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LE RADICI DELLA FILOSOFIA MEDIEVALE. LA RINASCITA CAROLINGIA 1 Temi e tempi della filosofia medievale Il pensiero medievale è un fenomeno complesso e la categoria "filosofia medievale" rischia di non dare ragione della pluralità di espressioni che lo caratterizzano L'impiego di un'unica definizione per indicare le diverse scuole e correnti che costituiscono il pensiero medievale rischia di far dimenticare che la speculazione di quella lunghissima epoca è costituita da esperienze di pensiero molto diverse tra loro in termini culturali e geografici. La "filosofia medievale", infatti, comprende autori estremamente eterogenei, sia per formazione culturale che per luogo di nascita e lingua parlata: dal pensiero di Boezio, nobile romano al servizio del re goto Teodorico nel VI secolo, alla filosofia del persiano Ibn Sı¯na (in latino Avicenna) che nella Hamadan (città dell'attuale Iran) dell'XI secolo ricopre importanti incarichi politici; dalla teologia in lingua greca di Dionigi Areopagita nel Medio Oriente del VI secolo, alla raffinata speculazione di Tommaso d'Aquino, docente all'università di Parigi nel XIII secolo, e al pensiero ebraico di Mosè Maimonide, attivo tra Spagna ed Egitto nel XII secolo. Il pensiero medievale, dunque, deve essere considerato come un fenomeno plurale, composto da diverse tradizioni culturali-speculative. Perché allora continuiamo a sintetizzare tutto nell'espressione filosofia medievale? Perché questa categoria si è imposta nel lessico storiografico-scientifico e rappresenta ormai un insostituibile "strumento di lavoro". È dunque inevitabile utilizzarla ma non dobbiamo dimenticare che il pensiero medievale: • è un'esperienza costituita da molteplici correnti teoriche e organizzata intorno alla discussione di differenti questioni; • non è identificabile con la sola speculazione in lingua latina, ma comprende anche le esperienze filosofiche greco-bizantine, arabe ed ebraiche; • non è identificabile con il solo mondo cristiano, ma è caratterizzato da un rapporto pluri- confessionale con le altre "religioni del libro" (islam ed ebraismo).

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LE RADICI DELLA FILOSOFIA MEDIEVALE.

LA RINASCITA CAROLINGIA

1 Temi e tempi della filosofia medievale Il pensiero medievale è un fenomeno complesso e la categoria "filosofia medievale" rischia di

non dare ragione della pluralità di espressioni che lo caratterizzano

L'impiego di un'unica definizione per indicare le diverse scuole e correnti che costituiscono il

pensiero medievale rischia di far dimenticare che la speculazione di quella lunghissima epoca è

costituita da esperienze di pensiero molto diverse tra loro in termini culturali e geografici. La

"filosofia medievale", infatti, comprende autori estremamente eterogenei, sia per formazione

culturale che per luogo di nascita e lingua parlata: dal pensiero di Boezio, nobile romano al servizio

del re goto Teodorico nel VI secolo, alla filosofia del persiano Ibn Sı¯na (in latino Avicenna) che

nella Hamadan (città dell'attuale Iran) dell'XI secolo ricopre importanti incarichi politici; dalla

teologia in lingua greca di Dionigi Areopagita nel Medio Oriente del VI secolo, alla raffinata

speculazione di Tommaso d'Aquino, docente all'università di Parigi nel XIII secolo, e al pensiero

ebraico di Mosè Maimonide, attivo tra Spagna ed Egitto nel XII secolo. Il pensiero medievale,

dunque, deve essere considerato come un fenomeno plurale, composto da diverse tradizioni

culturali-speculative. Perché allora continuiamo a sintetizzare tutto nell'espressione filosofia

medievale? Perché questa categoria si è imposta nel lessico storiografico-scientifico e rappresenta

ormai un insostituibile "strumento di lavoro".

È dunque inevitabile utilizzarla ma non dobbiamo dimenticare che il pensiero medievale:

• è un'esperienza costituita da molteplici correnti teoriche e organizzata intorno alla discussione di

differenti questioni;

• non è identificabile con la sola speculazione in lingua latina, ma comprende anche le esperienze

filosofiche greco-bizantine, arabe ed ebraiche;

• non è identificabile con il solo mondo cristiano, ma è caratterizzato da un rapporto pluri-

confessionale con le altre "religioni del libro" (islam ed ebraismo).

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Carlo Magno incoronato imperatore; particolare da una miniatura delle Chroniques de France,

1332-1350. Londra, British Library.

Nonostante la molteplicità degli interessi speculativi, si possono identificare alcune tematiche

chiave che caratterizzano la filosofia medievale

La comprensione della natura plurale della filosofia medievale è un'acquisizione della storiografia

contemporanea. L'impostazione tradizionale, come quella per esempio proposta da Etienne Gilson

(1884-1978), uno dei più importanti storici del pensiero medievale del XX secolo, presentava

fondamentalmente questi due caratteri:

• riduceva l'intera filosofia medievale alla filosofia cristiana e in particolare alla Scolastica che,

come vedremo, ne rappresenta invece solo un periodo;

• riconduceva l'intera speculazione dell'epoca di mezzo all'esame del rapporto tra fede e ragione.

In realtà il Medioevo si caratterizza per filosofie che, pur nascendo in un contesto cristiano, hanno

diversi interessi ed esiti non necessariamente teologici; i temi affrontati, inoltre, sono molto più

numerosi di quanto l'enfatizzazione della questione del rapporto fede-ragione faccia pensare. Il

progresso dell'indagine storiografica, infatti, ha fatto emergere la molteplicità degli interessi dei

pensatori medievali, attenti a problemi di fisica, semiotica, politica, teoria della letteratura,

epistemologia. Riconosciuta questa molteplicità della riflessione culturale, si possono identificare

alcune tematiche chiave che caratterizzano la filosofia medievale.

Si tratta per la verità di temi che sono genericamente propri della filosofia cristiana, ma che nel

Medioevo trovano il loro compimento:

1. il rapporto tra filosofia, intesa come indagine razionale, e fede cristiana;

2. la disputa sugli "universali", cioè la questione della coincidenza o meno tra linguaggio e realtà,

tra le parole e le cose (voces e res);

3. il problema della felicità umana e dei modi per raggiungerla. Rimandiamo la trattazione della

disputa sugli universali al cap. 10 e iniziamo a esaminare perché e come vennero affrontati i punti 1

e 3.

Il rapporto tra la filosofia, come pratica razionale, e la fede, come accettazione di una verità

assoluta, caratterizza l'intera filosofia cristiana

La filosofia, intesa come ricerca della verità per mezzo della ragione, nasce nel mondo greco.

Rispetto alla realtà greca, l'evento che rivoluziona il contesto culturale e "ideologico" nel mondo

medievale è rappresentato dall'affermazione del cristianesimo come nuova religione e nuovo

sistema di valori. Analoga importanza avrà più tardi la nascita dell'islam. Con la diffusione di

queste religioni il tema del rapporto fede-ragione diventa una delle problematiche centrali della

riflessione filosofica: diviene cruciale, infatti, stabilire se anche gli articoli di fede possano essere

oggetto di indagine filosofica o se invece si debbano riconoscere i limiti della ragione nella

comprensione dei dogmi religiosi. Il problema appare di estrema importanza perché il cristianesimo

(come l'islam e l'ebraismo) in quanto "religione del libro", ovvero fede rivelata direttamente da Dio

in un testo ben definito, consiste in una verità assoluta che richiede una totale adesione da parte del

credente. Nel mondo cristiano, inoltre, la Chiesa assunse ben presto il ruolo di giudice della purezza

della fede e della conformità delle pratiche dei credenti alla verità del testo sacro.

Questo tema, infatti, si impone immediatamente all'attenzione dei Padri della Chiesa. In particolare

Agostino di Ippona (354-430) propone una posizione che avrà grande successo: contro chi era

diffidente verso la razionalità, perché espressione di un mondo pagano che aveva perseguitato la

Chiesa, ribadisce l'opportunità di servirsi della cultura del mondo greco-romano per un

approfondimento della stessa religione cristiana. In un suo testo fondamentale, il De doctrina

christiana (L'insegnamento cristiano), Agostino paragona l'utilizzo della sapienza pagana allo scopo

di un perfezionamento della comprensione delle dottrine di fede all'oro che il popolo ebraico portò

via con sé nella fuga dall'Egitto (Esodo 12, 35): i beni, impuri e da rifiutare, di un popolo nemico

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della fede, possono essere utilizzati per scopi positivi. Agostino riassume questa posizione con la

formula credas ut intelligas, intellige ut credas («credi per comprendere, comprendi per credere»,

Sermones 43, 9): la fede apre il percorso di ricerca della verità e tale ricerca risulta perfezionata

dall'incontro con la razionalità filosofica, capace di rendere più saldo e pieno lo stesso atto del

credere (vedi p. 189).

Questa teoria, per cui la ragione filosofica può agire come dottrina al servizio della fede per

edificare e promuovere la pietà del credente, viene ripresa da vari autori differenti nel corso del

Medioevo. La si trova, solo per citare alcuni nomi, in Giovanni Eriugena (IX secolo) il quale

afferma che la vera filosofia è la vera religione; in Anselmo d'Aosta (XI secolo) che si serve

dell'espressione fides quaerens intellectum («la fede che cerca l'intelligenza », cioè la

comprensione razionale); in Tommaso d'Aquino (XIII secolo) nel cui pensiero si può trovare la

dottrina dei preambula fidei secondo la quale la fede deve avvalersi della ragione per spiegare

quelle verità conoscibili senza la rivelazione divina e quindi dimostrabili con la sola filosofia, ma

utili alla fede (come l'esistenza di Dio o di un'anima immortale).

Per tutti gli autori medievali, la felicità dell'uomo, la beatitudo, si realizza nella

contemplazione del vero, che è Dio

Studi recenti hanno messo in rilievo il fatto che nel Medioevo molti autori affrontano la questione

della felicità (beatitudo), nell'intento di definirne le forme e di identificare gli strumenti che

consentono all'uomo di raggiungerla. Tale problema è da sempre al centro della filosofia

occidentale, ma ciò che caratterizza il Medioevo è che in questa epoca per quasi tutti i pensatori la

felicità, risultato e premio di una vita buona, ha una natura intellettualistica, ovvero consiste nella

contemplazione del vero che è Dio.

Per i filosofi di questo periodo, infatti, la massima realizzazione dell'uomo consiste nella

conoscenza del vero: questa attività produce un peculiare piacere intellettuale e realizza il fine

proprio della natura umana, volta nella sua più intima essenza al sapere e alla conoscenza. Ma

poiché Dio è il principio di ogni verità, la conoscenza del vero coincide con la contemplazione del

divino: è questa la ricompensa che l'uomo buono merita per la sua condotta in vita. In realtà, l'idea

che la vita dovesse essere volta alla piena realizzazione delle capacità conoscitive era propria anche

della cultura classica, ma la filosofia greca collocava tale fine in un orizzonte del tutto mondano.

L'Occidente latino coglierà la portata di questa differenza quando nel secolo XII riscoprirà

Aristotele, che vede proprio nella vita teoretica il vertice delle virtù dianoetiche e il coronamento di

ogni attività umana. Si innescherà allora il dibattito sulla differenza tra la felicità intellettuale

"laica" e quella concessa da Dio ai beati: un'eco di questo dibattito si trova nel Monarchia di Dante

Alighieri (circa 1312), dove viene discussa la distinzione tra le due tipologie di felicità.

La storiografia ha organizzato lo studio della filosofia medievale distinguendo le fasi

attraverso cui si sviluppò

Il Medioevo abbraccia un periodo lunghissimo (476-1492), oltre un millennio in cui si passò dalla

caduta dell'Impero romano alla nascita dello Stato moderno, in cui si produssero straordinarie

innovazioni in tutti i settori della vita umana, nella società, nella cultura, nell'economia ecc. Per

ricostruirne l'evoluzione filosofica, la storiografia ha diviso questa epoca in varie fasi in funzione

dei temi e dell'impostazione che caratterizzarono i pensatori. Abbiamo già esaminato la prima epoca

della storia del pensiero medievale, la Patristica, che grosso modo si estende sino all'VIII secolo. Il

periodo successivo, che rappresenta l'oggetto specifico di questa parte del testo, può essere

suddiviso in quattro fasi.

1. La rinascita carolingia: questo periodo va dall'VIII secolo (771: ascesa al potere di Carlo Magno;

800: sua consacrazione come imperatore) alla dissoluzione del potere carolingio (morte di Carlo il

Calvo nell'877). È una fase storica contrassegnata da una ripresa degli studi filosofici e teologici,

resa possibile anche dall'unificazione politica carolingia e dal programma culturale promosso dallo

stesso Carlo Magno. Agli studi filosofici si affianca la pratica di leggere e raccogliere intorno a

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determinati problemi filosofico-teologici i contributi dei Padri della Chiesa. La figura di spicco di

questo periodo è Giovanni Scoto Eriugena.

2. L'affermazione della dialettica: il processo di arricchimento delle fonti impiegate e di

approfondimento della discussione filosofica e teologica del mondo carolingio produce i propri

effetti anche nei secoli successivi, tra il IX e l'XI secolo. Bisognerà attendere l'XI secolo, tuttavia

per assistere alla nascita di esperienze filosofiche inedite fondate sullo studio della dialettica. Le

opere di Berengario di Tours, Lanfranco di Pavia e, soprattutto, Anselmo d'Aosta rappresentano le

testimonianze più interessanti di questo periodo.

3. La rinascita del XII secolo: nel XII secolo la riflessione filosofica conosce un momento di

particolare vitalità speculativa. In questo periodo, si assiste alla crescita degli studi logico-dialettici

e al potenziarsi dell'utilizzo degli strumenti razionali in sede teologica: la ragione cioè viene

sistematicamente applicata all'analisi dei misteri della fede. È questo il periodo in cui la cultura si

sviluppa anche nelle scuole cittadine, espressione della rinnovata vitalità economico-sociale dei

centri urbani. Le figure emblematiche di questo periodo sono i pensatori della scuola di Chartres e

Pietro Abelardo.

4. La Scolastica: con questo termine si intende la filosofia che si produce a partire dal XIII secolo

nelle scuole universitarie, ovvero nelle università quali tipiche istituzioni culturali medievali. La

ricerca filosofica e teologica universitaria nel Medioevo era caratterizzata da tematiche nuove (lo

studio del pensiero greco) e dal metodo della disputatio: nella sostanza il docente poneva in

discussione una questione e successivamente illustrava la sua risposta (vedi p. 350).

La Scolastica viene tradizionalmente suddivisa in:

• prima Scolastica (XIII secolo), che rappresenta l'affermazione del sistema metodologico e

contenutistico universitario; le figure più rappresentative di questo periodo sono Tommaso

d'Aquino, Bonaventura da Bagnoregio, Duns Scoto;

• seconda Scolastica (a partire dal XIV secolo), caratterizzata da una riflessione intorno agli sviluppi

teorici del precedente periodo; la figura più rappresentativa di questo periodo è Guglielmo di

Ockham.

La tradizione storiografica, prendendo le mosse dalla lettura della filosofia medievale

semplicemente come dialogo di fede e ragione, indicava nella prima Scolastica il momento di

massima armonizzazione tra questi due elementi: conseguentemente considerava le posizioni della

Scolastica più tarda come un momento di dissoluzione o crisi della Scolastica, proprio in ragione

del lavoro di analisi e verifica che il pensiero del XIV secolo sviluppa intorno ai risultati dottrinali

precedentemente ottenuti. Più recentemente, si è correttamente sottolineato che la filosofia del

Trecento può essere descritta non tanto come la fine della Scolastica quanto come un momento di

evoluzione del dibattito filosofico-teologico proprio della stessa tradizione scolastica: per questo si

preferisce la definizione seconda Scolastica. Si è correttamente sottolineato, inoltre, che la filosofia

della tarda Scolastica continuerà a essere utilizzata all'interno delle università europee ben al di là

del Medioevo, anche in piena epoca moderna, quando ormai la filosofia occidentale aveva scelto

differenti direttrici di sviluppo e nuove forme per esprimersi.

MAPPA CONCETTUALE

I temi caratterizzanti della filosofia medievale

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2 La rinascita carolingia

La rinascita carolingia è preparata dalla speculazione che si era affermata tra il VI e il VII

secolo nel mondo ecclesiastico delle aree periferiche dell'antico Impero romano

L'immagine del Medioevo come il tempo dei "secoli bui", segnati da decadenza culturale e

materiale, è stata da tempo sottoposta a una profonda revisione. Le fasi storiche segnate da una

profonda crisi socio-politica sono state circoscritte temporalmente e geograficamente, cosicché se la

fine delle guerre greco-gotiche lascia l'Italia in una condizione di grave disordine, nei medesimi

anni la condizione del mondo iberico o anglosassone è differente. Una delle acquisizioni

storiografiche che ha contributo a rinnovare l'immagine tradizionalmente diffusa del Medioevo sono

gli studi sulla cultura e la filosofia dell'VIII e IX secolo in territorio francese, durante il periodo

carolingio. Il peso della ricerca culturale prodottasi nel mondo carolingio è tale che alcuni autori

hanno parlato di rinascita carolingia, per sottolineare la trasformazione prodottasi in questo periodo

rispetto alle fasi precedenti della storia dell'Europa continentale. Tale fioritura è stata preparata da

esperienze filosofiche precedenti che si collocano all'interno del panorama storico e politico

europeo tra il VI e il VII secolo. I nomi più importanti in questo periodo sono quelli di Isidoro di

Siviglia (560-636) e di Beda il Venerabile (672-735), pensatori appartenenti a due diverse

generazioni che ben rappresentano l'ambiente culturale dell'epoca, teso soprattutto a preservare il

patrimonio culturale della classicità.

Infatti, l'attività speculativa in quegli anni si caratterizza per:

• l'attenzione alla "conservazione" del precedente sapere, più che alla creazione di una nuova

conoscenza o alla ricerca di originalità;

• la centralità del mondo ecclesiastico: Isidoro fu vescovo di Siviglia, mentre Beda passò la sua vita

nel monastero di Jarrow in Inghilterra;

• l'affermazione come luoghi di ricerca di territori periferici rispetto all'antica mappa del potere

romano e segnati da una maggiore stabilità politica (la Spagna dei visigoti e l'Inghilterra nata dalla

fusione tra il mondo romano-bretone e il mondo degli anglo-sassoni);

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• l'importanza attribuita al cosiddetto trivio e quadrivio, ovvero il modello basilare della conoscenza

secondo le sette arti liberali, già elaborato in ambiente romano. Vengono così suggeriti il numero e

l'articolazione definitiva delle discipline in grado di costruire il sapere.

Ecco uno schema delle sette arti liberali:

TRIVIO (ARTI DELLA PAROLA) QUADRIVIO

grammatica

retorica

dialettica

aritmetica

geometria

astronomia

musica

Il trivio (trivium) rappresenta l'insieme

delle "strade" e, quindi, degli strumenti per

ragionare in modo corretto ed

esprimere con chiarezza nonché efficacia

quanto si conosce; la logica appare

disciplina propedeutica al sapere perché

insegna il giusto ragionare, inferendo e

deducendo.

Il quadrivio (quadrivium) insegna a ricercare la

verità nella realtà, facendo uso di tecniche

matematiche; anche la musica, infatti, è pensata

non come composizione o esecuzione di melodie,

ma come l'ordine numerico che sussiste tra le cose,

organizzate (secondo una dottrina pitagorica

e neoplatonica) in maniera armoniosa.

Le arti liberali avranno un'importanza centrale per tutto il Medioevo, in particolare nello sviluppo di

nuove esperienze filosofiche tra XI e XII secolo.

La Filosofia presenta a Boezio le sette arti liberali; ogni arte porta un oggetto che la simboleggia. Miniatura tratta da un

manoscritto del De consolatione philosophiae, XIV secolo. Parigi, Biblioteca nazionale.

Le Etymologiae di Isidoro di Siviglia raccolgono in una singola opera il corpus dei saperi

fondamentali e sono alla base della tradizione delle enciclopedie medievali

Nato a Cartagena intorno al 560, in una famiglia ispano-romana, Isidoro rimase orfano molto

presto. La sua educazione fu quindi affidata al fratello maggiore Leandro. Il giovane Isidoro studiò

in un monastero, dove maturò una profonda conoscenza degli autori latini e la consapevolezza

dell'importanza dell'istruzione per il clero. Intorno all'anno 600 divenne vescovo di Siviglia,

seguendo le orme del fratello Leandro, ed ebbe un ruolo da protagonista nelle vicende politiche e

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religiose della Spagna dominata dai visigoti. Contribuì alla loro conversione al cristianesimo e

promosse la diffusione della cultura e delle lettere classiche. Isidoro lasciò una grande quantità di

scritti, dedicati a temi filosofici e teologici, ma la ragione della sua grande fama è legata alle

Origines o Etymologiae, un'opera organizzata come uno scritto enciclopedico, su ogni aspetto dello

scibile umano e dell'indagine teologica. Isidoro vi lavorò per molti anni, sino alla morte, senza

riuscire però a completare il progetto che aveva concepito. Divisa in venti libri, l'enciclopedia

trattava di logica, matematica, grammatica, storia e teologia, ma anche di medicina, mineralogia,

agricoltura e alimentazione. Di capitale importanza risultano le informazioni relative ad alcune

discipline del trivio, in particolare alla dialettica: Isidoro, infatti, fornisce un sintetico riassunto della

logica di Aristotele e in particolare delle Categorie, utilizzato come introduzione all'argomento da

generazioni di pensatori successivi. In questa operazione di raccolta e sistematizzazione Isidoro

persegue un fine didattico, mirando a fornire in modo semplice e preciso informazioni che potessero

essere utili al lettore. Le Etymologiae, tuttavia, non sono uno scritto originale: il vescovo di

Siviglia, infatti, riprende la struttura dell'opera e le informazioni da altri autori latini: innanzitutto

Cassiodoro, nobile romano che, dopo un'importante carriera politica, fondò un monastero nell'Italia

del Sud (a Squillace) dove scrisse intorno al 560 un'enciclopedia del sapere cristiano (le

Institutiones divinarum et saecularium litterarum); ma anche Marco Terenzio Varrone (I secolo

a.C., autore latino di importanti scritti d'erudizione) e Plinio il Vecchio (I secolo d.C., autore latino

della famosa Historia naturalis, un'opera enciclopedica in 37 libri). Le ragioni del successo delle

Etymologiae sono da ricercare nella volontà di preservare il ricco patrimonio culturale romano,

sempre a rischio di essere smarrito in un periodo di transizione tra due mondi. Grazie alla sua

preparazione culturale, Isidoro fornì in un singolo scritto tutte le informazioni e le dottrine che

potevano costituire l'ideale corpus dei saperi fondamentali. Il metodo seguito per preparare le voci

della sua enciclopedia è già descritto nel titolo Etymologiae: l'autore è convinto infatti che la

ricostruzione dell'origine del nome con cui si designa una determinata realtà, cioè la ricerca

etimologica, indichi il significato più profondo e l'essenza stessa di quella realtà. La conoscenza

dell'origine del nome equivale dunque alla conoscenza della cosa.

Nell'opera di Beda il Venerabile una nuova realtà etnico-culturale nata dalla fusione tra

mondo anglosassone e mondo romano-bretone si misura con la cultura latina

Beda, detto il Venerabile, nacque intorno al 672-673 a Jarrow, nel regno anglosassone della

Northumbria, nell'Inghilterra nord-orientale. Crebbe e fu educato nei monasteri di San Pietro e San

Paolo di Jarrow e divenne sacerdote a trent'anni. Non ebbe incarichi né uffici particolari al di fuori

dell'insegnamento, a cui si riferisce la maggior parte dei suoi scritti. La sua attività di studioso va

intesa come il prodotto della fusione tra mondo anglosassone (i popoli germanici che avevano

invaso l'Inghilterra a partire dal V secolo) e mondo romano-bretone e come il risultato della prima

assimilazione della cultura latina da parte di questa nuova realtà etnico-culturale. L'opera di Beda,

come quella di Isidoro, non è originale, ma si serve di materiali precedenti e di dottrine già

elaborate; l'importanza di questi scritti, quindi, è ancora una volta quella di difendere e diffondere

un sapere già costituito, rendendolo fruibile alle successive generazioni. Beda visse e lavorò per

tutta la sua vita nel monastero di San Paolo, dotato di una ricca biblioteca che il fondatore,

Benedetto Biscop, aveva costruito riportando da Roma vari volumi. Beda è autore del De rerum

natura, un'opera che verrà utilizzata da molte generazioni di pensatori medievali, che fornisce

informazioni intorno a vari aspetti sia del trivio che del quadrivio, in particolare intorno alle

"scienze naturali". Il De schematibus et tropis è invece un'analisi grammaticale delle figure

retoriche e della loro importanza per la comprensione delle Sacre Scritture, elemento centrale nella

formazione della cultura cristiana. Anche in quest'opera, quindi, le discipline del trivio (grammatica

e retorica) rivestono un ruolo centrale. Nel De temporibus, nel De tempore e nel De ratione computi

sono sviluppate le nozioni di matematica applicate al problema dell'esatto calcolo delle date per

l'anno liturgico.

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La rinascita fu favorita dall'affermazione del potere carolingio: per questo è strettamente

collegata alle sorti della dinastia e si sviluppò dalla fine dell'VIII alla fine del IX secolo

Nell'Europa segnata dalle grandi trasformazioni politiche e religiose, tra il V e l'VIII secolo, si

sviluppa una trasmissione del sapere tardo-antico da cui ha origine la tradizione carolingia. Carlo

Magno stesso accompagna la creazione del suo grande regno a una precisa politica culturale, con

l'intento di rendere uniformi e coesi i suoi domini, oltre che per la necessità di formare funzionari

imperiali sufficientemente acculturati. Per questo la rinascita carolingia è strettamente collegata alle

sorti politiche della dinastia e si inscrive in un arco temporale che va dalla fine dell'VIII alla fine del

IX secolo, producendo i suoi risultati migliori durante il regno di Carlo il Calvo, nipote di Carlo

Magno e imperatore sino all'877. Questa politica trova concreta attuazione mediante precise

indicazioni volute dallo stesso Carlo Magno. In una lettera-ordinanza, la Epistula de litteris colendis

(Missiva sulla cura per le lettere), scritta tra il 780 e l'800, Carlo ordinava che gli esponenti del

mondo ecclesiastico fossero impegnati anche nello studio delle lettere, intendendo cioè la cultura

nelle sue varie forme. Carlo si assicurò inoltre che tale sapere fosse trasmesso anche agli altri

membri della società franca.

Nel processo riformatore avviato in età carolingia si possono quindi individuare alcuni aspetti

peculiari:

• la centralità del sistema educativo ecclesiastico: la rinascita si produce, come si evince dalla stessa

Epistula, all'interno dell'apparato educativo e culturale della Chiesa cattolica e in particolare dei vari

monasteri. I centri monastici, luoghi di raccolta, copiatura e studio dei libri antichi, divengono così

sedi di scuole che diffondono il sapere e formano le nuove generazioni di studiosi. È evidente che

nell'ambiente monastico ed ecclesiastico le questioni teologiche e quelle relative ai dogmi di fede

assumono un'importanza fondamentale;

• la pratica della lectio e del florilegio: la ricerca filosofica carolingia si fonda sulla lettura di un

testo (lectio) e sulla sua spiegazione: gli scritti analizzati sono sia la Scrittura, il testo per eccellenza,

sia le opere filosofiche, in particolare quelle dei Padri (soprattutto Agostino). Tale attività inizia con

la comprensione del significato letterale del testo e prosegue con la decodificazione dei suoi livelli

più profondi (la dimensione allegorica), per poi sviluppare un'interpretazione sul significato

complessivo. Questa pratica si può basare sul metodo del florilegio: intorno a un passo o a un

problema teologico, l'interprete raccoglie riflessioni e commenti di autori diversi e particolarmente

rilevanti, cioè le auctoritates, producendo un campionario di interpretazioni possibili, da offrire alla

meditazione dei fedeli;

• l'importanza delle arti liberali: la centralità del rapporto con il testo rende necessario lo studio

della retorica, della grammatica e della dialettica, discipline che permettevano una migliore

comprensione della parola scritta e delle sue funzioni e che diverranno quindi gli strumenti di

lavoro essenziale per l'intellettuale carolingio;

• la diversa provenienza degli autori carolingi: la vastità dei domini dell'impero carolingio e il fine

politico della riforma (creare uniformità tra i vari popoli) determinarono un'accentuata eterogeneità

tra gli studiosi protagonisti della rinascita: Paolo Diacono, maestro di grammatica (720-799) era

longobardo e nato in Italia; Alcuino di York (735-804) era un anglosassone proveniente dalla

Northumbria; Rabano Mauro (780 ca.-856) proveniva da Magonza; Teodulfo d'Orléans (750-821)

era di origine gota, nato nella Spagna allora occupata dal dagli arabi; Giovanni Eriugena (attivo nel

IX secolo) era di origine irlandese.

Tra tutte queste personalità, le più importanti per la ricostruzione del pensiero filosofico carolingio

sono Alcuino e Rabano, della prima generazione della rinascita carolingia, e Giovanni Eriugena,

considerato la massima espressione di questa stessa rinascita e del pensiero alto-medievale.

Alcuino di York e Rabano Mauro rappresentano in modo emblematico i caratteri della

rinascita filosofica carolingia Alcuino di York (735-804) fu un importante punto di riferimento culturale sia per la quantità di

scritti sia per il suo contributo alla politica culturale carolingia. Di nobile famiglia anglosassone e

formatosi alla scuola episcopale di York, Alcuino fu chiamato da Carlo Magno per costituire la

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Schola palatina ad Aquisgrana. Organizzò un programma di studio, basato sulla conoscenza delle

arti liberali, sulla medicina e sulla teologia, che si diffuse poi in tutte le scuole episcopali e

monastiche dell'Impero e divenne il fondamento della cultura medievale.

L'opera di Alcuino, come quella di Isidoro e di Beda, del quale è conterraneo, è in continuità con la

tradizione del sapere monastico pre-carolingio e riprende nozioni e dottrine precedenti. Il merito di

Alcuino è di averle ordinate con attenzione didattica per renderle fruibili ai suoi lettori. Rabano

Mauro (780 ca -856) è un discepolo di Alcuino; si pone in ideale continuità con la filosofia

monastica di Beda e con il progetto enciclopedico di Isidoro. La sua opera più importante è il De

Universo o De Rerum Naturis, un'enciclopedia in cui offre una raccolta dello scibile umano e dà

una lettura del reale in senso teologico, come manifestazione del divino.

Rabano compose anche poesie e carmina figurata, ovvero componimenti poetici nei quali le parole

del testo erano disposte sulla pagina in modo da creare varie possibilità di lettura e formare

immagini sacre.

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Pagina miniata dal De Universo o De Rerum Naturis di Rabano Mauro, 1022-

1035. Montecassino, Libreria dell'abbazia.

MAPPA CONCETTUALE

La scuola nell'epoca carolingia

3 Giovanni Scoto Eriugena L'attività di ricerca e studio sviluppata nel mondo carolingio produce i suoi risultati migliori

con l'opera di Giovanni Eriugena

Nell'ambito della cultura dell'età carolingia, Giovanni Scoto Eriugena risulta essere un pensatore

originale e l'espressione più interessante della filosofia altomedievale, distinguendosi radicalmente

dalla riflessione teologico-filosofica degli altri pensatori carolingi. Nonostante la ricchezza e la

novità della sua dottrina, le notizie che possediamo sulla sua vita sono molto limitate. I nomi con i

quali è conosciuto, cioè "Eriugena" e "Scoto", ci permettono di sapere che era originario

dell'Irlanda: Eriugena infatti significa "nato in Irlanda". Non è conosciuta la data del suo arrivo sul

continente. L'unica data certa della sua biografia è l'851, anno in cui interviene nella disputa sulla

predestinazione dei dannati e dei beati (ovvero la decisione presa eternamente da Dio su quali

individui salvare e su quali contemporaneamente dannare). Nei primi anni Sessanta del IX secolo,

Eriugena è attivo alla Scuola palatina, sotto il regno di Carlo il Calvo. All'incirca sino all'863

traduce in latino le opere di Dionigi (il cosiddetto corpus areopagiticum), insieme agli Ambigua di

Massimo il Confessore (a commento di Dionigi) e alcune opere di Epifanio di Salamina e di

Gregorio di Nissa (il De imagine, ovvero il De hominis opificio). Eriugena in questo modo

introduce la tradizione del neoplatonismo greco in Occidente e in particolare rende disponibile alla

tradizione latina le opere dionisiane. Dà infine prova di una conoscenza eccezionale della lingua

greca, estremamente rara nell'Europa dell'epoca. Le notizie sugli ultimi anni della sua vita sono

poche e confuse. Secondo alcune fonti avrebbe lasciato la Francia alla morte di Carlo il Calvo e si

sarebbe recato in Inghilterra.

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Eriugena affronta la complessa questione della predestinazione nell'opera De

praedestinatione, composta intorno all'851

Eriugena, attivo probabilmente già da qualche anno alla Scuola palatina in qualità di dotto filosofo,

era stato chiamato a intervenire nella disputa aperta dal monaco e teologo sassone, studioso di

sant'Agostino, Godescalco di Corbie (ca. 801-868 o 869). A differenza di Agostino che affermava la

predestinazione dei soli beati, Godescalco sosteneva che Dio predestina tanto i malvagi alla

dannazione quanto i giusti alla ricompensa eterna, appoggiando quindi la teoria della doppia

predestinazione (gemina praedestinatio). Eriugena attacca le posizioni di Godescalco con uno scritto

nel quale sviluppa tre dottrine centrali.

1. Dio è in se stesso semplice e Uno: la sua sostanza, quindi, è priva di composizione o

molteplicità. In base a tale assunto teologico, Dio non può avere una doppia conoscenza o un

doppio giudizio, sui giusti e sui reprobi.

2. Il concetto di "predestinazione" è inapplicabile a Dio.

La conoscenza che Dio ha delle realtà mondane e della condotta dell'uomo si produce in modo

conforme all'eternità della stessa natura divina, cioè nel presente perfetto, dove coesistono tutti i

fatti e gli eventi. Quindi, l'intera teoria della duplice praedestinatio, che introduce la categoria

temporale attraverso il "prae-", (cioè il "precedentemente") è estranea a Dio e deve essere rifiutata.

3. Lo strumento della punizione dei reprobi non può essere identificato semplicemente come il

fuoco infernale.

Eriugena afferma che la punizione per i dannati non consiste tanto nelle fiamme quanto nella

condizione propria dell'anima del reprobo, segnata da una profonda mancanza e vuoto. Il peccato e

il male, infatti, sono assenza di essere: colui che pecca sceglie il non essere che non potrà mai

venire realmente realizzato. La dottrina che Eriugena aveva sviluppato per confutare Godescalco

era troppo complessa e originale per i suoi contemporanei. Rifiutata dagli stessi autori che lo

avevano chiamato a esprimersi sulla questione, la dottrina di Eriugena sulla predestinazione verrà

condannata in due distinti Concili (855 e 859).

Lo scritto De divisione naturae è l'opera più importante di Giovanni Eriugena con cui entra in

contatto con la tradizione neoplatonica

Il De divisione naturae, che Eriugena aveva intitolato Periphyseon (Scritto intorno alla natura), non

può essere compreso senza far riferimento all'attività di traduzione e commento che Eriugena compì

nei confronti del corpus di Dionigi Areopagita. La corte carolingia possedeva una copia dell'insieme

dei testi dionisiani redatti in greco, regalata nell'827 dall'imperatore bizantino Michele II a

Ludovico il Pio (padre di Carlo il Calvo). La prima traduzione di questi testi (che era stata tentata da

Ilduino di Saint-Denis) era troppo farraginosa per essere utilizzata e Carlo il Calvo ordinò a

Eriugena, che conosceva il greco e aveva dimostrato una grande abilità linguistica e di traduttore, di

procedere a una nuova versione latina. Eriugena, oltre a rendere in latino i quattro scritti e le dieci

lettere (offrendo una versione che sarebbe stata utilizzata a lungo durante il Medioevo), preparò nel

corso degli anni anche un commento alla prima delle opere del corpus (la Gerarchia celeste).

L'incontro con questa ricca tradizione metafisica - in particolare con la tradizione del neoplatonismo

di Proclo, sostanzialmente ignota sino ad allora in Occidente - condiziona profondamente lo

sviluppo del successivo pensiero eriugeniano e la stesura del Periphyseon. Il concetto centrale del

Periphyseon è quello di Natura, termine con cui Eriugena indica tutte le cose che sono e tutte le

cose che non sono: è Natura, quindi, ogni realtà cosmica, creata e divina, e non solo il mondo fisico

o materiale. Il paradossale significato di "natura" come "ciò che non è", in particolare, definisce per

Eriugena il mondo delle sostanze celesti e di Dio: le essenze immateriali, in quanto sfuggono ai

sensi e alla ragione creata, non esistono e la stessa natura divina può essere identificata con il Nulla.

Questa dottrina porta con sé chiare tracce della teologia negativa di Dionigi (TESTO L'ineffabilità

dell'essenza divina): anche per Eriugena Dio trascende ogni categoria e ogni pensiero, mostrandosi

come il Niente, non per assenza d'essere ma per sovrabbondanza. Il filosofo irlandese arriva ad

asserire che il nulla dal quale, secondo il racconto della Genesi, il mondo è stato creato deve essere

identificato con la ineffabile essenza divina. Eriugena nel III libro del Periphyseon fonda questo

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carattere ineffabile di Dio sull'attributo della sua eternità. Eternità divina significa, osserva

Eriugena, infinità; ciò che è infinito non può essere delimitato da nient'altro, ma anche la

definizione è una delimitazione: in quanto infinito Dio è senza definizione e, quindi, è un Nulla

indicibile.

Eriugena individua quattro modi o forme della natura (le divisiones di cui parla il titolo latino

dell'opera):

• la natura non creata e che crea. Tale natura si deve identificare con Dio stesso come il Principio e

la causa incausata di Tutto;

• la natura che è creata e che crea. In questa seconda divisione si ha a che fare con i modelli ideali

che Dio stesso ha posto in essere, definiti da Eriugena cause primordiali. La seconda natura

corrisponde alla seconda persona della Trinità: il Lógos, ossia il Verbo divino. Questi paradigmi

(exempla) eterni hanno la capacità di generare il mondo delle realtà individuali e concrete. Le idee,

quindi, sono create ma possono a loro volta creare;

• la natura che è creata e che non crea. La terza natura coincide con il mondo materiale e con la

dimensione propria dell'uomo;

• la natura che non è creata e che non crea. L'ultima e più enigmatica natura è pensata da Eriugena

come identica a Dio, inteso però non più come causa ma come fine e traguardo ultimo della

Creazione a cui tutte le cose devono ritornare.

Eriugena, infatti, sviluppa una teoria del ritorno (reditus) di tutte le cose a Dio. Come l'universo è

proceduto dalla potenza divina che origina ogni cosa, secondo un modello neoplatonico, così dovrà

tornare a Dio alla fine dei tempi, secondo il movimento ternario di processione, permanenza in sé e

ritorno che già Proclo aveva teorizzato. Tutto il cosmo, quindi, sarà riassorbito nella potenza di Dio,

facendo venire meno ogni distinzione e anche ogni negatività, pur permanendo ogni realtà nella

propria individualità e identità.

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Ogni realtà è una manifestazione di Dio, è una teofania in quanto agisce come simbolo che

rende conoscibile il divino nella sua opera creativa

Poiché ogni creatura discende da Dio e mantiene con la sua origine un certo legame, allora ogni

realtà è in grado di manifestare la natura divina ed è quindi una teofania. La trascendenza divina

impedisce ogni conoscenza autentica di Dio; le singole creature, tuttavia, restituiscono un'immagine

non del tutto falsa del divino, seppure imperfetta, in virtù del legame metafisico che mantengono

con esso. La categoria della teofania si lega così a quella di simbolo e di metafora come già

accadeva in Dionigi. Ogni realtà è quindi teofania, in quanto agisce come simbolo che rende

conoscibile il divino nella sua opera creativa (STORIOGRAFIA Eriugena e la dottrina neoplatonica

del simbolo). La teofania è resa possibile dalla processione della potenza divina oltre se stessa e

dalla conseguente creazione delle realtà determinate, le quali in virtù di questo legame con il divino

possono far conoscere la stessa essenza del Principio. Nella manifestazione teofanica, quindi, la

natura divina acquisisce la forma di un essere determinato, cioè quello delle creature che ha posto in

essere grazie all'elargizione della propria potenza. In modo analogo Dio, in quanto infinito e non

conoscibile, non può possedere neppure autocoscienza, cioè non può avere una nozione chiara di se

stesso. Ma assumendo, nella processione che crea le realtà individuali, una forma determinata, la

natura divina può autoconoscersi, raggiungendo un'autentica consapevolezza. Una simile dottrina

metafisica risultava sempre aperta al rischio di interpretazioni panteiste, ma Eriugena ribadì in ogni

caso a più riprese la differenza tra Dio e mondo, affermando il carattere sempre trascendente del

divino nonostante il suo legame con le creature.

La concezione antropologica in Eriugena è improntata a un sostanziale ottimismo perché

riconosce all'uomo una particolare dignità

Nella dottrina di Eriugena ogni realtà creata, anche umile, è riflesso della potenza divina. In questo

quadro Eriugena riconosce all'uomo peculiare dignità, attribuendogli un ruolo e una posizione di

grande valore all'interno dell'ordine cosmico. Eriugena, infatti, sottolinea la continuità tra Dio e

uomo, fondandola essenzialmente sulle capacità conoscitive dell'essere umano. Individua nell'uomo

innanzitutto la sensibilità come la forma più bassa di conoscenza. Le immagini delle realtà fisiche,

che i cinque sensi producono nell'anima dell'uomo, vengono poi organizzate perché siano conformi

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alla ragione dal senso interno, che funge da elemento di unione tra momento empirico e momento

razionale del sapere. La ragione (lógos) definisce le realtà e per questo conosce Dio come il creatore

di Tutto. L'intelletto (noús), infine, si spinge quasi alla contemplazione diretta di Dio, ma, data

l'ineffabilità divina, non può cogliere la sua natura e, quindi, si limita a rimanere vicino al divino

stesso, «ruotando» dice Eriugena «intorno all'essenza del Principio». Quale unica creatura dotata

non solo di sensibilità ma anche di ragione e intelletto, ogni uomo è in grado di riassumere in sé

tutti gli aspetti della realtà creata, tanto quelli materiali quanto quelli spirituali. Inoltre, proprio in

quanto dotato di conoscenza razionale, in ogni individuo sono presenti tutte le idee e i paradigmi

eterni della realtà sensibile, così come sussistono in un differente grado di perfezione nella mente di

Dio, il suo Lógos o Verbo. La conoscenza di tali paradigmi nell'uomo non è empirica ma deriva

dall'alto, secondo un modello innatista, ed è frutto della stessa processione della potenza divina:

l'uomo, quindi, è l'ente che riassume in sé tutta la natura. Questo ruolo riservato all'uomo è

confermato sul piano teologico dalla teoria della divinizzazione della sostanza antropica. Eriugena

afferma che l'incarnazione del Cristo (cioè il Verbo che prende carne nel Nazareno) è la condizione

che permetterà in futuro all'uomo di realizzare la propria autentica natura, raggiungendo una

condizione divina: «l'essere umano perfetto», infatti, per Eriugena «è il Cristo» (Periphyseon, IV,

543 B).

L'AFFERMAZIONE DELLA DIALETTICA

1 La ripresa culturale e lo studio della logica Dall'eredità carolingia deriva un nuovo fermento culturale che si sviluppò nelle scuole

cattedrali nelle città

Durante l'età carolingia la cultura si era sviluppata nei centri monastici e nelle abbazie; dopo il

Mille, tra XI e XII secolo, la ricerca filosofica si praticò anche nelle scuole cattedrali che si

svilupparono contestualmente alla crescita dell'economia europea e delle città. Queste scuole erano

centri di formazione costituiti all'interno delle cattedrali, cioè nelle sedi vescovili, ed erano una

novità per la loro fisionomia e per il contesto socio-culturale: erano infatti legate alla realtà urbana e

vi venivano formati anche uomini non di chiesa, per svolgere attività politiche e amministrative.

Nelle scuole abbaziali e cattedrali tra IX e inizio dell'XI secolo veniva praticato lo studio della

grammatica e delle lettere antiche, unitamente a quello della logica in accordo con i testi allora

utilizzati (Categorie, De interpretatione e le Categoriae decem) e alla teologia dei Padri della

Chiesa. Si trattava di un'operazione di conservazione e di consolidamento tanto delle posizioni

dottrinali quanto dei curricula di studio delineatisi a partire dalla rinascita carolingia.

I più importanti protagonisti di questa epoca sono:

• Eirico e Remigio di Auxerre (il secondo era allievo del primo), attivi tra l'841 e il 908, studiosi

delle lettere, della dialettica, della grammatica e dei testi dei Padri. In entrambi questi autori è forte

l'influenza di Giovanni Eriugena;

• Abbone di Cluny (988 ca.-1004), anche noto come Abbone di Fleury, attivo presso la scuola

dell'abbazia di Fleury-sur-Loire; tra i suoi meriti c'è quello di aver introdotto in Occidente i testi

logici di Aristotele allora non ancora conosciuti;

• Gerberto d'Aurillac (950 ca.-1003), eletto papa con il nome di Silvestro II, uno degli uomini più

colti della sua epoca; fu un profondo conoscitore del trivio e del quadrivio, un rappresentante del

riuscito incontro tra cultura pagana e cristianesimo.

L'opera di questi autori, tuttavia, benché sia testimonianza di una significativa attività culturale, si

caratterizza per una sostanziale assenza di originalità e di innovazione dottrinale.

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A partire dall'XI secolo si può assistere alla nascita di esperienze filosofiche inedite,

prevalentemente fondate sullo studio della logica

La grande novità della ricerca filosofica in questo periodo consiste nel potenziamento della logica e

nell'impiego della razionalità per indagare le verità di fede. Questa impostazione produrrà nuovi

modelli teologici e speculativi ma anche molti contrasti. L'aspetto caratterizzante della riflessione

teologica e filosofica nell'XI secolo, infatti, è proprio il confronto tra quanti sostenevano i diritti

della ragione, e quindi della logica e degli strumenti dialettici in materia di fede, e quanti invece

respingevano l'interazione tra rivelazione e ragione. Lo studio della logica, ovvero dell'ars dialectica

(secondo la dicitura propria del trivio), conosce nell'XI secolo uno sviluppo significativo

innanzitutto nelle scuole cattedrali. Le principali furono la scuola di Reims, dove insegnò e fu

scolarca Gerberto d'Aurillac, e la scuola di Chartres che conobbe la sua massima fioritura nel XII

secolo. Altre scuole cattedrali molto attive erano quelle di Ravenna e di Parma, ma nello studio

della dialettica si distinsero anche alcune scuole monastiche come quella di Fleury sulla Loira, il cui

scolarca fu Abbone.

Gli "antidialettici" negano l'uso della dialettica nelle questioni di fede e sostengono che

l'onnipotenza divina non può essere subordinata alla logica umana

Di fronte al fiorire degli studi logici e all'applicazione della dialettica alle questioni di fede, molti

autori dell'XI secolo assumono una posizione critica, negando il valore della ragione nello studio

della Scrittura.

Una delle figure più rappresentative della mentalità antidialettica è Pier Damiani (1007-1072),

vescovo di Ostia. L'approccio di questo autore alla rivelazione è quello suggerito dai Padri della

Chiesa: le capacità razionali dell'uomo sono al servizio della Parola per la sua comprensione e non

possono servire a giudicarla o a discuterla.

Nel suo De divina omnipotentia (Sull'onnipotenza divina), Pier Damiani subordina così ogni verità

filosofica alla potenza di Dio che non si sottomette nemmeno al principio di non contraddizione

affermato dalla ragione. Gli "antidialettici", avversari della razionalizzazione della fede, erano

uomini che conoscevano profondamente la logica e la filosofia che criticavano.

Lo stesso Pier Damiani, ad esempio, frequentò la scuola cattedrale di Parma e pur nel suo rifiuto ad

accordare alla dialettica una funzione conoscitiva, fu un attento studioso delle arti liberali. La

reazione preoccupata, sul fronte dei contenuti, per gli eccessi a cui può condurre la speculazione

razionale in ambito teologico venne soprattutto da Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) che riprese

gli elementi della critica anti-razionalista di Pier Damiani e cercò di far condannare le dottrine

teologiche sviluppate con l'apporto degli strumenti razionali.

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Pagina di un manoscritto dell'opera di Bernardo di Chiaravalle De diligendo Deo, XIV secolo. Londra, British Library.

La controversia più significativa relativamente all'applicazione della dialettica e della

razionalità alla teologia fu quella sull'eucarestia

L'espressione più significativa del dibattito tra "dialettici" e "anti-dialettici" è quella

sull'interpretazione del miracolo eucaristico e vede contrapposti Lanfranco di Pavia e Berengario di

Tours. Il dibattito riguarda la presenza del corpo e del sangue di Cristo nell'eucarestia, cioè il

rapporto del sacro, quindi dello spirituale, con la natura materiale. Nella riflessione su questo tema

Berengario di Tours (1005-1088) applica gli strumenti dell'analisi logica e filosofica aristotelica,

derivata da Boezio, per negare la presenza sostanziale e sensibile del corpo del Cristo

nell'eucarestia, come invece affermava il dogma della transustanziazione. Secondo la logica

aristotelica infatti gli accidenti di una sostanza (il colore e le dimensioni ad esempio) non possono

sussistere da soli, senza la sostanza stessa alla quale ineriscono (la reale natura del corpo al quale

quelle qualità come il colore e le dimensioni sono legate). Un accidente, infatti è unicamente ciò che

inerisce al suo soggetto. Nel caso dell'eucarestia, Berengario ritiene dunque impossibile che il pane

e il vino mantengano i loro accidenti. La presenza del corpo e del sangue del Cristo allora sarà reale

ma in una modalità figurata, secondo una sorta di similitudine e allegoria, mentre la sostanza

materialmente presente è quella del solo pane e del solo vino. Nonostante la condanna di questa

dottrina, Berengario continuò a difenderla quasi sino alla morte. Contro tale posizione si pose

Lanfranco di Pavia (1010- 1089), monaco all'abbazia di Bec, in Normandia, poi abate dell'abbazia

di Santo Stefano di Caen e alla fine arcivescovo di Canterbury. Lanfranco scrive un Libro sul corpo

e il sangue di Cristo contro Berengario di Tours in cui si impegna a confutare le dottrine del rivale.

Lanfranco conosce la dialettica e la utilizza, ma "in negativo", per confutare coloro che

contraddicono i dogmi della Chiesa. Lanfranco, infatti, non è contrario a ricorrere agli strumenti

della logica perché ritiene che, se usata correttamente, la ragione possa essere utile a sostenere la

fede.

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3 La rinascita del XII secolo

Tra la fine dell'XI e l'inizio del XII secolo la filosofia occidentale conobbe una nuova fase di

rinnovamento che investì anche la teologia

Il rinnovamento della filosofia fu determinato dagli sviluppi degli studi logici. Nel XII secolo lo

studio della logica conobbe una crescita dovuta:

1. al precedente lavoro di studiosi che si erano confrontati con gli elementari testi aristotelici

(Categorie e De Interpretatione) e avevano sviluppato dottrine di rilevanza logica attraverso

l'approfondimento di altre discipline del trivio, come la grammatica;

alla progressiva riscoperta di opere logiche di Aristotele sino ad allora non studiate in Occidente,

ovvero gli Analitici Primi, in parte i Topici e le Confutazioni sofistiche. Il mondo latino conoscerà

questi trattati grazie agli scritti a essi dedicati e alle traduzioni preparate da Boezio. Questo percorso

di trasformazione del sapere logico latino si compirà definitivamente quando anche gli Analitici

Secondi, cominceranno a essere studiati e compresi dagli autori occidentali.

2. La riscoperta dei testi aristotelici si collegherà a un processo più generale di recupero da parte

dell'Occidente di testi e dottrine greche che iniziò proprio nel XII secolo. La causa storica di questo

processo fu l'incontro con il mondo arabo: le città "di confine" tra mondo latino e mondo islamico,

in particolare Palermo e Toledo, divennero luoghi di trasmissione del sapere tra studiosi di

tradizioni e religioni diverse. Si realizzò così un'"acculturazione" del mondo occidenta e che avrà

conseguenze importantissime per il pensiero medievale, imponendo una generale riorganizzazione

del sapere. Il potenziamento della logica, infatti, ebbe conseguenze anche al di fuori dell'ambito

puramente dialettico. Tecniche e dottrine logico-grammaticai furono applicate allo studio di

problemi filosofici e teologici: venne inaugurata così una nuova fase della teologia medievale, nella

quale la ragione e i suoi strumenti trovarono applicazione all'analisi dei misteri divini. Fu una tappa

ulteriore in quel processo di dialogo tra ragione e fede che caratterizza almeno in parte il mondo

medievale. Figure emblematiche di questa fase del pensiero medievale furono i pensatori di

Chartres e Abelardo, al quale si devono le più importanti intuizioni logiche nel XII secolo e che sarà

uno dei protagonisti della cosiddetta disputa degli universali. Naturalmente questa svolta nella

teologia susciterà la reazione di diversi esponenti della cultura del tempo, preoccupati per gli esiti

cui poteva condurre questo tipo di speculazione e per l'ampliamento, a loro avviso eccessivo, della

sfera d'azione della ragione. È emblematica in questo senso la dottrina di Bernardo di Chiaravalle

(1090-1153), che sembra riprendere elementi della critica anti-razionalista di Pier Damiani:

Bernardo, infatti, cercò di far condannare le dottrine teologiche sviluppate con l'apporto degli

strumenti razionali (come quelle di Pietro Abelardo e di Gilberto Porreta).

Nel XII secolo si afferma un approccio razionale agli studi naturalistici che trova una prima

espressione nelle dottrine di Ugo di San Vittore

Parallelamente al potenziarsi dell'apparato dialettico il mondo latino conobbe anche un

rafforzamento della ricerca razionale sulla natura: la nuova impostazione degli studi implicava la

possibilità di affrontare l'indagine sul mondo fisico in modo autonomo rispetto alle risposte della

rivelazione. All'interno della scuola di Chartres si potranno trovare autori che sosterranno questa

forma di ricerca intorno al mondo naturale. Ma l'approccio razionale agli studi naturalistici era stato

preannunciato dalle dottrine sviluppate nel centro monastico di San Vittore, a Parigi. Il maestro di

questa scuola, Ugo di San Vittore, (1096-1141) sostiene la necessità di un dialogo tra ragione e fede

e afferma il valore della scienza mondana. La scienza profana, organizzata intorno alle sette arti

liberali e a sette arti meccaniche (come l'arte della navigazione e l'agricoltura), non deve essere

contrapposta al sapere sacro perché anch'essa è originata da una "scintilla della luce divina". Se il

sapere profano fine a se stesso è inutile e persino nocivo alla ricerca della verità, l'erudizione

filosofica può essere impiegata come mezzo di avvicinamento a Dio e in questo modo essere utile.

Anche in Ugo, tuttavia, la conoscenza umana del mondo è intesa prevalentemente in modo

simbolico: è solo un'occasione per cogliere Dio e la natura non è considerata come un autonomo

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campo di indagine, ma come riflesso allegorico dell'attività divina. La lettura simbolico-allegorica

della realtà fisica, che è stata creata per l'uomo e per la sua redenzione, è essa stessa una forma di

contemplazione per arrivare alla visione mistica.

Pagina miniata da un erbario medievale della scuola salernitana, 1280-1310. Londra, British

Library.

L'applicazione delle tecniche dialettiche alla teologia è all'origine dei Libri di Sentenze: quello

di Pietro Lombardo fu il testo su cui si formarono molti filosofi medievali

L'applicazione delle tecniche dialettiche alla teologia diede vita a un nuovo genere letterario, i Libri

di Sentenze. Questi testi consistevano nella raccolta di dottrine e asserzioni (Sententiae), tratte da

autori della Patristica e alto-medievali su un tema o una questione teologica complessa. L'intento

dei redattori di queste opere era fornire materiali di studio e chiarificazione per una migliore

comprensione delle Scritture. La novità delle Sentenze consiste nel metodo e nell'ordine impiegati

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per la presentazione dei materiali. Le questioni e i testi a loro commento sono organizzati in base a

un preciso progetto culturale: prima viene la riflessione intorno a Dio, poi quella sulle realtà

immateriali e infine sull'uomo. Il metodo utilizzato è quello razionale e dialettico: il passo delle

Scritture che risulta oscuro va compreso a partire dal confronto delle auctoritates, aprendo la via a

un'indagine razionale sulle tematiche oggetto di dibattito. Questa nuova tipologia di testi ha il suo

modello in Pietro Lombardo (fine XI secolo -1160). Formatosi a San Vittore, Pietro Lombardo

raccolse e sistemò organicamente nei suoi Libri IV sententiarum (1142-1158) i testi dei Padri e dei

più illustri maestri medievali su differenti questioni teologiche. Il primo libro tratta di Dio e della

Trinità; il secondo, della creazione, del peccato e della grazia; il terzo, dell'Incarnazione, della

redenzione e delle virtù teologali; il quarto, infine, dei sacramenti e dei misteri della fine dei tempi.

Le Sentenze di Pietro Lombardo ebbero un'enorme importanza in quanto nel 1215 il Concilio

Lateranense lo adottò come libro di testo nelle facoltà teologiche delle nascenti università. Le

Sentenze divennero così la raccolta su cui si formarono generazioni di pensatori medievali, visto

che il loro commento era parte obbligata del percorso di formazione teologica: infatti, dopo lo

studio delle arti liberali, la prima tappa del percorso di formazione teologica era proprio il

commento alle Sentenze che permetteva di divenire baccellieri sentenziari (TESTO La philosophia

ancilla theologiae).

Pagina iniziale di un manoscritto del XII secolo delle Sententiae di Pietro Lombardo.

Parigi, Biblioteca nazionale.

MAPPA CONCETTUALE Il rinnovamento filosofico del XII secolo

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4 La scuola di Chartres

La scuola di Chartres è una delle maggiori testimonianze della vivacità speculativa del XII

secolo sia in filosofia che in teologia

Sorta a circa cento chilometri da Parigi, nel contesto delle trasformazioni economico-sociali e del

rinnovamento culturale europeo dell'XI secolo, la scuola di Chartres diventa nel XII secolo uno dei

centri culturali di maggiore interesse filosofico. La scuola accoglie un gruppo di maestri che

operano tra il 1100 e il 1175 circa, apparentabili per le questioni che affrontano e per le fonti su cui

fondano la loro speculazione. In primo luogo, le dottrine platoniche, conosciute direttamente

dall'unica opera di Platone accessibile al mondo medievale, cioè il Timeo; o indirettamente,

attraverso i frammenti presenti in altri autori antichi e tardo-antichi disponibili nelle biblioteche

dell'epoca. In secondo luogo, le dottrine neoplatoniche, conosciute attraverso gli autori che le hanno

cristianizzate e diffuse nel mondo medievale, come Agostino, Boezio e Dionigi, ma anche

Macrobio con il suo commento al cosiddetto Somnium Scipionis (VI libro del De re publica di

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Cicerone). Insieme a questa tradizione platonizzante a Chartres si prosegue lo studio delle arti

liberali e in particolare della grammatica, che è oggetto di approfondimenti, soprattutto per i suoi

rapporti con la logica e per le indicazioni speculative che può fornire. Grande attenzione, infine, è

dedicata allo studio della medicina - attraverso gli autori che rendono disponibili i saperi arabi,

come Costantino l'Africano - e alla fisica, secondo un approccio razionale e attento all'indagine

concreta. Anzi, proprio gli interessi medico-scientifici rappresentano il tratto speculativo più

caratterizzante della scuola di Chartres.

Bernardo di Chartres riprende le dottrine platoniche e risulta l'autore più rappresentativo

della scuola di Chartres

Dopo Fulberto di Chartres, fondatore della scuola, e Ivo di Chartres, vescovo della città, fra i

pensatori più originali legati alla scuola della cattedrale, attivi tra la fine dell'XI e l'inizio del XII

secolo vi è Bernardo (la cui data di morte si può collocare tra il 1124 e il 1136). In Bernardo di

Chartres si possono individuare molti degli elementi caratterizzanti la dottrina di questa scuola, a

cominciare dal platonismo. La sua teoria delle formae nativae afferma che le realtà materiali sono

plasmate in conformità al loro modello perfetto, identificabile con le idee di Dio. Le singole cose,

quindi, vengono all'essere perché le essenze ideali si uniscono alla materia, creando gli esseri

appartenenti ai diversi generi e specie. Il paradigma formale che entra in rapporto con la materia,

tuttavia, non è l'idea perfetta ma una sua immagine, la forma nativa. Esiste così una sorta di

gerarchia dei principi: Dio, le idee perfette, le loro forme derivate, le cose concrete. In conformità

con tale teoria, in Bernardo è rinvenibile una teoria della derivazione paronimica tra termine astratto

e termine concreto che definisce una gerarchia cosmica tra idee e cose. In questo tipo di rapporto,

secondo Bernardo, si produce una subordinazione dell'espressione concreta rispetto a quella più

astratta; nel caso di "bianco" e "bianchezza", quindi, il primo termine è inferiore e dipendente dal

secondo. Bernardo ordina così i termini in una gerarchia dove al vertice sta l'espressione astratta

nella sua semplicità, cioè la nozione astratta di "bianchezza"; al secondo posto l'azione che dal

termine astratto prende significato cioè "imbiancare", l'atto di rendere qualcosa bianco; e al gradino

più basso vi è l'espressione determinata, cioè "bianco", l'accidente proprio solo di un corpo

determinato. L'espressione che fonda il significato di tutte le altre è la prima, ovvero la più astratta,

l'idea di bianchezza, e le altre acquisiscono il proprio valore semantico in relazione a questa. Tale

teoria di natura grammaticale ha implicazioni metafisiche: la forma pura è il principio dell'essere,

mentre le realtà concrete dipendono da essa. La perfezione semantica e ontologica coincide così con

l'astrattezza priva di materia. Celebre, infine, è anche la dottrina metodologica che Bernardo

formula in riferimento al rapporto tra sapienza antica e sapere nuovo. Da Giovanni di Salisbury

sappiamo che:

Bernardo di Chartres diceva che noi siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo

vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'acume della vista o l'altezza del nostro

corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti.

Utilizzando questa felice metafora, Bernardo attribuisce ai maestri del passato un ruolo centrale

nella costruzione della conoscenza e riconosce a loro un'acutezza speculativa che non è rinvenibile

nel pensiero a lui contemporaneo: li paragona a dei giganti, mentre i filosofi contemporanei sono

solo nani che possono dare un contributo minimo alla crescita del sapere. Ciononostante, anche il

piccolo apporto che da questi "nani" può derivare ha comunque valore: infatti, sedendosi sulle

spalle dei giganti, ovvero riprendendo e studiando le verità che la filosofia passata ha scoperto,

possono vedere qualcosa di nuovo, cioè sviluppare le precedenti dottrine in modo inedito.

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Chartres, particolare del Portale Reale: personaggi dell'Antico Testamento, scolpiti intorno agli

anni 1140 sulla facciata ovest. Questa facciata è stata l'unica parte della cattedrale a

salvarsi dall'incendio del 1194, il resto dell'edificio è stato successivamente ricostruito in

stile gotico.

Gilberto Porretano sviluppa un'organica teoria dell'essere fondata sulla distinzione tra ciò che

è (id quod est) e ciò per cui è (quo est)

Fra gli studiosi che si formano sotto la guida di Bernardo di Chartres un personaggio interessante è

Gilberto Porreta (o Porretano, conosciuto anche come Gilberte de la Porreé). Porreta (1076-1152) è

autore di una serie di commenti agli opuscoli sacri di Boezio, fra cui quelli al De Trinitate e al De

hebdomadibus, dai quali si può ricostruire la sua filosofia. La filosofia di Porreta si sviluppa in

un'organica teoria dell'essere e dell'esistenza delle cose fondata sui seguenti principi.

Distinzione tra id quod est e quo est - I due termini, ripresi dal De hebdomadibus boeziano,

indicano rispettivamente ciò che è, ossia la realtà concreta esistente, come il singolo uomo, e ciò per

cui è, ossia il principio che lo fa essere; tale principio si deve identificare con la realtà che fa sì che

l'uomo esista come uomo, cioè la sua forma. In questo modo la dicotomia tra quo est e id quod est

può essere ricondotta a quella tra:

• l'essere formale puro, che ha la capacità di portare all'esistenza le cose;

• e la realtà concreta, che è caratterizzata dalla materia, la quale dipende dal quo est.

In Dio, secondo Gilberto, quo est e id quod est coincidono; le cose create, invece, non sono ciò che

sono, in quanto in esse c'è anche "altro" rispetto alla pura forma.

Distinzione tra sostanza, sussistenza e sussistente - Tale principio in parte si sovrappone alla

precedente dottrina. Gilberto definisce la sostanza (substantia):

1. come ciò che esiste veramente;

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2. come ciò che può avere degli accidenti (i quali possono esistere solo unitamente a una sostanza).

In questo secondo senso sostanze sono unicamente le realtà dotate di materia (id quod est), perché

solamente ciò che ha corpo e materia può avere accidenti. La sussistenza (subsistentia) è la forma

che fa essere una certa realtà, in questo senso simile al quo est. Pertanto la sussistenza è vera

sostanza perché esiste perfettamente, ma non è sostanza quale sostrato degli accidenti. Il sussistente

(subsistens) è la realtà concreta (id quod est) che esiste in virtù della sussistenza e può far esistere

gli accidenti (agendo così come sostanza).

La teoria dell'esistenza del concreto - Le precedenti teorie permettono a Gilberto di spiegare

l'esistere delle cose materiali. Poiché l'esistenza è data dalla forma (quo est, sussistenza) ciascuna

realtà esiste in virtù dei suoi elementi formali o eidetici; l'uomo ad esempio esiste in quanto ha in sé

l'essenza dell'uomo, ovvero la sussistenza dell'umanità (humanitas). Gilberto applica questo

principio metafisico a ogni elemento che può essere individuato all'interno della realtà materiale. Il

corpo umano, per esempio, non è solo la materia che si unisce alla forma per produrre il sussistente

come cosa concreta, ma a sua volta è dato da una materia e da quella forma che organizza la materia

stessa per creare proprio il corpo umano (e non il corpo di un altro animale o di una realtà

inorganica); anche il corpo, quindi, possiede una sussistenza, ovvero la corporeità. Il medesimo

ragionamento può essere applicato potenzialmente a tutti gli elementi che contribuiscono a portare

all'esistenza una certa realtà (non solo anima e corpo, ma anche gli aspetti accidentali come colore e

dimensioni) conducendo a spiegare le cose concrete come una concretio (unione) di più elementi

formali (l'umanità, la corporeità, ecc.), quali vere cause dell'essere della realtà stessa.

La teoria della materia - Gilberto completa questa dottrina distinguendo tre principi fondamentali

dell'essere: l'essenza (ousia) di Dio, le idee delle cose sensibili e la materia. La prima è essere (esse)

perfetto, nel quale non si distingue materia e forma: Dio è puro quo est ed essenza, ovvero sola

divinitas quale forma che permette a Dio di essere Dio. Questa essenza crea le idee delle realtà

sensibili; non saranno queste però a unirsi alla materia, ma delle loro copie (formae nativae),

secondo la dottrina già di Bernardo. L'unione tra tali forme e la materia produce la singola realtà. La

materia stessa, tuttavia, è data da sussistenze, in quanto ogni sostrato materiale è composto dai

quattro elementi primi, ovvero terra, acqua, aria e fuoco, che a loro volta esistono in quanto

possiedono la forma loro corrispondente (la forma dell'acqua, dell'aria, della terra e del fuoco): in

questo modo, in omaggio al principio della sussistenza, la radice della materia è un dato eidetico e

formale.

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Gilberto Porretano raffigurato in una miniaturata da un commento al De Trinitate di Boezio della

fine del XII secolo. Valenciennes, Biblioteca municipale.

Teodorico di Chartres elabora una teologia fondata su principi matematici e dalla Genesi

ricava una teoria fisica della creazione

Teodorico si formò alla scuola della cattedrale di Chartres. La lasciò intorno al 1134 per insegnare a

Parigi ma vi ritornò nel 1141 come cancelliere al posto di Gilberto Porreta. La sua attività si

caratterizza per lo studio delle arti liberali e per l'elaborazione di una teologia fondata su dottrine

matematiche. Teodorico di Chartres afferma esplicitamente di seguire il modello della conoscenza

offerto dalle sette arti liberali, a cui dedica un intero scritto, l'Eptateuchon appunto, ovvero i Sette

libri. Importanti in quest'opera sono in particolare le dottrine astronomiche e geometriche, che

Teodorico riprende da molti autori tardo-antichi (Igino, Tolomeo, Gerberto, Columella, Garlando),

e le dottrine logiche. A proposito di queste ultime, è importante il fatto che Teodorico prosegue nel

recupero di testi aristotelici poco studiati sino ad allora, come gli Analitici Primi e le Confutazioni

sofistiche. La sua originale dottrina della creazione del mondo si fonda sui principi matematici.

Teodorico identifica il principio metafisico creatore nell'unità: l'unitas è ciò per cui ogni cosa che

esiste viene all'essere e come tale rappresenta il divino. Di contro all'unità, il numero appare come

dimensione del divenire e quindi delle realtà create, in quanto i numeri sono addizionabili e

sottraibili nella loro sequenza infinita. L'unità è forma dell'essere (forma essendi) e causa delle cose

soggette alle regole matematiche dei numeri. L'atto creatore divino si compie mediante l'operazione

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matematica della moltiplicazione. Teodorico distingue la moltiplicazione dello "stesso per lo stesso"

(quando uno stesso numero è moltiplicato per se stesso) dalla moltiplicazione dello "stesso per

l'altro" (quando si tratta del prodotto di due numeri diversi). La creazione divina si compie secondo

il secondo tipo di moltiplicazione, che produce differenza e l'infinità dei numeri, simbolo della

potenza del Creatore e atto fondativo del reale. La moltiplicazione del primo tipo ("stesso per lo

stesso") applicata all'unità divina, unitamente al principio per cui ogni cosa tende a porsi in

uguaglianza con se stessa (ogni cosa è unità perché deriva da Dio e, quindi, è una con se stessa,

ovvero identica a sé), spiega la generazione della Trinità. Nell'operazione 1 X 1 = 1, diviene

manifesto come Padre e Figlio abbiano la stessa natura (alla quale si fa riferimento nell'identità

delle cifre della moltiplicazione), benché siano distinte in quanto due persone. Il rapporto tra le due

unità che si scoprono uguali per la loro natura (introdotto dal segno di uguaglianza nel prodotto 1 X

1 = 1), invece, rimanda alla terza unità che è lo Spirito Santo. Nel Tractatus de sex dierum operibus

Teodorico cerca di rinvenire nel racconto della creazione del mondo del libro della Genesi una serie

di verità razionali fisiche o di filosofia della natura. Ravvisa quindi nell'affermazione biblica "Dio

creò il cielo e la terra" un riferimento ai quattro elementi, i due più pesanti (a cui fa riferimento

l'espressione "terra"), ovvero terra e acqua, e i due più leggeri ("il cielo") identificabili nell'aria e nel

fuoco. Teodorico ritiene poi che il fuoco, quale ultimo elemento che circonda l'universo, possa

muoversi solo in modo rotatorio (il moto è conseguenza della sua estrema leggerezza). Questo

movimento dell'elemento igneo produce la rotazione degli altri elementi e dell'intero universo. Il

fuoco è anche responsabile della comunicazione del calore all'acqua e alla terra, con la

corrispondente evaporazione di parte dell'acqua stessa, l'emersione di alcune parti della terra e la

nascita delle prime specie vegetali, degli animali sino all'uomo, grazie all'intervento del calore degli

astri. L'acqua trasformata in vapore sale superando l'aria e generando le nubi. La condensazione di

questo vapore genera poi le stelle e gli astri. Questi eventi si compiono nell'arco dei sei giorni,

ovvero di sei rivoluzioni del cielo mosso dal fuoco. Il settimo giorno, indicato nella Scrittura come

il riposo di Dio, deve essere spiegato fisicamente come l'autonomo processo della natura secondo

l'interazione delle forze prima create o come il dispiegarsi di un principio formale potenziale (ratio

seminalis) che Dio stesso ha posto nella natura durante i sei giorni.

Guglielmo di Conches è l'intellettuale che meglio riassume la fisionomia della cultura

elaborata a Chartres

Guglielmo (1080 ca.- morto dopo il 1154) è allievo di Bernardo di Chartres e insegnante a Parigi e a

Chartres negli anni Quaranta del XII secolo; tra il 1144 e il 1149 si trova alla corte di Goffredo il

Bello Plantageneto, che è suo protettore. A Guglielmo si possono attribuire un commento al Timeo,

uno al De nuptiis di Marziano Capella, uno all'opera di Macrobio sul Somnium Scipionis e uno alla

Consolatio philosophiae di Boezio. È l'unico autore che ha lasciato opere su tutti questi scritti,

centrali per la formazione del pensiero della scuola di Chartres. Come altri pensatori di Chartres

impegnati a riflettere sul Timeo, Guglielmo si sofferma in particolare sulla materia e la sua origine.

Nel dialogo platonico, la materia, principio che rende possibile il mutamento e il reciproco

trasformarsi degli elementi gli uni negli altri, è indipendente dal Demiurgo e a lui coeterna. Nella

tradizione dogmatica cristiana, invece, la materia deve essere intesa come prodotta essa stessa da

Dio nella sua creazione del mondo dal nulla, ex nihilo. Guglielmo sostiene la posizione cristiana,

cercando di conciliarla con il testo platonico. Intende anche risolvere la divergenza fra Platone, che

attribuisce alla materia un carattere negativo, e la Bibbia che, definendo la materia come prodotto

del volere divino, non può che considerarla positivamente. Nello sforzo di spiegare ogni realtà

naturale con la sola ragione, Guglielmo, come Teodorico, riconduce ogni evento fisico ai quattro

elementi primi (terra, acqua, aria e fuoco). Questi elementi sono a loro volta composti da particelle

ancora più piccole, che Guglielmo chiama elementatum: sono i costituenti primi di ogni corpo,

semplici per la qualità e minimi per la quantità. Terra, acqua, aria e fuoco hanno qualità che li

portano a disporsi secondo un ordine. Le leggi che governano gli elementi e in particolare il

principio per cui il simile agisce sul simile, norma fondamentale della natura, permettono di

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spiegare ogni cosa senza far riferimento all'intervento di Dio. Dalla lettura di Platone, Guglielmo

elabora anche la dottrina dell'integumentum. Con il termine integumentum, in latino "rivestimento"

o "maschera", si intende la pratica di nascondere e la conseguente necessità per colui che legge di

disvelare un messaggio o dottrina dietro a un racconto che ha in apparenza altro significato.

L'integumentum, quindi, è la narrazione allegorica o mitica di una verità filosofica. La pratica di

lettura allegorica dei testi e in particolare della Scrittura era presente in molti autori della scuola di

Chartres e la si ritrova utilizzata in modo sistematico da Guglielmo.

Il ricorso all'integumentum è considerato da Guglielmo necessario in due occasioni:

1. per nascondere una verità complessa o difficile da spiegare in un racconto mitico, come accadeva

già in Platone;

2. per spiegare un passaggio, scritturale o di un autore antico, il cui senso letterale è in

contraddizione con un dogma o con una verità precedentemente scoperta.

Giovanni di Salisbury è tra gli ultimi autori di Chartres: si ispira all'ideale scettico e sostiene

la subordinazione del potere politico all'autorità della Chiesa

Giovanni di Salisbury (1115 ca.-1175 ca.) rappresenta uno degli ultimi autori legati alla scuola di

Chartres; altri pensatori che pure si sono formati in quest'ambiente, come Alano di Lilla e Nicola

d'Amiens, svilupperanno poi una filosofia che non può essere direttamente riportata ai caratteri

della scuola. Nato in Inghilterra attorno al 1115, Giovanni si formò a Parigi e a Chartres. Rientrato

in patria, fu segretario di Thomas Becket; poi tornò in Francia dove fu vescovo di Chartres.

Giovanni ricostruisce nel suo Metalogicon (1175) la storia e le dottrine dei maestri di Chartres che

ricorda con entusiasmo: dobbiamo proprio a lui, ad esempio, molte notizie su Bernardo di Chartres.

Giovanni segue la dottrina filosofica fatta propria da Cicerone e dagli appartenenti all'Accademia

platonica nel suo cosiddetto periodo medio, cioè le dottrine che sostenevano l'impossibilità di

ottenere una conoscenza certa del reale e che limitano la conoscenza umana a opinioni probabili.

La difficoltà umana di conoscere una verità stabile su molte questioni estremamente complicate

consiglia all'uomo di limitarsi al sapere sicuro che la percezione sensibile e la fede religiosa

permettono di attingere. Al di là di questo sapere l'uomo non deve assumere una posizione

dottrinale definitiva. Questa sospensione del giudizio è il prodotto di una lunga ricerca e, quindi,

non porta a una rinuncia della conoscenza bensì si fonda su un'ampia indagine di tutte le posizioni

possibili. Proprio la capacità di confrontare varie teorie e di scoprire per tutte il loro carattere

puramente probabile porta all'astenersi dall'asserire la verità di una e la falsità delle altre. In qualità

di uomo politico e vescovo, Giovanni dedica anche alla politica un'attenzione assente negli altri

pensatori di Chartres.

Nel suo Policraticus sostiene che il potere politico deve essere esercitato in conformità della legge

divina della quale la Chiesa è interprete. Se l'uomo politico non rispetta tale norma etica e agisce

come un tiranno perde la sua condizione e può essere messo a morte. Il potere politico, quindi,

dipende da quello religioso e non detiene un'autorità autonoma.

ALANO DI LILLA: L'EREDITÀ DELLA SCUOLA DI CHARTRES La tradizione della scuola di Chartres ha lasciato tracce significative in diversi autori del XII secolo

che, pur distinguendosi per una loro propria originalità, sviluppano temi analoghi ed esprimono

radici comuni. La voce principale di queste nuove esperienze ispirate al platonismo di Chartres è

certamente quella di Alano di Lilla (1117 ca.-1203 ca.), che è fortemente influenzato dal pensiero di

Gilberto Porretano. La dottrina di Alano di Lilla può essere ricostruita secondo queste linee

fondamentali. La lotta all'eresia - Alano dedicò grande attenzione alla lotta contro le forme di eresia,

tra le quali poneva anche ebraismo e islamismo. Le forme di dottrina cristiana non ortodossa, in

particolare i valdesi e gli albigesi, vengono attaccate da Alano mediante argomenti razionali, in

quanto solo con la ragione, che è elemento comune tra il cristiano e coloro che negano la vera fede,

è possibile combatterle. Il metodo assiomatico in teologia - La ricerca di un'esposizione razionale e

intelligibile, anche per i non credenti, della verità cristiana, che ne dimostri l'intima coerenza e

correttezza, conduce Alano di Lilla a sviluppare un metodo teologico improntato al massimo rigore.

Tale teologia consiste nell'applicare all'indagine su Dio e sulla verità il metodo proprio della

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geometria che procede da assiomi e definizioni, deducendone razionalmente, come loro

conseguenze, i teoremi. Nell'impiegare questa metodologia Alano è influenzato da Boezio, il cui De

hebdomadibus aveva la stessa impostazione, e dal Liber de causis, consistente in una parte della

Elementatio theologica di Proclo (412-485), che circolò a lungo nel Medioevo sotto il nome di

Aristotele, che può essere considerata uno dei modelli tardo-antichi per questa modalità di ricerca

speculativa. Nelle Regulae o Maximae de sacra theologia Alano di Lilla, quindi, procede dando

alcuni assiomi teologici per dedurre da essi tutte le verità possibili: la prima di tali asserzioni è

quella che individua nella monade, ovvero nell'Uno come principio di identità, la causa per cui ogni

cosa esiste come unità. In questo modo Alano pone l'Uno come origine di ogni cosa e l'unità come

radice dell'essere di ogni creatura. Questa Monade-Dio sarà allora anche semplice e, quindi, priva di

materia (sempre legata alla molteplicità). L'insufficienza del linguaggio umano in teologia - Le

parole umane sono state create per significare le cose concrete le quali sono sempre unione di

materia e forma e infatti indicano la sostanza e la qualità. Dio invece è unità assoluta, senza materia,

pura forma che causa ogni realtà (detta per questo da Alano formalissima) e non potrà essere

descritto adeguatamente dal linguaggio umano; questo linguaggio avrà allora solo un valore

metaforico, e sarà più efficace nella negazione, secondo la tradizione della teologia negativa

neoplatonica. La visione della realtà naturale - Nel De planctu naturae Alano descrive in termini

allegorici la natura in lacrime per il comportamento dell'uomo che nel suo agire non rispetta lo

stesso ordine naturale. Alano, quindi, presenta la natura come causa dell'essere delle cose e

principio di ordine, bellezza, armonia per le realtà stesse. Si tratta di una visione che collega la

natura a Dio e all'ordine universale, concependola non quale realtà autonoma ma come riflesso-

concretizzazione della legge, anche morale, del Creatore. La struttura assiomatica e la medesima

concezione di Dio, pensato in termini platonici come Uno o Monade, sono presenti anche nel Liber

XXIV philosophorum, un'opera probabilmente composta a metà del XII secolo in cui si narra di

ventiquattro "maestri" che si pongono la domanda: "Che cos'è Dio?". Seguono le diverse risposte, la

più importante delle quali è quella contenuta nella II definizione: "Dio è una monade il cui centro è

ovunque e la sua circonferenza in nessun luogo". Questa definizione di Dio, che lo stesso Alano di

Lilla riprende nelle sue Maximae de sacra theologia, ripropone l'idea di Dio come Unità-Semplicità

assoluta, proprie del concetto di "monade", e come causa dell'universo. Dio produce il Tutto come

Monade semplicissima e senza perdere la propria natura; per questa ragione, quale causa ineffabile

e inestesa è ovunque, ma nessuna creatura lo può comprendere o rappresentare.

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5 Abelardo, tra dialettica e teologia La vita di Abelardo è ricca di eventi, spesso alquanto avventurosi, e ha contribuito ad

accrescere nei secoli la sua fama

Pietro Abelardo si presenta come il filosofo più originale e rappresentativo del XII secolo. La sua

speculazione, muovendo dal piano metodologico e logico, si estende alla teologia e all'etica. Fu

inoltre un protagonista di primo piano della disputa sugli universali, come vedremo nel paragrafo

successivo. È lo stesso Abelardo a narrare molte circostanze della sua biografia in una lettera,

conosciuta con il titolo Historia calamitatum mearum (Storia delle mie disgrazie). Abelardo nasce a

Le Pallet in Bretagna nel 1079. Figlio di un nobile francese, Berengario, ricevette da subito una

buona educazione che stimolò in lui il desiderio di conoscere e sapere. La sua formazione si compì

sotto la guida prima di Roscellino, maestro di logica, e poi di Guglielmo di Champeaux nella scuola

cattedrale di Notre-Dame, che quest'ultimo dirigeva a Parigi. Abelardo diede prova del suo

temperamento e della sua capacità teoretica, attaccando duramente entrambi i suoi maestri e

dimostrando l'insostenibilità delle loro posizioni. La sua vita sarà poi caratterizzata da continui

spostamenti e costanti conflitti. Dopo aver studiato teologia con Anselmo di Laon, a partire dal

1113-1114 diviene maestro nella scuola cattedrale di Notre-Dame e il suo insegnamento riscuote un

grandissimo successo. In questo periodo incontra e si innamora di Eloisa, ma lo scandalo che segue

all'opposizione della famiglia della ragazza lo costringe a ritirarsi nel monastero di Saint- Denis.

Nel corso degli anni continua a spostarsi tra diversi centri monastici, assumendo anche la carica di

abate: fonda la scuola del Paracleto a Troyes e nel 1108 la scuola di Sainte- Geneviève a Parigi,

prima di diventare maestro a Notre-Dame. Pressoché ovunque entra in conflitto con le autorità e le

comunità locali, ma continua anche a riscuotere grande successo come docente. Abelardo muore nel

monastero di Saint- Marcel-sur-Saône nel 1142.

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Una coppia mentre gioca a scacchi; valva in avorio di scatola per specchio, di

manifattura francese, del XIV secolo.

Nella lettura dei testi sacri, Abelardo introduce il metodo della quaestio che prefigura la

disputatio della Scolastica

Abelardo compose trattati destinati a suscitare un forte dibattito e a esercitare una significativa

influenza nei secoli successivi. In ambito teologico va ricordato, in particolare, il Sic et non (1121

ca.), una raccolta di affermazioni, tratte prevalentemente dalle Scritture e dai Padri della Chiesa

intorno a uno stesso problema. Ad esempio, rispetto all'interrogativo "È giusto che la fede sia

rafforzata dalla ragione?", le risposte risultano tra loro contraddittorie: da qui nasce la necessità di

confrontare e valutare, come appunto esprime il titolo dell'opera, i sì e i no. Sic et non, dunque,

promuove nei confronti della fede un atteggiamento fondato sul confronto e sull'argomentazione di

posizioni contrarie. Per questa ragione Abelardo è stato visto come il pensatore che inaugura il

periodo della libera e autonoma analisi intorno a ogni questione, contro qualsiasi dogmatismo, a

partire dall'acquisita consapevolezza che la stessa rivelazione non è sufficiente a comprendere le

questioni teologiche. In modo analogo, ad Abelardo è stato attribuito il ruolo di primo critico

dell'impianto ideologico medievale, fondato sull'equilibrio tra fede e razionalità. Il Sic et non si

propone soprattutto di insegnare a leggere in modo adeguato i testi e a comprenderne il vero

significato. Con questo obiettivo pone come introduzione metodologica alla raccolta un prologo

dove illustra tutte le ragioni che possono produrre divergenze puramente apparenti: si tratta di errori

di copiatura del testo, estrapolazioni dell'affermazione dal contesto, intenti ironici dell'autore o la

volontà di completezza storiografica per cui si riportano opinioni scorrette o eretiche al fine di

fornire un quadro esaustivo della questione discussa. Secondo Abelardo, dunque, di un testo si deve

innanzitutto valutare l'autenticità; poi è necessario esaminarne le strutture grammaticali per

comprendere il significato e il valore dei termini, per identificare gli usi figurati del linguaggio.

Infine è necessario riconoscere i passi e gli autori più autorevoli: infatti, se la contraddizione non

viene risolta mediante il ricorso alle tecniche ermeneutiche, allora il lettore dovrà preferire l'autorità

più affidabile e importante. Sulla base di queste indicazioni, il Sic et non può essere considerato

come uno dei primi esempi di applicazione alla teologia di un metodo nuovo, nel quale la ragione e

il confronto delle opinioni hanno un ruolo centrale. Ciò comunque non significa negare il primato

del messaggio rivelato, anzi il metodo è volto alla sua difesa e alla sua più autentica comprensione.

Al Sic et non, dunque, si può far risalire il metodo della quaestio, appunto del "domandare":

"Attraverso il dubbio, infatti, iniziamo a cercare e cercando troviamo la verità", scrive Abelardo.

Questo metodo, volto a dare un sostegno razionale alla conoscenza della verità segnerà il progresso

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dell'indagine teologica nel XII secolo e di fatto prefigura la forma tipica della ricerca filosofico-

teologica della Scolastica: la disputatio (vedi p. 350).

Miniatura che ritrae Abelardo con Eloisa tratta da Roman de la Rose di Jean de Meung, 1370

ca. Chantilly, Museo Condé.

ABELARDO ED ELOISA: LETTERE D'AMORE

Pur essendo uno dei più grandi logici di tutti i tempi, ad Abelardo è toccata la sorte singolare di

essere noto presso il grande pubblico più per la sua sfortunata vicenda amorosa che per il suo

pensiero. Insieme a Eloisa, infatti, è entrato nel novero dei più famosi protagonisti di tragedie

d'amore, come Tristano e Isotta o Paolo e Francesca. Questa notorietà è stata determinata dalle

lettere che Eloisa e Abelardo si sono scambiati, un carteggio che è divenuto una delle opere più note

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e lette del mondo medievale, da Petrarca fino a Stendhal e ai giorni nostri. Che cosa c'è all'origine

del successo di questo epistolario? Forse l'estrema sincerità degli amanti: Abelardo, per esempio,

confessa con candore la sua inesperienza sessuale prima dell'incontro con Eloisa e non nasconde il

fatto che entrambi furono travolti dalla passione. Probabilmente, però, l'elemento che più colpisce è

la statura straordinaria di Eloisa, non tanto per l'intelligenza quanto per la spregiudicatezza,

stupefacente in una donna medievale, che ne fa un'eroina molto moderna. Eloisa, in effetti, era un

enfant prodige. Quando Abelardo la conosce nel 1117 aveva circa sedici anni ed era già famosa per

la sua erudizione: conosceva il latino classico, il greco - ignoto ad Abelardo stesso - e possedeva

perfino qualche nozione di ebraico. Abelardo d'altronde era all'apice del suo successo, avendo

ottenuto da poco (1114) la cattedra di Notre-Dame. In quel periodo alloggiava proprio presso il

canonico di Notre- Dame, Fulberto, lo zio di Eloisa, a cui non parve vero di avere la possibilità di

affidare l'istruzione della nipote al filosofo del momento. Ed Eloisa oltre che intelligente era

bellissima. Scrive infatti Abelardo: «Trovando in lei tutte le qualità che sogliono attrarre gli amanti,

pensai di iniziare con lei un'interessante relazione, ed ero sicuro che nulla mi sarebbe stato più

facile: avevo allora una tale fama e un tale fascino, anche in considerazione della mia giovane età,

che a qualsiasi donna mi fossi degnato di offrire il mio amore, non avevo timore di ricevere alcun

rifiuto». Ed evidentemente non esagerava giacché Eloisa scrive a proposito di quei tempi: «Tutti

facevano a gara per vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti seguivano con gli occhi

voltando indietro il capo quando ti incrociavano per la via. [...] Eri giovane, bello, intelligente. [...]

Quale regina, quale donna potente non avrebbe invidiato le mie gioie e il mio letto?». I due, dunque,

in breve divennero amanti e, quando furono scoperti da Fulberto, scapparono a Le Pallet, il paese di

Abelardo. In questa piccola cittadina Eloisa diede alla luce un bimbo cui fu imposto il nome di

Astrolabio. Ora che aveva anche un figlio, Abelardo si convinse della necessità di trovare una

soluzione. Si recò allora da Fulberto per implorarne il perdono, dichiarandosi disposto a sposare

Eloisa a patto che «ciò avvenisse in segreto, affinché non nuocesse alla mia reputazione». Gli

uomini si misero d'accordo ma inaspettatamente la reazione più dura venne da Eloisa. Abelardo

restò sbigottito di fronte alle parole della donna: «Che cosa spinge te, che sei chierico e canonico, a

preferire turpi piaceri al tuo sacro ministero?». Il filosofo riferisce le idee di Eloisa ma si vede

chiaramente che non ne comprende il senso. Gli sfugge l'assoluta purezza e gratuità dell'amore di

Eloisa che scopre così di essere amata in modo molto diverso da come amava. Molti anni più tardi

lo rimprovererà esplicitamente ad Abelardo: «In te ho cercato e amato solo te, Dio mi è testimone;

ho desiderato te, non i tuoi beni o le tue ricchezze. Non miravo a farmi sposare né a farmi

mantenere; non volevo soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e il tuo piacere, lo sai bene.

E anche se il nome di sposa può parere più sacro e più valido, io preferivo essere per te un'amica,

una compagna, perfino una concubina, se non ti offendi, o una sgualdrina. Mi sarei annullata di

fronte a te, paga soltanto del tuo amore, e sarei vissuta all'ombra della tua grandezza». In ogni caso

Eloisa si dovette rassegnare e una mattina, in gran segreto, i due si sposarono in una chiesa parigina,

alla presenza di Fulberto e di alcuni amici. Lo zio di Eloisa, però, non tenne fede ai patti e diffuse la

notizia del matrimonio: l'affronto era stato pubblico e tale doveva essere anche la riparazione! Per

arginare lo scandalo Abelardo portò Eloisa nel convento di Argenteuil ma Fulberto pensò che

volesse ripudiarla, tradendo l'accordo convenuto. Per questo ingaggiò alcuni sicari che evirarono il

filosofo. Alcuni anni più tardi, quando il Concilio di Soisson giudicò eretica una sua opera,

Abelardo annotò tristemente: «Ero dunque interamente divorato dalla superbia e dalla lussuria, ma

la grazia divina, benché contro la mia volontà, seppe guarirmi da entrambe le malattie: dalla

lussuria privandomi dei mezzi con cui la esercitavo e dalla superbia, che mi veniva soprattutto dalla

mia cultura e dalla mia scienza, obbligandomi a bruciare con le mie stesse mani un mio libro».

Dopo l'aggressione, Abelardo ed Eloisa scelsero di prendere i voti. Torneranno insieme solo nella

tomba: quando morì, infatti, il filosofo fu sepolto nel monastero di cui Eloisa era badessa, nella

tomba in cui lei stessa vorrà essere accolta ventidue anni dopo (1164). Durante la rivoluzione

francese il convento sarà distrutto, ma i resti dei due amanti saranno trasferiti nel cimitero parigino

del Père-Lachaise, dove tuttora riposano.

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Monumento funebre a Eloisa e Abelardo al cimitero parigino del Père-Lachaise.

La dottrina teologica di Abelardo affronta in particolare il problema della Trinità e riconosce

il ruolo fondamentale della dialettica

La Theologia Summi Boni, la Theologia christiana e la Theologia scholarium sono considerate

rielaborazioni di un unico progetto che Abelardo comincia a sviluppare con la Theologia Summi

Boni. Al centro della sua riflessione vi è, come primo e fondamentale elemento dogmatico da

approfondire, il mistero trinitario. In primo luogo, Abelardo afferma che si può sostenere solo

quello che si comprende e che non si può credere nulla senza averlo compreso: questo principio è

ben sintetizzato nell'espressione agostiniana intelligo ut credam, capisco per credere. Ciò

ovviamente non significa che la filosofia possa spiegare tutto:

Non ci impegniamo a insegnare le verità, che evidentemente non possiamo conoscere né noi né

alcun altro mortale, ma ci sembra giusto proporre qualcosa di verosimile, vicino all'umana ragione e

non contrario alla Sacra Scrittura. (Teologia del sommo Bene)

Come si vede, Abelardo non propone di sottomettere la fede alla ragione: vuole invece affermare

che le formule teologiche devono avere un significato minimo comprensibile e non devono essere

contraddittorie. In un altro passo, inoltre, enuncia in modo chiaro il ruolo della ragione che

sostanzialmente identifica con la dialettica, cioè la capacità di argomentare:

Ma poiché gli argomenti scorretti non possono essere respinti per mezzo dell'autorità dei santi e dei

filosofi, se non si contrastano con umane ragioni coloro che si basano su argomentazioni razionali,

abbiamo deciso di rispondere agli stolti attraverso i mezzi della loro follia e di abbatterne le

obiezioni con le stesse arti che essi utilizzano contro di noi. [...] Noi quindi, rivolgiamo contro di

loro la medesima spada della dialettica di cui essi si servono. (Teologia del sommo Bene)

La ragione in quanto dialettica, dunque, deve consentirci di respingere gli argomenti degli eretici.

Infine, nello sforzo di definire un livello minimo di coerenza razionale delle verità teologiche, è

ovvio che il mistero della Trinità rappresenta un banco di prova estremamente impegnativo.

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Abelardo distingue nella Trinità, la cui sostanza è realmente unica, tre nomi e tre cause: la Potenza,

la Sapienza e la Bontà. La sostanza divina è trina perché caratterizzata da questi tre attributi. Dietro

la spinta delle critiche e delle condanne teologiche, tuttavia, Abelardo ribadirà che ciascun attributo

è proprio di una delle persone trinitarie (Padre, Figlio e Spirito Santo).

Il contributo di Abelardo all'etica consiste nell'avere attribuito valore all'intenzione interiore

più che all'azione esteriore

In ambito etico Abelardo è autore di una Ethica sive Scite te ipsum (Etica o Conosci te stesso), che

riprende nel titolo la formula dell'oracolo di Delfi rivolta a Socrate. In quest'opera Abelardo riflette

sulla causa del peccato e sostiene il primato dell'intenzione rispetto all'azione come elemento per

decidere sulla natura peccaminosa o virtuosa della condotta umana: solo l'intenzione (intentio), che

ispira l'azione e alla quale l'individuo dà il proprio assenso agendo, è responsabile del valore etico

dell'azione stessa. In questo modo, per Abelardo, se si fa il bene senza averne l'intenzione, l'azione

compiuta non può essere considerata realmente virtuosa. Dunque la novità di Abelardo consiste nel

contrastare la morale "esteriore" che classifica una serie di comportamenti come peccati

prescindendo dalla volontà interiore e dall'intenzione di chi li compie. Pensare di uccidere un uomo

è moralmente peccaminoso, al contrario ucciderlo involontariamente, senza averne l'intenzione, è

da considerare un'azione certamente punibile per la legge umana ma non è un peccato. C'è dunque

una distinzione fra il "reato", cioè un comportamento illegittimo, e il "peccato", un comportamento

eticamente scorretto. Solo Dio può giudicare l'agire buono o cattivo perché Lui solo è in grado di

conoscere le autentiche intenzioni, invisibili agli occhi degli uomini. Ma che cosa determina il

comportamento umano? Anche in questo caso Abelardo propone una distinzione fra "vizio"

dell'anima e "peccato" vero e proprio. Definisce il vizio «un'inclinazione naturale al peccato», cioè

un istinto all'agire in contrasto con il volere divino, a non fare ciò che invece si dovrebbe fare: ciò

per Abelardo significa disprezzare Dio. Il peccato invece consiste nell'agire male intenzionalmente,

è l'assenso della volontà al vizio come desiderio di agire scorrettamente, contro il volere di Dio e in

disprezzo della legge divina. L'agire etico si configura pertanto come una conquista, come vittoria

contro il vizio insito nella natura dell'uomo. Ne consegue che il peccato o la virtù non risiedono

nell'azione (operatio) e ancora meno nel suo risultato (opus). Un'azione è peccaminosa o virtuosa a

seconda dell'intenzione dell'anima. Il caso estremo che Abelardo prende in considerazione è quello

di Giuda: tradendo Cristo, ha contribuito all'opera redentrice e, quindi, l'opus (il prodotto) della sua

operatio (della sua azione) è un bene (bonum), ma poiché l'ha fatto con un'intenzione negativa

Giuda ha agito in modo malvagio.

L'etica dell'intenzione proposta da Abelardo non va intesa come soggettivismo: la legge di Dio

indica ciò che è oggettivamente buono

Abelardo rivendica per l'uomo la responsabilità etica, senza tuttavia cedere a un soggettivismo

etico, rifiutato in nome della "legge divina", a cui gli uomini si devono conformare. L'intenzione è

buona soltanto se ciò che si decide di fare è buono non solo per colui che lo fa, ma è oggettivamente

buono ed è un bene autentico, rispettoso dei comandamenti divini. Le fondamenta di questa

complessa etica, dove intenzione e libera ricerca razionale hanno grande importanza, si ritrovano

anche nel Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano. Qui la fede cristiana è vista come una

verità dimostrabile, dove l'autorità si integra con la ricerca razionale, a differenza del rigido

legalismo giudaico. Per questo il cristiano e il filosofo possono discutere di cosa sia il sommo bene

in modo aperto. Ma il Dialogo tra un filosofo, un ebreo e un cristiano è ricordato soprattutto per un

altro motivo: perché è l'unica opera del Medioevo, di un autore cristiano, che mostra comprensione

per le pene del popolo ebraico. Abelardo, infatti, mette in bocca all'ebreo frasi come quella che

segue: Non si sa di nessun altro popolo che abbia sopportato tante prove in nome di Dio quante noi

ne sopportiamo continuamente per Lui; si deve ammettere che la fornace del nostro patire ha

consumato senz'altro ogni ruggine di peccato. È implicita in queste parole la condanna delle

persecuzioni che colpivano gli ebrei. D'altro canto, coerentemente con le sue posizioni etiche,

Abelardo non può proprio accettare l'idea che tutti gli ebrei siano considerati i responsabili volontari

della morte di Cristo.

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FILOSOFI a CONFRONTO

Credo ut intelligam o intelligo ut credam? Il problema del ruolo da attribuire all'indagine razionale nelle questioni di fede assume nel corso del

Medioevo un'importanza particolare. Le varie formulazioni del rapporto tra fede e ragione derivano

innanzitutto dai presupposti metodologici di ogni autore e implicano una diversa interpretazione

dell'etica e delle questioni teologiche.

AGOSTINO ANSELMO ABELARDO

Metodo

Forza e fondamento delle

argomentazioni teologich

e derivano dall'autorità

della fede, ma

bisogna raggiungere

l'intelligenza della fede

attraverso la

critica testuale, la

comprensione dei segni,

le regole ermeneutiche

e la teologia biblica.

Nelle dispute teologiche è

legittimo utilizzare la

dialettica; per mostrare la

verità è

meglio argomentare con

la ragione piuttosto che

basarsi

sull'autorità. L'indagine

razionale assume valore

oggettivo entrando

in relazione con le verità

di fede.

Libera e autonoma analisi

intorno a ogni questione.

La veridicità di un testo

deriva

dall'analisi dell'autenticit

à, delle

strutture grammaticali e

dell'autorità

più affidabile.

Rapporto

fede/ragion

e

Credo ut intelligam,

intelligo ut credam - fede

e ragione sono tra loro

complementari perché la

verità è una sola. La

ragione non sempre

conduce alla

verità, dunque non può

prescindere dalla fede;

quest'ultima d'altronde ha

bisogno della ragione

per divenire salda e

chiara.

Credo ut intelligam -

conferma nella sostanza

l'impostazione agostiniana

: solo la fede permette la

conoscenza del vero, ma

per comprenderne i

contenuti è necessaria

l'indagine razionale per

cui "la fede

cerca l'intelligenza" (fides

quaerens intellectum).

Intelligo ut credam - la

fede non deve essere

sottomessa alla ragione,

ma d'altronde si

può credere solo in ciò

che si comprende: le

formule

teologiche, quindi,

devono essere

comprensibili e non

contraddittorie.

Teologia

Nella Trinità Padre,

Figlio e Spirito Santo

sono nomi che

indicano la relazione tra

Essere, Verità e Amore:

attributi fondamentali di

Dio che si

ritrovano anche

nell'uomo.

La verità fondamentale

per la religione è

l'esistenza di

Dio, conoscibile

dall'uomo grazie alla

prova a posteriori e a

quella ontologica.

La sostanza della Trinità

è unica ma possiede tre

nomi e tre cause o

attributi: Potenza (il

Padre), Sapienza (il

Figlio) e Bontà

(lo Spirito Santo).

Etica

La vera libertà è quella di

poter non peccare

posseduta prima del

peccato originale. Dopo

vi è solo il libero arbitrio

La libertà è possibilità di

fare il bene e nasce da una

volontà volta alla

rettitudine. La libertà di

Il valore etico di

un'azione è dato

dall'intenzione che la

ispira. La legge di Dio

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e l'uomo non può non

peccare. Il male morale

dipende dall'uomo

che utilizza in modo

errato la libertà donata da

Dio.

scegliere il peccato non

è vera libertà.

definisce il bene davanti

al quale l'uomo ha una

propria responsabilità

etica.