Leonardo Patrignani, "Multiversum"

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In anteprima i primi capitoli del nuovo romanzo di Leonardo Patrignani, "Multiversum", in libreria dal 27 marzo.

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FRONTE

— ALEX, PERCHÉ NON SEI VENUTO?NON DIRMI CHE NON ESISTI, TI PREGO.

— JENNY, IO SONO SUL MOLO. SONO QUI!— ANCHE IO. ESATTAMENTE DOVE DICI DI ESSERE TU.

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Art director: Fernando AmbrosiGraphic designer: Stefano Moro

© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Pubblicato per accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency

Illustrazione di copertina di Roberto Oleotto

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Alex Loria era pronto per il canestro decisivo. La maglia giallo-blu impregnata di sudore, i capelli bion-

di a caschetto che cadevano sulla fronte e lo sguardo di chi sapeva che avrebbe segnato.

Era il capitano. Aveva guadagnato due tiri liberi all’ultimo minuto. Il primo era entrato. Ferro-tabellone-ferro-canestro.

Mancava un solo punto. Non poteva fallire.Alex si asciugò le mani sui pantaloncini e fissò l’arbi-

tro mentre gli passava la palla. Una rapida occhiata glaciale all’autore del fallo, un ragazzo che frequentava la scuola di fronte alla sua, poi tornò a concentrarsi sul tiro libero.

— Infiliamo questo canestro e vinciamo la partita, dai Alex… — sussurrò a se stesso per incitarsi mentre col capo chino faceva rimbalzare il pallone. I compagni rimasero in silenzio, tesi e pronti a saltare. I tre consueti rimbalzi sca-ramantici fecero eco nella palestra della scuola. Era solo un’amichevole, non c’erano gli striscioni tenuti dai genito-ri sugli spalti e i bambini con i pop-corn a bordo campo. Ma nessuno voleva perdere, specialmente il capitano. All’im-

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provviso, quella sensazione di vuoto. Le gambe molli. Un brivido lungo la schiena. La vista annebbiata. Mentre com-pagni e avversari osservavano stupiti la scena, Alex cadde in ginocchio, appoggiò una mano sul pavimento sintetico del campo e cominciò ad ansimare.

Lo sentiva.Stava per succedere ancora.

— Vuoi venire a tavola? — gridò Clara dalla cucina.— Un secondo, mamma!— Sono venti minuti che dici “un secondo”, muoviti!Jenny Graver sbuffò e scosse la testa, mentre col mouse

cominciava a chiudere le varie applicazioni in uso sul suo MacBookPro. Alzò gli occhi verso l’orologio a muro. Le otto e un quarto. Il tono di voce della madre sembrava non am-mettere ulteriore ritardo.

Jenny si alzò e incrociò il suo stesso sguardo nello spec-chio sopra la scrivania. I capelli castani mossi cadevano sulle spalle larghe da nuotatrice professionista. Nonostante i se-dici anni di età, Jenny vantava già un ricco palmares di me-daglie, tutte appese alle pareti del corridoio, al primo piano della villetta dei Graver. Le sue vittorie erano l’orgoglio del padre Roger, ex campione di nuoto, ai suoi tempi molto co-nosciuto a Melbourne.

Jenny si lasciò la porta della camera alle spalle, poi attra-versò il corridoio per andare in bagno a lavarsi le mani. Un profumo invitante di arrosto saliva su per le scale.

A un tratto, quel brivido. Ormai lo conosceva fin troppo bene.La vista si annebbiò, la ragazza fece due passi in avan-

ti e cercò di appoggiarsi ai bordi del lavandino per tenersi

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in piedi. Sentì il corpo cedere improvvisamente come se, escluse le braccia, tutti i muscoli non fossero più capaci di rispondere ad alcun ordine del cervello.

Stava per succedere ancora.

— Dove sei?La voce rimbombava, perforandole le meningi.Silenzio.Qualche lamento in lontananza, sinistro e inquietante

come un pianto che echeggia dal fondo di un abisso.— Dimmi dove vivi…— Mel… — Jenny cercò di rispondere, ma la parola re-

stò incompleta.— Riesco a sentirti… Ho bisogno di sapere dove sei.Ogni sillaba proferita da Alex era come un ago piantato

nella testa. Il dolore era lancinante.La risposta arrivò accompagnata da un groviglio di gri-

da e risate infantili. Tutto ruotava nella testa come in un vortice, un miscu-

glio di emozioni indistinguibili.Ma quel nome vi era passato attraverso ed era giunto a

destinazione. — Melbourne.— Ti troverò — fu l’ultima sentenza della voce maschi-

le, prima che tutto diventasse nero.

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Clara Graver si sfilò i guanti da cucina e corse al piano di sopra della villetta subito dopo aver sentito il tonfo dovuto alla caduta a peso morto di Jenny. Salì per le scale affanna-ta, rischiando di inciampare, e quando fu di fronte alla por-ta socchiusa le diede un colpo con la mano aperta e la spa-lancò. Sua figlia era stesa per terra, la bava alla bocca e un rivolo di sangue che colava dalle labbra.

— Jenny! — urlò inginocchiandosi accanto al corpo pri-vo di sensi.

Gli occhi della ragazza erano sbarrati. Lo sguardo per-so nel vuoto.

— Amore mio… sono qui. Guardami.Con un paio di buffetti sulle guance Clara riuscì a risve-

gliare la figlia. Una tecnica semplice ma efficace, ormai di-venuta consuetudine.

Roger salì i gradini a due a due e arrivò di corsa in bagno. Guardò prima la moglie, poi la figlia che stava pian piano ri-prendendo conoscenza.

— Come sta?

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Clara non gli rispose, si limitò a stringersi nelle spalle.— È successo ancora? — la incalzò lui, anche se conosce-

va perfettamente la risposta a quella domanda.Jenny mise a fuoco lentamente lo sguardo preoccupato

del padre, poi lo rassicurò.— Sto bene.— Hai battuto la testa?— No, credo di no.Roger le si avvicinò e le poggiò una mano sulla nuca. Le

dita si sporcarono di rosso.— Questo è sangue, Jennifer — il tono di voce di Roger

non comunicava preoccupazione, piuttosto rassegnazione.— Oh, mio Dio! — esclamò Clara.— Stai tranquilla, è superficiale — la rassicurò lui men-

tre Jenny si massaggiava la testa.— Ce la fai ad alzarti in piedi? — le domandò Clara por-

gendo una mano alla figlia. Jenny piegò il busto in avanti e una fitta di dolore le penetrò dal lato destro della fronte. Quindi si alzò.

— Adesso ti metti tranquilla sul letto e io ti preparo una tisana — disse con tono affettuoso la madre, stirando le lab-bra in un sorriso forzato.

Roger scosse la testa.— Dio santo, Clara, quand’è che accetterai il fatto che

con le tue tisane non cureremo di certo nostra figlia? Il dot-tor Coleman aveva detto che…

— Non mi importa cosa ha detto il dottor Coleman!— Se tu solo prendessi in considerazione la terapia…— Ne abbiamo già parlato, la risposta è no! — lo inter-

ruppe lei risoluta. — Jenny sta… Jenny starà benissimo.

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Nel frattempo la ragazza si era spostata verso la finestra e ora stava lì, lo sguardo perso nel vuoto. Oltre la tenda ri-camata a mano da sua nonna si intravedevano i tetti delle villette a schiera di Blyth Street.

Il litigio tra i suoi genitori era un copione che Jenny co-nosceva bene.

Gli svenimenti erano iniziati quattro anni prima. Lei aveva da poco festeggiato il suo dodicesimo compleanno e stava giocando con i regali portati da amici e parenti. Sua madre stava spolverando i mobili della sala quando lei, in piedi davanti alla televisione, era crollata a terra come un peso morto. Era riuscita a dire solo “mamma” nell’istante in cui aveva sentito la testa diventare pesante e la vista anneb-biarsi all’improvviso. L’ultima immagine che aveva distin-to prima di svenire era la laurea di sua madre, incorniciata e appesa alla parete della sala: Clara Mancinelli, dottores-sa in Lettere con la votazione di centodieci e lode. In basso, accanto alla firma del rettore, c’era il timbro dell’Univer-sità La Sapienza di Roma. La pergamena era datata 8 Mag-gio 1996. Esattamente una settimana prima che Clara co-noscesse Roger, in vacanza nella capitale con un amico, e decidesse di cambiare il corso del proprio destino, seguen-dolo in Australia. Spesso sua mamma amava ricordare che se non fosse entrata in quel caffè dell’Eur per un urgente bisogno di andare alla toilette, lei e Roger non si sarebbero conosciuti. E Jenny non sarebbe mai nata.

Tutti gli accertamenti medici ai quali Jenny era stata sottoposta non avevano dato alcun esito preoccupante. La bambina non aveva problemi di pressione né di cuore, era in perfetta salute e i suoi risultati sportivi ne davano am-

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pia dimostrazione. Aveva vinto per due anni di seguito la medaglia d’oro del torneo provinciale ed era stata anche se-lezionata per partecipare alle Olimpiadi Scolastiche, per la gioia di Roger che la allenava personalmente quattro pome-riggi a settimana al Melbourne Sports & Aquatic Centre.

Da allora episodi di quel tipo si erano verificati sempre più di frequente. Alcune volte avevano le caratteristiche di un attacco epilettico, altre volte sembravano semplici sve-nimenti. A sentire i medici che Clara consultava, non c’era-no i presupposti per una cura contro l’epilessia. La passione della donna per i fiori di Bach e l’omeopatia andava contro la visione tradizionale di Roger, ma fino a quel momento l’ave-va spuntata lei. Niente farmaci, nessuna terapia.

Negli anni successivi, Jenny imparò a convivere con quel-lo che chiamava “l’attacco”. Le era capitato nelle situazioni più disparate. Durante la gita scolastica a Brisbane, quando era svenuta nella hall dell’albergo mentre l’insegnante face-va l’appello e decideva le coppie per sistemare i ragazzi nel-le stanze. Al cinema, quando neanche le sue amiche si era-no accorte che, mentre loro guardavano il film, Jenny si era accasciata sulla sedia con la testa piegata verso sinistra e le braccia penzolanti. E poi in pizzeria, quando Roger l’aveva portata a festeggiare la sua prima medaglia d’oro, e al Bur-ger King, dove la squadra di nuoto si ritrovava il venerdì con il coach. Per non parlare di tutte le volte che le era capita-to a casa, sul letto o in una qualsiasi stanza della villetta in Blyth Street. Per fortuna, lo pensava spesso, l’attacco non si era mai verificato in piscina. Avrebbe rischiato la vita.

Quello che i genitori non sapevano, che non avevano mai saputo, era ciò che accadeva durante gli svenimenti.

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Il medico della scuola diede una pacca sulla spalla ad Alex e lo fece alzare dopo una breve visita. Lo studio, ricavato in fondo al corridoio dell’ultimo piano, accanto alla bibliote-ca, era un’anonima stanzetta dotata di scrivania, lettino e mobiletto per i medicinali. Tutto color bianco, tutto fred-do e poco accogliente come il tono sarcastico e l’aria di su-periorità del dottore.

— Capitano, ricordati che siamo a un passo dai play-off.— Me lo ricordo bene — disse Alex fissando il medico

sicuro di sé.— Il campionato ti stressa troppo? — insistette l’uomo — o

il problema sono i compiti?— Non mi stressa nulla — tagliò corto il ragazzo, ma sa-

peva bene che non era così. — Posso andare?Ad aspettarlo fuori dall’infermeria c’era Teo, l’allenato-

re della squadra di basket. Era appoggiato con la schiena al muro del corridoio, tra le mani una biografia di Michael Jor-dan, il campione di pallacanestro che era solito citare come esempio di sportivo perfetto.

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Alex lo ignorò e imboccò il corridoio, ma l’uomo gli stet-te dietro.

— Alex, fermati.— Che c’è? Va tutto bene.— Non va tutto bene. Se siamo ridotti così non posso

metterti in campo nei play-off.Alex lo fissò e per un attimo si concentrò sulla paro-

la “siamo”. Era un’abitudine del coach. Pensava sempre alla squadra. Se un ragazzo aveva un problema, riguarda-va tutti quanti.

— Faccia come crede.— Tu sei il capitano, i tuoi compagni hanno bisogno

di te. Ma se mi crolli in un momento decisivo e metti a rischio anche la tua salute… abbiamo un problema.

— Allora trovatevi un nuovo capitano. Io non so cosa far-ci. I medici dicono che non ho niente che non va.

— Non è quello che dicono i tuoi genitori, però.Alex si fermò e fissò l’allenatore, che sostenne il suo

sguardo con occhi decisi. — I miei genitori sono troppo apprensivi.— Secondo me invece sei tu che mi nascondi qualco-

sa. Alex, porca miseria, sei il migliore, ma io non posso ri-schiare che… che succeda quello che è successo oggi, ma-gari durante la finale.

— Allora mi lasci fuori, così non ci arriveremo nean-che alla finale.

Alex scese di corsa le scale e finalmente uscì all’aria aperta. Mentre percorreva viale Porpora tirando su il colletto della giac-ca per difendersi dall’aria fredda e pungente di Milano, i pen-sieri rimbalzavano sulle pareti della testa senza dargli tregua.

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Continuò a rimuginare fino a quando non fu di fronte al portone di casa. Non avrebbe mai potuto perdere la fase fi-nale della stagione. Era il miglior marcatore del torneo, era il capitano, aveva dato il massimo fino a quel momento. Ma se il mister avesse deciso di farlo fuori, il suo parere sareb-be servito a poco.

Salì al primo piano. Una signora che abitava nell’appar-tamento accanto al suo lo salutò, lui si limitò a un sorriso formale e a un cenno del capo.

— Non ne posso più… — bisbigliò mentre girava le chiavi nella serratura della porta blindata.

La casa lo accolse silenziosa come sempre. A quell’ora i genitori erano al lavoro. Sul mobile, accanto all’ingresso, sua madre aveva lasciato un biglietto, come d’abitudine. Dice-va: Vicino al microonde c’è una torta salata. Mi raccoman-do studia! Baci, mamma. Alex passò oltre senza guardare.

Appena fu in camera lasciò cadere lo zaino accanto alla scrivania, si tolse la giacca e si sedette sul bordo del letto. Per fortuna, pensò, non aveva battuto la testa. Ultimamen-te riusciva a prevedere l’arrivo dell’attacco e mettersi pri-ma in ginocchio, per rendere la caduta meno pericolosa. Era un piccolo espediente e non ci aveva dato troppo peso, an-che perché non risolveva il problema. Al massimo avreb-be potuto evitargli di spaccarsi la testa, un giorno o l’altro.

Si lasciò andare con la schiena sul letto e portò le mani dietro la nuca, gli occhi socchiusi.

Le prime volte, gli avvolgeva la testa solo un fastidioso ru-more indistinto. Col tempo aveva imparato a riconoscere al-cuni suoni. Quello più gradevole era lo scroscio delle onde

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sugli scogli. Altri somigliavano a rintocchi di campana, un frastuono continuo e odioso.

Questo accadeva durante il primo anno di svenimenti, quando Alex aveva dodici anni. In seguito c’era stata un’evo-luzione: durante gli attacchi nella sua mente prendevano for-ma alcune immagini. Erano molto confuse, si sovrappone-vano e pareva impossibile ricondurle ad alcunché di reale. Niente che avesse a che fare con la sua vita o con qualche ricordo di tempi lontani.

In una delle visioni più vive e ricorrenti, Alex si trovava sdraiato su un letto. Era circondato da pareti bianche, l’arre-damento della stanza era quasi inesistente. Riusciva a scor-gere solo un crocifisso appeso al muro di fronte, un vaso di fiori sopra un tavolino alla sua destra e una finestra con la tapparella chiusa. Provava a muovere le mani, ma sembrava-no bloccate da qualcosa. Un laccio, forse. Era senza dubbio il peggiore dei suoi incubi. A un certo punto tutto diventa-va buio e iniziava un accavallarsi di lamenti. Voci indistin-te, echi di tormenti senza fine.

Un’altra immagine che tornava piuttosto spesso nei pri-mi anni era quella di una mano. Era piuttosto piccola e paf-futella. Alex la afferrava. Provava a tirarla a sé, senza riuscir-vi. Allora si limitava a sfiorarla. Non poteva vedere oltre, scorgere un lineamento, un contorno definito. Appena cer-cava di farlo, la piccola mano si dissolveva, si sgretolava e scivolava via come sabbia tra le dita.

Tra le tante immagini che si erano alternate nella sua te-sta in quei quattro anni di attacchi, ricordava bene quella di una spiaggia. Talvolta vedeva in lontananza una bambi-na, sempre la stessa.

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Nell’ultimo anno erano comparsi altri dettagli. Il volto si confondeva nell’immagine annebbiata, ma gli occhi spic-cavano e si distinguevano in maniera precisa. Erano scu-ri, così intensi da penetrare nella sua memoria. Tornavano ogni notte. Non ricordava quante volte li avesse incontra-ti e ricordati al risveglio, ma doveva essere successo alme-no per un mese di fila.

Poi erano iniziate le voci.Lo svenimento era sempre preceduto da un brivido lungo

la schiena e da un senso di intorpidimento di tutti gli arti. Ma un giorno Alex aveva sentito una voce che cercava di trovare spazio tra la miriade di rumori e grida a cui ormai aveva fatto l’abitudine.

Era una voce femminile, giovane, ma non si capiva cosa dicesse. Poi Alex aveva iniziato ad annotare su un diario le parole che gli sembrava di aver compreso. La prima era sta-ta “aiuto”. Lui aveva cercato di rispondere ma, nonostante si fosse sforzato di emettere dei suoni, non vi era riuscito. A quanto dicevano i suoi genitori, era capitato che mentre era incosciente farfugliasse qualcosa. Domande come “chi sei?” o “dove sei?”.

Il ragazzo aveva deciso di non informare nessuno, mam-ma e papà compresi, di quello che sentiva o vedeva duran-te gli attacchi.

Non avrebbe saputo spiegarne il motivo, ma sentiva che il contenuto di quelle esperienze doveva essere protetto, cu-stodito. Era il suo unico segreto.

L’episodio più significativo si era verificato tre mesi pri-ma. Alex era appena rincasato dagli allenamenti di basket. Mancava poco al ritorno dei genitori dal lavoro. Lo sveni-

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mento era avvenuto in camera e, nei secondi di brivido che precedevano l’attacco, Alex aveva fatto in tempo a metter-si sul letto. Il consueto miscuglio di immagini e suoni si era presentato sullo schermo della sua mente dando vita a un caleidoscopio di sensazioni.

Dopo i primi, confusi istanti Alex aveva scorto in lonta-nanza il viso della ragazza.

Gli occhi erano l’unico particolare che emergeva nitida-mente nella visione, come d’abitudine.

La voce però era più chiara. — Esisti veramente?Per un attimo aveva indugiato, si era chiesto se avesse

sentito sul serio quella domanda, così chiara e precisa. Non era mai accaduta una cosa simile, e lui era allo stesso tem-po emozionato e spaventato.

— Sì.— Come ti chiami?L’eco di quelle poche parole rimbombava nella sua testa

e lo trasportava in una dimensione fantastica, donandogli un immediato senso di piacere e completezza.

— Alex. E tu?Un groviglio di grida strazianti risuonava in lontananza.— Jenny.La ragazza poi era svanita, risucchiata in una spirale di

immagini confuse.Nel diario di Alex quel giorno era sottolineato ed evi-

denziato. Era il 27 luglio del 2014. Aveva sentito la presen-za dell’altra persona. Aveva percepito qualcosa di terribil-mente reale. Non si trattava di un sogno, ne era sicuro, né di un’allucinazione o una visione.

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Alex aveva comunicato con una ragazza che era là fuori, da qualche parte nel mondo. Non aveva idea di come fosse possibile ma ne era convinto: Jenny esisteva.

E con tutta probabilità stava facendo i conti con gli stes-si pensieri.

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RETRO

Secondo la teoria del Multiverso, esi-

stono infiniti mondi come infinite sono

le possibilità della nostra esistenza. Si

suppone che queste realtà non siano

in contatto tra loro.

Alex vive a Milano. Jenny vive a Mel-

bourne. Un filo sottile unisce da sem-

pre le loro vite: un dialogo telepatico

che si verifica senza preavviso, in uno

stato di incoscienza. Fino a quando

non decidono di incontrarsi e scopro-

no una verità che cambierà totalmen-

te le loro esistenze, distruggendo ogni

certezza sul mondo in cui vivono.

www.multiversumsaga.com

www.mondichrysalide.it

Un esordio folgorante in cui la fantascienza

incontra la favola dando alla luce un mondo visionario

di affascinante complessità.

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FRONTE

— ALEX, PERCHÉ NON SEI VENUTO?NON DIRMI CHE NON ESISTI, TI PREGO.

— JENNY, IO SONO SUL MOLO. SONO QUI!— ANCHE IO. ESATTAMENTE DOVE DICI DI ESSERE TU.

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