Lenin La Tattica e La Strategia Rivoluzionaria

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LENIN: LA TATTICA E LA STRATEGIA RIVOLUZIONARIA LA POLITICA DI LENIN Principi e tattica, per la rivoluzione di Marco Ferrando Autonomia di classe e battaglia per l’egemonia, intransigenza dei principi e duttilità della tattica: sono questi gli elementi essenziali della politica di Lenin sia sul versante russo, sia sul versante internazionale. Con una precisa avvertenza: nessuno di quegli elementi è in qualche modo “isolabile”, ed anzi ognuno di essi trova il suo stesso significato proprio nella relazione dialettica con l’insieme degli altri fattori. E questa relazione a sua volta è governata dal fine: il rovesciamento della borghesia, la conquista proletaria del potere. Tenere presente questo insieme, razionalizzarlo, assimilarlo è condizione decisiva per comprendere il leninismo nella sua profondità e attualità. Rimuoverlo o disperderlo significa fare, fosse pure involontariamente, la caricatura del leninismo; e prestarsi a quelle innumerevoli e interessate deformazioni di cui è stato oggetto da parte della socialdemocrazia, dello stalinismo, del centrismo. Luxemburg e Lenin nella battaglia internazionale antirevisionista L’autonomia di classe del movimento operaio dalla borghesia è la base stessa del marxismo. Tutta la politica di Lenin parte dalla riaffermazione di questo principio basilare. E non in termini astratti, ma nel vivo della battaglia politica all’interno del movimento operaio internazionale e della socialdemocrazia russa. Lungo il corso della sua evoluzione storica, già nel primissimo Novecento la II Internazionale aveva visto riaffacciarsi al proprio interno tendenze apertamente “revisioniste”: che mettendo in discussione la prospettiva stessa della rivoluzione socialista, attaccavano il principio dell’indipendenza politica di classe e legittimavano scelte di collaborazione con governi borghesi. Se la via “realistica” al socialismo passava ormai attraverso la progressiva modifica degli equilibri parlamentari e istituzionali, perché mai continuare ad opporre un’obiezione di principio all’ingresso di propri ministri nei governi borghesi

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LENIN: LA TATTICA E LA STRATEGIA RIVOLUZIONARIAArticoli di Marco Ferrando e Franco Grisolia

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LENIN: LA TATTICA E LA STRATEGIA RIVOLUZIONARIA

LA POLITICA DI LENIN

Principi e tattica, per la rivoluzione

di Marco Ferrando

Autonomia di classe e battaglia per l’egemonia, intransigenza dei principi e duttilità della tattica: sono questi gli elementi essenziali della politica di Lenin sia sul versante russo, sia sul versante internazionale. Con una precisa avvertenza: nessuno di quegli elementi è in qualche modo “isolabile”, ed anzi ognuno di essi trova il suo stesso significato proprio nella relazione dialettica con l’insieme degli altri fattori. E questa relazione a sua volta è governata dal fine: il rovesciamento della borghesia, la conquista proletaria del potere. Tenere presente questo insieme, razionalizzarlo, assimilarlo è condizione decisiva per comprendere il leninismo nella sua profondità e attualità. Rimuoverlo o disperderlo significa fare, fosse pure involontariamente, la caricatura del leninismo; e prestarsi a quelle innumerevoli e interessate deformazioni di cui è stato oggetto da parte della socialdemocrazia, dello stalinismo, del centrismo.

Luxemburg e Lenin nella battaglia internazionale antirevisionista

L’autonomia di classe del movimento operaio dalla borghesia è la base stessa del marxismo. Tutta la politica di Lenin parte dalla riaffermazione di questo principio basilare. E non in termini astratti, ma nel vivo della battaglia politica all’interno del movimento operaio internazionale e della socialdemocrazia russa.

Lungo il corso della sua evoluzione storica, già nel primissimo Novecento la II Internazionale aveva visto riaffacciarsi al proprio interno tendenze apertamente “revisioniste”: che mettendo in discussione la prospettiva stessa della rivoluzione socialista, attaccavano il principio dell’indipendenza politica di classe e legittimavano scelte di collaborazione con governi borghesi. Se la via “realistica” al socialismo passava ormai attraverso la progressiva modifica degli equilibri parlamentari e istituzionali, perché mai continuare ad opporre un’obiezione di principio all’ingresso di propri ministri nei governi borghesi “progressisti”? Se i socialisti fossero determinanti per una più avanzata maggioranza politica di governo un loro disimpegno e “isolamento propagandistico” non favorirebbe forse le forze reazionarie a tutto danno del movimento operaio?

Eduard Bernstein aveva dato corposità teorica a queste sollecitazioni, ben presenti nel settore parlamentare della socialdemocrazia tedesca e nelle sue rappresentanze istituzionali regionali (lander). E il “caso Millerand” in Francia nel 1900, con l’aperto ingresso di un parlamentare “socialista” in un governo borghese, testimoniava che la questione era tutt’altro che una questione “teorica”.

Queste posizioni furono inizialmente combattute dalla maggioranza delle forze dell’Internazionale. Ma in termini e da angolazioni significativamente differenti.

Kautsky e il suo “centro” svilupparono un contrasto debole, segnato dalla preoccupazione dominante di una possibile scissione della destra parlamentare della socialdemocrazia: un contrasto che finiva col ridurre la questione, fondamentalmente, alla necessaria riaffermazione dell’autorità del partito nei confronti dei suoi gruppi parlamentari ma che sminuiva il carattere politico e di principio del problema. Era l’esordio storico del centrismo, e il presagio della sua deriva futura.

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Fu invece la sinistra rivoluzionaria dell’Internazionale a partire da Rosa Luxemburg a sviluppare contro il revisionismo una battaglia politica di fondo e di principio.

“Riforma sociale o rivoluzione”, scritto dalla grande Rosa nel 1898 in diretta risposta a Bernstein, è sotto questo profilo un testo magistrale che demolisce l’intero impianto teorico del revisionismo e ne sviscera impietosamente le implicazioni politiche e pratiche: innanzi tutto l’abbandono dell’indipendenza politica di classe a favore del “ministerialismo”. E non si trattava solamente di una risposta “teorica”. Luxemburg denunciò con vigore tutti i sintomi della cancrena che si avvicinava: dalle combinazioni governative tra socialdemocrazia tedesca e centro borghese cattolico in alcuni lander regionali sino al voto a favore da parte di settori parlamentari socialdemocratici a stanziamenti governativi per la spesa militare. Ed estese la battaglia al terreno internazionale: contrastando con due bellissimi articoli il cosiddetto “esperimento belga”, che nel 1902-03 aveva visto il sacrificio delle potenzialità di lotta indipendente del movimento operaio ad un “inammissibile” blocco politico, fosse pure transitorio, tra la socialdemocrazia belga e il liberalismo borghese in nome di una riforma (oltretutto contraddittoria) del sistema elettorale.

Fu proprio questa vigorosa battaglia contro le prime manifestazioni della deriva emergente, a rivelare agli occhi di Rosa la timidezza opportunistica del centro di Kautsky, il suo rifiuto di una battaglia vera, e quindi ad affrettare la sua rottura col kautskismo nel 1908 (con lo scritto “Teoria e prassi”).

La tendenza bolscevica della socialdemocrazia russa fu parte della battaglia della sinistra rivoluzionaria della II Internazionale. E’ vero: Lenin comprenderà più tardi di Rosa la natura politica del centrismo kautskiano (e quando la comprenderà la sua contrapposizione al centrismo kautskiano sarà semplicemente spietata). Ma la sua opposizione al revisionismo fu dall’inizio caratterizzata da un’argomentazione di principio intransigente che andava ben al di là dell’obiezione kautskiana. Valga per tutti l’articolo del 1908 dedicato interamente alla denuncia del fenomeno revisionista e alla difesa dell’indipendenza politica del proletariato internazionale: “L’esperienza delle alleanze, degli accordi e dei blocchi col liberalismo socialriformista in Occidente e col riformismo liberale (cadetti) nella rivoluzione russa ha dimostrato in modo convincente che questi accordi non fanno che annebbiare la coscienza delle masse, non accentuano ma attenuano l’importanza effettiva della loro lotta, legando i combattenti agli elementi più inetti alla lotta, più instabili e inclini al tradimento. Il millerandismo francese, che è l’esperienza più notevole di applicazione della tattica politica revisionista su grande scala, su scala veramente nazionale, ha dato del revisionismo un giudizio pratico che il proletariato di tutto il mondo non dimenticherà mai…‘Il fine è nulla, il movimento è tutto’, queste parole alate di Bernstein esprimono meglio di lunghe dissertazioni l’essenza del revisionismo. Determinare la propria condotta caso per caso; adattarsi agli avvenimenti del giorno, alle svolte provocate da piccoli fatti politici; dimenticare gli interessi vitali del proletariato e i tratti fondamentali di tutto il regime capitalista, di tutta l’evoluzione del capitalismo; sacrificare questi interessi vitali a un vantaggio reale o supposto del momento, tale è la politica revisionista.” (Lenin, “Marxismo e revisionismo”, in Opere scelte, vol. II, p. 10).

E non fu un testo isolato. Basti pensare a quanto Lenin scriveva, ad esempio, già nel 1899: “Che cosa hanno introdotto di nuovo in questa teoria i chiassosi ‘innovatori’ che hanno al presente sollevato tanto rumore, raggruppandosi attorno al socialista tedesco Bernstein? Assolutamente nulla: non hanno fatto fare un solo passo avanti alla scienza che Marx ed Engels ci hanno raccomandato di sviluppare; non hanno insegnato al proletariato nessun nuovo metodo di lotta; non hanno che ritirarsi, prendendo a prestito frammenti di teorie arretrate e predicando al proletariato non la teoria della lotta, ma la teoria dell’arrendevolezza; dell’arrendevolezza nei confronti dei peggiori nemici del proletariato, dei governi e dei partiti borghesi...” (Lenin, “Il nostro programma”).

Detto di passata, la riscoperta di questi articoli di Lenin è già di per sé sufficiente a smentire radicalmente la tesi tanto diffusa di una natura esclusivamente “russa” del bolscevismo, di una sua estraniazione dalla storia del movimento operaio europeo. La verità è opposta: nonostante l’indubbia specificità delle condizioni russe, nonostante le specificità delle condizioni di vita della socialdemocrazia russa del primo Novecento, condannata ripetutamente alla clandestinità, Lenin e il bolscevismo trovarono naturale partecipare attivamente alla vita dell’Internazionale e, in essa, alla battaglia per il marxismo rivoluzionario e per l’indipendenza politica di classe. Socialdemocrazia e stalinismo, per ragioni diverse hanno cancellato “questo” Lenin internazionalista del primo Novecento. E’ bene che i marxisti rivoluzionari lo riportino oggi alla luce.

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Il bolscevismo contro l’alleanza con la borghesia liberale

Ma è soprattutto nella vicenda russa che la battaglia leninista per l’autonomia del movimento operaio si dispiegò in tutta la sua ricchezza come asse centrale del bolscevismo.

Tanta parte della vulgata staliniana ha teso a “ricostruire” la storia del bolscevismo russo, come storia di una ricerca di blocco con la borghesia liberale in nome della necessità della “rivoluzione democratica”: una ricerca che poi sarebbe naufragata per il disimpegno della borghesia russa. Non era questo il senso – essi dicono – della vecchia parola d’ordine bolscevica della “dittatura democratica degli operai e dei contadini”?

Nulla è più lontano dalla verità.

La formula della “dittatura democratica” degli operai e dei contadini, varata da Lenin alla vigilia della rivoluzione del 1905, rivelava – è vero – un problema irrisolto (e non secondario) circa la dinamica della rivoluzione russa e, in essa, circa il rapporto tra misure democratiche e misure socialiste, quindi tra proletariato e masse contadine. Era, per così dire, una formula “algebrica”, non priva di rischi, che solo lo sviluppo della rivoluzione del ’17 e la battaglia di Lenin avrebbero tradotto – come vedremo – in termini conseguentemente rivoluzionari.

Ma equivocare tra tale questione e il rapporto del bolscevismo con la borghesia liberale è una colossale mistificazione. Al di là delle sue contraddizioni irrisolte la formula della “dittatura democratica degli operai e dei contadini” non solo escludeva nel modo più netto ogni blocco politico con la borghesia liberale russa ma si basava esattamente sulla rivendicazione della rottura più radicale con quella borghesia .

In definitiva, tutta la concezione leninista della rivoluzione russa, e tutta la battaglia del bolscevismo contro il menscevismo – dal 1903-05 sino all’ottobre del ’17 – ruotano attorno a questo nodo strategico cruciale: la lotta per l’indipendenza del proletariato russo dal liberalismo borghese “progressista”.

La concezione menscevica della rivoluzione russa, in incubazione dal 1902-03 ma sviluppatasi compiutamente alla vigilia del 1905, si basava su un assunto molto chiaro: la prossima rivoluzione russa sarà “una rivoluzione borghese” in virtù dell’arretratezza della Russia feudale e zarista, quindi il compito della socialdemocrazia sarà quello di rispettare questa naturale tappa storica, rispettando l’egemonia borghese sulla rivoluzione, ed anzi incoraggiandola attivamente: perché solo se la borghesia si deciderà a prendere la testa della “sua” rivoluzione, superando incertezze e tentennamenti, si potrà avviare una vera modernizzazione capitalistica e occidentale della Russia, con il suo parlamento e le sue istituzioni liberali; e solo quando questo accadrà potrà iniziare la lotta della socialdemocrazia per il socialismo, che è tappa storica successiva. Questa concezione generale – che interpretava il materialismo storico in termini “positivisti”, secondo una visione sempre più dilagante nella II Internazionale – finiva con il teorizzare di fatto una politica di blocco con la borghesia nella “rivoluzione democratica”: quindi una sospensione della lotta contro la borghesia nel quadro di tale rivoluzione.

Ebbene: il bolscevismo si sviluppò contro questa concezione e questa politica. A partire da una concezione per molti aspetti opposta della rivoluzione russa e della sua prospettiva. Lenin riconosceva il carattere democratico dei compiti immediati della rivoluzione (riforma agraria e assemblea costituente). Ma non per questo riconosceva un ruolo egemone della borghesia nella rivoluzione. Al contrario. Lenin analizzava meticolosamente i mille intrecci tra zarismo e liberalismo russo, tra borghesia industriale e proprietà fondiaria, tra borghesia russa e capitale internazionale. Perciò stesso comprendeva che la borghesia russa non solo non si sarebbe posta alla testa di una “rivoluzione democratica” ma temeva la rivoluzione popolare più di ogni altra cosa: il suo obbiettivo massimo era il superamento dell’autocrazia zarista in direzione di una monarchia costituzionale, ma proprio per disinnescare la miccia di una possibile esplosione rivoluzionaria antizarista. Del resto: lo stesso liberalismo borghese nella rivoluzione francese del 1789 o nella rivoluzione inglese della metà del Seicento, o nel risorgimento nazionale italiano, non si era forse sistematicamente contrapposto alla trascrescenza popolare della rivoluzione per non mettere a rischio il proprio ruolo sociale? Il giacobinismo francese, gli indipendenti di Cromwell, il mazzinianesimo italiano, le tendenze piccolo borghesi radicali delle rivoluzioni borghesi: non si erano forse scontrate, persino al di là delle loro intenzioni iniziali, con il carattere controrivoluzionario della borghesia liberale? E se ciò era accaduto persino in epoche storiche non ancora segnate prevalentemente dalla

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contraddizione di classe tra capitale e lavoro e dello sviluppo del movimento operaio, quale ruolo “rivoluzionario” avrebbe mai potuto esercitare la borghesia russa a fronte di una classe operaia in rapida espansione e in un contesto internazionale segnato dall’ascesa sociale e politica del movimento operaio? La conclusione di Lenin era inequivoca: “La borghesia russa è e sarà controrivoluzionaria sullo stesso terreno democratico”.

Il suo modello di riferimento – diceva Lenin – sarà la “via prussiana”: un compromesso politico con lo zarismo attorno a un progetto di modernizzazione autoritaria, controllata, dall’alto, senza la partecipazione popolare e contro le rivendicazioni operaie e contadine. Per questo un’autentica rivoluzione democratica capace di realizzare in modo conseguente una radicale riforma agraria e di conquistare l’assemblea costituente potrà essere realizzata solamente dagli operai e dai contadini russi contro la borghesia russa. La formula della “dittatura democratica operaia e contadina” rifletterà precisamente questa prospettiva di rottura col liberalismo russo in aperta contrapposizione al menscevismo.

Aggiungo che la stessa concezione leninista del partito in contrapposizione alla concezione menscevica – quale fu codificata nel II congresso del Posdr – aveva una precisa connessione con le diverse concezioni delle due tendenze circa la prospettiva della rivoluzione russa e il rapporto con la borghesia: il menscevismo ricavava dall’“inevitabile” egemonia borghese sulla rivoluzione democratica una funzione sussidiaria della socialdemocrazia russa che doveva limitarsi a rappresentare le rivendicazioni economiche degli operai lasciando “la politica” alla borghesia. Da qui anche la famosa rivendicazione avanzata da Martov di un “partito largo” cui potesse appartenere “ogni scioperante”. Il bolscevismo ricavava dalla necessaria egemonia operaia e contadina sulla rivoluzione, in contrapposizione alla borghesia, la necessità di un partito d’avanguardia di militanti e di quadri radicato nella classe e tra le masse, capace di esercitare un ruolo rivoluzionario indipendente ed egemone.

Infine la diversa concezione della rivoluzione russa in ordine al rapporto con la borghesia coinvolge l’intero confronto tra bolscevismo e menscevismo attorno alla tattica elettorale. Il menscevismo rivendicava tradizionalmente (e praticava) le alleanza politico-elettorali con il liberalismo russo, ciò che nei fatti significava l’adattamento del menscevismo alla piattaforma liberale. Il bolscevismo si oppose ai blocchi elettorali con i liberali rivendicando l’autonoma presenza della socialdemocrazia russa alle elezioni (e ammettendo invece la possibilità di accordi elettorali tecnici nelle cosiddette elezioni di secondo livello, riservate ai soli “grandi elettori”).

La politica leninista nella rivoluzione russa: l’opposizione di principio ai governi borghesi

Ma fu il 1917 la cartina di tornasole decisiva della politica del bolscevismo.

A seguito della rivoluzione di febbraio, che aveva rovesciato lo zarismo sotto l’onda d’urto di una gigantesca sollevazione popolare, i dirigenti menscevichi e socialrivoluzionari – largamente maggioritari nei soviet – si predisposero a sostenere il governo borghese provvisorio, dominato dal partito borghese dei cadetti e dal partito degli ottobristi. E a partire dal maggio ’17 entrarono direttamente in un governo di coalizione con la borghesia. Non era forse “borghese” la rivoluzione russa? Non erano forse “democratiche” le rivendicazioni centrali della rivoluzione di febbraio? Occorreva consolidare la tappa democratica della rivoluzione e “l’unità democratica” con la borghesia, evitando di spaventarla con rivendicazioni socialiste “storicamente immature”. Questa era la politica del menscevismo.

La posizione di Lenin fu esattamente opposta. In aperto contrasto con la stessa posizione contraddittoria e incerta di una parte del gruppo dirigente bolscevico, Lenin sviluppò una battaglia decisiva per affermare controcorrente l’opposizione di classe del proletariato russo nei confronti del nuovo governo borghese. E’ vero, affermava Lenin, le rivendicazioni di febbraio erano di carattere democratico. Ma il governo borghese scaturito da febbraio e sostenuto dal menscevismo si opponeva – non a caso – alla loro realizzazione: negava la terra ai contadini, rifiutava di convocare l’assemblea costituente, continuava la guerra imperialista in totale contrapposizione alla rivendicazione della “pace”. Il problema non era premere sul governo borghese perché rispondesse alle richieste di massa. Il problema era di spiegare alle masse, sulla base della loro stessa esperienza, che nessun governo della borghesia e di coalizione con la borghesia poteva soddisfare le rivendicazioni democratiche elementari. E che solo rompendo con la borghesia e concentrando nelle proprie mani, cioè nei soviet, tutto il potere era possibile realizzare le rivendicazioni di febbraio.

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Questa soluzione, a sua volta, avrebbe intrecciato inevitabilmente il completamento della rivoluzione democratica con la rivoluzione socialista, e la rivoluzione socialista russa con lo sviluppo della rivoluzione socialista internazionale. Nelle Tesi di aprile, Lenin sviluppa così sino in fondo quel principio di indipendenza dalla borghesia che già la formula della “dittatura democratica degli operai e dei contadini” conteneva; ma lo sviluppa contro le ambiguità di quella formula e in opposizione a chi si aggrappava ad essa per difendere una politica di sostegno, seppure “critico”, verso il governo borghese provvisorio. La vittoria di Lenin nella battaglia interna al bolscevismo su questo punto cruciale fu determinante per la stessa sorte della rivoluzione russa.

Questa politica di indipendenza di classe fu peraltro difesa e affermata da Lenin in un altro passaggio decisivo del processo rivoluzionario del 1917: il passaggio dell’agosto. E’ un vero passaggio di scuola per la politica rivoluzionaria. Nell’agosto ’17 il governo borghese di Kerensky, che un mese prima aveva colpito e represso il partito bolscevico schiacciandolo nella clandestinità, fu apertamente attaccato e insidiato da destra, per opera di una controrivoluzione militare guidata da un generale zarista (Kornilov). Non si doveva dunque dismettere, fosse pure temporaneamente, l’opposizione di classe al governo Kerensky, e passare al sostegno politico del governo democratico contro la reazione zarista? Non era questa la condizione stessa della difesa della rivoluzione di febbraio dal tremendo pericolo della controrivoluzione militare?

La pressione sul bolscevismo fu fortissima e aprì brecce in settori dirigenti del partito. Ma Lenin mostrò un’intransigenza inflessibile. Certo, si doveva combattere attivamente e in prima fila la reazione controrivoluzionaria con la più ampia rivendicazione dell’unità di lotta di tutte le forze operaie e popolari. Ma questo non significava affatto sostenere politicamente Kerensky. Al contrario, occorreva dire la verità alle masse, nel momento stesso dell’unità d’azione: proprio la politica di Kerensky aveva aperto le porte a Kornilov, proprio la negazione delle rivendicazioni di febbraio e la repressione antioperaia e antibolscevica aveva allargato il margine di manovra della controrivoluzione. Dunque la lotta per la terra, per l’armamento del popolo, per l’assemblea costituente era più che mai attuale proprio per indebolire le basi sociali della controrivoluzione, approfondire le sue contraddizioni e sconfiggerla: ciò che implicava esattamente la continuità dell’opposizione politica al governo, non la sua rimozione: “E anche adesso non dobbiamo sostenere il governo Kerenski. Verremmo meno ai nostri principi. Come, ci si domanderà, non si deve dunque combattere Kornilov? Certamente bisogna combatterlo. Ma non è la stessa cosa. Vi è un limite tra le due posizioni, e questo limite alcuni bolscevichi lo sorpassano, cedendo al ‘conciliatorismo’, lasciandosi trascinare dal corso degli eventi.

“Noi facciamo e faremo la guerra a Kornilov come le truppe di Kerenski, ma non sosteniamo Kerenski, anzi smascheriamo la sua debolezza. Qui sta la differenza. E’ una differenza abbastanza sottile ma essenziale e che non si può dimenticare.” (Lenin, Al comitato centrale del Posdr, pp. 273-74).

Questa posizione di principio che riaffermava l’opposizione comunista al governo di “centrosinistra” non ostacolò la battaglia contro la reazione monarchica che finì sconfitta, col concorso degli stessi bolscevichi. In compenso creò le migliori condizioni perché un mese dopo il bolscevismo apparisse l’unico possibile riferimento alternativo per l’avanguardia di massa degli operai, dei contadini, dei soldati a fronte del fallimento del governo di coalizione. Era la premessa decisiva dell’Ottobre.

E’ appena il caso di osservare che la rivoluzione d’Ottobre si realizzò rovesciando un governo di centrosinistra, frutto di una rivoluzione democratica e sostenuto dai vecchi partiti di sinistra: è bene ricordarlo ai tanti teorizzatori di un Lenin precursore dei “fronti democratici” e dei “governi progressisti”.

La lezione della rivoluzione russa circa la necessaria indipendenza politica dei comunisti fu estesa da Lenin alla III Internazionale comunista. Le fondamenta programmatiche dell’Internazionale, già al primo congresso del 1919, furono al riguardo inequivocabili: il rifiuto di ogni coalizione con la borghesia, di ogni sostegno, diretto o indiretto, ai governi borghesi fu assunto dall’intero movimento comunista internazionale delle origini come discriminante di fondo nei confronti del riformismo e del centrismo. Peraltro, proprio il rifiuto di ogni sostegno ai “propri” governi di guerra e la rivendicazione del disfattismo rivoluzionario aveva rappresentato il terreno della rottura definitiva col socialsciovinismo riformista della II Internazionale e della costituzione della III Internazionale. Successivamente in occasione del secondo congresso dell’Internazionale, il rifiuto di ogni forma di coalizione o sostegno ai governi della borghesia, anche dei più

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“democratici”, rientrò tra le 21 condizioni formalmente poste per l’adesione all’Internazionale: e quindi rappresentò in quel contesto uno dei terreni di demarcazione di principio da ogni forma di centrismo conciliatore.

La stessa critica dell’“Estremismo, malattia infantile del comunismo” (su cui tornerò) – contrariamente al diffuso luogo comune seminato ad arte dallo stalinismo – non “ammorbidì” affatto l’intransigente opposizione ad ogni governo borghese. Al contrario, proprio nell’Estremismo è possibile cogliere, di passata, l’ampia argomentazione di Lenin in replica ai comunisti inglesi su come meglio prepararsi a rovesciare un possibile futuro governo laburista, “governo di furfanti e della borghesia”, entro la più totale indisponibilità a qualsiasi attenuazione della critica dei comunisti nei loro confronti. Così come nel quadro della difesa della politica seguita dalla sezione tedesca (criticata invece dalla sinistra interna) Lenin non mancò di rigettare l’argomento “teoricamente e politicamente sbagliato” secondo cui sarebbe stato possibile entro la democrazia borghese, un governo di sinistra al di sopra delle classi quale passo transitorio verso la dittatura del proletariato: no, diceva Lenin, entro la repubblica borghese ogni governo, quale che sia la sua composizione politica, altro non sarebbe di fatto che un governo della classe borghese per il quale i comunisti non possono portare alcuna responsabilità. E proprio la denuncia di ogni governo come comitato d’affari della borghesia “anche nella repubblica più democratica” è al centro dell’elaborazione leninista di Stato e rivoluzione, del Rinnegato Kautsky e di centinaia di articoli.

Infine il principio della rottura con la borghesia e il rifiuto di ogni forma di governismo borghese fu riaffermato in relazione al contesto dei paesi coloniali e semicoloniali: dove il Congresso internazionale dei popoli oppressi di Baku (1920) e le Tesi dell’Internazionale sulla questione coloniale distinguevano nettamente la possibile convergenza dei comunisti con movimenti nazionali di liberazione “radicali e rivoluzionari” a guida piccolo borghese (vedi la proposta dei fronti unici antimperialisti) dall’aperto respingimento di ogni blocco con le forze della borghesia nazionale indigena, agenzia dell’imperialismo presso il popolo oppresso.

Su ogni terreno e da ogni versante l’antigovernismo bolscevico rappresentò il recupero più coerente della tradizione rivoluzionaria di Marx e di Engels. Solo la malafede o l’ignoranza possono negare o nascondere questa verità.

La conquista della maggioranza della classe: la lotta di Lenin contro l’estremismo

E tuttavia una lettura del bolscevismo semplicemente e solo come “difesa dell’autonomia di classe” e intransigenza dei principi, pur cogliendo un elemento essenziale di verità, finirebbe anch’essa per darne un’immagine semplificata e poco formativa della politica di Lenin. Magari un’immagine cara al bordighismo e a qualche setta ultrasinistra, ma semplicemente non vera, non corrispondente alla realtà.

Per Lenin la difesa ostinata e prioritaria del principio dell’autonomia di classe e del rifiuto di ogni coalizione con la borghesia non fu mai un fine a sé, una semplice linea di confine, un puro atto di autodemarcazione. Fu sempre in funzione della prospettiva rivoluzionaria reale. Quindi fu sempre connessa e dialettizzata alla politica di conquista della maggioranza delle masse politicamente attive, che è condizione decisiva per la conquista proletaria del potere. E, a sua volta, l’azione di conquista della maggioranza è la politica tesa a strapparla all’influenza di quei partiti e direzioni (riformiste, centriste, nazionaliste borghesi o piccolo borghesi) che controllano le masse in funzione della democrazia borghese e/o imperialista: è la lotta per un’altra direzione, un'altra egemonia nella/della lotta di massa.

Questo è un punto davvero essenziale della politica di Lenin. Una lunga tradizione, particolarmente forte nel filone togliattiano dello stalinismo, ma soprattutto nella “nuova” sinistra italiana ha teso spesso a contrapporre Gramsci e Lenin nella questione strategica dell’egemonia. Secondo questa lettura, Lenin avrebbe incarnato in buona sostanza una tradizione rivoluzionaria operaista-economicista in qualche modo espressione dell’arretratezza russa, del carattere semplificato di quella società civile e della particolare debolezza di quello Stato (il tutto secondo un inquadramento esclusivamente “russo” del fenomeno bolscevico). Viceversa Gramsci avrebbe incarnato un marxismo creativo, vitale, occidentale, espressione della maggiore complessità della società civile europea e quindi capace di superare la vecchia rozzezza dell’operaismo e dell’economicismo russo in direzione del concetto dell’egemonia.

Questa rappresentazione è falsa da cima a fondo.

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Da un lato deforma il pensiero e la politica di Gramsci per avallarne un inesistente antileninismo (tema che non rientra nell’economia di questo scritto). Dall’altro ignora soprattutto un aspetto essenziale dell’intera politica di Lenin: che è per l’appunto la battaglia per l’egemonia.

La battaglia per l’egemonia – nel pensiero e nella politica di Lenin – si pone a due livelli distinti e intrecciati: la battaglia per l’egemonia nella classe e la battaglia per l’egemonia della classe sull’insieme delle masse oppresse e sfruttate, sul blocco sociale dell’alternativa rivoluzionaria.

Sul primo terreno Lenin sviluppò una polemica costante contro le posizioni, generalmente estremiste (e spesso settarie) che si attestavano sulla pura e semplice petizione comunista e rivoluzionaria di tipo identitario senza curarsi della conquista delle masse.

Queste posizioni, apparentemente radicali, hanno, secondo Lenin, un risvolto teorico e pratico disastroso. Sul piano teorico contraddicono l’essenza stessa del marxismo come “guida per l’azione” rivoluzionaria, ostile per definizione alla semplice passività propagandistica. Sul piano politico sanciscano la rinuncia alla costruzione di una direzione di massa alternativa e quindi favoriscono la tenuta del controllo burocratico riformista (o centrista) nelle masse stesse. Il bolscevismo si è quindi costruito e affermato contro queste posizioni sul piano nazionale e internazionale. E nel corso di tutta la sua storia.

E’ relativamente nota la polemica di Lenin contro il rifiuto di lavorare nei sindacati di massa e contro il rifiuto alla partecipazione ai parlamenti borghesi. Meno nota è la natura dell’argomentazione di Lenin e il fatto che quella battaglia sia stata sviluppata nello stesso contesto russo e ben prima della precipitazione rivoluzionaria del ’17.

Dopo la sconfitta della rivoluzione russa del 1905, e in particolare negli anni 1908-1910, Lenin fu impegnato nelle fila stesse del bolscevismo in uno scontro politico durissimo contro le tendenze dell’“otzovismo” e dell’“ultimatismo”. Queste tendenze rispondevano alla sconfitta della rivoluzione e alla diffusa demoralizzazione con una radicalizzazione formalistica delle posizioni: “Che senso ha lavorare in sindacati in larga misura controllati da Zubatov e dalla polizia zarista? Che senso ha partecipare ad elezioni truccate, entro regole elettorali vessatorie e umilianti per la socialdemocrazia russa? Che senso ha puntare a partecipare a una Duma reazionaria, puntello dello zarismo, frutto della sconfitta della rivoluzione?”

La proposta era semplice: uscita dai sindacati e boicottaggio della Duma. Una proposta che faceva proseliti nel bolscevismo perché appariva pura, intransigente, frontalmente contrapposta a quel liquidazionismo menscevico che puntava alla legalizzazione della socialdemocrazia entro una sorta di costituzionalizzazione dello zarismo. La polemica di Lenin fu durissima contro tali posizioni. E non, come potrebbe intendersi, da un versante per così dire “moderato”, di chi si preoccupa semplicemente di “salvaguardare” la presenza “istituzionale” del partito. Ma dal versante della prospettiva rivoluzionaria. Proprio perché la rivoluzione è stata temporaneamente sconfitta, proprio perché il movimento di massa è ripiegato, proprio perché i rivoluzionari sono più deboli e isolati tra le masse, proprio per questo il problema decisivo per i rivoluzionari non è quello di “arrendersi” al proprio isolamento, costruendovi sopra una razionalizzazione teorica e una retorica formalistica ma, all’opposto, è quello di rimontare la china utilizzando tutti i possibili canali di rapporto con le masse, anche i più distorti e deformi, anche quelli offerti dall’odiato zarismo: perché solo così è possibile utilizzare a pieno ogni spazio per sviluppare controcorrente la coscienza dei lavoratori e della masse, contrastare la sfiducia dilagante, inserirsi in ogni contraddizione e fermento di ripresa, contrastare la presa del menscevismo liquidatore e opportunistico. Tutte condizioni decisive per favorire il rilancio rivoluzionario e, in esso, l’egemonia della socialdemocrazia rivoluzionaria.

E’ utile ricordare che proprio il dispiegamento di questa politica permise ai bolscevichi di conquistare alla lunga posizioni egemoni in importanti sindacati nel momento della ripresa delle lotte (1912-14) e anche di guadagnare una presenza modesta ma preziosa nella Duma, che si rivelerà efficacissima nell’agitazione disfattista contro la guerra. Non a caso nella polemica dell’Estremismo, dieci anni dopo, Lenin richiama questa esperienza del bolscevismo e la sua attualità tanto più nel contesto europeo occidentale. Perché tanto più in un contesto segnato, a differenza che in Russia, da una tradizione storica della democrazia borghese parlamentare, dalla presenza di forti e radicati sindacati di massa, sarebbe del tutto assurdo, dal punto di vista della politica rivoluzionaria, voltare le spalle “per principio” a questi ambiti di

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intervento. Tanto più in Occidente, quello sarebbe il più grande regalo alla democrazia borghese, alle burocrazie dirigenti dei sindacati, all’opportunismo riformista e centrista.

Larga parte della polemica contro l’estremismo nel 1920 si appoggia proprio sull’argomento della maggiore complessità della rivoluzione in Occidente rispetto alla vecchia Russa: e basterebbe questo riferimento semplice per smentire tutta la vulgata ricorrente sulla cosiddetta “angustia nazionale” del bolscevismo russo.

“Ma l’opportunismo parlamentare e sindacale, così diffuso in Occidente, non mostra forse il carattere corruttivo del parlamento e dei sindacati verso le forme del movimento operaio? Non è questa una buona ragione per tenersi fuori da quelle sedi?” Così argomentava con sfumature interne diverse, il grosso dell’estremismo antileninista. Ma la risposta di Lenin (e di Trotsky) demistificava nel metodo l’equivoco di fondo di quella obiezione.

Certo: il parlamentarismo borghese esercita una posizione corruttrice. Così come l’ambiente della burocrazia sindacale. Più in generale tutta la politica rivoluzionaria e tutti i rivoluzionari, quale che sia il loro ambito d’intervento, sono esposti alla pressione quotidiana della società borghese, delle sue istituzioni, delle sue agenzie nel movimento operaio. Ma pensare di ovviare a questo rischio, sottraendosi alla politica di massa, significava semplicemente rinunciare alla rivoluzione.

Ben altra doveva essere la risposta: quella di costruire un partito capace di ricondurre il carattere multiforme della propria politica di massa in ogni sede del suo esercizio, ai principi della rivoluzione, alla tensione verso il fine. Capace di subordinare il lavoro parlamentare alla prospettiva di rovesciamento del parlamento borghese, contro ogni adattamento alle sue regole del gioco. Capace di subordinare il lavoro sindacale alle prospettive della conquista proletaria del potere, contro ogni logica di puro “sindacalismo” di sinistra. La risposta di Trotsky a Gorter, dai banchi della III Internazionale resta da questo punto di vista esemplare. E mostra una volta di più che per il bolscevismo non esisteva alcuna questione tattica separata a sé stante (la “questione parlamentare”, la “questione sindacale”) ma diverse articolazioni tattiche di un’unica politica per la conquista del potere. E che, a sua volta, proprio l’unicità e il rigore della politica rivoluzionaria poteva governare la molteplicità della tattica evitando la deriva dell’opportunismo.

La tattica rivoluzionaria del fronte unico e del governo operaio

La tattica del fronte unico e del governo operaio rispondeva da un altro versante alla medesima questione: la conquista delle masse per il potere. Anche in questo caso, contro le resistenze dell’estremismo e partendo dall’esperienza viva della rivoluzione russa.

Di cosa si trattava? Si trattava intanto di un’elaborazione tattica che poggiava sull’analisi marxista della realtà obiettiva e sulle necessità obiettive della lotta di classe: quelle della più ampia unità di lotta dei lavoratori contro le classi dominanti. E al tempo stesso della stretta relazione, nella dinamica della lotta, tra gli obiettivi immediati della mobilitazione di classe e la necessità di rompere con il capitalismo in crisi. “Uniamoci nella lotta comune attorno ad una piattaforma indipendente che risponda alle comuni esigenze della nostra classe. Uniamoci nella comune rottura con la borghesia, dentro una lotta comune per il potere dei lavoratori. Perché nessuna delle rivendicazioni elementari della nostra classe è compatibile con questa società: e ognuna di esse richiede una rottura anticapitalistica."

Questo approccio, rivolto innanzitutto e sempre alle grandi masse, era traducibile in un’impegnativa articolazione tattica. Quella della sfida alle direzioni maggioritarie del movimento operaio, riformiste e/o centriste, perché rompessero con la borghesia, realizzando con i comunisti l’unità d’azione contro di essa sulla base di una piattaforma di classe. Perché questa articolazione tattica? Perché era quella più funzionale a smascherare e a compromettere le vecchie direzioni agli occhi dei settori più avanzati e combattivi della loro base proletaria e così di allargare presso quella base, l’influenza alternativa dei comunisti. Non a caso il terzo congresso dell’Internazionale che varò la tattica del fronte unico indicò la conquista delle masse (“alle masse!”) come motivo ispiratore della politica dei partiti comunisti.

Questa innovazione tattica – tanto più suggerita nel ’22 dalle difficoltà della rivoluzione europea, dalla possibile stabilizzazione capitalistica, dalla permanente influenza di massa della socialdemocrazia e del centrismo – incontrò la

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forte resistenza del bordighismo italiano, del Kapd tedesco, del tribunismo olandese. Una resistenza diversamente motivata: nel caso del borghismo da una visione essenzialmente passiva e propagandistica della politica rivoluzionaria; nel caso del Kapd e del tribunismo da una concezione della politica rivoluzionaria come offensiva lineare e permanente.

Ma, pur partendo da angolazioni diverse, gli argomenti finivano spesso col convergere. “Che senso ha aver fatto la scissione e aver creato i partiti comunisti se poi si ripropone l’unità d’azione con l’opportunismo? Perché si deve ripiegare su tatticismi da politicanti quando i comunisti sono gli unici a vantare la nettezza e purezza di una lotta anticapitalistica per il potere? Come si può proporre l’unità d’azione a partiti che hanno tradito il proletariato e votato i crediti di guerra?” Tali obiezioni rivelavano in realtà, dentro l’involucro di un'intransigenza formale, un’incomprensione profonda della politica rivoluzionaria e della sua complessità, sostituendola con l’altisonanza della frase o con la retorica del sentimento. Il problema – replicarono insieme Lenin e Trotsky – non è semplicemente riaffermare la propria fede nel comunismo e nella rivoluzione: il problema è conquistare le masse alla rivoluzione. Il problema non è semplicemente la denuncia del tradimento delle direzioni riformiste e centriste: ma distruggere la loro influenza sulle masse quindi sottrarre la masse alla loro influenza. Non sta qui il senso stesso della “tattica”?

Ancora una volta fu proprio l’esperienza del bolscevismo ad essere indicata come prezioso laboratorio ed esempio. Nel luglio del ’17 i dirigenti socialrivoluzionari e menscevichi, che partecipavano ad un governo borghese e di guerra, avevano represso frontalmente l’avanguardia del proletariato russo e il partito bolscevico. Ma ciò non aveva impedito ai bolscevichi un mese dopo, di fronte alla minaccia controrivoluzionaria di Kornilov, di rilanciare la proposta sfida agli altri partiti operai e contadini perché realizzassero con i bolscevichi l’unità d’azione contro la reazione, naturalmente nel quadro della propria perdurante opposizione al governo borghese. Anche così i bolscevichi uscirono dall’isolamento, avvicinarono la base dei partiti riformisti, allargarono la propria influenza rivoluzionaria. Del resto: la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet” aveva rappresentato la parola d’ordine centrale della politica bolscevica nel ’17. Ma poiché socialrivoluzionari e menscevichi detenevano la maggioranza nei soviet sino al settembre, quella parola d’ordine aveva un solo significato: chiedere pubblicamente a socialrivoluzionari e menscevichi di rompere con il centro liberale cadetto e di prendere il potere attraverso i soviet e sulla base dei soviet.

Non era stata proprio questa tattica politica sistematica, incalzante, ad aver logorato la credibilità delle direzioni riformiste agli occhi della loro base di massa? Ad avere dimostrato alle masse non attraverso la sola denuncia, ma attraverso la loro esperienza pratica, che le loro direzioni preferivano perpetuare la coalizione col centro liberale cadetto in opposizione alle rivendicazioni di febbraio, piuttosto che unirsi ai bolscevichi per realizzare quelle rivendicazioni rompendo con la borghesia? E a chi obbiettava che quella tattica poteva andar bene in Russia ma non nella moderna Europa, Lenin e Trotsky replicarono che proprio il radicamento infinitamente più saldo e sperimentato del riformismo occidentale rispetto al riformismo russo chiariva che tanto più in Occidente il problema della conquista delle masse non poteva essere affrontato semplicemente con la denuncia o con la propaganda; ma richiedeva la complessità della manovra e della tattica e, quindi, l’assimilazione profonda dell’esperienza vittoriosa del bolscevismo russo. Ancora una volta proprio la maggiore complessità della rivoluzione in Occidente veniva invocata contro la semplificazione dell’estremismo.

L’egemonia proletaria sulle masse oppresse: l’antieconomicismo di Lenin

Ma la concezione dell’egemonia, in Lenin non riguardava unicamente l’aspetto – pur essenziale – della “conquista della maggioranza” del proletariato. Riguardava anche lo sviluppo dell’egemonia del proletariato sul più ampio blocco sociale della rivoluzione. Solo conquistando a un programma anticapitalistico l’insieme della masse oppresse il proletariato poteva veramente candidarsi al potere: questo era un punto centrale della politica di Lenin, contro ogni forma di grettezza operaistica ed economicistica. Il fatto che Lenin sia stato rappresentato lungamente come economicista ed operaista dimostra solamente la potenza geometrica dell’incontro tra l’ignoranza e la mistificazione.

Proprio il Che fare? – solitamente indicato come la massima espressione del ristretto operaismo leninista – è in realtà la più ampia argomentazione leniniana nella necessità di superare ogni economicismo operaistico. Alle posizioni dell’economismo – incubatore del menscevismo – che sosteneva la necessità che la socialdemocrazia si limitasse alla

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lotta economica, il Che fare? opponeva tutta la necessaria ampiezza della politica rivoluzionaria del proletariato. Che per essere tale doveva allargare lo sguardo all’insieme alle masse oppresse, rivolgersi ai contadini oppressi dall’aristocrazia fondiaria, alle minoranze nazionali schiacciate dallo zarismo grande russo, alla gioventù studentesca e alle forze intellettuali private dei più elementari diritti di libertà; e ricondurre l’insieme delle oppressioni e delle contraddizioni che investivano la società russa alla necessità del rovesciamento rivoluzionario dello zarismo e della conquista del potere da parte degli operai e dei contadini. Solo una classe operaia capace di elevarsi al di sopra della propria spontanea coscienza tradunionistica avrebbe potuto ricomporre attorno a sé l’intero blocco delle masse oppresse e guadagnare la testa della rivoluzione russa. Viceversa una classe che si fosse limitata all’angusto economicismo avrebbe affidato alla borghesia liberale l’egemonia della rivoluzione e dei suoi sbocchi, a tutto danno non solo del proletariato ma dell’insieme delle masse oppresse. Da qui la funzione decisiva della socialdemocrazia rivoluzionaria, e dell’avanguardia proletaria in essa raccolta, per sviluppare la coscienza del proletariato russo sul terreno della rivoluzione e, con essa, la sua egemonia alternativa.

Peraltro, tutta la politica del bolscevismo russo per quasi vent’anni è stata la testimonianza vivente di questa ispirazione politica antieconomistica ed “egemonistica”. La stessa formula della dittatura democratica degli operai e dei contadini – al di là della sua algebricità – non era forse la misura della centralità del rapporto tra proletariato urbano e masse contadine? Conquistare al proletariato della città i contadini salariati, sottrarre la maggioranza contadina piccolo proprietaria e non sfruttatrice all’egemonia della borghesia liberale: questo era per Lenin il compito strategico centrale della politica bolscevica in Russia. L’egemonia proletaria sulle masse rurali e la rottura con la borghesia erano dunque le due facce della medesima politica, entrambe contrapposte al menscevismo.

Questa politica dell’egemonia proletaria sul blocco sociale alternativo non si limitò al contesto russo ma si estese alla politica internazionale del bolscevismo.

Nell’Occidente avanzato dell’Europa capitalista la III Internazionale contrastò ogni deriva o suggestione operaistico-sindacalista. La polemica leninista con l’anarco-sindacalismo internazionale nei primi anni venti aveva esattamente questo segno. Ma benché poco conosciuta, questa battaglia politica di Lenin e di Trotsky passò anche attraverso le fila della stessa III Internazionale, talora intrecciandosi con la battaglia contro l’estremismo. Il tribunismo olandese e il kapdismo, in particolare (e in una certa misura anche il bordighismo) polemizzarono pubblicamente con la concezione bolscevica della rivoluzione in Occidente rimproverandole una visione eccessivamente estesa del blocco sociale rivoluzionario. “In Russia eravate costretti a un blocco sociale con i contadini data l’arretratezza di quella società. Ma nell’Europa capitalistica la rivoluzione deve essere esclusivamente operaia. Perché tutto il resto della società, inclusa la piccola borghesia impiegatizia, la piccola borghesia commerciale urbana, la piccola borghesia rurale, è organicamente legata al capitale. Rivolgersi a questi strati significa compromettere la rivoluzione”.

Gorter in particolare si era distinto per questa polemica nella sede del terzo congresso dell’Internazionale comunista. E proprio a Gorter giunse la replica di Trotsky, a nome della maggioranza leninista dell’Internazionale. Una replica teorica e politica. La replica teorica contestava a Gorter l’operaismo gretto dell’antico Lassalle, il quale aveva affermato che al di fuori del proletariato il resto della società rappresentava “un’unica massa reazionaria”; già Marx aveva polemizzato contro questa concezione, nella sua Critica del programma di Gotha. E questa critica restava attuale, non solo relativamente ai paesi coloniali e semicoloniali, ma anche nel contesto del capitalismo dell’Europa occidentale. Tanto più in una società capitalistica strutturata e complessa segnata da un dominio plurisecolare della borghesia, il proletariato non potrà realizzare la rivoluzione se non saprà intervenire in tutte le contraddizioni: sottraendo all’influenza della borghesia capitalistica settori inferiori di classe media, neutralizzandone altri, intercettando fasce di piccola borghesia impoverita dalla crisi del capitale, sia nella città sia nelle campagne.

Naturalmente questa posizione non aveva nulla a che spartire con quella che sarà togliattianemente la cosiddetta “politica delle alleanze” condotta dallo stalinismo. Che cercava, come nell’esperienza del Pci, di legarsi a interessi medioborghesi privilegiati (vedi il “ceto medio” emiliano) per subordinare ad essi il proletariato e negoziare meglio la collaborazione di classe con la grande borghesia. All’opposto: la politica dell’egemonia proletaria sugli stati inferiori della classe media per Lenin e per Trotsky era parte integrante della politica di rottura con la borghesia e di costruzione delle

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condizioni di successo della rivoluzione. Era un caso che proprio Lenin nel 1915, nell’indicare i requisiti di una situazione rivoluzionaria, citasse tra questi lo spostamento a sinistra delle classi medie?

In realtà Lenin dimostrava una volta di più una visione complessa della dinamica rivoluzionaria e della linea di frattura di una rivoluzione proletaria: che non era riducibile semplicemente alla linea divisoria, economicamente intesa, tra capitale e lavoro, ma al processo vivo della lotta di classe, alla costruzione e scomposizione dei blocchi sociali, all’intreccio tra fattori sociali e avvenimenti politici, alla lotta multiforme tra le classi fondamentali sul terreno dell’egemonia sociale politica, culturale.

Peraltro, proprio la storia europea del Novecento – col fenomeno del fascismo e del nazismo – avrebbe dimostrato, seppur a negativo, il peso della piccola borghesia negli equilibri della lotta di classe nell’Occidente avanzato smentendo ogni economicismo semplificatorio e confermando la necessità di una politica rivoluzionaria capace della più ampia egemonia di classe.

Socialismo e liberazione nazionale: la complessità della rivoluzione socialista

Infine, il concetto di egemonia del proletariato sull’insieme delle masse oppresse trovò in Lenin una espressione di carattere mondiale. Uno degli sviluppi più profondi del marxismo rivoluzionario da parte di Lenin fu rappresentato dalla comprensione dell’enorme importanza dei grandi sommovimenti anticoloniali dei popoli oppressi, a partire dall’Asia, e della sollevazione di tutte le nazionalità oppresse dall’imperialismo ai fini dell’affermazione della rivoluzione socialista internazionale.

Già in Russia la politica di pieno sostegno del bolscevismo al diritto di autodeterminazione delle nazionalità oppresse dall’impero russo aveva concorso alla vittoria dell’Ottobre. E proprio questo sarà uno dei primi punti d’attacco di Stalin alla tradizione politica del bolscevismo, come rivela il durissimo contrasto tra Stalin da un lato e Lenin (e Trotsky) dall’altro, attorno alla questione georgiana.

Ma è sul terreno mondiale che la questione assumeva un carattere rilevantissimo, in particolare dopo l’Ottobre. La vittoria della rivoluzione, congiunta agli effetti della prima guerra imperialista, e alla spartizione coloniale che ne seguì, fu un potente impulso allo sviluppo del movimento anticoloniale su scala internazionale: in Asia, a partire dall’India e dalla Cina, in Medioriente e nell’intera nazione araba, nel cuore stesso dell’Europa, a partire dall’Irlanda e dai Balcani.

Il marxismo rivoluzionario – secondo Lenin – doveva assumere quel vasto moto come un riferimento essenziale. I comunisti rivoluzionari dei paesi delle nazionalità oppresse dovevano prender parte attiva al sommovimento anticoloniale evitando ogni ripiegamento propagandistico e attendista, e battendosi apertamente al suo interno per uno sbocco coerente antimperialista e socialista, in contrasto aperto col nazionalismo borghese e incalzando le contraddizioni delle forze nazionaliste piccolo borghesi più radicali. Ogni rinuncia alla battaglia per l’egemonia proletaria nel movimento anticoloniale, magari in nome dell’arretratezza economica sociale di quei paesi, avrebbe significato riproporre, nella sostanza, l’impostazione del menscevismo russo. Proprio la rivoluzione d’Ottobre aveva dimostrato, contro ogni lettura positivistica del marxismo, che un paese arretrato può essere più maturo per la rivoluzione proletaria di un paese avanzato. E che la rivoluzione socialista in quel paese arretrato poteva a sua volta sospingere l’intero processo rivoluzionario mondiale.

Analogamente, i partiti comunisti dell’Occidente capitalistico e dei paesi imperialisti erano chiamati dalla III Internazionale ad un pieno e incondizionato sostegno ai sommovimenti anticoloniali delle nazioni oppresse. E quindi a combattere non solo ogni socialsciovinismo a sostegno del “proprio” imperialismo contro la nazione che esso opprimeva, ma anche qualsiasi neutralità pacifista tra nazioni dominanti e nazioni dominate. Costruire nel proletariato delle metropoli d’Occidente la coscienza della convergenza di fondo con le ragioni dei popoli oppressi dal proprio imperialismo, sostenere la loro rivolta contro il proprio imperialismo, era per Lenin, un compito prioritario dei partiti comunisti d’Europa e d’America. Anche per favorire nei movimenti coloniali una cosciente indentificazione nel comunismo e quindi la battaglia di egemonia dei comunisti delle nazioni oppresse.

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In questo quadro, e in questo spirito, la III Internazionale assunse la rivendicazione del diritto all’autodeterminazione di tutte le nazioni oppresse (ivi incluso il diritto alla separazione). Un diritto già rivendicato dal movimento per la III Internazionale, e in primo luogo dal bolscevismo russo, nel pieno corso della guerra imperialista.

Questa impostazione incontrò obiezioni e resistenze lungo il processo della sua maturazione. Non solo da parte del riformismo e del centrismo, com’è naturale, ma anche nel campo del marxismo rivoluzionario. “Se i comunisti sono per il superamento delle nazioni, come possono sostenere i diritti nazionali, sia pure di nazioni oppresse? Se i comunisti sono i rappresentanti coerenti della classe operaia ‘che non ha patria’ come possono combinare l’indipendenza di classe col sostegno a movimenti nazionali non proletari per di più guidati da forze nazionaliste?” E ancora: “Il concetto di autodeterminazione nazionale non è forse contraddetto dalla natura stessa dell’imperialismo che nega ogni possibile indipendenza reale delle nazioni soggiogate? L’unica risposta vera alle istanze nazionali dei popoli oppressi è la rivoluzione proletaria e non la rivendicazione di ‘diritti nazionali’ esclusivamente formali”. Queste e altre obiezioni schematicamente riassunte – venivano poste alternativamente o da tendenze diverse dell’“estremismo” o da tendenze che inclinavano verso posizioni centriste. In un caso, autorevolissimo, dalla marxista rivoluzionaria Rosa Luxemburg, seppur negli anni relativamente lontani del dibattito sulla questione polacca.

Lenin (come la maggioranza dell’Internazionale) replicò energicamente a questi argomenti critici con un vigore proporzionale all’importanza cruciale che tale questione a suo avviso rivestiva per i destini stessi della rivoluzione socialista internazionale. Il testo di Lenin Contro l’economicismo imperialista è, tra gli altri, un efficace compendio di tale replica. “E’ vero”, diceva Lenin, “i comunisti sono i veri custodi dell’indipendenza proletaria ma, proprio in ragione della propria prospettiva indipendente, devono far proprie tutte le ragioni di emancipazione delle masse oppresse, ivi inclusa l’emancipazione nazionale dal giogo coloniale. Non farlo sarebbe – questo sì – la rinuncia alla propria prospettiva, a unico vantaggio dell’imperialismo e delle stesse borghesie nazionali dei popoli oppressi, votate al compromesso subalterno con l’imperialismo”.

“E’ vero”, diceva Lenin, “i comunisti rivendicano il superamento storico delle frontiere nazionali dentro la prospettiva della repubblica proletaria mondiale. Ma questa prospettiva di libera federazione dei popoli del mondo implica la rottura di ogni sudditanza coatta delle nazioni oppresse alla dominazione imperialista. A sua volta, nessun popolo può essere libero se opprime altri popoli.”

E ancora, in risposta alla Luxemburg: “E’ vero, l’autodeterminazione nazionale piena e stabile delle nazioni oppresse è incompatibile con la natura economica dell’imperialismo. Ma proprio per questo, come altre rivendicazioni democratiche, il principio di autodeterminazione nazionale va connesso alla prospettiva proletaria socialista: e può contribuire ad avvicinare a tale prospettiva, proprio sulla base dell’esperienza concreta della sua incompatibilità con il capitalismo mondiale, masse grandi dell’umanità. Viceversa, il rifiuto di quella rivendicazione significherebbe voltare le spalle alle aspirazioni di emancipazione e di libertà di quelle masse oppresse e per di più proprio nel momento del loro levarsi di fatto contro il giogo coloniale”.

Ma al di là di ogni replica specifica, Lenin trae spunto dal confronto sulla questione nazionale per riproporre una lezione di fondo sui caratteri stessi della rivoluzione proletaria. La rivoluzione proletaria internazionale secondo Lenin (e Trotsky) non poteva che riflettere il carattere ineguale e combinato del capitalismo mondiale. Chi pensa alla rivoluzione socialista come a una linea retta e uniforme, semplicemente e unicamente “proletaria”, scambia la realtà con la propria immaginazione. Tanto più nel quadro internazionale.

Ecco cosa scriveva Lenin a commento dell’insurrezione irlandese del 1916 e contro la sottovalutazione della sua importanza: “Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni nelle colonie e in Europa, senza le esplosioni rivoluzionarie di una parte della piccola borghesia, con tutti i suoi pregiudizi, senza il movimento delle masse proletarie e semiproletarie arretrate contro il giogo dei grandi proprietari fondiari, della Chiesa, contro il giogo monarchico, nazionale, ecc. significa rinnegare la rivoluzione sociale. Ecco: da un lato si schiera un esercito e dice: ‘Siamo per il socialismo’, da un altro lato si schiera un altro esercito e dice: ‘Siamo per l’imperialismo’, e questa sarà la rivoluzione sociale! Soltanto da un punto di vista così pedantesco e ridicolo sarebbe possibile affermare che l’insurrezione irlandese e un ‘putsch’.

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“Colui che attende una rivoluzione sociale ‘pura’, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione…

“La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere….” (Lenin, Risultati della discussine sull’autodecisione, p. 353).

Conclusione

Riscoprire la verità del bolscevismo, liberandolo dalle sue caricature, non significa solo onorare la sua storia ma investirlo nel futuro del movimento operaio e dalla sua giovane generazione.

Anche oggi, come un secolo fa, si dischiude una svolta d’epoca profonda, segnata dalla crisi del capitalismo internazionale, dalla rottura dei vecchi equilibri sociali e politici, dalla ripresa delle contese imperialistiche e delle corse coloniali, dall’acutizzarsi della lotta di classe e dello scontro tra imperialismo e popoli oppressi.

Anche oggi, come un secolo fa, le vecchie direzioni del movimento operaio consumano la crisi del proprio riformismo, si associano sempre più strettamente ai governi liberali controriformatori e coloniali, moltiplicano le contraddizioni con la propria base sociale.

Anche oggi, come un secolo fa, è necessaria una battaglia internazionale per una nuova direzione del movimento operaio e per il rilancio della prospettiva rivoluzionaria e socialista, quale unica vera alternativa alla barbarie del capitalismo.

E così, come un secolo fa, la riscoperta da parte di Lenin del “vero” Marx, riscattato dalle deformazioni riformiste, fu decisivo per il rilancio della prospettiva rivoluzionaria, così oggi il recupero del “vero” Lenin, liberato dalle deformazioni staliniane, socialdemocratiche e centriste, è decisivo per la rifondazione di un partito rivoluzionario. Perché, tanto più oggi, solo il recupero dell’intransigenza dei principi e, insieme, della complessità della rivoluzione, può armare la lotta per la conquista del potere.

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NATURA E FUNZIONE DEL PARTITO

Lo strumento della soggettività cosciente

di Franco Grisolia

“Dateci un’organizzazione di rivoluzionari e rovesceremo la Russia!” (Lenin, “Che fare?” 1902)

“Senza il partito, al di fuori del partito, aggirando il partito, con un surrogato di partito, la rivoluzione proletaria non può vincere”, così afferma Trotsky nel suo scritto “Le lezioni dell’Ottobre” pubblicato nel 1924.

Senza il partito bolscevico la rivoluzione russa sarebbe stata inimmaginabile. Per oltre due decenni (un periodo relativamente breve ma intensissimo) una lotta politica e teorica forgiò lo strumento che fu capace di dirigere le masse operaie e, sotto la loro egemonia, quelle contadine alla presa del potere e all’avvio di un processo di trasformazione socialista.

Questi dati storico-politici elementari vanno tuttavia compresi e riportati ad elemento di strategia politica per l’oggi. Perchè la costruzione odierna di un partito comunista e rivoluzionario non può prescindere dallo studio e comprensione dell’esperienza bolscevica.

Una tradizione di lotte di frazioni

Occorre, innanzitutto, ricordare che il partito bolscevico nacque nel quadro di una costante e aspra lotta politica all’interno delle forze che si richiamavano alla prospettiva del socialismo e della rivoluzione sulla base del marxismo. Le ripetute critiche al “frazionismo”, alle discussioni “astratte”, tanto frequenti anche nel Partito della rifondazione comunista esprimono di per sè stesse un approccio antirivoluzionario e anticomunista. Esse riflettono le tradizioni staliniste e semistaliniste della sinistra italiana e anche dell’estrema sinistra sviluppatasi a partire dal ’68. La storia del movimento “socialdemocratico” (cioè marxista nei termini precedenti alla rivoluzione d’Ottobre) russo fu infatti storia di una continua lotta di frazione, che sola permise alla frazione bolscevica di diventare, raccogliendo finalmente in sè tutto il meglio della socialdemocrazia il partito della rivoluzione ([1]).

Lenin teorizzò la necessità della chiara battaglia politica di frazione in quello che è uno dei suoi testi più importanti e quello fondamentale rispetto alle concezioni sul partito: il Che fare?, scritto nel 1902 e di cui riproduciamo, a seguito di questo articolo alcuni brani. In esso Lenin afferma: “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai troppo su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica… bisogna essere ben miopi per giudicare inopportune e superflue le discussioni di frazione e la rigorosa definizione delle varie tendenze. Dal consolidarsi dell’una piuttosto che dell’altra “tendenza” può dipendere per lunghi anni l’avvenire della socialdemocrazia russa.”

L’esigenza di chiarezza teorica

Per Lenin il partito che avrebbe dovuto e potuto sviluppare il processo rivoluzionario in Russia non poteva che essere marxista rivoluzionario. In effetti il partito bolscevico, e prima di esso la socialdemocrazia rivoluzionaria — ricordiamo che i bolscevichi furono dal 1903 al 1912 una frazione, sia pure largamente autonoma, all’interno del Partito operaio socialdemocratico russo (Posdr), fondato nel 1898, ed in cui Lenin aveva già iniziato, in particolare con il Che fare?, la battaglia contro l’opportunismo — si sviluppò in opposizione e critica alle correnti rivoluzionarie non marxiste. Cosi nel Che fare? Lenin lega la necessità della chiarezza teorica anche al pericolo rappresentato dalla “reviviscenza delle

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tendenze rivoluzionarie non socialdemocratiche”. Tendenze che furono importanti nel movimento popolare russo e, in realtà, dotate di un sostegno di massa (in primo luogo tra i contadini) superiore a quella dei bolscevichi. La loro rappresentanza politica essenziale fu il Partito socialista rivoluzionario (che aderì anche alla Seconda Internazionale), spesso diviso in correnti, di cui quelle più radicali si situarono spesso, insieme agli anarchici — come ricordano sia Trotsky nella sua Storia della rivoluzione russa sia Zinoviev nella sua Storia del Partito bolscevico ([2]) — a “sinistra” (almeno nei metodi) dei bolscevichi, rivendicando insurrezioni immediate, organizzando guerriglie e attentati. Tuttavia, benché col loro radicalismo attirassero anche militanti operai e studenteschi precedentemente aderenti alla socialdemocrazia, il loro rivoluzionarismo restava piccolo borghese e incapace di sviluppare positivamente un progetto di trasformazione socialista.

Una delle caratteristiche della costruzione del partito che guidò la rivoluzione russa fu dunque il rifiuto di quel deleterio concetto della “unità dei rivoluzionari” che anche oggi viene così spesso ingenuamente ripreso. L’unità che Lenin realizzò fu quella dell’avanguardia che si riconosceva nella teoria e nella prassi nel marxismo rivoluzionario. E’ da notare ciò che ricorda Trotsky nel capitolo "L’arte dell’insurrezione" della sua Storia della rivoluzione russa: “Più di una volta gli opportunisti della socialdemocrazia internazionale presero le difese della vecchia tattica socialrivoluzionaria… mentre… era sottoposta ad una critica spietata da parte dei bolscevichi.” L’adattamento alla propria borghesia non è contraddetto dal richiamo al rivoluzionarismo generico e populista di altri paesi (specie lontani e totalmente o parzialmente non “democratici”). Così oggi in Italia Fausto Bertinotti utilizza il “sostegno” al rivoluzionario non marxista Marcos per difendere la sua politica opportunista e lottare meglio contro il marxismo rivoluzionario.

Partito e “coscienza esterna”

Un altro elemento centrale della teoria e prassi leninista del partito è il concetto della lotta contro la “coscienza spontanea” delle masse e contro quello che oggi si chiama “spontaneismo” e/o “movimentismo”. Quante volte ci si sente ripetere anche da compagni/e che si ritengono rivoluzionari, marxisti o leninisti (e che seguono in particolare le tradizioni che discendono dall’estrema sinistra spontaneista italiana del ’68) che i rivoluzionari devono rappresentare “la volontà delle masse” o che “le idee giuste vengono dalla classe”. Se i bolscevichi si fossero basati su concetti di questo tipo la rivoluzione russa non si sarebbe mai realizzata. Al contrario, essi basarono la propria azione sulla lotta contro tali concezioni.

L’origine del Che fare? leniniano è esattamente questa. Il libro nacque per sconfiggere l’influenza — sviluppatasi in seno alla socialdemocrazia marxista russa — dei cosiddetti “economisti” (o “economicisti”). Questi sostenevano che al centro dell’azione della classe operaia dovesse essere la lotta per le proprie rivendicazioni specifiche (di “fabbrica”) e che la socialdemocrazia dovesse rappresentare la coscienza spontanea dei lavoratori, espressa negli scioperi e nella lotta economica in generale, che, a loro giudizio, aveva per sua natura un carattere socialista.

Lenin sviluppò contro l’“economismo” una fortissima polemica, argomentando che (si vedano i brani del Che fare? riprodotti in seguito):

• la coscienza spontanea della classe operaia, come prodotto diretto della sua lotta sul terreno economico, non è coscienza socialista e rivoluzionaria, ma solo coscienza “tradeunionistica”, che cioè mira ad ottenere migliori condizioni nel quadro dell’attuale società e dell’attuale ordinamento politico (“La storia di tutti i paesi attesta che con le sue sole forze la classe operaia è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradeunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di cercar di ottenere dal governo determinate leggi necessarie agli operai, ecc.”, in Che fare? iI capitolo, "La spontaneità delle masse");

• pertanto compito dei marxisti è quello di portare nella classe operaia “dall’esterno” la coscienza socialista tramite il loro intervento.

Questa concezione leniniana — la più contestata e rimossa non solo da riformisti, populisti, “centristi” (cioè né riformisti né veri rivoluzionari ma intermedi), ma anche da molti di coloro che si richiamano al marxismo rivoluzionario — va intesa chiaramente nel suo duplice significato. Essa implica sia il fatto che la coscienza rivoluzionaria sia portata nella

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classe attraverso l’azione e l’insegnamento dei militanti di avanguardia marxisti, sia il fatto che essa sia portata “dall’esterno della lotta economica”, e cioè educando le masse ad agire sul terreno della lotta politica contro il regime politico e ogni tipo di oppressione.

E’ dalla congiunzione di questi due aspetti che nasce un approccio rivoluzionario all’intervento nelle masse. Lenin afferma, sempre nel Che fare?: “Non si ripeterà mai troppo che l’ideale del socialdemocratico non deve essere il segretario di una trade-union, ma il tribuno popolare, il quale sa reagire contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione… sa generalizzare tutti questi fatti e trarne il quadro completo della violenza poliziesca e dello sfruttamento capitalistico; sa… approfittare di ogni minima occasione per esporre dinanzi a tutti le proprie convinzioni socialiste e le proprie rivendicazioni democratiche, per spiegare a tutti l’importanza storica mondiale della lotta emancipatrice del proletariato.”

Ecco il militante rivoluzionario che il partito deve costruire, così diverso da quello della tradizione dell’estrema sinistra italiana del ’68 e anche dei “marxisti rivoluzionari” inconseguenti, che il più delle volte si limita ad unire il radicalismo sul terreno economico-sindacale con la discussione politica tra soli comunisti, invece di cercare di presentare alle masse non solo il proprio impegno sul terreno immediato ma anche la propria prospettiva politica alternativa socialista e rivoluzionaria.

Dal concetto leninista del partito su cui si costruì il bolscevismo appare evidente la vacuità delle ricorrenti affermazioni della tradizione “centrista” italiana sulla necessità di costruire “un partito che sia espressione dei movimenti” oppure per usare una formula cara ai compagni (trotskisti molto inconseguenti) di “Bandiera rossa” (e della loro corrente internazionale) “un partito che rispetti l’autonomia dei movimenti”. “Rispettare l’autonomia dei movimenti” significa o lasciarli in mano a demagoghi opportunisti o, al meglio, tollerare senza lotta che essi rimangano sul loro terreno spontaneo del tradeunionismo (o equivalente economicismo per altri settori diversi dalla classe operaia), cioè, per usare le parole di Lenin, della loro “coscienza borghese”. Invece il partito della rivoluzione socialista è il partito che interviene nei movimenti di massa con le proprie proposte, per realizzare la propria egemonia politica e costruirsi come direzione e punto di riferimento, lottando per l’organizzazione democratica (due termini inseparabili) contro spontaneismo e movimentismo, proprio perché questa è la migliore condizione per lo sviluppo della coscienza e per la lotta per l’egemonia rivoluzionaria.

E’ in questo quadro che si crea un rapporto fecondo tra spontaneità e direzione politica di classe, rapporto che è l’elemento chiave per lo sviluppo positivo della situazione rivoluzionaria (che il partito non “crea” — Lenin, Trotsky e tutti i marxisti russi restarono sorpresi dallo scoppio delle rivoluzioni sia del 1905 che del febbraio ’17 — ma che può favorire nel suo sviluppo con la propria azione). E’ questa la grande lezione della rivoluzione dell’Ottobre ’17, nel legame dialettico tra il movimento di massa organizzato nei soviet e il partito bolscevico.

Un partito di militanti attivi

Dalla concezione del rapporto ricorrente tra spontaneità e direzione deriva anche la concezione della composizione del partito rivoluzionario. Il concetto, cioè, del partito d’avanguardia formato da “rivoluzionari di professione”. Se “senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento rivoluzionario”, se compito del partito è quello di “permeare il proletariato” della coscienza rivoluzionaria, è chiaro che esso dovrà essere formato da militanti che si pongano sul terreno di quella teoria e che si propongano questo compito. “Per “teste forti” in materia di organizzazione bisogna intendere come ho già detto più di una volta solo i “rivoluzionari di professione” poco importa se studenti o operai di origine.” (Lenin, Che fare?).

Naturalmente si tratta di comprendere bene il significato del concetto leninista e dialettizzarlo. Esso infatti ha un determinato senso nel quadro di una situazione di clandestinità, un altro in quella di un regime di democrazia borghese. Ma l’elemento essenziale rimane: il partito rivoluzionario è stato nell’esperienza bolscevica, e dovrà essere in ogni caso, un partito composto da militanti attivi — e solo da essi — che fanno coscientemente della rivoluzione lo scopo e l’attività prioritaria della propria vita (da ciò il termine di “rivoluzionari di professione”). Ed è anzi il partito in quanto tale

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che deve porsi il compito di trasformare in “rivoluzionari di professione” i militanti, in particolare giovani, che vi aderiscono.

Aggiungiamo che il partito formato da militanti attivi è il più democratico, perché è quello che tende a rendere più maturo, approfondito, concreto e non personalistico il dibattito. Sia pure con molte eccezioni, i militanti tendono maggiormente a decidere in base alle proposte così come le interpretano alla luce delle loro conoscenze teoriche e della loro esperienza pratica. (Si confronti invece il quadro totalmente diverso in cui si è svolto il terzo congresso del Prc: le posizioni rivoluzionarie trovarono ampio sostegno, sia pure di minoranza, tra i militanti attivi del partito, mentre la quasi totalità degli iscritti inattivi che partecipò alle votazioni si espresse — senza reale conoscenza delle posizioni a confronto — “per Bertinotti e Cossutta.”)

Un partito proletario

Il partito che Lenin e i suoi compagni costituirono non fu, però, un generico partito d’avanguardia. Fu un partito proletario. Anche qui si tratta di comprendere questo concetto. Nella sua Storia Zinoviev racconta come nei primi anni del secolo la maggioranza dei militanti bolscevichi non fossero operai. Solo successivamente — in particolare con la rivoluzione del 1905 — questa situazione si trasformò portando il partito bolscevico ad avere una maggioranza assoluta di aderenti operai industriali. Ma la questione dell’orientamento verso il proletariato venne posta come elemento centrale fin dalla nascita della corrente marxista nel movimento popolare russo e su questo essa si differenziò dal movimento populista. “Il conflitto tra marxisti e populisti, che prendeva forme diverse da un punto di vista dottrinale, si riduceva alla questione del ruolo della classe operaia… Nel 1889, a Parigi, in occasione del primo congresso della II Internazionale, Plechanov, allora capo indiscusso dei marxisti rivoluzionari russi, dichiarò: “La rivoluzione russa vincerà come rivoluzione della classe operaia o non vincerà”.” (Zinoviev, Storia del partito bolscevico).

Questi concetti non rimasero astrazione e si collegarono dialetticamente con quello della “coscienza portata dall’esterno”. Fin dall’inizio i quadri marxisti rivoluzionari, anche se in maggioranza studenti o intellettuali, indirizzarono la loro azione verso le fabbriche per costruire in esse i quadri operai rivoluzionari, per dare insieme a loro “coscienza socialista” al nascente proletariato russo, per sviluppare le sue lotte economiche e soprattutto — come detto — il suo intervento nell’arena politica. Con l’obbiettivo quindi di costruire un partito non solo programmaticamente ma anche organizzativamente proletario. Un partito che lottasse per “l’egemonia del proletariato” nella rivoluzione ([3]), dopo aver realizzato la conquista della sua maggioranza al partito rivoluzionario stesso. Maggioranza che effettivamente il partito bolscevico riuscì a conquistare nel periodo precedente la prima guerra mondiale. Infatti, nel 1912 tutti i sei deputati operai eletti al parlamento nazionale (sulla base di antidemocratiche elezioni per circoscrizioni uninominali e classi sociali in cui il voto di 1 proprietario terriero equivaleva a quello di 45 operai!) furono bolscevichi, mentre nel partito la maggioranza assoluta degli aderenti era ormai costituita da operai e operaie dell’industria.

Tuttavia i bolscevichi persero questa maggioranza nel corso della guerra mondiale, anche per il massiccio afflusso di nuova classe operaia dalle campagne, nel quadro dello sviluppo della produzione di guerra. Ma essi la seppero riguadagnare nel periodo tumultuoso tra il febbraio e l’ottobre ’17 e portarla all’alleanza egemonica con i contadini e alla vittoria. Come scrive Zinoviev nella sua Storia: “Il nostro partito non ha svolto un ruolo decisivo nella rivoluzione di Febbraio, e non avrebbe potuto svolgerlo, visto che la classe operaia era per la difesa nazionale. In cambio, nei mesi seguenti esso ha realizzato il “capitale” investito nel movimento operaio per un quarto di secolo e, sulla base dell’idea dell’egemonia del proletariato, ha liberato la classe operaia russa dall’influenza dei menscevichi e degli s-r [socialrivoluzionari ndr], portandola alla vittoria definitiva sulla borghesia”.

Nessun feticismo della forma-partito

La teoria leninista del partito, quale sopra esposta, configura forse un “feticismo” della “forma partito”? Per nulla; è anzi esattamente il contrario. “Non c’è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria”. Il partito è necessario ma solo

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se mantiene chiaramente il suo carattere marxista e rivoluzionario. Esso è uno strumento, non un fine. Lenin dimostrò nel concreto il contenuto della sua concezione del partito durante tutta la sua vita.

Si dimentica quasi sempre, in primo luogo, che egli costruì il partito della rivoluzione proprio “distruggendo”, con un’aspra lotta di frazione, il “suo” partito originario, cioè il Posdr, e che per questo egli fu condannato come “settario”, “dogmatico”, “distruttore” e “frazionista” non solo dai suoi avversari in Russia, ma anche dalla larga maggioranza del movimento socialista internazionale.

Ma anche rispetto alla frazione bolscevica Lenin subordinò sempre l’unità alla chiarezza politica. La storia della frazione bolscevica è essa stessa storia di lotte di tendenze. Essa fu particolarmente acuta nel 1907-1909, quando Lenin fu in aspro contrasto (mentre lottava nell’insieme del movimento operaio russo contro l’opportunismo di destra) con larghi settori “ultrasinistri”, in particolare sulla questione della partecipazione alle elezioni per il parlamento zarista e anche della partecipazione ai sindacati, diretti da riformisti (o peggio). Così noi vediamo Lenin ad una conferenza nazionale del partito nel 1907 (allora ancora unificato; la rottura finale e formale sarà nel 1912) che vota, unico tra i delegati bolscevichi, insieme ai menscevichi per la partecipazione alla terza duma (parlamento zarista), eletto con i criteri reazionari già ricordati (anzi con alcune altre clausole negative).

Nella sua Storia Zinoviev racconta: “Lenin, con alcuni altri, difese la partecipazione, ma la maggioranza [dei bolscevichi, ndr] era contro di lui. Gli si rimproverava di evolvere verso la destra consigliando agli operai di entrare in quella che sarebbe stata un’assemblea arcireazionaria… Per un certo periodo la tendenza antisindacale ebbe la meglio nella frazione bolscevica… Lenin pensava che dovessimo rimanere legati alla massa operaia… Se gli operai stavano nei sindacati, lo dovevamo fare anche noi. Se potevano inviare alla duma zarista anche un sol uomo, bisognava farlo: avrebbe detto agli operai la verità e noi avremmo stampato e diffuso il suo discorso… Se in quel momento la tendenza antileninista avesse riportato una vittoria, il partito [la frazione bolscevica, ndr] si sarebbe trasformato in una setta.” Ed è di fronte a questo rischio che nel 1908 Lenin progettò addirittura di abbandonare la frazione bolscevica e di costruirne una nuova, ciò che non accadde perchè finalmente riuscì vincitore nello scontro interno.

Ugualmente nella primavera del 1917, rientrando dall’esilio, Lenin dovette sviluppare una battaglia controcorrente nel partito, non solo contro il gruppo dirigente Kamenev-Stalin che teneva un atteggiamento ambiguo (né sostegno né opposizione) verso il governo provvisorio di “centro-sinistra”, ma anche verso quei quadri dirigenti più radicali che proponevano l’opposizione al governo ma senza trarne tutte le conseguenze di progetto rivoluzionario immediato. E fu solo questo riorientamento del partito che permise ad esso di svolgere il ruolo che svolse nell’Ottobre. Non fosse riuscito nel riorientamento Lenin avrebbe certamente cercato di raggruppare su un nuovo asse organizzativo le forze conseguentemente rivoluzionarie.

Sono dunque la socialdemocrazia “classica” e lo stalinismo che fanno del “partito della classe operaia” un feticcio, un fine in sé a cui tutto subordinare. La lezione di Lenin è al contrario che il partito proletario d’avanguardia è uno strumento indispensabile ma pur sempre uno strumento in vista del fine: la presa del potere da parte del proletariato.

Ma se così è, e se Lenin dovette riorientare il partito addirittura nel ’17, non si deve concludere che la questione centrale non è tanto il partito proletario quanto il suo gruppo dirigente, o addirittura il suo o i suoi leader? Porre la questione in questo modo significherebbe non cogliere la dialettica che permise il trionfo dell’Ottobre. Lenin dovette sì riorientare il partito ma riuscì a farlo perché esso era “quel partito”, e per questo, d’altra parte, esso riuscì a dirigere le masse.

Il ruolo di Lenin e quello del “suo” partito nell’Ottobre

Come ricorda in varie occasioni Trotsky, senza Lenin non ci sarebbe stato il trionfo dell’Ottobre, ma senza il partito — cioè un corpo formato da migliaia di quadri e militanti operai, forgiato in anni di lotte politiche interne ed esterne ([4]) — Lenin non sarebbe stato in grado di dirigere la classe operaia alla vittoria. Ecco come Trotsky riassume tutto ciò due decenni dopo il ’17 nel suo scritto “Classe, partito e direzione”: “Che vi era all’“attivo” del bolscevismo? All’inizio della rivoluzione, solo Lenin manteneva una concezione rivoluzionaria chiara e profonda. I quadri russi del partito erano dispersi e notevolmente confusi. Ma il partito godeva di autorità tra gli operai d’avanguardia. Lenin godeva di autorità

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tra i quadri del partito. La concezione politica di Lenin corrispondeva allo sviluppo reale della rivoluzione, ed era convalidata da ogni nuovo avvenimento. Questi elementi dell’“attivo” fanno meraviglie in una situazione rivoluzionaria, cioè in circostanze di acutizzazione della lotta di classe. Il partito allineò la sua politica in accordo alla concezione di Lenin, che armonizzava con l’autentico corso della rivoluzione — e perciò trovò saldo appoggio in decine di migliaia di operai d’avanguardia. In pochi mesi, basandosi sullo sviluppo della rivoluzione, il partito fu in grado di convincere la maggioranza della classe operaia della correttezza della propria impostazione: questa maggioranza, organizzata in soviet, poté a sua volta attrarre soldati e contadini.”.

Questa la grande lezione del bolscevismo da studiare e di cui riappropriarsi dopo tanti decenni di tradimenti, errori e confusioni anche nel seno dell’avanguardia del movimento operaio. Per costruire in una inevitabilmente lunga lotta, sulle basi conseguenti del marxismo rivoluzionario — contro ogni opportunismo ma anche contro le spinte settarie dell’autoisolamento dalla classe quale è nella realtà — un corpo organizzato — coeso ma in continuo dibattito e confronto interno — di migliaia di quadri rivoluzionari inseriti profondamente nel movimento operaio, in lotta contro l’influenza del riformismo ma anche del puro “economismo” e “spontaneismo”; un partito in lotta costante per guadagnare la maggioranza politica della classe ad una prospettiva anticapitalistica e portarla, al maturare delle condizioni obbiettive, alla conquista del potere.

Note

1) Basti pensare che nel 1912 il Partito operaio socialdemocratico russo (Posdr) si divideva, secondo un elenco steso da Rosa Luxenburg, in 12 frazioni. Quella bolscevica era la più importante ma lungi dall’essere egemone. Il partito che diresse la rivoluzione nel 1917 fu in realtà il prodotto della congiunzione ai bolscevichi di cinque altre frazioni (tra cui quella diretta da Trotsky) e di minoranze significative di ulteriori tre. 2) La storia del partito bolscevico di Zinoviev, edita in volume nel 1923, è stata recentemente pubblicata in edizione italiana dalla Graphos con il titolo “La formazione del partito bolscevico 1898-1917”. Il testo è basato su un ciclo di conferenze tenuto da Zinoviev, allora segretario dell’Internazionale Comunista, nello stesso 1923 in occasione del XXV anniversario del Partito operaio socialdemocratico russo. E’ un ottimo testo popolare sulla storia del partito bolscevico e sui problemi politici legati al suo sviluppo che consigliamo ad ogni compagno di leggere e su cui pensiamo di tornare in un prossimo futuro con una recensione. 3) E’ diffuso in Italia un mito secondo cui il concetto di egemonia è una innovazione teorica peculiare del pensiero di Antonio Gramsci, che lo distaccherebbe dal rigido “dogmatismo” della III Internazionale leninista. In realtà il grande rivoluzionario italiano non ha fatto che riprendere un concetto proprio da decenni del marxismo rivoluzionario russo (“I promotori dell’idea dell’egemonia del proletariato nella rivoluzione sono Plechanov e Lenin”: così Zinoviev nella sua Storia, 1923); Gramsci, con grande brillantezza, ripropone questa tematica centrale in Italia. Per altro, l’utilizzo del termine “egemonia” — più vago, a prima vista, di altri — nel periodo del carcere costituiva per Gramsci anche un elemento di prudenza rispetto ad ulteriori misure repressive dei suoi carcerieri fascisti. 4) Ecco cosa afferma Trotsky in una lettera del ’21 allo storico comunista Olminsky: “Soltanto il bolscevismo, con la fermezza irriducibile della sua linea, ha raccolto nelle sue file gli elementi veramente rivoluzionari dei vecchi intellettuali e dell’avanguardia della classe operaia”.