Le organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionale

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TEORIE PERSONE&CONOSCENZE N.59 55 Le organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionale di Dario Simoncini e Marinella De Simone Prevedibilità, efficienza,routine, affidabilità: tutti questi concetti fanno parte del medesimo paradigma di pensiero. Nell’organizzazione tradizionale le persone che vi operano sono spesso considerate elementi di un ingranaggio che le trascende e che le confina alla funzione svolta. L’esecuzione dei compiti affidati si trasforma in una serie di comportamenti abitudinari e attesi, la cui responsabilità spetta a chi ha elaborato lo schema organizzativo di divisione, coordinamento e controllo del lavoro. Il considerare le organizzazioni come macchine è soprattutto un modello di pensiero, da cui è molto difficile staccarsi; il credere in un’organizzazione semplice e prevedibile all’interno di un ambiente semplice e prevedibile e i cui risultati devono essere i migliori possibili, è un’illusione a cui è molto difficile rinunciare. La tentazione più immediata, a cui ancora oggi si ricorre pur in presenza di un ambiente sempre più complesso interrelato, è quella di procedere a una semplificazione della realtà: esaminarne, cioè, solo alcuni aspetti, quelli che è possibile separare e porre sotto controllo, sperando che ciò possa aiutare a ottenere dei risultati ottimali. L’approccio meccanicista alle relazioni organizzative comporta anche un’assenza di responsabilità da parte delle persone che vi partecipano: è l’organizzazione che detta le regole del suo funzionamento; come si può chiedere a queste persone di dare il meglio di sé, attingendo alle proprie potenzialità e alla propria intelligenza? Come si può chiedere a tali organizzazioni di divenire luoghi che consentano il benessere di chi vi lavora? Infine, come si può chiedere alle organizzazioni di essere pronte a cambiare rispetto a un contesto che risulta essere in continuo mutamento in modo, oltretutto, imprevedibile? È evidente che un simile approccio non può che alimentare ulteriori problemi, poiché non è pronto a cambiare i propri modelli di pensiero e la propria visione del mondo, rimanendo miope di fronte a un contesto ambientale che sta comunque cambiando, non riuscendo nemmeno più a comprenderlo. È possibile assumere un nuovo punto di vista? Questo è stato l’obiettivo della nostra ricerca: fare un primo passo nel modificare le conoscenze, le convinzioni, le emozioni e i comportamenti all’interno delle organizzazioni. Attraverso il ricorso ad alcuni fra i più importanti e potenti concetti esplicativi della scienza della complessità –quali l’emergenza e l’auto-organizzazione– abbiamo verificato quali fossero, a nostro avviso, le possibilità di governo delle organizzazioni che consentissero di superare l’idea classica del controllo gerarchico a favore di quella del presidio alla novità e della propagazione di comportamenti virtuosi. L’utilizzo di questi principi potrebbe divenire un fattore di innesco per una felicità relazionale, in cui le persone si rendono partecipi nel far emergere e nel propagare il clima di benessere nell’organizzazione. Il paradigma relazionale È risultato evidente che l’adozione di un diverso paradigma –che abbiamo chiamato paradigma relazionale, per sottolinearne la diversità di presupposti fondanti rispetto al paradigma classico, denominato frequentemente riduzionista o meccanicista, e i cui Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle possibilità di scelta. Se vuoi vedere, impara prima ad agire. Heinz von Förster Dario Simoncini è docente di Progettazione Organizzativa presso la Facoltà di Scienze Manageriali dell’Università di Pescara, Formatore AIF, Esperto in Complexity and Knowledge Management, Consulente Aziendale per la Progettazione e la Generazione dell’Innovazione. Socio fondatore dell’Accademia della Complessità. Marinella De Simone è fondatrice e Direttore Scientifico della Scuola di Educazione all’Etica della Complessità (SEECO), Formatrice e Consigliere AIF Liguria, Esperta in Analisi dei Sistemi Complessi e delle Reti, Consulente per lo Sviluppo dei Processi di Apprendimento Organizzativo. Socio fondatore dell’Accademia della Complessità.

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Articolo pubblicato su "Persone & Conoscenze", 2010 Prevedibilità, efficienza,routine, affidabilità: tutti questi concetti fanno parte del medesimo paradigma di pensiero. Nell’organizzazione tradizionale le persone che vi operano sono spesso considerate elementi di un ingranaggio che le trascende e che le confina alla funzione svolta. L’esecuzione dei compiti affidati si trasforma in una serie di comportamenti abitudinari e attesi, la cui responsabilità spetta a chi ha elaborato lo schema organizzativo di divisione, coordinamento e controllo del lavoro. Il considerare le organizzazioni come macchine è soprattutto un modello di pensiero, da cui è molto difficile staccarsi; il credere in un’organizzazione semplice e prevedibile all’interno di un ambiente semplice e prevedibile e i cui risultati devono essere i migliori possibili, è un’illusione a cui è molto difficile rinunciare.

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teorie

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Le organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionale di Dario Simoncini e Marinella De Simone

Prevedibilità, efficienza,routine, affidabilità: tutti questi concetti fanno parte del medesimo paradigma di pensiero. Nell’organizzazione tradizionale le persone che vi operano sono spesso considerate elementi di un ingranaggio che le trascende e che le confina alla funzione svolta. L’esecuzione dei compiti affidati si trasforma in una serie di comportamenti abitudinari e attesi, la cui responsabilità spetta a chi ha elaborato lo schema organizzativo di divisione, coordinamento e controllo del lavoro. Il considerare le organizzazioni come macchine è soprattutto un modello di pensiero, da cui è molto difficile staccarsi; il credere in un’organizzazione semplice e prevedibile all’interno di un ambiente semplice e prevedibile e i cui risultati devono essere i migliori possibili, è un’illusione a cui è molto difficile rinunciare. La tentazione più immediata, a cui ancora oggi si ricorre pur in presenza di un ambiente sempre più complesso interrelato, è quella di procedere a una semplificazione della realtà: esaminarne, cioè, solo alcuni aspetti, quelli che è possibile separare e porre sotto controllo, sperando che ciò possa aiutare a ottenere dei risultati ottimali.

L’approccio meccanicista alle relazioni organizzative comporta anche un’assenza di responsabilità da parte delle persone che vi partecipano: è l’organizzazione che detta le regole del suo funzionamento; come si può chiedere a queste persone di dare il meglio di sé, attingendo alle proprie potenzialità e alla propria intelligenza? Come si può chiedere a tali organizzazioni di divenire luoghi che consentano il benessere di chi vi lavora? Infine, come si può chiedere alle organizzazioni di essere pronte a cambiare rispetto a un contesto che risulta essere in continuo mutamento in modo, oltretutto, imprevedibile?È evidente che un simile approccio non può che alimentare ulteriori problemi, poiché non è pronto a cambiare i propri modelli di pensiero e la propria visione del mondo, rimanendo miope di fronte a un contesto ambientale che sta comunque cambiando, non riuscendo nemmeno più a comprenderlo.È possibile assumere un nuovo punto di vista? Questo è stato l’obiettivo della nostra ricerca: fare un primo passo nel modificare le conoscenze, le convinzioni, le emozioni e i comportamenti all’interno delle organizzazioni. Attraverso il ricorso ad alcuni fra i più importanti e potenti concetti esplicativi della scienza della complessità –quali l’emergenza e l’auto-organizzazione– abbiamo verificato quali fossero, a nostro avviso, le possibilità di governo delle organizzazioni che consentissero di superare l’idea classica del controllo gerarchico a favore di quella del presidio alla novità e della propagazione di comportamenti virtuosi. L’utilizzo di questi principi potrebbe divenire un fattore di innesco per una felicità relazionale, in cui le persone si rendono partecipi nel far emergere e nel propagare il clima di benessere nell’organizzazione.

Il paradigma relazionaleÈ risultato evidente che l’adozione di un diverso paradigma –che abbiamo chiamato paradigma relazionale, per sottolinearne la diversità di presupposti fondanti rispetto al paradigma classico, denominato frequentemente riduzionista o meccanicista, e i cui

Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle

possibilità di scelta. Se vuoi vedere, impara prima

ad agire.Heinz von Förster

Dario Simoncini è docente di Progettazione Organizzativa presso la Facoltà di Scienze Manageriali dell’Università di Pescara, Formatore AIF, Esperto in Complexity and Knowledge Management, Consulente Aziendale per la Progettazione e la Generazione dell’Innovazione. Socio fondatore dell’Accademia della Complessità.

Marinella De Simone è fondatrice e Direttore Scientifico della Scuola di Educazione all’Etica della Complessità (SEECO), Formatrice e Consigliere AIF Liguria, Esperta in Analisi dei Sistemi Complessi e delle Reti, Consulente per lo Sviluppo dei Processi di Apprendimento Organizzativo. Socio fondatore dell’Accademia della Complessità.

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presupposti sono di natura separativa e individualista– richiede una riformulazione delle interpretazioni sulla dinamica delle relazioni tra le persone, e con esse una rivisitazione dei principi di emergenza e progettazione degli schemi organizzativi. Se nella teoria dell’impresa rete, la conoscenza viene ritenuta un elemento costitutivo e una leva di management, nel caso della teoria della complessità la rete viene presentata quale sistema naturale di funzionamento e regolazione degli schemi tra le componenti dell’organizzazione e la conoscenza diviene un circuito co-generativo dell’azione di management.Progettare un processo di cambiamento organizzativo radicale per far emergere nella comunità un nuovo paradigma culturale e una nuova identità che abbia quale scopo il benessere relazionale, vuol dire progettare la propagazione di un’intenzione virtuosa all’interno della rete di relazioni che compone la comunità. L’organizzazione di una comunità emerge da un sistema di reti relazionali intersoggettive, il cui funzionamento dipende dal governo di una serie di leggi naturali che le accomuna e dalle intenzioni manifestate dalle persone che le compongono.Molto è stato scritto sulla conoscenza e molte sono le definizioni che ne sono state date; in particolare, è agevole rintracciare negli studi riguardanti le organizzazioni e il knowledge management una descrizione –esplicita o implicita– della conoscenza come un bene avente natura immateriale. Partendo da tale assunto, è facile poi farne discendere tutta una serie di altri presupposti che ne definiscono il campo di azione e di analisi. Trattandosi di un bene, avrà una propria utilità, che può essere soggetta a valutazione e stima; avendo natura immateriale, è separata dalla persona che può averla generata; essendo separata dalla persona, gode di una propria esistenza; godendo di una propria esistenza, essa è avulsa dal contesto ed è pertanto trasferibile. In tal modo le concettualizzazioni si ampliano, generando sovrapposizioni e generalizzazioni che, paradossalmente, tendono ad allontanare sempre più il concetto di conoscenza dall’esperienza del ‘fare’ per avvicinarsi sempre più al principio metafisico del ‘creare’. L’espressione della conoscenza come oggetto, come bene trasferibile, ci è apparsa pertanto molto riduttiva, così come molto riduttivo ci è apparso l’uso del termine anglosassone di knowledge per esprimere una molteplicità di concetti spesso assai diversi tra loro. Il knowledge si manifesta come know how solo quando viene contestualizzato nelle relazioni tra le persone, nelle sue espressioni di contagio dell’ambiente, nella sua

necessità di essere partecipato dalla rete sociale che lo promuove e che lo sostiene.Ci siamo chiesti, allora, se non fosse più appropriato uscire dallo schema interpretativo dominante fondato sulla dimensione prevalentemente statica e reificata della conoscenza, ricorrendo a una diversa concettualizzazione del fenomeno, che ne rendesse ragione anche sotto il profilo della sua dimensione dinamica incominciando, in particolare, a osservare la conoscenza come un processo. Abbiamo così deciso di approfondire la dinamica del

conoscere attraverso lo studio delle modalità con cui la persona apprende nelle sue relazioni: ciò

comporta

il non c o n s i d e r a r e più la conoscenza quale bene esterno alla persona e, quindi, caratterizzato dalla proprietà della trasferibilità, quanto piuttosto il provare a osservare la possibilità soggettiva di agire secondo il sapere presente in ognuno di noi, come esperienza incarnata, come vissuto personale.

‘Sapere’ e ‘conoscere’ non sono sinonimiEd è per noi risultato naturale operare una distinzione tra il ‘sapere’ e il ‘conoscere’, come punti di osservazione differenti di un unico processo: abbiamo considerato il sapere quale possibilità di agire della persona fondata sulla sua esperienza vissuta, incarnata in sé, e spesso inconsapevole per la persona stessa; e abbiamo considerato il conoscere quale processo generativo di nuovi saperi, reso possibile solo attraverso la relazione tra più persone, ognuna portatrice di un proprio vissuto e quindi di un proprio sapere personale.Sapere e conoscenza non li abbiamo perciò considerati

sinonimi: il sapere della persona è una proprietà dell’ ‘io’, del suo corpo e, come tale, ne configura il modo di essere, il modello di comportamento, la competenza dell’agire; la conoscenza è una proprietà generativa del dominio relazionale, quello del ‘noi’. Quando si genera la conoscenza, ancora non si è avviato quel processo di apprendimento

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continuo, fondato sulla ripetizione, sulla rielaborazione, sull’esercizio quotidiano e sulla pratica di comunità, che potrà portare il processo conoscitivo a divenire un sapere incarnato, un sapere capace di manifestarsi quasi istintivamente, con tutto il corpo e in tutta la sua capacità espressiva: a diventare, cioè, una proprietà essenziale del comportamento personale, che possiamo definire come know how della persona.Preferiamo, dunque, parlare di sapere personale tacito o esplicito, piuttosto che di conoscenza, così come preferiamo parlare di contaminazione nel piano dei saperi attraverso la propagazione in rete dei saperi personali, piuttosto che di trasferimento della conoscenza. L’esperienza personale non è qualcosa di definibile agevolmente attraverso il linguaggio, ma è incarnata in noi e si manifesta in ciò che noi siamo: nelle nostre emozioni, in ciò che diciamo e in ciò che facciamo. Il sapere è il nostro knowhow corporeo che impariamo a riconoscere e a osservare con l’aiuto dell’altro, per migliorarlo e affinarlo sempre più, come per qualsiasi altra pratica e abilità. L’apprendimento non è un riempimento di lacune o mancanze personali che è possibile individuare a priori tra stato desiderato e stato attuale; è un processo di collaborazione e coordinamento reciproco, in cui l’aspetto relazionale diviene il fondamento di ogni sapere. I due richiami di von Förster, “Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle possibilità di scelta” e “Se vuoi vedere, impara prima ad agire” –che egli stesso ha definito come ‘imperativo etico’ e ‘imperativo estetico’– hanno rappresentato per noi la traccia del percorso da seguire nello scrivere Il Mago e il Matto. Entrambi, e non è certo un caso, richiamano al principio del fare: l’azione come portatrice di conoscenza –il vedere– e di

possibilità. L’azione, a sua volta, non può non chiamare in campo la persona nella sua interezza; corpo e mente come un unico processo auto-costitutivo: “Vedo se agisco, agisco se vedo”.

Imparare ad agireNon solo: l’azione è qualcosa che si apprende; il richiamo di von Förster è di “imparare prima ad agire”. La domanda che ci siamo posti è stata quindi: come si impara ad agire? L’azione non è forse innata e spontanea? Cosa ha a che vedere tutto questo con il libero arbitrio e la responsabilità personale?L’altro aspetto, l’imperativo etico, arriva diretto alla responsabilità personale: l’azione come strumento di ampliamento delle possibilità di scelta. Il nostro corpo, attraverso l’agire, attraverso i propri comportamenti, può partecipare attivamente ad ampliare il campo delle possibilità, non solo per sé, ma anche per gli altri. Imparando ad agire, si allarga la capacità di visione della persona e si ampliano le possibilità di scelta. Etica ed estetica sono perciò fortemente interrelati: due anelli ricorsivi che si alimentano l’uno dell’altro. Etica ed estetica –e potremmo dire etica e senso della bellezza– divengono un know how corporeo inerente la persona stessa: un saper essere incarnato.L’azione diviene l’esperienza stratificata nella persona, un processo irreversibile che si fonda sulla vita stessa e che riguarda perciò esclusivamente gli esseri viventi. Pertanto, un approccio di studio a cui abbiamo maggiormente attinto e a cui ci sentiamo particolarmente affini –pur non avendo, apparentemente, i nostri studi alcuna attinenza con la biologia– è stato quello intrapreso da Maturana e Varela e definito come teoria dell’autopoiesi, il cui motto

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più conosciuto è proprio: “La conoscenza è vita”, e a cui noi piace aggiungere, come nostro approfondimento: “La vita è azione” e “L’azione è relazione”.L’essere vivente non è considerato più come un soggetto dipendente dal proprio ambiente, in cui può solo imparare ad adattarsi il meglio possibile per assicurarsi la sopravvivenza, ma come un agente co-generatore del proprio ambiente, poiché determina, interagendo con esso, sia la struttura dell’ambiente sia la propria. L’essere vivente è tale perché apprende per co-generare con l’ambiente il mondo dove egli vive, dove egli agisce. L’approccio autopoietico all’apprendimento sottolinea, pertanto, la diversità del sapere tra persona e persona; le persone sono identità diverse, ognuna peculiare alla propria storia esperenziale e alle proprie modificazioni strutturali.

Agire sul proprio ambienteIl nostro modo di percepire il mondo, e quindi tutto ciò che ci circonda, è un modo ‘enattivo’, così come descritto da Varela: la nostra capacità di conoscere è fondata sulla co-generazione tra persona e ambiente; è solo partecipando al proprio ambiente, intervenendo su di esso, agendo su di esso, prendendovi parte attraverso i propri schemi senso-motori, ossia i propri schemi ricorsivi di percezione e azione, che è possibile apprendere. Ognuno di noi genera la propria realtà percepita e ognuno di noi percepisce il mondo in modo diverso a seconda delle proprie esperienze e delle proprie modalità di interpretazione di ciò che gli accade. L’apprendimento che emerge dalla relazione tra soggetto e oggetto è un fenomeno generativo che riguarda sia la persona sia il suo ambiente di riferimento: ecco perché si parla di co-evoluzione e di apprendimento generativo. La conoscenza non appartiene né all’oggetto né al soggetto, poiché è un processo circolare che non consente di distinguere l’oggetto dal soggetto, e viceversa: i due termini della relazione sono soltanto un’illusione –divenendo così necessario ritrovarne un significato solo attraverso astrazioni, forzature e distorsioni– perché l’unica cosa a esistere è il processo, quello che noi chiamiamo processo della conoscenza relazionale. Si tratta di una conoscenza che emerge dalla relazione tra soggetto e oggetto e che non ha, pertanto, alcun tipo di fondamento o di certezza; essa scaturisce dall’agire, o meglio dall’inter-agire, come fenomeno che caratterizza la vita. Le conseguenze etiche di questo approccio sono rilevanti: ogni atto che si compie è una inter-azione, cioè un’azione fondata sulla relazione, attraverso la quale emerge una definizione reciproca sia di sé e del proprio mondo che dell’altro e del suo mondo. La responsabilità personale che ne discende è determinante, poiché non è più possibile, in questa prospettiva, separare il soggetto dalle azioni che compie né ipotizzare di poter dominare l’oggetto come qualcosa di separato da sé. Ogni uomo diviene responsabile di una realtà che si determina per

emergenza dall’agire intersoggettivo. Così, mentre si forma per ciascun soggetto un’esperienza unica, un percorso storico di apprendimento irripetibile, egli è nel contempo diffusore della propria esperienza, dei propri saperi, attraverso il comportamento: ogni persona diviene un esempio vivente attraverso il proprio agire, che comprende non solo l’aspetto dell’azione concreta e i risultati che attraverso questa è possibile ottenere –come gli oggetti, le opere d’arte o qualunque altro manufatto– ma anche gli aspetti del linguaggio e delle emozioni che a esso sono inscindibilmente connesse.

Le persone rendono l’azienda vivaRisulta evidente, pertanto, che non è l’azienda a essere un organismo vivente, ma le persone che ne fanno parte; sono loro che agiscono e apprendono attraverso un proprio sistema cognitivo e che, attraverso le relazioni che pongono in essere, consentono all’organizzazione di emergere. Sono le persone che fanno parte di un’azienda che sono chiamate a mutare le proprie convinzioni e i propri comportamenti, affinché anche l’azienda possa mutare e co-evolvere con l’ambiente. Ciò consente di passare dal considerare gli individui come mezzi o risorse per raggiungere l’obiettivo del profitto al considerare le persone come possibili fonti di conoscenza e come strumenti ‘vivi’ per l’apprendimento di tutta l’organizzazione nel suo insieme. Ne discende che l’organizzazione non apprende in modo diretto e autonomo, perché l’apprendimento è una prerogativa della persona; l’organizzazione è piuttosto una comunità di persone che apprendono. Le regole e le leggi operanti a livello di comunità saranno dunque diverse da quelle operanti a livello della persona: la cultura dell’organizzazione emerge dal sapere delle persone che interagiscono tra di loro; l’apprendimento è una proprietà esclusiva della persona che attraverso le proprie capacità trasforma i significati che essa co-genera con l’ambiente in sapere incarnato. Ecco dunque

che il considerare le organizzazioni come esistenti di per sé, reificandole e separandole dagli elementi che le costituiscono, o, viceversa, considerarle alla

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stregua di esseri viventi dotati di un proprio processo cognitivo, le learning organizations, organizzazioni che apprendono, risulta banalizzare una realtà molto più articolata nella sua complessità. L’organizzazione e la sua cultura sono dei fenomeni emergenti dalla dinamica dell’interazione tra le persone; è la qualità delle relazioni poste in essere, e, quindi, l’intenzione che le persone scelgono per manifestarsi attraverso il proprio agire, che determina la qualità dell’emergenza organizzativa. Solo se le intenzioni sono virtuose –sinceramente aperte alle relazioni con l’altro– è possibile che si generi una conoscenza relazionale. L’organizzazione emerge dalle relazioni tra le persone e tra i loro diversi saperi; occorre un cambio del paradigma interpretativo della dinamica delle relazioni che sposti il focus degli studi organizzativi dal livello della persona al livello della relazione; non più attori per livelli dimensionali, ma agenti per livelli emergenti di identità complesse. Tuttavia, ciò non è ancora sufficiente per affermare che si è determinato un cambio di paradigma culturale rispetto a quello attuale fondato sulla separazione e sul perseguimento di interessi individualistici; per far sì che si determini un cambio di paradigma, da separativo a complesso, da individualista a relazionale, da determinista a circolare, è necessario che muti la disposizione delle intenzioni personali nel comportamento organizzativo, perché è attraverso il circuito intersoggettivo delle intenzioni che emerge l’organizzazione o, meglio ancora, il suo scopo effettivo.

Il Mago e il Matto Il Mago rappresenta ognuno di noi, che attraverso il proprio sapere incarnato, la propria esperienza, riesce a incuriosire, stupire e meravigliare l’altro; rappresenta la vita di ciascuno che si manifesta attraverso un processo continuo di apprendimento personale, fondato sull’incontro con il diverso e sull’abitudine nel trasformare le abilità in competenze incarnate attraverso

l’impegno, l’esercizio e la pratica. Il Matto rappresenta l’esploratore, il

carattere curioso, il coraggio della scoperta e il rischio dell’errore presente in

ognuno di noi. Questa sarà la nostra scoperta: l’altro e la possibilità di

co-generare insieme qualcosa che non appartiene a ciascuno

separatamente. Il Matto agisce per generare un’identità attraverso la relazione, attraverso l’adozione di una logica

di organismi autonomi ma in permanente e universale colleganza.La conoscenza diviene il frutto

della relazione e si genera attraverso l’incontro con l’altro, attraverso la relazione tra saperi che decidono di esplorare nuovi territori, nuove possibilità interpretative che non si sono ancora svelate per nessuno dei due soggetti della relazione. La conoscenza è l’improvvisa manifestazione del nuovo, è l’improvviso senso della possibile acquisizione di un qualcosa che fino a poco prima non c’era e neanche si intravedeva. Dunque, conoscere vuol dire esplorare, vuol dire essere protesi verso l’altro. Ecco che le organizzazioni, considerate come reti di relazioni tra persone dotate ognuna di un proprio sapere incarnato unico e diverso da quello di qualunque altro, consentono l’emergere della novità che il singolo, pur nel suo essere speciale, non può generare se non nei limiti dell’elaborazione di ciò che già sa. È solo dalle relazioni fondate sul confronto tra le diversità e sull’apertura all’altro diverso da sé, che possono scaturire nuove possibilità mai considerate in precedenza e possono essere generate delle identità relazionali diadiche, di gruppo, di comunità. In tal senso, le organizzazioni possono essere considerate come degli ‘incubatori di conoscenza relazionale’ che solo l’esperienza, l’abitudine e la ripetizione possono trasformare in sapere personale.

Incontro tra diversitàQuesto è il punto a cui siamo giunti nello scrivere questo libro insieme: affinché i saperi personali possano diffondersi nella rete di relazioni tra le persone –che abbiamo chiamato piano dei saperi– e affinché nell’incontro tra le esperienze di ciascuno possa emergere nuova conoscenza –che abbiamo chiamato spazio della conoscenza– occorre l’intenzione della persona. Ognuno, come persona nella sua interezza, è chiamato a farsi partecipe di questo duplice processo. Un processo di diffusione, fondato sulla diversità di ciascuno e sull’incontro tra tali diversità; un processo di emergenza, fondato sul mettere in gioco i saperi personali affinché possano trasformarsi nell’incontro con l’altro e attraverso l’incontro con l’altro, dando forma a qualcosa di nuovo e che prima non esisteva, allargando così lo spazio delle possibilità.