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karin slaughter

Tra due fuochiromanzo

Traduzione dall’inglesedi Annalisa Biasci

Della stessa autrice abbiamo pubblicato:

L’ombra della verità Tre giorni per morire Genesi

Prima edizione: gennaio 2013Titolo originale: Broken© 2010 by Karin Slaughter© 2012 by Sergio Fanucci Communications S.r.l.Il marchio Timecrime è di proprietàdi Sergio Fanuccivia delle Fornaci, 66 – 00165 Romatel. 06.39366384 Indirizzo internet: www.timecrime.itProprietà letteraria e artistica riservataStampato in Italia – Printed in ItalyTutti i diritti riservatiProgetto grafico: Grafica Effe

karin slaughter

Tra due fuochiromanzo

Traduzione dall’inglesedi Annalisa Biasci

A Victoria

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Prologo

Allison Spooner avrebbe voluto lasciare la città per le feste, ma non aveva dove andare. Qui, almeno, aveva un tetto sopra la testa. Almeno il riscaldamento del suo schifoso apparta-mento, di tanto in tanto, funzionava. Almeno avrebbe potuto mangiare un pasto caldo al lavoro. Almeno, almeno, almeno... Perché, nella sua vita, aveva sempre dovuto accontentarsi? Ci sarebbe mai stato qualcosa di meglio per lei?

Il vento riprese a soffiare e Allison serrò i pugni nelle tasche della sua giacca leggera. Più che di pioggia, si trattava di una fredda nebbiolina umida, che ti dava l’impressione di cammi-nare nel naso di un cane. Il freddo gelido che veniva dal lago Grant rendeva il tutto ancora più seccante. Ogni volta che la brezza si alzava, la ragazza si sentiva come trafitta da gelide lame di rasoio.

Dovrebbe essere il Sud della Georgia, non il Polo.Mentre avanzava a fatica lungo le rive alberate, ebbe l’im-

pressione che ogni onda che lambiva le sponde fangose ab-bassasse di un ulteriore grado la temperatura. Si domandò se le sue scarpe leggere sarebbero state sufficienti a evitarle

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di congelare. In tv aveva visto un tizio che aveva perso le dita delle mani e dei piedi a causa del freddo. L’uomo aveva di-chiarato di essere felice di aver avuto salva la vita, ma la gente è disposta a dire qualsiasi cosa pur di apparire in televisione. Per come le stavano andando le cose, l’unico programma nel quale sarebbe potuta finire era il telegiornale della sera. A-vrebbero mostrato una sua foto, probabilmente quella orribi-le dell’annuario scolastico, e di fianco il titolo ‘Tragica morte’.

Allison era conscia che, paradossalmente, il mondo le a-vrebbe riservato più attenzione da morta. A nessuno frega-va niente di lei, adesso; dell’esistenza grama che conduceva, degli sforzi costanti che faceva per stare in pari con le lezioni, mentre si barcamenava tra le altre incombenze della vita. Niente di tutto ciò avrebbe avuto importanza per qualcuno, a meno che non l’avessero trovata congelata sulla sponda del lago.

Il vento si alzò di nuovo. Allison voltò le spalle al freddo, che con le sue dita gelide le premeva sul petto, serrandole i polmo-ni. Fu percorsa da un brivido. Il suo respiro era una nuvola che saliva di fronte a lei. Chiuse gli occhi. Battendo i denti, scandì i suoi problemi. Jason. Lo studio. I soldi. La macchina. Jason. Lo stu-dio. I soldi. La macchina.

Il mantra proseguì ben oltre la pungente raffica. Aprì gli oc-chi. Si voltò. Il sole stava calando molto più in fretta di quanto aveva previsto. Si voltò a guardare la scuola. Meglio tornare indietro? O andare avanti?

Scelse di proseguire, a testa china nel vento ululante.Jason. Lo studio. I soldi. La macchina. Jason: il suo ragazzo si era rivelato un coglione, da un

giorno all’altro.Lo studio: l’avrebbero buttata fuori dall’università se non

avesse trovato più tempo per studiare.

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I soldi: non sarebbe stata in grado di vivere, e tantomeno di studiare, se avesse ridotto ulteriormente le ore di lavoro.

La macchina: aveva cominciato a fumare quella mattina, mentre la metteva in moto, il che non era nulla di ecceziona-le, visto che erano mesi che fumava, ma stavolta il fumo era all’interno e veniva dalle bocchette del riscaldamento. Per poco non era soffocata lungo il tragitto verso la scuola.

Allison avanzò a stento, aggiungendo ‘congelamento’ alla sua lista mentre costeggiava l’ansa del lago. Ogni volta che sbatteva le palpebre, le sembrava fossero ricoperte di sottili lastre di ghiaccio.

Jason. Lo studio. I soldi. La macchina. Il congelamento.La paura del congelamento le pareva più immediata, an-

che se era riluttante ad ammettere che più se ne preoccupava, più sentiva caldo. Forse il cuore le batteva più forte o il passo si stava affrettando mentre il sole cominciava a calare e lei si accorgeva che il suo lamentoso timore di morire nel freddo avrebbe potuto avverarsi, se non si fosse sbrigata.

Allungò una mano, tenendosi forte a un albero per supe-rare un intrico di radici protese verso l’acqua. La corteccia era umida e muschiosa. Un cliente aveva rimandato indietro un hamburger, oggi, perché secondo lui il pane era troppo spu-gnoso. Era un omone burbero, vestito da cacciatore, non il genere di persona da cui ci si aspetterebbe di sentire una pa-rola come ‘spugnoso’. Aveva flirtato con Allison e lei era stata al gioco, e quando l’uomo se n’era andato c’era una mancia da cinquanta centesimi vicino ai resti del suo piatto da dieci dollari. Le aveva addirittura fatto l’occhiolino mentre usciva, quasi le avesse fatto un favore.

Allison non sapeva quanto ancora avrebbe sopportato quel-la situazione. Forse sua nonna aveva ragione. Le ragazze come Allison non vanno all’università. Trovano lavoro nella fabbrica

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di pneumatici, incontrano un ragazzo, restano incinte, si spo-sano, mettono al mondo uno o più figli, poi divorziano, a volte in quell’ordine, a volte no. Se fosse stata fortunata, il tizio non l’avrebbe picchiata più di tanto.

Era quella la vita che Allison voleva per sé stessa? Era il genere di vita scritto nel suo sangue. Sua madre l’aveva vis-suta. Anche sua nonna. Sua zia Sheila l’aveva vissuta finché non aveva puntato un fucile contro suo zio Boyd, staccando-gli quasi la testa. Tutte le donne Spooner, prima o poi, butta-vano tutto al vento per un uomo che non valeva niente.

Lo aveva visto fare a sua madre Judy. Quando finì all’ospe-dale per l’ultima volta, ormai consumata dal cancro, Allison rifletté su come sua madre avesse sciupato la sua vita. Era sciupata perfino nell’aspetto. A trentotto anni, aveva i capelli radi e quasi tutti grigi. Aveva la pelle avvizzita. Le si erano deformate le mani per il lavoro alla fabbrica di pneumatici: prendi gli pneumatici dal nastro trasportatore, controllane la pressione, rimettili sul nastro, poi prendi lo pneumatico suc-cessivo, e così via, per più di duecento volte al giorno; a sera, al momento di andare a letto, le facevano male le articolazio-ni. Accolse il cancro con gioia. Accolse la morte con gioia. A trentott’anni.

Una delle ultime cose che disse alla figlia fu che era felice di morire, felice di non essere più sola. Judy Spooner credeva nel paradiso e nella redenzione. Credeva che un giorno stra-de lastricate d’oro e ville lussuose avrebbero preso il posto dei vialetti di ghiaia e dei parcheggi per roulotte. L’unica co-sa che Allison sapeva era di non essere mai stata abbastanza per sua madre. Il bicchiere di Judy era sempre mezzo vuoto, e tutto l’amore che Allison vi aveva riversato negli anni non avrebbe mai appagato sua madre.

Judy era sprofondata nella merda. La merda del suo lavo-

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ro senza prospettive. La merda di un uomo da niente dopo l’altro. La merda di una figlia che limitava le sue libertà.

L’università sarebbe stata la salvezza di Allison. Era bra-va in Scienze. Cosa strana, considerando la famiglia, ma per qualche ragione le era facile capire come funzionavano le so-stanze chimiche, intuire i processi di sintesi delle macromo-lecole. La sua comprensione dei polimeri sintetici era per-fetta. E soprattutto, sapeva che sulla terra, da qualche parte, c’era un libro dove trovare le risposte che si cercano, e che il modo migliore per trovare quelle risposte era leggere ogni libro su cui si riusciva a mettere le mani.

Dall’ultimo anno delle superiori aveva imparato a stare lontana dai ragazzi, dall’alcol e dai cristalli di metanfetamina, che avevano rovinato quasi tutte le sue coetanee di Elba, la sua piccola città natale in Alabama. Non aveva intenzione di ridursi a essere una di quelle ragazze senz’anima e sfinite a cui toccava fare i turni di notte al lavoro e che fumavano le Kools perché erano eleganti. Non aveva intenzione di ritro-varsi con tre figli avuti da tre uomini diversi prima di com-piere trent’anni. Non aveva intenzione di svegliarsi una mat-tina senza riuscire ad aprire gli occhi, perché un uomo l’aveva presa a pugni la sera prima. Non aveva intenzione di morire da sola in un letto d’ospedale come sua madre.

Perlomeno era questo ciò che aveva pensato quando se n’era andata da Elba tre anni prima. Il signor Mayweather, il suo professore di Scienze, si era speso moltissimo per far-la entrare in una buona università. Voleva che la ragazza si allontanasse il più possibile da Elba. Voleva che avesse un futuro.

Il Grant Tech era in Georgia, ma la distanza tra il suo vec-chio mondo e quello nuovo non era tanto geografica quanto ambientale. L’università era enorme rispetto alla sua scuola

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superiore, che aveva una classe di ventinove alunni. Allison aveva trascorso la sua prima settimana al campus doman-dandosi come fosse possibile essere innamorati di un posto. I suoi corsi erano pieni di ragazzi cresciuti con ogni genere di opportunità, che non avevano mai preso in considerazione l’ipotesi di non andare all’università, una volta finite le su-periori. Nessuno dei suoi compagni ridacchiava quando lei alzava la mano per rispondere a una domanda. Non ti ritene-vano una traditrice se stavi ad ascoltare l’insegnante o cercavi di imparare qualcosa di più oltre a come farsi la manicure o le extension ai capelli.

E poi, la zona attorno all’università era molto carina. Elba era orrenda, per essere nel Sud dell’Alabama. Heartsdale, la città dove si trovava il Grant Tech, sembrava una di quelle cit-tà che si vedono in televisione. Tutti curavano i loro giardini. A primavera, la via principale era decorata di fiori. Perfetti sconosciuti ti salutavano con un sorriso sul volto. La gente che frequentava la tavola calda dove lavorava Allison era gentilis-sima, nonostante non lasciasse molto di mancia. La città non era grande a sufficienza da consentirle di perdersi. Sfortuna-tamente, non era neppure grande a sufficienza da impedirle di conoscere Jason.

Jason.Lo aveva conosciuto durante il primo anno di università.

Aveva due anni più di lei, aveva più esperienza, era più fine. L’idea di appuntamento romantico di Jason non era quella di entrare di nascosto in un cinema e farlo in tutta fretta sui sedili in fondo, prima che il padrone ti buttasse fuori a calci. La portava in veri ristoranti, con tovaglioli di stoffa sui ta-voli. Le teneva la mano. La ascoltava. Quando fecero sesso, Allison finalmente capì perché la gente diceva ‘fare l’amore’. Jason non voleva il meglio solo per sé stesso. Lui voleva il

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meglio anche per Allison. La ragazza aveva creduto che la loro storia fosse una cosa seria; gli ultimi due anni della sua vita li aveva trascorsi a costruire qualcosa con lui. Di punto in bianco, però, tutto ciò che c’era stato di bello nella loro re-lazione divenne la causa dei loro problemi.

E, come era successo a sua madre, Jason era in qualche mo-do riuscito a dare la colpa di tutto a Allison. Era fredda. Era distante. Chiedeva troppo. Non aveva mai tempo per lui. Co-me se Jason passasse le sue giornate a chiedersi come render-la felice. Non era lei a sbronzarsi tutte le sere con le amiche. Non era lei a frequentare tipi strani a scuola. E di sicuro non era lei ad avere rapporti con quel cretino, lì in centro. Come poteva essere colpa di Allison, dato che lei quel tizio non lo aveva mai visto in faccia?

Continuava a tremare. A ogni passo che faceva attorno a quel maledetto lago, pareva che la linea di battigia si allargas-se sprezzante di altre centinaia di metri. Guardò il terreno ba-gnato sotto i suoi piedi. Erano settimane che la tempesta in-furiava. Le esondazioni avevano interrotto strade e abbattuto alberi. Allison non aveva mai sopportato il brutto tempo. Si faceva prendere dalla malinconia, la buttava giù. Diventava lunatica, triste. L’unica cosa che aveva voglia di fare era dor-mire finché non fosse tornato il sole.

«Cazzo» sibilò, recuperando l’equilibrio dopo essere scivo-lata. Aveva i risvolti dei pantaloni incrostati di fango, le scar-pe quasi zuppe. Guardò il lago agitato. La pioggia le si stava attaccando alle ciglia. Scostò i capelli e fissò le acque scure. Forse sarebbe stato meglio lasciarsi scivolare lì dentro. Forse avrebbe dovuto lasciarsi cadere nel lago. Come sarebbe stato lasciarsi andare? Che sensazione le avrebbe dato lasciare che la corrente la portasse al centro del lago, dove i suoi piedi non avrebbero più toccato terra e i suoi polmoni non avrebbero

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più trovato aria? Non era la prima volta che ci pensava. Pro-babilmente era colpa del brutto tempo, della pioggia inces-sante e del cielo cupo. Con la pioggia, tutto appariva più de-primente. E certe cose erano più deprimenti di altre. Il giovedì precedente, il giornale aveva parlato di una madre annegata nel suo Maggiolino insieme al figlio, tre chilometri fuori dalla città. Erano nei pressi della chiesa battista quando l’acqua a-veva invaso la strada e li aveva trascinati via. Evidentemente i Maggiolini avevano qualcosa che permetteva loro di galleg-giare, perché l’auto rimase sospesa sulla corrente. Almeno all’inizio.

Le persone che erano appena uscite dalla chiesa non po-terono fare nulla. Sgomente, aveva osservato il Maggiolino vorticare nella corrente e poi ribaltarsi. L’acqua si era riversa-ta nel veicolo. Una testimone, raccontando l’episodio, aveva dichiarato che per il resto della sua vita si sarebbe coricata o-gni sera e svegliata ogni mattina pensando alla mano di quel bambino che spuntava dall’acqua, prima dell’attimo finale in cui il piccolo era andato a fondo.

Neppure Allison riusciva a smettere di pensare al bambi-no. Nonostante si trovasse in biblioteca quando era successo il fatto. Anche se non conosceva né la donna né suo figlio e neppure la persona intervistata dal giornale, ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva quella manina protesa dall’acqua. A volte, la mano si faceva più grande. A volte, era la madre ad allungarla per aiutarlo. Altre, si svegliava gridando per-ché quella mano la trascinava giù.

Se Allison diceva la verità, i suoi pensieri si erano fatti cupi ben prima di aver letto quella notizia. Non poteva attribuire tutto al brutto tempo, ma sicuramente la pioggia incessante, il cielo costantemente nuvoloso le avevano instillato un certo sconforto.

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Quanto sarebbe stato più facile arrendersi? Perché tornare a Elba a diventare una vecchia macilenta e sdentata con di-ciotto bambini da sfamare, quando poteva buttarsi nel lago e, per una volta, prendere in mano il proprio destino?

Si stava trasformando in sua madre così in fretta che senti-va quasi i capelli diventarle grigi. Era sciocca quanto Judy: era convinta di essere innamorata, quando l’unica cosa a cui era interessato il tizio in questione era ciò che aveva tra le gambe. Sua zia Sheila le aveva detto esattamente questo al telefono, la settimana precedente. Allison si era lamentata di Jason, do-mandandosi come mai lui non le telefonasse mai.

Un lungo tiro alla sigaretta e poi, mentre buttava fuori il fumo: «Fai gli stessi discorsi di tua madre.»

Una coltellata al petto sarebbe stata più indolore, più pu-lita. La cosa peggiore era che Sheila aveva ragione. Allison amava Jason. Lo amava fin troppo. Lo amava così tanto da chiamarlo dieci volte al giorno, anche se lui non rispondeva mai. Lo amava così tanto da premere Aggiorna sul suo stupi-do computer ogni due minuti, per vedere se lui aveva rispo-sto a una delle sue email.

Lo amava così tanto da stare fuori nel cuore della notte a fare il lavoro sporco che lui non aveva le palle di fare.

Allison fece un altro passo verso il lago. Sentì il tacco per-dere aderenza ma l’istinto di conservazione prese il soprav-vento prima che cadesse. L’acqua le lambiva le scarpe. Ave-va i calzini già zuppi. Le dita dei piedi erano intorpidite, al punto che le ossa furono attraversate da un dolore acuto. Era così che sarebbe andata? Un lento intorpidimento, fino a un trapasso indolore?

Il pensiero di rimanere senza fiato la terrorizzava. Era quello il problema. Aveva amato l’oceano da bambina, ma ora le cose erano cambiate. Alla piscina comunale, quando

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aveva tredici anni, quell’idiota di suo cugino Dillard l’aveva tenuta sott’acqua. Aveva creduto di annegare. Da quel mo-mento non le era più piaciuto fare il bagno, perché temeva di ritrovarsi con l’acqua nel naso e andare nel panico.

Se Dillard fosse stato lì, l’avrebbe probabilmente spinta nel lago. Quella volta, alla piscina, non aveva mostrato il minimo rimorso. Allison aveva vomitato, pianto. Aveva sentito i pol-moni bruciarle nel petto, ma lui si era limitato a un ‘heh-heh’, come se le avesse dato un pizzicotto sul braccio per il gusto di sentirla gridare.

Dillard era il figlio di Sheila, il suo unico figlio. Era stato per lei una delusione maggiore del padre, se possibile. Sniffava così tanta vernice spray che ogni volta che Allison lo vedeva aveva il naso di un colore diverso. Fumava cristalli. Li rubava alla sua donna. L’ultima sul suo conto era che era finito in pri-gione per un tentativo di rapina in un negozio di liquori con una pistola ad acqua. Il commesso gli aveva aperto la testa con una mazza da baseball, prima dell’arrivo dei poliziotti. Di conseguenza, Dillard era diventato ancor più stupido di pri-ma, ma questo non gli avrebbe impedito di farsi sfuggire una buona occasione. Avrebbe dato a Allison una bella spinta, spedendola a capofitto in acqua, con la sua risatina. Heh-heh.

Quanto tempo ci sarebbe voluto per perdere i sensi? Quanti secondi di terrore prima di morire? Chiuse di nuovo gli occhi, cercando di immaginarsi circondata dall’acqua, inghiottita dall’acqua. Sarebbe stata così fredda che inizialmente Allison avrebbe provato uno strano calore. Non si poteva vivere a lungo senz’aria. Avrebbe perso i sensi. Forse il panico avrebbe preso il sopravvento, portandola a uno stato di incoscienza isterica. Oppure, forse, l’avrebbe fatta sentire viva, eccitata dall’adrenalina, agitata come uno scoiattolo intrappolato in una busta di carta.

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Sentì un ramo spezzarsi dietro di lei. Si voltò, sorpresa.«Gesù!» Scivolò di nuovo, stavolta sul serio. Agitò le brac-

cia. Le ginocchia cedettero. Il dolore le tolse il fiato. Sbatté con la faccia sul fango. Una mano l’afferrò alla nuca. Inalò il freddo pungente che trasudava dalla terra, l’odore del fango umido e limaccioso.

D’istinto, si dimenò, combattendo l’acqua, combattendo il panico che le offuscava il cervello. Sentì un ginocchio premer-le alla base della spina dorsale, bloccarla saldamente a terra. Non voleva. Voleva vivere. Doveva vivere. Aprì la bocca per gridare a squarciagola.

Poi ci fu il nulla.

Lunedì

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Il gelo doveva aver mantenuto il cadavere sul fondo del lago in buone condizioni. Il freddo era talmente intenso da far male alle ossa, il genere di sensazione che ti faceva rim-piangere i giorni afosi d’agosto, con il sole in faccia, il sudore che corre lungo la schiena, il condizionatore dell’auto che fa-tica perché non ce la fa a contrastare la calura. Ma nonostante Lena Adams si sforzasse di ricordare, tutti i pensieri legati al caldo svanivano in quella piovosa mattina di novembre.

«Trovatela» gridò il comandante della squadra di sommoz-zatori. Dirigeva i suoi uomini dalla sponda, la voce soffocata dallo scrosciare costante della pioggia. Lena sollevò una ma-no in segno di saluto, e l’acqua le scivolò lungo la manica del-la voluminosa giacca a vento che si era infilata in tutta fretta quando alle tre del mattino le era giunta la chiamata. La piog-gia picchiettava sull’ombrello che teneva poggiato sulla spal-la. La visibilità era di circa dieci metri. Oltre quella distanza, tutto era avvolto dalla foschia. Chiuse gli occhi, ripensando al letto caldo, al corpo caldo avviluppato al suo. Lo squillo acuto di un telefono alle tre del mattino non era mai un buon

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segno, specialmente se facevi la poliziotta. Lena si era sve-gliata da un sonno profondo, con il batticuore, sollevando in maniera automatica la cornetta, premendosela all’orecchio. Era l’investigatrice in servizio più alta in grado, perciò aveva dovuto a sua volta far squillare altri telefoni in tutto il Sud della Georgia. Il suo capo. Il medico legale. I vigili del fuoco. Il Georgia Bureau of Investigation. L’Autorità per la gestione delle emergenze, con i suoi volontari sempre pronti a metter-si alla ricerca di un cadavere.

Erano tutti sulla sponda del lago, ma i più furbi attendeva-no in auto, con il riscaldamento al massimo, mentre un ven-to freddo li faceva dondolare nelle macchine come fossero bambini nelle culle. Dan Brock, il proprietario dell’agenzia di pompe funebri locale, che lavorava anche come medico legale, stava dormendo nel suo furgoncino, la testa reclinata sul sedile, la bocca aperta. Perfino i volontari dell’Autorità per le emergenze erano al calduccio nell’ambulanza. Lena li vedeva sbirciare dai vetri del portellone posteriore. Di tanto in tanto poteva scorgere la luce di una sigaretta ardere nel chiarore dell’alba.

Lena aveva in mano una busta per reperti. Conteneva una lettera trovata nei pressi della riva. La carta era stata strappata da un foglio più grande, a righe, di circa venti centimetri per quindici. Le parole erano tutte in stampatello. Scritte con una penna biro. Una riga unica. Senza firma. Non il solito addio sprezzante o pietoso, ma comunque chiaro: voglio farla finita.

Per certi versi, i casi di suicidio erano più complicati rispet-to agli omicidi. Nel caso di una persona uccisa, c’era sempre qualcuno da incolpare. C’erano indizi da seguire, un chiaro schema di fondo da sviluppare per spiegare esattamente ai familiari della vittima per quale ragione erano stati privati

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del loro caro. O, se non la ragione, chi era il bastardo che ave-va rovinato le loro vite. Nel caso dei suicidi, la vittima coin-cideva con l’assassino. La persona su cui far ricadere la colpa era anche la persona di cui si sentiva la più profonda mancan-za. Non era lì a prendere su di sé il rancore causato dalla sua morte, la rabbia di coloro ai quali veniva a mancare. Ciò che la morte lascia è un vuoto che nessun dolore riesce a colmare. La madre e il padre, le sorelle, i fratelli, gli amici e altri parenti si ritrovano senza un colpevole da punire. E tutti desiderano punire qualcuno, quando una vita viene stroncata.

Era anche per questa ragione che un investigatore aveva il dovere di assicurarsi che si analizzasse e prendesse nota di ogni centimetro della scena del crimine. Ogni mozzicone di si-garetta, ogni cartaccia. Tutto andava catalogato, sottoposto al controllo delle impronte, e inviato al laboratorio per le analisi. Le condizioni atmosferiche venivano annotate sul rapporto i-niziale. Gli agenti e i soccorritori presenti venivano registrati. Si scattavano fotografie alle persone accorse sul luogo. Venivano controllate le targhe. Si indagava sulla vita del suicida con la stessa accuratezza riservata alle vittime di omicidio. Chi erano i suoi amici? Chi erano i suoi amanti? Aveva un marito? Un ragazzo? Una fidanzata? C’erano vicini arrabbiati o colleghi di lavoro invidiosi?

Lena al momento aveva in mano solo un paio di scarpe da ginnastica da donna, numero trentotto, trovate insieme al messaggio. Nella scarpa sinistra c’era un anello di poco valo-re, un anello d’oro venti carati con un rubino opaco al centro. La scarpa destra conteneva un orologio svizzero bianco, con diamanti finti al posto dei numeri. Al di sotto c’era il biglietto ripiegato.

Voglio farla finita.Non molto consolatorio per chi era rimasto.

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Alcuni spruzzi sulla superficie dell’acqua anticiparono la ri-emersione dei sommozzatori. Riguadagnata la riva, combat-terono con il limo per trascinare il cadavere fuori dall’acqua, sotto la pioggia gelida. La ragazza era minuta, il che avrebbe fatto apparire esagerato lo sforzo dei due uomini, se non fosse stato per la spessa catena a cui erano attaccati due blocchetti di cemento. Lena notò il lucchetto giallo che pendeva come la fibbia di una cintura. Facendo il poliziotto, a volte capitava di assistere a piccoli miracoli. La vittima voleva evidentemente assicurarsi di non riemergere. Se non fosse stato per i blocchet-ti di cemento, la corrente avrebbe probabilmente spinto il cor-po più al largo, rendendone quasi impossibile il ritrovamento.

Il lago Grant era uno specchio d’acqua artificiale di tredi-ci chilometri quadrati, in alcuni punti profondo anche cen-to metri. Sotto la superficie riposavano case, baracche, dove un tempo la gente viveva e lavorava, prima che l’area fosse trasformata in un bacino idrico. C’erano negozi, chiese, un cotonificio dei tempi della Guerra civile che chiuse i battenti durante la Depressione. Tutto era stato sepolto dalle acque del fiume Ochawahee, allo scopo di assicurare alla contea di Grant una fonte sicura di energia elettrica.

Gran parte dei terreni che circondavano il lago erano di pro-prietà della forestale, più di cento acri incastrati tra le inse-nature dello specchio d’acqua. Uno dei rami lambiva la zona residenziale dove vivevano i più fortunati, l’altro costeggiava il Grant Institute of Technology, una piccola ma fiorente uni-versità pubblica con quasi cinquemila iscritti.

Il sessanta percento della linea di battigia, lunga centotren-ta chilometri, apparteneva alla Divisione forestale statale. L’a-rea di gran lunga più frequentata era quella che la gente del posto chiamava ‘zona degli innamorati’. Vi era un’area adibi-ta a campeggio, frequentata soprattutto da adolescenti a cui

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piaceva andare su di giri, che spesso si lasciavano dietro bot-tiglie di birra e profilattici usati. Capitava di frequente che ai vigili del fuoco arrivassero richieste d’intervento per focolari lasciati incustoditi, e una volta fu addirittura dato l’allarme per un orso che alla fine si era rivelato essere un vecchio labra-dor color cioccolato sfuggito al controllo dei padroni.

Ogni tanto vi si ritrovava anche qualche cadavere: una ra-gazza sepolta viva, adolescenti annegati. L’estate precedente, un bambino si era rotto il collo tuffandosi nelle acque basse dell’insenatura.

I sommozzatori fecero una pausa, lasciando colare via l’ac-qua dal corpo prima di ritornare al lavoro. Trascinarono la giovane a riva. I blocchetti di cemento lasciarono dei solchi sul terreno sabbioso. Erano le sei e mezzo del mattino e la lu-na pareva ammiccare al sole, mentre questo intraprendeva la sua lenta ascesa oltre l’orizzonte.

Le portiere dell’ambulanza si spalancarono. I soccorritori imprecarono per il freddo mentre facevano uscire la barella. Uno di loro aveva un paio di tronchesi caricate in spalla. Sbat-té la mano sul tettuccio del furgoncino del medico legale che sussultò, agitando comicamente le braccia in aria. Dan Brock lanciò all’uomo un’occhiataccia, ma rimase dov’era. Lena non lo biasimava per il suo scarso entusiasmo alla prospettiva di precipitarsi sotto la pioggia. Tanto, la vittima sarebbe finita comunque all’obitorio. Non c’era bisogno di lampeggianti e sirene.

Lena si avvicinò al cadavere, ripiegando con cura nella tasca della giacca la busta per reperti contenente il bigliet-to suicida e tirando fuori una penna e un taccuino a spirale. Stringendo l’ombrello tra il collo e la spalla, appuntò l’ora, la data, le condizioni atmosferiche, il numero di soccorritori, il numero di sommozzatori, il numero di auto e poliziotti, il

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tipo di terreno, l’assenza di spettatori, tutti dettagli che anda-vano inseriti con esattezza nel rapporto.

La vittima era all’incirca della stessa altezza di Lena, intor-no al metro e sessantacinque, ma di corporatura molto più esile. Aveva i polsi delicati, sottili. Le unghie erano irregolari, mangiate fino alla carne. Aveva i capelli neri e una pelle bian-chissima. Doveva aver passato da poco i vent’anni. I suoi oc-chi aperti erano nebulosi come il cotone. La bocca era chiusa. Aveva le labbra rovinate, come se se le fosse morse. O forse si era imbattuta in un pesce affamato.

Il suo corpo era più leggero senza il peso dell’acqua, e ci vollero soltanto tre sommozzatori per issarla sulla barella in attesa. Il fango del fondo del lago la ricopriva da capo a piedi. L’acqua le gocciolava dai vestiti: dei jeans blu, un pile nero, calzini bianchi, una giacca della tuta blu scuro aperta con il logo della Nike sul davanti. La barella si mosse e la testa della ragazza si girò dalla parte opposta rispetto a Lena. Smise di scrivere. «Un momento» disse. C’era qualcosa che non anda-va. Mise il taccuino in tasca e avanzò verso il cadavere. Aveva visto un bagliore sul retro del collo della ragazza, qualcosa di argenteo, forse una collana. Le alghe avviluppavano la gola e le spalle della vittima come un lenzuolo funebre. Lena usò la punta della penna per allontanare quegli scivolosi viticci ver-di. Qualcosa si muoveva sotto la pelle, increspando la carne come la pioggia increspava le onde.

Anche i sommozzatori lo notarono. Si chinarono tutti per osservare meglio. La pelle palpitava come in un film dell’or-rore. «Ma che diavolo...»

«Gesù!» Lena fece un balzo all’indietro quando un piccolo pesce scivolò fuori da un taglio nel collo della ragazza.

I sommozzatori risero, come fanno gli uomini quando non vogliono ammettere di essersela fatta addosso. Lena si

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portò una mano al petto, sperando che nessuno notasse che le era esploso il cuore. Fece un respiro profondo. Il pesce si dibatteva nel fango. Uno degli uomini lo prese e lo rigettò nel lago. Il capo dei sommozzatori commentò: «A questo punto, non so più che pesci pigliare.»

Lena gli lanciò un’occhiataccia e poi si chinò sul cadavere. Il taglio da dove era spuntato il pesce era sulla parte poste-riore del collo, appena sulla destra rispetto alla colonna ver-tebrale. A occhio e croce, calcolò che la ferita dovesse essere ampia due centimetri e mezzo al massimo. La carne aperta era raggrinzita dall’acqua, ma la ferita era stata netta, precisa, il genere di incisione procurata da un coltello affilatissimo.

«Qualcuno vada a chiamare Brock» disse Lena.Non si trattava più di un caso di suicidio.

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Frank Wallace non fumava mai nella sua Lincoln di servi-zio, ma la tappezzeria aveva assorbito una puzza di nicotina che emanava da ogni poro. A Lena, quell’uomo ricordava Pig Pen dei Peanuts. A prescindere da quante volte si lavasse e si cambiasse d’abito, la puzza lo seguiva come una nube di polvere.

«Che c’è?» chiese lui, senza darle neppure il tempo di ri-chiudere la portiera.

Lena buttò la giacca a vento bagnata sul tappetino ai piedi del sedile posteriore dell’auto. Sotto la giacca aveva indossato due camicie, per contrastare meglio il freddo. Ciononostante, malgrado il riscaldamento al massimo, batteva i denti. Era come se il suo corpo avesse assorbito il freddo e lo lasciasse uscire solo adesso che era al riparo.

Tenne le mani davanti ai bocchettoni. «Accidenti, sto con-gelando.»

«Che c’è?» ripeté Frank. Con ostentazione, sollevò il guan-to di pelle nero per guardare l’orologio.

Lena rabbrividì involontariamente. Non riusciva a nascon-

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dere l’eccitazione dalla sua voce. Nessun poliziotto lo avreb-be mai ammesso davanti a un civile, ma gli omicidi erano i casi più eccitanti su cui lavorare. Era così carica di adrenalina che si stupì di sentire freddo. Con i denti che continuavano a batterle, disse: «Non è un suicidio.» Frank parve ancor più infastidito.

«Brock la pensa allo stesso modo?» Brock era tornato a dormire nel suo furgoncino, nell’atte-

sa che tagliassero la catena; lo sapevano entrambi perché da dove erano seduti riuscivano a scorgere la bocca spalancata dell’uomo. «Brock non sa distinguere il suo buco del culo da un buco nel terreno» ribatté subito Lena. Si massaggiò le brac-cia per far tornare il calore nel suo corpo.

Frank tirò fuori la fiaschetta e gliela porse. Ne bevve un goccio, e il whisky le scese giù bruciandole la gola e lo stoma-co. Frank bevve a sua volta un grosso sorso prima di rimet-tersi la fiaschetta nella tasca del cappotto.

«C’è una ferita da taglio sul collo» disse Lena.«Sul collo di Brock?»Lena gli lanciò un’occhiata fulminante. «Della ragazza

morta.» Si chinò a cercare nella giacca a vento il portafoglio che aveva trovato nella tasca della giacca della vittima.

«Potrebbe trattarsi di una ferita autoinflitta» disse Frank.«Impossibile.» Si poggiò una mano sul retro del collo. «La

lama è entrata più o meno in questo punto. L’assassino l’ha aggredita alle spalle. Probabilmente l’ha colta di sorpresa.»

Frank borbottò: «Questo lo hai imparato dai tuoi manuali?»Lena frenò la lingua, cosa che non era solita fare. Frank era

capo della polizia ad interim da quattro anni. Tutto ciò che accadeva nelle tre città all’interno del territorio della contea di Grant ricadeva sotto la sua giurisdizione. Madison e Avon-dale avevano i loro problemi di droga e crimini violenti, men-

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tre Heartsdale era un luogo relativamente tranquillo. C’era l’università, e i ricchi del posto si facevano sentire quando ve-niva commesso un crimine.

A prescindere da questo, i casi complicati tendevano a tra-sformare Frank in uno stronzo. In realtà, era la vita in gene-rale a trasformarlo in uno stronzo. Il fatto che il suo caffè si freddasse. Che il motore della macchina non si avviasse al primo colpo. Che l’inchiostro gli si seccasse nella penna. Non era sempre stato così. Certo, Lena lo aveva sempre conosciu-to come un uomo facilmente irritabile, ma nell’ultimo perio-do aveva notato che quell’atteggiamento era stato acuito da una rabbia latente. Poteva esplodere da un momento all’altro. In un batter d’occhio era passato dall’essere ragionevolmente irritato all’essere freddamente cattivo.

Ma in quella particolare circostanza Lena comprendeva la riluttanza di Frank. Un caso di omicidio era l’ultima cosa che gli ci voleva in quel momento. Dopo trentacinque anni pas-sati nella polizia, era stufo del suo lavoro, stufo delle persone con cui quel lavoro lo portava a contatto. Negli ultimi sei an-ni aveva perso due dei suoi più cari amici. Avrebbe preferito i laghi assolati della Florida a quella distesa di acqua conge-lata. Avrebbe voluto tenere in mano una canna da pesca e una birra, non gli oggetti personali di una ragazzina morta.

«Sembra contraffatto» fece Frank, maneggiando il por-tafoglio. Lena assentì. La pelle era troppo lucida. Il logo di Prada era di plastica.

«Allison Judith Spooner» disse Lena, osservando Frank cercare di separare l’una dall’altra le custodie per fotografie rese appiccicose dall’acqua. «Ventun anni. La patente è di El-ba, Alabama. Dietro c’è il tesserino universitario.»

«Andava all’università.» Frank sussurrò quelle parole con un tono all’apparenza disperato. Era già grave che Allison

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Spooner fosse stata ritrovata all’interno o nei pressi di una proprietà statale. Se a questo si aggiungeva che la ragazza era una studentessa del Grant Tech proveniente da un altro Stato, il caso avrebbe potuto acquisire anche connotazioni politiche.

«Dove hai trovato il portafoglio?» le chiese.«Nella tasca della sua giacca. Immagino non avesse una

borsa. O forse chi l’ha uccisa voleva che scoprissimo la sua identità.»

L’uomo stava guardando la foto della patente. «Che c’è?»«Credo fosse la cameriera che lavorava alla tavola calda.»La tavola calda era all’estremità opposta della strada rispet-

to al dipartimento di polizia. Gran parte dei poliziotti pranza-va lì. Lena invece si teneva lontana da quel posto. Di solito si portava il pranzo da casa o, più spesso, non mangiava.

«La conoscevi?»Lui scosse il capo e si strinse nelle spalle. «Era bella.» Frank aveva ragione. Non erano in tanti ad avere una foto

della patente che valorizzasse il loro aspetto, ma Allison evi-dentemente era stata più fortunata. Mostrava i denti bianchi in un ampio sorriso. Aveva i capelli tirati indietro, e le luci le esaltavano gli zigomi. Nei suoi occhi c’era una certa allegria, come se stesse ridendo a una battuta. Niente di quella sere-nità era rimasto nel corpo che avevano ripescato dal lago. La morte gliel’aveva strappata.

«Non sapevo che studiasse» disse Frank.«Di solito non lavorano in centro» commentò Lena. Gli

studenti del Grant Tech di solito lavoravano nel campus o non lavoravano affatto. Non si mischiavano con gli abitanti di Heartsdale, e gli abitanti facevano del loro meglio per non mischiarsi con loro.

«Questa settimana l’università è chiusa per la festa del

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Ringraziamento» sottolineò Frank. «Perché non è a casa con la sua famiglia?»

Lena non aveva una risposta. «Ci sono quaranta dollari nel portafoglio.»

Frank controllò comunque il compartimento per le ban-conote, trovando con le grosse dita guantate il pezzo da ven-ti e i due da dieci incollati dall’acqua. «Forse era depressa. Ha deciso di prendere un coltello e togliersi la vita.»

«Avrebbe dovuto essere una contorsionista» insisté Lena. «È stata aggredita alle spalle. Te ne potrai accertare quando Brock la metterà sul tavolo dell’obitorio.»

L’uomo fece un sospiro stanco. «E che mi dici della catena e dei blocchetti di cemento?»

«Potremmo chiedere al ferramenta in centro. Forse l’assas-sino li ha comprati lì.»

Frank rilanciò: «Sei proprio certa della ferita da taglio?»La donna annuì.Frank continuava a guardare la foto della patente. «Ha

un’auto?»«Se ce l’ha, non è nelle vicinanze.» Lena insisté su quel

punto. «Magari ha trasportato a mano venti chili di cemento e una catena...»

Frank richiuse il portafoglio e glielo restituì. «Come mai ogni lunedì le cose vanno sempre più di merda?»

Lena non aveva una risposta nemmeno per quello. La set-timana precedente non era stata un granché meglio. Una gio-vane madre e suo figlio erano stati travolti da un’esondazione. La città doveva ancora riprendersi dalla tragedia. Non c’era modo di sapere come avrebbero reagito alla notizia dell’assas-sinio di una studentessa universitaria.

«Brad sta cercando di rintracciare qualcuno dell’univer-sità che abbia accesso al database degli studenti e ci procuri

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l’indirizzo della Spooner» disse a Frank. Brad Stephens era finalmente passato dal servizio di pattuglia al grado di in-vestigatore, ma il suo nuovo incarico non lo metteva nelle condizioni di fare molto di più rispetto al vecchio. Sbrigava ancora commissioni. «Una volta ripulita la scena del crimi-ne, mi occuperò di comunicare il decesso in Alabama.»

«L’Alabama è un’ora indietro rispetto a noi.» Frank guar-dò l’orologio. «Forse sarà meglio chiamare direttamente i genitori, invece di svegliare tutto il dipartimento di Elba a quest’ora del mattino.»

Anche Lena controllò l’orologio. Mancava poco alle sette, perciò in Alabama erano quasi le sei. Se a Elba funzionava co-me nella contea di Grant, gli investigatori erano di servizio du-rante la notte, ma non si presentavano in ufficio fino alle otto del mattino. A quell’ora Lena si alzava dal letto e si preparava il caffè. «Chiamerò appena rientreremo al dipartimento.»

La macchina si fece silenziosa, a eccezione del picchiettare leggero della pioggia sul metallo. Un lampo, sottile e male-fico, scintillò nel cielo. Lena trasalì, ma Frank continuò im-perterrito a fissare il lago di fronte a lui. I sommozzatori non sembravano preoccupati dai lampi. A turno, stavano cercan-do di liberare la ragazza dai due blocchi di calcestruzzo con le tronchesi.

Il telefono di Frank squillò, un trillo acuto che parve il cin-guettio di un uccello. Rispose con tono sgarbato. «Sì.» Ascol-tò per qualche secondo, poi chiese: «E i genitori?» Borbottò una serie di imprecazioni sottovoce. «Allora torna dentro e scoprilo.» Richiuse il telefono. «Che asino.»

A quanto pare Brad aveva dimenticato di prendere infor-mazioni sui genitori. «Dove vive?» chiese Lena.

«In Taylor Drive. Al sedici e mezzo. Brad ci aspetterà lì, sempre che la smetta di fare il rimbambito.» Ingranò la re-

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tromarcia tenendosi al sedile di Lena per guardare dietro. Il bosco era fitto, umido. Lena si appoggiò al cruscotto mentre Frank tornava lentamente in strada.

«Sedici e mezzo significa che vive in un miniappartamen-to annesso all’abitazione principale» notò Lena. In molti in quella zona avevano trasformato i loro garage e i loro capan-ni per gli attrezzi in spazi più o meni abitabili, per affittarli agli studenti universitari a prezzi esorbitanti. Ma la maggior parte dei ragazzi desiderava vivere fuori dal campus, e non si lamentava.

«Il padrone di casa è Gordon Braham» disse Frank.«Lo ha scoperto Brad?»Presero un dosso che spinse Frank a serrare i denti. «Glie-

lo ha detto sua madre.»«Bene.» Lena pensò a qualcosa di positivo da dire su Brad.

«Il fatto che abbia trovato il proprietario della casa e del gara-ge dimostra che ha iniziativa.»

«Iniziativa» ripeté Frank con tono derisorio. «Quel ragaz-zo si ritroverà con un proiettile in testa, un giorno o l’altro.»

Lena conosceva Brad da oltre dieci anni. E Frank da an-cora più tempo. Entrambi lo consideravano ancora un ra-gazzino, un adolescente con una fondina pericolosamente legata in vita. Brad si era guadagnato il distintivo dorato da investigato re con anni di servizio e superando tutti i test, ma Lena conosceva la differenza tra una promozione sulla carta e una sul campo. Sperava soltanto che in una cittadina come Heartsdale, l’ingenuità di Brad non lo mettesse nei guai. Era bravo a stilare rapporti e interrogare testimoni, eppure, no-nostante dieci anni di servizio, tendeva ancora a confondere il bene con il male.

Lena era in polizia da neppure una settimana quando a-veva capito che non esistevano persone veramente buone.

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Compresa sé stessa.In quel momento non aveva tempo di preoccuparsi per

Brad. Mentre attraversavano il bosco, sfogliò le fotografie nel portafoglio di Allison Spooner. C’era l’istantanea di un gatto rosso tigrato, il cui colore risplendeva al sole, e una foto rubata in cui Allison era in compagnia di una donna che Lena sup-pose essere la madre. La terza mostrava Allison seduta sulla panchina di un parco. Alla sua destra c’era un ragazzo all’ap-parenza più giovane di lei di qualche anno. Il ragazzo portava un cappellino da baseball tirato sulla fronte e aveva le mani infilate nelle tasche dei pantaloni a gamba larga. Alla sinistra di Allison c’era una donna più grande con dei capelli biondi a ciocche e un trucco pesante. Portava dei jeans aderenti. Il suo sguardo era duro. Poteva avere trent’anni come trecento. Se-devano stretti l’uno all’altro. Il ragazzo teneva il braccio sulle spalle di Allison Spooner.

Lena mostrò l’immagine a Frank. «La famiglia?» le chiese. La donna studiò la foto, concentrandosi sullo sfondo. «Sem-bra scattata al campus.» Mostrò a Frank i dettagli. «Vedi l’edi-ficio bianco sullo sfondo? Se non sbaglio è lo studentato.»

«A me quella ragazza non sembra una studentessa univer-sitaria.» Intendeva la bionda più grande. «Sembra del posto.» Aveva il look di una ragazza cresciuta in città. Nonostante il portafoglio finto, Allison Spooner sembrava di estrazione più alta. Non quadrava che le due fossero amiche.

«Forse la Spooner aveva problemi di droga» suppose Le-na. Niente livellava le classi sociali più della metanfetamina.

Avevano finalmente raggiunto la strada principale. Gli pneumatici posteriori dell’auto girarono ancora una volta nel fango prima che la macchina si stabilizzasse sull’asfalto. «Chi ha fatto la chiamata?» chiese Frank.

Lena scosse il capo. «È stata fatta da un cellulare. Un nu-

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mero privato. La voce di una donna, ma non ha voluto la-sciare il nome.»

«Che cosa ha detto?»Lena sfogliò le pagine del taccuino con cautela, per non

strappare le pagine umide. Trovò la trascrizione e gliela lesse: «‘Voce femminile: La mia amica è sparita da questo pomerig-gio. Penso che si sia suicidata. Operatore: Cosa le fa pensare che si sia suicidata? Voce femminile: Ieri sera ha litigato con il fidanzato. Ha detto che si sarebbe gettata nel lago, nella zona degli innamorati.’ L’operatore ha tentato di tenerla in linea, ma la donna ha riagganciato quasi subito.»

Frank restò in silenzio. Lena lo vide deglutire. Aveva le spal-le così ricurve da sembrare aggrappato al volante. Frank rifiu-tava l’idea che si trattasse di omicidio fin da quando Lena era entrata in auto.

«Che idea ti sei fatto?» gli chiese.«La zona degli innamorati» ripeté Frank. «Soltanto una

persona del posto lo chiamerebbe in quel modo.»Lena avvicinò il taccuino ai bocchettoni del riscaldamen-

to, in modo da far asciugare le pagine. «Il ragazzo nella foto deve essere il fidanzato.»

Ma Frank non seguiva il filo del discorso di Lena. «Dun-que, è arrivata la chiamata, Brad è andato al lago e ha trovato cosa?»

«Il biglietto era sotto una delle scarpe. Dentro c’erano l’a-nello e l’orologio di Allison.» Lena cercò la busta di plastica infilata nelle profonde tasche della sua giacca a vento. Frugò tra quelli che erano gli effetti personali della vittima e trovò il biglietto, che mostrò a Frank.

«‘Voglio farla finita’.» Fissò il pezzo di carta così a lungo che si distrasse dalla guida.

«Frank?»

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Una ruota sfiorò il margine dell’asfalto. Frank sterzò bru-scamente. Lena si tenne al cruscotto. Sapeva che era meglio non fare commenti. Frank non era tipo che accettava consi-gli sulla guida, specialmente da una donna. Specialmente da Lena.

«Biglietto strano per un suicidio. Perfino per un finto sui-cidio» disse la donna.

«Breve e diretto.» Frank teneva una mano sul volante mentre frugava nella tasca del cappotto. Si infilò gli occhiali da lettura e osservò l’inchiostro sbavato. «Non ha firmato.»

Lena guardava la strada. Frank era di nuovo sulla striscia bianca. «No.»

Frank sterzò deciso verso il centro della carreggiata. «A te sembra la grafia di una donna?»

Lena non aveva preso in considerazione quell’aspetto. Stu-diò la frase, scritta a caratteri grandi, tondeggianti. «È chia-ra, ma non saprei dire se l’ha scritta un uomo o una donna. Potremmo interpellare un esperto. Sono certa che troveremo qualcosa con cui confrontare il biglietto, magari gli appunti presi da Allison a lezione o gli esami scritti.»

«Ricordo quando mia figlia aveva la sua età» disse Frank, che evidentemente non aveva ascoltato una sola parola delle osservazioni di Lena. Si schiarì la gola. «Faceva dei cerchi so-pra le i al posto dei puntini. Mi domando se lo faccia ancora.»

Lena rimase in silenzio. Lavorava con Frank da quando era entrata in polizia, ma non sapeva granché della sua vita pri-vata, a parte quello che sapeva chiunque altro in città. Frank aveva avuto due bambini dalla prima moglie, ma questo mol-te mogli fa. I tre non vivevano più in città e Frank sembrava non essere in contatto con loro. Non aveva mai parlato della sua famiglia e in quel momento Lena era troppo infreddolita e tesa per le confidenze.