Le facce dell’apparenza

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Le facce dell’apparenza di Stani Smiraglia Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze. Oscar Wilde, Aforismi Esse est percipi (Essere è essere percepiti) George Berkeley, Trattato sui princípi della conoscenza umana Imitazione ed apparenza Come aveva intuito a suo tempo Gabriel Tarde, l’imitazione è alla base del comportamento umano e della sua storia sociale non distintamente rispetto al quadro evoluzionistico. 1 In effetti, la capacità imitativa è generalmente misconosciuta e svalorizzata perché ritenuta cognitivamente poco nobile ed elevata. Che invece essa sia una qualità evolutivamente superiore lo diceva anche Aristotele quando osservava che l’uomo è la creatura che imita di più al mondo e apprende in prima istanza attraverso l’imitazione. 2 Imitare o non imitare è un’alternativa gravida di conseguenze per la sopravvivenza. Non vi può essere dubbio che il principio “ciò che accade agli altri può accadere a me” svolga una fondamentale funzione di salvaguardia per l’individuo, per la sua salute e per la sua integrità e che apprendere non tanto e soltanto per via dell’esperienza diretta abbia assicurato straordinari vantaggi ai nostri lontani antenati; d’altra parte tutta la dinamica apprenditiva valorizza le risorse derivanti dalla cumulazione delle conoscenze e competenze umane antecedenti. 3 Ma imitare non è solo un’abilità primaria cruciale per incrementare le mere probabilità di sopravvivenza degli organismi; per quanto è relativo alla nostra specie, lo sviluppo della capacità imitativa è -con la nascita del linguaggio- il presupposto delle culture nel vivo delle loro manifestazioni storiche. Sicché, nell’ambito dei contesti locali, le culture possono essere intese come “luoghi imitativi”, espressione di tutto ciò che è stato evoluzionisticamente e storicamente compattato intorno ai comportamenti più imitati. I gruppi e le culture codificano, in coerenza con se stessi e con la loro storia evolutiva - fatta di imitazioni reciprocamente rafforzate - il sistema delle credenze e delle risposte elettive (complessi memici co-adattati). Per questa prospettiva (Dawkins 1976; 1 Tarde G., [1890], Le leggi dell'imitazione, in Id., Scritti sociologici, Utet, Torino, 1970. 2 L’arte tutta e la stessa filosofia sono concepite come espressioni del verosimile. Aristotele, Poetica, BUR, Milano, 1996. 3 Bandura A.. Influence of models’ reinforcement contingencies on the acquisition of imitative responses, Journal of Personality and Social Psychology, 1, 589-595, 1965

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Le facce dell’apparenza

di Stani Smiraglia

Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze.

Oscar Wilde, Aforismi Esse est percipi (Essere è essere percepiti)

George Berkeley, Trattato sui princípi della conoscenza umana

Imitazione ed apparenza Come aveva intuito a suo tempo Gabriel Tarde, l’imitazione è alla base del comportamento umano e della sua storia sociale non distintamente rispetto al quadro evoluzionistico.1 In effetti, la capacità imitativa è generalmente misconosciuta e svalorizzata perché ritenuta cognitivamente poco nobile ed elevata. Che invece essa sia una qualità evolutivamente superiore lo diceva anche Aristotele quando osservava che l’uomo è la creatura che imita di più al mondo e apprende in prima istanza attraverso l’imitazione.2 Imitare o non imitare è un’alternativa gravida di conseguenze per la sopravvivenza. Non vi può essere dubbio che il principio “ciò che accade agli altri può accadere a me” svolga una fondamentale funzione di salvaguardia per l’individuo, per la sua salute e per la sua integrità e che apprendere non tanto e soltanto per via dell’esperienza diretta abbia assicurato straordinari vantaggi ai nostri lontani antenati; d’altra parte tutta la dinamica apprenditiva valorizza le risorse derivanti dalla cumulazione delle conoscenze e competenze umane antecedenti.3 Ma imitare non è solo un’abilità primaria cruciale per incrementare le mere probabilità di sopravvivenza degli organismi; per quanto è relativo alla nostra specie, lo sviluppo della capacità imitativa è -con la nascita del linguaggio- il presupposto delle culture nel vivo delle loro manifestazioni storiche. Sicché, nell’ambito dei contesti locali, le culture possono essere intese come “luoghi imitativi”, espressione di tutto ciò che è stato evoluzionisticamente e storicamente compattato intorno ai comportamenti più imitati. I gruppi e le culture codificano, in coerenza con se stessi e con la loro storia evolutiva - fatta di imitazioni reciprocamente rafforzate - il sistema delle credenze e delle risposte elettive (complessi memici co-adattati). Per questa prospettiva (Dawkins 1976;

1 Tarde G., [1890], Le leggi dell'imitazione, in Id., Scritti sociologici, Utet, Torino, 1970. 2 L’arte tutta e la stessa filosofia sono concepite come espressioni del verosimile. Aristotele, Poetica, BUR, Milano, 1996. 3 Bandura A.. Influence of models’ reinforcement contingencies on the acquisition of imitative responses, Journal of Personality and Social Psychology, 1, 589-595, 1965

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Blackmore 2002), le generazioni degli individui si succedono in tali luoghi con funzioni di trasmettitori incidentali dei comportamenti influenti.4 D’altronde si nasce e si muore nell’ordine di culture specifiche che inevitabilmente ci identificano dal punto di vista identitario: una cosa è essere un contadino cinese del periodo maoista, altro è essere un soldato garibaldino oppure un uomo d’affari londinese. Dal punto di vista dei contenuti e dei modelli è altrettanto diversa cosa nascere da così diversi padri in così diverse epoche e contesti. Ovviamente non trascurando i ruoli dei partner di genere. Noi non possiamo che essere ciò che ci è consentito in qualche modo imitare anche in forma di varianti ed adattamenti derivanti dalla situazione e dal contesto. In linea con questi presupposti, la psicologia dello sviluppo ribadisce che apprendere è imitare ciò che osserviamo nel mondo – nel mondo che ci è dato – e che i bambini sono specificamente predisposti ad imparare dall’osservazione tanto che Meltzoff (1988) ha suggerito quale nome più appropriato per la specie umana quello di homo imitans5. Ma che cosa imitiamo effettivamente? Partiamo dalla notazione che si può imitare solo ciò che appare e che, imitando le apparenze, si generano ulteriori apparenze; ancor più che per i processi di replicazione del DNA (errori di copia, mutazioni), l’imitazione delle apparenze costantemente ed inevitabilmente produce una pletora di varianti che sono sottoposte al setaccio degli eventi locali. Che si tratti di cultura o biologia, copia, imitazione ed apparenza sono dunque facce di una stessa medaglia adattativa; in chiave probabilistica, possiamo riferirci ad un numero straordinariamente elevato di eventi replicativi che localmente comportano la riproduzione di specifici geni e memi: replicazione del DNA, apparenza fenotipica e riproduzione del comportamento. 6

L’apparenza come strategia evoluzionistica L’imitazione, in quanto processo di replicazione-con-varianti, è l’arma evoluzionistica originaria di cui gli organismi con il grande cervello hanno potuto disporre, premiati per questa occorrenza specifica dalla selezione naturale cumulativa. Non ci si dimentichi che, per le sue necessità di cacciatore, l’uomo si è rivelato abilissimo imitatore dei comportamenti altrui, sia dei cacciatori più abili sia delle sue stesse prede, osservatore e replicatore delle strategie in natura vincenti, abile costruttore di un fenotipo esteso capace di assommare le tecniche di sopravvivenza che tutte le altre forme viventi utilizzano nel quadro evoluzionistico; si simulano i versi degli animali, si costruiscono reti e si ordiscono inganni e strategie mutuati dalle altre specie. Infine si producono protesi per il volo, si edificano dighe e moderni “alveari”, si sintetizzano sostanze e materiali osservati in natura. L’apparenza è il mondo così come esso ci appare, lo conosciamo e reputiamo che esso così sia perché ci appare in un certo modo e perché così lo conosciamo. Dunque l’apparenza conta su una grande varietà di piani, dunque anche relativi alla persona ed alle sue manifestazioni individuali; qui l’apparenza conta moltissimo,

4 Dawkins R., [1976], Il gene egoista, Mondadori, Milano, 1992. Blackmore S. [1999], La macchina dei memi, Instar Libri, Torino, 2002. 5 Meltzoff A.N., Moore M.K., Imitation of Facial and Manual Gestures by Human Neonates, Science, 198, 75-78, 1977. 6 Dawkins R.[1982], Il fenotipo esteso. Il gene come unità di selezione, Zanichelli, Bologna, 1986. I memi sono i prodotti dell’imitazione, ma sono anche le istruzioni per replicare gli artefatti sociali e per rinforzare la tecnologia genetico-memetica: il fenotipo esteso ovvero l’ambiente naturale antropico espresso, globalmente, dal connubio tecnico-culturale.

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certamente molto di più di quanto comunemente si è soliti pensare, magari presi dal pensiero politicamente corretto (a proposito di apparenza) di coloro che affermano che invece è importante come si è dentro (il che di per sé è indicativo di una qualche forma di nascondimento). Oltretutto anche solo ipotizzare come si sia “veramente dentro” non ci può far eludere il tema dell’apparenza e degli inganni dell’osservazione-introspezione.7 Per poter solo sfiorare la questione della coscienza bisogna, dunque, partire dalle apparenze, comunque e a qualunque livello le si consideri riconoscendo che l’apparenza è ineludibile: non è né una cosa buona né una cosa cattiva. A chi capita di esistere (qualunque sia l’organismo vivente, un uomo, una rana o un pipistrello), capita di vivere nel mondo che gli appare e con questo mondo adattivo deve fare i conti con la sua personale corsa agli armamenti, rispondendo sotto sotto ad un unico imperativo evoluzionistico: replicati, sia tu gene o sia tu meme! Riferendoci alle questioni che più riguardano la nostra specie, il potere dell’apparenza si riflette comunemente nel dibattito sull’estetica ed i suoi valori, che possono essere difformemente condivisi. La significazione estetica nell’ambito delle culture sociali umane non è questione secondaria: le relazioni umane, le vicende dei popoli e delle nazioni sono segnate dal colore della pelle, dalle fogge degli abiti e delle divise, da bandiere, idoli e feticci totemici diversi atti a qualificare le diverse identità. Nella società contemporanea, ancora, l’imitazione irrompe sulla scena attraverso le mode e le passerelle degli attori, la formazione dell’opinione pubblica, il passaparola on-line, la serialità dei media o la comunicazione di modelli di consumo. L’imitazione comunque si rivela, ma non dovremmo lamentarcene e sentirci sviliti. Se pensiamo di essere superiori alle altre specie o se pensiamo che la nostra cultura sia superiore a quella di un altro gruppo sociale, dovremmo allora ringraziare l’imitazione per tutto quello che ne consegue (apprendimento, valori, credenze, ecc, che ci rappresentano). Se non pensiamo di essere diversi dalle organizzazioni genetiche e memetiche che ci sembrano “segnalare” una loro qualche diversità, allora l’imitazione non ci farà sentire inferiori e sapremo fare anche un miglior uso della conoscenza che l’imitazione ha reso disponibile. Il termine apparenza, dunque, si riferisce a ciò che appare; non a ciò che è (astrattamente) ma ciò non significa affatto che l’apparenza sia meno che reale: l’apparenza come espressione dell’indeterminazione del reale è l’unico principio di realtà su cui il grande cervello è in condizione di operare.8 Per meglio intenderci dobbiamo accogliere almeno un duplice livello di comprensione degli eventi: ciò che appare, che risulta alla mia vista, ai miei occhi, ai miei sensi (di singolo individuo e di individuo appartenente ad una determinata specie) e ciò che effettivamente è nella realtà di secondo ordine, quella prodotta dagli organismi tutti e dagli individui intervenendo sulla percezione di altri individui ed organismi al fine di trarre vantaggio dalla proprio stessa percezione del reale (dell’apparenza del reale). Indipendentemente dalle varianti che si possono osservare, l’evoluzione procede proprio attraverso la capacità degli organismi locali di regolare le apparenze nelle relazioni con gli altri organismi - della propria ed altrui specie - e di trarne vantaggio riproduttivo. La vita in tutte le sue forme (apparenze) è 7 Un chiaro riflesso, in ambito scientifico, della questione concernente la possibilità di conoscere la realtà interiore è offerta dal dibattito sui limiti del metodo osservativo che ha contrapposto la tradizione psicodinamica e quella behaviorista, specificamente ancorata alla dimostrazione sperimentale. 8 Con il Novecento, le scienze fisiche e le scienze sociali condividono ampiamente la consapevolezza del carattere costruttivistico del pensiero umano e della impossibilità di far coincidere ingenuamente pensiero e realtà.

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reale; sono le strategie che gli organismi (inclusi gli individui) adottano ad introdurre le apparenze e dunque a generare il reale. Nel mondo dei batteri, per intenderci, noi non appariamo come appariamo a noi stessi e d’altra parte noi non possiamo immaginare come il mondo dei batteri appaia loro.9 Lo sviluppo delle protesi della vista (come i microscopi) ci consente solo di prendere contatto con un ulteriore livello di realtà che è quello della realtà propria dei virus, osservata, per l’appunto, al microscopio a scansione elettronica, ma mai come essa si presenta ai virus. Un mondo che non esiste se non per noi in quanto osservatori, possiamo convenire; esattamente come avviene per la realtà di primo ordine: quella che noi consideriamo essere la realtà vera. Dunque le realtà si moltiplicano all’infinito quante sono le specie, gli spazi ed i luoghi del percepire e dell’essere percepiti, come suggerisce la più avventurosa delle branche della fisica moderna: la fisica dei quanti.10 Con tutta evidenza disquisire sulla realtà e della sua essenza profonda introduce più ambiguità ed incertezze che non parlare dell’apparenza locale. È sempre utile dunque ripartire dagli organismi. Noi siamo animali che utilizzano essenzialmente la vista per assumere informazioni sul mondo. Udito, tatto, olfatto e gusto contribuiscono in misura molto limitata alla costruzione della rappresentazione del mondo, poiché disponiamo di una specializzazione sensoriale: la vista. Se noi disponessimo di un diverso contributo cumulativo sensoriale il mondo apparirebbe realmente diverso. Così come avviene, in forma prossima a noi, nei mondi di organismi forti di altre specializzazioni: i serpenti, ad esempio, utilizzano il gusto: la lingua è il loro strumento di conoscenza prioritario, per cui il massimo dell’informazione sensoriale uscirà attraverso quel canale. Un pipistrello non userà affatto la vista, utilizzerà le informazioni di ritorno che gli provengono dalle vibrazioni che emette. Dei batteri e delle loro percezioni sappiamo ancor meno, ma è certo che il mondo in cui apparentemente vivono ha ben poco a che spartire con quella che noi definiamo comunemente ed assiomaticamente realtà. L’apparenza non è dunque una pura estetica, ma è l’ordine dei mondi possibili in cui si gioca la battaglia connessa alla selezione naturale cumulativa e in questa logica l’apparenza è primariamente il criterio decisore di eventi biologicamente cruciali quali la scelta della porzione di mondo in cui giocarsi tale battaglia (ovvero con quali organismi condividere processi di cooperazione e competizione) e quali regole impegnare per la replicazione del dna: le forme della seduzione, gli indicatori della dominanza finalizzati alla scelta del partner “migliore” e, dunque, alla riproduzione. Il principio fondamentale della vita è la replicazione e la riproduzione ed il ruolo principale all’interno dei processi evolutivi è derivante dall’errore e dalle strategie alternative, espresse da varianti che conseguono all’apparenza di ciò che viene imitato: tutti gli esseri viventi sono copie con varianti. A livello locale le variazioni possono sembrare insignificanti; scegliere un abito piuttosto che un altro, un colore o un taglio di capelli piuttosto che un altro può sembrare marginale, invece a livello globale questi piccoli cambiamenti vogliono dire riprodurre con varianti. In questa prospettiva, anche le piccole varianti possono essere alla base di mutazioni considerevoli. Dal momento che agiamo in una realtà che non può che apparirci come ci appare, non abbiamo altra possibilità che regolare e manipolare le apparenze. Gli individui, in quanto organismi, regolano e manipolano l’apparenza di sé per la semplice ragione che sono prigionieri dell’apparenza del mondo. Questo assioma di base prescinde da qualunque 9 È questo, in sostanza, il problema posto da Thomas Nagel in un suo famoso saggio: del 1974 Che effetto fa essere un pipistrello? pubblicato anche in Questioni mortali [1979], Il Saggiatore, Milano, 1986 10 Bruce C., I conigli di Schrödinger, fisica quantistica e universi paralleli, Cortina Editore, 2004

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disputa intorno alla sincerità delle persone, all’eventuale malevolenza delle intenzioni o della stessa consistenza della realtà.

Le strategie dell’apparenza Modificare l’apparenza è strategia fondamentale per la sopravvivenza perché incrementa localmente la variabilità delle caratteristiche fenotipiche. È la strategia del camaleonte.11 Il camaleonte interpreta l’ambiente adattandosi epidermicamente alle diverse sfumature cromatiche ambientali: egli non si offre come un unico organismo alla selezione naturale. Egli è una pluralità di individui, sicché il ventaglio delle diverse apparenze fonda la pluralità dei mondi possibili. Ma anche questa strategia è solo una di quelle possibili sperimentate nel corso dell’evoluzione dagli organismi. Altra strategia incentrata peculiarmente sull’apparenza è l’esibizione. L’esibizione, in quanto sfoggio dell’apparenza, è presente in tutte le culture, con la manifestazione di caratteristiche sgargianti – comunque tali da segnalare un fattore di distintività – che sono valorizzate perché ad esse è tendenzialmente e culturalmente attribuito un qualche vantaggio competitivo. Si possono esibire tratti fisici, monili e abbigliamento, simboli di status, comportamenti ed opinioni. L’esibizione è etologicamente finalizzata al vantaggio competitivo, ma – possiamo notare – nulla è assolutamente ed indefinitamente vantaggioso solo per il fatto di esserlo. Se, ad esempio, la grande coda del pavone gli assicura un indiscutibile primato sessuale nel confronto tra maschi è anche vero che questo ingombrante tratto fenotipico può renderlo più facile preda dei suoi cacciatori e nemici. L’esibizione è una propensione trasversale, peculiare di tutto il mondo animale e vegetale e, nelle diverse espressioni, tratto apparente di ogni cultura sociale. L’apparenza sgargiante del fiore evidenzia la specifica funzione di segnale attrattore dei cromatismi nei confronti dell’insetto che – di fiore in fiore – viene impollinato diventando il veicolo conduttore del materiale genetico tra i diversi esemplari della pianta esibizionista. Nel quadro dell’esibizione si possono cogliere più articolazioni. L’eccentricità e la provocazione, ad esempio, sono modalità variate con cui un individuo agisce per attirare l’attenzione; ciò che in termini locali è una moda o una perdita di buon gusto, in termini globali e generali è semplicemente una delle tante varianti in cui si genera interesse, seduzione, fascinazione, attrazione. Vestirsi diversamente vuol dire non volersi uniformare, voler emergere, ma emergere da qualcosa, emergere dal proprio gruppo, in ogni caso. Ma come vedremo, approfondendo in seguito le implicazioni della moda rispetto ai processi di imitazione e innovazione, essere diversi è una strategia assai comune. È per questo che il mimetismo, la tecnica del passare inosservati, è il complemento dell’esibizionismo non il suo opposto. Affermazione di appartenenza per omologazione o per dissociazione, ma comunque un presupposto comune: l’apparenza. Possono esserci delle circostanze in cui è più opportuno “essere nella massa”: la conformità è un comportamento localmente determinato che corrisponde ad istanze globali di mimetizzazione dell’ambiente. Il confondersi ha una funzione essenziale a livello globale: quella di non soccombere. Si ricordi l’esempio dei rischi associati alla strategia del pavone e si pensi alle strategie di branco delle specie sottoposte al tributo di predazione: gazzelle e pecore sono buoni esempi di individui che tendono invece a confondersi tra e 11 Bouvet J.F., La strategia del camaleonte. La simulazione del mondo vivente, Raffaello Cortina, Milano 2001

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con gli altri. Nessuna strategia è in sé vincente, ciò che conta è la variazione dei modi e dei tratti. L’esibizione è una delle tante varianti con cui si manifesta evoluzionisticamente l’apparenza. Ovviamente, proprio perché altamente imitativi, gli essere umani possono trarre vantaggio da un’elevata capacità di intervenire sull’apparenza, adattando le strategie al contesto. Il concetto di identità fa specificamente riferimento ad una dinamica psicosociale per la quale – attraverso l’apparenza – si sceglie di dichiarare che cosa si imita e che cosa si tende a riprodurre: l’identificazione è un modo per sentirsi parte di un gruppo e un modo per dare continuità all’esperienza di sé. Per quanto attiene al primo punto, la conformità nasce dal bisogno etologico di essere nel gruppo e ricavarne –comprensibilmente- vantaggi basilari: in epoche passate – ancor più che oggi - non si sopravviveva al di fuori del proprio gruppo e conformarsi era l’unico modo per sopravvivere. Ma alcuni errori di copia possono aver gradualmente portato a valorizzare i vantaggi della diversità. Abbiamo già detto che nessuna strategia è in sé assolutamente ed indefinitivamente vincente e, dunque, anche la conformità – che è alla base della forza sociale umana – presenta dei limiti progressivamente evidenti. Si considerino ad esempio mutamenti di strategia ed evoluzione delle tecniche di guerra. Ancora al tempo delle battaglie napoleoniche la strategia dell’esibizione delle divise e l’uniformità dei gesti erano rituali bellici indiscussi. Ostentare negli abiti e nell’atteggiamento la propria superiorità nonché la propria indifferenza nei confronti della morte, era a tutti gli effetti considerato un abile stratagemma. Con il tempo e lo sviluppo tecnologico, la guerra è diventata talmente distruttiva che è stato necessario cambiare strategia, mettere da parte l’esibizionismo e privilegiare altre tattiche, non ultima il mimetismo, evidente nelle stesso abbigliamento dei soldati odierni. Le guerre della contemporaneità (quelle dei kamikaze ad esempio) sono guerre in cui il mimetismo agisce psicologicamente oltre che materialmente in modo ancora più profondo e devastante.