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AssoPiù Editore Le Storie e Le Poesie di io Racconto

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io Racconto alla ricerca dei nuovi talenti in città

Premio Nazionale 3a edizione

e 18,00IVA assolta alla fonte

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AssoPiù Editore

Le Storie e Le Poesie di io Racconto

ISBN 978 88 96893 08 1

Premio Nazionale io Racconto 3a Edizione 2010

Narrativa, Poesia,Fotografia,Autori di canzoni

...alla ricerca di nuovi talenti in città

Copertina di Valerio Marucelli

Foto di copertina diCarlotta Marucelli

[email protected]

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 1 ~

Le Storie e le Poesie

di Io Racconto Junior

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 2 ~

Copyright 2010

Assopiù Editore

Via A. Del Pollaiolo 2/r – 50142 Firenze

www.assopiueditore.com

ISBN 978-88-96893-08-1

Edizione ottobre 2010

Progetto grafico e impaginazione: Furio Raggiaschi

Stampato presso:Copycenter Firenze

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~ 3 ~

Non conosco niente di più incoraggiante dell‟indiscutibile capacità dell‟Uomo

di elevare la propria vita per mezzo di uno sforzo consapevole

Henry David Thoreau

Conta più una cosa fatta

che cento dette

Antico proverbio toscano

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~ 5 ~

Elenco, in ordine alfabetico, degli autori presenti nel volume POESIE Riccardo Baldelli Paura

Sara Bassi La Dama del giglio

Federica Battistutta Arriva la Befana

Giulia Boi Tempo in mancanza d‟altro

Alessandra Busacca Alessandro

Sara Caldini Io che credevo in te

Alberto Ciccioli L‟uomo

Ilaria Comelli Fantasia di una vita, mai vissuta

Paola Concilio No, non lo sei

Sara Carmen Coppola Persa e ritrovata

Angelica D‟Attoli La voce del mio cuore

Amina De Biasio Ho parlato

Rebecca Di Francesco Storia di un albero

Antea Di Lorenzo Leggerezza

Francesco Fantechi Sogni rubati

Matteo Filippelli Volare

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~ 6 ~

Martina Fois Papà

Angelica Foroni Brezza

Valentina Galimberti Risveglio

Sara Gamannossi Anima sperduta

Alessandro Gigli Memorie d‟inverno

Lainus Gishti Un albero dentro di me

Jessica Grandolfo Buio

Giuseppe Guerriero Il borghetto dei pescatori

Sabrina Iavarone Non so cos‟hai

Marco Lo Carno Tanto sgraziata e tanto brutta da scappare

Nicola Loreti Io bambino notturno

Alessia Mainardi Senza tempo

Simona Malagò La luna

Caterina Manfrini Nebbia

Martina Marotta Castagne

Francesca Michetti L‟autunno

Giuditta Natale Fuggi?

Benedetta Olmi Di te per me

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~ 7 ~

Sofia Pianigiani Io sono

Maria Alessandra Puteo Al vento

Carmela Ravisato Vorrei Fermarmi

Beatrice Ludovica Ritondo In rianimazione

Chiara Romeo Pioggia

Ilaria Rubessi Viale magico

Rita Ruccione La campana del destino

Alessio Sangiorgio La cosa giusta

Claudia Scoppa Atroce ricordo

Christian Serafini Oro

Giorgia Silverii Naviga naviga

Greta Silverii E‟ arrivato

Stefano Silverii Spiagge

Federica Soldani L‟amore dell‟albero

Simone Spera Parole d‟un girovago

Mattia Spiga Una persona… speciale

Lucia Torricella La maschera del guerriero

Valentina Torrigiani Io e Arianna

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~ 8 ~

Marco Tosato XX secolo

Daria Vermon De Mars Il cielo in prigione

Olga Maria Viterbo Al mio maestro Gianni

Sezione Junior Bambini/Fantasy

Ambra Alderighi Il gigante ed il violino magico

Chiara Antonioli Il pinguino viaggiatore

Laura Bedeschi Terremoto

Elisa Brunetta Paura di volare

David Cicchetti George impara a salvare il mondo

Rebecca Cicchetti Diario di Ugo Foscolo

Fabiana D'Antoni La leggenda

Ilaria Fiore Celeste e la magica stella lucente

Daniele Alberto Galliano Soave e Rosabella

Chiara Giustiniani I Sogni Scomparsi

Nicola Loreti Una notte, mentre tornavo a casa a piedi, ho sentito…

Alice Lupato L'aquila

Pietro Malevolti Un bambino arrabbiato e la sua zia

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~ 9 ~

Simona Mastrangeli Angel of caos

Matteo Mongardi Il mistero del cavolo cappuccio

Letizia Pagani Un cane come eroe

Rita Ruccione Le sette perle magiche

Claudia Scoppa Un colpo di fortuna

Giorgia Silverii Freddy e la capra Gelsomina

Greta Silverii Spiccio e la nuova famiglia

Stefano Silverii La grande barriera

Federica Soldani Il cagnolino Luca e il disordine

Valentina Zacchi La prima banshee

Maria Debora Zucca Il viaggio della camicia

Sezione Junior Fantascienza

Ferruccio Peruzzi Vivo per un capello

Sezione Junior Gialli – Horror - Polizieschi

Carlo Castagna Noslon ovvero La risata allo specchio

Rebecca Di Francesco Presagio oscuro

Alessandra Domizi Hermann assalirà un armadio

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~ 10 ~

Emanuele Giusti Nemesis

Elisabetta Spinelli Camelia

Sezione Junior Humor

Valentina Bettoni Una tranquilla giornata in posta

Sezione Junior Vita Contemporanea

Bianca Bellucci Vento freddo da Nord-Est

Giulia Bonfrate Dal diario di un bambino...

Rebecca Calamai L'amicizia

Eleonora Calamandrei Banlieu

Amalia Campagna L'ultima nota

Federica Capaccioni La selva: luogo dell'anima

Carlotta Capello Con un paio d'ali

Annalisa Carnevale La bambola zucchina

Alberto Ciccioli Una cosa importante che mi è successa negli ultimi giorni

Amina De Biasio Alchimia del mio dolore

Elisabetta Delprato Achille

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~ 11 ~

Emanuele Di Brago I falò

Camilla Di Domenico

Il castello

Anna Antonova Dobranova Un messaggio di speranza

Matteo Filippelli Nero

Angelica Foroni Incontro sull'autobus

Marta Fossati In viaggio verso il lago di Como

Fabrizia Gagliardi La mia eroina

Alice Gallo Cielo segreto

Sara Gamannossi Lettera a mio padre

Jessica Grandolfo Il destino ferisce tutti

Sabrina Iavarone Ho assaggiato la normalità, ma l'ho sputata.

Michela Lai Un vero ritratto

Giulia Lizzi I colori del mare

Martina Loconte Io ed il mio migliore amico

Sara Ludovico La libertà

Marika Manzella I have a dream

Stefano Moretto La mia Casa

Giuditta Natale L'inferno può attendere

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~ 12 ~

Giulia Ortu Puzzle

Alessandra Passaretti Scegli di scegliere

Antonio Pellicano L'obiettivo (im)possibile

Sonia Pratillo Mio nonno

Teresa Lara Pugliese Panico

Martina Saviano Il profumo di una nostra Dublino

Andrea Scopelliti L'audizione

Irene Stacchiotti Il braccialetto rosso del destino

Arianna Testa Come le margherite a Primavera

Lucia Torricella I bambini che non sognano

Giulia Vecchioni Disperazione e coraggio

Nora Venditti Flashback

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Le Poesie

di IoRacconto Junior

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Riccardo Baldelli

Paura

Mi tremano le gambe, il sole è sparito,

le persone non si rialzano,

la popolazione in panico.

Qualcosa si vede cadere

con scie di fuoco implacabili,

il buio totale in tutto il mondo,

la fine del mondo si vede in lontananza.

Uragani, terremoti, non si riesce a fermare

la forza della natura.

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Sara Bassi

La dama del giglio

Ogni giorno, lei è là, oltre

la siepe, nel giardino di gigli.

Ogni giorno, è attorniata da mille altre

dame, probabilmente a chieder consigli.

Quando è sola, volge gli occhi al cielo

e tiene in mano quel fiore.

E come avesse intorno al cuore un velo,

si muove con fragilità, perché reca in grembo un dono del Signore.

Seppur un raggio di sole le accarezzi il viso

ella, impassibile, come a nascondere un‟anima sofferta.

Non concede ad alcuno un sorriso

per paura d‟essere scoperta.

Prega e spera,

con in mano quel fiore,

che un dì, prima della sua sera

possa ritrovare quel perduto soldato, che le insegnò l‟amore.

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Federica Battistutta

Arriva la Befana

Zitti, zitti bimbi buoni,

presto, presto giù a dormire:

la Befana sta per venire

col suo sacco pien di doni:

la Befana è una vecchina

che discende dalla luna

sulla scopa di saggina

non appena il cielo imbruna.

E si accosta pian pianino

alle calze e alle scarpette

messe in fila sul camino

e, ridendo, mette e mette …

Fuori soffia tramontana e

vien giù la neve bianca,

ma per i bimbi la Befana

non ha freddo e non si stanca.

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Giulia Boi

Tempo in mancanza d‟altro

L‟ottenni in abbondanza,

il tempo ricercato.

Alcuni dicevano che non lo necessitavo,

altri, che non lo meritavo.

Ma per il poco che ho chiesto,

per il poco che serve,

questo mi basta, e mi è dovuto.

Essere ghiaccio, essere fuoco,

essere vento ed essere splendore,

per lasciarmi sfiorare dal sole.

Ancora questo poco,

morte, poi, puoi portarmi Altrove.

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Alessandra Busacca

Alessandro

Soffice, cade un petalo di rosa,

dolce velluto sulla morbida pelle

dorata, calda e di miele odorosa

allo svanir della luce di stelle.

La fida ancella sfiorarlo non osa

perchè non vuol turbar membra sì belle.

Ma il divo occhio azzurro mai si riposa,

s'apre col nero fulmineo e ribelle.

Va l'eroe innamorato di gloria,

calzando l'elmo di forma leonina

destreggiandosi nell'aspra battaglia:

avido di sapere e di vittoria.

Nel cielo una densa nube si staglia

quasi annunciandogli morte vicina.

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Sara Caldini

Io che credevo in te

Io che credevo in te,

credevo

in ogni singolo gesto.

Io che credevo

di poter

trovare in te

la figura della sorella perfetta.

Io che credevo,

ingenua, nella tua fedeltà.

Io non pensavo,

non avrei mai creduto

che,

con così semplice crudeltà

riuscissi

a giungere

fino a ciò

che hai compiuto.

Mi ha ferita

e, lo sai,

il tradimento

lascia ferita.

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Alberto Ciccioli

L‟uomo

Colui che è nazista dice: “ odio tutti perché odio tutti!”

Colui che non è nazista, ed è puro e limpido di cuore,

dice: “ amo tutti perché ogni persona è come un frammento di me,

un granello di sabbia nel mondo,

un filo d‟erba, unico, indispensabile, migliore nei suoi pregi

e nel suo amore verso il prossimo! “

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Ilaria Comelli

Fantasia di una vita, mai vissuta

Infinite rughe

si sono ormai intrecciate

sul tronco della nostra vecchiaia,

ma le nostre dita

s‟intrecciano ancora

inebriate

da sapore di complicità.

E della terra

che ha sorretto gentilmente

questi grevi passi di sentimento,

e del tempo

che pazientemente

ha avuto bontà

del nostro cammino insieme,

resta solamente

la sfumatura del ricordo.

Resta, l‟accoglienza

di un amore che mai

cesserà il suo vivere.

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Paola Concilio

No, non lo sei

Uomo,

con che coraggio fai ciò?

Uomo,

non ti vergogni?

Lei, la tua donna

stesa lì,

per terra,

la colpa è tua.

Piange,

si sentiva protetta

tra le tue braccia

e invece tu la tradisci,

non ti vergogni?

Piange,

scappa per non vederti più,

perché hai fatto ciò?

Tu,

uomo,

messo al mondo per protegger le donne

perché le maltratti?

Uomo,

no, non lo sei.

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Sara Carmen Coppola

Persa e ritrovata

Persa e ritrovata, la fede, la fiducia, la guida

che avevo perso senza essermene accorta

mi riporterà sulla strada giusta

via da me, credevo per sempre

ma ora sento che è di nuovo dentro me

ricordo quel giorno, quando ho cominciato

a non credere più a nulla.

Riuscivo a sentire il vuoto, intorno e dentro me

ogni viso, ogni parola indifferente al mio cuore

solo insofferenza, voglia di lasciar perdere

smesso di provare, credere in qualcosa

per ridare luce e significato alla mia vita

un giorno a riflettere, pensare di non voler perdere

ciò che era stato mio, ciò che la mia anima aveva toccato

impedire al tempo, di portare via la convinzione che hai dentro

come porta via tutto ciò che hai intorno

impedire qualsiasi cosa di strappartela via

lasciandoti sola e persa senza poter essere ritrovata

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~ 25 ~

Angelica D‟Attoli

La voce del mio cuore

Mille voci aleggiano intorno a me

gridano, sussurrano, rompono questo silenzio;

un silenzio fragile, timido, infantile

che nasconde le mille facce del mio volto.

Sento una strana atmosfera intorno a me:

mille parole che sfiorano questa mia maschera buia.

Il mondo, una realtà che non riconosco,

uno specchio in cui non mi rifletto.

Ma dentro me una voce supera la realtà;

segreta, nascosta dall‟intenso silenzio

che, amareggiato, sposto via da me,

perché le parole hanno bisogno di volare.

Ricomincerò a gridare,

a superare le mille voci della gente,

a mostrare la mia anima nascosta e mai scoperta,

a correre dietro quel filo invisibile di realtà.

Ma questo viaggio mi ferma, mi sfianca, mi confonde;

mi sento perdere dietro strade sbagliate;

temo questo soffio di vento che colpisce la mia pelle,

temo quella forza che non posso controllare.

Troppe sono le difficoltà sul mio cammino,

poche le parole che mi possono aiutare.

Ne resto delusa, abbattuta, ferita;

ferita è la mia sicurezza.

Sento che la fragile luce della speranza

tende ad affievolirsi dentro me:

forse sto per cadere e non sento la forza,

ciò che mi serve per rialzarmi.

Ed ecco che all‟improvviso il mondo cambia:

tutte quelle voci assillanti perdono potenza;

quel buio che mi soffocava lascia intravedere una dolce fiamma

che spezza l‟oscurità e cancella le vie sbagliate.

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~ 26 ~

Due occhi profondi mi mostrano il mare,

due dolci braccia mi cingono la vita,

una delicata gioia mi avvolge l‟anima

e una forte emozione mi sconvolge.

Il suo cuore batte forte come il mio;

colgo il mio riflesso nel suo volto,

ascolto la sua voce e solo allora capisco

che è uguale alla voce del mio cuore.

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~ 27 ~

Amina De Biasio

Ho parlato

Ho parlato con la luna

dopo averle donato il tuo nome.

Ho parlato con il sole

dopo avergli sparato addosso il mio rancore.

Ho parlato con un melo spoglio

che – come me – resiste al gelo,

della vita e del tempo.

Ho parlato con un fiocco di neve

che mi ha detto: “non scioglierti!

Non al calore del passato, ma

al tepore fresco del domani!”

Ho parlato alla mia anima,

dentro il tuo cuore.

Con te, tuttavia, non sono riuscita

ad emettere suono degno d'esser udito.

Ora, silenziosa, parlerò con gli occhi

all'Illusionista del Creato.

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~ 28 ~

Rebecca Di Francesco

Storia di un albero

L‟albero traballa,

è un focolare.

I rami intrecciati fra di loro

come un tappeto,

lasciano tintinnare le foglie

come farfalle e campanellini.

Cade una foglia

subito,

la ruba una nube di petali profumatissimi,

ma son solo cadaveri che percorrono il sentiero invisibile

del vento.

Vola,

un passerotto tramortito dal gelo.

Gli alberi sembrano Arlecchino così vestiti

anche se alcuni sono spogli e bruni.

Cade un'altra foglia,

questa volta più violentemente,

il vento sibila e si unisce

alla corona di tappeti madidi

che incornicia regalmente le radici contorte.

Il tempo passa

l‟albero è ancora lì,

che ondeggia i rami,

come quando si tiene il tempo a una canzone,

ma che canzone è questa?

Forse la musica quiete dell‟inverno che inizia?

Forse i rumori della città?

E pensierosa

chiudo la finestra

e torno svagata

a giocare.

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~ 29 ~

Antea Di Lorenzo

Leggerezza

Vorrei essere leggera

come ali di gabbiano

per volare felice

in un cielo lontano...

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~ 30 ~

Francesco Fantechi

Sogni rubati

Soggiogo in una squadra di specchi,

risento d‟odio,

acerbo conflitto con lo sguardo, mio.

Rivedo librarsi l‟animo nostro

solo in sogni storpiati,

privi di tali pigmenti

da render essi reali.

Scorgo solo toni sfumati,

di carattere spento;

vivo lo scorrere del tempo,

antica clessidra inibita

logorata da miei sospiri smorzati

e frustranti,

che ricadono come nebbia

nel mattino,

e le stagioni trascorrono,

e mi rimpasto nell‟ ombra.

L‟unico appiglio,

ove la notte mi appar più serena

si ritrova nell‟attesa,

e nel sonno, e nel sogno

di poter spalancar le porte

che mi rendono estenuato e

distruggere l‟ambigua oppressione

che mi limita al terreno,

che mi sbarra la modesta ascesa

verso quella libertà,

scala complessa

dagli scalini spaccati,

e io mi appoggio

ad un corrimano tagliente,

sottile,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 31 ~

unico vero appoggio leale,

che pur fa a me sgorgare tanto sangue,

lacrime e paura,

ma può condurmi, fedele guida e custode,

verso il termine di quel articolato viaggio,

in modo ch‟io posso assaporare di nuovo

l‟aria fastosa di una splendida alba.

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~ 32 ~

Matteo Filippelli

Volare

P otendo nascere ancora

E riuscendo a vedere la vita,

R imembra o musa

C he l‟anima mia che

H ai, possa guidarti verso

E ssenza nuova di felicità.

Tentato dal tuo gelo, brucio

U ngendo le mani nel tuo corpo.

P rova a trasformarmi in

U n nuovo essere, capace

O di amare o di morire

I n queste piccole stelle.

V olgi lo sguardo verso

O cchi portatori d‟aria,

L evitando nel cielo con

A li d‟oro

R eale e con spada,

E ponendo al cielo te stessa.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 33 ~

Martina Fois

Papa‟

Papa‟, Mi Sei Stato Vicino Tutta La Vita,

Papa‟, Che M‟hai Portato Alla Mia Prima Partita,

Papa‟, Che Sei Molto Caro,

Papa‟, Sarai Sempre Il Mio Riparo.

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~ 34 ~

Angelica Foroni

Brezza

Oh, brezza autunnale,

porta con te,

accanto alle foglie

sbiadite dal tempo,

il triste canto

versato dal mio cuore.

Liberami dal peso

ormai insopportabile

che,

giorno dopo giorno,

affligge la mia vita senza senso.

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~ 35 ~

Valentina Galimberti

Risveglio

Fiamme ardenti che bruciano lente;

stelle cadenti che, sole e spente,

spariscono precipitevolmente.

Nitide nuvole nuove nascono,

pallide piogge perse periscono.

Parole e suoni che amano,

e morte e dolore che vivono.

Gioia e allegria risuonano.

Baccanti che danzano intonano

soavi e sublimi melodie.

Il canto di un usignolo franco,

il piccolo sorriso innocente

di un bambino, rischiarano tanto

da scaturire voglia incessante

di amare e volere volare.

Grigio muro di strada.

Rossa tenera bocca.

Linea continua

di un nuovo cammino.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 36 ~

Sara Gamannossi

Anima sperduta

Ti farò credere nei sogni anima sperduta,

nel buio sei rimasta,

da quando sei caduta.

Ti farò veder le fate e parlare con la luna,

questa è magia,

al mondo ce n'è più d‟ una.

Ti farò volare con ali prestate da un angelo,

e dopo averti fatto vedere l'oceano,

ti farò dipingere come Michelangelo.

Ti farò vedere ciò che vede un matto,

tutti lo guardano male,

ma lui ha il suo mondo perfetto.

Ti porterò lontano, da usare aereo macchina e nave,

e dopo il viaggio di una vita,

ci butteremo sulla neve.

Ti renderò felice e scalderò il tuo cuore,

e ti farò vedere il mondo,

dove nasce e dove muore.

Ci sono cose che vedi solo ad occhi chiusi,

gli occhi sono preziosi,

se sai come li usi.

Farò una scala fatta dalla mia speranza,

e poi silenziosa,

la metterò nella tua stanza.

Quella scala aspetta ancor di essere salita,

è rimasta lì...

non è mai ammuffita.

Anche io ti aspetto con bende, cerotti e kit da ospedale,

e ti medicherò se cadendo lì nel buio,

tu ti sarai fatta male.

Questa è per te,

che hai smesso di sognare,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 37 ~

che hai aperto gli occhi prima,

di saper parlare,

perchè spero un giorno,

che tu parli con la luna,

e spero di vederti accanto a una bambina,

piccola e sperduta,

sconosciuta ma tua amica,

alla quale tu debba...

insegnare la vita.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 38 ~

Alessandro Gigli

Memorie d‟inverno

Illuminati

dalla fioca luce della luna

giacevano immobili e scheletrici,

gli ulivi nella notte scura.

Come spettri, nelle loro sinuose forme,

sembravano guardare il cielo

implorando la primavera.

Poi,

senza preavviso arrivò l‟alba

a illuminare i vigneti.

Senza un rumore a romper questa pace,

se non, il battito d‟ali d‟una farfalla,

che pareva danzare,

in quel palcoscenico di luci e di ombre

che creava il sole

dopo la malinconia della notte.

Ormai però,

era solo un brutto ricordo

e rimanendo,

quieti ad ammirare

si potevano scorgere gli uccelli

nel loro volo tra gli alberi,

mentre i tiepidi raggi del sole

accarezzavano il loro mantello

di piume variopinte.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 39 ~

Lainus Gishti

Un albero dentro di me

Un Albero Dentro Di Me

Esprimeva Felicita‟.

L‟albero Sta Morendo

Dalla Profonda Tristezza Del Mio Cuor.

Solo Poche Persone

Possono Farlo Tornare

In Vita,

Immenso.

Tempo Fa

Era Pieno

Di Foglie, Frutti,

Di Felicita‟,

Rami Dritti.

Ma La Tristezza

Profonda Del Mio Cuore

Lo Fa Morire:

Perde Le Foglie,

E Cadono I Frutti Stracolmi Di Felicita‟.

I Rami Si Abbassano,

Incominciano A Piangere,

Il Sole S‟abbassa

Incomincia A Piovere,

Per Sempre.

Quando Qualcuno Lo Risvegliera‟

La Pioggia Finira‟,

Ritornera‟ Il Sole

E Ritornera‟ Maestoso

Come Tempo Fa.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 40 ~

Jessica Grandolfo

Buio

Ognuno è solo

nella nebbia lieve e impalpabile

che vaga intorno a noi

ricordi di una vita ancora chiara

dove amici intorno a me

riempivano il vuoto che affligge la mia anima

ma ora

trafitta da un raggio di sole

la nebbia lascia scorgere una figura

piano mi avvicino

per sfiorare quel suo viso delicato

ma al mio tocco svanisce

come una nuvola di fumo

e si confonde tra la nebbia

calano le tenebre

cupe e infernali

e penetrano indisturbate nel mio cuore

solo il buio mi separa dalla luce

che rischiara la vita

di chi la nebbia non ha incontrato.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 41 ~

Giuseppe Guerriero

Il borghetto dei pescatori

Dormi o borghetto

in questa fredda e tetra notte di Gennaio,

in lontananza si può origliare

solo il flebile cigolio delle barche

vogliose di liberarsi dal proprio ormeggio,

come un dannato, è voglioso di evadere dal suo inferno dantesco.

L‟alba si avvicina

e le prime luci colorate

si scorgono sulla via,

i pescatori si radunano

e salutano le famiglie

augurandosi un felice ritorno

quando nel cielo non ci sarà più giorno.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 42 ~

Sabrina Iavarone

Non so cos‟hai

Chi sei,

perché ti cerco.

Forse perché sei nel sole e nell‟aria,

forse perché voglio perdere il mio tempo

in insensate ricerche,

solo spegnermi un po‟,

incolparmi, ferirmi, giudicarmi,

farmi domande,

come chiedermi di questa notte

perché stare in piedi?

Mi ricorderò soprattutto altrove,

tra le nuvole indecise

e gli sguardi incompresi,

perdendomi nel vuoto.

Il mondo da qui non potresti mai immaginarlo,

un altro giorno danzando in questo cielo.

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~ 43 ~

Marco Locarno

Tanto sgraziata e tanto brutta da scappare (Parodia di Dante Alighieri)

Tanto sgraziata e tanto brutta da scappare,

la donna mia quand‟ella altrui saluta,

e per paura ogni lingua divien tremando muta

e li occhi non l‟ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi beffare,

sgraziatamente di bruttezza vestita,

e pare che sia una donna venuta

dae paludi l‟uomini a spaventare.

Mostrasi sì orrenda a chi la mira

che dà per li occhi una paura al core

che „ntender no la può chi no la prova;

E par che de la sua rabbia si mova

uno spirito brutto, pien d‟orrore,

che va dicendo a l‟anima: meschina.

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~ 44 ~

Nicola Loreti

Io bambino notturno

Tic, tic, tic… avanza con i suoi piedini di un metro.

Tic, tic, tic… gira intorno.

Il bambino notturno è arrivato

e passeggia per i vicoli bui e silenziosi

alla ricerca di un amico per giocare.

Cerca proprio me,

sono proprio io il suo gioco preferito,

mi trovo nel letto ad ascoltare

il ticchettio dei suoi passi dolci e rumorosi.

Toc, toc, toc… bussa alla porta.

Toc, toc, toc… vuole entrare.

Tutto silenzioso, tutto tranquillo…

Ma ecco che si decide… se ne va.

Tic, tic, tic, tic… s‟ incammina nella lunga strada

buia, silenziosa, tranquilla ma paurosa.

Ed ecco che si sente un rimbombo fortissimo…

Il bambino notturno fa strada per un'altra casa

salutandomi da lontano.

Mi vede, mi osserva, mi nota e mi saluta…

Tic, tic, tic, tic, tic… il bambino se ne è andato

nella casa vicina.

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~ 45 ~

Alessia Mainardi

Senza tempo

Può un respiro vivere

nei miei capelli?

Può un giorno vivere

tra le mie mani?

Può il sorriso

della gente vivere

nei miei occhi?

Puoi fare felici

mille pensieri?

Domani lasciami

le tue lacrime

per bere e brindare

ad ogni dolore,

chi tutto,

può ora

porta con sé l'autunno,

spezzando

colori e respiri

lasciando

un'opaca fame,

ed un'unica stanca

nota ripetersi

per bocche affamate

di parole.

Domani è l'unico futuro

che ho.

Lasciami pensare che

tutto può succedere.

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~ 46 ~

Simona Malagò

La Luna

Oh Luna D‟argento,

Tu Che Sei Amica Del Vento

Tu Che Conosci Ogni Costellazione

E Parli

Con La Cintura Di Orione.

Lassu‟, Nello Spazio Celeste,

Organizzi Molte Feste.

Nel Giorno Del Tuo Compleanno

Diventi Tonda

Come La Gioconda

E Insieme A Lei Cavalchi L‟onda.

Il Tuo Amico Mare

Ti Sta Ad Ascoltare E

Ti Dice Sempre :”Cara Luna

Non Ti Arrabbiare, Se Vedi Che

Quaggiu‟ Qualcosa Va Male!”

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~ 47 ~

Caterina Manfrini

Nebbia

Il solo tuo pensare

mi estasia.

E tu

sparisci nella nebbia

mentre

m'adombro d'agonia.

Esplode in me

gioia euforica

nel riscoprire

che non te ne sei andato mai.

E questa nebbia,

si chiama

illusione.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 48 ~

Martina Marotta

Castagne

I caldi colori dell'autunno

hanno appena

inondato il bosco.

Son poche, quest'anno, le castagne

che il vento ha disseminato

qua e là fra le gialle foglie.

Ricurve su se stesse,

anziane donne le raccolgono

riempiendo i grandi cesti

che i loro avi hanno intrecciato.

Non lasciano nulla e

con le nude mani

strappano, soffrendo,

i marroni frutti

dall'ultimo abbraccio

dei ricci.

Uno scoiattolo, da lontano,

guarda,

mentre, anche lui,

stringe fra le sue zampe

una castagna,

l'ultima,

prima del lungo inverno.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 49 ~

Francesca Michetti

L‟Autunno

La quercia nel bosco sbadiglia

le foglie spiccano il volo e

vanno lontano

nella terra di nessuno

la terra misteriosa

l‟autunno!

Ogni orso nella caverna mangia

a più non posso

per andare in letargo

il terreno profumato

umido e fangoso

i gustosi funghi

o funghi velenosi?

Chi lo sa!

L‟autunno

è il mistero della natura.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 50 ~

Giuditta Natale

Fuggi?

E dolci acque al rosso fuoco porti.

Ardi e fremi.

Di rosa le labbra e i suoi sospiri,

oleandro i suoi pensieri,

giglio i suoi sorrisi..

Ricordami adesso.

Sola con un bouquet.

Non sento l'odore.

Non posso e ti allontani.

Fuggi?

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 51 ~

Benedetta Olmi

Di te per me

Quel lontano

infrangersi di onde,

che rimescolano

pensieri e ricordi.

Come un lampo

che squarcia il cielo

la mia mente corre

veloce a te,

a quei tempi passati.

Una piccola mano

che addita lontana,

cerca di afferrare

quelle stelle,

luci in frenetica danza.

E mi trovo così,

a paragonare

questi piccoli lumi

a quel tuo sorriso.

Un sorriso

incancellabile,

un segno indelebile,

di te,

per me.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 52 ~

Sofia Pianigiani

Io sono

Io sono allegra come il vento

che soffia in primavera.

Io sono romantica come una rosa

che sboccia sul far della sera.

Io sono coraggiosa come un leone

che salta tra un ponte e l‟altro.

Io sono creativa come le foglie

che colorate sono.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 53 ~

Maria Alessandra Puteo

Al vento

Fammi librare, nel cielo e nell‟aria,

scioglimi dalle catene, ispirami libertà;

scuotimi bora,

fammi volteggiare lì, dove tutte le nuvole hanno il loro nome.

Fammi assaporare il più dolce dei mali,

regalami l‟amore, le passioni più intime e travolgenti dell‟anima;

investimi di emozioni, scatena un uragano e nasconditi timida tra i

capelli.

Non abbandonarmi,

non lasciarti morire tra le onde;

tu, veloce e fredda bora fuggi,

torna lì,

fra cielo e terra

dove si intravede l‟orizzonte e si nasconde l‟ormai stanco sole.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 54 ~

Carmela Ravisato

Vorrei fermarmi

A volte vorrei fermarmi

anche solo un attimo

ad ammirare il cielo,

a guardare il mondo.

Oggi mi fermo,

fuori piove,

e dalla mia finestra

mi godo il paesaggio.

La pioggia batte sulla mia finestra

e le gocce scorrono lungo

il freddo vetro,

come lacrime sul viso.

Attraverso la finestra appannata

vedo il mondo,

non mi ero mai accorta

di avere un pino di fronte,

eppure, ci passo vicino

tutti i giorni

quant‟è bello.

Mi soffermo ancora:

vedo un nido sul pino

con i suoi pulcini.

Vorrei rimanere qui, per sempre,

e ascoltare: il vento ridere

tra le fronde

e la pioggia scorrere

sul vetro.

Vorrei continuare

ad ammirare ed ascoltare il mondo

a non fermarmi alle apparenze,

ad andare oltre:

a vivere il mondo, il tempo

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 55 ~

e la vita.

In questo mondo frenetico

io mi sono fermata, ho osservato,

la natura che l‟uomo sta distruggendo: piango.

Piango non solo per la natura,

ma per i giorni passati

che non ho goduto e sfruttato,

lasciando scorrere il tempo invano.

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~ 56 ~

Beatrice Ludovica Ritondo

In rianimazione

Nell‟ospedale c‟è la rianimazione,

dove ci sono infermiere di ogni nazione.

C‟è una rumena, due polacche, un‟albanese e tutte le altre italiane,

che fanno diventare le pazienti sane.

Ogni infermiera e ogni infermiere è colto,

per questo lavorano molto.

Un primario di nome Massimo Antonelli,

non se ne trovano così tanto snelli.

Poi c‟è la caposala di nome Rita,

che adora la margherita.

Ci sono i medici frequentatori,

che per la metà sono mori.

Ci sono gli studenti,

che sono meno di venti.

Ci sono i portantini che si danno da fare,

oppure sono cose amare.

Ora che l‟ospedale è completo,

è diventato un prezioso amuleto.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 57 ~

Chiara Romeo

Pioggia

A Me Piace Contare,

Contare Le Gocce Del Mare,

Mi Piace Guardare La Pioggia,

E Contare Ogni Goccia.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 58 ~

Ilaria Rubessi

Viale magico

Un dolce vento accarezza

le dolci pannocchie

ormai maturate,

le foglie volano

come note disperse,

calpesto

piccoli sassi,

che sembrano parlare.

Intorno,

tutto sembra

formare un‟orchestra.

Lungo

tutto il viale

si alzano alberi

che fanno

la guardia

alla casa del Signore.

Intorno,

tutto sembra

formare un‟orchestra.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 59 ~

Rita Ruccione

La campana del destino

La campana del destino ha ormai suonato la nostra ora

Chissà quanti rintocchi aveva già sibilato

ma io non udivo il richiamo della mia vita

lasciandomi assordire dalla voce dei tuoi silenzi.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 60 ~

Alessio Sangiorgio

La cosa giusta

Il mondo è un precipizio,

la giustizia è l‟unico ponte per arrivare all‟altra sponda,

è difficile, vuoi cambiare strada,

ma se accetti le difficoltà

un giorno arriverai all‟altra sponda

e saprai di aver fatto la cosa giusta

in mezzo a milioni di possibilità sbagliate.

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~ 61 ~

Claudia Scoppa

Atroce ricordo

Grigia e triste era

l‟atmosfera

in quel periodo dannato

tante persone innocenti Hitler aveva deportato.

Queste eran sottoposte a varie torture

solo perché i tedeschi le ritenevan impure.

I vecchi, i malati,

i bambini eran portati

subito alla morte

ma era la miglior sorte.

Gli altri venivan costretti a lavorare

e mai si dovevan fermare,

mentre le guardie se ne stavan ad osservare

e col fucile eran pronte a sparare.

Quando arrivava il pranzo, una calda brodaglia,

sedevan sopra la paglia.

Mentre così poco mangiavan

scheletrici diventavan.

Non soffrivano solo la fame

e la voglia di aver più di un pezzo di pane

ma anche il freddo inimmaginabile

ed il lavoro insopportabile.

Quei poverini erano considerati come animali

ed erano ad estrarre minerali.

Quando furon liberati,

i superstiti, da questo atroce ricordo non ne sono stati mai

lasciati.

Noi, anche se abbiamo voluto leggere ed ascoltare

cose riguardanti la SHOAH non possiamo mai immaginare

com‟era brutto vivere

con il dubbio se il giorno stesso si potesse sopravvivere.

Noi dobbiamo almeno capire gli sbagli di allora

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 62 ~

per non commetterli ora,

quindi non dobbiamo aver paura di ascoltare

o di guardare testimonianze

per sapere che quelle non erano affatto vacanze.

Io cerco di farvi capire

com‟è importante scoprire

dell‟uomo la cattiveria

perché è davvero una cosa seria.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 63 ~

Christian Serafini

Oro

Spighe di grano dorato

risplendono il sole brillante,

scintillanti come perle.

Oro all‟alba si sveglia

e fuori dal mondo gioisce

mentre il vento soffia leggero.

Niente rompe l‟armonia,

tutto è perfetto e calmo,

la pace regna tranquilla.

Tutto tace, in silenzio

e anche le spighe di grano

ora diventano oro.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 64 ~

Giorgia Silverii

Naviga naviga

Mare in tempesta,

mare in burrasca,

se non navighi….

Nulla ti viene in tasca.

Con la tua nave solchi le onde

tieniti forte e non andare a fondo.

Naviga, naviga, non ti arrestare

tanto pesce devi pescare,

alla famiglia devi pensare,

tanto lavoro non puoi protestare.

Prega il buon Dio di farti tornare

dai tuoi figli per farti amare.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 65 ~

Greta Silverii

E‟ arrivato

Un bel dì, di buon mattino,

al canto del galletto,

si è svegliato il cuginetto.

Ha deciso di venire al mondo

ed è successo il finimondo.

Corri, corri, all‟ospedale…

Il dottor non far scappare

dopo ore di travaglio

ha tagliato il suo traguardo.

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~ 66 ~

Stefano Silverii

Spiagge

Notte stellata

il cielo è illuminato,

luna splendente

luna ridente.

Sguardo sfuggente

cuore dolente.

Spiagge infinite

palme d‟argento

Sabbia infuocata

dal sole splendente.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 67 ~

Federica Soldani

L'amore dell‟Albero

L‟amore dell‟Albero è una grande casa

che ripara il giglio ghiacciato

e riflette il suo colore.

Le margherite giacciono

sotto l‟umile palma

da cui cadono, innocenti, freschi datteri.

Le violette oscillano

cullate dalla leggera brezza pomeridiana.

Fresca arriva l‟ombra del pino

che piano si estende fino al sentiero.

La rosa si schiude

con i suoi petali profumati

mentre una farfalla le si avvicina, incantata.

L‟amore dell‟Albero è una grande casa

di fili dorati

che danzano e brillano

alla luce del sole.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 68 ~

Simone Spera

Parole d‟un girovago

Ora il vento dissemina le foglie

- secche rollano sfriggendo –

da un capo all‟altro della strada e rugge:

le macchine rombando mi saettano

a fianco, i pullman rimbalzano e di vani

rumori percuotono l‟aria.

Sul marciapiede quadrettato svolazzano

le immondizie portate dal vento

e il puzzo delle feci dei piccioni

mi sale alle narici; il vecchio tocco

nel suo lungo abito da donna a fiori.

Oscure, rabbiose voci mi muove

contro e agita la canna da passeggio.

Questi muri, tra cui uggiolano i cani

senza pace, già mi videro un tempo,

questo cielo fumoso già scagliò

bufere ai miei cammini perduti.

Forse passai di qui per un istante,

o forse qui consumai la mia vita anni fa

o forse è solo un mese che partii

e già ritorno, non so: ma non conta:

i volti noti appaiono ignoti

anziani barbuti torcono il collo

la vita è passata sulle vecchie ombre.

E tu, tu meta del mio lungo vaneggiare,

anche te rivedo, nel velo tenebroso

del tuo trucco, di seta incappellata;

o forse non sei tu, non certo quella

dei miei sogni, quasi brutta.

Alzo piano la mano e mugolo un fievole

saluto. Tu passi avanti e butti a terra

la sigaretta.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 69 ~

Cade la notte e cadono le stelle.

la sigaretta seguita a fumare.

L‟incendio divampa sul prato

e già corrode le mie carni stanche.

Cresce belva affamata,

della città non restano che ceneri.

Forse inghiottirà la terra e tutto il mare

non basterà più a spegnerlo.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 70 ~

Mattia Spiga

Una persona … speciale

Nel mio condominio

abita una persona meravigliosa,

sempre sorridente, sempre gioiosa!

A lei piace dialogare ,

ma non molto… interrogare!

Lei e‟ … la mia maestra!!!

ha un cuore enorme,

star con lei e‟ una festa!!!

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 71 ~

Lucia Torricella

La maschera del guerriero

La vita è fatta di errori

che non possono essere cancellati con l‟acqua,

rimangono lì come a testimoniare cosa eri,

cosa sei e cosa sarai per il resto della tua misera esistenza.

I testimoni sono ovunque

e la coscienza è il più grande dei tormenti.

La fedina è pulita e la persona

naviga nel sudiciume.

Mi domando come possa essere possibile

che, dietro la maschera,

il guerriero forte, orgoglioso e tanto onorato,

che dietro tanta invidia altrui,

si nasconda un‟altra maschera.

Ma sappiate:

non basta avere un elmo in testa ed essere giudicati eroi a vita,

ci sono cose che non possono essere cancellate.

Sei un eroe per loro,

ma non per te.

Metti giù la maschera; guarda in faccia la realtà

che sei un guerriero senza spada e cavallo.

E non piangere ora

perché, se sei un uomo,

avresti dall‟inizio saputo quale sarebbe stata la tua spia e il tuo

nemico.

Quello che hai combattuto per tutta la vita

non è il tuo nemico.

Il tuo avversario è altrove.

Lì, davanti a te,

ti fissa da dentro lo specchio

e ogni suo movimento è il tuo.

E se non vuoi toglierti la maschera

abbi, almeno, lo scrupolo di ammettere che forse,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 72 ~

concederti la vita,

sia stato il decoro più grande

di tutti quelli che non ti saresti mai aspettato venissero fatti a te,

il guerriero senza volto.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 73 ~

Valentina Torrigiani

Io e Arianna

Un giorno

è una parola

lontana,

ma io e Arianna

la raggiungeremo

e lì cammineremo

INSIEME.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 74 ~

Marco Tosato

XX Secolo

Come l‟ingegno

la distruzione.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 75 ~

Daria Vermon De Mars

Il cielo in prigione

Il mio amore è vendetta.

Per tutte quelle voci private di una bocca e di fiato per farsi sentire.

Il mio amore è giustizia.

Di tutte quelle labbra che non hanno intenzione di esser sigillate e

per tutte quelle che vogliono esser riaperte.

Il mio amore deve liberarsi.

E urla, un grido straziante che dilania il vento e attraversa ogni

confine, per poi rimbalzare contro orecchie sorde.

Il mio amore muore nella solitudine di una stanza illuminata.

Una luce accecante ed opprimente, una luce che occupa ogni minimo

spazio uccidendo persino l'aria, una luce che trafigge tutto e rade al

suolo.

Il mio amore svanisce nel nulla e si fonde con il tempo, si dimentica,

si annulla, ma è in un'eterna memoria.

Il mio amore nulla possiede e niente vuole.

Il mio amore sono solo occhi che chiedono pietà.

Si domandano: “non ne hai avuto abbastanza?”

Si domandano: “non sei stanco?”

Sussurrano: “perché?”

Il mio amore è una risposta con infinite domande. E raggiunge la

conoscenza dell'Universo, sapere che possiede e a cui appartiene.

Il mio amore consuma la carne e lacera l'anima, una passione che

cattura fino all'ultimo respiro e brucia ogni singolo battito.

Il mio amore è il mondo. È nero, bianco, rosso, blu, giallo... è tutto

ciò che si nasconde nell'ombra.

Il mio amore è il buio, la cieca oscurità che inghiotte e trascina in un

silenzioso oblio.

Sono tenebre che colano lentamente su ogni cosa, come una scura

sbavatura del cielo che scivola sulla terra.

Un cielo in prigione sottile e leggero come una piuma, ma troppo

spesso, troppo pesante per volar via dalla sua gabbia.

Tuttavia resta soltanto intrappolato in un'illusione: non esistono

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 76 ~

catene, non esistono barriere reali per rinchiudere quest'aria

immaginaria, bensì solo occhi spalancati troppo chiusi per vedere.

Il mio amore è vento, soffia invisibile tra le anime di attimi passati,

ormai evanescenti come l'ultimo, soffocato e tremulo bagliore del

giorno...

Il mio amore è sogno.

Sogno di due ali spiegate, grandi e possenti. Due meravigliose ali che

sorvolano cristallini e luccicanti mari ed oceani, selvagge ed

inesplorate terre dallo sguardo antico ed incantato.

E risvegliano il sonno eterno del sole e della luna, di pianeti e di tutti

gli astri, ritornando infine sopra a quello splendore lucente di terre e

acque che le rende ebbre di vita.

Libere.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 77 ~

Olga Maria Viterbo

Al mio Maestro Gianni

Mi ricordo solo ieri, di quando ho aperto gli occhi,

un viso gioviale, la classe era il paese dei balocchi,

se riapro i quaderni vedo solo calcoli scritti,

compiti letti, compiti non corretti,

righe equivalenze, omini stilizzati,

quaderni degli anni passati,

voti messi in rosso, correzioni,

ma scorrono anche emozioni.

Maestro, non ti scorderò mai, non scorderò il tuo viso,

anche se il nostro cuore è stato diviso,

ora vado avanti e tu ritorni indietro,

rivivi gli anni tra i banchi in quell‟ambiente un po‟ tetro.

E nei tuoi occhi splende ancora la gioia,

adesso sono un pò stanchi ma non c‟è mai noia…

La gente ti conosce calciatore?

Ma se ti volti ti trasformi in scrittore,

maestro una volta ti chiesi: “ sei contento quest‟oggi o rimpiangi? “

Mi rispondesti: “la vita è come un quadro che tu dipingi,

puoi mettere righe di tutti colori,

puoi mettere scheletri o fiori,

sta a te decidere il futuro,

spero che le mie non siano parole buttate al muro.

Ricordati sempre che hai una vita da creare,

puoi anche decidere di andare,

ma ricorda sempre le mie parole,

vivi la tua vita ore per ore,

ricorda sempre che un giorno sarà troppo tardi,

vivi la tua vita senza preoccuparti degli altri sguardi,

vivi la tua vita senza un circolo vizioso,

perché è un dono prezioso! “

Mi disse anche :- “così non puoi sbagliare,

io non sono solo sul campo il calciatore,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 78 ~

non solo su un foglio lo scrittore,

adesso sono contento, ho fatto un buon lavoro,

ho seguito me stesso e ora la mia vita vale oro.”

E poi quel giorno ti disse un‟amica

“Gianni, tu sei anche maestro di vita.”

È vero maestro, la vita non si trova su un libro di mate,

perché sai tu quante vite son passate,

quanti quadri di vita hai dipinto.

Io e te maestro lo sappiamo,

io in te e tu in me ci ritroviamo,

sappiamo che la vita va vissuta,

fino all‟ultima emozione,

Caro maestro Gianni,

grazie per cinque anni!!

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 79 ~

Le Storie

di IoRacconto Junior

Bambini/Fantasy

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 80 ~

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 81 ~

Ambra Alderighi

Il gigante ed il violino magico

C'era, un tempo, un gigante che viveva in una caverna situata nel

cuore di una foresta.

Si era rifugiato lì perché era disprezzato da tutti, poiché era diverso e

la sua pelle color verde scuro incuteva timore.

Vivendo da solo, non aveva nessuno con cui parlare o giocare.

Quindi passava una buona parte della giornata ad ascoltare e cantare

con gli uccellini che avevano costruito il nido vicino casa sua. Il

suono del loro cinguettio era così limpido ed armonioso che lo

rendeva felice. Loro avevano imparato ad amarlo e spesso si

accovacciavano su di lui per cantare insieme.

Un giorno, il gigante stava passeggiando tranquillamente per un

sentiero quando, in lontananza, vide qualcosa appoggiato su un

grande masso. Il gigante si avvicinò cautamente alla roccia,

guardandosi intorno.

Non vedendo nessuno, prese fra le sue grandi mani il violino che era

stato abbandonato. Il piccolo violino sembrava estremamente fragile

nella possente presa del gigante. Tuttavia, questi lo maneggiò con

estrema cura, quasi tenesse in mano un neonato.

Egli aveva già visto quello strumento. Infatti, era sua abitudine

nascondersi dietro ad un masso nei giorni di festa del paese, costruito

ai confini della foresta. Da lì, osservava gli abitanti festeggiare ed un

gruppetto di musicisti che, suonando i loro strumenti, contribuiva a

rallegrar l'atmosfera già carica del suono di fragorose risate e dello

squisito profumo di dolci appena sfornati.

Riprendendosi dai ricordi, si girò col violino in mano, ma si ritrovò

di fronte ad un uomo che lo guardava impaurito.

Gentilmente, il gigante gli disse: “È tuo questo violino? L'ho visto su

questo masso e ho pensato che fosse stato abbandonato. Se è tuo, ti

chiedo scusa. Non volevo rubarlo. Ecco.”

Disse il gigante “riprenditelo, ma trattalo bene!” e così dicendo gli

porse il violino.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 82 ~

L'uomo, però, era talmente impegnato a pensare quanto fosse grosso

e spaventoso il gigante, che non sentì alcunché di ciò che l'altro gli

disse. Quindi scappò via correndo.

Il gigante lo osservò andar via con occhi tristi e il petto che gli

doleva. Con una lacrima che gli rigava il volto, riprese il cammino

per casa sua, un luogo isolato da tutti e da tutto.

La tristezza, però, lo abbandonò in fretta quando, curioso, cominciò a

strimpellare le prime note col suo nuovo violino.

Meravigliato per il risultato ottenuto e felice di avere un nuovo

compagno, il gigante cominciò a camminare, suonando il violino

come se avesse sempre saputo farlo e senza una meta precisa.

Quasi inconsapevolmente giunse alle porte del paese, seguito da da

uno stormo di uccellini che cinguettavano sulle note del violino.

Vedendolo arrivare, un bambino disse alla madre: “ Guarda mamma!

Chi è quello lì? È enorme! Quando arriva posso giocare con lui?”.

La madre alzò lo sguardo e vide il gigante che scendeva lungo il

sentiero con lunghi passi.

Subito prese in braccio il bambino, che pareva molto interessato a

quella novità, e corse in casa.

Così, tutti gli abitanti del paese si nascosero nelle loro case, serrando

porte e finestre. I bambini più piccoli giacevano tremanti tra le

confortanti braccia delle madri ben nascoste, in modo che, nel caso di

uno scontro, non fossero esposti troppo al pericolo. Gli uomini,

invece, stavano accovacciati sotto i davanzali delle finestre con un

fucile in mano.

Il villaggio si era fatto improvvisamente silenzioso, le strade erano

deserte...non una voce.

L'atmosfera si era fatta minacciosa, carica di tensione e paura.

Nessuno parlava, nessuno si muoveva.

Il gigante proseguiva il suo cammino, spensierato e ignaro del

pericolo che avrebbe trovato una volta giunto al villaggio.

Tutti quanti aspettavano che succedesse qualcosa, silenziosi e cauti,

pronti a fare fuoco. Quasi si poteva toccare la loro paura, talmente ne

avevano.

Infine, giunse anche a loro il suono del violino, quella melodia che

inizialmente era sottile come una lamina, e che andava

rinvigorendosi, facendosi sentire sempre più chiaramente...ed eccola!

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 83 ~

Ah, che suono meraviglioso quel violino, che note sfilavano dalle sue

corde tese!

Quell'armonia leggera, allegra fece sentire tutti quanti

improvvisamente meglio...la paura piano piano se ne stava andando,

portandosi dietro la tensione e il timore di qualcosa di sconosciuto e

pericoloso.

Posando i fucili, gli uomini presero con sé donne e bambini e

tranquillamente uscirono dalle loro case, senza temere alcunché.

Lentamente, andarono incontro al gigante. Inizialmente erano

diffidenti e sui loro volti era visibile una traccia di dubbio. Poi anche

questo li abbandonò, e il sorriso si diffuse tra loro come se fossero

stati contagiati.

Il gigante continuava a suonare e non si accorgeva di camminare

lungo la strada principale del paesello...si avvicinava sempre più agli

abitanti e solo allora si accorse di loro.

Spaventato per la possibile reazione di quelli, accennò a smettere di

suonare, ma vedendo che gli abitanti lo osservavano con curiosità e

interesse, riprese immediatamente.

Quando ci furono poco più di cinque metri di distanza tra il gigante e

gli abitanti, questi cominciarono a sollevarsi, leggeri, senza smettere

di essere felici, e uno dopo l'altro, proprio come palloncini, presero il

volo. Ora si trovavano nel cielo infinito, talmente in alto che

potevano accarezzare il dorso delle nuvole...

La gioia si impadronì dei loro cuori.

In quel momento magico, tutti si accorsero che il gigante, che tanto

avevano temuto e isolato nella foresta, era buono e inoffensivo, oltre

che simpatico.

Quando egli suonò le ultime note, ogni persona scese a terra, felice

come non lo era mai stata in vita sua.

Da quel giorno, il gigante entrò a far parte di quella comunità.

Partecipava a tutte le feste del paese, suonando il violino e facendo

ridere e scherzare chiunque gli stesse accanto.

Divenne uno di loro, al punto che, un giorno, il falegname gli disse:

“Senti, dal momento che sei qua ogni giorno, ti farebbe piacere se

costruissi una casa su misura per te? Così eviteresti di fare il tragitto

dalla tua caverna a qui ogni mattina!”.

Commosso dalla generosità del falegname, il gigante rispose: “

Grazie, apprezzo molto la tua offerta e te ne sono grato, però la mia

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~ 84 ~

casa è là nel bosco, tra gli alberi che mi hanno offerto riparo e cibo

per tanti anni, quando ancora voi mi temevate. Ci sono affezionato,

inoltre a me bastano pochi passi per arrivare qui al villaggio!”.

Di lì in avanti, ogni mattina, il gigante si recò da loro al paese, che

era diventato la sua seconda casa e gli abitanti la sua famiglia, tutto

grazie al violino magico.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 85 ~

Chiara Antonioli

Il pinguino viaggiatore

Al Polo Nord fa veramente freddo e c' è molto ghiaccio, ma tra

queste montagne glaciali è nascosto un mondo fantastico: quello dei

pinguini! Infatti, scavate tra le montagne ghiacciate, vi sono delle

casette dove vivono tante famiglie di questi buffi animali. In una di

queste abitazioni, viveva un pinguino di nome Niùg. Di mestiere

faceva i ghiaccioli in una ghiaccioleria, la più famosa di tutto

l'Antartide. Niùg si divertiva molto a mettere il gustoso colorante ai

ghiaccioli, a stamparli in svariate forme e a crearne sempre di nuovi.

I ghiaccioli grazie agli stampini potevano essere a forma di cuore,

farfalla, fiori, palloncini e ce n' erano per tutti i gusti: alla menta,

fragola, limone, lampone e arancia. Molti amici di Niùg andavano a

comprare i ghiaccioli da lui, la ghiaccioleria era davvero un punto di

incontro per tutti i pinguini e anche i familiari di Niùg lo andavano a

trovare.

Un bel giorno Niùg, guardando le previsioni del tempo, venne a

conoscenza di un fatto; il meteo annunciava che ci sarebbe stato un

rovesciamento del clima e che al Polo Nord sarebbe giunto il caldo

che avrebbe sciolto tutto il ghiaccio e questo in pochissimi giorni!

Sarebbe sparita tutta la ghiaccioleria! Agitatissimo per la notizia, il

pinguino camminava su e giù cercando una soluzione e si ricordò che

suo nonno, gli aveva regalato una mongolfiera che ora si trovava nel

suo garage e Niùg decise di farci un giro. Il pinguino, tirò fuori la sua

enorme mongolfiera, la avviò e vi salì sopra. C'era tanto vento caldo,

il clima stava repentinamente cambiando e Niùg volava sempre più

in alto e senza rendersene conto, lontano dal Polo Nord. La

mongolfiera proseguiva il suo viaggio tanto che Niùg uscì dall'orbita

terrestre e si trovò a volare nello spazio, vincendo la forza di gravità.

A un certo punto mentre il pinguino vagava tra le stelle e pianeti

sentì: “ tuo nonno si che la sapeva lunga!” Disse Niùg: “chi ha

parlato?” La voce rispose: “sono la mongolfiera, io ti ho parlato; tuo

nonno, caro Niùg, era a conoscenza che un giorno il clima della terra

sarebbe mutato”. Niùg, perplesso disse: “ma come mai siamo nello

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 86 ~

spazio?” La mongolfiera rispose che nel cosmo ci sono moltissime

risorse e suggerì al pinguino di dirigersi verso il pianeta Giove. Una

volta arrivati la mongolfiera chiese a Niùg di buttarsi, il pinguino

esitava ma la mongolfiera lo invitò ad aver fiducia, così Niùg si tuffò

e si ritrovò immerso nella superficie molle di Giove. Niùg constatò

che si trovava all'interno di un pianeta freddo e una goccia della sua

materia liquida, cadde nel beccuccio del pinguino che esclamò:

“cioccolato!”. Niùg continuò ad assaggiare il pianeta Giove nuotando

e piano piano si rese conto che il pianeta sapeva anche di

mascarpone, zuppa inglese, pistacchio, fragola e limone!

Insomma il pianeta Giove, era fatto di gelato! Così Niug salì sulla

mongolfiera tutto sporco di gelato e tornò sulla Terra al Polo Nord.

Intanto l'ondata di caldo stava già sciogliendo i ghiacciai e a Niùg,

venne un' idea e disse: “se non potrò più fare i ghiaccioli, farò il

gelato e andrò a prenderlo direttamente su Giove con la

mongolfiera!”. E fu così che Niùg costruì una grande ed incredibile

gelateria dai gusti spaziali! Spesso nelle sere d'estate, guardando le

stelle in cielo, capita di vedere una luce che si muove e il più delle

volte pensiamo che sia un aereo; in realtà è Niùg che attraversa il

firmamento per andare su Giove a rifornirsi di gelato!

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~ 87 ~

Laura Bedeschi

Terremoto

C‟era una volta un uomo egoista ma così egoista che litigava tutti i

giorni con qualcuno. Un giorno disse a tutta la città che lui ce

l‟avrebbe sicuramente fatta anche da solo senza aiuto di nessuno! I

signori e le signore non aggiunsero parola.

All‟ora di andare a dormire quel signore dormì tranquillo. Al

mattino, Sòtuttoio (che era il nome del signore) si accorse che nel

viale di casa sua non c‟era nessuno ma pensò che era una

coincidenza. Ma giorno dopo giorno non si vedeva mai anima viva

da nessuna parte e Sòtuttoio era felice di questo. Ma si accorse, un

po‟ alla volta che non ce la poteva fare da solo: infatti non sapeva

farsi i vestiti, costruirsi una casa … …Coltivare verdure per

mangiare, e quando finalmente dichiarò che aveva bisogno di altri

che gli dessero una mano … Ci fu un grosso terremoto.

Sotuttoio si spaventò per tutto quel frastuono, Ma da quel terremoto

uscirono tutte le persone del popolo. Ma che dico! Di tutto il mondo!

E Sòtuttoio si rese conto che gli amici sono importantisssssimi! E

infine Sòtuttoio diventò l‟uomo più amato della terra perché capì che

tutti sono importanti allo stesso modo e che da soli nessuno può

resistere

Morale.

L‟unione fa la forza.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 88 ~

Elisa Brunetta

Paura di volare

C‟era una volta un bambino di nome Michele. Michele aveva tanta

paura di andare in aereo: quando i suoi genitori gli dicevano che

avrebbe fatto un viaggio all‟estero, in aereo, Michele elencava tutti i

disastrosi incidenti aerei che avevano ucciso tante persone. I suoi

genitori erano stufi di sentire la solita solfa e, quando le vacanze

estive si avvicinarono, prenotarono un aereo per andare dai nonni di

Michele, in Francia.

Quando i genitori di Michele glielo dissero, il bambino elencò ancora

una volta gli incidenti, ma i genitori erano irremovibili: sarebbe

andato in aereo, punto e basta.

I giorni prima della partenza furono orribili per Michele: cercava in

tutti i modi di far cambiare idea ai genitori, ma niente da fare. Fu

ancora più orribile quando Michele si ritrovò dentro l‟aereo che stava

decollando. Era agitato e arrabbiato con i suoi genitori.

Ad un certo punto, quando Michele guardò fuori dalla finestra, vide

un bellissimo uccello dalle piume dorate. Quando il bambino lo

guardò meglio, vide che l‟uccello lo stava guardando. All‟inizio non

ci credeva e pensava che fosse un sogno, perché i suoi genitori non

avevano visto niente, ma quando si rigirò e cercò di non pensarci più,

sentì un prurito nelle braccia, nella faccia e nei piedi.

Si guardò le braccia e vide che gli erano spuntate, bucando la

maglietta, delle bellissime ali argentate. Il naso era diventato un

becco, e i suoi piedi delle zampette nere. In più stava rimpicciolendo

e i suoi vestiti si erano completamente lacerati. Su tutto il corpo

erano spuntate piume argentate.

“Oh no, non è possibile, pensò, sono diventato un uccello!!” . Si girò

verso i suoi genitori, ma loro non vedevano niente.

Poi si senti afferrare la mano… cioè, un ala e si ritrovò

improvvisamente fuori con l‟uccello dorato: stavano sorvolando un

mare bellissimo, dove si vedevano piccoli pesci colorati.

- Dove vuoi andare di bello? - gli domandò l‟uccello dorato.

- E tu chi sei? - gli chiese Michele-argentato.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 89 ~

- Sono l‟uccello protettore dei viaggiatori che hanno paura dell‟aereo

– rispose con voce calma - ti porterò dove vuoi, basta dirmelo.

Michele si rese conto che stava volando. Sì, proprio così, ed era

come se lo avesse saputo fare da quando era nato.

- Portami al Polo Sud… - disse lui.

- Con piacere! – rispose.

Sorvolarono tante città, campi coltivati e oceani blu. Tutto era come

Michele aveva sognato: si sentiva libero e aveva nel cuore una

felicità enorme.

Ad un certo punto il paesaggio cambiò bruscamente: la temperatura

si abbassò e i campi verdi lasciarono il posto a bianchi e glaciali

iceberg. Si vedevano gli igloo, le case degli abitanti del Polo Sud,

fatte tutte di mattoni di ghiaccio.

- Noi siamo uccelli speciali, - disse l‟ uccello-dorato, - possiamo

andare dove vogliamo, quando vogliamo, non avremo mai troppo

freddo né troppo caldo.

- Dimmi, tutto questo è un sogno e tra poco mi risveglierò come ero

prima, o tutto quello che sta accadendo è vero e si potrà ripetere? -

chiese uccello - Michele.

- Non è un sogno, credimi, - rispose - e quando viaggerai di nuovo in

aereo, ti trasformerai e ti porterò dove vuoi, come adesso.

Quando Michele si stufò di vedere quel freddo ghiaccio, chiese al

suo nuovo amico di andare in Africa. Si misero in cammino, anzi, in

volo, e si diressero verso l‟Africa calda.

Passarono attraverso un piccolo villaggio fatto di tende colorate e di

alberi spogli e quando si posarono su uno di essi, un piccolo uccello

con le ali tutte nere con dei brillanti li salutò.

- Chi sei? - chiese Michele.

- Sono l‟uccello protettore dei cacciatori e tu? - disse rivolgendosi

all‟uccello - Dorato.

- Io proteggo i viaggiatori che hanno paura dell‟aereo – rispose.

- L‟aereo? - disse l‟uccello nero - e che cos‟è?

- Una sorta di grande uccello di metallo che trasporta le persone da

un posto ad un altro - rispose Michele.

- Devo andare, ciao! - l‟uccello nero si allontanò.

- Dove ti porto adesso?

- A New York.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 90 ~

Viaggiarono a lungo e si ritrovarono nella grande città piena di

grattacieli. Michele si divertì a fare acrobazie schivando le torri di

ferro, seguito dal suo amico. Nessuno li vedeva, gli abitanti erano

troppo indaffarati per guardare il cielo.

Proprio quando Michele si divertiva di più, il suo amico disse:

- Il viaggio è finito, e tu devi trasformarti di nuovo in un bambino.

- No, non andare via! - fece appena in tempo di dire queste parole,

che tutto girò vorticosamente, le città, i campi, le persone, e Michele

si ritrovò nell‟aereo.

Notò che era ritornato umano e che l‟aereo era atterrato. I suoi

genitori dormivano: non si erano accorti di niente.

Da allora in poi, Michele scoprì che viaggiare in aereo era bellissimo

perché si scoprono tante cose e posti nuovi. In più, Michele si era

fatto un nuovo amico magico, che vedeva ogni volta che andava in

aereo.

Scoprì posti nuovi e i suoi genitori non si accorsero mai di niente.

Ovviamente Michele non disse niente a mamma e papà, e a nessuno

dei suoi amici, tanto nessuno l‟avrebbe creduto.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 91 ~

David Cicchetti

George impara a salvare il mondo

C‟era una volta un bambino che viveva in un piccolo paese ciociaro

chiamato Piglio.

Il suo nome era George: era alto e magro.

Un giorno passò una circolare nella sua scuola: “Dal giorno

19/7/2009 nel comune di Piglio si istituirà la raccolta differenziata.

Firmato: il sindaco dott. Cittadini ”.

George pensò fin dall‟ inizio che la raccolta differenziata fosse una

stupidaggine quindi decise di non farla. Un giorno come tanti fece un

compito, per sbaglio fece un errore e andò a buttare la carta nel

cestino e volontariamente la mise nel cestino del vetro.

Questo fu lo sbaglio peggiore della sua vita: immediatamente fu

catapultato in un‟altra dimensione molto più inquinata della terra.

Uno spettro venne da lui presentandosi con il nome di Vetro che gli

disse di non avere paura di quel posto perché sarebbe stato il futuro

della terra se non cambiava la sua condotta!

Aveva paura ma allo stesso tempo era curioso.

Il fantasma lo portò in un'altra era : prima della presenza dell‟ uomo.

Era un posto magnifico con alberi che possedevano dolci frutti di

ogni genere, dal mango al cocco, dalla banana alla pesca e con altri

strani frutti che ormai non esistevano più!

Le acque erano di un azzurro tenue, nei mari vi erano pesci maestosi.

Era giunta l‟ora che il fantasma del Vetro se ne andasse .

Improvvisamente George si trovò accanto a una discarica dove lo

aspettava lo spettro della Carta, gli fece vedere come i gabbiani e

pesci morivano a causa dell‟inquinamento, gli fece vedere la carta

che aveva buttato nel cestino del vetro che veniva bruciata. Gli fece

capire cosa veramente poteva significare un atto come il suo.

Anche l‟ora del terzo spettro era arrivata: gli mostrò George da

grande che andava in giro con la mascherine per il gas, i bambini

chiusi aldilà della porta di casa che non potevano più giocare all‟

aperto.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 92 ~

Lo fece andare avanti ancora di 10 anni: la terra era deserta, erano

morti tutti, l‟inquinamento era salito a dismisura….disperato si coprì

la testa con le mani…

E quando aprì gli occhi…

Ah ah,! Si ritrovò sul suo banco a dormire. Felice pensò che aveva

ancora tempo per cambiare la sua condotta.

Allora prese la carta che aveva buttato nel cassonetto del vetro e la

mise nell‟apposito cassonetto della carta.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Rebecca Cicchetti

Diario di Ugo Foscolo

E così, scrivendo, mi siedo alla mia scrivania. Le mie mani vecchie e

stanche rimpiangono la bella e ormai lontana giovinezza. Le pupille

dei miei occhi scrutano la stanza: le finestre ormai tremolanti

oscillano al minimo spiffero di vento, la porta sbatte e sento così lo

scricchiolio degli stipiti mal fissati, le tende ormai ridotte a brandelli.

Quanta nostalgia a pensar alla mia cara Zacinto. Lì vorrei morire,

come scrissi nei “Sepolcri”, lì mi lega quella “corrispondenza

d‟amorosi sensi”. E penso al volto di mia madre, scavato dalle rughe

profonde, che lentamente si contrae in una smorfia di pianto e le

gambe si lasciano cadere a terra, sulla tomba di mio fratello

Giovanni. Cos‟è che mi resta oggi di tanti ricordi? Solamente quella

dolce poesia che mi accompagna. Cos‟è in fondo l‟amore?

All‟occhio umano potrebbe sembrar piccolo come un granello di

sabbia, che spinto dal vento, nell‟aria scorre via. Quel sentimento che

lega gli uomini e scandisce l‟ intensità della sua potenza dal tremito

di ogni cuore, che lentamente ci fa innamorar. Ma non solo l‟ amor di

cui tanto parliamo, ma anche quello verso gli affetti familiari e verso

gli amici. Perchè, tante volte a questo non pensiamo, lasciamo che le

persone care ci sfuggan via, come il vento d‟autunno muove le foglie

ballerine, che nella loro coreografia scappano rapide e ce ne

rendiamo conto solo alla fine di tutti gli atti. E solo alla sera mi

ritrovo a pensare all‟ infinità delle mie paure e, imponendomi di far

tacere i miei timori, dorme “quello spirito guerriero che dentro mi

rugge”. E non mi importa se sono al freddo inverno o alla calda

estate, perché l‟ unico gelare che sento è la paura che arrivi il

mattino. Poi, questo, arriva: sento una voragine che mi attira a sé e

mentre mi scompiglia i capelli, un vento freddo mi gela il cuore, che

lentamente pulsa a stento.

E ripenso ai miei pensieri: il nulla eterno che tanto mi spaventa, la

corrispondenza d‟amorosi sensi che ci lega e che m‟ infligge cosi‟

tanto dolore, lo spirito guerriero che dentro di me si ribella e che

incarna le mie paure. Ma io, uomo di questi tempi così duri, cos‟ è

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 94 ~

d‟altra speranza che mi rimane oltre a quella di essere sepolto a

Zante? L‟ isola mia, dove rimembro ancora i tempi felici della mia

infanzia, cullato tra le braccia di mia madre e quelle del Mar greco. E

così immagino la dea Afrodite così bella, che dalle sponde di Zante

emerge in superficie. I suoi capelli mossi al vento, le sue vesti

bianche e i piedi affondati nella sabbia. Perché così tanta poesia mi

accompagna? E che modificando le vie del mio destino mi guida? Sò

che l‟ uomo ha bisogno non solo di respiro nella vita, ma anche di

qualcosa che dia un senso alla sua esistenza, ma questa, per me, e‟

solitudine. Mi sento un eremita che dal suo isolato scoglio vede le

barche attraccare e, nonostante il suo carattere solitario, si sente

ancora solo. Perché, se non avessi incontrato tutto questo amore,

sarei vuoto nella mia anima e la voragine mi risucchierebbe, ma la

mia capacità di aggrapparmi ai lati dell‟abisso mi tiene ancora qui.

Immagino Ulisse, che sogna la sua rocciosa Itaca e pensando alla

salsedine che rovina le travi di legno delle navi, una lacrima scende

tra le rughe del suo viso spento.

Ma, impazientemente, anch‟esso, non perde speranza.

“Questo di tanta speme oggi mi resta..” , che il mio desiderio di

trovar un punto di contatto con mia madre quando di me resterà solo

un corpo, possa esser coronato.

E ancora una volta penso a quel mio verso: “Celeste e‟ questa

corrispondenza d‟amorosi sensi, celeste dote è negli umani” e

ringrazio quel dolce legame che mi accompagna.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Fabiana D‟Antoni

La leggenda

Tanto tempo fa', in una valle vicino al monte Gransasso, vi era un

paesino sperduto di nome Cail con degli abitanti molto speciali...

speciali per una miniera d'oro trovata, non appena fuori dal paese,

presso un lago chiamato "il Lago dei Sogni", per via di una leggenda

tramandata di padri in figlio dall'inizio dei tempi.. questa leggenda

raccontava di due ragazzi di nome Rosalina Luna e Salvatore Stella.

In questo paese vi era poca gente d'inverno e molta d'estate, gente

che non era di Cail, venivano a visitarlo anche da paesi molto lontani

,e a volte da Roma.

L'estate in questo piccolo paesino non vi si poteva entrare ne' con i

carri ne' con le macchine, per via della festa del santo protettore, che

si svolgeva ogni 14 di Agosto.

Quell'estate a Cail, oltre alla solita gente per le feste arrivarono due

nuove famiglie con dei bambini; così si incontrarono una bambina e

un bambino di nome Rosalina e Salvatore....era un evento storico

perchè nessun bambino fu' chiamato più così dopo la tragedia di luna

e stella, morti dove narra la leggenda al Laghetto dei Sogni.

Rosalina era una ragazza bellissima, con capelli del colore del sole,

occhi color cielo sereno, il corpo magro e slanciato, era perfetta come

una di quelle ragazze che si vedono in tv, Salvatore, invece, era rozzo

ma spontaneo, con capelli castano d'orati e gli occhi neri come la

notte , muscoloso e attraente con il suo modo di vestire sportivo che

lo rendeva ancora più bello.

Era stata Rosalina a farsi avanti e a chiedere il nome del nostro

Salvatore; più tardi conobbe altre amiche di nome Romina, ilaria,

Lucia e Veronica ma solo una riuscì a conquistargli il

cuore....Romina , la quale diventò la sua migliore amica negli anni.

Salvatore, invece, per un po' di tempo non voleva essere amico di

nessuno ma poi, passarono i giorni, e visto che doveva trascorrere

tutta l'estate lì, scelse tra i più simpatici del paese i suoi amici, questi

si chiamavano, Patrizio, Silvio, Simone e Fabrizio; Salvatore fece di

Patrizio il suo migliore amico.

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~ 96 ~

Intanto le cose nel paese peggiorarono... il gruppo di Rosalina non

riusciva ad andare molto d‟accordo con il gruppo di Salvatore.

Passati gli anni però le cose cambiarono, riuscirono a formare una

comitiva dove tutti poteva entrare e uscire.

Romina, un giorno propose di andare a giocare una partita di pallone

al campetto di calcio di Prateferro adiacente al Laghetto dei Sogni,

tutti accettarono tranne Veronica perché aveva paura del laghetto,

così propose di andare al campetto della villa di Marco, un‟ altro

ragazzo del paese molto bello di cui Rosalina era innamorata, ma

,purtroppo non ricambiata. Tutte le ragazze accettarono tranne

Rosalina arrabbiata e scocciata di avere in mezzo ai piedi una

rompiscatole come Veronica e, questa volta, anche Salvatore fu'

d‟accordo con lei; così andarono tutti a Prateferro senza importarsi di

lei che rimase sola a Cail.

Iniziarono a giocare la partita, maschi contro femmine, ma purtroppo

per le ragazze i ragazzi vincevano 20 a 1....Quando i ragazzi dissero

di aver bisogno di acqua da bere, così‟ Salvatore e Rosalina si

proposero per andare a prenderla giù al Laghetto dei Sogni unica

fonte di acqua nei dintorni.

Il viottolo per scendere giù al laghetto era tutto ricoperto di foglie,

Salvatore le scansò per far passare Rosalina, ma una volta arrivati giù

rimasero senza parole, perché visto che era abbandonato da anni quel

posto doveva essere trascurato e la vegetazione doveva essere

cresciuta in modo spropositato, ma al contrario, non avevano mai

visto una cosa del genere neanche in un giardino di un re...Il laghetto

aveva mille piccole cascate con una più grande sopra di esse, l'acqua

era limpida, trasparente...il lago era contornato di rose rosse, quasi

vive, come se volessero parlare, come se volessero la loro anima, il

sole splendeva come se non ci fosse mai spazio per la notte i pesci

saltavano felici, Salvatore prese la mano di Rosalina spinto da

qualche impulso irrefrenabile e le disse, giurando sul lago, su quel

posto meraviglioso, che non l'avrebbe mai lasciata, che si sarebbe

preso cura di lei, e con incanto si baciarono, fu' il bacio più bello

della loro vita, ma, purtroppo furono interrotti; in quel preciso

istante tutto diventò sporco e brutto la vegetazione divento così fitta

da non vedere nulla davanti, i pesci erano morti e l'acqua era opaca e

il sole non risplendeva più in cielo ma era tutto coperto di nuvole...vi

era solo il buio... Fabrizio gridò: "Tore abbiamo finito la partita le

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 97 ~

femmine hanno perso" allora Tore disse: "Fabbri arriviamo

aspettateci sulla strada del campetto", Fabrizio andò via e Salvatore

disse a Rosalina che solo loro dovevano sapere di ciò che era appena

accaduto, e si incamminarono verso gli amici.....ma per Rosalina fu'

uno choc quando Salvatore gli levò le mani dalle sue bruscamente e

in quel preciso istante si udì una voce che diceva "ricorda lo hai

promesso sul lago" Salvatore s‟impaurì di questo ma ormai erano

troppo vicini agli amici così girò le spalle a Rosalina e disse alle

ragazze "non vogliamo avervi tra i piedi ci avete scocciato "Rosalina

ci rimase male cosi andò da lui e gli disse "e quello che mi hai

promesso già te lo sei dimenticato?" Salvatore la guardò con quello

sguardo che può essere definito pieno di odio e disprezzo e si

incamminò con i suoi amici ,ma senti di nuovo quella voce "la

pagherai sei uguale a Salvatore Stella" Tore ebbe paura e appena la

voce scomparì cominciò a diluviare ...tutti si rifugiarono nelle

proprie case, tutti tranne Salvatore, che rimase sotto la pioggia pieno

di terrore.. Rosalina lo vide andò da lui e nonostante tutto lo

abbracciò piangendo...perché anche lei aveva udito quella voce.

L'indomani Rosalina, come ormai faceva tutte le mattine, andò a

chiamare Romina a casa e come al solito non era mai pronta, così

decise di aspettarla nella piazza del paese, dopo un po' scorse

Salvatore e lo raggiunse, parlarono, e poi decisero di andare al campo

di Prateferro, in bicicletta, solo loro due; si avviarono e Rosalina era

felice come non mai di stare con lui, da sola... Una volta arrivati

scesero giù al laghetto e notarono che era ancora tutto brutto buio si

misero seduti sopra una pietra tutta rotta, quando un bagliore

illuminò il ruscello, il cinguettio degli uccelli significava che era di

nuovo tornata la vita, tutto il ruscello si trasformò come lo avevano

visto la prima volta e, la roccia, dove vi erano seduti loro, diventò di

cristallo e dall'acqua azzurra come il cielo uscì una spada, che

illuminò i loro occhi, e apparve una signora, vestita di bianco con

capelli color oro, parlò ai ragazzi, rivolgendosi soprattutto a

Salvatore “tu Salvatore sei come mio figlio, oltre ad avere lo stesso

nome hai anche il suo carattere, tu non vuoi bene a Rosalina la vuoi

solo far soffrire, mio figlio Salvatore Stella creato da me è stato

cancellato dalle mie stesse mani, perché faceva soffrire la bella e

dolce Rosalina Luna, volevo punire solo lui ma lei decise di morire,

lui non meritava la vita di lei, così molti anni fa' diedi lui un altra

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opportunità di cambiare, sarebbe nato un altro bambino, nato da un

genitore umano cresciuto come tutti i bambini umani, poi quando

sarebbe giunto il momento gli avrei di nuovo fatto incontrare la sua

Rosalina, una ragazza più giovane e più bella di quella di prima, ma

ora, tu, hai di nuovo fatto lo stesso errore, non mi hai voluto

ascoltare, il tempo non ti ha cambiato per niente". Salvatore cercò di

scappare ma il passaggio che riportava in superficie si coprì di mille

spine aguzze, quindi rimase imprigionato.

Rosalina cercò di implorare perdono alla signora del lago, ma, essa

non volle ascoltare ragioni e questa volta lanciò la spada verso

Rosalina, Salvatore che capì cosa stava succedendo, gridando

Rosalina ti amo si mise a correre e si gettò davanti al suo corpo e la

spada trafisse entrambi, la signora bianca sparì nelle acque e, mentre

che il loro sangue finiva nelle azzurre acque del lago, apparve una

scritta" torneranno perché hanno imparato ad amare".

Tutti si dimenticarono di due ragazzi chiamati Salvatore e Rosalina ,

e la gente, che tramandava la storia ribattezzò il lago con il nome del

Ruscello dei Misteri.

Tanto tempo fa', in una valle vicino al monte Gransasso, vi era un

paesino sperduto di nome Cail con degli abitanti molto speciali...

speciali per una miniera d'oro trovata, non appena fuori dal paese,

presso un lago chiamato "il Lago dei Misteri".

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Ilaria Fiore

Celeste e la magica stella lucente

Le stelle non brillavano in quei giorni.

Celeste si rigirò triste nel letto. Il sogno, ecco il problema, il sogno

che non era ancora finito. Strano come il sole che non splendeva, non

brillava, non illuminava e svegliava tutti al mattino con la sua

meravigliosa luce. Buio inquieto, ecco dove si trovava e una stella le

parlò. Lucente come un diamante le disse “cosa vedono i miei occhi,

una ragazza dal volto rosa sfavillante, capelli corvini e occhi azzurri

come il mare…”. Celeste guardò la stella insospettita. In quel

momento un tintinnio la svegliò. Si alzò di scatto, l‟orologio segnava

le sette del mattino. Celeste era incredula, ripensò alla stella che

aveva visto nel sogno, e continuò a pensarla per tutto il giorno.

Anche la mamma se ne rese conto e le disse:

“Tesoro, cos‟è quella faccia stranita?”.

Celeste non riusciva a parlare, si sentiva strana “N… n… niente”

balbettò “tutto bene.”

La scuola, l‟incubo più rompiscatole. Celeste, distratta, continuava a

pensare a quel sogno e alla stella lucente. In classe la professoressa

Summer, che l‟aveva vista distratta, la richiamò. Il pomeriggio arrivò

a casa sfinita e crollò sul letto. Un altro sogno. Celeste vide la stella

inquieta che di nuovo le parlò:

“Celeste, ragazza incantevole, tu sei stata scelta per proteggere il

destino delle stelle e guidarle alla libertà”.

Celeste ebbe finalmente il coraggio di rispondere: “chi sei? Non

capisco!”

“Io sono Delia, la regina di tutte le stelle.” Rispose sorridente la

stella “ti donerò il loro potere.”

Una luce abbagliante travolse Celeste, rimasta a bocca aperta per lo

stupore. Si svegliò di colpo gridando. La madre accorse “Celeste,

cosa succede?” chiese ansiosa.

La ragazza era spaventata, non credeva di poter essere un‟eroina.

“Sto bene mamma!” La tranquillizzò.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 100 ~

“Celeste” rispose la madre seria “siediti, dobbiamo parlare. In questi

giorni ti comporti in modo strano, non fai che assumere facce stupite

o spaventate. Cosa ti prende?”

Celeste assentì, poi inventò una scusa “Ecco, io…ehm… sono molto

tesa per la verifica di martedì”.

La madre, non convinta, continuò“ ma oggi è mercoledì, hai tempo

per prepararti, tesoro!” Cercò di tranquillizzarla dandole un bacio

sulla guancia.

La notte Celeste fece un altro sogno, la stella gridò parole magiche

“potere della stella lucente!” E puntò le mani verso la ragazza.

Celeste si vide comparire indosso un vestito grazioso, abbagliante

come una stella. “Cosa mi stai facendo?” Chiese stupefatta.

La stella rispose: “pronuncia questa frase: potere dello scettro

stellare, vieni a me!”

Celeste obbedì: “potere dello scettro lucente, vieni a me!” E

magicamente, tra le mani, le comparve uno scettro. La stella le chiese

una promessa: “quando avrai bisogno di aiuto e dovrai invocare

l‟aiuto dello scettro, dirai queste parole, ok?”

Celeste disse: “neanche per sogno! Mi prendi in giro?”

Con un gesto della mano la stella fece ritornare normale i suoi abiti,

poi esclamò: “ripeti le parole!”. Celeste obbedì e si ritrasformò, poi

piagnucolò spaventata:“ok, ci credo!”.

“Vieni con me.” L‟incoraggiò la stella “ti condurrò al castello della

strega Lupa, che ha catturato le stelle!”

Celeste la seguì, molto stupita dai poteri della stella magica e

graziosa. Il castello era di un colore cupo che emanava tristezza e la

strega era molto potente e malvagia. Celeste aveva i brividi. La stella

le sussurrò: “Celeste, ragazza graziosa, non aver paura, la tristezza

non uccide. Aiuta le persone a superare gli ostacoli della propria vita

e poi a renderli felici!”

Celeste disse, sorridendo: “hai ragione, entriamo nel castello!”

La stella graziosa e la ragazza coraggiosa vi entrarono. Il castello era

lussuoso ma ornato di colori tristi. Alle pareti quadri di persone

cattive che mettevano brividi solo a guardarli. Una porta si spalancò

rumorosamente, la strega aveva gli occhi feroci, come un leone

affamato pronto ad azzannare la propria preda.

La strega gridò spietata e catturò la stella, poi chiuse la porta. La

spalancò di nuovo e disse:

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 101 ~

“Cara piccola Celeste, vediamo un po‟, se riuscirai a battermi,

libererò tutte le stelle, ma se perderai morirai con loro!”

Celeste sorpresa del proprio coraggio disse: “accetto la sfida!” Subito

dopo urlò con tutto il fiato che aveva in gola: “potere dello scettro

lucente, vieni a me!” In quello stesso istante iniziò a brillare proprio

come una stella. Sicura di sé Celeste gridò ancora più forte: “per il

potere della stella lucente! Ora ti distruggerò!”

In quell‟istante una luce brillante e potente travolse la strega che

stramazzò al suolo sconfitta. Celeste buttò giù la porta e liberò tutte

le stelle che le corsero incontro ringraziandola. Da quel giorno

Celeste diventò la Regina delle Stelle e le stelle tornarono al loro

posto. Ripresero a brillare e il mondo fu di nuovo felice.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 102 ~

Daniele Alberto Galliano

Soave e Rosabella

Tanto tanto tempo fa, c'era un grande reame, governato da un Re e

dalla sua Regina. Avevano questi sovrani due figlie, due gemelle, che

si chiamavano Rosabella e Violasoave, che tutti chiamavano Soave,

per fare prima.

Erano due splendide fanciulle, perché erano belle, affezionate ai loro

genitori e molto in gamba, e come spesso accade, anche se gemelle

non si assomigliavano, nè nell'aspetto, nè nel carattere.

Rosabella, alta e bionda, aveva il temperamento di un usignolo; così

che appena la mattina si svegliava, cominciava a cantare con una

voce dolcissima, così dolce che rendeva bello svegliarsi anche in

pieno inverno, quando si vorrebbe rimanere al calduccio sotto le

coperte.

Soave invece, era un po' più piccola, con morbidi capelli castani, e

non era proprio una canterina, anzi quasi non parlava neanche.

Preferiva ascoltare la sorella cantare così bene, che anche gli

uccellini si univano al suo canto. Soave invece era bravissima a

disegnare. Le bastava un pezzo di carta e una matita per fare disegni

così belli, che nessun artista di corte era in grado di eguagliare. E non

solo quello: qualsiasi cosa le capitasse per le mani poteva essere

usata per creare immagini meravigliose. Un giorno fece un disegno

con il gesso in strada, solo per divertire dei bimbi. La nuova scuola

fu costruita attorno a quel disegno, tanto era bello.

Se Soave tesseva un tappeto, era ammirato da tutti al punto che era

meglio appenderlo al muro, che metterlo sul pavimento; tanto

nessuno ci voleva camminare sopra, per paura di rovinarlo.

Insieme le due sorelle erano in grado di creare delle vere e proprie

storie, che disegnate da Soave e cantate da Rosabella, erano ancora

più belle della televisione, che comunque nessuno aveva ancora

inventato.

Inutile dire che il Re e la Regina erano felicissimi delle loro figlie,

senza fare differenze, perché erano entrambe brave, buone e

affettuose, ognuna a modo suo.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 103 ~

Si sa però che un reame richiede un sacco di lavoro, soprattutto uno

grande come quello; così il Re e la Regina spesso dovevano

allontanarsi dal castello e andare a occuparsi dei tanti affari.

Bisognava parlare con i contadini e amministrare la giustizia, gli

orchi dovevano essere controllati perché non facessero disordine in

giro, e soprattutto il confine a settentrione andava protetto, altrimenti

gli Orrendi Lupi del Nord potevano invadere il reame.

Quando il Re e la Regina erano via, i servitori si occupavano di

Soave e Rosabella, e questo faceva sentire un po' meno la mancanza

di Mamma e Papà: Rosabella cantava, anche se le sue note erano un

poco più tristi del solito, e Soave disegnava i ricordi più belli che

avevano dei loro cari genitori.

Una notte però, durante una di queste assenze dei sovrani, quando

Soave e Rosabella si stavano preparando per la nanna, si erano già

cambiate e lavate i denti, il Malvagio Vento del Nord, padre degli

Orrendi Lupi, decise di fare un dispetto agli abitanti del castello.

Credeva infatti che il Re e la Regina fossero lì, e voleva vendicarsi

per il trattamento subito dai suoi figli.

Cominciò allora a soffiare, e soffiare, e più soffiava più fiato gli

veniva, non come a noi, che dopo un po' abbiamo il fiatone.

Il vento soffiava così forte che le torri del castello si chinavano, e

sembrava che ogni pietra tremasse.

Al principio, Soave e Rosabella si guardarono preoccupate, ma il

castello era grande e forte, il camino era caldo, e le candele

cacciavano le ombre. A furia di soffiare però, il vento cominciò a

scoprire dove erano nascoste le fessure tra le pietre e dove i muri

erano più sottili, e soprattutto come entrare nei camini. E raccolte

tutte le forze, si buttò come una furia contro le torri del castello,

corse dentro i camini spegnendoli e portò via le fiamme alle candele;

quindi, nella più tetra oscurità, si mise a ululare come una furia,

terrorizzando tutti gli abitanti del castello.

Sole, al buio, Soave e Rosabella cominciarono ad avere paura.

Rosabella iniziò a piangere e a chiamare la Mamma; mentre Soave,

che già normalmente non parlava, si fece ancora più silenziosa,

tremava e si stringeva forte le mani. Le due povere ragazze erano

rimaste da sole nella loro stanza, e nessuno poteva raggiungerle,

perché il vento soffiava così forte che non lasciava aprire le porte.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 104 ~

Oltre tutto, nessuno aveva il coraggio di muoversi nel castello, che

era completamente al buio.

Il Malvagio Vento del Nord gridava cose terribili per spaventare tutti,

anche se non si era accorto che il Re e la Regina, con cui era tanto

arrabbiato, non erano neanche lì.

Piano piano le ragazze riuscirono a trovarsi anche al buio, e rimasero

vicine vicine ad ascoltare il vento ululare, abbracciandosi.

Passata l'arrabbiatura, il Malvagio Vento del Nord capì che ormai

doveva fare qualcosa o piantarla lì; e dato che non era ancora

soddisfatto, cominciò a cercare il Re e la Regina, per dir loro che

dovevano trattare meglio i suoi figli. Quando, dopo aver girato ogni

stanza del castello, si accorse che si trovavano altrove, si infuriò

ancora di più, e gridando e ululando cominciò a minacciare tutti gli

abitanti.

Rosabella era terrorizzata, chiamava la Mamma e piangeva a dirotto,

mentre Soave l'abbracciava e non sapeva come fare a farla smettere.

Finché ricordò una delle canzoni inventate da Rosabella, e ispirate a

un disegno, in cui Soave aveva ritratto la loro ultima festa di

Compleanno. Nel disegno si riconosceva che era estate, e un sole

caldo illuminava la festa, tenuta nel prato del castello. Il Re e la

Regina erano con loro, e si erano divertiti tantissimo.

Soave si fece coraggio, e provò a intonare la canzone. Certo,

all'inizio stentò un poco: difficilmente parlava, e non si era mai

provata a cantare, ma non appena Rosabella riconobbe la canzone si

unì alla sorella. A quel punto anche la voce di Soave prese coraggio,

e dopo poco un duetto si opponeva all'ululato del vento.

All'inizio il Malvagio Vento del Nord urlò ancora più forte, poi si

incuriosì di fronte alle due sorelle che gli cantavano contro, e

cominciò ad ascoltare la loro canzone.

A poco a poco ricordò quando, alla fine dell'estate, si limitava a

essere una brezza pungente, e accarezzava i grappoli d'uva sui filari,

e gli venne da sorridere. Cominciò anche a capire perché il Re e la

Regina non volevano che i suoi figli lupi calassero dal Nord.

Abbassò allora la voce e disse alle due sorelle, che non dovevano più

avere paura, ma che dovevano continuare a cantare. Non si sarebbe

mai più avventato contro il castello, però sarebbe tornato ancora per

ascoltare le loro canzoni. E questa volta avrebbe chiesto il permesso

ai loro genitori.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 105 ~

E così fu: gli Orrendi Lupi rimasero sempre buoni buoni nelle loro

foreste, e quando la stagione aveva bisogno di un po' di tempo

freddo, il Vento del Nord tornava al castello.

Soave e Rosabella allora cantavano per lui, che imparò anche a

leggere le storie nei disegni di Soave.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Chiara Giustiniani

I Sogni scomparsi

C‟era una volta una bambina che non sapeva sognare. Si impegnava,

si sforzava, ma davvero non vi riusciva.

Viveva in un mondo molto lontano da qui, dove sognare era molto

importante: infatti, attraverso i sogni tutte le persone che abitavano in

quelle lande avevano idee geniali, idee di quelle che normalmente

non sfiorano neanche le nostre menti.

Ma loro, nei sogni, vedevano chiaramente queste idee, da sfruttare

poi nelle giornate successive.

E lei non sognava.

Un giorno, la madre le disse:

“ Questo è un grande problema, piccola. Devi imparare a sognare,

oppure per te la vita sarà difficilissima!”

Ma per quanto sua figlia si sforzasse, non riusciva a sognare.

Finchè, un giorno, non incontrò il Grande Drago Blu.

Era andata nella foresta accanto al paese, a piangere dopo aver

litigato con la madre, quando vide una luce. Una luce azzurra, con

dei lampi che variavano dal turchese al verde acqua fino al blu più

profondo, ma fondamentalmente era una luce azzurra, e celeste.

Proveniva da una caverna, nascosta, e la bambina corse a vedere cosa

stava succedendo. E lì incontrò il Grande Drago Blu.

Certo, all‟inizio non conosceva il Grande Drago Blu, ma

educatamente lui si presentò. Fece un inchino, e la bambina salutò a

sua volta, stupita. Cosa voleva quell‟essere da lei? I sogni erano a

miglia da lei, quando lui chiese, sbrigativo:

“ Insomma, qual è il tuo desiderio più grande? Cosa vorresti con tutte

le tue forze? Qual è la cosa per la quale pagheresti qualunque

prezzo?”

E la bambina, senza pensare, senza neanche ricordare il suo

problema con i sogni, rispose:

“ Voglio essere ricca! Certo, è questo che desidero!”

E il Drago l‟accontentò. Lei uscì, con un sacco d‟oro sulle spalle,

tornando felice da sua madre.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 107 ~

Durante il viaggio, la bambina si rese conto dell‟errore. I sogni,

aveva bisogno dei sogni! Come aveva potuto dimenticarli? Come

aveva potuto chiedere dell‟oro che in un paio di anni sarebbe finito,

invece dei sogni? Era disperata.

Ma sua madre non l‟avrebbe rimproverata… No, non l‟aveva mai

fatto, di certo non l‟avrebbe rimproverata per aver desiderato

dell‟oro. Eppure si vergognava, era stata sciocca, molto sciocca…

Appena arrivata a casa, mostrò il contenuto della borsa alla madre.

La vista di tutto quell‟oro illuminò gli occhi di sua madre, e quindi a

mo di spiegazione la bambina le sussurrò, sorridendo:

“ Ho incontrato il Grande Drago Blu, in una caverna nella foresta.”

“Sapevo esistesse un Drago, nella foresta… ma credevo offrisse un

solo desiderio. Immagino avrai risolto il tuo… problema notturno,

no?” Sua madre era contenta, e la bambina non riuscì a dirle la verità.

No, non aveva risolto il problema dei sogni, ma… Come poteva

ammetterlo davanti alla madre?! Non ne ebbe il coraggio, e si

ripromise di tornare alla caverna, il giorno successivo.

Andò a letto. Dormì di un sonno agitato. E non sognò.

Il giorno successivo la madre le chiese:

“Allora, figlia mia, cosa hai sognato questa notte?” E la bambina

mentì. Inventò un sogno plausibile, che le era stato raccontato tempo

addietro, e la madre vi credette.

Quel giorno tornò nella foresta con una scusa. Non voleva rimanere

con la madre, e aveva il dovere di cercare il Grande Drago Blu.

Tornò doveva aveva visto la luce, ma il bosco era quieto e buio.

Nessuna luce. Allora andò verso il punto in cui credeva di aver visto

la caverna. Non ne era davvero sicura, ma voleva provare… Doveva

trovare il Grande Drago Blu e cambiare il suo desiderio prima che la

madre scoprisse l‟inganno.

Ma non trovò nessuna caverna. Cercò fino a sera, e rientrò a casa

distrutta. Cenò, ed andò a letto. Non sognò.

La mattina mentì ancora alla madre, e uscì a cercare il drago.

Ma non ottenne nessun risultato.

E così ancora per giorni e giorni.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 108 ~

Nicola Loreti

Una notte, mentre tornavo a casa a piedi, ho

sentito…

…Uno strano rumore che proveniva dalla finestra della mia

cameretta. Decisi di andare a dormire. Appena mi sdraiai sentii di

nuovo quello strano rumore, come un fruscio che aumentava sempre

di più. Ad un tratto la finestra si aprì di colpo e decisi di andarla a

chiudere. Da li vedevo: l‟erba che ballava a destra e sinistra, un

gruppo di foglie veniva verso di me, gli alberi che sembravano

prendere il volo e le persiane dell‟edificio accanto sbattevano

arrabbiate. Non avevo tanta paura perché la mia immaginazione mi

faceva pensare ad un fruscio non così agitato, pensi ad una mano di

un bambino che giocava alzando le foglie, con l‟erba, apriva e

chiudeva le persiane, spostava le soffici nuvole nel cielo scuro e

correva per tutto l‟edificio. Il suo rumore mi dava l‟idea al soffio del

bambino che si scaldava le mani: leggero, caldo, rumoroso, allegro e

talvolta agitato. Sorrisi pensando al bambino e sentii come una

carezza sulla pelle, forse era il bambino? Chi lo sa? Ma una cosa è

certa: non mi ha messo tanta paura, perché ammiravo tantissimo quel

magnifico paradiso naturale, creato dal figlio di madre natura. Decisi

di lasciarmi alle spalle quel magnifico amato, solo da me, e di

mettermi al letto per addormentarmi, sperando di rincontrarlo la sera

dopo.

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Alice Lupato

L‟aquila

Fino a poco tempo fa pensavo che sognare fosse un passatempo

molto sciocco. Ero terribilmente realista e non mi concedevo mai

voli con la fantasia, poiché sapevo, anzi credevo di sapere, che ciò

che immaginavo non sarebbe mai potuto diventare realtà.

Ho capito poco tempo fa che mi sbagliavo clamorosamente.

Sono qui per raccontarvi la mia storia:

Il mio nome è Ernesto Ferretti, ho 33 anni e lavoro per una delle più

importanti banche del paese.

Mi definisco una persona concreta e idealista e ne sono fiero, o

almeno lo ero finché un incontro non mi ha cambiato la vita… ma

procediamo con ordine.

Da bambino non aspiravo nemmeno lontanamente a fare carriera nel

mondo delle cifre e del denaro. Mi sembrava di una freddezza e

tristezza infinite.

La mia più grande passione erano i libri d‟avventure: li leggevo tutto

d‟un fiato e mi immedesimavo nei protagonisti. Sognavo per me un

futuro da audace pirata terrore dei Sette Mari o coraggioso cavaliere

pronto a morire pur di salvare la sua patria.

Sopra tutti questi sogni ce n‟era però uno che desideravo si avverasse

con più intensità: desideravo essere un‟aquila forte e dalle grandi ali,

per poter volare e perdermi nel blu del cielo. Mi affascinava il suo

essere allo stesso tempo rapace maestoso e temibile, capace di

ammaliare e di incutere timore, esperto nella caccia come nessun

altro.

Tutto cambiò quando un giorno commisi l‟errore di parlare delle mie

fantasie con mio padre. Si arrabbiò moltissimo e mi sgridò urlando

che era ora di smetterla con le sciocchezze e che dovevo pensare

seriamente al mio futuro per riuscire a guadagnarmi da vivere.

Tenevo molto alla stima di mio padre, e il suo discorso mi ferì

profondamente. Allora decisi che l‟avrei reso fiero di me, che avrei

chiuso in un cassetto tutti i miei sogni più belli, ripetendomi che

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~ 110 ~

l‟immaginazione non coincideva con la realtà. E lo ripetevo talmente

spesso che finii per convincermene davvero.

Studiai molto, completai con successo il corso di laurea e trovai

subito lavoro come consulente finanziario. La mia vita scorreva

sempre con lo stesso ritmo; i giorni si succedevano uguali e

monotoni, ma io mi crogiolavo in quella monotonia nella quale

pensavo di riconoscere la strada da seguire per raggiungere la

felicità.

Ma sebbene non volessi ammetterlo con me stesso, sapevo che non

era in quel modo che desideravo vivere.

Poi un giorno tutto cambiò.

Come tutte le mattine stavo andando al lavoro quando accadde

qualcosa di incredibile: il paesaggio intorno a me cambiò di colpo:

fuori dal finestrino del mio fuoristrada non vedevo più le grigie

strade della città ma prati verdi sconfinati, alte montagne con le cime

innevate e torrenti argentei.

Spensi il motore, scesi dalla macchina e appena chiusi la

portiera…l‟automobile svanì nel nulla.

Incuriosito cominciai a camminare per esplorare il posto. Un

momento dopo sobbalzai: qualcuno mi aveva messo la mano sulla

spalla! Mi voltai sorpreso e incuriosito. Dietro di me c‟era una donna

che mi fissava. Non era umana, di questo ero certo: aveva qualcosa

in più. Forse l‟aria solenne o il pallore etereo, la grazia nei

movimenti o lo sguardo profondo: tutto contribuiva a dare di lei una

sensazione di essere speciale.

Finalmente dopo un lungo silenzio la donna parlò. Aveva una voce

limpida e musicale, come solo…le fate possono avere. Sì, ne ero

certo, doveva essere per forza una fata.

Da piccolo avevo creduto nelle fate e nella magia, per poi crescere e

convincermi che non erano reali. Ora che avevo davanti lei capivo

che mi ero sbagliato. Non mi passò nemmeno per la mente che

potesse essere solo un sogno, cosa che di certo avrei pensato

normalmente. La fata era lì, reale, viva; e quando ci pensai mi accorsi

che aveva finito di parlare e io non avevo ascoltato una parola di ciò

che voleva dirmi, perso com‟ero nei miei pensieri. Imbarazzato tentai

di scusarmi, ma la fata mi bloccò prima che potessi proferire parola.

Con un gran sorriso mi disse: ”Capisco che tu abbia molti pensieri,

Ernesto, ma ora ti chiedo per favore di ascoltare ciò che ti devo dire”

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~ 111 ~

Tacque per un momento per vedere se aveva catturato la mia

attenzione. Stavolta ero pronto e la guardai, ansioso di sentire ancora

la sua voce cristallina.

“Ti ho fatto venire qui perché so che non sei felice, Ernesto. La vita

che ti sei costruito è perfetta, ma per qualcun altro. So, come sai

anche tu, che sei nato per volare alto. Ed è ciò che farai ora!” Senza

capire la sentii pronunciare parole misteriose, e ad un tratto

scomparve.

Restai lì fermo per un minuto o due, cercando una spiegazione a

quanto era accaduto, quando sentii che i miei piedi non toccavano

più la terra…guardai giù e vidi che il prato si stava allontanando da

me a velocità vorticosa! Mi trovavo adesso sopra un laghetto…ma

l‟immagine che vedevo riflessa non era la mia ma quella di un

uccello…ma sì, doveva essere proprio quello che

pensavo…un‟aquila! La fata mi aveva mutato in un‟aquila!

Ero felicissimo, finalmente il mio sogno più grande trovava

realizzazione! Volavo e volavo, fra le cime delle montagne e nel

cielo azzurro; potevo vedere il mondo che scorreva sotto di me.

Capii allora che tutto è possibile ed imparai a credere nella forza dei

sogni.

Mentre volteggiavo nel cielo ero finalmente libero di fantasticare.

Libero di essere felice.

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~ 112 ~

Pietro Malevolti

Un bambino arrabbiato e la sua zia

Sono qui, in classe, mentre la mia penna scrive sul foglio. Guardo

fuori dalla finestra: un manto bianco ricopre tutto il paesaggio: i

gloriosi alberi, austeri nella loro posizione, sono scossi dalle raffiche

e sembrano chiedere aiuto, mentre resistono nella bufera che

imperversa.

Un piccolo uccello giunge al suo nido, mentre la tempesta lo

sballotta in ogni dove. I sempreverdi, invece, resistono immobili,

mentre le verdi foglie spiccano sulla neve, ultime sopravvissute alla

tempesta. I ciuffi d‟erba combattono più di tutti, fino a che,

trionfanti, sbucano in superficie. Ma il gelo è un nemico pericoloso,

grosso serpente che porta distruzione. La baracca che è fuori, invece,

è distrutta e sopraffatta dal gelo.

Gli arbusti sono i più avvantaggiati ed i loro rami, deboli

all‟apparenza, si piegano, lasciando cadere la neve. Lì, i deboli non

sono deboli, ed i forti non sono forti, non conta la grandezza. La

vecchia stazione invece, con le finestre giallognole e le persiane

verdi, disposte ordinatamente, resiste seriamente anche se ogni tanto

il vento fa tremolare un poco il tetto.

Ad un tratto la bufera si intensifica. I mulinelli iniziano a girare come

tanti tornadi. Essi raccolgono moltissima neve e creano un grande

tappeto bianco, ricamato dal vento e dal gelo. Poi, come un bambino

che si addormenta, la tempesta si attenua. Ma il bambino continua a

bussare al vetro. Già, il vetro, un adulto che cerca di calmare il

bambino infuriato, ma non ce la fa; può solo proteggere le

formichine, cioè noi. Spinto da un‟energia incredibile il vento per un

secondo crea delle terribili folate, note, sotto la bacchetta del Grande

Maestro. Ma ecco che la nebbia diminuisce di volume. La scuola mi

ricorda Moby Dick che, inghiottendoci, ci protegge dai pericoli del

mare. Lo squalo sbuffa, si agita, ma Moby Dick non si lascia

mangiare. Mentre la natura, zia paziente, cerca di calmare la neve,

con pochi risultati. Essa corre, è un cane euforico, corre qua e là nel

mercato, fra le urla di venditori e i rumori delle pere sbattute. Le

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~ 113 ~

penne dei miei compagni scrivono. La mia esita, si ferma, poi riparte.

Le idee sono come i soldi, quando meno te lo aspetti ritrovi un euro

in tasca. Termino di scrivere sperando che la zia Natura riesca a

calmare il suo nipotino.

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Simona Mastrangeli

Angel of caos

“Il mondo, come lo conosciamo noi, non è che una mera illusione. Il mondo dei sogni, quella è la più bella delle illusioni di questo mondo…poi c‟è l‟amore, un incubo e un desiderio, la tentazione e la follia…” Mi sono sempre chiesto come mai, il mondo, visto dall‟alto appare

sempre così nitido. Alcune volte mi piacerebbe chiudere gli occhi e

percepire il mondo così come fanno gli uccelli e inspirare l‟aria,

profondamente, a pieni polmoni. Eppure oggi, sotto questo vento

autunnale le nuvole si fondono con il sole per dare un misto

d‟incanto che è il tramonto arancio che sa di dolce, quasi di miele.

Stendo le membra addormentate sull‟erba soffice e verde-giallastra

che invade la collina, tastandola con i polpastrelli per saggiarne la

morbidezza. Stupidamente sorrido, mentre la tramontana richiama i

sensi a risvegliarsi e a dedicare ancora un poco la mia attenzione al

paesaggio che muta, ma io pigramente, preferisco rilassarmi e donare

il mio corpo alla natura, senza soffermarmi sulla miriade di luci che

già so, tra un po‟ verranno accese sulle strade e sui viali, oscurando

la vista delle stelle con ancora più luce. Rido e d‟un tratto un

qualcosa di morbido e profumato sfiora la punta del mio naso un

poco all‟insù. “Sai che sei bellissimo quando dormi?” Una voce

scherzosa, ma calda e avvolgente penetra dolcemente nelle mie

orecchie, ma non ho mai avuto bisogno di aprire gli occhi per

distinguere le tonalità dei miei amici, specialmente quella di Raphael.

“Peccato che io non stia dormendo”, rispondo stiracchiandomi

assaporando quel fiore e tuffandomi con il naso al suo interno,

imitando un cagnolino. D‟un tratto mi sorprende Raph con la sua

gentilezza e mi stampa un candido bacio sulla fronte che sa di

mirtillo selvatico e ribes, frutti che, da quando lo conosco mi hanno

sempre fatto pensare a lui. Apro gli occhi, con quel mio sguardo

azzurro che doveva sembrargli instupidito, e inclino un po‟ la testa

per osservarlo mentre mi si china accanto, mettendosi anche lui

sull‟erba, a rotolare come un gatto domestico sul divano, tentando di

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~ 115 ~

prendere qualche farfalla, senza una vera intenzione. “Drake…” mi

giro sentendo mugugnare il mio nome, avvicinandomi a lui

emulando un soldato in trincea. Raphael si gira, assumendo una

posizione supina, che fa mimetizzare i suoi capelli blu notte con

l‟erba privata della luce del sole ormai scomparso ad ovest, dietro le

montagne. I suoi occhi sono come un pozzo di cui è impossibile

decifrare la profondità: ah quante volte sono rimasto intrappolato dai

suoi occhi senza alcuna possibilità di sfuggirgli. “…Oggi è il tuo

compleanno, esprimi un desiderio” mi lecco le labbra e mi avvicino a

lui, nel modo più suadente che conosco “dammi un bacio, mio angelo

tenebroso” lo provoco io, sperando davvero che mi si avvicini e mi

tenga stretto a sé, senza pensare a quell‟etica che da sempre ci divide

e che non ci farà mai stare insieme. “Che sei stupido!” Mi risponde

strattonandomi la testa all‟indietro, scherzosamente. Sorrido, non

voglio che sappia quanto lo desidero, né quanto per me

quest‟amicizia sia qualcosa di totalmente diverso. Prendo il fiore di

loto e scappo, verso casa, con il cuore che mi batte a mille, pronto ad

esplodere. “Ci vediamo domani, Raph” lui rimane lì, imbambolato e

mi guarda andare via, sollevando e agitando la mano. Anche domani

ci sarà.

Il fiore di loto, inspiro prima il suo odore, per poi metterlo in mezzo

a una pagina vuota del mio diario, mentre prendo la penna dalla

scrivania e inizio a scrivere, pensando a lui, una poesia di getto, che

già so dopo aver riletto donerò alle fiamme, affinché questo mio

sentimento, che arde con loro, possa essere spazzato via come cenere

al vento.

“ Come un ladro sei tu nell‟oscurità,ti aggiri per le strade celato dalla maschera della notte. E allora ruba i miei baci,strappa via i miei vestiti, togli alla Morte le tue sensuali carezze. Ti aspetto, veglio con la finestra aperta, nella speranza che un soffio di vento possa svelare la tua immagine avvolta dal nero più cupo, dal mistero più profondo. Prendimi, sono tuo, solo un piccolo passo ci separa, solo un battito di farfalla. E allora apri le tue ali, angelo corvino vola fin qui e strappa ancora da questo corpo mortale un tacito sospiro di piacere … ” Lo brucio, con una lacrima e un petalo di loto, perché mi da una

sensazione di calore e di unione fra me e lui. Ma il loto, che sopisce

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~ 116 ~

le passioni e dona oblio ai sensi, mi annebbia la vista, o forse sono le

mie lacrime infantili chissà… mi abbandono nel letto, sprofondando

la testa nel mio cuscino e sogno. Adoro sognare, è l‟unico posto dove

la mia fantasia non viene punita né giudicata, dove posso assaporare

la libertà…

“Essere legati o in trappola, dimmi, cos‟è meglio?” Un tintinnio

veloce si mischia al suono del mio respiro affannato, nel vuoto.

Vista, udito, olfatto, gusto, tatto, coscienza...si mischiano in un

onirico miraggio. Posso sentirlo, accanto a me, che mi accarezza i

capelli biondo grano, inebriandomi di ribes e mirtilli. Vuole una

risposta, ma non saprei cosa rispondergli. “Preferisco la libertà,

volare alto come un uccello e guardare la città che si perde e si

confonde sotto il mio sguardo” lo vedo sorridere dolcemente, con gli

occhi che hanno in sé la luminosità di una stella in un cielo notturno.

“Allora vieni con me” mi prende la mano, stringendola nella sua,

pallida e leggermente fredda. Non lo contraddico e assecondo i suoi

movimenti, perfino quando mi porta verso la finestra aperta, alla luce

della luna. Indossa un abito elegante composto di tunica di pregiata

seta color rosso borgogna lungo fin alle ginocchia. Bottoni argentati

e ricami sul colletto la impreziosiscono donandogli un aspetto

vagamente elegante. Pantaloni neri anch‟essi in seta e cinta in vita

completano il suo aspetto, che par composto e severo in netto

contrasto con il suo volto gentile. Dietro la schiena si aprono due

strane ali soffici e ampie del color della pece e del mistero, con

sfumature violacee,che compongono strane fantasie quando vibrano

all‟unisono. “Buon compleanno, Drake!” Mi sussurra all‟orecchio

strattonandomi di sotto. Spalanco gli occhi, tramortito, reggendomi a

lui che, straordinariamente, volteggia nell‟aria quasi volesse

adagiarsi su un letto immaginario, apre le ali lasciandole maestose e

belle aperte e sfiorate dal vento, due rapidi battiti dal basso all'alto

per velocizzare la sua discesa, in picchiata. Mentre i muscoli delle

sue ali vanno a tracciare archi perfetti nell'aria, io come un bambino

che guarda per la prima volta il mondo, con il cuore in gola che batte

all‟impazzata, apro le braccia, come a cercar quelle ali che ha lui e

che bastano a entrambi. Perché lui, l‟ho sempre saputo, è un angelo

del caos, sceso sulla terra per scombussolare la mia esistenza,

rendere la vita vera e mozzafiato, unica e spumeggiante come le

acque di un mare in tempesta che si dimenano turbolente. “Quella è

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~ 117 ~

casa tua!” Indico con enfasi andando a ricercare con i miei zaffiri i

suoi occhi d‟onice. “Sì” annuisce dando due colpi poderosi con i

muscoli delle ali per aumentare la velocità, dirigendosi verso la

collina laddove ci eravamo incontrati, oltrepassandola verso la

montagna, laddove crea uno strapiombo e si getta con la grazia di

una fanciulla nelle acque pacate e calme di un lago salmastro. Si

poggia delicatamente sulla scogliera, dove crea una piccola

insenatura al riparo dai venti e mi abbraccia, mentre la mia testa,

impazzita, non riesce più a comprendere ciò che ha intorno e

percepisce solo lui, il suo battere del cuore ritmico, il suo respiro

costante. Mi perdo tra le sue braccia possenti mentre la salsedine si

fonde con il ribes creando una strana fragranza assuefacente.

Istintivamente le mie labbra vanno a cercare le sue, scontrandosi in

un duello appassionato che hanno come premio due morbidi lembi

di carne sapor del miele, che schiudendosi, calde, svelano una lingua

umida che si dimena come un serpente sinuoso in un bosco di querce.

“Drake, è un battito di farfalla quello che ci separa, una piccola ma

incolmabile distanza” asserisce malinconico staccandosi da me, ma

tenendomi sempre accanto al suo corpo scultoreo che in questo

momento più che in ogni altro mi sembra come fatto di un liscio

marmo pregiato. “Sai una cosa Raph? Mi piace essere una farfalla,

essere come lei e annullare con le mie ali quello spazio che mi

allontana da te” sorride, accarezzandomi la fronte e perdendosi le

mani fra i miei capelli biondi, circuendomi le ciocche più lunghe con

le dita affusolate. “Può anche essere bello, ma ricorda che le farfalle

non vivono che un giorno” il tono della sua voce è freddo,

immutabile e piatto, è il mio piuttosto che varia prendendo degli

acuti che mai avrei pensato di raggiungere. “Cercherò di farmi

bastare quel poco tempo che ho per stare con te!” Rispondo e senza

indugiarci troppo, cerco nuovamente la sua bocca accogliente,

mentre percepisco gradualmente la sua figura dissolversi e

abbandonare i miei sogni.

“Drake, forza svegliati, stamattina mi avevi detto che saremmo

andati al lago!” Mi sveglio di soprassalto, ritrovandomi Raphael,

vestito in un modo stravagante per assomigliare a chissà quale

pescatore, che mi scuote violentemente cercandomi di tirare giù dal

letto. Io, madido di sudore, lo guardo sconvolto e violentato perché

mi ha strappato da quel bellissimo sogno in cui potevo sentirmi

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~ 118 ~

libero davvero di esprimere ciò sento e provo per lui. Ora di quel suo

aspetto onirico da cacciatore suadente non ha più nulla, ma il suo

fascino permane, anche con quei calzoncini marroni un po‟ troppo

corti. Gli sorrido e mi alzo, soffermandomi un po‟, indugiando sugli

occhi e perdendomi come fa l‟acquamarina in una landa buia.

Riuscirò mai ad uscire da questo incredibile sogno che mi imprigiona

e mi libera allo stesso tempo?

Spero vivamente di no, perché perdere il mio desiderio per lui

equivarrebbe a perdere la mia vitalità. E non cercherò di cambiare il

nostro rapporto, non l‟ho mai preteso. Raphael, mi basta averti

accanto…

Uscendo non mi accorsi di aver lasciato la finestra aperta…un timido

soffio di vento vi entrò disperdendo nell‟aria cenere di carta bruciata,

fiore di loto e una piuma corvina…

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Matteo Mongardi

Il mistero del cavolo cappuccio

Tutto è cominciato così: era una bella mattina d‟estate e stavo

lavorando tranquillo quando ….

Ah!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Dimenticavo di presentarmi: io sono Mat la

carota investigatrice e vivo in via dell‟orto al numero 16 nella

pianura del Grande Minestrone.

Allora stavo dicendo che mentre lavoravo è arrivata la melanzana-

polizia e mi ha avvisato che il famoso ladro cavolo cappuccio, quello

che ha derubato la banca più ricca della pianura, è evaso dalla

prigione.

Subito mi misi a lavorare su quel caso e a cercare indizi, trovai infatti

un biglietto che diceva dove abitava il nonno del cavolo cappuccio.

Così andai subito a trovarlo, ma lui non c‟era e sulla porta trovai un

biglietto su cui era scritto che era andato a trovare suo nipote.

Purtroppo non c‟era scritto dove.

Allora chiesi al vicino di casa il signor pomodoro se sapeva dov‟era

andato il nonno e lui mi riferì che si era recato a Patu, un paese

vicino alla Sagra dell‟Agricoltura.

Così andai di nuovo in casa del nonno del cavolo cappuccio e frugai

nei cassetti e trovai un altro indizio: un costume da pomodoro con

un‟etichetta con le iniziali del figlio.

Così lo riferii alla melanzana-polizia che cominciò a controllare un

paio di pomodori sospetti, ma non erano loro.

Quindi mentre la melanzana-polizia cercava altri pomodori da

controllare, io andai a fare altre indagini.

Passeggiando in via pomodori annusai una puzza inconfondibile e

sotto quella nuvola di puzza mi accorsi che c‟erano dei cetriolini,

allora scoprii che il cavolo cappuccio mangiava i cetriolini …….

Mi venne un‟illuminazione e mi ricordai che alla Sagra

dell‟Agricoltura ci sarebbe stato il grande raduno dei cetriolini.

Così andai subito alla Sagra dell‟Agricoltura dove trovai in prima fila

uno strano pomodoro odoroso di puzza molto sospetta.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 120 ~

Mi avvicinai e non era odore di violetta, ma l‟inconfondibile puzza di

cavolo cappuccio.

Allora lo catturai e lo consegnai alla melanzana polizia.

Finalmente il caso era risolto.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 121 ~

Letizia Pagani

Un cane come eroe

C‟era una volta un cucciolo randagio. Assomigliava ad un San

Bernardo, ma non lo era.

Nessuno lo voleva ed intanto cresceva e diventava grande.

Un giorno incontrò un bambino che lo prese con sé e lo portò a casa.

Il bimbo si chiamava Leo e non aveva amici perché tutti pensavano

che fosse un po‟ imbranato.

Era così indeciso, che non trovava nemmeno un nome per il cane.

Intanto, in paese, si era sparsa la voce di un uomo cattivo che entrava

di notte a rubare nelle case.

Una volta, quando era già buio, Leo sentì dei rumori strani provenire

dalla casa dei vicini…ma i vicini erano in montagna!

Aveva molta paura, ma insieme al suo cane decise di andare a

vedere.

La porta dei vicini era socchiusa.

All‟interno videro un uomo incappucciato che riempiva un grosso

sacco: era il ladro!

Il cane gli si avventò contro e lo schiacciò con il suo peso, mentre

Leo chiamava la polizia.

Arrestato il ladro, il bambino accarezzò il testone dell‟animale e gli

disse: “Ho deciso che ti chiamerò Supercane!”

Da allora Leo e Supercane divennero ancora più inseparabili.

Erano gli eroi del paese e tutti i bambini volevano fare amicizia con

loro.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 122 ~

Rita Ruccione

Le sette perle magiche

C‟era una volta un regno, e c‟erano un re, una regina, e la loro

bellissima figlia, la principessa Aurora. La vita in quel regno

scorreva felice, come il fiume che lo attraversava, il popolo, i servi di

corte, i giovani, i vecchi, tutti erano contenti di vivere in un posto

così bello. La gioia si fece più grande quando il re e la regina

annunciarono che la loro figlia sarebbe andata in sposa al principe

Mattino, un ragazzo bello, coraggioso e leale. Ma quando arrivò il

giorno delle nozze il crudele e avido Malus, da sempre innamorato

della principessa, attuò il suo piano malvagio: con un sortilegio fece

addormentare Aurora, la rapì e la portò via con sè. La notizia

addolorò tutti e gettò nella disperazione il principe Mattino. Il

giovane si precipitò dalla maga di corte e la donna gli rivelò che

avrebbe trovato Malus alla fine del bosco, nella fortezza che sorgeva

al centro del Lago Rosso. Il bosco era un labirinto infinito di sentieri

ignoti, oscurato da una vegetazione fittissima. Il principe non si perse

d‟animo e vi si addentrò lo stesso; camminò a lungo fra gli alberi

tutti uguali, ma alla fine si smarrì, si trovò senza vie d‟uscita e fu sul

punto di arrendersi, quando sentì delle voci rompere il silenzio. Due

balordi si stavano prendendo gioco di un vecchio: il saggio del

bosco. Il principe si lanciò subito in suo soccorso e mise in fuga i due

uomini. Il saggio lo ringraziò e gli domandò cosa l‟ avesse spinto a

inoltrarsi in un posto così buio. Il principe gli raccontò della sua

principessa rapita e gli chiese quale strada seguire per arrivare a

Malus. “Non conosco la tua strada – disse il saggio –ma posso darti

questa scatola, ti aiuterà a trovarlo, conservala con cura, non buttarla

via, dentro ci sono sette perle magiche che ti indicheranno la giusta

direzione e ti difenderanno ogni volta che ne avrai bisogno.

Amministrale con saggezza, sono solo sette, e ti devono bastare per

sempre.” Il principe Mattino si inchinò al saggio, lo ringraziò e si

mise in viaggio. Mentre camminava una musica dolce destò la sua

attenzione, alzò lo sguardo e scorse, seduta sui rami di una grande

quercia, una fanciulla bellissima che suonava l‟arpa. Alla vista del

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 123 ~

principe la ragazza smise di suonare, lui la pregò di continuare e lei

gli promise che l‟avrebbe fatto solo in cambio della scatola. Stregato

da quella creatura il principe accettò la proposta, ma, afferrata la

scatola con le sette perle magiche, la bella suonatrice scappò via, lui

la inseguì invano fino a perdersi nuovamente finché, vinto dalla

stanchezza e dallo sconforto, si addormentò vicino ad un ruscello.

Durante la notte gli apparve in sonno il saggio del bosco. Il vecchio

lo guardò negli occhi e disse: “Il bosco è un posto pericoloso, hai

camminato, ma sei tornato al punto di partenza, non hai saputo

mantenere la tua strada e difenderla dalle insidie. La creatura

bellissima che hai incontrato è Malìa, la dea della tentazione, è lei

che ti ha sottratto la scatola, ma sappi che nelle sue mani il contenuto

di quella scatola è solo polvere. Adesso la risposta alla tua

disperazione è alla fine di questo ruscello.” Il principe si svegliò e

subito si mise a camminare lungo la riva del ruscello; il corso

d‟acqua tagliava il bosco e terminava la sua corsa davanti ad un

villaggio di squallide spelonche, tra queste riconobbe la casa di

Malìa, perché aveva un‟arpa davanti alla porta d‟ ingresso. Non ci fu

bisogno di bussare, la porta si aprì con un fastidioso cigolio,

rivelando la più orrida delle streghe al posto della creatura bellissima

che l‟aveva incantato. Con gesto rabbioso e senza pronunciare parole

la donna scaraventò ai suoi piedi la scatola piena di polvere, lui la

raccolse e vide Malìa sparire dietro la porta, e la polvere trasformarsi

nelle sette perle. Il principe chiese alla prima perla di diventare un

cavallo alato, che in un attimo lo condusse fuori dal bosco. Fuori dal

bosco gli si presentò un‟ orribile visione: il Lago Rosso con al centro

la fortezza di Malus avvolta dal fumo e dalla nebbia e circondata da

settecento guardie armate fino ai denti. Aprì la scatola e prese la

seconda perla che in un baleno si trasformò in una spada vibrante

nell‟aria e pronta alla battaglia. Con quell‟arma invincibile il principe

attraversò la lingua di terra che collegava la riva del lago alla

fortezza, lottò e sconfisse le guardie del male, tentò di entrare nella

fortezza, ma il perfido Malus dall‟alto stava lanciando palle di fuoco

e serpenti avvelenati. Allora tirò fuori la terza perla, che divenne uno

scudo magico, capace di respingere l‟ attacco e in un baleno il

principe fu davanti a Malus in un serrato corpo a corpo. Nello

scontro Malus cadde dalla torre e morì. Il principe salì sulla torre più

alta, dove la principessa era imprigionata dietro mille catenacci, aprì

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~ 124 ~

la scatola e la quarta perla si trasformò in una chiave a cui nessuna

catena resistette. La principessa Aurora era finalmente libera,

abbracciò il suo principe che aprì per l‟ultima volta la scatola. La

quinta perla si trasformò in una carrozza che portò i due innamorati a

casa, nel loro castello. Si organizzò una grande festa per le nozze e

così la principessa Aurora e il principe Mattino vissero felici e

contenti, con dentro la scatola ancora due perle: quelle del loro

amore, che li avrebbero protetti e avrebbero indicato loro la giusta

direzione ogni volta che ce ne fosse stato bisogno.

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~ 125 ~

Claudia Scoppa

Un colpo di fortuna Sono Claudia, una bambina di quasi undici anni e vi voglio

raccontare una mia avventura.

Quel giorno ero nella mia cameretta e cercavo di finire la montagna

di compiti che le professoresse mi avevano assegnato per le vacanze

natalizie.

Il tempo era lo stesso da una settimana: capriccioso.

Le nuvole si lamentavano continuamente con tuoni e spesso si

mettevano a piangere facendo cadere al suolo grossi goccioloni che

si moltiplicavano e precipitavano sempre più velocemente e

violentemente.

Non poteva certo mancare quel fastidioso vento gelido che riusciva a

far muovere tutti i pini che erano davanti casa mia e per il quale

succedevano cose pericolose. Un ramo del fragile salice piangente

era caduto sulla strada proprio in quel momento.

Il ticchettio della pioggia e il rumore dei tuoni mi distraevano dal

materiale che dovevo completare, anche essendo studiosa, quello non

era certo il giorno ideale per concentrarmi sui compiti da fare.

Proprio quando mi era venuta l„idea per cominciare il tema a piacere

che la professoressa mi aveva assegnato, il telefono squillò e mi fece

dimenticare tutto.

Era mia nonna Carolina che mi chiedeva di andare con lei al cimitero

per fare una visitina ai parenti defunti.

Accettai con piacere: era proprio quello che aspettavo per

interrompere lo studio.

Dopo qualche momento di festeggiamento chiamai Dalila, la mia

miglior amica, e la invitai a farci compagnia.

Ci incontrammo tutte e tre davanti al cimitero.

Dopo qualche saluto entrammo in silenzio e ci dirigemmo verso la

tomba dei miei bisnonni. Lasciammo mia nonna a sistemare i fiori e

ci allontanammo per andare a salutare zia Carmela, una delle mie zie

preferite, morta da poco.

Prima di arrivarci notammo un‟altra tomba: accanto c‟era un buco.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 126 ~

Ci avvicinammo e proprio mentre Dalila si sporgeva per guardare, un

colpo di quel fastidiosissimo vento gelido la fece cadere dentro il

fosso. Senza pensarci troppo mi buttai anch‟io per aiutarla.

Mi ritrovai in un vortice arancione che mi fece precipitare su uno

squallido sentiero.

Davanti a noi si stagliava un orrido castello tenebroso.

Era circondato da un fossato di acqua sporchissima con melma

verdastra sulla superficie.

Il colore dell‟edificio era viola e aveva la torre più alta tutta storta.

C‟erano anche due torri laterali storte come la prima e su di esse

volavano tanti pipistrelli.

Il portone d‟entrata era di legno con la maniglia rotta ed era tutto

pieno di schegge.

Io, non so perché, insistetti per entrare nonostante le proteste di

Dalila.

L‟interno era peggiore dell‟esterno.

C‟erano ragnatele e scheletri ovunque, era tutto orrido e le scale

avevano la ringhiera fatta con sbarre di ferro, fin qui tutto normale,

ma notai che il corrimano era in realtà un SERPENTE!

Nella luce fioca di piccole candele si sentirono dei passi che si

avvicinavano a noi: ERA UN VAMPIRO!

Aveva capelli a pazzo, denti appuntiti che sporgevano fuori dalla

bocca da cui colava sangue e le sue mani protese verso di noi

avevano unghie lunghissime come artigli di un leone.

Faceva davvero paura e ghignava avvicinandosi a me e a Dalila.

Siete curiosi di sapere cosa accadde dopo? Se siamo riuscite a

scappare o se invece siamo finite nelle grinfie del vampiro?

La risposta è: “CHI LO SA!”

Vorrei saperlo anch‟io, ma mi sono ritrovata davanti al mio

quaderno.

Avevo sognato tutto!

Il bello è che dopo il sogno, ho saputo cosa scrivere nel tema che è

diventato un bel testo su un tremendo vampiro (cioè ho riportato ciò

che avevo sognato): è stato un colpo di fortuna.

Sapete cosa vi dico? Vorrei sognare anche i risultati dei calcoli e la

soluzione dei problemi di geometria ma so che chiedo troppo!

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~ 127 ~

Giorgia Silverii

Freddy e la capra Gelsomina

Tanto tempo fa, in una piccola fattoria viveva un asino di nome

Freddy .

Freddy era un ciuchino come tanti altri, aveva in più il dono della

pazienza ed era meno testardo degli altri muli.

Tutti i giorni era costretto a camminare per ore e ore su in montagna

trasportando sulla sua povera schiena terribili pesi.

La padrona, la signora Teodora era una donna scorbutica, cattiva e

trattava male tutti gli animali della sua fattoria, non li curava a

dovere e con loro era sempre gelita e poco gentile.

Il più fortunato se così si può dire era proprio Freddy. Teodora lo

trattava meglio degli altri; lo nutriva di più, qualche volta gli parlava

e lo strigliava quasi tutti i giorni.

La capra Gelsomina che aveva capito che la padrona sfruttava il suo

amico Freddy un giorno gli disse “Freddy amico mio, apri gli occhi,

non ti fidare della padrona lei è un‟arpia è cattiva con tutti a te ti

tratta bene solo perché tu lavori come un “somaro” per lei ma in

realtà non ti vuole bene come tu pensi”.

Freddy però non voleva credergli, anzi credeva che Gelsomina era

invidiosa come tutti gli altri animali e continuava a lavorare senza

risparmiarsi pur di far felice la padrona.

Freddy ogni giorno scendeva dalla montagna con cestoni di pietre

sulla schiena e non capiva cosa la signora Teodora ci facesse.

La Padrona lavava le pietre e poi andava in città, il più delle volte

tornava felice alla fattoria altre arrabbiata nera e se la prendeva con

tutti.

Una mattina la padrona caricò Freddy più che mai con il peso delle

pietre, all‟improvviso mentre scendeva dalla montagna Freddy

inciampò e cadendo, si fece male ad una zampa.

La padrona sembrava impazzita cominciò ad urlargli contro “brutto

somaro imbranato guarda cosa hai combinato, sei uno stupido

incapace”.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 128 ~

Freddy rimase scioccato dal comportamento della donna la quale si

preoccupava solo delle pietre e non della sua zampa ferita.

In quel momento ripensò alle parole di Gelsomina e capì, che quello

che la capra sospettava era tutto vero.

La donna non si arrese caricò di nuovo tutte le pietre sulla schiena

del povero somaro ferito e lo costrinse con il bastone a camminare

fino a casa.

Freddy la notte stette malissimo, Gelsomina gli restò accanto, lo

assistette e gli fece coraggio.

Al mattino arrivò alla fattoria il veterinario, la capra senti parlare la

padrona con il veterinario che disse “se domani mattina l‟asino non si

alza bisogna abbatterlo; ora dagli le medicine e lascialo riposare.”

La donna era infuriata, entro nella stalla e minacciò il povero

ciuchino dicendo “domani alzati altrimenti come farò a prendere le

pietre d‟oro, per colpa tua non diventerò mai ricca, se domani non

ricominci a lavorare ti assicuro che non lo farai mai più perchè mi

libererò per sempre di te”.

A quelle parole a Freddy si ghiacciò il sangue; era disperato.

Chiamò Gelsomina gli raccontò quello che era successo e anche la

capra raccontò all‟asinello quello che aveva sentito così insieme

organizzarono la loro fuga.

Gelsomina entrò in casa della padrona, prese le medicine, del cibo,

vide sul tavolo le famose pietre d‟oro le prese e le mise in un

sacchetto.

La padrona non si accorse di nulla perché era andata in città a fare

provviste.

La capra fasciò la ben stretta la zampa di Freddy, gli fece prendere le

medicine poi legò una corda al collo del somarello e tirò forte per

farlo alzare. “Forsa Freddy, devi farcela, dobbiamo scappare questa

notte perché l‟arpia non c‟è”.

Freddy rivolgendosi a Gelsomina gli disse :” Perdonami amica mia,

perdonami perché non ti ho creduto, tu sei buona e una cara

compagna, ti ringrazio dal profondo del mio cuore” Commossa la

capra risponde…..”si, si siamo veri amici, però ti prego, ora

scappiamo, però prima liberiamo tutti gli animali”.

La capra aprì il recinto a tutti gli animali della fattoria e li incoraggiò

a scappare.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 129 ~

Camminarono tutta la notte, si fermarono solo per prendere le

medicine e per riposarsi un po‟ poi di nuovo in cammino , erano

intenzionati ad andare molto lontano, non sapevano dove,

l‟importante era andare lontano e dimenticare la padrona.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 130 ~

Greta Silverii

Spiccio e la nuova famiglia

C‟era una volta in un grande bosco di querce, Spiccio un simpatico

riccio dal faccino allegro e dagli occhietti vispi.

Una mattina Spiccio stava andando a trovare i suoi amici: lo

scoiattolo Aldo, la tartaruga Geltrude, il coniglio Fiocco e il gufo

Tito.

Quando arrivò vide gli animali in preda al panico cosa era successo?

Era scomparsa Geltrude. Ma no no sarà andata a passeggio pensò

Spiccio. No, no era scomparsa. Aveva depositato 4 uova molto

tempo fa poi si era allontanata per trovare cibo e non era più tornata.

“Presto cerchiamola” disse il gufo preoccupato per le uova perché

tra breve si sarebbero schiuse e i piccoli avrebbero avuto bisogno

della loro mamma.

Tutti gli animali del bosco cercarono la tartaruga da tutte le parti ma

non c‟era traccia di lei.

Un picchio riferì di aver visto degli uomini con in mano una

tartaruga. Poverina era stata catturata ed ora come faremo con i

piccoli.

Spiccio allora molto agitato disse: “Dobbiamo allevarli noi fino a

quando non saranno autonomi. Altrimenti rischieranno di morire”.

Così tutti insieme andarono nella tana della tartaruga misero le 4

uova al caldo e a turno fecero la guardia.

Una notte si sentì uno scricchiolio, Spiccio cominciò ad urlare:

“venite le uova si stanno schiudendo.”

Gli animali erano agitati, Spiccio si avvicinò e vide per primo 5

tartarughini uscire dal guscio: “siete molto carini benvenuti” i

piccoli risposero “mamma” “no no io sono un riccio mi chiamo

Spiccio non sono vostra madre, io sono Tito e sono un gufo io sono

fiocco e sono un coniglio e io aldo lo scoiattolo”. “E noi chi siamo?”

“Voi siete i piccoli di tartaruga e la vostra mamma è stata catturata

ma non preoccupatevi penseremo noi a voi fino a quando vostra

madre non tornerà.”

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 131 ~

Intanto la povera tartaruga Geltrude preoccupata per i piccoli

cercava di scappare ma i bambini che l‟avevano catturata la

riprendevano sempre; non erano cattivi anzi la trattavano bene ma la

tartaruga rivoleva la libertà ma soprattutto voleva rivedere i sui

piccoli. Intanto i piccoli crescevano erano felici con quella strana famiglia.

Spiccio per loro era la mamma, che gli insegnava tante cose nuove

I piccoli si comportano sempre più come ricci perché imitavano

Spiccio in tutto.

Erano veramente una strana famiglia un riccio faceva da mamma, per

zii avevano un coniglio un gufo e uno scoiattolo.Venivano un po‟

derisi dagli altri animali ma a loro non importava erano felici così.

Quando Geltrude fu liberata era felicissima; finalmente poteva

tornare dai suoi cuccioli.

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~ 132 ~

Stefano Silverii

La grande barriera

C‟era una volta nel Mar Rosso una bellissima barriera corallina

abitata da magnifici pesci variopinti gialli, neri, rossi a righe e dalle

forme più svariate e originali.

Un giorno mentre i pesciolini della barriera nuotavano spensierati,

improvvisamente arrivò un barracuda. Era terribile, grandissimo,

nero da far paura, con tantissimi denti taglienti. I poveri pesci

spaventati a morte nuotavano all‟impazzata cercando riparo, ma il

grosso pesce in un sol boccone ne divorò tanti e, incurante, distrusse

molti coralli.

Due piccoli pesci pagliacci di nome Flic e Floc si erano nascosti

sotto un grosso masso, erano terrorizzati dalla paura tanto da non

respirare. Finalmente dopo aver seminato il terrore il barracuda sazio

se ne andò e i due pesciolini ancora tremanti uscirono dal

nascondiglio.

Erano disperati perché non trovavano più i genitori, gli amici e la

loro casa era stata completamente distrutta.

Un delfino di nome Perla che passava da quelle parti sente il pianto

disperato dei pesciolini “perché piangete, cosa vi è successo?” I due

raccontarono la terribile avventura e il delfino decise di aiutarli a

dare un bella lezione al malvagio barracuda.

Il giorno dopo Flic e Floc riuniscono tutti i pesciolini sopravvissuti e

li incoraggiano a reagire dicendo loro che i delfini li avrebbero

aiutati a liberarsi da quel terribile “mostro”.

Arrivarono dodici magnifici delfini chiamati da Perla e arrivò anche

la grande tartaruga Geltrude.

Era una tartaruga molto saggia di circa novant‟anni, aveva esperienza

perché nella sua vita ne aveva visti di pesci malvagi e senza scrupolo,

anzi uno di loro l‟aveva ferita storpiandole una zampa quando era più

giovane ed ora era ben felice di aiutare i pesciolini a liberarsi di un

pesce tanto crudele.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 133 ~

Così tutti insieme decisero la strategia migliore per catturare il

barracuda; presero una grossa rete da pescatore che era adagiata sul

fondo, e la usarono contro il pesce.

Erano pronti con il piano, i delfini si nascosero dietro la grande

roccia con la rete stretta tra i denti mentre Flic, Floc e la tartaruga

facevano da esca.

All‟improvviso si vide spuntare il barracuda che vide i pesciolini e

disse” finalmente oggi posso far colazione, vi mangerò tutti e con la

tua corazza mi ci faccio un bel dondolo”.

“Vieni se hai coraggio” disse Gertrude, che cerca insieme ai

pesciolini di spingerlo vicino alla roccia.

I delfini gettano la rete sul barracuda e lo catturano. Più si dimenava

e più restava impigliato; nessuno accorse alle sue urla, anzi ci fu

Filippo lo squalo che arrivò chiamato da Perla per far colazione con

il barracuda.

Filippo era uno squalo buono, ma sempre uno squalo e gradiva molto

mangiare i pescioloni cattivi ed aiutare così i suoi amici.

Finalmente nella barriera tornò la serenità grazie all‟aiuto dei delfini,

di Geltrude e di Filippo.

Flic e Floc ritrovarono la famiglia, la tartaruga restò a vivere nella

barriera e i delfini promisero di tornare presto a trovarli.

Grazie agli amici la barriera tornò ad essere un paradiso tranquillo e

felice.

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~ 134 ~

Federica Soldani

Il cagnolino Luca e il disordine

Luca era un cagnolino che amava tanto l‟ordine. Se vedeva un

oggetto in disordine non ci pensava mai due volte e lo metteva subito

a posto. A scuola non aveva molti amici e spesso il pomeriggio

faceva i compiti con sua sorella Susanna e Paola, una cagnolina sua

compagna. Un bel giorno tornando a casa Luca confidò a sua sorella

di essersi innamorato di Paola: “ Susanna mi potresti dare qualche

consiglio? Sai, vorrei riuscire a farmi notare un po‟ da Paola..” Ma

la piccola Susanna non sapeva bene che dire: –“sai Luca, io non sono

mai stata innamorata, ma sono tanto felice per te!”

Luca si fece triste “che peccato, non so proprio che fare: mi dovrò

dimenticare di lei, credo”. Ma poi decise di non darsi subito per

vinto ed il giorno dopo a scuola si avvicinò alla cagnolina facendo un

po‟ di allegre feste intorno a lei. Ma Paola lo lasciò senza parole:

“Luca mi dispiace, ma non voglio fidanzarmi con uno ordinato come

te”. “ Perchè? Che c‟è di male se sono ordinato? Non puoi rifiutarmi

solo per questo...” Provò ad insistere Luca. Ma Paola appariva

proprio decisa: “ecco, voglio ricordarti l‟ultima volta che sono

venuta a casa tua a fare i compiti, mi sono seduta sulla tua sedia e ho

posato i miei libri su alcuni tuoi disegni. Qualche disegno è caduto e

tu ti sei arrabiato così tanto con me che mi hai fatto piangere” Luca si

affrettò a tranquillizzarla: “ Paola prometto che non succederà più!“

Ma lei non volle proprio cambiare idea: “no grazie, non ti credo,

preferisco lasciare stare, “ e così dicendo se ne andò scodinzolando,

lasciando Luca con le lacrime agli occhi.

Quel pomeriggio mentre Luca stava facendo merenda da solo in

cucina, sentì una vocina che lo chiamava: “ Luca, Luca guardami,

sono qui, sul tuo fazzoletto.” “ E tu chi sei? “ Domandò Luca con la

voce roca di pianto. “ Sono Gina, la coccinella. Sai ho sentito la tua

storia e voglio proprio aiutarti a conquistare la tua cagnolina” “Oh

sì, mi piacerebbe tanto” sospirò Luca: “ma come farai?” “Lo dovrai

fare tu, da solo, io ti darò solo qualche consiglio. Per prima cosa

devo dirti che l‟ordine non è la cosa più importante del mondo. Se tu

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 135 ~

sai che a Paola non piace questa tua fissazione per l‟ordine, forse

potresti permetterti di essere meno ordinato e cercare di non

arrabbiarti se qualcuno mette in disordine le tue cose. Ma la cosa più

importante che voglio dirti è un‟altra: nessuno ti ha mai detto che

l‟amore non è mai ordinato? Che la vita è fatta di cose belle e cose

brutte? Cose ordinate e cose non ordinate? Non dimenticarlo e

soprattutto non arrenderti. Corri da Paola e invitala a casa tua, parlale

e spiegale come stanno le cose. Metti la tua stanza in disordine e falle

capire che la cosa più importante per te non è l‟ordine ma l‟amore

che provi per lei. Io adesso ti devo lasciare, ma non dimenticare i

miei consigli e ora vai! E se poi dovessi avere ancora bisogno di me

sarà sufficiente che tu mi chiami ed io arriverò”.

Luca non perse un attimo di tempo e corse da Paola, la invitò in

camera sua e fece tutto quello che la piccola coccinella gli aveva

suggerito. Paola capì subito, e felice diede un‟opportunità a Luca. Da

quel giorno Luca e Paola vissero contenti insieme nel disordine più

totale.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 136 ~

Valentina Zacchi

La prima Banshee Questa storia, tanto antica quanto veritiera, appartiene alle Ere del

mondo e a quanti l‟hanno di stagione in stagione tramandata affinché

anche noi possiamo a nostra volta trasmetterla alle generazioni

future.

Si narra che nelle miti brughiere dell‟isola di Eire vivesse un giovane

di bell‟aspetto e di cuore gentile, a cui era stata promessa in sposa

una giovane donna di nome Eileen. Era questa fra le più belle

creature dell‟isola: lunghi e corvini capelli incorniciavano il volto

sottile e occhi color delle selve brillavano di una luce vivace e

gentile, propria delle creature di nobile indole.

In occasione delle nozze settanta furono i musici invitati per allietare

il già lieto evento.

Settanta furono i doni per i promessi sposi, settanta le damigelle della

giovane e bella Eileen, settanta le varietà di fiori con cui venne

decorato il giardino, settanta, infine, i fiori ricamati con fili d‟argento

che ornavano la veste della sposa.

Era tale veste una semplice tunica d‟un bel verde intenso, che la

madre della sposa aveva impreziosito con cura e dedizione, lieta

all‟idea che la figlia convolasse a nozze con un giovane di tale

rinomata bontà e virtù: famosi erano nella regione, difatti, i racconti

che lo vedevano generoso benefattore e grande combattente. Finian il

Giusto era il suo nome.

La vigilia del lieto giorno venne: il giardino della modesta casa di

Eileen brillava nella quiete della sera, rischiarato da voli di fate e

piccole lanterne di gnomi, che portarono in dono settanta perle di

mare, così da omaggiare la bellezza della giovane sposa. Odore di

fiori e salsedine danzava nell‟aria, accompagnato dalle note dei

musici che accordavano i loro strumenti.

La vigilia del lieto giorno venne: ma quando già le ombre avevano

ammantato le coste, e lasciato soltanto flebili luci lontane a tremolare

su scogli distanti, suoni di corni annunciarono che una guerra lontana

aveva cominciato a mietere vittime come tenere spighe di Maggio, e

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 137 ~

per evitare tale scempio ogni uomo in armi ed in giusta età per

battersi avrebbe dovuto imbarcarsi col sorgere del nuovo sole, e

partire.

A lungo si disperò la bella Eileen dai capelli color della notte, a

lungo si disperarono le settanta damigelle, le madri ed i padri, poiché

valoroso era Finian il Giusto, e si sarebbe imbarcato.

Il giovane uomo che tutto avrebbe voluto, fuorché partire, col cuore

piccolo come un granello di sabbia chiese di poter salutare la sua

promessa sposa, di poterla vedere una volta ancora prima di prendere

il mare.

”Attendi “ la implorò stringendole le mani “ settanta giorni e settanta

notti attendi, e se al settantunesimo ancora non avrò fatto ritorno,

potrai scambiare la tua promessa d‟amore eterno con chi vorrai”.

Disse ciò, e partì.

La giovane Eileen, sorda ad ogni voce se non a quella della promessa

silenziosamente fatta, sedette sulla scogliera, e lì si mise ad

aspettarlo.

Aspettava cantando le lodi del suo sposo che presto sarebbe stato di

ritorno a casa.

Aspettava, e pettinava i suoi lunghi capelli con le mani, affinché il

giovane Finian la trovasse più bella che mai.

“ A te un accordo propongo, mare che tutto divori “ aveva cantato

nel vento la ragazza, affacciandosi oltre il bordo della scogliera.

“ Ogni giorno un fiore d‟argento dalla mia tunica scucirò, e ogni

giorno te ne farò dono.

In cambio del ritorno del mio amato, settanta rose d‟argento regalerò

ai tuoi flutti, così che ancor di più brillino di morbido splendore

quando la pallida luna sulle tue onde si specchia, tingendole di luce e

d‟argento “.

La giovane sedette ancora, vestita del suo abito da sposa, e con

minuzia mantenne la promessa: ogni giorno, al tramonto, un lungo

filo d‟argento cadeva fra i flutti, scomparendo alla vista.

Ogni giorno la madre, il padre e le damigelle le portarono acqua e

vivande, supplicandola di far ritorno alla propria dimora, e ogni

giorno la giovane Eileen rifiutava.

Avrebbe atteso il ritorno del suo promesso sposo.

Trascorse dunque un giorno.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 138 ~

Ella cantò le lodi del suo sposo, ella pettinò i lunghi capelli lucidi e

neri come le piume d‟un corvo, ella, infine, lasciò cadere il suo

tributo al mare fra le onde.

Trascorse un altro giorno, e poi un altro ancora.

La giovane non parlava, se non per cantare, non si muoveva, se non

per pettinarsi e rinnovare la promessa fatta al grande mare.

Sempre più grandi diventavano i suoi occhi color delle selve d‟estate,

sempre più magro il volto, sempre più evidenti le ossa sotto la pelle

che sopportava il freddo della notte e piogge abbondanti che

frustavano la scogliera.

Passò un altro giorno, poi un altro ancora.

Ancora la giovane non parlava, se non per cantare, e non si muoveva,

se non per pettinarsi e rinnovare la promessa fatta al grande mare.

Lontano, il fuoco di navi incendiate illuminava lo sguardo della

ragazza, che si tormentava nell‟animo pregando per il lesto ritorno

dell‟uomo amato.

Passarono altri cinque giorni e cinque notti, che divennero dieci, poi

venti, cinquanta, ed infine settanta.

Un unico fiore era rimasto sulla tunica ormai sgualcita della giovane

sposa, che non aveva più voce per cantare e forza per pettinare i

capelli, divenuti tetri ed arruffati.

Lento danzava al ritmo del vento l‟ultimo filo d‟argento, scucito con

cura dalla logora veste non più d‟un verde brillante, ma spento, come

quello riflesso negli occhi della promessa sposa.

L‟ultimo filo tentennò un poco fra le mani della ragazza,

risplendendo nella luce di un rosso sole morente, poi si arrese e

cadde: onde gentili lo accolsero, portandolo lontano.

Passò la notte.

A mattina correvano le settanta damigelle in direzione del

promontorio per annunciare alla dama sventurata l‟infausta notizia: il

mare aveva riportato al porto la barca su cui Finian il Giusto faceva

ritorno, ma, lambita dalle fiamme, era infine affondata a breve

distanza dalla terra ferma. Nessuno si era salvato.

Questo volevano annunciare alla dama le settanta damigelle, ma sulla

scogliera non la trovarono.

Nessuno seppe mai quale fosse stata la sorte della promessa sposa

Eileen: il corpo non fu ritrovato, e lei non fece mai ritorno.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 139 ~

Ma da allora, il tempo ne serbi memoria, una spettrale figura si

aggira per le brughiere e le colline verdeggianti, solitaria e disperata:

una giovane vestita d‟una lunga tunica verde e logora, dagli scuri

capelli arruffati, e gli occhi resi rossi dal troppo pianto.

La si sente cantare tristi vicende d‟amore e di morte, e spergiuri al

mare, che inganna e tradisce, e alle onde, che hanno accolto il suo

corpo e quello dell‟amato senza poterli riunire in vita, e neppure in

morte, poiché nessuno ha mai dato sepoltura alle sue membra sfinite

dalla fame e dall‟attesa.

Non è casuale la sua comparsa: si mostra, difatti, ogni volta che un

uomo innamorato sia prossimo ad incontrare la Morte, vagando

senza pace fra colline e brughiere ed annunciando l‟imminente

sciagura.

Così nacque la prima Banshee.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 140 ~

Maria Debora Zucca

Il viaggio della Camicia

C‟era una volta una antica camicia, ormai riposta da tempo, dentro

un grande armadio. Si dice avesse fatto due guerre e chi l‟aveva

portata fosse diventato un grande eroe della storia.

La camicia era di quelle belle, con tanti bottoni piccoli e grandi, un

importante colletto e sul davanti tante nobili pieghe. Ormai aveva

fatto il suo tempo, per cui non poteva più essere indossata, gialla

come era! Ma il suo proprietario la custodiva assai bene dentro una

scatola profumata, ben piegata e con un piccolo sacchetto di fiori

secchi, per la precisione rose, che sviluppavano un aroma e un

profumo delizioso.

Un bel giorno, capitò qualcosa, la scatola venne aperta, e la camicia

usci dalla sua piccola dimora, qualcuno non faceva altro che ripetere:

“E‟ proprio quello che stavo cercando!! Andrà benissimo, la

riporterò al più presto!”

La camicia doveva dunque allontanarsi per un periodo di tempo dalla

sua scatola, questo era molto preoccupante: “ e adesso, dove mi

porteranno adesso? Io non sono molto abituata a spostarmi, ho già

una bella età cosa vorranno queste persone? Il colletto non tardò a

farsi sentire: - Hai mai sentito parlare del Carnevale?”

“Carnevale? Cosa sarebbe dunque questo? Io voglio solo tornare a

casa!!”

“Non devi preoccuparti” gli disse il colletto “è una festa in cui tutte

le persone si trasformano in qualcun altro, e per questo hanno

bisogno di abiti strani, diversi, antichi!”

“ Come? Io non sono diversa e neanche strana, sono una nobilissima

camicia, seppur antica certo!”

“Vedi? E‟ proprio questo che cercano! Qualcosa di antico e che

ormai non si usa più!”

“Ma che fanno poi con questi abiti? Li indossano, e poi?”

“E poi cara mia, si và alle feste! Hai presente, champagne, bibite,

musica da sballo e ore piccole?”

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 141 ~

“Caro colletto tu sai troppe cose che io non so, come è possibile che

tu abbia già fatto tale esperienza e io no?”

“Devi sapere mia cara, che io ho qualche anno più di te, e quando

nacqui la mia residenza era ben altra. In una rissa mi salvai solo io,

avessi visto le maniche! Solo brandelli!! Quindi una massaia vide

bene di darmi una possibilità, e così nacque questa nostra

comunione!”

“Capisco! La tua esperienza caro colletto spero ci aiuti ad affrontare

questa avventura!”

La camicia venne finalmente indossata, l‟accompagnava un bel paio

di pantaloni in panno nero, grossi stivaloni neri e una bella mantella

rossa, con tanti ornamenti in oro! Almeno la compagnia sembrava

piacevole, dovevano avere pressappoco la sua età, o giù di lì, e anche

loro fortunatamente profumavano a parte un piccolo corsetto che

arrivò in ritardo alla vestizione.

“Scusatemi per il ritardo!“ Fece il corsetto.

“Da dove arrivi ? Le chiese la mantella”.

“Sono stato per circa tre ore in un sacchetto, a momenti mi mancava

l‟aria, sono felice di esserne uscito!” Rispose il corsetto.

“Ma perché hai questo brutto odore?” Le chiese il colletto.

“Non parlatemene!! è la mia padrona che si ostina a farmi stare in

compagnia di quattro palline bianche, antipatiche e brutte, ho provato

a scacciarle ma loro anche dopo che si consumano ritornano e più di

prima!” Disse il corsetto.

“Andiamo bene per la serata!!” Disse la camicia “io sono un

soggetto allergico e tollero solo petali di rosa, speriamo che questo

Carnevale non duri tanto!!”

“Ma su! Forza” disse la mantella “non avete ancora capito? Siamo ad

un importante concorso, c‟è da vincere un premio, se abbiamo

pazienza, potremo essere noi i vincitori!”

“Concorso? Ma di cosa parli?” Disse il colletto.

“Caro colletto sembravi un colletto di mondo, ma vedo che ti sfugge

qualcosa! Hai visto lassù in alto chi c‟è?” Le disse la mantella.

“No!” Le rispose il colletto.

“E‟ un tale, si chiama colbacco. Era un importante copricapo dei

soldati russi!”

“Oh mamma mia! Alla mia età un‟altra guerra?” Si disperò la

camicia.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 142 ~

“Ma no! Questa è un‟occasione speciale, noi siamo qui testimoniare,

come il grande soldato russo vestiva!” Le rispose la mantella.

La serata durò un intera notte, e alla fine il soldato russo tornò a casa

con un magnifico premio. La camicia che aveva fatto la sua grande

figura, fu molto felice di fare un bagno rinfrescante, che profumava

di menta, dopo aver viaggiato in una comoda borsa morbida,

riconobbe l‟uscio della sua scatola. Venne piegata, e per il grande

ritorno a casa il suo proprietario le fece trovare dei freschi petali

profumati di rosa.

“Allora cara amica, era da tanto che non avevamo queste

soddisfazioni!” Le disse il colletto.

“Caro colletto, devo ammettere che nonostante il frastuono e le ore

piccole, anche se a me sembravano non passassero più, la serata è

stata bellissima. Ho persino ricevuto dei complimenti, stavo per

arrossire!”

“Oh si, ho visto che sei arrossita!” Le disse il colletto.

“Ma no! Quello era un buon bicchiere di vino rosso che mi

corteggiava, e alla fine c‟è l‟ha fatta a starmi addosso tutta la

serata!” Rispose la camicia.

“Sono comunque felice di essere ritornato! Ho più di cento anni e

non sono un collettino, queste occasioni sono indimenticabili, ma ti

lasciano molta stanchezza addosso!” Annuì il colletto.

“Avremo molto tempo per riposare d‟ora in avanti, chissà quando si

ricorderanno nuovamente di noi!” Fece la camicia.

“Un anno precisamente!” Disse il colletto.

“Perché?” Chiese la camicia.

“Perché tra un anno esatto e nuovamente carnevale, e ci aspetta un

altro viaggio!” Rispose il colletto.

La camicia però era talmente stanca che ormai dormiva, e il colletto

pensò bene di fargli compagnia.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Le Storie

di IoRacconto Junior

Fantascienza

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 145 ~

Ferruccio Peruzzi

Vivo per un capello

Henry si stava nutrendo. Le mani grassottelle si appoggiavano con

sicurezza alla base dell‟enorme albero unto, mentre la bocca

filiforme continuava a ingurgitare il denso succo rossastro che usciva

dalle radici della pianta. Quando il piccolo ebbe finito, poi, si leccò le

labbra: la madre gli aveva insegnato che i frutti della natura non

andavano sprecati, e così ad Henry piaceva divorare tutto il nettare,

invece di patir la fame come gli altri. Anche a questo particolare era

dovuta la sua obesità: a meno di due giorni era già quasi grande come

un adulto (di solito, almeno tre ce ne volevano), ma ad Henry non

dispiaceva: di solito erano gli esemplari più grandi a diventare capi.

Per ora l‟unica cosa che riusciva ad ottenere dal suo lardo erano

prese in giro da parte dei suoi coetanei.

Leccò il liquido vermiglio ancora una volta, poi un rumore sordo lo

distolse da i suoi famelici pensieri. “Ecco” pensò “sono di nuovo in

compagnia di un Alligrettown...” come se i suoi pensieri gli si

fossero materializzati davanti, un gigantesco essere bianco-rosastro

dotato di cinque tentacoli oscurò il cielo. Henry si preparò a saltare.

Doveva farlo al momento giusto, altrimenti l‟animale lo avrebbe

visto: i suoi genitori l‟avevano messo in guardia, riguardo a questo.

L‟Alligrettown si avvicinò con fare grottesco, fino ad essergli

vicinissimo. Poi Henry saltò, mettendosi in salvo. L‟ultima cosa che

il piccolo vide del mostro prima di atterrare nella giungla furono i

suoi tentacoli, dotati di un arpione trasparente sulla cima, che

sfregavano furiosamente sul terreno proprio dove un attimo prima si

trovava lui.

“Sta sentendo il mio odore”, pensò Henry “devo sbrigarmi”.

Corse con tutte le sue forze attraverso la foresta, le mani agili che si

aggrappavano saldamente agli alberi per proiettarlo in avanti e

ripetere la stessa operazione con altri tronchi. Una volta che fu sicuro

di aver messo una buona distanza tra lui e l‟essere, il piccolo si

fermò, ansimando ancora per lo spavento. Era salvo per un pelo:

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 146 ~

c‟erano stati casi in cui alcuni membri della sua colonia erano stati

dilaniati da un Alliggrettown.

Quando si fu ripreso, Henry si avviò a balzelloni stanchi verso la sua

tribù, pronto a riabbracciare la madre e il padre. Lentamente, man

mano che si avvicinava al villaggio, l‟ambiente attorno a lui

cominciò a mutare, e gli alberi si tinsero di bianco. Erano infatti

ricoperti dalle uova tribali, ovvero quelle che i membri della tribù

deponevano e che attaccavano agli alberi tramite un liquido

vischioso. Ed era proprio di queste piccole sferette bianche che gli

Alliggrettawn si nutrivano: infatti le sfilavano dagli alberi utilizzando

gli artigli sensoriali sulla cima dei tentacoli, tornandosene poi in

cielo, dove nessuno li vedeva più per un po‟.

Finalmente il piccolo giunse in vista dell‟agglomerato di palafitte che

congiungevano gli alberi unti: contento, li raggiunse a corsa,

dirigendosi subito verso casa. L‟abitazione di Henry non era enorme,

ma era confortevole. E poi, a lui bastava la famiglia, per essere

felice.

Quando Henry spalancò la porta, Puier, il suo tardigrado, subito gli

balzò addosso, inzuppandolo con la sua bava molliccia. “Piano, Pu!”

esclamò contento mentre l‟essere, simile ad una gelatina molliccia,

gli si sfregava sui piedi. Ma ecco giungere anche la madre e il padre,

seguiti poi dai ventotto fratelli. “Eh si”, pensò Henry prima di andare

a dormire: “sono davvero fortunato”. Ma egli ancora non sapeva cosa

lo aspettava...

Furono le grida e l‟odore nauseante a svegliarlo. Di solito il profumo

d‟unto copriva ogni cosa, ma stavolta era diverso. Henry si mise a

sedere sul comodo giaciglio di pellicine prodotte dagli arpioni degli

Alliggrettown, poi, colto da un dubbio atroce, sbirciò fuori dalla

finestra: ciò che vide fu sufficiente a spaventarlo per due vite e

mezzo. L‟intera superficie del villaggio era ricoperta di una sostanza

bianchiccia e uniforme da cui proveniva l‟odore che l‟aveva

svegliato.

Schiuma. Era proprio la schiuma, infatti, ad aver causato milioni di

morti e ad aver sterminato intere tribù.

Il suo veleno altamente tossico ti prendeva dentro e ti uccideva

lentamente. Senza contare poi la Macchimorte. Veniva così chiamato

uno strano arnese volante il cui unico scopo era quello di sterminare

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 147 ~

più gente possibile: era composto da sottilissime lame di un materiale

sconosciuto.

Una leggenda del villaggio di Henry raccontava che l‟essere fosse

stato avvistato mentre passava tra gli alberi unti raccogliendo tra le

lamine tutti i poveretti che tentavano la fuga.

Poteva fare ciò solo grazie alla schiuma, che li indeboliva e li

rendeva appiccicosi.

Henry decise che non sarebbe rimasto un secondo in quel luogo, così

prese la via della finestra e saltò. Ad attenderlo fuori c‟erano

millimetri e millimetri di schiuma, così che il piccolo vi sprofondò

fino alle ginocchia. Poi si mise a correre, mentre altri uscivano dalle

case in preda al panico. In breve tempo, la tranquilla cittadina di

Lobo Occipitale si era trasformata in un brulicare di disperati che

tentavano di saltare da tutte le parti. C‟erano le madri che cercavano

di salvare più uova possibili, le ninfe (gli esemplari più giovani) che

correvano piangendo e gli adulti che saltavano terrorizzati.

Solo Henry non si lasciò prendere dal panico.

Guardò freddo il mondo che gli scorreva davanti al rallentatore, con

un‟unica frase che gli turbinava nella mente: salvati!

E così fece. Corse, saltando da albero ad albero. Sentiva le grida

strazianti dei suoi concittadini ed il sibilo insaziabile della

Macchimorte, mentre l‟acqua ingoiava ogni cosa, per lavare via ogni

traccia dell‟esistenza della sua città natale. Di solito Henry non aveva

paura dell‟acqua, ma se questa era accompagnata dalla schiuma,

allora incuteva davvero terrore. Lembi biancastri cominciarono a

volteggiargli attorno mentre sfere d‟acqua grosse come alberi gli

piombavano addosso. Ma lui non demorse: non sarebbe mai morto, o

almeno, non ora che rappresentava l‟unica speranza di salvezza della

specie. Ci fu un sibilo metallico, e poi la Macchimorte gli piombò

davanti. Le sue antenne sensoriali si irrigidirono per lo spavento:

l‟orrendo essere puntava dritto verso di lui, e lo avrebbe preso se

Henry non avesse avuto la prontezza di saltare su un albero un po‟

più floscio degli altri e utilizzarlo come trampolino per spiccare un

lunghissimo

balzo. Ormai aveva gli occhi annebbiati. Vedeva scorrere davanti a

lui lo spettacolo più orrido che avesse mai visto e non poteva fare

niente per fermarlo: lui poteva solo salvarsi la vita. Poi, mentre i

sensi lo trascinavano lentamente nel torpore e nell‟incoscienza,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 148 ~

Henry vide il suolo avvicinarsi a velocità incredibile. Quando si

svegliò, orribilmente ferito e contuso, il suo primo pensiero fu “sono

vivo”. Il secondo che formulò invece fu: “si, ma a quale prezzo”.

Henry si guardò: era sporco di schiuma dappertutto, nonché ricoperto

d‟acqua. Qualche zampa mancava, mentre altre erano spezzate.

Un‟antenna si era rotto durante l‟atterraggio di testa, e il suo corpo

certo non andava meglio: ad Henry sembrava che gli avessero

infilato in gola un tizzone ardente che gli stava bruciando lentamente

tutti i nervi.

Il piccolo non se ne curò, e così, ignorando ogni dolore, si alzò in

piedi e si arrampicò su un albero. Ci mise molto per via delle zampe

mancanti. Poi Henry si sforzò e produsse un singolo uovo: una sola

sferetta bianca che avrebbe però assicurato la sopravvivenza della

specie. Ora Henry il pidocchio poteva morire tranquillo, così smise

di resistere al dolore lancinante che lo attanagliava e svenne.

EPILOGO:

Quando Henry il pidocchio si svegliò, si trovava in una città del tutto simile alla sua, tranne per il fatto che la gente che gli passava davanti non era quella di Lobo Occipitale. Avevano tutti però un qualcosa di familiare. Il pidocchio rimase sorpreso quando, tentando di muoversi, scoprì che più niente gli faceva male. Così si alzò. Un pidocchietto che gli stava davanti lo vide,strabuzzò gli occhi, lo guardò e si mise a gridare. A breve, Henry fu circondato dalla folla, e tutto fu caos finché l‟esemplare più grosso (quasi obeso, a dirla tutta) non si fece avanti. Gli spiegò che tutta la città era stata costruita dai figli di quell‟unico uovo deposto su un piccoloalbero, e che grazie a lui la specie era stata tratta in salvo. Henry scoprì poi di trovarsi nella città di Nuca, luogo dove si era catapultato con la forza della disperazione. Dopo anni (ovvero mezza giornata) l‟insetto, ormai anziano, fu infestato agli acari, viscidi animali succhiasangue che vivevano nelle teste dei pidocchi e scatenavano astrusi pruriti. “Che esseri schifosi” pensò quel giorno Henry il pidocchio “quale altra creatura immonda potrebbe mai vivere sulla testa di qualcun altro?” Desidero dedicare questa storia ad Henry, che mi saltò in testa insieme all‟idea che mi ha indotto a scrivere questo racconto.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 149 ~

Le Storie

di IoRacconto Junior

Gialli – Horror - Polizieschi

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 150 ~

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 151 ~

Carlo Castagna

Noslon

ovvero

La risata allo specchio

Sebbene possa parere a un occhio non aperto alle idee, un

avvenimento contrario ad ogni logica, la mia esperienza può essere

considerata reale quanto la vostra presenza davanti a me, e una

narrazione dei fatti potrebbe sconvolgere le menti e traumatizzare i

cuori; perciò tenterò di mettervene al corrente omettendo le parti che

potrebbero terrorizzare le vostre persone.

Due settimane fa mi recai in Cornovaglia a far visita al mio amico

Leshar, proprietario di un maniero che regnava su di un altopiano, al

fine di porgergli le mie condoglianze, in quanto aveva perduto la

moglie da poche settimane. Contavo di trattenermi da lui pochi

giorni, giusto per consolarlo quanto bastava senza disturbarlo troppo.

Vi ero arrivato in carrozza da Bristol e, giungendovi la sera, potei

osservare l‟ombra tetra del castello che non si distingueva dalla

sagoma della rupe su cui era abbarbicato. Da quel punto si poteva

abbracciare con lo sguardo la Manica e l‟Atlantico, dal pianoro che

svettava su un mare scuro e tenebroso.

La fortezza, scarsamente edificata sul lato ovest, rivolto al mare, ma

grandemente innalzata sul fianco opposto con un complesso

architettonico che, visto da lontano, si sarebbe considerato sorretto in

modo irregolare e instabile, era sormontata da un torrione alto e

dritto come un fuso con due finestrelle scintillanti di una luce pallida,

le uniche illuminate dall‟interno in tutta la struttura. Codeste

parevano gli occhi maligni di un corvo appollaiato su quel picco di

nuda roccia, eccezion fatta per una secca brughiera che attraversava

l‟istmo congiungente la rocca con l‟entroterra.

Al mio sopraggiungere venni accolto da Leshar che mi tirò dentro

alla magione quasi a forza, e dedussi che la causa fosse l‟imminente

arrivo del temporale; tuttavia il mio amico non si limitò a farmi

entrare nell‟edificio, ma mi trascinò fin nel torrione dove si era

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~ 152 ~

appostato per scorgermi arrivare. Solo quando ebbe chiuso a doppia

mandata la porta di un‟angusta stanzetta, scarsamente illuminata, mi

si rivolse con un tono confidenziale, ma tremolante e insicuro.

“Compagno, fidato Noslon, averti qui mi rende una grande

consolazione. Averti amico nel bisogno dimostra quanto leale e

onesto sei! Ormai sei uno dei pochi individui che mi rimangono

vicini. Ho perso tutto a questo punto, possiedo solo il castello, di cui

mi sento prigioniero…”

Turbato, gli domandai il motivo di quell‟affermazione, ma, con

l‟espressione di chi si è lasciato sfuggire un particolare rilevante, egli

cambiò repentinamente discorso, invitandomi a raggiungerlo per la

cena appena mi fossi sistemato nella stanza degli ospiti.

Organizzatomi nella residenza, mi diressi lungo il corridoio in cui la

mia camera era posta al fondo, e trovai facilmente la sala da pranzo,

in quanto lungo la via non incontrai diramazioni né usci, ma solo una

porta mimetizzata con il muro (tuttavia ben visibile) senza pomello o

serratura.

Al pasto il mio anfitrione ed io discorremmo degli eventi che si

succedettero nei diciotto mesi in cui non avevamo avuto contatti;

scoprii così che Leshar spendeva periodicamente montagne di denaro

per ristrutturare o abbellire grandiosamente la magione, se non per

arricchirne il mobilio con pezzi d‟epoca ricercati da ogni

collezionista. Tutto questo senza rischiare minimamente di esaurire il

suo patrimonio ricavato dalle proprietà latifondiste.

“Sono riuscito, di recente,”- ammise lui, -“ad appropriarmi di un

cimelio, uno specchio, che acquistai ad un‟asta in Galles, dove mi

ero recato per piacere, dalle parti di Cardiff; apparteneva, per quanto

sono riuscito a scoprire, a un signorotto della regione che era

deceduto pochi mesi prima senza lasciare eredi, cosicché i suoi averi

divennero proprietà demaniali”.

Detto questo il mio commensale iniziò a illustrare le qualità estetiche

del mobile, perdendosi nel discorso; avevo quasi l‟impressione che

parlasse da solo. Il sottoscritto, in quanto collezionista e interessato a

qualsiasi forma d‟arte, cercò di convincere il suo interlocutore a

mostrargli l‟oggetto del suo e, soprattutto, del mio interesse.

A questa richiesta Leshar mutò la sua espressione, s‟incupì, e mi

negò, comunque cordialmente, la possibilità di ammirare il cimelio di

cui aveva fino a quel momento parlato con tanta lode.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 153 ~

Concluso il pasto, lasciai il mio amico ad occuparsi di alcune

questioni con la servitù, mentre mi avviavo alla mia camera. Lungo il

corridoio l‟unica illuminazione presente era la presenza (si può quasi

dire rada) di torce che rischiaravano debolmente l‟ambiente;

fortunatamente Leshar mi aveva munito di un candelabro che mi

permetteva di distinguere solo un breve tratto di percorso davanti a

me.

Giunsi poi al punto in cui si situava la porta a muro che,

curiosamente, trovai aperta. Pensai che uno dei domestici vi si fosse

recato; volli approfittare di quell‟occasione per chiedergli una mappa

della residenza, al fin di non perdermi durante le mie passeggiate

mattutine.

Entrai quindi nella stanzetta che credetti essere uno sgabuzzino, ma

la luce del candeliere nelle mie mani mi mostrò solo il mio riflesso

nello specchio.

L‟oggetto era finemente decorato di rubini coronati di polvere d‟oro;

la forma ellittica lo faceva parere affusolato e leggiadro.

Era bello, ma di un bello puro e maestoso, tanto che la mia immagine

riflessa mi sembrava fuori posto, sminuendo il fascino di quell‟opera

d‟arte. Proprio per poter osservare l‟oggetto senza avere davanti il

mio viso che, in confronto, mi pareva un abominio, mi spostai e volli

ammirare lo specchio di traverso.

Fatto un passo, mi accorsi che la mia figura non si spostava,

rimaneva immobile, in piedi, dall‟altra parte del vetro. Potei solo

notare il moto degli occhi che mi seguivano, il sorriso beffardo e

sadico che si allargava, le labbra che si dividevano a mostrare la

dentatura, la bocca che si schiudeva con un movimento armonico e

l‟intero corpo che sussultava ripetutamente. Mi pareva di sentire ora

il perfido sogghigno, frutto di una degenerata fantasia maligna, in un

crescendo di perversità fino a coprire persino il mio urlo di terrore.

Il panico generato dal non poter percepire la mia voce mi fece

precipitare fuori dall‟angusta stanzetta e correre all‟impazzata lungo

il corridoio, non importava in quale direzione, per allontanare il più

possibile quel raccapricciante suono, fino a cancellarne anche il

ricordo.

La risata non se ne andava. Si era impossessata dei miei timpani.

Non sentivo i miei passi angosciati sul tappeto, o il mio grido che

agognava l‟aiuto di Leshar.

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~ 154 ~

Diventai ben presto inerte sotto il peso di quell‟orrida cantilena. Non

posso riferirvi le emozioni che concepii nel ricettacolo della mia

mente, perché vanno ben aldilà della comprensione umana, e

parlarne mi inquieta, in quanto le temo, quasi siano per me la paura

stessa.

Corsi a perdifiato lungo l‟interminabile corridoio in penombra; non

importava dove mi dirigessi, benché fossi lontano da quel demoniaco

suono.

All‟improvviso, caddi. Non me ne spiego il motivo, né perché

proprio in quel punto: quel punto, così vicino alla fine; davanti a me

una porta socchiusa, non realizzai di quale stanza, da cui proveniva

uno spiraglio di luce, in netto contrasto con l‟intero ambiente intorno

a me, ormai oscuro oltre ogni limite; colsi una figura oltre l‟uscio,

contorni umani.

Non dovetti nemmeno focalizzare lo sguardo per riconoscere i

lineamenti di Leshar, incupiti, gli occhi vacui, osservarmi immobile.

Aveva visibilmente paura, ma non come me. Sembrava conoscere il

suo timore e se ne teneva cautamente lontano.

Allungai il braccio verso di lui, invano. Avrei voluto gridare il suo

nome e la mia pena, ma non avevo la forza di pronunciare una

parola, e non credo che le mie richieste d‟aiuto lo avrebbero smosso

dalla sua posizione.

Dopodichè, l‟oblio.

Mi ripresi in una camera dall‟aspetto spoglio, la mattina, e avevo

ancora il cuore in gola.

Scoprii che mi trovavo alla locanda del villaggio vicino; trovai tutti

gli averi che mi ero portato da casa. Non mi chiesi nemmeno come

fossi giunto lì; me ne andai in fretta, in carrozza, lasciando una cifra

indeterminata all‟albergatore, sperando che bastasse al saldo.

Sulla diligenza guardai indietro una volta sola; mi apparve il castello

di Leshar, sulla sua cupa scogliera. Parevano ora le finestre occhi da

cui traspariva crudele malevolenza, e le mura merlate formavano

mascelle mostruose che si allargavano in un satanico sorriso, che a

niente di umano poteva rassomigliare.

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Rebecca Di Francesco

Presagio oscuro

Corsi. Velocemente. Senza una meta. Come se potessi farcela. Come

se potessi distruggerlo. Una spina nel cuore mi bruciava dolorante

.Una ferita che non si chiude. Il sangue rosso vivo continuava a

colarmi. Correvo. Ero esausta. Incrociai lo sguardo del vampiro

aveva occhi penetranti. Come faceva a vedere dentro i miei occhi,

come se fossero finestre aperte? Lo sguardo fisso su la preda, me. I

suoi denti affilati creati solo per sbranare le sue vittime. Ero

affannata. Ma pur di sapere qual era la mia fine non mi arrendevo.

Cercavo di non badare, alle corone taglienti di spine e rovi che, come

una lama, mi imprigionavano. Piccole ferite brucianti, ricoperte da

fango paludoso, adornavano le mie braccia . Il dolore mi ardeva

sempre più. Inspirare, espirare, ripeteva il mio cuore stanco di

battere. Correvo fra gli alberi fitti. Era un incubo ma era realtà.

Lacrime di paura, ma erano lacrime di morte. Non c‟era nulla da fare.

Lui era il vampiro e io la sua preda, la fifa mi bruciava negli occhi

sentivo degli urli. Immaginazione . Mi tagliai fra le sterpaglie. Lo

sguardo del mostro era famelico .Un branco di lupi ululò. Come per

annunciare quello che sarebbe dovuto accadere. Come se lui avesse il

dominio della foresta. E loro lo lodavano.

Per ammazzare una vita. Chissà come deve essere non sentirsi più

far parte del mondo. Sono in vita, in mezzo alla morte. Rimanere

senza un pensiero. Senza un anima. Senza una vita.

Continuavo a ordinare al mio sangue di scorrere prima che io venissi

distrutta. Salvami, o sarò un nulla. Sentivo come un pugnale trafitto

nel cuore sapevo che adesso sarebbe venuto il mio turno. Fu così.

Mi saltò addosso. Mi addentò coi suoi denti un braccio. Uno straccio

di carne si posò fra un arbusto spinoso. Il sangue colava intenso

senza fermarsi. Si. Io sono la sua preda. E lui il mostro del mio

incubo.

Ormai il dolore mi invadeva. Era come se fossi già morta.

“E allora successe…”

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“cosa?” chiese la madre che stava bevendo agitata una tazza di caffè

in un locale un po‟ misero “gli tolse il respiro” rispose l‟amica

affranta, lo sguardo della madre cambiò. E una lacrima gli scivolò

dalla guancia che si sciolse dolorosamente su una piastrella del

pavimento.

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Alessandra Domizi

Hermann assalirà un armadio

Dramma, e coriandoli. Hermann, rantolante nel silenzio. Fiuta

disperatamente l'aria, fluttua il suo viso nell'oscurità. Cerchiato da

lievi pareti di catrame, lascia crollare i suoi quesiti nel vuoto

agghiacciante. L'armadio muta ed è sudario, ora dopo ora; la

solitudine si inasprisce all'azzuffarsi delle voci gentili. Affollate nella

stanza, parole senza volto. Perso nel guardaroba, Hermann può solo

ascoltare l'eco lontana, vagheggiando uno scherno o un sorriso, una

lacrima o un'impressione. Incide segni sul legno, immaginando

ridente il suo epigramma tombale. Serra stupidamente le palpebre e

scorre l'indice sopra le lettere, sorridendo nel trovarle così, serene e

accavallate, dolcemente insaporite nel mogano. Non ricorda perché si

è chiuso nell'armadio, Hermann. Ma ricorda che c'era un motivo, e

non vuole tradire se stesso. Siede pensoso, compresso e soffice tra le

pieghe dell'oscurità. C'è qualche goccia di terrore, sciolta nell'aria.

Come vapore sinistro penetra le narici bruciate, risale la pelle. Le

pupille corrono dall'infinito alla nullità.

E qui Hermann avverte, nel suo immobilismo, un respiro affannoso e

vicino. Non urla, non piange, non parla. Insegue i sospiri e il ritmo

del cuore, melodioso conforto e sabbia deserta. Ma stende infine le

mani e sorprende, alla sua destra, un viso caldo, fermo anch'esso nel

terrore leggiadro. Non si ritrae, il viso. Lo adorna una barba lunga e

opulenta, forse grigia, forse bianca, forse blu. La pelle cosparsa di

solchi scuri e profondi, il naso magniloquente. L'uomo non fa motto,

e nuovi pensieri ghiacciati percorrono Hermann, che immagina il

vecchio pensare anche lui. Perché un uomo, perché un uomo

nell'armadio? Perché due uomini in quell'armadio? Il suo armadio, i

suoi vestiti fruscianti, il suo uomo. Scorre ormai incalcolabile il

tempo, e fermo ogni orologio. Il quadrante biancheggia nel buio,

immota ogni lancetta. Come Hermann, come il vecchio. E tuttavia

scappano i secondi, corrono i minuti, si esauriscono le ore. Il vociare

all'esterno si spegne, suona soltanto il muto respiro del vecchio,

caldo, freddo e inquieto, pericolosamente assordante. Hermann

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vorrebbe parlare, ma dubita di come si faccia. Il vecchio deve avere

intuito e solleva un braccio invisibile, colpisce lieve la schiena

dell‟inquieto vicino. Impallidisce ancora, Hermann, e resta zitto,

ostinato nella sua titubanza. Mamma diceva di non parlare con gli

sconosciuti. Hermann ha trent'anni, ed è proprio a trent'anni che ti

sovviene, poco opportuno, quel che diceva tua mamma. Scoppia in

una risata fugace, Hermann; anche il vecchio cessa per un istante il

suo mostruoso respiro e ride, freddo e onnipotente. Hermann adesso

è paralisi, inzuppato nel pensiero del sangue. Tremendamente

ridicolo Hermann, tremendamente ridicolo il vecchio. Hermann

scopre i denti passivo, in una smorfia di esuberanza e passione.

Stringe tra le dita dischiuse un fuggente libellum. Dolce libellum.

Rumore di pagine gialle e stracciate, grovigli di carta che sfrecciano

sbattendo sul legno, nell'aria, piovendo violenti sulla canizie del

vecchio. Il vecchio ride, ride ancora e non smette, ad ogni pallina

sghignazza più forte. E' inerte, il vecchio, semplicemente ride e

Hermann a volte lo segue, per poi ammutolire. Ma Hermann si stufa

e dorme sfinito, la testa sul petto del vecchio e le braccia avvinghiate

alle ginocchia nodose. Sogna di aquile e fiori, si asperge nei fiumi di

un limbo dorato. E di nuovo si desta, gaio nel canto del vecchio,

senza più domandarsi chi questi sia, senza più chiedersi perché

dall'armadio non si riesca ad uscire. Chissà, magari il vecchio,

mentre canta, sorride. Chissà. I suoi denti sono stanchi e ingialliti,

non brillano più gloriosi nel buio. No, il vecchio non canta per ridere.

Il vecchio è astuto e malvagio, il vecchio brama il sapore del sangue.

Hermann inventa un pugnale. Cerca, annaspando a tentoni, il cuore

pulsante del vecchio. Il vecchio guida premuroso la mano di lui, di

Hermann che affonda il coltello nel petto rugoso e di nuovo ride,

mentre il vecchio solenne muore. Assapora il profumo del sangue,

Hermann, assicura il pugnale alla molle mano del vecchio. Sospira,

immobile, mentre il vecchio risorge e compie, rabbioso, la sua

tremenda vendetta. Il sangue bagna ora, fiumiciattolo bruno e

viscoso, anche il petto di Hermann, e il vecchio lo abbraccia, mentre

egli muore. Il vecchio si volge, annaspa tastando la serratura nel

legno, e in quel mentre Hermann risorge, sorride ampolloso alla vita.

Si scuote, colpisce il vecchio: il vecchio muore. Hermann ride, il

vecchio risorge, Hermann muore, respira e risorge. Si dilettano,

Hermann e il vecchio. Impazzisci, tu.

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Emanuele Giusti

Nemesis

Prima o poi arriverà.

Osservo intorno con circospezione, drizzo l‟orecchio al minimo

bisbiglio. Io lo so. Lo so che arriverà.

Mi piego nella tensione dell‟incontro prossimo. Come sempre,

sarebbe venuto. Avrebbe indossato un abito diverso, scandendo

maledizioni in una lingua nuova, e le sue mosse mi sarebbero state

del tutto sconosciute. E come sempre non avrei potuto fissare i miei

occhi nei suoi, tanto è sfuggevole il suo volto. Non aveva un volto, il

mio nemico di sempre. La sua irrefrenabile volontà di nutrirsi

l‟avrebbe condotto ancora una volta da me. E ancora una volta i suoi

implacabili desideri l‟avrebbero trascinato dritto nella trappola che

preparavo: l‟arma giaceva immobile e sorridente sul comodino.

Avrebbe dovuto capire ormai quale fosse la preda e quale il

predatore!

E così io l‟aspettavo, pur sapendo che non sarebbe stato facile. Non

lo era stato mai.

Un sibilo sottile alle mie spalle: eccolo, arriva. Rabbrividisco d‟odio

e di disgusto, ma sono un combattente navigato. Svanito il primo

timore del confronto, si accende sempre la volontà di farla finita al

più presto.

Lentamente mi volto e incrocio i suoi grandi occhi. Mi guarda

muovendo i suoi numerosi arti, spostandosi leggermente, silenzioso.

Le sue proporzioni mostruose mi dissuadono dall‟attaccarlo

direttamente e nello stesso tempo mi suggeriscono che se non lo farò,

egli scomparirà presto e più tardi, quando dormo placido, verrà

vicino a me e mi carezzerà il volto con le sue scheletriche protesi, mi

soffocherà invadendomi la bocca e le narici, mi accecherà con i suoi

acidi, lacererà il mio tessuto cerebrale con le lunghe unghie sporche.

Allungo lentamente la mano verso l‟arma che pulsa sul comodino.

Stringo dito per dito il pugno attorno ad essa e la traggo a me mentre

sento fluire il coraggio nelle vene e fremere nel cervello che devo

salvare dalle sue zanne. So che lo divorerà, lo riempirà di buchi e lo

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mangerà fibra dopo fibra strappate dai miei orecchi. E so che prima

cercherà di farmi impazzire: presto sarà già a buon punto. Devo

essere rapido. Mi alzo di scatto e scaglio l‟arma con violenza e senza

successo: si schianta sulla parete. Svanito. L‟unico indizio è il

rumore assordante, un istante, che ha prodotto scampando alla ferita

letale. Mi alzo e comincio a guardarmi attorno, i nervi che oscillano a

brandelli fuori dalla carne. Si sta muovendo chissà dove. Sento i suoi

spostamenti. Vedo la sua ombra ma non il suo corpo. Rumore di

gesso sulla lavagna: è lui, si è tradito, l‟ho visto e lo assalgo con furia

menando colpi alla cieca, e di nuovo sfugge ai miei occhi. L‟idea di

lui comincia ad annegarmi nell‟angoscia. Come uccidere un mostro

simile? Il suo dorso è indistruttibile, le sue braccia invincibili. E‟ al

ventre molle che devo puntare. Un‟ombra mi bagna i piedi.

Un‟ondata di orrore mi adombra il cuore. Schianto l‟arma a terra con

tutta la mia forza sul suo corpo diabolico, sapendo che non morirà.

Stridendo balza via, sul soffitto, impossibile ucciderlo lassù. So che

adesso muoverà l‟attacco finale. Si deciderà tutto adesso. O me o lui.

Il panico si fa di cemento e la testa si fa di pece, viscosa e

infiammabile. Ribollisce in me l‟odio più crudo, in conflitto perenne

con la mia sbornia di paura. La mia mente comincia a vacillare,

l‟attesa dell‟attacco è micidiale, è nulla in confronto al duello stesso.

Come l‟odio respinge la paura con un grido lacerante, lui mi si getta

addosso lacerando la mia lucidità, ed è così che si scatena l‟istinto di

sopravvivenza. L‟arma corre e affonda, le sue membra si

irrigidiscono, lo strido si spegne in un rantolo. Gli occhi perdono la

follia. Lascio cadere l‟arma viscida di sangue ansimando. Nel suo

corpo un muoversi ancora: non morirà mai. Ma si tratta della sua vita

o del mio cervello. Raccolgo l‟arma e abbatto un ultimo vibrante

colpo: un rumore come di ghiaccio che si rompe. L‟armatura è

spezzata, gli arti fracassati, il ventre molle squartato. La vittoria è

mia, e posso dormire un sonno tranquillo.

Maledetto moscone.

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Elisabetta Spinelli

Camelia

L‟aria profumava di camelie, e in quella sera d‟estate faceva un gran caldo. Diana stava osservando il sole che scompariva dietro le montagne, quando tutto divenne buio e qualcuno la trascinò per i capelli, le bloccò le mani e i piedi, e la obbligò a distendersi sul prato. Paura. I suoi capelli venivano tagliati, ciocca per ciocca. Tagli profondi le torturavano le gambe, mentre il sangue usciva copioso. Una voce le sussurrò:”E questo è solo l‟inizio. Vedi di non spargere più voci su di me”. Eva. Sentì una scatola aprirsi, e, qualche attimo dopo, le ferite bruciarono ulteriormente. Strinse i pugni, cercando di trattenere il dolore. Non poteva neanche urlare, la bocca le era stata tappata. Sperò ardentemente che la trovassero, proprio in quel momento, mentre metteva nei tagli quella sostanza che le provocava quel dolore atroce. Eva corse via. Ora era sola, senza neppure un misero aiuto. Diana camminava per le strade del borgo, con un coltello legato alla

vita e i capelli neri che rilucevano sotto la flebile luce della luna. I

suoi occhi, invece, avevano un altro tipo di bagliore: determinazione.

Voleva vendetta. Eva, infatti, non si era fermata, e aveva continuato

ad uccidere persone vestite di bianco, spinta da chissà quale follia.

All‟improvviso, una figura vestita di nero sbucò fuori da un vicolo:

Eva.

Diana tirò fuori il coltello. “Eccoti.” fece quella, con gli occhi

sgranati “Sei veramente tu?”. “Certo che sono io”, disse Diana,

sbuffando, “Me lo devi anche chiedere?”. Eva sembrò quasi

rincuorata: “Sai, ce n‟erano tanti vestiti come te, quel giorno…

sembravano le camelie del parco. E avevano il tuo stesso viso… ma

quando le avevo uccise, il loro volto cambiava. Sai, ho sbagliato a

non eliminarti: le voci che hai sparso hanno fatto il giro della città.

Ma per fortuna oggi sei qui: possiamo sempre porre rimedio, no? E

tu, quale buon vento ti porta qua? “ Parlava tranquillamente, come se

stesse facendo una visita a una cara conoscenza. Diana era

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disgustata, ma cercò di apparire serena come

l‟avversaria:”Semplicemente per il tuo stesso motivo”. Eva scoppiò

in una risata: “Bene, allora che si dia il via alle danze!” E caricò il

suo coltellino, che luccicava alla luna. Diana evitò per un soffio

l‟arma, e cercò di replicare: fendette l‟aria goffamente.

Eva rise ancora: “E‟ tutto quello che sai fare?”. Le colpì la gamba.

Diana digrignò i denti: stava pentendosi della sua decisione, quando,

come per miracolo, vide un sasso appuntito. Lo lanciò e colpì Eva

allo stomaco. Lei si piegò dal dolore.

Approfittandone, affondò il suo coltello nella spalla della nemica,

che urlò. Continuò a sfigurarla, come aveva fatto lei quel giorno,

affondando il coltello nella carne e tirandolo fuori, fino a quando,

soddisfatta della sua macabra vendetta, le tolse la vita. Il corpo cadde

a terra con un tonfo.

Una leggera brezza si levò, e accarezzò il viso di Diana. Stava in

piedi, col coltello in mano sporco di sangue, che gocciolava sulle

pietre della stradina.

E ora? Che faccio?

Non aveva minimamente pensato al dopo. Non aveva progettato

l‟occultamento del cadavere, si era detta semplicemente “In qualche

modo farò”.

E poi, ora si sentiva vuota. Aveva raggiunto il suo obiettivo, ma ora

che le rimaneva? Niente, il nulla più assoluto.

La mia vita è rovinata. Se trovano il cadavere passerò la mia vita in carcere. Per la seconda volta in quella sera, ebbe paura: non voleva esser

catturata, ma sicuramente l‟avrebbero scoperta, se fosse scappata.

Col coltello sporco ancora del sangue del nemico, si uccise.

Non mi prenderanno. Pensò con un sorriso mentre moriva.

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Le Storie

di IoRacconto Junior Humor

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Valentina Bettoni

Una tranquilla giornata in posta

In una normalissima giornata di Maggio, mi accingevo ad andare in

posta a pagare un bollettino, con l'ansia perchè nel mio piccolo paese

andare in posta voleva dire passare due orette in compagnia di una

fila di gente borbottante per la lunga attesa.

Non so il perchè: vuoi che la tecnologia faccia i capricci, vuoi che

finisce sempre il toner proprio un attimo prima in cui entro, vuoi che

i terminali impazziscano ma non vorrei essere la povera impiegata

che sta dietro lo sportello!

Decido di sedermi sulla panchina perchè ho già capito che l'attesa

sarà interminabile quando prima del mio turno un'anziana signora

con il libretto di risparmio voleva prelevare dal suo conto; dopo la

richiesta della carta d'identità, firme varie e quant'altro si accorgono

che manca ancora un documento: la nonnina angosciata chiede di

poter avere lo stesso i suoi soldi ma l'impiegata le risponde di no!

A questo punto mi infervoro: “Scusate: ma, a parte il fatto che

conoscete la Signora, ha il conto da voi, e ha sempre prelevato senza

nessun problema, oggi per un cavillo non può... Poi per un

operazione di un minuto è due ore che tutta questa gente sta

aspettando... Già come ufficio postale non era un tripudio

all'efficienza ma ora che le Poste vogliono fare pure la banca...”.

Riscuoto il favore del pubblico al che decido che è il momento giusto

per attuare un'idea che da parecchio tempo mi balenava nel cervello e

distribuisco dei biglietti da visita con un nome e un numero di

telefono: “Signori: se avete dei risparmi e volete guadagnare un 10%

netto fidatevi e telefonate: vi assicuro che resterete soddisfatti e non è

una truffa sapete chi sono quindi...”

Ma Voi lettori non sapete chi sono: Ve lo dico ora sono un Broker

lavoro in borsa...

Il giorno seguente arrivano le prime timide telefonate ma poi via via

la voce si spande e vengo sommerso di telefonate e ragazzi voi non ci

crederete ma la gente era soddisfattissima e il passaparola era la

miglior pubblicità: pure gratis!

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~ 166 ~

Il conto in banca dei miei clienti lievitava a vista d'occhio e anche il

mio!

Mi comprai una casettina dotata di tutti i comfort, immersa in parco

meraviglioso, con un fantastico laghetto, dove finalmente le mie due

tartarughe trovarono dimora.

“Signore, Signore!” mi parse che qualcuno mi chiamasse....

“Signore!” Sentii una mano che mi afferrava un braccio e: “Si svegli

è il suo turno.”

Accidenti! Mi ero addormentato in posta! Quindi era tutto un sogno!

Un bellissimo sogno!

Ma non mi importa: perchè la mia vita, anche se umile, è bellissima

così.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 167 ~

Le Storie

di IoRacconto Junior

Vita Contemporanea

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 168 ~

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 169 ~

Bianca Bellucci

Vento freddo da Nord-Est

La pioggia cade lenta sulle strade, in uno di quei pomeriggi di

Settembre in cui vorresti solo sederti ed aspettare. Tira vento bagnato

là fuori; è grigio, come tutto il resto.

Flinn ha la faccia spalmata sullo sportello del microonde e gli occhi

spalancati. Osserva sbalordito dei piccoli quadratini gialli diventare

popcorn.

“Non ti chiedi mai perché?”

Tom si volta di scatto verso di lui, facendo vibrare il vetro sottile

della finestra alla quale è appoggiato. Lo osserva con un sopracciglio

alzato e le braccia premute sul petto.

“Mi alzo alle cinque di ogni mattina, mi faccio una doccia gelata per

convincermi che sono sveglio, ingoio caffè freddo e vecchio di

giorni, vado a fare un lavoro che non riesco neppure a definire,

quando mi chiedono di cosa mi occupo. Mi stai domandando se non

mi chiedo mai perché?”

Flinn stacca il naso dal vetro, i suoi occhi guizzano veloci verso il

pavimento.

“Io mi riferivo ai popcorn.”

Tom sembra meno intelligente di quel che è; ha il difetto di parlare

troppo, e il silenzio spesso è come un vestito ben cucito: nasconde

ogni imperfezione.

Tom è una di quelle persone che fanno le cose per poi potersene

lamentare. E‟ un moralista convinto, secco in ogni suo giudizio. Di

quelli che ascoltano soltanto Elvis, ma a basso volume. Di quelli che

leggono solo Hornby, perché ci fosse mai una volta che finisce bene.

Di quelli che vedono il telegiornale delle diciotto e quarantacinque,

quello delle diciannove e trenta e quello delle venti e quindici; chissà

se per verificare se il mondo è cambiato nel giro di qualche minuto o

se per criticare anche il parrucchiere del giornalista successivo. Il

pragmatismo non fa al caso suo: qualsiasi domanda tu gli faccia, non

otterrai mai una risposta che possa aiutarti.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 170 ~

E poi, è in svantaggio, da una vita. Su tutti e tutto, sempre. Il cinismo

con cui incarta ogni cosa non è che il suo modo per accelerare.

Flinn, invece, cerca risposte a qualsiasi genere di domanda. Alle

risposte che ottiene si affida come fossero dogmi; non ci riflette, né

dissente: le immagazzina per poterle tirare fuori, spolverare ed aprire

con la commozione della riesumazione, quando avrà di nuovo lo

stesso dubbio.

L‟ uno è nato per fare domande, l‟altro per dare risposte. In fondo,

però, non sono poi così diversi. Alla vita non chiedono niente, e la

vita ha il buon gusto di non chiedere nulla a loro. Non si può dire che

la vita sia sbagliata, dopotutto. A volte scende a patti con persone a

cui non daresti un penny. Forse il motivo è che non danno fastidio,

vanno per la loro strada senza impicciarsi troppo. Se c‟è una cosa che

la vita non sopporta, è quando cerchi d‟immischiarti nei suoi affari.

Se accetti di non farlo, di lasciarle fare il suo lavoro, lei ti lascia fare

il tuo. Sarebbe un rapporto alla pari, se l‟ultima parola non l‟avesse

sempre lei.

L‟ultima parola della vita è qualcosa a cui Flinn pensa spesso,

qualcosa su cui ha imparato a non fare domande. Eppure una volta ci

ha provato:

“Pensi che esista un aldilà, Tom?” Aveva chiesto a voce alta per

contrastare il vento che picchiava impietoso sul ponte. Tom non lo

guardava, osservava le nuvole correre spedite sopra le loro teste.

“Penso che non so cosa sarà domani, come posso anche solo

domandarmi cosa sarà dopo che sarò morto?”.

“Non hai paura?”.

“Del domani sì. Tanta”. Le sue parole si erano perse nel nulla, prima

che potesse capirle davvero. Le sue parole se le era portate via il

vento. La fa spesso, il vento, questa cosa di portare con sé le parole

migliori. Le ruba in giro e le tiene per sé, non ne butta mai una; per

questo puoi trovarle tutte lì, ogni volta che vuoi, ogni volta che

vuole. Nel vento ondisonante sulle sponde del fiume, freddo e carico

di pioggia; là dentro ci sono le frasi migliori di sempre. Il vento è

domanda e risposta. Il vento ha sempre una soluzione.

Cammina spesso nel vento Tom, senza fermarsi. Le sue frasi

paradigmatiche bloccate in gola. Riesce a dirne solo qualcuna,

qualcuna delle migliori. Il vento è un gran collezionista: non ha

tempo da perdere; ha voglia di ascoltare solo cose buone, per rubarle

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 171 ~

e aggiungerle alla sua collezione. Ecco perché si dicono cose più

intelligenti, quando c‟è vento. A volte si parla da soli, si parla col

vento; si sussurrano parole che solo lui potrà ascoltare e le si lascia

andare. Magari serviranno a qualcun altro, dall‟altra parte del mondo;

magari, invece, serviranno di nuovo a te, un giorno, e allora il vento

sarà lì per prestartele ancora.

Tom ha una risposta per qualsiasi cosa. E non è per niente facile

avere risposte per tutto: devi costruirtele una ad una, nel tempo. Tom

l‟ha fatto perché è terrorizzato dalle domande a cui non riesce a

rispondersi; quel genere di domande che Flinn cerca da una vita, e

che con Tom a fianco non è mai riuscito a trovare. Forse non sono

poi così uguali, Flinn e Tom, ma neppure poi così diversi. Uno ha

bisogno di sapere che c‟è qualcosa di più, e che tutto questo non è

colpa sua. L‟altro vuole credere d‟essere l‟unico artefice del suo

destino. E la vita li lascia camminare entrambi, senza ostacolarli mai;

le loro paure opposte le piacciono come fossero uguali. Sa di poter

accontentare ambedue senza nessuno sforzo.

Non è così sadica come sembra, la vita. Ed ha una particolare

simpatia per i pezzenti che non bussano mai alla sua porta; per quelli

che surfano sui traguardi come fossero onde, avanti ed indietro,

senza superarli mai; per quelli che vagano in una caccia al tesoro in

cui nessuno ha davvero l‟intenzione di trovare ciò che cerca.

Flinn e Tom sono prototipi perfetti dell‟individuo ideale, secondo la

vita. Perché la vita non c‟è, nei loro sogni di gloria; perché la vita nei

sogni non riesce ad entrare. Non riesce e non vuole, perché non sono

che sogni, infantili fantasie. E questo rimangono, quando vivendo

cammini sulle punte, per non disturbare, e la vita la lasci dormire

tranquilla di là, sul divano in salotto, o magari le lasci anche il letto,

ché è ospite e non sia mai.

E‟ quello che Tom e Flinn hanno imparato a fare molto bene. Tanto

bene che con la vita si sono fatti pure un amico comune: il vento.

Insieme a lui lasciano volare via i loro sogni, insieme alle loro vaghe

domande e pungenti risposte. Con sollievo lasciano che se li porti

via, lontano da loro. Che li tenga per sé o li doni ad altri: per loro

sono come scarponi d‟acciaio al posto delle pattine con cui strisciano

abitualmente in casa della vita. E il vento li sfoglia e li culla sui tetti

bui della città, quando dormono tutti e non c‟è nessuno a cui rubare

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~ 172 ~

parole. Il vento delle cinque di mattina è pieno di sogni non suoi. E‟

il vento più bello.

Fa freddo là fuori. E c‟è vento. Le strade di Manhattan sono grigie e

deserte. Flinn e Tom sono gli unici esseri viventi ad arrischiarsi fuori

di casa. Un vento gelato soffia implacabile da nord-est.

“Le persone che vanno a Messa tutte le domeniche e poi, che so,

tirano pietre alle finestre… quelle non le sopporto. Quella gente non

dovrebbe andare a Messa”

“Quella gente non dovrebbe tirare pietre alle finestre…”

E continuano a camminare. Le strade di Manhattan sono grigie e

deserte. Un vento gelato soffia implacabile da nord-est. Le parole

sfumano nel nulla, a fianco alla corrente del fiume. Le parole se l‟è

portate via il vento, ancora. Mentre la Vita, compiaciuta, sta a

guardare.

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Giulia Bonfrate

Dal diario di un bambino …

12/04/1956

Caro diario, è ormai passata una settimana dal giorno in cui siamo

stati rinchiusi in questa casa.. io e la mia famiglia intendo. Non ho

più tempo per scrivere. Ho dovuto imparare a lavorare. I grandi

uomini (era questo il nome che ho dato agli uomini che indossavano

tute tutte uguali di colore blu) ci impongono delle regole,

minacciando di ucciderci. Non ne posso più di lavorare. Pensa che

oggi io e mio padre abbiamo dovuto portare 10 kg di terra in spalla

per 20 km. È stato molto faticoso, ma ho dovuto farcela. Come io ho

dato dei soprannomi a loro, loro li hanno dati a me e ai miei genitori.

Ci chiamano “sporchi gialli”, anche se non ho ancora capito il

perché. Ieri ho sentito i grandi uomini che tra un boccone e l‟altro,

dicevano che noi siamo stupidi immigrati in Italia, venuti a rubargli

le case. A quanto mi risulta io e mio padre non abbiamo mai rubato

nulla a nessuno, anzi, siamo uomini dai buoni principi. Mio padre

ogni mattina, da quando siamo qui, va nella sala- ufficio del grande

uomo, e poi viene a svegliarmi dolcemente dicendo : “su alzati,

dobbiamo lavorare per la nostra libertà”. Non ho mai osato chiedergli

perché bisognasse lavorare per essere liberi, ma se lui lo fa, vuol dire

che è una cosa giusta anche per me; sono sicuro che non farebbe mai

qualcosa che non fosse per il mio bene. Ora deve andare; Come

sempre a quest‟ora arrivano a controllare che tutti stiamo dormendo..

Ciao!! Forse a domani!!

14/04/1956

Caro diario, ieri non ti ho potuto scrivere, ero troppo impegnato a

scrivere una lettera ai nonni, che si erano preoccupati non vedendoci

tornare a casa dopo la solita passeggiata. Mi hanno obbligato a

scrivere che andava tutto bene, anche quando tu sai che non è così.

Però io sono stato molto più furbo dei grandi uomini. Ho messo

dentro la busta degli indizi per farli arrivare a noi, ma dovranno

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 174 ~

essere bravi a capirli !! Comunque ho delle novità ! Il più grande dei

grandi uomini mi ha detto che domani io e tutta la mia famiglia

andremo a fare una gita, in un bosco, mi hanno raccomandato di

mettermi delle scarpe comode, perché sarà una gita molto lunga. A

scuola qualche volta facevo delle gite, anche molto lunghe , ma

questa hanno detto, sarà quasi senza ritorno. Davvero sarà senza

ritorno? Non so che fare. Ho deciso però che domani ti porterò con

me, almeno avrò sempre un amico intorno. Ora è arrivato il momento

di andare. A domani!!

Dopo questa pagina non ne sono state scritte altre. Quel senza ritorno

allora, cosa voleva dire??

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 175 ~

Rebecca Calamai

L‟Amicizia …

... Ha un valore molto importante nella mia vita e non riesco a

immaginare la mia vita senza amicizia. Chiamiamo amici tutti quelli

che conosciamo, ma in realtà dovremmo chiamare amici solo le

persone che ti fanno sentire veramente bene e le persone con cui ti

puoi sentire te stesso. Credo che l‟Amicizia debba essere basata sul

rapporto di fiducia. La cosa più difficile però è fidarsi di una persona,

soprattutto se in passato ti aveva già tradito. Hai paura che lo sbaglio

che aveva commesso, se possiamo chiamarlo così, lo possa

ricommettere o ne possa ricommettere un altro oppure un altro

ancora.

L‟amicizia in parte è come la vita: nasce, cresce, muore.

Ci sono quelle amicizie che nascano e proprio non te lo aspettavi che

potessero nascere, oppure quell‟amicizia che “aspettavi da un po‟

tempo”, e alla fine è diventata realtà.

Nasce: ed è bellissima. Un‟Amicizia comporta nuove scoperte, è

bello perché sai di avere accanto una persona che tra tante altre

persone ti vuole veramente bene, che ti potrà aiutare quando sarai in

difficoltà e come i veri amici si può “fare tutto insieme”. Io la mia

migliore amica la conosco da quando avevo tre anni. Abbiamo un

anno e mezzo di differenza, mi diverto molto con lei, ho la fortuna di

averla come vicina di casa e posso vederla ogni giorno, quando mi

pare e ho bisogno di lei. Tutte e due abbiamo degli impegni durante

l‟anno, ma troviamo sempre il tempo per chiacchierare o farci

qualche risata. Poi a volte quando mi trovo in difficoltà o ho bisogno

di qualche consiglio, la vado a chiamare a casa e affrontiamo il

problema insieme. Sono molto felice di averla incontrata. In dodici

anni ho imparato molte cose di lei e ho anche imparato ad accettare i

suoi pregi e i suoi difetti. Parliamo di tutto: di ragazzi, spettegoliamo,

critichiamo, ci scambiamo opinioni … insomma, insieme ne

facciamo di tutti i colori. Puoi imparare tantissime cose dall‟altra

persona, puoi anche capire chi sei veramente, è una persona che ti

accompagnerà, se è possibile per un gran pezzo della tua vita.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 176 ~

Cresce: se è un‟amicizia tra maschio e femmina, può tramutarsi in

amore. Quest‟“evento”, potrebbe essere anche sorprendente perché

potrebbe capitare con l‟amico o l‟amica che proprio non t‟aspettavi o

che conoscevi da tempo e con il diventare grandi e l‟avere molte cose

in comune, il legame tra i due è diventato sempre più intenso che alla

fine i due s‟innamorano; può essere una cosa positiva come una cosa

negativa. Oppure se è sempre amicizia tra femmina e femmina,

maschio e maschio o tra maschio e femmina, li … beh … il legame

che già c‟era tra i due amici, si può fortificare. Io vedo, il rapporto di

amicizia che c‟è tra me e la mia migliore amica, che con il passare

degli anni è aumentato e si è molto fortificato, anche se qualche volta

litighiamo passando molti minuti in silenzio, ma poi sappiamo che

alla fine una della due “butta giù la barriera del silenzio” dicendo

qualche scemenza e cercando di far ridere l‟altra. Siamo diventate

inseparabili, ogni cosa la facciamo insieme, se lei deve uscire per

qualche motivo e dovrebbe uscire da sola, l‟accompagno io perché

mi dispiace mandarla da sola.

Muore: per la mancanza di fiducia, per una reazione, azione o

comportamento sbagliato. Una reazione, azione o comportamento

sbagliato lo possiamo anche perdonare, ma recuperare la fiducia che

uno aveva verso l‟altra, è molto difficile. Io con una mia amica litigai

perché lì “rubai” la persona di cui era innamorata persa. Lo baciai per

una scommessa niente più … ma lei ci stette così veramente male

che litigammo, e per qualche settimana non ci parlammo e sentimmo

più. Mi rendevo conto e me ne rendo ancora conto dello sbaglio che

ho fatto. Mi sono fatta condizionare da una qualsiasi scommessa e

non dovevo, ho fatto sembrare più importante il fatto di vincere la

scommessa che la nostra Amicizia. Dopo un po‟ di tempo lei disse

che mi avrebbe perdonata, ma c‟era un problema, io non riuscivo a

perdonare me stessa e avevo molti sensi di colpa. Mi innamorai di lui

o forse lo ero già, perché provai un‟emozione cosi talmente grande

che non so se sia stata la paura di aver fatto una cosa del genere o che

sia stata veramente l‟emozione di aver baciato la persona di cui mi

ero innamorata, e questo ha complicato un po‟ le cose. Avevo fatto

diventare complicato anche il nostro rapporto d‟Amicizia che credo

che fosse basata solamente sulla fiducia l‟una verso l‟altra. Ancora

oggi a volte ci ripenso e in un certo senso mi faccio schifo da sola,

ancora!! Ho messo “l‟amore” prima dell‟Amicizia. Eravamo arrivate

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 177 ~

sul punto di dirci addio e a mai più rivederci, ma il nostro

grandissimo problema era che eravamo vicine di banco e che ci

saremmo viste ogni giorno a scuola. Nella nostra classe la notizia si

diffuse molto velocemente, solamente perché lo sapevano già tutti

che io avrei dovuto fare quella scommessa e tutte le nostre compagne

di classi mi facevano sentire talmente in colpa che preferivo morire.

Poi alla fine, e non so come, abbiamo fatto pace, forse perché

sentivamo ancora il bisogno di starci vicine o che non potevamo

“vivere” l‟una senza l‟altra. O forse l‟unica vera ragione era che

nessuna delle due aveva intenzione di soffrire ancora a lungo. Lei ha

dovuto imparare di nuovo a fidarsi di me, ed è stata dura direi. L‟ho

tradita e questo mi dispiace molto. Ma ormai quel che è successo è

successo e io e lei siamo di nuovo amiche, per fortuna.

Amore e Amicizia non sono fatti per stare insieme, beh … hanno

solo una cosa in comune la A. Poi del resto si prenderebbero a pugni.

Una è più forte dell‟altra e hanno dei sentimenti ben diversi che è

meglio tenerli molto lontani tra loro, se non vuoi che un‟amicizia

finisca per un ragazzo/a. Credo che nessuno voglia questo e adesso,

essendoci passata sopra, non vorrei star di nuovo male perché ho

capito il mio errore ma soprattutto ho messo l‟amore prima

dell‟Amicizia. Una cosa che ogni tanto rammento a me stessa è: mai

mettere un ragazzo/a prima di una tua amica/o perché gli amici sono

per sempre, ma un amore può finire, perché dopo amore non c‟è più

amicizia. L‟Amicizia c‟era soltanto prima.

Io sono circondata da poche persone ma molto speciali che mi

vogliono veramente bene. Spero di non rifare mai uno sbaglio del

genere, adesso ho imparato, ci sono passata sopra e non lo rifarò più.

L‟Amicizia è una cosa bellissima e non la cambierei per nessun‟altra

cosa al mondo.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Eleonora Calamandrei

Banlieu

Appena la vide Radah la scambiò per la principessa che visitava i

suoi sogni: l‟oro dei capelli colava disordinato sulle spalle, e gli

occhi azzurri parevano aver rubato un po‟ di luce alla Ville Lumière.

Radah lasciò perdere la moretta che si stava lavorando quella sera e

le si avvicinò:

“Ehi bella, vieni un po‟ con me?”

Senza rispondere lei si allontanò dal lampione che illuminava la

galleria del metrò, avvicinandosi. Radah le prese la mano: era così

piccola e fredda…

“Come ti chiami?”

“Aida” sussurrò, più ai neon borghesi della lontanissima città che a

lui.

La sera dopo Aida fu di nuovo lì, ed anche quella dopo e poi quella

ancora seguente. Radah cominciò a portarla dove viveva, e

passavano la notte così, nel mondo delle lamiere e degli spifferi, a

raccontarsi fra un bacio ed un altro storie assurde e vere. Come

quella di Mesut l‟apostata.

“Dovresti vederlo” raccontava Radah “è un vecchietto turco con il

cervello tutto in pappa: sta seduto sempre sulla stessa coperta da

dieci anni, bestemmia tutto il giorno e non vede l‟ora di morire.

Perché, vecchiaccio?” Gli chiedo ogni tanto, e lui mi risponde

sputacchiando: “Perché così qualcuno finalmente mi pagherà il conto

di questa vitaccia schifosa! Appena lo becco, quello che sta ai piani

alti...”.

“… E se semplicemente non ci fosse nessuno?” Lo interruppe Aida,

all‟improvviso triste.

“Prova a chiederlo al vecchio Mesut, e senti cosa ti dice.” commentò

Radah, perché lui di risposte non ne aveva. Dio, la morte, il dopo…

Tutti brucianti punti interrogativi. Solo Aida non bruciava, lei, con la

sua pelle gelida ed i suoi occhi persi della notte. Radah avrebbe avuto

voglia di sentirla ancora più sua, di amarla senza limiti, ma ogni

notte, proprio quando un bacio sembrava spingersi oltre, proprio nel

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~ 179 ~

momento in cui il corpo di Aida sembrava tiepida cera fusa fra le sue

braccia, ecco che la ragazza lo fermava, per poi cadere in un sonno

malinconico e dolcissimo. Ed a Radah non restava che passare le

mani scure fra quei capelli d‟oro, chiedendosi come diavolo facesse

quella piccola francesina con il nasino all‟insù a renderlo così

impotente: cavolo, lui era il principe dei sans papier, con uno

schiocco di dita avrebbe potuto avere tutte le più belle ragazze della

Francia clandestina! Come si permetteva questa sconosciuta di

monopolizzarlo? Si credeva in gabbia, Radah, ed ogni notte un

minuscolo granello di rabbia si depositava sul fondo della sua anima,

avvelenandolo con inesorabile lentezza.

L‟esplosione deflagrò una sera a caso, quando l‟estate rendeva

profumata la polvere.

“Perché non provi a riprendere la scuola, Radah? Sei dotato, in un

anno o due potresti già prendere un diploma…”

“Ma fammi il piacere, Aida! Io non ho uno straccio di documento, la

scuola non è per quelli come me! Noi siamo fatti per spaccarci le

ossa nei cantieri, e se ci va di lusso riusciamo a non farci ammazzare

da un ingranaggio difettoso! Un diploma! Ma in che razza di mondo

fatato vivi, si può sapere?”

“Vivo in un mondo in cui studiare serve! Pensa, se andassi

all‟Università…”

“Credi che non ci abbia mai pensato? Hai una vaga idea di quante

volte ci abbia pensato, dannazione? No? E allora sta‟ zitta!”

Radah si diresse alla porta.

“Ma io ti capisco, sai? Tu mica vuoi stare con uno così; vorresti un

bel fighetto francese con tre lauree, che abbia camicie sempre stirate

e non viva in una baracca di lamiera, giusto?”

“Dove vai?” mormorò lei, l‟azzurro dello sguardo cristallizzato in

un‟espressione dolorosa.

“Che te ne importa?” disse Radah, sbattendo la porta. Non avrebbe

potuto sopportare un secondo di più quel dolore.

Girovagò tutta la notte, si ubriacò, fumò, si ritrovò circondato da

tutte le stelline della periferia, ma avvertiva che lei non c‟era. Forse

non ci sarebbe stata più. “Cosa ho fatto?” si domandava sempre più

spesso.

Infine la vide: era ad un angolo della piazza, le labbra contratte.

Radah si divincolò dalle tipe che gli si stavano strusciando addosso e

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~ 180 ~

corse da lei. Sul viso pallido e magro erano rimaste delle tracce

sbavate di trucco. Non le chiese scusa: le parole erano gelate come

rose a Gennaio. Aida si lasciò portare in braccio fino alla baracca,

mentre l‟alba le luccicava sul viso.

L‟estate avanzava. Per il compleanno del clandestino Aida gli regalò

un paio di guanti di lana, anche s‟era il diciassette di Agosto, e ne

risero un sacco. A volte Radah si svegliava e la sentiva singhiozzare

accanto a sé.

“E‟ solo il freddo”. mormorava la ragazza con un sorriso tirato.

Allora il principe della Parigi nascosta la stringeva forte forte a sé, ed

anche s‟era pieno Agosto non gli veniva da ridere.

Venne l‟inverno, ed Aida gelava. Una sera Radah l‟aspettò invano

alla banchina sgangherata del metrò. Aspettò anche la notte dopo, e

poi quella ancora seguente. Alla terza Aida scese barcollante dal

treno. Radah le corse incontro e la prese in braccio prima che

crollasse a terra. Aveva il peso di una farfalla.

“Portami a casa” sussurrò “sono stanca”.

Appena arrivarono Radah l‟adagiò sulla branda e cominciò a

spogliarla: prima il cappotto, poi il golf, le scarpe, i pantaloni. Quella

notte nessuno dei due dormì.

All‟alba non si dissero addio.

“Portami all‟“Hopital Europèen La Roseraie”, per favore”. Si limitò

a chiedere Aida, prima di cedere al sonno. “Cardiochirurgia” pensò

Radah, portandola in braccio fino all‟ospedale per malati di cuore.

Prima che i medici intubassero Aida accarezzò quel viso

addormentato e se ne andò.

La ragazza restò in quello stato per quasi una settimana. I suoi non

seppero mai chi fosse il giovane di colore che aveva riportato ai

cardiologi la loro “bambina dal cuore di cristallo”, come la

chiamavano, né cosa avesse spinto quell‟organo atrofizzato a battere

così a lungo, così oltre il tempo che i medici gli avevano dato.

Chissà, forse la piccola aveva trovato forza nella fede: nel dubbio,

Aida ebbe un bel funerale in chiesa, anche se si dichiarava non

credente ormai da anni. I suoi erano sicuri di una conversione: d‟altro

canto come poteva essere altrimenti? Negli ultimi mesi, il suo

sguardo sembrava davvero aver intravisto un po‟ di luce del

paradiso…

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 181 ~

Amalia Campagna

L'ultima nota

La mattina di una domenica autunnale pigra, Ambra si sta

contorcendo le mani dietro il sipario di un palcoscenico.

Il tessuto rosso della tenda è spesso, ma si può vedere bene quanta

gente si stia sedendo nelle poltroncine bordeaux dell'auditorio.

Può vedere benissimo i suoi genitori in terza fila, arrivati ore in

anticipo, ansiosi di vedere la loro figlioletta suonare il piano.

Ma la loro figlioletta è in un bagno di sudore, e improvvisamente una

nebbia le riempie la mente impedendole di ricordare il brano.

In lista è l'ultima a suonare. Si è allenata per mesi a questo saggio, ed

è decisa a fare una bella figura. Le avevano fatto molti complimenti

per le sue dita lunghe e affusolate, che quando suonava scorrevano

sui tasti come cavalli nella prateria.

Quando la presentatrice la chiama sotto lo scoscio di applausi che ha

premiato pianista precedente, Ambra entra in sala in stato catatonico.

Si avvicina al piano nero e lucido, in ebano. Si siede. E inizia.

Senza che se ne renda conto, le note le vengono alle mani, e sotto le

dita la melodia inizia a prendere forma. Una stagione dopo l'altra,

Primavera, Estate, Autunno e Inverno di Vivaldi, entusiasmano

Ambra, che poco tempo prima era certa di fare figura muta.

Do. L'ultima nota.

La musica finisce. E regna il silenzio. C'è qualcosa che non va, c'è,

ma la piccola non riesce a capire cosa. Dopo la musica dovrebbero

venire gli applausi, ma c'è solo silenzio. E un'altro tipo di nebbia si

insinua in Ambra. Ma questa volta non nella mente, che è fin troppo

lucida e continua a cercare l'errore, ma sui suoi occhi, che sempre in

silenzio si mettono a piangere mentre Ambra scappa dalla sala.

Quattro anni dopo la piccola Ambra ha tredici anni e frequenta la

terza media. Da quell'episodio dimenticato non ha più toccato un

pianoforte. Ha cercato di andare avanti.

Mentre, in classe, è persa nelle sue riflessioni, la prof. fa entrare in

classe una nuova compagna: Martina.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 182 ~

E' alta, magra e ha i capelli biondo cenere legati in una coda che le fa

finire i boccoli dietro la schiena. Ambra sorride all'idea di questa

nuova compagna. "Sembra simpatica”, pensa, “sta sorridendo.

Magari anche a lei piacciono i Green Day..".

Ma questi pensieri allegri svaniscono quando lo sguardo le cade sugli

occhi di Martina: sono velati, ciechi. Martina è ceca! La

professoressa vedendole la bocca spalancata come quella di uno

scorfano, la esorta ad aiutare Martina a sedersi nel banco vuoto di

fianco al suo.

Martina si presenta, è cordiale, cerca di cavare senza risultato una

parola di bocca ad Ambra. Intuisce che è sorpresa e si mette a ridere.

Le racconta dell'incidente di pochi anni fa e di come sia stata dura.

Legano in poco tempo e Martina invita a casa sua la sua nuova

amica.

La famiglia di Martina è ricchissima e sono molto premurosi con la

loro figlia. All'uscita da scuola c'è una macchina che le aspetta e le

porta a una grande villa fuori città.

Mentre Ambra gira per l'enorme casa, entra in una stanza: grande,

con della carta da parati rosa e il parquet, al centro c'è solo uno

strumento che non vedeva (che aveva cercato di non vedere) da anni.

Si affianca al grande piano bianco, e i ricordi le saltano alla mente

come in un libro pop-up per bambini. Non cerca nemmeno di

fermarli.

A mettere fine a questa catena di ricordi è la padrona di casa,

Martina, che silenziosa come una lepre si siede sullo sgabello.

Sembra un gesto familiare per lei e Ambra intuisce che doveva essere

suo il piano.

"Suonavi?" Le chiede sussurrando come se fossero in un grande

museo vuoto o in un tempio sacro.

"Oh, si. Ma dopo l'incidente sai... Non è difficile continuare. E non

solo col piano. E' stata dura in tutto. Ho avuto una crisi per il fatto

che non riuscivo più a suonare. Mi sono trasferita appunto nella tua

scuola perché andavo al conservatorio e non potendolo più

frequentare..." Non finisce. Probabilmente anche lei, con quegli occhi

perennemente nel vuoto, è presa dai ricordi.

"Eri brava" azzarda Ambra.

Martina annuisce. "Sì, mi dava una pace infinita suonare. E tu,

suoni?"

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 183 ~

Silenzio. Alla fine è sempre il silenzio che si mette in mezzo.

Martina sta attendendo una risposta che non arriva.

Ambra cerca di formulare una frase: " Suonavo. Tanto tempo fa."

E' evidente che l'amica si aspetta il resto della storia.

E racconta la sua disavventura.

"Beh...Martina inciampa parlando, è evidente che non sa che dire

sono sicura che eri brava anche tu." Conclude.

All'improvviso un desiderio le balena nella mente.

"Oooh, ti prego suona per me!"

"No, assolutamente no." E' la risposta che le viene data. Martina

capisce che non conviene insistere, che è una ferita aperta da non

toccare.

Mentre Martina si sta mortificando, Ambra è presa da una lotta

interiore. Se suonasse, se suonasse per questa amica che ha perso la

vista, per ricordarle che al mondo non si vede solo con gli occhi,

sarebbe brutto? Sì, certo che lo sarebbe, non può deludere anche la

sua amica come tutti gli spettatori di quel giorno spaccandole anche i

timpani.

Ma vedendo lo sguardo della ragazza di fianco a lei e decide di

provare. Sbuffando scansa dalla sedia Martina, che è diventata

euforica al pensiero di sentire di nuovo il dolce suono dei tasti

impolverati.

Si siede.

Rivede in un Flash-back il sipario rosso che si alza davanti a lei.

Chiude gli occhi. Inizia.

E le sue mani riprendono confidenza con i tasti in avorio, che le

erano tanto mancati. Risuona le Quattro Stagioni, ma ha paura:

quando finirà il brano ci sarà ancora silenzio.

Impallidisce, si ferma e apre gli occhi. Non c'è più il siparo. Solo la

carta da parati rosa. Basta.

Ma la musica non è finita, di fianco a lei c'è Martina, che in un duetto

felice, guarda davanti a se, vedendo nella sua mente più di una sala

da concerto.

Se Martina ce la fa, può suonare anche lei. E insieme all'amica

s'inoltra nell'Estate che con i suoi venti caldi porta pace, serenità e

coraggio. Ma soprattutto, musica.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Federica Capaccioni

La selva: luogo dell‟anima

Notai un uomo che, con la schiena piegata, arrancava per la strada.

Guardai i suoi occhi verdi che spiccavano come due gemme da quel

volto da poveraccio e ne fui attratta. Scostai subito la ciocca di

capelli dal mio viso e rimasi immobile, quasi con il fiato sospeso.

Il vecchio si sedette con cautela a terra tra l'immondizia, a suo agio

tra la sporcizia. Sospirò e sollevò gli occhi. Si accorse subito di me,

come avrebbe potuto non farlo? Ero rimasta pietrificata in mezzo alla

via con un piede ancora sollevato per il passo che non avevo

compiuto.

Guardai dentro quegli occhi grandi e splendenti che illuminavano la

parte del viso che non era ricoperta dalla sporca barba. Fu in

quell'istante, mentre il vento di tramontana schiaffeggiava le mie

guance ed entrava sotto al mio cappotto, che mi accorsi di quanto

avessero da dire quegli occhi. Specchio dell'anima di quel povero

uomo che ormai aveva dimenticato di essere tale: trattato da tutti

come una bestia aveva alla fine creduto d'esserlo.

Non riuscivo a distogliere lo sguardo, avevo tutto un mondo davanti

a me, un mondo diverso da quello che mi circondava. In quegli occhi

verdi vidi le fronde degli alberi muoversi in quello stesso vento che

mi stava facendo rabbrividire. Vidi un albero, un bosco, una foresta,

una selva. Così fitta e selvaggia da parermi quasi impenetrabile, ma

che, con mia sorpresa, si aprì e mi permise di entrarvi. Mi inoltrai

timorosa, calpestando le foglie marce del terreno umido e saltando le

radici che vi uscivano. Il forte odore di muschio mi fece pizzicare il

naso. Continuai ad avanzare nel buio. Sentivo un suono provenire da

lontano e non riuscivo a capire di che si trattasse. Non riuscivo ad

isolarlo dagli altri rumori, dal fruscio delle fronde, dalle foglie

schiacciate sotto i miei passi. Cominciavo ad avere caldo, un caldo

quasi soffocante, che mi chiudeva la gola.

Proseguii, avevo paura, ma non sapevo bene di cosa. Era una paura

subdola e terrificante della quale non riuscivo a distinguere il viso,

camminava al mio fianco senza dirmi il suo nome. Decisi di

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 185 ~

ignorarla, di proseguire senza preoccuparmene, ma la sentivo

arrancare al mio fianco con il respiro affannoso e gelido.

Il rumore diveniva sempre più deciso, sempre più forte e l'ansia mi

travolse. Velocizzai il passo. Volevo capire di che si trattasse, ma più

avanzavo e più il rumore diveniva fastidioso, perfino assordante.

Mi fermai. Le orecchie mi facevano male, ma ero decisa a trovare la

fonte di questo baccano. I miei occhi si spostarono da un punto

all'altro della foresta, alla ricerca disperata. Dovevo trovarlo e farlo

smettere. E infine vidi qualcosa muoversi sotto un piccolo cespuglio

di bacche rosse. Mi avvicinai cauta e scansai il ramo che lo copriva.

Rimasi immobile ad osservarlo, sconcertata nel trovarlo lì da solo.

Indifeso si contorceva urlando. Piangeva disperato. Mi chinai su di

lui e lo accarezzai. Il bimbo mi guardò e smise di piangere. Sul

pallido volto tornò il colore, le guance si tinsero di rosso. I suoi occhi

verdi, quegli stessi occhi che mi avevano condotta lì, mi fissavano

scettici. Potevo leggere l'abbandono nell'espressione sconvolta del

neonato.

L'accenno di un sorriso si dipinse all'improvviso sulle sue labbra

color pesca. Subito l'aria divenne più leggera e meno soffocante, la

paura scappò via e il vento divenne quasi una carezza. La selva

risplendette di una luce sprigionata dal piccolo esserino che

continuava a fissarmi. Tornò la vita nella selva. I frutti spuntarono

sulle fronde degli alberi, un manto di fiori ricoprì il terreno e il canto

degli uccelli allietò le mie orecchie. Non capivo cosa stesse

accadendo ed ebbi paura. Ebbi paura di ciò che non comprendevo,

temetti l'ignoto, il mistero e involontariamente feci un passo indietro.

Il bimbo rimase stupito dalla mia reazione e per un istante mi studiò.

Poi la sua espressione mutò rapidamente: aggrottò le sopracciglia,

arricciò le labbra e socchiuse gli occhi. La delusione, la paura,

l'abbandono attraversarono il suo volto paffuto. In un istante le

lacrime riaffiorarono dai suoi occhi, scivolando sulle sue guance,

ormai nuovamente pallide e prive di vita. Il suo pianto si sprigionò

con violenza e investì tutto, compresa me. La luce scomparve, il

dubbio mi invase, la paura mi strinse le mani alla gola. Feci un altro

passo indietro e caddi.

Mi ritrovai a terra, sulla strada gelida, mentre il vento ululava. Un

uomo che passava di lì, mi soccorse e mi aiutò ad alzarmi. Volsi

subito lo sguardo verso il mendicante. Era sempre seduto lì, in

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quell'angolo buio del vicolo. Le lacrime bagnavano il suo vecchio

viso e per un attimo rividi quel bimbo, abbandonato, solo, senza

nessuno.

La malinconia mi investì non appena mi resi conto di aver visto la

sua anima.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 187 ~

Carlotta Capello

Con un paio d‟ali

Come tutte le sere, stavo comodamente seduta sulla larga poltrona di

fianco al suo letto, pronta a raccontare la storia della buona notte a

mia figlia Sofia.

“Cosa preferisci che ti legga questa sera, tesoro?” Le chiesi.

“Mi piacerebbe ascoltare la solita storia, mamma” mi rispose

impaziente della lettura.

Sofia amava particolarmente un breve libro che le leggevo

regolarmente da quando era nata. Ne era innamorata quasi quanto me

e io non mi stancavo mai di raccontarla.

Avvicinai di più la poltrona al suo letto, per poterla guardare meglio

in quei suoi occhi blu, simili ai miei, due perle in un visino roseo,

perfettamente ovale, incorniciato da una folta chioma di capelli

castani che le ricadevano sulle spalle con pesanti e splendidi ricci.

“Va bene piccola mia” sussurrai dolcemente. E così cominciai a

leggerle un piccolo libro blu dal titolo: “Con un paio d‟ali”.

“Il cuore palpita.

Si alzano soffuse le luci.

Si apre il sipario.

Comincia la musica.

Le note suggeriscono il movimento: è il momento di entrare in scena.

Quello tra me e il palcoscenico è stato un amore a prima vista e

quando l‟ho capito, è stato per sempre.

Ciò che mi porta oggi, 13 settembre 1998, alla vigilia del mio

diciannovesimo compleanno, a tradurre in parole il diario della mia

vita, da sempre scritto nel mio cuore, è una strana forza che brucia

dentro me da quando sono nata, una forza dettata non solo

dall‟amore e dalla sensibilità con cui mi rivolgo alle persone, ma

soprattutto da un‟immensa e straordinaria passione che riempie il

mio cuore fino a farlo scoppiare. Una sola cosa nella mia vita è certa,

indissolubile e indiscutibile: il mio amore per la danza.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 188 ~

Fin dall‟età di un anno, zia Stefania mi portava con sé alle lezioni di

danza che svolgeva nella sua scuola. Trascorrevo i pomeriggi ferma,

immobile e silenziosa in un angolino della spaziosa sala rettangolare,

fissando attentamente ogni singolo passo svolto da quelle ballerine

volanti che sognavo di imitare, un giorno.

Ricordo ancora l‟emozione provata la prima volta in cui indossai un

paio di scarpette rosa, numero 22. Sentii come una forza d‟attrazione

indistruttibile sprigionarsi tra i miei minuscoli piedi e le scarpette:

nessuno sarebbe più riuscito a togliermele.

Ciò che all‟inizio era un gioco divertente, divenne fatica, sforzo,

lavoro, ma soprattutto…passione! Continuai a frequentare le lezioni

sotto l‟immancabile guida della zia, la persona più splendida che

esista al mondo. Riuscì a trasmettere a noi allieve, e a me in

particolare, il grande amore che nutriva per il suo lavoro. Ci allevò

con affetto fin da piccolissime, mantenendo la promessa che ci

avrebbe portate in alto.

In breve tempo mi resi conto che danzare era ciò per cui sarei stata

disposta a sacrificare tutta me stessa, ciò con cui avrei voluto

illuminare ogni singolo frammento della mia vita. La danza è la

massima espressione dell‟anima attraverso il proprio corpo in

movimento, che ritrae a suon di musica, l‟emozione che in quel

momento rapisce la nostra realtà e ci culla tra i più nascosti sogni.

Ormai a distanza di diciassette anni da quando compii il primo passo

di danza, comincio veramente ad apprezzare l‟opportunità che mi è

stata data, quella di poter ballare in armonia tra corpo e anima. Fin da

piccola sognavo di poter diventare un angelo della danza. Ero

fermamente convinta che con un paio d‟ali avrei potuto fare tutto.

Quelle ali un giorno, Stefania le posò veramente sulla mia schiena.

La danza era davvero l‟unica cosa che aveva conquistato e

guadagnato il mio amore, ero fermamente convinta che non sarei mai

riuscita ad amare qualsiasi altra cosa o persona quanto amassi la

danza. La passione per questa disciplina mi ha cambiato la vita di

certo, mi ha reso davvero felice. Credo fermamente che la felicità,

per quanto relativa, esista. Felicità significa vivere con una perfetta

sintonia tra la propria anima e la propria vita.

All‟età di sedici anni, quelle ali mi portarono davanti all‟amore della

mia esistenza.

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~ 189 ~

Era un pomeriggio soleggiato di inizio primavera, il 12 febbraio

1995. Zia Stefania ci comunicò una novità, insolita: un nuovo

ragazzo, proveniente dalle province milanesi, era stato inserito nella

nostra squadra. Il suo nome: Edoardo.

Io, da timida sedicenne qual ero, cominciai a odiare la sua presenza

dal più profondo del cuore, reputandolo uno sbruffone che si

crogiolava in un eccesso di autostima. Per quanto potessi criticarlo,

tuttavia, non potevo mettere in discussione la sua danza, il suo

movimento armonico e sublime; non avevo mai visto nessuno ballare

come lui.

Non trascorse molto tempo prima che mi accorgessi realmente che

l‟odiavo perché lo desideravo troppo. Tutto di lui mi attraeva: gli

occhi blu penetranti, i capelli spettinati di color bronzo, l‟alta e

muscolosa statura, il fisico perfetto e scolpito da ballerino

professionista, la voce tenera e profonda…

Tutto avvenne poi molto velocemente, dal momento in cui il destino

decise di farci ballare insieme. Zia Stefania, la coreografa, aveva

deciso di prepararci un passo a due, lo sbaglio peggiore che potesse

fare in quel momento, ma l‟unico errore che, se potessi tornare

indietro, le chiederei di poter ripetere.

Da allora Edoardo mi è sempre stato accanto.

Il filosofo Platone disse che le anime gemelle sono rarissime da

trovare perché metà troppo diverse di una mela, impossibili da

combaciare. Tutte erano simili, ma nessuna rappresentava la metà

perfetta. Noi costituivamo un‟eccezione.

Quando rivolgo gli occhi al cielo oggi, ringrazio per la vita che sto

attraversando, soprattutto per le persone che mi sono accanto.

A diciotto anni mi venne presentato un contratto di lavoro in una

compagnia teatrale di fama internazionale, la “Boston Ballet

Accademy” che aveva una temporanea sede in Italia.

Avevo il lavoro che avevo sempre desiderato ed ero fiera dell‟amore

che mi camminava affianco, Edoardo. La mia vita si era trasformata

realmente in un sogno da cui non avevo intenzione di svegliarmi.

Cosa succederà fra dieci anni? Non lo so. Il futuro? Ancora una

nuvola, il dubbio.

La vita è un insieme di improvvise e meravigliose coincidenze e

casualità, vale la pena di essere vissuta a fondo, anche in ciò che

possa apparire piccolo.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 190 ~

Chi l‟avrebbe mai pensato che mi sarei ritrovata a scrivere queste

pagine su un tavolo di legno vecchio e massiccio, dietro le quinte del

Teatro della Scala di Milano, a poche ore dalla prima del mio

spettacolo? Zia Stefania è proprio là, tra le prime file della platea. È

senza dubbio la persona a cui devo tutto questo. Se non fosse stato

grazie a lei, non avrei mai infilato quelle scarpette rosa numero 22

che, con le loro ali, hanno aperto un magico sipario su un orizzonte

pieno di emozioni.”

Interruppi il racconto che Sofia stava già dormendo. Mi alzai

dolcemente dalla poltrona per darle un bacio in fronte e rimboccarle

le coperte. Fuori dalla porta della stanza di mia figlia mi aspettava

silenzioso mio marito: come al solito aveva origliato tutto.

“Camilla, per quanti anni ancora le racconterai questa storia?” Mi

sussurrò lui dolcemente.

A trentasei anni non ho rimpianti. Conduco il mio lavoro con

passione. Nel mondo del teatro dirigo la mia personale compagnia.

Né io, né mio marito ci siamo allontanati dal mondo della danza,

motivo di vita e fonte di un amore profondo che ha coronato le nostre

esistenze.

Lo baciai teneramente, quasi commossa dalla mia breve lettura, che

faceva riaffiorare in me l‟emozione.

Finché potrò, cercherò di insegnare a Sofia che la vita vale la pena di

essere vissuta nella sua interezza, perché dietro l‟angolo si nasconde

sempre un diamante da scovare, una luce, anche quando sembra buio,

un faro da seguire che ci porterà a sentirci compiuti in questo mondo.

“Ti amo, Edoardo”, gli ricordai.

Per questo, finchè avrò voce per farlo, continuerò a raccontare la mia

storia, volando verso i miei sogni con un paio d‟ali.

Tutto comincerà sempre da qui:

“ Il cuore palpita.

Si alzano soffuse le luci.

Si apre il sipario.

Comincia la musica.

Le note suggeriscono il movimento: è il momento di entrare in scena.

Quello tra me e il palcoscenico è stato un amore a prima vista e

quando l‟ho capito, è stato per sempre.”

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Annalisa Carnevale

La bambola zucchina

Sofia, sorella di altri sette figli di una coppia di contadini, abitava

nella periferia di un piccolo paesino non lontano dalla campagna,

dove suoi genitori lavoravano. Sofia era una bambina che non aveva

giocattoli né per sé né da offrire alle sue compagne, ma non se ne

curava perché, finiti i compiti, faceva di fretta le scale e andava a

trovare la sua amica Maria. Arrivata sotto casa, chiedeva

timidamente: “Signora, c‟è la mia amica?” “Sì, certo, sali su, Sofia!”

Maria aveva tante bambole e pur se a Sofia toccava giocare con

quella più malaticcia, non importava, perché anche lei ora aveva una

bambola tra le mani. Era una di quella bambole di pezza con i capelli

ricavati da lunghi fili di lana neri intrecciati, due bottoni a fare da

occhi, bocca e nasino cuciti con cotone rosso e, a causa degli anni,

toppe colorate cucite qua e là; a Sofia piaceva molto. Il pomeriggio

passato a giocare volava Sofia, affacciandosi alla finestra, vedeva che

ormai il sole stava tramontando: “uffa, come passa il tempo!”Così

con il broncio sul viso sapeva che doveva tornare a casa. Saltellando

sulla via del ritorno, intonava un ritornello per non sentirsi sola:

“corri, corri, la notte si avvicina, sei solo una bambina, non ti puoi

allontanar! Corri, corri, la notte si avvicina, la mamma ed il papà si

posson preoccupar!”

Sofia non aveva molto: qualche vestitino, una spazzola per i suoi

lunghi capelli e un paio di scarpe. La mamma cucinava spesso la

zuppa di patate per cena e il pane doveva bastare per una settimana.

Nonostante questo, Sofia non era mai triste, a parte rari casi, perché

si accontentava di ciò che aveva.

Uno di quei rari casi era quando gli altri bambini la prendevano in

giro perché aveva le lentiggini, dicendole che sicuramente da piccola

la mamma distratta la lasciò cadere in una pentola piena di lenticchie.

Lei si sentiva carina anche con quella macchioline marroncine, che

realmente sembravano lenticchie, ma non per questo un difetto.

Quando Maria non era in casa Sofia aspettava che le sorelle finissero

i compiti e, inforcata la bicicletta, si dirigevano in campagna. Sofia si

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impegnava a spingere forte sui pedali, perché arrivando prima le

sarebbe toccato il “primo premio”. Infatti arrivava sempre per prima

e tutta soddisfatta si gettava tra le verdure e, con accuratezza, si

impegnava nella scelta, finché esclamava: “ecco, oggi sarà lei la mia

bambola!” Stringendo tra le mani una zucchina ancora color arancio

a causa del freddo.

Sofia questo l‟aveva imparato dalle sorelle maggiori, che le avevano

spiegato che non esiste niente di impossibile o niente che non si

possa avere quando c‟è la fantasia. Così Sofia faceva due buchetti

per gli occhi, un bel nasino un po‟ lungo e un foro rotondo che

avrebbe fatto da bocca alla sua zucchina. L‟inverno, quando c‟erano

le frasche per accendere il fuoco, Sofia rubava un piccolo pezzo per

farne un ciuccio alla sua bambola e la copriva con un suo

maglioncino per non farle sentire freddo. Sapeva bene che le

bambole, e soprattutto quelle zucchine, non piangono né sentono

freddo, ma a lei piaceva immaginarlo. La sua bambola zucchina non

aveva nulla a che vedere con le deliziose bambole di Maria, ma Sofia

la stringeva molto fiera perché, anche se non era di pezza, poteva

affermare: “anch‟io ho una bambola!!”

Passato l‟inverno Sofia, approfittando di una bella giornata di sole,

tornò a trovare Maria. Come sempre chiese: “Signora, c‟è la mia

amica Maria?” Questa volta la signora non disse “Sì” né altre parole,

ma rivolgendosi a Maria esclamò: “Maria, c‟è Sofia, vai giù ad

aprire!” Maria scese le scale e aprì la porta che già il suo viso era

pieno di tristezza, con una mano reggeva una valigia e con l‟altra

Sofy, la sua bambola preferita. Sofia ingenuamente disse: “cos‟è

questo della valigia, un nuovo gioco?” Dopo un po‟ di silenzio Maria

pronunciò uno stretto “No!” “Allora parti, fai una vacanza. Che

bello, sei molto fortunata! Dove vai?” Maria non si trattenne e con le

lacrime agli occhi riuscì solo a dire: “no, non sono fortunata, non

tornerò più qui!” E, lasciando Sofy all‟amica, corse via.

Sofia, quel pomeriggio, tornava a casa portando con sé la bambola

più bella che avesse mai visto, ma si sentiva più sola delle altre volte

e in quel giorno così triste nemmeno il ritornello le faceva

compagnia. Una volta arrivata, ripensava ancora a quella brutta

giornata, vedendo Sofy seduta sulla sedia a dondolo di legno che le

aveva costruito il padre. Sofy era davvero bella: aveva dei soffici

riccioli biondi con un nastrino rosa che li avvolgeva, lo stesso rosa

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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del vestitino decorato con piccoli fiorellini blu. A Sofia quella

bambola era sempre piaciuta, ma non aveva mai potuto giocarci ed

ora che era tutta sua non sapeva cosa farci, senza la sua amica con

cui ridere e scherzare. Quella sera parlò poco durante la cena, mangiò

a stento e frettolosamente corse ad infilarsi sotto le coperte, anche se

non dormì perché aveva mille pensieri per la testa. Come mai la

bambola che le piaceva tanto ora non le dava più alcuna gioia? E poi

si chiamava Sofy (come lei), quindi forse era più giusto che la

tenesse Maria. Ed infine come ripagare Maria per quel regalo tanto

prezioso?

Ora Sofia aveva una bambola vera, con braccia, gambe, viso, capelli

e perfino vestitino e nastrino abbinati come non ne aveva nemmeno

nel suo armadio, ma la notizia della partenza di Maria le aveva

sconvolto la vita e Sofy non esisteva più. Così le venne un‟idea e la

mattina dopo si alzò molto presto, prese la bici e corse in campagna

per prendere un degno regalo che potesse essere importante almeno

quanto Sofy. Scelse la zucchina più bella che c‟era, verde, lucida e

brillante sotto i raggi del sole; forò due buchi perfetti e grandi per gli

occhi e una linea a mezza luna per una bocca sorridente. Passò a casa

di Maria prima di andare a scuola e la trovò pronta per la partenza,

con la macchina già colma di bagagli. La chiamò e, sperando che le

piacesse il regalo, glielo diede. “una zucchina?” Esclamò Maria;

“cosa dovrei farci, la zuppa?” “No, amica mia , non è una zucchina!

Questa è la mia bambola. Lo so, non è carina come le tue di pezza,

ma è l‟unica che ho e voglio donarla a te.” Maria si tuffò addosso a

Sofia, stringendola in un abbraccio così forte che la lasciò senza

respiro per qualche secondo. Poi Sofia continuò: “voglio che la

chiami Sofy ed io chiamerò la mia Mary, così da portarti sempre con

me e da poterti abbracciare ogni giorno; ti parlerò e ti racconterò

tutto, ogni sera dormirò con te nel letto e, appena potrò, ti invierò una

lettera per farti sapere come stiamo io e Mary!”. Maria fu così

contenta e felice da perdere le parole.

Sofia, quella bambina così dolce e spensierata, a cui piaceva

immergersi nella fantasia, oggi è mia madre, una dolce vecchietta

che si culla sulla sedia a dondolo, un ricordo del padre. La vedo lì

seduta, come racconta con malinconia questa storia (che io conosco a

memoria per averla ascoltata infinite volte) e la seguo un po‟ distratta

mentre parla. Invece i miei figli, seduti ai suoi piedi, sono attenti ad

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ogni parola e pendono dalle sue labbra ininterrottamente fino al

termine della storia, quando sono sempre io a rovinar loro

l‟atmosfera, svegliandoli da quel sognare insieme a lei: “Giacomo,

Anastasia, la nonna è stanca, adesso lasciatela riposare…”

Credo che Maria sia davvero esistita, ma che dopo quel giorno non si

siano più viste né sentite, perché mamma non parla mai di cosa sia

successo dopo e termina il racconto sempre allo stesso punto, con

una precisione indiscutibile. L‟importante, però, è che lei l‟abbia

tenuta sempre nel cuore, facendola rivivere nei suoi racconti e

donandole ciò che le era più caro: la sua bambola zucchina.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 195 ~

Alberto Ciccioli

Una cosa importante che mi è successa negli ultimi

giorni.

Ero a Vienna con la mia bella famiglia. Eravamo arrivati

all‟aereoporto di Bratislava a da lì un pullman ci ha portato a Vienna

che dista 60 km.

Il primo giorno di vacanza era volato via come una rondine che

emigra.

Stavamo andando verso la metropolitana che da fuori viene indicata

con una “U”.

Correndo stavamo andando verso la metropolitana che stava per

partire.

Io ero in testa ed ero riuscito a salire, ma le porte si erano chiuse

lasciando fuori mamma, babbo e Sara.

Come se qualcuno mi avesse tirato un pugno nello stomaco, mi

sentivo malissimo, non riuscivo a sentire più niente ero come una

fonte che smette di sgorgare.

Finalmente mi ero ripreso e sentivo le voci accavallate di mia

mamma e mio babbo che dicevano: “Scendi alla prossima!”

In quel momento il metrò partì e vidi le sagome della mia famiglia

scomparire. Mi aggrappai al palo del metrò e scesi alla fermata dopo.

Tutti mi guardavano.

Mi sentivo come un giardino senza fiori, come un cielo senza stelle,

come un albero senza foglie.

Mi misi a sedere su una panchina, piangendo.

Ero in uno stato straniero, in una città che non conoscevo, dove si

parlava una lingua straniera.

Una donna vedendomi piangere mi venne accanto e mi disse delle

parole in austriaco.

Io cercai di dirle che ero italiano e che mi ero perso ma in quel

momento…..”mamma!”….

Le saltai addosso e la abbracciai. Feci lo stesso con babbo e Sara.

Ero come un giardino pieno di fiori, un cielo pieno di stelle, un

albero stracolmo di foglie, mentre dentro di me danzavo

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 196 ~

accompagnato da una musica soave che riempiva il mio cuore di una

felicità immensa.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 197 ~

Amina De Biasio

L'alchimia del mio dolore

“Buon 'Sol Invictus', io non dimentico.”

Questo il biglietto d'auguri trovato nella scatola di cioccolatini Lindt.

Un modo curioso, quello di lasciare un regalo sul corrimano di un

condominio di città proprio nel giorno in cui vengo sfrattata.

Devo muovermi, devo fare le valigie (libri e quattro stracci) e andare

via, chissà dove. Non posso lasciare la città a causa degli studi, tra tre

giorni ho un esame di filosofia, tra l'altro.

La vita non mi sta sorridendo ed io non saprei proprio come farle il

solletico. È da quando ho conosciuto Tristan che sono messa così.

Quando sto con lui il mondo è paradisiaco, poi diventa ad un tratto

una schifezza. Sarà la cocaina che mi calo con lui, sarà il sesso, sarà

la birra. Che ne so. So solo che ho bisogno di lui, ma ancora di più di

un posto dove dormire. Ho 13,20 € in tasca, i miei genitori non mi

parlano più e non ho amici. Io ho solo Tristan, quel fottuto drogato

che amo da morire.

Lui non dimentica. No, lui non lo fa. Non ho nemmeno credito nel

telefonino per chiamarlo; comunque non risponderebbe. Lui è fatto

così: ma io lo amo, e per lui sto rovinando la mia vita.

La stazione è desolatamente vuota, non passano più treni da anni.

Qui la gente non è agitata per il treno in ritardo, per il biglietto troppo

costoso o per il peso eccessivo dei bagagli. Qui la gente fa un altro

genere di viaggi. Welcome to hell. Il mondo della droga è l'ex

stazione centrale di questa città.

Lo sanno gli sbirri, ma gli fa comodo così: la feccia umana, gli

escrementi di quel dio che non ti ascolta, i brani sanguinolenti di una

società alla deriva vivono qui senza dar troppo fastidio alla borghesia

media e alta. Da oggi, sono una di loro; da oggi, vivo nella backstage

di questo posto. È strano mettersi a studiare trattati di filosofia

esoterica seduta tra un drogato in stato di semi-incoscienza e una

puttana che si masturba davanti ad altri. Se non vado in biblioteca è

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 198 ~

perché puzzo, ho i vestiti sporchi e, soprattutto, perché è in un posto

come questo che Tristan sa di potermi trovare, perché sa che è in un

posto come questo che io andrei a cercare lui.

Sono passati due giorni e di Tristan nemmeno l'ombra; ho provato a

chiedere di lui in giro ad alcune sue amiche, ma sembra che questo

sia il più grande segreto del mondo. Un segreto che non mi è dato a

sapere. Forse è finita. Tristan non riusciva a stare più di dodici ore

senza di me, ed io senza di lui. Solo ora che ci penso, un dolore

lancinante mi sta spaccando il cuore a metà. Non ho soldi, non ho

casa, non ho amici e non ho più nemmeno un fidanzato. Cosa mi

resta, se non un mucchio di carta da studiare e un esame destinato ad

essere l'ultimo?

Dolore, ecco cosa mi resta. Dolore.

Un tizio mi si avvicina e lo si vede dalla faccia che ha intenzione di

dirmi qualcosa e, per questo, schiaccio il tasto Pause del mio cervello

intento ad elaborare una tesi che abbia qualcosa a che fare con la

filosofia. E infatti aprì quella bocca sdentata: “ Ciao bellezza, sei

triste da due giorni, che ti prende? “ La sua voce era terribilmente

familiare, forse ho partecipato a qualche festa con lui, non ricordo; è

sicuramente grazie a questa familiarità che non mi sono alterata per il

“complimentospento” (bellezza) e ho risposto, con voce amichevole:

“ Ciao, sì è che domani ho un esame importante e quindi devo

studiare molto...”. Non ho mai studiato filosofia in vita mia. La

filosofia non è una di quelle cose che si imparano, ce l'hai dentro di

te: basta tirarla fuori al momento giusto. E poi, l'esame è di tipo

“casuale”. Chiamo così quegli esami che non sai su cosa sono. Certo,

filosofia, ma avete idea di quanto vasta sia? Potrebbe chiedermi la

teoria degli atomi di Democrito, potrebbe chiedermi la teoria delle

idee di Platone come il manifesto comunista di Marx o il nichilismo

di Nietzsche. Ed io ho un cuore troppo malato per chiedermi che cosa

dirò domani. “Tieni.” Una spada di eroina. Non ho mai provato

l'eroina: l'idea di bucarmi la pelle mi ha sempre fatto schifo.

“Perché me la dai?” chiesi curiosa.

“Perché ne hai bisogno. Sudi e tremi. Quella non è tensione, ragazza.

È l'inizio della fine. Se non ti cali subito qualcosa avrai degli

attacchi. Non sono cocainomane, per cui non posso darti la tua droga.” La sua risposta mi lascia perplessa. È vero, sto male, ma

pensavo fosse una conseguenza fisica del mio dolore spirituale.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 199 ~

“ Non ho mai esagerato con la droga, non ne sono dipendente. Tu

perché credi che lo sia? “

“ Non è un fatto di credere. Si vede. Tieni, su, mi ringrazierai. Se non

vuoi farlo adesso mettila in borsa e fallo quando ne sentirai la

necessità. Tanto non manca molto. “

“ Perché ci droghiamo? “

“ Guardali “ mi disse indicando un gruppo di persone in viaggio sulla

luna, incoscienti del mondo reale che li circonda. “ Guarda come

sono calmi, docili. Non hanno problemi loro. Sono tranquilli, vedono

quello che vogliono vedere; sentono quello che vogliono sentire. È

per questo che ci si droga: per chiudere i conti col mondo, per

staccare la spina, per vivere solo quello che si vuole vivere, con una

leggerezza che Kundera potrebbe definire insostenibile. “

“L'insostenibile leggerezza di Kundera è tutta un'altra cosa, quella è

reale. Ma apprezzo il tentativo.”

“Calati quella spada prima che ti venga una crisi” e con questa si

congedò.

Non credo che mi bucherò un braccio.

Esame. Dio mio, oggi c'è l'esame.

Sono già qui che aspetto il mio turno e vicino a me vedo solo gente

che studia, ripassa. argomenti dei quali non sanno niente, argomenti

che per il 99% delle probabilità non gli verranno chiesti. Io sono

l'unica che non studia. Io fisso un punto a caso di fronte a me e sento

che non sto bene. Il mio corpo trema, non lo controllo. Sudo. Un

ragazzo mi si avvicina, mi sorride e prima di andare dalla sua ragazza

poco più in là, mi dice: “Calati qualcosa, idiota. Non vedi che stai male?”

Sto male, ed è colpa della droga. La mia mano trema sempre più

violentemente. Alcuni ragazzi si girano per il rumore che faccio.

Devo andare al bagno. Vomito. Sto male. Cosa faccio? Tocca a me

adesso. Dov'è Tristan? Dove sono tutti gli amici che avevo un

tempo? Cosa mi è successo? L'eroina. È ancora nella borsa, ed è

l'unica mia salvezza. Una salvezza che finirà con l'uccidermi. Vomito

ancora. Cucchiaio, accendino, carta stagnola. Vomito. Non ce la

posso fare da sola, e non ho un laccio emostatico. Cosa cazzo faccio?

Esco in corridoio: “C'è un fottuto drogato che mi aiuta, Cristo

santo?” Ho gridato troppo. Tutti si sono girati. Il ragazzo di prima

corre. “Stupida. Entra nel bagno, faccio io.”

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 200 ~

Piantandomi quell'ago nel braccio mi sorride e mi parla, ma io non lo

capisco. È una sensazione di totale sollievo. Io rispondo alle sue

domande, ma non le capisco. Prima di prendermi a schiaffi per farmi

rinascere, mi sorride e prima di andarsene mi dice: “ Tristan è

scappato. È andato in California con una figlia di papà. Ciao

bellezza“.

Che lo abbia detto apposta o no, non ha importanza. Forse sono stata

io stessa, incosciente, a chiedergli se lo conosce e se ne sa qualcosa.

Sono nera.

“Ha la faccia sconvolta, signorina. Si è preparata per questo esame

fino allo sfinimento?”

“Assolutamente no. La filosofia è una cosa che viene da dentro, la

filosofia non si impara.”

“Mi parli dell'alchimia. Anzi, mi elabori una ricetta alchemica. Ho

voglia di separare la verità dalla menzogna, oggi.”

I soliti tranelli da professore universitario. Ti dicono di studiare

Dante e ti chiedono Petrarca. Vicini, certo, ma non la stessa cosa. Io

comunque sono fatta e la mia testa produce. Ci provo, pensando a

Tristan e al male che mi sta facendo.

“Dal battito di cuore che mi ha dato e poi tolto una persona posso

ottenere Dolore, che se portato alla temperatura giusta e raccolto in

un apposito contenitore diviene un elemento instabile e molto

tossico: Rabbia. A sua volta, quando ne ho una bella ampolla, la

posso distillare nell‟alambicco, Se l‟operazione va a buon fine

ottengo un estratto di Forza da una parte, mentre dalla coda della

distillazione stessa posso ottenere Equilibrio (sempre se ho

abbastanza Spirito da aggiungere).”

“Spero non le manchi questo Spirito. Ora mi dimostri che questo

telefonino è mio.” appoggia sulla cattedra il suo telefono.

Rimango in silenzio, ma la mia testa strafatta ha già un piano.

Silenzio. Silenzio.

“Vedo che non sa dimostrarmi questa banalità. Peccato, sull'alchimia

era andata bene. Torni la prossima volta, signorina.”

Mi alzo, prendo il cellulare del professore e me ne vado.

“Signorina, dove va con il mio telefono?”

Sorrido. Glielo riporto. Sorrido. Ho vinto io, stavolta.

“30 e lode.”

Io ho abbastanza Spirito. Io ho abbastanza Spirito.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 201 ~

Elisabetta Delprato

Achille

Questo, dunque?

Sento pensieri che come sabbia scivolano nella mia testa, ma... Se

sono divenuto clessidra, quanto a lungo saprò sopportare questo

nuovo compito...? Ah, sciocco! Ora, questi pensieri... Tutto finirà,

tutto finirà tra poco, ed io...

No.

Non ha detto questo, d'altro canto, non era proprio questo... Sciocco,

sciocco due volte! Non finirò così, non adesso, ma la voce... Lo ha

detto, lo so ormai! Non c'è via di scampo se non... E dunque, niente.

Mi pare di non sentire più la mia carne ed è passato solo un misero

secondo da quando lo so! E già l'odore del Fato è qui, sono già sulla

battaglia? Questa è forse dunque Ilio? … Com'è bella... La luce che

tange come un'amante le sue cime... E questo calore che sento,

questo non è forse il suo splendore? Si espande lungo le mie palpebre

semichiuse, sulle mie ciglia bionde come il deserto, mi avvolge e mi

abbraccia, questo tepore antico e intrigante...

Stolto! Ad innamorarti ora del suo fascino di demonio! Lei, lei sarà

la causa, l'unica... Lei e la donna, maledetta creatura portatrice di

sventura! Quell'errore, per quel maledetto e quel mostro egoista di

uno straniero, come osò!?! Odiosa creatura! Sarò la rovina della sua

patria, di quel sacco di vigliacchi e invertebrati, sarò la distruzione, la

cancellerò dalla faccia della terra e come una tempesta infausta mi

abbatterò su di essa senza pietà, perché non la merita, la traditrice!

Tremeranno i figli, sanguineranno i ventri delle madri al sol pensiero

di partorire, perché nessuno di loro vorrà essere vivo di fronte alla

mia ira!

Ma mi appartiene questa sabbia? Cioè, questi pensieri... No, non

sono io... Ho forse bisogno di provare il ferro in bocca, io? Di

assaggiare il sangue di altri valorosi, di sentire nella carne sbranata il

gelido metallo... Di volteggiare nella danza della morte, di rovistare

tra i sogni degli uomini quando questi passano negli occhi del

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 202 ~

morente davanti a te... E‟ tutto per me, questo, è per come sono, lo è!

Cosa, dunque? Non mi prende l'ansia della battaglia, non mi

sconvolge il cuore l'aria di poter brandire il bronzo amato, di serrare

la mascella nello sforzo, di contrarre i polpacci nella difesa, nello

strozzare la mia gola per il grido che lancerò quando il mio braccio

strapperà da questa terra lo spirito dei miserabili che cadranno

davanti al mio impeto inarrestabile!

Oh, madre mia...

queste lacrime disonorevoli, fermatele! O le fermerò io con la mia

stessa...! Madre, madre mia! Non conosco neanche una donna che

già pretendono indietro la mia vita, non voglio, non voglio!

Su questa bilancia, il piatto di sinistra pesa molto.

Provo più di una volta a spingerlo verso l'alto, a dargli un aiuto.

Ma, in fondo... Non mi interessa. Dovrei forse seppellirmi in una

fossa sul fondo della quale, per nostro bene, scrissero

“VERGOGNA”...?

E poi a sera, passando il dito sui lividi, lo ringrazierò per non essere

ancora giunto.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 203 ~

Emanuele Di Brago

I falò

Nel mio paese, Aquino, i falò hanno una tradizione antichissima e si

accendono le sere delle vigilie di S. Tommaso e S. Giuseppe. Sono

date che danno tanta attività ai bambini e ai giovani, i quali, fin da

cinque o sei giorni prima, si spargono per vicoli e campagne in cerca

di materiale combustibile: paglia, frasche, cenci, pali, tavole e

persino vecchie gomme d‟auto. Con tutta questa roba, poi, si

comincia a preparare il falò: prima si mette la paglia, poi sulla paglia

si adagiano cannucce secche e fascine e via via tutto l‟altro materiale

raccolto, dal più leggero al più pesante, così da formare una grande

catasta. La sera della vigilia, dopo il tramonto, tanta gente, come per

appuntamento, accorre numerosa attorno al gran mucchio pronto per

la conflagrazione.

Quell‟anno, come di consueto, io e i miei amici ci davamo alle nostre

allegre scorribande per procurarci quanto più materiale possibile.

Mancava ancora qualche giorno alla festa e avevamo pensato di

compiere un‟incursione sulla collina di fronte al paese, poiché lì si

trovava ottimo legname da ardere; così di buon mattino mi alzai tutto

contento per l‟avventura che mi si prospettava, ma trovai una

sorpresa, non del tutto gradita in verità: mia sorella. Sì, insomma,

avrei dovuto badare a lei tutto il giorno, perché i miei genitori

sarebbero stati impegnati con la preparazione della festa fino a sera.

Be‟, anch‟io avevo dei progetti quel giorno e non vi avrei rinunciato

per nulla al mondo. Aspettai che mamma e papà uscissero e poi me

ne andai con i miei compagni sulla collina. Portandomi dietro Elisa,

naturalmente.

Neanche gli altri furono esattamente entusiasti della sua presenza:

una bambina di sette anni è una lagna, non c‟è che dire, ma mia

sorella era una vera e propria palla al piede! E infatti cominciò subito

a rovinarci la giornata: ho fame, ho sete, sono stanca, Pippo si sporca

(il suo orsacchiotto...), lo dico a mamma… Alla fine decisi di

sistemarla in un prato a raccogliere fiori: mi sembrava un posto

abbastanza sicuro, non c‟erano burroni e la strada era lontana, quindi

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 204 ~

non poteva né sfracellarsi né finire sotto un camion; inoltre le

fornimmo cibo e acqua a volontà e la rassicurai dicendole che Pippo

le avrebbe fatto buona compagnia e noi saremmo comunque tornati

prestissimo. Mentre mi allontanavo, però, sentii dentro una strana

inquietudine: forse erano stati i suoi occhi grandi che ci guardavano

con tristezza mentre l‟abbandonavamo o forse già sentivo che quel

mio gesto avventato avrebbe avuto serie conseguenze.

Il tempo volò: quando mi accorsi che erano già passate quasi tre ore

da che avevamo lasciato Elisa, poco mancò che mi venisse un colpo.

Radunammo tutti i rami secchi che avevamo trovato (tantissimi in

verità, avremmo fatto un falò grandioso!) e tornammo indietro il più

velocemente possibile. Ci accolse un prato deserto e un silenzio

irreale: sembrava che anche gli animali fossero spariti. Chiamai Elisa

a gran voce, ma nessuno rispose. Ci sparpagliammo nelle immediate

vicinanze e la cercammo freneticamente, ma niente, mia sorella non

c‟era. Qualcuno mi chiamò per mostrarmi qualcosa, ma io ero

talmente agitato che lì per lì non mi resi conto di cosa fosse

quell‟ammasso informe di pelo; poi capii e sentii il sangue gelarmisi

nelle vene: era Pippo, sporco, arruffato e con una zampetta strappata.

Il mio amico l‟aveva trovato un bel po‟ più giù di dove eravamo, nei

pressi del fiume.

Da quel momento in poi i miei ricordi sono molto confusi: rivedo

mia madre piangere e urlare, mio padre correre via con gli uomini del

paese per setacciare i dintorni, gli sguardi carichi di muto rimprovero

nei miei confronti. Io ero come annichilito: non riuscivo ancora a

capacitarmi che tutto quel che stava accadendo fosse la realtà,

speravo di svegliarmi da un incubo, pregavo affinché la vocetta

petulante di mia sorella tornasse a risuonarmi negli orecchi… Ma gli

uomini tornarono soli e mio padre era una maschera di dolore e

disperazione. Per due giorni le forze dell‟ordine lavorarono senza

risparmiarsi, purtroppo, però, senza esito: di Elisa nemmeno l‟ombra.

Giungeva, intanto, la sera della vigilia: i fuochi rituali erano stati

composti, ma ben triste era l‟atmosfera che si respirava. Nessuno mi

aveva più rivolto la parola dalla mattina della scomparsa e io stesso

cercavo di nascondermi il più possibile agli sguardi altrui. Mi

incamminai da solo verso la collina: faceva quasi buio, ma non aveva

importanza, volevo solo stordirmi, forse perdermi anch‟io, punirmi in

qualche modo. Quando giunsi nel prato, le lacrime che per due giorni

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~ 205 ~

mi ero tenuto dentro irruppero con tale violenza da squassarmi quasi

il petto. Mi gettai a terra e urlai al cielo il suo nome una, dieci, mille

volte… E poi la sentii: Andrea, diceva, fa freddo, mi riporti a casa?...

E dal cespuglio vicino sbucò fuori Elisa.

Quella notte i roghi sbocciarono con rinnovato vigore per monti e

campagne tutt‟intorno ad Aquino, come un cielo stellato capovolto.

Le donne intorno ai falò recitavano preghiere e tutti lodavano il

Santo per il miracolo. Io, come voleva la tradizione, passai più volte

correndo attraverso le fiamme, come ex voto per la grazia ricevuta:

riportai qualche bruciatura, ma Elisa che rideva tra le braccia di mia

madre leniva ogni dolore.

Nessuno è riuscito ancora a capire cosa sia realmente successo in

quei due lunghissimi giorni di angoscia: Elisa sta bene, ma non

ricorda nulla, se non che, avventuratasi lungo il fiume, aveva

smarrito Pippo (per inciso, anche lui ora sta bene: è pulito e pettinato

e ha una bellissima zampa nuova) e, dunque, era scoppiata in

lacrime, ma un anziano signore “con la gonna lunga” l‟aveva presa

per mano e le aveva cantato una ninna nanna per farla addormentare.

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~ 206 ~

Camilla Di Domenico

Il castello

Ci sono giorni in cui senti la mente così libera e leggera che proprio

non hai voglia di riempirla con pensieri, di nessun genere. E una

casa, per quanto immensa possa essere, è ancora troppo piccola per

poter contenere il bisogno di svago, di libertà, appunto.

Fu il caso di un freddo pomeriggio di Dicembre. Decisi di chiamare

la mia amica di sempre, Flora, e tutte incappucciate cominciammo a

passeggiare per i vicoli del centro storico. C‟era un‟aria gelida che

sembrava penetrare nelle ossa, ma non fu sufficiente a fermarci.

Sentivamo un insolito bisogno di evadere, più intenso che mai. Gli

sguardi curiosi e penetranti delle anziane signore dietro i vetri

appannati delle finestre aumentavano il nostro bisogno di libertà, così

camminammo fino a quella ripida salita che porta ai cancelli del

castello. Lì l‟imponente figura dell‟edificio mi attrasse come mai

prima di allora. Seppur semplice e freddo, come può esserlo un

castello medievale, era illuminato da una luce che lo rendeva così

magnetico che non potei fare a meno di avvicinarmi.

A mano a mano che avanzavo sentivo una strana sensazione, di

repulsione e attrazione al tempo stesso. Probabilmente era dovuta

alle mille leggende che la fantasia dei miei compaesani si era

sbizzarrita a creare su di esso, storie che mi intimorivano e mi

incuriosivano al tempo stesso. Quel giorno sentivo che quasi volevo

stupire il mio stesso scetticismo al riguardo. Non trascorse molto

tempo che invitai anche Flora a scavalcare il cancello; in un primo

tempo si oppose con mille scuse: poteva essere pericoloso, se

arrivava qualcuno ci saremmo trovate nei guai, potevamo chiedere la

chiave e tornare un altro giorno, a breve si sarebbe fatto sera… Ma io

non potevo aspettare, così la trascinai di forza. Lei mi supplicava di

lasciar stare, ma ormai era troppo tardi, l‟attrazione cresceva in un

modo tale dentro di me che quasi non sentivo Flora parlare. Tuttavia

lei non si scoraggiò e cominciò a ripetermi le leggende, quasi a

volermele rinfacciare. Mi ricordò della leggenda della contessa

fantasma, di cui ci sono più versioni: quella innocua in cui aspetta

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~ 207 ~

invano il suo amante sulla soglia della finestra, quella in cui vaga

irrequieta terrorizzando i visitatori che osano entrare nelle stanze più

segrete, quella in cui lancia maledizioni che ti accompagnano fino al

resto dei tuoi giorni… Ce ne sono di tutti i tipi, inutile elencarle,

l‟immaginario popolare è sempre molto vivace, soprattutto quello di

Rocca d‟Evandro.

Tra un piagnucolio e l‟altro (di Flora) giungemmo davanti al

cancello: era un po‟ alto, ma con qualche sforzo riuscimmo a

scavalcarlo. Là nel giardino sentii che il castello mi stava chiamando:

dovevo entrare a tutti i costi. Flora si accorse di questa strana

sensazione che cresceva in me e mi chiese se stavo bene. Non mi

presi nemmeno la briga di rispondere e mi avventai sul portone. La

pregai di aiutarmi ad aprirlo, ma lei tentennò, diceva che avevo uno

sguardo agghiacciante. La fulminai con quello stesso sguardo e non

ebbe il coraggio di ribattere. Con qualche sforzo riuscimmo ad aprire

un varco, ci intrufolammo. Ci pervase un tanfo nauseabondo e ci

chiedemmo come mai lo lasciassero in quello stato. Il giardino era

ben curato, ma evidentemente i custodi non osavano entrare

all‟interno del castello. Facendoci luce con i cellulari, riuscimmo a

vedere che ci trovavamo in un piccolo ingresso, a destra e a sinistra

del quale scorgemmo due corridoi. Avvicinandoci, ci rendemmo

conto che in realtà erano due scalinate: quella a sinistra portava ai

piani superiori, l‟altra a quelli inferiori. Cominciammo a salire.

Erano almeno un centinaio di scalini, a chiocciola e tutti rotti, alcuni

dovevamo salirli a due a due per evitare parti crollate, pozzanghere,

animaletti vari. Fine delle scale, altro corridoio, altre stanze. Non

riuscimmo ad aprirne nessuna, meno una. Nella camera c‟era una

finestrella dalla quale entrava un leggero spiraglio di luce, ci

affacciammo: era proprio la camera della contessa!

Non vi era rimasto più nulla, dicono che durante la guerra abbiano

saccheggiato tutto il castello. Le pareti erano solcate di crepe e

l‟umidità aveva fatto fiorire ciuffetti di muffa qua e là. C‟era un

quadro ovale a terra. Lo girai, lo spolverai un po‟ e mi accorsi che si

trattava di uno specchio. Era rotto e qualche frammento mancava, ma

ispirò la mia immaginazione. Cominciai a fantasticare su come

poteva essere la stanza quando ci viveva la contessa ed ero così presa

dalle mie fantasie che ad un tratto mi sembrò proprio di vederla

mentre si specchiava. Era stupenda, ma il suo sguardo era gelido,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 208 ~

muto. Poi ritornai in me e mentre raccontavo a Flora cosa stavo

immaginando, vidi il suo sguardo colmarsi di paura. Fu lei a

terminare la mia frase: aveva avuto la mia stessa “visione”. Risi

nervosamente e la invitai a scendere. Sentii di nuovo quella forza che

mi ancorava al castello e mi diressi verso i sotterranei, seguita da una

Flora sempre più inquieta. Ma io non potevo oppormi, era come se

qualcuno mi spingesse.

Le scale che portavano di sotto erano anche peggiori di quelle di

prima: la pietra era talmente consumata che era diventata liscia e

scivolare era semplicissimo. Mi colpì un giramento di testa

improvviso, mi fermai un attimo, poi proseguii. A mano a mano che

scendevamo, ne provai altri e il tanfo, che aumentava, peggiorava la

situazione. Ci trovammo all‟imbocco di uno stretto corridoio, con

varie aperture su ambedue i lati. Cominciammo a uscire ed entrare

dagli sbocchi: alcuni portavano in stanze vuote, altri a stanze più

grandi con almeno una decina di celle all‟interno. All‟improvviso mi

accorsi con sgomento che Flora non era più con me: la chiamai

ripetutamente, ma non mi rispose e non riuscivo a sentire il rumore

dei suoi passi neanche in lontananza. In preda all‟agitazione,

cominciai a vagare senza meta, finché mi ritrovai di fronte a una

porta socchiusa e, con un calcio d‟inaspettata violenza, la spalancai.

Varcai la soglia e scorsi degli attrezzi un po‟ strambi. Non ci misi

molto a capire che erano strumenti di tortura. Mi venne di nuovo un

giramento di testa, questa volta più breve. Poi di nuovo, poi ancora,

ancora e ancora, brevi ma intensi, fino all‟ultimo, talmente forte che

persi l‟equilibrio e caddi a terra.

Ho un ricordo confuso di quel che accadde dopo, non ho idea

nemmeno di quanto tempo sia rimasta accasciata su quel gelido

pavimento di pietra, ma fui come colpita da una serie di immagini.

Erano quasi dei flash, non riuscivo a distinguerli tutti, però so che

erano orribili, raccapriccianti, macabri: teste, mani, braccia, gambe

mozzate, fiumi di sangue ovunque; grida agghiaccianti di vittime

degli strumenti che avevo visto prima; tavole di chiodi che

comprimevano corpi urlanti; pire che bruciavano persone ancora in

vita; schiavi ghignanti chini sulle povere vittime… Che, mi accorsi

con profondo orrore, erano donne, solo donne. Dietro tutto questo

una figura distinta: la contessa. La sua risata diabolica echeggiava

nella mia testa, mentre lo sguardo agonizzante delle prigioniere era

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 209 ~

insostenibile: volevo liberarmi da quelle visioni, volevo urlare,

scappare via, ma non mi usciva nemmeno un filo di voce e le gambe

non rispondevano ai comandi del cervello. Poi mi sembrò che la

contessa stesse fissando me: un lungo brivido gelido mi percorse la

schiena e il nodo che mi serrava la gola si trasformò in uno spasmo.

La contessa cominciò ad avvicinarsi con deliberata e terrificante

lentezza, il sorriso di ghiaccio e lo sguardo demoniaco, come

un‟Erinni… Mi avrebbe uccisa, ne ero certa, come aveva fatto con

tutte le giovani donne che avevano avuto la sfortuna di somigliare a

colei che le aveva rubato il suo uomo: pelle candida, lunghi capelli

ramati, occhi neri e sognanti… Volevo morire prima che mi

raggiungesse e chiusi gli occhi per non vedere.

Le urla di Flora mi fecero riprendere. Mi alzai di scatto, corsi via. La

stanza era vuota e in cima alle scale c‟era Flora che piangeva

disperatamente. Mi disse che si era fatto buio e non riusciva più a

trovarmi, era terrorizzata. Non ho idea di cosa le sia successo, ma

non parliamo mai di quel giorno tra noi né ho mai raccontato (a lei

come a nessun altro) ciò che era successo a me nei sotterranei del

castello. Di sicuro, però, ho maturato un rispetto profondo nei

confronti di quelle che prima ritenevo solo fantasie di paese.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 210 ~

Anna Antonova Dobranova

Un messaggio di speranza.

8 agosto 2010

Caro diario,

Ah… non ricordo più quand‟è stata l‟ultima volta che ho scritto un

diario. Mucchi di agendine intonse si sono accumulate sullo scaffale

senza che la mia penna si sia degnata di macchiarle di emozioni. Ma

da qualche tempo a questa parte, le mie emozioni non sono niente di

che. Frenata da un sentimento che chiamerei “rassegnazione”, mi

sono chiusa in un guscio di consapevole tristezza.

Sì, caro diario, sono triste. Non ho scritto prima perché credo di

sentirmi un po‟ ridicola, a parlarti come fossi una persona. E poi,

inevitabilmente, ogni volta che inizio un diario nuovo finisco per

pensare ad Anna Frank. Che accostamento improbabile, eh? Ma ci

sono ben due nessi logici: mi chiamo anch‟io Anna e, come lei, credo

che la carta sia più paziente degli uomini.

Sono diversa dagli altri. Non mi atteggio a super eroina o

megalomane: è un dato di fatto, una semplice statistica che a

diciassette anni non si rivela certo la migliore delle certezze. Eppure

è così.

Mentre i miei coetanei escono, esplorano il mondo in cui viviamo in

completa autonomia e dimestichezza, relazionandosi col resto della

nostra società, io preferisco restare a casa con i miei libri. Ogni volta

che lo dico a qualcuno, a voce alta e senza vergogna, ricevo in

risposta occhiate allibite e parole incoerenti. Tuttavia è sopportabile,

i libri sono stati i miei migliori amici sin da quando ho memoria. La

mia infanzia è trascorsa sulle fantasmagoriche avventure di Dahl,

sugli animali di Scarry. Mmm… caro diario, forse non sono chiara

per niente. Non ho ancora espresso quello che mi pesa tanto: la mia

diversità, il mio essere quello che sono, è irrimediabile,

incontrovertibile. Suono troppo tragica?

Non faccio nulla di ciò che gli altri fanno, ma non è mai stato un

problema finora. Ho una visione del mondo delicata, a tratti ingenua,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 211 ~

ma interamente mia. Sono me stessa, con i miei pregi, i miei difetti, i

miei interessi e la mia forza di volontà, limpida e cristallina, come

fedele alleata. Mentalmente credo di trovarmi ad un livello più alto

rispetto all‟adolescente medio, ma per il resto… sono una frana

totale. E sto rimanendo indietro. Fuori dal mondo, fuori dal tempo,

fuori dalla mentalità comune, sono un paradosso che fluttua incerto

tra il mondo dei bambini e quello degli adulti.

Non posso andare contro la mia natura e comportarmi come se sesso

e stupidità fossero il mio pane quotidiano, e per questo vengo tanto

ammirata quanto disprezzata. Disgusto è ciò che ricopre con una

patina unta i miei pensieri quando penso alla mia generazione,

l‟adolescenza. Che periodo orribile. In fin dei conti, le fasi della vita

son soltanto piccole evoluzioni del nostro io. A cambiare è il nostro

modo di vedere le cose, percepire la realtà, reagire alle disavventure.

Caro diario, forse sono un‟emerita idiota. Perché non indosso capi

firmati, perché non esco col resto dell‟informe branco di pecore,

perché sono ancora vergine e rimango sconvolta dai racconti delle

performance delle mie così precoci compagne. Perché passo i miei

giorni col naso ficcato nei libri, perché mi diverto a spolverarli -

costola, pagine e tutto -, perché mi emoziono con i telefilm americani

e giapponesi e perché mi esercito sui kanji per ore. Ma soprattutto,

perché credo - voglio credere - nei miei sogni. Ciliegina sulla torta,

in qualsiasi ambiente mi trovi, finisco o per giocare coi bambini o per

conversare con gli adulti. Ti sembro normale?

Non sento il desiderio di cambiare. Sono orgogliosa di quello che

sono, su questo non c‟è dubbio; ma per quanto cerchi di affermarmi

con la mia originale essenza, e vivere una vita che ritengo dignitosa e

ricca di significato, ecco… il vago sentimento di voler appartenere a

qualcosa mi punge con spietata intensità.

Come sono arrivata a fare le stesse, solite riflessioni che mi pongo da

mesi, chiederai?

Ecco, stasera ho incontrato Matteo, Michela, Chiara, insomma, un

po‟ di gente. Oh, dimenticavo un altro anomalo dettaglio: sono

l‟unica diciassettenne che ancora esce con sua madre. E non perché

costretta, perché mi piace. Sorvoliamo, non ce la faccio più a

sentirmi dire che non sono normale. Abbiamo parlato del più e del

meno, ma con un‟ improvvisa fitta al cuore, mi sono resa conto che

c‟è un divario incolmabile che ci separa. Stanno crescendo.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 212 ~

Con un groppo in gola, ho guardato Matteo. Siamo amici da una vita,

l‟ho visto diventare dal bambino con le orecchie a sventola, più basso

di me, che era, a uno smilzo col nasone e neri capelli corvini. Il suo

sorriso simpatico e quella sua voce lamentosa non sono cambiati.

Però… fino a poco tempo fa, alle medie, eravamo ancora piccoli,

dediti a giochi e spinte e risate. Ora, al liceo, parliamo di Pascal e

andiamo a fare le fotocopie, controllare gli orari insieme, correndo

nei corridoi con un‟allegria che, simile ad una tenera fragranza si

diffonde leggera nell‟aria. Ma ormai non è più un bambino. Vuole

vivere le sue esperienze, la sua vita di diciottenne con tutto quello

che comporta. Ed io… gli voglio bene. Gliene voglio così tanto che

sono rimasta sorpresa, tanto da chiedermi perchè me ne fossi resa

conto solo ora, tanto da domandarmi se per caso non provassi

qualcosa di diverso. Se, per ogni volta che lo guardavo parlare con

altre ragazze, quali che fossero, l‟ondata di gelosia che mi coglieva

fosse soltanto perché è il mio unico amico maschio, e non per altro.

Non so cosa fare. Che disastro.

E‟ più facile adattarsi che distinguersi. Ma quando mai scelgo la via

più semplice?

E‟ parte del mio inestricabile io.

Caro diario, un giorno spero di andarmene per il mondo e trovare

persone capaci di capire e condividere il peso e privilegio della

libertà. Libertà di avere opinioni proprie, di gustare anche le più

piccole gioie che ci sono concesse senza considerarle sciocchezze.

Persone che inseguono la vita con l‟entusiasmo dei fanciulli, che

sanno mantenersi pure, innocenti, nobili, senza badare alle

convenzioni dell‟età.

Caro diario, la strada è tracciata davanti a me. E‟ scoscesa,

sconnessa, il sentiero si distingue a malapena. Tuttavia porta verso

vette sicure di soddisfazione e onore. Per quanto possa farmi male

nella salita, per quanto possa scivolare e cadere e sbucciarmi le

ginocchia, non cederò.

Caro diario, forse non sembra, ma questo è un messaggio di

speranza.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 213 ~

Matteo Filippelli

Nero

Avevo sempre pensato che sarei diventato una persona speciale. Un

giorno, avrei voluto trovare il modo di mostrare il mio talento. Per

molto tempo, mi ero immaginato come un cavaliere che combatteva

innumerevoli battaglie per proteggere una principessa; la sua

principessa. Tuttavia, era troppo tardi perché quello potesse

accadere.

Quel posto era il mio preferito. Quel parco silenzioso e abbandonato

era il luogo ideale per leggere in tranquillità. Però quel giorno non ci

andai.

Beep beep. Possedevo un ricordo che non volevo dimenticare? No,

era solo che non volevo lasciare andare le persone che ritenevo

importanti. Anche io … volevo ancora … vivere.

Nel corso della vita le amarezze si accumulano qua e là: nelle lenzuola stese al sole, negli spazzolini in bagno e nelle bozze salvate sul telefonino. Tutto è troppo indefinito, fino a quando la luce non ti mostra cos‟è il mondo. Beep beep. Mi svegliai. Mi trovavo a casa? Dovevo andare a scuola?

Oppure era un giorno di vacanza e potevo rimanere a letto per

dormire qualche minuto in più del solito? Alzai il mio braccio e con

la mano destra provai a darmi la spinta per sollevare la schiena.

Nulla: non riuscivo apparentemente a muovermi. Non avevo ancora

gli occhi aperti ma c‟era uno strano odore: i miei polmoni

sembravano vuoti e mi era difficile respirare.

L‟aria sembrava impregnata di sangue, era viziata e secca.

Solo in quel momento le mie palpebre si alzarono come le tapparelle

durante una mattinata di sole. I miei occhi ancora assonati cercavano

informazioni dall‟ambiente: dove mi trovavo? Ero steso sopra ad un

letto. Tutto intorno a me era bianco, candido e sterilizzato. Alla mia

destra c‟era un enorme marchingegno che analizzava e riproduceva il

battito del mio cuore.

Beep beep, ripeteva continuamente lo stesso suono. Alla mia sinistra,

invece c‟era mia madre accovacciata su una sedia che cercava di

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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dormire. Sicuramente non aveva riposato in nessun modo. Come si

poteva prendere sonno in un posto simile? Come si poteva vivere

sapendo che la Morte aspettava suo figlio? Solo in quel momento la

mia mente affrontò la realtà: ero in ospedale.

Ormai, rimanendo in quel posto, avevo imparato diverse nozioni:

sapevo che all'interno del corpo degli essere umani esistono e

lavorano miliardi di cellule che svolgono uno specifico ruolo di

fondamentale importanza, le cellule hanno una vita limitata e quelle

che vengono eliminate sono subito sostituite, attraverso la mitosi, da

altre nuove che svolgeranno le stesse funzioni. L'equilibrio che deve

esistere tra la demolizione e la creazione di nuove cellule è molto

delicato ed una semplice alterazione di questo fenomeno può

provocare un aumento di questi fondamentali elementi. Le mie

cellule avevano abbandonato il loro lavoro: erano impazzite.

Ho sempre avvertito una sorta di mancanza. Ho sempre avuto la sensazione che ogni volta che guardavo il mondo, un colore stesse svanendo. Ma non avevo idea di che colore si trattasse; e più volevo cercare la risposta, più non ne venivo a capo. L‟impazienza, poco a poco, si stava facendo largo nel mio cuore. Io mi ero sempre caratterizzato come un solo colore: il Nero. A quel tempo non capivo cosa significasse avere dei rapporti intimi

con qualcuno. A quel tempo non capivo cosa significasse ritrovarsi

da soli. Quel fugace incontro ha cambiato radicalmente il corso della

mia vita. Avevo sempre creduto che quei momenti divertenti

sarebbero durati per sempre. Ma … cosa stavo cercando? Il colore

che mancava al mio mondo … andando in cerca di quello, io … io

non potevo smettere di vivere.

La Speranza è una parola importante: una parola che il Dolore fa riapparire nel tuo vocabolario mentale. Mentre il Dolore agisce, la Speranza arde dentro di te; fino a quando si mescola con il tuo io interiore, diventando quindi parte del tuo organismo. Dopo tanto tempo avevo finalmente trovato un mondo pieno di

suoni. Avevo trovato una casa con dei colori; non avevo più bisogno

di reprimere me stesso. Eppure tutto si doveva concludere.

Da quando entrai in ospedale, ogni rumore all‟interno del mio corpo

svanì. Dopo quella volta, sparì anche la parola e anche tutti i colori

del mio mondo. Prima che me ne accorgessi, anch‟io ero svanito dal

mio cuore. Da quel momento, ho vissuto in un mondo senza nulla.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 215 ~

Il mio tempo era contato: i medici entravano alla mattina per vedere

le mie condizioni e, a parte i fortissimi dolori che avevo nel tardo

pomeriggio alle ossa, tutto sembrava andare bene. Mia madre

cercava di trattenere le lacrime, ogni volta che i suoi occhi

incontravano i miei. Il male era localizzato nella zona del femore:

quando iniziava l‟agonia mi sembrava che tanti cani venissero a

mordermi il mio osso fragile frantumandolo, distruggendolo e

provocando al mio corpo una sensazione di panico, paura e di

impotenza. Arrivavano dopo gli infermieri che mi iniettavano,

tramite la flebo un liquido che sembrava calmarmi il dolore ma …

durante ogni sera il mio corpo doleva nuovamente in ogni sua parte:

la testa veniva battuta in continuazione, come un martello che

schiaccia un chiodo su una parete; le articolazioni mi bruciavano e

appena cercavo di muovere le spalle o le anche mi provocavo una

fitta enorme; tutte le ossa del corpo mi bruciavano e allo stesso

tempo mi facevano male. Avevo voglia di vomitare, avevo voglia di

alzarmi e scappare, avevo voglia di continuare a vivere e allo stesso

tempo di morire.

A tarda sera chiudevo gli occhi e cercavo di distrarmi: le fantasie più

uniche e più rare passavano attraverso la mia mente. Tutto era

possibile, nel mio mondo non sarebbero più esistite le malattie: tutti

sarebbero stati sani e normali. Non sarebbero più serviti i medici e

neanche i farmaci, ognuno avrebbe vissuto la propria vita in pace.

Tutto diventava buio e poi … iniziava nuovamente la solita mattina.

Ma … quel giorno, l‟oscurità mi avvolse e il mio mondo prese vita.

Non c‟erano più problemi.

Non c‟erano più malattie.

Potevo continuare a vivere: potevo continuare a sognare.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 216 ~

Angelica Foroni

Incontro sull‟autobus

La prima volta che la vidi era lì, seduta sull‟autobus all‟ultima fila.

I capelli neri, sottilissimi, le coprivano il volto chinato verso il basso,

ma lasciavano intravedere i suoi lineamenti delicati.

Nessuno la notava, eppure lei osservava ogni persona che saliva a

bordo e scriveva ogni suo piccolo particolare sopra un block notes.

Alla mia fermata non scesi.

Non so per quale ragione ma una forza sconosciuta mi tratteneva lì e

sentivo che era proveniente da quella ragazza seduta all‟ultima fila.

Improvvisamente si voltò verso di me.

I suoi occhi neri erano immensi e ne restai catturato, senza riuscire a

distogliere lo sguardo.

Mi sorrise e poi disse:

“Ciao, Matteo”.

Aveva una voce soave e leggera che, arrivata al mio udito, mi

accarezzò il viso come la brezza primaverile. Rimasi inebriato da

tutto questo per qualche istante e, tornato alla realtà, le risposi con un

semplice “ciao”.

Ma come faceva a conoscere il mio nome? Io non l‟avevo mai

incontrata…O forse sì?

“Ci conosciamo?”

Le chiesi, cercando di essere il più gentile possibile.

Mi guardò in modo strano, come se le stessi chiedendo la cosa più

semplice al mondo.

“ Certo. Adesso non ti ricordi di me, ma un giorno accadrà: quando

ci incontreremo di nuovo.”

Ero confuso ma allo stesso tempo mi sembrava tutto così ovvio,

come se lo sapessi già da tempo.

“E quando avverrà?”

Le chiesi, sapendo di fare una domanda stupida per lei.

“Quando sarai pronto.”

Rispose sorridendo.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 217 ~

Era tutto così surreale che pensai fosse un‟allucinazione, fino a

quando non si sedette accanto a me e mi sfiorò la guancia.

“Un‟allucinazione non può toccarti.”

Mi sussurrò nell'orecchio.

Poi mi prese il polso e lo avvolse con una cordicella.

“Questo è per ricordarti del nostro incontro.”

In quel momento provai una sensazione di gioia molto intensa che

non avevo mai provato prima in tutta la mia vita, mi sentivo come se

avessi ritrovato una parte di me che avevo perso in passato.

Guardai fuori dal finestrino e con grande stupore vidi che si era già

fatta notte.

Ma com‟era possibile? Io ero salito sull‟autobus subito dopo la

scuola, quindi verso l‟ora di pranzo, ed ero convinto che non fossero

passate più di due ore da quel momento.

Mi girai immediatamente verso di lei e… ero disteso sul mio letto.

La mia stanza era la stessa di sempre, nulla era cambiato dall‟ultima

volta che l‟avevo vista.

Così pensai subito che fosse stato un sogno. Era la cosa più ovvia da

pensare ma anche la più ragionevole.

Però mi sbagliavo: al mio polso c'era ancora la cordicella.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 218 ~

Marta Fossati

In viaggio verso il Lago di Como

Dovevamo arrivare al pendio erboso aldilà del lago.

Avevamo prenotato un posticino con vista sul lago di Como.

Dopo aver viaggiato per ore ed ore eravamo ormai sfiniti.

Il pezzo di strada che avevamo già percorso era pieno di buche e

sassi che facevano sobbalzare la macchina .

Al lato si intravedeva il lago, con le sue rive sabbiose, ottime prede

per i turisti. Il lago, con le sue acque cristalline, risplendeva i raggi

del sole.

Sembrava uno dei tanti paesaggi della Walt Disney……

Scorreva impetuoso dalla montagna un rivolo, che con la sua forza

trascinava a valle i pesciolini indifesi.

Il bosco sembrava un esercito di soldati, tutti in fila, pronti alla

battaglia.

Mancava ormai poco al pendio erboso.

Le colline sembravano ricoperte di un soffice mantello. Il sole era

una palla infuocata che si calava nell‟acqua. Tutto, in quel posto non

era male…...Quasi a sera le montagne assunsero un colore bluastro,

le nuvole lasciavano il posto alle sorelle stelle. Anche di notte quel

posto era bello e emozionante. Le luci delle case si scorgevano a

malapena perché il bosco ci vietava la vista. La luna in cielo era una

fetta di parmigiano.

Il lago sembrava incantato. Nei campi si sentiva solo il frinire delle

cicale. Che pace!!!

Abbiamo percorso l‟ultimo pezzo di strada in salita e eccola là ….. la

“nostra”casa .

Proprio sulle rive del lago . La notte ormai era calata e tutto era

immobile già da un bel pezzo.

Solo il rumore di una cascata interrompeva quel silenzio innaturale.

Sono restata affacciata alla finestra tutta la notte finchè il sonno non

mi ha sorpreso e sono andata a letto.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 219 ~

Fabrizia Gagliardi

La mia eroina

La luna sembra sghignazzare sotto una maschera di nuvole che le

lascia liberi due minuscoli occhi pallidi e lucenti, mentre la bocca è

un sorriso grigio e sbavato in una smorfia.

Il vento freddo spazza il pensiero di te dalla mia mente. Eppure ti

desidero. Desidero illudermi della tua confortante presenza per non

sentirmi così nudo, bramo le tue attenzioni per essere chiunque altro,

eccetto l‟uomo che ha perso la testa per te.

Chiudo gli occhi, una pressione leggera e decisa ed esprimo il

desiderio che tu avvererai: vorrei un‟altra vita!

Braccia invisibili mi cingono nel tuo caloroso grembo, infondendomi

improvvise esplosioni di piacere. Le sento propagarsi in me, come

cerchi concentrici che si espandono dopo il tonfo di una pietra che ha

spezzato l‟irreale equilibrio dell‟acqua.

Illudendomi credo di possederti, di domarti, invece i fili invisibili

delle tue mani muovono i miei arti inermi. Sei tu che conduci le

regole del gioco.

I muscoli contratti, dopo la piacevole tensione, si rilassano portati via

da un sapore amaro tra delusione e desiderio. Mi lasci fare i primi

passi incerti come un neonato che si avvia alla scoperta del nuovo

mondo.

Apro gli occhi per avere la conferma che hai di nuovo operato ciò

che solo tu riesci a fare: sfocare i contorni di questo mondo, renderli

tanto ovattati da sembrare innocui, come barriere di gomma su cui

sbattere senza farsi del male.

Mi hai reso una roccia massiccia e resistente contro la cascata di

preoccupazioni quotidiane, illusioni e delusioni che scivolano su di

me nonostante la pressione incessante. Il mondo non fa più così

paura.

L‟immagine della luna denudata dalle nuvole viene riflessa in una

pozza di acqua stagnante, a pochi metri da me. La raggiungo per

poter finalmente esplorare il mio nuovo corpo, rigenerato da un senso

di benessere.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 220 ~

L‟acqua nera mostra un corpo smilzo, all‟apparenza denutrito, forse

prosciugato da questo mondo che ne succhia la linfa vitale.

Nonostante quei braccini scheletrici, sento una forza inaudita che dal

profondo mi scuote e mi infonde energia, insieme alla convinzione di

poter risolvere tutti problemi che mi affliggono.

Osservo le esili spalle, le percorro con le dita: sono abbastanza

robuste da poter sorreggere lo sguardo deluso di mio padre, l‟unico

che ha contribuito a rendere più facile la mia scelta.

Gli lascio credere di essere un fantoccio sotto il suo controllo, da

poter mostrare pavoneggiandosi ai colleghi, cibandosi dei miei

successi.

Forse la schiena prima o poi si spezzerebbe sotto il suo ego e la

superbia mai trasformati in affetto e gratitudine.

Mentre rido, compiaciuto all‟immagine dell‟espressione di mio padre

vedendomi in questo stato, inizio a capire che stai per lasciarmi

anche stasera. I tuoi ordini, sussurrati al mio orecchio, si

affievoliscono fino a sparire e a lasciarmi senza una guida.

Il sogno si sgretola, il tempo che hai fermato riprende la sua frenetica

corsa, mentre vengo scosso da tremiti in tutto il corpo.

Il respiro si fa pesante, il cuore è ormai un tamburo che sta

rallentando il ritmo, gli occhi non fanno vedere altro che buio.

Ti chiamano eroina, ma sei cibo per vigliacchi, per coloro che hanno

paura della vita, se ne tirano fuori sperando in un tuo aiuto. Tu,

crudele, continui a cibarti delle loro interiora, ne smorzi il respiro, ne

rallenti i battiti, li illudi proponendoti come colei che è in grado di

salvarli dal baratro profondo. Il realtà sei tu che li stai portando

sempre più in basso fino a quando non toccheranno il fondo.

Con mio padre bastava solo parlare.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 221 ~

Alice Gallo

Cielo segreto

Erano gemelli, ma non l‟avrei mai detto se non li avessi conosciuti.

Erano totalmente diversi, quasi il contrario l‟uno dell‟altra e, dopo

dieci anni, ancora mi chiedevo come potessero andare d‟accordo.

Non si amavano solamente come possono fare un fratello e una

sorella, ma erano in completa simbiosi: erano la doppia personalità di

un‟unica essenza.

Lei si chiamava Giulia, ma io adoravo inventare ogni volta

soprannomi diversi per lei, perché la mia creatività la faceva

imbestialire. E quando si arrabbiava, montava quell‟espressione

corrucciata che adoravo, incapace di arrabbiarsi mai totalmente con

qualcuno. In quei momenti pensavo che fosse bellissima: gli occhi

scuri sparivano sotto le palpebre strette allo spasmo, il naso si

copriva di pieghe e le guance le si imporporavano deliziosamente.

Ma il tutto durava pochi secondi; un attimo dopo sorrideva di nuovo

come se non fosse successo nulla.

Il soprannome che preferivo affibbiarle era Gatta. Le dava più

fastidio di tutti gli altri, perché diceva che i gatti sono infimi e

approfittatori, che si affezionano ai luoghi e non alle persone. Io la

chiamavo Gatta proprio per quel motivo, perché a volte sapeva essere

non approfittatrice, ma infima e perché sentivo dentro di me che

amava la sua casa più di quanto amasse i suoi genitori.

Odiava sentirmi dire queste cose e a volte, quando mi capitava di

pensarle, mi sembrava quasi che avesse la capacità di leggermele

nella mente: mi sbirciava di tanto in tanto, alzando gli occhi dal

nuovo videogioco che stava provando, e mi lanciava un‟occhiata

interrogativa che sapeva di accusa.

Ma non ci facevo caso e le rispondevo solamente con un sorriso,

chiedendole cosa ne pensasse del nuovo Final Fantasy. Sapevo che

ad argomenti del genere non poteva resistere: i videogiochi la

stregavano come un serpente incantato dalla litania di un esotico

piffero.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 222 ~

Giulia era così; era una gatta anche nei movimenti sinuosi e misurati,

negli occhi, che se non erano chiari, erano comunque intensi e

ipnotici. Era la mia Gatta.

Paolo conosceva le debolezze di Giulia; le conosceva da quando

ancora era nel passeggino e, con un gesto impulsivo, le aveva

strappato il suo nuovo gioco dalle mani. Giulia si era messa subito a

piangere, ma lui, dall‟alto dei suoi tre anni, le aveva detto due sole

parole. E lei si era zittita, con gli occhi grandi sgranati in un rispetto

incomprensibile.

Erano nati lo stesso giorno, a pochi minuti di distanza, ma sembrava

che fossero scesi da due stelle lontane mille miglia, unite dal ricordo

l‟una dell‟altra. Sapevo già allora che non li avrei mai compresi del

tutto, nemmeno se avessi avuto tutta la vita a disposizione.

Paolo era diverso da Giulia e l‟avrebbe detto anche il primo

sconosciuto, passato per caso davanti alla loro casa. Era taciturno,

solitario e spesso quasi scontroso, con una paura del mondo che non

ho mai capito, e con una paura dei propri sentimenti ancora

maggiore.

Si guardava sempre intorno, osservava ma non diceva, memorizzava

ma stava in silenzio. A Giulia non dava fastidio, perché lei conosceva

ogni suo pensiero ed espressione, ogni sguardo malinconico e ogni

sussulto improvviso. Sapeva quando gli piaceva fare colazione, cosa

preferiva nelle giornate di pioggia, sapeva cosa lo faceva irritare,

anche se non lo avrei mai visto lamentarsi. Giulia sapeva quando

doveva lasciarlo stare, quando i suoi giochetti lo infastidivano e

quando invece voleva essere consolato o abbracciato. Ma accadeva

raramente. E in momenti come quelli, troppo intimi per un estraneo,

troppo anche per me, scivolavo via senza essere visto, con un groppo

alla gola e una strana sensazione nello stomaco.

C‟erano giornate, come quella di dodici anni fa, in cui bastava ridere

per capirsi. Non solo per loro due, perché spesso la loro sintonia mi

contagiava.

Tra le accoglienti mura di casa Paolo era diverso, si lasciava andare;

mai troppo, mai del tutto, ma erano i momenti più belli, quelli che

avrei ricordato con uno strano sorriso sulle labbra. La paura del

mondo esterno svaniva tra le braccia, sul seno e sulla pancia di Giulia

che, sul divano, lo accoglieva davanti a sé per stringerlo,

avvolgendolo nel suo calore femminile. A volte osservandoli,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 223 ~

pensavo di vedere una madre e un bambino ai suoi primi mesi di vita,

nel ventre, accoccolato, senza alcun timore del futuro. Mi piaceva

rimanere a guardarli mentre giocavamo, perché avevo la sensazione

di godere di uno spettacolo raro: ripensandoci ora, devo ammettere

che avevo ragione.

A volte, nella loro piccola casa, restavamo per ore a giocare, ridendo

come pazzi, oppure ci stendevamo sull‟enorme letto della loro

stanza, a guardare il soffitto. Ci piaceva considerarlo un cielo

personale, sul quale potevamo dipingere stelle a nostro piacimento.

Su quell‟azzurro pastello Giulia vedeva sempre astronavi, alieni dalle

mille braccia o UFO dagli occhi sofisticatissimi, capaci di arrivare a

spiare perfino la vita sulla Terra: quando raccontava mi faceva venire

i brividi, sembrava quasi credere alle proprie parole e noi, in silenzio,

con il fiato sospeso, ci lasciavamo trascinare dalla corrente

impetuosa della sua immaginazione, finché non finiva e soffiava

fuori tutta l‟aria in un potente sospiro.

A Paolo non piaceva la fantascienza, era un appassionato del fantasy,

ma non l‟avrei mai scoperto se non fossi entrato nella loro casa:

aveva un libreria fornitissima, serie di romanzi e di fumetti rare e

non, complete e interrotte dagli autori, tutte catalogate e disposte con

ordine, ma quasi tutte un po‟ consumate per le mille volte in cui le

aveva tirate giù e rilette, con la testa sul cuscino e i piedi in alto,

appoggiati sul muro. Quando guardava il nostro cielo segreto creava

davanti a sé universi sconfinati che io non sarei mai stato in grado di

vedere in tutte le loro sfaccettature, perché erano troppo complessi e

contraddittori; ma sapevo che Giulia era capace di osservarli nei

pensieri di Paolo e di ricostruirli nella propria mente esattamente

come lui li aveva ideati. La vedevo, estremamente concentrata,

mentre restava a guardarlo parlare, con le labbra un poco dischiuse;

quando lui aveva cominciato ormai da qualche minuto, Giulia

chiudeva gli occhi e li strizzava, formando quelle rughe sulla fronte

che le vedevo solamente quando si impegnava al massimo.

Da parte mia, io nel nostro cielo personale non potevo che vedere tre

ragazzi che giocavano a prendere dalla vita quello che offriva; ma

non l‟avrei mai confessato a Giulia e Paolo, perché si sa che quando

sveli un tuo desiderio, finisce per non avverarsi. Erano giorni in cui

ancora ero superstizioso e pregavo e facevo scongiuri perché quel

periodo bellissimo non finisse mai. Ma la felicità ha un prezzo,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 224 ~

spesso chiede più di quanto siamo in grado di offrire. Ci toglie quello

che abbiamo per offrirci qualcos‟altro e non importa che a noi lo

scambio non sembri equo, non ci chiede il permesso.

A volte Giulia me lo diceva, sottovoce, quando Paolo scendeva in

cucina a prendere da bere.

“Non ti sembra strano?”

Le chiedevo cosa, perché a volte si comportava con me come se

dovessi capire da solo.

“Intendo questa felicità. Non è strana? Non è troppo bella?”

Alzavo le spalle. Nel cuore le sue stesse angosce, le sue stesse

domande.

“Nico”.

“Dimmi”.

“Non sono mai stata infelice”.

Faceva quell‟espressione buffa e poi rideva, cancellando il discorso

con quel suono. Ma a me restava impigliato in gola e le parole che

avrei voluto pronunciare non uscivano; ero un codardo e avevo

troppa paura, coprivo col silenzio la verità che volevo negare.

Paolo tornava, osservava Giulia e lei rideva, gli chiedeva perché ci

avesse messo così tanto. Lui stava in silenzio e le lanciava

un‟occhiata così profonda che a volte ne avevo quasi paura; Giulia

abbassava lo sguardo sul videogioco tacendo all‟improvviso, le sue

mani correvano sui tasti, ma sentivo che ingoiava la paura. Come me.

Paolo si sedeva accanto a lei e le metteva un braccio intorno alle

spalle, stringendola con noncuranza. Versava da bere a tutti,

ridevamo, una strana serenità tornava al suo posto.

Vivevamo così, nel silenzioso accordo di non parlare della paura che

tutto finisse, di quella strana sensazione di ingiustizia che invadeva

ognuno di noi. Perché ci era destinata quella felicità? Perché proprio

a noi? Ma le domande non avrebbero trovato risposta in nessun

modo, così finimmo per soffocarle sotto strati di scorza e gioie che

accumulavamo anno dopo anno.

La nostra amicizia cresceva, ormai ero per loro come un fratello. E le

cose non cambiavano. Ora preferivamo birra all‟acqua, pizza alla

torta della mamma, ma eravamo sempre lì, in camera o nel grande

salotto, eravamo sempre noi.

Cadde tutto solamente quando compimmo diciotto anni.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 225 ~

La scuola finì senza che ci accorgessimo di averla anche solo

frequentata. Il grande edificio rosso in mattoni venne sostituito da

una sfilza di abitacoli grigi e tristi e ci preparammo a vivere nello

stesso appartamento in città, anche se saremmo andati in università

differenti. Eravamo felici di non separarci, felici di condividere una

vita nuova.

Poi, una sera, mentre eravamo seduti a tavola e ridevamo,

commentando quanto Giulia fosse negata in cucina, Paolo ricevette

una lettera. Era sigillata; si alzò con una strana espressione, prese la

posta che suo padre aveva appena appoggiato su un mobile e si passò

una mano sul viso. La girò una, due volte, leggendo e rileggendo

mittente e destinatario. Percepii una strana sensazione alla bocca

dello stomaco; accanto a me, sentivo lo sguardo bruciante di Giulia

attraversare Paolo.

Alla fine aprì la lettera. Ne tirò fuori un foglio stampato; i suoi occhi

scivolarono veloci sule righe e alla fine lo sguardo gli si fece sottile.

Sembrava felice. Ma io avrei detto il contrario.

Finalmente ci guardò e disse quella frase che mi sarei ricordato per

sempre.

“Vado ad Harvard”.

Il nostro mondò si spaccò in mille pezzi, con un fragore assordante

che ci intontì. Giulia saltò in piedi, i suoi occhi di gatta

fiammeggiavano, tremava. Fu la prima volta in cui li vidi litigare

seriamente. Giulia piangeva, Paolo pure e si tiravano addosso posate,

cuscini, parole.

Dopo quell‟episodio provammo ad andare avanti, ma non era più la

stessa cosa. Quando salutammo Paolo all‟aeroporto il nostro cuore

smise quasi di battere.

Lo fece totalmente quando, qualche mese dopo, ricevemmo la

notizia.

Ci stavamo abituando alla sua assenza, ci scriveva continuamente,

veniva a trovarci spesso. Ma era lontano, troppo per i nostri gusti.

Ogni tanto vedevo Giulia guardare distrattamente il cielo, con gli

occhi spenti. Sapevo che Paolo faceva lo stesso, a mille chilometri di

distanza.

Una notte mi svegliò il grido di Giulia. Corsi nella sua stanza,

piangeva, scossa dai singhiozzi, pronunciava frasi sconnesse; le

dicevo “E‟ solo un incubo, un incubo”, ma lei continuava.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 226 ~

Gridava. E diceva “è morto!”, piangeva e diceva “è morto!”

Paolo era morto, in un incidente. Ce lo dissero il giorno dopo. Giulia

era stata la prima a saperlo, lo aveva sentito dentro di sé, quella notte.

Un parte di lei se ne era andata per sempre.

Da quel giorno non fu più la stessa. E non attraversò che un inverno,

da quella notte.

Mi chiedevo che fine avesse fatto la mia felicità.

Sentivo che la Vita, alla fine, era venuta a riscuotere il suo prezzo.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 227 ~

Sara Gamannossi

Lettera (mai spedita) a mio Padre

A me il mare non piace particolarmente. Diciamo che è bello e che si

và al mare quando si ha tempo, e se si ha tempo allora si è in vacanza

(o disoccupati...).

Le vacanze mi piacciono molto perchè in vacanza ci si riposa e anche

se alla fine uno passa la vacanza pensando a quando dovrà andare a

scuola o al lavoro... è meglio pensarci che andarci... no?

Beh... delle mie vacanze al mare mi piace la compagnia... sì,

insomma... siete voi la mia compagnia, proprio voi che state

leggendo! E anche se può sembrare una compagnia semplice e

banale... sono le cose semplici e banali che cerco nella vita, perchè la

vita è come un dipinto e sono i colori ed i dettagli – anche quelli più

piccoli ed insignificanti all‟apparenza – a rendere un dipinto finito e

particolare.

Tutti nella vita abbiamo delle passioni e dei sogni che pensiamo

siano di impossibile realizzazione, sian in cielo che in terra che in

mare.

A te, Babbo, non serve il cielo e non serve la terra... il tuo sogno

balla con le onde, fra i delfini... nel mare...

E se è il mare ad attrarti tanto, ti auguro di passarci più tempo che

puoi, perchè se realizzi un sogno sei già a metà del dipinto, e

continueremo insieme questo quadro, onda dopo onda, e se ci sarà

vento, ci copriremo, se sarà caldo sopporteremo e se ci sarà da

ballare... balleremo.

Ed alla fine del dipinto, a fine vita, farai parte del mare anche tu, ed il

vento sussurrerà il tuo nome, e sarai parte di quelle onde che ti

piacciono tanto, e ballerai con i delfini tra la spuma delle onde ed la

luce del sole.

Ti voglio bene Babbo.

Sara.

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~ 228 ~

Jessica Grandolfo

Il destino ferisce tutti

Quest'acqua è così fredda è queste piastrelle sono così lisce mi danno

i brividi mi sento più leggera. Mi sento avvolgere da una coperta

fatta d'acqua ..sento gli occhi appesantirsi..sempre di più..ma ora che

ho gli occhi chiusi mi sento libera non voglio riaprirli. “Non

voglio..no!” Penso riaprendo gli occhi “il lago?..Ma come?” Penso

stupita: “ Jessica ! Questa voce non può essere ..impossibile..no..no

no no” penso chiudendo gli occhi “dai svegliati!” Penso..poi li riapro

“no! Non mi volto..non esiste..è solo un sogno.. “ “Jessica !” Mi

volto “Gezim!” ..è solo un sogno “ma che diavolo fai?” “E‟ solo un

sogno” mi ripeto “ma che dici??” Mi urla contro “no..impossibile..tu

non puoi essere qui! Perchè andavi via?” Che cosa?quindi..penso poi

guardo i suoi vestiti poi i miei..e poi capisco “è martedì” mi dico

sotto voce “si è allora?” mi chiede “ti amo” dico abbracciandolo “tu

sei pazza..perchè andavi via?” “No ora sono qui tu sei qui conta solo

questo!” “Ok!” dice baciandomi.

“Da riapri gli occhi” questa voce non è di Gezim- riapro gli occhi!

“Dove sono?” chiedo sconvolta “sei in piscina stavi annegando”

“non sono morta? chi mi ha salvato?” Chiedo arrabbiata “io” dice il

bagnino impaurito dal mio tono di voce “oh! Grazie mille davvero la

vita non è la tua e ti intrometti pure! Cretino!” Dico andando via “ma

stai bene? Sei matta per caso?” “Si! ciao!” gli urlo. Perciò era un

sogno..quindi lui è davvero..io non m sono fermata- penso “basta!”

Mi dico alzandomi e andando via dalla piscina.

“Perchè ti volevi uccidere??” Mi volto di scatto “mi hai fatto

prendere un colpo“ -stupido bagnino penso “scusa. È che non dovevi

farlo” “faccio quello che voglio” ”posso almeno sapere il perchè?”

“Perchè dovrei parlarne con te” “perchè so che vuoi raccontarlo a

qualcuno e ora ne hai l'occasione!” “Ok. sediamoci lì” dico indicando

una panchina.

“Non so da dove cominciare..ecco io non sono normale..io rovino la

mia vita mi faccio dei problemi solo per sentirmi qualcuno per dire

che ho una vita movimentata questo però mi costa la mia felicità ..ho

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 229 ~

i sensi di colpa che mi risucchiano che mi assillano e non riesco a

vivere .. perciò ho fatto quello che ho fatto!” “Perchè ti senti in

colpa?” “Mi sento in colpa per tutto..ma quello che mi ha distrutto è

stato quello che ho fatto quel martedì..vedi lui era perfetto lo avevo

conosciuto il 17 Giugno..era un giovedi..quella mattina pioveva..ero

con degli amici al bar poi è arrivato lui..ci ho provato lo stesso giorno

che l'ho conosciuto, il giorno dopo gli ho raccontato tutto di me

sapevo di potermi fidare..io li piacevo lui piaceva a me..mi ricordo

quando siamo andati in un negozio e li ho fatto provare delle

magliette era bellissimo! Mi ero divertita e innamorata.. la nostra

panchina.. quel sabato eravamo solo io e lui a piazza pallone nella

quarta panchina a destra a partire dall'entrata principale.. eravamo

come fidanzati .. quello sguardo a cui non potevo mentire.. quei

capelli..la sua delicatezza ..avevo rovinato tutto quel martedì sapevo

di dover baciarmi con lui usando la lingua ma non ne ero capace

avevo paura di sbagliare che mi mollasse perchè sono una bambina

così mi alzai e andai via..lui era così bello non lo meritava..poi”

“ferma! Io vado ciao” “cosa? Che hai?” “Che ho?? Tu lo ami

ancora!” “Allora??” Si ferma china la testa “tu mi piaci” dice

sottovoce “non lo immaginavo” “dovevi..” viene e mi abbraccia “se

vuoi possiamo essere felici insieme” “Come??” “Insieme” dice

sorridendo “vai avanti” sospiro chiudo gli occhi vedo il viso di

Gezim..riapro gli occhi! “Ok” prendo la sua mano e cominciamo a

camminare non so dove o per quanto ma è un nuovo inizio. Io sono

felice.

“Dove ha detto che era la panchina..allora quarta panchina a destra a

partire dall'entrata principale” “eccola!!!.. Vediamo che c'è scritto

“non dovevi seguirmi non dovevi attraversare la strada non dovevi

morire! Mi odio è colpa mia..ti amo” Jessy “cosa fai ??” Mi volto di

scatto è Jessica! “Niente” “scusa non immaginavo..” comincia a

correre ..la seguo “ferma!” “No! Non dovevi..avevi promesso che

non saresti mai venuto a vedere la panchina!” “mi dispiace!” Le urlo

dietro “io lo amavo..ti odio!” “Lo ami ancora??” Lei si ferma in

mezzo alla strada per rispondere.. ora a pensare a cosa avrebbe detto

ci sto male..prima di potermi rispondere un macchina la investì..morì

sul colpo! Non volevo andasse così ..la amavo..lei no! Lei amava lui

era parte di lei e lui si era ripreso quella parte lui la voleva ancora lei

ed era riuscito a riprendersela! ..Forse se morissi potrei

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 230 ~

rivederla..vorrei solo un minuto per vedere i suoi occhi..dicono che

chi possiede gli occhi che brillano è speciale..lei era speciale!!!

sperano siano felice sono nati per stare insieme e sono morti per la

stessa causa però vorrei dire una cosa “Jessica se mi ascolti...ti amo”.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 231 ~

Sabrina Iavarone

Ho assaggiato la normalità, ma l‟ho sputata

Prologo

La luce del Sole mi ferisce gli occhi, perché il Sole t'inganna, lo vedi

nascosto dietro le nubi grigie e pensi di poterlo guardare, invece, fa

male lo stesso. Fa male come il toc-toc che sentirò quando verranno a

prendermi e mi faranno uscire, come un condannato a morte, quando

dev‟ essere condotto alla sedia elettrica. La differenza è che a me

della meta non importa, di cosa ho fatto o di cosa mi accadrà non

m'importa, se sono colpevole o innocente, se la pena è adeguata

oppure no. M'importa che nell'ordine regolare delle cose il mio nome

non c'è e non so se mai ci sarà, purtroppo non sono abbastanza acuto

da capirlo e nessuno al di fuori della superficie cubica di questa

stanza lo sa. Forse potrei dare tutti i pezzi a qualcuno abbastanza

arguto da riuscire a completare questo puzzle.

La mia massa è troppo piccola rispetto a quella della Terra.

Non posso prendere le misure al mio cervello.

Temo terribilmente che il Sole m'inganni.

Ho assaggiato la normalità, ma l'ho sputata.

Mi stanno stretti i comuni costumi, mi sta stretto il corso comune di

una vita comune.

Non voglio il migliore amico, la comitiva del sabato sera, la

fidanzata fissa, il sette in latino.

Li ho assaggiati e li ho sputati uno dopo l'altro.

Hanno un sapore un po' stantio, perché sono cibi che esistono da

sempre e da smezzare in compagnia.

Sono un po' insipidi, sono di quei cibi che un‟ora dopo non sai più di

cosa sapevano. Sono di quei sapori che non aggiungono nulla al

repertorio della tua lingua.

Se quei sapori fossero un luogo, sarebbero una palude, piccola e

chiusa, con l'acqua grigiastra, dove crescono canne di bambù.

Se quei sapori fossero un'emozione, sarebbero di quelle che vivi

perché aspetti sempre un nuovo sviluppo, un apice che non arriva

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 232 ~

mai, perciò le molli deluso.

Se quei sapori quei luoghi quelle emozioni fossero una vita, non

vorrei che fossero la mia, forse è un‟idea comune, forse no,

lasciatemi comunque seguire quest‟utopia, lasciatemi affidare la mia

esistenza al Caso, lasciatemi essere preda delle mie farneticazioni.

Inverno

Oggi è il primo giorno dell‟anno e voglio lasciarmi

straordinariamente andare a una tipica tradizione: i buoni propositi.

Peccato che io abbia soltanto un buon proposito per questo nuovo

anno, cui non sono nemmeno sicuro di poter affibbiare questo nome,

poiché si tratta di un‟azione vantaggiosa nei miei confronti, ma che

non mi richiede alcuno sforzo: si tratta di fuggire.

Fin da bambino ho avuto questo slancio, un certo fascino verso la

fuga come emblema del cambiamento in positivo, il simbolo del Me

Idealista che un giorno avrebbe preso il controllo di tutte le altre

microscopiche parti del mio essere.

Quel giorno è oggi.

Ieri ho trascorso l‟ultimo giorno in compagnia della mia famiglia. La

solita festa di Capodanno nel solito ristorante di lusso, luogo perfetto

per ostentare la propria ricchezza e di cui vantarsi con gli amici

durante i giorni seguenti. Stavolta è stato più semplice sopportare

quest‟appuntamento annuale, questa fiera della vanità, poiché sapevo

che non avrei mai più visto nessuna delle persone che mi

circondavano. Questo pensiero di certo non mi rendeva malinconico,

anzi, mi sollevava il morale, mi faceva sentire superiore, mi

trasformava ogni sorriso di circostanza in un ghigno. È stato questo

pensiero a farmi sopportare non il lusso in sé, ma la pacchiana

ostentazione di questo da parte della mia famiglia, che dimostrava a

qualunque occhio a malapena perspicace la nostra estrazione

borghese e non alta come nei loro scopi, perché un vero ricco è

assuefatto da ciò che ha e non ha bisogno di ostentare un bel niente.

È per questo che voglio fuggire, per non avere un futuro nel senso

che s‟intende oggi, perché voglio cercare semplicemente me stesso,

senza migliorarmi né peggiorarmi, senza diventare qualcuno che non

sono mai stato e che quindi non sarò mai. Siamo in inverno, la

stagione in cui la natura si prepara a sbocciare ed io voglio seguirla.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 233 ~

Primavera

Sono trascorsi mesi settimane giorni, ho viaggiato chilometri su

chilometri, ho divorato luoghi e persone con gusto e voracità, sempre

più avido di nuovi fotogrammi da sbattermi sugli occhi e più

cammino più mi sembrano familiari le sensazioni che provano i

bulimici quando anche loro non riescono a colmare col cibo i vuoti

della loro anima. Non so se la mia malattia è peggiore o migliore, ma

so che nonostante la sua diversità ha qualcosa che la rende simile alla

bulimia. Io sono bulimico di luoghi, persone e storie. La differenza è

che la mia bulimia può rendermi solo un vincente, perché grazie a

essa ho sconfitto la paura di cambiare, ma sono anche consapevole

che questa malattia esprime tutto il mio egoismo, tutta la mia

indifferenza verso i sentimenti degli altri per me. Il resto del mondo è

soltanto una minaccia, un ostacolo all‟affermazione del vero me

stesso. Se non mi credete, immaginatemi qui, mentre vago per le

strade di Berlino, mentre mi sono spiattellate davanti agli occhi tutte

le immagini della città ideale che si era creata nella mia testa durante

questi anni di prigionia, mentre divento protagonista di tutte le storie

che ho sceneggiato nei miei sogni più selvaggi e in un nanosecondo

mi passa per la testa il pensiero “ è qui ”. Ed è allora che mi costringo

a pensare che, no, non è qui, non è da nessuna parte, perché quella

che tutti vogliono non sarà la mia vita. Anche se in un luogo diverso,

le storie delle persone sono sempre le stesse, restano comunque delle

spirali d‟illusioni e falsità, di dolori e insoddisfazioni. Devo

costringermi a ricordare perché sono qui: perché voglio sfuggire a

tutto questo, voglio avere un‟esistenza diversa, voglio essere il

rivoluzionario della vita. Adesso non mi rimane soltanto che

costringermi a pensare che anche Berlino nasconda la sua dose

d‟illusione, che Berlino è solo una tentazione più grossa delle altre.

Perché non mi serve più desiderare ora che ho tutto.

Estate

Mentre la stagione delle falsità per eccellenza rende gli uomini molto

più simili a uccelli selvaggi che a se stessi, costringendoli a migrare

temporaneamente e contemporaneamente verso sud, io voglio restare

uomo, quindi continuo il mio viaggio, ponendomi anzi come unico

limite l‟esplorazione del nord. Non m‟interessa quanto durerà

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 234 ~

quest‟estate soffocante come al solito, io salirò, finché le mie forze

me lo permetteranno. Non ho nessun ostacolo tranne me stesso: il

clima è mite, il resto del mondo è indifferente alla mia impresa, il

tempo che ho è una vita intera. A volte mi tornano in mente vaghi

ricordi della mia vita passata ed è come se fossero in bianco e nero,

perché quello era un tipo di esistenza senza colori, un‟esistenza

sempre bloccata da qualcun altro, che non poteva slanciarsi verso il

mondo esterno. Che fosse uno dei miei pochi amici o un parente, la

solfa era sempre la stessa: niente colori. Ora è così diverso, vedo il

mondo per la prima volta e non capisco come le persone possano

allontanarsi dalle meraviglie che hanno, da questi colori così

sgargianti.

Credo che oltre al mondo, stia vedendo per la prima volta anche la

felicità. Prima anche un effimero momento di allegria doveva essere

seguito da un lungo periodo d‟inferno, invece, adesso è come se le

mie mani fossero la felicità, sempre con me e in qualunque cosa

tocco. Perché legarsi a poche persone, sempre le stesse, ma in

continua mutazione, se si possono avere tante persone diverse ogni

giorno, senza doversi per forza sentire legati a loro? Perché cercare

ossessivamente l‟amore, qualcuno che ci possa completare,

diventando sempre più freddi e aridi via via che diventiamo delusi e

illusi dalle persone, se possiamo riempire ogni nostro giorno di

passioni, l‟unica cosa che effettivamente cerchiamo e che

effettivamente resta? Perché lasciare che il destino ci renda sempre

più insoddisfatti a causa della sua monotonia e limitatezza? Ma non

voglio più pensarci, non voglio continuare questo viaggio

ripetendomi i motivi della mia presenza qui, è inutile, sono i fatti che

parlano. Basta guardarmi le mani, questa pelle indurita dalle stagioni,

annerita dallo sporco, rafforzata dal lavoro, per capire qual è il

motivo: la felicità.

Autunno

Questa notte è successo un fatto che non mi accadeva dai tempi della

mia vita passata. Il mondo scorreva velocemente dietro le finestre

della mia stanza, in tutti i suoi colori i suoi suoni le sue storie,

frenetico e io volevo solo farne parte. Non c‟era apparentemente

nulla che potesse impedirmi di uscire da quella misera stanza e

vivere, ma proprio non riuscivo a muovermi, non riuscivo ad alzarmi

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 235 ~

da quel fottuto letto e lasciare quelle lenzuola disordinate, quelle due

testoline dai capelli scuri di cui non ricordavo né i nomi né i volti. E

più non riuscivo a uscire, più non capivo perché fossi ancora lì, più

cresceva in me un‟ansia tremenda che m‟irrigidiva ancora di più i

muscoli e penetrava nelle ossa. L‟ansia aumentava nel fondo del mio

stomaco, saliva fino ad arrivare in gola, bloccandomi il respiro. Gli

occhi diventarono enormi fin quasi a uscire dalle orbite, la mia pelle

secerneva litri di sudore gelido. Finalmente mi svegliai, uscì da quel

terribile incubo, anche se urlando, anche se la prima cosa che feci

appena sveglio, istintivamente, fu quella di vomitare a terra davanti

al comodino. Mi alzai dal letto e quasi correndo mi lavai di sfuggita,

infilai i vestiti della notte prima e presi le mie cose. Mentre uscivo di

fretta dalla stanza mi rincorsero le voci assonnate delle due anonime

ragazze che mi chiedevano dove andassi, ma le ignorai. Camminai

freneticamente tutto il giorno per le strade di Helsinki, una delle mete

che avevo scelto per il mio tour autunnale in direzione sud. Non

riuscivo a non pensare a quell‟incubo. Erano tante le domande che si

susseguivano nella mia testa, ma la prima di tutte era perché avessi

avuto un incubo proprio come ai vecchi tempi, nella mia vita passata,

ora che ero felice. Un‟altra domanda era cosa significasse

quell‟incubo. Perché d‟un tratto non riuscivo a vivere? Qual era il

motivo che mi bloccava? Poi all‟improvviso tutto fu chiaro. E fu così

che mi ritrovai a dondolare su un albero nel vento di Helsinki

impregnato di sale, con il respiro bloccato in gola per sempre,

proprio come nel mio incubo.

Questa è la storia di Marcello Sanseverino 1945-1964.

Il più grande ostacolo alla nostra felicità siamo noi stessi. E non

possiamo superarci.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 236 ~

Michela Lai

Un vero ritratto

“Signora Saragocchi, non si muova, la prego”.

“Sì, mi perdoni. Ma, sa, comincio a sentire un dolorino proprio qui,

al collo”.

“Manca poco, mi creda”.

Calò nuovamente il silenzio, nella piccola bottega del giovane Dessì,

un silenzio fragile, continuamente interrotto dai sospiri della donna e

dal respiro sommesso e a malapena percepibile del ragazzo, cui mano

indugiava sulle ultime pennellate del ritratto.

“Va bene. Credo di avere finito. Può alzarsi, se vuole”.

La donna obbedì, e con il suo pomposo abito roseo, adornato di pizzi

e merletti, scivolò curiosa fino al dipinto. Giovanni osservò il suo

volto divenire da impaziente a sorpresa, e da sorpresa a entusiasta.

Nel ritratto, lei vedeva se stessa: bassa, mora, vestita di una veste

purpurea che delineava in modo prezioso ma non geloso le sue

forme, in modo anche più delizioso di quanto realmente non riuscisse

a fare quel commiserabile pezzo di stoffa, costretto a contenere chili

su chili di grasso, unicamente dovuto ad una vita di ozi e sollazzi.

“E voi? Che ne pensate? Siete orgoglioso del vostro dipinto?”

“Sì, sì, è indubbiamente un bel ritratto”.

La Signor Saragocchi notò il suo scarso entusiasmo per quell‟opera e

Giovanni, pur di disfarsi di quella sgradevole presenza, stirò un

sorriso, e mascherò la sua intolleranza per quella presenza come una

stanchezza irriducibile per l‟arduo compito portato eroicamente a

termine.

“Beh, allora, credo che sia meglio lasciarla riposare, Mastro Dessì”

“Sì, e la tinta riposerà assieme al sottoscritto. Venite a prenderla

domani stesso”.

“Verrà un mio messo”.

Finalmente, la dama si fece accompagnare all‟ingresso, dove

Giovanni le porse il cappotto e il piumato e ingombrante cappello

violaceo, e la aiutò a salire nella carrozza.

“Arrivederla”.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 237 ~

“Le auguro buona notte, madama”.

Il cocchiere fece andare a trotto il cavallo; Giovanni osservò la

carrozza percorrere il viale al tramonto, e con anche più interesse,

notò un contadino, carico di legname, guardare stupefatto

quell‟animale così in forze usato per trainare una futile carrozza.

Insomma, gli uomini hanno le gambe per camminare! Ma per arare,

molto meglio un cavallo o un bue! L‟uomo scosse il capo e continuò

la sua marcia. Quando fu a una manciata di metri, Giovanni vi

riconobbe un viso noto.

“Checco! Che bello rivederti!”

“Ragazzone! È una settimana che non ci incontriamo! Il fatto è che è

stagione di raccolta, c‟è tanto da fare! Tu, invece, con tinta e

pennello, fai grandi affari! Non vedevo una carrozza così da quando

avevo solo cinque anni. Perfino allora avevo più denti di quanti non

me ne siano rimasti adesso!”

L‟uomo dalla folta barba sfoggiò un sorriso di soli quattro denti,

grigiastri e storti. Giovanni, però, non ne rimase disgustato: quello

era il sorriso più bello che lui avesse visto.

Si congedò in fretta e fece una passeggiata per i vicoli di Samugheo.

Entrò in un pub.

Un forte odore di vino e sigari permeava il locale, dove gli uomini,

alla fine di una giornata di lavoro, si ritrovavano per un momento di

serenità tra amici, fumo e alcool. Il ragazzo si sedette al bancone,

assorto nei suoi pensieri.

“Un boccale di birra, per favore” ordinò, senza nemmeno guardare in

faccia il barista.

“Arriva subito. Però, fa proprio effetto vedere un così bel ragazzo

che beve da solo”.

Quella voce ammaliante lo spinse ad alzare il capo: man mano che

gli occhi scorrevano dal basso in alto, si delineava una figura snella,

dalla pelle olivastra, occhi verdi e una cascata di capelli corvini.

Il viso della donna, in particolare, lo colpì. I suoi occhi erano vivi, la

pelle perfetta, non una traccia di ruga o imperfezione; ma quello

sguardo, invece, era incredibilmente segnato, geloso di un segreto

che, lui lo sentiva, avrebbe rivelato la vera natura di quella Afrodite.

“Non ho molto tempo per le donne. Mi sono trasferito da poco, ho

tutta un‟attività da far decollare. Io non sono di qui, sai?”.

“Lo avevo immaginato. Non molti qui parlano tanto bene l‟italiano”.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 238 ~

“Non serve a molto, in un paese dove la lingua è il sardo”.

La donna sorrise, mostrando una dozzina di perle immacolate

protette dalle rosse labbra carnose.

“Hai detto di avere un‟attività. Dunque sei un artigiano?” chiese,

servendogli la birra.

“Sono un‟artista”.

Lei parve illuminarsi “Davvero? E, dimmi, sei bravo?”

“Dicono di sì”.

“E tu cosa ne pensi?”

Giovanni scosse la testa, bevette un sorso di birra e rispose, più per

dividere quel fardello con qualcuno che per attirarne l‟attenzione.

“In generale, sono soddisfatto della mia arte, anche se posso ancora

migliorare. Quello che proprio non mi piacciono sono i ritratti.

Escono male”.

“Cioè? Il cliente non si riconosce nel dipinto?”

“No, no. Loro si riconoscono, eccome! Sono io che non ce li vedo

proprio”.

Bevette tutto di un fiato il boccale di birra “Non riesco a catturarne

l‟essenza” concluse.

Quando ebbe posato il bicchiere, il suo sguardo incrociò quello della

donna. Lo trovò più sicuro di quanto si sarebbe immaginato, uno

sguardo disarmante, indagatore, e allo stesso tempo intrigante.

“Non è molto bello, sai, vedere la vera essenza. Insomma, immagina

solo tutti questi corpi, spogliati del loro rivestimento terreno! Credi

che le loro anime debbano essere tutte così belle?”

“Un ritratto è per definizione una descrizione dell‟aspetto della

persona. Ma se questo aspetto è menzogna, la mia Arte stessa non

diventa anche essa una bugia? E se la mia Arte è bugia, non mento

anche io quando dico ad altri e a me stesso che sono un‟artista?”

“Per te l‟arte deve significare molto”.

Il ragazzo sorrise appena “Per me l‟arte è tutto”.

“In tal caso, ti prego di chiudere gli occhi”.

Giovanni, felicemente sorpreso, obbedì. Sentiva solo il suono delle

risate, i commenti degli uomini seduti ai tavoli alle sue spalle e il

vetro dei bicchieri che si incontravano nei brindisi, un‟orchestra che

suonava al ritmo del suo cuore. E poi, un dolce tepore alla fronte, il

calore di quelle labbra in cui in soli cinque minuti lui aveva sognato

di naufragare.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 239 ~

Quando però riaprì gli occhi, estasiato, la donna non c‟era più. Si

guardò attorno, uscì in strada, ma niente: si era come volatilizzata.

“Marchese, la prego, rimanga ancora cinque minuti fermo”.

“Certo, mastro Giovanni. L‟artista è lei. Ma faccia più in fretta! Ho

un‟asta tra poco!”

Dopo una notte insonne, il giovane Dessì era tornato al lavoro, con

un altro facoltoso cliente che aveva attraversato mezza Sardegna per

incontrarlo. Tuttavia, c‟era qualcosa di diverso.

Per la prima volta in vita sua, Giovanni osservava il modello,

osservava il ritratto, e finalmente tutto combaciava: quello era il vero

ritratto! Quella era la vera essenza di quell‟uomo! Mai la sua mano

era stata tanto pronta, mai la sua fantasia ansiosa di vedere terminata

un‟opera!

“Ecco, ho finito” disse orgoglioso.

L‟uomo abbandonò la sua postura da statua equestre e si avvicinò a

grandi passi al dipinto.

“Orrore!” Esclamò quello, vedendo il ritratto.

Giovanni, che già era preparato ad una ovazione per quella che ormai

considerava il suo capolavoro, rimase sconcertato di fronte al

disgusto del marchese. Non capiva: quelle sopracciglia folte, quel

sorriso malevolo unito alla calvizie, la giacca tinta appena di sangue,

non rispecchiava forse la vera di natura di un uomo cui fama di

“machiavellico sfruttatore di manodopera” lo aveva preceduto

perfino in un paesino come Samugheo? Non era forse questa

l‟immagine più fedele di quel discutibile personaggio?

Giovanni non lo seppe mai. Di certo, però, il marchese non lo pagò;

anzi, sentitosi personalmente toccato, minacciò una denuncia, mentre

spronava il suo cavallo nero. Il pittore stette lì, a guardare il dipinto

per ore, a ragionare sull‟accaduto. Volle sperare che fosse solo un

problema del marchese, incapace di accettarsi per come era, ma fu

un‟illusione che non durò un paio di ore: altre due donne si

presentarono, entrambe facoltose; Giovanni dipinse. E non vide una

lira.

Infine, sorpreso a pensare che il suo talento fosse svanito, chiese a

una donna sui quaranta, contadina e massaia, di farle da modella. E

lì, accadde qualcosa di davvero straordinario.

Quando la donna si alzò per vedere il ritratto, arrossì per la bellezza

che ne traspariva, una beltà che, a parer suo, andava ben oltre il suo

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 240 ~

vero aspetto. Era lei, non c‟erano dubbi: ma era semplicemente più

bella di quanto effettivamente fosse o, come credeva Giovanni, di

quanto lei credesse di essere.

Anche stavolta, purtroppo, non fu pagato: la donna non poteva

permettersi un simile lusso e, dato che era stato lui a proporle il

ritratto, glielo donò con piacere.

Quindi il suo talento non era svanito. E quando ripensò alla serata

precedente e alla donna del pub, comprese. Lei, forse quella che lì, a

Samugheo, sarebbe stata definita “stria”, cioè strega, aveva

semplicemente realizzato il suo desiderio. Corse al pub, la cercò in

tutto il paese, chiese di lei, ma era come se non fosse semplicemente

sparita, ma non fosse nemmeno mai esistita.

Giovanni aveva barattato la fama e il danaro con l‟arte più sublime:

se poi ciò fosse un bene o un male, dipendeva unicamente dal cuore

del suo cliente. Ben pochi però sentirono più parlare di un pittore di

nome Giovanni Dessì. Raramente un buon cuore si concilia con un

portafoglio generoso.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 241 ~

Giulia Lizzi

I colori del mare

Il mare, quel giorno, era di un celeste quasi dorato. Quell‟abisso

accoglieva in sé emozioni, gesti nascosti, segreti, confidenze,

promesse. La luna, che sera dopo sera arrotondava la sua forma,

rifletteva nobile la sua sagoma nell'acqua. Così come le stelle, stelle

sincere, curiose, quasi indiscrete, erano le uniche testimoni di quei

momenti in cui ci si dimenticava di tutto, nessun pensiero, via le

paure. Musica, note timorose di canzoni urlate al cielo, melodie

eterne, intonate a tutto volume. Musica, colonna sonora della nostra

fiducia, il nostro credere, con tutto il cuore, nel presente. Piccoli per

sempre. In città invece era una notte come un'altra, sfruttata, vacua.

Pioveva, settembre era alle porte, faceva molto freddo. Io e Sam

eravamo entrambe assorte nei nostri pensieri, forse gli stessi. Non le

chiesi nulla: né il motivo del broncio che da un paio di giorni le

oscurava il viso, né dove avesse la testa in quel momento, ma sapevo

per certo che non era lì; il suo cuore, i suoi sorrisi erano lo specchio

di molto, molto di più…

«La tua vita è qui!”, Le ripetevano sicuri i suoi amici, la sua famiglia.

Determinata, credendo in sé stessa e nelle sue idee, sapendo di essere

diversa da tutte le altre sue coetanee e avendo finalmente capito di

dover curare, proteggere, alimentare quella diversità che la

caratterizzava, replicò dicendo che la sua vita era nel luogo, nel

momento in cui si sentiva felice, linda, raggiante, pura. Laddove si

sentiva completa -pareva non le mancasse nulla e non nella città in

cui trascorreva la maggior parte del suo tempo. Io ero sempre dalla

sua parte, a prescindere da quello che diceva, faceva, contro tutti,

tutto. Eravamo io e lei, e lo saremmo state sempre e per sempre. La

mia vita è là, sussurrava tra sé. Per «là” s'intende un piccolo

campeggio in un'isola croata in cui, da quando avevamo cinque anni,

Sam ed io passavamo le nostre estati. Un posto in cui l'unica

attrazione per noi era il mare e tanti, un sacco di ricordi legati a

quell‟infinito cercarsi, contrastarsi di acqua e aria, onda e schiuma,

alta e bassa marea, urli e tacere improvviso. Ricordi come ombre

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 242 ~

silenziose che fanno parte di te, ti descrivono, ti arricchiscono, ti

perfezionano. Rappresentano il tuo passato, ma sono pronte a

spuntare fuori, nel tuo presente, da un momento all'altro, di soppiatto,

ma all‟improvviso. Sei legato a loro, inevitabilmente come un

bambino lo è alla sua mamma, invisibile cordone ombelicale che ti

nutre, giorno dopo giorno, e si nutre di te.

Solo un continuo via vai di spiagge che formano il lungo mare.

Eppure, in quelle spiagge simili, ma una diversa dall‟altra, che si

rincorrono, si inseguono, avevamo lasciato il nostro cuore, e con esso

la speranza che tutto l'anno potesse assomigliare a quel mese

paradisiaco. Confidenze di primi baci rubati sotto stelle straniere,

tentate spiegazioni di sogni ahimè inspiegabili, che solamente le

persone con cui li avevamo condivisi sarebbero state in grado di

capire… Programmazioni di future giornate insieme, durante le

vacanze natalizie, per Pasqua, in occasione di un compleanno, finite

col ritrovarsi l'estate dopo, cambiati, in fondo sempre gli stessi. Gli

stessi bambini divertiti tra sere vissute giocando a poker, a biliardo

senza sapere le regole - per il puro gusto di essere un'altra persona

per poche ore, indossare una maschera, forse invece togliere la

propria, una volta per tutte-, al molo a vedere le stelle cadenti. Un

giorno Sam ne vide una. Era con il suo ragazzo, primo amore

sloveno conosciuto la settimana precedente. Noi altri sedevamo

vicino a loro, forse un paio di metri più in là, solamente per non

sembrare curiosi, invadenti. Si baciarono a lungo, inesperti,

appassionati, e dopo pochi minuti si ritrovarono distesi, occhi puntati

al cielo, giovani sognatori in balia delle loro emozioni. Quando vide

la meteora che, protetta da un'aura abbagliante, fulgente, attraversava

il cielo senza fretta, pigra, come per esibirsi davanti a quegli occhi

spalancati, diva per pochi secondi, in tutta fierezza durante il suo

percorso, unica tra tante pose ferme, immobili come per non guastare

il momento di gloria della compagna, chiuse gli occhi e pensò ad un

desiderio da esprimere. Essere felice. Far tornare insieme i genitori.

Andare bene a scuola. Tante possibili necessità, alcuni capricci, le

passavano nella mente, un po‟ come loro, sì, proprio loro, i ricordi,

che all'improvviso si fanno spazio, prepotenti, per scombussolare la

realtà che con tanta fatica avevi cercato di riordinare. E basta una

canzone, un'espressione, un vestito, un colore per perderti, per

allontanarti dal mondo, per entrare in uno migliore, che più ti

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 243 ~

appartiene. Chiuse gli occhi e non seppe che cosa chiedere. E' solo

una stella cadente, pensò. Un appiglio, una soluzione virtuale alla

quale la gente fa affidamento, quando preferisce chiedere aiuto agli

astri piuttosto che conquistarsi una cosa da sé. Così strinse la mano di

Martin, sorrise e non chiese nulla a quel blu inimmaginabile,

immenso, indistinto. Si limitò a guardarlo.

Una delle cose che più amavamo al mondo, sia io che Sam, erano i

fogli bianchi. Che c'è di meglio di una storia ancora da scrivere, un

lieto fine ancora da inventare? Si hanno mille idee dinnanzi a quel

bianco spudorato, a tal punto da sentirsi niente a confronto, e poi,

quando la penna si avvicina timida alla carta, di colpo non si sa da

dove iniziare, se dire o no alcune cose, se vale la pena raccontarle,

condividerle. Ogni volta che rientrava a casa, in Italia, Sam si sentiva

come vuota, arrabbiata, incompresa: le mancava qualcosa. Pensava

fosse tutto finito. Pensava che ora sarebbe arrivato il momento di

mettere un punto a capo nella sua vita. Solo un foglio bianco davanti

a sé. Ma lei non era pronta per tutto ciò. Affatto. Non era pronta per

un “punto a capo”: una virgola, al massimo un punto esclamativo. Il

tempo passava come per infastidirla, turbarla, faceva tutto da sé,

consapevole di non poter contare su di lei. Le lancette della sua vita

ticchettavano sull‟orologio così velocemente, come per non fare tardi

ad un appuntamento importante. Cuore e fisico sempre distanti

chilometri, sorrisi distratti, sguardi spenti, apatici. Passava anche

l'inverno: pianti, sorrisi, carezze, discussioni, crisi, amicizie,

cercando il posto in cui si era perduto il cuore. Tutto scorreva senza

nemmeno bussare alla nostra porta per avvisarci di essere passato.

Un tintinnio, un libro, una risata, una foto. Si faceva di tutto per

lottare contro il tempo, per guadagnarsi il premio, il compenso da

non dimenticare. Lessi un racconto, un romanzo concentrato sulla

vita di adolescenti, con l'attenzione focalizzata su un'estate in

particolare: l‟estate del primo amore. Diamine, pensai, il potere delle

parole...libri, musica, film, aforismi. Questo è ciò che ti salva. E'

incredibile come queste abbiano la capacità di esprimere attimi,

sensazioni troppo rapide per riuscire a spiegare così, su due piedi. Mi

riconobbi in ogni singola parola di quel libro, in ogni spazio, in ogni

virgola, in ogni luogo, tempo. Parlava di noi. Sere belle da morire,

che vorresti potessero non finire mai. Iniziate con «ti ricordi...”, finite

con «lo ricorderemo...”. Pensare che la lontananza non può

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 244 ~

distruggere un legame così forte, così autentico, pretto. Non ce n'è

abbastanza. Utopie, aspirazioni, fantasie. Sogni che sembrava fossero

capaci di rompere ogni barriera, oltrepassare ogni confine naturale,

volare sopra ogni singolo centimetro che ci divideva. Ingenuità,

incoscienze. Sapevamo che i rapporti a distanza tra quindicenni

erano molto di più. E ci rendevamo anche conto di quanto quella

separazione fisica avrebbe potuto sfocare i nostri ricordi, affievolire

la voglia di vederci; poteva addirittura rendere monotone le nostre

giornate, far diventare abitudine tutto ciò che ci capitava. Spazzare

via l‟incantesimo come se non significasse nulla, come se non fosse

quella stessa magia la chiave di tutto. Ma la lontananza, neanche la

lontananza sarebbe riuscita ad infrangere un sogno. Neppure lei

poteva imporre il fatidico punto a capo che tanto temevamo, che

tanto terrorizzava Sam. E così ci limitavamo a mettere un punto, a

segnare con un tocco di inchiostro quel simbolo che rappresentava

tanto. Sicuri di poter riprendere a scrivere la nostra storia dalla parola

in cui ci eravamo fermati. E così l'estate dopo ricominciavamo a

vivere da dove eravamo rimasti. Di nuovo col «ti ricordi...”. Ancora

esperienze, sorrisi, soddisfazioni, naturalezza. Più maturi, più

consapevoli del modo in cui, una volta finita la vacanza, avremmo

potuto reagire. Ma non ci volevamo pensare, non volevamo farlo,

non ci faceva bene. E, una volta tornati a casa, essere come l'anno

prima, e quello prima ancora. Senza parole. Solo noi, contro tutto,

contro tutti. In fondo era questo ciò che volevamo, questo ciò di cui

avevamo bisogno. Noi eravamo quei ragazzi, quello il nostro mare, e

tutto ci si poteva chiedere, tranne di rinunciare ai sogni che tanto

avevamo aspettato, vissuto, conservato, protetto ad ogni costo. Erano

quelli i nostri sogni, erano loro, eravamo noi, i colori del mare.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 245 ~

Martina Loconte

Io e il mio miglior amico

Fine Marzo. Il sole sembra splendere come non ha illuminato mai,

per Martina; le emozioni che prova sono confuse, ma incredibilmente

stupende: gioia, sorpresa, felicità... forse anche un po‟ di tristezza, si

cela nei suoi occhi color nocciola. Ma non importa, sembra aver

dimenticato tutto il mondo, tutti i suoi problemi, che ultimamente

sono tanti: la scuola, dove ci sarebbe da recuperare qualche

insufficienza, l'amicizia con Leonardo, un suo amico che però è

troppo orgoglioso per ammettere di aver sbagliato ed infine la sua

ultima delusione d'amore con Francesco. Ma quelle poche volte che

Luca, il suo migliore amico, la viene a trovare a Roma, tutto si

dimentica, i problemi che sembrano enormi, diventano

improvvisamente minuscoli, quasi inesistenti. Forse è perché Luca

già solo a guardarlo ispira simpatia, oppure è per la sua risata strana,

o forse è perché riesce a sorprenderla sempre. Quel giorno, però, non

l'aveva chiamata; neanche un messaggio, come di solito le inviava

quando non poteva stare al cellulare. Erano le 12.00 ed ancora non si

era fatto sentire, non rispondeva ne' ai messaggi, ne' alle chiamate;

Martina cominciava a preoccuparsi e l'attesa si stava facendo sempre

più ansiosa. "Martina, sai darmi te la risposta?" La professoressa di

matematica interruppe le sue preoccupazioni. "Veramente

professoressa.." Martina cercava di scusarsi con un filo di voce. "Mi

scusi professoressa, non stavo attenta" "Vorrei da parte tua un po' più

di attenzione, perché se non stai attenta e poi non capisci, io non ti

rispiego l'argomento" Si scusò ancora, ma i suoi pensieri erano

ancora su Luca. Proprio in quel momento arrivò un suo messaggio:

“Ciao amore,scusa se non ti ho potuto rispondere ne' alle chiamate,

ne' ai messaggi, ma mio padre sta lavorando in una zona dove non c'è

campo ed io sto con lui. Domani ti chiamo che mi manchi da morire!

Un bacio”. Un enorme sorriso apparve sul suo viso, e un sospiro di

sollievo alleviò quelle due ore rimanenti, che passarono lentamente.

Appena uscita da scuola, si diresse verso la fermata del 409, che

portava a Torpignattara, insieme ad i suoi amici; proprio quando

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~ 246 ~

l'autobus stava per partire, le squillò il telefono: “Ciao mamma!” “Oi

Marti,allora? Come è andata a scuola?” “Tutto ok, te stai a casa?”

“Come non ti ricordi? Oggi avevo appuntamento dal parrucchiere e

tu mi devi raggiungere a Furio Camillo con la metro” “Oddio è vero!

E adesso come faccio? L'autobus è già partito!" “Scendi alla

prossima fermata, tanto sono 5 minuti a piedi dalla metro.” “Ok,

allora ci vediamo tra una ventina di minuti!” “Ok,comunque fai con

calma, tanto ancora sta facendo un'altra signora”. “OK, a dopo”.

Appena salutò la madre, le squillò nuovamente il cellulare,ma

stavolta era Eleonora, un'amica sua e di Luca che viene l'estate ad

Ostia con loro. “Ele!! Allora come va?” “Tutto male, Marti”. Riuscì

a dire singhiozzando “Cosa è successo? Dai racconta e non

piangere,ti prego.” “Valerio...” “Cos'è successo con Valerio??” “Mi

ha lasciata”. “Oddio...e perché? Mi dispiace tantissimo amore”.

“Sembra che le piace una ragazza di scuola sua... sto troppo male...

non ce la faccio”. Martina non sapeva cosa fare; Era molto strano,

conosceva Valerio e non era di certo il tipo da innamorarsi così, da

un giorno all'altro. Ad un certo punto le venne un'illuminazione.

“Stai a casa?” “Sì...- -Sto lì tra dieci minuti; abiti a Furio Camillo,

giusto?” “Si. Grazie mille Marti, sei una vera amica. A dopo.”

Mentre stava in metro pensava e ripensava alla storia della sua

amica: le pareva tutto così strano, li ha visti la settimana scorsa e

sembravano tanto innamorati. Forse la stava prendendo solamente in

giro... ma Valerio non è quel tipo di ragazzo: lei lo sapeva bene

perché è un suo ex... mentre i pensieri vagavano senza una meta le

porte della metro si aprirono proprio davanti a lei ed un ragazzo con

aspetto familiare le fece un sorriso: Francesco. Il cuore le si fermò

per una frazione di secondo ed i ricordi cominciarono a riemergere.

"Oi Marti!" "Ciao Frà!" Una ragazza le viene vicino "Eccomi!"

Martina la squadrò da capo a piedi: non molto alta, mora con gli

occhi chiari..."In fondo non ha niente più di me... se solo avessi meno

fianchi, un pò di pancetta in meno e... certo sarebbe bello avere i suoi

occhi azzurri chiari" Continuava a pensare e a ripensare a cosa aveva

più di lei. "Martina, lei è Miriana la mia ragazza, Miriana lei è

Martina, la mia ex." "Piacere!" "Piacere..." Uno sguardo di sfida si

nascondeva dietro gli occhi scuri di Martina. "Noi dobbiamo

scendere a questa fermata... ci vediamo!" "Ok! Ciao Frà,ciao

Miriana!" "Ciao!". Le porte si chiudono ed il finto sorriso di Martina

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 247 ~

si chiude insieme a loro. Una lacrima comincia a rigarle il viso e gli

occhi si fanno sempre più lucidi. La gente continuava a fissarla ma le

lacrime continuavano a scendere senza poterle fermare. Finalmente

però la metro si ferma alla fermata dove Martina doveva scendere; le

porte si aprono nuovamente e in attimo corre via. Prende le scale e,

ancora con le lacrime agli occhi, corre senza mai fermarsi; le gambe

cominciano a cedere e tutto le sembra più strano, come se il mondo

le fosse cascato addosso. Uscita da sotto la metro cerca di asciugarsi

le lacrime cerca di capire dov'è; quando finalmente focalizza la zona,

intravede un ragazzo che continua a fissarla. Martina si avvicina,

finalmente capisce chi è: Luca. Lascia cadere lo zaino a terra e

comincia a correre verso di lui. Ora le lacrime di tristezza si

trasformano in lacrime di gioia e intanto ride come una bambina,

come non rideva da tanto tempo. Luca accenna ad un sorriso e con

una mano fa per allontanarsi; ad un certo punto con la mano che

teneva nascosta dietro la schiena tira fuori tre rose rosse. "Prima di

sprecare tutte le lacrime adesso, aspetta di ascoltare quello che ho da

dirti" "Dai, lo sai che quando dici così mi metti paura!" "Allora..." le

porge la prima rosa "questa è per la tua bellezza... amore mio, sei la

persona più bella che conosco, perché ricorda, che non conta solo

quello che c'è fuori, come i fianchi o la pancia, ma anche quello che

c'è dentro e di sicuro, con quello che hai dentro, sei imbattibile!"

"Amore... non so che dirti davvero..." "Aspetta non ho finito" le

porge a seconda rosa. "Quest'altra è perché sei un'amica perfetta,

anche se a volte mi fai ingelosire, perché è questo che ti rende così

speciale, per me come per molte altre persone." "Oddio..." "Un

attimo, prima che dici qualsiasi altra cosa..." le porge l'ultima rosa

"l'ultima è speciale... questa è perché di tante persone al mondo...

circa sei miliardi di persone, hai scelto me, amore mio" "Amore...

questo è il regalo più bello che qualcuno mi abbia fatto... ne avevo

davvero bisogno... non sai quanto sei importante per me... penso che

sei una delle persone più importanti della mia vita e non voglio

perderti davvero mai. Ti prego, promettimi che ci sarai sempre, che

non ti dimenticherai ma di me, come hanno già fatto quasi tutti...

Promettimelo ti prego". Un sorriso si accese sul viso di Luca "io non

te lo giuro, Marti, perché so che sarebbe impossibile dimenticarti!

Ricordati che chi ti perde un giorno ti rimpiangerà, questo è poco ma

sicuro." Scoppiò in una risata euforica "Ma ora vorresti fare il

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~ 248 ~

saggio?!" "Ei, attenta a come parli che potrei anche lasciarti qui da

sola!" "Non lo faresti mai." "E come fai a saperlo?" Martina le si

avvicinò lentamente, lo guardò negli occhi e gli accarezzò la guancia.

"Bè, prima di tutto perché sei il mio migliore amico e non mi

lasceresti mai da sola" Si scansò leggermente e ricomiciò a ridere.

"Poi perché so troppe cose su di te, potrei ricattarti!!" Con aria

imbronciata si girò dall'altra parte. "Basta. E io che ci perdo pure

tempo." Cominciò piangere per finta. "Ora sei anche un attore

drammatico? Nooo,non ci posso credere! Me l'hai tenuto nascosto

per tutto questo tempo!" Scoppiarono a ridere tutti e due "No,

veramente qui l'unica attrice drammatica è stata Eleonora!". "Ahh si.

Ora mi devi spiegare anche questa cosa!" "Non c'è niente da

spiegare, mi ha aiutato a farti venire in questa direzione e,

ovviamente,tra lei e Valerio va tutto bene!" "E bravi! Ed io che mi

stavo anche preoccupando!" "Ei, amore, te mi devi anche spiegare

come mai piangevi all'uscita della metro." Il sorriso di Martina sparì

in un attimo e gli occhi le stavano diventando sempre più lucidi. Alzò

lo sguardo al cielo per paura che una lacrima potesse scendere sul

viso. Luca senza dire una parola le se avvicinò e l'abbracciò; "non ti

preoccupare, se non vuoi parlarne adesso ti capisco. Me lo spiegherai

quando ti sentirai meglio, ok?" Mentre le sussurrava questo

all'orecchio, Martina fece un cenno di testa e continuava ad

abbracciare Luca sempre più forte ma intanto delle lacrime

continuavano a scendere sul viso.

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Sara Ludovico

La libertà

Era una fredda notte d‟inverno. La pioggia aveva da poco cessato di

battere insistente e in quel paesino, a ridosso di un fitto bosco, in una

casa fatta di legno, c‟era Stefano intento a guardare il grigio del cielo

che rendeva il paese ancor più cupo e desolato. I giardini di fronte a

casa sua erano vuoti e il vento gelido faceva girare lentamente una

giostrina. Stefano pensava al piano che aveva progettato. Aveva solo

dieci anni, e genitori buoni e gentili. Era un bambino molto bello:

capelli scuri e scompigliati, occhi castani, sguardo perso, pensoso,

dolce, malinconico. Lui sapeva bene che non era il paese il posto in

cui doveva vivere, bensì la foresta, il bosco. Amava gli animali, li

considerava suoi fratelli. Non preparò neanche uno zainetto per

mettere acqua, cibo o soldi. Non sarebbero serviti. Lì nel bosco,

avrebbe avuto tutto quello che gli sarebbe stato necessario. Sì, il suo

piano era proprio quello: scappare nella foresta e viverci per sempre.

Era ormai notte. Il papà e la mamma dormivano, come anche tutto il

paese. Solo lui e il bosco erano svegli. Lasciò un bigliettino con su

scritto:

“Non sono stato rapito, tranquilli. Sono andato a vivere in un posto in cui sarò felice e che mi appartiene. Addio” STEFANO Lo rilesse un paio di volte e poi s‟incamminò nel gelo della notte,

senza torce, senza nulla: solo con i vestiti che aveva addosso. La luna

piena illuminava di bianco le strade con piccole lastre di ghiaccio e,

in lontananza, il luogo in cui avrebbe incominciato la sua nuova vita,

quella che l‟avrebbe reso felice.

Nel folto del bosco assaporò ciò che non aveva mai assaporato: la

libertà. Da quando vi si era incamminato, non sentiva più scorrere

sangue nelle sue vene, ma linfa; le sue labbra avevano la consistenza

di una corteccia d‟albero. Scorse una grotta e vi entrò. Non c‟era

nessuno. Era umida, profumata di terra e di erba. Si distese sulla terra

calda e soffice, e si addormentò.

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~ 250 ~

Nei giorni a seguire, anche il suo viso era mutato: era di un verde

pallido, come se si fosse trasformato in un vegetale.

Stefano era felice: in un mese aveva esplorato tutto il bosco, fatto

amicizia con i suoi più fedeli fratelli: gli animali. Con loro lottava per

gioco, li nutriva, li curava con delle erbe. E lo venivano sempre a

trovare. C‟erano linci, cervi, lupi, cinghiali e volpi. Queste ultime

riuscii ad accarezzarle quasi subito: dal primo momento, essi

sentirono che quel ragazzo non era un pericolo, e si fidarono.

La notte gli scoiattoli si addormentavano al suo fianco, ma la mattina

non li trovava mai.

Sì, Stefano era felice. Lui non apparteneva alla specie umana, l‟aveva

capito sin dall‟inizio. Per sopravvivere gli bastavano i frutti, le

bacche e i cibi offerti dalla natura, e la sorgente dietro la sua grotta

era più che sufficiente per dissetarlo e per dargli sempre forza ed

energia.

Un giorno, però, era arrivato un temporale, e gli animali si erano

rifugiati nella sua grotta. Stefano, mentre parlava con loro, sentì un

grande insieme di passi. Anche i suoi fratelli lo udirono, e si

immobilizzarono. Il bambino sbirciò senza farsi vedere, e, nonostante

la fitta pioggia, vide un grande numero di carabinieri che avanzavano

a passo di marcia diretti nella sua grotta.

Stefano si tirò subito indietro, e balbettò:

“ Sono arrivati, fratelli. Scappate, vi prego! Hanno i fucili, capite?

Forza!”.

Gli animali corsero fuori ma, invece di scappare, andarono in contro

ai decisi uomini in divisa.

“No, no!” Pensò Stefano.

“Levatevi di mezzo, sudici animali! O vi uccideremo!” Gridarono.

“Non ci provate!” Urlò Stefano, uscendo di scatto dalla grotta.

“Ah, vagabondo, sei qui!” Esclamò il più anziano. “ Tua madre sta

morendo dal dolore! E noi ti abbiamo cercato dalla mattina in cui sei

scomparso. Come ti è saltato in mente di scappare nel bosco?! Vieni,

su, si torna a casa!”

“Questa”- sottolineò Stefano – “è la mia casa.”

Il carabiniere stava per replicare con ironia, quando sentirono un urlo

di pianto:

“Stefano! Stefano! Il mio bambino!”.

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~ 251 ~

La mamma gli corse incontrò e lo strinse a sé. Ma ad un certo punto

allentò la presa, come fossilizzata, perché il figlio le mormorò

qualcosa, che nessuno sentì.

Con le lacrime agli occhi la madre si alzò e gli sussurrò: “ Sì, figlio

mio.”

-“Vai mamma, e non voltarti,” disse sorridendo alla madre.

La madre raccomandò la stessa cosa ai carabinieri perplessi, e

Stefano sparì.

Nei giorni seguenti, infatti, i carabinieri, per curiosità, tornarono a

cercarlo, ma era sparito. Anche gli animali era scomparsi. L‟unica

sua prova di esistenza, fu una frase che scrisse su un biglietto

ingiallito:

“ La libertà: una gioia per pochi, una speranza per tanti. Amatela e cercatela, combattetela e proteggetela, come ho fatto io”.

Erano le ultime parole di Stefano per il mondo, ma era un

insegnamento che pochi avrebbero compreso, perché solo chi ama la

libertà, la cerca, combatte per averla e la protegge con tutte le proprie

forze può capirne davvero il senso.

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Marika Manzella

I have a dream

“È tardissimo” pensai appena parcheggiai il motore davanti alla

Cittadella. Presi il borsone e mi misi a correre. Mi diressi verso la

piscina e corsi nello spogliatoio. In due secondi ero già con

l‟accappatoio e correvo in direzione del bordo vasca.

“Sei in ritardo Alissa” disse il mio allenatore Peppe. “Lo so, scusa”

risposi pentita.

Mi tuffai e poi…silenzio. Finalmente ero nel mio habitat naturale.

Mi chiamo Alissa Hope e ho 16 anni. Da come avrete capito faccio

nuoto e da ben 12 anni. Il mio unico e più grande sogno è arrivare ai

nazionali. Sono sempre arrivata ai regionali, piazzandomi anche fra

le prime tre, ma mai ho fatto il tempo che avrei dovuto fare per

arrivare al mio obiettivo principale. Avevo sempre qualche secondo

in più rispetto al tempo stabilito e per chi fa nuoto capisce che due o

tre secondi sono molto difficili da scendere. È quasi impossibile,

all‟età che ho, abbassare ancora i miei tempi. Il fisico cresce,

matura…cambia. Ma eccomi qui, ormai “vecchia”, a cercare di

raggiungere il mio sogno, il mio obiettivo.

Quando entro in acqua è come se tutto il resto del mondo sparisse. Ci

sono solo io e quell‟eterna riga nera. Mi rilasso e scordo ogni cosa.

“Alissa?” Sentii dire. Mi svegliai di colpo dalle mie riflessioni e

tornai alla realtà. Erano tutti fermi e mi stavano guardando. “Che

figuraccia!” Pensai.

“Alissa, hai capito cosa ho detto?” Mi chiese Peppe. “No, scusa”

risposi abbassando gli occhi.

“Non solo vieni in ritardo per di più non stai neanche attenta. Stavo

dicendo che si devono fare 4 serie da 6 volte i 100 m proprio stile. Tu

li devi fare tutti a delfino, casomai ne alterni qualcuno a stile va

bene?” Disse l‟allenatore. “Si” risposi.

Dai suoi occhi azzurri si poteva vedere che l‟arrabbiatura era passata.

Lui era fatto così, non era capace di arrabbiarsi. Era il mio secondo

padre. Mi aveva cresciuta lui fin da quando avevo 5 anni. Mi aveva

insegnato i segreti del nuoto, i segreti per essere forte e riuscire a

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superare gli ostacoli. Peppe sa tutto di me, più di mia madre e mio

padre. Mi ripete sempre che il nuoto è lo specchio dell‟anima e che

quindi la nuotata viene influenzata dalle emozioni; ecco perché mi

conosce così bene; ma è sempre arrabbiato con me. Non conosco il

motivo per cui mi tratta così, forse perché sono quella che combina

più guai o quella che fino ad ora non ha ancora combinato niente di

decente ma, mi è sempre addosso, mi corregge sempre, mi

rimprovera quando non sto attenta, nonostante siano gli altri a fare

confusione…però mi piace, mi fa capire che a me ci tiene davvero,

anche se a volte esagera, come dice Silvia. Lei è la mia migliore

amica. Siamo cresciute insieme in questa piscina. Ci siamo sempre

l‟una per l‟altra nei momenti difficili, specialmente dopo delle gare

andate male. La nostra passione ci aveva rese sorelle.

“Alissa” urlò. Oh no, Peppe aveva già dato il via.

Questa volta era davvero arrabbiato, così partii subito. Incominciai

con la prima bracciata a delfino, poi la seconda, la terza… poi di

nuovo quel dolore. Era ormai troppo tempo che mi faceva male la

spalla ma avevo paura a dirlo a qualcuno. Se lo avessi detto mi

avrebbero fatta visitare e non so come sarebbe andata a finire.

Nel delfino la metà sinistra del corpo fa gli stessi movimenti della

destra, allo stesso tempo. Il colpo di gambe è dall'alto verso il basso

con un movimento simmetrico e simultaneo, è come se la parte

inferiore del nostro corpo si muovesse come un‟onda. Le braccia si

muovono contemporaneamente, facendo più sforzo di qualsiasi altro

stile. Ma questo era il mio stile, non potevo abbandonarlo.

Mi fermai e mi sedetti a bordo vasca. Mi mancavano solo 3 secondi

per fare il tempo per i nazionali nei 200m delfino e dovevo

mettercela tutta; non potevo lasciarmi abbattere da uno stupido

dolore perché ero ad un passo dal mio sogno, anzi ero a tre secondi di

distanza dal mio sogno. Poi ricominciai a nuotare, con un obiettivo in

testa, un obiettivo che avrei raggiunto, nonostante il forte dolore.

Tornai a casa alle 19.00. Sistemai il borsone e, di nascosto da mia

madre, presi il ghiaccio e lo misi nella spalla destra. Alleviò Il dolore

che dopo qualche minuto cessò, poi andai a letto e in pochi minuti

sprofondai nel buio. L‟indomani mattina ero in piena forma, mi

sentivo forte e molto determinata e quindi non vedevo l‟ora che

arrivasse pomeriggio e dopo 5 ore di stressante lezione a scuola,

arrivò.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Aspettai che tutti si buttassero in acqua e poi raggiunsi Peppe.

“Peppe…non riuscirò a fare il tempo per i nazionali se non mi alleno

un po‟ di più” gli dissi.

“Aly, mi dispiace ma penso che per te gli allenamenti che fai, siano

più che sufficienti” mi disse con un tono dolce. “Non è vero!” Urlai

fin troppo forte.

“Alyssa hai 16 anni. Non ti puoi “massacrare”con gli allenamenti.

Hai la scuola, devi pensare anche allo studio, non puoi lasciare

materie a causa del nuoto. E poi le ragazze della tua età escono, si

divertono, perché non devi farlo anche tu?”

“Io non sono come le ragazze della mia età!” Ribattei.

“Me no sono accorto e sai quando? Quando avevi 5 anni che, anziché

giocare con le bambole come le altre bambine, venivi qua, e mi

chiedevi di allenarti. Quando io dicevo no, ti spogliavi e ti buttavi,

anche se in piscina non c‟era nessuno. So che questa è la tua casa,

Alissa, so che è l‟unico posto dove sei te stessa, ma devi saper anche

divertirti, avere amici e vivere la tua adolescenza”.

“Per favore” dissi con gli occhi dolci. “Non ti arrendi mai vero?”

Disse sfiorandomi il viso. “ È questo che adoro di te: la tua

determinazione. Ti servirà tanto, non solo nel nuoto, ricordalo! Ma

adesso non ti do ragione, mi dispiace”.

“Uffa” sbottai. “Ora va ad allenarti!” Disse in tono scherzoso

dandomi un colpetto nel sedere.

L‟indomani pomeriggio mi allenai da sola in corsia 6. Il dolore non

lo sentivo, avevo imparato che ogni volta, prima dell‟allenamento,

mi prendevo un antidolorifico di nascosto, così per tutto

l‟allenamento stavo tranquilla. Mi allenai con impegno, pensando

alle persone che avevano fiducia in me, che mi credevano capace di

cose assurde, come fare il tempo per i nazionali.

Passarono i giorni sempre con la stessa routine e sempre con la stessa

determinazione, anzi no…forse quella aumentava. La notte che

precedeva le gare fu molto difficile: ero nervosa, avevo paura e come

se non bastasse, due immagini contrapposte si alternavano nella mia

testa: io che vincevo l‟oro e arrivavo ai nazionali; ed io che piangevo

per non esserci riuscita. Era come se il destino non avesse ancora

scelto cosa fare di me e del mio futuro. Nei pressi di Lentini,

precisamente alle 8.42 dell‟indomani, mi incominciarono a tremare

le mani e le gambe. Non riuscivo a stare ferma a causa del

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 255 ~

nervosismo e della paura di qualcosa di invisibile. Ma ero

consapevole che questa paura non avrebbe fatto altro che peggiorare

le cose.

Alla fine del riscaldamento andai nello spogliatoio a cambiarmi il

costume e poi andai in vasca e mi sedetti nelle panchine ad aspettare

il mio turno. Costrinsi me stessa a non pensare alla gara, a pensare a

qualsiasi cosa tranne a quella maledetta gara, ma era un po‟ difficile

non pensarci quando ti ritrovi in mezzo a migliaia di ragazzi e

ragazze in costume che piangono o urlano di gioia dopo le loro gare;

mentre accanto a te c‟è un‟enorme cassa acustica dove fuoriesce la

forte voce di uno dei giudici che annuncia le prossime gare; era

difficile soprattutto se davanti a te c‟era il tuo allenatore, con una

cartelletta in una mano, un cronometro dall‟altra e con la sua potente

voce che fa il tifo ad un tuo compagno di squadra. E così pensi a

quando sarà il tuo turno, a quando il giudice chiamerà la tua batteria

dicendo la corsia a cui sei stata assegnata, pensi a quando il tuo

allenatore farà il tifo per te, dandoti consigli mentre gareggi

fregandosene del fatto che non lo sentirai, pensi a quando tutto sarà

finito e uscirai dall‟acqua piangendo di gioia o di dolore per aver

vinto o perso la gara più importante della tua vita. Stavo per

piangere, me lo sentivo. Le lacrime mi bruciavano gli occhi, ma le

costrinsi a stare li, dove sarebbero dovute stare. Ero lì, ad un passo

dal mio obiettivo finale, questa è la mia ultima occasione, se sbaglio

è finita…per sempre. Dovevo scendere almeno 3 secondi per poter

andare alle nazionali e quando capii che erano troppi era già troppo

tardi. Appena mi chiamarono feci un grande respiro e, passando sotto

gli occhi indagatori del pubblico, mi andai a sedere nella sedia

davanti al blocco della corsia numero 5 per fare i 200 metri delfino.

Era il mio momento. Silvia era lì, insieme alla mia mamma, a

sostenermi con la sola forza dello sguardo. Peppe era dietro di me,

insieme a tutta la mia squadra, con le mani congiunte, e il volto teso.

Mentre ero seduta ricordai una cosa e mi sentì male: l‟antidolorifico.

Avevo scordato di prenderlo! L‟unica cosa che feci fu sperare,

sperare che il dolore non si facesse vivo. Non potevo fare altro.

L‟arbitro fischiò due volte, segno che dovevamo avvicinarci ai

blocchi. Accanto a me la mia più grande rivale, Dalia Calabri. Un

altro fischio. Segno che dovevamo salire sul blocco. Ricordai a me

stesa che il 5% della paura che provavo era davvero paura ma il 95 %

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 256 ~

era amore, puro amore per un qualcosa che mi avrebbe cambiato la

vita!

“Apposto…” disse la voce. Un profondo respiro e poi… “Biiii”. E mi

tuffai in quell‟immensa distesa di acqua cristallina che aspettava solo

me. Incominciai a fare le bracciate in automatico, come se fossi

programmata per quello! Finiti i primi 75 metri incominciai a

guardarmi intorno e vidi che il mio sogno si stava avverando:

eravamo io e Dalia. Il resto non esisteva più. Ma poi…successe

qualcosa; qualcosa che non doveva accadere, che non dovevo sentire:

la mia spalla stava cedendo. Non riuscì più a spingere la giusta

quantità di acqua per poter accelerare. Era la mia fine. “Non posso

rinunciare” pensai “è la mia ultima occasione”. Così ripresi ad

accelerare, nemmeno io so come. Dalia era un po‟ più avanti di me

adesso, ma la stavo recuperando, cercando di trascurare quell‟atroce

dolore che sentivo all‟altezza della cuffia della spalla, ignorando le

lacrime che scendevano per quel dolore insopportabile. Eravamo

giunti ai 125 metri e poi successe tutto in un secondo. Un rumore

sordo che sentì nella spalla non mi fece più alzare il braccio destro e

per un momento, si sentì solo il mio urlo riecheggiare nella piscina.

Io ero ferma al centro della vasca, piegata in due che mi tenevo la

spalla mentre due uomini si tuffavano per farmi uscire dalla vasca.

Continuavo ad urlare, era più forte di me. Era come se dei pugnali

stessero attraversando la mia spalla. Quando mi portarono fuori

riuscì a vedere Dalia Calibri arrivare prima e fare il tempo per i

nazionali e poi…buio.

“…perché è svenuta?” Diceva una voce femminile: mia madre.

“E‟ svenuta perché durante la gara ha trascurato il dolore che a mano

a mano aumentava e il corpo non riusciva più a reggere, ma

nonostante tutto lei ha continuato finché la cuffia dei rotatori non si è

lacerata del tutto e il cervello non ha più retto il dolore. L‟abbiamo

operata ma la cuffia è molto debole in quanto è stata trascurata e

quindi se ritorna a nuotare a livello agonistico c‟è la possibilità del

90% che ricapiti e poi non sarà più operabile a meno che non

mettiamo una protesi; ma anche in quel caso non potrà tornare a

nuotare” stava dicendo qualcuno. Dopo che mi arrivarono tutte le

parole capii il senso della frase. Aprii di colpo gli occhi e vidi che mi

trovavo della stanza di un ospedale. I miei genitori si accorsero del

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~ 257 ~

leggero movimento e si girarono. Mia madre stava piangendo e mio

padre era pallido.

“Il…nuoto…” riuscì a dire debolmente. “Mi dispiace tesoro…” disse

mia mamma tra le lacrime.

E poi mi crollò il mondo addosso. Fino a qualche ora prima ero a un

passo dal mio sogno…adesso mi aveva lasciato a piedi.

Uscii dall‟ospedale qualche giorno dopo. La prima cosa che feci fu

andare in piscina. Era vuota e arieggiava uno strano silenzio intorno.

Erano le 21.00. Mi sedetti sul blocco e guardai l‟acqua e, per un

momento, rividi quel momento; quella gara; quel tuffo; quella

bracciata e quel dolore che aveva distrutto la mia ultima occasione

per sognare.

“Aly…” disse Peppe arrivando da dietro e facendomi sobbalzare per

lo spavento “come stai?”

“Come vuoi che stia? Non posso più nuotare. Era tutta la mia vita e

adesso…ho perso tutto”.

“Non hai perso tutto. Si è chiusa solo una piccola porta della tua vita,

vedrai che se ne aprirà un‟altra.”

“Io non voglio che se ne apra un‟altra…io voglio che si riapra

quella” dissi piangendo.

Peppe sapeva quanto stavo male, quanto avevo bisogno di lui

soprattutto in quel momento; così mi abbracciò. Restammo così forse

per ore ma non importava, non c‟era più una scadenza nella mia vita.

Non avevo un tempo limite da superare e soprattutto non avevo un

sogno da realizzare.

Passarono i giorni ed io andavo avanti con la mia vita, anche se non

era del tutto completa. Ma a completarla fu Peppe, quando una

mattina venne in classe.

“Lo so che è presto. È passato meno di un mese dall‟incidente ma io

avevo pensato una cosa. Se dici di no va bene, ti capisco” mi disse

una volta usciti dall‟aula. Sembrava nervoso. Lo guardai accigliata e

lui continuò. “Volevo sapere se ti andava di fare l‟allenatrice dei

piccoli”.

“Sarebbe fantastico” risposi felicissima. Io ormai avevo rinunciato al

mio sogno. Perché non far sognare gli altri? Perché non aiutarli a

realizzare i propri sogni, come aveva fatto Peppe con me? Perché

non provarci almeno? Io avevo perso il mio, ma avrei aiutato gli altri

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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a trovare il loro sogno e a raggiungerlo. Se è una sfida…che ben

venga!

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 259 ~

Stefano Moretto

La mia casa

L'ultima cosa che riusciva a ricordare, prima che il suo casco

infrangesse il parabrezza della macchina, era la maledizione che

aveva invocato contro l'autista, e soprattutto contro il fatto che quella

macchina non era inglese. Se avesse avuto la guida a destra avrebbe

almeno potuto colpire il tizio che, bucando il rosso, aveva messo

sotto lui ed il suo motorino.

Si risvegliò gridando. Per la spinta che si dette per poco non cadde

dal letto, come a quanto pareva era già toccato alle sue lenzuola.

Impiegò quasi un minuto a normalizzare il respiro, mentre il cuore

continuava a battere come impazzito. Dopo qualche minuto riuscì a

realizzare dove si trovasse. Era in camera sua. Una domenica

mattina. I suoi erano già usciti, nessuno era stato svegliato dal suo

urlo.

Fu sollevato nel constatare questo, anche se si rese conto che

quell'incubo aveva rovinato la sua domenica mattina.

Svogliatamente si alzò in piedi e tirò sul letto le coperte che aveva

scalciato durante il sonno. Dopo essersi lavato la faccia ed essersi

svegliato quanto bastava si lasciò andare sul divano, ma non prima di

essersi assicurato di avere il telecomando a portata di mano. Premette

il pulsante per accendere la tv, che con un sonoro "Zap" si illuminò.

Dopo qualche secondo comparve sullo schermo un tizio in giacca e

cravatta, che a quanto pare stava stilando un elenco di notizie. Il Tg

mattutino. In quel momento non gli andava di sapere quante persone

erano morte la sera precedente. Ultimamente era esplosa una specie

di moda, dove la domenica mattina veniva stilato un rapporto di

morti del sabato sera, che andavano dall'incidente automobilistico

fino all'overdose, nei casi più estremi. Stava per cambiare canale,

quando una notizia attrasse la sua attenzione: un ragazzo, di circa la

sua età, era stato investito mentre tornava a casa in motorino.

L'automobilista, dal tasso alcolico decisamente sopra la norma, aveva

bucato il rosso. Il ragazzo aveva sfondato di testa il parabrezza, ma

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grazie al casco integrale nessuna scheggia di vetro aveva danneggiato

la testa. Il fatto era avvenuto a due isolati da lì.

Gli ritornò in mente il sogno che lo aveva fatto svegliare. Ma no, era

ridicolo. Si ricordava perfettamente della strada che aveva fatto. Era

partito dal pub, dove aveva lasciato i suoi amici, aveva preso il

motorino, era passato per quell'incrocio, e poi...

E poi? La sua mente si fece improvvisamente buia. Il non riuscire a

ricordare quello che era successo dopo aver passato l'incrocio lo fece

rabbrividire un attimo, ma in fondo era stanco, ed in quel momento

anche suggestionato.

Sentì le palpebre pesanti, e decise che forse in quel momento un altro

po' di riposo lo avrebbe aiutato a rischiarirsi le idee.

Quando riaprì gli occhi si sentì come immobilizzato. Aveva male

dappertutto, e la luce bianca intorno a lui lo stordiva. Nell'aria

vibrava un rumore forte, troppo forte, gli stava perforando la testa.

Era in una stanza stretta, ci stavano dentro a malapena il lettino sulla

quale era sdraiato e le due persone accanto a lui. La cosa strana era

che la stanza si muoveva, sballottandolo a destra e a manca. Una

delle due persone accanto a lui, in camice bianco, lo stava tenendo

fermo. Gridava qualcosa, cercando di sovrastare il rumore della

sirena. Una costola rotta. Forse aveva bucato un polmone. Dovevano

iniettargli qualcosa, non capì di cosa si trattava. Continuava a sentire

male dappertutto, era stordito ed il non potersi muovere lo stava

facendo entrare nel panico. Agitava furiosamente gli occhi, cercando

di capire dove fosse.

Sono in un'ambulanza?!

Continuò a guardarsi attorno, disperato. Infine si arrese e volse gli

occhi al cielo. Un cielo stellato, pieno di punti lucenti come se tutta

la città si fosse spenta improvvisamente.

Perché riesco a vedere il cielo?

Quando riaprì gli occhi, il tg era appena arrivato allo sport. Aveva

dormito per poco tempo, ed il sogno che aveva fatto si era presentato

di nuovo. Normale, succede spesso che si riprenda un sogno da dove

lo si è lasciato... niente di cui allarmarsi. Si spostò in cucina, dove

trovò sua madre intenta a preparare qualcosa. Un toast, forse.

Non eravate usciti?

Era tornata da poco. Non l'aveva voluto svegliare, e gli stava

preparando la colazione. Strano, non si ricordava di precedenti simili,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 261 ~

ma l'odore era troppo invitante per dire qualcosa contro. Si appoggiò

al mobiletto dietro di lui, giocherellando un po' con gli oggetti

presenti sopra di esso. Una matita, un rotolo di nastro adesivo, un

portachiavi a forma di casco. Sua madre si girò, mostrando il piatto

che aveva in mano. Sopra c'era un toast dal quale proveniva un

intenso odore di formaggio fuso. Il ragazzo fece per avvicinarsi, ma

sua madre era già diretta verso la porta.

Dove vai? Io sono qui!

La donna si girò. Sembrava proprio strana, la vedeva sfumata come

se fosse dietro ad un vetro sporco. Gli diceva di non essere sciocco,

che in quel momento non era lì. Era in ospedale, in coma. Il piatto

era diventato rosso, e si diffuse uno strano odore di ferro. Le lacrime

della donna si mischiarono al sangue che aveva invaso il pavimento.

Davanti a lui c'erano i suoi genitori. Avevano gli occhi lucidi,

avevano pianto. Sentiva di nuovo un dolore lancinante da ogni

estremità del corpo, ed i medici gli consigliarono di rimanere

immobile.

Ho fatto un incubo tremendo...

Intorno a lui si levò una risatina generale, nonostante fossero tutti

molto tristi. I medici stavano togliendo tutti gli strumenti ed i

macchinari dalla sala, ma furono quelli che risero di più. I suoi

genitori invece si limitarono ad una risatina nervosa. Sua madre era

sull'orlo di piangere, e si stringeva a suo padre. Le risate erano

scomparse, forse non erano mai esistite. Un medico si avvicinò a

loro, dicendogli che era ora.

Ora? Ora di cosa? Mi dimettete?

Sua madre si avvicinò a lui, gli carezzò il volto, gli dette un piccolo

bacio sulla fronte, poi abbracciò suo padre, che le sussurrava

qualcosa. Non riusciva a sentire. Un medico staccò i cavi che lo

collegavano al macchinario lì vicino. Si sentì soffocare.

Cosa? Cosa state facendo?

Ci fu un lungo e monotono suono digitale al momento di staccare gli

ultimi fili. Una piccola nenia, interrotta dal pulsante premuto da uno

dei camici bianchi. Gli mancava l'aria, i suoni gli parvero più

distanti, i colori smisero di esistere.

Mamma! Papà! Dove andate?

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 262 ~

Qualcuno alzò il lenzuolo bianco del suo letto, coprendo la testa. Non

riusciva a respirare, i pensieri si affollarono nella sua mente finché il

buio non calò definitivamente. Un ultimo grido.

Non lasciatemi!

“Mi dispiace” disse il dottore. Era abituato a quella frase di

circostanza, ma non si sarebbe mai potuto abituare alle espressioni

distrutte a cui assisteva mentre la diceva. Lasciò soli i due genitori

davanti al corpo del ragazzo, ormai coperto dal lenzuolo bianco.

“Era un bravo ragazzo...”

“Lo so. Adesso è in un posto migliore, è a casa. Un giorno lo

rivedremo.”

I loro passi, lenti, pesanti, si allontanarono dalla sala.

“L'avevo preparato per lui... non mi ero accorta che... non era

tornato...”

Disse debolmente la donna, prendendo un piccolo toast dalla borsa.

L'aveva ricoperto con un po' di pellicola, perché il ragazzo lo potesse

mangiare appena fosse stato sveglio. Passarono accanto al cestino, e

lì gettò via quel piccolo fagotto.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 263 ~

Giuditta Natale

L‟inferno può attendere

Mi prendi una mano.

Il mio cuore esulta, le mie labbra ti implorano di lasciarmi. Non

siamo più quei bambini dispettosi.

Non siamo più i compagni di giochi delle nostre estati, vero?

Continui a non ascoltarmi. Continui a percepire ciò che desidero.

Te la avvicini alla bocca, gustandoti il mio profumo.

La baci. Mi baci. Sento la stessa calda sensazione che provochi alla

mia mano, sulle mie labbra.

James, ti prego, continua.

"James, ti prego, smettila".

Non so chi abbia deciso che in questa nostra storia, quella cauta

debba essere io. Adesso capisci.

Adesso, qualcosa ti riporta alla realtà.

I tuoi occhi grandi e castani dicono addio a questo attimo rubato.

Guardi dritto le mie fessure turchesi. Ho capito.

Partire per la Francia mi sembrava l'unica cura per la mia malattia.

Laggiù eri briciole. Piccoli frammenti di una esistenza fragrante. Un

fastidioso ricordo.

La mia vita procedeva senza rimpianti.

Il desiderio di te mi aveva tramutata in donna, ma altri ne traevano

beneficio. Mantenendo pura la mia anima.

Ero sicura. Il matrimonio di Roxanne doveva essere l'ennesima prova

della mia guarigione.

Dovevo saperlo. A Parigi tendiamo a sopravvalutarci. Sempre.

Tu eri lì. I tuoi ventiquattro anni scolpiti in un fisico da nuotatore.

Capelli bruni spettinati, gli occhi di chi, in fondo, rimarrà sempre un

po' bambino. Riapri il mondo oscuro dal quale ero fuggita.

Sono una delle damigelle. Tu il testimone. Da tabù a clichè. Fa quasi

ridere.

E mi osservi. Per tutto il tempo. Non ti importa del matrimonio del

tuo migliore amico. Non ti importa della vertiginosa scollatura che

porta la Venere nera in abito bianco. Non ti importa se è presente

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 264 ~

tutta la nostra famiglia. Non ti importa se qua ci sono più di trecento

persone. Anche fossero mille, non ti importa.

Mi guardi. Dentro. Indaghi. Cerchi te stesso.

Mi gela la mente. Mi ribolle il sangue.

“Mi sei mancata.”

Tre lettere. Un tempo erano solo due. Più difficili. A noi proibite.

La pioggia incessante di questa Inghilterra richiama ricordi. Profumi

e lacrime.

Ci svelammo la verità quando la pioggia ci costrinse in una rimessa

abbandonata. L'odore di ruggine e terra bagnata. Ti dissi addio in

una giornata come questa. Confondendo le mie lacrime con quelle

del cielo.

Ed oggi, mi sento come allora. In balia di questo destino amaro.

Ti avvicini. Fai una battuta per poter rimanere solo con me.

“Dominique.”

Ci siamo, vero? E' sempre la stessa verità. Verità che è come una

malattia. E noi siamo terminali. Il nostro cuore ha un cancro che

nemmeno il buon senso e la distanza riesce a curare.

Mi parli. Mi sorridi.

Sgretoli con ogni tua parola le mie convinzioni e corazze.

Ancora non capisco da dove provenga questa tua forza.

Forse è solo così. Siamo nati sbagliati. Nata per starti vicino e

soffrire. Per adesso ti basta questo. A me basterebbe per sempre.

Sei qui. Mi chiedi di ballare.

Sembra una cosa così innocente. Vorrei che lo fosse.

Dietro questi cugini impacciati, due amanti desiderosi.

Chi sospetterebbe mai che appena sfioro la tua pelle mi sento morire.

E muoio.

Muore in me quel freno di razionalità che mi ha sempre

contraddistinto.

Quello che ti avrebbe allontanato. Quello che avrebbe detto basta

dopo il primo giro di valzer. E invece continuiamo a danzare. Come

se fosse un addio. Come se non ci fosse fine. A un passo dall'oblio.

L'inferno può attendere.

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Giulia Ortu

Puzzle

Avevo otto anni quando comprai il mio primo puzzle da diecimila

pezzi. Uno di quelli che hanno la stampa del cielo.

Lo comprai in un negozio di antiquariato, dove lavorava una donnina

anziana. Con molte rughe alla base degli occhi. Lo comprai e corsi

subito a casa. Ci misi tre giorni per finirlo e notai qualcosa di strano.

C'erano diverse sfumature di blu su quella stampa, con quattro

nuvole bianche. Al centro c'era una tessera con una diversa sfumatura

di azzurro. Non era il colore giusto. La forma era perfetta la tessera

entrava correttamente. Ma il colore era differente. Il giorno dopo lo

riportai alla signora nel negozio di antiquariato. Lei aprì la scatola e

tolse la tessera di colore diverso. Se la rigirò tra le mani e mi chiese

'' Come ti chiami, bambina?'' ''Mi chiamo Sue, signora.'' Sorrise e

andò a frugare dentro le scatole degli altri puzzle per trovare delle

tessere della stessa forma. ''Non chiamarmi signora. Mi fa sentire

vecchia, chiamami Lolita.'' Aveva l'accento messicano. ''Vedi Sue,

quel puzzle, rappresenta la tua anima.'' ''La mia?'' Chiesi, un pò

perplessa. ''Si tesoro, proprio la tua. Diciamo che tutte le anime

hanno un colore diverso. Con diverse sfumature. Le nuvole

rappresentano le persone a cui tieni, che perderai nel corso della tua

vita.'' Tornò da me con dieci tessere della stessa forma della prima.

Tutte di una sfumatura diversa di blu. ''Vedi queste?'' E mi fece

vedere le diverse tessere che aveva disposto accuratamente sul

tavolo. ''Queste sono i tuoi amori. I ragazzi che amerai nel corso della

tua vita. Ce ne saranno con forme diverse e colori uguali alla tua

anima. Altri invece avranno la forma giusta, ma il colore di una

sfumatura diversa.'' Intanto provava le tessere per vedere se il colore

era quello esatto. ''Il tuo scopo nella vita sarà trovare la tessera giusta.

Della forma giusta. E dello stesso colore della tua anima. Bada bene,

però. Deve avere anche la giusta tonalità di colore.'' E così facendo

mise la tessera giusta al suo posto. ''Ecco fatto.'' E mi sorrise. Mentre

me ne andavo mi girai, con una domanda che mi frullava nella testa.

''Lolita, tu l'hai trovata?'' ''Cosa, tesoro?'' Scrollai le spalle e risposi ''

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la tessera perfetta.'' Sorrise, e delle rughe le si formarono sotto gli

occhi. ''Si, l'ho trovata.'' Soddisfatta di quella risposta me ne tornai a

casa. Rimasi legata a quella donna, e nel corso della mia adolescenza

entrai spesso nel suo negozio. Otto anni dopo, quella piccola donna

morì di cancro. Piansi la sua morte per tre giorni. Il terzo giorno

rifeci il puzzle che avevo comprato otto anni prima in quel negozio.

Quel giorno lo finii in mezz'ora. Girai il puzzle e dietro incollai un

cartoncino, per tenerlo unito. Attaccai un fil di ferro dietro, e lo

appesi in camera. C'erano ancora le nuvole e le diverse sfumature di

blu. Tolsi la tessera di mezzo. Quella che ero andata a cambiare.

Lasciai un buco in mezzo. Presi il pennarello nero indelebile, e sopra

una nuvola scrissi “Lolita”.

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Alessandra Passaretti

Scegli di scegliere

Pioveva una pioggia leggera quel pomeriggio d'Agosto, Anne

camminava senza meta fra le strade intrecciate della città deserta,

continuando a domandarsi cosa fare.

Nelle precedenti settimane aveva viaggiato per tutta l'America alla

ricerca dell'ispirazione, quell'ispirazione che avrebbe dovuto

condurla a decidere che fare del suo futuro.

Ma oltre a conoscenze interessanti, tramonti su Venice Beach e

pomeriggi interi spesi a fare shopping nella Grande Mela non era

riuscita a trovare una risposta.

Una risposta alla domanda pù frequente, quella che non faceva che

ripetersi ormai da più di un anno.

Che voglio fare della mia vita?

Esasperante. Come può mai un adolescente decidere del proprio

futuro con la tranquillità con cui decideva di indossare un abito per

una festa?

Anne era una ragazza abbastanza intelligente d'altronde, era

simpatica a tutti quelli che la incontravano, dicevano che aveva un

certo.. fascino? Era senza dubbio una persona carismatica,

abbastanza stravagante a tratti, certo, ma senza dubbio una persona

magnetica.

Ma tutto ciò non contava molto essendo il 20 agosto e dovendo

decidere del proprio futuro. No non contava affatto.

Girò a destra nella stretta stradina, continuando a seguire il profumo

ignoto che la indirizzava nel suo cammino.

Aveva analizzato più volte le sue possibilità, medicina, economia,

lettere, scienze politiche.. tutto sembrava piuttosto insensato. Niente

le ispirava davvero qualcosa.

Perchè doveva per forza seguire dei corsi? Perchè un foglio di carta

con su scritto che aveva seguito delle lezioni e dato degli esami

avrebbe dovuto renderla più interessante, più intelligente o più

competente rispetto ad una persona che non aveva conseguito degli

studi universitari?

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 268 ~

Il suo sogno era viaggiare, perdersi tra le foreste equatoriali,

camminare fra le piramidi in Egitto e poi godere dell'alba sulla cima

delle rovine Maya in Messico.

Esiste una laurea che ti permette tutto questo?

Nella strada ciottolata iniziava una rapida discesa, ed Anne prudente

si sfilò i sandali in cuoio per non scivolare, li ripose nella piccola

borsetta che aveva a tracolla ed iniziò a correre.

Che bella sensazione.

La pioggia leggera si infittì appena, bagnandole i capelli, che ora

aderivano al suo volto pallido come alghe marine.

Il vento portava con sè il sapore del mare, l'aria salmastra e un pò

dolce le riempiva i polmoni mentre scendeva sempre più

velocemente la strada bagnata, ripida e priva di ostacoli, la strada che

la indirizzava senza scampo verso il suo destino.

Mentre avanzava con il sapore dell'acqua tra le labbra e gli occhi

socchiusi sfiorati dai capelli bagnati intravide la fine della stradina

ciottolata, ed il terreno che la ricopriva prepotente verso una

scogliera nero pece.

Continuava a correre.

E gli scogli si avvicinavano sempre di più.

Anne non aveva paura, forse era un pò incosciente oppure

semplicemente curiosa, fatto sta che non rallentò nemmeno quando i

suoi piedi affondarono nel terriccio bagnato ricoprendosi di terra fino

alle caviglie esili.

Avanzava a fatica ora, perdendo un pò di velocità ma non di grinta.

Atterrò con le mani sugli scogli bagnati, a palmi aperti, come se

fosse una bambina in corsa disperata per "fare tana" in una partita di

nascondino con gli amici.

Respirava affannosamente, con il viso inclinato verso il basso, i

capelli oro bagnati e lucenti tutti intorno.

Sentiva il rumore delle onde infrangersi contro gli scogli più in

basso, e i gabbiani volare in alto, nel cielo grigio gridando per la loro

fame.

Iniziò la scalata verso le stelle, senza paura alcuna di scivolare e

cadere giù, le sue mani aderivano perfettamente alla roccia bagnata e

nera, ed i suoi piedi si muovevano sicuri nelle cavità fatte apposta per

lei.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 269 ~

Raggiunse la cima con pochi ed agili movimenti, quando ormai la

pioggia si era esaurita e il cielo turbinava irrequieto.

Il vento sopra gli scogli era più forte e gli abiti leggeri bagnati dalla

pioggia le aderivano addosso a tratti, staccandosi poi con violenza

come strappati da grandi mani invisibili.

Teneva le braccia e le gambe aperte, come un uomo vitruviano

disegnato su di lei.

Il sapore delle onde che si infrangevano schiumose tutto intorno le

disegnavano la pelle ed il viso con macchie salate.

Anne non sapeva cosa volesse fare da grande, e forse non le

importava davvero.

Era quella sensazione che lei cercava, quella sensazione che nessun

libro mai avrebbe potuto trasmetterle, nessuna lezione, nessuna

ricerca, nessun tomo o antologia.

Anne sentiva il sapore della libertà e della natura nei suoi capelli, fra

le punta delle dita, nelle narici, attraverso i suoi occhi castani beveva

avidamente il mistero della vita.

Piegò leggermente le ginocchia, strinse le braccia al petto come per

abbracciarsi e si lanciò.

Si lanciò nel sapore del mare, nel grido dei gabbiani, nella pioggia

leggera di agosto, perdendosi fra le onde del mare infinito.

Anne Rowens concluse così la sua lettura, l'aula con più di 300

studenti disposti circolarmente intorno a lei assorbiva ancora la

musicalità del suo racconto, attoniti dalle sue parole.

“Questa è la mia vita, e questo è il mio libro, certo ora non posso

invitare tutti voi a lanciarvi da una scogliera per scegliere il vostro

futuro o comprendere quale sia il vostro destino, ma l'unica cosa che

voglio che capiate è che scegliere chi siete e chi vorrete essere sarà la

vostra più grande avventura”.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Antonio Pellicano

L‟obiettivo (im)possibile.

Una vecchia abitazione nel bel mezzo del bosco. Così comincia la

nostra storia, una nuova avventura, speranzosa di avvolgerti e di

trascinarti con sé, in quel mondo costituito da infiniti punti di

domanda. Un‟abitazione rude e scolorita, tenuta malamente, e

circondata da una fitta vegetazione, capace di rendere quel posto

tetro, scarsamente rassicurante, e adatto a fantasticherie di ogni

genere. La gente, ebbene sì, non si premura mai di farsi gli affaracci

suoi, e continua imperterrita a far circolare insistentemente dicerie.

E‟ risaputo, dopotutto, che il mistero attrae un po‟ tutti, incuriosisce e

ammalia, facendoti leggermente rabbrividire, ma è quel brivido che ti

spinge ad affrontare le paure, a scaraventarti oltre l‟oscurità, alla

ricerca dell‟obiettivo. Fatto sta che quella casa era nota a tutti gli

individui che risiedevano nel paese. Non si sapeva, con sicurezza, chi

occupasse l‟interno della celeberrima e tenebrosa dimora, ma da quel

che si mormorava in giro si udivano non di rado strani rumori, il

ticchettio costante ed insistente di qualcosa, che precedeva il classico

suono di passi, in un celere susseguirsi avanti e indietro. Chiacchiere

infondate, però, che non allarmavano eccessivamente la popolazione:

alcuni, infatti, preferivano volontariamente accantonare la questione

e non pensarci più di tanto, ritenendo la notizia una bufala; altri,

invece, nutrivano la seria consapevolezza che qualcuno dimorasse

nella rinomata abitazione, ma nessuno possedeva un animo così

coraggioso da affrontare il rischio, il pericolo imminente. Almeno

finché si presentò agli occhi altrui un uomo sconosciuto, dalla barba

folta, e dagli occhi di un azzurro lancinante, che sottolineavano

maggiormente la sua audacia; la si leggeva chiaramente nelle iridi, in

quello sguardo perforante, che ti trafigge l‟animo e non ti abbandona

più. Ecco, lui si chiamava Maximilian, ma preferiva di gran lunga il

nomignolo “The Killer.” Sì, esatto: colui che va, ammazza, e ritorna,

pienamente soddisfatto e tronfio di aver conseguito l‟obiettivo

prefissatosi. La gente del luogo lo considerava un po‟ fuori di testa,

dal momento che il ragazzo palesava inizialmente una sicurezza

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 271 ~

davvero inaudita, deciso quanto mai a raggiungere la tetra dimora,

per farvi in seguito capitolino, in un ingresso esibizionistico, e per

svelare, in questo modo, a tutti la presenza o no di qualcuno al suo

interno.

Passavano i giorni, trascorrevano inesorabili i minuti e i secondi, e

l‟ansia cresceva sempre più, in un turbinio di emozioni che rendeva

l‟uomo vistosamente impacciato, in preda ad un‟evidente crisi di

panico. In qualche arcano modo, comunque, cercava di dissimulare

lo sgomento purtroppo palese, capace di destare una certa

preoccupazione persino tra gli uomini del paese, anche loro bramosi

di porre fine all‟insolita faccenda che concerneva l‟abitazione e il suo

contorno. Poi, finalmente, arrivò l‟atteso dì: un giorno d‟inverno,

caratterizzato da una temperatura davvero bassa, e dal consueto gelo

che, in un baleno, ti avvinghia, lasciandoti la stranissima sensazione

di essere appena stato prosciugato dai ricordi più belli. Bardato di

tutto punto, Maximilian avanzava con passo cadenzato, con la tipica

espressione seria in volto, gli occhi appena socchiusi, ed un sorrisetto

sornione che, talvolta, faceva capitolino increspandosi sulle labbra.

Alcuni uomini del luogo gli stavano dietro, alle calcagna, almeno

sino ad un breve pezzo di strada, di quel terreno così duro ai piedi,

che quasi quasi riesce a farti arrestare l‟incedere. Ma il ragazzo

procedeva, mostrando un‟apparente tranquillità, e cercando

soprattutto di imprimersi coraggio, quell‟audacia che conosceva

benissimo, e che gli era servita nei momenti avversi. Più procedeva,

più la distanza che lo separava dalla vagheggiata destinazione

diminuiva. Gli abitanti del paese, ormai, non si vedevano né udivano

più. Fermi. Come statue di cera. Con lo sguardo fisso dinanzi a loro,

in attesa dell‟evolversi della situazione. Un frangente ostico, che

vedeva il nostro Maximilian come unico e indiscusso protagonista;

arricciava delicatamente il naso ad ogni passo, le mani lungo i

corrispettivi fianchi, ed i capelli di un castano ramato visibilmente

scarmigliati. E..poi, ecco lì l‟abitazione: arrivato a destinazione.

Davanti a lui, si ergeva la dimora, attorniata da quell‟atmosfera di

mistero, che sancisce solo pericoli. – Ce la posso fare – si ripeteva

Maximilian, prendendo coraggio, ed annuendo meccanicamente alle

sue stesse parole, per valorizzare ancor di più la sua tesi. Non si

udivano, per il momento, rumori nei pressi dell‟abitazione, ma ci

piace sottolineare per il momento.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 272 ~

E il ragazzo, con un sospiro, optava nel procedere verso l‟ingresso

della casupola, cercando quantomeno di produrre il minimo rumore,

per evitare di svegliare qualche fantomatico mostro o creatura. –

Uno, due, tre – ecco, gli ultimi passi prima della verità. La porta

d‟ingresso, improvvisamente, emise un insolito rumore, prima di

spalancarsi. Così, di botto. Come se mossa da un filo incantato,

invisibile ad occhio nudo anche dopo un‟accurata e minuziosa

analisi. L‟espressione del ragazzo non tardò a mutare, a trasformarsi

in una ben più spaurita; il cuore faticava a battere regolarmente, e

Maximilian poteva soltanto deglutire, lasciando semplicemente

spazio al tempo. Chi vivrà, vedrà. Un sano principio, valido anche in

quel frangente indubbiamente ostico. Il baldo giovane, però, si

faceva ugualmente coraggio, riempiendosi i polmoni di sana aria

fresca, prima di insinuarsi all‟interno del nuovo ambiente, accolto da

una luce praticamente assente. Buio tutt‟attorno. E per di più,

s‟iniziava chiaramente ad udire un rumorino nelle vicinanze. “ C‟è

qualcuno, eh?” Alzava volutamente il tono di voce il ragazzo, per

farsi sentire, per far capire a tutti che lui, beh, c‟era riuscito, aveva

raggiunto il suo scopo, era stato l‟unico a mostrare il valore di un

uomo, nonostante i rischi cui andava incontro.

Il sangue continuava a pulsargli nelle vene, forte e chiaro, e come se

non bastasse, l‟emicrania era ritornata, non lasciando tanto spazio ad

eventuali fughe disperate. In difficoltà, quasi si trovasse contro un

muro da scavalcare mano a mano per arrivare dalla parte opposta e

raggiungere il traguardo. – BOOM! – Ad interrompere il breve

intermezzo di tranquillità, un rumore assordante. Maximilian

visibilmente accigliato attendeva, intanto, con le braccia ancora

lungo i corrispettivi fianchi, e le gambe appena divaricate, pronto per

passare all‟attacco, per compiere un eventuale balzo e fiondarsi verso

qualcuno o qualcosa.

“Chi c‟è lì, fatevi avanti!” Un ordine perentorio, senza remore, che

gli faceva spuntare quasi gli occhi fuori dalle orbite, in un tentativo

assurdo di assottigliare maggiormente lo sguardo alla ricerca di una

possibile figura. Ma niente, tutto scuro attorno a lui. Quasi volessero

regalargli un ambiente degno da cimitero. Un segno inequivocabile

del destino, attimi infuocati che accendevano il nervosismo e la

speranza, emozioni disparate celate dall‟espressione allarmata del

giovane. “Mostratevi immediatamente, vigliacchi!” Annunciava,

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 273 ~

evitando di balbettare più del dovuto, con il solito tono di voce che lo

contraddistingueva: afono. Utile, a dire il vero, in certe occasioni, per

allontanare possibili scocciatori, incutendo loro timore. Ma allora la

questione era dissimile, con svariati interrogativi che lo assediavano,

tempestavano la sua povera mente, ma lui non cedeva, no, aveva un

obiettivo da conseguire, un risultato da portare a termine,

un‟occasione per manifestare il suo coraggio, la sua tenacia, la

ricerca spasmodica del traguardo.

E seppure una figura indistinta si avvicinasse lestamente nel buio,

Max non si avvedeva di nulla, privo della cosiddetta vista bionica,

privo delle peculiarità che caratterizzano un supereroe; perché in

fondo era un uomo, un individuo normale, non avvezzo però

all‟atteggiamento consueto di omologarsi alla massa, dal momento

che le persone vere si differenziano sempre e comunque, lasciando

ripetutamente un segno tangibile lungo il percorso. Intanto, la figura

sibilava a pochi passi da lui, e gli faceva segno di non arrendersi,

perché i sogni vanno coltivati, e nonostante l‟oscurità ti avvolge,

bisogna necessariamente proseguire, consci che nulla è perduto,

giacché la risalita è sempre dietro l‟angolo.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 274 ~

Sonia Pratillo

Mio nonno

“Sonia io devo andare a casa di nonna domani mattina. Visto che non

devi andare a scuola vuoi venire con me?” mi dice mamma dalla

cucina.

“Mmmh” le rispondo.

“Cosa?”

“Uh mà, no!!!”

E‟ tutto buio e io corro. Corro cercando qualcosa; se qualcuno mi

chiedesse cosa stessi cercando, non saprei rispondergli; so solo che

devo correre, scappare il più lontano possibile da qualcuno o

qualcosa nascosto nell‟oscurità. All‟improvviso, mentre sto correndo,

mi ritrovo nella casa dei miei nonni. Sono tutti morti da così tanto

tempo che quasi non ricordo la loro fisionomia. Vedo lei, mia nonna,

seduta sulla solita poltrona vicino al camino, sia d‟estate che

d‟inverno, anche se d‟estate il fuoco del camino è spento; e lui, mio

nonno, seduto sulla solita sedia a sdraio di fronte alla televisione. Lo

guardo e lui inizia a parlare della guerra, di quanto e come lui e i suoi

compagni abbiano combattuto, di Mussolini… ed io lo guardo

annoiata perché non mi interessa ciò di cui sta parlando. Annoiata,

come può esserlo solo una bambina piccola che ignora la vita. Lo

guardo, una volta, due, tre…gli vado vicino e piccole lacrime, mentre

lo guardo, iniziano a scorrere lente sul mio viso. Mio nonno che non

ha più i denti in bocca ormai, tranne due o tre, mi guarda e mi

sorride. Mi asciuga le lacrime e voltandosi verso mia madre le dice:

“Pasqualì accendi la luce che Sonia ha paura del buio”. Mia madre

accende la luce e mio nonno mi fa sedere in braccio a lui.

“Vuoi vedere una cosa bella?” mi dice, ed io annuisco.

Mi porta sopra nella stanza che lui chiama dei ricordi, anche se è

semplicemente un ripostiglio e tira fuori da uno degli scaffali uno

scatolone e una scatolina rossa.

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 275 ~

Apre lo scatolone e tra le numerose carte tira fuori la sua vecchia

divisa da bersagliere. Istintivamente allungo le mani e lui me la dà.

La poggio sul mio corpo ma è troppo grande per me.

“Questa non te la posso dare. Tra qualche giorno dei signori se la

verranno a prendere perché non so cosa devono farne…” Io lo

guardo, con la testa completamente alzata perché è altissimo, un

gigante, e con gli occhi spalancati.

“Però questa te la regalo” dice porgendomi la scatolina. L‟apro e tiro

fuori qualcosa, ma non ricordo cosa. So solo che non mi interessa e,

con la sfacciataggine di una bambina di cinque anni, la poso a terra e

me ne vado ancheggiando. O meglio, arrivo fino alla porta e mi volto

a guardare mio nonno. “Questa è tua e te la metto qui. Quando la

vuoi te la vieni a prendere.” Mi sorride e dopo aver richiuso la porta

della stanza si va a risedere sulla sedia a sdraio guardandomi, con

quel suo mezzo sorriso fanciullesco, fare il giro del tavolo tante di

quelle volte da perdere l‟equilibrio.

L‟ultima cosa che mi ricordo del mio sogno è che mentre mamma mi

prende la mano per andarcene, volto solo la testa e apro e chiudo la

mano destra in segno di saluto verso il nonno, il mio nonno, e che

anche lui dopo avermi fatto l‟occhiolino mi imita…

Quando mi sveglio, ho il volto rigato dalle lacrime perché il mio

nonno non c‟è più, perché è morto da tanto tanto tempo e, per quanto

desiderassi sognarlo, in sette anni lui non si è mai affacciato sui miei

sogni.

Ora, dopo sette anni, l‟ho sognato. Ora, quando avevo perso la

speranza.

Si dice che quando sogni un morto significa che qualcosa deve

succedere, o che questo ti vuole dire qualcosa. Forse vuole

semplicemente che io vada a trovarlo al cimitero.

Grazie alla mia fortuna, la macchina di mamma stamattina non parte.

Devo scegliere: andare con lei o lasciarle la mia adorata 500 nuova di

zecca…ok, l‟accompagno!

Partiamo alle 9:30. Alle 10:30 ho un appuntamento con una mia

amica ed ho già avvertito mamma che per quell‟ora ce ne andremo.

Povera mamma, o accettava o accettava perché la sua unica

alternativa era tornare a piedi.

Arriviamo a Sant‟ Andrea del Pizzone e quando scatta la serratura e

la porta si apre ciò che i miei occhi vedono è completamente diverso

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~ 276 ~

da ciò che avevano memorizzato tempo addietro. È vero che la casa è

disabitata da un bel po‟ di tempo, ma non avrei mai pensato che

versasse in un tale stato di abbandono.

Il tempo di crearci un varco senza toccare niente e di aprire la porta

che dà sulle scale, che arrivano tutti i miei zii. Tutti insieme saliamo

al piano superiore e mio zio apre “la stanza dei ricordi”.

È proprio come nel mio sogno eppure non ricordo di esserci mai

entrata prima. Mentre mamma e i miei zii rovistano tra gli scatoloni

in cerca di non so che cosa, io mi guardo intorno e tra gli scatoloni

non individuo lo scatolone… e neppure la scatolina. Scendo giù e

aiuto mia zia a portare la scaletta al piano di sopra per poter arrivare

ai ripiani più alti.

Resto fuori sul balcone ad aspettare che tutto finisca. Sono le 10:20 e

mamma ancora non si è decisa ad andarsene. In più la mia compagna

mi sta tempestando di squilli.

Rientro nella stanza, con l‟intento di chiamare mamma e mi ricordo

di quanto mi fossi pentita, quando studiavo la seconda guerra

mondiale, di non aver mai prestato ascolto alle parole di mio nonno.

Rientro giusto in tempo per vedere mia zia lanciare una scatolina

rosso sbiadito a mio zio.

“È mia!!!” urlo.

Nessuno mi ascolta e mio zio posa la scatolina su un tavolino vicino.

Mi avvicino, la prendo ed esco fuori. La apro ed è come se avessi già

vissuto questo momento. La apro talmente lentamente che neanch‟io

so come riesco a contenere l‟eccitazione per averla trovata,

finalmente.

Quando apro il coperchio mi salgono le lacrime agli occhi: contiene

tantissime lettere legate l‟un l‟altra da un filo rosso e soprattutto un

foglietto con su scritto a caratteri cubitali: “Cosa pensi? Non è che

non ci sono proprio più. Sono qui, non mi vedi? E ti voglio sempre

bene. Il tuo noioso nonno”

Apro le lettere e man mano leggo la storia di un soldato italiano e di

una giovane donna innamorati, mio nonno e mia nonna, che si

sposarono nel 1942, quando la guerra era appena iniziata, ma che

poterono dar luce al frutto del loro amore, mio zio, solo nel 1946.

C‟erano fotografie di ragazzi che a sedici, diciassette anni già

imbracciavano il fucile e che non erano, non potevano essere

spensierati come i ragazzi di oggi. Combattevano con l‟unico scopo

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di proteggere la loro terra, la loro famiglia, e pregavano con il cuore

affinché la guerra finisse.

Mio nonno non c‟è più, è volato in cielo tra gli angeli.

Non l‟ho neanche più sognato…l‟ultima volta che l‟ho visto avevo

11 anni.

È stata la prima persona la cui morte mi ha sconvolto; la prima

persona che nonostante gli anni che passano mi manca sempre di più;

quella a cui penso quando muore qualcuno a me caro; la principale o

forse l‟unica che mi abbia fatto capire il senso di una frase, detta

tante di quelle volte da essere sminuita: “Solo quando un persona non

c‟è più, ti accorgi di quanto fosse importante”.

Al cimitero ci sono andata. Ho sorriso alla sua fotografia ed ho

attaccato con lo scotch vicino al marmo la mia risposta:

Cosa penso? Penso che sei proprio il Mio nonno. Si, lo so che sei qui con me, ti sento anche se quando sto male, quando tu non mi dici che mi devo mettere nel letto; quando rido, piango o mi arrabbio, tu non ci sei a rimproverarmi con lo sguardo. Sento la mancanza dei tuoi occhi, perché nessuno nella nostra famiglia li ha belli come i tuoi; nessuno rimprovera mamma perché non mi fa mangiare.. che poi guardandomi mi dice: “Sei così magra.” Perché tu sei così diverso da me…eppure mi hai sempre difeso a spada tratta. Mi manchi nonno perché non ti posso più dire: “Ti voglio bene.”

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Teresa Lara Pugliese

Panico

I Cani Arrabbiati stanno in cucina col loro astio amaro. Ringhiano

passandosi lo zucchero, sciacquando i piatti, buttandosi sul divano.

Sono tre. Ognuno: una testa, un orgoglio, la convinzione di tenere la

verità sotto la lingua.

Parlano senza dirsi nulla, comunicano come bestie diverse.

Sono ciechi. Non si accorgono della malinconia che ci si è adagiata

addosso. Siamo diventati cinerei; il restante di una combustione

lenta: muscoli, occhiaie e frustrazione.

Vorrei correre. Stancare le gambe e buttarmi ansimante a terra;

assaporare l‟illusione sudata che tutto sia finito. Così scappo. Ma

piano, con le pantofole ai piedi; non sto vivendo un film.

Salgo le scale di marmo: uno, due, tre, quattro, cinque, sei… Tredici.

Secondo piano. Entro in bagno. Qui almeno non mi troverò le

vecchie bambole davanti agli occhi, le foto di posa sorridenti, i libri

impolverati, il letto disfatto. Meglio un gabinetto, credetemi, un

ambiente tre per tre per sbollire, per vedere ciò che non posso

elaborare; dove è difficile parlare alla porcellana vecchia all‟acqua

fredda agli asciugamani usati.

Chiudo la porta a chiave anche se è inutile. Tanto nessuno verrà a

bussare, a chiedermi “che ci fai là dentro? Tutto bene?”

Le loro voci continuano a ronzarmi nelle orecchie, come api.

Perderanno mai il pungiglione?

Mi osservo allo specchio. Le lacrime scendono sporche finendomi in

bocca; sono nere perché miste a mascara.

Spingo le labbra verso i denti: gli incisivi le accarezzano come

coltelli.

Chi ha deciso che dovevo vivere tutto questo?

Il respiro inizia a diventare affannoso. Apro la bocca e anso. La mia

voce potrebbe far intendere a un immaginario spione un piacere in

appagamento.

Ma io sono sola. Maledettamente. Sola con la mia paura che vorrei

urlare (e non posso). Disarmata al mio corpo stesso che si accascia

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~ 279 ~

sul pavimento. Poggio la guancia sulla piastrella quadrata: l‟armonia

(geometrica) che non raggiungerò.

E che importa dei capelli stirati appena ieri? Che si ungano pure

dello schifo a terra del pianto macchiato del fard sciolto.

È un mostro che sta venendo fuori. M‟infiamma il petto, m‟arrossa la

faccia. Aiuto sussurro.

Stringo i pugni, avvicino le spalle. Striscio fino al water, unico

appiglio per non sprofondare, e lo afferro alla base. Non mi fa effetto

la macchia giallastra lì vicino.

Vorrei morire. Mi sento. Morire.

Qualche minuto. Poi mi calmo. Allora i brividi salgono dalle gambe

mordendo le cosce, il torace, il collo. Succede sempre così.

Tiro giù l‟accappatoio e lo uso come fosse una coperta, un abbraccio

di spugna.

Le loro voci non le distinguo più, ne sento solo il rumore. I tre Cani non si sono accorti neanche che li ho lasciati giù: mio fratello, mio

padre, mia madre. Per avere una crisi di panico.

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Martina Saviano

Il profumo di una nostra Dublino

Tutt'ora mi appare incredibile che mi abbia chiamato. Che abbia

comprato quel biglietto e che ora io sia all'aeroporto ad aspettarla.

Spesso lanciamo segnali nascosti anche a noi stessi o, forse, solo a

noi stessi, frasi buttate li per caso “vienimi a trovare quando vuoi”,

”ti aspetto un giorno..”, ”Ti porterò a bere una guinness al pub sotto

casa mia..” E poi quando l'altra persona li coglie e li realizza ci si

sente spiazzati, storditi e confusi. Non so come sentirmi, sono

confuso, non mi dispiace che lei stia venendo qui, non mi dispiace

affatto eppure questa cosa mi scombussola. Ho i miei piani, ho

l'università, ho una casa che pago ogni mese fior di quattrini perchè

ho deciso di vivere solo ed ora un'altra persona sta piombando nel

mio appartamento, nel mio nascondiglio. Ed è tutta colpa mia.

Io poi sono un ragazzo introverso, solitario e soprattutto poco

loquace mentre lei è una bomba ad orologeria. Oddio, sulla mia casa

si sta abbattendo un uragano.

Insomma la gente dovrebbe saper riconoscere gli inviti falsi da quelli

sinceri...Dio, sono un'ipocrita!

Sono un grandissimo ipocrita! E‟ un anno che le ripeto di venire ed

in realtà l'ho detto solo per cortesia, solo perchè è “giusto” farlo?

Mi vergogno di me stesso! Non pensavo di essere quel tipo di

persona.. Ma quanto tempo ci mette questo aereo? Non mi fa bene

pensare, mi fa capire che persona sono e ciò non va affatto bene...

Non è nemmeno arrivata e già mi ha sconvolto la vita, perfetto,

prevedo dei giorni molto interessanti..

D'altronde però potrebbe essere un'esperienza piacevole, potrebbe

dimostrarsi una persona tanto calma e posata da non apportare

cambiamenti molto radicali alla mia vita..

“Ciao! Finalmente!”

Fa cadere la sua valigia enorme, mi salta addosso e mi da per sbaglio

un dolorosissimo calcio nello stinco. Siamo spalmati per terra, al

centro dell'aeroporto, la gente ci guarda con aria riluttante. Perfetto,

mi rimangio tutto.

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Lei ride, si alza ed aiuta me ad alzarmi.

“Su, alzati non vorremmo passare tutta la giornata qui!”

“Certo che no” rispondo sarcasticamente.

Recupero il valigione e ci dirigiamo verso l'uscita.

“Come è andato il viaggio?”

“Benissimo, sono riuscita ad accaparrarmi il posto vicino al

finestrino, ho dovuto litigare con una bambina ma alla fine ho vinto

io!”

“Cosa?”

“Ho litigato con una bambina odiosa, voleva per forza il posto

finestrino!”

Oddio, ma chi mi sto portando in casa!

“Comunque che facciamo ora?”

“Prima di tutto ti porto a casa, posi le valigie, ti lavi, fai tutto quello

che vuoi e poi andiamo a mangiare”.

Facciamo il biglietto e saliamo sul bus che ci porta a O'Connell

Street. Le lascio di spontanea volontà il posto finestrino altrimenti ho

paura che mi morda.

“Sai i consigli che mi desti due anni fa prima di trasferirmi qui mi

sono stati davvero utili. Sono perfino riuscito ad accettare che non ci

siano né miscelatore né bidet”.

Faccio una piccola risata ma lei non mi sta ascoltando. Ha lo sguardo

fisso sulla città che scorre velocemente. E' rapita da ciò che si trova

al di là del finestrino. In questo momento è bellissima, in questo

momento guardando quegli occhi sognanti e speranzosi mi rendo

conto che ho fatto la cosa giusta, che tutto questo ha un senso.

“Ehi, mi senti?”

Scuote la testa e mi guarda con aria quasi spaventata.

“Si certo, scusami ero sovrappensiero...Dimmi”.

“Nulla, non volevo disturbarti, dicevo solo che i tuoi consigli mi

sono stati d'aiuto”.

“Mi fa molto piacere. Io amo questa città ed è bellissimo essere qui

di nuovo, grazie”.

“Non devi ringraziarmi, è bello averti qui”

Il Bus si ferma. E' incredibile che siano passati già quaranta minuti.

“Su andiamo ci aspetta una bella passeggiata!”

“Come sono sciocca non ti ho nemmeno chiesto dove abiti!”

“Abito a Liffey Street”

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

~ 282 ~

“Bene andiamo!”

Solitamente per arrivare a casa impiego dieci minuti ma questa volta

è impossibile andare veloci, lei si ferma in ogni angolo e inizia a

raccontare aneddoti interminabili su cosa abbia fatto qui, su cosa

abbia detto li e via dicendo.

E' estenuante eppure vederla così felice mi fa stare bene. So di non

averne il diritto, non sono io la causa della sua felicità, io sono

solamente lo strumento che le ha permesso di essere felice eppure per

mezzo secondo voglio concedermi l'illusione di essere io il motivo

per cui i suoi occhi profondi brillano tanto...

Saltella da un lato all'altro della strada come una bambina

impaziente, emette stridolini assurdi, non guarda nemmeno dove

va...Io sono a pochi passi da lei la osservo in silenzio e sento il

profumo di un futuro del tutto diverso da quello che immaginavo

quando sono arrivato qui...

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~ Le Storie e le Poesie di Io Racconto ~

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Andrea Scopelliti

L‟audizione

Il giorno dell‟audizione pioveva a dirotto. Una pioggia tanto fitta,

densa e costante, che sembrava dovesse durare all‟infinito. Le strade

erano deserte e lungo il viale alberato che portava a quel grande

edificio in stile Liberty in cui si trovava la sede del conservatorio,

regnava il silenzio più assoluto. Il ticchettio delle gocce d‟acqua che

cadevano incessantemente si sentiva appena e accompagnava il passo

sommesso di Carlo che avanzava nella nebbia. Indossava l‟abito

nuovo che sua madre gli aveva regalato pochi giorni prima per

l‟occasione e sopra portava una lunga giacca color fumo di Londra,

appartenuta per decenni a suo padre che sosteneva sempre che

giacche come quelle dei suoi tempi non ne avrebbero più fatte. Era

da mesi, forse da anni che Carlo aspettava quel giorno e si era

promesso innumerevoli volte che quando sarebbe arrivato non lo

avrebbe scordato mai più. Avrebbe voluto che il tempo si potesse

dilatare e che lo spazio si potesse modellare perché quel giorno

sarebbe dovuto rimanere inciso nella sua memoria per sempre, come

un qualcosa di assolutamente perfetto. Più volte gli era stato chiesto

di cosa avesse paura, che cosa temesse più di ogni altra cosa, Carlo

però fino ad allora aveva risposto di non essere mai stato un pavido e

che non c‟era nulla di cui avesse realmente paura. Sapeva bene però

che se qualcuno gli avesse rivolto la stessa domanda quella mattina

di Marzo, il giorno dell‟audizione, la sua risposta sarebbe stata ben

diversa: l‟idea di poter dimenticare anche solo un singolo istante di

ciò che stava vivendo in quel momento lo terrorizzava; era l‟oblio

che temeva, il nulla dopo di lui. Quella terribile sensazione di vuoto

lo stava accompagnando da quando, pochi attimi prima, aveva

varcato la porta di casa e per quanto cercasse di distogliere la mente

da quel tetro pensiero non riusciva a concentrarsi su nient‟altro,

nemmeno sulla sua tanto amata musica, che lo aveva accompagnato

fin dalla più tenera età e che ora gli avrebbe potuto dare un‟immensa

soddisfazione, se solo l‟audizione fosse andata bene. Vedeva nella

sua mente un groviglio informe di note, accordi e pentagrammi, tutti

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~ 284 ~

che sprofondavano nell‟oblio dopo essere stati avvolti dal caos.

Sapeva che avrebbe dovuto liberarsi la testa da quelle inutili e fatali

congetture il prima possibile perché non sarebbe riuscito a suonare

con la mente tanto appesantita eppure più cercava di pensare ad altro,

più aveva paura, paura di vivere troppo intensamente, paura di come

si sarebbe giudicato alla fine, paura delle fatali aspettative da parte di

tutti, anche da parte di se stesso. La sua carriera, il senso stesso della

sua vita, i sacrifici di vent‟anni, si racchiudevano tutti in

quell‟occasione, non doveva né poteva fallire. La pioggia poi lo

appesantiva ancora di più e prolungava quella terribile agonia di cui

lui era l‟artefice e il protagonista. Il tempo che impiegò a percorrere

quel lungo viale gli parve interminabile e quando fu davanti al

portone di quel palazzo che da anni ormai era diventato la sua

seconda casa, esitò un attimo prima di spingere la porta che si

richiuse alle sue spalle con un cigolio sinistro. L‟atrio del palazzo era

buio e deserto, la fioca luce prodotta da un candelabro appeso al

soffitto era decisamente insufficiente per illuminare quel grande

spazio e Carlo pensò che fosse un vero peccato non dare abbastanza

risalto ad un ambiente tanto fastoso e regale. Le ombre tremolanti

che si stagliavano contro le pareti avevano un che di spettrale e

misterioso e per un attimo Carlo fu percorso da un brivido di terrore

che lo scosse talmente da fargli quasi perdere l‟equilibrio; non

appena si riprese fu pervaso da un‟ansia e da un‟inquietudine che gli

offuscavano la vista e pensò che avrebbe fatto meglio ad uscire un

attimo a prendere un po‟ d‟aria ma ormai era dentro e l‟ora

dell‟audizione era inspiegabilmente vicina, così decise di farsi

coraggio e di continuare. Attraversò l‟atrio quasi di corsa come se

avesse voluto lasciarsi alle spalle le terribili sensazioni di un attimo

prima e raggiunse la grande scala di marmo bianco che portava al

piano di sopra. Ogni gradino era un passo in più verso quel tanto

temuto oblio che lo assillava da quando era sceso in strada e ormai

non era più nemmeno sicuro di voler andare fino in fondo a

quell‟esperienza sconvolgente. Quando arrivò in cima alla scala si

accorse che gli mancava il respiro e che stava sudando sebbene

l‟ambiente fosse gelido; non riusciva a ricordare nemmeno i titoli dei

brani che aveva studiato nei sei mesi precedenti e che aveva scelto di

proporre alla giuria. Davanti a lui si apriva un ambiente del tutto

identico al grande atrio del piano sottostante e sulla destra vide un

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tenue fascio di luce proveniente da una porta semiaperta dove lo

attendeva quel giudizio fatale che aspettava da tempo. Con passo

debole ed esitante raggiunse la porta da dove proveniva quella luce,

la spinse leggermente con la mano ed entrò nella sala dell‟audizione.

La stanza era illuminata da sei giganteschi candelabri e Carlo fu

talmente abbagliato da quella luce a cui i suoi occhi non erano

abituati che per un attimo ebbe la vista offuscata. Quando riuscì ad

aprire nuovamente gli occhi si rese conto che a parte un grande

pianoforte a coda con un panchetto davanti, la stanza era

completamente vuota. Della giuria non c‟era la minima traccia e anzi

sembrava che quegli ambienti fossero abbandonati da anni. Carlo

pensò di trovarsi in un sogno, pensò che tutto quello fosse solo frutto

della sua immaginazione, ma più cercava di ridestarsi, più si rendeva

conto che tutto ciò che lo circondava era assolutamente reale. Fu in

quel momento che si sentì come attirato al centro del grande salone,

percepiva una forza misteriosa che lo spingeva verso il pianoforte e

non ebbe la forza di opporsi. Mentre attraversava la grande stanza a

lunghe falcate si accorse della presenza di una grande pendola sulla

parete che segnava le dodici. Si ricordò che quello era l‟orario

dell‟audizione, si sedette al pianoforte, chiuse gli occhi e cominciò a

suonare. Quella che uscì dalle corde del piano fu una musica

celestiale, una melodia che avrebbe trasmesso a chiunque

un‟emozione inenarrabile, era qualcosa di assolutamente divino,

qualcosa che Carlo non aveva mai suonato prima di allora. I dodici

rintocchi della pendola furono completamente assorbiti da quel

suono divino che risvegliò il palazzo. La musica entrava nelle stanze

buie e fatiscenti per l‟incuria ridandogli nuova vita, si insinuava negli

anfratti delle porte e delle finestre, dirompeva travolgente lungo le

scale di marmo trascinandosi con sé una forza impressionante: la

forza dello stupore e della meraviglia che un tempo avevano

contraddistinto la storica sede del conservatorio. Nessuno sa dire di

preciso per quanto tempo Carlo, il pianista, rimase in quella stanza

avvolto dalla sua musica, alcuni dicono che sia morto per l‟emozione

troppo forte che provò ascoltando quelle note, altri affermano che

dopo giorni e giorni che era al pianoforte si sia semplicemente

stancato e sia tornato a casa, altri ancora sostengono che sia diventato

parte stessa dell‟edificio e che sia ancora lì, dopo tanti anni, a

suonare quella musica, la sua musica. La leggenda narra che ogni

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anno verso la fine di Marzo dalle finestre di quel palazzo si alzi una

musica leggera e soave che solo in pochi riescono a sentire e che

quella musica non sia nient‟altro che l‟anima di Carlo, il pianista, che

attraverso i tasti del piano ha trovato il modo per sfuggire all‟oblio,

per non essere dimenticato, ha trovato insomma quella tanto ambita

pace e felicità che per anni aveva cercato.

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Irene Stacchiotti

Il braccialetto rosso del destino Settimana della moda di Milano. Sfilo disinvolta, elegante e leggiadra lungo la passerella. L‟abito ambrato è reso ancora più bello dal leggero contrasto con la pelle olivastra. Le luci donano riflessi dorati alla stoffa. Lo stretto corsetto mi fascia la schiena e quasi mi toglie il respiro. Il vestito si apre poi in una splendida gonna di tulle che mi arriva al ginocchio. Indosso un bracciale di perle rossastre. Mi sento bella, bellissima come una dea… Già immagino lo stuolo di fotografi, giornalisti e fans pronti ad accerchiarmi. Ok, forse sto un tantino esagerando, ma questo è il bello dei sogni.

La realtà è un po‟ diversa: non sono una modella ma una

quindicenne, non bellissima, non un genio e con una bassa

considerazione di me stessa. Sono molto fantasiosa, adoro leggere e

non mi annoio mai. Il mio hobby preferito? Curiosare nell‟armadio

della mamma e provare tutti i vestiti, scarpe e accessori che

stuzzicano il mio interesse fingendo di essere quello che non sono.

Ho creato il caos in poco più di venti minuti (magliette buttate sul

letto, scarpe sparse a terra, rossetti aperti…). Ho cinque minuti per

mettere tutto a posto prima che torni la mamma.

“Sofy, sono a casa!” Entra in camera e io sfodero un sorriso

innocente. “Ciao mamma!”. “Tesoro, che stai facendo?” Mi domanda

corrugando la fronte. “Niente, sto solo mettendo in ordine” “forse

questa volta la scampo!”. “Davvero? Che pensiero gentile! Per la

cronaca, i vestiti dovrebbero essere riposti nell‟armadio e non usati

come tappeti! Quella sotto il letto non è la mia gonna?”. “Come non

detto” “Quale? Non me ne ero neanche accorta… ooh come è tardi!

Dimenticavo che ho una cosa importante da fare, questione di vita o

di morte”. “Certo, scappa prima che mi incavoli! Ahh, Sofy? Hai

visto quel bracciale rosso che ti piace tanto?”. “No mamma, è da un

po‟ che non lo vedo”, rispondo cercando di sembrare convincente e

nascondendo il braccio dietro la schiena.

Prima ora di scuola e sto ancora dormendo. Oggi è una di quelle

giornate durante le quali i professori interrogano gli ultimi a non

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avere un voto ma fortunatamente non sono tra quelli. Si prospetta

una mattinata tranquilla, almeno per me. Mi cade l‟occhio sul

braccialetto, è così bello che non sono riuscita a toglierlo. Non so

cosa fare, forse potrei assistere all‟interrogazione e prestare

attenzione… meglio di no: l‟espressione del professore mi spaventa,

è quella di un sadico che prova un‟innaturale piacere a torturare

quella sua povera vittima tremante. Decido quindi che la cosa

migliore sia mettermi a spettegolare.

E‟ l‟intervallo. Mi accorgo dei brontolii provenienti dal mio stomaco

e penso di mettere a tacere quelle sonore e imbarazzanti proteste con

una pizza. Prendo i soldi ed uscendo inciampo sulla borsa all‟ultimo

banco. Già immagino la figuraccia: mi vedo sdraiata sulla pancia in

mezzo al corridoio e circondata da persone piegate in due dal ridere.

Di certo non mi sarei mai aspettata di trovare due braccia a

sorreggermi, ma soprattutto non mi sarei mai aspettata che

appartenessero al ragazzo di cui sono perdutamente innamorata da

tempi immemorabili e al quale non ho mai avuto il coraggio di

rivolgere una singola parola. Nel giro di un millesimo di secondo

divento talmente rossa in viso da essere scambiata per un pomodoro.

Non so se questo incontro-scontro sia stata una fortuna o un‟enorme

sfortuna che mi fa apparire ai suoi occhi grandi e azzurri, una goffa

ragazza impacciata e distratta.

“Stai bene, Sofia?” “Si tutto bene, grazie per… emmh… l‟aiuto”.

“Figurati!”. Faccio per staccarmi da lui, a malincuore, si intende.

Non ci riesco perché il braccialetto è rimasto impigliato alla sua

felpa. Strattono il braccio e ci ritroviamo sotto una cascata di perle

rossastre. Non siamo soli in quel corridoio ma per me è come se lo

fossimo e qualcosa in cuor mio mi dice che per lui è lo stesso. Si

china a raccogliere tutte le perle ad una ad una, poi comincia a

sistemare il bracciale. Guardandomi mi sussurra: “Non possiamo

mica lasciarlo così, questo è il bracciale rosso del destino”. “Perché il

bracciale del destino?” Gli domando. “Perché prima che mi cadessi

tra le braccia non avevo mai avuto il coraggio di parlarti”. Incredibile

come quell‟unica frase pronunciata dalle sua labbra abbia il potere di

spedirmi, con un biglietto di sola andata, a sfiorare le stelle. Mi

prende la mano e mi mette il bracciale. Mi alzo sulle punte, fino a

guardarlo dritto negli occhi e gli dico soltanto: “Grazie”. Nei miei

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pensieri aggiungo “perchè esisti non soltanto nelle mie fantasie ma

anche nella realtà”.

Settimana della moda di Milano. Sfilo e mi sento bella. Sotto le luci

abbaglianti mi rendo conto che non mi stanno aspettando fotografi,

giornalisti o fans ma il mio fidanzato, il ragazzo che ho sempre

amato. No, non è un sogno, è molto meglio.

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Arianna Testa

Come le margherite a Primavera

L‟antico paese era lì da molte, moltissime primavere, ma quell‟anno

la primavera fu speciale. Al mattino Margherita si risvegliò con il

picchiettio dei passeri che danzavano sul balcone, ricolmo di fiori

bagnati dalla brezza del mattino. Quando la ragazza mise la testa

fuori, si sentì come se avesse ricevuto una nuova anima: quell‟aria

pulita, fresca e fine le entrò dentro, rinnovando ogni parte di se

stessa. Di fretta si vestì e corse dal panettiere, che alle dieci in punto

caricava il pane fresco e profumato nel furgoncino e lo distribuiva

nelle frazioni del paese situate in periferia. Tutta affannata,

Margherita arrivò al forno… ma fu una corsa inutile, perché

furgoncino, panettiere e odorose pagnotte di pane erano già andati

via. La ragazza si ricompose, mise al suo posto il ciuffo che le

cadeva penzoloni sul viso ed entrò. Accontentatasi dei panini, si

affrettò verso casa, preoccupata per la reazione della madre, che quel

giorno non avrebbe avuto pane fresco a tavola.

Durante il tragitto, immersa nei suoi tristi pensieri, sussultò al suono

del clacson di un‟automobile. Emozionata si voltò e… no, non era

possibile, era lui, Marco! Il ragazzo col quale era cresciuta e di cui si

era scoperta improvvisamente innamorata… Il giovane accostò e,

con la sua aria un po‟ timida e sognante, che faceva sciogliere

Margherita, le chiese di poterla riaccompagnare a casa. La ragazza,

più impacciata di lui, in quel momento pensò a un milione di

complicazioni: se Marco fosse a conoscenza del suo interesse nei

suoi confronti, se avesse dovuto invitarlo a bere un caffè, cosa

avrebbe potuto dirgli, se era o no in ordine… Alla fine diede un

taglio a tutto quel tramestio mentale e, con un sorriso che più

smagliante non si poteva, rispose: “molto volentieri!”

In un lampo arrivarono a casa e, presa dalle chiacchiere, Margherita

non si accorse di essere di fronte al cancello. Quando se ne rese

conto, fu presa dal panico e, senza sapere neanche lei cosa stesse

facendo, invitò il ragazzo a scendere per un caffè, pentendosene

quasi subito perché, una volta entrati, avrebbe dovuto tenere a bada

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la madre, che aveva il vizio di parlare troppo. Marco, ovviamente,

accettò con entusiasmo l‟invito e inserì la prima marcia per poter

entrare nel vialetto d‟ingresso. Le ruote dell‟auto non avevano

neanche completato il primo giro che la madre di Margherita era già

fuori dal portone a scrutare attentamente chi fosse alla guida, accanto

alla sua preziosa figliola. Quando capì che era proprio quel preciso

ragazzo, fece salti di gioia e quasi si gettò sull‟automobile. Invitò

calorosamente entrambi ad entrare, fece in modo che sedessero vicini

e preparò lei stessa il caffè.

Per tutto il tempo non tolse mai gli occhi di dosso al povero Marco,

che sottopose a un serrato interrogatorio, lanciando nel contempo

sguardi d‟intesa, neanche troppo velati, a Margherita. La ragazza era

imbarazzatissima: aveva accanto il ragazzo che tanto l‟affascinava,

non solo per l‟aspetto fisico, ma piuttosto per il suo carattere dolce,

sensibile e solare insieme, e dunque spiava ansiosa il suo

atteggiamento, nella speranza di scorgervi i segni di un‟identica

attrazione; l‟altra cosa che la tormentava, poi, era quel che poteva

esserci nella testa di sua madre, la quale sicuramente già aveva

scritto il loro futuro insieme.

Erano ormai le undici e Marco decise che era ora di andare. Si

alzarono tutti, anche la signora madre, ma un‟occhiata molto

eloquente di Margherita la rimise nuovamente a sedere. Fu, dunque,

lei sola ad accompagnare il ragazzo dei suoi sogni: sulla soglia lo

guardò come se fosse la cosa più bella al mondo, ma lui non lasciò

trasparire alcuna emozione; allora Margherita, per darsi un contegno,

simulò una certa freddezza nel salutarlo, ma inaspettatamente lui si

avvicinò pericolosamente al suo viso e le parlò con intensa dolcezza,

dicendole di non essere mai stato lì e indicando il fiume che

s‟intravedeva nel fitto bosco poco lontano. La ragazza gli rispose che

sarebbero potuti andare insieme e lui immediatamente la interruppe:

“domani, a quest‟ora!”

Margherita era incredula, sognante, vibrante e nel voltarsi per

chiudere il portone c‟era già la madre che le chiedeva cosa fosse

successo, ma la ragazza con passo lieve e vaporoso la ignorò e si

ritirò nella sua stanza. Non dormì, non mangiò e freneticamente

attese le undici dell‟indomani. In netto anticipo arrivò lui davanti al

cancello e Margherita si precipitò ad aprirlo: questa volta si sentiva

molto più spigliata, perché la madre non c‟era e si ripeteva che lui

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era lì, per lei… Marco scese dall‟auto e gli occhi di entrambi si

allacciarono gli uni agli altri così saldamente che il saluto formulato

a mezz‟aria si dissolse come vapore. Passo passo, si avviarono per la

stradina che portava al fiume. Quello fu un percorso memorabile:

risero, parlarono e si scambiarono battutine punzecchianti.

Arrivarono finalmente al fiume: l‟acqua gelida emanava freschezza e

scorreva lenta, il verde tenero dei pioppi faceva ombra nel clima un

po‟ incerto della primavera e le margherite occhieggiavano tra l‟erba.

Marco si tolse la felpa e si sedette, facendo cenno a Margherita di

raggiungerlo. Parlarono ancora a lungo, poi silenzio. L‟uno guardò

l‟altra, le mani si cercarono da sé e lentamente i loro volti si

avvicinarono, unendosi nel bacio tanto desiderato.

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Lucia Torricella

I bambini che non sognano

Tempo fa i bambini non esistevano, o meglio eravamo noi a non

notarli, perchè si confondevano con la gente comune.

Forse vi chiedete come sia possibile che un bambino alto quasi un

metro e venti, si possa confondere con la gente che ogni giorno

percorre le strade di grandi e piccole città trafficate.

Eppure era così...

In questa realtà che sembra davvero essere molto lontana dalla

nostra, i bambini possedevano tutti i diritti che avrebbero dovuto

avere:Libertà, Libertà di Pensiero e di Parola, Privacy, Gioco,

Affetto, Cibo, Rispetto, Istruzione, Educazione, Informazione,

Salute...

In poche parole questi bambini avevano il Diritto alla Vita.

Venivano ascoltati dai grandi e quando sbagliavano venivano corretti

e ricevevano la spiegazione calma e pacata dell'errore, traendone

insegnamento concreto.

L'unica cosa che non veniva corretta era il loro modo di pensare, in

quanto i grandi di quel tempo avevano compreso che il pensiero

dell'uomo non va condizionato con la forza o con altri strumenti

perchè ognuno ha un proprio modo di pensare e di recepire ciò che lo

circonda.

Qualcuno potrebbe dire che questa era una cosa cattiva, che ragazzi

giovanissimi riflettono con la mente di un infante e che la loro parola

non dovrebbe essere presa in considerazione.

Così si fa l'errore madornale di non ascoltarli.

Un errore grande che la popolazione di quel passato remoto non fece;

essa ripose infatti una maggiore fiducia nelle loro capacità favorendo

l'istruzione.

I ragazzi studiavano ed erano felici di vivere perché non si sentivano

mai soli in quanto avevano dei genitori che, fieri dei propri figli, non

gli facevano mai mancare affetto e amore.

Erano tempi belli.

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I progressi si vedevano ed erano tutti positivi: per esempio, a sette

anni un bambino sapeva già articolare un discorso sul futuro disastro

ambientale con un ragazzo di sedici. Nelle città si vedevano bambini

seduti sugli scalini della scuola intenti a ripassare la lezione del

giorno con il libro in mano; e le mamme insegnavano ai bambini ad

accettare le caramelle dagli sconosciuti senza aver paura che i piccoli

venissero rapiti al mercato nero degli organi; infatti, questi ragazzi,

diventati prodigio crescendo, avevano trovato la cura a moltissime

malattie; la gente era diventata meno egoista e più aperta: le bambine

vivevano felici ed intraprendenti, portavano i capelli lunghi, senza

che qualcuno o qualcosa le obbligasse a coprirli, e quando nasceva

una bambina nessuno era triste, anzi si faceva festa tutti i giorni con

parenti e amici cari.

Poi, non si sa come, questo mondo scomparve, ed i diritti dei

bambini furono calpestati.

Ora ci sono Paesi vuoti, Paesi dove le risa dei bimbi che giocano

nelle strade cede il posto al tuono delle bombe; e in questi Paesi le

scuole sono vuote e le fabbriche sono piene; ci sono ragazzi che

espongono la testa al sole ogni giorno per portare nelle loro case un

po' d'acqua e la stessa acqua che a noi ci da la vita, con essa la

maggioranza di loro trova la morte.

Ci sono bambini che a sette anni imbracciano un fucile più grande di

loro e che hanno paura della loro stessa ombra quando si riflette,

facendo strani disegni sulla sabbia rovente.

Ci sono ragazzi soli nelle loro case, che non dormono nel loro letto,

che non vogliono parlare e quelli che un giorno li vedi uscire e

quando tornano a casa non sono più loro; giovani che a casa non

sono mai tornati.

Esistono bambine con il capo coperto, che non le senti mai parlare e

spesso ti chiedi se esse siano mute. Ragazze che non hanno mai

scelto il loro destino: era già tutto scritto e deciso prima che fossero

nate. Altre ancora che non hanno mai visto al luce e non hanno mai

scoperto che cosa significasse la parola “vivere”.

Eppure i ragazzi sono uguali a quelli che abitavano il mondo in

passato.

Ma allora perchè i bambini bagnano il loro letto, perchè hanno paura

di uscire, perchè non riescono a trovare la strada per tornare a casa,

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per quale motivo, io mi chiedo, questi bambini che non sono, hanno

smesso di sognare il giorno in cui hanno aperto gli occhi?

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Giulia Vecchioni

Disperazione e Coraggio.

“Forza ragazzi, è pronta la cena!”

Gabriella aprì il forno per estrarre il suo bel pollo arrosto, annusò il

dolce odorino e la bocca fu invasa da un‟acquolina insolita. Lei non

aveva mai fame, era una donna che teneva al suo fisico perciò

l‟aveva abituato a dei regimi alimentari molto rigidi e sani.

-Mi avete sentito?! Ancora davanti alla televisione? Io prima o poi

brucerò quel maledetto oggetto! Giovanni prendi il piccolo. Mio Dio,

mi trovo con quattro uomini dentro casa. Come farò? Povera me!

Marco, amore mio, tu sei il padre dei tuoi figli, chiamali ti prego, che

a me non danno retta!

Era la prima volta che ci pensava, era vero: viveva con quattro

uomini, lei era l‟unica donna. Neanche una femmina era riuscita a

partorire, nessuna piccola donna. Solo maschiacci, i suoi maschiacci.

Per fortuna che quella sera a tavola c‟erano solo Giovanni il

secondogenito che aveva tredici anni, Giacomo l‟ultimo arrivato di

un anno e suo marito, Marco. Il primogenito Davide era fuori con gli

amici, aveva appena compiuto diciotto anni ed era la sua prima uscita

ufficiale notturna con l‟auto. Le aveva promesso di non bere, e lui

era un ragazzo su cui si poteva contare.

“Via le mani Giò. Servo io”.

“Fai come ti dice, se no tua madre ti mangia”

A quel punto Gabriella rise, anzi rise come una matta, adorava

quando il suo maritino faceva il sarcastico.

“Mamma, ma come ti sei vestita? Anche a cena sei così elegante?!”

Si guardò: aveva una camicia bianca messa sotto ad una gonna nera,

calze nere con delle alte scarpe nere lucide che le facevano apparire

le gambe ancora più lunghe.

“Hai ragione, meglio che mi vada a cambiare! Marco, servi tu! A

proposito sai quando torna Davide?”

“Lo so io, mamma. Ha detto che tra una mezzoretta è qua”.

“Bene. Ritorno subito, voi intanto incominciate”.

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Prima di lasciare la stanza, fece una carezza accompagnata ad una

smorfia al suo piccolino seduto sul seggiolone.

Uscì dalla cucina, attraversò la grande sala e percorse le scale di

legno pregiato che portavano al piano di sopra, dove c‟erano le

camere da letto: stanza matrimoniale, stanza di Davide, stanza di

Giovanni e quella del piccolino Giacomo. Ognuna aveva un bagno

personale, e in più quella dei coniugi aveva un stanza-armadio

grandissima dedicato a Gabriella, grande amante della moda. Si tolse

la altissime scarpe e i suoi piedi la ringraziarono per questo gesto, si

sfilò le calze e la camicia. Si infilò un maglione di cashmere grigio

con un paio di jeans, in più ciabatte e calzini per i suoi piedi.

“Finalmente mamma, già mi sono mangiato una coscia!” Comunicò

ufficialmente Giovanni con uno sguardo allo stesso tempo serio e

divertito.

I tre maschiacci ridevano felici (anche il piccolo) e ben presto anche

Gabriella cascò nei loro buffi discorsi e incominciò a intonare risa

felici.

“Ha suonato il campanello della porta, Marco vai tu, per piacere?”

Lo disse con un pizzico di ansia. Chi poteva essere a quell‟ora? Per

Davide era ancora presto, lui stava in giro fino all‟ultimo minuto. E

non aspettavano altre visite. Si alzò e andò con il marito alla porta.

Nel tragitto si ripeteva tra di sé che era una stupida a pensare a cose

tragiche, era una serata tranquilla, passata in famiglia. Niente poteva

rovinarla.

“Salve Signori. Siamo della polizia” sorrise con complicità” temo

che sarà davvero difficile dirvelo- ora era imbarazzato e rivolse al

Gabriella uno sguardo colmo di tristezza” vostro figlio, Davide”, si

interruppe “ha avuto un incidente. E.. non ce l‟ha fatta”.

Il coraggioso poliziotto che aveva avuto il coraggio di dare la notizia

aveva tentennato, ma ora, spiegando l‟incidente, parlava

obiettivamente e con lucidità.

“E‟ stata colpa di una macchina, il conducente era ubriaco e gli è

letteralmente venuto contro frontalmente. E‟ morto sul colpo. Non ha

sentito niente”.

La mente di Gabriella si offuscò. Non capiva più niente. Ma di una

cosa era sicura: suo figlio stava bene. Corse in sala, prese il cellulare.

Urlò all‟agente: “Lei si sbaglia, mio figlio è vivo. Guardi adesso lo

chiamo. Davide, Davide”.

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Inutile dire che nessuno rispose.

La donna era impazzita e continuava a urlare, grida disperate, grida

di dolore, come se le avessero appena strappato il cuore. Un dolore

talmente forte stava provando, indescrivibile. Si accasciava a terra,

piangeva. Suo maritò si buttò su di lei con le lacrime agli occhi.

“Zitta, sta‟ zitta. Per l‟amor del cielo!”

Singhiozzava. Stettero lì, sul pavimento, abbracciati per quasi

mezz‟ora.

Intanto Giovanni aveva ascoltato tutto e fissava senza espressione il

pavimento. Anche il piccolo era ammutolito. Il poliziotto se ne era

andato, lasciando vicino alla porta un numero a cui chiamare per

ulteriori informazioni.

Nessuno si muoveva. Silenzio.

Ad un tratto un grido ruppe la quiete. Gabriella si alzò di scatto, si

aggirò per la casa,occhi da matta, labbra tese, e cominciò a

farneticare.

Giovanni pianse.

“Mamma non fare così ti prego. Mi fai paura”.

Lei continuava imperterrita mentre Marco, riprendendosi dallo choc

iniziale aveva appena chiamato il dottore.

Ora Gabriella faceva davvero paura, persino al marito. Era diventata

matta. Oramai il marito aspettava solo che quel maledetto

campanello suonasse.

Suonò. Grazie al cielo. Fece accomodare il dottore che studiò la

situazione dopo una breve descrizione dettagliata del coniuge. Era

sotto choc. Le diede dei sedativi. Dopo due minuti dormiva sul

divano. Il dottore salutò e porse le sue condoglianze.

Ora Marco doveva fronteggiare tutto da solo. La prima cosa da fare

era pensare. Pensare un poco. Era successo tutto così in fretta: un

attimo fa stavano mangiando felici e l‟attimo dopo avevano perso un

figlio e un fratello. Davide, il suo Davide. Ormai Marco sapeva di

aver appena perso una parte di se stesso. Una parte molto importante.

Ma cosa valeva piangerci su? Ormai era successo e ora Davide

avrebbe preferito che lui agisse con molta calma e lucidità. Ma

soprattutto che non avesse dimenticato i suoi altri figli. Si girò verso

di loro. Erano spaventati, e colmi di tristezza. Gli rivolse un sorriso,

ma poi si rese conto che quel sorriso era bagnato di lacrime.

Giovanni si avvicinò con timidezza, allora Marco lo prese e lo

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abbracciò. Un abbraccio profondo e colmo di amore. In quell‟istante

Giacomo pianse, ma quando si ritrovò al calduccio sotto le braccia di

papà, ritrovò la serenità. Restarono per un‟ora in quella posizione.

Abbracciati, piangendo.

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Nora Venditti

Flashback

L'acqua scorreva impetuosamente lenta quel sabato pomeriggio e

senza che Abbie se ne rendesse conto si ritrovò a ripensare alla sua

nascita.

Sua madre le raccontava sempre di come piovesse quel giorno e di

quel sentimento così potente e profondo che l'aveva immersa mentre

sentiva quel piccolo corpicino uscire da lei, dopo 9 mesi. Capirai,

diceva sempre, solo quando avrai un figlio.

Suo padre non aveva assistito a quel cocktail di sentimenti perchè si

trovava dall'altra parte del mondo a combattere sul fronte. "Per la

patria", ripetevano tutti.

Ebbe il grande onore di conoscerlo il suo quinto compleanno.

Ricordava quel giorno come fosse ieri. Circondata da amici e parenti

aveva espresso il suo desiderio e le candeline non avevano fatto in

tempo a spegnersi che un uomo in uniforme aveva varcato la soglia

del giardino in festa.

Non somigliava di certo alla foto che la mamma le aveva fatto

vedere. I capelli castani erano decisamente più lunghi, la barba

incolta, gli occhi penetranti trasmettevano un misto di dolore e

impazienza.

Il primo anno passato insieme a suo padre fu strano. Si svegliava nel

cuore della notte urlando, era spesso di cattivo umore e non faceva

altro che fumare davanti alla TV. Poi un pomeriggio, rientrando da

scuola, sentì sua madre gridargli contro con tanta violenza e rabbia

che sperò di non farla mai arrabbiare.

Ma da quel giorno non vide più suo padre fumare incurante del

mondo. Anzi, diventò il padre che ogni amica invidiava.

Furono giorni molto felici per Abbie e l'ingenua illusione che tutto

quello potesse durare oltre l'infinito si spense qualche giorno prima

del suo tredicesimo compleanno.

Seduta in cucina tentava di fare i compiti, ma l'eccitazione per il

Natale in arrivo era troppa. Non sarebbe durata. Sentì un colpo, poi

un urlo e una macchina. Vide suo padre correre verso la porta e tentò

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di raggiungerlo ma fu spinta via dalla sua mano in modo brutalmente

protettivo.

Il resto è solo confusione. Tutto ciò che conosceva andò in pezzi con

la morte di sua madre. Il suo mondo diventò reale e freddo.

E adesso, mentre era lì distesa, quasi sorrise ripensando a quanto suo

padre cercò di non farle mancare nulla, di amarla il doppio, di

proteggerla il doppio, di essere il doppio. Anche quando si innamorò

di Garret. Aveva all'incirca diciassette anni e quello fu il suo primo

vero amore. La timidezza con lui non esisteva, e il dolce sapore dei

suoi baci scioglieva i dubbi. Fare l'amore con lui era così travolgente,

così passionale, così potente.

Ora, un anno dopo, sapeva che non avrebbe mai più rivisto Garret e

nemmeno suo padre. Sapeva che quel flashback significava soltanto

la parola Fine.

Eppure aveva impresso così a fondo i fermo-immagine della sua vita

da poter rivivere tutto all'infinito.

Gli occhi iniziavano a bruciare e capì che mancava qualche secondo.

Si costrinse ad aprirli e vide una folla cosparsa di pioggia.

"Spero che abbiano vissuti i bei momenti della vita", pensò. Un treno

stava arrivando. Toccava a lei salirci. Sorridente, vide sua madre. Era

arrivata.

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Ringraziamenti

ll Premio Nazionale Io Racconto è giunto alla sua terza edizione, compiendo

grandi passi da quando, nel 2008, ha preso il via con l‟invito, rivolto ai lettori di

Firenze Trova, di contribuire con piccoli racconti ai contenuti del giornale. Tutto

questo non sarebbe stato possibile senza lo sforzo congiunto del personale di

Assopiù Editore e dell‟Associazione Culturale Musa, entrambi di Firenze, degli

sponsor che hanno creduto in noi e nel nostro progetto, come Euronics, Siae,

Carapelli, OPE. Grazie a Regione Toscana, Provincia di Firenze, Comune di

Firenze che ci concedono il loro patrocinio. Voglio anche ringraziare gli amici e

partners che svolgono con passione il loro lavoro, ci arricchiscono con la loro

amicizia e collaborano con noi al buon esito del Premio: grazie quindi a Romano

Editore di Firenze, a Racconti di Città, alla Compagnia delle Seggiole, FIAF,per

l‟aiuto concreto, la disponibilità, lo spirito di gruppo. Grazie anche a Claudio

Gherardini e Martina Manescalchi che hanno seguito i numerosissimi amici del

gruppo di Facebook dal quale ha avuto origine la Giuria dei Lettori. Questa

giuria e la giuria di esperti, si sono accollate un notevole lavoro di screening e

giudizio: a loro tutta la mia stima e la mia profonda riconoscenza. Un sentito

ringraziamento anche al Dr. Giancarlo Passarella che cura i nostri rapporti con la

stampa e ci segue fino dall‟inizio.

Tutto questo è tanto ma sarebbe niente se gli autori non avessero creduto in noi e

nel nostro progetto. Grazie, dunque, ai 1.300 iscritti a questa terza edizione: grazie

per esservi messi in gioco e averci resi partecipi delle vostre opere, interessanti,

commoventi, divertenti, istruttive. Grazie ai partecipanti junior delle varie sezioni:

narrativa, poesia, fotografia, testi di canzoni. A loro l‟augurio di continuare nel loro

percorso artistico cogliendo sempre maggiori successi, con i complimenti della

redazione per il buon livello dei loro elaborati.

Un grandissimo grazie a tutti i tecnici che hanno reso possibile lo svolgimento del

Premio, primo fra tutti Roberto Gasparri e, per la stampa dei libri, Valerio

Marucelli, Furio Raggiaschi, Marco Nuti. Un grazie di cuore a Rachele Ignesti, per

il suo preziosissimo lavoro di editing.

Concludo con le scuse verso coloro che involontariamente non ho nominato: hanno

comunque tutta la mia riconoscenza.

Donatella Bellucci

Coordinatrice