Le regole matematiche della neve

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Del Ciotto - Vincelli, thriller

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Dino Del Ciotto Giosanna Vincelli

LE REGOLE MATEMATICHE DELLA NEVE

A Evan e Diego

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LE REGOLE MATEMATICHE DELLA NEVE Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Del Ciotto - Vincelli ISBN: 978-88-6307-371-3

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Luglio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Parte Prima

Le geometrie dei fiocchi di neve

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Domenica 17 febbraio 1963 ore 12:48 «Ci sarà pure un perché, no?» domandò trafelato l’appuntato Bagnacavallo. «Forse...» La neve scricchiolò sotto il passo pesante degli stivali. L’incedere affaticato deformava i movimenti dei due uomini. Il tenente Alfonso Sciogligarbugli aggrottò la fronte; a ogni passo, il sangue rifluiva nervoso gonfiandogli le vene del collo. Sbuffò e tese le braccia verso un appiglio inesistente. Cercò di trovare un equilibrio che lo facesse arrivare a destinazione senza l’odiato senso di spossatezza, adagiò lo stivale frantumando lo strato fragile del manto nevoso e alzò lo sguardo. Tentò di assumere una posizione eretta: se ci fosse stato uno specchio si sarebbe visto come un cane stanco e disilluso con la lingua penzolante. Per una strana forma di orgoglio non poteva accettarlo. Prese fiato sputando nuvole di vapore. Guardò Bagnacavallo che gli incespicava al fianco. L’appuntato si fermò a sua volta. Con le gambe per metà scomparse nella neve e gli occhi curiosi sembrava una nuova specie di arbusto che cresceva lassù in montagna. Si prodigò per non sorridere. A una ventina di metri c’era la baita che dovevano raggiungere. Sullo spiazzo era parcheggiata la FIAT 600 verde dei due carabinieri giunti lì prima di loro. Per evitare di coprire eventuali prove, tuttavia, il tenente e l’appuntato non potevano seguire il sentiero più comodo. La nevicata della notte non aveva coperto del tutto i segni dei copertoni lasciati da chi, solo qualche ora prima, aveva abbandonato in fretta e furia il luogo. Sciogligarbugli si guardò intorno: i faggi ingobbiti sembravano vacillare sotto il peso della neve. Ogni tanto un ramo si scuoteva buttando giù il candore eccessivo. Nella spettacolarità della natura c’era semplicità, nulla che desse una qualche garanzia che un giorno sarebbe potuto essere tutto diverso. Semplicemente una sterminata coltre che copriva ogni cosa; e al centro, sistemata con cura, una casetta fatta dall’uomo. Di baite come quella, ce ne potevano essere quattro o cinque nel raggio di un chilometro e ognuna si raggiungeva, quasi per caso, da mulattiere

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che accompagnavano direttamente dinanzi alle grandi pergole d’ingresso. Ogni sentiero avrebbe ricondotto, scendendo a valle, alla statale che, presa verso nord, conduceva direttamente ai piedi delle piste piene di turisti. Mentre il tenente e l’appuntato coprivano gli ultimi faticosi metri, all’interno della baita due carabinieri parlottavano dell’accaduto, stando ben attenti a non toccare nulla. Facevano supposizioni e con il passar dei minuti avrebbero raggiunto il momento in cui le supposizioni si tramutavano in insinuazioni. Sapevano, però, che per trasformare le insinuazioni in qualcosa di concreto ci voleva la capacità di un alchimista e la fortuna di un miliardario nato con le pezze al culo. Quando sentirono un rumore sordo provenire dal porticato, un identico fremito li percorse entrambi lungo tutto il corpo. Si voltarono mettendo mano alle pistole d’ordinanza e si sentirono sollevati quando videro il tenente e l’appuntato che si scrollavano dagli stivali i grumi del ghiaccio più ostinato. Uno dei due, il più lesto, andò incontro ai nuovi venuti. Un tetro silenzio accompagnò l’incontro. L’unico rumore era la neve che crollava dai rami stanchi e si andava a posare con un plop, sopra altra neve a terra. «Venga, tenente, venga... stia attento.» disse il Brigadiere Gennaro Mordace. Sciogligarbugli salutò il brigadiere con un gesto del capo, poi, voltandosi fece lo stesso gesto nella direzione dell’altro carabiniere presente sul posto: Mario Caccavello. Fatto ciò, fece un passo facendo crepitare le assi di legno del porticato e scosse la testa come a mandare via pensieri che rischiavano, temeva, di occupargli la mente. Salì i pochi gradini che conducevano all’ingresso. Pochi istanti e una puzza di vomito mista a una più forte di intestini spurgati gli arrivò come un pugno direttamente nello stomaco. Percepì l’ostinazione del brigadiere nell’abbassare lo sguardo e si rese conto che non l’aveva mai guardato in faccia nella frazione di secondo in cui gli aveva parlato. Decise di concentrarsi sulla casa. Sapeva che in genere quel tipo di baita in montagna aveva un soggiorno grande con camino e angolo cottura, due camere da letto e un bagno. In alcuni casi, nella valle, quel genere di abitazioni singole si ergevano su due piani, ma in quel versante della montagna erano tutte spalmate su un piano solo. Mordace si voltò e per la prima volta fissò gli occhi del superiore. «Signor tenente... l’accanimento usato contro il corpo ha del maligno.

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Una crudeltà pazzesca. Una efferatezza, un male indescrivibili.» «Proseguiamo.» rispose risoluto Sciogligarbugli. Attraversarono la porta d’accesso, dopo essere passati dinanzi a Caccavello che li aveva attesi con solennità. Seguito dall’appuntato Bagnacavallo, il tenente si ritrovò davanti a una scena raccapricciante. Istintivamente si portò il braccio dinanzi alla bocca così da filtrare il respiro con la manica del giaccone. Bagnacavallo, a sua volta, si calzò meglio il cappello come a sottolineare la sua presa di posizione davanti a quello che considerò un caos di sangue e membra. «È stato chiamato il medico legale?» chiese il tenente, accorgendosi nello stesso istante che una strana sensazione stava montando nel suo stomaco. La nausea stava cercando di farsi strada; lui con forza riuscì a metterla a tacere. «Certo, sta arrivando.» rispose Mordace. «Nessun indizio sull’identità della persona? O delle persone?» L’ultima parte della domanda era stata pronunciata con un leggero brivido increspando il suono delle sillabe. «No, nessun indizio!» Il tenente fece due passi in avanti e si ritrovò completamente circondato dall'orrore. Non gli era mai successo, non così. Fece per voltarsi e invitare gli altri a seguirlo ma quando, con la coda dell’occhio, notò Bagnacavallo e Caccavello sgattaiolare fuori, desistette dall’intento. «Si sa a chi appartiene il rifugio?» «A un certo Francesco Maria Centonze.» rispose Mordace dispiegando un foglietto dove in precedenza aveva preso appunti dopo aver chiamato il comando. «Anni cinquantatre, residenza in via Pascoli 14... giù in città.» Finì di leggere e con cura rimise il foglietto, attentamente ripiegato, nella tasca. «Questo non vuol dire molto. È sempre possibile che qualcuno si sia intrufolato nello chalet e dopo averci passato la notte abbia commesso l’omicidio.» ragionò il tenente cercando con lo sguardo una prova che dimostrasse la possibilità di uno scasso. «Le finestre erano chiuse ermeticamente dall’interno. La porta era accostata... dato che chi è uscito per ultimo evidentemente non la voleva chiusa. Non sono presenti segni di forzatura o scasso. Chi è entrato con tutta probabilità disponeva delle chiavi.» «Devo avvertire il colonnello nonché il questore. Lo verrà a sapere

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anche la stampa...» disse il tenente. Si voltò lentamente verso il brigadiere che negli ultimi secondi aveva iniziato a tradire una certa insofferenza. «Prepara il fuoristrada. Io, tu e Bagnacavallo stiamo andando in città.» «Ok.» rispose Mordace uscendo di corsa. Sciogligarbugli fece un sorriso. Si accorse che la nausea stava di nuovo facendo capolino e lo sforzo protratto per scacciarla in precedenza l’aveva lasciato stremato. Con ogni probabilità non ce l’avrebbe fatta a combatterla nuovamente. Quest’idea lo fece definitivamente capitolare e con premura decise di uscire fuori da lì. L’aria limpida e pulita dell’esterno lo riaccompagnò sulla terra ferma. Tornò a respirare a pieni polmoni e ogni getto d’aria che raggiungeva l’intestino gli faceva riassumere una posizione eretta e vigorosa. «Nel perimetro della baita non sono state riscontrate tracce di passi?» chiese ancora. «No.» confermò la supposizione del tenente, Mordace. Allora il tenente velocemente si volse verso il fuoristrada con cui era arrivato dieci minuti prima. Non aveva voglia di fermarsi un momento di più nei pressi dell’abitazione. Il brigadiere e l’appuntato gli andarono dietro incespicando e incagliandosi nella neve alta. «Dite a Caccavello che faccia la guardia fino all’arrivo del dottore. Noi andiamo in città.» Mordace si voltò verso il carabiniere che era rimasto solo. «Stanno arrivando i nostri. Stai là. Non ti muovere, aspetta loro.» Detto questo tornò a inseguire sfacchinando il capo, che ormai aveva già raggiunto l’Alfa Romeo 1900 Matta parcheggiata seminascosta tra gli alberi.

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Domenica 17 febbraio 1963 ore 11:22 «Deve essere questa!» gracchiò sarcastico il Brigadiere Gennaro Mordace. Caccavello, al posto di guida, con il viso schiacciato sul parabrezza, cercava la strada dove sembrava che la strada non ci fosse mai stata. L’auto procedeva lentamente. Solo una parvenza di mulattiera tra i radi alberi. A terra, due rette perfettamente parallele e non del tutto coperte dalla neve scesa durante la notte davano adito al pensiero di aver imboccato la strada giusta nel labirinto delle possibilità. La 600 sgommò un paio di volte facendo derapate convulse e creando sorrisi sprovveduti sulla bocca degli occupanti. In lontananza cominciò a profilarsi una sagoma; più passavano i secondi più cresceva l’immagine di quello che doveva essere un rifugio. «Be', sembra che siamo finalmente arrivati.» «Non c’è neanche un auto parcheggiata. Qualcuno ieri sera ha fatto baldoria... una bella festicciola del sabato sera e stamattina tutti in macchina e di nuovo al calduccio.» ragionò Caccavello con le mani strette sul volante. «Sicuro... però si va ugualmente a dare un’occhiata, anche per il rapporto. Altrimenti cosa minchia ci scriviamo?» «Sì capo!» ironizzò Caccavello, frenando e fermando l’auto con un tonfo. Il brigadiere scese e si diresse verso il pergolato dell’abitazione. «Cosa non darei per avere un rifugio così... per venirmi a riposare quando sono troppo stanco.» fece Mordace scuotendo la testa. «Eh sì, perché ti stanchi troppo eh?» lo schernì Caccavello. Il brigadiere sbuffò roteando gli occhi. Si strinse nelle spalle, cacciò lo stivale dalla neve e toccò il legno. Salì la rampa facendo scricchiolare le tavole. «Sembra quasi non ci sia passato nessuno nell’ultimo paio d’anni!» urlo Caccavello, nascosto sul lato opposto dell’entrata. Mordace si avvicinò alla porta. La faccia annoiata come risposta alle parole del collega. Strinse le nocche a pugno e batté due volte la soglia. «C’è nessuno?» domandò.

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Provò di nuovo a bussare ma non ricevette nessuna risposta. Si allargò verso la finestra che dava sul portico. Giusto per dare un occhiata all’interno. «Metti in moto che stiamo andando via.» sbraitò verso il collega che già di suo, dopo aver aggirato il rifugio, era tornato nei pressi della gazzella. Ma quando avvicinò il viso ai vetri della finestra, che i battenti spalancati lasciavano aperta e incustodita, vide qualcosa di molto strano e confuso. «Oh cazzo!» Si precipitò di nuovo verso l’ingresso. Prese la rincorsa con l’idea di buttare giù la porta, ma l’impatto tra la spalla carica del suo peso e la soglia troppo debole per essere chiusa realmente a chiave, lo portò a proseguire la spinta direttamente nella stanza. Con gli occhi pieni di stupore si ritrovò disteso faccia a terra. Una manciata di secondi più tardi, un urlo agghiacciante accolse Caccavello sulla soglia. Lo spettacolo era raccapricciante. Mordace era steso a terra e sembrava esser caduto nella centrifuga di una lavatrice, dopo che un paio di ragazzini per gioco ci avevano inserito un pomodoro. Solo che lì non c'era pomodoro. C'era sangue che imbrattava tutto. Solo sangue. A una parete erano poggiati i resti di un essere umano di sesso maschile, squarciato e dilaniato. Al tronco mancavano le braccia, una gamba, il pene e la testa. Nei punti dove questi organi erano stati recisi, grumi di materia e sangue rappreso erano coagulati senza soluzione di continuità. All’altezza dello stomaco il busto era aperto come un vulcano in eruzione e dal taglio fuoriuscivano le interiora ammucchiate di fianco. Il sangue che aveva lottato per cercare di cicatrizzare era rassodato e grumoso; sparso un po’ dappertutto. Ancora sangue. Sul tavolo, sulle sedie, sul divano. Sui fornelli, nell’angolo cottura, una mano fuoriusciva da un pentolone. Sotto il tavolo, al centro della stanza, c’era la testa mozzata. Senza occhi, senza ciocche di capelli, col cuoio capelluto nudo. Come una palla da calcio, sembrava essere stata lasciata lì sbadatamente da qualcuno annoiato che dopo aver palleggiato per un po’, avesse trovato qualcos’altro da fare. Un secchio era capovolto a terra e internamente c’era arrotolata una matassa, anch’essa inzuppata di sangue. Qualcosa come una corda

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partiva dalla matassa e finiva direttamente nello stomaco lacerato. Sul divano, una gamba con le ossa spolpate che fuoriuscivano dal moncone era stesa come se fosse stata adagiata delicatamente con la più cauta accuratezza. Caccavello si voltò e corse fuori, dove genuflesso lasciò andare lo stomaco a un altro tipo di eruzione. Come una furia Mordace gli passò accanto diretto verso la 600. Somigliava a un animale che corre per la propria salvezza, incespicando ripetutamente sui suoi passi e scivolando sulla neve fresca. Raggiunta l’auto afferrò la radio che, per un paio di volte, manco fosse una biscia, gli sgusciò dalle mani. Quando l’ebbe ben stretta tra le dita chiamò la caserma. «Cazzo!» urlò nella radio. Caccavello, sentendolo, pensò che era già la seconda volta che il brigadiere diceva una parolaccia e questa per di più direttamente alla radio. Ma fu solo un momento. Già sentiva lo stomaco tornare a ribollire.

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Domenica 17 febbraio 1963 ore 14:37 Una villa del genere la si vedeva solo al cinematografo. Ci avevano messo poco a trovarla. Un cancello a punta sovrastava l’ingresso. Verso destra e verso sinistra si prolungava in propaggini di ferro a formare una staccionata con arabeschi incrociati. Sui due lati, la recinzione sembrava non avere fine. Sul muretto basso accanto alla cancellata, subito sopra i pulsanti del citofono c’era una lastra di marmo dove intagliato in stile liberty figurava il nome della residenza: Villa Centonze. Non potevano esserci dubbi. Quello era il posto che stavano cercando. Ovviamente, nessuno nell’auto pensava di aver già risolto il caso. E come avrebbero potuto pensare una cosa del genere? In verità il tenente, come gli altri, era ancora sconvolto da ciò che gli aveva riempito gli occhi. Il brigadiere Mordace scese. Sciogligarbugli lo sentì pronunciare solo qualche frase frastagliata, tuttavia riconobbe la parola “...carabinieri” ripetuta un paio di volte. Poi il cancello si aprì e il gippone poté procedere. Un lungo sentiero d’ingresso, costeggiato da alte aiuole, portava direttamente dinanzi alla villa. Bagnacavallo cercò di guardare oltre, ma era un mondo nascosto e progettato per rimanere nascosto agli occhi di chi arrivava percorrendo il vialetto d’accesso. «Minchia.» sibilò Mordace. «Puoi dirlo forte.» rispose Bagnacavallo. Oltre le aiuole si immaginavano prati inglesi perfettamente curati. Spuntavano diverse querce, varie statue di marmo, un paio di fontane e qualche lampioncino caratteristico. Tutto ricoperto da una lieve spruzzata di neve. Migliaia e migliaia di metri quadrati di giardino. In più ai lati della villa spiccavano un campo da tennis e una piscina. I carabinieri raggiunsero la facciata del palazzo. Scesero dall’auto e si diressero in silenzio verso il grande portale, per guadagnare il quale dovevano salire sei o sette gradoni. Arrivati davanti all’uscio, Mordace si prese la briga di bussare. Attesero un paio di secondi, dopodiché un uomo in livrea aprì il

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portone. «I signori desiderano?» chiese con solennità. Sciogligarbugli si sentì come un mendicante alla porta di un aguzzino. Aveva il potere, se solo avesse voluto, di metter fine a ciò che sospettava ben presto si sarebbe tramutato in un teatrino. Se lo sentiva. Sarebbe stato trascinato nel gorgo dell’irreale. Ma non fece nulla. Restò in silenzio, risucchiato in un compito difficile da gestire. «Dovremo parlare con il signor Francesco Maria Centonze.» annunciò Mordace. Quel che avevano riconosciuto come il maggiordomo si voltò e con la mano accompagnò l’ingresso dei carabinieri nella villa. Bagnacavallo restò fuori di guardia. Gli altri due penetrarono nell’androne smisurato. Il maggiordomo indicò una panca dove avrebbero potuto attendere l’uomo che cercavano, mentre lui scomparve a chiamarlo. «Ora basta!» tuonò Mordace. «Che cavolo, andiamo di là, facciamogli vedere noi.» «No.» rispose il tenente in tono fermo e deciso. «E se quello scappa? Voglio dire, per il momento è l’unico indiziato?» «Indiziato è una parola grossa.» rispose il tenente. Con calma si adagiò sulla panca. Lottava per non perdere il controllo della situazione, tuttavia sentiva qualcosa sfuggirgli di mano. Una sensazione strana. Il senso di claustrofobia non l’aveva abbandonato del tutto. Aveva bisogno della tensione ma aveva soprattutto bisogno che il senso di irrazionalità non lo sovrastasse. «Salve.» Apparve un uomo sulla cinquantina, seguito da altri due, anche loro suppergiù della stessa età. Camminavano con passo felpato e silenzioso. «Lei è il signor Centonze?» chiese Mordace. «Certo.» rispose l’uomo fissando gli occhi freddi del tenente, snobbando quelli molto più caldi del brigadiere. Evidentemente conosceva molto bene mostrine e gerarchie. «Che cosa posso fare per voi?» «È stato ultimamente alla baita che possiede su in montagna?» domandò senza preamboli il tenente. L’uomo si mise a ridere, ridendo si voltò verso i due tizi che l’avevano seguito a un passo. Finita la pantomima rispose. «Oh, mio Dio, no. Non vado in montagna da almeno un anno? Per quale motivo mi fa questa domanda?»

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«C’è stato un omicidio.» intervenne istintivamente Mordace. Il tenente cercò di fulminarlo con lo sguardo ma non riuscì a catturare gli occhi sfuggenti del brigadiere. «Cosa?» «Sì, un omicidio. Pensiamo che qualcuno si sia introdotto nello chalet a vostra insaputa, abbia fatto un po’ di rumore e ci sia scappato il morto. In ogni caso ho il dovere di farle qualche domanda.» disse il tenente. L’uomo si voltò per una frazione di secondo verso chi l’aveva seguito. Con calma tornò di rivolgersi stranamente guardingo al tenente. «Sono a vostra completa disposizione, nondimeno voglio farle presente che lei ha interrotto un pranzo e, dato che ha intenzione di farmi qualche domanda, ho il dovere di presentarle i miei commensali, che oltre a essere ottime forchette sono anche i miei avvocati...» L’uomo indicò prima uno e poi l’altro. «L’avvocato Augusto Citterio e l’avvocato Orlando Lanfranchi. Adesso potete procedere come riterrete più opportuno.» Quindi più duro, aggiunse: «Tenete presente, però, che il cibo in genere si raffredda.» «Volevo solo chiederle che auto usa in genere?» Uno dei due avvocati si fece avanti. Disse: «Che domanda è questa? Sta facendo qualche insinuazione, per caso?» «Calma calma...» lo tranquillizzò Centonze. «Dobbiamo prendercela per domande così banali? Non vorrei che il tenente pensasse male. Dunque, io esco in genere con una Ferrari 250 gto, modello dello scorso anno.» «E in casa avete altre macchine?» incalzò il tenente, conoscendo già la risposta. «Mi scusi ma non è mia intenzione farle perdere tempo. Può essere più diretto... non si preoccupi, dica quello che deve dire.» incoraggiò l’uomo. Il tenente e il brigadiere non fecero una piega. «Di che colore sono le sue auto e quelle dei suoi familiari?» «Ehi un momento?» si intromise un avvocato. Ma istintivamente Centonze, semplicemente alzando l’avambraccio, mise fine all’accenno di protesta. «Dopo questa domanda possiamo tornarcene a pranzare? Mi dà la sua parola?» chiese il padrone di casa. Il tenente non batté ciglio. Si sentiva un astuto giocatore, come spesso gli era capitato nel suo lavoro. Una sensazione che gli trasmetteva strani brividi. «Allora la mia è nera, quella di mia moglie è bianca e quella di mio

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figlio è celeste. Poi abbiamo anche un’altra bianca e una rossa.» L’uomo sogghignò nel modo eccentrico che l’aveva caratterizzato fin dall'inizio. Questo era il momento che il tenente aspettava e prediligeva: il momento della rivelazione. Il brigadiere increspò gli angoli della bocca verso l’alto. «Suo figlio possiede una Bentley?» «Certo. Può sembrare un po’ eccessiva per un ragazzo, ma la pretese e non ho saputo dire di no.» «Una Bentley celeste?» «Sì, una Bentley S1 celeste. Un po’ eccentrico vero?» «È in casa?» «Certo.» «Purtroppo suo figlio deve seguirci in caserma. Dovrà rispondere ad alcune domande.» L’uomo rimase di stucco, come in una commedia di second’ordine si fece lentamente da parte, subito aggirato dai suoi avvocati che iniziarono le loro tirate sull’innocenza assoluta, sul garantismo e sugli sbagli che a volte si fanno e che in genere costano tantissimo a una carriera.

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Domenica 17 febbraio 1963 ore 14:08 Nella piazza centrale del paesello a valle, proprio dalla parte opposta di dove era situato il municipio, c’era la caserma dei carabinieri. In verità il paese si ergeva in una piana talmente tanto vasta che le quattro case sembravano perdersi. Visto dall’alto aveva l'aspetto di una guglia della montagna caduta inaspettatamente e rotolata fino ai piedi della catena dei monti. In realtà null’altro che un appendice insignificante in uno spettacolare panorama. Il maresciallo Capoccia inforcò gli occhiali e prese carta e penna. Si trovava nel suo ufficio. Alle pareti un paio di quadri a olio raffiguranti una cima innevata vista dalle varie angolazioni. Una finestra si affacciava direttamente sul vero pinnacolo innevato e lo sbalzo prodotto dal vicino accostamento tra finzione e realtà lasciava spesso disorientato chiunque entrasse nell’ufficio. Poco più di lato una foto del generale capo dei carabinieri De Lorenzo accanto a quella molto più piccola del presidente della repubblica Antonio Segni. La polvere sovrastava l’ambiente, in alcuni punti, negli angoli nascosti soprattutto, pareva quasi essercene a mucchietti grandi come un pollice. Tutto creava una strana sensazione dato che non si avvertiva il minimo fastidio olfattivo, al contrario un bizzarro odore di freschezza aleggiava costantemente nell’aria. Lo stesso maresciallo Capoccia pareva scappato con un certo affanno direttamente da un'altra dimensione. Sulla cinquantina, il naso a becco sovrastava il viso e la testa sovrastava il corpo, in proporzione, notevolmente più minuto. A volte faceva fatica a trovare un foglio pulito su cui scrivere, non tanto per il disordine quanto paradossalmente per eccesso d’ordine. Pile e pile accatastate. Il tenente Sciogligarbugli, con grande disappunto dello stesso maresciallo, lo chiamava Gregor Samsa e spesso con gli altri nominava il suo ufficio come lo strano studio di Franz Kafka. Però dietro ad atteggiamenti irrilevanti c’era una profonda stima e quasi sempre compiti estremamente delicati venivano delegati al maresciallo. Capoccia si fece girare la matita tra le dita. L’uomo, in piedi davanti alla sua scrivania, si toccò violentemente il naso tutto rosso per colpa di un fastidioso raffreddore. Capoccia lo squadrò da capo a piedi. L’uomo

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sfiorava il metro e novanta, indossava pantaloni di velluto a coste marroni abbastanza sudici e camicia di flanella dalla quale spuntava una protuberanza all’altezza dello stomaco. Capoccia lo notò subito. Lui era astemio e tendeva spesso a distinguere il bevitore dal non bevitore o dal forte bevitore. Fece schioccare le labbra e scosse la testa: non voleva giudicare l’uomo in base a criteri falsi. Gli diede un’ultima occhiata e tornò a far scorrere la matita sul foglio. «Ma lei non ce l'ha una macchina da scrivere?» balbettò l’uomo verso il maresciallo mischiando domanda e affermazione. Il maresciallo alzò gli occhi da ciò che stava scrivendo. Centinaia di pensieri ostili gli attraversarono la mente. «No, non possiedo alcuna macchina!» sibilò sicuro. Attese la rappresaglia e quando fu chiaro che non ci sarebbe stata tornò a scrivere lentamente. Il non possedere una macchina da scrivere non era di certo un problema dato che non ne sentiva la necessità. È la necessità, pensava, che genera il bisogno e il bisogno a volte è sempre causa di guai. Fece un sorriso. «Dunque, mi ripeta il suo nome.» L’omone in piedi si guardò intorno in cerca di una sedia dove potersi accomodare. Era la prima volta che si trovava a dover deporre davanti ai carabinieri. Ma si rese conto che qualcosa non quadrava. Per esempio non era come nei film; la differenza era sostanziale e gli fece apparire la realtà in cui era immerso come finzione e la finta narrazione dei film come la vera realtà. Fece una smorfia. «Allora?» chiese il maresciallo Capoccia roteando gli occhi dal foglio al tizio. «Il mio nome è Mario Busacca... ho chiamato io i carabinieri la sera di sabato 13 febbraio perché...» si bloccò istintivamente quando si rese conto che il pubblico ufficiale, invece di prendere appunti, stava semplicemente disegnando delle stelline ai bordi del foglio. «Ehi, ma...» cercò di protestare Busacca. «Che lavoro fa?» chiese Capoccia tralasciando l’accenno di protesta del Busacca. «Sono un boscaiolo. Voglio dire taglio la legna. Spacco tronchi di faggio... mi scusi, ma lei non prende appunti?» «Le domande qui le faccio io, lei si limiti a rispondere... allora cosa ha visto?» Busacca trasse un profondo sospiro. «Ogni giorno prendo l’accetta e mi dirigo verso il bosco. Lei capisce che nella stagione invernale non

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posso farlo tutti i giorni quindi ogni volta che si presenta una bella giornata prendo su e decido di darmi da fare...» L’uomo si fermò di schianto vedendo il maresciallo prendere appunti a una velocità sostenuta. Staccò gli occhi dalla mano frenetica e li diresse verso il viso del Capoccia. Registrò una goccia di sudore imperlargli la fronte. Capoccia da parte sua roteò nuovamente gli occhi verso Busacca. «Allora?» ripeté il maresciallo. Sbalordito, l’uomo riprese il racconto. «Venerdì 15 febbraio mi trovavo a camminare sulla neve soffice che era caduta durante la mattinata e mi dirigevo verso il sentiero del Cefalo... un sentiero che abbraccia tutto il versante est della montagna e passa davanti allo chalet di Centonze... quando vidi due o tre ragazzi che giocavano a tirarsi palle di neve davanti la casa.» Busacca frenò per riprendere fiato. Non aveva fatto una pausa durante il racconto, completamente conquistato dalla velocità del maresciallo nel prendere appunti. Maresciallo che non sembrava affatto stanco. Solo un altro paio di gocce di sudore erano spuntate magicamente sulla sua fronte. Di slancio il boscaiolo riprese il racconto e di slancio il carabiniere tornò a prendere appunti. «Vidi questi ragazzi ma chiaramente non detti peso alla cosa... voglio dire è un’abitazione fatta per essere abitata, no?» Il carabiniere non fiatò e Busacca inconsapevolmente aumentò il ritmo. Senza motivo apparente accelerò il racconto. L'altro gli andò dietro senza emettere suono. «Due o tre ragazzi che volete che siano? Non riconobbi subito nessuno dei Centonze, certo... ma c’è da dire che io in verità non li ho mai visti... mia moglie li ha visti e me ne ha parlato spesso come gente di città e di classe pieni zeppi di soldi ma questo non vuol dir molto... voglio dire magari sono poveri e il rifugio l’hanno avuto in eredità da un lontano parente deceduto che magari loro non hanno manco mai visto ma la cosa strana certamente non son stati i ragazzi perché, voglio dire, chi poteva dire che stavano facendo qualcosa di male... poi sabato 16 febbraio sentii rumori strani e urla agghiaccianti provenire da quell'abitazione... mi trovavo a passare per il sentiero, potevo essere a due o trecento metri, e sentii questi rumori davvero agghiaccianti così che quando tornai a casa ne parlai con mia moglie e chiamai immediatamente voi qui in paese chiedendo che almeno qualcuno venisse a vedere se tutto stava andando bene... poi non so se qualcuno è

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venuto a vedere, però stamattina verso le 7 io ero appena uscito di casa e mi stavo ancora calcando il cappello con i para orecchi sulla testa che vidi una macchina sfrecciare sulla neve.» Per la prima volta Busacca fu fermato nel suo raccontare dal maresciallo che ora pareva veramente provato. «Ok, va bene... va bene. E che macchina vide?» chiese affannato il maresciallo. «Una di quelle grandi macchine americane. Lunga come un camion e di colore celeste.» «Un’auto americana celeste? Ne è sicuro?» «Sicuro come è sicuro che mio figlio si mette le scarpe da ginnastica sulla neve.» «Strano colore.» «Non lo dica a me. Sono contrario per principio a questi colori moderni quassù in montagna.» Capoccia, con grande disappunto di uno sbalordito Busacca, non prese appunti riguardanti quest’ultima frase. Si voltò lentamente respirando a fatica, prese la cornetta del telefono da un tavolino di fianco e compose un numero.

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Sabato 16 febbraio 1963 ore 17:42 C’era un tronco di betulla inclinato in modo pericoloso che sovrastava i bordi diradati della strada. Mordace e Caccavello si resero conto che era già la terza volta che passavano rasente i rami pencolanti dell’albero sradicato. «Non è possibile!» disse il brigadiere. «Vuoi vedere che ci siamo persi?» replicò l’altro. La volante aveva avuto due chiamate quel giorno. A dire il vero non ne avevano spesso: uscivano per il giro di ronda e raramente imboccavano tracciati di montagna. Qualche posto di blocco, giri tranquilli e poco altro. «Prendiamo un’ascia e abbattiamo l’albero!» proruppe in tono sfrontato Caccavello a un certo punto. Ormai era abbastanza chiaro che qualcosa non andava: lui era al volante e non riusciva a capire perché il suo grande daffare a girare e rigirare lo sterzo in ogni direzione non conduceva da nessuna parte. Mordace abbassò il deflettore della 600 e si mise a fare boccacce verso lo specchietto. «Ok, datti da fare!» rispose sfidandolo arricciando il naso. Caccavello fece una smorfia e sgommò nello stesso istante. Aggirò l’albero e proseguì deciso imboccando il sentiero di sinistra. «Questa strada già l’hai fatta.» disse Mordace laconico, con gli occhi umidi. Si era tirato con violenza un pelo troppo lungo che fuoriusciva dalla narice. Alzò il deflettore e si voltò verso Caccavello, sfidandolo a trovargli qualcosa che non andasse nel suo viso. «No, era quella opposta. Ne sono sicuro perché per indole intraprendo sempre le vie più facili e questa è chiaramente quella più rovinata.» rispose Caccavello snobbando l’invito del brigadiere. Il sole era tramontato da un pezzo e tutto ciò che si vedeva al buio erano solo i due coni di luce avanzare passo dopo passo dinanzi alla piccola vettura. Come occhi di bue, i due bagliori puntavano le precedenti strisce di pneumatici che avevano sporcato la neve in qualche passaggio precedente. Nel frattempo fiocchi grandi e lucenti scendevano radi, posandosi silenziosamente e facendo di tutto per cancellare le tracce dell’uomo.

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La gazzella aveva avuto due chiamate quel giorno. La prima era stata fatta da un uomo la cui casa era un po’ più a valle. Il nome dell’uomo era Beppe Cazzuola. Mastro Cazzuola per gli amici. Aveva chiamato per denunciare il furto di una capra e aveva sospetti che il ladro potesse trovarsi ancora nelle vicinanze dato che Bau, il suo cane, continuava ad abbaiare. L’altra chiamata era stata fatta da un tale, il cui nome era Busacca. Un boscaiolo che viveva non lontano da lì. Urla e schiamazzi orrendi provenivano da uno chalet sito in quella contrada, aveva giurato l’uomo al centralino. Mordace e Caccavello erano sicuri di trovarsi nel luogo giusto, solo che c’era qualche problema a capire il luogo. Ogni spazio, indifferentemente da quanto può esser grande, vive di tranelli e nascondigli. Di zone oscure che generano paure e timori e nascondono misteri e sorprese. Se il territorio poi, è poco familiare, è probabile che non se ne venga mai a capo. «Credo che non ci sia più nulla da fare. Si è fatto buio pesto. Chiamate non ce ne sono state più, quindi presumibilmente era solo un falso allarme.» disse Mordace che era il responsabile in capo. Una volta in caserma avrebbe dovuto trovare una scusa ma questo non era un problema. Alle parole del collega, Caccavello trasse un profondo sospiro di sollievo misto a una strana sensazione di felicità. Era sicuro che i nervi comandassero ogni cosa, per tanto la distensione degli stessi avrebbe generato felicità. E trovò anche il modo di dirlo. «Meno male, mi sento già più felice.» «Già... adesso però bisogna ritrovare la strada per scendere giù a valle.» osservò preoccupato il brigadiere. «Per questo non c’è problema.» disse sempre più baldanzoso Caccavello. Accostò l’auto e a fatica fece manovre per girarla su se stessa illuminando, per alcuni secondi, lo spazio buio e cupo della foresta ai lati del sentiero. Uno sbadiglio soffocato e per il bosco fu di nuovo notte. Caccavello, protetto dalla barriera virtuale del parabrezza riuscì ben presto a districarsi tra la leva del cambio e lo sterzo e a rimettere l’auto sulla via. «Andremo domattina, magari saremo più fortunati.» rifletté Mordace, con calma, ora che era tornato a spelacchiarsi il naso. «Cena dal Mastro allora?» chiese Caccavello. L’inguaribile simpatia che univa Beppe Cazzuola, altrimenti detto Mastro, all’arma dei carabinieri non era un segreto. Simpatia alla cui base si nascondevano

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prelibati pranzetti con carni rustiche e campestri e buon vino. Così, dopo non molto, si ritrovarono alla presenza dell’abitazione, male in arnese, del vegliardo Cazzuola. Scendendo a valle, la neve era più rada e le luci più ampie. Del fitto bosco e della ripida montagna era rimasto solo un’accozzaglia di faggi e qualche betulla spruzzate a casaccio su una vasta area pianeggiante. La luna, alta nel cielo, era quasi completamente oscurata dalle feroci e fameliche nuvole che correvano a rincorrersi. Mordace fu il primo a scendere e a dirigersi verso la baracca. La luce di una finestra si accese e una tendina gialla con i disegni a fantasia venne illuminata. Subito dopo si sentì lo scatto della serratura. I carabinieri videro un uomo uscire fuori quasi di corsa dall’abitazione facendo traballare il porticato. Alto poco più di un metro e mezzo, Mastro Cazzuola aveva la vitalità di un ragazzino pur non avendone più il vigore. Si diresse baldanzoso verso Mordace. «Salve maresciallo.» disse il Cazzuola. «Brigadiere, la prego... sono solo brigadiere.» lo corresse Mordace. L'uomo annuì e saluto anche l'altro carabiniere: «Come va?» «Tutto bene. Sì, lui è brigadiere. Sono io il maresciallo.» rispose Caccavello armeggiando con i pollici nel cinturone. Mordace gli lanciò uno sguardo fulminante. «Lo lasci stare. Allora qual è il problema?» «Venga, venga a vedere signor tenente.» «Brigadiere.» lo corresse nuovamente Mordace andandogli prontamente dietro. Passarono dinanzi a un recinto due per due di rete metallica dove internamente si muoveva burrascoso un cane. «Lui è Bau.» Raggiunsero in un attimo la parte posteriore della cascina, passando in un vicolo formato da scarti di pezzi d’auto e da un furgoncino abbandonato che fungeva ormai da sostegno per l’edera e il viticcio, nel cui interno si allevava un tacchino bello grosso che starnazzò beato al passaggio del trio. Alle spalle della baracca c’era una rimessa da un lato coperta con assi di legno fracide e dal lato opposto era cintato solo da alcuni pali di frassino tenuti insieme tra loro da un fil di ferro. Da una sporgenza laterale del recinto si vedeva chiaramente che un paio di assi erano state divelte. Caccavello si diresse immediatamente verso l’anomalia del recinto ma si accorse, una volta raggiunto il posto, che le assi non erano state

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divelte ma semplicemente si erano frantumate sotto il peso della neve. «Signor Mastro, questo non è lavoro da ladro. È che il recinto è vecchio e va cambiato.» «Cosa vuol dire?» «Niente di brutto,» rispose il Brigadiere «probabilmente la capra è scappata, non è stata rubata». Poi rivolto verso Caccavello aggiunse: «Vai a prendere la torcia, dobbiamo cercarla.» I tre si diressero verso lo spiano dinanzi l’ingresso della cascina. «Non si preoccupi, la cercheremo e la troveremo.» «Speriamo, speriamo, povera la mia Clementina. Da sola, sotto il freddo e le intemperie.» si lamentava Cazzuola. Raggiunta la 600 si divisero le torce e le zone da pattugliare e si misero in azione. «Mastro, voi controllate la zona ovest al lato della casa. Caccavello tu le spalle della casa e io vado a est. Il primo che trova la capra la riporta nel recinto.» impartì gli ordini il Brigadiere. Pareva sicuro del fatto suo ma quando si trovò da solo si rese conto che con facilità avrebbe potuto perdere la via, bastava allontanarsi un po’ di più. Bastava penetrare troppo in profondità gli alberi. Stava cominciando a nevicare forte anche lì a valle, tanto che lui sembrava un pupazzetto su una torta sotto una spruzzata di zucchero a velo. Non aveva senso trascinarsi nella neve alla ricerca di una capra che aveva trovato la libertà e che magari neanche la voleva. Nonostante ciò continuò e quando si voltò per la prima volta vide che si era allontanato di parecchio. La baracca, costellata dai molti segni di disgregazione e rovina, era ormai solo qualcosa di indefinito, avvolto dal bianco delle neve. Tornò sui suoi passi e fu allora che sentì un urlo rauco provenire dalle parti del recinto posteriore. Senza pensarci ulteriormente si mise a correre. Affondava gli scarponi e li tirava su e trasaliva ogni volta che tornava ad affondarli. Affannato raggiunse il luogo dal quale si era propagato l’urlo. Con la luce che gli vibrava davanti e il cappello e il mento pieni di fiocchi induriti di neve si sentiva più un carnefice che un benevolo soccorritore. Vide Caccavello in ginocchio che cercava di tirare a sé qualcosa. Notò la torcia a terra che illuminava la cascata quasi dirompente dei batuffoli ghiacciati. Raggiunse il collega mentre d’istinto si slacciava la fondina che custodiva la pistola. «Non l’ho visto! Cioè ero nascosto e comunque lui non doveva essere qui.»

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«Ma cosa è successo? È vivo?» chiese Mordace. «Mi ero nascosto. Mi ero scelto un ottimo nascondiglio perché avevo sentito dei rumori.» Mordace si inginocchiò e tastò il polso del Cazzuola che era steso sulla neve apparentemente privo di sensi. «È vivo!» disse sollevato il brigadiere. «Lui non doveva essere neanche qui...» si lamentò Caccavello. «Aiutami a portarlo in casa.» I due carabinieri alzarono l’uomo da terra e si diressero verso l’abitazione. «Cosa è successo esattamente?» «Mi ero nascosto con un listello di legno in mano trovato nei pressi del recinto, ero sicuro si trattasse della capra, le avrei dato una botta in testa per farla svenire.» «Accidenti a te... e poi perché far svenire una capra dico io!» esclamò stupefatto Mordace. «Per catturarla, no? Comunque ho sentito un rumore. Più si faceva vicino più mi caricavo. Quando mi sono reso conto che mi sarebbe sbucato davanti ho fatto partire il colpo. Chi l’andava a immaginare che avrei preso in piena fronte Mastro?» piagnucolò Caccavello. Il brigadiere lasciò le gambe del vecchio una volta raggiunto l’ingresso e si diresse verso la volante. «Chiamo in caserma. Porta dentro Cazzuola e stendilo sul letto.» Raggiunta l’auto prese la radio. «Capo? Niente sopralluogo allo chalet delle urla per stasera. Rimandiamo a domani. Ci è capitato un imprevisto...»

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Domenica 17 febbraio 1963 ore 18:01 Sciogligarbugli era seduto composto e ordinato su una seggiola di vimini. Il maresciallo Capoccia faceva la punta alla matita. Un lungo tavolo spoglio divideva i due da Walter Centonze. Il giovane, seduto in modo scomposto e vestito in modo impeccabile, era affiancato dagli avvocati che l’avevano preceduto alla stazione dei carabinieri. Il tenente non parlava. Con le gambe allungate, si faceva girare i pollici e fissava un punto tra le sue scarpe e i piedi del tavolo. Un punto in cui non c’era nulla. Solo una mattonella un po’ sbeccata. Cercava la calma fissando il niente; era convinto che dietro il nulla si nascondesse la quiete. Era a portata di mano e una volta raggiunta l’avrebbe condotto verso la tranquillità. Si trattava di un processo faticoso ma necessario. Prima cosa doveva assentarsi, lasciarsi cullare dalle parole urlate dagli altri, seguire lo scorrere delle sensazioni. Come qualcuno che nuota prodigiosamente in un fiume, con una forte corrente contraria, per raggiungere la riva opposta, così il tenente cercava di dare bracciate. Gli avvocati, come cani da combattimento, per il momento erano tenuti al guinzaglio. La prima parola li avrebbe sciolti. A quel punto avrebbero puntato direttamente alle caviglie. Tuttavia, quel che realmente tormentava il tenente erano le immagini di quella mattina. La disumanità e la follia non abbandonavano la sua mente. «Quindi lei afferma di non conoscere la persona assassinata nella sua abitazione?» disse il tenente a un certo punto e quelle parole ebbero la capacità di dare l’avvio alla baraonda che stava attendendo. «Il mio assistito ha già risposto a questa domanda.» ribatté il primo avvocato. «Non credo che sia la strada da percorrere.» sbuffò il secondo. «Signori, ascoltatemi... credo di sapere quali domande bisogna fare.» sibilò il tenente rivolto verso il maresciallo Capoccia, che da par suo scriveva febbrilmente. Si piegò di nuovo verso il Centonze. «Allora?» «No, non conosco nessuno che corrisponde alla descrizione fattami.»

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rispose con calma Walter. «Anche perché io nel week end non sono stato in baita, come le ho detto, ma dalla mia fidanzata. La signorina Mara Costanza, figlia del deputato Augusto Costanza, che, come le sto ripetendo da un po’, può, se chiamata in causa, testimoniare a mio favore.» Scese di nuovo il silenzio e con il silenzio la tensione. Sciogligarbugli non nascondeva la paura che provava all’idea di intraprendere una guerra di nervi combattuta con gli sguardi. Una paura latente, nello scoprire in fondo alle pupille del ragazzo la profondità del male. Qualcosa che aveva a che fare con la malignità insita in certi esseri umani. Sapeva che questa indecisione, quasi impercettibile in verità, era stata captata dal Centonze che la stava cavalcando. Per l’ennesima volta distolse lo sguardo e lo diresse verso il maresciallo che continuava a prendere appunti. Il questore, il procuratore, il medico legale, il fotografo e tutti gli altri appartenenti alla carovana che un caso di delitto efferato si porta sempre dietro, avevano sicuramente finito il sopralluogo e si stavano dirigendo, digrignando denti e sputando lampi di fuoco, verso la caserma. Eppure, ciò non metteva spavento al tenente quanto guardare negli occhi Centonze. C’era qualcosa nel ragazzo che sprigionava il male; qualcosa che il tenente non riusciva a codificare; qualcosa che, come un pus che viene fuori da una ferita, infettava l’ambiente. «È stata ascoltata la sua fidanzata che ha confermato la sua versione dei fatti. Eravate insieme e di questo prendiamo atto ma, vede, noi dell’arma siamo un po’ tardi a capire e non riusciamo a comprendere alcune cose... per esempio: come mai la sua auto va e viene dalla sua abitazione senza lei dentro?» «Non è detto che si trattasse senza ombra di dubbio della sua auto!» disse corrugando la fronte e rizzandosi in piedi come un pupazzo a molla uno degli avvocati. A Walter bastò solo un gesto e l’avvocato si rimise a sedere. «Guardi, l’auto e le chiavi della baita li avevo prestati a un tipo che credevo essere un mio amico, che, come vi ho già detto, mi aveva espresso il desiderio di voler passare il week end con una ragazza. Per il resto non so più niente.» «Lei dice... aspetti che leggo direttamente dalla sua prima dichiarazione...» il tenente spiegò un foglio piegato e si mise a leggere.

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«... che, due punti, questo ragazzo risponde al nome di Francesco Cozzica, poi aggiunge che il suo nome d’arte, essendo lui, di professione un fotomodello è, Francois Le Coz, giusto?» «Sì esatto e sinceramente non riesco a capire perché siate ancora qui e non stiate già correndo a catturare quest’uomo.» «Stia tranquillo... qualcuno si sta già dirigendo verso il domicilio Cozzica o Le Coz che sia...» «Che sicuramente tenterà di screditare le mie parole e quelle della mia fidanzata... ma sono sicuro che voi sapete come si comporta e quando può diventare violento un animale braccato?» ghignò il ragazzo. «Non si preoccupi!» rispose Sciogligarbugli con una impercettibile flessione delle palpebre che per la prima volta tradivano un moto di nervosismo. Si distese sulla poltrona. Poggiò la schiena allo schienale e chiuse per un attimo gli occhi. Avvertì una sensazione piacevole. Paradossalmente sentì rotolare via dalle sue spalle il peso che lo stava schiacciando, rotolare via dalle sue spalle: si avvicinava il momento in cui l’interrogatorio sarebbe finito. Tuttavia non riusciva a perdersi nella trascendenza della stanza. Impastata come la sentiva di vibrazione di meschinità, non riusciva a sciogliersi in essa per raggiungere lo stesso livello di consapevolezza di chi si trovava davanti. E questo lo lasciava stremato in preda a profonde incertezze. «Mi scusi ma sono più che sicuro che ormai il vostro tenermi qua sia da considerarsi inutile. Sarò a vostra completa disposizione ma voglio esserlo a casa mia. Posso andare ora?» «No... veramente no!» rispose il tenente posandosi il mento delicatamente sulle nocche delle dita intrecciate in modo convulso, simili a quelle di un ateo sorpreso a pregare.

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Venerdì 12 febbraio 1963 ore 15:19 Il ragazzo posizionò con cura la cornice d’argento satinata sulla mensola bianco virginale e fece due passi indietro per ammirare la nuova posizione della foto, poi, con una smorfia d’apprezzamento e due giravolte, si avvicinò al divano dove altre due foto incorniciate giacevano in una strana postura. Ne prese una e si guardò intorno alla ricerca di un posto dove sistemarla. La stanza era un cubo di tre metri per tre arredata in modo minimale. Un divano di pelle bianca riposava al centro fungendo da spartitraffico; un forno con piano cottura era sistemato in un angolo. In effetti quel poco che c'era dava all’ambiente un tono piuttosto gradevole nell’insieme. Solo due cose saltavano agli occhi: l’insistito uso del colore bianco per tutto ciò che riguardava il mobilio e l’ironica forza della perseveranza nell’esporre fotografie che ritraevano se stesso. Il viso del ragazzo era stampato e sistemato, in modo da sfiorare il grottesco, un po’ dappertutto. Una gigantografia era appesa alla parete di fronte al divano. Si trattava dei suoi lineamenti ritratti in una smorfia innaturale: le guance gonfiate nell’atto di soffiare via qualcosa di ingombrante dai polmoni. Altre foto erano collocate in modo poco creativo, generando confusione tra le poche suppellettili. C’era da scommettere che il ragazzo passasse gran parte del tempo a cercare la postura esatta e perfetta per ciò che riguardava la posizione delle immagini. Ogni giorno ci tornava su, cambiando e aggiustando con una sofferenza che mortificava il proprio narcisismo. Perchè il ragazzo in questione aveva narcisismo da vendere. Posò l’ultimo portafoto tra i fornelli del piano cottura e si allontanò per dargli un’occhiata. Si voltò e con noncuranza si diresse verso il bagno ma prima di raggiungere la porta si girò di scatto per controllare se la nuova posizione avrebbe retto a un’occhiata più incisiva. Terminato il perimetro perlustrativo, abbassò gli occhi e strinse forte i pugni a sottolineare la sua vittoria contro le avversità del caso. Si sentiva sinceramente trionfatore. Raggiunse la camera da letto.

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«Sciò, sciò!» urlò verso il persiano che stava dormendo appollaiato inconsapevole sul cuscino. Il gatto saltò su, si stiracchiò, miagolò alterato e scese dal letto. «Gandhi, quante volte ti ho detto che non devi dormire sul cuscino?» sbraitò il giovane verso il gatto anch’esso bianco e batuffoloso. Sulla parete di fronte al letto una stampa di un metro per un metro era incorniciata. Raffigurava egli stesso con una camicia bianca sbottonata fino all’ombelico. Nella posa metteva in evidenza gli addominali e dava l’idea che il ragazzo fosse stato colto dall’obiettivo del fotografo un istante prima che potessero uscire i primi ciuffi di peli pubici dalle mutande. Sulla foto c’era stampato, in un angolo, il nome della rivista dalla quale presumibilmente il poster era stato distribuito qualche tempo prima creando non poco scalpore e scandalo. La firma del ragazzo compariva con gli stessi caratteri nell’angolo opposto della stampa. Era un fotomodello. Il suo nome era Francois Le Coz. «Gandhi?» chiamò il ragazzo guardandosi intorno. «Gandhi?» urlò di nuovo verso il persiano appisolato. «Il padrone sta uscendo. Un week end da paura!» aggiunse Francois Le Coz sempre rivolto al gatto. Armeggiava con lo zaino infilandoci dentro pigiama, mutande e calzini con forza. Strizzò l’occhio al persiano accucciato e si mise con tutto il proprio peso sullo zaino gonfio come un ranocchio. Afferrò la linguetta della cerniera che, a un primo impulso, stridette lamentandosi. La tirò con forza. «Porca...» proruppe un istante dopo l’imprecazione troncata di Francois. Non aveva voglia di esplodere e non ne vedeva neanche il motivo. Fece due bei respiri, contò fino a tre e tirò di nuovo con forza la linguetta che, come un soldato sfinito che si abbandona nelle mani del nemico, si staccò dalla cerniera. Il ragazzo si stupì nel trovarsela inanimata in mano. Ma lo stupore durò poco: con violenza iniziò a liberare lo zaino dalle cose che considerava un tantino eccessive per un week end. Tolse e gettò sul tappeto bianco la vestaglia di seta e il completo di cachemire. Corse in soggiorno dove afferrò, da un cassetto spalancato con ferocia, una pinza e si diresse di nuovo verso la camera ma prima di abbandonare la stanza rivide il portafoto tra i fornelli. Per la seconda volta nel giro di poco più di dieci minuti si stupì per le infinite e sempre più complesse variazioni dei suoi gesti. Rapido raggiunse il portafoto, lo prese con la mano libera e si guardò intorno. Ora avvertiva la collera crescere in modo esponenziale,

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affiancata da un senso di panico. A volte sentiva un bisogno costante di nascondere a se stesso le indicazioni dategli dalla propria coscienza. Cercando di annullare quanto meno l’ansia, tirò fuori il secchio dell’immondizia e vi gettò dentro la foto. Finalmente risoluto si diresse verso la camera; aggrottò la fronte e strinse l’anello della cerniera con la pinza. Tirò lentamente ma con forza e nuovamente si ritrovò con un pezzo esanime, questa volta tra i denti della pinza. «Porca...» si accasciò a terra tuffando il viso tra le mani. Cantilenò una litania fatta di parolacce e bestemmie. Affranto, distrutto, completamente svuotato gli venne voglia di piangere, di chiamare sua madre, di tirarsi i capelli. Si strinse le braccia al petto lisciandosi i nervi e cercando di calmarsi. Si tirò su e scosse più volte la testa. «Incredibile» sibilò «assolutamente incredibile.» Si diresse a scatti verso il balconcino che affacciava sulla strada trafficata del centro. Un ammasso di peli si scosse da un angolo del ballatoio, si stirò con calma e si avvicinò ai piedi del ragazzo. «Hemingway!» chiamò Francois. «Come va?» chiese. Il bastardino gli arrivò sotto le ginocchia e gli lanciò uno sguardo naif. Abbaiò a stento un paio di volte. Con passo disincantato, si voltò e tornò dove era stato sorpreso precedentemente. «Su con la vita, Hem!» urlò scanzonato Francois verso il mezzo yorkshire. «Su con la vita!» ripeté avvicinandosi a una gabbietta poggiata con noncuranza su un davanzale, che si affacciava anch’esso proditoriamente sulla balconata. Un canarino, per tutta risposta, aprì le feste volando da un punto all’altro della gabbietta. «Long John Silver, siamo contenti oggi, eh?» chiese Le Coz al volatile grattando le sbarre della celletta. «Vi lascerò un po’ soli, ma non preoccupatevi, si tratta solo di un paio di giorni.» annunciò al cane che dormiva già respirando affannosamente. «Non abbiate paura in mia assenza... Hem, tu prenderai il mio posto visto e considerato che sei il più grande.» Si accigliò per un secondo. «Lo so che stai pensando che tu non fai mai una vacanza ma...» ragionò melodrammatico «ma vedrai che ora vado io ma poi andrai tu!» Terminò la frase raggiungendo il cane, accucciandosi al suo fianco e allungando una mano per accarezzarlo. Lo yorkshire non fece una piega. Russava tranquillamente.

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«Non essere offeso ora!» piagnucolò il ragazzo. Lo squillo del cellulare lo fece trasalire. Determinato tornò nell’appartamento chiudendosi la portafinestra alle spalle. Mise qualche indumento e lo spazzolino da denti in una busta di plastica e raggiunse l’ingresso. «Gandhi!» urlò. «Gandhi!» urlò nuovamente. Non avendo ricevuto risposta dal gatto, terminò la frase: «Beh, io vado, mi sono venuti a prendere!» si giustificò con rammarico. Fece pressione sulla maniglia e l’aprì. Si voltò a dare uno sguardo d’insieme alla sua abitazione. Alla vista delle decine e decine di sue foto che ricoprivano le pareti, gli spuntò un sorriso. Rinvigorito chiuse la porta e scese le scale. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...

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