Le mani di Leo

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Andrea Lepri, fanta-giallo

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ANDREA LEPRI

LE MANI DI LEO

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LE MANI DI LEO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-464-2 Copertina: Immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Novembre 2012 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

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Capitolo 1. Leo guarda la tivù Fuori era buio pesto, le campane della chiesa avevano suonato a lungo e da sotto alla porta d’ingresso entrava un buon profumo di qualcosa da mangiare; i vicini avevano appena cominciato a litigare e a fracassare piatti. Dunque, stavano per cominciare i Looney Tunes! Corsi ad accamparmi sul divano nel-la speranza che dessero Gatto Silvestro, il mio preferito, e cominciai a pestare a caso i tasti del telecomando nel difficoltoso tentativo di regolare il volume. Stavo giusto domandandomi perché diavolo telecomandi e relativi tasti do-vessero farli così piccoli quando entrò Steve, e puntualmente si ripeté la stes-sa scena che si svolgeva in tutte le sere di pioggia. Le suole bagnate delle sue scarpe scivolarono sul parquet, lui perse il passo e inciampò nel tappeto per finire dritto contro la cristalliera posta in un angolo dell’ingresso, ormai da tempo priva di soprammobili. Questa cominciò a barcollare e Steve ingaggiò una sorta di lotta greco-romana per riuscire a tenerla in piedi. Il mio amico Steve era un ispettore di polizia ed era davvero un buon poliziotto, il migliore col quale avessi lavorato e a voler essere sinceri fino in fondo l’unico. Ma per quanto sul lavoro fosse perspicace e preciso, deciso e attento, nella vita priva-ta era una vera e propria frana. Era disordinato e distratto, e per di più timido, e probabilmente era proprio per questo che all’età di trentasette anni non era ancora riuscito a costruire un rapporto serio e duraturo con una sua simile. Dopo essersi ripreso dallo scontro con la cristalliera, Steve imprecò un paio di volte strusciandosi forte un ginocchio e sbattendo il piede a terra per il dolore e la rabbia, poi lanciò l’impermeabile logoro e fradicio sull’attaccapanni con-tinuando a masticare qualche parolaccia. Infine, come tutte le sere, si lasciò cadere in poltrona con le braccia che penzolavano oltre i braccioli e la testa reclinata all’indietro. Chiuse gli occhi per qualche istante, apparentemente in cerca di un attimo di pace. Ci ripensò. Riaprì gli occhi e mi squadrò serio, si alzò e venne a togliermi il telecomando, incurante delle mie occhiatacce, poi si ributtò in poltrona. Abbassò il volume che dopo tanta fatica ero appena riu-scito a regolare e cominciò a parlare. Consapevole di quanto mi attendeva so-spirai rassegnato dicendomi che ero vittima di una vera e propria ingiustizia; uno lavora dalla mattina alla sera, malpagato, poco apprezzato, spesso persino bistrattato e senza prospettive certe per il futuro e per la pensione. A fine giornata ti metti lì sul divano, tranquillo, senza disturbare nessuno. Senza pre-

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tese, sperando soltanto di riuscire a vedere un dannato cartoon in santa pace… e invece no! Sei costretto a sorbirti le chiacchiere del tuo compagno di lavoro, che ha il maledetto vizio di non staccare mai la spina. Per la verità non è che lo facesse molto spesso, ma quando si comportava in quel modo lo detestavo. «Mi spiace averti lasciato solo, ma avevo da fare. Presto dovremo andare a sentir cantare un uccellino» disse mentre il suo sguardo si illuminava, e non ho mai capito perché gli piacesse tanto esprimersi in quel modo da personag-gio di film poliziesco di quarta categoria. Mio malgrado ruotai di un poco la testa, cercando di non perdere di vista la televisione, e lo guardai di sotto in su fingendomi interessato. «È così! Siamo vicini» aggiunse eccitato dopo aver annuito a lungo nel tenta-tivo di far innalzare la mia curiosità fino al livello di guardia. Continuai a guardarlo senza battere ciglio, distrattamente, ma solo per un at-timo. Subito dopo i miei occhi, irresistibilmente attratti, ruotarono per posarsi nuovamente sullo schermo. Gatto Silvestro si era appena sporto dalla gronda-ia, e lo aveva fatto quel tantino di troppo che era stato sufficiente a farlo pre-cipitare dal tetto di un palazzo alto ventisei piani.

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Capitolo 2. La delusione d’amore «Ehi, dico a te» mi richiamò all’attenzione il mio compagno, e io tornai a guardarlo cominciando a sentirmi irritato. Se non potevo avere l’audio volevo almeno gustarmi con gli occhi la caduta del gattaccio. Quando si rialzava stordito, con gli occhi venati di rosso e gli uccellini che gli svolazzavano intorno alla testa, per poi subito dopo sbricio-larsi in mille pezzi, mi spanciavo dalle risate. «Ho avuto un nuovo contatto» proseguì Steve con gli occhi che brillavano di soddisfazione, «presto avremo un appuntamento con un confidente. Ci darà delle prove concrete, così riusciremo finalmente a far smettere di circolare soldi extra all’interno del distretto di polizia. Manderemo a casa tanti di quelli agenti corrotti che dovranno fare un nuovo concorso, altrimenti ci saranno più volanti che poliziotti… ehi, ma mi vuoi ascoltare o no?» Sempre più contrariato portai definitivamente lo sguardo su di lui, ormai sta-vano scorrendo i titoli di coda. Mi stiracchiai e mi predisposi mentalmente alla meglio per ascoltarlo, alzai persino le orecchie a tettuccio, dopodiché - avevo già deciso - mi sarei fatto un bel sonnellino. Ma il mio compagno, or-mai offeso dal mio comportamento, mi lasciò perdere. Allungò un braccio all’indietro e schiacciò un tasto della segreteria telefonica sistemata su un mobiletto alle sue spalle, inserendo il vivavoce. “Steve tesoro, quando vieni a trovare la mamma? Sono settimane che non ti fai sentire. Avvisami il giorno prima, così ti preparo le melanzane alla parmi-giana, che ti piacciono tanto… ah, ti ho comprato tre paia di mutande, di quel-le belle comode… e poi ricordati di…” Il mio compagno premette un altro pulsante. “Steve, sono Paolo. Allora, sei sempre vivo? Ricordati che domani sera ab-biamo la rivincita del torneo di boccette. E vieni concentrato, dopo la figurac-cia dell’altra volta dobbiamo stravincere. Questa volta dobbiamo umiliarli tut-ti, o l’intero distretto ci prenderà in giro fino alla pensione.” Steve schiacciò qualche altra volta il pulsante per far scorrere più veloce il nastro, ignorando i messaggi che non gli interessavano. D’improvviso si udì una voce di donna. “Sono io, Mara” diceva in tono suadente “volevo ringraziarti per i fiori. È sta-to davvero molto gentile da parte tua ricordarti del mio compleanno. Mi han-

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no fatto piacere, sul serio, tuttavia colgo l’occasione per puntualizzare una co-sa; negli ultimi tre mesi, a più riprese, hai recapitato a casa mia un’intera ser-ra. Mi hai dedicato sedici canzoni alla radio, mi hai portato a vedere quattor-dici tramonti e ventuno film d’amore, e per finire mi hai preparato quattro ce-ne afrodisiache… ma di andare oltre proprio non se ne parla! Guarda, che io non sono Heidi. Ho quasi quarant’anni, avresti almeno potuto darmi un bacio. Comunque ho bisogno di riflettere per un po’, quindi per favore non cercar-mi… mi farò viva io.” Steve arrossì e mi guardò attonito senza dire niente. Io imbarazzato gli rivolsi un’espressione di circostanza come a dire “Be’, non preoccuparti, ce ne sono tante altre.” Intanto mi domandavo perché i rapporti tra uomini e donne siano spesso così difficili. Gli esseri umani sono l’unica specie al mondo in cui due elementi di sesso opposto, per costruire un rapporto, devono soddisfare un sacco di regole: anzitutto è necessario che si trovino reciprocamente piacevoli dal punto di vista estetico, e poi che abbiano un dialogo e gli stessi gusti in fatto di cinema e musica, di passatempi e letture, e di cultura. Inoltre devono trovare le rispettive famiglie gradevoli, per non parlare poi dell’alito, del look o del colore degli occhi e dei capelli… o del lavoro e del conto in banca, an-che se spesso questi elementi hanno un peso diverso. Comunque ogni regola ha le sue eccezioni, così talvolta capita che qualcuno, per imbarcarsi in una storia sentimentale, trovi sufficientemente interessante anche il solo conto corrente, oppure un particolare anatomico. E pensare che tutte le altre razze che popolano il pianeta spesso si accontentano di un odore o di un colore!

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Capitolo 3. Il contatto La sua espressione si era fatta davvero triste e scoprii di esserne veramente dispiaciuto, poche volte l’avevo visto così amareggiato. Mentre il nastro della segreteria continuava a scorrere riferendogli messaggi banali, Steve prese il portafogli e tirò fuori una foto e un paio di lettere tutte spiegazzate. Guardò in silenzio la foto per qualche istante, poi scorse velocemente le lettere perché ormai le conosceva a memoria. Le odorò, poi le accartocciò e fece il gesto di buttarle via, ma ci ripensò. Andò al mobile del soggiorno, infilò una chiave nella toppa di un cassetto e lo aprì. Io lo chiamavo “il cassetto delle occasioni perdute”. Traboccava di foto, lettere, portachiavi, pupazzi profumati, musicali e fosforescenti, biglietti di cinema e discoteche, cartoline, peluche e gadget vari. Con un sospiro vi buttò dentro foto e lettere, poi lo richiuse con una spinta rabbiosa e in quel preciso istante si fece strada in me la consapevolezza di ciò che mi aspettava: almeno due ore di sfogo esasperato, con tanto di sin-tesi di tutte le storie sentimentali, mai cominciate o morte sul nascere, degli ultimi ventinove anni della sua vita… ovvero da quando ne aveva otto a venir su. E pensare che quasi tutte le donne del distretto di polizia stravedevano per lui, che preso com’era dal lavoro neanche se ne accorgeva. Se anziché pensa-re sempre e soltanto a compiere il proprio dovere si fosse guardato un po’ in-torno, avrebbe sicuramente trovato una fidanzata. Cercai una posizione più comoda per prepararmi ad ascoltare e tentai di assumere un’espressione atten-ta e partecipe. Era il mio compagno e non volevo deluderlo anch’io! «Possibile che dalla prima volta in cui…» aveva appena cominciato a dire camminando avanti e indietro per il soggiorno, quando si bloccò. Corse verso la segreteria telefonica, che intanto aveva continuato a snocciola-re messaggi su messaggi, riavvolse l’ultimo e lo fece partire daccapo. «Ci siamo» diceva una voce roca «il tipo è disposto a collaborare, ma vuole un bel po’ di soldi. L’appuntamento è alle nove di stasera alla vecchia zona industriale, davanti all’unico capannone sfitto. Cerca di essere puntuale e so-prattutto vieni da solo e disarmato, o quello prende il volo e non lo rintrac-ciamo più.» Steve guardò l’orologio a parete e sobbalzò. Corse all’attaccapanni e prese l’impermeabile, che intanto aveva prodotto una pozza d’acqua sul pavimento, poi si voltò a guardarmi serio. Accidenti, il mondo intero stava congiurando

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contro di me; niente cartoons e niente sonnellino! Scesi dal divano e lo seguii di malavoglia.

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Capitolo 4. Al capannone Fortunatamente aveva smesso di piovere. Infatti Steve aveva il vizio di voler-si aggiustare tutto da sé, sicché la sua decappottabile, in una lontana sera di giugno, era diventata definitivamente cabriolet. Era l’unico che in quei freddi e piovosi giorni di fine febbraio guidava tenendo un ombrello stretto fra le gambe, continuando a ripetere che la riparazione del tettuccio automatico a-vrebbe richiesto un paio dei suoi stipendi. Il problema era che come superava una certa velocità l’ombrello puntualmente si rovesciava o volava via; con quello che stava spendendo in ombrelli avrebbe potuto ricomprarsi l’automobile tutta intera. «Accidenti, siamo arrivati in ritardo» constatò il mio amico quando fummo davanti al capannone. L’aria era frizzante e aveva un odore intenso e amaro, come di petrolio. Un uomo ci stava aspettando davanti al cancello, indossava un cappotto nero col bavero rialzato e un cappello a falde larghe, che appesantite dalla pioggia ri-cadevano di lato fino a nascondergli quasi completamente il volto. Teneva le mani affondate nelle tasche, Steve scese dall’auto per raggiungerlo e io lo se-guii. «Dov’è l’uccellino?» chiese Steve. «È già entrato» rispose l’Uomo Nero. «Ha detto che non vede l’ora di farsi una bella cantata, ma ti avevo detto di venire da solo» rimarcò severo indicandomi con un cenno della testa. Riconobbi subito la sua voce, era lo stessa che aveva lasciato il messaggio in segreteria e ne dedussi che quindi probabilmente l’Uomo Nero era un nostro collega. Steve mi guardò alzando le sopracciglia e si strinse nelle spalle, io tornai in auto con passo mesto. L’uomo aprì il pesante cancello scorrevole che dava accesso al cortile del magazzino, appena furono dentro si affrettò a richiuderlo. Quel tipo non mi piaceva per niente, e quella situazione ancora meno. Se Steve aveva un difetto, era la troppa fiducia in sé stesso e in certi casi anche negli altri, cosa strana dato il mestiere che faceva. Anch’io ne ave-vo un paio, di difetti; il primo era che al contrario di Steve non mi fidavo mai di nessuno, il secondo era che odiavo essere messo da parte. Appena i passi sulla ghiaia oltre il cancello furono lontani, saltai di nuovo giù dall’auto e cominciai a girare intorno alla struttura alla ricerca di uno spiraglio che mi

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permettesse di sorvegliarli. Avevo quasi completato il giro dell’edificio e mi ero appena fermato a fare pipì per la terza volta - non si sa mai, a volte nei posti capita di doverci tornare - quando improvvisamente i volumi delle voci cominciarono a salire, segno che era in corso una violenta discussione. Decisi di terminare velocemente il giro in cerca di un altro ingresso, Steve poteva avere bisogno di me. Purtroppo la stradina che seguiva il perimetro del ca-pannone si interrompeva bruscamente in un vicolo cieco. Le voci si udivano sempre più forti e concitate, ormai erano quasi delle grida. Ruotai la testa e drizzai le orecchie, per capire meglio quello che dicevano. «Ma che succede? Sei per caso impazzito, o forse si tratta di uno scherzo? Cosa vuoi fare con quella pistola? Mettila via, potrebbe partirti un colpo» sta-va dicendo preoccupato il mio amico. «Devi dirmi chi sono gli altri spioni!» «Ma cosa vuoi fare, vuoi spararmi?» «Se mi costringi ti sparerò eccome, puoi starne certo! Ti ho detto che devi dirmi tutti i nomi, e poi devi smettere di immischiarti in cose che non ti ri-guardano, hai capito? Questa faccenda è troppo più grande di te!» insistette l’Uomo Nero. «Okay, okay, ho capito» rispose Steve per guadagnare tempo «ti dirò tutto e ti consegnerò i documenti che ho raccolto. Ma ora metti via la pistola e uscia-mo, se il mio compagno ti vede minacciarmi diventerà aggressivo.» «E tu quella specie di sacco di pulci lo chiami compagno?» replicò in tono sprezzante l’Uomo Nero facendomi – è il caso di dirlo - imbestialire. «Comunque per me va bene, ma prima devi riuscire a convincermi che hai imparato la lezione. E poi ci sono ancora un paio di cose da chiarire» conclu-se.

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Capitolo 5. La situazione precipita Cominciai a percorrere la strada a ritroso correndo più veloce che potevo. Du-rante la passeggiata attorno all’edificio avevo notato un finestrone posto mol-to in alto. Sotto, addossati al muro, c’erano alcuni scatoloni accatastati sui quali avrei potuto tentare di arrampicarmi. Senza pensarci due volte mi lanciai e cominciai a saltare di scatolone in scatolone per arrivare in cima alla mon-tagna. Mi accorsi quasi subito che erano vuoti, e chissà perché mi tornò a mente Gatto Silvestro. Sporgendomi e lottando per non perdere l’equilibrio, a rischio di cadere giù perché i cartoni umidi di pioggia avevano già cominciato a cedere sotto al mio peso, riuscii a buttare lo sguardo oltre la vetrata. Sotto la squallida luce di un neon, l’Uomo Nero stava tenendo sotto tiro Steve dan-domi le spalle. Il mio amico mi vide e un lampo di speranza attraversò i suoi occhi azzurri. «Vai, Leo! Vai ora» mi gridò con tutto il fiato che aveva. L’altro esitò e si voltò per guardarsi le spalle, Steve approfittò di quel suo at-timo di indecisione per saltargli addosso e cominciarono a lottare rotolandosi sul pavimento scivoloso. Io rimasi a guardare, incapace di decidere sul da far-si e intanto continuavo a dibattermi per non cadere di sotto dalla montagna di cartone. L’Uomo Nero riuscì a colpire il mio compagno con una testata al mento, Steve allentò la presa, stordito, e l’atro ne approfittò per divincolarsi. Rincarò la dose sferrandogli un pugno allo stomaco, poi si gettò a tuffo sulla pistola che gli era scivolata via di mano. «Maledetto impiccione, te la sei voluta» urlò con disprezzo verso Steve al-zando il braccio teso per prendere la mira. Steve intanto si era alzato e aveva cominciato a correre a zig-zag verso un grosso macchinario, alla disperata ricerca di un riparo. La situazione era gra-ve, per di più da un momento all’altro gli scatoloni avrebbero ceduto definiti-vamente. Quella era la mia ultima occasione per tentare di aiutare il mio ami-co. Bandita ogni esitazione, mi raccolsi per spiccare il salto. Il primo colpo di pistola esplose mentre impattavo contro la finestra, la sua eco risuonò tanto forte da coprire il rumore dei vetri che andavano in frantumi. Assordato, con un sibilo acuto piantato nelle orecchie, vidi la seconda fiammella uscire dalla canna della pistola proprio mentre posavo le zampe sul pavimento. Sentendo esplodere il primo colpo Steve aveva istintivamente abbassato la testa e si era

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fermato. Mentre si voltava lentamente con le mani alzate fu colpito in pieno petto. L’impatto col proiettile lo sbalzò all’indietro e quando la sua schiena toccò terra qualcosa uscì fuori da una tasca del suo impermeabile, un piccolo oggetto squadrato e lucente scivolò lungo il pavimento liscio e oleoso fino a cadere dentro a una feritoia. Mi disinteressai dell’Uomo Nero, che adesso sta-va correndo verso il portone con l’intenzione di squagliarsela, per correre dal mio compagno. «Prendilo, Leo. Prendi quella carogna» mi disse Steve in un sussurro. Corsi veloce come non avevo mai fatto in vita mia ma fu inutile, l’altro era già fuori e aveva richiuso il cancello. Riuscii soltanto a vedere, da uno spira-glio, l’uomo che saliva in macchina. Partì in retromarcia per uscire dal par-cheggio e urtò un lampione, subito dopo diede una bella sgasata, innestò la prima e si allontanò in fretta alzando una pioggia di ghiaia.

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Capitolo 6. La morte di Steve Tornai malinconicamente dal mio amico. Era steso a terra a pancia in su con la testa girata di lato e le ginocchia piegate. Ansimava. Gli leccai la mano. Ruotò la testa lentamente, poi con uno sforzo disumano riuscì ad alzare un braccio per carezzarmi dietro all’orecchio, come faceva sempre. La sua mano era tanto fredda che mi diede un brivido. Chiusi gli occhi. Colto da un’idea mi allungai per infilare il muso nella tasca dell’impermeabile, alla ricerca del telefonino. «È inutile, l’ho dimenticato a casa…» mormorò lui con una smorfia di ram-marico intuendo le mie intenzioni. Emisi un guaito disperato. «Mi dispiace amico mio… temo che stavolta sia davvero finita…» aggiunse guardandomi con occhi lucidi. Leggendo la rassegnazione nei suoi occhi capii che non c’era più niente da fare. Mi accucciai al suo fianco, il più vicino possibile per cercare di dargli un po’ di calore. Dopo pochi istanti lui fu scosso da un colpo di tosse, poi un al-tro e un altro ancora. «Mi dispiace» sussurrò un’ultima volta, poi chiuse gli occhi per sempre. Rimase un silenzio abissale, mai sentito prima, interrotto soltanto dal fischio di rare folate di aria fredda che entravano dal finestrone rotto. Portavano a spasso l’odore acre della polvere da sparo, che mischiato a quello del sangue del mio compagno era nauseante, ma non mi allontanai. Non lo avrei lasciato solo per niente al mondo! Lui era lì, accanto a me, immobile. Era lì, eppure non c’era più. Mi ignorava. “Non è giusto” pensai “non puoi lasciarmi così, avevamo fatto un patto! Sempre insieme, fino alla fine.” Era stata la nostra frase scaramantica, l’aveva ripetuta ogni volta prima di en-trare in azione. Due parole, un occhiolino, e poi via, insieme verso il pericolo. Quelle parole significavano che se doveva accadere qualcosa di brutto - era una delle possibilità, dato il mestiere che facevamo, e ne eravamo consapevoli - dovevamo andarcene insieme. E invece no. Dopo anni di amicizia mi lascia-va così, mi lasciava solo! E il peggio era che la colpa era anche mia, se fossi stato più attento, più deciso, forse le cose sarebbero andate diversamente. In-vece avevo avuto troppa fiducia in lui, avevo aspettato troppo a saltare attra-verso quella maledetta finestra!

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Un ricordo mi assalì d’improvviso dandomi un tenue filo di speranza. Duran-te le settimane di addestramento, quando ero poco più di un cucciolo, mi por-tava spesso a giocare in campagna. Ci rotolavamo sull’erba, immersi nell’aria tiepida e profumata e circondati dallo svolazzare incessante delle farfalle co-lorate. Facevamo la lotta, poi di colpo lui si fingeva morto. Che spavento, le prime volte! Terrorizzato io gli leccavo il viso, lo scuotevo con la zampa, e subito dopo lui scattava in piedi ridendo come un matto. Sapevo che era inuti-le, ma provai lo stesso… “No, non è uno scherzo!” pensai disperato.

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Capitolo 7. La liberazione La mattina seguente, chiamati dai proprietari del capannone vicino a causa del mio abbaiare e dei miei continui guaiti, alcuni colleghi vennero a vedere cos’era accaduto e ci trovarono lì. Io avevo tentato per tutta la notte di recupe-rare il piccolo oggetto che era uscito dalla tasca dell’impermeabile di Steve, ma non c’era stato niente da fare. Potevo arrivare a toccarlo con la zampa, ma per afferrarlo avrei dovuto avere le dita. Avevo tentato di scavare una buca col solo risultato di spezzarmi le unghie contro il pavimento di cemento; ave-vo provato anche a prenderlo con la bocca ma purtroppo il mio muso non en-trava nella fessura nel pavimento perché era troppo stretta. Avevo insistito lo stesso, più volte, testardo come non mai, e alla fine mi ero procurato un bel taglio appena sopra il naso. Allora provai in tutti i modi possibili ad attirare l’attenzione degli agenti per mostrar loro quell’oggetto, ma dopo avermi con-solato a turno per pochi minuti risposero al mio abbaiare dicendo che non a-vevano tempo per giocare… come se in quel momento io avessi avuto voglia di mettermi a giocare. Presero a dedicarsi alle loro occupazioni e non mi pre-starono più interesse. Arrivarono la scientifica, i fotografi e i giornalisti, e Steve fu portato via a bordo di un furgone grigio. «Capo, che ne facciamo di lui?» domandò un agente indicandomi. Il Capo si abbassò e mi prese il muso tra le mani. «Povero Leo… non riesco proprio a immaginare quanto debba essere stata dura per te… vedersi uccidere il compagno davanti agli occhi! Vederlo porta-re via in una bara di metallo… e per di più non puoi parlare, altrimenti l’assassino avrebbe le ore contate! Accidenti! Portatelo a casa di Steve e prendete le sue cose. Per un po’ starà con noi alla centrale, vedremo se qual-cuno vorrà adottarlo.» Sentendo che mi avrebbero portato a casa il mio morale si sollevò di un poco, infatti sulla segreteria telefonica c’era registrata la voce dell’assassino. Avrei fatto in modo che qualcuno l’ascoltasse, gli avrei fatto capire che quella regi-strata era la voce del bastardo che aveva assassinato il mio amico. Ero certo che non sarebbe stato difficile, ma appena scesi dall’auto avvertii di nuovo l’odore della polvere da sparo e del petrolio. Senza dubbio l’assassino era sta-to lì, di certo per cercare i documenti di cui parlava Steve e per cancellare il messaggio in segreteria! Infatti l’ispezione che ebbe luogo nell’appartamento

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del mio amico, alla ricerca di qualcosa che potesse far luce sulle ultime ore di vita di Steve, non diede alcun frutto. Per tutta la mia vita avevo spesso deside-rato avere le mani, magari anche una sola volta, anche solo per un giorno. Ero fermamente convinto che le mani fossero una delle poche reali differenze tra me e un uomo. Mi ero sempre domandato quante cose avrei potuto fare, se le avessi avute. Dalle più futili - ma anche divertenti - tipo far roteare un gatto nell’aria tenendolo per la coda, per poi aprire le dita e vederlo volare via, op-pure lanciarmi sassi, pigne, bastoni e palle per conto mio, per poi rincorrerle e riportarmele. Ma avrei potuto anche usarle per fare cose utili, inoltre avrei a-vuto la padronanza del frigorifero e del televisore, e sarei stato capace di a-prirmi la porta da solo quando mi scappavano i bisogni e di buttarmi una co-perta addosso quando avevo freddo. Quella volta mi trovai a desiderarlo così intensamente come non avevo mai fatto. Se per un qualche miracolo fosse stato possibile, anche solo per cinque minuti, avrei potuto recuperare l’oggetto misterioso che Steve aveva perso per mettere l’assassino con le spalle al muro! Invece ero soltanto un inutile cane, con quattro inutili zam-pacce. Caddi in uno stato di profonda depressione e trascorsi i tre giorni se-guenti disteso su una cuccia improvvisata nella sala d’attesa del distretto, col muso appoggiato sulle zampe anteriori, senza mangiare né alzare lo sguardo. Ogni tanto ruotavo le orecchie senza muovermi, quando sentivo che qualcuno mi indicava o pronunciava il mio nome, o quello del mio compagno.

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Capitolo 8. Al funerale “Non mi affezionerò mai più a nessuno, e non voglio mai più nessun essere umano al mio fianco! Gli dai tutto te stesso, gli proteggi la casa e gli fai gio-care i bambini - e purtroppo il gioco preferito dei bambini con i cani è quello di aggrapparsi continuamente, con tutta la loro forza, alle loro orecchie e al-la loro coda - gli stai vicino, gli fai compagnia e lo consoli quando ha biso-gno di conforto. E questo, per ricompensarti, a un certo punto ti lascia im-provvisamente solo… e allora tu dovresti cominciare un nuovo rapporto con un’altra o più persone, cercare daccapo gli equilibri e guadagnarti il rispet-to. Imparare parole, intonazione della voce e abitudini nuove, e affrontare di nuovo un sacco di cose fastidiose, come ad esempio quella di lottare con gli altri cani del quartiere dove andrai ad abitare soltanto per avere un angolino dove fare i tuoi bisogni. Poi magari il tuo nuovo compagno decide di andare in ferie, o d’improvviso gli viene un’allergia, oppure semplicemente gli nasce un figlio, e allora ti dà un bel calcio nella coda… E poi Steve era speciale! Non troverei mai un altro amico come lui, neanche se lo cercassi per tutta la vita. Accidenti, se solo fossi stato più deciso… i ri-morsi mi accompagneranno per tutta la vita! E quanto mi rode non poter fare più niente per lui. Sono certo che l’oggetto caduto nel pozzetto è molto im-portante, ma non sono riuscito a recuperarlo e da solo non ci riuscirò mai. Che cosa farò da domani? Forse, se davvero mi prendesse con sé qualcuno della centrale… ma no, è meglio di no! Sono stufo di questa vita. Sono stanco di divise e sparatorie, inseguimenti e notti in bianco. Potrei fare il randagio, almeno finché non avrò le idee più chiare, in fondo so cavarmela e di sicuro non morirei di fame…” Queste erano le mie riflessioni, mentre alla testa del corteo funebre stavo ac-compagnando il mio amico all’ultima dimora. Camminavamo in silenzio, immersi nei profumi dell’autunno, e io non ero tanto sicuro che le mie lacrime fossero dovute all’aria fresca che mi pungeva le narici. Avete mai visto un funerale che si rispetti senza pioggia? No, vero? Infatti, altroché se pioveva! Per di più c’era un dannato vento che staccava foglie gialle e marce dai rami degli alberi per mandarle a spasso, mentre l’alito si condensava in nuvolette. Sul prato, vestite in abiti scuri e con l’ombrello aperto, c’era una miriade di

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persone. In molti si alternarono davanti alla cassa accanto alla buca per qual-cosa, le parole erano sempre diverse ma il significato era sempre lo stesso, e io ero davvero stufo. Non avevo intenzione di stare a guardare la bara calare nella fossa, sarebbe stato troppo crudele. Mi ero voltato per andarmene e ave-vo già percorso un pezzo di strada quando inaspettatamente una voce richia-mò la mia attenzione. Drizzai le orecchie, mi voltai e tornai sui miei passi. «Di fronte a tragedie come questa spesso ci si domanda se…» stava dicendo l’Uomo Nero in tono falsamente commosso. «…e quindi, noi della Scientifica, abbiamo deciso…» Ascoltai con attenzione per essere sicuro che la mia non fosse soltanto un’impressione. «…e questo è senz’altro il modo migliore per onorare la memoria di un uomo che…» Era proprio lui, era la carogna che gli aveva sparato e, come avevo pensato fin dall’inizio, era un poliziotto! Che faccia tosta, indossava persino lo stesso cappotto e lo stesso cappello, e magari aveva con sé anche la stessa pistola con la quale lo aveva ucciso.

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Capitolo 9. L’attacco all’Uomo Nero Non ebbi bisogno di riflettere a lungo sul da farsi, in un attimo tutto il sangue mi era salito alla testa per la rabbia. Non avevo molto da scegliere; data la mia condizione di cane non disponevo della voce per denunciarlo, né tantomeno delle mani per perquisirlo, quindi tutto quello che potevo fare era tentare di mandarlo a fare compagnia al mio amico! Presi la rincorsa, con le zampe che faticavano a fare presa sul fango, acquistai la massima velocità di cui ero ca-pace finché giunto vicino alla cassa saltai. La oltrepassai in volo, subito dopo trentacinque chili alla velocità di quaranta chilometri orari piombarono sull’assassino che rovinò nella fossa, e quando toccò il fondo con le spalle io gli ero sopra. Lo guardai un attimo con i denti scoperti e gli diedi un ringhio, che significava: “Ti ho beccato, maledetto. Intanto a te ci penso io. Poi, quan-do sarai nell’aldilà, te la vedrai anche con Steve!” Mentre i convenuti si radunavano sul ciglio della buca in un vociare sgomen-to, a vedere cosa stava succedendo, lo azzannai al collo. Ma con mia immensa sorpresa, anziché trovare carne morbida, i miei denti cozzarono contro qual-cosa di solido. Mi tirai indietro disorientato. Persi un istante di troppo nella ricerca di un altro punto debole, e prima che potessi riprovarci qualcosa di molto duro - la pala del becchino, suppongo - si abbatté con violenza sulla mia povera testa ammazzandomi quasi. Stramazzai a terra con le zampe diva-ricate. Quando riaprii gli occhi la testa mi doleva di brutto e mi accorsi subito che mi avevano legato le zampe, inoltre adesso indossavo anche una bella museruola. L’assassino mi guardava beffardo, ma intuii che era ancora spa-ventato. «Chissà che gli ha preso» gli disse il Capo grattandosi il mento perplesso. «Fortuna che ieri hai avuto quel tamponamento! Se non avessi avuto il colla-rino per il colpo di frusta, a quest’ora…» aggiunse. “Ma quale tamponamento?” avrei voluto gridare “oltre che un assassino sei un maledetto bugiardo! Hai sbattuto contro un lampione mentre scappavi!” Ma mio malgrado, tutto quello che riuscii a fare fu indirizzargli un ringhio terrificante e guardarlo più in cagnesco che potevo. «Questo però cambia le cose. Capisco che sia sconvolto per la morte del suo padrone» disse l’Uomo Nero a voce alta per farsi sentire anche dagli altri, fingendosi comprensivo «ma si è dimostrato pericoloso.»

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«Non ce l’ho con lui» aggiunse serio «ma lasciarlo libero, a mio parere, è troppo rischioso.» «Mhhh… purtroppo temo che tu abbia ragione» rispose il Capo. «Cosa proponi di fare?» gli domandò poi. Senza rispondere, l’altro si strinse nelle spalle e abbassò gli occhi a guardarsi le scarpe sporche di fango, falsamente imbarazzato. «Si, purtroppo hai ragione» concluse il Capo mostrandosi d’accordo con la tacita risposta dell’altro. Poi si chinò su di me e mi dette un paio di pacche amichevoli. «Credimi Leo, mi dispiace… mi spiace sul serio! In poche ore perdo due dei miei migliori investigatori» annunciò commosso, e mi sembrò davvero pro-fondamente dispiaciuto. “Come due agenti? Io sono vivo!” feci per chiedermi ripensandoci su, lui si alzò e con la mano fece cenno a un agente di avvicinarsi, questi venne al suo cospetto e si mise sull’attenti. «Comandi, signor Capitano.» «Portatelo dal veterinario» gli disse in un orecchio, e nell’udire quelle parole mi sentii gelare. «Scusi Capitano, ho capito bene?» domandò incredulo l’agente, l’altro annuì con un’espressione triste stampata in faccia. Intanto, non visto, l’assassino mi stava pestando di proposito la coda col tacco per farmi un dispetto, guardan-domi di sbieco con un sorriso tirato.

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Capitolo 10. Dal veterinario Due colleghi, sbuffando per la fatica, mi trasportarono a braccia attraverso la sala d’attesa legato e imbavagliato come il peggiore dei delinquenti. Gli altri animali presenti mi rivolsero timidi sguardi pietosi e imbarazzati. Gli agenti parlottarono con la segretaria del dottore, poi mi portarono in un piccolo am-bulatorio e mi adagiarono su un lettino. In attesa che arrivasse il veterinario, i due rimasero al mio fianco. Continuavano a guardarmi dispiaciuti e a darmi qualche pacca. «Ma cosa diavolo ti è preso, così all’improvviso?» mi rimproverò il più an-ziano dei due guardandomi compassionevole, con gli occhi lucidi. «Tra tutte le persone presenti alla cerimonia dovevi attaccare proprio il più bastardo? Povero Leo, che fine disonorevole» aggiunse carezzandomi dolce-mente la schiena, che incurvai istintivamente quando la sua mano arrivò vici-na alla coda. Poi distolse lo sguardo, non voleva farmi vedere che stava per mettersi a piangere. «Dispiace anche a me, ma ormai la frittata è fatta. E poi chissà, magari di là ritroverà Steve» disse l’altro tanto per rincuorarlo. «Sì, forse hai ragione tu, forse è meglio così.» Entrò un tizio. Era alto, indossava un camice candido e aveva due baffetti fini. I suoi denti erano un po’ sporgenti e l’espressione della faccia, sotto ai capelli grigiastri folti e dritti come stecchi, era difficile da decifrare. «Potete andare, me ne occuperò io» disse asciutto agli agenti. «Dottore, mi raccomando…» «State tranquilli, non soffrirà.» I due mi rivolsero un ultimo sguardo, poi salutarono il veterinario e uscirono. Il dottore girò intorno al lettino un paio di volte e mi osservò a lungo, tenendo un pugno chiuso poggiato sotto al mento e mordicchiandosi di tanto in tanto la nocca del dito indice. «È un peccato… si, è proprio un peccato» disse. “Fai il tuo lavoro alla svelta, per favore” pensai, ma lui continuava a stu-diarmi perplesso. Mi alzò una coscia. «Vediamo se hai il tatuaggio» disse sottovoce, quasi in tono confidenziale. “No, Niente tatuaggio. Volevo un piercing ma Steve me lo ha vietato! Avanti idiota, vuoi farmi quella maledetta puntura? Il mio amico mi sta aspettando”

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pensai tra me e me, facendo il duro nel tentativo di esorcizzare la paura per la mia fine imminente. Lui aprì l’armadietto metallico sistemato in un angolo della stanza e tirò fuori un po’ di strumenti. Mi visitò accuratamente. «Sei perfetto… no, non posso ammazzarti così!» disse dopo un pezzo. Lo guardai incredulo, sembrava che avesse proprio intenzione di graziarmi. Se non fossi stato legato gli sarei saltato addosso per leccargli tutta la faccia due o tre volte! Si recò alla scrivania, prese il telefono e compose un numero. «Sono io. Sì, lo so che è passato del tempo… per caso li trattate sempre i ca-ni? No, non è di razza. È un meticcio, ma è una bella bestia comunque…» “A chi hai detto bestia? Ci ho ripensato, se fossi libero anziché tre leccate ti darei due leccate e un morso!” «Trentacinque chili, sano e muscoloso. Alto e snello. Pelo bianco e nero stria-to di marrone, sguardo intelligente. Era un cane poliziotto ma è strano, niente tatuaggio… me l’hanno portato per sopprimerlo… mah, direi come sempre, va bene dieci al chilo… okay, lo addormento. Vi aspetto stasera.» A questo punto era chiaro che almeno momentaneamente la mia vita era sal-va, quella stessa sera qualcuno sarebbe venuto a prendermi e sarei scomparso senza lasciare tracce. Non sapevo chi si sarebbe occupato di me, né dove mi avrebbero portato o quale sarebbe stato il mio impiego futuro. Magari sarei diventato un cane da ciechi, un banale accompagnatore, oppure un guardiano di greggi o di pollai. Ma non mi interessava più di tanto, ciò che contava era che dopo aver visto la morte in faccia sarei rimasto vivo! E anche se sapevo che non avrei potuto riportare in vita Steve, magari un giorno sarei riuscito a vendicarlo. Anche se non ero riuscito a vedere il viso dell’assassino, adesso ero in grado di riconoscerlo dalla voce e sapevo dove trovarlo. Ma in quel momento non volevo pensarci. Così, mentre mi iniettava una bella dose di va-lium e le mie palpebre si facevano pesantissime, guardai con occhi colmi di riconoscenza il mio benefattore…

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Capitolo 11. Al laboratorio …benefattore un corno, se lo avessi avuto tra le zampe avrei tentato di stroz-zarlo! Quando aprii gli occhi mi trovavo in una gabbia talmente corta, bassa, e stretta, che prima che a me doveva essere appartenuta a un chihuahua! Era notte inoltrata, pochi pallidi riflessi lunari penetravano a fatica attraverso il vetro sporco di un lucernario. Mi guardai intorno e nella penombra dello stan-zone intuii la presenza di tutta una serie di gabbie disposte in bell’ordine. O-spitavano al loro interno sagome che dovevano appartenere a vari tipi di ani-mali, alcune talmente strane che non riuscivo a immaginare a quale specie appartenessero. La mia prima impressione fu quella di aver percorso il tipico passaggio dalla padella alla brace! Trascorsi il resto della notte a guardare la luna attraverso il lucernario domandandomi dove diavolo fossi finito, ma non appena si fece giorno non tardai a capirlo. Nelle gabbie erano imprigionati animali di ogni tipo, e la cosa preoccupante era che non ce n’era uno come Madre Natura l’aveva fatto! Alcuni avevano degli strani caschi in testa colle-gati a delle macchine, qualcuno aveva delle specie di occhiali, altri il pelo ac-conciato in maniera particolare. Ce n’erano anche alcuni vestiti, e qualcuno sembrava completamente diverso da quello che avrebbe dovuto essere. C’erano persino un coniglio di colore verde fosforescente e una tartaruga sen-za guscio, così mi dissi che senza ombra di dubbio dovevo essere finito in uno di quei famigerati laboratori dove si facevano esperimenti segreti. Mentre continuavo a guardarmi intorno, afflitto e stralunato, sentii un rumore alle mie spalle. Mi voltai per vedere chi fosse il mio “vicino di casa” e per poco non morii dalle risate; uno scimpanzé completamente depilato se ne stava aggrap-pato alle sbarre, in mutande, e mi guardava fisso. Continuai a ridere per un pezzo, mentre lui mi guardava scocciato tenendo le mani sui fianchi. Quando mi calmai, gli diedi un’abbaiata che significava: “Scusa, ma è stato più forte di me.” “Lascia perdere” mi rispose con un movimento della mano dall’alto verso il basso e stringendosi poi nelle spalle “succede a tutti, quando mi vedono per la prima volta.” Allungò la mano verso di me, io gli porsi la zampa. “Piacere” ci dicemmo mimando un inchino con la testa.

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Subito dopo lui si stiracchiò e cominciò a vestirsi, pantaloni e camicia di je-ans. “È tanto tempo che sei qui?” domandai con un’altra abbaiata. Lui ruotò la mano intorno al polso molte volte. Poi la sbatté sulle sbarre sco-tendo la testa per farmi capire che fuggire era impossibile, e io deluso mi ac-cucciai con un sospiro. Mi domandai cosa avrebbe fatto Steve al posto mio, ma per lui era diverso. Lui era stato un uomo, un uomo intelligente e soprat-tutto aveva avuto le mani. Cosa potevo fare, io, con le mie misere zampe? Mi rassegnai immediatamente. Trascorsero alcune settimane d’inferno durante le quali vidi subire, e purtroppo subii, ogni tipo di sopruso. In nome della scien-za, dicevano loro.

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Capitolo 12. Il piano Nel laboratorio clandestino dove ero tenuto prigioniero si sperimentavano prodotti per migliorare la vita degli animali, ma soprattutto trattamenti di bel-lezza destinati a migliorarne l’aspetto esteriore. Così, come gli altri ospiti for-zati, ero stato usato come cavia per testare dentifrici alle erbe, cosmetici, smalti per unghie, abiti e Dio soltanto sa cos’altro. Una volta mi avevano per-sino ridotto peggio del coniglio; mi avevano fatto tutto biondo con delle belle striature blu notte, inoltre avevo costantemente il rimmel agli occhi! Lo scim-panzé, vittima di un trattamento depilatorio definitivo, era rosa come un bam-bino appena nato. Alla tartaruga avevano innestato un bel guscio in fibra di carbonio ultraleggero - infatti filava come un razzo - e placcato oro, e adesso non si poteva più calcolare la sua età perché non c’erano più i rombi sopra. Inoltre, con un bel lifting, le avevano tolto tutte quelle brutte rughe dal collo e le avevano ingrandito gli occhi, così tanto da farla sembrare una civetta. Se la fissavi un momento di troppo rischiavi di restare ipnotizzato. Nonostante tutto tra noi c’era qualcuno che sembrava apprezzare tutte quelle cure; un “ma-schio” di pitbull dal nome ambiguo mostrava con fierezza la sua nuova ac-conciatura e una specie di rossetto permanente che gli avevano applicato, a-vreste dovuto vedere come scodinzolava mentre camminava sui talloni per evitare di sciuparsi le unghie. Il direttore del laboratorio era un pazzoide che aveva dato qualche esame alla Facoltà di Veterinaria ed era convinto che la nuova e incontrastata frontiera del guadagno sarebbe stata quella dell’animale bello e tirato a lucido in ogni occasione, così aveva preso in affitto un edificio fatiscente, un paio di scagnozzi incaricati di reperire la materia prima, e si era dato alla sperimentazione. Di lì a poco avrebbe finito di svolgere i test che si era prefissato, quindi avrebbe presto lanciato sul mercato una linea completa di prodotti innovativi per animali di ogni tipo. A quel punto, probabilmente, ci avrebbero eliminati tutti. Infatti non potevano permettersi di lasciare in giro le prove dei loro assurdi esperimenti, soprattutto di quelli non riusciti, come ad esempio quel criceto al quale al posto dei peli avevano innestato le piume e che adesso trascorreva le giornate tentando d’imparare a volare. Ogni animale era sempre tenuto isolato dagli altri, ma io e lo scimpanzé, che si chiamava Giotto perché nel tempo libero dipingeva dei quadri davvero belli, col tempo avevamo stretto amicizia. In qualche modo, impegnandoci giorno dopo gior-

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no, avevamo imparato a comunicare. Per la verità all’inizio non era stato faci-le, infatti per diverso tempo Giotto era stato convinto che io fossi un “pulitore di argenteria” e non “un agente di polizia”. Vista la situazione, ci eravamo detti che non c’era tempo da perdere e avevamo studiato un piano per la fuga, ma per attuarlo dovevamo ovviamente risolvere tutta una serie di problemi. Il primo, in ordine di tempo e di importanza, consisteva nel riuscire ad aprire le gabbie. Lui aveva le mani, avrebbe potuto farcela. Poi, dato che la porta del locale che ospitava le gabbie non aveva maniglia interna, dovevamo riuscire a fargli raggiungere il lucernario. Non era posto molto in alto, Giotto sarebbe uscito proprio da lì per poi rientrare e aprirmi la porta, infine saremmo fuggiti a zampe levate.

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Capitolo 13. La preparazione della fuga Per ovvi motivi di segretezza il personale della nostra “beauty farm” era, per-donatemi la licenza poetica, ridotto all’osso. La domenica, in particolare, c’era una sola persona che fungeva da guardiano, girava con una cartellina per annotare i risultati dei test, ci dava da mangiare, e infine aveva il compito di permetterci di assolvere i nostri bisogni fisiologici. Il tempo stringeva, di lì a poco avrebbero davvero terminato tutti gli esperimenti e così decidemmo finalmente di tentare la fuga, logicamente proprio di domenica. Da qualche giorno era arrivato un nuovo guardiano, doveva sostituire quello di ruolo an-dato in ferie. Era quasi l’alba e lui doveva essere molto stanco perché quella notte avevamo usato mille espedienti per sfinirlo, facendolo andare avanti e indietro dalla sua postazione alla prigione. Dopo diverso tempo che abbaiavo e guaivo disperatamente venne finalmente a vedere cosa stava accadendo, io e Giotto notammo che come d’abitudine teneva le chiavi in tasca col portachia-vi che usciva penzoloni, per averle a portata di mano. «Allora, che diavolo hai stasera? Possibile che non tu non riesca a stare buono per dieci minuti di seguito?» domandò scocciato sbadigliando mentre si stru-sciava il viso con le mani. Alzai di lato la zampa posteriore destra a mimare il gesto del bisogno, conti-nuando a mugolare. «Di nuovo? E va bene, va bene, ho capito. Abbi un po’ di pazienza» disse, e si allontanò. Dopo pochi minuti tornò e infilò nella gabbia il braccio teso col collare in mano; obbediente come poche volte in vita mia sporsi il collo in avanti e me lo lasciai infilare. Lui sfilò il chiavistello. Giotto mi fece l’occhiolino, segno che era il momento buono, così appena fuori dalla gabbia ruotai su me stesso e saltai addosso al guardiano in un falso impeto festoso, scodinzolando come un matto. Le mie zampe si abbatterono sul suo petto, spingendolo a sbattere la schiena contro le sbarre della gabbia di Giotto. Cominciai a dargli delle belle leccate in faccia, non senza provare profondo disgusto perché era pieno di brufoli. «Ehi, ma che ti prende? Ah ah ah… basta, mi fai il solletico, basta.» Giotto intanto aveva allungato la mano e gli aveva sfilato le chiavi. La sua gabbia era l’unica dotata di lucchetto perché sarebbe stato in grado di sfilare il

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chiavistello. Individuò subito quella col gommino arancione, che apriva il lucchetto, la infilò nella serratura e la fece scattare per poi gettare il mazzo ai suoi piedi. Il guardiano mi spinse via e le raccolse, poi si voltò a guardare so-spettosamente Giotto, che adesso fingeva di dipingere. Per essere più credibi-le questi cacciò un paio di urli con la sua voce stridula, poi ci mostrò i denti come solo le scimmie sanno fare, come a dire: “Che hai da guardare? Possibi-le che in questo posto non si possa mai lavorare in pace?”. Chiuse in bellezza scagliandomi contro il pennello che macchiò le mie meches nuove di zecca che, devo ammetterlo, cominciavano a piacermi. Io gli risposi con un’abbaiata terrificante e il guardiano, colpito dal nostro strano comportamen-to, mi zittì con un grido e una frustata. Poi fece per avvicinarsi alla gabbia di Giotto grattandosi il mento, sempre più perplesso. Se avesse deciso di guarda-re meglio avrebbe notato il lucchetto aperto, allora mi lanciai verso il tavolo e cominciai ad annusarne una zampa, come in procinto di fare i miei bisogni, lanciando un guaito disperato. «E va bene, va bene! Andiamo, altrimenti va a finire che me la fai qui.» Raccolse il guinzaglio e io mi lasciai guidare fuori. Per tutto il tempo che re-stammo all’aperto lo sfinii tra giochi, strattoni al guinzaglio e tappe fisiologi-che. Al rientro nel laboratorio continuava a sbadigliare, aveva un occhio chiu-so e quello aperto era venato di rosso per la stanchezza. Lo trascinai di forza verso la mia gabbia in modo che chiudesse e se ne andasse a dormire alla svelta, Giotto intanto faceva finta di russare pesantemente.

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Capitolo 14. L’evasione di Giotto Non appena la porta del laboratorio fu chiusa, Giotto scattò in piedi. Ma inve-ce di precipitarsi fuori ad aprirmi la gabbia, si sfilò senza fretta la giacca del pigiama a righe verticali, simile a quella di un carcerato, e cominciò a lavarsi i denti. Se ne stava a dorso nudo davanti allo specchio e faceva le sue cose con infinita calma, e quando ebbe finito, non contento, prese a spalmarsi manate su manate di crema idratante sul volto. «Grrrr (Ti sembra il momento di farsi la toilette?)» gli ringhiai. Lui mi guardò e fece scorrere le mani rivolte verso sé stesso su e giù un paio di volte (Sono mesi che non esco, non vorrai mica che venga così?). «Bau (Tra poco farà giorno, non vedi? Non c’è un minuto da perdere)» risposi guardando il lucernario. «Tutte e due le mani rivolte verso di me, dall’alto verso il basso, poi dito in-dice verso l’alto col pugno chiuso. Infine, braccia allargate con i palmi verso l’esterno (Non rompere, mi ci vuole un minuto. E che diavolo…).» «Mhhh (Accidentaccio).» «Bau bau (Non vedo una gran differenza rispetto a prima!)» abbaiai piano scotendo lentamente la testa quando ebbe finito. Giotto replicò mostrandomi il palmo della mano destra chiuso (Vai a farti un giro!). «Bahau ahahahu (Era solo una battuta…).» «Due volte mano destra dal basso verso l’alto, col palmo rivolto verso il sof-fitto (Sono pronto, alza la coda che si va!).» Finalmente il mio complice uscì dalla sua gabbia e venne a sfilare il chiavi-stello della mia. Trascinammo a fatica, cercando di non fare rumore, il tavolo sotto al lucernario. Gli altri animali, svegliati dalla confusione, ci guardavano perplessi. Giotto fece il giro delle gabbie per chiedere che facessero silenzio, promettendo loro in cambio che una volta fuori avremmo fatto in modo di li-berarli. Tornò da me e portò sul tavolo uno scatolone che aveva preso da uno scaffale, era uno di quelli che contenevano le nostre razioni alimentari. Lo si-stemò in modo che potessi guadagnare ancora qualche decina di centimetri verso l’alto. Ci salii sopra e in un flash mi tornò a mente quando mi ero ar-rampicato lungo il muro del magazzino. Mi assalirono insieme dubbi e rimor-si e una paura folle di cadere giù, Giotto se ne accorse e mi diede una pacca

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sulla schiena per darmi coraggio. A quel punto saltò a sua volta sul tavolo e mi salì in groppa, e sbuffò stizzito perché non arrivava alla maniglia per un pelo. Mi fece cenno di tendere più che potevo il muso verso l’alto, poi mi salì sulla testa agguantandosi al mio muso con le mani posteriori per non cadere. «Caì… mhhh (Mi hai infilato un dito in un occhio).» «Dito indice teso davanti al naso col pugno chiuso, poi pugno chiuso, infine mano aperta orizzontale che ruotò un po’ verso destra e un po’ verso sinistra (Non metterti a fare rumore ora! Tieni duro, ci sono quasi!).» «…bau? (Come pensi di fare?)» dissi spalancando gli occhi in una domanda. «Mano che indica il numero uno, due, tre, poi pollice destro verso l’alto (Tie-niti pronto, al tre saltiamo).» Grazie a un contemporaneo colpo di reni mio e di Giotto, questi spiccò un balzo e riuscì ad afferrare la maniglia con una mano, agguantandosi all’infisso con le altre tre. Muovendosi come un vero acrobata l’aprì e riuscì a scivolare fuori, e io mi misi in paziente attesa. Non so quanto tempo trascorse, so solo che mi parve un’eternità e che arrivai persino a dubitare che lo avessero cattu-rato, o peggio che mi avesse abbandonato lì a marcire.

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Capitolo 15. La liberazione Quando ormai stavo cominciando a disperare, la porta si aprì e Giotto entrò sorridendo con espressione trionfante. «Bau» feci guardando l’orologio a parete. «Ronf… fiii… ronf… fiii (Ma quanto ci hai messo? Mi stavo addormentan-do!)» aggiunsi con gli occhi chiusi «Dita raccolte attorno al pollice, mano che si muove avanti e indietro verso di lui, poi braccia divaricate che si alzano e si abbassano (Ma cosa stai dicendo? Praticamente ho volato!).» Sporsi il muso verso la porta (Andiamo, è tardi!). Lui si guardava i piedi, sembrava scocciato. «Baaauuuhh…? (Che c’è adesso?).» «Mano che indica i piedi (Non sono più abituato a camminare scalzo!).» Prese le scarpe, legò tra loro le stringhe e se le passò dietro al collo in modo da farsele penzolare ai lati della testa. Finalmente uscimmo, passando carponi sotto alla guardiola del custode che ancora addormentato russava sonoramen-te. Era stato davvero facile, e gli altri animali erano stati bravi; avevano fatto il tifo per noi in silenzio, sperando che saremmo stati di parola e saremmo tornati a liberarli. Fuori cominciava ad albeggiare, i lampioni si stavano spe-gnendo uno a uno. Il piazzale e i prati che circondavano il laboratorio erano recintati da una rete metallica altissima, oltre la quale c’era soltanto verde campagna tagliata da un’unica vecchia strada asfaltata. Alzando la testa si ve-deva ancora qualche stella, ma il sole nascente stava spuntando da dietro a un colle tingendo di arancione il cielo. Stavamo guardandoci intorno per capire quale fosse la direzione migliore per la fuga, separandoci avremmo sicura-mente dato meno nell’occhio ma l’unione fa la forza, così con uno sguardo decidemmo di restare insieme. Fino a quel momento era filato tutto liscio, purtroppo, però, anche con tutto l’impegno e la buona volontà possibili, un gallo sarà sempre un gallo. E così Bocelli, dopo una lunga lotta interiore, non riuscì più a trattenere l’istinto. Tra l’altro c’è anche da dire che era un po’ megalomane, perché dopo l’operazione alle corde vocali era ansioso di esibire la sua voce da tenore. Cominciò a cantare “Figaro”, tratto dal Barbiere di Si-viglia, col petto tutto gonfio. Improvvisamente tutte le luci del laboratorio si accesero mentre gli altri prigionieri cominciavano a schiamazzare, ognuno

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nella rispettiva lingua, facendo un casino d’inferno! A momenti il guardiano avrebbe notato la nostra assenza e sarebbe uscito a cercarci. Controllammo di nuovo tutta la recinzione nella speranza che ci fosse un buco, un passaggio, o qualcosa che mi permettesse di uscire, perché io al contrario del mio complice non sarei mai riuscito a scavalcare l’altissima rete. Abbassai lo sguardo delu-so perché apparentemente non c’era via d’uscita. Feci cenno a Giotto di scap-pare in fretta, di salvarsi almeno lui… magari avrebbe potuto andare in cerca di rinforzi. Ma lui mi fece capire che non aveva assolutamente intenzione di lasciarmi lì, poi sedette a terra e indossò velocemente le scarpe. «Bau? (E ora che facciamo?).» Il mio compagno si grattò la testa sporgendo il labbro inferiore, poi strinse nelle spalle (Non ne ho davvero la più pallida idea!).