse.

Il caso ha una grande parte in tutte queste cose, e un secondo caso, quello della nostra morte,

spesso non ci permette d'attendere a lungo i favori del primo. Mi sembra molto ragionevole

la credenza celtica secondo cui le anime di quelli che abbiamo perduto sono prigioniere

entro qualche essere inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto

per noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare accanto

all'albero, che veniamo in possesso dell'oggetto che le tiene prigioniere. Esse trasaliscono

allora, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l'incanto è rotto. Liberate da noi,

hanno vinto la morte e ritornano a vivere con noi.

Così è per il passato nostro. E' inutile cercare di rievocarlo, tutti gli sforzi della nostra

intelligenza sono vani. Esso si nasconde all'infuori del suo campo e del suo raggio di azione

in qualche oggetto materiale (nella sensazione che ci verrebbe data da quest'oggetto

materiale) che noi non supponiamo. Quest'oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di

morire, o che non lo incontriamo.

Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro o il dramma del coricarmi non

esisteva più per me, quando in una giornata d'inverno, rientrando a casa, mia madre,

vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po' di

tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d'avviso. Ella mandò a prendere una di

quelle focacce pienotte e corte chiamate « maddalenine», che paiono aver avuto come

stampo la valva scanalata d'una conchiglia.

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Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste

domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di

«madeleine». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il

mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso

m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le

vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce

l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me. Era me

stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire

quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la

sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva?

Che significava? Dove afferrarla?

Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo

meno che dal secondo. E' tempo ch'io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E

chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l'ha risvegliata, ma non la

conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa

testimonianza che io sono incapace d'interpretare e che voglio almeno poterle donare di

nuovo e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per una spiegazione decisiva.

Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità.

E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto, che non

portava con sé alcuna prova logica, ma l'evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi

alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarvi a farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al

momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce.

Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che

fugge. E perché niente spezzi l'impeto con cui tenterà di riafferrarla, allontano ogni ostacolo,

ogni pensiero estraneo, mi difendo l'udito e l'attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma,

sentendo come l'animo mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella

distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d'un tentativo

supremo. Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il vuoto; di nuovo gli metto di fronte il

sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me trasalire qualcosa che si sposta e

che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse come disancorata, a una grande profondità, non

so che sia, ma sale adagio adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze

traversate.

Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev'essere l'immagine, il ricordo visivo, che, legato

a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco

appena il riflesso neutro in cui si confonde l'inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non

so distinguere la forma, né chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la

testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di

rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratti.

Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l'attimo antico che

l'attrazione d'un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a

sollevare nel più profondo di me stesso? Non so. Adesso non sento più nulla, s'è fermato, è

ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di

lui dieci volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni

impresa importante, m'ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè pensando

semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere

senza fatica.

E ad un tratto il ricordo m'è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «madeleine» che

la domenica mattina a Combray ( giacché quel giorno non uscivo prima della messa),

quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel

suo infuso di tè o di tiglio.

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La vista della focaccia, prima d'assaggiarla, non m'aveva ricordato niente; forse perché,

avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri, la loro immagine aveva

lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti; forse perché di quei

ricordi così a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era

disgregato; le forme - anche quella della conchiglietta di pasta - così grassamente sensuale

sotto la sua veste a pieghe severa e devota - erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto

la forza d'espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma, quando

niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose,

più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo

tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di

tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l'immenso edificio

del ricordo.

E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di «madeleine» inzuppato nel tiglio che

mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta

della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia

sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo

padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo

avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di

colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le

passeggiate che si facevano se il tempo era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si

divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin

allora indistinti, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si

differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i

fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona

gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello

che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.

(Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, vol. I Du coté de chez Swann)

29. Ma proprio, a volte, nel momento in cui tutto ci sembra perduto giunge l’avvertimento che

può salvarci; abbiamo bussato a tutte le porte che non danno su niente e la sola attraverso la

quale si può entrare, e che avremmo cercato invano per cento anni, l’urtiamo senza saperlo,

e si apre.

Rimuginando i tristi pensieri di cui parlavo poco fa, ero entrato nel cortile di palazzo

Guermantes e, distratto, non m’ero accorto del sopraggiungere d’una vettura; al grido del

conducente non ebbi che il tempo di trarmi bruscamente di lato, e indietreggiai quanto bastò

per inciampare mio malgrado nel selciato alquanto sconnesso oltre il quale stava una

rimessa.

Ma nel momento in cui, recuperando l’equilibrio, posai il piede su una selce che era un po’

meno alta della precedente, tutto il mio avvilimento svanì davanti alla stessa felicità

suscitatami, in periodi diversi della mia vita, dalla vista d’alberi che m’era sembrato di

riconoscere durante una passeggiata in carrozza nei dintorni di Balbec, dalla vista dei

campanili di Martinville, dal sapore di una madeleine intinta in una tisana, da tante altre

sensazioni di cui ho parlato e che m’erano parse sintetizzate nelle ultime opere di Vinteuil.

Come nel momento in cui assaporavo la madeleine, ogni inquietudine riguardo al futuro,

ogni dubbio intellettuale si erano dissipati. […]

Senza ch’io avessi fatto alcun ragionamento nuovo, trovato alcun argomento decisivo, le

difficoltà, un attimo prima insolubili, avevano perso qualsiasi importanza. Ma stavolta ero

ben deciso a non rassegnarmi ad ignorarne il perché, come avevo fatto il giorno che avevo

assaggiato una madeleine intinta in una tisana. La felicità che avevo appena provata era, in

effetti, la stessa provata mangiando la madeleine, e delle cui cause profonde, allora, avevo

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rinviato la ricerca. La differenza, puramente materiale, stava nelle immagini evocate; un

azzurro profondo mi inebriava gli occhi, impressioni di freschezza, di luce abbagliante

volteggiavano accanto a me e io, nel desiderio di afferrarle, senza osare il minimo

movimento proprio come quanto centellinavo il sapore della madeleine tentando di far

giungere sino a me ciò che esso mi ricordava, rimanevo, a rischio di far ridere la fitta folla

dei conducenti, a vacillare come un attimo prima con un piede sulla selce più alta, l’altro

sulla selce più bassa.

Ogni volta che lo facevo solo materialmente, quel passo mi risultava inutile; ma se riuscivo,

dimenticando la matinée Guermantes, a ritrovare ciò che avevo sentito posando i piedi in

quel modo, la visione abbagliante e indistinta mi sfiorava di nuovo, quasi volesse dirmi:

«Afferrami al volo se ne hai la forza, e tenta di risolvere l’enigma della felicità che ti

propongo». E quasi subito la riconobbi, era Venezia, di cui i miei sforzi per descriverla e le

sedicenti istantanee scattate dalla mia memoria non m’avevano mai detto niente, e che la

stessa sensazione provata un tempo su due lastre ineguali del battistero di San Marco

m’aveva restituita assieme a tutte le altre sensazioni collegate quel giorno ad essa e rimaste

in attesa al loro posto, da cui un’improvvisa combinazione le aveva fatte imperiosamente

uscire, nella schiera dei giorni dimenticati.

Allo stesso modo, il sapore della piccola madeleine mi aveva ricordato Combray. Ma perché

le immagini di Combray e di Venezia mi avevano dato, in quel momento e in questo, una

gioia simile a una certezza, e capace senza bisogno d’altre prove di rendermi indifferente la

morte? […]

E la indovinavo, tale causa, paragonando fra loro quelle diverse impressioni felici che

avevano in comune il fatto ch’io le provavo tanto nel momento attuale quanto in un

momento lontano, rumore del cucchiaio sul piatto, dislivello delle selci, sapore della

madeleine, sino a far rifluire il passato nel presente, a non sapere con certezza in quale dei

due mi trovassi; in verità, l’essere che assaporava allora in me quell’impressione la

assaporava in ciò ch’essa aveva di extratemporale: un essere che appariva soltanto quando,

grazie a una di tali identità fra il presente e il passato, gli era dato stare nel solo ambiente in

cui potesse vivere e godere dell’essenza delle cose, ossia al di fuori del tempo. Ecco perché

le mie inquietudini riguardo alla mia morte erano finite nel momento in cui avevo

riconosciuto inconsciamente il sapore della piccola madeleine: perché in quel momento

l’essere che ero stato era un essere extratemporale, e dunque incurante delle vicissitudini del

futuro.

(Proust, vol. VII Le temps retrouvé)