Le storie di successo per la comunicazione interna ed ... · I case studies rappresentano un metodo...
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LIBERA UNIVERSITÀ DI LINGUE E COMUNICAZIONE IULM
FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE E DELLO
SPETTACOLO
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN CONSUMI, DISTRIBUZ IONE
COMMERCIALE E COMUNICAZIONE D’IMPRESA
Le storie di successo per la
comunicazione interna ed esterna:
il caso Aton
Docente che ha assegnato l’argomento:
Chiar.ma Prof.ssa ALESSANDRA MAZZEI
Prova finale di:
Francesco De Bortoli
Matricola 300775
ANNO ACCADEMICO 2005/2006
2
INDICE
INDICE 2
SINTESI 6
1. IL KNOWLEDGE MANAGEMENT: UN NUOVO MODO DI CONCEPIRE L’ORGANIZZAZIONE 9
1.1 LA CONOSCENZA: UNA RISORSA PER L’ORGANIZZAZIONE 9 1.1.1 IL KNOWLEDGE MANAGEMENT SECONDO DIVERSE PROSPETTIVE 13 1.1.2 LE TEORIE ALLA BASE DEL KNOWLEDGE MANAGEMENT 17
1.2 STRATEGIE DI KNOWLEDGE MANAGEMENT 19 1.2.1 LA CONOSCENZA TACITA 19 1.2.2 L’ESPLICITAZIONE DELLA CONOSCENZA 21 1.2.3 L’APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO 24
1.3 LE FORME ORGANIZZATIVE CHE AGEVOLANO IL KNOWLED GE MANAGEMENT 25
1.3.1 LE ORGANIZZAZIONI KNOWLEDGE-INTENSIVE 27 1.3.2 LE PRATICHE DI KNOWLEDGE MANAGEMENT 29
1.3 IL RUOLO DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA 30
1.4 LA MEMORIA ORGANIZZATIVA 32 1.4.1 TIPOLOGIE DI MEMORIA ORGANIZZATIVA 37 1.4.2 I CONTRIBUTI DELLA MEMORIA ORGANIZZATIVA 38
2. LE LEARNING HISTORIES, UNO STRUMENTO PER DIFFOND ERE LA CONOSCENZA NELL’ORGANIZZAZIONE 40
2.1 L’APPROCCIO ESPERIENZIALE ALL’APPRENDIMENTO 40 2.1.1 LO STORYTELLING 41 2.1.2 I VANTAGGI DELLE LEARNING HISTORIES 43
2.2 SVILUPPARE LA MEMORIA ORGANIZZATIVA ATTRAVERSO LE LEARNING HISTORIES 44
2.3 LA LEARNING HISTORIES PER L’APPRENDIMENTO ORGAN IZZATIVO 46
2.4 LE FASI DI COSTRUZIONE DI UNA LEARNING HISTORY 49
2.5 UN NUOVO GENERE NELLA LETTERATURA DI BUSINESS 5 1
3. ATON, UNA ORGANIZZAZIONE KNOWLEDGE-INTENSIVE 53
3
3.1 LA STORIA DI ATON: LE TAPPE DELL’INNOVAZIONE 53
3.2 L’OFFERTA ATON 55 3.3.1 I SERVIZI DI BASE 56 3.3.2 ALTRI SERVIZI 61
3.3 L’ORGANIZZAZIONE AZIENDALE 64
3.4 MISSION, VALORI GUIDA, VISION E POLITICA PER LA QUALITA’ 66 3.4.1 MISSION 66 3.4.2 IL METODO VALORE: APPLICAZIONE IN UNA MEDIA AZIENDA 67 3.4.3 LA CARTA DEI VALORI DI ATON 73 3.4.4 VISION 76 3.4.5 POLITICA PER LA QUALITA’ 77
3.5 LA COMUNITA’ ATON E IL CLIMA AZIENDALE 79
3.6 LA COMUNICAZIONE 82 3.6.1 LA SCELTA DELLA COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA 82 3.6.2 LA COMUNICAZIONE INTERNA 86 3.6.3 LA COMUNICAZIONE ESTERNA 88 3.6.4 L’ASCOLTO ORGANIZZATO 96
4. LE STORIE AZIENDALI DI SUCCESSO 101
4.1 IL PROCESSO DI RICERCA E IL METODO DEI CASI 101
4.2 I CASE STUDIES, UNO STRUMENTO DI RICERCA QUALIT ATIVA 108 4.2.1 L’USO DEL METODO DEI CASI IN ALCUNE RICERCHE PIONIERISTICHE 109 4.2.2 IL PROCESSO DI REALIZZAZIONE DI UNO STUDIO DI CASO 111 4.2.3 L’IMPIEGO DEI RISULTATI DI UN CASO AZIENDALE 117 4.2.4 LE CARATTERISTICHE DEI METODI DI RICERCA QUALITATIVI E LA QUALITA’ DELLA RICERCA 119
4.3 I CASE STUDIES IN ATON: IL RACCONTO DELLE STORI E DI SUCCESSO 121
4.4 IL PROCESSO DI COSTRUZIONE DEI CASI 123
4.5 I CASE STUDY PER LA COMUNICAZIONE INTERNA: SUPP ORTO AL KNOWLEDGE MANAGEMENT E APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO 128
4.6 GLI STRUMENTI PER DIFFONDERE I CASE STUDIES ALL ’INTERNO 132
4.7 I CASE STUDIES PER LA COMUNICAZIONE ESTERNA: PR OMOTION E ADVERTISING 133
4.8 GLI UTILIZZI DEI CASE STUDIES PER LA COMUNICAZI ONE ESTERNA 137
5. CONCLUSIONI 142
FONTI 150
4
Alla mia famiglia
Un primo grande ringraziamento lo voglio dedicare alla
professoressa Alessandra Mazzei, che mi ha seguito ed aiutato non solo
nella elaborazione di questa tesi, ma in tutto il percorso accademico nei
miei cinque anni allo Iulm. Grazie per aver contribuito alla mia formazione
con insegnamenti che mi saranno utili nella vita, e non solo in quella
professionale.
Un grande ringraziamento anche alla Aton S.p.A. di Treviso, in particolare
il Presidente Giorgio De Nardi e il Marketing Manager Domenico
Marchetti, che mi hanno dato l’opportunità di svolgere una straordinaria
esperienza di stage e hanno contribuito alla costruzione di questo lavoro.
Grazie anche alle ragazze del Reparto Marketing, Anna, Denisa e Martina,
che mi hanno costantemente aiutato nella mia permanenza in Aton e con
cui ho stretto un forte legame d’amicizia.
Un ringraziamento speciale alla mia famiglia, che mi ha sempre aiutato e
sostenuto, e che ha reso tutto ciò possibile. Questo lavoro è dedicato a
voi.
Un grande grazie anche a tutti gli amici, in particolare Riccardo e Paolo,
che mi sono sempre stati vicini nel momento del bisogno, e a tutte le
persone che mi hanno aiutato e sostenuto.
Grazie.
5
6
SINTESI
I case studies rappresentano un metodo di ricerca qualitativa
utilizzato per raccontare le esperienze aziendali. Si tratta di uno strumento
di ricerca descrittiva, che gli studiosi e i ricercatori utilizzano per formulare
una teoria. Ma è uno strumento estremamente flessibile che consente di
essere adattato ad ogni situazione, e per il raggiungimento di molteplici
obiettivi.
I casi aziendali sono uno strumento a disposizione del Knowledge
Management, la gestione della conoscenza all’interno di una
organizzazione. Rappresentano infatti una metodologia di raccolta di dati,
informazioni, esperienze, opinioni, scoperte ed innovazioni che sono
fondamentali per accrescere il valore dei prodotti e servizi offerti, e che, in
particolar modo in una organizzazione ad alto livello di specializzazione,
possono rappresentare il vero vantaggio competitivo.
La metodologia dello studio di caso viene applicata nelle imprese per
ricostruire e condividere delle learning histories e delle storie di successo,
che rappresentano due strumenti di apprendimento esperienziale.
Il primo capitolo di questa tesi propone una panoramica teorica sul
Knowledge Management (KM). Vengono approfonditi temi come
7
l’importanza della risorsa conoscenza, tacita ed esplicita, le varie
prospettive e le strategie di KM, la necessità di trasferire la conoscenza
creata ed accumulata a tutti i membri dell’organizzazione attraverso
l’apprendimento organizzativo, i ruoli della cultura organizzativa e della
memoria d’impresa.
Nel secondo capitolo viene presentato un primo strumento di
raccolta e diffusione di conoscenza e competenze all’interno di una
organizzazione e di supporto all’apprendimento organizzativo: le learning
histories. Si tratta di una metodologia di socializzazione della conoscenza
e di creazione di un documento che racconta, attraverso la pratica dello
storytelling, un particolare evento, storia, esperienza aziendale. Uno
strumento particolare e differente dagli altri perché costruito
congiuntamente da ricercatori esterni e membri interni: è l’organizzazione
che racconta a se stessa la propria storia, con le parole di chi ha vissuto
tali esperienze, storie ed eventi, con l’aiuto e la supervisione di ricercatori
esperti. Uno strumento progettato per essere utilizzato principalmente per
la formazione interna e l’apprendimento.
Il terzo capitolo presenta l’azienda utilizzata come caso di studio in
questa tesi: la Aton di Treviso, leader in Italia nel campo del Mobile
Computing, che opera nel business to business (B2b) proponendosi
come partner globale in grado di fornire consulenza e servizi software ad
alto valore aggiunto in tutte le fasi di automazione della supply chain
(produzione, logistica, distribuzione). Un’organizzazione knowledge-
intensive che opera per progetti, che si rivolge alle imprese, e non al
mass market, e deve di conseguenza sviluppare una comunicazione in
grado di sostenere la reputazione, asset fondamentale per la creazione di
vantaggio competitivo. Un’azienda da sempre orientata alla formazione di
una forte cultura organizzativa, dove l’informalità e lo scambio continuo
sono gli strumenti per la circolazione e il trasferimento da una parte
all’altra dell’impresa, e nelle varie sedi, di informazioni, nuova
conoscenza, scoperte ed innovazioni. Aton ha trovato nelle storie di
8
successo la giusta metodologia per raccontare ciò che accade, cosa si fa
e dove si sta andando.
Il quarto capitolo rappresenta il cuore di questa tesi: l’analisi delle
storie di successo come strumento non soltanto di ricerca qualitativa, di
KM e di formazione ed apprendimento, ma come vero e proprio
strumento di comunicazione. L’obiettivo di questo lavoro è di dimostrare
come la metodologia delle storie di successo non sia esclusivamente un
metodo di raccolta di dati, informazioni ed esperienze, ma rappresenti
uno strumento dalla enorme efficacia comunicativa sia all’interno
dell’azienda, sia all’esterno. All’interno per sedimentare la cultura e la
memoria organizzativa, per gestire la conoscenza, trasferire competenze,
innovazioni e nuova conoscenza generata nell’organizzazione.
All’esterno per sostenere la brand image, awareness e soprattutto la
reputazione: non parlando in prima persona, ma facendo esprimere ai
propri clienti i vantaggi apportati dalle soluzioni Aton.
9
1. IL KNOWLEDGE MANAGEMENT: UN
NUOVO MODO DI CONCEPIRE
L’ORGANIZZAZIONE
In questo primo capitolo viene descritto il quadro teorico in cui si
inserisce questa tesi: la risorsa conoscenza e la sua gestione nelle
organizzazioni, l’apprendimento organizzativo e la memoria organizzativa
per creare valore. Lo scopo è quello di introdurre le modalità per una più
efficace diffusione della conoscenza, tema che verrà affrontato in seguito
in particolare attraverso lo strumento delle learning histories.
1.1 LA CONOSCENZA: UNA RISORSA PER
L’ORGANIZZAZIONE
La conoscenza è un mix di esperienze, valori, informazioni
contestuali e insight che forniscono un struttura semplificata per valutare e
incorporare nuove esperienze e informazioni. Viene originata e applicata
dalle menti delle persone, e nelle organizzazioni si deposita non solo in
documenti ma anche nelle routine, processi, pratiche e norme (Davenport,
Prusak, 1998).
Secondo Nonaka e Takeuchi (1995) la conoscenza è creata dal flusso di
informazioni, è legata alle credenze e ai vincoli cognitivi di chi la detiene
ed è direttamente connessa all’azione umana.
Davenport e Prusak (ibidem) sottolineano il bisogno di distinguere tra i
concetti di dato, informazione e conoscenza.
I dati sono il risultato, mancante del significato, di qualsiasi operazione. È
la forma in cui le informazioni e la conoscenza vengono immagazzinate e
trasferite. Sono un set di fatti obiettivi e discreti riguardo gli eventi, dei
10
record strutturati di transazioni. Quantitativamente l’organizzazione valuta
la gestione dei dati in termini di costi, velocità (di trasferimento,
immagazzinamento, ritrovamento e gestione) e capacità; in termini
qualitativi si misurano tempestività e validità nel tempo, rilevanza e
chiarezza.
I dati diventano informazioni attraverso l’interpretazione, la
contestualizzazione e la strutturazione. Le informazioni dunque sono dati
dotati di una struttura e una organizzazione. Sempre secondo i due autori
l’informazione è un dato a cui è stato aggiunto un significato, un valore, un
dato “that make a difference”(1998:3)
La conoscenza, invece, è il prodotto complesso e strutturato
dell’apprendimento, formato dall’interpretazione di informazioni e credenze
su relazioni causa-effetto, e dall’utilizzo delle informazioni. Nella
produzione di conoscenza attraverso l’interpretazione delle informazioni
intervengono e influiscono le caratteristiche cognitive degli attori (Profili,
2004).
Secondo Nonaka e Takeuchi (1995) infatti, quello che distingue la
conoscenza dall’informazione è proprio il suo essere collegata all’azione
umana e al contesto in cui si sviluppa: anche Davenport e Prusak (1998)
sottolineano l’aspetto pragmatico della conoscenza nella loro definizione
di “working knowledge”.
I due autori aggiungono che la conoscenza si sviluppa nel tempo
attraverso l’esperienza, che include ciò che viene appreso attraverso libri,
corsi, mentori e apprendimento informale. L’esperienza si riferisce a ciò
che è stato fatto e a ciò che c’è accaduto nel passato: uno dei suoi
principali benefici è che fornisce una prospettiva storica che aiuta a
diagnosticare e comprendere nuovi eventi e situazioni.
Questo evidenzia la natura intrinsecamente dinamica e relazionale della
conoscenza, profondamente diversa da quella statica e atomistica
dell’informazione. Quest’ultima è statica perché composta da dati
riguardanti gli stati del mondo e da questi derivanti. La conoscenza invece
11
è dinamica perché continua ad avere valore solo se viene continuamente
rigenerata ed accresciuta attraverso processi di apprendimento (Rullani,
1994).
A livello organizzativo la conoscenza è formata da tutto quell’insieme di
competenze individuali e di prassi organizzative attraverso i quali le
relazioni tra individui, gruppi e componenti di un network sono strutturati e
coordinati (Zander e Kogut, 1995). Nelson e Winter (1982, in Profili 2004)
riprendono il concetto di routine, che costituisce la memoria delle
organizzazioni perché racchiude la conoscenza organizzativa e conserva
una rappresentazione del percorso storico dell’impresa. Le routine si
rafforzano continuamente accumulando conoscenza grazie alle ripetute
applicazioni, diventando risposte meccaniche ai problemi di gestione
operativa e strategica.
Secondo Cavalli (2000) la conoscenza è:
• la consapevolezza, la coscienza assimilata nel tempo e nello spazio
derivata da un continuo processo di apprendimento di nozioni ed
esperienze;
• l’uso e l’elaborazione efficiente di dati e informazioni unito a capacità,
competenze, idee, esperienze, commenti, opinioni e motivazioni delle
persone;
• presente nelle menti delle persone, nelle idee, consuetudini e abitudini,
principi e concetti, nei processi, documenti, prodotti e servizi;
• in ambito aziendale, l’utilizzo del capitale intellettuale formato dalle
relazioni e attività intangibili con la struttura esterna (stakeholder), la
struttura interna (processi, sistemi, brevetti, marchi ecc.) e il capitale
umano (competenze e capacità delle persone).
Secondo Cavalli dunque il KM è quell’insieme di strumenti e metodologie
con cui viene creata e scambiata conoscenza all’interno
dell’organizzazione con lo scopo di creare valore per essa.
La conoscenza è una risorsa intangibile fondamentale per
l’impresa: secondo la “Resource-based theory of the firm”, il presidio da
12
parte di una impresa di risorse rappresenta la condizione necessaria per
conseguire un vantaggio competitivo sostenibile ed un differenziale di
performance (Troilo, 2001).
Il perseguimento di questo vantaggio competitivo è possibile se queste
risorse sono (Barney, 1991; Boschetti, 1999 in Profili, 2004):
• critiche, cioè indispensabili per sfruttare le opportunità e prevedere e
bloccare le minacce esterne:
• scarse, ovvero difficilmente reperibili dai concorrenti;
• non imitabili;
• non sostituibili con risorse equivalenti, uniche.
Le capacità sono dei processi tangibili o intangibili con cui le risorse sono
impiegate e combinate per raggiungere un fine (Amit e Schoemeker,
1993, in Profili, 2004).
Zander e Kogut (1995), seguendo i lavori di Rogers e Winter, hanno
sviluppato cinque costrutti che caratterizzano la conoscenza di una
organizzazione a livello di competenze individuali e di capacità
organizzative. Questi cinque costrutti sono la codifiability, la teachability, la
complexity, la system dependance e la product observability.
La codifiability rappresenta il livello di codificabilità della conoscenza,
anche se il singolo operatore non ha la possibilità di comprenderla.
La teachability, invece, misura il grado con cui gli individui possono essere
istruiti, a scuola o al lavoro; essa riflette l’insegnamento delle capacità
individuali.
La complexity rappresenta le variazioni nel combinare differenti tipi di
competenze: in breve, la conoscenza aumenta in complessità se vengono
combinate ed utilizzate più tipi di competenze distinte.
System dependence misura quanto la produzione di competenze sia
dipendente dai differenti gruppi di individui con le proprie esperienze.
La product observability, infine, è il grado di imitabilità di una conoscenza,
cioè la facilità o meno da parte dei competitor di copiarla.
13
Questi cinque costrutti rappresentano le differenti qualità della conoscenza
e misurano la capacità con cui essa può essere compresa e comunicata
all’interno dell’organizzazione.
1.1.1 IL KNOWLEDGE MANAGEMENT SECONDO DIVERSE
PROSPETTIVE
Argote, McEvily e Reagans (2003) hanno recentemente costruito
un framework di analisi del KM che si basa sull’incrocio di due dimensioni:
gli outcome prodotti e il contesto delle attività di KM. Sulla prima
dimensione si collocano la creazione, il trattenimento e il trasferimento di
conoscenza. Sulla seconda le proprietà del contesto in cui si sviluppano le
attività di KM: proprietà degli attori, delle relazioni tra gli attori e della
conoscenza.
Rielaborando il quadro di Argote, McEvily e Reagans, Profili (2004)
individua quattro aree di ricerca in cui possono inserirsi i contributi teorici
al KM: dell’apprendimento, relazionale, tecnologica e dell’innovazione.
Figura n.1: le principali aree di ricerca del KM (Profili, 2004:25)
APPROCCI OGGETTO D’ANALISI PRINCIPALI OUTCOME
Apprendimento - individui - organizzazione
Acquisizione conoscenza
Relazionale Relazioni tra attori Diffusione conoscenza
Tecnologica Caratteristiche della
conoscenza
Codifica e trasferimento della
conoscenza
Innovazione - individui - organizzazione
Creazione conoscenza
La prima prospettiva, quella dell’apprendimento, deriva dalla
necessità delle organizzazioni di sviluppare strutture flessibili, in grado di
adattarsi ai cambiamenti e con la capacità di apprendere: le learning
14
organization. L’apprendimento può essere individuale o organizzativo. Il
primo rappresenta condizione necessaria ma non sufficiente a creare
l’apprendimento organizzativo. Ciò che un individuo apprende all’interno
dell’organizzazione deriva in gran parte da ciò che è conosciuto dagli altri
membri e dal tipo di informazioni presenti: in questo modo
l’organizzazione ha un forte influsso sul processo di apprendimento
individuale, perché possiede dei sistemi cognitivi, una memoria, un
insieme di regole, princìpi e valori che si sono sviluppati nel tempo e si
sono radicati nel tessuto organizzativo.
Quindi l’apprendimento organizzativo non è solo la somma
dell’apprendimento individuale: gli individui agiscono, ma sono “orientati”
dall’organizzazione attraverso la definizione di ruoli, regole, processi
(Hedberg, 1981 in Profili, 2004). Questa prima prospettiva si focalizza sui
processi che trasformano l’esperienza e la conoscenza organizzativa in
possibilità per l’azione futura (knowledge as possibility).
Questo aspetto la distingue dalla prospettiva dell’innovazione, che come
vedremo riguarda i processi di creazione di attività nuove quali prodotti,
servizi, pratiche (knowledge as action). Secondo Cook e Yanow (Profili,
2004) l’apprendimento è l’atto di acquisire conoscenza; per Ahmed, Lim e
Loh (ibidem) è l’insieme di processi in cui viene utilizzata la conoscenza
esistente per produrre nuova conoscenza.
Il modello di Nonaka e Takeuchi (1997) prevede che il processo di
creazione e condivisione della conoscenza avvenga attraverso un
processo di conversione della conoscenza da tacita in esplicita, e
viceversa. La prima è formata dagli aspetti cognitivi degli individui (modo
d’agire, opinioni), la seconda è rappresentata dalla conoscenza nota e
codificata in un linguaggio formale ed accessibile. Questo sottolinea la
fondamentale funzione della comunicazione nel processo di generazione
della conoscenza (Mazzei, 2006). I due autori affermano che la creazione
di conoscenza avviene ad un livello individuale: l’organizzazione deve
15
predisporre le condizioni necessarie alla condivisione in tutto il network del
know-how di ogni persona, supportando la creatività e l’innovazione.
Il processo di conversione della conoscenza da tacita in esplicita avviene
attraverso le interazioni sociali che coinvolgono i diversi individui, e si
articola in quattro fasi: la socializzazione, l’esternalizzazione, la
combinazione e l’interiorizzazione.
Nella prima fase, la socializzazione, la conoscenza tacita viene condivisa
tra gli individui durante la collaborazione e il work-in-team. In questo modo
la conoscenza tacita di un individuo diventa conoscenza tacita posseduta
da altri.
Durante l’esternalizzazione la conoscenza implicita viene trasformata in
conoscenza esplicita disponibile per le altre persone attraverso l’utilizzo di
metafore, schemi concettuali, analogie, modelli e narrazioni, che aiutano
gli altri membri a comprendere conoscenze altrimenti difficilmente
assimilabili ed elaborabili.
Il processo di combinazione permette alle conoscenze esplicite di un
gruppo di essere integrate con le conoscenze esplicite di altri gruppi
attraverso riunioni, meeting, conversazioni, attività di comunicazione e
formazione. Ciò permette alla conoscenza di “cristallizzarsi” all’interno dei
sistemi manageriali.
Con l’ultima fase, l’interiorizzazione, la conoscenza esplicita appresa da
un individuo viene incorporata nella sua base di conoscenze tacite sotto
forma di schemi mentali condivisi, attraverso i processi che Kenneth
Arrows ha chiamato “learning by doing”.
Questi processi da soli non assicurano la creazione di conoscenza
creativa: è necessario un continuo processo di interazione fra conoscenza
implicita ed esplicita affinché le conoscenze acquisiscano valore per
l’organizzazione e l’apprendimento individuale diventi apprendimento
organizzativo (Profili, 2004).
La prospettiva relazionale affonda le basi sull’assunto che
l’organizzazione è un sistema aperto e vitale (Golinelli, 2001 in Mazzei,
16
2006), che sottolinea la natura relazionale dell’organizzazione:
l’organizzazione è vista come una rete di relazioni fra individui. Questo
porta alla conclusione che non si può spiegare il comportamento
organizzativo prescindendo dalla rete di relazioni che legano i membri
interni ad un’organizzazione e quest’ultima con l’ambiente esterno.
Oltre alla network theory, un altro approccio che sottolinea la funzione
essenziale delle relazioni per la creazione e condivisione di conoscenza
sono le così dette Community of Practice: si tratta di un gruppo di persone
che hanno in comune una identità professionale, formata da competenze
e dalla passione per un’attività. Questo permette loro di condividere
conoscenze ed esperienze in maniera fluida, informale e creativa,
sostenendo la creazione di nuovo sapere (Wenger, Snyder, 2000; Duguid,
2002 in Mazzei, 2006). Per far sì che le comunità di pratica si sviluppino
generando nuova conoscenza a favore di tutta l’organizzazione è
necessario che il top management le individui e le potenzi, sostenendo poi
il trasferimento della conoscenza creata verso tutta l’organizzazione
(Brown, Duguid, 2002 in Mazzei, 2006).
La terza prospettiva, quella tecnologica, nasce da diverse ragioni
(Zahedi, 2000 in Profili, 2004):
• la transizione da un’economia industriale ad una basata sui servizi;
• la globalizzazione dei mercato e la necessità di enormi moli di
informazioni e strumenti di comunicazione efficaci;
• lo sviluppo tecnologico ed informatico, dai sistemi software e hardware
ai network informatici;
• il passaggio da forme organizzative gerarchiche a forme più flessibili,
basate sui processi e sul coordinamento orizzontale.
Per Shapiro e Varian (1999, in Profili, 2004) è informazione tutto quello
che può essere digitalizzato, cioè formato da una sequenza di bit. Le
tecnologie informatiche (ICT) permettono l’accumulazione ed
elaborazione di enormi moli di dati, riducendo l’incertezza e i rischi
connessi ai processi decisionali e permettendo di controllare i processi
17
aziendali, accrescendo il valore dell’informazione. Queste tecnologie
hanno profondamente cambiato le modalità di trattamento
dell’informazione, con un forte impatto sulle modalità di coordinamento,
sul lavoro in gruppo e su tutti i processi all’interno dell’organizzazione,
compresi quelli di apprendimento (Profili, 2004).
L’avvento di Internet poi ha eliminato totalmente i limiti spazio-temporali
alla diffusione delle informazioni. Inoltre le ICT permettono di rendere più
veloce ed efficiente la comunicazione e di creare una memoria
organizzativa in forma digitale, alla quale tutti possono accedere e
contribuire (Goodman e Darr, 1996 in Profili, 2004). Non tutte le
conoscenze però possono essere codificate: alcuni aspetti taciti come le
competenze, il “saper fare”, spesso non possono essere immagazzinate
digitalmente.
L’ultima prospettiva, quella dell’innovazione, si riferisce come già
accennato, a tutte quelle attività di ideazione e creazione di nuovi prodotti,
servizi, processi. La conoscenza è la base dei processi di innovazione
perché fornisce all’organizzazione il potenziale per nuove azioni: le
conoscenze vengono combinate ed elaborate per crearne di nuove
(Schumpeter, 1934; Hargadon e Sutton, 1997 in Profili, 2004). Questa
prospettiva vede dunque l’innovazione come quel processo di conversione
della conoscenza in azione. La conoscenza rappresenta dunque la
possibilità di generazione di nuovi artefatti organizzativi, l’insieme di valori,
credenze, gli schemi cognitivi degli attori che permettono la creazione di
nuova conoscenza.
1.1.2 LE TEORIE ALLA BASE DEL KNOWLEDGE MANAGEMENT
Prusak (2001) afferma che ci sono tre filoni teorici che hanno
fortemente contribuito alla affermazione del KM: l’information
management, la teoria della qualità e quella del capitale umano.
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L’information management, sviluppato durante gli anni ’70 e ’80, è
considerato una branca delle scienze sull’informazione e sulla IT. Si tratta
di un insieme di correnti di pensiero, teorie e casi che si focalizzano su
come l’informazione venga gestita, indipendentemente dalle tecnologie
che la immagazzinano e manipolano. Riguarda temi sull’informazione
quali le valutazioni, le operazioni tecniche, il governo, gli schemi.
Informazione, in questo contesto, generalmente significa documenti, dati e
messaggi strutturati.
La teoria della qualità, o “quality movement” come lo chiama Prusak, si
focalizza sugli utenti interni, sui processi e sugli obiettivi dichiarati e
condivisi. Mentre le tecniche del quality movement hanno avuto un ruolo di
successo nei processi manifatturieri, il KM ha un obiettivo più ampio che
include i processi che non si prestano ad un chiara misurazione e
definizione. Il KM include attività come rendere la conoscenza visibile,
sviluppare i processi di condivisione e il governo delle strutture grazie alle
tecniche di analisi e perfezionamento elaborate dal qualità movement.
L’ultimo filone è quello che riguarda il capitale umano, il cui valore però
secondo Prusak tende ad essere distorto e dissipato. L’importante
messaggio degli studiosi di questo tipo di capitale è che investire in esso
può portare a vantaggi finanziari. Investire sul capitale umano significa
attivare processi di apprendimento e formazione, che danno ritorni sotto
forma di maggior produttività, sviluppo delle competenze, capacità
d’innovazione e la liberà del lavoro mobile. Nonostante ciò molte
organizzazioni continuano a pensare che i programmi di formazione ed
apprendimento a favore dei dipendenti siano dei costi e non degli
investimenti, e l’idea che lo sviluppo del capitale umano accresca la
produttività e l’innovazione si sta diffondendo solo da poco nelle aziende.
Per definizione il capitale umano si focalizza sull’individuo, mentre il lavoro
del KM concerne i gruppi, le community e i network (ibidem).
19
1.2 STRATEGIE DI KNOWLEDGE MANAGEMENT
La conoscenza è incorporata nelle menti delle persone,
rappresenta la base delle loro competenze, sono incise nelle mappe
mentali e in parte spiegano il loro comportamento. Le conoscenze sono
allo stesso tempo incorporate negli artefatti cognitivi, sono cioè in parte
codificate ed esplicitate e immagazzinate in supporti che ne consentono il
trasferimento, quali database, manuali, procedure, norme (Rullani, 1994).
La conoscenza tacita è incorporata nell’individuo mentre la conoscenza
esplicita è codificata e disponibile. Non sempre è possibile trasformare la
conoscenza tacita in esplicita, perché spesso essa è radicata nell’azione.
Oltre a questo, la conoscenza esplicita mantiene sempre una componente
tacita: è questa componente che la rende efficacemente utilizzabile.
Conoscenza tacita ed esplicita rappresentano cioè due
caratteristiche della conoscenza che si potenziano a vicenda: la
conoscenza implicita crea quel background necessario allo sviluppo e
interpretazione della conoscenza esplicita. Questo consente di riflettere
sulla possibilità di basare le strategie di KM esclusivamente
sull’esplicitazione e codificazione della conoscenza: i processi di
codificazione possono rappresentare un valido supporto alla diffusione
della conoscenza nell’organizzazione.
Questo può avvenire solo se l’organizzazione e il suo contesto sono basati
sul network, sulla fiducia e sulla condivisione di valori, esperienze e
competenze tra i membri (Profili, 2004). È dunque necessario quello che
Alavi e Leidner (2001) chiamano shared knowledge space, uno spazio di
conoscenza condiviso tra i membri dell’organizzazione.
1.2.1 LA CONOSCENZA TACITA
Gli individui conoscono molto di più di quanto non siano capaci di
spiegare. Cercando di raggiungere un obiettivo o nello svolgimento di
20
un’attività, essi applicano una serie di norme e regole e utilizzano tutto un
sistema di conoscenze in modo inconsapevole e inconscio, senza che
queste siano del tutto note ed articolate nella memoria. La conoscenza
tacita, perciò, riguarda quella parte della conoscenza che un individuo non
è in grado di esprimere con i mezzi di rappresentazione disponibili come il
linguaggio, la documentazione scritta o la digitalizzazione: essa è più
agevolmente trasferibile con la dimostrazione pratica (Polany, 1966 in
Brown, Duguid, 2001).
Nonaka e Takeuchi (1997) affermano che la conoscenza tacita possiede
due dimensioni: quella cognitiva, che si riferisce ai modelli mentali, ai
paradigmi, credenze e valori che sostengono gli individui nella percezione
e definizione della realtà e sono così radicati da esser difficilmente
articolabili e comunicabili; l’altra dimensione, quella tecnica, comprende le
abilità concrete, definite come know-how, e si formano con l’esperienza e
l’apprendimento.
La conoscenza esplicita, invece, può essere trasmessa in una lingua
formale e sistematica. Attraverso regole scritte, procedure e politiche,
permette di comunicare le modalità di comportamento che ogni membro
dell’organizzazione dovrebbe adottare, ed ha il vantaggio di consentire la
diffusione di un grande numero di informazioni (ibidem).
A livello individuale la conoscenza implicita è un concetto strettamente
legato a quello di skill (Nelson e Winter, 1982, in Profili, 2004): si acquista
attraverso l’esperienza, si esplicita inconsciamente ed è difficile se non
impossibile da spiegare. Ma la conoscenza implicita è presente anche a
livello collettivo (Weick e Roberts, 1993, in Profili, 2004): alcune attività
richiedono la collaborazione e il coordinamento di un gruppo di individui in
uno spazio temporale limitato. Inoltre, le conoscenze tacite sono
profondamente legate al contesto sociale ed organizzativo nel quale sono
state generate (Profili, 2004).
21
Secondo Leonard e Sensiper (1998, in Profili, 2004) esistono
principalmente tre modalità con cui la conoscenza tacita può essere
sfruttata dall’organizzazione a suo vantaggio:
• problem solving: è l’applicazione più comune. Un esperto può risolvere
un problema più velocemente ed efficacemente di un principiante
perché possiede un corpo di conoscenze in grado di garantire
l’individuazione, in maniera inconscia, delle attività più appropriate ad
affrontare quel problema;
• problem finding: la conoscenza tacita consente di individuare non solo
le soluzioni ad un problema, ma anche di indagare la natura stessa del
problema per poterlo meglio riconoscere e diagnosticare in futuro;
• predizione ed anticipazione: la conoscenza tacita consente di
interpretare, in maniera non del tutto consapevole, le problematiche
nella loro globalità. Questo permette all’individuo di anticipare e predire
gli avvenimenti, sviluppando un ambiente creativo.
Perchè la conoscenza tacita possa essere efficacemente e velocemente
utilizzata è necessario che l’organizzazione predisponga un contesto
culturale creativo in cui gli individui ricorrono all’esperienza personale e al
loro intuito.
1.2.2 L’ESPLICITAZIONE DELLA CONOSCENZA
Attraverso il processo di codifica le conoscenze contestuali, cioè
quelle prodotte ed adoperate in un dato contesto e che possono essere
trasferite solo attraverso la condivisione di esperienze, vengono “de-
contestualizzate”, ovvero esplicitate e trasmesse in linguaggi
generalmente comprensibili (Rullani, 94).
La codificazione viene effettuata con la creazione di manuali, software o
linee guida che sintetizzano le esperienze immagazzinate da individui che
hanno già affrontato in modo efficace un certo problema e consentono il
22
trasferimento di queste esperienze ad un maggior numero di persone
(Profili, 2004).
Secondo Zander e Kogut (1995) le conoscenze, dopo la loro codifica,
possono essere trasferite all’interno dell’organizzazione consentendo di:
• ridurre i costi di trasferimento grazie alla riduzione dei contatti
necessari;
• condividere modelli di comportamento che aiutano a coordinare le
attività attraverso l’allineamento dei comportamenti individuali con gli
obiettivi organizzativi;
• avere una maggiore omogeneità nei comportamenti degli attori, che
aumenta il valore della reputazione e dell’immagine dell’organizzazione
nei confronti dei propri clienti.
Davenport e Prusak affermano che la prima difficoltà che si incontra nel
processo di codifica è come esplicitare la conoscenza senza farle perdere
le sue proprietà distintive e senza trasformarla in “less vibrant information
or data” (1998:68). Gli autori sostengono che un’organizzazione che vuole
codificare la conoscenza deve tenere a mente quattro principi:
• il top management deve decidere a priori gli obiettivi di business a cui
deve servire la conoscenza esplicitata;
• i manager devono essere in grado di identificare tutta la conoscenza
(nelle sue varie forme) esistente e in grado di aiutare a raggiungere gli
obiettivi prefissati: codificare tutta la corporate knowledge sarebbe un
lavoro immenso ed inutile;
• i knowledge manager devono saper valutare l’utilità e la capacità di
essere codificate delle conoscenze;
• gli operatori addetti alla codifica devono identificare un mezzo di
codifica e distribuzione della conoscenza appropriato.
Secondo Profili (2004), le difficoltà nell’articolare e trasferire le
conoscenze tacite sono alla base del vantaggio competitivo detenuto da
molte imprese: i vantaggi generati dalla conoscenza implicita sono
mantenibili nel tempo perché la conoscenza è una risorsa difficilmente
23
imitabile o sostituibile con altre equivalenti. Ostacoli alla diffusione della
conoscenza sono rappresentati dall’esistenza in molte organizzazioni di
micro-culture: la codificazione diventa efficace se il linguaggio adottato per
esplicitare le conoscenze è noto e condiviso in tutta la realtà
organizzativa.
Foray (2000) sottolinea però come sia necessario confrontare i vantaggi
conseguenti alla codificazione della conoscenza con i costi e tempi
necessari per attuarla. I benefici della codificazione, infatti, sono
strettamente dipendenti dal numero di individui che possono utilizzare la
conoscenza esplicita e dalla possibilità che tali individui hanno di
applicarla efficacemente: il trasferimento efficace della conoscenza
codificata può dipendere, ad esempio, dalla motivazione da parte
dell’individuo a recepire la conoscenza, cioè dal grado di interesse verso
la stessa.
Secondo Davenport e Prusak (1998) la maggior parte dei progetti di
KM hanno in comune uno dei seguenti obiettivi:
• rendere visibile la conoscenza e il suo ruolo nell’organizzazione;
• generare e sviluppare una cultura knowledge-intensive, stimolando la
condivisione di conoscenze tra membri e aree dell’organizzazione;
• creare una “infrastruttura di conoscenza”, basata non solo su supporti
tecnologici ma anche sullo sviluppo di un network relazionale.
Ahmed, Lim e Loh (2002, in Profili, 2004) suggeriscono una
rappresentazione del KM come combinazione di tecnologie informatiche,
processi organizzativi, strategia e cultura organizzativa. Le ICT hanno un
ruolo fondamentale nei processi di generazione della conoscenza in
quanto agevolano sia la connessione dei diversi attori sia l’accumulazione
di conoscenze, attività basilari per il successo delle strategie di KM. Gli
strumenti di comunicazione favoriscono il collegamento tra membri e aree
dell’organizzazione indipendentemente dalla loro collocazione geografica,
facilitando l’accesso ai database di conoscenze organizzative. Nello
stesso tempo permettono di catturare e distribuire il know-how, attraverso i
24
processi di codificazione, immagazzinamento e recupero delle
conoscenze.
1.2.3 L’APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO
Già accennato più volte, cercheremo in questo paragrafo di
inquadrare il concetto di organizational learning.
Le teorie sul learning utilizzate nella documentazione e nella istruzione
vedono l’apprendimento dal punto di vista pedagogico: l’insegnamento è
rappresentato dalla trasmissione di esplicita e astratta conoscenza da un
individuo che detiene questa conoscenza ad un altro che non la detiene e
ne è escluso (Brown, Duguid, 1991).
Ma i teorici dell’apprendimento rifiutano questo modello trasmissivo, che
isola la conoscenza dalla pratica, sviluppando un punto di vista secondo il
quale l’apprendimento è una costruzione sociale in cui la conoscenza
viene riportata nel contesto in cui assume un proprio senso e significato.
Da questa prospettiva, gli individui coinvolti nel processo di apprendimento
(learners) possono essere visti come attori della costruzione della propria
consapevolezza, coinvolti in un ambiente sociale fatto di storie e relazioni.
Ciò che viene appreso è quindi profondamente connesso alle condizioni
ambientali in cui viene appreso (ibidem).
Lave e Wenger (1990, in Brown e Duguid, 1991), con il loro concetto di
legittimate peripheral participation (LPP) forniscono una versatile
descrizione di questa visione “costruttiva” dell’apprendimento. L’LPP non è
un metodo di insegnamento ed educazione, ma uno strumento di
categorizzazione analitica per comprendere l’apprendimento attraverso
differenti metodi, periodi storici e ambienti sociali: cerca quindi di
descrivere l’apprendimento, non l’insegnamento. Secondo questa visione,
l’apprendimento comporta il diventare un insider, entrare cioè a far parte di
qualcosa. I learners non ricevono o si costruiscono una conoscenza
astratta ed oggettiva, piuttosto imparano a comportarsi e ad operare in
25
una comunità. Acquisiscono il particolare punto di vista della comunità ed
imparano a parlare il suo linguaggio. In pratica, vengono acculturati. I
learners non acquisiscono semplicemente conoscenza, ma imparano a
comportarsi come membri di una comunità.
La questione centrale dell’apprendimento è diventare un professionista,
uno specialista delle pratiche, non semplicemente apprendere le pratiche.
Questo approccio sposta l’attenzione dai processi cognitivi per portarla
sulle pratiche e sulle comunità in cui la conoscenza assume senso e
significati. Apprendimento, comprensione ed interpretazione sono
importanti questioni che non sono esplicite o esplicabili, ma sono
sviluppate e incastonate nel contesto comunitario (ibidem).
1.3 LE FORME ORGANIZZATIVE CHE AGEVOLANO IL
KNOWLEDGE MANAGEMENT
L’orientamento al cliente e l’esigenza di flessibilità fanno si che
l’organizzazione per processi sia privilegiata rispetto ad un orientamento
gerarchico-funzionale. Il bisogno di adattare i processi interni alle esigenze
del cliente richiede, infatti, che la personalizzazione del servizio sia
realizzata a partire dalla fase di progettazione (Cercola e Sonetti, 1999, in
Profili, 2004).
Le diverse attività, perciò, vanno raggruppate non in base alla loro
similarità, secondo il criterio di specializzazione funzionale, ma sulla base
della loro interdipendenza rispetto allo scopo finale che è la piena
soddisfazione del cliente. Questa logica comporta una riduzione delle
distanze tra i vari livelli gerarchici della struttura organizzativa, perché la
dimensione orizzontale prevale su quella verticale: lo scopo è avvicinare il
più possibile al mercato tutti i membri dell’organizzazione. Questo porta ad
una maggior responsabilizzazione delle risorse umane (empowerment) ed
una maggiore enfasi sui processi di learning individuale e collettivo.
26
Questo tipo di forma organizzativa sviluppata in orizzontale e in base ai
processi aziendali è caratterizzata da meccanismi di coordinamento basati
su relazioni laterali di tipo informale (Daft, 2001, in Profili, 2004). A
differenza delle strutture gerarchiche, dove la direzione è basata sulla
centralizzazione, la specializzazione e l’utilizzo dell’autorità formale,
queste organizzazioni stimolano e supportano l’interazione sociale,
agevolando il trasferimento e la condivisione di know-how, in particolare
nelle situazioni in cui la conoscenze è difficilmente osservabile e
fortemente radicata nel contesto sociale (Profili, 2004).
O’Dell e Grayson (1998, in Profili, 2004) aggiungono che la struttura
orizzontale permette agli individui coinvolti in un dato processo di lavorare
assieme, eliminando gli ostacoli alla comunicazione e al coordinamento
rappresentati dai confini tra le unità organizzative.
In definitiva, questo tipo di strutture organizzative sono particolarmente
adatte a quelle tipologie di aziende, tipicamente erogatrici di servizi, che
collocano il cliente al centro dei propri processi aziendali e in cui l’elasticità
strategica e strutturale sono dei valori fondamentali per il coordinamento
delle attività (Fontana, 1997, in Profili, 2004).
Il funzionamento di una struttura orizzontale necessita dell’esistenza di
una cultura organizzativa incentrata sulla fiducia, la collaborazione,
l’apertura e la flessibilità: le risorse umane devono acquisire competenze
trasversali alle diverse unità funzionali, sviluppando capacità decisionali e
autonomia. Questa forma organizzativa, nonostante preveda elevati
investimenti in termini di formazione, sviluppo ed incentivazione delle
risorse umane, e l’attuazione di meccanismi di coordinamento orizzontale,
rappresenta il contesto ideale per la diffusione, sviluppo e condivisione
della conoscenza. Tutta l’organizzazione infatti è orientata alla
collaborazione, alla condivisione di esperienze, alla comunicazione: il
processo aziendale (sia esso un prodotto, un servizio, un’area geografica)
rappresenta il locus dell’apprendimento e dell’innovazione. I responsabili
27
del processo (project manager, process owner) ricoprono spesso il ruolo
di integratori della conoscenza (Profili, 2004).
1.3.1 LE ORGANIZZAZIONI KNOWLEDGE-INTENSIVE
Tra le organizzazioni knowledge-intensive ci sono le professional
organization: in queste aziende il vantaggio competitivo si crea attraverso
la capacità di mobilitare e integrare diversi corpi di conoscenze ed
esperienze professionali con lo scopo di generare valore per il cliente
(Lowendahl, 1997 in Profili, 2004).
Secondo Robertson, Scarbrough e Swan (2003) ciò che distingue le
organizzazioni professionali da quelle ad alta intensità di conoscenze è
l’esistenza di regole e strumenti di controllo professionali, che influenzano
i processi di generazione della conoscenza e dell’innovazione. Il problema
nella gestione di questo tipo di organizzazioni sta nella continua necessità
di equilibrio tra le esigenze di formalizzazione, che serve a regolare il
coordinamento organizzativo, e l’alta autonomia e l’indipendenza richiesta
per sostenere l’innovazione, la flessibilità e la creazione di know-how. Le
professional organization sono organizzazione formate da professionals,
cioè degli individui con una ampia conoscenza di base e doti spiccate,
un’ampia indipendenza connessa ad un altro grado di coordinamento e
controllo del proprio operato.
Si tratta di aziende produttrici di servizi, in cui la maggior parte dei
processi viene svolta in presenza o col la partecipazione attiva dei clienti
(Chase e Thansik, 1983 in Profili, 2004). La discrezionalità in queste
organizzazioni viene riconosciuta e legittimata come parte del lavoro
professionale perché legata alla natura stessa delle attività svolte, che non
permette l’applicazione di sistemi di controllo burocratici (Profili, 2004).
Il professionalismo rappresenta il principio organizzativo di divisione del
lavoro, differente da quello del mercato o della burocrazia basati
rispettivamente su prezzo e autorità; esso è una “terza logica” di
28
coordinamento che sta prendendo sempre più piede non solo in
organizzazioni governate da logiche professionali ma anche in altre ad
elevato contenuto di conoscenze ed innovazione (Freidson, 2002 in Profili,
1994).
Questo tipo di organizzazioni hanno al proprio interno una serie di
complessità che rendono problematico l’utilizzo di strumenti di
coordinamento burocratici efficaci. Bisogna tener conto in primo luogo
che l’erogazione di servizi professionali richiede la partecipazione di
professionalità molto diverse tra loro: competenze, conoscenze, modi di
fare, cultura, valori e concetti. I risultati e le performance in queste
organizzazioni sono dunque l’integrazione e combinazione di diversi
saperi e capacità, spesso tacite. In secondo luogo, questa complessità
porta spesso ad una iper-specializzazione delle competenze,
accompagnata da una forte autonomia e indipendenza nell’operato.
Questo porta ad un ulteriore bisogno di coordinamento. In terzo luogo,
spesso queste organizzazioni sono dislocate geograficamente in zone
diverse. Dal punto di vista del cliente poi, la natura dei servizi professionali
che non permette una valutazione compiuta prima dell’erogazione porta a
scegliere in base alla reputazione (dell’organizzazione o dei singoli
professionisti che vi operano in essa), che diventa un asset fondamentale.
Altra caratteristica di queste organizzazioni sono le modalità interne di
comunicazione: non vengono utilizzati infatti i canali formali tipicamente
verticali, ma quelli orizzontali: le distanze fra i livelli gerarchici sono molto
assottigliate (Profili, 2004).
Il livello di formalizzazione di una organizzazione varia in base al grado di
standardizzazione utilizzato tramite procedure e regole: più
standardizzazione corrisponde ad una maggiore formalizzazione. In una
organizzazione professionale, risulta difficoltoso, inefficace e
controproducente far ricorso ad una rigida standardizzazione, perché la
complessità ed imprevedibilità del processo di erogazione del servizio
29
professionale costringono il professional ad utilizzare una discrezionalità
“caso per caso”, tipicamente per progetto (ibidem).
1.3.2 LE PRATICHE DI KNOWLEDGE MANAGEMENT
Come affermano Davenport e Prusak (1998), parlare di KM porta
spesso la conversazione su territori astratti e filosofici. Ma c’è tutto un
mondo reale di KM fatto di budget, politiche, scadenze, prassi operative.
Il KM è una pratica in continua evoluzione. I due autori, sperimentandola
in più di trenta progetti aziendali, hanno potuto dividerli in tre
macrocategorie a seconda degli obiettivi da raggiungere: creazione di
depositi di conoscenze, miglioramento dell’accesso alle conoscenze,
sviluppo di knowledge culture e environments.
Il primo gruppo di progetti, che ha come scopo la costruzione di
magazzini di conoscenze, tenta di farle diventare delle entità separate
dalle persone che le creano ed utilizzano. L’obiettivo è estrapolare la
conoscenza da documenti, report, presentazioni, articoli ecc. e metterla in
depositi dove sia possibile stoccarla e richiamarla facilmente. Gli autori
individuano tre tipologie di depositi di conoscenza:
• conoscenza esterna (ad esempio l’intelligence per competere);
• conoscenza interna strutturata (report di ricerche, materiali e metodi di
marketing);
• conoscenza interna informale (database di discussioni e condivisione).
Il secondo gruppo di progetti ha come obiettivo facilitare l’accesso alle
conoscenze e il loro trasferimento tra gli individui. Questi progetti non si
focalizzano come i precedenti sulla “cattura” della conoscenza, ma sui
detentori e i potenziali possessori di tali conoscenze. Se la metafora giusta
per i progetti di costruzione di depositi è la libreria, quella giusta per
questo secondo tipo di progetti sono le Pagine Gialle: sapere chi e dove
detiene la conoscenza, e come entrarne in possesso.
30
La terza tipologia di progetti riguarda la costruzione di un ambiente
ed una cultura adatti alla condivisione della conoscenza. In questi progetti
ricadono gli sforzi di misurare e migliorare il valore del capitale di
conoscenza, costruire awareness e ricettività culturale, cambiare i
comportamenti riguardo la gestione della conoscenza, sviluppare i
processi di diffusione della conoscenza. Si tratta di progetti che hanno
come scopo quello di far diventare la conoscenza un altro importante
asset per il successo aziendale.
Davenport e Prusak ammettono che queste tre macrocategorie
sono confinate per lo più nella teoria, perché nella pratica i progetti reali
risultavano essere combinazioni delle tre tipologie (ibidem).
1.3 IL RUOLO DELLA CULTURA ORGANIZZATIVA
Per Grandori (1995, in Profili, 2004) si parla di coordinamento
culturale riferendosi all’attività di condizionamento che le norme etiche e i
valori fondanti di una data organizzazione esercitano sul comportamento e
sulle azioni individuali.
La cultura organizzativa, intesa come l’insieme di valori e principi di fondo
condivisi dai membri di una organizzazione, rappresenta una determinante
fondamentale del comportamento organizzativo, in particolare in quelle
realtà organizzative in cui risulti difficile osservare efficacemente
comportamenti e risultati (Profili, 2004).
Nelle organizzazioni orizzontali appena descritte la cultura aziendale
assume un ruolo fondamentale in virtù delle difficoltà di coordinare le
attività attraverso meccanismi formali come la gerarchia e gli standard. La
cultura, fornendo ai membri una identità organizzativa, rappresenta un
sistema di coordinamento “soft” efficace in un contesto in cui i valori
professionali hanno una importanza maggiore rispetto alle norme e agli
obiettivi aziendali. L’utilizzo di strumenti culturali per gestire e coordinare
31
le attività si basa sul riconoscimento che la cultura organizzativa, da un
lato, viene a galla ed è trasmessa in moto automatico ed inconsapevole,
come risultato di un processo di apprendimento e di sedimentazione di
consuetudini, modalità operative e valori. Dall’altro, rappresenta un
costrutto che può essere modellato, comunicato e trasmesso ai membri di
una organizzazione attraverso l’utilizzo di riti, simboli, strumenti di
comunicazione, e in particolare attraverso il comportamento del
management che dirige l’organizzazione (ibidem).
Tutti i componenti della cultura aziendale, e in modo particolare i valori,
influenzano il comportamento degli individui e quindi l’approccio alla
creazione, diffusione e applicazione della conoscenza (De Long e Fahey,
2000, in Profili, 2004).
In primo luogo, la conoscenza influisce sul modo di valutare una
conoscenza utile, importante o valida all’interno di una organizzazione. In
secondo luogo, la cultura svolge un fondamentale ruolo di mediatore tra la
conoscenza individuale e quella collettiva.
Inoltre, la cultura influisce sul contesto di interazione sociale: gli strumenti
e i canali di comunicazione utilizzati, la discussione di temi critici, la
frequenza delle relazioni, la presenza di comunicazioni bottom-up, lo
sfruttamento di conoscenze accumulate, la possibilità di apprendere dal
lavoro di colleghi e superiori, sono solo alcune caratteristiche culturali
dell’organizzazione che influenzano le modalità di interazione e quindi il
grado di condivisione della conoscenza (Profili, 2004).
Va quindi individuato non la modalità migliore di sviluppo e
diffusione della conoscenza, ma la modalità che più si adatta ai valori
fondanti e allo stile dell’organizzazione. È fondamentale perciò sviluppare
una “cultura della condivisione”, creando una connessione evidente tra il
knowledge sharing e i problemi, gli obiettivi, i risultati aziendali e i valori
(ibidem)
32
1.4 LA MEMORIA ORGANIZZATIVA
L’approccio affrontato in questo paragrafo, la memoria d’impresa, è
quello che più esplicita la capacità di una qualsiasi organizzazione di
salvaguardare e gestire il proprio “sapere” e “saper fare”, in modo da
incorporarlo nelle attività, nella cultura e nei valori condivisi dai
componenti dell’organizzazione stessa (Minguzzi, 2006).
La memoria d’impresa rappresenta quindi una componente fondamentale
del processo cognitivo attuato da una organizzazione attraverso i propri
dipendenti, diventando una base, un “substrato” per l’apprendimento
organizzativo, che modifica e viene a sua volta modificato dall’insieme di
risorse e senso condiviso che costituisce la memoria d’impresa.
Secondo Cross e Baird (2000, in Minguzzi, 2006) esistono svariate
modalità con cui l’apprendimento delle esperienze aziendali può essere
catturato ed integrato nelle pratiche operative e gestionali di una
organizzazione: uno di questi è rappresentato dalle tecnologie per la
distribuzione della conoscenza.
Tuttavia, l’impresa può operare ad un livello più “soft”, ma decisamente più
profondo e pervasivo, cercando di far integrare la conoscenza nella vita
quotidiana dei membri dell’organizzazione, modificando i processi
operativi, prodotti e/o obiettivi in modo da incorporare in tali innovazioni la
nuova conoscenza acquisita attraverso le esperienze capitalizzate. Tale
processo di embeddedment di sapere e apprendimento negli aspetti
operativi e pragmatici, culturali, valoriali e di creazione di senso costituisce
l’operazione-chiave per permettere all’organizzazione di costruirsi una
propria memoria, a partire dalla quale può ricordare ed apprendere, ma
anche dimenticare (Minguzzi, 2006).
Nel saggio Organizational Memory, Walsh e Ungson (1991, in Minguzzi,
2006) considerano i rischi di antropomorfizzare in modo fuorviante le
organizzazioni. Precisando che le analogie tra memoria umana e
organizzativa non possono limitarsi ad analogie di tipo funzionale ma che
33
bisogna interrogarsi anche sulla loro validità (le differenze tra memoria
umana e organizzativa), comparabilità (come si reperiscono le
informazioni dalla memoria organizzativa) e consequenzialità (che cosa
comporta per una organizzazione la capacità di immagazzinare la
conoscenza di eventi passati per riutilizzarla nelle decisioni presenti), gli
autori si basano su tre assunti fondamentali:
• le organizzazioni sono funzionalmente simili a sistemi che elaborano
informazioni provenienti dall’ambiente e quindi, come tali, dimostrano
di possedere una memoria funzionalmente simile a quella umana;
• si può desumere l’esistenza di una qualche forma di memoria
organizzativa anche dal fatto che le organizzazioni devono sviluppare
meccanismi e processi per cogliere, interpretare e diagnosticare gli
eventi, con lo scopo di gestire la complessità e l’incertezza
dell’ambiente in cui operano;
• si assume l’organizzazione come un network di significati condivisi tra i
soggetti e indirizzati allo sviluppo e utilizzo di un linguaggio comune e
di interazioni sociali quotidiane. La memoria è un substrato
dell’organizzazione, più o meno latente, non sempre interrelato alle
altre variabili.
Gli autori sostengono che, nonostante l’acquisizione di informazioni sia
una operazione individuale, il processo di condivisione delle conoscenze
crei un sistema interpretativo che trascende in parte quello individuale: è
per questo motivo che una organizzazione riesce a conservare la
conoscenza riguardo al proprio passato anche se alcuni membri-chiave
lasciano l’organizzazione.
La memoria organizzativa rappresenta dunque una serie di informazioni e
conoscenze sviluppate ed immagazzinate nel corso della vita di una
organizzazione, conservate in modo da poter essere convenientemente
richiamate per gestire decisioni presenti, essenzialmente per analogia e
attraverso un meccanismo di stimolo/risposta. La memoria si configura
34
così sia come uno stock che come una struttura di stoccaggio di
informazioni e conoscenze.
Tale struttura di conservazione utilizza una logica di funzionamento nelle
tre fasi di acquisizione, salvaguardia e ritrovamento delle informazioni. Per
Walsh e Ungston nella seconda fase vengono utilizzati cinque “contenitori”
(storage bins) tra loro interconnessi, che compongono la struttura della
memoria organizzativa. Questa interconnessione è dovuta al fatto che la
memoria è per natura distributiva: questo significa che l’informazione non
è destinata a rimanere confinata in un luogo centrale, ma che tende a
spargersi all’interno di tutta l’organizzazione.
I cinque bins individuati dagli autori sono gli individui, la cultura
organizzativa, le trasformazioni, la struttura organizzativa e l’ecologia del
luogo di lavoro.
• Gli individui: il loro contributo alla memoria organizzativa è
rappresentato dalla loro capacità di ricordare conoscenze ed
esperienze e dagli orientamenti cognitivi che essi utilizzano per
facilitare il trattamento delle informazioni;
• la cultura organizzativa, rappresentata da una serie di modalità
apprese di percepire, riflettere e trattare i problemi trasmesse ai
membri dell’organizzazione, “incarna” le esperienze passate utili per
affrontare il futuro;
• le trasformazioni, i processi di cambiamento che avvengono all’interno
dell’organizzazione;
• la struttura organizzativa, l’insieme di ruoli, norme ed aspettative;
• l’ecologia del luogo di lavoro, la struttura fisica e materiale
dell’organizzazione, le condizioni di lavoro al suo interno e l’ergonomia.
A questi cinque “contenitori” i due autori ne aggiungono un sesto, gli
archivi, strumenti utili nel reperimento di informazioni sul passato
dell’organizzazione.
Secondo gli autori questo approccio offre numerosi vantaggi: una
riduzione dei costi di transazione e ricerca, a vantaggio dell’efficienza
35
aziendale, una maggiore accettazione delle decisioni presenti se
legittimate da decisioni passate (il ruolo della “tradizione”), una
facilitazione delle procedure di definizione dei problemi generando
alternative, una maggior capacità di conservare knowledge.
Ai vantaggi sopraccitati, Walsh e Ungson contrappongono alcuni rischi
derivanti dall’abuso o dall’utilizzo indebito della memoria organizzativa,
come ad esempio il ritrovamento di informazioni tali da spingere ad una
decisione routinaria quando ne sarebbe necessaria una non-routinaria (o il
contrario), o un impiego errato delle informazioni, o un utilizzo di queste
volto a rafforzare l’autocrazia e il dominio da parte di chi sa servirsene.
Per prevenire tali distorsioni la memoria organizzativa deve essere
sempre e comunque collettiva, anche se ciò può mettere in discussione la
distribuzione del potere all’interno dell’organizzazione (ibidem).
Secondo Cecchinato e Lorenzio (2002, in Minguzzi, 2006) ciò che
chiamiamo memoria è un ricostruirsi continuo di forme e non un
depositarsi di contenuti. La rievocazione dell’esperienza passata è
mediata ed elaborata dall’interpretazione del soggetto, che le attribuisce
un significato e un senso in base al contesto in cui avviene questa
rievocazione. In questo senso la memoria è sempre presente e mai
passato.
Nelson e Winter (1982, in Minguzzi, 2006) affermano che la memoria
organizzativa diviene l’identità del “noi” collettivo, non più citata
quotidianamente ma assunta, adoperata e cristallizzata nelle routine che
guidano inconsapevolmente e inconsciamente gli individui.
La memoria organizzativa collettiva che si crea supera le singole memorie
individuali, permettendo la formazione e stabilizzazione di una cultura ed
identità comune (Minguzzi, 2006).
Le routine in cui si sedimentano le interpretazioni comuni possono
diventare prassi difficili da modificare o correggere. Tuttavia la memoria
organizzativa non si riduce unicamente ai suoi aspetti più conservativi e
routinari, perché ne esistono molti altri, dagli archivi ai database, dalle
36
regole alle procedure, fino alle memorie individuali. La memoria
organizzativa non è quindi statica, ma cresce e si sviluppa tramite gli
individui che la costituiscono (ibidem).
Anand, Manz e Glick (1998) hanno sviluppato un modello per la
costruzione della memoria organizzativa che denominano “sistemica”.
Partendo dalle teorie organizzative che sostengono che le informazioni e
le conoscenze acquisite da una parte dell’organizzazione devono essere
comunicate velocemente alle altri parti, gli autori sottolineano come la
mole di informazioni acquisite in una organizzazione sia enorme: se tutte
queste conoscenze vengono trasmesse a tutte le parti dell’organizzazione,
i membri di questa subiscono un overload informativo (ibidem).
I tre autori quindi suggeriscono un modello di memoria organizzativa che
prevede la creazione di domini informativi riconosciuti, directory e
allocazioni di informazioni all’interno dell’organizzazione. Questo
approccio richiede che i dipendenti siano informati riguardo alle tipologie di
conoscenze disponibili nei vari domini, e che siano facilitati
nell’acquisizione, elaborazione ed utilizzo di queste conoscenze.
Questo modello prevede:
• la presenza di informazioni e conoscenze incorporate rilevanti
all’interno della memoria sistemica;
• la disponibilità di tali informazioni e conoscenze;
• la costruzione di processi organizzativi e norme che permettono la
condivisione di decisioni, conoscenze e informazioni;
• che la memoria sistemica sia continuamente modificabile e ricreabile
quando i cambiamenti interni o esterni lo rendono necessario.
Steinmueller (2000), oltre a ricordare come la memoria d’impresa e la
condivisione della conoscenza siano particolarmente importanti per le
performance innovative di un impresa, sottolinea come sia diversa la
gestione della conoscenza tra una piccola e una grande organizzazione.
La piccola impresa può infatti sviluppare reti di relazioni e condivisione tra
i dipendenti; per la grande impresa, invece, l’utilizzo di conoscenza
37
precedentemente acquisita per risolvere problemi nuovi si rivela fonte di
grandi difficoltà.
L’autore ne indica tre:
• l’organizzazione deve individuare le caratteristiche principali di un
determinato problema per vedere se assomiglia a problemi affrontati in
passato;
• in seguito l’organizzazione deve individuare le fonti di tutte le
informazioni rilevanti, ovvero gli individui che erano stati in grado di
risolvere i problemi precedentemente affrontati;
• se l’identificazione di questi individui risultasse problematica o non
possibile, l’organizzazione dovrebbe essere in grado di reperire tali
conoscenze attraverso altri canali.
1.4.1 TIPOLOGIE DI MEMORIA ORGANIZZATIVA
Allo stesso modo delle conoscenze (le quali, del resto,
costituiscono la materia prima della memoria), anche la memoria
organizzativa si compone di elementi tangibili ed intangibili, a seconda che
ciò che è stato appreso venga formalizzato o meno (Minguzzi, 2006).
Da un lato quindi troviamo l’esperienza personale acquisita durante
l’attività lavorativa, la memoria tacita del come e del perché si è imparato
qualcosa o si sono prese certe decisioni (know-how, know-why).
Dall’altro si ha la memoria dichiarativa, esplicita e codificata sotto forma di
documenti prodotti individualmente o collettivamente: la memoria del “che
cosa” (know-what) reperibile in archivi, database manuali di procedure,
istruzioni, e anche la “letteratura grigia”, cioè annotazioni, relazioni,
brainstorming (ibidem).
Un’altra classificazione viene fornita da Joanna Pomian (1996, in
Minguzzi, 2006). L’autrice suddivide la memoria d’impresa in tre differenti
tipologie, che hanno tra le principali discriminanti le modalità e il tempo di
38
costituzione della memoria stessa: le tre categorie di memoria sono quella
tecnica, di progetto e manageriale.
• La memoria tecnica, quella formatasi nel lungo periodo sulla base
dell’esperienza lavorativa di un soggetto che costituisce un capitale di
sapere. In essa rientrano la vita lavorativa, l’esperienza e le decisioni
prese, le strategie passate, le scoperte, gli errori.
• La memoria di progetto si sviluppa qualora l’impresa basi le proprie
attività attorno a progetti circoscritti nel tempo: poiché l’esperienza di
progetto rischia di dissiparsi una volta esauritasi, la salvaguardia di
questo tipo di memoria è fondamentale.
• La memoria manageriale è rappresentata da quell’insieme di
apprendimenti localizzati ed effettuati nel breve periodo che
contribuiscono al buon funzionamento dell’organizzazione.
1.4.2 I CONTRIBUTI DELLA MEMORIA ORGANIZZATIVA
Sono numerosi i benefici che la memoria organizzativa può
apportare per migliorare il funzionamento e l’efficienza
dell’organizzazione, sia da un punto di vista “difensivo” (evitare
conseguenze negative) che da uno “proattivo” (migliorare le performance)
(Minguzzi, 2006).
In primo luogo va menzionata la necessità, spesso sottovalutata, di evitare
perdite di sapere o di savoir-faire a causa della partenza di un esperto o
comunque di un detentore di conoscenza pratica potenzialmente critica
per l’organizzazione. Anticipare i rischi dati dalla perdita di sapere in tali
circostanze diventa un obiettivo primario per il management. Il modo di
ovviare a tali inconvenienti è di costruire, attraverso metodi qualitativi quali
dell’audit (interviste), un insieme esplicito delle conoscenze detenute dagli
individui il cui sapere è considerato importante e lo si vuole
immagazzinare per riutilizzarlo nel futuro: il savoir-faire individuale viene
così capitalizzato nella memoria collettiva (ibidem).
39
Altrettanto determinante risulta in molte organizzazioni la capacità di
sfruttare l’esperienza acquisita nei progetti trascorsi e conservare le lezioni
derivanti da strategie ed azioni passate: questo serve a evitare il
ripresentarsi di errori, malfunzionamenti o ambiguità, e per sfruttare al
meglio il “retour d’experience”, ossia il ri-verificarsi in situazioni nuove di
alcune caratteristiche già incontrate in progetti passati. Riconoscere questi
“ritorni d’esperienza” consente di risparmiare tempo, denaro e fatica. Lo
sviluppo di una memoria di progetto consente inoltre la creazione di un
forte spirito di condivisione, facilita il riconoscimento dei contributi
individuali, incoraggia al dialogo e alla partecipazione attiva, migliora il
sentimento di appartenenza al team e all’organizzazione (ibidem).
In definitiva, la memoria organizzativa consente di costruire una
“mappa” delle conoscenze detenute da una organizzazione, un inventario
quotidianamente aggiornato del savoir-faire dell’impresa, che comprende
anche il “chi sa cosa”, le reti di distribuzione e condivisione, le fonti e i
“manipolatori” della conoscenza. Questo, favorendo la circolazione del
sapere all’interno, può aiutare l’organizzazione a reagire e ad adattarsi ai
cambiamenti (ibidem).
40
2. LE LEARNING HISTORIES, UNO
STRUMENTO PER DIFFONDERE LA
CONOSCENZA NELL’ORGANIZZAZIONE
In questo capitolo viene descritto uno degli strumenti di KM per
diffondere competenze distintive e comunicazionali, elaborato da Art
Kleiner e George Roth: le learning histories, un differente approccio
all’apprendimento istituzionale.
2.1 L’APPROCCIO ESPERIENZIALE ALL’APPRENDIMENTO
“In our personal lives, experience is often the best teacher” (Kleiner,
Roth, 1997:1). Questo detto ha spinto Art Kleiner e George Roth a
verificarne la validità nella vita di una azienda, e ad interrogarsi su come
gli insegnamenti e le esperienze del passato possono essere trasformate
da un’organizzazione in un “processo” al fine di tramutarli in azioni
operative.
La questione ha interessato un gruppo di studiosi di scienze sociali,
manager e giornalisti al Center for Organizational Learning (di cui Kleiner
e Roth sono membri) del Mit (Massachusetts Institute of Technology), che
hanno sviluppato e testato un mezzo per risolvere il problema
dell’apprendimento organizzativo, chiamando questo strumento “learning
history”.
Una learning history è il racconto di una esperienza aziendale, di un
episodio “critico”, un cambiamento o una riorganizzazione, una nuova
iniziativa, una importante innovazione, un successo aziendale, o un
evento traumatico come un ridimensionamento. Questo documento
descrive l’evento raccogliendo le testimonianze di tutte le persone
41
coinvolte, utilizzando un linguaggio ricco dal punto di vista emozionale e
coerente con la storia raccontata.
Le learning histories vengono create attraverso la socializzazione della
conoscenza: raggruppano i resoconti di esperienze vissute
individualmente, esplicitando la conoscenza tacita attraverso la
documentazione della storia e consentendo la combinazione del sapere e
la sua interiorizzazione attraverso la diffusione in tutta l’organizzazione. La
diffusione però non si deve esaurire con la mera distribuzione dei
documenti all’interno della organizzazione. Le learning histories
rappresentano infatti la base per discussioni di gruppo, formati non solo
dalle persone coinvolte nella storia ma anche da chi può apprendere
qualcosa da essa: la miglior soluzione sarebbe includere tutti i manager e
collaboratori dell’organizzazione. Le discussioni di gruppo devono essere
formate da un numero limitato di partecipanti: questo facilita il dialogo, lo
scambio di opinioni e modi di pensare.
Lo scopo di questi meeting è quello di raggiungere una migliore
comprensione degli eventi e delle decisioni, condividere la conoscenza e
la consapevolezza dell’apprendimento organizzativo. In questo modo una
learning history evolve da “prodotto” per creare e diffondere know-how a
“processo” per condividerlo all’interno dell’organizzazione e apprendere da
esso per poter affrontare al meglio le problematiche future.
2.1.1 LO STORYTELLING
Dal punto di vista della sua costruzione, la learning history si basa
sulla pratica dello storytelling (ibidem), un approccio alla comunicazione
che utilizza il potenziale della memorabilità e il forte impatto della
narrazione (Barone, Fontana, 2005).
Le organizzazioni sono composte da individui, da insiemi di soggetti
diversi e in costante interazione tra loro: per questo motivo esse
raccontano una molteplicità di storie in cui si mescolano differenti
42
linguaggi, vocabolari e registri narrativi. Questi necessitano di integrazione
e coerenza, poiché solo in questo modo l'impresa potrà raggiungere un
significato comune e un'identità distintiva riconoscibile all'interno e
all'esterno. Con l'emergere di una visione delle organizzazioni come
costruzioni pluralistiche di storie multiple si afferma quindi anche una
nuova concezione della narrazione, che viene oggi rivalutata e
considerata una modalità efficace per una diversa ed innovativa
comprensione, direzione e gestione delle imprese. Ecco perché la
narrazione può diventare uno strumento a disposizione delle imprese per
ridefinire la propria identità, approfondire la propria conoscenza e
migliorare la comunicazione. Attraverso un'analisi dei racconti di vita e di
lavoro delle persone, dei loro vissuti, dei loro modelli di relazione, lo
storytelling permette alle imprese di raggiungere importanti obiettivi:
rendere espliciti i risultati raggiunti, generare consenso e senso di
appartenenza, motivare le persone, far conoscere e comprendere i
cambiamenti in atto (ibidem).
Kleiner e Roth (1997) ricordano come la pratica della narrazione
venga utilizzata dagli albori della civiltà umana, quando i membri delle
antiche società tribali si riunivano attorno ad un fuoco per condividere il
racconto di importanti eventi, guerre, cambiamenti nella leadership delle
tribù o disastri naturali. In queste assemblee tutti i partecipanti
raccontavano la personale versione della storia, secondo la propria
prospettiva, guidati dal capo tribù o dallo sciamano. Queste figure
avevano il compito di commentare la narrazione permettendo di indagare i
processi soggiacenti alla formazione dei significati della storia, portandoli
alla luce. Rivivendo l’evento assieme, e apprendendo collettivamente il
suo significato, il gruppo creava un significato condiviso.
Attraverso la sperimentazione su casi aziendali delle learning histories, il
centro per l’Organizational Learnig del MIT può affermare che questa
pratica può essere utilizzata e portare a concreti risultati anche in ambito
aziendale.
43
Lo storytelling quindi “è un metodo utile per l’emersione della
conoscenza, sia individuale che collettiva, distribuita nelle interazioni e, in
particolar modo, di tipo implicito” (Troilo, 2001:117).
2.1.2 I VANTAGGI DELLE LEARNING HISTORIES
Ma quali sono gli effetti della costruzione e condivisione di una learning
history in una organizzazione? Kleiner e Roth individuano la creazione di
fiducia, la libera espressione, il trasferimento di knowledge e la
costruzione di un quadro completo.
Il primo vantaggio percepibile è la creazione di fiducia. Collaboratori o
dipendenti che nel passato credevano che la propria opinione fosse
ignorata si rendono conto del contrario vedendola pubblicata in un
documento. Si combatte quindi il sentimento di isolamento all’interno
dell’organizzazione, dando la possibilità di far sentire le persone coinvolte
in un processo di miglioramento delle performance personali ed aziendali.
Inoltre i gruppi di discussione danno l’opportunità per una riflessione
collettiva: questo aiuta le persone a chiarire paure, perplessità e opinioni,
migliorando il grado di confidenza tra loro. Se la fiducia cresce vengono
gettate le basi per la costruzione di un ambiente lavorativo predisposto
all’apprendimento, in particolare all’apprendimento collettivo, perché
quest’ultimo dipende dalla condivisione di idee e opinioni.
In secondo luogo, le learning histories appaiono particolarmente efficaci
nel far emergere argomenti di cui si vorrebbe parlare ad alta voce ma non
si ha il coraggio, incoraggiando alla libera espressione. Il documento,
grazie alla anonimità dei commenti dei partecipanti, permette di esprimere
liberamente la propria versione dei fatti, portando alla luce considerazioni
che altrimenti rimarrebbero tacite e latenti.
In terzo luogo, l’utilizzo delle learning histories ha particolare successo nel
trasferire knowledge da una parte dell’organizzazione (divisione, area,
reparto) ad un'altra. Le learning histories permettono ai lettori di conoscere
44
le ragioni, gli impulsi, gli insight che hanno portato all’apprendimento,
senza limitarsi alla mera lettura di una lezione imparata da altri ma
facilitando la condivisione e l’implementazione di questi nuovi
insegnamenti.
Infine, le learning histories consentono di avere un quadro completo e
abbastanza generalizzabile sullo stato della gestione aziendale, cosa
funziona e cosa no, individuando persone ed aree di intervento.
Questo strumento può essere commissionato per analizzare un evento,
ma i suoi risultati spesso vanno oltre. Uno di questi (ed uno dei più
ricorrenti) è che risultati di tipo “hard” (finanziari, produttivi, tecnici) molto
spesso dipendono da componenti “soft” come la cultura aziendale e la
fiducia all’interno dell’organizzazione.
Le learning histories, contenendo molti altri temi aziendali ricorrenti,
possono così rappresentare delle vere e proprie guide per chi si occupa di
scienze manageriali.
2.2 SVILUPPARE LA MEMORIA ORGANIZZATIVA
ATTRAVERSO LE LEARNING HISTORIES
Una delle sperimentazioni del gruppo di lavoro dell’Organizational
Learning Center del Mit è avvenuta in una raffineria statunitense (Kleiner,
Roth, 1998). E’ stato deciso di ri-orientare le attività della squadra di
produzione di gas butano attivando un processo di apprendimento
continuo. E’ stato costruito un gioco da tavolo interattivo basato sulle
operazioni della raffineria. Attraverso il gioco i dipendenti hanno imparato
a ragionare assieme riguardo i problemi da risolvere: questo ha
galvanizzato in modo inaspettato i partecipanti, spingendoli alla
collaborazione. I risultati sono stati una serie di innovazioni, tra cui un
sistema di controllo delle apparecchiature che da solo ha portato a
risparmiare 1,5 milioni di dollari l’anno.
45
Ma i membri del team coinvolto non si sono resi conto appieno dei loro
sforzi e delle conseguenti implicazioni fintantoché non sono stati invitati a
descriverli agli altri dipendenti della raffineria. In un lavoro di gruppo
condotto da un esperto di learning histories esterno e in cui partecipavano
anche i manager, i membri del team hanno raccontato con parole proprie
la storia della loro esperienza di apprendimento, includendo commenti e
domande utili alla gestione futura del team.
Il risultato fisico, un documento di venti pagine, è stato utilizzato per
raggiungere altri successi: problem-solving, credibilità grazie all’inclusione
di fallimenti e incomprensioni interne, ulteriori risparmi e tagli di costi: “il
dialogo aperto è stato il motore del processo di cambiamento interno”
(Kleiner, Roth, 1998:43).
Raccontando la propria esperienza di collaborazione, i membri del team
sono andati ampiamente oltre una semplice lista di best practices o di
miglioramenti di processo: hanno raccolto un insieme di pensieri, opinioni,
commenti, sperimentazioni e questioni in modo da essere forzati a
riflettere sulla esperienza fatta. Il risultato più evidente di questo processo
è, come ogni dipendente e visitatore può attestare, il forte miglioramento
del morale della raffineria. Ma questo non è imputabile direttamente alle
innovazioni apportate, ma allo sviluppo di una collaborazione che ha
portato i dipendenti a rendersi conto di cosa veniva fatto e come, e ad
apprendere da questo.
Una learning history è un documento che racconta
all’organizzazione la sua storia in modo sicuro e strutturato. La sua
principale intenzione è di generare riflessione e open dialogue. Non offre
la risposta alla domanda “come può l’organizzazione crescere e
progredire?”, ma è diretta a generare un contesto comune ed una
comprensione condivisa che costituirà il terreno fertile da cui potranno
nascere le risposte.
Ad uno primo sguardo, le learning histories possono sembrare solo un
altro strumento di sviluppo organizzativo che utilizza metodologie
46
qualitative di indagine come le interviste e la raccolta di feedback per
sostenere il cambiamento. Ma le learning histories sono dei documenti
semi-pubblici indirizzati all’organizzazione nel suo complesso, non al top
management o a particolari aree: questo richiede una disciplina diversa
rispetto agli interventi tradizionali.
Sempre secondo Kleiner e Roth, durante la costruzione di una learning
history sono tre gli imperativi che devono essere tenuti a mente: la
necessità di restare fedeli ai dati (cosicché tutto nel report sia considerato
valido), alla storia (in modo da conferirle una miticità che catturi
l’attenzione delle persone) e al pubblico (ciò permette di creare un “calco”
che aiuti in modo pragmatico l’organizzazione ad evolvere).
2.3 LA LEARNING HISTORIES PER L’APPRENDIMENTO
ORGANIZZATIVO
L’idea di creare e sviluppare la learning organization ha preso piede
nei primi anni ’90, ed è stata adottata da multinazionali statunitensi come
Coca-Cola, Shell, Chevron e Tenneco (Kleiner, Roth, 1998). In particolare
i top manager di queste aziende hanno sottolineato come l’approccio
all’apprendimento organizzativo permetta all’organizzazione di generare
continuamente nuovo sapere e capacità per affrontare le avversità. I
middle manager sostengono l’apprendimento organizzativo perché
incoraggia le persone a seguire le proprie ispirazioni e, allo stesso tempo,
a migliorare le performance aziendali. Invece di creare contraddizioni,
l’apprendimento individuale e collettivo si rinforzano a vicenda, creando
uno spirito di comunità e di coinvolgimento personale.
Ma per molti manager rimane comunque una questione critica (Kleiner,
Roth, 1998). Dati gli alti investimenti per sostenere l’apprendimento
organizzativo, re-ingegnerizzazioni e altri sforzi, come essere sicuri che
l’apprendimento sia in atto? Come valutare qualcosa così intrinseco,
47
soggettivo e tacito come l’apprendimento? Come riuscire ad imparare
dagli errori commessi nel passato e trovare la chiave per replicare i
successi?
Gli strumenti tipicamente utilizzati per valutare l’apprendimento sono le
convenzionali survey. Ma il limite di questo strumento è che le persone
consce d’esser valutate e giudicate tendono a migliorare le proprie
performance, cercando di intuire e soddisfare i criteri sotto indagine invece
di focalizzarsi sul miglioramento delle proprie capacità. L’intrinseca
aspirazione che guida l’apprendimento viene spesso soppiantata dal
desiderio di sembrare una persona di successo, dalla pressione
estrinseca esercitata dai premi e dalla paura di una ammonizione per non
aver raggiunto determinati risultati. Questo può limitare gli esperti nella
ricerca analitica dei cambiamenti “soft” che portano a risultati più visibili e
facilmente indagabili. È fondamentale in questa fase che le persone
coinvolte siano spronate a mantenere l’attenzione sull’originale
entusiasmo riguardo l’apprendimento.
I membri di un’organizzazione conoscono le motivazioni di problemi,
fallimenti, l’impatto dei cambiamenti nelle politiche interne, e i modi in cui
deve muoversi l’impresa per progredire: hanno una propria interpretazione
dei fatti. Ma questa conoscenza individuale rimane tacita se le persone
non hanno l’opportunità di esplicitarle: l’apprendimento organizzativo è
possibile solo se le imprese trovano il modo di istituzionalizzare la
riflessione collettiva.
La metodologia delle learning histories è nata e si è evoluta come risposta
a questo bisogno: stimolare la riflessione e l’apprendimento collettivo. Le
learning histories vengono solitamente commissionate dal senior
management dopo significativi processi di cambiamento. Questo li porta
ad esaminare anche il proprio comportamento e a volere una valutazione
della propria posizione che vada oltre al “quello che il capo vuole sentire”.
48
Kleiner e Roth individuano una serie di differenti momenti nella vita di una
organizzazione, suddivisi in tre macrogruppi, in cui si sente il forte bisogno
e desiderio di una riflessione collettiva.
Il primo caso è quello di un significativo cambiamento: viene a galla il
bisogno di documentarlo, riconoscere un successo e imparare da esso, o
comprendere un fallimento e le sue motivazioni. Una learning history in
questo caso può fornire, invece di uno strumento di auto-riflessione, un
modo per rendere esplicite le proprie considerazioni, il proprio punto di
vista a tutta l’organizzazione.
Il secondo caso è un successo: esso può fornire le fondamenta solide in
cui tutta l’organizzazione può costruire il suo futuro. Per questo è
necessario che tutta l’organizzazione sia coinvolta nel processo di
riflessione: questo significa dare voce a tutti, compresi gli scettici.
Il terzo caso riguarda il bisogno di istituzionalizzare la riflessione riguardo
la corporate identity e le strategie future: in definitiva una riflessione sul
bisogno di conversare e comunicare tra i vari livelli aziendali.
In tutte queste situazioni, per sviluppare la memoria organizzativa è
necessario immagazzinare e trasferire nell’organizzazione tutte le
conoscenze utilizzabili: conoscenze non solo riguardo ad azione da
intraprendere e i loro risultati, ma anche riguardo le teorie tacite che ne
stanno alla base (vantaggi, svantaggi, pregi e difetti).
Ma, notano Kleiner e Roth, la realizzazione pratica della riflessione
organizzativa trova molte barriere nel business. La riflessione necessita
della difficoltosa attività collettiva di costruzione di auto-consapevolezza:
nella maggior parte delle imprese i manager hanno poche opportunità di
discutere liberamente riguardo successi e fallimenti del passato. Non solo:
anche questa volontà di non parlare di questi argomenti costituisce un
taboo.
Quindi per evolvere in learning organization sono necessari tutta una serie
di deliberati meccanismi per condividere le esperienze individuali. Solo
questo può portare le persone ad imparare dai propri successi e fallimenti.
49
2.4 LE FASI DI COSTRUZIONE DI UNA LEARNING HISTORY
Dopo aver delineato come le learning histories possano aiutare
l’organizzazione a riflettere ed apprendere, Kleiner e Roth individuano le
sei fasi di costruzione di una learning history: planning, reflective
interviews, distillation, writing, validation, dissemination.
La prima fase, il planning, riguarda la delineazione del tipo di learning
history da costruire e per quali scopi. La prima attività da svolgere è
l’assemblamento del gruppo di lavoro: vengono scelte persone motivate
ad investire tempo e sforzi in questo progetto.
La seconda fase, le reflective interviews, si svolge attraverso interviste
condotte da un esperto esterno, in cui vengono raccolte le opinioni di tutti i
punti di vista ritenuti significativi. Durante le interviste vengono identificati i
risultati tangibili, gli outcomes associabili ad uno sforzo di infondere
l’apprendimento e il miglioramento. Vengono condotte dalle cinquanta alle
duecento interviste, in relazione alla grandezza dell’organizzazione e agli
scopi del progetto: è preferibile raccogliere il maggior numero di punti di
vista possibili, dagli entusiasti agli scettici. Questo perché l’obiettivo è che
tutti, leggendo il documento, si sentano coinvolti e vedano esplicitato e
considerato il proprio modo di pensare. Mentre in altri tipi di indagini
vengono richieste analisi, valutazioni e giudizi, in una learning history si
vuole solamente raccogliere la versione della storia di ognuno. I
partecipanti vengono spronati a parlare in prima persona, lasciandosi alle
spalle i modi di pensare correnti in azienda, e ad esplicitare le proprie
percezioni e osservazioni. Parlando apertamente della propria esperienza
gli intervistati sono portati a fare nuove riflessioni riguardo agli insight delle
proprie e altrui azioni passate.
La terza fase, la distillation, riguarda la trasformazione da parte degli
esperti e di uno staff di membri interni del materiale raccolto in un
coerente set di temi, e la redazione di un report. È stato scelto il termine
“distillazione” dagli autori perché esplicita al meglio l’obiettivo di questa
50
attività: prendere l’enorme volume di dati grezzi, purificarli e raffinarli in
modo da renderli facilmente comprensibili a tutta l’organizzazione.
L’essenza di questo lavoro è presentare un documento in cui
l’organizzazione racconta a sé stessa cosa accade e il significato di questi
eventi, non un’analisi da parte di esperti esterni.
La quarta fase, writing, è la stesura del documento, effettuata da team
formati da membri sia interni (dipendenti) che esterni (esperti), suddivisi in
base ai diversi temi. In questa attività, gli esperti abbandonano il ruolo di
ricercatore e osservatore per assumere quello di partner delle persone
che stanno studiando. Il documento viene presentato diviso in due
colonne: in quella a sinistra appare la storia raccontata dai partecipanti, in
quella a destra si trovano questioni, commenti e valutazioni inserite dagli
esperti, che hanno lo scopo di stimolare la riflessione nel lettore.
Attraverso questo format, il lettore può trarre una propria conclusione della
storia. Ogni partecipante viene identificato col ruolo o titolo, non col
proprio nome. Questo permette alle persone di sentirsi libere di esprimere
le proprie opinioni.
La quinta fase è la validation: il documento ritorna ai suoi autori. Prima
della sua diffusione i partecipanti hanno la possibilità di vedere i propri
interventi, modificarli ed approvarli. In aggiunta vengono condotti dei
workshop con piccoli gruppi di partecipanti: questo permette di rivivere la
propria esperienza e di osservare la reazione degli altri membri.
L’ultima fase è la dissemination: il documento è pronto per essere diffuso
all’interno della organizzazione e per essere discusso in team: le persone
vengono riunite per due o tre ore di riflessione e conversazione, in cui
ognuna arriva alla propria conclusione sul significato della esperienza
vissuta e lo condivide con gli altri. Ne escono con una maggiore
consapevolezza sul senso dell’esperienza di team. E soprattutto si crea
un’atmosfera di innovazione e creatività, grazie alla possibilità di dire “qui
è dove dobbiamo operare differentemente”.
51
2.5 UN NUOVO GENERE NELLA LETTERATURA DI
BUSINESS
Kleiner e Roth credono che le learning history siano uno strumento
che rappresenta un nuovo genere della business literature per tre motivi:
la forma (il modello a due colonne), i contenuti (il documento contiene la
descrizione del processo di apprendimento dei partecipanti e degli esperti)
e il processo di creazione (la conduzione interna/esterna nella costruzione
e stesura del documento).
I tre elementi critici di questo approccio individuati dagli autori sono:
1. La collaborazione tra i membri interni all’organizzazione ed esperti
esterni di learning history e processi d’apprendimento.
2. Utilizzare come base di partenza azioni e risultati rilevanti.
3. L’utilizzo della tecnica che gli autori denominano “jointly told tale”,
ovvero la scrittura congiunta del documento da parte di membri interni ed
esperti esterni.
Le learning histories affondano le radici in varie teorie, tecniche, scienze
riguardanti capacità, azioni e interventi come il racconto orale,
l’antropologia, la sociologia, la letteratura e il teatro. L’integrazione di
queste teorie e tecniche, utilizzando la filosofia e i princìpi
dell’apprendimento organizzativo, è ciò che rende questo strumento unico.
Uno strumento che permette di portare in superficie, rendere esplicite e
trasformare in knowledge base conoscenze tacite, non scritte e codificate.
Uno strumento che per funzionare deve essere costruito secondo tre
prospettive: la ricerca per dare consistenza e validità attraverso la
veridicità dei dati, la miticità per utilizzare tutto il potere della narrazione, e
il pragmatismo per sviluppare un senso della storia appropriato ed
utilizzabile in modo pratico nella vita organizzativa. Gli autori ammettono
che non c’è un ordine preciso da seguire, ma che l’esperienza ha loro
insegnato che è più facile e logico iniziare dalla research prospective.
52
Dunque il significato delle learning history è far comprendere
l’importanza della riflessione riguardo al passato, far capire che per
pianificare le strategie ed azioni future bisogna conoscere ciò che è
accaduto nel passato, ed imparare da esso.
Il learning history process, attraverso la conduzione di interviste di
conversazione e riflessione, la “distillazione” di ciò che le persone hanno
detto, la scrittura organizzata tematicamente e congiuntamente, la
validazione con i partecipanti e la “disseminazione” attraverso workshop
è finalizzato alla costruzione di un documento che consente di indagare e
controllare le azioni e i comportamenti nell’organizzazione.
Una learning history si basa sul passato, ma non è uno strumento statico.
Può essere continuamente revisionato, tramite l’aggiunta di modifiche, di
ulteriori commenti ed opinioni provenienti dai gruppi di discussione o di
nuove informazioni disponibili.
Diventa così uno strumento dinamico e in progress, aiutando
l’organizzazione a riflettere sul proprio passato, sulle strategie elaborate,
sulle azioni intraprese, sui comportamenti a livello individuale e collettivo.
Permette di valutare cosa ha funzionato e cosa no, le strategie di
successo e quelle che hanno portato ad un fallimento, scoprendone le
ragioni tacite di ogni individuo nell’organizzazione.
La reflective organization è condizione necessaria per la creazione della
learning organization.
53
3. ATON, UNA ORGANIZZAZIONE
KNOWLEDGE-INTENSIVE
Questo capitolo descrive l’azienda oggetto di studio di questa tesi:
la sua storia, di cosa si occupa, la sua missione e i suoi valori, la sua
comunità aziendale, ed un particolare riferimento alle attività di
comunicazione svolte.
3.1 LA STORIA DI ATON: LE TAPPE DELL’INNOVAZIONE
Nel 1988 Giorgio De Nardi, oggi presidente del Gruppo Aton, fonda
Centro Computer: in quegli anni l’informatica mobile è ancora un ambito
poco sviluppato. Centro Computer nasce a Vicenza, sede in cui vengono
realizzate le prime applicazioni di tentata vendita e gestione in real-time
della logistica con impianti in radiofrequenza.
Il nome odierno dell’azienda è stato scelto dopo un viaggio in Egitto
compiuto nel 1991 dal fondatore, rimasto colpito ed affascinato dalla figura
di Akhenaton, Amenhotep IV faraone della XVIII dinastia del Nuovo Regno
che governò dal 1377 al 1362 a.C., che lottò contro la povertà, la
corruzione e le ingiustizie di casta. Un pioniere che soppresse le
numerose divinità della tradizione egizia sostituendole con una religione
monoteistica, quella del Dio sole Aton. L’azienda ha quindi ereditato, oltre
al nome breve, facile da ricordare e che inizia per A (sta quindi in testa alle
liste e agli indici), l’impegno a non uniformarsi allo status quo, il battersi
per il miglioramento della vita di tutti, l’essere innovatore e pronto a
mettere in discussione tutto, anche privilegi e poteri consolidati.
54
Nel 1993 apre la sede di Aton a Villorba,
Treviso, seguita l’anno dopo dalla prima filiale
a Bologna, nel 1995 dalla seconda filiale a
Milano con l’acquisizione dell’azienda ADS e
nel 1997 dalla terza filiale a Roma. Le filiali
hanno la funzione di gestire i clienti di Aton in base all’area geografica. Gli
anni ’90 sono tecnologicamente caratterizzati dai primi impieghi del pen
computing con il riconoscimento della scrittura per applicazioni di raccolta
ordini, tentata vendita, merchandising e magazzino.
Nel 2000 si realizzano i primi Vertical Business Portal con trasmissioni a
banda larga GPRS/UMTS e Internet per informatizzare in tempo reale la
supply chain: dei punti unici di contatto che integrano applicazioni per le
attività mobili con le l’infrastruttura di information technology della sede
centrale.
Nel 2000 Aton riceve la certificazione ISO 9001/UNI EN ISO 9001 a scopo
di progettazione e sviluppo di software, commercializzazione a marchio
del produttore di prodotti hardware e loro integrazione, assistenza tecnica
di sistemi informativi.
Il 2004 è un anno di svolta: l’Aton S.r.l. infatti cambia ragione sociale e
diventa società per azioni, aumentando il capitale sociale da 98 mila euro
a 2,5 milioni di euro.
Nel 2005 Aton compie un altro importante passo nel suo progetto di
crescita acquisendo la Infos Italia Srl. di Torino, società nata nei primi anni
’80 e primo produttore europeo nel settore dei terminali portatili per la
gestione ordini. Con l’ingresso di Infos nel Gruppo, Aton acquisisce un
migliaio di nuovi clienti ed il controllo di tutti i brevetti sviluppati in oltre
vent’anni di attività. Viene quindi aperta la quarta filiale, con l’obiettivo di
gestire i clienti ubicati nel nord-ovest del Paese.
Nel primi mesi del 2006 il Gruppo Aton rafforza la propria struttura e punta
all’internazionalizzazione del business concludendo l’acquisizione del 51%
dell’azienda spagnola Altec SL, che opera dal 1998 a Madrid nel settore
55
delle gestione delle infrastrutture di Information Technology e delle
applicazioni mobili, in particolare garantendo assistenza specializzata ai
dispositivi hardware per la tentata vendita e la raccolta ordini dei clienti
Infos in Spagna.
Questa ulteriore acquisizione rafforza la presenza di Aton sul mercato
europeo del mobile computing, consentendo di esportare prodotti, servizi
ed esperienza di altissimo livello in un mercato in forte crescita.
Oggi Aton è un’azienda di medie dimensioni che conta
centocinquanta professional e più di tremilacinquecento clienti attivi, opera
in tutta Europa con business units in Italia e Spagna e partner in
Portogallo e Germania, e investe l'8% del fatturato annuo in R&D.
Fatturato che nel 2005 ammonta a dodici milioni di euro, ma con le ultime
acquisizioni (Infos e Altec) e i nuovi clienti è previsto nel 2006 un fatturato
di diciotto milioni di euro con un forte aumento del tasso di crescita che
negli ultimi cinque anni è stato del 20%. Inoltre Aton ha in programma di
continuare la crescita a livello internazionale, puntando a vasti mercati
come quello statunitense.
Tra i clienti di maggior rilievo spiccano aziende di notevoli dimensioni e
con forte brand awareness come Granarolo, Nuova Parmalat, Rana,
Sammontana, Mila, Segafredo Zanetti, Hausbrandt, Mionetto, Diesel,
Rifle, Furla, Geox, Trudi, Bassetti, Coin, Sara Lee, Api, Henkel, Fischer,
Luxottica, Banca Intesa, Banca Popolare Italiana, Credit Suisse, Deutsche
Bank, Sony Picture Italia, Haier, Daimler-Chrysler e molti altri.
3.2 L’OFFERTA ATON
Aton S.p.A. è leader in Italia nel mercato Mobile & Wireless
Computing, si occupa quindi di soluzioni informatiche e prodotti hardware
con tecnologia mobile.
56
Si rivolge a imprese e a operatori proponendosi come partner globale in
grado di fornire consulenza e servizi software ad alto valore aggiunto in
tutte le fasi di automazione della supply chain (produzione, logistica,
distribuzione).
Queste soluzioni sono nate da vent’anni di innovazione tecnologica e di
esperienza verticale nei settori dell'industria e della distribuzione
alimentare, dei beni durevoli e di largo consumo.
Aton ha stretto negli anni una solida politica di alleanze e partnerships
con i principali operatori dell’informatica mobile: Accenture, Ibm e
Microsoft (fornitura software); Fujitsu-Siemens Computer, Intermec,
Symbol e Zebra (fornitura apparecchiature e piattaforme hardware), Tre e
Vodafone (telefonia mobile e trasmissione dati).
Dal 1979 la missione è informatizzare la forza lavoro che opera in
movimento con strumenti di mobility. Con la nuova ri-organizzazione che
ha coinvolto anche la rete vendita, Aton ha suddiviso le proprie aree
d’azione in ASA, Area Strategica d’Affari ((Scott, Sebastiani, 2001): food
retail, food industry, prodotti e servizi per la persona, prodotti e servizi per
la casa, industria, oil-gas & utilities, finanza e altro. Ognuna di queste otto
ASA rappresenta una divisione aziendale, formata da un responsabile
commerciale, dai venditori, da un responsabile tecnico e da vari project
manager. L’obiettivo di queste squadre è di presidiare strettamente i
mercati verticali a loro assegnati per sviluppare il business Aton in questi
specifici settori.
3.3.1 I SERVIZI DI BASE
L’offerta Aton si divide in soluzioni ON, caratterizzate da un
approccio industriale e ad elevate economia di scala, e soluzioni AT,
caratterizzate da un approccio progettuale ad elevate economie di
esperienza e livello di personalizzazione.
57
Le soluzioni ON, che rappresentano il core business dell’azienda,
si occupano di tentata vendita, raccolta ordine e logistica di magazzino.
ONroad
La soluzione Aton per la tentata vendita è ONroad, che si rivolge alle
aziende di produzione e distribuzione alimentare e in generale a tutte le
organizzazioni la cui logistica distributiva è basata sul metodo della
tentata vendita.
ONroad utilizza: un hardware specifico per garantire l’emissione di
documenti fiscali sul campo ed aumentare le performance di vendita; un
software dipartimentale a sicurezza elevata contraddistinto da moduli
specifici per la tentata vendita nei vari settori; servizi professionali di
governo totale dell’applicazione, dalla analisi delle esigenze alla gestione
in outsourcing.
ONroad è basato su software continuamente aggiornati e sviluppati, una
scelta adeguata di tecnologie affidabili e una consulenza ad hoc.
I vantaggi di questa soluzione sono la riduzione dei costi di gestione
(TCO) e l’aumento della produttività del processo, la salvaguardia degli
investimenti pregressi negli aggiornamenti tecnologici (possibilità di up-
grade) e il miglioramento della qualità della relazione venditore-cliente
(CRM).
I prodotti hardware studiati per questo tipo di soluzione sono terminali
portatili Wi-Fi con le ultime tecnologie disponibili (schermo touch screen,
Bluetooth. GPRS-GSM), terminali portatili con stampante per
documentazione fiscale, palmari e stampanti portatili. Tutti collegati ai
server aziendali centrali.
58
ONsales
La soluzione Aton per la raccolta ordini si chiama ONsales. Questa
soluzione supporta e ottimizza i processi di acquisizione ordini ed è
rivolta alle aziende che commercializzano articoli finiti, su griglia
taglia/colore o prodotti da configurare.
ONsales utilizza: un hardware specifico fisso, trasportabile o mobile per
favorire l’inserimento dei dati in ogni situazione; un software
dipartimentale ad alta affidabilità semplice e completo per snellire tutte le
procedure di acquisizione ordini; servizi professionali di consulenza,
implementazione e mantenimento di tutto il sistema installato.
ONsales si basa sul dominio e l’integrazione di tecnologie innovative e
multi-piattaforma, su capacità di outsourcing sperimentate e sul governo
delle reti commerciali internazionali.
I vantaggi di ONsales sono l’aumento dell’efficienza e della qualità nelle
relazioni tra l’azienda e i suoi clienti, il rafforzamento di tali relazioni nel
momento e nel luogo del contatto e la riduzione della possibilità di errore
nello scambio dell’informazioni tra l’azienda e il personale in mobilità.
I prodotti hardware specifici per questa soluzione sono i palmari che
permettono l’acquisizione di dati immediatamente trasferibili ai server in
sede tramite reti Tri-band, Wi-Fi e tramite Bluetooth.
ONlog
La soluzione Aton per la logistica di magazzino è invece ONlog, un
sistema integrato rivolto alle imprese che commercializzano beni di largo
consumo e in generale a tutte le organizzazioni che hanno la necessità di
gestire la logistica di magazzino in maniera informatizzata.
ONlog utilizza: un hardware specifico di identificazione automatica
(wireless network, bar-code e RFID) per il controllo del movimento
prodotti; un software dipartimentale per il controllo dei processi legati alla
59
logistica di magazzino; servizi professionali per il supporto in tutte le fasi
di progetto, dall’analisi ambientale al mantenimento impianto.
ONlog si distingue per essere un sistema per gestire e un cruscotto per
monitorare i livelli di qualità dei magazzini, è disponibile su qualsiasi
piattaforma e si presenta all’avanguardia per quanto riguarda le
applicazioni 3W (web, wireless and warehouse identification).
I vantaggi apportati da ONlog sono: snellire e ottimizzare l’organizzazione
dei magazzini e dei trasporti; la possibilità di fruire di un servizio
interattivo dovunque e in tempo reale, riducendo e variabilizzando i costi;
sollevare il cliente dai problemi e dai rischi legati alla gestione delle
tecnologie tramite l’outsourcing.
I prodotti specifici per la gestione di magazzino tramite ONlog sono i
terminali a lettore laser di bar-code con impugnatura a pistola, terminali
palmari, computer per il fissaggio su carrelli elevatori e veicoli industriali e
stampanti termiche per l’etichettatura, anche con tag RF-ID (radio
frequency identification).
Le soluzioni AT sono prodotti integrati non standardizzati ma costruiti ad
hoc per i clienti, e riguardano la field automation, il controllo di produzione
e la gestione abbonamenti.
ATfield
La soluzione Aton per la field automation è ATfield, un insieme di prodotti
hardware e software realizzati per l’ottimizzazione delle attività di servizio
svolte dai diversi tipi di operatori sul territorio (field work automation).
Queste soluzioni sono caratterizzate da un alto livello di
personalizzazione in relazione alle specificità del lavoro svolto;
consentono la semplificazione e la guida delle attività del personale in
modo da rendere quest’ultimo più efficiente, sicuro ed ordinato nel
servizio eseguito.
60
Due esempi di realizzazione sono ATcare e ATsafe.
ATcare consente: la gestione delle attività di manutenzione degli impianti;
il controllo e la localizzazione delle flotte sul territorio, migliorando
l’efficienza del servizio offerto, smistando gli interventi direttamente da
call-center di sede; l’ottimizzazione degli approvvigionamenti dei pezzi di
ricambio controllando puntualmente le giacenze e gli interventi in
garanzia; l’efficienza nella retribuzione degli operatori e la fatturazione ai
clienti, calcolando i tempi effettivi di intervento e di manodopera.
ATsafe invece consente: la gestione delle attività di vigilanza territoriale;
l’interazione continua tra la Centrale Operativa di controllo e il personale
di ronda (guardie) attraverso i massimi livelli di sicurezza e di transito
delle informazioni e le più innovative infrastrutture di comunicazione oggi
disponibili; la registrazione, in tempo reale, delle operazioni di vigilanza e
i loro esiti, supportando e predisponendo le azioni correttive a fronte di
situazioni critiche (allarmi); il miglioramento del servizio sociale,
generando rapporti periodici a disposizione degli Enti Pubblici e dei
cittadini.
ATpro
La soluzione realizzata da Aton per il controllo di produzione si chiama
ATpro, un insieme di soluzioni applicative modulari che permettono la
pianificazione, il monitoraggio e la gestione dei processi di produzione.
ATpro permette: l’implementazione dell’avanzamento della commessa
dal lancio di produzione fino alla sua evasione; l’identificazione del pallet
e delle confezioni tramite sistemi di “stampa e applica”, permettendo il
versamento automatico nel magazzino gestito da ONlog; l’automazione
del processo di controllo della qualità, attraverso il rilevamento elettronico
dei parametri.
61
ATfinance
La soluzione Aton per la gestione degli abbonamenti è ATfinance, e si
basa su un software gestionale sviluppato esclusivamente per le
esigenze di questo servizio e sull’utilizzo di Internet come veicolo di
transazione dei dati.
ATfinance consente di: garantire agli utenti il ricevimento delle testate
nelle modalità stabilite ottimizzando la gestione degli abbonamenti interni,
riducendo tempi e costi per l’azienda; sollevare l’azienda dai problemi
legati al monitoraggio degli abbonamenti, ottimizzando tempi e costi
interni (outsourcing); snellire le procedure amministrative (gestione dei
budget, verifica delle fatture, ripartizione sui singoli Centri di Costo).
ATfinance è rivolto ad aziende di medie e grandi dimensioni, istituti
bancari ed assicurativi, Enti statali e parastatali e in generale tutte le
organizzazioni che si caratterizzano per un numero elevato di destinatari
di periodici e un numero elevato di testate d’interesse interno.
3.3.2 ALTRI SERVIZI
Aton accompagna il cliente garantendo consulenza strategica e supporto
tecnico lungo tutto il ciclo di vita delle soluzioni e dei prodotti offerti,
offrendo consulenza, un servizio di Help Desk, l’ASP, il noleggio
operativo, il supporto tecnico e il Service Level Management (SLA).
I servizi di consulenza e start-up sono stati studiati per assistere i clienti
dalle prime fasi di analisi concettuale di un progetto alla stesura dei
requisiti funzionali, allo sviluppo del progetto, fino alla consegna e
all'acquisizione finale completa delle relative competenze.
Grazie ai servizi di consulenza e start-up Aton è in grado di fornire
supporto formativo per diversi tipi di esigenze che possono essere
62
presenti nelle diverse strutture organizzative, al fine di migliorarne
l'efficienza dei processi legati alla supply chain.
L’analisi e la consulenza comprendono: sviluppo e manutenzione
software, stesura della documentazione, supporto per l’interfacciamento
dei dati al gestionale/Erp (enterprise resource planning), analisi
ambientale per la radiofrequenza, installazione e formazione al personale
utente e analisi dei costi/benefici nell’implementazione di procedure di
Application Management.
Il servizio di Help Desk garantisce assistenza telefonica, tele-assistenza e
formazione tecnica on-site in sette lingue: italiano, inglese, francese,
tedesco, spagnolo, portoghese, greco, e in diciannove nazioni in tutto il
mondo (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran
Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Norvegia, Olanda, Portogallo, Repubblica
Ceca, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera e Sudafrica).
All’Help Desk si affiancano i servizi di: gestione del parco macchine con
invio immediato di unità sostitutive; reporting strutturato per consentire una
chiara e precisa “fotografia” di tutto ciò che si sta verificando
nell’applicazione sottoposta a tale controllo.
L’ASP (Application Service Providing) consente di erogare da un server
interno servizi in outsourcing degli applicativi lato server evitando al cliente
i costi delle licenze, dell'acquisto, della gestione, dell'aggiornamento delle
componenti hardware e software. Il servizio viene fornito via web
garantendo i massimi livelli di affidabilità e sicurezza.
Il noleggio operativo consiste nell'outsourcing completo dell'hardware e
del software. Il cliente utilizza i prodotti presso la propria sede senza
acquistarli direttamente, ma corrispondendo un canone periodico di affitto.
Con questo servizio si garantisce inoltre al cliente l'assistenza sul parco
macchine installato e l'aggiornamento tecnologico continuo.
63
I servizi di assistenza tecnica offerti sono strutturati su diversi livelli per
corrispondere al meglio alle esigenze specifiche di ogni azienda.
L’assistenza via e-mail prevede la presa in carico immediata di ogni
richiesta e la relativa risposta direttamente via e-mail. L'accesso è gratuito
e rappresenta la soluzione ideale per i clienti che non hanno bisogno di un
servizio di assistenza continuativo. Il servizio di Assistenza pre-pagata a
scalare è disponibile in tagli da 5-10-20 ore di assistenza, comprensivi del
servizio di Linea Verde. È la soluzione proposta ai clienti che desiderano
un servizio di assistenza di tipo spot, quindi un rapporto non ricorrente ma
che mantiene per ogni evenienza un filo diretto con il reparto tecnico in
sede.
Il Contratto di Assistenza invece assicura la gestione centralizzata
dell'assistenza, con la copertura di manodopera e parti di ricambio e
risposta immediata da parte del tecnico di riferimento. È la soluzione
proposta ai clienti che desiderano un servizio continuativo.
In aggiunta sono previste numerose opzioni per configurare il servizio
secondo le proprie necessità, quali ad esempio la sostituzione rapida, la
gestione del parco on-line, il Service Level Agreement e il monitoring delle
riparazioni via web.
Il Service Level Management consente di monitorare il livello di
prestazione dei servizi erogati, concordando azioni correttive attraverso
incontri periodici con il cliente. Questo servizio assicura il rispetto dei livelli
di servizio pattuiti con il cliente, il quale corrisponde tariffe proporzionali
alle performance effettivamente raggiunte. Il servizio è regolato in modo
trasparente e collaborativo tramite il Service Level Agreement (SLA) e
l'Operational Level Agreement (OLA) che descrivono tutti i prerequisiti per
l'erogazione dei servizi e definiscono le regole per entrambe le parti,
l'ambito di applicazione e di organizzazione.
64
3.3 L’ORGANIZZAZIONE AZIENDALE
L’organigramma rappresentato in figura n. 2 riassume la struttura
dell’azienda dal punto di vista formale, ma non dal punto di vista del
funzionamento dell’organizzazione.
L’azienda vede al vertice una direzione formata dal Presidente Giorgio De
Nardi e dall’Amministratore Delegato Alberto De Nardi. Direttamente
collegate alla direzione sono le aree Amministrazione, Organizzazione e
Logistica. L’area commerciale è suddivisa in ASA (Area Strategica
d’Affari) ed è formata dagli agenti di vendita, l’area Marketing si occupa
della comunicazione interna ed esterna. Le aree Product & Project
Management, Produzione Hardware e Sviluppo Software si occupano
dello sviluppo delle soluzioni e prodotti che Aton propone ai propri clienti.
L’area Services riguarda tutti i servizi di assistenza al cliente.
Al Consiglio di Amministrazione prendono parte tutti i responsabili
(soprannominati GX) delle varie aree.
Figura n. 2: L’organigramma aziendale (rielaborazione da fonti interne)
DIREZIONE
AMMINISTRAZIONE(CONTABILITA’,
FINANZA, RECEPTION)
ORGANIZZAZIONE(QUALITA’,SISTEMI
INFORMATIVI,ACQUISTI)
LOGISTICA
COMMERCIALE MARKETINGPRODUCT & PROJECT MANAGEMENT ONROAD ONSALES
PRODUCT & PROJECT MANAGEMENT ONLOG
Help desk e presidio
Tecnici hardware
SERVICESSVILUPPO SOFTWARE
RESPONSABILE PRODUZIONE HARDWARE
ASA Prodotti per la casa
ASA Idrocarburi
ASA Food Industry
ASA ICT
ASA Finanza
ASA Food Retail
Key Account
ASA Prodotti per la
persona
Tecnici avv. progetti e assistenza
DIREZIONE
AMMINISTRAZIONE(CONTABILITA’,
FINANZA, RECEPTION)
ORGANIZZAZIONE(QUALITA’,SISTEMI
INFORMATIVI,ACQUISTI)
LOGISTICA
COMMERCIALE MARKETINGPRODUCT & PROJECT MANAGEMENT ONROAD ONSALES
PRODUCT & PROJECT MANAGEMENT ONLOG
Help desk e presidio
Tecnici hardware
SERVICESSVILUPPO SOFTWARE
RESPONSABILE PRODUZIONE HARDWARE
ASA Prodotti per la casa
ASA Idrocarburi
ASA Food Industry
ASA ICT
ASA Finanza
ASA Food Retail
Key Account
ASA Prodotti per la
persona
Tecnici avv. progetti e assistenza
65
La struttura delle attività aziendali si sviluppa invece secondo un
modello organizzativo basato sui processi e sulle competenze (figura n.
2), sulla base del work flow, in cui le fasi di richiesta, negoziazione,
erogazione e feedback di ogni commessa coinvolgono l’intera azienda.
Aton è infatti una professional organization, forma organizzativa descritta
nel primo capitolo di questo lavoro.
Si è passati quindi dalla singola mansione alla visione collettiva dei
processi, con minori controlli formali e maggiore responsabilizzazione che
incrementano l’attitudine al team working interfunzionale. Il cliente, al
centro del work flow, orienta tutte le azioni.
Nella prima fase, la richiesta, avviene il primo contatto con il potenziale
cliente, in cui l’account manager analizza le esigenze e illustra la
soluzione Aton appropriata e i vantaggi che essa apporta.
Nella fase di negoziazione viene fatta l’analisi in dettaglio del progetto da
avviare, viene presentata l’offerta definitiva, vengono discussi i dettagli del
contratto ed acquisito l’ordine.
Nella fase di erogazione viene creato il team ed avviato il progetto, viene
implementata, installata e collaudata la soluzione ed erogate l’assistenza
e la formazione per l’avviamento.
Nell’ultima fase vengono raccolti i feedback sulla soddisfazione riguardo ai
servizi e prodotti forniti. Il rapporto con il cliente non si esaurisce qui, ma
continua nel tempo con l’assistenza hardware e software, la risoluzione di
problemi, l’avviamento di progetti supplementari, la realizzazione di
interviste e la costruzione di case studies, la fornitura di materiale di
consumo (etichette, carta per stampa).
66
Figura n. 3: Il modello organizzativo basato sul work flow (da fonti interne)
3.4 MISSION, VALORI GUIDA, VISION E POLITICA PER LA
QUALITA’
3.4.1 MISSION
Il primo passo del processo di change management avviato da Aton
è stata la definizione della mission aziendale attraverso l’analisi
situazionale realizzata dal board direttivo con il supporto della consulenza:
sono stati studiati storia dell’azienda, precedente mission, necessità
evolutive, traguardi a breve, medio e lungo termine. Obiettivo principale è
stato quello di sintetizzare il processo di evoluzione di Aton per fornire una
67
visione corretta della sua realtà odierna e di disegnare un coerente
impegno futuro e il percorso di sviluppo.
La precedente mission (1998) recitava: “Il nostro habitat naturale si
chiama Web, mobile computing e identificazione automatica. Siamo
orgogliosi di disporre del know-how che non si limita a realizzare
pienamente un bisogno, ma anticipa i vostri desideri. Una guida sicura e
un servizio davvero collaudato”.
Nel corso dell’analisi è emersa la necessità di aggiornare la mission,
incentrata sul know-how e sulle tecnologie al servizio dei clienti,
invertendo il rapporto: soggetti principali sono il cliente e il nuovo
approccio di consulenza e partnership, gli strumenti sono le competenze
tecnologiche. L’unico riferimento ai prodotti è la menzione alle tecnologie
digitali mobili per indicare il posizionamento di mercato.
La mission di Aton, espressa dal suo top management, è così
diventata: “ Vogliamo essere il miglior partner dei nostri clienti, aiutandoli a
innovare i loro processi di business, sfruttando la nostra esperienza
specifica e tutte le opportunità offerte dalla nuove tecnologie digitali.
Crediamo nella responsabilità sociale delle imprese e vogliamo continuare
a crescere dando sempre più importanza alle persone, alla cultura,
all’ambiente, alla qualità del lavoro e della vita”.
3.4.2 IL METODO VALORE: APPLICAZIONE IN UNA MEDIA AZIENDA
Aton ha avuto fin dalla sua costituzione una forte attenzione verso
le persone e verso l’ambiente, consolidandosi come una vera e propria
comunità. Via via che le sue dimensioni sono cresciute e il suo successo
sul mercato si è consolidato, il vertice imprenditoriale ha maturato la
volontà di trasformare la “vocazione etica di Aton in una modalità
gestionale consolidata da attuare grazie a metodi già sperimentati e in
grado di valorizzare al meglio la naturale cultura aziendale” (De Nardi,
68
2005). Dunque trasformare i valori guida da pratica spontanea a
riferimento principe nel patto azienda/collaboratori, anche a fini operativi.
La svolta nel processo evolutivo di Aton è stata innescata
dall’esigenza di aumentare la redditività aziendale, messa in crisi dal fatto
che l’hardware è sempre più una commodity con bassi margini.
Il riferimento del processo di cambiamento aziendale è stato il Metodo
Valore, per la prima volta applicato in una media impresa, evidenziando la
sua flessibilità.
Il Metodo Valore è un programma modulare di interventi di comunicazione,
di formazione e di gestione che mira a focalizzare il management e a
coinvolgere tutti i collaboratori nei processi di cambiamento, in particolare
quelli di tipo culturale e valoriale (Invernizzi, 2000). L’acronimo significa:
“Valori e Azioni al fine di Liberare e Orientare Rapidamente tutte le
Energie”. Un’organizzazione ha a sua disposizione tutte le energie
necessarie per realizzare i processi di sviluppo e il Metodo Valore ha lo
scopo di attivarle e metterle in gioco per raggiungere gli obiettivi definiti dal
top management.
Il Metodo Valore si basa sulla convinzione che l’efficacia della
comunicazione nelle organizzazioni a rete e basate sulla conoscenza
dipenda in misura crescente dalla coerenza di tutta la comunicazione con
l’identità dell’organizzazione (ibidem). E come sostiene Invernizzi è
dunque indispensabile costituire un sistema organizzativo fortemente
coeso attorno ad un’unica identità distintiva dell’organizzazione.
Quest’ultima infatti è in grado di assicurare quella coerenza di fondo tra
tutte le iniziative di comunicazione in grado di suscitare fra le stesse
sinergie (ibidem).
I processi di cambiamento strategici, guidati dal top management, sono il
mezzo con cui sviluppare e consolidare una cultura e un’identità aziendale
con caratteristiche precise e con un alto grado di condivisione interno.
Il Metodo Valore ha anche importanti effetti all’esterno dell’organizzazione:
dopo il rafforzamento dell’identità organizzativa all’interno sarà possibile
69
attivare iniziative di comunicazione rivolte agli stakeholder esterni, e
all’attuazione di comportamenti etici e coerenti nel tempo, con lo scopo di
contribuire al consolidamento di una buona reputazione aziendale.
Il Metodo Valore è composto da sette fasi, o moduli: definizione dei valori
guida, workshop con il top management, indagine di clima, convention con
tutti i manager, piano di comunicazione e formazione, comunicazione a
cascata a tutte le persone, attuazione di interventi gestionali coerenti e
audit e monitoraggio (Invernizzi, 2000).
1. Nella prima fase il general manager rende noti i valori guida che
rappresenteranno il punto di riferimento per tutte le azioni dei manager e
dei dipendenti. I valori guida vengono individuati attraverso interviste in
profondità al general management. Per essere significativi è fondamentale
che vengano espressi in modo sintetico, chiaro e con linguaggio
evocativo. L’output di questa prima fase è la bozza della carta dei valori.
2. Il workshop con il top management ha due obiettivi: in primo luogo
coinvolgerli sui valori dichiarati dal general management chiedendo loro
un contributo per renderli più precisi. In secondo luogo individuare le
azioni operative che possano rendere operativi i valori condivisi
nell’ambito specifico di responsabilità di ciascun manager. Poi ogni
manager si impegnerà a realizzare nella sua area di competenza una o
più azioni che rendano operativi i valori guida strategici.
3. La terza fase, l’indagine di clima interno, serve ad individuare la cultura
organizzativa diffusa tra i diversi gruppi di collaboratori al fine di
individuare le corrette azioni di comunicazione, gestione e formazione
necessarie a diffondere e consolidare la cultura strategica coerente con i
nuovi valori individuati dal management. Questa fase viene effettuata con
metodi di ascolto qualitativi e quantitativi per rilevare i valori culturali
prevalenti, le valutazioni dei collaboratori sull’azione del management e il
livello di soddisfazione per gli aspetti organizzativi, per la gestione delle
risorse umane e per la qualità delle relazioni interne.
70
4. La convention con tutti i manager ha come fine quello di comunicare i
nuovi valori e le azioni gestionali attraverso le quali verranno resi operativi:
è importante che sia progettata in modo da facilitare partecipazione e
innescare il processo di cambiamento. Il top management dovrà rendere
esplicito il proprio impegno a realizzare il cambiamento auspicato e
spronerà tutti i manager a dare il proprio contributo.
5. La redazione del piano di comunicazione e formazione prevede
l’individuazione, la progettazione e pianificazione delle iniziative e degli
strumenti di comunicazione e di formazione opportuni per diffondere la
conoscenza dei valori guida e per attivare gli sforzi di tutti i collaboratori
per mettere in atto tali valori. La formulazione del piano di comunicazione
e formazione prende le mosse dalla esplicitazione della Value Proposition.
Quest’ultimo precisa i benefici che i valori guida danno ai dipendenti e agli
stakeholder esterni, rendendo noto che cosa l’azienda si impegna a fare
per metterli in pratica e chiarendo che cosa l’azienda si aspetta da parte
dei collaboratori e come ne premierà i comportamenti coerenti con i valori.
6. La comunicazione a cascata ha l’obiettivo di rendere partecipi tutti i
collaboratori al cambiamento. Si tratta di uno strumento ingegnerizzato di
comunicazione capo-collaboratore che inizia al vertice della gerarchia
aziendale e scende con una serie di incontri ravvicinati nel tempo in cui
ciascun manager condivide il messaggio con i suoi diretti collaboratori.
7. La settima e penultima fase del Metodo Valore riguarda la messa in
atto di interventi gestionali coerenti: si tratta di applicare i valori guida ai
singoli processi produttivi e gestionali. Questa fase rappresenta
l’esplicitazione degli impegni presi dal top management durante il
workshop e assicura la coerenza fra la pratica gestionale e i valori
dichiarati. E’ importante sottolineare che tutti gli atti gestionali hanno una
componente comunicazionale, in quanto confermano che i valori sono in
corso di attuazione. In tale modo questa fase rende il Metodo Valore
permanente, assicurando con ogni azione la continuità del processo di
71
miglioramento e di sviluppo dei sistemi gestionali per implementare i valori
guida.
8. L’audit e monitoraggio non deve essere interpretato come la fase finale
del Metodo Valore, bensì il suo centro. Infatti in ciascuna delle sette fasi si
possono e devono attivare iniziative di ascolto e di monitoraggio
qualitative o quantitative. E’ chiaro che il terzo modulo, l’indagine di clima,
è esso stesso un’attività di ascolto di tipo quantitativo, ma ogni fase deve
prevedere una fase di ascolto per verificare il corretto funzionamento del
processo.
Il Metodo Valore è uno strumento estremamente flessibile e deve essere
adattato a ciascuna situazione specifica.
Nel caso Aton, per esempio, si riscontrano quasi tutte le fasi descritte,
anche se non sono state attuate in maniera standard.
Il Metodo Valore in Aton è stato realizzato in quattro fasi (Mazzei, 2006)
1. La definizione dei valori guida ha avuto come base di partenza la
mission di diventare partner dei clienti e di crescere dando sempre più
importanza alle persone, alla cultura, all’ambiente, alla qualità del lavoro e
della vita.
I valori guida, punto di riferimento per la gestione, per la comunicazione e
per i comportamenti, sono stati individuati stimolando la creatività del
gruppo dirigente attraverso il brainstorming. Il top management ha poi
scelto e validato assieme ai manager i cinque valori da prendere come
riferimento: passione, fiducia, innovazione, tempo, relazioni. I valori scelti
sono stati poi descritti, in un lavoro che ha coinvolto tutti i manager di
Aton, in maniera particolareggiata. Momento fondamentale è stata la
definizione dei termini del patto tra l’azienda e le persone che la formano:
come vedremo in seguito, questo patto specifica, per ciascun valore, in
che modo Aton si impegna a rendere attivi ed operativi i suoi valori e cosa
si aspetta in cambio dalle persone. Un messaggio forte che indica i
72
manager come primi ambasciatori del cambiamento e della attuazione dei
valori nella gestione aziendale.
2. La seconda fase riguarda l’individuazione di specifiche modalità di
applicazione del valori nei sistemi gestionali e nei processi di lavoro.
Questa fase è stata resa operativa da tre azioni: in primo luogo Aton ha
scelto di ridefinire il proprio sistema d’offerta in modo più consono alle
aspettative dei clienti, spostando l’attenzione generale verso la qualità
dell’offerta. E’ stata poi riorganizzata la Direzione Marketing e
Commerciale secondo un modello basato sulle competenze, con un forte
riferimento ai valori guida. Infine Aton ha deciso di adottare, come
abbiamo visto, un modello organizzativo basato sui processi e sulle
competenze per attuare tutti i valori definiti ed essere più vicina alle
esigenze dei clienti.
3. La terza fase, la redazione del piano di comunicazione, è stata avviata
con la stampa e consegna della carta dei valori a tutti i dipendenti e ai neo
assunti al loro ingresso in azienda. È stata anche inviata ai principali clienti
e fornitori, pubblicata sul sito aziendale e sul portale interno, messa a
disposizione nella sale di attesa dell’azienda affinché tutti i visitatori
potessero prenderla, e poi realizzata sotto forma di quadri appesi negli
uffici dei manager. È stata inoltre progettata ed attuata un’attività di
comunicazione mirata a rafforzare le relazioni con tutti gli stakeholder
attraverso la costruzione di case histories su esperienze di servizio di
successo volte a rassicurare i nuovi potenziali clienti e a condividere know
how all’interno dell’azienda. Questa parte rappresenta il cuore di questa
tesi e sarà approfondita in seguito.
Sono state poi attivate relazioni con i media, campagne di co-branding con
i partner, attività nel sociale e la pubblicazione del bilancio sociale (in fase
di realizzazione). Infine sono stati organizzati dei momenti in comune di
vita extra-professionale, che verranno approfonditi in un paragrafo a parte.
4. L’ultima fase, la realizzazione di attività di ascolto, è stata portata a
termine attraverso la somministrazione di una survey di customer care ad
73
un campione di clienti, con lo scopo di rendere noto il loro grado di
soddisfazione. L’ascolto all’interno è stato strutturato attraverso sondaggi
e attività di analisi del clima aziendale. E’ comunque stato facilitato dalle
dimensioni ridotte di Aton, che permettono l’ascolto interpersonale tramite
anche le sole relazioni con i collaboratori, sufficienti a rilevare sia i valori
diffusi che l’interiorizzazione di quelli nuovi.
Il presidente De Nardi indica tra i risultati di questo processo di
focalizzazione dei valori una maggiore stabilità dei rapporti di lavoro, un
migliore recruitment, la riduzione delle incomprensioni nei processi di
comunicazione interna, un passaparola positivo tra clienti attuali e nuovi, il
rafforzamento delle relazioni con i clienti. “Aton ha cambiato marcia, clienti
e progetti sempre più importanti sono guidati meglio sotto tutti i punti di
vista” (De Nardi, 2005).
3.4.3 LA CARTA DEI VALORI DI ATON
Rispettando le regole del brainstorming, ogni collaboratore è stato
messo nella condizione di poter esprimere la sua opinione nella massima
libertà, e ogni aspetto emerso durante la riunione è stato trascritto
fedelmente in uno specifico documento. La prima bozza dei valori guida è
emersa dall’analisi dei tratti distintivi che hanno consentito il successo di
Aton (De Nardi, 2005).
Il passaggio successivo è stata la selezione, da parte del board direttivo,
dei cinque elementi più rappresentativi, che sono stati poi scelti e validati,
e che di seguito vengono riportati (tratti dal materiale e dalle
documentazioni della Direzione Marketing Aton)
Passione, dà l'energia e il coraggio di andare oltre e superare gli ostacoli.
“Abbiamo una grande passione per il nostro lavoro: amiamo le cose ben
fatte e lavoriamo con entusiasmo per realizzarle, cercando sempre di
andare oltre, con l'obiettivo di superare le attese dei nostri clienti”.
74
Cosa fa Aton: la proprietà reinveste gli utili in azienda per consentire il suo
massimo sviluppo; s'impegna a considerare i suoi dipendenti come vuole
che loro considerino i clienti.
Cosa si aspetta: che le persone, pur mantenendo la propria individualità,
si considerino Aton al 100% facendo propri missione, valori ed obiettivi
aziendali; che tutti trasmettano nel loro lavoro impegno, energie e talento,
al fine di ottenere nel contempo la realizzazione propria, dei clienti e di
Aton.
Fiducia, ogni giorno rinnovata, responsabilizza.
“Per noi è importante la fiducia creata e coltivata attraverso la trasparenza
e la correttezza nei rapporti, il rigoroso rispetto delle persone e l'affidabilità
nel mantenere gli impegni che ci assumiamo”.
Cosa fa Aton: rende noti i propri dati comunicando il fatturato mensile,
presentando il pannello di controllo trimestrale e organizzando almeno una
convention l'anno sull'andamento dell'azienda; vuole assumersi
responsabilmente gli impegni nella massima chiarezza e affidabilità,
anche attraverso il sistema qualità (ISO9001).
Cosa si aspetta: che le persone sappiano agire con responsabilità,
prodigandosi per superare gli ostacoli e conseguire gli obiettivi assegnati;
che le persone sappiano agire in modo tale da conquistare e mantenere la
fiducia dei loro clienti, sia interni che esterni.
Innovazione, nata dall'esperienza consolidata sul campo, è il differenziale
competitivo.
“Ciascuno di noi può e deve essere imprenditivo nel suo ambito di attività
e di responsabilità, proponendo innovazioni e mettendo in atto
miglioramenti continui, sviluppando e utilizzando tutta la propria creatività”.
Cosa fa Aton: formazione diretta allo sviluppo dell'imprenditività e
dell'empowerment delle persone; apprezza e incoraggia le persone che
osano al fine di ottenere migliori risultati.
75
Cosa si aspetta: impegno quotidiano a sperimentare idee nuove e
migliorative uscendo dagli schemi dei comportamenti abituali; desiderio di
partecipare allo sviluppo di Aton con proprie osservazioni e idee,
alimentate da interesse e curiosità nei confronti del mondo esterno.
Tempo, come velocità di realizzazione e rapido time to market delle nuove
tecnologie, è l'elemento chiave per ottenere la piena soddisfazione dei
clienti.
“Vogliamo continuare ad anticipare oggi quello che gli altri faranno
domani. Una grande considerazione del tempo ci spinge a essere sempre
più efficaci, flessibili, rapidi e puntuali, per ottenere la piena soddisfazione
dei nostri clienti”.
Cosa fa Aton: riconosce premi produttività alle persone che raggiungono e
superano gli obiettivi dei tempi di risposta nei servizi ai clienti;
aggiornamento costante delle competenze delle persone, considerandolo
il migliore investimento per far risparmiare tempo e denaro ai clienti.
Cosa si aspetta: che sia ben radicata in tutti la coscienza del valore del
tempo: programmazione, puntualità e concentrazione, seguendo i princìpi
del time management; la consapevolezza che i tempi di finalizzazione
sono uno dei principali fattori competitivi di successo.
Relazioni, fondate sull'ascolto e sul rispetto reciproco, mettono al centro le
persone e il lavoro di squadra.
“La nostra attività, fondata sul lavoro di squadra e sulla partnership coi
nostri clienti e fornitori, vuole stimolare la cooperazione e consolidare
rapporti di fiducia, anche con lo sviluppo della comunicazione e delle
relazioni interpersonali”.
Cosa fa Aton: formazione continua per lo sviluppo delle capacità
individuali di comunicazione interpersonale e per il miglioramento delle
relazioni; eventi aziendali; iniziative sportive e culturali, per passare del
tempo tutti insieme, lontano dagli uffici, anche con i familiari.
76
Cosa si aspetta: che le persone insistano sempre sul dialogo
collaborativo, cercando di comunicare e relazionarsi con apertura mentale
e disponibilità; che le persone si propongano di raggiungere i propri
obiettivi professionali in uno spirito di collaborazione con colleghi, clienti
e fornitori.
Questo processo di re-ingegnerizzazione della struttura di Aton ha
avuto come obiettivo porre i valori guida come colonne del cambiamento e
indirizzo per lo sviluppo del differenziale competitivo.
All’interno dell’azienda i valori sono dei riferimenti che orientano e
motivano le persone, e sono utilizzabili a fini gestionali e di incentivazione.
All’esterno consentono di migliorare la competitività e favoriscono la
costruzione di una salda e coerente reputazione.
3.4.4 VISION
Se la mission è diventare un vero e proprio partner per i clienti, non
semplicemente un fornitore ma l’unico interlocutore per quanto riguarda
l’informatizzazione delle attività e della loro gestione, la vision è
rappresentata dal Vertical Business Portal: il One Contact Point. Un
portale per il supply chain management che permette la centralizzazione
ed uniformità dei dati, lo snellimento dell’infrastruttura IT, il monitoraggio e
controllo in real-time, e che diventa un vero e proprio supporto strategico
alle decisioni.
Aton quindi si propone e si vede in futuro come unico punto di contatto,
come partner scelto per la gestione integrata delle attività di logistica
produttiva, distributiva e di magazzino, gestione flotte ed attrezzature, SFA
(Sales Force Automation, automazione della forza di vendita), attività di
reporting e feedback e total data quality management.
77
3.4.5 POLITICA PER LA QUALITA’
Di seguito viene riportato il Manifesto della Politica per la Qualità di
Aton.
L’obiettivo che la nostra Azienda intende perseguire e garantire nel
tempo è la sempre maggiore soddisfazione del cliente nei confronti dei
prodotti e dei servizi che gli vengono resi, verso l’eccellenza.
Al fine di raggiungere tale obiettivo, l’Azienda si impone di migliorare
continuamente prodotti, servizi ed organizzazione, mirando alla loro
completa integrazione, nell’ottica di fornire a ciascun cliente la soluzione e
il servizio ideale per le sue specifiche esigenze.
Per raggiungere la massima soddisfazione del cliente, l’Azienda opera
affinché la qualità venga percepita e pienamente apprezzata dalla
clientela, evitando, ad esempio, di promettere cose che non possono
essere garantite.
Il vero traguardo aziendale è il superamento, e non solo il raggiungimento,
delle aspettative del cliente, essendo la qualità non un parametro
assoluto, ma un parametro strettamente legato alla percezione di ciascun
cliente.
A tal fine l’Azienda si fa carico di coinvolgere e affiancare il cliente anche
sugli aspetti non strettamente di propria competenza, ma comunque
correlati all’efficacia delle soluzioni proposte, quali ad es. infrastrutture,
software-house, ecc.
Questo processo si fonda sulla realizzazione dei seguenti punti.
1. Il coinvolgimento più ampio e la partecipazione di tutti i dipendenti e
collaboratori è prerequisito fondamentale per il continuo miglioramento dei
prodotti e dei servizi.
78
2. Seguire le attività previste dal Sistema Gestione Qualità è di
fondamentale importanza per realizzare efficacemente tale coinvolgimento
e concorrere tutti al miglioramento dei prodotti e dei servizi.
3. Nell'ambito di queste attività, come in qualsiasi momento lavorativo,
saranno favorite idee e proposte migliorative avanzate dai dipendenti.
4. Ogni Responsabile ha il compito di coordinare i propri collaboratori,
indirizzandoli verso il miglioramento continuo e la generazione di nuovi
spunti qualitativi, attraverso l'utilizzo dei valori guida.
5. Qualità significa un’esperienza positiva per il cliente, cioè far bene e in
tempo le cose giuste sin dalla prima volta. Ciò comporta un maggiore
impegno iniziale, ma una riduzione delle correzioni nei tempi successivi.
6. Ciascun dipendente è inserito in un rapporto di Team all'interno
dell'Azienda. Come "Cliente" deve cooperare a migliorare il servizio del
proprio "Fornitore", (cioè di colui al quale e’ stata richiesta una certa
attività); come "Fornitore" deve fornire il miglior servizio possibile al proprio
"Cliente", determinando la sua soddisfazione.
7. La Direzione, a partire dalle esigenze dei clienti e da quelle del mercato,
definisce annualmente gli Obiettivi del Sistema Qualità. Ciascun
Responsabile di Reparto deve, sulla base di quanto indicato dalla
Direzione, sviluppare i propri Obiettivi di Qualità.
8. Tali Obiettivi costituiscono un elemento di priorità, sia per la Direzione
sia per tutti i Responsabili, che assicurano quindi un impegno personale
costante rivolto al loro raggiungimento.
9. I nostri fornitori devono essere coinvolti nel programma di
miglioramento. Essi costituiscono infatti un importante anello della nostra
catena produttiva.
10. Il successo dell'Azienda richiede il miglioramento professionale e
culturale delle singole Risorse a tutti i livelli. Deve essere pertanto prevista
l'individuazione di un preciso e coerente Piano di Formazione volto
all'effettiva crescita dei collaboratori (documentazione interna Politica per
la Qualità Aton, 2004).
79
3.5 LA COMUNITA’ ATON E IL CLIMA AZIENDALE
Se la prima parte della missione di Aton riguarda il diventare
partner dei propri clienti, la seconda si sofferma su un aspetto molto
importante ma spesso trascurato nelle aziende: il capitale umano, riferito
allo spirito di collaborazione per raggiungere gli obiettivi aziendali e alla
qualità del lavoro e della vita.
Aton è fatta di persone che hanno una grande passione per il loro lavoro
ma anche per la vita, lo stare insieme e il divertimento sano e
responsabile.
Fin dalla sua nascita, in Aton è sempre stata fortissima la tendenza alla
costruzione di una vera e propria “comunità”: un sentimento di coesione
che porta a collaborare per il raggiungimento di tutti gli obiettivi, non solo
aziendali ma anche personali, attraverso un clima lavorativo informale,
collaborativo e disteso.
Viene incentivato infatti il rapporto diretto e il confronto tra collaboratori, e
tra collaboratori e GX (denominazione scelta per i manager, nata dall’idea
del G8, il gruppo dei paesi più grandi e potenti della Terra). Grazie anche
al fatto che l’azienda opera per cliente/progetto, tutti in Aton hanno il
proprio ruolo, che è fondamentale al fine del successo e della
soddisfazione del cliente. Questo porta ad una continua interazione e
scambio di informazioni tra tutti i collaboratori, e tra questi e i GX.
Numerose sono infatti le riunioni di aggiornamento o di discussione
riguardo ai vari aspetti dei progetti: così continuo è lo scambio di
informazioni e comunicazione tra i GX e i professionals. Ciò permette di
rimanere sempre focalizzati ed allineati sugli obiettivi da raggiungere, e
consente anche di gestire in maniera veloce e meno problematica i
cambiamenti. La suddivisione dei ruoli, la responsabilizzazione e la fiducia
nei collaboratori permette di instaurare un clima interno disteso, nel quale
ognuno conosce i propri compiti e gli obiettivi che deve raggiungere,
80
senza il bisogno di formalizzazione e standardizzazione dei
comportamenti.
La responsabilizzazione permette ad ognuno di essere autonomo nel
proprio ruolo e conoscere bene i compiti da svolgere: ciò permette di
gestire liberamente il tempo e di potersi concedere momenti di pausa in
zone appositamente predisposte (le sale caffé). Altro momento di
coesione e svago è la pausa pranzo: non c’è una mensa aziendale, ma i
dipendenti si organizzano a gruppi per mangiare assieme e creare un
momento di condivisione extra-lavorativa.
Forte è lo spirito di creatività nel promuovere la coesione di gruppo anche
al di fuori dell’ambiente di lavoro tramite l’organizzazione di eventi interni,
eventi di sensibilizzazione sociale, attività varie, momenti di ritrovo, a cui
vengono invitati oltre ai collaboratori anche i loro familiari.
Gli eventi interni che periodicamente vengono organizzati sono
ONsummer e NatalON. Un evento di sensibilizzazione sociale è stato
SpiaggiON, altre attività sono ONart e AtonCup.
ONsummer è la festa estiva di Aton, organizzata prima delle ferie: tutti i
GX, collaboratori e familiari sono invitati a questo evento che viene
realizzato in una struttura munita di piscine e spazi per mangiare e ballare
all’esterno. È un evento a tema in cui vengono organizzate grigliate, giochi
in acqua, serate danzanti, discoteca. Una delle tematizzazioni utilizzate è
stato il Brasile: un gruppo di ballerine e ballerini brasiliani sono stati invitati
ad animare la serata e ad esibirsi in balli tipici come la capoeira, la samba
e la salsa.
NatalON invece è la festa natalizia: ogni anno organizzata in un locale
diverso e con tematizzazioni e ambientazioni sempre nuove ed originali, è
l’occasione per passare del tempo assieme scambiandosi auguri e doni.
La serata comincia con aperitivo e cena e prosegue poi con canti e balli.
Ma gli eventi Aton sono anche sportivi. AtonCup è il torneo di calcio a
cinque inventato ed organizzato interamente da Aton durante il periodo
81
estivo. Vengono invitate a parteciparvi le rappresentanze delle aziende di
informatica della provincia di Treviso e dintorni. L’evento, corredato da
cene e serate, ha ogni anno un enorme successo. Ne sono la prova la
crescita del numero degli invitati e gli articoli di giornale pubblicati nei
quotidiani locali.
Aton ha sempre avuto una vocazione etica anche per quanto riguarda la
salvaguardia dell’ambiente. Un’interessante iniziativa ecologica,
organizzata da Aton in collaborazione con l’Ufficio comunale di Eraclea e
col presidio della Protezione Civile, ed aperta a chiunque volesse
partecipare (non solo a GX, dipendenti e familiari) è stata SpiaggiON.
L’azienda ha infatti deciso di passare una giornata a ripulire dai rifiuti la
zona della Laguna del Mort, con l’obiettivo di tradurre in un’azione
simbolica ma concreta i princìpi di responsabilità sociale presenti nella
Carta dei Valori Aton.
Il clima aziendale e la corrispondenza dei comportamenti con i valori guida
vengono annualmente monitorati tramite una survey fatta compilare a tutti
i collaboratori.
L’allineamento dei comportamenti nelle attività aziendali con i valori guida
è anche oggetto di concorsi interni all’azienda: la Best Practice,
l’Akhenaton e il Golden Book.
La Best Practice è un’iniziativa che parte dai GX di Aton: in riferimento ad
ognuno dei cinque valori, il management propone dei collaboratori che
meglio li hanno incarnati attraverso il loro essere ed il loro operato.
Confermate le nomination dal Presidente, tutti i dipendenti sono chiamati a
esprimere la loro preferenza nei confronti di un nominato per ogni valore
tramite voto. Chi riceve più voti vince e viene premiato durante gli eventi
aziendali. I nomi dei vincitori e le motivazioni vengono poi stampati in
appositi book e distribuiti in tutta l’azienda, nonché messi in un’apposita
sezione di ONportal (AtonPeople/Best Practice).
82
L’Akhenaton invece è un concorso in cui ogni dipendente propone una
persona che si è distinta nel lavoro quotidiano, motivandone la scelta.
Anche per questo concorso sono previsti premiazioni per i più votati, che
verranno poi segnalati sul portale interno.
Il Golden Book infine è una raccolta mensile di segnalazioni fatte dai
dipendenti in maniera molto informale sui collaboratori: attività svolte con
successo, progetti portati a termine con particolare soddisfazione del
cliente, performance eccellenti, risoluzione di problemi, acquisizione di
nuovi e importanti clienti. Il Golden Book è presente in versione virtuale sul
portale interno.
3.6 LA COMUNICAZIONE
3.6.1 LA SCELTA DELLA COMUNICAZIONE ORGANIZZATIVA
Quando il vertice Aton ha attivato il processo di cambiamento,
l’approccio scelto per ri-progettare l’organizzazione interna ed il rapporto
con il mercato e l’opinione pubblica è quello della comunicazione
organizzativa.
Invernizzi (2000:195) descrive così la comunicazione organizzativa:
“l’insieme dei processi strategici e operativi di creazione, di scambio e di
condivisione di messaggi informativi e valoriali all’interno delle diverse reti
di relazioni che costituiscono l’essenza dell’organizzazione e della sua
collocazione nell’ambiente; la comunicazione organizzativa coinvolge tutti i
membri interni, i collaboratori interno-esterni e tutti i soggetti esterni in
qualche modo interessati o coinvolti nella vita dell’organizzazione
compresi i suoi clienti effettivi o potenziali; la comunicazione organizzativa
costituisce parte integrante dei processi produttivi e decisionali e dei
rapporti con gli ambienti esterni; viene usata per definire e condividere la
missione, la cultura, i valori d’impresa”.
83
Il concetto di comunicazione organizzativa ha origine come ampliamento
della comunicazione interna di cui sottolinea la stretta connessione con
tutti gli altri flussi di comunicazione. Essa dunque si riferisce ad un
concetto di comunicazione unitario e non divisibile fra interno ed esterno ai
confini dell’organizzazione. Inoltre la comunicazione organizzativa
sottolinea il fatto che la comunicazione è una componente strutturale
dell’organizzazione, nel senso che nelle imprese che tendono ad essere
delle reti le connessioni sono sempre più elemento costitutivo
fondamentale. La comunicazione è strumento per il funzionamento e lo
sviluppo dell’organizzazione perché insita nei processi di lavoro. Non si
tratta dunque di una sovrastruttura per far conoscere una nuova
immagine. Al contrario la comunicazione è una leva per rendere visibile e
trasparente la realtà aziendale e per far funzionare e far evolvere
l’organizzazione stessa. Infine la comunicazione organizzativa implica il
riferimento agli obiettivi da perseguire e dei pubblici da raggiungere
(ibidem)
La comunicazione organizzativa consente di individuare tre
categorie che ne definiscono i contenuti e gli obiettivi prevalenti
(Invernizzi, 2000 e 1996, Fiocca, 2002 in Mazzei, 2006).
1. La comunicazione funzionale (o gestionale) è quella che supporta i
processi operativi aziendali.
2. La comunicazione strategica (o valoriale) definisce e diffonde i valori
distintivi dell’impresa, la sua mission, le sue strategie in un processo di
continua ricerca di sintonia valoriale fra l’ambiente esterno e quello interno
all’organizzazione.
3. La comunicazione creativa/formativa crea le competenze possedute e
le diffonde nell’organizzazione: essa coincide con la comunicazione per il
knowledge management e sharing, sviluppando il capitale intellettuale
dell’organizzazione.
84
Come si sviluppano queste tre categorie di comunicazione in Aton e con
quali strumenti?
La comunicazione funzionale corrisponde ad una serie di strumenti
che supportano i processi operativi in Aton: gli handbook, i manuali
operativi, la documentazione interna e le procedure.
• Gli handbook, i “manuali di settore”: “lo scopo di questi documenti è
avere sempre "sotto mano" la raccolta di tutto quello che sappiamo e
abbiamo fatto nei singoli settori; una guida all'uso, alla gestione corretta
delle negoziazioni, per portare tutto il valore aggiunto, tutta la conoscenza,
che rappresenta la nostra indiscutibile forza; avere a disposizione la
"raccolta" documentale, i dettagli dei progetti fatti e le specifiche esigenze
di settore facilita inoltre il processo formativo di ognuno di noi” (tratto da
http://onportal.aton.it). Esempi sono il Coffee Handbook e il Gas
Handbook, i manuali con tutte le attività portate a termine nel settore del
caffé e degli idrocarburi.
• I manuali operativi delle soluzioni Aton (ON e AT): descrizioni tecniche
delle soluzioni hardware e software e delle possibili applicazioni.
• Documentazione interna: documenti che riguardano presentazioni
dell’azienda e dell’offerta, utilizzati dagli agenti commerciali di Aton per
proporsi ai potenziali clienti.
• Le procedure: schede informative sui passi da seguire nelle attività di
acquisizione ordini clienti, fornitura e approvvigionamenti, progettazione e
realizzazione software, assistenza clienti, gestione delle non conformità,
formazione e addestramento, strumenti di controllo, identificazione e
rintracciabilità prodotto, responsabilità della direzione e verifiche ispettive
interne.
La comunicazione strategica riguarda la creazione e la diffusione
dei cinque valori cardine di Aton già descritti. Gli strumenti utilizzati per
diffonderli sono sia di tipo fisico (carta dei valori su book e quadri) che di
tipo digitale (sito istituzionale e portale interno). Esiste naturalmente un
sistema di monitoraggio tramite survey che ha lo scopo di supervisionare
85
l’allineamento dei comportamenti aziendali con i valori. A questo vanno
aggiunte le iniziative Akhenaton, Best Practice e Golden Book (descritte
nel capitolo sulla comunità Aton).
La comunicazione creativo/formativa, che serve a creare e
diffondere le competenze distintive e il knowledge aziendale, utilizza
strumenti già visti nella comunicazione funzionale come gli handbook, i
manuali operativi, la documentazione interna e le schede procedure.
Un altro importantissimo strumento è la formazione. Vengono
programmati corsi formativi (gestiti internamente o da consulenti esterni)
che riguardano tutte le svariate attività aziendali: comunicazione, relazioni
fisiche o telefoniche col cliente, lingue estere, analisi e progettazione
informatica, sviluppo database e software, prodotti hardware,
amministrazione, team building e molti altri.
Ma lo strumento principe, che rappresenta il vero oggetto di studio di
questa tesi, sono i case studies, il racconto delle esperienze aziendali
attraverso lo storytelling. Questo strumento sarà approfondito nel quarto
capitolo di questo lavoro.
Le prassi operative nelle quali Invernizzi (2000) traduce l’impianto
concettuale della comunicazione organizzativa sono:
1. il riferimento di tutta la comunicazione a valori guida eticamente
fondati: questo è stato il primo passo affrontato in Aton;
2. la ricerca di coerenza e sinergie fra tutte le attività di comunicazione e
tra queste e gli atti di gestione;
3. la diffusione di comunicazione interpersonale, dalla consulenza interna
e della formazione sulle competenze di comunicazione interpersonale;
4. l’impiego di metodi manageriali per gestire la comunicazione, quali
l’ascolto, la pianificazione e il monitoraggio;
5. il presidio strategico della comunicazione attraverso il coinvolgimento
del top management nella definizione delle strategie di comunicazione, la
costituzione di una direzione comunicazione e il coinvolgimento del
responsabile della comunicazione nella definizione della strategia
86
d’impresa: con la riorganizzazione aziendale attuata da Aton, la
comunicazione è diventata un cardine fondamentale e strutturante di tutta
l’attività aziendale, il top management è stato coinvolto nella definizione di
valori, missione, visione e obiettivi aziendali, e il direttore marketing fa
parte del board portando costantemente all’attenzione del direttivo la
comunicazione.
3.6.2 LA COMUNICAZIONE INTERNA
Nel paragrafo sulla comunità Aton è stato sottolineato quanto
l’azienda presti attenzione ai suoi collaboratori e con quali attività ed
iniziative (soprattutto extra-lavorative).
Gli strumenti specifici della comunicazione interna presenti in Aton sono: il
portale interno, il bollettino mensile interno e le e-mail. L’obiettivo
principale è permettere a tutti i collaboratori e manager di conoscere in
ogni momento cosa fa l’azienda nel suo complesso e cosa fanno gli altri
reparti, in modo da avere una visione globale e integrata delle attività e
facilitarne il coordinamento.
Figura n. 4: il portale interno
87
ONportal è il sito aziendale interno, dove sono presenti tutte le
informazioni e le procedure che servono a supportare i processi interni di
tutte le divisioni aziendali (marketing, commerciale e tecnica). Sono poi
presenti link ai valori guida, ai casi aziendali, alla rassegna stampa e agli
altri strumenti di comunicazione interna.
Oltre a questa parte tecnica e formale c’è una sezione informale,
denominata AtonPeople, dedicata alla community interna. Qui è presente
l’interattività, che permette la raccolta di feedback, la somministrazione di
survey per l’analisi del clima aziendale e l’attuazione delle iniziative
Akhenaton, Best Practice e Golden Book. Inoltre sono presenti foto e
testimonianze degli eventi interni, i piani di formazione, i ruoli e i fatti della
comunità, la biblioteca interna, il tema e gli obiettivi annuali. Insomma, una
vera e propria bacheca virtuale in cui viene descritta tutta la vita aziendale,
e non solo.
Il bollettino interno, con uscita mensile, è il giornalino interno di Aton. Qui
vengono riportate tutte le novità, gli eventi a cui Aton partecipa, gli ordini
acquisiti, i progetti avviati, le foto dei protagonisti, le comunicazioni interne,
le segnalazioni, la rassegna stampa del mese. Il bollettino viene sia
spedito a tutti i collaboratori via mail che messo a disposizione sul portale
interno.
Le e-mail sono lo strumento di comunicazione interpersonale più utilizzato
dopo la comunicazione a voce (vis a vis e telefonica).
Ogni manager e ogni collaboratore ha un indirizzo e-mail aziendale
([email protected]) che gestisce tramite Microsoft Outlook dal
proprio PC. Questo strumento permette di scambiare comunicazioni, dati
e documenti in real time in modo informale o meno (dipende dal tipo di
comunicazione) a costi davvero contenuti. Permette inoltre di inviare a tutti
comunicazioni importanti, novità, somministrare le survey e richiedere
feedback.
88
3.6.3 LA COMUNICAZIONE ESTERNA
Aton è un’azienda che opera nel B2b: non ha dunque bisogno di
utilizzare strumenti di comunicazione che si rivolgono al mass-market, ma
sceglie gli strumenti più adatti per raggiungere i propri target. Gli strumenti
principali utilizzati sono il sito aziendale, la pubblicità istituzionale su riviste
e periodici specializzati, le cartoline, la partecipazione a eventi tematici, il
periodico AtoNews, le attività di press relations (che vedremo nel
paragrafo dedicato all’ascolto organizzato), e gli ONbook, che verranno
approfonditi nel quarto capitolo.
La strategia comunicazionale di Aton si è basata sulla definizione di
una consequenzialità finalizzata a dare risposte progressive a tre
domande: Chi è Aton? Di cosa si occupa? A chi si rivolge?
Di conseguenza la comunicazione si è sviluppata per diffondere tre
diverse tipologie di awareness: corporate, solution e client. La prima è
stata portata avanti su quotidiani e testate di business nazionali con
appendici a diffusione locale con target i top manager, la seconda sulle
principali testate IT con l’obiettivo di raggiungere i responsabili IT e i Chief
Information Officer, la terza sulle principali testate verticali di
settore/mercato con target i responsabili sviluppo del business e
organizzazione interna.
Figura n. 5: l’home-page del sito aziendale
89
La comunicazione in un sito non viene “somministrata” automaticamente,
come in televisione, ma assomiglia di più alla stampa: è il lettore, o
navigatore, a scegliere se e che cosa vuole e leggere o vedere. In
secondo luogo non ha un tempo predeterminato per essere trasmessa e
ricevuta: il lettore o navigatore decide quanto tempo vuole dedicare ad
ogni pagina. Infine, ancor più della stampa, permette di offrire informazioni
precise e dettagliate (Bissat, Livraghi, 1997).
L’home page, molto chiara e semplice da navigare, mostra chiaramente le
funzioni svolte dal sito. In primo luogo informare: parlare in maniera
accurata della storia di Aton e della sua missione, dei suoi valori guida,
della sua visione, delle AtonPeople, dei partner strategici, dell’offerta
(soluzioni e prodotti hardware e software, servizi), delle novità, delle
aziende che l’hanno scelta, delle modalità di risoluzione dei problemi.
In secondo luogo un sito di servizio, che permette di acquistare on-line
prodotti di consumo (e-commerce), contattare i vari reparti aziendali per
avere ulteriori informazioni o per iniziare un rapporto con Aton, risolvere
problemi e ricevere assistenza tecnica.
Un sito chiaro e pieno di informazioni utili che descrive ampiamente
l’attività di Aton, la sua filosofia e il suo modo di agire nei confronti di tutti
gli stakeholder, e che si propone come vero strumento pubblicitario e
promozionale.
Un sito che si presenta graficamente in maniera minimalista e coerente
con tutto il resto del materiale pubblicitario aziendale, in cui solo
l’essenziale e il necessario trova spazio. La scelta di mettere le immagini
di chi lavora in Aton sottolinea l’importanza che hanno le persone ed i loro
ruoli in azienda. Durante la navigazione spuntano delle frasi brevi ed
evocative sotto forma di fumetti che sottolineano il ruolo di Aton: “Aton è
innovazione di business, processi e tecnologie”, “il governo della filiera
sempre e ovunque”, “affidatevi al partner unico per il mobile computing”, “il
nostro impegno con le imprese? Sviluppare con valore l’innovazione”, “un
buon motivo per aver fiducia di noi? Da 20 anni assistiamo 3500 aziende
90
in ogni settore”, “sfruttate il vantaggio dell’assistenza e dell’outsourcing”,
“sappiamo come aiutarvi con tempestività ed efficacia”.
Le campagne pubblicitarie
Aton utilizza testate e riviste specializzate in IT (Computer World, Linea
Edp, Wireless, Data Collection), automazione industriale e distributiva
ed economia per attuare campagne settoriali di co-branding con clienti e
alleati. L’idea alla base è proporsi al pubblico specializzato con la
descrizione essenziale delle soluzioni Aton, affiancate dai clienti e dai
casi di successo di applicazione o dai partner strategici, in modo da
sfruttare l’awareness e la notorietà dei loro marchi per infondere fiducia
nei potenziali clienti, attivando poi il cross-marketing riportando al sito
aziendale per approfondimenti.
Di seguito vengono riportate alcune pubblicità stampa, uscite su Computer
World, il settimanale di informatica per le aziende, il 30 gennaio 2006.
Figura n. 6: pubblicità stampa ONgas
91
Figura n. 7: pubblicità stampa ONmilk
Figura n. 8: pubblicità stampa ONsales e Help Desk
92
Figura n. 9: pubblicità stampa Aton partner Intermec
Questa campagna di comunicazione stampa è stata studiata e realizzata
in collaborazione con clienti prestigiosi a cui Aton ha offerto le sue
soluzioni (Api, Granarolo, Bassetti) e con uno dei principali partner
hardware (Intermec). La struttura di queste pubblicità stampa, posizionate
a fondo pagina, è molto semplice ed intuitiva: un titolo/slogan riassuntivo
con il logo dell’azienda cliente, un visual espressivo ed evocativo e una
body copy. Quest’ultima è affidata al cliente che, reso esplicito e parlando
in prima persona, riassume i vantaggi apportati da Aton alla propria
azienda. È presente inoltre l’indirizzo e il link del sito Aton in cui il progetto
è descritto in maniera più esaustiva, sotto forma di case study. Per il visual
sono state utilizzate immagini semplici ma efficaci: un camioncino con il
logo della soluzione per la tentata vendita nel settore idrocarburi per Api,
una mucca con le onde della radiofrequenza per Granarolo, una giacca
con i bottoni con i colori delle bandiere (che evocano il servizio di Help
93
Desk in sette lingue diverse) per Basseti, le pedine del subbuteo che
simboleggiano il gioco di squadra con i partner.
Le campagne di cross-marketing
Uno degli strumenti utilizzati per acquisire visibilità in maniera
efficace è rappresentato dalle campagne di marketing realizzate per
settore merceologico. Grazie all’analisi degli studi e delle tendenze di
mercato, delle normative e dei feed-back commerciali sono stati individuati
i settori strategici su cui concentrare maggiore attenzione: bevande; gelati
e surgelati; caffé; abbigliamento; prodotti per la casa, latte e derivati.
Lo strumento scelto è la cartolina: vengono utilizzati gli stessi
soggetti creati per le pubblicità stampa. La cartolina viene utilizzata come
strumento di marketing 1to1: vengono infatti personalizzate e spedite ai
clienti target, a cui viene legato il cross-marketing che rimanda ad un’area
riservata sul sito internet. L’area riservata è motivo di attrazione per il
target e rappresenta lo strumento interno di verifica sull’andamento: i
visitatori accedono tramite un codice univoco presente nella cartolina, che
consente il monitoring sull’efficacia della comunicazione.
Figura n. 10: modello delle campagne cross-marketing di settore (De Nardi, 2005)
Sito www.aton.i
t/onxxx
Cartolina
Visita Feed back
Target
94
Figura n. 11: cartolina ONmilk
Questa cartolina, che ha come target produttori e distributori di latte e
derivati, è composta sul fronte da un visual molto evocativo della
soluzione presentata (la mucca sezionata come un codice a barre
rappresenta la tracciabilità) e da uno slogan accattivante, sul retro una
veloce descrizione della soluzione, un accenno ad una importante azienda
che l’ha adottata e il link all’area riservata sul sito Aton.
Gli eventi tematici
Aton partecipa ogni anno ad eventi tematici e di settore. La
direzione marketing ha deciso di non andare più con propri stand alle fiere
di settore, ma di partecipare con dei suoi rappresentanti a tutti gli eventi
(convention, forum) inerenti ai suoi campi d’azione. Spesso viene invitata
a presentare casi aziendali di successo con dei propri clienti o partner. E’ il
caso dell’evento “La logistica agroalimentare, soluzioni innovative e casi di
eccellenza per l’efficace gestione della supply chain”, organizzato
dall’Università degli Studi di Parma, a cui prende parte anche la Aton con
un intervento del presidente De Nardi dal titolo “Sicurezza e qualità,
tutelare il consumatore attraverso la tecnologia”.
95
Altri eventi a cui Aton ha partecipato nel 2006 sono il Manufacturing
Innovation Roadshow 2006, come partner di Microsoft, e il Mobile Force &
Office Forum, entrambi organizzati a Milano e con la partecipazione di
importanti aziende e personalità; il Partner Advisory Council Symbol a
Vienna e l’AEGPL 2006 a Istanbul (convention europea dedicata al
mercato del Gpl) come partner di Symbol.
A tutti gli eventi Aton partecipa col materiale informativo aziendale
personalizzato: pannelli, cartelloni pubblicitari, book con case studies e
presentazioni dell’azienda, e gadget aziendali (penne, block per appunti,
cd interattivi).
AtoNews è l’house organ periodico di Aton. E’ uno strumento tecnico ma
con taglio culturale e gli argomenti sono progetti aziendali di successo,
novità come l’internazionalizzazione di Aton, le nuove normative europee,
le tendenze di mercato. Viene utilizzato sia come strumento di
comunicazione interna che esterna: viene infatti messo on-line sul sito
aziendale e spedito a clienti, partner e fornitori. Inoltre sul sito è possibile
iscriversi per riceverlo gratuitamente al proprio indirizzo e-mail.
Figura n. 12: la copertina del numero di Marzo di AtoNews
96
3.6.4 L’ASCOLTO ORGANIZZATO
Altra attività effettuata dalla Direzione Marketing di Aton è l’ascolto
organizzato. Si tratta di un “insieme di tecniche e metodi strutturati che si
utilizzano per conoscere il contesto di riferimento prima di attivare delle
iniziative di relazioni pubbliche e per analizzare le conseguenze della
comunicazione e la valenza comunicazionale delle azioni dell’azienda sui
suoi stakeholder. Esso consiste in un’attività di ricerca proattiva di
informazioni frutto della capacità professionista di comunicazione di
interagire con gli stakeholder e con gli opinion leader” (Mazzei,
2006:cap.7).
L’ascolto organizzato è fondamentale per la funzione strategico-riflettiva
della comunicazione (Grunig, Hunt, 1984; Muzi Falconi, 2002; Van Ruler,
Verčič, Balmer, 2002; Invernizzi, 2004 in Mazzei, 2006), cioè per
“realizzare il processo di comprensione reciproca fra l’azienda e i suoi
interlocutori. I risultati di questo ascolto, opportunamente interpretati dal
professionista di relazioni pubbliche e riportate alla coalizione dominante,
potranno avere peso per le decisioni strategiche dell’impresa” (Mazzei,
2006:cap.7).
Le finalità dell’ascolto organizzato (Mazzei, 2006:cap.7) sono:
1. conoscere l’ambiente di riferimento dell’organizzazione per essere in
grado di recepire i segnali di cambiamento (stili di vita, modelli di
consumo, le caratteristiche degli interlocutori, le opinioni e le percezioni
dei dipendenti, dei clienti e di altri pubblici interni o esterni, bisogni di
comunicazione);
2. individuare i diversi gruppi di stakeholder e gli influenti rilevanti per
l’organizzazione (analizzare documenti prodotti da essi, i loro
comportamenti, intervistarli, identificare le loro aspettative specifiche);
3. analizzare l’organizzazione interna per conoscere il grado di
soddisfazione dei dipendenti, come percepiscono l’ambiente interno ed
esterno, i bisogni di comunicazione sentiti all’interno dell’organizzazione);
97
4. ricercare informazioni e contenuti da comunicare;
5. valutare i risultati di iniziative e attività di comunicazione sia durante sia
dopo il processo (grado di esposizione dell’azienda, le audience raggiunte,
gli effetti della comunicazione e delle azioni aziendali).
Gli strumenti utilizzati per attuare l’ascolto organizzato possono essere di
tipo qualitativo o quantitativo (ibidem).
Gli strumenti qualitativi permettono di raccogliere informazioni che danno
una conoscenza ampia e approfondita della realtà. Si impiegano
solitamente per esplorare situazioni poco conosciute sulle quali si vuole
avere una prima conoscenza e formulare ipotesi di lavoro. Per la ricerca
qualitativa si utilizzano metodi che hanno lo scopo di stimolare contributi
liberi ed aperti da parte dei soggetti coinvolti. I più diffusi sono l’intervista
(faccia a faccia, telefonica o on-line) e il focus group.
Gli strumenti quantitativi servono invece ad approfondire la conoscenza
sull’intensità e il grado di alcune caratteristiche che sono già
precedentemente conosciute. La ricerca quantitativa raccoglie
informazioni su un insieme delimitato di argomenti e definisce a priori le
possibilità di risposta. Ciò consente di raccogliere dati su un numero
elevato di soggetti, e di generalizzare i risultati perché raccolti su un
campione rappresentativo di soggetti. Lo strumento principe è la survey.
Gli strumenti utilizzati in Aton sono l’intervista, le survey (interne ed
esterne) e la rassegna stampa e web, con differenti modalità, scopi e
target.
Le interviste vengono realizzate generalmente con i responsabili dei
sistemi informativi delle aziende cliente che seguono il rapporto con Aton
in modo diretto.
A progetto completato, quando il sistema va a regime e si possono
raccogliere le prime indicazioni sui vantaggi acquisiti o sui problemi sorti,
98
si chiede al cliente un feedback sull’operato di Aton, sui servizi offerti, sulle
apparecchiature hardware e sui programmi software installati. Ciò serve a
risolvere i problemi eventualmente sorti, a raccogliere ulteriori informazioni
sulla funzionalità dei sistemi e ad avere una testimonianza sul grado di
soddisfazione del cliente.
Le survey si rivolgono sia all’esterno che all’interno di Aton. E’ stato infatti
predisposto un questionario da porre ad un campione rappresentativo di
clienti ai quali viene chiesto un giudizio sull’operato generale di Aton come
partner e come fornitore.
Le domande poste riguardano il grado di soddisfazione (con punteggi che
vanno da pessimo ad eccellente) su: capacità di ascolto e di relazione;
disponibilità, tempestività e competenza dei collaboratori Aton durante le
varie fasi di implementazione del progetto; completezza e chiarezza
dell’offerta; rispetto dei tempi di consegna stabiliti; servizi di assistenza e
riparazione; raggiungimento degli obiettivi; quali aree aziendali possono
essere migliorate, quali altri prodotti e servizi possono essere d’interesse
nel futuro. Inoltre è possibile lasciare suggerimenti di ogni genere e
segnalare eventuali problemi riscontrati.
I clienti scelti a campione vengono contattati telefonicamente per
richiedere la disponibilità di sottoporsi al questionario, inviato poi tramite e-
mail (o via fax). Le modalità di compilazione sono due: direttamente sul
foglio word in allegato, che va rispedito alla Aton, oppure on-line (in questo
caso il cliente accede al sito myservice.aton.info tramite un nome utente
ed una password assegnati).
Le survey interne riguardano l’analisi del clima aziendale. Vengono
somministrate a tutti i dipendenti Aton tramite e-mail una volta all’anno. Le
domande hanno lo scopo di indagare le opinioni dei collaboratori riguardo
all’operato dell’azienda e al contributo che apportano. Non sono vere e
proprie domande a cui rispondere in maniera affermativa o negativa, ma
frasi a cui si chiede di esprimere il grado di accordo. Ad esempio: “perché
ATON abbia successo è necessario che si crei uno spirito di squadra
99
basato sulla cooperazione e sulla condivisione delle conoscenze, anche
tra persone appartenenti a funzioni diverse” o “il mio capo tiene conto
delle aspirazioni e degli obiettivi di crescita professionale dei suoi
collaboratori”. A queste istanze si chiede al dipendente di esprimere un
giudizio di accordo che va da 0 a 10. Le istanze riguardano il
comportamento dei superiori ed il rapporto capo/collaboratore, giudizi
generali sui comportamenti dei colleghi, la fiducia nel futuro dell’azienda, i
sistemi di premiazione e incentivazione, il clima instaurato con i colleghi, le
risoluzioni ai problemi che si creano, il grado di libertà di esprimere le
proprie idee e suggerimenti, la condivisione di valori e obiettivi, la cultura
aziendale, la distribuzione dei carichi di lavoro, e molto altro.
I risultati dei questionari dell’anno 2005 sono in elaborazione, mentre
quelli inerenti agli anni 2003 e 2004 hanno sottolineato medie molto alte e
costanti.
L’attività di rassegna stampa ricopre un ruolo molto importante. Le testate
e le riviste analizzate sono quasi esclusivamente quelle di settore: ICT
(Computer World, ICT & Tech Solution del Sole24Ore, Linea EDP,
Week.It, ZeroUno, Wireless, CRN, Data Collection, Office Automatio),
logistica e distribuzione (Mark Up, Food, Reseller Business, Logistica, Il
Giornale della Logistica, Top Trade, Rassegna dell’Imballaggio), economia
e finanza (IlSole24Ore e @lfa, Affari & Finanza, Finanza & Mercati, Milano
Finanza, Economy, Spazio Impresa). Oltre alle testate di settore vengono
monitorati anche i giornali locali (La Tribuna di Treviso, il Gazzettino di
Treviso e il Corriere del Veneto) ed esteri (ad esempio giornali e riviste
spagnole nel caso della acquisizione di Altec SL).
Tutte le testate vengono attentamente analizzate alla ricerca di passaggi e
presenze di Aton, dei temi ad essa legati e degli eventi a cui ha
partecipato.
Aton si affida all’agenzia Burson & Marsteller di Milano per avere
consulenza su tutte le attività di comunicazione: rassegna stampa,
100
relazione con i media e altre attività, come la pubblicazione di interviste,
case studies, articoli. L’agenzia si occupa anche della rassegna su web,
monitora i passaggi in Internet sul sito internet e su altri siti.
101
4. LE STORIE AZIENDALI DI SUCCESSO
Dopo aver affrontato le tematiche del Knowledge Management ed
uno strumento come la learning history, questo lavoro si prefigge
l’obiettivo di analizzare come uno strumento di ricerca molto somigliante
alla leaning history, il case study, possa essere utilizzato in una
organizzazione con scopi non soltanto di ricerca, ma anche di gestione
della conoscenza e soprattutto di comunicazione interna ed esterna. Lo
studio di un caso è una fonte di apprendimento esperienziale e in quanto
tale può essere utilizzato come strumento di KM. Per questo sembra utile
in questo lavoro approfondire gli aspetti metodologici dello studio di caso,
in quanto strumento di raccolta ed elaborazione di conoscenza. A tale
scopo il capitolo inizia con una panoramica dello studio di caso come
strumento di ricerca a fini gestionali, per il KM, e procede poi con l’analisi
del metodo con il quale i casi di successo sono stati raccolti, elaborati e
comunicati in Aton.
4.1 IL PROCESSO DI RICERCA E IL METODO DEI CASI
Un processo di ricerca è composto da una serie di fasi che
permettono al ricercatore di pianificare il lavoro. Le fasi nella maggior
parte degli studi sono la formulazione del problema, il disegno della
ricerca, la raccolta dei dati e la analisi ed interpretazione dei risultati (Mari,
1994).
La prima fase, la formulazione del problema, è strettamente legata
alla figura del ricercatore e agli obiettivi dello studio: egli utilizza dei
paradigmi di ricerca, composti da concetti, categorie e pregiudizi che
102
rappresentano la sua visione del mondo sociale e influenzano il suo modo
di agire.
Dopo aver formulato il problema, è necessario progettare il disegno
della ricerca, cioè il piano d’azione che serve a guidare la raccolta ed
analisi dei dati, fornendo un quadro di riferimento che facilita lo
svolgimento della ricerca e assicura la coerenza tra le varie fasi. I tre
elementi fondamentali del disegno di ricerca sono: il tipo di informazioni da
ricercare, le fonti dei dati e i metodi di raccolta dei dati. La scelta del tipo di
informazioni è determinata dai contenuti del problema oggetto di studio.
Questo guida alla scelta delle fonti dei dati, che possono essere primari
(raccolti specificatamente per lo scopo della ricerca e quindi inizialmente
non esistono) o secondari (già esistenti in quanto raccolti
precedentemente per scopi diversi da quelli indicati dalla ricerca). I
vantaggi dei dati primari sono la massima coincidenza tra dati disponibili e
dati necessari e la loro qualità, e rappresentano gli svantaggi dei dati
secondari, che hanno una bassa qualità e spesso non coincidono con i
dati necessari alla ricerca; gli svantaggi dei dati primari sono l’alto costo in
termini di economici e di tempo, e rappresentano a loro volta i vantaggi dei
dati secondari, facili ed economici da raccogliere. L’ultimo elemento è la
scelta del metodo (o dei metodi) di raccolta dei dati.
Il tema dei metodi e della loro scelta porta ad una divisione delle ricerche
in tre macrocategorie: esplorative, descrittive e causali (Selltiz,
Wrightsman e Cook, 1976, in Mari, 1994).
Le ricerche esplorative sono utilizzate quando si ha una limitata
conoscenza del problema oggetto di studio: l’obiettivo generale è la
formulazione di spiegazioni iniziali riguardo al problema di ricerca. Una
caratteristica di questa tipologia di ricerche è la massima flessibilità e
libertà per quanto riguarda la scelta dei metodi di raccolta dei dati.
Nelle ricerche descrittive il ricercatore ha già delle spiegazioni iniziali sul
problema di ricerca grazie a conoscenze pregresse sul fenomeno:
l’obiettivo generale dunque è la formulazione di una teoria attraverso la
103
descrizione delle caratteristiche salienti del problema, la classificazione di
alcune variabili rilevanti ai fini della comprensione, il confronto tra queste
variabili, la stima di alcune grandezze oppure l’esame delle relazioni tra
variabili.
Le ricerche causali hanno come obiettivo una conoscenza ancora più
profonda del problema: l’obiettivo generale è la convalida o la
confutazione di una teoria attraverso la determinazione delle relazioni di
causa-effetto.
La figura n. 13 mostra i principali metodi di raccolta dei dati, che sono
classificati in base a due variabili che sono riscontrabili in ogni ricerca: la
precisione dei dati, cioè l’attendibilità delle misurazioni e la stabilità dei
risultati, e la possibilità di generalizzare i risultati, che fa riferimento alla
validità teorica ed esterna della ricerca. I metodi sono suddivisi anche in
scientifici e non scientifici, distinzione che precisa il grado di precisione dei
dati: un metodo scientifico ha una maggiore precisione e validità dei dati
(Mari, 1994).
Figura n. 13: classificazione dei principali metodi di raccolta dei dati (Mari, 1994, adattata
da Bonoma, 1985)
Possibilità di generalizzare i risultati
Precisione dei dati
Bassa
Bassa
Alta
Alta
Esperimento di laboratorio
Esperimento sul campo
Osservazione
Caso aziendale
Inchiesta
Mito Leggenda
Racconti
Analisi dei documenti
Metodi non scientifici
Metodi scientifici
Studi causali
Studi descrittivi
Studi esplorativi
Vincolo di fattibilità
104
La situazione ideale è quella in cui una ricerca riesce a raggiungere livelli
elevati di precisione dei dati e di generalizzazione dei risultati. Ma si tratta
di una situazione soltanto teorica poiché nessun metodo di raccolta dei
dati può eliminare gli ostacoli esistenti per ottenere i livelli auspicati di
entrambi le variabili. In verità esiste una soluzione, la triangolazione,
l’utilizzo cioè di più mezzi per studiare il medesimo fenomeno. Ne
parleremo più approfonditamente in seguito (ibidem).
La posizione dei metodi nel quadrante si basa sugli obiettivi della ricerca.
Se quest’ultimo è la convalida/confutazione di una teoria relativa ad un
fenomeno che può essere studiato al di fuori del proprio ambiente naturale
e che è quantificabile, il fine del ricercatore è la precisione dei dati. In
questo caso il metodo più adatto è l’esperimento di laboratorio, che
consente di analizzare le relazioni causa-effetto in un ambiente artificiale
che garantisce elevata precisione dei dati a scapito della possibilità di
generalizzare i risultati. Ad esempio le ricerche inerenti agli stimoli della
pubblicità su un gruppo di persone (ibidem).
Altra ipotesi riguarda il caso di una ricerca simile alla precedente, ma che
necessita dello studio del fenomeno nel suo contesto naturale. In questo
caso il ricercatore rinuncia, almeno in parte, alla precisione dei dati in
favore ad una più elevata possibilità di generalizzare i risultati, mediante
l’utilizzo degli esperimenti sul campo. Un esempio può essere una ricerca
che studia le reazioni dei consumatori all’introduzione di un nuovo
prodotto o servizio (ibidem).
Gli studi in cui invece l’obiettivo è la formulazione di una teoria privilegiano
la generalizzazione dei risultati: il ricercatore non ha una conoscenza
approfondita del problema e preferisce quindi sacrificare la precisione dei
dati a favore della validità esterna dello studio. Nell’ambito di questo
medesimo obiettivo sono riscontrabili tre diverse situazioni (ibidem).
La prima riguarda le analisi che intendono stimare alcuni aspetti
quantitativi di un fenomeno. In questo caso l’obiettivo specifico della
misurazione quantitativa prevale sull’obiettivo generale di formulazione di
105
una teoria. Si tratta di problemi studiati nel proprio contesto naturale e che
presentano molteplici caratteristiche quantitative: lo strumento utilizzato in
questi casi è l’inchiesta, che presenta bassa precisione dei dati e
possibilità di generalizzare i risultati.
La seconda situazione è inerente a fenomeni quantificabili che possono
essere studiati sia nei contesti naturali che in quelli artificiali. L’obiettivo
non è stimare, ma descrivere, classificare, confrontare o stabilire relazioni
nel tentativo di concettualizzare il problema. Lo strumento idoneo a questo
tipo di ricerca è l’osservazione. Un tipico esempio è lo studio delle
relazioni tra il personale di front-office e i clienti di un negozio.
La terza situazione è rappresentata dai fenomeni non quantificabili che
devono essere studiati nel proprio contesto. Questa ipotesi ha
caratteristiche simili alla precedente, e utilizza infatti un particolare tipo di
osservazione definita studio sul campo. Un’ alternativa è rappresentata dai
casi aziendali, che sono un metodo più complesso e consentono di
acquisire una conoscenza più approfondita del problema studiato,
facilitando la generalizzazione dei risultati e di quindi la formulazione di
una teoria.
Infine vengono considerati gli studi esplorativi che si prefiggono di
raggiungere una comprensione iniziale del problema. In queste situazioni
non è rilevante né la natura del fenomeno né la precisione e validità
esterna, in quanto si tratta di studi estremamente flessibili inseriti in
ricerche più estese che perseguono altri obiettivi. Lo strumento idoneo è
rappresentato dall’analisi dei documenti, ossia l’esame delle fonti
secondarie. Inoltre vanno ricordati altri metodi non scientifici come
racconti, miti e leggente che sono assimilabili alla storia orale, ovvero
utilizzano la tecnica già affrontata dello storytelling, la narrazione dei fatti
da parte di chi ha una conoscenza diretta del fenomeno studiato.
Dopo aver formulato il disegno di ricerca e scelto il metodo più
idoneo, la terza e quarta fase sono rappresentate dalle attività operative di
raccolta, analisi ed interpretazione dei dati. Gli strumenti utilizzati in questa
106
fase, e già citati, sono: l’analisi dei documenti, l’inchiesta, l’osservazione, i
casi aziendali e l’esperimento (ibidem).
L’analisi dei documenti è utilizzata prevalentemente nelle ricerche
esplorative. Il campo di applicazione di questo strumento è rappresentato
dai materiali scritti che contengono dati sul fenomeno indagato. L’analisi
ed interpretazione dei dati si sviluppa secondo due diversi approcci, uno
qualitativo e destrutturato, l’altro quantitativo e molto strutturato. Il primo
approccio si basa sul confronto dei dati raccolti al fine di definire una
tassonomia che consenta di generalizzare il contenuto delle fonti. Il
secondo, quello quantitativo, utilizza l’analisi del contenuto attraverso la
trasformazione dei documenti verbali in numeri.
L’inchiesta è un metodo tramite il quale vengono raccolti dati presso un
campione rappresentativo di soggetti. Vengono formulate alcune domande
successivamente rivolte agli intervistati mediante questionario. Come già
accennato, questo strumento viene utilizzato nelle ricerche in cui l’obiettivo
è la previsione di alcune variabili quantitative del problema studiato. La
raccolta dei dati avviene attraverso l’intervista personale, telefonica o
tramite questionario. La caratteristica che unisce questi strumenti è
l’elevato grado di strutturazione: ciò implica domande predeterminate, uso
più frequente di domande chiuse rispetto a quelle aperte, medesima
sequenza di domande e medesime parole per tutti gli intervistati, al fine di
facilitare il confronto delle risposte. L’analisi e l’interpretazione dei dati
avviene in due momenti distinti a cui corrispondono altrettante attività: la
preparazione dei dati e la loro analisi statistica. La prima attività consiste
nel trattamento dei dati al fine di renderli idonei all’applicazione delle
tecniche statistiche: i dati vengono corretti (vengono eliminati eventuali
errori), codificati (classificati secondo alcune categorie significative) e
tabulati (viene contato il numero di osservazioni che appartengono alle
diverse categorie individuate). Si procede poi con l’analisi statistica dei
dati, che può utilizzare una o più variabili.
107
L’osservazione è un metodo utilizzato per raccogliere dati sul
comportamento non verbale attraverso il contatto diretto fra il ricercatore e
i soggetti studiati. Questa osservazione può avvenire i due modi differenti:
partecipante o non partecipante (Bailey, 1991, in Mari, 1994). Il ricercatore
partecipante prende parte regolarmente alle attività che osserva, ossia
sviluppa lo studio e contemporaneamente collabora alla vita sociale della
organizzazione esaminata. Al contrario, il ricercatore non partecipante
concentra la sua attenzione sulla ricerca evitando il contatto con i soggetti
analizzati. L’osservazione viene utilizzata negli studi descrittivi in cui
l’obiettivo è la comprensione approfondita di un problema e la sua
concettualizzazione. I dati vengono raccolti mediante la stesura di note,
cioè appunti che il ricercatore scrive o detta ad un registratore. Questa
stesura deve avvenire al più presto, possibilmente durante l’osservazione,
per non vanificare l’utilità della stessa rischiando di non ricordare tutto ciò
che si è osservato. L’analisi e l’interpretazione dei dati si basa sul
confronto delle note per classificare le caratteristiche più rilevanti dei fatti
osservati.
I casi aziendali (Mari, 1994), possono essere definiti come la descrizione
di una situazione aziendale, coerente con il contesto e con la dimensione
temporale dei fatti esaminati. Questo strumento di raccolta dei dati viene
utilizzato nelle ricerche descrittive che mirano a formulare una teoria. Le
caratteristiche principali dei fenomeni studiati sono la necessità di
analizzare gli eventi nel proprio ambiente naturale e la prevalenza di
problemi non quantificabili. Questo strumento, rappresentando il core di
questa tesi, viene analizzato più approfonditamente in seguito.
L’ultimo strumento a disposizione del ricercatore è l’esperimento, un
metodo che cerca di dimostrare l’esistenza di una relazione causale tra
una o più variabili indipendenti ed una o più variabili dipendenti (Bailey,
1991, in Mari, 1994). Gli esperimenti sono applicati nelle ricerche causali
che studiano fenomeni quantificabili sia in laboratorio che negli ambienti
naturali. La raccolta dei dati segue le seguenti fasi: la misurazione della
108
variabile dipendente (pretest), l’introduzione della variabile indipendente
nella situazione o il cambiamento del suo livello se è già presente, e una
nuova misurazione della variabile dipendente (post-test) per vedere se si è
prodotto un cambiamento nel suo valore. L’analisi ed interpretazione dei
dati avviene tramite due tecniche statistiche, ossia l’analisi della varianza
e della covarianza.
4.2 I CASE STUDIES, UNO STRUMENTO DI RICERCA
QUALITATIVA
Mari (1994), descrivendo i casi aziendali, precisa che i casi per la
ricerca sono diversi dai casi didattici. Questa diversità è rappresentata
dalla natura degli obiettivi che i due tipi di casi si prefiggono. La finalità di
una ricerca prescindono da qualsiasi natura pedagogica: un caso di
ricerca può diventare un caso didattico, ma non il contrario, poiché
quest’ultimo è sprovvisto dei presupposti scientifici che caratterizzano il
caso di ricerca.
Bonoma (1985, in Mari, 1994) individua nei casi per la ricerca quattro
caratteristiche distintive, riconducibili ai seguenti aspetti: il contenuto, le
fonti, il contatto diretto con la realtà e la dimensione temporale.
Il contenuto dei casi per la ricerca si concentra sulla descrizione di una
particolare realtà, sia essa positiva (risultati e situazioni aziendali brillanti)
o negativa (risultati mediocri e situazioni critiche). Questa descrizione
deve essere molto approfondita per consentire la ricostruzione di tutti gli
elementi che caratterizzano quel fenomeno/situazione aziendale.
Per procedere con una analisi dettagliata di una situazione aziendale
bisogna far ricorso a più fonti. La loro molteplicità arricchisce la
descrizione e facilità la possibilità di generalizzare i risultati.
109
La comprensione di una situazione aziendale richiede poi il contatto diretto
con la realtà studiata. Il ricercatore deve cioè lavorare sul campo, dove i
fatti aziendali accadono.
Infine, la descrizione di una realtà aziendale è più accurata ed
approfondita se si considera l’evoluzione nel tempo degli eventi, la loro
dimensione temporale. Ciò significa che il ricercatore deve analizzare la
successione temporale dei fatti più significativi ai fini della comprensione
del problema. Questo approccio storico consente di evidenziare i legami
esistenti sia tra le variabili interne all’azienda che tra l’ambiente esterno e
l’azienda. Questa caratteristica determina il superamento della definizione
di case history, in quanto tutti i casi per la ricerca presentano un approccio
storico alla descrizione della realtà aziendale.
4.2.1 L’USO DEL METODO DEI CASI IN ALCUNE RICERCHE
PIONIERISTICHE
Hamel (1993) sottolinea come la storia dei case study sia suddivisa
in periodi di utilizzo intenso e periodi di scarso utilizzo. I primi utilizzi di
questo strumento possono essere individuati in Europa, più
specificatamente in Francia, nei lavori di Frédéric Le Play (1806-1882).
Questo studioso, considerato il fondatore degli studi sociologici sul campo,
si concentrò sui cambiamenti sociologici in atto nell’Ottocento, sulle
condizioni delle classi operaie nei differenti luoghi di lavoro di varie nazioni
europee (Francia, Inghilterra, Belgio, Scozia, Irlanda, Austria e Russia). Le
Play sviluppò questo metodo di ricerca basato sulla raccolta di dati tramite
l’osservazione sul campo, con un approccio che corrispondeva
all’ambizione di descrivere i movimenti sociali in atto. Il lavoro di Le Play si
basava sull’assunto che le condizioni di una società nella sua interezza
possono essere rivelate attraverso lo studio sistematico di una appropriata
selezione di micro-unità sociali, come ad esempio le famiglie. Nel suo
“Instruction sur la méthode d’observation dite des monographies de
110
famille” (Hamel, 1993), Le Play descrive le tre fasi di costruzione dei suoi
lavori: osservazione dei fatti, interviste ai lavoratori della famiglia su
questioni non direttamente osservabili e raccolta di informazioni
(secondarie) da individui appartenenti alla stessa comunità ma al di fuori
del nucleo familiare analizzato. Le Play aggiungeva poi dati forniti da
autorità sociali, che potevano aiutare a comprendere l’organizzazione
sociale di quel dato contesto. Questo portò poi, durante l’analisi dei dati,
alla identificazione e classificazione di differenti tipologie di famiglie e
strutture sociali.
Successivamente, lo studio della metodologia dei case studies fu
approfondito dalla così nominata “Scuola di Chicago”, il dipartimento di
sociologia dell’università della metropoli dell’Illinois. Dai primi del
Novecento agli anni Trenta la Scuola di Chicago produsse una enorme
quantità di letteratura in merito. Gli studiosi dell’università americana si
concentrarono soprattutto su uno dei fenomeni preminenti in quel
momento storico: l’immigrazione negli Stati Uniti. Furono affrontate
questioni come la povertà, la disoccupazione, le condizioni di vita degli
emigrati e le ragioni che li spingeva ad abbandonare i loro luoghi d’origine
con l’utilizzo di tecniche quali l’osservazione sul campo e la incorporazione
di dati ed informazioni provenienti direttamente dagli “attori” degli eventi
indagati. La raccolta delle prospettive dei partecipanti dei fatti studiati
rappresentava la grande novità degli studi di caso.
Hamel afferma poi che lo sviluppo e il crescente utilizzo di metodologie
quantitative di ricerca portarono al declino dell’uso dei case studies.
Questo situazione si protrasse fino agli anni Sessanta, quando i limiti degli
studi quantitativi riportarono alla luce i vantaggi degli studi di caso.
Le critiche mosse ai case studies riguardano principalmente
l’incapacità di fornire conclusioni generalizzabili. Hamel (1993), Yin (1994)
e Stake (1995) nei loro scritti controbattono questa critica affermando che
il numero di casi studiati non trasforma un caso multiplo (formato dalla
replicazione di più casi) in uno studio macroscopico: ciò significa che per
111
questi due autori anche un singolo caso può essere considerato
accettabile e capace di fornire risultati generalizzabili. Come vedremo in
seguito, questa visione viene fortemente criticata da Mari (1994).
4.2.2 IL PROCESSO DI REALIZZAZIONE DI UNO STUDIO DI CASO
Il processo di costruzione di un caso aziendale viene suddiviso in
quattro fasi: la formulazione del problema, il disegno della ricerca, la
precomprensione e la comprensione (Mari, 1994). Le quattro attività
vengono illustrate nella figura n. 14.
Figura n. 14: processo di ricerca basata sui casi aziendali (Mari, 1994)
Formulazione
del problema
PrecomprensioneComprensione
Disegno
della ricerca
La prime due fasi, la formulazione del problema e il disegno della
ricerca, sono analoghe a quelle descritte nel precedente paragrafo. Infatti
il ricercatore decide il problema da affrontare, in base agli obiettivi della
ricerca, e sceglie il metodo (o i metodi) di raccolta dei dati. Solo dopo aver
scelto il metodo di raccolta dei dati si evidenziano le peculiarità
determinate dalle caratteristiche dei differenti strumenti di ricerca. Come è
stato accennato nel paragrafo precedente, gli elementi che guidano la
scelta dello strumento da utilizzare sono quattro: l’obiettivo della ricerca, la
112
natura del fenomeno studiato, la precisione dei dati e la generalizzabilità
dei risultati. La combinazione delle diverse caratteristiche di ognuno dei
quattro elementi determina la scelta del metodi di raccolta dei dati.
I casi per la ricerca sono coerenti con le seguenti caratteristiche: l’obiettivo
dello studio consiste nella formulazione di una teoria, la natura dei
fenomeni indagati richiede il contatto diretto con il contesto aziendale e
non consente di quantificare l’oggetto indagato, la precisione dei dati è
contenuta e la possibilità di generalizzare i risultati è molto alta.
Quando un ricercatore sceglie di utilizzare lo studio di caso come
strumento di ricerca, deve anche decidere quali casi aziendali studiare.
Questa scelta non si conclude nella fase del disegno di ricerca, ma
continua anche nelle fasi successive. Infatti, il ricercatore traccia una
ipotesi iniziale, circa la individuazione dei casi, durante il disegno di
ricerca. Successivamente, sulla base dei risultati parziali emersi nello
svolgimento dello studio, riformula questa scelta. La selezione dei casi
aziendali riguarda due aspetti: la tipologia (quali casi) e il numero (quanti
casi). La tipologia è determinata in base al problema oggetto di ricerca,
ovvero la natura e le caratteristiche del contenuto di ricerca. Il numero di
casi da sviluppare invece è connesso all’obiettivo della ricerca: come visto
quest’ultimo è quello di formulare una teoria, ossia una
concettualizzazione di un particolare fenomeno che sia generalizzabile. La
possibilità di ottenere questa generalizzazione è legata a sua volta al
numero di casi utilizzati nella ricerca: un numero elevato di casi facilità
pertanto la generalizzabilità dei risultati. Com’è facile notare, la posizione
in merito di Mari è completamente diversa da quelle di Yin, Stake e
Hamel, secondo i quali, come già sottolineato, anche un solo caso può
dare risultati accettabili e generalizzabili.
Il terzo step è la precompresione. Con questo termine Mari (ibidem)
descrive la fase in cui il ricercatore cerca di migliorare la familiarità con il
problema di ricerca, riducendo il divario tra le conoscenze del ricercatore e
113
gli aspetti specifici dell’oggetto di studio. La precomprensione si articola in
tre momenti distinti: la raccolta dei dati, il caso pilota e l’analisi iniziale.
La raccolta dei dati si suddivide a sua volta in tre parti: i princìpi, i dati e gli
strumenti. I princìpi si riferiscono ad alcune linee guida che orientano
l’attività di raccolta dei dati nel metodo dei case studies. I princìpi
riguardano tre aspetti. Il primo è la “triangolazione”, termine coniato da Yin
per far riferimento al ricorso a più strumenti di raccolta dei dati (metodo
che migliora sia la precisione dei dati che la possibilità di generalizzare i
risultati). Il secondo aspetto riguarda la creazione di una banca dati, che
deve custodire tutti i dati raccolti nella loro forma originale, ovvero prima di
essere aggregati per diventare case studies. L’ultimo aspetto si riferisce
invece ai legami esistenti tra i dati raccolti, per consentire al ricercatore di
evidenziare la catena logica che gli ha permesso di raggiungere
determinati risultati. Per quanto riguarda invece i dati, esistono le seguenti
tipologie: primari e secondari. Come già accennato, i dati primari sono
quelli raccolti specificatamente per la ricerca in atto, quelli secondari
invece includono i dati esistenti raccolti con differenti scopi. I dati
secondari sono suddivisibili in interni (all’organizzazione) ed esterni. Infine
vanno considerati gli strumenti di raccolta dei dati. Gli studi di caso sono
una metodologia di ricerca che, come evidenziato, usa differenti tipologie
di strumenti, adattandoli alle proprie esigenze (strategia coerente col
principio di triangolazione di Yin e caratteristica di questa metodologia). Gli
strumenti utilizzati sono 1. documenti, 2. interviste e 3. osservazione.
1. L’analisi dei documenti, già accennata nel paragrafo 4.2, può essere
utilizzata anche nella metodologia dei case studies, ma con delle
modifiche. Infatti la tipologia di dati raccolti è duplice: dati secondari interni
ed esterni. I primi sono la parte prevalente nel metodo dei casi,
contrariamente ad altri tipi di ricerche basate quasi esclusivamente
sull’analisi di dati secondati esterni.
2. Le interviste utilizzate nei case studies prevedono un approccio semi-
strutturato, ovvero un insieme di temi ed ipotesi di carattere generale che il
114
ricercatore individua prima di incontrare gli intervistati. Nel metodo dei casi
è preferibile l’inserimento di domande chiuse: ciò consente di avere dati
specifici che facilitano la successiva fase di interpretazione dei risultati.
L’applicazione delle interviste in questa metodologia si suddivide in tre
fasi: la preparazione, la conduzione e la sintesi. Durante la preparazione,
il ricercatore si deve informare, attraverso dati secondari esterni, riguardo
l’azienda ed individuare temi, ipotesi e domande specifiche da porre agli
intervistati. La preparazione include anche l’aspetto organizzativo, cioè il
fissare l’incontro. La fase di conduzione è quella in cui il ricercatore
raccoglie concretamente una parte dei dati. L’intervista si divide in
presentazione, sviluppo e conclusione.
• Presentazione: il ricercatore deve
o presentarsi all’intervistato,
o chiarire gli obiettivi della ricerca e il contributo dell’azienda,
o affrontare il tema della riservatezza.
• Sviluppo: il ricercatore deve
o ascoltare mostrando interesse,
o dimostrare di essere preparato sull’azienda e sul settore,
o evitare qualsiasi discussione con l’intervistato,
o intervenire solo per iniziare, porre domande o chiarimenti,
o evitare di esprimere opinioni, giudizi o sentimenti personali,
o prestare attenzione alle esperienze di lavoro dell’intervistato,
o prendere appunti.
• Conclusione: il ricercatore deve
o raccogliere i documenti aziendali,
o chiedere i nominativi di altri potenziali interlocutori aziendali,
o chiedere se necessario una seconda intervista,
o richiedere una verifica degli appunti presi,
o ringraziare l’intervistato per il tempo e contributo forniti.
L’ultima fase dell’intervista, la sintesi, riguarda il riordino degli appunti per
avere un resoconto chiaro dell’intervista: il ricercatore deve evidenziare gli
115
aspetti dell’intervista ritenuti significativi per la comprensione del tema
oggetto di ricerca.
3. L’osservazione utilizzata nella metodologia dei casi è denominata
“studio sul campo”. Si tratta di un metodo che si applica nei contesti
naturali mediante un approccio non strutturato e nel quale il ricercatore
può essere partecipante o no a seconda delle circostanze. Questo metodo
è molto importante negli studi di caso poiché permette al ricercatore di
osservare da vicino le aziende oggetto di studio, fornendo ulteriori
indicazioni e dati.
Dopo che i dati sono stati raccolti, si procede con la costruzione del caso
pilota. Questo tipo di caso ha una funzione molto importante, ossia
sottoporre ad una sorta di prova generale il progetto di ricerca. Il caso
pilota aiuta ad evidenziare eventuali problemi presenti tra gli aspetti
scientifici (i contenuti) e gestionali (chi e come effettua la ricerca). Il caso
pilota può ad esempio fornire indicazioni sulla scelta delle aziende e dei
casi più significativi ai fini della ricerca. In definitiva, il caso pilota è uno
strumento che migliora la qualità delle ricerche basate sui case studies.
L’ultima fase della precomprensione è l’analisi iniziale. Questa fase
rappresenta il momento di sintesi dei dati raccolti e di integrazione dei
risultati. L’obiettivo di questa fase è la definizione di una mappa di concetti
per orientare le attività successive del ricercatore.
L’ultima fase del processo di ricerca è la comprensione. Questa
fase è formata da tre situazioni di raccolta dei dati, a cui corrispondono tre
momenti di analisi dei dati, la concettualizzazione, la generalizzazione e la
verifica della generalizzazione.
Le caratteristiche della raccolta dei dati descritte nella fase di
precomprensione possono essere estese anche alla fase di
comprensione, ma con due precisazioni. La prima riguarda i dati, che in
questa fase sono prevalentemente primari e secondari interni, mentre
nella fase di precomprensione sono, in maggioranza, dati secondari
esterni. In altre parole, il ricercatore è impegnato a studiare le aziende nel
116
loro contesto mediante l’analisi dei documenti interni, le interviste e
l’osservazione. Viceversa, nella fase di precomprensione, la sua
attenzione è rivolta, principalmente, alla letteratura esistente
sull’argomento e in misura contenuta ai dati derivanti dai contatti con le
aziende. La seconda precisazione riguarda la ripetizione della raccolta dei
dati. Quest’ultima è replicata sia nei tre diversi momenti della fase di
comprensione, sia all’interno di questi. Infatti, ognuno dei tre stadi è
composto da un insieme di casi aziendali; questo comporta che la raccolta
dei dati è un’attività ciclica ripetuta per un numero di volte pari al numero
di casi inclusi nella ricerca. Quindi, per ognuno dei casi aziendali è
necessario predisporre l’analisi dei documenti interni, le interviste e
l’osservazione.
La concettualizzazione è il primo momento di analisi dei dati che
interrompe il lavoro sul campo. Questa fase si articola in due parti: la
stesura dei casi e il successivo esame comparato dei medesimi. La prima
attività consiste nel realizzare una sintesi dei dati raccolti. Dopo che i casi
sono stati sviluppati, si procede ad un loro confronto: l’obiettivo di questa
attività è la costruzione di un modello concettuale che rappresenta il
tentativo di spiegare le divergenze esistenti tra i casi esaminati.
La generalizzazione e la verifica della generalizzazione sono due ulteriori
momenti di analisi dei dati. Ognuna è suddivisa nelle due attività appena
descritte: la stesura dei casi e il loro confronto. Le differenze riguardano gli
obiettivi che ciascuna di esse persegue. La generalizzazione ha un
duplice scopo: in primo luogo, migliorare il modello concettuale costruito
nella fase di concettualizzazione; in secondo luogo, generalizzare tale
modello e le sue implicazioni. Questi obiettivi vengono raggiunti attraverso
la stesura di casi concernenti contesti e settori diversi da quelli studiati
nella fase di concettualizzazione. Lo scopo dell’ultima fase di analisi dei
dati è di sottoporre ad una verifica la generalizzazione dei risultati ottenuti
nelle altre fasi. Anche in questa circostanza sono realizzati alcuni casi
aziendali in contesti e settori completamente differenti da quelli esaminati
117
in precedenza. La scelta di questi contesti/settori deve infatti enfatizzare la
peculiarità dei casi per riuscire a verificare i limiti del modello concettuale.
4.2.3 L’IMPIEGO DEI RISULTATI DI UN CASO AZIENDALE
Come è stato più volte sottolineato, l’obiettivo degli studi descrittivi,
di cui i case studies fanno parte, è quello di formulare una teoria.
Le caratteristiche essenziali di ogni teoria sono due: la spiegazione che
essa fornisce di un fenomeno e il controllo di questa spiegazione (Bailey,
1991, in Mari, 1994). Il primo aspetto si riferisce al contenuto della teoria
che è rappresentato dal tentativo di spiegare un particolare problema
attraverso la semplificazione e concettualizzazione della realtà. Il secondo
aspetto riguarda la possibilità di verificare empiricamente la spiegazione
del fenomeno, ossia replicare la ricerca per confermare i risultati originali.
Le teorie sono composte da due elementi (Mari, 1994): i concetti e
le proposizioni. I concetti sono immagini o percezioni mentali che, in alcuni
casi, non è possibile osservare direttamente. Un insieme di concetti
collegati fra loro forma una proposizione. I due tipi più rilevanti di
proposizioni sono le ipotesi e le generalizzazioni empiriche. Ad ognuna di
esse corrisponde un metodo per formulare le teorie. Le ipotesi sono
collegate al metodo deduttivo e le generalizzazioni empiriche a quello
induttivo.
Le ipotesi sono spiegazioni provvisorie e non ancora provate del
fenomeno. Queste spiegazioni devono essere provate attraverso una
verifica che ne determina la correttezza o la falsità. Secondo questo
approccio, il ricercatore formula, prima di tutto, una ipotesi in merito ad
alcuni concetti, e solo successivamente la sottopone al controllo
attraverso l’applicazione ad uno o più casi. Questo metodo, definito
deduttivo, prevede il passaggio, attraverso una inferenza, da un principio
generale ad una soluzione particolare.
118
Le generalizzazioni empiriche invece sono spiegazioni del fenomeno
derivanti dallo studio di uno o più casi reali. La comprensione del
fenomeno avviene attraverso il contatto diretto con la realtà e rappresenta
una base per una successiva generalizzazione dei risultati. Questo
approccio, definito induttivo, si fonda sull’analisi di alcune situazioni
specifiche per l’individuazione dei concetti che spiegano un preciso
fenomeno: tale esame è eseguito dall’estensione di queste spiegazioni
alla generalità dei casi.
Il metodo induttivo è quello utilizzato nella metodologia dei case studies.
Lo studio di particolari realtà aziendali consente di raggiungere una
comprensione approfondita del problema che si traduce in una sua
concettualizzazione applicabile alla maggior parte delle imprese (ibidem).
Figura n. 15: modello deduttivo ed induttivo (Mari, 1994)
Teoria
Caso/i Generalizzazioni empiriche
Ipotesi Concetti
Concetti Caso/i
Modello deduttivo Modello induttivo
119
4.2.4 LE CARATTERISTICHE DEI METODI DI RICERCA QUALITATIVI E
LA QUALITA’ DELLA RICERCA
Come già evidenziato, nella scelta del metodo di raccolta dei dati
bisogna considerare la natura quantitativa o qualitativa del problema di
ricerca. Il metodo dei case studies è stato classificato come strumento
qualitativo di ricerca (Mari, 1994). Ma quali sono le differenze tra metodi
quantitativi e qualitativi?
Mari (1994) afferma che la distinzione è difficile da segnare poiché le due
categorie non sono reciprocamente esclusive. In molte ricerche infatti
convivono aspetti sia quantitativi che qualitativi.
Van Maanen (1983, in Mari, 1994) afferma che i metodi qualitativi possono
essere rappresentati come un insieme di tecniche interpretative il cui
scopo è descrivere, decodificare e tradurre il significato di alcuni fenomeni
sociali, attraverso l’uso di simboli linguistici. Dunque, secondo Mintzberg
(1983, in Mari, 1994) le caratteristiche dei metodi qualitativi sono
l’approccio induttivo, il contatto diretto con la realtà studiata, l’enfasi sulla
descrizione, la prospettiva storica e la flessibilità.
• L’ approccio induttivo. Il punto d’inizio di una ricerca qualitativa non è
la formulazione di ipotesi da verificare sul campo; al contrario, la
ricerca parte dalla realtà studiando i fatti concreti collegati ad un
determinato fenomeno.
• Il contatto diretto con la realtà studiata evidenzia che i metodi qualitativi
utilizzano gli studi sul campo poiché permettono di analizzare un
fenomeno nel suo contesto naturale, in presenza di molte variabili
significative.
• L’enfasi sulla descrizione denota uno degli obiettivi principali della
ricerca, ossia la narrazione approfondita dei fatti. Il ricercatore studia
minuziosamente gli aspetti empirici di un determinato problema per
poter generalizzare i risultati.
120
• La prospettiva storica. La descrizione di un fenomeno conseguita con
metodologie qualitative fa riferimento anche alla dimensione temporale
degli eventi. È importante dunque comprendere la dinamica che ha
caratterizzato l’evoluzione di una realtà sociale perché il contesto
storico è un elemento di interpretazione fondamentale.
• La flessibilità indica che i metodi qualitativi si adattano facilmente alle
caratteristiche dei diversi fenomeni studiati. Ciò è dovuto al basso
grado di rigore formale, poiché le ricerche qualitative non perseguono
una significatività statistica, ma sono interessate ad una
concettualizzazione del fenomeno mediante la sua descrizione.
I criteri che determinano la valutazione della qualità di una ricerca
basata sulla metodologia dei casi aziendali fanno riferimento ai seguenti
fattori (Mari, 1994): il paradigma di ricerca, la precisione dei dati, la
generalizzabilità dei risultati, il contributo scientifico e la
conoscenza/capacità del ricercatore.
• Come già accennato, l’adesione ad un determinato paradigma di
ricerca influisce sulle diverse fasi dello studio.
• La precisione dei dati, la correttezza e attendibilità delle misurazioni
influisce fortemente sulla percezione di qualità della ricerca.
• Come già visto nei precedenti paragrafi, il criterio della generalizzabilità
dei risultati è fondamentale in considerazione dell’obiettivo di un case
study, formulare una teoria.
• Il contributo scientifico. La rilevanza di una ricerca, intesa come
processo di accumulazione di conoscenze, è un altro importante
fattore che condiziona la valutazione della qualità.
• Le conoscenze e capacità del ricercatore sono molto importanti data la
forte influenza sul lavoro di ricerca: si considerano in particolare la
conoscenza pregressa del fenomeno in esame, la flessibilità mentale e
la capacità di gestire le relazioni interpersonali.
121
4.3 I CASE STUDIES IN ATON: IL RACCONTO DELLE
STORIE DI SUCCESSO
Dopo aver esposto gli enunciati teorici della disciplina del KM ed
aver presentato due strumenti come le learning histories e i case studies,
è ora possibile analizzare il processo di creazione dei casi aziendali e
come essi vengano utilizzati in una organizzazione.
Come abbiamo visto, il case study è uno strumento di ricerca
estremamente flessibile: ciò significa che può essere facilmente modellato
ed adattato a seconda delle esigenze e degli scopi da raggiungere. In
particolare, nel caso di Aton, si è proceduto alla creazione di un modello di
case study ad hoc, adattando lo strumento alle caratteristiche dell’azienda
e del suo business.
In Aton infatti lo studio di caso è uno strumento utilizzato dalla Direzione
Marketing per raccontare le esperienze, in particolare le storie di
successo, dei progetti con i propri clienti. Come evidenziato nel terzo
capitolo, l’azienda opera per progetti: ogni cliente rappresenta una nuova
esperienza. Come vedremo, la costruzione di queste storie di successo
aziendale utilizza la metodologia dei case studies, ma non con lo scopo di
formulare una teoria.
Il processo di ricerca descritto da Mari rappresenta un modello teorico in
cui si presuppone che ci sia un ricercatore esterno che analizza più casi
aziendali: nel caso di Aton il ricercatore è interno, e i casi analizzati non
riguardano diverse realtà aziendali ma le diverse esperienze progettuali
che l’azienda affronta con i propri clienti. In pratica, il fenomeno da
analizzare è l’attività dell’azienda stessa. Oltre a questi aspetti, l’altro
adattamento riguarda gli scopi che tale strumento deve raggiungere: il
modello standard creato in Aton viene replicato per ogni progetto/cliente e
l’obiettivo non è la formulazione di una teoria, almeno non nel senso
stretto di costruzione di un paradigma concettuale, ma (come vedremo nei
122
prossimi paragrafi) la gestione della conoscenza all’interno
dell’organizzazione e la comunicazione.
Il modello dei case studies utilizzato in Aton può essere considerato una
forma di learning history: dal punto formale non utilizza il modello costruito
da Kleiner e Roth (descritto nel secondo capitolo), ma parte dagli stessi
presupposti enunciati dai due ricercatori americani: la necessità di
raccontare le esperienze aziendali per stimolare la riflessione e
l’apprendimento collettivo, il fatto di raccogliere testimonianze da più parti
dell’organizzazione e che il prodotto finale sia indirizzato all’azienda nel
complesso. Se le learning histories hanno come obiettivi la formazione e
l’apprendimento, i case studies aggiungono anche una funzione di
comunicazione esterna.
I motivi che hanno dunque spinto l’azienda all’utilizzo di questa
metodologia sono svariati:
• avere uno strumento di analisi dei diversi progetti affrontati
contemporaneamente e da personale differente;
• avere uno strumento che permette di avere un quadro generale delle
attività e dei progetti svolti: il rischio del work in team e per progetto ha
insito il rischio di non sapere cosa fanno le altre unità di business e
cosa sta facendo l’azienda nel suo complesso;
• gestire l’enorme quantità di dati primari interni che scaturiscono da
ogni singolo progetto per favorire la costruzione di modelli “standard” di
gestione delle attività nelle diverse aree di business;
• condividere il know-how e le innovazioni che vengono continuamente
generate;
• evidenziare eventuali errori, incidenti di percorso;
• avere a disposizione un potente ed efficace strumento di
comunicazione sia interna, per aiutare a cimentare la cultura
aziendale, la fiducia e il senso di appartenenza, che esterna, per
sviluppare la corporate reputation.
123
4.4 IL PROCESSO DI COSTRUZIONE DEI CASI
E’ possibile applicare le quattro fasi del processo di ricerca
individuate da Mari (1994), con i necessari adattamenti, al processo di
costruzione delle storie di successo in Aton. Come descritto in
precedenza, le fasi sono la formulazione del problema, il disegno di
ricerca, la precomprensione e la comprensione.
La formulazione del problema
Come è stato specificato, il ricercatore non è un attore esterno all’azienda
ma fa parte del Reparto Marketing interno. Il fenomeno da analizzare è
“cosa fa l’azienda”: ciò significa che i casi da affrontare sono i progetti che
Aton sviluppa presso i propri clienti. Dato il numero enorme di clienti e
progetti avviati, si deve procedere alla scelta dei casi da sviluppare.
Questa scelta viene effettuata tenendo conto dei seguenti fattori:
• la rilevanza economica del progetto;
• l’attrattività del progetto (innovazioni, nuove soluzioni) e la notorietà del
cliente;
• la disponibilità del cliente a procedere con la stesura di un caso
(questo in particolare per i casi ad uso esterno, che vedremo in
seguito).
Il disegno della ricerca
Nella seconda fase viene sviluppato il piano d’azione e stabilite le attività
da porre in essere. In questo step si devono scegliere il tipo di
informazioni, le fonti a cui attingere e i metodi di raccolta dei dati.
Per quanto riguarda il tipo di informazioni, queste sono prevalentemente
primarie interne (per quanto concerne le applicazioni e le soluzioni
sviluppate per i clienti) e secondarie esterne (dati sui clienti). In Aton è
124
stata studiata una particolare griglia, che come vedremo rispecchia il
format formale dello studio di caso. I tipi di informazioni da ricercare
appartengono a quattro categorie: il profilo del cliente, le sue esigenze, la
soluzione sviluppata da Aton per rispondere alle specifiche esigenze e i
vantaggi apportati da tali soluzioni.
Le fonti a cui attingere sono pertanto l’account manager di riferimento (per
conoscere le esigenze del cliente), l’ingegnere software responsabile del
progetto (per avere informazioni dettagliate riguardo alla soluzione
sviluppata per il cliente) e l’azienda cliente stessa (per conoscere il suo
profilo, spesso tratto indirettamente grazie al sito web aziendale, e i
vantaggi e miglioramenti che la soluzione Aton ha apportato).
Per quanto concerne infine i metodi di raccolta dei dati, è stato costruito
un format con le diverse tipologie di informazioni da raccogliere, che viene
compilato dal ricercatore attraverso interviste vis à vis o telefoniche. Il
format viene riportato di seguito.
FORMAT CASE STUDY (da completare come da esempio)
Profilo cliente
Specificare in questa sezione: Chi è – Settore - Numero addetti – Fatturato – Sito web
Esigenze del cliente
Descrivere in questa sezione i motivi per cui il cliente si è rivolto ad Aton Esempio: La collaborazione fra Aton e xxx nasce dall’esigenza del cliente di automatizzare la tentata vendita e l’order entry tramite call center, permettere una gestione informatizzata del magazzino in real time e garantire la tracciabilità di filiera e la gestione dei lotti anche in riferimento alla nuova normativa..
Tipo di applicazione fornita da Aton
Indicare in questa sezione la soluzione fornita da Aton (ad esempio: logistica, tentata vendita, raccolta ordini, controllo produzione, work force automation) Specificare anche il tipo di linea di business coinvolta (ONlog, ONsales, Progetti Speciali, ONway…) e se si tratta di una soluzione standard, una
125
soluzione standard con l’aggiunta di personalizzazioni o una soluzione ad hoc. Esempio: Aton ha fornito al cliente ONxxx, una soluzione standard/ad hoc per la gestione della tentata vendita, che permette al cliente di… . Specificare il numero di operatori coinvolti, il software e l’hardware fornito (tipologia e quantità), eventuali servizi erogati (help desk, tecnico in presidio, assistenza hardware, noleggio operativo Aton).
Vantaggi per il cliente
Spiegare in questa sezione i vantaggi che il cliente ha ricavato dalla soluzione fornita da Aton assumendo il punto di vista del cliente.
Esempio: Il beneficio principale è quello di migliorare l’efficienza dell’organizzazione, grazie alla possibilità di disporre di tutti i dati necessari per le analisi in real-time e con la massima sicurezza.
Particolarità
Sottolineare in questa sezione gli aspetti più interessanti della soluzione e della tecnologia fornita. Esempio: L’aspetto più interessante ed innovativo è la modalità di comunicazione wireless tra il dispositivo di raccolta e il palmare. In questo progetto sono state superate le limitazioni tecnologiche e i vincoli ed ostacoli per la gestione della comunicazione via Bluetooth.
Percezione della soddisfazione del
cliente
Indicare il livello di soddisfazione del cliente esprimendo un voto da 1 a 5 (1 = livello minimo), segnalando in questa sezione eventuali problemi e criticità riscontrati nel corso dell’avanzamento del progetto.
Oltre alle interviste, altro strumento di raccolta dati utilizzato è l’analisi dei
documenti interni, che includono dati e informazioni sulle applicazioni
sviluppate presso i clienti, ma che sono spesso di difficile comprensione e
richiedono pertanto un aiuto da parte di un tecnico informatico o un
ingegnere per essere “tradotte” e rese esplicite.
126
La precomprensione
Questa fase, necessaria ogni qual volta si affronti un fenomeno nuovo, è
stata affrontata in Aton solo nel periodo iniziale di introduzione della
metodologia dei case studies: una volta sviluppata e collaudata una
procedura standard non era più necessaria una fase di precomprensione.
Questo step ha riguardato perciò la raccolta operativa dei dati, la
compilazione del format attraverso le interviste e l’analisi dei documenti.
Veniva poi steso il caso pilota, controllato e modificato più volte, e si
procedeva con l’analisi iniziale: questo processo ha portato alla
formulazione finale del format da utilizzare.
La comprensione
Non essendo più necessaria la fase di precomprensione grazie alla
replicazione di un modello standard, si passa direttamente a quella di
comprensione, che prevede la raccolta, analisi e raffinazione dei dati, la
stesura del case study provvisorio, seguita da vari check-up e modifiche.
Finito l’iter e dichiarato lo studio di caso definitivo, si è pronti per utilizzarlo
nei modi che vedremo nei prossimi paragrafi. Non avendo come obiettivo
la formulazione di un paradigma teorico, step come la concettualizzazione
e la generalizzazione e verifica della generalizzazione non vengono posti
in essere.
Riassumendo, la costruzione di un case study in Aton avviene in otto fasi:
la scelta dell’azienda-cliente, il colloquio con l’account manager, il
colloquio con l’ingegnere/tecnico informatico, l’intervista al cliente, il profilo
aziendale, il case study provvisorio, il check-up e il case study definitivo.
1. La scelta dell’azienda-cliente avviene in base alla rilevanza economica
del progetto, la sua attrattività in termini di soluzioni, innovazioni e
notorietà del cliente, e l’eventuale disponibilità di quest’ultimo;
127
2. il colloquio con l’agente commerciale di riferimento serve a raccogliere
informazioni riguardanti le esigenze del cliente;
3. il colloquio con l’ingegnere/tecnico informatico assegnato al cliente è
necessario per avere informazioni che riguardano la soluzione
sviluppata;
4. l’intervista al cliente (il titolare se trattasi di piccola azienda, il
responsabile dei sistemi informativi, l’IT manager o chi segue i rapporti
con Aton nelle medie e grandi imprese) serve ad avere informazioni sui
vantaggi e miglioramenti apportarti all’azienda dalle soluzioni e servizi
Aton;
5. la raccolta dei dati riguardanti l’azienda serve invece alla costruzione di
un breve profilo aziendale (tramite sito web aziendale, documentazione
cartacea o direttamente al cliente);
6. una volta raccolti tutti i dati e completato il format, viene steso il case
study provvisorio, una sorta di caso pilota;
7. check-up: una volta pronto, il case study provvisorio viene inviato a tutti
gli attori intervistati, e anche al Marketing Manager, richiedendo loro
eventuali errori, modifiche e correzioni;
8. nell’ultima fase, vengono apportate le correzioni e modifiche suggerite
e viene steso il case study definitivo, in formato riassuntivo sotto forma
di scheda in Microsoft PowerPoint (denominato mini case study) e in
formato esteso con Microsoft Word. Una volta approvato dal Marketing
Manager, il case study è pronto per essere utilizzato.
128
4.5 I CASE STUDY PER LA COMUNICAZIONE INTERNA:
SUPPORTO AL KNOWLEDGE MANAGEMENT E
APPRENDIMENTO ORGANIZZATIVO
Come già anticipato, l’utilizzo della metodologia dei case studies in
Aton permette di raggiungere significativi risultati.
Le storie di successo in Aton si dividono in due macrocategorie: case
studies per uso interno e case studies per uso interno ed esterno. In
questo paragrafo approfondiremo la prima tipologia.
Quando un progetto presso un cliente è stato sviluppato, è entrato
in funzione ed il cliente è in grado di stabilire ed in caso quantificare i
vantaggi ed i miglioramenti apportati dalla collaborazione con Aton, è
questo il momento in cui viene predisposta la creazione del case study. La
figura n. 16 riporta il work flow su cui si basa la relazione Aton-cliente e
mostra in quale momento viene progettato il case study.
Figura n. 16: la costruzione del case study nel work flow
Negoziazione
Feedback
Richiesta
Erogazione
Negoziazione
Feedback
Richiesta
Erogazione
Costruzione case study
129
La costruzione dei casi rappresenta così una ideale continuazione della
relazione tra l’azienda ed i suoi clienti: il rapporto è dinamico, non si
conclude con il pagamento e il rilascio del feedback sulla soddisfazione
sui servizi erogati. La tipologia di servizi e prodotti che Aton vende
necessita di ulteriori servizi come l’assistenza post-vendita. Questi rapporti
continuativi possono quindi portare all’individuazione di altre necessità da
parte dei clienti, dall’implementazione delle soluzioni attivate al rinnovo del
parco macchine. La soddisfazione ha spesso spinto le aziende a
richiedere ulteriori servizi: un esempio sono i molti clienti che avendo
acquistato una soluzione ONroad per la gestione della propria flotta di
vendita, hanno poi richiesto anche l’implementazione con altre soluzioni
come ONlog per la gestione automatizzata dei magazzini e il conseguente
software per interfacciare ONroad con ONlog. In questo caso il case study
è uno strumento utile perché costituisce una sintesi del rapporto tra Aton
ed il cliente, dalla richiesta e dalle esigenze di quest’ultimo fino
all’erogazione dei servizi e alla raccolta del feedback sulla soddisfazione.
Le storie di successo nascono come case studies ad uso interno: se si
verificano le condizioni viste precedentemente, il caso può essere
utilizzato anche per uso esterno.
I case studies utilizzati all’interno dell’azienda hanno due principali finalità,
che verranno approfondite di seguito: la gestione e trasferimento della
conoscenza e l’apprendimento collettivo.
Gli studi di caso utilizzati all’interno dell’organizzazione servono a
raccontare all’azienda quello che fa. Operando per progetti, suddivisi in
aree di business che in Aton sono definite ASA (aree strategiche d’affari) e
gestiti da team che lavorano in maniera indipendente, il rischio è che si
perda il senso di unità aziendale. I case studies diventano così un valido
strumento per avere una visione collettiva e completa delle attività
aziendali.
Aton è una knowledge-based company che basa il suo vantaggio
competitivo sul know-how creato e trasferito da una parta all’altra
130
dell’organizzazione. Questa conoscenza è creata dai team che sviluppano
i progetti per i clienti: per non restare ad appannaggio solo dei membri del
gruppo che l’ha creata ed implementata, deve essere trasferita e messa a
disposizione di tutta l’organizzazione. Gli obiettivi sono: permettere di
sapere cosa fanno e come operano le varie unità per gestirle al meglio,
consentire il trasferimento della nuova conoscenza, delle innovazioni,
delle nuove soluzioni agli altri team che possono a loro volta utilizzare le
innovazioni in altri progetti simili, o adattarle per progetti diversi.
In definitiva, la costruzione delle storie di successo serve a raccontare una
esperienza aziendale, a cui hanno partecipato solo pochi membri, a tutta
l’organizzazione, evidenziando le problematiche affrontate, le soluzioni
adottate, gli errori fatti e gli incidenti di percorso: ciò aiuta gli altri membri
dell’organizzazione ad apprendere dalle esperienze altrui, aiutando ad
evitare gli errori, e offrendo un modello di successo che può e deve essere
replicato anche negli altri progetti.
La collezione dei case studies aiuta quindi a condividere la conoscenza
all’interno di una organizzazione molto frammentata (sia a livello di
business nelle varie unità che a livello geografico tra le varie filiali) e in cui
convivono professionalità profondamente diverse fra loro: account
manager, project manager, tecnici informatici, ingegneri software. I case
studies permettono di analizzare tutto l’operato aziendale, perché in ogni
progetto rientrano le attività di tutte le risorse umane dell’organizzazione.
Costituiscono quindi un quadro generale, un framework sull’andamento
aziendale, che aiuta ad individuare gli errori e i fallimenti per evitarli nel
futuro, e le esperienze di successo per poterle replicare.
I case studies rappresentano inoltre uno strumento molto efficace per
semplificare e rendere esplicito il know-how specialistico che altrimenti
sarebbe a solo appannaggio di chi lo produce, cioè gli ingegneri e tecnici
informatici, escludendo tutte le altre figure professionali all’interno
dell’azienda, come gli account manager che quei prodotti e servizi li
devono presentare e vendere ai clienti.
131
Il fine dell’utilizzo dei casi all’interno dell’azienda è quindi quello di
riassumere tutto l’operato aziendale, raccogliere ed immagazzinare in
maniera chiara e facilmente comunicabile tutte le informazioni utili
all’azienda, implementando la memoria dell’organizzazione, da cui è
possibile attingere informazioni ogni qual volta ce ne sia bisogno.
Va poi sottolineata la componente soft, quella che influisce sulla cultura
organizzativa in Aton. La libera circolazione delle informazioni favorisce lo
sviluppo di una cultura della conoscenza come valore fondante, in cui tutti
in azienda si sentono partecipi dei successi: ciò porta all’accrescimento
della fiducia e del senso di appartenenza e di orgoglio.
La figura n. 17 mostra un esempio di mini case study Aton ad uso interno.
Figura n. 17: il mini case study Diesel
132
4.6 GLI STRUMENTI PER DIFFONDERE I CASE STUDIES
ALL’INTERNO
Abbiamo visto nel terzo capitolo quali sono gli strumenti di
comunicazione interna presenti in Aton: i due principali sono ONportal, il
portale aziendale, e il bollettino interno mensile, a cui vanno aggiunte le
bacheche nelle sale caffé e la posta elettronica.
ONportal è il principale strumento di comunicazione e di condivisione delle
conoscenze presente in azienda. Come descritto, si tratta di un sito
interno continuamente aggiornato dove è possibile mettere a disposizione
di tutti informazioni, documenti, manuali, notizie, creando una sorta di
database aziendale on-line consultabile in maniera veloce e molto
semplice. Per permettere a tutta l’organizzazione di accedere ai case
studies è stato creato un link al centro della home-page del portale: con un
click si apre un file di PowerPoint che contiene tutti i mini case studies,
suddivisi per ASA. I mini case studies possono essere consultati, scaricati
e stampati. Viene naturalmente sottolineato ai collaboratori che si tratta di
materiale ad uso esclusivamente interno per il quale non è stata fatta
richiesta di autorizzazione all’utilizzo per altri scopi.
Figura n. 18: la presenza dei mini case studies sul portale interno
133
Altro strumento interno utilizzato per diffondere i case studies è il bollettino
interno mensile: a differenza di ONportal, questo strumento serve
principalmente a comunicare la presenza dei case studies, e dove sono
resi disponibili. Nel bollettino interno infatti vengono riportate le novità,
come ad esempio la messa on-line sul portale di nuovi case studies, o la
loro recente organizzazione per ASA. Il bollettino viene sia spedito
mensilmente a tutti i collaboratori via e-mail che messo a disposizione in
una apposita sezione di ONportal.
Altro mezzo, fisico e non digitale, per comunicare la presenza dei case
studies è rappresentato dalle bacheche presenti nelle sale caffé: qui
vengono appese informazioni e comunicazioni sia di carattere formale che
informale, vengono affisse comunicazioni riguardanti la pubblicazione di
nuovi casi, e vengono invitati i collaboratori a prenderne visione.
Infine, per diffondere informazione c’è la posta elettronica, con la quale
vengono spediti anche i bollettini mensili. Se necessario (ad esempio
quando non è ancora il momento di spedire il bollettino mensile) si utilizza
questo mezzo per diffondere informazioni e novità, come la pubblicazione
di nuovi casi.
4.7 I CASE STUDIES PER LA COMUNICAZIONE ESTERNA:
PROMOTION E ADVERTISING
Come anticipato, se un caso aziendale presenta requisiti come una
significativa rilevanza economica, una forte notorietà del cliente e una
disponibilità di quest’ultimo a concedere l’autorizzazione a pubblicare la
storia di successo e a partecipare ad iniziative di co-marketing, un caso da
interno può diventare esterno.
Dal punto di vista formale, il mini case study in formato PowerPoint non
cambia, a parte la mancanza delle diciture “riservato per uso interno”. Il
contenuto, dato che potrà essere letto da persone esterne all’azienda,
134
rimane invariato, ma viene reso dal punto di vista comunicazionale più
enfatico. La novità sta nella stesura del case study anche in formato
esteso Word. Si procede dunque alla raccolta di maggiori informazioni,
dati dettagliati, specifiche tecniche maggiori per quanto riguarda la
soluzione sviluppata, e ad una intervista più approfondita con il cliente.
Aton possiede più di tremilacinquecento clienti attivi, tra cui annovera
aziende e marchi prestigiosi e con forte brand awareness in ogni settore.
L’idea di utilizzare il nome e la notorietà di un proprio cliente per
promuovere le proprie soluzioni nasce da molte considerazioni:
• innanzitutto la possibilità di affiancare al proprio marchio, quello di una
media azienda che opera nel B2b, marchi di aziende prestigiose e con
una forte reputazione nel mass market come Api, Trudy, Granarolo,
Geox, Bassetti, Banca Intesa, Sony, Furla, Rana e molti altri;
• in un settore come quello dei servizi ad alta specializzazione, dei beni
fiducia di cui si può conoscere l’efficienza soltanto dopo l’investimento
e l’utilizzo, la creazione di una forte reputazione è indispensabile per
farsi conoscere, superare le diffidenze e creare vantaggio competitivo;
• in particolare, risulta estremamente efficace la strategia che utilizza la
parola del cliente per promuovere i prodotti e i servizi Aton. Con questa
tecnica, Aton si vuole proporre e presentare attraverso ciò che fa, ma
facendo parlare le grandi aziende con forte notorietà dei vantaggi dei
propri prodotti e servizi. È facile comprendere come sia molto più
efficace una comunicazione in cui a commentare i vantaggi apportati
dalle soluzioni Aton sia il presidente, l’amministratore delegato o l’IT
manager di una famosa azienda cliente e non Aton stessa. Di seguito
viene riportato un esempio di case study Aton esteso.
135
Figura n. 19: il case study Granarolo in formato esteso
136
137
4.8 GLI UTILIZZI DEI CASE STUDIES PER LA
COMUNICAZIONE ESTERNA
Sono davvero tanti gli utilizzi esterni delle storie di successo: gli
ONbook per gli account manager, il sito web, Atonews, le campagne di co-
marketing, gli articoli giornalistici, le pubblicità stampa, gli eventi
(conferenze/fiere/convegni).
I mini case studies vengono stampati su schede plastificate in formato A5
e inseriti assieme ad una presentazione aziendale su apposite cartelline,
nere o grigie, con il logo aziendale impresso, gli ONbook. Questi book
vengono consegnati poi agli account manager (della sede e di tutte le
filiali) per essere utilizzati durante il primo contatto con potenziali clienti: gli
agenti hanno così a disposizione uno strumento estremamente efficace ed
impattante per presentare l’azienda, le sue caratteristiche, i suoi prodotti e
servizi e le aziende che l’hanno scelta e sono rimaste soddisfatte delle sue
applicazioni.
Figura n. 20: immagini degli ONbook
138
I case studies, in questo caso le versioni estese scritte in Word e
successivamente trasformate in file Pdf, vengono messi on-line sul sito
web aziendale in una speciale sezione denominata “Ci hanno scelto”,
suddivisi per ASA: in questa area vengono enfatizzate le grandi aziende
che hanno scelto soluzioni Aton e il navigatore può informarsi sulle
applicazioni installate, i servizi erogati e il livello di soddisfazioni a
riguardo.
Figura n. 21: la sezione “Ci hanno scelto” del sito web Aton
I case studies in formato esteso vengono anche inseriti come articolo in
Atonews, l’house horgan periodico di Aton. Come sottolineato nel terzo
capitolo, Atonews è uno strumento di comunicazione studiato per uso
esterno, ma utilizzato anche all’interno tramite la messa on-line su
139
ONportal. Atonews viene messo on-line sul sito web dell’azienda e spedito
via posta elettronica a tutti i clienti, fornitori e partner. Nel sito è inoltre
possibile iscriversi alla mailing list per riceverlo direttamente sulla propria
casella e-mail.
Figura n. 22: il case study Olitalia sul numero di Settembre 2006 di Atonews
Gli studi di caso autorizzati vengono utilizzati anche nelle campagne di
cross-marketing. Queste campagne, realizzate per settore merceologico,
vengono attivate tramite la creazione e spedizione di cartoline ai clienti
target. In queste cartoline viene brevemente descritta una soluzione Aton,
e il destinatario viene invitato a scoprire sul sito web dell’azienda quali
benefici la soluzione può apportare alla sua impresa (nell’esempio visto
nel capitolo terzo, ad un produttore e distributore di latte e derivati viene
indicato come case study quello di Mila)
La realizzazione di un nuovo case study e la sua autorizzazione per uso
esterno viene seguita solitamente dalla sua pubblicazione, sotto forma di
articolo giornalistico, in una rivista specialistica. Questo permette ad Aton
di essere presente sui media, contribuendo alla diffusione del suo
marchio, delle sue applicazioni e dei clienti che a queste si sono affidati.
140
La figura n. 24 riporta la pubblicazione sul numero di Settembre 2006 della
rivista di business Mark Up del case study Mobil Record.
In queste riviste specialistiche sono anche state effettuate delle pubblicità
stampa, descritte nel terzo capitolo, che utilizzano il riferimento al case
study di un progetto presso una nota azienda per promuovere le soluzioni
Aton. E’ naturalmente presente l’indirizzo del link sul sito web dove è
presente il case study esteso.
Figura n. 23: pubblicità stampa ONgas con case study Api
I case studies, sotto forma di book, cartoline, libretti o altro, sono
naturalmente presenti a tutti gli eventi tematici (convegni, fiere, congressi,
manifestazioni) a cui Aton partecipa, a disposizione di chi è interessato ai
servizi e prodotti offerti dall’azienda.
Rimando al case studysul sito aziendale
141
Figura n. 24: articolo giornalistico sul case study MobilRecord, pubblicato nel numero di
Settembre 2006 della rivista Mark Up
142
5. CONCLUSIONI
Aton rappresenta un ottimo esempio, ed una conferma empirica,
della adattabilità e flessibilità della metodologia delle storie di successo.
Da strumento per la ricerca qualitativa per descrivere fenomeni aziendali
al fine di formulare teorie, il case study è stato trasformato dalla Direzione
Marketing Aton in uno strumento per raccogliere dati ed informazioni sulle
esperienze aziendali di successo con i propri clienti. Uno strumento
dinamico che permette di essere utilizzato efficacemente sia all’interno,
come abbiamo visto per la gestione e il trasferimento della conoscenza e
delle innovazioni, sia all’esterno per sviluppare la corporate reputation.
Aton è una azienda le cui core activities sono sviluppate dai
professionals, collaboratori con spiccate doti personali, indipendenti ed
autonomi nel proprio lavoro ma con la capacità di lavorare in team per il
raggiungimento degli obiettivi, rappresentati dalla soddisfazione delle
esigenze dei clienti. Questo tipo di collaboratori, che sviluppano i progetti
hardware e software per i clienti, devono interfacciarsi con dipendenti con
cultura professionale profondamente diversa: manager, agenti
commerciali, collaboratori amministrativi, addetti all’assistenza telefonica.
Questo ha portato alla necessità di sviluppare una forte cultura
organizzativa attraverso il rafforzamento della comunità aziendale, per
mantenere uniti ed allineati agli obiettivi tutti i diversi attori presenti in
azienda. Per questo motivo le storie di successo rappresentano un
efficace strumento per riassumere le attività aziendali presso i diversi
clienti. Permettono a tutta l’azienda di conoscere i progetti in corso, di
sapere dove e come stanno operando le varie unità aziendali. Come già
sottolineato, permettono inoltre di portare alla luce le cause che hanno
determinato il successo dei progetti, che rappresentano motivo di vanto ed
orgoglio per tutta l’azienda, con lo scopo di apprendere da queste
143
esperienze positive per poterle poi replicare in altri progetti. Ma non solo i
casi di successo sono importanti, anzi: nelle situazioni dove emergono
difficoltà, problemi e complicazioni si presenta l’opportunità di sviluppare
soluzioni alternative ed innovazioni vincenti, in un continuo circolo virtuoso
di problem-solving.
Ma l’utilizzo e la diffusione delle storie di successo ha riflessi positivi
anche all’esterno. Aton non si propone ai propri clienti come semplice
fornitore di soluzioni hardware e software, ma come vero e proprio
partner. Il rapporto con i propri clienti è dinamico e non si conclude con
l’operatività delle soluzioni istallate e il rilascio del feedback. Aton è
sempre presente presso il cliente per la risoluzione di problemi,
l’assistenza hardware e software, la fornitura di materiali di consumo, il
rinnovamento del parco macchine, lo studio di nuove soluzioni per le
esigenze che quotidianamente vengono alla luce. Tutto questo porta ad
un rapporto di grande fiducia tra Aton e i propri clienti. Questa fiducia si
concretizza e viene esplicitata attraverso quella che è stata chiamata “la
parola del cliente”: come abbiamo visto infatti, nei case studies si chiede al
cliente di individuare i vantaggi che le soluzioni Aton hanno apportato al
proprio business. Attraverso gli studi di caso divulgati anche all’esterno
tramite il sito, le pubblicità stampa, le attività di cross-marketing, gli articoli
giornalistici, Aton sfrutta la fiducia di clienti prestigiosi e con forte brand
awareness per sviluppare la propria corporate reputation. In un mercato in
cui ciò che si vende è un credence good, la fiducia e la soddisfazione dei
propri clienti risulta essere un asset fondamentale per rafforzare la propria
reputazione, in particolare per una azienda che opera nel B2b.
I vantaggi che le storie di successo portano all’azienda possono essere
così riassunti:
• uno strumento che permette di analizzare i progetti svolti presso i
clienti;
144
• un framework, un quadro generale delle attività svolte per rispondere
alla domanda: “cosa fa l’azienda?”;
• uno strumento di esplicitazione e gestione di dati, informazioni,
conoscenza, innovazioni;
• uno strumento per la condivisione e il trasferimento del know-how;
• uno strumento di apprendimento organizzativo per replicare i successi,
evitare di ripetere gli errori commessi e cadere in difficoltà ed incidenti
di percorso;
• uno strumento di comunicazione interna che sviluppa il senso di
appartenenza, la fiducia tra collaboratori, l’orgoglio e la cultura
aziendale;
• uno strumento di comunicazione esterna per sviluppare la corporate
reputation attraverso la fiducia e soddisfazione dei propri clienti, per
presentarsi al meglio al mercato e ai potenziali acquirenti;
• uno strumento di relazione con i propri clienti.
Come sostiene Campodall’Orto (2003), nel concreto il KM non consiste
tanto nella gestione della conoscenza o nella gestione delle risorse
umane, ma si basa sulla creazione di un ambiente in cui gli individui siano
naturalmente incoraggiati a condividere know-how. Può essere dunque
visto come un processo nel quale le persone vengono invitate ad allineare
gli obiettivi e a mettere insieme dati, informazioni ed esperienze per
produrre nuove conoscenze che possano essere utili ed utilizzabili per il
singolo e per l’impresa.
Come abbiamo visto, in Aton sono presenti molteplici metodi di gestione,
condivisione, immagazzinamento e trasferimento delle conoscenze. Le
storie di successo rappresentano un particolare ed innovativo strumento
che si basa sulla raccolta ed elaborazione di dati, informazioni ed
esperienze direttamente dalle persone coinvolte nel fenomeno sotto
studio, in questo caso i progetti presso i clienti.
145
Naturalmente, anche questo strumento incontra delle difficoltà nella
sua costruzione e diffusione.
La principale criticità è riscontrabile nella difficoltà di far capire alle
persone coinvolte l’importanza della costruzione delle storie di successo,
questione nota a chi si occupa di marketing, ma non sempre facilmente
comprensibile alle risorse umane appartenenti altri dipartimenti aziendali.
La costruzione di un case study è un processo che richiede agli individui
coinvolti la comprensione dei suoi obiettivi e la disponibilità del proprio
tempo e il del proprio know-how. Questa disponibilità di tempo, da parte
degli account manager e dei tecnici, spesso non è sufficiente per
raccogliere tutte le informazioni necessarie. E’ dunque necessario far
comprendere l’importanza strategica di questo strumento, al fine di creare
un ambiente favorevole al trasferimento della conoscenza che incide
fortemente sulla qualità del case study.
Se la prima e principale criticità riguarda la difficoltà di far comprendere
l’importanza delle storie di successo e dei loro risultati all’interno
dell’azienda, la seconda riguarda invece la comprensione dell’efficacia
comunicativa e relazionale di questo strumento da parte dei clienti. Questi
ultimi infatti sono molto spesso restii a concedere l’autorizzazione per
l’utilizzo esterno dei casi, step necessario per l’inizio del circolo virtuoso di
relazione Aton-cliente. Questo implica da parte del cliente la disponibilità
ad essere intervistato e a concedere l’utilizzo del suo marchio per tutte le
tipologie di comunicazioni esterne che abbiamo analizzato. Aton punta ad
essere partner dei sui clienti non solo dal punto di vista dell’offerta di
prodotti e servizi, ma anche dal punto di vista comunicazionale. Perché
questa unione porta benefici ad entrambi: ad Aton la possibilità di poter
utilizzare la forza del marchio e la soddisfazione di clienti con alta visibilità
per promuovere le proprie soluzioni; alle aziende-clienti l’opportunità di
essere presenti nei media specializzati nel settore tecnologico (giornali e
riviste, siti web, eventi) grazie alla partnership con una azienda leader nel
proprio settore. Quindi, Aton può sviluppare la propria brand reputation
146
anche al di fuori del proprio settore, mentre i propri clienti possono
rafforzare la propria immagine di azienda al passo con i tempi anche dal
punto di vista tecnologico.
Dalla analisi di queste due criticità, che riguardano la stessa
questione ma con target differenti, emerge che Aton deve sviluppare la
conoscenza sui case studies e sulla loro importanza per lo sviluppo
dell’azienda, sia internamente che esternamente.
Una proposta per tentare di risolvere queste problematiche riguarda
l’attivazione di strumenti empirici per individuare le opinioni delle persone,
cercando poi di correggerle diffondendo la conoscenza sulle storie di
successo.
Il primo passo dunque è la costruzione di un questionario per sondare il
livello di conoscenza sulla metodologia dei casi di successo ed il livello di
interesse per i casi pubblicati, sia internamente che esternamente. Come
abbiamo visto, la Direzione Marketing mette a disposizione i casi
attraverso molteplici mezzi: il sito, il portale, i book, le pubblicazioni di
articoli su riviste specializzate, il bollettino, l’house organ. È importante
capire quanto lo studio di caso sia utilizzato e come venga percepito, se
venga ritenuto utile ed interessante e se sia in grado di raggiungere gli
obiettivi.
Un questionario apposito può essere predisposto anche per i clienti, sia
quelli che hanno dato l’autorizzazione che quelli che non l’hanno
concessa. Lo scopo è farsi spiegare dai primi i vantaggi percepiti
dell’utilizzo di questo strumento, e dai secondi quali sono le barriere e le
perplessità che li portano a non rilasciare l’autorizzazione.
Dopo aver raccolto ed analizzato le informazioni che provengono da
collaboratori interni e clienti, la seconda fase riguarda l’attivazione di
attività interne e la costruzione di una brochure illustrativa sulla
metodologia dei casi di successo.
Riguardo l’attivazione di attività interne, una tipologia adatta a raggiungere
l’obiettivo, ovvero riflettere sull’importanza del racconto delle esperienze
147
aziendali, e già utilizzata nella diffusione delle learning histories, è il focus
group. In riunioni a gruppi, non troppo numerosi per permettere a tutti di
partecipare in maniera attiva, un moderatore restituisce i risultati della
survey, sottolineando le criticità e le perplessità emerse. Si procede poi
con la discussione: ogni partecipante è libero di esprimere le proprie
opinioni in merito. Il focus group è un’attività utile per studiare in profondità
le problematiche, permettere ad ognuno di dire la propria idea, raccogliere
indicazioni utili, difficoltà, proposte e miglioramenti da apportare. Anche se
lo scopo principale è naturalmente quello di spiegare gli obiettivi che i
case studies sono in grado di raggiungere, e la loro importanza strategica
per l’azienda.
Per raggiungere il target esterno invece, ovvero i clienti, la proposta è di
predisporre la creazione di una brochure. Un documento che esponga la
metodologia delle storie di successo, il suo iter di costruzione ed i suoi
obiettivi, sottolineandone l’efficacia comunicativa e i risultati in termini di
immagine e reputazione che si possono ottenere.
Tutto questo ha come obiettivo la costruzione e lo sviluppo di un
ambiente fertile dove condividere la conoscenza, relazionarsi con i clienti
e le loro esigenze.
La metodologia dei casi di successo è un processo che coinvolge tutta
l’azienda e la sua declinazione in una organizzazione come Aton rivela
tutta la sua efficacia nella gestione del patrimonio di conoscenze. Tutta
l’enorme mole di dati, informazioni ed opinioni riguardo a progetti e clienti
viene elaborata ed esplicitata attraverso uno strumento semplice,
fortemente comunicativo ed impattante. Uno strumento che offre
l’opportunità ad aziende che operano basandosi su progetti e clienti, e che
non hanno sbocco nel mercato mainstream, di comunicare all’interno ed
all’esterno il proprio operato, di far parlare di sé attraverso articoli di
giornale, eventi, siti web.
148
Uno strumento che coinvolge non solo l’azienda, ma anche i suoi clienti,
invitandoli a partecipare a questo circolo virtuoso che coniuga relazione e
comunicazione. L’efficacia comunicativa raggiunge poi i massimi livelli
nella “parola al cliente”: è esso stesso a parlare di Aton e dei vantaggi che
i prodotti e servizi offerti hanno apportato al proprio business.
Figura n. 25: la “parola al cliente” Unico, società di distribuzione farmaceutica (da
www.aton.eu/casestudies/index.html)
Come si nota dalla figura n. 25, la soddisfazione di un cliente, in questo
caso il maggiore distributore farmaceutico interamente di proprietà dei
farmacisti e terzo polo a livello italiano, risulta molto efficace per
pubblicizzare le soluzioni Aton e l’azienda stessa, con particolare
riferimento ai potenziali clienti con analoghe esigenze.
L’utilizzo delle storie di successo è ormai ben radicato nelle
politiche aziendali di Aton; il top management e la Direzione Marketing
sono consci dei risultati ottenuti grazie a questo strumento e intendono
proseguire sulla strada che è stata tracciata.
Alla luce dell’analisi fatta in questa tesi, l’azienda deve puntare a
consolidare la propria reputazione anche al di fuori del settore del mobile,
per riuscire a raggiungere un più ampio mercato: per fare questo, oltre al
rafforzamento della corporate reputation, si deve puntare allo sviluppo
della awareness del brand, per riuscire superare le diffidenze nei riguardi
di prodotti e servizi altamente innovativi, ma poco conosciuti.
“Riteniamo la scelta di Aton come partner tecnologico uno degli elementi di successo del nostro piano industriale dell'ultimo quadriennio. Un'azienda capace di supportare la nostra capacità operativa con soluzioni integrate, soprattutto relative al Service, che vanno ben oltre il semplice rapporto commerciale di fornitura dei dispositivi e che si sviluppano costantemente in nuove attività di re-engineering da cui ambedue le nostre Società traggono benefici percepibili".
Ing. Antonio M. Aitoro - Direttore Operazioni di Unico
149
Per questo Aton ha intrapreso la via delle partnership con i propri clienti
più prestigiosi: come abbiamo visto, l’azienda, leader nel suo settore in
Italia, possiede tra i suoi tremilacinquecento clienti le principali aziende e
multinazionali. Gli obiettivi sono la crescita, il consolidamento della
leadership in Italia e l’espansione all’estero.
Come sottolineato, le storie di successo rappresentano un ottimo
strumento per raggiungere gli obiettivi: rendere stabili ed interattive le
relazioni con i clienti, sfruttare la forza del loro marchio e la loro
soddisfazione riguardo ai prodotti e servizi offerti per promuovere
l’immagine di Aton in Italia e nei mercati esteri dove l’azienda è presente.
Questo sarà possibile se Aton riuscirà a far comprendere l’efficacia della
metodologia dei casi e la loro importanza strategica, sia ai propri
dipendenti che ai clienti.
Perché il maggior numero di attori si senta coinvolto in questo processo di
crescita, non soltanto il top management e la Direzione Marketing.
Per sapere cosa fare e in che direzione andare, bisogna sapere cosa si è
fatto nel passato e cosa si fa nel presente. Le teorie sulla learning
organization e sulla gestione del knowledge indicano la strada della
riflessione e comprensione sul proprio operato, sulle esperienze fatte e
sugli insegnamenti tratti: il learning by doing.
I case studies, con la loro adattabilità e flessibilità, costituiscono un
ottimo strumento operativo per raggiunge questi obiettivi, per far riflettere
l’organizzazione, per individuare ed esplicitare gli insegnamenti, le
scoperte e le innovazioni contenute nelle esperienze passate.
150
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