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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – IL CORSARO EDITORE 1 Saverio Mauro Tassi LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO L’orizzonte contemporaneo: da metà '700 alla fine del '900 IL CORSARO editore

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Saverio Mauro Tassi

LE(DIS)AVVENTURE

DELPENSIERO

FILOSO/SCIENTI-FICO

L’orizzonte contemporaneo: da metà '700 alla fine del '900

IL CORSAROeditore

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BUSSOLA

SCOPERTA - LA REALTA’ COME COSTRUZIONE DELLA RAGIONE

Cannocchiale su…L’orizzonte storico-culturale 1789-1830 p. 7

MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA: CHE COS’E’ L’ILLUMINISMO? p. 12

VIAGGIO I: LA COSTRUZIONE RAZIONALE DELLA REALTA’ UMANA

ROTTA A: IL CRITICISMO, O RAZIONALISMO CRITICO p. 14VITA DI UN CAPITANO: IMMANUEL KANT p. 15TAPPA 1 – Kant: La “rivoluzione copernicana” p. 18TAPPA 2 – Kant: La conoscenza sensibileTAPPA 3 – Kant: La conoscenza razionale dell’Intelletto p. 26TAPPA 4 – Kant: L’io penso o autocoscienza trascendentale p. 31TAPPA 5 – Kant: La cosa per noi e la cosa per in sé p. 36TAPPA 6 – Kant: La conoscenza razionale della ragione p. 40TAPPA 7 – Kant: La confutazione della metafisica p. 44TAPPA 8 – Kant: La ragione pratica e la legge morale p. 50TAPPA 9 – Kant: La virtù, la santità e il male radicale p. 55TAPPA 10 – Kant: La libertà, l’immortalità e l’esistenza di Dio p. 59TAPPA 11 – Kant: La ragione sentimentale e il giudizio riflettente p. 64TAPPA 12 – Kant: Il giudizio estetico del bello p. 67TAPPA 13 – Kant: Il giudizio estetico del sublime p. 70TAPPA 14 – Kant: Il giudizio teleologico p. 73TAPPA 15 – Kant: La teoria politica e la filosofia della storia p. 77TAPPA 16 – Kant: La religione morale e la chiesa invisibile p. 81

VIAGGIO II: LA COSTRUZIONE RAZIONALE DI TUTTA LA REALTA’

ROTTA A: IL ROMANTICISMO TEDESCO p. 84TAPPA 1 – Schiller: La pedagogia della bellezza p. 84TAPPA 2 – Schlegel: La “buffoneria trascendentale” p. 86TAPPA 3 – Novalis: L’ “idealismo magico” p. 88

ROTTA B: L’IDEALISMO ASINTOTICO p. 90VITA DI UN CAPITANO: GOTTLIEB FICHTE p. 90VITA DI UN CAPITANO: FRIEDRICH SCHELLING p. 91TAPPA 1 – Fichte: L’idealismo critico p. 92TAPPA 2 – Fichte: L’attività conoscitiva p. 95TAPPA 3 – Fichte: L’attività pratico-morale p. 98TAPPA 5 – Schelling: La “fisica speculativa” p. 101TAPPA 6 – Schelling: La filosofia dell’arte p. 104

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ROTTA C: L’IDEALISMO ASSOLUTO p. 106VITA DI UN CAPITANO: GEORG HEGEL p. 106TAPPA 1 - Hegel: L’autocostruzione dialettica della realtà p. 109TAPPA 2 - Hegel: La logica come scienza dell’Idea pura p. 112TAPPA 3 - Hegel: La natura come alienazione dell’Idea p. 115TAPPA 4 - Hegel: L’emergere dello spirito come coscienza p. 118TAPPA 5 - Hegel: La dialettica dell’autocoscienza p. 121TAPPA 6 - Hegel: La coscienza infelice p. 123TAPPA 7 – Hegel: La ragione attiva p. 125TAPPA 8 - Hegel: Lo spirito oggettivo p. 128TAPPA 9 - Hegel: Famiglia, società civile, stato p. 130TAPPA 10 - Hegel: La filosofia della storia p. 132TAPPA 11 – Hegel: La conquista dell’assoluto p. 135

VIAGGIO III - LA LIBERAZIONE DAGLI INGANNI DELLA RAZIONALITA’ p. 138 Cannocchiale su… L’orizzonte storico-culturale 1831-1873 p. 138 ROTTA A: L’IDEALISMO NEGATIVO p. 145 VITA DI UN CAPITANO: ARTHUR SCHOPENHAUER p. 145 TAPPA 1 - Schopenhauer: L’illusione conoscitiva p. 147 TAPPA 2 - Schopenhauer: Il proprio corpo come volontà p. 149 TAPPA 3 - Schopenhauer: La verità dell’arte p. 151 TAPPA 4 - Schopenhauer: La vita umana come sofferenza p. 154TAPPA 5 - Schopenhauer: La via della liberazione dal dolore p. 156 ROTTA B: IL CRISTIANESIMO COME FILOSOFIA DELL’ESISTENZA p. 158 VITA DI UN CAPITANO: SØREN KIERKEGAARD p. 158 TAPPA 1 - Kierkegaard: Le forme possibili dell’esistenza p. 160 TAPPA 2 - Kierkegaard: L’angoscia come vertigine della libertà p. 163 TAPPA 3 - Kierkegaard: La disperazione come malattia mortale p. 166

VIAGGIO IV - LA RAZIONALITA’ SCIENTIFICA COME MOTOREDEL PROGRESSO STORICO-SOCIALE p. 169

Cannocchiale su…L’orizzonte scientifico dell’Ottocento p. 169

ROTTA A: IL POSITIVISMO SOCIALE p. 174VITA DI UN CAPITANO: AUGUSTE COMTE p. 174TAPPA 1 – Comte: Il sistema delle scienze p. 176TAPPA 2 – Comte: La sociologia o fisica sociale p. 179TAPPA 3 – Comte: lo Stato sociocratico e la chiesa positiva p. 183

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ROTTA B: IL POSITIVISMO ATEO p. 185VITA DI UN CAPITANO: LUDWIG FEUERBACH p. 185TAPPA 1 – Feuerbach: L’alienazione religiosa p. 186

ROTTA C: IL POSITIVISMO RIVOLUZIONARIO p. 189VITA DI UN CAPITANO: KARL MARX p. 189TAPPA 1 – Marx: L’alienazione dell’operaio p. 191TAPPA 2 – Marx: Il materialismo storico p. 194TAPPA 3 – Marx: La lotta di classe, lo Stato socialista e il comunismo p. 197

ROTTA D: IL POSITIVISMO LIBERALE p. 200VITA DI UN CAPITANO: JOHN STUART MILL p. 200TAPPA 1 – Mill: Utilitarismo qualitativo e Stato liberal-democratico p. 202

ROTTA E: IL POSITIVISMO EVOLUZIONISTICO p. 205VITA DI UN CAPITANO: HERBERT SPENCER p. 205TAPPA 1 – Spencer: La legge dell’evoluzione cosmica p. 207

SCOPERTA: LA REALTA’ COME CAOS INDETERMINABILE

Cannocchiale su…L’orizzonte storico-culturale 1873-1913 p. 212

MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA: La morte di Dio p. 219

VIAGGIO I: LA VITA COME GIOCO DELLA VOLONTA’ DI POTENZA p. 221

ROTTA A: LA “FILOSOFIA DEL MARTELLO” p. 221VITA DI UN CAPITANO: FRIEDRICH NIETZSCHE p. 221 TAPPA 1 - Nietzsche: Apollineo e dionisiaco p. 227 TAPPA 2 – Nietzsche: La critica della tradizione metafisica p. 230 TAPPA 3 – Nietzsche: La genesi storica della morale p. 233 TAPPA 4 - Nietzsche: La morte di Dio p. 236 TAPPA 5 - Nietzsche: L’annuncio del superuomo p. 239 TAPPA 6 - Nietzsche: La volontà di potenza p. 242 TAPPA 7 - Nietzsche: La teoria dell’eterno ritorno p. 245 VIAGGIO II – LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA CONTEMPORANEA p. 248

ROTTA A - LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA IN PSICOLOGIA p. 248VITA DI UN CAPITANO: SIGMUND FREUD p. 248TAPPA 1 - Freud: Es, Io e Super-io p. 252TAPPA 2 - Freud: L’evoluzione della sessualità umana p. 255TAPPA 3 - Freud: La terapia psicanalitica p. 259TAPPA 4 - Freud: Pulsione di vita e pulsione di morte p. 264TAPPA 5 – Freud: il Super-io della civiltà p. 267

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ROTTA B – LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA IN FISICA p. 270VITE DI CAPITANI: EINSTEIN, PLANCK, BOHR, DE BROGLIE,HEISENBERG, DIRAC, SCHROEDINGER, BORN, PAULI, FEYNMAN, BELL p. 270TAPPA 1 – Einstein: La relatività ristretta o speciale p. 276TAPPA 2 – Einstein: La teoria della relatività allargata o generale p. 282TAPPA 3 – AA.VV.: La teoria dei quanti p. 288

VIAGGIO III – LA FILOSOFIA DELLA SCIENZA POST-RIVOLUZIONARIA p. 295

Canocchiale su…L’orizzonte storico-culturale 1914-1945 p. 295

ROTTA A – IL NEOPOSITIVISMO p. 306VITE DI CAPITANI: SCHLICK, CARNAP, NEURATH, HAHN,REICHENBACH, POPPER p. 307TAPPA 1 –Il principio di verificabilità p. 308

ROTTA B – IL FALSIFICAZIONISMO O RAZIONALISMO CRITICO p. 310VITA DI UN CAPITANO: KARL RAIMUND POPPER p. 310TAPPA 1 – Popper: Il principio di falsificabilità p. 311TAPPA 2 – Popper: Il principio di verosimiglianza p. 313

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SCOPERTA

LA REALTA’ COME COSTRUZIONE DELLA RAGIONE

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CANNOCCHIALE SU…L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE 1789-1830

Rivoluzione industriale inglese e rivoluzione politica franceseLa fine del ‘700 fu caratterizzata da due grandi eventi, entrambi verificatisi nell’areaatlantico-occidentale europea, che trasformarono in profondità la civiltà occidentale edeterminarono le linee direttrici dell’evoluzione storica mondiale del XIX secolo:• la rivoluzione industriale sviluppatasi in Inghilterra a partire dall’inizio del ‘700 ma

realizzatasi pienamente nel ventennio 1783-1802, nel periodo cioè del cosiddetto takeoff (decollo), che segnò l’affermazione definitiva e più radicale del sistema economicocapitalistico;

• la rivoluzione politica avviatasi in Francia nel 1789 e conclusasi nel 1804 con laproclamazione dell’impero di Francia da parte di Napoleone Buonaparte.

L’industrializzazione dell’EuropaUna volta affermatosi in Inghilterra, il nuovo sistema capitalistico-industriale di fabbrica(factory system) diventò il modello da seguire per tutte le forze economiche avanzate einnovative presenti nel mondo occidentale. Per gli imprenditori si trattava, da un lato, diuna scelta intenzionale suscitata dall’aspettativa di alti profitti e, dall’altro, di una sceltaobbligata per non essere schiacciati dalla concorrenza dei prodotti inglesi.Tuttavia, a causa dei diffusi tradizionalismi, l’industrializzazione si diffuse lentamente e inmodo fortemente disomogeneo sia relativamente all’intero continente europeo siaall’interno di ognuno dei suoi Stati. Il primo paese a seguire l’esempio inglese fu il Belgio;subito dopo fu la volta di Francia, Olanda e Svizzera.A fronte dell’enorme aumento della produzione, e quindi della ricchezza globale, larivoluzione industriale ebbe, soprattutto nell’immediato, altissimi costi sociali. I primioperai, oltretutto in gran parte donne e bambini, erano costretti a lavorare fino a 12 ore algiorno, in condizioni ambientali dannose per la salute, con salari ai livelli dellasopravvivenza. Essi inoltre vivevano in quartieri periferici fatiscenti, in case prive di serviziigienici, in una condizione materiale e morale di forte abbrutimento.

Crescita demografica e nuova stratificazione socialeNel corso di questo periodo la popolazione europea passò da circa 180 a circa 230 milionidi abitanti: un aumento percentuale e in cifra assoluta mai prima registrato e soprattuttoirreversibile, che si accompagnò all’inizio dell’aumento della durata media della vita, chesarebbe passata dai 30-35 dell’inizio secolo ai 40-45 alla sua metà.La crescita demografica fu il risultato del miglioramento delle condizioni di vita esoprattutto dei progressi medici – per ora soprattutto la vaccinazione antivaiolo scopertanel 1796 da Jenner - che ridussero la mortalità, in particolare quella infantile. Essa fu, asua volta, un fattore di spinta allo sviluppo economico, in quanto fu condizione di basedell’ampia disponibilità, e quindi del basso costo, della forza-lavoro e al tempo stessocontribuì ad allargare il mercato dei beni agricoli e industriali.L’aumento della popolazione si intrecciò con i primi ampi processi di emigrazione e dimobilità sociale suscitati dalla diffusione del capitalismo nelle campagne edall’industrializzazione urbana. I flussi migratori si svolsero sia all’interno di ogni paese, inparticolare di quelli più industrializzati, con il passaggio di quote sempre più ampie dellapopolazione dalle campagne alle città; sia tra diversi paesi, soprattutto verso i nuovicontinenti d’oltremare: Americhe e Australia.Contemporaneamente si accelerò il cambiamento della composizione sociale dellapopolazione: le classi tradizionali - contadini e nobiltà - persero consistenza numerica e

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peso economico e politico a favore delle nuove classi della borghesia, del proletariatoagricolo (braccianti) e industriale (operai) e della piccola borghesia o classe media.

Le rivoluzioni atlanticheSe l’Inghilterra, che aveva già abbattuto l’assolutismo monarchico nel corso del XVIIsecolo, tra fine ‘700 e primo ‘800 fu teatro di una rivoluzione economico-sociale, inFrancia - dove la maggiore forza dell’assolutismo e dell’ancien régime avevano impedito erallentato lo sviluppo economico – si svolse invece la grande rivoluzione politicacominciata nel 1789.Più visibile e almeno apparentemente più violenta e radicale della rivoluzione industriale,la rivoluzione francese fu l’evento storico che segnò la nuova generazione di intellettualieuropei che si formò culturalmente negli stessi anni. Essa aveva il suo precedente e il suomodello nella rivoluzione indipendentistica nordamericana nel 1776. A sua volta, diedel’avvio a un ciclo rivoluzionario che si esaurì solo a metà dell’800 e che ebbe i suoi epicentrisia in Europa sia in America del Sud: in Europa nei moti del 1820 e del 1830 e nellerivoluzioni del 1848; in Sudamerica nelle rivoluzioni indipendentistiche che si svolsero inpiù fasi a partire dal 1808 fino alla metà degli anni ‘20 e che ebbero successo anche grazieall’appoggio degli USA.Il regime imperiale di Napoleone Bonaparte, nato sulle ceneri della rivoluzione dell’89, nepropagò l’onda rivoluzionaria, in quanto da un lato consolidò all’interno della Franciaalmeno alcune conquiste rivoluzionarie fondamentali, dall’altro le estese ai vasti territoridell’Europa continentale assoggettati dalle armate napoleoniche. In questo modo in tuttaEuropa i più retrivi vincoli feudali furono aboliti e si avviò un processo di modernizzazioneeconomica e giuridica, che - una volta terminate le guerre - favorì da un lato l’avviodell’industrializzazione e dall’altro la ripresa dei movimenti rivoluzionari. L’imperialismonapoleonico, inoltre, stimolò per reazione la formazione di una nuova coscienza nazionalee la nascita di movimenti indipendentistici in tutti i paesi europei, preparando in tal modola nuova fase delle rivoluzioni atlantiche caratterizzata dalla fusione degli ideali liberali edi quelli nazionalistici.Il nuovo assetto geopolitico europeo stabilito al Congresso di Vienna e la costituzione dellaSanta Alleanza riuscirono a ristabilire l’ancien régime solo a livello politico-istituzionale esolo temporaneamente. La cosiddetta età della restaurazione fu pertanto solo un sottociclodi contenimento momentaneo del processo rivoluzionario che sconfitto nel nuovo sussultodel 1820 manderà in frantumi il nuovo ordine assolutistico con la nuova, vittoriosarivoluzione francese del 1830.

La trasformazione del mondo culturaleLa rivoluzione industriale modificò radicalmente la sfera della produzione e della fruizioneculturale. In primo luogo, l’industrializzazione tecnica, gestionale e commercialedell’editoria unita all’aumento della popolazione alfabetizzata diede avvio alla “rivoluzionedel libro”, cioè all’abbassamento dei costi e alla diffusione di massa dei giornali, delleriviste e soprattutto dei libri. In secondo luogo, nacque e si affermò la tendenza a estenderee a riformare le istituzioni scolastiche per renderle adeguate alle esigenze dello sviluppoindustriale. I modelli di tale tendenza furono da un lato l’Ecole polytechnique fondata inFrancia nel 1795 e dall’altro la riforma dell’Università di Berlino nel 1810 ad opera diHumboldt. In entrambi i casi, si valorizzarono il nuovo sapere matematico-scientifico e lasua applicazione tecnica. In terzo luogo, la convergenza di questi due processi innescò laprogressiva laicizzazione e borghesizzazione del ceto intellettuale: mentre prima lamaggior parte degli intellettuali (insegnanti, giornalisti, scrittori, poeti, scienziati, artisti)faceva parte del clero o dell’aristocrazia ora è di estrazione soprattutto medio e piccoloborghese. In questo modo a una concezione dell’intelligenza come dote innata delle classi

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superiore si sostituisce quella dell’intelligenza come merito e talento proprio di unindividuo indipendentemente dalla sua nascita. Su questa base, inoltre, la cultura diventaper il piccolo borghese uno strumento di ascesa economico-sociale.

Lo sviluppo delle scienzeAnche se una piena integrazione tra scienza, tecnica e industria si realizzò solo alla finedell’800, già a partire dall’inizio del secolo il progresso tecnico e scientifico fece un salto diqualità grazie al rapporto di interazione con lo sviluppo industriale: da un lato l’industriapiù cresceva più aveva bisogno di fondare i processi produttivi su solide basi teoriche e dirinnovare continuamente la propria tecnologia, dando in questo modo impulso alla ricercascientifica; dall’altro quest’ultima si estendeva e si approfondiva utilizzando i nuovistrumenti di ricerca e sperimentazione messi a disposizione dallo sviluppo tecnicodell’industria.Emblematica, da questo punto di vista, l’istituzione per iniziativa dello scienziato-imprenditore tedesco Liebig del primo laboratorio di chimica, nel quale fu utilizzato ilcosiddetto “sistema di Giessen”, cioè il primo metodo di collaborazione collettiva applicataalla ricerca scientifica, destinato a diffondersi in breve in tutti i paesi scientificamenteavanzati.Grazie anche a questo nuovo rapporto tra industria e scienza, il paradigma materialistico-meccanicistico - elaborato nel ‘600 da Galilei e Newton e rafforzato nel ‘700 dai filosofi edagli scienziati illuministi – toccò il suo apogeo. Esso infatti trovò nuove clamoroseconferme nell’avanzare della ricerca fisico-meccanica e contemporaneamente travalicòl’ambito della fisica meccanica dando origine a nuove discipline scientifiche specialistichequali la chimica e l’elettrodinamica. In astrofisica, Laplace perfezionò la teoria newtonianae in base ad essa nel 1796 elaborò una teoria meccanicistica dell’origine e della formazionedel sistema solare, giungendo poi a sostenere la possibilità di principio di determinareesattamente tutta la catena degli eventi dell’universo sia nella direzione del passato sia inquella del futuro. In campo chimico, il settore d’avanguardia della ricerca scientificanell’800, di fondamentale importanza furono le prime conferme sperimentali dellastruttura atomica della materia, dovute a Proust, Dalton e Avogadro.Contemporaneamente, grazie a Galvani, Volta, Ampère e Faraday, furono scoperte leproprietà e le leggi dell’energia elettrica e, poco dopo, fu teorizzata e realizzata l’induzioneelettro-magnetica che avrebbe portato in seguito all’invenzione della dinamo.

Il romanticismoIl movimento culturale che diede la sua impronta al passaggio dal ‘700 all’800 fu ilromanticismo. Esso nacque alla fine del ‘700 in aperta polemica con la cultura illuminista,ormai associata all’imperialismo napoleonico, e in stretto collegamento con le istanze diindipendenza nazionali degli altri paesi europei, in particolare della Germania. Mentrel’illuminismo aveva prodotto una cultura del finito, il romanticismo elaboròprogrammaticamente una cultura dell’infinito. L’intellettuale romantico credeva infatti chela realtà nascondesse nelle sue profondità un principio unitario assoluto e infinito econcepiva vita come uno sforzo incessante (streben) per scoprire e raggiungere taleprincipio. Ma l’infinito per sua natura non è né dato oggettivamente ai sensi nérazionalmente determinabile. Pertanto il romanticismo contrappose alla ragione empiristadegli illuministi la ragione speculativa, l’intuizione artistica e la fede; al comportamentolucido e razionale il coinvolgimento passionale; alla scienza la metafisica; all’enfatizzazionedel progresso futuro la valorizzazione del passato storico in tutte le sue epoche; alla criticadella tradizione la sua riabilitazione mediata da una sua reintepretazione attuale einnovativa. Ma, nonostante il ricorso a strumenti conoscitivi alternativi alla razionalitàempirica, i romantici consideravano il rapporto con l’infinito costitutivamente

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problematico. L’infinito era comunque per loro qualcosa di sfuggente e l’unica autenticarelazione con esso era individuata nella cosiddetta Sehnsucht, cioè in un desideraresofferto e ossessivo perché mai soddisfatto e intrinsecamente irrealizzabile. In questosenso il comune denominatore del romanticismo è una sensibilità soggettiva esasperata eirrequieta in continua oscillazione tra raggiungimento e perdita dell’infinito. Taleoscillazione è la ragione e la matrice del carattere intrinsecamente ambiguo, se noncontraddittorio, della cultura romantica che si manifestò nell’esaltazione e nelladegradazione dell’uomo, nella solarità e nella tenebrosità, nel solipsismo e nelcollettivismo, nel nazionalismo rivoluzionario e nel nazionalismo conservatore oaddirittura reazionario, nell’elaborazione di nuove forme, panteistiche ed eretiche, direligiosità e nella esaltazione del cristianesimo tradizionalistico.In ambito letterario, gli atti di nascita del romanticismo furono la fondazione nel 1798 dellarivista Athenaeum in Germania per iniziativa del cosiddetto “circolo di Jena” e lacontemporanea pubblicazione in Inghilterra delle Lyrical Ballads di Wordsworth eColeridge. La produzione romantica di romanzi e drammi si articolò in vari filoni: quellostorico-nazionale, con Scott (Ivanhoe, 1820), Hugo (Cromwell, 1827), Manzoni (Adelchi,1822; I promessi sposi, 1827); quello del Bildungsroman, cioè romanzo di formazione, conNovalis (I discepoli di Sais, 1798; Heinrich von Ofterdingen,1799-1801) e Hölderlin(Iperione o l’eremita in Grecia, 1797-99); quello gotico, basato su storie fantastiche,misteriose e truculente, con Walpole (Il castello di Otranto, 1764), Scott (La sposa diLammermoor, 1818), Hugo (Notre-Dame de Paris, 1831) e M. Shelley (Frankestein ovveroil moderno Prometeo, 1818); quello amoroso-sentimentale con Laclos (Le relazionipericolose, 1782), Bernardine de Saint-Pierre (Paolo e Virginia, 1787), Kleist (Penthesilea,1808). Ugualmente vasta fu la produzione poetica romantica, legata, oltre ai già citatiWordsworth e Coleridge, agli inglesi Blake, P.B. Shelley, Keats, agli italiani Foscolo,Manzoni e soprattutto Leopardi, ai tedeschi Novalis e Hölderlin, al francese Hugo. Un casoa parte è rappresentato dal poeta inglese Byron, forse il romantico più famoso, il quale conla sua opera e soprattutto la sua vita vagabonda, irrequieta e avventurosa assurse aprototipo del romantico stesso, tanto che byronismo diventò sinonimo di romanticismo.Nella pittura, il romanticismo emerse come alternativa al neoclassicismo, in nomedell’esigenza di rappresentazione dell’infinito, che si poneva in aperta contraddizione siacon i canoni classici della misura e della simmetria sia con la poetica realisticadell’imitazione della natura. In questo senso i pittori romantici preferirono al “bello” il“sublime”, così come teorizzato da Kant, cioè privilegiarono l’immenso, lo sproporzionato,l’abnorme, il catastrofico, e concepirono la rappresentazione come visione soggettivistica equindi trasfigurazione della realtà. Per quanto riguarda i soggetti, i pittori romanticiseguirono le orme dei romanzieri e dei poeti. Alcuni - come Constable, Turner, Friedrich(Viandante sul mare di nebbia, 1818), Michel - privilegiarono i paesaggi naturali; altri -come il David di La morte di Marat (1793), Goya (Le fucilazioni, 1814), Géricault (Lazattera della Medusa, 1818), Delacroix (La libertà guida il popolo, 1830) la realtà storica;altri ancora – come Füssli (L’incubo, 1871), Blake (Pietà, 1795), Goya (Fantastica visione,1819) - il gotico, il fantastico, il misterioso o l’esotico.Anche in musica il romanticismo si manifesta nel soggettivismo e nel superamento dellatradizione classica attraverso l’introduzione di forme libere come il notturno, il preludio, laballata, oppure nella nuova interpretazione di forme canoniche quali il melodrammaitaliano (Bellini, Donizetti) e il Lied tedesco (Schumann). In particolare nella musicastrumentale il romanticismo si esprime in una tendenza descrittiva o a programma che dàluogo alla sinfonia programmatica o al poema sinfonico (Beethoven, Weber).Tutte queste manifestazioni artistico-culturali del romanticismo hanno in comune il rifiutodella nuova concezione scientifica materialistico-meccanicistica della natura cui

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contrappongono una visione della natura come un’entità organica, vitale, autorganizzata eautodiretta, fino a giungere alla sua identificazione panteistica con l’infinito divino.

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Messaggio nella bottiglia

L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che eglideve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi delproprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessoè questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto diintelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di faruso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapereaude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E'questo il motto dell'illuminismo.La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini,dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzioneestranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimenovolentieri per l'intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altrierigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se io houn libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che hacoscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regimeche mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero dime. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri siassumeranno per me questa noiosa occupazione. A persuadere lagrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) cheil passaggio allo stato di maggiorità è difficile e anche pericoloso,provvedono già quei tutori che si sono assunti con tantabenevolenza l'alta sorveglianza sopra i loro simili minorenni.Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animalidomestici e avere con ogni cura impedito che queste pacifichecreature osassero muovere un passo fuori della carrozzella dabambini in cui li hanno imprigionati, in un secondo tempomostrano ad essi il pericolo che li minaccia qualora cercassero dicamminare da soli. Ora questo pericolo non è poi così grande comeloro si fa credere, poiché, a prezzo di qualche caduta, essiimparerebbero finalmente a camminare: ma un esempio di questogenere li rende paurosi e li distoglie per lo più da ogni ulterioretentativo.E' dunque difficile per ogni singolo uomo lavorare per uscire dallaminorità, che è diventata per lui una seconda natura. Egli è perfinoarrivato ad amarla e per il momento è realmente incapace divalersi del suo proprio intelletto, non avendolo mai messo allaprova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di usorazionale, o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali,sono i ceppi di una eterna minorità. Anche chi riuscisse asciogliersi da esse, non farebbe che un salto malsicuro sia pure

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sopra i più angusti fossati, poiché egli non avrebbe l'abitudine asiffatti liberi movimenti. Quindi solo a pochi è capitato conl'educazione del proprio spirito di sciogliersi dalla minorità ecamminare poi con passo più sicuro.Al contrario, che un pubblico si illumini da sé è ben possibile e, segli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. Poiché in tal caso sitroveranno sempre tra i tutori ufficiali della gran folla alcuni liberipensatori che, dopo aver scosso da sé il giogo della tutela,diffonderanno intorno il sentimento della stima razionale delproprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé. [...]

Immanuel Kant, Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo?,in Scritti politici, Utet 1956

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VIAGGIOLA COSTRUZIONE RAZIONALE DELLA REALTA’ UMANA

ROTTAIL CRITICISMO, O RAZIONALISMO CRITICOLa filosofia di Immanuel Kant rappresenta il culmine della cultura illuministica e, al tempostesso, il suo oltrepassamento. Per la profondità, la vastità e l’originalità del suo pensiero,infatti, Kant è uno dei grandi della storia del pensiero, ovvero un filosofo della svolta, uno diquei filosofi capaci di sintetizzare e portare a compimento l’elaborazione culturale di un’epocaintera e, in tal modo, di aprire un nuovo orizzonte alla ricerca filosofica e scientifica.Il Criticismo, o Razionalismo critico – queste le denominazioni tradizionali del pensierokantiano -, affonda le sue radici nella rivoluzione scientifica moderna, di cui l’Illuminismo siera fatto interprete, potenziatore e divulgatore, e nella pratica scientifica che da essa si erasviluppata. Kant estrae e distilla l’essenza filosofica della scienza moderna delineando unanuova immagine della ragione quale fondamento unico, benché limitato, della veritàconoscitiva, del bene morale e della bellezza naturale e artistica. In questo modo Kant attua untriplice ribaltamento del rapporto tradizionale tra principi assoluti e ragione umana, ovverotra razionalità oggettiva e razionalità soggettiva: quest’ultima non è più per lui mera ricezionee riproduzione della prima, bensì la sua matrice originaria.A livello conoscitivo, Kant sostiene che la conoscenza non consiste in una riproduzione fedeledella realtà, ma nel suo ordinamento basato su un’operazione di unificazione. Pertanto, ilcriterio della verità della conoscenza non è la realtà oggettiva ma un’attività della ragioneumana. Analogamente, sul piano morale, non è il principio oggettivo e assoluto del bene chefonda le regole morali, bensì è la legge morale insita nella ragione umana che stabilisce cosa èbene e cosa male. Infine, per ciò che attiene alla sfera estetica, la bellezza non è una proprietàdella natura, ma un criterio della razionalità umana che sentiamo l’esigenza di proiettaresugli oggetti naturali.Questa riduzione dei principi oggettivi alla ragione umana non ha però nulla a che vedere conil tradizionale relativismo scettico o scetticheggiante. I nuovi principi soggettivi proposti daKant, infatti, sono universali e necessari, cioè validi per tutti gli uomini e unici, dunqueinvarianti e cogenti. In questo senso, teorizzando una razionalità soggettiva Kant non ricadenel vecchio soggettivismo, ma istituisce una nuova forma di oggettività, l’unica possibilesecondo lui. Si tratta, per usare un ossimoro, di un’oggettività soggettiva: soggettiva in quantocostruita dalla ragione umana, ma pur sempre oggettività in quanto la ragione umana è uninsieme di funzioni mentali che sono presenti e si attivano in modo identico in tutti gli uomini.D’altra parte, proprio perché soggettiva in questa diversa accezione, la nuova oggettivitàkantiana è necessariamente finita, limitata. La ragione infatti può e deve ordinare la realtà inbase ai suoi criteri, ma non è la realtà, bensì solo un suo aspetto. Essa dunque deve accettaredi non poter conoscere cosa sia la realtà in sé, cioè la realtà nella sua essenza e nella suatotalità; di non riuscire a praticare sempre la legge morale che pure ha in sé; di non poterconseguire la certezza che la natura possegga quell’armonia e quel finalismo, e dunque quelsenso, che essa sente debba possedere quando prova il piacere della bellezza.Se, in questa prospettiva, Kant sancisce la fine della metafisica tradizionale, egli la rimpiazzaperò con una nuova metafisica di stampo morale. E’ infatti la legge morale che fonda per Kantsia la libertà, sia l’immortalità sia l’esistenza di Dio, che però in tal modo non sono veritàteoretico-scientifiche, ma solo pratico-morali. Ne consegue che la stessa religione, e quindi unachiesa, secondo Kant, può fondarsi esclusivamente sulla legge morale, cioè che la fedeautentica può e deve essere vissuta “nei limiti della sola ragione”.

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VITA DI UN CAPITANOIMMANUEL KANTKant nacque nel 1724 a Königsberg, allora città baltica della Prussia orientale, oggi Kaliningrad,appartenente alla Russia. Il padre era un artigiano produttore di selle, la madre, casalinga eseguace del pietismo, un movimento religioso luterano fondamentalista che si contrapponeva alpensiero illuministico. Dopo aver ricevuto una pesante istruzione di tipo tradizionale, incentratasulla religione e sul latino, nel 1740 Kant entrò all’università e venne a conoscenza dell’opera diNewton, al cui studio si appassionò, nella cornice di un più generale interesse per le scienzenaturali. Primi frutti della sua formazione scientifica universitaria furono il saggio Pensieri sullavera valutazione delle forze vive (1747), in cui diede il suo contributo alla disputa scientifica sulcalcolo dell’energia cinetica, e soprattutto Storia universale della natura e teoria del cielo(1755), in cui espose la sua teoria della genesi dell’universo a partire da un nebulosa originaria inbase all’azione delle forze di attrazione e repulsione, dimostrando così la sua adesione al nuovoparadigma meccanicistico nato dalla rivoluzione scientifica moderna. Negli anni compresi tra lepubblicazioni di queste prime due opere, Kant lavorò come precettore, ma continuò i suoi studiscientifici leggendo ancora Newton, ma anche il filosofo della natura Buffon, illuministafrancese, il matematico svizzero Eulero, il fisico olandese Huygens.Nel 1755 Kant ottenne il dottorato e il titolo di magister, cioè di libero docente, che gliconsentiva di tenere corsi universitari pagati privatamente dagli studenti. Da allora non smise diinsegnare fino agli ultimi anni della sua vita. Il suo studio personale non si interruppe, ma sirivolse inizialmente ai filosofi tedeschi più recenti, in particolare Leibniz e al suo epigono Wolff,delle cui filosofie Kant propose una versione scientifico-materialistica in Nova delucidatio(1755) e Monadologia physica (1756), opere che testimoniano l’emergere del Leit-motiv dellafilosofia kantiana: l’integrazione tra filosofia e scienza moderna. Nel 1758 partecipò a unconcorso per ottenere una carica universitaria, ma gli venne preferito un altro, destinato arimanere sconosciuto. Sempre in quegli anni, Kant lesse anche Rousseau, che giudicò il Newtondella realtà storico-sociale umana, e gli empiristi inglesi, dai quali mutuò la distinzione tra ilpiano della logica e il piano della realtà, ovvero la tesi dell’indeducibilità della realtà da principirazionali, alla base degli scritti Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantitànegative (1763) e L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio(1763). In quest’ultima opera, in particolare, Kant affermò che l’esistenza di qualcosa, Diocompreso, non è un predicato, e quindi non è logicamente deducibile, bensì è “una posizioneassoluta”, cioè un dato ricavabile solo dall’esperienza sensibile. Ancora nel 1763, Kant pubblicòRicerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale, interessantedocumento sia dell’allargamento del suo interesse alla problematica morale sia della suamomentanea adesione alla teoria del sentimento morale dei moralisti inglesi Shaftesbury eHutcheson.A partire dal 1762 Kant cominciò a leggere la Ricerca sull’intelletto umano (1748) di Hume,opera tradotta in tedesco nel 1755. In seguito lo stesso Kant avrebbe lasciato scritto che la letturadi Hume l’aveva “svegliato dal sonno dogmatico”, ossia aveva messo in dubbio i retaggitradizionalistici e i residui metafisici della sua formazione, dando il via a quella lunga fase diproblematizzazione e riorientamento del suo pensiero che lo avrebbe poi portato all’ideazione,negli anni ’70, della sua nuova filosofia. Un primo prodotto del “risveglio” antimetafisico di Kantfu l’opera I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica (1766), in cui le teoriemetafisiche sono demolite in quanto “sogni”, ovvero “castelli per aria”, cioè mere invenzioniindividuali dovute all’abbandono della guida dell’esperienza.Nel 1766, per aumentare le sue entrate, Kant accettò anche un impiego come vicebibliotecario.Solo nel 1770, a 46 anni, Kant ottenne la nomina a professore universitario di logica e metafisicain base al saggio De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, in cui sostiene lanetta distinzione tra conoscenza sensibile, rappresentazione delle cose come appaiono(“fenomeni”), e conoscenza razionale, rappresentazione delle cose come sono (“noumeni”), ma

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soprattutto introduce la concezione dello spazio e del tempo come forme a priori (cioè anteriorialla e indipendenti dalla esperienza) della sensibilità umana. Grazie alla carica di professoreuniversitario, Kant poté contare su uno stipendio fisso e dedicare più tempo alla sua personalericerca filosofica. E infatti nel successivo decennio giunse progressivamente a trovare unasoluzione ai problemi suscitatigli dalla lettura di Hume, cioè a elaborare la sua nuovaprospettiva filosofica: il criticismo o razionalismo critico. Nel 1781 Kant ne pose la prima pietrapubblicando la prima edizione di La critica della ragione pura, cui seguirono la sua secondaedizione (1787), con importanti rimaneggiamenti, La critica della ragione pratica (1788) e laCritica del Giudizio (1790), che costituiscono il trittico fondamentale del criticismo kantiano.Ma durante e dopo la sua pubblicazione, Kant scrisse e pubblicò molte altre opere, alcuneintegrative alle tre Critiche – Prolegomeni a ogni metafisica futura che vorrà presentarsi comescienza (1783), Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Principi metafisici della natura(1786), Metafisica dei costumi (1797) -, altre ampliative, come Idea di una storia universale dalpunto di vista cosmopolitico (1784) e Congetture sull’origine della storia (1786), che delineanola filosofia della storia di Kant; Per la pace perpetua (1795), esposizione della visione politicakantiana; La religione nei limiti della sola ragione (1793), che illustra la filosofia kantiana dellareligione morale e della chiesa invisibile. A questi libri, vanno aggiunti alcuni saggirelativamente brevi, su argomenti vari: Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo? (1784),in cui Kant esplicita il senso storico-sociale della sua filosofia illuministica, Che cosa significaorientarsi nel pensiero? (1786), Sopra il detto comune: Questo può essere giusto in teoria, manon vale per la pratica (1793).Kant non si sposò mai e dedicò tutta la sua vita alla ricerca filosofica, animato dalla convinzionedi dover essere l’artefice di una grande rivoluzione nella storia del pensiero umano. Per attuarequesta sorta di missione filosofica, Kant si impose una ferrea disciplina in base alla quale sisvegliava alle cinque, andava a letto alle dieci di sera e scandiva la sua giornata in lunghi tempidi lavoro, divisi tra lettura e scrittura, intervallati da due pause per il pranzo con gli amici e lapasseggiata pomeridiana. Nel suo ascetismo filosofico e più in generale nell’organizzazione dellasua vita quotidiana, Kant era però aiutato dal maggiordomo Lampe, ex militare sposato, cheaveva l’ordine di tirarlo giù dal letto e di non dare ascolto alle sue proteste. Con Lampe Kantconvisse dal 1762 al 1802 quando Kant licenziò Lampe, per un motivo che non volle rivelare, glipagò la pensione fino alla morte e soprattutto pose sulla sua scrivania un foglietto su cui avevascritto: “Dimentica Lampe!”, sintomo del profondo affetto che lo legava al suo servitore nonchéconvivente. Questo affetto, il rifiuto del matrimonio e le frequentazioni unicamente maschili diKant sono indizi di una possibile omosessualità di Kant. Tuttavia, ammesso che Kant fosseomosessuale, gli altri elementi della sua biografia in nostro possesso inducono a pensare che lasua fosse un’omosessualità latente e in ogni caso platonica. Più sicuro è infatti ritenere che Kantabbia sempre compresso la sua sessualità ed evitato coinvolgimenti affettivi profondi ecoinvolgenti, anche a livello di semplice amicizia. Salvo qualche eccezione, la maggiore quella diLampe.La cronometrica programmazione della giornata di Kant fu l’origine dell’aneddoto secondo cuigli abitanti di Königsberg lo consideravano una specie di orologio vivente, regolandosi in base aisuoi spostamenti. Ci è stato anche tramandato che solo una volta Kant non rispettò gli orariconsueti, un giorno del 1789, quando uscì di casa prima del solito per avere notizie dello scoppiodella rivoluzione francese. Questo secondo aneddoto è rivelativo dell’interesse e forse persinodell’entusiasmo con il quale Kant accolse e seguì quell’evento epocale, salvo poi esternare la suadelusione e il suo rigetto non appena diede vita a episodi di sanguinaria violenza.Coerentemente con il suo modello di vita, Kant non si allontanò mai dalla sua città natale, né perviaggiare – convinto che la conoscenza si potesse acquisire anche senza viaggi – né per farecarriera, tanto che nel 1778 rifiutò l’offerta di una cattedra all’Università di Halle, che gli avrebbeprocurato uno stipendio triplo e un maggiore prestigio accademico.

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Gli ultimi anni della vita di Kant furono gravati dal progressivo peggioramento della sua salute edallo scontro con il nuovo re di Prussia, l’antilluminista e conservatore Federico Guglielmo II,successore del re-filosofo Federico il Grande, morto nel 1786, che Kant aveva consideratomodello del sovrano “illuminato”. Il casus belli fu la pubblicazione nel 1793 di La religione neilimiti della sola ragione, in seguito alla quale Federico Guglielmo II accusò Kant ditravisamento del cristianesimo e gli intimò di non scrivere più di religione. Kant si difese dalleaccuse ma accettò il diktat del re, in contrasto con quanto aveva asserito nel saggio Che cos’èl’Illuminismo?, ossia che era dovere del suddito obbedire al re in tutto salvo che nell’espressionedel proprio pensiero. Nel 1796, a causa della salute malferma, interruppe le sue lezioniuniversitarie. Nel 1798, pubblicò gli ultimi scritti: Il conflitto delle facoltà e Antropologiapragmatica. Amareggiato dal licenziamento di Lampe, quasi cieco e sempre più smemorato,Kant si spense nella sua casa di sempre nel 1804. L’orologio di Königsberg aveva smesso dibattere le ore. Ma il tempo non si fermò con lui.

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TAPPA 1KANT: LA “RIVOLUZIONE COPERNICANA”

Quando Galilei fece rotolare giù da un piano inclinato le sue sfere, il cui pesoera stato da lui stesso stabilito, o quanto Torricelli sottopose l’aria ad un peso,che in precedenza egli aveva calcolato come eguale a una colonna d’acqua a luinota […]. Essi compresero che la ragione scorge soltanto ciò che essa stessaproduce secondo il suo disegno, e capirono che essa deve procedere innanzicon i principi dei suoi giudizi basati su stabili leggi e deve costringere lanatura a rispondere alle sue domande, senza lasciarsi guidare da essa sola,per così dire con le dande. In caso contrario difatti le osservazioni casuali,fatte senza alcun piano tracciato in precedenza, non sono affatto tenuteassieme a una sola legge necessaria, mentre proprio questo è ciò che laragione cerca e di cui ha bisogno. Tenendo in mano i suoi principi, sulla cuisola base delle apparenze concordanti possono valere come leggi, e con l’altramano l’esperimento, che essa ha escogitato seguendo tali principi, la ragionedeve accostarsi alla natura, certo per venire ammaestrata da questa, non perònella qualità di uno scolaro che si fa suggerire tutto ciò che vuole il maestro,bensì nella qualità di un giudice investito della sua carica, il quale costringe itestimoni a rispondere alle domande che egli propone loro.

Prefazione alla II edizione della Critica della ragione pura,Adelphi 1976, a cura di Giorgio Colli

[…] essa [l’indifferenza dei filosofi nei confronti del progresso scientifico,ndc] è inoltre un incitamento alla ragione perché assuma di nuovo la piùgravosa di tutte le sue incombenze, ossia quella della conoscenza di sé, eperché istituisca un tribunale che la garantisca nelle sue giuste pretese, mapossa per contro sbrigarsi di tutte le pretese senza fondamento non mediantesentenze d’autorità, bensì in base alle sue eterne e immutabili leggi. E questotribunale non è altro se non proprio la critica della ragione pura.

Prefazione alla I edizione della Critica della ragione pura, ed. cit.

La situazione al riguardo [della teoria della conoscenza, ndc] è la stessa che siè presentata con i primi pensieri di Copernico: costui, poiché la spiegazionedei movimenti celesti non procedeva in modo soddisfacente, sino a che eglisosteneva che tutto quanto l’ordinamento delle stelle ruotasse attorno allospettatore, cercò se la cosa non potesse riuscire meglio quando egli facesseruotare lo spettatore e facesse per contro star ferme le stelle. Nella metafisica,orbene, si può fare un analogo tentativo, per quanto riguarda l’intuizionedegli oggetti. Se l’intuizione dovesse conformarsi alla struttura degli oggetti,io non riesco allora a vedere come di essa si potrebbe sapere qualcosa apriori; ma se l’oggetto (in quanto oggetto dei sensi) si conforma alla strutturadella nostra facoltà di intuizione, io posso allora rappresentarmi benissimoquesta possibilità.

Prefazione alla II edizione della Critica della ragione pura, ed. cit.

Il fattore decisivo della creatività di Kant è la contaminazione reciproca dei suoi studifilosofici, dei suoi studi scientifici e della sua attività pratica di scienziato, seppur part time.In particolare, il germe della “rivoluzione copernicana” si può ravvisare nella praticasperimentale, che stimola Kant a elaborare una propria originale interpretazione filosofica

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dell’esperimento. Secondo Kant, la pratica sperimentale, cioè l’esperienza razionalmenteprogettata e tecnicamente realizzata in laboratorio, presuppone che lo scienziato abbiaformulato una teoria a priori, cioè indipendente dall’esperienza. L’ideazione e larealizzazione dell’esperimento sono dunque sempre orientate e incanalate dalla teoriapuramente razionale e, di conseguenza, se l’esperimento è favorevole, lo scienziato trovanella natura “quello che egli stesso vi ha posto secondo il proprio disegno”.Per comprendere bene il senso della posizione di Kant, va evidenziato che egli afferma chela scoperta scientifica non riguarda le singole cose o le singole loro proprietà sensibili (p.e.che la ruggine sia rossastra) ma le relazioni tra cose e tra proprietà (p.e. la formula chimicadell’ossidazione del ferro); in altre parole la scoperta scientifica ha come oggetto le “leggi”,ossia l’ordine/organizzazione razionale, della natura. Tali leggi non possono che essere“universali”, cioè le medesime in ogni tempo e in ogni luogo, e “necessarie”, cioè per forzaunivoche, solo così e mai diversamente da così. In caso contrario non sarebbero leggi.Ma se le cose stanno in questo modo, lo scienziato non potrebbe mai scoprire le leggi dellanatura se si limitasse a osservare passivamente la natura, a recepire ciò che essa stessaspontaneamente mostra, come fosse uno scolaro delle elementari che ascolta le parole delmaestro. Al contrario, afferma Kant, lo scienziato è come un Pm, un Pubblico ministero,cioè un giudice inquirente, che interroga un imputato in base a una precisa strategiarazionale mirata a fargli ammettere ciò che ha razionalmente ipotizzato che abbiacommesso. Fuor di metafora: lo scienziato deve sondare la natura in base a una teoria ecostringerla, con l’esperimento, a rivelare le sue leggi.Attenzione, però. Ciò non significa affatto che lo scienziato possa obbligare la natura arivelare qualsiasi legge, così come un Pm non può costringere un innocente ad ammetterela sua colpevolezza. Un Pm che lo facesse non sarebbe un abile Pm, ma un truffatore, tantoquanto uno scienziato che truccasse un esperimento per ottenere la conferma della suateoria. Insomma, così come un imputato può essere innocente, e dunque in questo caso unPm è costretto ad ammettere che la sua ipotesi di colpevolezza, per quanto razionale, èsbagliata, allo stesso modo un esperimento può smentire una teoria e quindi costringereuno scienziato a scartarla e a cercarne un’altra.Dunque, se l’elaborazione di una teoria non implica affatto la scoperta sperimentale di unalegge della natura, è vero però che ogni scoperta sperimentale di una legge della naturaimplica l’elaborazione preventiva di una teoria. In altre parole: il lavoro a priori delloscienziato è condizione necessaria, benché non sufficiente, del suo successo sperimentale aposteriori.E’ in base a questa interpretazione della nuova scienza sperimentale, cioè della scienzagalileiano-newtoniana, che Kant si appella alla ragione perché compia una nuova impresa:la ragione stessa, cioè la mente umana nel suo insieme, è chiamata a riconsiderare sestessa, ad aggiornare la sua autoconoscenza, cioè a rifondare la filosofia. La ragione, infatti,deve far propria la rivoluzione scientifica moderna e, dietro la sua spinta, sottoporsi a unanuova indagine allo scopo di stabilire con maggiore rigore e consapevolezza le sue capacitàe insieme i loro limiti. Kant rappresenta, in questo senso, il climax, il punto culminantedell’Illuminismo: la ragione, dopo aver portato ogni aspetto della realtà di fronte al suotribunale, ora deve portarci se stessa, sottoporre anche e soprattutto se stessa a unaspietata critica razionale.Questa autocritica della ragione ha come esito un rovesciamento della sua concezione,ovvero una rivoluzione filosofica. Infatti, afferma Kant, essa giunge a comprendereinnanzitutto che il rapporto ragione/natura è l’opposto di quello che in passato si è semprecreduto. In questo senso, Kant annuncia che in filosofia bisogna attuare una “rivoluzionecopernicana”. Per primo Kant usa l’espressione, che letteralmente indica la rivoluzioneattuata da Copernico in ambito astronomico, in senso metaforico, per significare unribaltamento totale del punto di vista su qualcosa. Poiché nella fattispecie Kant si riferisce

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alla ragione, egli dichiara così la sua pretesa di attuare in campo filosofico un cambiamentodella stessa portata di quello effettuato da Copernico in campo astronomico, quello cioèche aveva dato il la alla rivoluzione scientifica.Così come Copernico aveva contestato che la Terra fosse ferma (= passiva) e il cielo inmovimento (= attivo) e sostenuto che è il cielo fermo (= passivo) e la Terra in moto (=attiva) rotatorio intorno al proprio asse; analogamente Kant nega che nell’attivitàconoscitiva la ragione umana (Terra) sia passiva (ferma) e la natura ( cielo) attiva(in moto) e dichiara, invece, che la ragione umana è attiva e la natura passiva. In questomodo, Kant vuol dire che non è vero, come avevano teorizzato i filosofi del passato, checonoscere significa lasciare che la natura modelli la nostra ragione, ovvero conformare lanostra mente alla natura; al contrario la conoscenza consiste in un modellamento attivodella natura da parte della ragione, ovvero nel conformare la natura ai criteri razionalidella nostra mente.Basta ricordare che Tommaso d’Aquino, sintetizzando una tradizione plurisecolare, avevadefinito la conoscenza “adaequatio intellectus ad rem” (assimilazione della ragione allacosa), e che ancora Francis Bacon aveva sentenziato che “natura non nisi parendovincitur” (la natura non si vince se non adeguandosi ad essa) per misurare la portatarivoluzionaria della tesi kantiana. Se prima di Kant la filosofia avevano sostenuto, in modopressoché unanime, che fare scienza significa trovare la corrispondenza della ragione allarealtà, ovvero riprodurre, rispecchiare, “fotocopiare” la realtà, Kant ora afferma che farescienza significa rielaborare la realtà, ovvero selezionarla, ordinarla, organizzarla. Esiccome i criteri dell’organizzazione non sono insiti nella natura ma sono propri dellaragione umana, ecco spiegato perché fare scienza consiste nell’assimilare la natura allaragione, l’oggetto al soggetto, la realtà fisica alla realtà mentale.

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MAPPA della TAPPA 1

interpretato da Kant come

infatti

però

infatti

allo stesso modo

allo stesso modo

rivoluzione scientifica moderna

metodo sperimentale

lo scienziato interroga la naturaattivamente in base a un’ipotesi teorica

la scienza concernele relazioni tra lecose, cioè cercaleggi universali enecessarie

la teoria è condizione necessariama non sufficiente dellascoperta scientifica

un esperimento hasuccesso solo se si basasu una teoria, che vienecosì convalidata; ma unesperimento può anchesmentire una teoria

“RIVOLUZIONE COPERNICANA”,cioè necessità di un ribaltamento dellavisione filosofica analogo alribaltamento della visione astronomicaprodotto dall’eliocentrismo

necessità di una nuova indagine critica e diuna nuova concezione della ragione umana

prima di Copernico, in astronomiasi credeva che la Terra fosse fermae le stelle si muovessero

prima di Kant, per fare scienzasi credeva che la ragione umanadovesse lasciarsi modellarepassivamente dalla natura

con Copernico, in astronomia sicapì che la Terra si muove e lestelle sono ferme

con Kant, si capì che per farescienza la ragione umanadoveva modellare attivamentela natura

la conoscenza non consiste nel ricopiare la realtà naturale manell’unificare/ordinare la realtà naturale in base ai criteri della ragione

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TAPPA 2KANT: LA CONOSCENZA SENSIBILE

In qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo una conoscenza possa mai riferirsi aoggetti, certo il modo con cui essa si riferisce immediatamente agli oggetti […]è l’intuizione. Questa tuttavia si verifica solo in quanto l’oggetto ci venga dato;ma ciò a sua volta è possibile, almeno per noi uomini, soltanto per il fatto chel’oggetto modifichi in certo modo l’animo. La capacità di ricevererappresentazioni (recettività), attraverso il modo con cui noi siamo modificatidagli oggetti, si chiama sensibilità. Mediante la sensibilità, quindi, gli oggettici sono dati, ed essa sola ci fornisce intuizioni; attraverso l’intelletto, invece,gli oggetti vengono pensati, e da esso sorgono i concetti. Ogni pensiero,tuttavia, mediante certi contrassegni deve riferirsi in ultimo […] a intuizioni,e quindi, in noi, alla sensibilità, dato che in altro modo non può esserci datoalcun oggetto.L’effetto sulla capacità di rappresentazione, prodotto da un oggetto, in quantonoi siamo modificati da quest’ultimo, è la sensazione. Quell’intuizione, che siriferisce all’oggetto mediante una sensazione, si dice empirica. L’oggettoindeterminato di un’intuizione empirica si chiama apparenza.In un’apparenza, ciò che corrisponde alla sensazione, io lo chiamo materia ditale apparenza; ciò che, invece, fa sì che il molteplice dell’apparenza possavenir ordinato in certi rapporti, io lo chiamo la forma dell’apparenza. […] lamateria di ogni apparenza ci viene data, è vero, soltanto a posteriori, ma laforma di tali apparenze deve trovarsi pronta per tutte quante nell’animo, apriori, e deve quindi potersi considerare separata da ogni sensazione. […]Questa forma pura della sensibilità si chiamerà inoltre essa stessa intuizionepura.[…] Una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità io la chiamoestetica trascendentale.Nel corso di questa indagine si troverà che sussistono, come principi dellaconoscenza a priori, due forme pure dell’intuizione sensibile, cioè spazio etempo […].

Kant, Critica della ragione pura, § 1, edizione citata

Seguendo un’impostazione classicamente aristotelica, Kant sostiene che la conoscenza è di2 tipi, ovvero che ha 2 stadi: 1) la conoscenza sensibile; 2) la conoscenza razionale.La conoscenza sensibile, pur non essendo sufficiente, è condicio sine qua non di quellarazionale. In parole semplici, è il punto di partenza indispensabile del camminoconoscitivo. A sua volta la conoscenza sensibile è una somma di “intuizioni sensibili (oempiriche)”, cioè di sensazioni. La sensazione è un’intuizione in quanto è l’atto conoscitivoimmediato, e dunque indubitabilmente veritiero, in cui e con cui la facoltà sensitiva cogliel’oggetto esterno. Per esempio, io poggio il palmo della mano sul tavolo e sento “liscio”,oppure lo guardo e ne vedo il colore “marrone”. In questo modo Kant afferma chiaramenteche:

a) la conoscenza ha un’origine empirica che rimanda all’esistenza incontrovertibile diun mondo fisico esterno alla nostra coscienza;

b) l’esperienza sensibile è infallibile per ogni uomo fisiologicamente normale.Su questa base, però, Kant precisa che ogni intuizione sensibile è un composto indivisibiledi 2 elementi fondamentali:

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1) la sua “materia”, cioè il suo contenuto propriamente empirico, ossiaproveniente dall’esterno;

2) la sua “forma”, cioè la sua organizzazione, proveniente dall’interno, ossiadalla ragione umana.

La materia consiste nella modificazione che la realtà fisica produce sulla nostra sensibilitànel momento in cui esse vengono in contatto. Ma la forma in cosa consiste? In che modo laragione organizza le modificazioni prodotte su di noi dagli oggetti fisici esterni a noi?Kant risponde che la forma consiste in un doppio ordinamento simultaneo:

1. un ordinamento spaziale, ossia la collocazione della materia della sensazione in unluogo definito dalla sua relazione (vicino, lontano, in mezzo, a destra, a sinistra,sopra, sotto) con gli altri oggetti e i loro rispettivi luoghi, p.e. quel “liscio” sul bordodestro di questo tavolo che sta vicino alla finestra del salotto.

2. un ordinamento temporale, ossia l’inserimento della materia della sensazione inuna successione cronologica, p.e. quel “liscio” dopo quel “leggero” della penna cheavevo in mano e prima di quel “trillo” del cellulare che mi ha spinto ad afferrarlo.

Secondo Kant, la forma dell’intuizione sensibile è altrettanto importante della sua materia,cioè senza forma non potremmo conoscere sensibilmente, non avremmo alcunaconoscenza empirica. Infatti se non assegnassimo a ogni materia intuita un proprio luogo eun proprio momento, tutte le materie di tutte le sensazioni si sovrapporrebbero in ungroviglio caotico e pertanto inconoscibile.E’ solo dando forma, cioè ordinamento spazio-temporale, alle materie (o contenuti) dellesensazioni che possiamo distinguerle e quindi conoscerle. Ma se noi ordiniamo spazio-temporalmente le materie delle intuizioni sensibili vuol dire che la nostra ragione possiedea priori questi 2 fondamentali criteri di organizzazione, appunto lo spazio e il tempo.Spazio e tempo sono 2 intuizioni “pure”, cioè indipendenti dall’esperienza, che però siapplicano automaticamente all’esperienza rendendola effettivamente possibile.Kant afferma dunque che le 2 coordinate fondamentali della scienza, lo spazio e il tempo,non sono oggettive, non appartengono cioè al mondo fisico esterno, ma sono criterid’ordinamento dei dati sensibili propri della mente umana, ovvero, per dirlakantianamente, principi “trascendentali”: i modi, più unici che rari, in cui e con cui lasoggettività umana conosce la natura. Di qui la denominazione kantiana dello studio dellaconoscenza sensibile come “estetica trascendentale”: “estetica”, dal grecoaìsthesis=sensazione, sta per sensibilità; “trascendentale” indica i modi a priori o puri dellasensibilità, cioè il tempo e lo spazio.Più precisamente, Kant chiarisce che il tempo è la forma del senso interno, cioè dellanostra autocoscienza e dei nostri stati psichici (p.e. pensieri, ricordi, emozioni, ecc.); lospazio, la forma del senso esterno, cioè delle nostre sensazioni relative al mondo fisico.Poiché tutti i fenomeni esterni, nel momento in cui sono da noi conosciuti, si trasformanoin rappresentazioni interne, il tempo è definito da Kant come la “condizione formale apriori di tutte le apparenze in generale”, ossia possiede una priorità rispetto alla spazio.Benché queste forme a priori (o trascendentali) della sensibilità, lo spazio e il tempoappunto, si applichino immediatamente e inconsapevolmente alla conoscenza sensibile, eper quanto l’intuizione sensibile non possa fare a meno di esse, secondo Kant la menteumana può fare un uso consapevole dello spazio e del tempo al di fuori della loroapplicazione immediata all’esperienza. Noi possiamo, infatti, intuire direttamente lo spazioe il tempo come tali, cioè come intuizioni pure, e rielaborarle, scomponendole nei loroelementi primi e ricomponendole in modo ordinato. La matematica nasce proprio daquesta intuizione ed elaborazione diretta. Più precisamente:

1) l’aritmetica è una rielaborazione mentale del tempo, cioè un’esplicitazione dellestrutture e delle proprietà implicite nell’intuizione pura del tempo;

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2) la geometria una rielaborazione mentale dello spazio, cioè un’esplicitazione dellestrutture e delle proprietà implicite nell’intuizione pura dello spazio.

Ciò significa che la successione numerica non è altro che una segmentazione e insieme unacodificazione numerica del flusso temporale della mente, mentre gli enti geometrici altronon sono che un’articolazione e una codificazione in punti, linee e piani della spazialitàmentale. La matematica, dunque, per Kant è un prodotto, una costruzione della menteumana, ossia è una scienza puramente teoretica, benché la sua costruzione non siaarbitraria, in quanto vincolata dalle strutture e dalle proprietà implicite nelle forme a prioridello spazio e del tempo.Eppure la scienza moderna, in particolare la fisica, si basa sulla matematizzazione delmondo naturale. La grande conquista di Newton era stata quella di riuscire a stringere tuttii fenomeni meccanici in un’unica, grandiosa formula matematica, quella della gravità.Come è dunque possibile che la matematica sia soltanto un parto, per quanto prodigioso,della mente umana?La soluzione kantiana di questo problema rende ancor più chiara la portata epistemologicadella sua “rivoluzione copernicana”. Quando diciamo “realtà fisica” o “natura” per Kantnoi ci riferiamo sempre alla realtà fisica, o alla natura, in quanto da noi conosciuta, cosìcome noi la conosciamo. Ma la “natura conosciuta” è una combinazione, come si è visto, dimateria e di forma, ossia è costituita anche dal nostro ordinamento spazio-temporale, èintessuta anche di spazio e di tempo. Dunque, poiché la matematica altro non è che spazioe tempo codificati, è del tutto comprensibile che la matematica si adatti così bene allaspiegazione dell’apparenza naturale da sembrare il linguaggio stesso della “natura”.Insomma, la natura in sé non possiede un ordine matematico, come avevano credutoCopernico, Galilei, Keplero e Newton; è la “natura” per noi, in quanto da noi conosciuta,che lo possiede in tanto in quanto siamo noi stessi a darglielo nel momento in cui,intuendola, la ordiniamo spazio-temporalmente.

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MAPPA della TAPPA 2

OGGETTO ESTERNO

Modificazione della sensibilitàumana = ricettività

Materia dellaconoscenzasensibile

Forma a priori delsenso interno:il TEMPO

Ordinamento/unificazionespaziale e temporale dellamateria sensitiva = attività

Forma a priori delsenso esterno:lo SPAZIO

ARITMETICA in quantoelaborazione mentaledell’intuizione pura deltempo: la serie dei numeriinfatti è una codificazione delflusso temporale.

INTUIZIONE SENSIBILE

La sensazione viene collocata in un certoluogo e le viene attribuito un certo istantedella successione temporale.

GEOMETRIA in quantoelaborazione mentaledell’intuizione pura dellospazio: i concetti geometriciinfatti sono codificazionidell’ampiezza spaziale.

La matematica si applica alla natura perché la natura, in quanto derivadall’intuizione sensibile, è organizzata spaziotemporalmente e lamatematica a sua volta ha una costituzione spaziotemporale.

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TAPPA 3KANT: LA CONOSCENZA RAZIONALE DELL’INTELLETTO

La nostra conoscenza emana da due fonti basilari dell’animo: la prima diqueste consiste nel ricevere le rappresentazioni (recettività delleimpressioni), e la seconda è la facoltà di conoscere un oggetto mediantequeste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Attraverso la prima diqueste fonti, un oggetto ci è dato; attraverso la seconda, tale oggetto è pensatoin rapporto a quella rappresentazione […] Intuizione e concetti costituisconoquindi gli elementi di ogni nostra conoscenza, cosicché una conoscenza nonpuò essere fornita né da concetti privi di una intuizione in qualche modocorrispondente ad essi, né da un’intuizione priva di concetti. […]Se la recettività del nostro animo […] è da noi chiamata sensibilità, percontro, la facoltà di produrre in modo autonomo rappresentazioni, ossia laspontaneità della conoscenza, è l’intelletto. La nostra natura è costituita inmodo tale che l’intuizione non può mai essere altrimenti che sensibile, ossiacontiene soltanto il modo in cui noi siamo modificati da oggetti. La facoltà dipensare l’oggetto dell’intuizione sensibile, per contro, è l’intelletto. Nessunadi queste due facoltà deve essere anteposta all’altra. Senza sensibilità nessunoggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato. Ipensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.

Kant, Critica della ragione pura, Parte II, Introduzione, edizione citata

La conoscenza razionale è la seconda tappa del cammino conoscitivo. Essa naturalmenteconsiste in un’elaborazione e sviluppo della conoscenza sensibile, cioè nel ricondurreun’intuizione a un concetto, p.e. pongo la mano sul tavolo, ho una determinata intuizionetattile legata a un luogo e a un momento e la riconduco al concetto di “liscio”. Sembrerebbelo stesso esempio esposto nella tappa precedente per l’intuizione sensibile. Il fatto è chequell’esempio, riferito solo all’intuizione sensibile, in realtà già includeva la sua estensionerazionale, cioè la concettualizzazione dell’intuizione. E non per una svista ma perché, secomunico scrivendo, non ho altro modo di comunicare una sensazione che quello dichiamarla con un nome generale. Una sensazione, infatti, è sempre individuale, è un “qui eora” unico, ma per pensarla ed esprimerla devo sempre codificarla concettualmente, cioèriportarla a un insieme/nome generale. P.e., il “liscio” del tavolo è diverso dal “liscio” delcuscino, eppure non posso che pensarli entrambi riferendoli al concetto/nome “liscio”.Dunque la conoscenza razionale consiste nel collegare una intuizione sensibile a unconcetto, p.e. “questo è liscio”. Kant, sull’antica scia di Aristotele, chiama “giudizio” questocollegamento, ossia ogni asserto (o enunciato o proposizione) dichiarativo. E’ solo grazie algiudizio, cioè alla qualificazione concettuale di una sensazione, che possiamoeffettivamente conoscere. Per questo Kant afferma che “senza concetto le sensazioni sonocieche”, cioè oscure, buie, prive di significato conoscitivo; anche se “i concetti senza lesensazioni sono vuoti”, cioè privi di realtà, architetture puramente mentali. Dunque,sensazioni e concetti, intuire e pensare, devono essere inseparabilmente complementari sesi vuole fare scienza.Ma da dove derivano i concetti (“liscio”, “marrone”, “cane”, “simmetrico”, ecc.)?Innanzitutto Kant distingue 2 tipi di concetti: 1) i concetti empirici e 2) i 12 concetti puri ocategorie.Riguardo ai primi, la stragrande maggioranza, Kant sostiene che essi sono un prodottodell’elaborazione mentale delle sensazioni. Più precisamente della facoltà mentaledell’immaginazione. Kant distingue, però, 2 tipi di immaginazione:

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a) l’immaginazione riproduttiva, cioè la capacità della mente di rappresentarsi oggettie proprietà anche senza che essi siano presenti ai sensi, purché naturalmente losiano stati in precedenza. P.e., io posso guardare un quadro, chiudere gli occhi erappresentarmelo mentalmente.

b) L’immaginazione produttiva, ossia la capacità mentale di produrre appunto iconcetti empirici sulla base delle sensazioni.

Per produrre i concetti empirici, l’immaginazione produttiva forgia degli “schemi”, cioèdelle immagini mentali fortemente stilizzate, le più universali e astratte possibili. Questischemi diventano i modelli in base ai quali l’intelletto organizza e determina le sensazionitraducendole nei concetti empirici. P.e., il concetto empirico di “cane” si costruisce intornoallo schema della “animalità quadrupede”. Solo una volta forgiati i concetti empirici èpossibile avere una vera e propria esperienza sensibile. Infatti in senso stretto, l’esperienzaè un accumulo ordinato di sensazioni, ma tale accumulo è possibile solo se io ho deiriferimenti generali (i concetti appunto) cui ricondurre le singole differenti intuizioni. P.e.,solo se ho il concetto di “cane” vedendo chihuahua, alani, bassotti, ecc., posso farmiun’esperienza di cani. D’altra parte, quanto è più ampia questa mia esperienza, cioè quantopiù numerose le intuizioni di cani e di loro proprietà, tanto più chiaro e oggettivo sarà ilmio concetto empirico di “cane”.La tesi più originale e importante di Kant, relativamente alla conoscenza razionale, è peròquella che concerne il ruolo dei 12 concetti puri o categorie, che egli divide in 4 gruppi di 3ciascuno:

1) categorie della quantità: unità, pluralità, totalità;2) categorie della qualità: realtà, negazione, limitazione;3) categorie della relazione: sostanza o accidente; causa ed effetto; azione reciproca.4) categorie della modalità: possibilità/impossibilità, esistenza/inesistenza,

necessità/contingenza.Queste 12 categorie sono i concetti più generali, cioè più estesi, e soprattutto sono concetti“puri”, cioè sono criteri di ordinamento propri dell’intelletto, per nulla ricavati dallesensazioni. Secondo Kant, ogni volta che noi pensiamo, cioè ogni volta che elaboriamo ungiudizio, insieme ai concetti empirici espliciti, intervengono in modo implicito, e perquesto non evidente, le categorie che gli si addicono. P.e.: il giudizio “questo è un tavolorotondo marrone” è costituito dalle categorie dell’unità, della realtà, della sostanza eaccidente e infine dell’esistenza; il giudizio “il calore dilata i metalli” dalle categorie dellatotalità, realtà, sostanza e accidente, causalità, necessità.Il secondo esempio è più significativo, in quanto è un asserto scientifico, in particolare unaproposizione che esprime una legge naturale. Secondo Kant tutti gli asserti scientifici sonotali in quanto sono “universali e necessari”, ossia in quanto sono veri in tutti i casi possibilied è impossibile che siano veri asserti diversi o contraddittori rispetto a essi. P.e., “il caloredilata i metalli” è vero per qualsiasi calore, metallo, luogo e tempo e non può mai accaderequalcosa di diverso (“il calore colora i metalli”) o di contrario (“il calore restringe imetalli”).In altre parole, in un giudizio di causalità – e tale è ogni legge scientifica - causa ed effettonon sono soltanto un hoc post hoc, non sono cioè caratterizzati solo e tanto dalla diversasuccessione nel tempo (prima la causa, poi l’effetto) e dalla prossimità spaziale (contattofisico) ma anche e soprattutto da un vincolo indissolubile tale per cui a una stessa causadeve corrispondere sempre e univocamente uno stesso effetto.Da questo punto di vista Kant confuta la tesi di Hume secondo la quale la causalità in sensoforte non esiste, in quanto si tratterebbe in realtà di una mera sequenza spazio-temporaledi 2 eventi estemporanei e irripetibili che solo per abitudine crediamo possiedano unvincolo che li unisca da sempre e per sempre. Eppure Kant concorda (“Hume mi hasvegliato dal sonno dogmatico”) con la confutazione della concezione tradizionale della

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causalità operata da Hume. Infatti anche per Kant, come per Hume, la causalità non è unaproprietà oggettiva della natura e, come tale, ricavabile dalla sensazione. E allora come lamette Kant? Com’è possibile che la natura sia causale se la causalità non le appartieneintrinsecamente?La soluzione del rompicapo è nella “rivoluzione copernicana”: la causalità è un concetto“puro” della mente umana che noi aggiungiamo all’esperienza sensibile in quantoconoscere non significa ricopiare la natura ma significa ordinare razionalmente la natura.Più precisamente, Kant afferma che tutti gli asserti scientifici sono tali se, e solo se, sono“giudizi sintetici a priori”. Cosa intende? Per spiegarlo, Kant distingue innanzitutto tra:

“giudizio analitico a priori”, p.e. “tutti i corpi sono estesi”: si tratta di un enunciatoin cui il predicato (“esteso”) è già implicitamente contenuto nel soggetto (“corpo”),che si limita a scomporre (analyein in greco significa dividere) un concetto nei suoicomponenti e che pertanto non si fonda sull’esperienza sensibile bensì su unaoperazione intramentale (“a priori”);

“giudizio sintetico a posteriori”, p.e. “tutti i corpi sono pesanti”: si tratta di unasserto in cui il predicato (“pesante”) aggiunge (synthesis in greco significa“unificazione”) al soggetto (“corpo”) una proprietà che non è implicita in esso e chepertanto si ricava dall’esperienza (“a posteriori”).

Il “giudizio analitico a priori” ha il pregio di essere “universale e necessario”, in quanto sifonda sulle leggi logiche della ragione, ma ha il difetto di non essere produttivo, cioè nonincrementa la nostra conoscenza, ma si limita a ordinare e a chiarire meglio ciò che giàconosciamo.Il “giudizio sintetico a posteriori” ha il pregio di essere produttivo, in quanto attingeconoscenza dall’esperienza sensibile, ma ha il difetto di essere “particolare e contingente”proprio in quanto si basa sull’esperienza, cioè su una raccolta di sensazioni che non è maicompleta e nemmeno omogenea. In realtà la sua versione linguistica corretta sarebbe“tutte le volte che ho sollevato un corpo ho sentito il suo peso”, oppure “alcuni/molti corpisi sono dimostrati pesanti”.Tra le righe, Kant sta esponendo la sua interpretazione delle due principali tradizionifilosofiche dell’età moderna: quella razionalistica continentale (da Descartes a Leibniz) equella empiristica britannica (da Bacone a Hume). La prima – sostiene implicitamenteKant - ha creduto che la scienza fosse composta da “giudizi analitici a priori”,garantendone la certezza ma riducendola a un brillante gioco mentale incapace dispiegarne la crescita conoscitiva; la seconda, al massimo grado con Hume, ha ritenuto chefosse costituita di “giudizi sintetici a posteriori”, valorizzandone la crescita conoscitiva masvilendola a incerto calcolo probabilistico.In realtà, afferma Kant, la scienza è costituita da “giudizi sintetici a priori”, p.e. “ognimutamento fisico deve avere una causa”: in tale tipo di giudizio il predicato (“causato”)non è implicito nel soggetto (“mutamento”) e pertanto costituisce un valore conoscitivoaggiunto; ma non è ricavato dall’esperienza, bensì dalla ragione stessa, è una delle suecategorie o concetti puri, e dunque il giudizio è “universale e necessario”. In altri termini, il“giudizio sintetico a priori” dà conto sia della certezza sia della produttività della scienza,ossia spiega l’effettiva e indubitabile realtà della pratica scientifica moderna, ciò che perKant era sotto gli occhi di tutti.In questo modo, Kant può affermare solennemente che le leggi scientifiche non sono, comeaveva sostenuto Hume, particolari e probabili, cioè valevoli in alcuni casi e magari spessoma non sempre, bensì appunto universali e necessarie, cioè valevoli in tutti i casi e sempre.Dunque per Kant, la legge newtoniana di gravità (“i corpi si attraggono in mododirettamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale alquadrato della loro distanza”), capolavoro della rivoluzione scientifica moderna, è semprevera, non è una semplice previsione probabilistica.

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La “rivoluzione copernicana” di Kant, però, non concerne solo la fisica e le altre scienzedella natura, ma anche la matematica. Mentre Hume aveva sostenuto che le proposizionimatematiche fossero semplici tautologie, cioè “giudizi analitici a priori”, giochi logico-mentali, Kant sostiene che anche la matematica è fatta di “giudizi sintetici a priori”. Infatti,nell’asserto aritmetico “7+5=12” tanto quanto nell’enunciato geometrico “la linea è ladistanza minima tra 2 punti”, i rispettivi predicati (“12” e “distanza minima”) non sonoaffatto già impliciti nei soggetti, ma sono un’aggiunta ricavata dalle forme a priori deltempo e dello spazio. Insomma, anche la matematica produce un accrescimentoconoscitivo che si aggiunge, anzi si moltiplica con quello delle scienze naturali.Il messaggio kantiano è dunque il valore e la sicurezza della scienza moderna, la fiducianella possibilità umana di conquistare sempre di più il dominio conoscitivo del mondo.

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MAPPA della TAPPA 3

ricondotta a uno

forgia uno

base per la costruzione di un

cui si aggiungono

fornisce

INTUIZIONE SENSIBILE

SCHEMA

CONCETTOEMPIRICO

IMMAGINAZIONEPRODUTTIVA

CONCETTI PURIO

12 CATEGORIE

QUALITA’: realtà, negazione, limitazione.QUANTITA’: unità, molteplicità, totalità.

RELAZIONE: sostanza, causalità, interazione.MODALITA’: possibilità, contingenza, necessità

GIUDIZIO SINTETICO A POSTERIORI =enunciato particolare e contingente e quindi non

scientifico

GIUDIZIO SINTETICO A PRIORI =enunciato universale e necessario e

quindi LEGGE SCIENTIFICA

INTELLETTO

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TAPPA 4KANT: L’IO PENSO O AUTOCOSCIENZA TRASCENDENTALE

Per tale ragione, si rivela qui una difficoltà, che non abbiamo incontrato nelcampo della sensibilità: si domanda, cioè, come le condizioni soggettive delpensiero siano destinate ad avere una validità oggettiva, ossia come essepossano costituire le condizioni della possibilità di ogni conoscenza deglioggetti. In effetti, senza funzioni dell’intelletto possono certo essere date delleapparenze nell’intuizione. Io prendo, ad esempio, il concetto di causa […]. Apriori non è chiaro perché certe apparenze debbano contenere un qualcosa disiffatto (non si possono infatti addurre esperienze come prova, poiché lavalidità oggettiva di questo concetto deve poter essere mostrata a priori); ed èquindi a priori incerto se un tale concetto non sia forse del tutto vuoto e nonritrovi da nessuna parte un oggetto tra le apparenze. […] In effetti, leapparenze potrebbero forse essere costituite in modo tale che l’intelletto nonle trovasse affatto conformi alle condizioni della sua unità.

Kant, Critica della ragione pura, § 13, edizione citata

Ma il concetto della congiunzione porta con sé, oltre che il concetto delmolteplice e della sintesi del molteplice, altresì il concetto dell’unità delmolteplice. Congiunzione è rappresentazione dell’unità sintetica delmolteplice. La rappresentazione di questa unità non può quindi sorgere dallacongiunzione: piuttosto, la rappresentazione di tale unità, per il fatto diaggiungersi alla rappresentazione del molteplice, rende possibile per la primavolta il concetto della congiunzione. Questa unità […] non è […] quella citatacategoria dell’unità. In effetti, tutte le categorie si fondano su funzioni logichenei giudizi: in queste peraltro è già pensata la congiunzione, e quindi l’unitàdei concetti dati. La categoria dunque presuppone già la congiunzione. Noidobbiamo perciò cercare quest’unità più in alto […] ossia in ciò che perl’appunto contiene il fondamento dell’unità di diversi concetti nei giudizi, equindi il fondamento della possibilità dell’intelletto, persino nel suo usologico.

Kant, Critica della ragione pura, § 15, edizione citata

L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, perchéaltrimenti in me verrebbe rappresentato un qualcosa che non potrebbe affattovenir pensato; o con espressione equivalente: poiché altrimenti o larappresentazione risulterebbe impossibile, oppure, almeno per me, essa nonsarebbe niente. Quella rappresentazione, che può essere data prima di ognipensiero, si chiama intuizione. Ogni molteplice dell’intuizione ha perciò unarelazione necessaria con l’io penso, nello stesso soggetto in cui viene ritrovatoquesto molteplice. La rappresentazione: io penso, tuttavia, è una atto dellaspontaneità; essa non può venir considerata come pertinente alla sensibilità.Io la chiamo l’appercezione pura – per distinguerla da quella empirica – oanche l’appercezione originaria, poiché essa è quella autocoscienza che […]non può più essere accompagnata da nessun’altra rappresentazione. L’unitàdi tale rappresentazione io la chiamo anche l’unità trascendentaledell’autocoscienza […]. […] in caso contrario, difatti, io avrei tante variopintee differenti personalità quante sono le rappresentazioni di cui ho coscienza.

Kant, Critica della ragione pura, § 16, edizione citata

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[…] nella deduzione trascendentale è stata esposta la possibilità dellecategorie come conoscenze a priori di oggetti di un’intuizione in generale.Adesso deve venir spiegata la possibilità di conoscere a priori, mediante lecategorie, gli oggetti che possono eventualmente presentarsi ai nostri sensi, eciò, per essere precisi, non secondo la forma della loro intuizione, bensìsecondo le leggi della loro connessione. Dev’essere spiegata, perciò, lapossibilità di prescrivere alla natura, per così dire, la legge, anzi, di rendere lanatura possibile. […]Ora, dato che ogni possibile percezione [la sensazione in quanto cosciente,nota mia] dipende dalla sintesi dell’apprensione, e che questa sintesi empiricadipende peraltro da quella trascendentale, e quindi dalle categorie, in tal casotutte le percezioni possibili, e perciò anche tutto quello che puòeventualmente pervenire alla coscienza empirica, cioè tutte le apparenze dellanatura, debbono, quanto alla loro congiunzione, essere soggette allecategorie, dalle quali la natura dipende […] come dal fondamento originariodella sua necessaria conformità a leggi […].

Critica della ragione pura, Parte II, § 26, edizione citata

Se la conoscenza razionale della realtà fisica si fonda, come affermato da Kant, su 12concetti puri o categorie, intesi come criteri razionali propri della ragione umana, come ein quale senso possiamo essere sicuri che la nostra conoscenza sia oggettiva, cioè capace dicogliere oggetti indipendenti dalla nostra mente? Non potrebbe essere, invece, che lanostra conoscenza, in quanto basata su concetti a priori, consista in una deformazionedella realtà esterna?Si tratta del problema che Kant chiama “deduzione trascendentale” delle categorie, ossiadel problema della loro giustificazione o legittimazione scientifica: un conto è che per farescienza io usi le categorie (quaestio facti), tutt’altro conto è che esse mi forniscano unavisione veritiera delle cose (quaestio iuris).Proprio per argomentare l’oggettività delle categorie, Kant approfondisce e articolaulteriormente la sua analisi della ragione umana, introducendo il supremo principiotrascendentale, l’io penso o autocoscienza trascendentale. A esso Kant arriva per due vieconvergenti.La prima fa leva sulla necessità che la ragione, o mente o coscienza razionale, sia un’unità,ovvero possegga un centro unico e dunque unitario. P.e.: io posso avere unarappresentazione sensibile di “liscio”, una di “fresco”, una di “marrone”, una di “circolare”,una di “legno”, ecc. Se tutte queste rappresentazioni non avessero un riferimento comunenon potrebbero essere congiunte nell’oggetto “tavolo”. Questo riferimento comune nonpuò essere una categoria, perché ogni oggetto può riferirsi a più categoriecontemporaneamente. Dunque occorre andare a monte delle categorie per cercare unriferimento unico per ogni tipo di rappresentazione, tanto delle intuizioni sensibili quantodei giudizi razionali. Questo riferimento unico supremo è, secondo Kant, l’io penso, ossial’autocoscienza trascendentale.La seconda via all’io penso è quella che si impernia sulla “congiunzione”, sul fatto cioè chela conoscenza razionale in tanto può avvalersi dei concetti in quanto presuppone appuntol’attività intellettiva di correlazione, ossia di unificazione, dei dati sensibili. P.e., quando lamia ragione pensa “questo è un cane” unifica microsensazioni di “pelo”, “coda”,“quadrupedità”, “abbaiare”, ecc., in un unico concetto; quando pensa “il cane è unmammifero” seleziona e unifica alcune proprietà fondamentali e comuni di tutti i cani.Dunque la conoscenza razionale, ossia logico-concettuale, è unificazione. E unificareequivale a ordinare. Un esempio quotidiano e immediato: un mucchio aggrovigliato di

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biancheria lavata è caos, disordine; per ordinarlo unifico tutte le calze con le calze, le T-shirt con le T-shirt, gli slip con gli slip, ecc., e poi ripongo gli insiemi così costituiti ognunoin un cassetto dell’armadio, magari marchiati con l’etichetta corrispondente, et voilà:l’ordine è fatto! Ordinare significa unificare in gruppi omogenei. E non dimentichiamo cheordine (od organizzazione) è, fin da Talete, sinonimo di razionalità. Dunque conoscenzarazionale significa conoscenza che ordina, ossia che unifica.Ciò chiarito, gli strumenti dell’unificazione conoscitiva, come si è visto, sono, a un primolivello, i concetti empirici, ma a un secondo superiore livello, i concetti puri o categorie,supremi unificatori ossia massimi ordinatori. P.e., il concetto di “chilo” è unificato inquello di “unità di misura di peso”, e quest’ultimo nella categoria della “quantità”. Ma setutti i concetti sono unificati in un concetto più ampio superiore, anche le categorie devonoesserlo. Non solo. Le categorie sono 12, dunque sono plurime, e tutte di pari livello. D’altraparte ognuna di esse è una modalità di unificazione, dunque esse presuppongono ilcriterio/principio di unificazione come tale. Pertanto esse rinviano all’io penso, intesoappunto come criterio dell’unità, come principio di unificazione (o sintesi) in quanto tale.Naturalmente, proprio per questo, l’io penso (o autocoscienza trascendentale) è unprincipio unico, e non può che essere unico, dunque è assurdo pensare che a sua voltadebba essere unificato sotto un principio superiore. Esso è, per così dire, il principiosovrano dell’intelletto, il centro unico che coordina unitariamente le categorie e i concettiempirici, i quali altro non sono che le sue articolazioni, ovvero, per dir così, i suoistrumenti di lavoro.Tenendo conto che anche le intuizioni sensibili devono essere sempre riferite allo stesso iopenso, altrimenti le sensazioni non diventerebbero nemmeno percezioni, cioè sensazioniconsapevoli, ma rimarrebbero inconsce, risulta ormai chiaro come e perché Kant ponga l’iopenso a fondamento di tutta la conoscenza, sia quella sensibile, sia quella razionale.Attenzione, però. Per “io penso” o “autocoscienza trascendentale”, Kant non intende il“mio” io penso o la “mia” autocoscienza trascendentale. Quando Kant usa l’aggettivo“trascendentale” vuole dire che si tratta di qualcosa che “trascende” non solo la realtàfisica, ma anche quella psicologica, cioè che è indipendente dal mio io psichico (il miocarattere, la mia emotività, la mia indole, le mie attitudini mentali, il mio stile cognitivo,ecc.). Insomma, l’io penso è unico e identico per tutti gli uomini, è la ragione universale,quella stessa che, proprio perché è uguale in tutti gli uomini, fa loro conoscere la stessarealtà. E naturalmente quel che vale per l’io penso vale per le categorie, i concetti empirici,e le forme a priori della sensibilità, cioè il tempo e lo spazio.A questo punto, siamo pronti per affrontare l’argomentazione della legittimità scientificadell’uso delle categorie, ossia l’argomentazione della tesi, apparentemente contraddittoria,per cui le categorie, pur essendo proprie del soggetto, cioè della ragione umana, hanno unavalidità oggettiva, cioè ci fanno conoscere in modo veritiero oggetti esterni alla menteumana.Scrive Kant: poiché ogni percezione (cioè la coscienza effettiva di una sensazione) dipendedalla sua unificazione in un concetto empirico e a sua volta la sintesi concettuale empiricadipende dall’unificazione trascendentale operata dalle categorie, sono le categorie che cipermettono non solo una conoscenza razionale, ma anche la stessa conoscenza sensibile,cioè la conoscenza più oggettiva, la conoscenza immediata degli oggetti fisici. Dunque, lecategorie ci fornisco l’unica oggettività per noi possibile e pertanto il loro uso scientifico èpienamente giustificato. In caso contrario, non potremmo conoscere, la nostra conoscenzasarebbe nulla.Questa argomentazione potrebbe prestarsi alla seguente parodia: “o mangi questaminestra o salti dalla finestra”. Più seriosamente, si potrebbe sollevare contro di essaun’eccezione di “petitio principii”, ossia di circolarità, in quanto potrebbe essere cosìriformulata: “l’oggettività si basa sulle categorie, dunque le categorie sono oggettive”. In

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altri termini, l’oggettività delle categorie (la conclusione) è argomentata con il fatto che lecategorie costituiscono l’oggettività, che in realtà è proprio ciò che deve essereargomentato, cioè è la conclusione stessa.Per non far torto a Kant, bisogna però ricordare, innanzitutto, che le categorie si applicanoa concetti empirici che a loro volta sono costituiti dall’esperienza sensibile. In altre parole,le categorie sono agganciate, seppur mediatamente, all’intuizione sensibile e, inparticolare, alla “materia” della sensazione, cioè alla modificazione prodotta su di noi daglioggetti fisici esterni. Dunque la conoscenza razionale possiede una radiceinequivocabilmente oggettiva.In secondo luogo, dobbiamo riconoscere che l’argomentazione esposta sopra ha unapremessa maggiore sottintesa, quella che si riferise all’io penso: “la conoscenza consistenell’attività unificatrice dell’io penso o autocoscienza trascendentale”. Questa premessamaggiore implicita, poi, null’altro è che la formulazione filosoficamente più profonda erigorosa della “rivoluzione copernicana”, secondo cui conoscere non significa “copiare” glioggetti fisici, ma ordinarli, cioè appunto unificarli, grazie all’attività sintetica chel’autocoscienza trascendentale è.A questo punto l’eccezione di “petitio principii” è respinta. L’argomento nevralgico, bendistinto dalla conclusione, è la “rivoluzione copernicana” stessa: l’oggettività scientifica èordinamento/unificazione della realtà fisica; poiché le categorie sono gli strumenti, identiciin ogni uomo, di ordinamento/unificazione, ne segue necessariamente che il loro uso non èsolo un fatto (o mangi questa minestra o niente, anche se la minestra è cattiva e nonnutriente) ma è anche un fatto del tutto legittimo (la minestra è buona e soprattuttonutriente).

In questo, e solo in questo, senso Kant suggella la sua deduzione trascendentale conl’emblematica affermazione: “L’io penso è il legislatore della natura”.

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MAPPA della TAPPA 4

CONOSCERE=ORDINARE=UNIFICARE

TUTTE LE MIERAPPRESENTAZIONI DEVONOAVERE UN CENTRO DIRIFERIMENTO COMUNEALTRIMENTI NON POTREICONOSCERE

I CONCETTI PURI O 12 CATEGORIE=ORDINAMENTO/UNIFICAZIONE DEI

CONCETTI EMPIRICI

I CONCETTI EMPIRICI =ORDINAMENTO/UNIFICAZIONE DELLE

INTUIZIONI SENSIBILI

IO PENSO=CENTRO UNITARIO EFUNZIONE TRASCENDENTALE DI

UNIFICAZIONEdi cui tutti i concetti sono prodotti e strumenti

L’USO DELLE CATEGORIE E’SCIENTIFICAMENTE LEGITTIMO, OSSIAOGGETTIVO

L’IO PENSO E’ IL LEGISLATORE DELLA NATURA

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TAPPA 5KANT: LA COSA PER NOI E LA COSA IN SE’

Nondimeno, quando certi oggetti, come apparenze, noi li chiamiamo enti deisensi (phaenomena), distinguendo il modo in cui li intuiamo dalla loro naturain sé, allora nel nostro concetto è già implicito che noi a quegli oggetti, percosì dire, contrapponiamo, chiamandoli enti dell’intelletto (noumena), o imedesimi oggetti, intesi secondo quest’ultima natura (sebbene non liintuiamo in essa), oppure altre cose possibili – che non sono per nulla oggettidei nostri sensi – intese come oggetti semplicemente pensati dall’intelletto.[…]Se per noumeno intendiamo una cosa, in quanto essa non è oggetto dellanostra intuizione sensibile (astraendo cioè dal nostro modo di intuirla), sitratta allora di un noumeno in senso negativo. Ma se per noumenointendiamo un oggetto di un’intuizione non sensibile, noi ammettiamo alloraun particolare modo d’intuizione, cioè quello intellettuale: esso non è tuttaviail nostro modo di intuizione, e non ne possiamo comprendere neppure lapossibilità. Si avrebbe così il noumeno in senso positivo.

Kant, Critica della ragione pura, Libro II, Cap. III, edizione citata

Con la “deduzione trascendentale”, Kant ha argomentato come sia possibile che la scienzamoderna, pur basandosi su criteri soggettivi, consegua l’oggettività. Tuttavia, per Kant sitratta di precisare in modo rigoroso cosa si debba intendere per oggettività, altrimenti sirischierebbe di fraintendere il significato della sua “rivoluzione copernicana”, ossia diconferire alla legittimazione delle categorie una portata indebita. In questa precisazioneemerge la tensione propriamente critica della filosofia kantiana.Infatti, paragonando la scienza a un’ “isola”, Kant afferma innanzitutto che l’oggettivitàscientifica è nettamente limitata: l’uso delle categorie è vincolato all’esperienza, la quale èsì estendibile ma rimane purtuttavia sempre finita. Per Kant, però, la nostra conoscenzanon incontra solo un limite dal punto di vista estensivo, ma anche e soprattutto da quellointensivo. Secondo lui, infatti, la nostra esperienza di una cosa non è mai completa, glioggetti che esperiamo sono, per così dire, sempre parzialmente conosciuti.Per far comprendere a fondo questa tesi, Kant introduce la distizione tra “fenomeno” (dafàinosthai che in greco significa apparire, manifestarsi, mostrarsi) e “noumeno” (dal greconoèin che significa pensare). Tutte le nostre rappresentazioni scientifiche, sia le intuizionisensibili sia i concetti, sono fenomeni, cioè “oggetti per noi”, oggetti così come ci simanifestano, come si mostrano a noi, ovvero in quanto organizzati dalle formetrascendentali della nostra ragione. Girato in negativo, ciò equivale a dire che le nostrerappresentazioni scientifiche non coincidono con i possibili “oggetti in sé”, cioè i noumeni,gli oggetti come potrebbero essere al netto dell’organizzazione conferita loro dalle nostreforme a priori. In altre parole, se affermiamo che l’oggettività scientifica è fenomenicaimplicitamente rimandiamo alla possibile esistenza di un’oggettività pura, pre-scientifica,cioè al noumeno. Per Kant il noumeno si può concepire in 2 modi:

a) in modo meramente negativo (in senso fotografico, non di valore!), cioè come ilcontrario del fenomeno, vale a dire come la “cosa in sé”, l’oggetto nature, cui rinviail fenomeno in quanto “cosa per noi”, cioè l’oggetto in quanto organizzato dallanostra ragione;

b) in modo positivo (sempre in senso fotografico), cioè come un oggetto realepuramente razionale (l’idea di Platone o di Cartesio) intuibile dal nostro intellettosenza bisogno di alcuna esperienza sensibile.

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Il noumeno “positivo”, afferma Kant (a dispetto della sua ambigua denominazione), nonpossiede alcuna validità scientifica, cioè non costituisce un’oggettività legittima. Il nostrointelletto non ha la capacità di intuire, cioè di cogliere direttamente, un preteso oggettopuramente razionale, cioè un’idea, o essenza o intellegibile puro. Solo la nostra sensibilitàpuò intuire, e dunque ogni nostra conoscenza deve partire dalle sensazioni e rimanerelegata a esse.Pertanto, si può, e si deve, sensatamente pensare il noumeno solo nel suo significato“negativo”, cioè come “oggetto in sé”, il mondo fisico come potrebbe essere al di là dellaconoscenza umana. Il condizionale (“potrebbe”) è d’obbligo perché se l’”oggetto in sé” è aldi là di ogni nostra possibile conoscenza è ovvio che non solo non potremo mai conoscerloma anche che, a rigore, non possiamo nemmeno dire con certezza che esiste.Ma allora cosa pensiamo quando pensiamo “noumeno”? Possiamo pensarlo? E in ogni casoche senso ha pensarlo?Kant stesso dice che il concetto di noumeno è “problematico”, perché:

da un lato, è logico, in quanto, così come, se pensiamo al finito, siamo costretti apensare l’infinito, allo stesso modo se pensiamo il fenomeno siamo rimandati alnoumeno in quanto suo opposto non contraddittorio;

da un altro lato, il concetto di “noumeno” è illogico, in quanto non possiede alcuncontenuto e quindi quando lo pensiamo non sappiamo cosa pensare, ovvero nonpensiamo nulla.

Eppure Kant difende e valorizza il concetto di noumeno in quanto gli attribuisce lafunzione nevralgica di avvertirci del limite di ogni nostra conoscenza. In altre parole, ilnoumeno (nel suo significato logicamente negativo ma scientificamente positivo) è unconcetto segnaconfine, o anche un campanello d’allarme che ci impedisce di esserepresuntuosi, in quanto segnala ogni indebito sconfinamento delle nostre pretesescientifiche.Kant stesso battezza “criticismo”, ossia “razionalismo critico”, la sua posizione filosofica.Ciò significa che il Leitmotiv, il filo conduttore della sua filosofia, è proprio laconsapevolezza dei limiti della scienza, e più in generale della ragione umana. Questo noncomporta però alcuna svalutazione della ragione. Al contrario, per Kant proprio lacoscienza dei propri limiti permette alla ragione umana di utilizzare al meglio le sue grandicapacità e quindi di mostrare tutto il suo enorme valore. E’ semmai l’oblio dei propri limitiche porta la ragione all’errore, teorico e pratico, e pertanto alla sua svalutazione.Possiamo comprendere così ancora più a fondo il significato della “rivoluzionecopernicana” e della “deduzione trascendentale”. E’ la ragione umana, non la natura in sé,il fondamento della conoscenza. Pertanto, pur ordinando la natura in base alle propriecategorie, la ragione umana consegue l’oggettività. Anzi, addirittura Kant si spinge adaffermare che è l’io penso o autocoscienza trascendentale il “legislatore della natura”, inquanto le leggi razionali che lo scienziato può scoprire nella natura derivanodall’applicazione alla natura sensibile delle categorie, in particolare della categoria dellacausalità. Una legge scientifica è infatti una correlazione sintetica di molti dati e concetti epertanto non può che essere il prodotto dell’ordinamento unitario dell’autocoscienzatrascendentale.Dunque, la scienza si conquista così l’oggettività in modo pienamente legittimo. Ma - eccol’ulteriore approfondimento - questa oggettività non è “essenziale”, cioè non include tuttociò che l’oggetto è né, a fortiori, ciò che veramente l’oggetto è. Come aveva scritto Galilei,la scienza moderna non consiste nel “tentar le essenze”, ma nel descrivere e spiegare comesi svolgono i fatti naturali. Insomma, l’oggettività scientifica è, per così dire, superficiale,benché la superficie possa essere anche molto profonda.In questo senso, con la “rivoluzione copernicana” di Kant, i concetti filosofici di “soggetto”e “oggetto”, “soggettivo” e “oggettivo”, “soggettività” e “oggettività” subiscono uno

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slittamento di significato. “Soggetto” mantiene il significato di “relativo a un individuo” (dacui “soggettivo” come contrario di “oggettivo”), ma acquista anche quello di “proprio dellaragione umana, ossia di ogni uomo” (non più opposto ma costitutivo di “oggettivo”).“Oggetto” non significa più “coincidente con le cose stesse” , bensì “correlato alle cosestesse”. In conclusione l’oggettività kantiana è un nuovo concetto di oggettività, che, per unverso, include la soggettività universale (o trascendentale) umana come suo elementocostitutivo, e, per l’altro verso, rinuncia alla pretesa di una completa aderenza alle cosestesse.

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MAPPA della TAPPA 5

rinvia logicamente al suo opposto

si può intendere in 2 modi

LA SCIENZA E’ OGGETTIVAMA LIMITATA

LA SCIENZA E’UNIFICAZIONE/ORDINAMENTOMENTALE DEGLI OGGETTI

IL “NOUMENO” (O “COSA IN SE’”)

L’OGGETTO SCIENTIFICO NON E’ TUTTOL’OGGETTO , OVVERO E’

UN “FENOMENO” (O “COSA PER NOI”)

MODO POSITIVOPENSABILE PURO, OSSIA UNCONCETTO PURAMENTERAZIONALE CONOSCIBILESENZA BISOGNODELL’ESPERIENZA SENSIBILE

MODO NEGATIVOUN CONCETTO VUOTO CHERAPPRESENTA LA PARTEINCONOSCIBILEDELL’OGGETTO

INAMMISSIBILE,PERCHE’ LA SCIENZA DEVEBASARSI SULL’ESPERIENZASENSIBILE

INDISPENSABILE,PERCHE’ CI RICORDA CHELA SCIENZA E’ LIMITATA

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TAPPA 6KANT: LA CONOSCENZA RAZIONALE DELLA RAGIONE

Ormai, non soltanto abbiamo percorso il dominio dell’intelletto puro […] mal’abbiamo altresì misurato, ed abbiamo assegnato ad ogni cosa che vi siritrova il suo posto. Questo dominio, tuttavia, è un’isola, e risulta rinchiusodalla natura stessa entro confini immutabili. E’ la terra della verità (nomeallettante), circondata da un oceano vasto e tempestoso, che è la vera epropria sede dell’illusione, dove molti banchi di nebbia e numerosi ghiacci,che presto saranno liquefatti, suggeriscono falsamente nuove terre, eincessantemente ingannando, con vane speranze, il navigatore errabondo eavido di scoperte, lo invischiano in avventure, che egli non potrà maitroncare, ma neppure potrà mai condurre a termine. […]Tuttavia c’è qui alla base un’illusione difficilmente evitabile. Le categorie,quanto alla loro origine, non si fondano sulla sensibilità […] e sembranoquindi permettere un’applicazione estesa al di là di tutti gli oggetti dei sensi.

Kant, Critica della ragione pura, Libro II, Cap. III, edizione citata

Il nostro compito non consiste qui nel trattare dell’illusione empirica (peresempio, dell’illusione ottica), che si incontra nell’uso empirico di regoledell’intelletto (per altri aspetti giuste), e dalla quale la capacità di giudizio èfuorviata, attraverso l’influsso dell’immaginazione. Piuttosto, noi abbiamo ache fare soltanto con l’illusione trascendentale, la quale influisce suproposizioni fondamentali, il cui uso non mira mai all’esperienza (nel casoche esse si applicassero all’esperienza, noi avremmo almeno una pietra diparagone per la loro correttezza); quest’illusione, anzi, a dispetto di tutti gliavvertimenti della critica, ci conduce completamente al di là dell’uso empiricodelle categorie, e ci tiene a bada col miraggio di un’estensione dell’intellettopuro. […]E’ un’illusione, questa, che non può assolutamente essere evitata, allo stessomodo che non possiamo evitare che il mare ci appaia più alto in distanza chein prossimità della spiaggia, in quanto nel primo caso lo vediamo medianteraggi luminosi più alti che nel secondo, o per scegliere un esempio ancora piùnotevole, allo stesso modo che neppure l’astronomo può impedire che la lunagli appaia più grande nel sorgere, sebbene egli non venga ingannato da questaillusione. […]Nella prima parte della nostra logica trascendentale, abbiamo definitol’intelletto come la facoltà delle regole; qui noi distinguiamo la ragionedall’intelletto, col chiamarla la facoltà dei principi. […]Se l’intelletto è una facoltà di dare unità alle apparenze mediante le regole, laragione è allora la facoltà di dare unità alle regole dell’intelletto in base aprincipi. Perciò la ragione non si rivolge mai direttamente all’esperienza, o adun qualche oggetto, ma si indirizza all’intelletto, per dare a priori, medianteconcetti, un’unità alle molteplici conoscenze di esso: tale unità può chiamarsiunità della ragione, ed è di natura del tutto differente dall’unità che puòessere prodotta dall’intelletto. […]Orbene, il nostro compito nella dialettica trascendentale […] è il seguente:vedere se la suddetta proposizione fondamentale, secondo cui la serie dellecondizioni […] si estende sino all’incondizionato, abbia oppure no una suaesattezza oggettiva; […] poi trovare quali fraintendimenti e quali illusioni

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possano essersi insinuati nei sillogismi, la cui premessa maggiore sia statafornita dalla ragione pura […].

Kant, Critica della ragione pura, Dialettica trascendentale, Introduzione, ed. citata

Della conoscenza razionale Kant non si occupa solo nell’ “Analitica trascendentale”, maanche nella successiva “Dialettica trascendentale”. Per Kant, infatti, la conoscenzarazionale è di due tipi:

a) quella basata sull’intelletto, che produce la scienza della natura;b) quella basata sulla ragione, che ha prodotto la scienza metafisica.

La Dialettica (intesa come logica della totalità) trascendentale (perché basata sullecategorie) si occupa di questo secondo tipo di conoscenza razionale. Mentre l’Analiticatrascendentale assumeva come dato evidente la verità oggettiva della scienza della natura,in particolare della fisica, e si poneva l’obiettivo di metterne a fuoco i fondamentignoseologici ed epistemologici; la Dialettica trascendentale assume come dato altrettantoevidente l’illusorietà della metafisica, cioè l’infondatezza della sua pretesa di essere scienza,e si propone due obiettivi:

1) smascherare l’illusione metafisica, ossia mostrare i suoi trucchi logici, vale adire le sue fallacie, e quindi argomentare che le sue conoscenze non sonoscientifiche, ovvero che non sono né possono essere universali e necessarie;

2) salvaguardare e anzi valorizzare l’esigenza metafisica della ragione e laconnessa possibilità di fare un uso metodologico dei concetti metafisici perpungolare lo sviluppo della scienza della natura.

Kant introduce la sua interpretazione della metafisica usando l’allegoria dell’oceano “vastoe tempestoso”, coperto di nebbia e punteggiato da iceberg. Il navigatore oceanicoinsoddisfatto dell’esplorazione della terraferma – un’isola piccola in confronto alla vastitàdell’oceano – si avventura sulle acque vaporose e crede di scoprirvi altre terre, altre isole.In realtà è vittima di un’illusione ottica perché ciò che crede terra – gli iceberg – sono inrealtà solo montagne di ghiaccio, cioè pur sempre acqua marina, destinate a sciogliersi alprimo sole. Tuttavia il navigatore oceanico non smette di cercare, perché sente un bisognoinsopprimibile di conoscere l’oceano e dunque spera sempre che prima o poi un iceberg siriveli un’isola vera.L’isola è il mondo fisico, ovvero il territorio dell’esperienza sensibile e quindi della scienza.L’oceano è la possibile realtà che non è né può essere oggetto della nostra esperienzasensibile, e quindi di scienza, ma che non possiamo fare a meno di pensare che possasussistere dal momento che la nostra esperienza e la nostra scienza sono limitate. Ilnavigatore oceanico è, in senso stretto, il metafisico, colui che crede sia possibile costruireuna scienza totale, illimitata, ovvero conoscere ciò che è al di là del mondo fisico di cuifacciamo esperienza. Ma, in senso più ampio, il navigatore oceanico è ogni uomo, che, inquanto dotato di ragione, non può fare a meno voler conoscere l’ignoto. L’imbarcazione delnavigatore oceanico, infatti, è la ragione stessa, la quale è la facoltà che aspira allaconoscenza della totalità. L’iceberg è l’illusione metafisica, cioè la credenza in buona fedenella verità di concetti non basati sulla conoscenza sensibile.Fuor di metafora, dopo aver fatto un uso generico del termine “ragione”, come l’insieme ditutte le facoltà conoscitive, Kant introduce un nuovo significato di ragione, come quellaspecifica ma suprema facoltà che non si accontenta della conoscenza razionaledell’intelletto, basata sull’esperienza sensibile e quindi limitata, ma vuole estenderla allatotalità incondizionatamente, cioè facendo a meno appunto della condizionedell’esperienza sensibile. In questo senso, la ragione, facendo un uso metaempirico dellecategorie, unifica i concetti empirici in 3 concetti metafisici e, in definitiva, in uno solo.Kant chiama i 3 concetti metaempirici della ragione “idee”, nel significato platonico. Essesono:

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1) l’idea di anima (o idea psicologica), come totalità unitaria dei fenomeni interiori,cioè intramentali o psichici;

2) l’idea di mondo (o idea cosmologica), come totalità unitaria dei fenomeni esterni,cioè extramentali o fisici;

3) l’idea di Dio (o idea teologica), come totalità unitaria di tutti i fenomeni psichici efisici, ossia come sintesi delle 2 idee precedenti e quindi come sintesi unitaria totale.

Le idee, pur essendo concetti del tutto indipendenti dall’esperienza, e quindi puramenterazionali, non sono categorie, perché non sono forme da applicare all’esperienza macontenuti conoscitivi indipendenti; ma non sono nemmeno concetti empirici, perché non sifondano sull’intuizione sensibile. Esse sono quei “noumeni” in senso “positivo”, cioè gliintellegibili puri oggetto di intuizione razionale, che Kant aveva già dichiarato fuorilegge inambito scientifico. Ora il suo obiettivo è confutarle, cioè smontarle per esibire i lorotrucchi, per svelare l’inganno che nascondono. Ma, poiché in queste 3 idee Kant sintetizzatutta la storia della metafisica, e quindi attraverso di esse espone altresì la suainterpretazione della tradizione metafisica, confutandole si propone di sottrarre allametafisica ogni patente di scientificità.

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MAPPA della TAPPA 6

basata su

LA RAGIONE (in senso debole ossia generico)è la razionalità dell’uomo in generale che siarticola in diverse facoltà

L’INTELLETTO è la facoltà conoscitivache:

si basa su esperienza sensibile; si limita alla realtà fenomenica.

METAFISICA =conoscenza illusoria (gliiceberg creduti isole)

LA RAGIONE (in senso forte ossiaspecifico) è la facoltà conoscitiva che:

aspira a conoscere la totalità(l’oceano sconfinato);

supera i limiti della realtàfenomenica (la terraferma comepiccola isola).

ANIMAin quanto totalità di tutti i

fenomeni interni alla coscienzaumana

MONDOin quanto totalità di tutti i

fenomeni esterni, cioè fisici

DIOin quanto totalità sia dei fenomeniesterni sia dei fenomeni esterni,ossia totalità sintetica, unica e

suprema

3 IDEE,ossia 3 concetti puramente

razionali, conoscibili direttamentedalla ragione senza passare per

l’esperienza

SCIENZA =conoscenza universale e

necessaria

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TAPPA 7KANT: LA CONFUTAZIONE DELLA METAFISICA

Il procedimento della psicologia razionale è dominato da un paralogismo chetrova espressione nel seguente sillogismo:Ciò che non può esser pensato diversamente che come soggetto, non esistediversamente che come soggetto, perciò è sostanza.Ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può esserepensato diversamente che come soggetto.Dunque esso esiste soltanto come tale, ossia come sostanza.Nella premessa maggiore si parla di un essere che può esser pensato ingenerale, sotto ogni aspetto, e conseguentemente anche così come può esseredato nell’intuizione. Ma nella premessa minore si parla invece di tale esseresolo relativamente al suo considerarsi come soggetto, esclusivamente inrelazione al pensiero e all’unità della coscienza, e non già anche inriferimento all’intuizione, mediante cui esso è dato al pensiero come oggetto.La conclusione è perciò inferita per sophisma figurae dictionis, ossia in basea un ragionamento sofistico. […]

Per raggiungere un fondamento sicuro, questa dimostrazione [la provacosmologica dell’esistenza di Dio, ndc) si fa forte dell’esperienza,gabellandosi in tal modo come diversa dalla prova ontologica, che si affidainteramente a concetti puri a priori. Ma l’esperienza è utilizzata dalla provacosmologica esclusivamente per fare un primo passo e giungere all’esistenzad’un essere necessario in generale. L’argomentazione empirica non è in gradodi dirci quali siano le proprietà di un tale essere; sicché la ragione se nedistacca completamente, e, affidandosi a meri concetti, cerca di determinarequali proprietà spettino in generale a un essere assolutamente necessario,cioè quale sia la cosa, tra tutte le possibili, che sia tale da racchiudere in sé lecondizioni richieste (requisita) da una necessità assoluta. La ragione credepoi di poter trovare i requisiti richiesti soltanto nel concetto dell’essererealissimo, e perciò conclude che esso è l’essere assolutamente necessario.Ma è chiaro che qui si presuppone che il concetto dell’essere fornito dellasuprema realtà sia tale da soddisfare completamente al concetto dellanecessità assoluta nell’esistenza, cioè che sia possibile conchiudere da questaa quella; tale principio era stato asserito dall’argomento ontologico, e vienetrasferito alla prova cosmologica quale suo fondamento, mentre si era partitidal presupposto di evitarlo. […]Io asserisco dunque che le idee trascendentali sono inadatte a qualsiasi usocostitutivo, per cui debbono fornire concetti di oggetti; e che se sono intese inquesto modo, si risolvono in semplici concetti raziocinanti (dialettici). Essehanno però un uso regolativo vantaggioso e imprescindibile, consistente neldirigere l’intelletto verso un certo scopo. In vista del quale le linee direttivedelle sue regole convergono in un punto, che – pur essendo null’altro cheun’idea (focus imaginarius), cioè un punto da cui non possono realmenteprovenire i concetti dell’intelletto, perché è fuori dell’esperienza possibile –serve tuttavia a conferire a tali concetti la massima unità ed estensionepossibile.

Kant, Critica della ragione pura, Dialettica trascendentale, edizione citata

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Dopo aver individuato e illustrato le 3 idee della metafisica, Kant passa alla loroconfutazione, smontandole logicamente una per una, in tutte le loro svariate componenti,allo scopo di rinvenire e mostrare i trucchi logici, ovvero le fallacie, che esse nascondono.La confutazione dell’idea di “anima”, cioè di una sostanza immateriale semplice e quindiimmortale (res cogitans di Cartesio), si impernia sull’indebita attribuzione dellacategoria della “sostanza” all’io penso o autocoscienza trascendentale. Quest’ultima, infatti,non è un oggetto dell’esperienza sensibile, ma solo una funzione, un’attività, di cui ogniuomo ha una consapevolezza immediata che nulla ha a che spartire con l’intuizionesensibile. Poiché le categorie acquistano una consistenza oggettiva se, e solo se, sonoriferite all’esperienza sensibile, ne segue che l’attribuzione della “sostanza”all’autocoscienza trascendentale è invalida. In parole più semplici, in questo caso l’ingannometafisico consiste nel travestire l’autocoscienza trascendentale da anima, ossiatrasformare la suprema attività unificatrice dell’intelletto una “cosa” puramente razionale.Dal punto di vista logico-formale, l’idea di anima si basa su una fallacia semantica, cioè suun’anfibolia o equivoco. Un esempio, diverso da quello kantiano, ma simile e soprattuttopiù semplice: “Io possiedo un pensiero unificatore; questo pensiero è puramente razionalee semplice; quindi questo pensiero è un’anima immortale”. Il sillogismo sembra valido, main realtà è invalido. Il suo trucco consiste nell’usare il termine medio (“pensiero”) in 2significato diversi, ovvero nel fatto che i concetti in ballo, anziché essere 3, sono 4, appuntoperché il termine medio ha un doppio significato. Nella prima premessa “pensiero”significa “attività pensante”, nella seconda significa “cosa pensante”, cioè “mente”. Sarebbecome se argomentassi: “Ho un campione di lana; un campione ha muscoli atletici; quindiquesto campione di lana ha muscoli atletici”.La confutazione dell’idea di mondo è più complessa perché più articolata e variegata èl’idea stessa di mondo, che ha dato luogo a diverse teorie metafisiche. Anche in questo casol’errore di fondo consiste nell’applicare le categorie a ciò che non è oggetto d’esperienzasensibile ma è soltanto inferito a partire da essa e quindi ne costituisce, per così dire,un’estensione puramente teorica. P.e., osservando il cielo stellato, possiamo constatare lapresenza di migliaia di stelle e porci il problema se il loro numero sia finito o infinito. Siache io risponda “finito” sia che risponda “infinito”, applico la categoria quantitativa dellatotalità a un giudizio che è un’estensione della mia esperienza sensibile, ma che noncorrisponde a un’effettiva esperienza sensibile, perché:

a) se le stelle fossero effettivamente infinite, io non potrei mai osservarle tutte;b) se fossero effettivamente finite io non potrei comunque saperlo in quanto non

dispongo di un criterio di verità che mi permetta di stabilire se le stelle che osservosono tutte o solo una parte, ce ne potrebbero sempre essere molte altre chesemplicemente non riesco a vedere.

Si tratta, insomma, di una questione indecidibile: non si può escludere né che le stellesiano finite, né che siano infinite, ovvero si è costretti ad ammettere che entrambe lesoluzioni sono possibili.Secondo Kant, i metafisici non hanno compreso questo limite logico e non l’hanno quindirispettato. L’esito è stato la produzione di 4 antinomie, cioè di 4 coppie di tesi antitetiche,legate a 2 opposte concezioni del “mondo”:

I antinomia relativa alla grandezza/durata del mondo ( categoria quantitativa dellatotalità):

a) il mondo è spazio-temporalmente finito;b) il mondo è spazio-temporalmente infinito.

II antinomia relativa alla costituzione della materia (categoria qualitativa della realtà):a) la materia è una sostanza semplice ed omogenea;

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b) la materia è una sostanza composta di corpuscoli differenziati.

III antinomia relativa alla relazione di causa ed effetto (categoria relazionale dellacausalità)

a) la causalità naturale è sia meccanica sia libera (finalistica);b) la causalità naturale è solo meccanica.

IV antinomia relativa all’origine del mondo (categoria modale dellanecessità/contingenza):

a) l’esistenza del mondo presuppone un essere necessario;b) l’esistenza del mondo è del tutto contingente.

Secondo Kant, insomma, l’idea di mondo ha prodotto 2 visioni metafisiche, la prima di tiporazionalistico o idealistico (tesi a) e la seconda di tipo materialistico-meccanicistico(tesi b), ognuna della quali è il negativo dell’altra. Il punto è che la loro contrapposizionenon può essere risolta né a favore di una né a favore dell’altra. In altri termini, è unabattaglia inutile perché nessuno dei due eserciti può vincere e quindi finiscono solo perdistruggersi a vicenda. In questo senso, l’idea di mondo si confuta innanzitutto da sola inquanto produce dei risultati insuperabilmente ambivalenti e dunque scientificamentesterili e anzi autolesionistici. Ma c’è di più. Per Kant infatti le tesi delle prime 2 antinomiesono entrambe false, perché l’esperienza scientifica è ricerca che si sviluppa, work inprogress, e quindi da una parte supera sempre ogni conclusione finita e dall’altra però nonraggiunge mai la totalità infinita; invece le tesi delle altre 2 antinomie possono essereentrambe vere, in quanto logicamente compatibili tra loro e quindi ontologicamenteentrambe possibili.La confutazione dell’idea di Dio, culmine della metafisica, è di tipo propriamente logico-argomentativo, e di base fa sempre leva sull’uso scorretto delle categorie, in questo casodella categoria modale dell’esistenza. L’idea di Dio, infatti, si fonda sulle cosiddette“prove”, ossia sulle argomentazioni razionali, della sua esistenza. Kant le sintetizza tutte in3 prototipi:

1) l’argomento ontologico o prova a priori (Anselmo d’Aosta e Cartesio);2) la prova cosmologica (ex possibili et necessario di Tommaso d’Aquino);3) la prova teleologica o finalistica (ex fine di Tommaso d’Aquino, ma anche

di molti altri prima e dopo).L’argomento ontologico sostiene che, avendo ogni uomo il concetto di Dio come essereinfinito e perfetto, ogni uomo deve ammetterne l’esistenza altrimenti cadrebbe incontraddizione. Kant afferma che quest’argomentazione contiene 2 trucchi, a seconda dicome la si interpreti. In prima battuta essa potrebbe nascondere una petitio principii, senon addirittura una tautologia analitica, in quanto avendo definito nella premessa Diocome infinito e perfetto si è già inclusa implicitamente la proprietà dell’esistenza in questadefinizione, per cui nella conclusione si afferma esplicitamente ciò che occultamente eragià contenuto nella premessa. In seconda battuta, se anche così non fosse, la conclusionesarebbe un non sequitur, perché il predicato dell’ “esistenza”, essendo una categoria, si puòconferire a qualcosa che sia oggetto di un’esperienza sensibile. Altrimenti detto, l’esistenzadi qualcosa, a differenza di altre proprietà, non si può dedurla dal suo concetto. P.e., dalconcetto di corpo posso dedurre la sua spazio-temporalità, ma non la sua esistenza. Allostesso modo, dal concetto di Dio posso dedurre la sua superiorità, ma non la sua esistenza.Giocando sul fatto che alcune proprietà sono deducibili dal concetto di qualcosa,l’argomento ontologico fa finta che la proprietà dell’esistenza sia una di queste. Ma èappunto un trucco.

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Secondo la prova cosmologica, poiché il mondo è contingente, ossia poteva esistere tantoquanto non esistere, dato che esiste, bisogna presupporre l’esistenza di un esserenecessario, ovvero di una causa prima che lo ha fatto esistere. Kant afferma che i concettidi “causa prima” ed “essere necessario” sono costituiti dalle categorie della causalità e dellanecessità in assenza dell’indispensabile riferimento a una corrispondente intuizionesensibile. Noi, infatti, possiamo inferire una causa prima dall’intuizione sensibile dellaserie delle cause seconde, ma inferire è diverso da esperire. Inoltre, un conto sarebbeasserire un essere necessario, tutt’altro che esso esiste e coincide con Dio. In quest’ultimomodo, ricadiamo nell’errore/trucco dell’argomento ontologico, ossia attribuiamol’esistenza a qualcosa di solamente inferito ma non esperito.La prova teleologica fa leva sulla constatazione dell’ordine mirabile del cosmo perconcludere che esso presuppone un Grande architetto. Nelle versioni più recenti, essa erastata riformulata nella fortunatissima argomentazione dell’orologio e dell’orologiaio: cosìcome l’esistenza di un orologio è impensabile senza quella dell’orologiaio che l’ha costruito,allo stesso modo l’esistenza del cosmo (ancora più complesso e perfetto di un orologio) èimpensabile senza l’esistenza di Dio. Kant comincia la sua opera demolitrice rilevando chela prova teleologica non considera l’ipotesi, del tutto plausibile, che il cosmo possa esserecapace di autorganizzarsi, cioè che possa possedere un principio d’ordinamentoimmanente. Si sarebbe dovuto preliminarmente confutare questa ipotesi, ma ciò non èstato fatto e quindi la conclusione della prova teleologica risulta comunque parziale. Insecondo luogo, Kant nota che anche questa prova salta dal concetto di un GrandeArchitetto a quello di Dio, dunque ricade nello stesso errore della prova cosmologica.Infine, nel momento in cui, per superare questa difficoltà, sostiene che l’ordine del mondoè così perfetto che esso non può non implicare un Architetto infinito e perfetto, ossia Dio,secondo Kant commette un doppio errore: da un lato, salta dal finito all’infinito, dalmomento che l’ordine cosmico che noi possiamo constatare rimane pur sempre finito;dall’altro attribuisce comunque indebitamente la proprietà dell’esistenza a qualcosa diinferito ma non di esperito, ricadendo nell’errore dell’argomento ontologico.In conclusione, secondo Kant, l’esistenza di Dio non può essere argomentatarazionalmente, ossia non può essere sancita dalla scienza, a differenza di quanto avevacreduto Newton. Ma Kant non pensa nemmeno che la scienza attesti l’inesistenza di Dio eche quindi possa o debba diffondere l’ateismo. Egli sa bene che, in tal caso, cadrebbe a suavolta nella fallacia ad ignorantiam, secondo cui la confutazione di una tesi equivale alladimostrazione della sua antitesi. Kant sostiene invece che la questione dell’esistenza oinesistenza di Dio non pertiene all’ambito della scienza, ossia non ricade sotto il dominiodella razionalità teoretica o conoscitiva. La scienza non può e non deve pronunciarsi suDio, ovvero la conoscenza scientifica è neutrale nello scontro tra teisti e ateisti.Avendo così terminato la pars destruens della Dialettica trascendentale, Kant puòconcedersi una pars construens. In realtà la valorizzazione selettiva della ragione e dellametafisica era già stata annunciata in apertura della “Dialettica trascendentale”, laddoveKant aveva insistito non solo sul fatto che il bisogno metafisico appartiene alla costituzionestessa della ragione, ma anche sul fatto che la ragione metafisica certo sbaglia, ma il suo èun nobile errore in quanto commesso in nome della conoscenza (vedi l’Ulisse dantesco).In sintonia con queste anticipazioni, nella conclusione Kant afferma che è possibile e anzidoveroso un uso “regolativo” delle 3 idee della ragione, in alternativa al loro erroneo uso“costitutivo”, cioè al loro uso come concetti scientifici. Questo uso alternativo consiste nelconferire alle 3 idee il ruolo di traguardi irraggiungibili ai quali però è possibile avvicinarsisempre più, ossia di considerarle una sorta di calamite e insieme di catalizzatori dellaricerca scientifica. Le idee metafisiche, infatti, incarnano l’ideale di una conoscenzaquantitativamente completa e qualitativamente del tutto unificata. Dunque se, purconsapevole della loro inconoscibilità, lo scienziato cerca tuttavia di avvicinarle allora sarà

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spronato ad incrementare la sua esperienza e al contempo a unificare sempre più le sueteorie, in poche parole a fare sempre più della buona scienza.Non pago, Kant accenna a un ulteriore valore della ragione dialettica o metafisica, quello dianticipare le scoperte della ragione pratica o morale e quindi di gettare un ponte tra lascienza e l’etica. Implicitamente, Kant ci fa così intravedere che c’è un’altra modalità peresplorare l’oceano tempestoso e nebbioso che circonda l’isola della scienza, senza rimanereabbagliati dall’illusione della terraferma prodotta dalle montagne di ghiaccio galleggianti,ma scoprendo una seconda isola reale benché con una natura molto diversa dalla prima.

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MAPPA della TAPPA 7

basata ma dunquesu

4 ANTINOMIE DELLA RAGIONETESI ANTITESI

Finito InfinitoPartiindivisibili

Parti sempredivisibili

Causalitàlibera

Causalità meccanica

Necessario Possibile

basata su inficiate da

IDEA DELL’ANIMAcome conoscenza diuna sostanzaimmateriale, semplicee quindi immortale

IDEA DIMONDOcomeconoscenzacompletadel cosmo

L’io penso non èun oggettod’esperienza mauna funzionetrascendentale

Attribuzionedellacategoriadellasostanzaall’io penso

3 PROVEDELL’ESISTENZA DI DIO:

1) prova a priori oargomento ontologico

2) prova cosmologia3) prova teleologica o

finalistica

La scienza non lepuò confermarema nemmeno

smentire

DIOcome

conoscenzacompleta

dell’origine,del fine e delsenso di tutta

la realtà

Sono problemiirrisolvibili in quantomanca il criterio di

giudizio: l’esperienzasensibile

L’io penso nonpuò essere

identificato conl’anima, poiché

le categorie sonoriferibili soloall’esperienza

Fallacie, cioè da errorilogici mascherati, epertanto non valide

Vietato farne unUSO COSTITUTIVOma necessario farne unUSO REGOLATIVO

La scienza deveassumere le 3 ideecome meteirraggiungibili cuitendere così daestendersi e rendersisempre più unitaria

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TAPPA 8KANT: LA RAGIONE PRATICA E LA LEGGE MORALE

I principi pratici sono proposizioni che contengono una determinazioneuniversale della volontà, la quale ha sotto di sé parecchie regole pratiche. Essisono soggettivi, ossia massime, se la condizione viene considerata dalsoggetto come valida soltanto per la sua volontà; ma oggettivi, ossia leggipratiche, se la condizione vien riconosciuta come oggettiva, cioè valida per lavolontà di ogni essere razionale. […]Nella conoscenza pratica, cioè in quella che si occupa semplicemente deimotivi determinanti della volontà, i principi che c’imponiamo non sonoancora perciò delle leggi alle quali sia inevitabile sottostare, perché la ragionenell’uso pratico ha a che fare col soggetto, cioè con la facoltà di desiderare e,secondo la disposizione particolare di questa facoltà, si può adattarevariamente la regola. La regola pratica è sempre un prodotto della ragione,perché prescrive l’azione come mezzo all’effetto come fine. Ma per un essere,per cui il motivo determinante della volontà non è unicamente la ragione,questa regola è un imperativo, cioè una regola che viene caratterizzatamediante un dovere [ein Sollen] esprimente la necessità oggettiva dell’azione:essa significa che, se la ragione determinasse interamente la volontà, l’azioneavverrebbe immancabilmente secondo questa regola. Gl’imperativi hannodunque valore oggettivo, e sono affatto differenti dalle massime, in quantoqueste sono principi soggettivi. Quelli, invece, o determinano le condizionidella causalità dell’essere razionale, come causa efficiente, semplicementeriguardo all’effetto e alla sufficienza ad esso, o determinano soltanto lavolontà, sia questa sufficiente o no all’effetto. I primi sarebbero imperativiipotetici, e conterrebbero semplici precetti dell’abilità; i secondi invecesarebbero imperativi categorici e soltanto leggi pratiche. […] Queste ultimedevono determinare sufficientemente la volontà come volontà, ancor primache io domandi se ho il potere necessario a un effetto desiderato, o che cosadebba fare per produrlo. […]§ 7. LEGGE FONDAMENTALE DELLA RAGION PURA PRATICAOpera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ognitempo come principio di una legislazione universale.

Kant, Critica della ragion pratica, Laterza 1986, Libro I, capitolo I

La ragione per Kant non è solo teoretica, ossia relativa alla conoscenza contemplativa edistaccata della realtà fisica; essa è anche pratica, ossia capace di giudicare e guidare ilcomportamento umano sulla base di principi pratici specifici.Per “principio pratico” (o morale o etico) Kant intende un giudizio capace di determinarela volontà e che dunque si traduce in un’azione. P.e., “mi alzo”, piuttosto che “rimangosdraiato a letto” o “mi metto a saltare sul materasso”, in quanto mi fanno fare l’azionecorrispondente, finendo per essere tutt’uno con quell’azione.Secondo Kant i principi pratici possono essere di 2 generi:

“massime” : sono principi pratici soggettivi nel senso comune del termine, cioèvalidi solo per un singolo individuo. Gli esempi di prima sono, dunque, tuttemassime, tanto quanto “studio 3 ore” oppure “me ne vado al cinema”;

“imperativi”: sono principi pratici oggettivi, nell’unico senso possibile in ambitomorale, cioè “universali”, validi per tutti gli uomini.

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Dunque, a differenza delle massime, gli imperativi sono regole o leggi di comportamento.Proprio come tali sono “imperativi”, ossia hanno una forma logico-verbale dicomando:“Fai questo!”. Ma, a loro volta, gli imperativi possono essere di 2 specie:

a) imperativi ipotetici, ossia relativi a una condizione data;b) imperativi categorici, ossia incondizionati.

I primi comandano di comportarsi nel modo ritenuto più funzionale a raggiungere undeterminato obiettivo, che ne è dunque la condizione: p.e., “se vuoi vincere la corsa allenatitutti i giorni!”. In altri termini, gli imperativi ipotetici si basano su una razionalitàstrumentale, cioè capace di indicare il mezzo migliore per raggiungere un finesemplicemente postulato. La loro universalità, e quindi la loro razionalità, è pertantorelativa e limitata, in quanto non si riferisce al problema cruciale, ovvero quello dellarazionalità del fine. Tant’è vero che “se vuoi rapinare una banca, trovati un bravo palo!” èuna regola pratica dello stesso livello di razionalità di quella precedente.Gli imperativi categorici, invece, sono incondizionati, senza “se” né “ma”, e si riferisconopertanto proprio allo scopo di un comportamento, ovvero si fondano su una razionalitàrispetto al fine e sono quindi deputati alla scelta dei fini delle nostre azioni. Essi sono 3:

1. “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere in ogni tempocome principio di una legislazione universale”.

2. “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella diogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

3. “Agisci in modo tale che la volontà, in base alla massima, possa considerarecontemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice.”

In realtà, si tratta di 3 versioni di un’unica legge morale. Infatti, la seconda e la terzaformulazione della legge morale sono specificazioni della prima, quella fondamentale.Questa sostiene che le azioni devono attuare massime che abbiano un valore universale,cioè che siano valide per ogni uomo, ossia per l’intera umanità, e in ogni epoca, passata,presente e futura. In termini più semplici, l’imperativo categorico ci impone di agireuniversalmente, cioè per il bene dell’intera umanità; mai per il bene di un solo uomo osolamente di una parte degli uomini, per quanto ampia possa essere. La legge morale,dunque, è antitetica non solo all’egoismo individuale, ma anche a qualsiasi particolarismo,che sia familiare, di gruppo, di partito o anche di una nazione intera.La seconda versione della legge morale ne mette a fuoco l’aspetto relazionale. Agireuniversalmente implica considerare sia me stesso sia ogni altra persona mai solo come unmezzo ma anche sempre come un fine, ossia non usare me stesso e un altro solo come unostrumento, cioè come una cosa. P.e., se uno studente studia incessantemente al di là dellesue energie psicofisiche e trascurando ogni altra attività e ogni rapporto personale; oppurese uno studente è amico di un proprio compagno solo perché e fintantoché questo lo aiutaa fare i compiti a casa; allora, in entrambi questi casi, secondo Kant non ci si comportamoralmente. In questa seconda formulazione della legge morale ci sono 2 aspetti daevidenziare:

ogni individuo deve considerare un fine anche se stesso, non solo gli altri: l’eticakantiana non sostiene il sacrificio di se stessi o l’autolesionismo per il bene deglialtri, a meno che non sia indispensabile e comunque solo in casi-limite (p.e.: ioposso affrontare il rischio di farmi male per salvare un altro da morte sicura);

ogni individuo deve considerare sé e gli altri sempre e soprattutto come fini assoluti,ma ciò non esclude che non possa considerarli anche come mezzi relativi (p.e.,l’amicizia sincera per qualcuno non è in contraddizione con il fatto che io mi aspettiche mi aiuti in caso di difficoltà).

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La terza formulazione della legge morale, invece, evidenzia l’intenzionalità dell’agiremorale. In altre parole, per Kant per comportarci moralmente non è sufficiente chefacciamo un’azione fisica conforme a una massima universale. Anzi, addirittura non ènemmeno necessario. E’ necessario, e sufficiente!, che noi vogliamo davvero seguire unamassima universale, ossia è indispensabile che interiormente siamo sinceramente convintiche essa è la migliore ed è necessario che sentiamo l’esigenza di attuarla. Se io presto deisoldi falsi, senza sapere che lo sono, a un mio amico e questi poi, spendendoli, vienescoperto e arrestato, la mia azione, a giudizio di Kant, è pienamente morale. Viceversa, segli presto dei soldi appena usciti dalla zecca di Stato, ma del tutto controvoglia e soloperché temo che gli altri mi considerino un taccagno, la mia azione per Kant non è morale.Tutt’e tre le formulazioni dell’imperativo categorico mettono in luce la sua caratteristicafondamentale: la pura formalità. Ciò significa che la legge morale non ha un contenutopreciso, non prescrive delle massime specifiche, non dice “fai questo o quello”, ma indicasolo il criterio generale in base al quale, a seconda delle circostanze e delle esigenzepratiche, ogni individuo deve scegliere come comportarsi. P.e., non impone a uno studentein classe di rispondere sempre alla domanda di un suo compagno, ma di rispondergliquando è “universale” farlo, il che può voler dire che deve rispondergli al di fuoridell’orario di lezione, ma che non deve invece rispondergli nel corso della lezione.In quanto pura forma, la legge morale è incondizionata, ossia del tutto disinteressata, equindi completamente autonoma (in senso etimologico: “legge a se stessa”, cioè leggesovrana). Da questo punto di vista, Kant confuta tutte le morali precedenti, tra loro diversee anche opposte, ma accomunate dal fatto di adottare come principio un contenuto praticoe pertanto di essere subordinate a una condizione esterna, cioè viziate dall’eteronomia(“legge diversa da sé”, cioè legge dipendente da un’altra). Che il principio sia il piaceresensibile (“Agisci in modo tale da ottenere il massimo piacere”), come in Epicuro, o laperfetta impassibilità, come per gli stoici, o l’avvicinarsi a Dio e quindi ottenere la salvezzaeterna, come per Tommaso d’Aquino e in genere per le religioni cristiane, o ancora ilsentimento della simpatia, come in Hume, in tutti i casi il risultato finale non cambia:l’agire risulta sempre interessato, è sempre condizionato da qualcosa di diverso dalla leggemorale e pertanto non è autonomo, ovvero non è morale.Certo, afferma Kant, si potrebbe dire che si deve agire per perseguire la felicità non solopropria ma anche degli altri. Questa regola pratica sarebbe “oggettiva” e al contempoavrebbe un contenuto, in quanto la felicità consiste nel benessere materiale e psicologico diuna persona. Ma a ben vedere, sostiene Kant, essa è oggettiva in tanto in quanto comandal’universalità, cioè in quanto si riferisce all’intera umanità. In altre parole, la sua oggettivitànon è insita nel suo contenuto - il benessere psicofisico, che potrebbe essere variamenteinterpretato da ognuno - ma nella sua pura forma, che come tale è rigorosamenteuniversale e necessaria. In quanto puramente formale, in quanto fondata sul principiodella pura universalità, la legge morale, poi, può e deve assumere come contenuto ilperseguimento del benessere psicofisico di tutti gli uomini, ma essa viene prima di talecontenuto e pertanto ne costituisce il fondamento.Corollario dell’assoluta autonomia della legge morale è che essa non si fonda sul bene, mane è il fondamento. In altre parole, i criteri costitutivi dell’etica, il bene e il male, sonoistituiti dalla legge morale, non ne sono i presupposti. Detto altrimenti: per Kant se unamassima è universale allora è buona, e l’inverso (se una massima è buona allora èuniversale) non vale. Insomma, è l’universalità il criterio del bene, ossia il bene èl’universalità, non viceversa.In questo modo, Kant attua la sua “rivoluzione copernicana” anche in ambito morale oetico. Anzi, si può a buon diritto sostenere che la “rivoluzione copernicana” in campomorale è ancora più radicale che in quello teoretico. Infatti, mentre a livello conoscitivo laragione pura deve sottomettersi alla condizione dell’intuizione sensibile, a livello morale, al

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contrario, la ragione deve imporre la sua assoluta sovranità sulla sensibilità. La leggemorale, in questo senso, è un “a priori” della ragione, ovvero un “noumeno”, cioè unprincipio puramente razionale del tutto indipendente dal mondo fisico e dunquedall’esperienza sensibile. In ambito morale, al contrario che in quello scientifico, il legameall’esperienza non solo non è richiesto, ma è recisamente proibito.Confermando e accentuando la maggiore radicalità della “rivoluzione copernicana” morale,Kant giunge a proclamare il primato della ragione pratica su quella teoretica (ospeculativa). Ciò significa che per Kant il fine ultimo dell’uomo è l’agire morale, di cuidunque la scienza è un mezzo.

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MAPPA della TAPPA 8

RAGIONEPRATICA

MASSIMEprincipi pratici singolari eimmediati, di per sésoggettivi.P.e.: “Mangio la minestra”.

IMPERATIVIprincipi pratici generali

IPOTETICIbasati su una condizione solopostulata e quindi di validitànecessaria ma limitata.P.e.: “Se vuoi vincere la gara,devi allenarti molto.”

LEGGE MORALE formale disinteressata autonoma intenzionale

CATEGORICIIncondizionati e quindi

universali e necessari, cosìsintetizzabili:

AGISCI ADOTTANDOUNA MASSIMA CHEABBIA UN VALORE

UNIVERSALE

E’ la legge morale che stabiliscecosa sono il bene e il male e non

viceversa

RIVOLUZIONE COPERNICANAIn ambito pratico-morale la ragione èsovrana e deve imporre la sua legge

alla realtà fisica

VOLONTA’Capacità della ragione di

determinare i comportamenti inbase ai propri principi pratici

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TAPPA 9KANT: LA VIRTU’, LA SANTITA’ E IL MALE RADICALE

Ma nell’uomo la legge ha la forma di un imperativo, perché in esso, a dir vero,come essere razionale, si può bensì supporre una volontà pura, ma, in quantoessere soggetto a bisogni ed a cause determinanti sensibili, non si puòsupporre una volontà santa, cioè tale che non sarebbe capace di nessunamassima contraria alla legge morale.

Kant, Critica della ragion pratica, Laterza 1986, Libro I: Analitica, capitolo I

Se il fanatismo nel senso più generale è una trasgressione, intrapresa secondoprincipi, dei limiti della ragione umana, il fanatismo morale è questo passarei limiti che la ragion pura pratica pone all’umanità […].Se è così, non solo i romanzieri e i pedagoghi sentimentali […] ma persino ifilosofi, anzi i più rigidi di tutti, gli stoici, hanno introdotto il fanatismomorale, invece della fredda, ma saggia disciplina dei costumi, ancorché ilfanatismo degli ultimi fosse più eroico, e quello dei primi di carattere piùinsipido e tenero; e si può, senza ipocrisia, con tutta verità ripetere delladottrina morale del Vangelo, che essa, anzitutto mediante la proporzione diesso ai limiti degli esseri finiti, ha assoggettato ogni buona condotta dell’uomoalla disciplina di un dovere posto davanti ai suoi occhi, che non lasciavaneggiare in perfezioni morali immaginarie, e ha posto i confini dell’umiltà(cioè della conoscenza di sé) alla presunzione, e così pure all’amor proprio,entrambi i quali ignorano volentieri i propri limiti.

Kant, Critica della ragion pratica, ed. cit., Libro I: Analitica, capitolo III

[…] la ragione del male non può trovarsi in alcun oggetto determinantel’arbitrio per inclinazione, né in alcun istinto naturale; ma soltanto in unaregola che l’arbitrio dà a se stesso per l’uso della sua libertà; vale a dire in unamassima. […]La frase: “l’uomo è cattivo” non può, dopo ciò che precede, voler dire altracosa che questo: l’uomo è consapevole della legge morale, ed ha tuttaviaadottato per massima di allontanarsi (occasionalmente) da questa legge. […]si può presupporre la tendenza al male come soggettivamente necessaria inogni uomo, anche nel migliore. Ora, questa tendenza bisogna considerarlaessa stessa come moralmente cattiva, e perciò non come una disposizionenaturale, ma come qualche cosa che possa essere imputato all’uomo, ebisogna quindi che essa consista in massime dell’arbitrio contrarie alla legge.Ma, d’altronde, queste massime, in ragione appunto della libertà, bisogna chesiano ritenute in se stesse contingenti, ciò che, a sua volta, non può accordarsicon l’universalità di questo male se il fondamento supremo soggettivo di tuttele massime non è, in un modo qualsiasi, connaturato con la stessa umanità equasi radicato in essa. Ammesso tutto ciò, potremo allora chiamare questatendenza una tendenza naturale al male, e, poiché bisogna pur sempre cheessa sia colpevole per se stessa, potremo chiamarla un male radicale, innatonella natura umana (pur essendo, ciò non di meno, prodotto a noi da noistessi).

Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza 2004, capitolo I

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La legge morale, secondo Kant, è per ogni uomo una verità pratica di assoluta evidenza, edunque indiscutibile e irrefutabile. Questo però non implica che essa sia, e nemmeno chepossa essere, sempre rispettata. Anzi. Spesso e volentieri gli uomini trasgrediscono la leggemorale, cioè si comportano immoralmente. Come può accadere?In primo luogo, Kant chiarisce che l’uomo non è solo ragione ma anche sensibilità, ossia èun essere biologico soggetto alle leggi naturali, condizionato da bisogni, desideri,inclinazioni, pulsioni. Ne segue che la legge morale, puramente razionale, deve fare i conticon la fisiologia naturale dell’uomo, la quale non è antimorale, ma è certamente amorale, equindi non si accorda con la moralità. Di fatto, se l’uomo vuole agire moralmente deve, aseconda dei casi, contenere o addirittura reprimere i propri istinti. A tal punto che Kantarriva a dire che la legge morale ci si manifesta a livello psicofisico nel sentimento deldolore. In altri termini, la moralità non può essere spontanea, non si può praticare senzasforzo, tensione e anche sofferenza corporale. Per questo la legge morale ha la forma di unimperativo, per questo non è un essere, ma un dover essere, cioè un “tu devi agire così”!Ma, a un livello più profondo, Kant sostiene che la causa della trasgressione della leggemorale da parte dell’uomo non è nella sua fisiologia, ma nel suo libero arbitrio, nella suastessa volontà, intesa appunto come capacità di determinare il proprio agireindipendentemente dalle leggi naturali. Tale causa è una massima, cioè una decisionepratica cosciente, il cui contenuto consiste nella trasgressione della massima coerente conla legge morale. P.e., se la legge morale mi porta a scegliere la massima “dico la verità”, lamassima antimorale consiste in “dico il falso”. In questa prospettiva, Kant afferma chebisogni, desideri e pulsioni fisiologici sono soltanto “occasioni” della scelta immorale. P.e.,se, in seguito a un naufragio su un’isola deserta, io mangio un’intera porzione di cibo senzadividerla con un altro naufrago, la fame, il bisogno impellente di mangiare, non è la causadella mia condotta immorale, ma è solo una condizione che mi dà la possibilità di sceglierela massima antimorale “non divido il mio cibo con nessun altro”. Dal momento che potreisempre controllare la mia fame e soddisfarla solo in parte, l’unica vera causa della miatrasgressione della legge morale è la mia scelta della massima antimorale. In questo sensoKant afferma che nell’uomo è innato il “male radicale” - cioè il male propriamente detto,l’agire immorale, cioè antiuniversale, scelto liberamente dall’uomo.Così stando le cose, secondo Kant la “santità” è al di là delle possibilità pratiche di qualsiasiuomo. Infatti, per “santità” Kant intende la capacità di seguire la legge morale del tuttospontaneamente, senza alcun sforzo, e quindi di comportarsi sempre moralmente. In altreparole, la santità sarebbe la perfezione morale posseduta come dono di natura. Essa èpreclusa all’uomo in quanto alberga in sé il male radicale, ossia la tendenza a sceglieremassime antimorali. Di conseguenza le morali che si prefiggono la perfezione sono perKant esempi di fanatismo, ovvero di presunzione umana. Dunque, nonostante la leggemorale sia sovrana e svincolata da qualsiasi condizionamento fisico, la vita moraledell’uomo, secondo Kant, incontra dei limiti oggettivi invalicabili. Come in ambitoscientifico, così a livello morale il criticismo kantiano mira a renderci consapevoli dellalimitatezza delle nostre capacità e a farci considerare tale consapevolezza la condizionestessa del valore delle nostre capacità. La “rivoluzione copernicana” di Kant, pertanto,mette sì l’uomo al centro della realtà ma solo in quanto essere limitato consapevole dellasua limitatezza.A questo punto, però, ci si potrebbe chiedere che senso abbia una legge morale sovrana mapoco applicabile se non quasi inapplicabile. Innanzitutto, Kant sostiene che la virtù, cioè lacapacità di agire moralmente, è costituita proprio dall’opposizione del male radicale. Senzaquesta opposizione, e senza la lotta tra scelta del bene e scelta del male che ne consegue,l’uomo non potrebbe essere virtuoso, cioè autenticamente morale. In secondo luogo, se èvero che la virtù non è illimitata, cioè che a volte, e perfino spesso, nella lotta può essere

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perdente, ciò non esclude che abbia delle ampie potenzialità, cioè che possa anche vinceree realizzarsi.Infine, anche quando trasgredisce la legge morale, l’uomo rimane sempre lucidamenteconsapevole della superiorità della moralità, ossia dentro di sé sa sempre che la sceltamigliore sarebbe stata seguire la legge morale. In parole più semplici, per Kant quando cicomportiamo immoralmente proviamo sempre rimpianto e rimorso. La legge morale puòessere negata sul piano fisico, ma su quello razionale la sua sovranità non è maiminimamente scalfita né offuscata.Tuttavia, Kant non si accontenta di queste soluzioni. Proprio l’esigenza di risolvere fino infondo il problema del contrasto tra l’assolutezza della legge morale e la relatività della suaattuazione da parte dell’uomo lo spinge a varcare la dimensione terrena per inoltrarsi inquella ultraterrena.

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MAPPA della TAPPA 9

a causa di

condizionato da

possibilità di scegliere il

impossibilità della

anche se

LA LEGGE MORALE PUO’ESSERE TRASGREDITA

FISIOLOGIA UMANA:istinti, bisogni, desiderinaturali insiti nel corpoche si oppongono allamoralità

LIBERO ARBITRIO

SANTITA’cioè della capacità umana di agirespontaneamente in modo morale equindi di comportarsi sempremoralmente

LA LEGGE MORALEa livello razionale non è

intaccata perché l’uomo èsempre cosciente di sbagliare

LA RAGIONE PURA E’SOVRANA IN AMBITO

MORALE MA DI FATTO E’LIMITATA

La consapevolezza di questolimite è condizione indispensabile

della vita morale umana

IL FANATISMO, cioè la convinzionedogmatica che un uomo possa essere

moralmente perfetto, VA RIGETTATOin quanto contrario alla moralità

MALE RADICALE:tendenza insita nell’uomo chelo spinge a seguire massimecontrarie alla legge morale

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TAPPA 10KANT: LA LIBERTA’, L’IMMORTALITA’ E L’ESISTENZA DI DIO

VI. Sui postulati della ragion pura pratica in generale.Essi partono tutti dal principio della moralità, il quale non è un postulato, mauna legge per mezzo di cui la ragione determina immediatamente la volontà.La volontà, per ciò stesso che viene determinata così, come volontà purarichiede queste condizioni necessarie all’osservanza dei suoi precetti. Questipostulati non sono dogmi teorici, ma supposizioni da un punto di vistanecessariamente pratico, e quindi non estendono la conoscenza speculativa,ma danno alle idee della ragione speculativa in genere (mediante la lororelazione con ciò che è pratico) realtà oggettiva, e le giustificano comeconcetti, la cui possibilità altrimenti essa non potrebbe neanche soltantopresumere di affermare.Questi postulati sono quelli dell’immortalità, della libertà positivamenteconsiderata (come causalità di un essere in quanto questo appartiene almondo intellegibile), e dell’esistenza di Dio. Il primo deriva dalla condizionepraticamente necessaria di una durata corrrispondente all’adempimentocompleto della legge morale; il secondo dalla supposizione necessariadell’indipendenza dal mondo sensibile e del potere della determinazione dellapropria volontà, secondo la legge di un mondo intellegibile, cioè della libertà;il terzo dalla necessità della condizione di un mondo intellegibile perl’esistenza del sommo bene, mediante la supposizione del sommo beneindipendente, cioè l’esistenza di Dio.

Kant, Critica della ragion pratica, ed. cit., Libro II: Dialettica, capitolo II

Nell’Analitica si è dimostrato che la virtù (come merito di essere felice) è lacondizione suprema di tutto ciò che ci può sembrare soltanto desiderabile,quindi anche di ogni nostra ricerca della felicità; e quindi è il bene supremo.Ma non per questo essa è il bene intero e perfetto come oggetto della facoltà didesiderare degli esseri razionali finiti: poiché per questo bene si richiedeanche la felicità […]. Poiché aver bisogno di felicità, ed esserne anche degnoma tuttavia non esserne partecipe, non è affatto compatibile col volereperfetto di un essere razionale, il quale nello stesso tempo avessel’onnipotenza, solo che tentiamo di rappresentarci un tale essere. Ora, inquanto virtù e felicità costituiscono insieme in una persona il possesso delsommo bene, per questo anche la felicità, distribuita esattamente inproporzione della moralità (come valore della persona e suo merito di esserefelice), costituisce il sommo bene di un mondo possibile; questo bene significail tutto, il bene perfetto, in cui però la virtù è sempre, come condizione, il benesupremo, perché essa non ha nessuna condizione al di sopra di sé, e la felicitàè sempre qualcosa che per colui che la possiede è bensì piacevole, ma non èbuona per sé sola assolutamente e sotto ogni rispetto, e suppone sempre comecondizione la condotta morale conforme alla legge.

Kant, Critica della ragion pratica, ed. cit., Libro II: Dialettica, capitolo II

Secondo Kant, la legge morale implica 3 “postulati”:1. la libertà del volere e quindi dell’agire;2. l’immortalità dell’esistenza individuale3. l’esistenza di Dio.

Kant usa il termine “postulato” in un’accezione personale, intendendo al contempo:

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a) una tesi non argomentata né argomentabile scientificamente edunque priva di validità razionale a livello teoretico o speculativo;

b) un presupposto necessario della legge morale e dunqueincontrovertibile sul piano pratico, dal momento che la legge moralepossiede un’evidenza razionale inoppugnabile nell’ambito dellaprassi.

Il postulato della libertà è legato all’opposizione tra la legge morale e gli impulsi naturali eancor più all’antitesi tra legge morale e il “male radicale”, cioè la tendenza innata in ogniindividuo a seguire massime incoerenti con la legge morale. Date questa opposizione equesta antitesi, la legge morale non è un esser ma un dover essere, è legge del dovere, chesi esprime nell’imperativo categorico “tu devi agire così!”. In altre parole, la vita morale ècostitutivamente conflittuale, in quanto solo l’alternativa conflittuale tra 2 possibili opzionipratiche – in sintesi tra universalità e particolarismo – istituisce la responsabilitàindividuale rispetto al proprio comportamento. Senza responsabilità individuale,naturalmente, non si potrebbe parlare di morale.Ma l’esistenza di 2 possibili opzioni pratiche da sola non basta a fondare la responsabilitàindividuale. E’ necessario infatti che l’individuo abbia la possibilità di scegliere una delledue opzioni. Dunque è necessario che io abbia la capacità di scegliere liberamente. Se devo,posso. Sarebbe insensato che la legge morale, scolpita nella mia ragione e quindiassolutamente certa, mi ordinasse in modo perentorio di comportarmi universalmente seio non fossi libero di farlo. Ne segue che la libertà è una condizione indispensabile dellalegge morale, appunto un suo postulato, e pertanto è indubbio che noi siamo liberi divolere e di agire.Attenzione, però. Il concetto di libertà di Kant è più profondo e articolato di quanto inprima approssimazione sembri. Esso infatti sottintende una distinzione tra:

a) arbitrio (o libero arbitrio), cioè la facoltà di scegliere tra massima universale emassima particolare, indipendentemente dal contenuto delle 2 opzioni, ovveroindifferentemente o neutralmente;

b) la libertà in senso proprio, cioè quella che per Kant è l’unica autentica libertà, checonsiste invece solo nella libera scelta della massima universale.

L’arbitrio (o libero arbitrio) coincide con la volontà, definita da Kant come la capacitàindividuale di determinare causalmente i nostri comportamenti. In questo senso, lavolontà può essere buona o cattiva a seconda che scelga una massima coerente oincoerente rispetto alla legge morale. Ma solo la volontà buona, cioè la volontà che sceglieuna massima universale, è libera. Perché? Perché, afferma Kant, solo in questo caso noi cisottraiamo alla determinazione causale delle leggi di natura e ci autodeterminiamo. In altritermini: se io scelgo una massima particolare non faccio altro che confermare la miasoggezione alle leggi fisiologiche e psicologiche che mi governano, ossia accetto di essereun burattino agito dai miei bisogni, desideri, istinti. Dunque sono schiavo. Invece, se ioscelgo una massima universale allora, e solo allora, sono libero, dal momento che micomporto diversamente da come prestabilito dalle leggi naturali, cioè la mia azione non ècausata dai miei bisogni, desideri, istinti.Un esempio semplice. Suona la sveglia al mattino. Provo il desiderio di dormire ancora.D’altra parte, la legge morale mi ordina di alzarmi, per arrivare puntuale a scuola. Il maleradicale che è in me mi propone di adottare la massima “non mi alzo, continuo a dormire”.Io posseggo una volontà, cioè il libero arbitrio di scegliere tra le 2 massime. Se la miavolontà aderisce a questa massima, io non faccio altro che eseguire ciò che mi impone lafisiologia del mio corpo, dunque sono “causato” dalle leggi fisiologiche del mio corpo. Se,invece, la mia volontà opta per la massima universale “ti devi alzarti e arrivare puntuale ascuola!” allora io mi svincolo dalle leggi fisiologiche del mio corpo, dunque mi comportoliberamente.

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Insomma, per Kant la libertà umana coincide con la moralità, si è liberi se si è morali e si èmorali se si è liberi. Si potrebbe obiettare che in realtà passiamo da una schiavitù all’altra,dalla padella alla brace, ovvero dal sottometterci alla legge naturale al soggiacere alla leggemorale. Entrambe ci comandano, dunque entrambe ci rendono loro burattini. Per Kantnon è così, perché per lui la legge morale è la nostra ragione, cioè la nostra identità stessa.Quando Kant sostiene che la legge morale ci ordina di comportarci in un certo modo, inrealtà sta sostenendo che io stesso ordino a me stesso di comportarmi così. La leggenaturale, secondo Kant, non costituisce il mio io, e quindi mi comanda dall’esterno:dunque io ne posso essere schiavo. Ma la legge morale è me stesso, mi comandadall’interno, sono io stesso che mi autocomando: dunque solo obbedendole sono libero.All’obbedienza alla legge morale si connette il 2° postulato della ragione pratica, quellodell’immortalità dell’esistenza individuale. Come abbiamo visto, data la limitatezza dellamoralità umana, e in particolare a causa del male radicale insito in ogni individuo, benchéla legge morale esiga di essere sempre obbedita e benché l’uomo sia sempre lucidamenteconsapevole di quale sia la scelta migliore, spesso e volentieri trasgredisce la legge morale.Com’è possibile questa contraddizione? Perché ci comandiamo di agire sempre in modouniversale e invece spesso non ottemperiamo al nostro stesso comando? Come si spiegache, da un lato, aspiriamo alla santità, cioè alla perfezione morale, all’obbedienza senzaeccezioni all’imperativo categorico, e che, dall’altro lato, l’esperienza ci attestil’impossibilità della santità? La legge morale ci impone forse qualcosa che è al di là dellenostre possibilità? Ma non sarebbe sadismo, questo?In prima battuta la risposta a queste domande è imperniata sul concetto di virtù, inteso daKant come continuo perfezionamento morale. Detto altrimenti: la virtù è la capacitàumana di obbedire sempre più spesso all’imperativo categorico, ovvero di disobbedirglisempre meno. In questo senso, la virtù è proclamata da Kant “bene supremo”. Ma, nelladimensione fisico-sensibile, ossia nella durata finita della sua vita terrena, per quanto unindividuo possa essere virtuoso, non potrà mai realizzare pienamente la sua virtù. Ladistanza tra l’imperfezione morale di partenza dell’uomo e la santità è troppo ampia perchépossa essere colmata nel tempo ristretto della vita fisica. Ne segue necessariamente,secondo Kant, che l’esistenza individuale deve essere infinita, e dunque deve implicare unaseconda vita non fisica dopo la morte fisica, perché solo così ogni uomo può attuareappieno la sua virtù e raggiungere, in una progressione/approssimazione infinita, il suobene supremo.Al concetto di virtù come “bene supremo” si riallaccia il 3° postulato della ragione pratica,quello cioè dell’esistenza di Dio. In quanto “bene supremo”, la virtù è il bene maggiore(superlativo relativo), quello relativamente più desiderabile e preferibile rispetto a ognunodegli altri. Dunque, la virtù è più desiderabile della felicità, cioè del benessere psicofisico.Eppure, afferma Kant, la virtù non è il bene totale, è incompleta, perché è possibileconcepire un bene superiore, il bene massimo (superlativo assoluto), cioè il bene inassoluto più desiderabile e preferibile, dato dall’unione della virtù e della felicità. E’ chiaroche tale bene è superiore alla virtù in quanto, da una parte la include ma, dall’altra,comprendendo in sé anche la felicità, è più della sola virtù. Kant chiama questo beneassoluto “sommo bene”. Su questa base, egli sostiene che se la virtù non ha nulla a chevedere con il modo migliore per conseguire la felicità, essa è però l’unico modo per l’uomoper essere degno della felicità, ossia per meritarla. In altre parole, non ci dobbiamocomportare moralmente per essere felici, ma solo per essere morali, cioè universali; ma inquesto modo possiamo meritarci la felicità, aspirare legittimamente ad essa. Dunque, laragione pratica, fondata sulla legge morale, sancisce che solo chi è virtuoso può e deveessere felice, e in misura proporzionata al grado della sua virtù, ossia al livello diapprossimazione alla santità. Ogni individuo deve godere di tanta felicità quanto ne èmeritevole. Eppure, rileva Kant, nella dimensione fisica questo non avviene. Nell’ambito

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del mondo sensibile, governato dalla causalità naturale, così come attestato dalla scienza,non vi è alcun rapporto di proporzionalità tra virtù e felicità, anzi spesso e volentieri allamaggiore virtù corrisponde la minore felicità. Anche in questo caso, come è possibile unatale contraddizione? Perché mai la ragione pratica ci assicura che solo chi è moralmentemeritevole è felice quando i fatti ci attestano che le cose non stanno così? Si tratta forse diun’illusione della ragione pratica analoga a quella della ragione metafisica? Ma se così nonè, come si conciliano fatti e legge morale?La soluzione di Kant fa sempre leva sulla certezza assoluta della legge morale, e dunquedella ragione pura pratica. Data questa certezza, è necessario postulare l’esistenza di unacausa di tutta la natura che contenga in se stessa anche il criterio dell’accordo tra moralitàe felicità, ovvero di una causalità conforme all’intenzione interiore di ogni individuo. Unacausa di questo genere deve consistere in un essere razionale

onnipotente, perché produttore e ordinatore di tutta la natura, onnisciente, perché capace di conoscere e giudicare l’intenzione interiore di ogni

uomo, santo, in quanto perfettamente morale, e dunque “sommo bene”, unione compiutamente realizzata di virtù e felicità.

Detto altrimenti: per Kant è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio. E’ Dioinfatti che, in quanto signore di ogni realtà, garantisce il raccordo proporzionale tra virtù efelicità, ossia il fatto che il virtuoso sia premiato con la felicità in proporzione al suo merito,se non del tutto subito, almeno in seguito e se non del tutto nella vita terrena, in quellaultraterrena. In questa prospettiva, Kant si pronuncia a favore di una “fede razionale pura”in quanto bisogno incontrovertibile della ragione pura pratica. Contestualmente,ammonisce a non sostituire la legge morale con Dio, ossia a non pensare di dovercomportarsi moralmente per obbedire a Dio oppure per ottenere la felicità che Diogarantisce ai meritevoli (piuttosto che per evitare il castigo inflitto ai non meritevoli). PerKant non è Dio che fonda la legge morale, ma il contrario: è la legge morale, assolutamenteautonoma e quindi sovrana, che ci infonde la “fede razionale pura”, ovvero che ci dà laconvinzione pratica che Dio esista. E poiché la legge morale non vale teoreticamente mapraticamente, cioè solo se è messa in pratica, senza nessun secondo fine, allora solo se equando la pratichiamo possiamo acquisire la convinzione che Dio esiste e che saremofelici.In conclusione, Kant stesso evidenzia la corrispondenza tra i 3 postulati della ragionepratica e le 3 idee della ragione teoretica:

1. il postulato della libertà corrisponde alla tesi dell’esistenza di una causalità libera,contrapposta a quella dell’esistenza di una causalità meccanica, e dunque rimandaall’idea di mondo;

2. il postulato dell’immortalità corrisponde all’idea dell’anima;3. il postulato dell’esistenza di Dio all’idea di Dio.

Pur ribadendo che i postulati della ragione pratica, in quanto non argomentabili sulla basedell’esperienza sensibile, sono privi di validità scientifica, Kant si spinge a sostenere cheessi attestano comunque che le 3 idee della ragione hanno un oggetto, e pertanto sono atutti gli effetti dei concetti. In questo modo Kant pone accanto alla conoscenza teoretica especulativa, ossia alla scienza, una conoscenza pratica capace di estendere quellascientifica, ossia in grado di allargarsi dal mondo fisico al mondo intellegibile o metafisico.

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MAPPA della TAPPA 10

anche se

LA LEGGE MORALE HA 3 POSTULATI, CIOE’ 3 PRESUPPOSTI PRATICAMENTENECESSARI MA SCIENTIFICAMENTE INDIMOSTRABILI

FISIOLOGIA UMANA:istinti, bisogni, desiderinaturali insiti nel corpo chesi oppongono alla moralità

Per seguire la legge morale ènecessario che io possa

sceglierla

Solo se operiamo la sceltauniversale ci sottraiamo allasottomissione agli impulsinaturali

LA LEGGE MORALEa livello razionale non è

intaccata perché l’uomo èsempre cosciente di sbagliare

LA RAGIONE PURA E’SOVRANA IN AMBITO

MORALE MA DI FATTO E’LIMITATA

La consapevolezza di questolimite è condizione indispensabile

della vita morale umana

IL FANATISMO, cioè la convinzionedogmatica che un uomo possa essere

moralmente perfetto, VA RIGETTATOin quanto contrario alla moralità

Devo possedere laLA LIBERTA’ che implica il

libero arbitrio ma vaintesa come facoltà di

scegliere tra più opzionipratiche solo quella universale

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TAPPA 11KANT: RAGIONE SENTIMENTALE E GIUDIZIO RIFLETTENTE

Vi è un termine medio tra l’intelletto e la ragione. Questo termine medio è ilGiudizio [riflettente, ndc]; del quale si ha ragione di presumere, per analogia,che contenga anch’esso, se non una sua propria legislazione, almeno unprincipio proprio di ricercare secondo le leggi, e che in ogni caso sarebbe unprincipio a priori puramente soggettivo […]Il Giudizio in genere è la facoltà di pensare il particolare come contenutonell’universale. Se è dato l’universale (la regola, il principio, la legge), ilGiudizio che opera la sussunzione del particolare è determinato. Se è datoinvece soltanto il particolare, e il Giudizio deve trovare l’universale, esso èsemplicemente riflettente […]. Il Giudizio riflettente, che è obbligato a risaliredal particolare della natura all’universale, ha dunque bisogno di un principio,che esso non può ricavare dall’esperienza, perché è un principio che devefondare appunto l’unità di tutti i principi empirici sotto principi parimentiempirici ma superiori, e quindi la possibilità della subordinazione sistematicadi tali principi. Questo principio trascendentale il Giudizio riflettente puòdunque darselo soltanto esso stesso come legge, non derivarlo da altro(perché allora diventerebbe Giudizio determinante); né può prescriverlo allanatura, poiché la riflessione sulle leggi di natura si accomoda alla natura, maquesta non si accomoda alle condizioni con le quali noi aspiriamo a formarcidi essa un concetto che è del tutto contingente rispetto alle condizioni stesse.[…]Ora, poiché il concetto di un oggetto, in quanto contiene anche il principiodella realtà di questo oggetto, si chiama scopo, e l’accordo di una cosa conquella disposizione delle cose, che è possibile soltanto secondo scopi, sichiama finalità della forma di queste cose; il principio del Giudizio[riflettente, ndc], riguardo alla forma delle cose della natura sottoposte aleggi empiriche in generale, è la finalità della natura nella sua molteplicità. Inaltri termini, la natura è rappresentata mediante questo concetto come se cisia un intelletto che contenga il principio che dia unità al molteplice delle leggiempiriche di essa.La finalità della natura è, dunque, un particolare concetto a priori, che ha lasua origine unicamente nel Giudizio riflettente. […]Questo concetto trascendentale di una finalità della natura non è né unconcetto della natura né un concetto della libertà, perché esso non attribuisceniente all’oggetto (della natura), ma rappresenta soltanto l’unico modo chenoi dobbiamo seguire nella riflessione sugli oggetti della natura allo scopo diottenere un’esperienza coerente in tutto nel suo complesso; per conseguenza,esso è un principio soggettivo (una massima) del Giudizio [riflettente].Perciò, come se si trattasse di una caso felice e favorevole al nostro scopo, noiproviamo un sentimento di piacere (propriamente di liberazione da unbisogno), quando c’imbattiamo, tra le leggi puramente empiriche, in siffattaunità sistematica; sebbene dobbiamo necessariamente ammettere l’esistenzadell’unità stessa senza poterla tuttavia né comprendere né dimostrare.

Kant, Critica del Giudizio, Laterza 1979, Introduzione alla II ed.

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Con la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica Kant ha individuato evagliato 2 fondamentali facoltà razionali, 2 tipi di ragione, 2 modelli di razionalità,rispettivamente:

1. la ragione teoretica (o speculativa), a sua volta articolata in intelletto, cui fa capo lascienza, e ragione in senso proprio, cui fa capo la metafisica.

2. la ragione pratica (o morale o etica).Giunta a questo punto, l’indagine critica kantiana ha evidenziato una divergenza non tra i 2tipi di ragione, ma tra l’intelletto scientifico, da una parte, e la ragione metafisica e laragione pratica, dall’altra. Come abbiamo visto, infatti, in base ai suoi postulati, la Criticadella ragion pratica approda alla piena convergenza con le 3 idee della ragione metafisica,ma i postulati della ragione pratica, secondo Kant, non possiedono alcuna valenzascientifica. La scienza della natura, dunque, deve rimanere impermeabile e indifferente allapur universale e necessaria esigenza metafisica e morale della libertà, dell’immortalità e diDio, ossia di un ordine unitario totale della realtà. Detto altrimenti, sul piano scientifico, larealtà può essere unificata, e quindi ordinata, solo parzialmente e soltanto in base allalegge della causalità efficiente.D’altra parte, l’esame kantiano non ha nemmeno rilevato una contraddittorietà, ovveroun’inconciliabilità di principio, tra ragione scientifica e ragione metafisico-morale. Lascienza, infatti, per Kant è conoscenza fenomenica e dunque ha una validità limitata, ossianon può dire l’ultima parola sulla realtà. Tant’è vero che l’intelletto scientifico, se non puòcorroborare le idee della ragione, ovvero i postulati pratici, non può nemmeno confutarli,ossia non può escludere la loro fondatezza conoscitiva, la loro realtà. Inoltre, Kant haaffidato alle 3 idee della ragione un’indispensabile funzione regolativa dello sviluppo dellascienza e, entro questi limiti, le ha riabilitate come legittime forme a priori dellaconoscenza scientifica.Nella sua terza e conclusiva indagine critica, la Critica del Giudizio, Kant individua unaterza basilare facoltà razionale, cioè un terzo tipo di ragione, la ragione sentimentale basatasul Giudizio riflettente. Questa terza faccia della razionalità umana non ricuce le differenzedella ragione, in quanto non intacca l’autonomia dell’intelletto scientifico, ma le correla,meglio ancora le mette in comunicazione, garantendo così l’unità se non anche della trama,quantomeno dell’ordito del tessuto razionale. Vediamo come.Già nella prima Critica, Kant aveva definito il Giudizio come correlazione logica di unasensazione a un concetto (“questo è liscio”) o di 2 o più concetti (“il cane è unmammifero”). Ora precisa che questo è solo un tipo di Giudizio, cioè il Giudiziodeterminate, quello proprio della scienza, che consiste nel ricondurre un soggetto singolareo particolare a un predicato universale. Ma, afferma Kant, c’è anche un altro tipo diGiudizio, quello “riflettente”, in cui l’universale (“liscio” o “cane”) non è ricavatodall’esperienza (come i concetti empirici) e nemmeno dall’intelletto (come i concetti puri ocategorie), ma dalla ragione stessa, ossia è un universale puramente razionale. Questouniversale speciale, per così dire, consiste nella finalità, cioè nell’ordine finalistico di tuttala natura inteso come principio unificatore supremo. P.e., “questo cane è finalizzato”, “lacatena biologica è finalizzata”, “la gravitazione universale è finalizzata”, ecc. In breve, nelGiudizio riflettente ogni cosa si manifesta come parte organica della totalità reale.Ma, come abbiamo appreso, per Kant l’ordine finalistico presuppone intelligenza e libertà.Dunque il Giudizio riflettente ci presenta la realtà come un ordine intelligente e libero ecosì si connette con le 3 idee della ragione metafisica, ovvero con i 3 postulati della ragionepratica, dal momento che attesta:

a) la presenza di una causalità finalistica, di un agire in relazione a un fine liberamentescelto, che si collega sia alla causalità libera dell’idea di mondo sia al postulato dellalibertà dell’agire morale dell’uomo, ossia alla dimensione morale come “regno deifini”;

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b) la necessità di una vita individuale infinita, dovuta alla finalità di raggiungere laperfezione morale, che si connette all’idea di anima e al postulato dell’immortalitàindividuale;

c) l’esistenza di Dio, in quanto intelligenza superiore autrice dell’ordine finalisticototale, che si rifà sia all’idea di Dio come totalità di tutte le totalità sia al postulatodell’esistenza di Dio come “sommo bene” che garantisce a ogni uomo ilraggiungimento del fine della felicità in proporzione al merito morale.

Ciò chiarito, siamo in grado di comprendere appieno perché Kant denomini questogiudizio “riflettente”: in esso la natura ci appare come noi, ci si manifesta non comeun’alterità ma come un “tu”, ci si presenta in consonanza con la nostra libertà e le nostreesigenze razionali più profonde, disvelando la realtà come una totalità omogenea earmonica. Per dirla metaforicamente, il giudizio riflettente trasforma la natura in specchiodell’interiorità morale e metafisica dell’uomo: nella natura vediamo noi stessi, o meglio lanostra immagine riflessa.E’ importante mettere a fuoco che per Kant il giudizio riflettente presuppone il giudiziodeterminante e se ne serve. Altrimenti detto: la natura che il giudizio riflettente ci svelacome ordine finalistico è la natura che il giudizio determinante, cioè intellettivo-scientifico,ha categorizzato come un ordine meccanico. Per dirla ancora una volta metaforicamente, lanatura meccanica della scienza è l’humus dal quale emerge il fiore della natura finalisticadella “riflessione”. In questo modo Kant rende giudizio determinante e giudizio riflettente,scienza e riflessione, complementari. Ne fa appunto dei vasi comunicanti. D’altra parte,come anticipato, non li con-fonde affatto. Lo specchio riflettente della natura coesiste conla sua cornice opaca. Fuori di metafora, la visione “riflessa” della natura come ordinefinalistico non oscura quella scientifica della natura come ordine meccanico, anzi la rendeancora più netta, grazie all’effetto differenza. Solo che questa loro divergenza puòcoesistere in modo, per così dire, simbiotico, cioè funzionale l’una all’altra.Compreso cos’è il giudizio riflettente, si tratta di capire ora quale sia il suo fondamento.Esso indubbiamente costituisce una forma di conoscenza razionale. Ma qual è la suafondatezza e che limiti ha? In cosa consiste la sua razionalità? Se non è né scientifica, németafisica né morale, che razza di razionalità può essere?La risposta di Kant è che si tratta di una razionalità sentimentale, ovvero che il giudizioriflettente si fonda su un sentimento. In altri termini, la ragione per Kant non è solobipartita, è tripartita in:

1. ragione speculativa;2. ragione morale;3. ragione sentimentale.

Il sentimento, insomma, è una faccia della ragione, è una componente fondamentale dellarazionalità. E proprio in quanto fondato sul sentimento, il giudizio riflettente provoca unpiacere. Esso infatti, secondo Kant, soddisfa il nostro bisogno di rispecchiarci nella natura,cioè di ritrovare nella natura le nostre aspirazioni metafisiche e morali. Ma attenzione, sitratta di un piacere puramente razionale, non sensibile; mentale, non fisico.Parallelamente, la ragione sentimentale di Kant non include ogni tipo di sentimento, maappunto solo il genere razionale del sentimento, che in sostanza comprende 3 sentimentispecifici: a) quello della bellezza, b) quello del sublime c) quello dello scopo. Si trattadunque di esaminare tali sentimenti razionali. E, come nelle precedenti critiche, questoesame per Kant dovrà evidenziare il valore e i limiti del giudizio riflettente.

TAPPA 12

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KANT: IL GIUDIZIO ESTETICO DEL BELLO

Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazionemediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di unpiacere simile si dice bello.Il bello è ciò che è rappresentato, senza concetti, come l’oggetto di un piacereuniversale.Questa definizione del bello può essere dedotta dalla precedente, per la qualeesso è l’oggetto di un piacere senza alcun interesse. Difatti colui che hacoscienza di esser disinteressato nel piacere che prova di qualche cosa, nonpuò giudicare la cosa medesima se non come contenente un motivo di piacereche sia valevole per ognuno. Non essendo il piacere fondato su qualcheinclinazione del soggetto (o su qualche altro interesse consapevole), esentendosi invece colui che giudica completamente libero rispetto al piacereche dedica all’oggetto; egli non potrà trovare alcuna condizione particolare,esclusiva del suo soggetto, come fondamento del piacere, e dovrà quindiconsiderarlo come fondato su qualcosa che si possa presupporre anche inogni altro; per conseguenza dovrà credere di aver ragione di pretendere daglialtri lo stesso piacere. Egli parlerà così del bello come se la bellezza fosse unaqualità dell’oggetto, e il suo giudizio fosse logico (un giudizio che dà unaconoscenza dell’oggetto mediante il suo concetto), sebbene sia soltantoestetico e non implichi che un rapporto della rappresentazione dell’oggettocol soggetto; perché, infatti, esso è simile in questo al giudizio logico, si puòpresupporre la sua validità per ognuno. Ma questa universalità non puònemmeno provenire da concetti. Poiché non vi è alcun passaggio dai concettial sentimento di piacere o dispiacere […]. Al giudizio di gusto, perconseguenza, poiché in esso c’è la coscienza del disinteresse, deve unirsil’esigenza della validità per ognuno, sebbene tale validità non si tengaconnessa agli oggetti; in altri termini, il giudizio di gusto deve pretendereall’universalità soggettiva. […]La facoltà di desiderare, in quanto può essere determinata ad agire solomediante concetti, cioè secondo la rappresentazione di uno scopo, sarebbe lavolontà. Ma un oggetto, uno stato d’animo o anche un’azione, è dettofinalistico anche se la sua possibilità non presuppone necessariamente larappresentazione di uno scopo, e per il semplice fatto che la sua possibilitànon può essere spiegata e concepita da noi, se non ammettendo comeprincipio di essa una causalità secondo fini, cioè una volontà che l’abbia cosìordinata secondo la rappresentazione di una certa regola. La finalità dunquepuò essere senza scopo quando non possiamo porre in una volontà la causa diquella forma, e tuttavia non possiamo concepire la spiegazione della suapossibilità se non derivandola da una volontà. […]La bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi èpercepita senza la rappresentazione di uno scopo.

Kant, Critica del Giudizio, Laterza 1979, Analitica del bello

Il giudizio riflettente è articolato da Kant in 2 tipi:1. il giudizio estetico;2. il giudizio teleologico.

A sua volta il giudizio estetico si suddivide in:1.1 giudizio estetico del bello (o relativo al finito)1.2 giudizio estetico del sublime (o relativo all’infinito).

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Per il momento, prendiamo in considerazione il giudizio estetico del bello. Secondo Kant labellezza è quel sentimento spontaneo, cioè non intenzionale, di piacere mentale cheproviamo in relazione all’intuizione sensibile di un oggetto naturale o di una suariproduzione artistica. P.e., quando guardo un campo di girasoli, sia un campo fisico siauna sua riproduzione artistica (come in Campo di girasoli di V. Van Gogh), io possoprovare, senza alcuna volontà né alcun sforzo, un’intensa e gratificante emozione interiore.Questa emozione positiva è il sentimento della bellezza. Da dove nasce? In cosa consiste?Secondo Kant, essa ha 4 condizioni, che ne sono altrettante caratteristiche distintive:

a) il disinteresse: il piacere della bellezza è puramente estetico nel senso chenon soddisfa né bisogni e desideri fisici (nel caso dei girasoli, p.e., laprospettiva di poterli acquistare e guadagnarci rivendendoli, oppure di poterricavare olio dai semi) né interessi scientifici (scoprire come e perchéorientano la corolla verso il sole) né esigenze morali (in quanto i girasolipossono rappresentare simbolicamente gli uomini che seguono la luce dellalegge morale); in altre parole, la bellezza, e quindi l’arte, è “autonoma”, leggea sé stessa, è un sentimento specifico che non dipende né dal vero, né dalbuono, né dall’utile, né dal piacere fisico (il piacere estetico che posso provareper la visione del David di Michelangelo o delle Tre Grazie del Canova nonha nulla a che fare col piacere fisico-sessuale che posso provare guardando lefoto dei corpi più o meno discinti di Nicole Kidman o Brad Pitt, perintenderci).

b) L’universalità: se io provo il sentimento della bellezza contemplando Rattodella sabina di Giambologna (Jean de Boulogne) piuttosto che Donna inpiedi di Alberto Giacometti, ipso facto sento che guardando quell’operad’arte ogni altro uomo deve provare lo stesso sentimento; da questo punto divista, dunque, il bello per Kant si differenzia nettamente dal “piacevole”, cioèda ciò che piace al singolo individuo o a un gruppo di individui (p.e. Brad Pittper qualcuno Johnny Depp per altri), nel senso che secondo lui non è bellociò che piace, sottinteso fisicamente, ma è bello ciò che è bello, sottintesometafisicamente.

c) La necessità: se io provo piacere estetico ascoltando il Nabucco di G. Verdi,piuttosto che una sinfonia di J. Brahms, io non posso non sentire che si trattadi un piacere del tutto spontaneo, non intenzionale, al di là della mia volontà,e quindi inevitabile, obbligato.

d) La forma alogica: il sentimento del bello, ovvero il piacere estetico, consistenella percezione di una “forma”, cioè di un ordine (o di un’armonia) che peròè di natura del tutto diversa dall’ordine logico-concettuale, cioè dallarazionalità scientifica, p.e. dall’ordine di un’equazione matematica, o di unaprospettiva geometrica, oppure di una legge fisica; e ciò spiega perché labellezza è inesplicabile, ossia perché possiamo solo intuirla ma non siamo ingrado né di descriverla né tantomeno di motivarla. In questo caso, gli esempipiù calzanti e probanti possono essere quelli di un quadro cubista di Picasso,piuttosto che di uno astrattista di Kandinski. Ma, ovviamente, il requisitovale per ogni genere d’opera d’arte o naturale.

La condizione/caratteristica della “forma alogica” è il cuore della concezione kantiana dellabellezza. La bellezza è il coglimento – all’interno di una rappresentazione scientifica, cioèlogico-concettuale, della realtà sensibile – di un’organizzazione finalistica consistente in unrapporto armonico tra le parti e il tutto: ogni parte è configurata in modo tale da produrreun’armonia complessiva, un ordine tanto mirabile quanto impalpabile, che infondenell’uomo un piacere mentale del tutto specifico. In questo senso, il “gusto”, ciò che

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comunemente chiamiamo “buon gusto”, per Kant è la capacità umana di cogliere labellezza e di provare il piacere estetico.A questo punto, è il caso di porci una domanda decisiva: la bellezza è una proprietà dellanatura fenomenica, cioè della natura ordinata dalle forme a priori della ragione teoretica?In altre parole, la bellezza è “oggettiva” (in senso kantiano)?La risposta di Kant è negativa. Ma, viene spontaneo obiettare, allora com’è possibile che ilpiacere estetico sia “universale e necessario”? Questa formula tipicamente kantiana nondesigna appunto l’oggettività?La soluzione kantiana è complessa, ma coerente e comprensibile alla luce del concetto di“rivoluzione copernicana”. La bellezza non è una proprietà delle cose, cioè degli oggetti ofenomeni, ma è la proiezione sulle cose di una proprietà della mente umana. Il giudizioestetico, infatti, è un giudizio riflettente, cioè un giudizio che usa l’oggetto fenomenicocome specchio della ragione umana. La bellezza è appunto una delle 3 immagini specularidi se stessa che la ragione umana può rinvenire nelle cose. Nella sua immagine “bella” laragione ritrova nella natura il suo finalismo nella configurazione di un’armoniaimmediata, intuitiva, metafisica. Da questo punto di vista, la bellezza è “soggettiva”, èattribuzione alla natura di un ordine ideale che appartiene alla mente umana. DunqueKant estende la sua “rivoluzione copernicana” anche all’ambito estetico: anche nellaconoscenza estetica non è la natura che modella l’uomo, ma l’uomo che modella la natura.Ma attenzione: in questo caso si tratta di una modellamento di secondo livello, cioè di unmodellamento del modellamento, in quanto il giudizio estetico modella la “natura”, cioè lanatura già modellata scientificamente, ossia la natura fenomenica. A differenza che nelmodellamento scientifico, nel modellamento estetico la ragione umana non ha vincoliempirici, non si fa determinare dall’esperienza, ma si riflette liberamente nell’esperienza.Ergo la ragione estetica è del tutto pura, ideale, “soggettiva”. L’oggetto, l’esperienzasensibile, è solo lo stimolo o l’occasione del giudizio estetico.Ma allora come può essere “universale e necessario” il giudizio estetico? Può esserlo inquanto anche la ragione estetica – proprio per questo è “ragione” – è una e la stessa perogni individuo umano e quindi ogni individuo umano può avere lo stesso “gusto” e coglierela stessa bellezza. In altre parole, come peraltro già abbiamo notato, “soggettivo” in Kantsignifica anche, e prima di tutto, “proprio della ragione umana in generale”, “ciò che èuguale in ogni mente individuale”. Da questo punto di vista, possiamo dire che per Kant ilbello è “soggettivo” ma comunque “universale e necessario”, cioè non relativo a un singoloindividuo e a un singolo sentimento; mentre il “piacevole” è soggettivo, ossia particolare econtingente, cioè appunto relativo a un singolo individuo e a un singolo sentimento.Ancora, però, ci si potrebbe legittimamente chiedere che differenza ci sia tra giudizioscientifico e giudizio estetico, dal momento che sono entrambi “universali e necessari”,ovvero “soggettivi”. D’accordo, uno è determinato dall’esperienza sensibile, l’altro no; l’unoè logico-concettuale e l’altro sentimentale e intuitivo; ma come possono essere “universalie necessari allo stesso modo”? Infatti per Kant non lo sono allo stesso modo. L’universalitàe necessità del giudizio scientifico è vincolante in modo oggettivo, ossia come un obbligoesterno; quelle del giudizio estetico sono vincolanti in modo soggettivo, ossia come unamia esigenza interna. In parole semplici, che tutti i corpi si muovano in base alla legge digravitazione universale è una verità imposta dalle cose e il cui fondamento mi èlogicamente comprensibile; che un campo di girasoli sia bello è un sentimento che sgorgadalla mia stessa ragione e il cui fondamento mi è logicamente incomprensibile. Insomma,l’universalità e la necessità del giudizio estetico sono esigenze della mia ragione, nonimposizioni del mio intelletto. Di conseguenza il giudizio estetico non può ambire a unavalidità scientifica, né interferire in alcun modo con la scienza.

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TAPPA 13KANT: IL GIUDIZIO ESTETICO DEL SUBLIME

Il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nellalimitazione; il sublime, invece, si può trovare anche in un oggetto privo diforma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza,pensata per di più nella sua totalità; sicché pare che il bello debba esserconsiderato come l’esibizione d’un concetto indeterminato della ragione. Nelprimo caso il piacere è quindi legato con la rappresentazione della qualità, nelsecondo invece con quella della quantità. Tra i due tipi di piacere c’è inoltreuna notevole differenza quanto alla specie: mentre il bello implicadirettamente un sentimento di agevolazione e intensificazione della vita, eperciò si può conciliare con le attrattive e il gioco dell’immaginazione, ilsentimento del sublime invece è un piacere che sorge solo indirettamente, ecioè viene prodotto dal senso di un momentaneo impedimento, seguito da unapiù forte effusione delle forze vitali, e perciò, in quanto emozione, non sipresenta affatto come un gioco, ma come un qualcosa di serio nell’impiegodell’immaginazione. Quindi il sublime non si può unire ad attrattive; e, poichél’animo non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamenteattratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva, mapiuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere chiamato unpiacere negativo.Ma ecco la più importante ed intima differenza tra il sublime e il bello: se,com’è giusto, prendiamo qui in considerazione prima di tutto soltanto ilsublime degli oggetti naturali (quello dell’arte è limitato sempre allacondizione dell’accordo con la natura), troveremo che la bellezza naturale(per sé stante) include una finalità nella sua forma, per cui l’oggetto sembracome predisposto pel nostro giudizio, e perciò costituisce essa stessa unoggetto di piacere; mentre ciò che, senza ragionamento, nella sempliceapprensione, produce in noi il sentimento del sublime, può apparire,riguardo alla forma, contrario alla finalità per il nostro giudizio, inadeguatoalla nostra facoltà d’esibizione e quasi come violento contro l’immaginazionestessa, nondimeno però soltanto per esser giudicato tanto più sublime,quanto maggiore è tale violenza.

Kant, Critica del Giudizio, Laterza 1979, Analitica del sublime

In quanto giudizio riflettente di tipo estetico, il giudizio del sublime possiede le stessecaratteristiche di fondo del giudizio del bello. Tuttavia, se ne differenzia sotto 3 aspetti.In primo luogo, mentre il bello si riferisce a una forma (o immagine) finita e perciòdefinita, cioè a una rappresentazione di un oggetto fenomenico preciso, il sublime attiene auna forma infinita, e perciò indefinita, ovvero, a rigore, a una non-forma, a unarappresentazione informe e, per così dire, sfumata della natura fenomenica. Piùsemplicemente: il sentimento/piacere estetico del sublime è correlato all’infinitezza dellanatura, e perdipiù alla sua infinitezza attuale, cioè in quanto totalità immediata completa ecompiuta. P.e., il sublime promana dalla visione del cielo stellato in quanto spazio infinitoche racchiude infiniti astri (infinito “matematico”); oppure dalla visione di una terrificantecatastrofe naturale – un’eruzione vulcanica, un terremoto, uno tsunami – che esibiscel’infinita potenza della natura (infinito “dinamico”). In questo senso, mentre il giudizio delbello si esercita sulle rappresentazioni concettuali della natura fisica prodottedall’immaginazione e dell’intelletto, il giudizio del sublime rinvia alle 3 idee metafisichedella ragione (anima, mondo e Dio), proprio in quanto totalità infinite. Ora, poiché

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l’infinito attuale è per principio irrappresentabile e inconcepibile in una configurazionedefinita, risulta chiaro perché il sublime, a differenza del bello, non possa correlarsi alla“forma”.In secondo luogo, il sentimento del sublime è un piacere solo in seconda battuta, per cosìdire. Immediatamente, infatti, l’uomo di fronte al sublime (vedi gli esempi precedenti)prova sgomento, vertigine, disorientamento e anche paura se non terrore o addiritturapanico, in quanto si sente minuscolo rispetto alla vastità della natura oppure gracile inconfronto alla sua forza titanica. Da questo punto di vista, il sublime è monstrum, è naturaselvaggia, abnorme, caotica che mi induce repulsione. In secondo battuta, però, ilridimensionamento che il sublime mi provoca si ribalta in una mia maggiorevalorizzazione. Esso infatti innesca in me una reazione d’orgoglio che può efficacementeaffidarsi alla mia dimensione interiore o razionale: di fronte alla vastità del cielo stellato,mi rendo conto che essa non è un autentico infinito attuale, ma eventualmente solo uninfinito potenziale, e che invece l’infinito attuale è un mio pensiero, un mio prodottomentale; di contro alla potenza dello tsunami, comprendo che essa per quanto enorme,non è davvero infinita, e che invece è infinita la potenza della legge morale che ho in me, laquale, indicandomi la possibilità della perfezione morale, mi promette la vittoria totalesulla forza della natura fisica. Insomma, l’apparente infinità della natura, che inizialmentemi schiaccia finché mi considero unicamente un essere fisico e scientifico, finisce conl’essere solo lo stimolo o l’occasione per evocare in me l’infinito reale e per sancire la miasuperiorità sulla natura nella misura in cui io sono un essere metafisico e morale. In questomodo la repulsione per l’infinito si trasforma in attrazione e l’iniziale dispiacere in piaceresublime, cioè in piacere eccelso, superiore anche a quello della bellezza, che proprio perquesto non si può qualificare come “gioia”, ma semmai come “meraviglia e ammirazione”,in quanto non è un sentimento “misurato”, sereno e pacificante, ma smisurato, inquietanteed eccitante.In terzo e ultimo luogo, nel giudizio del sublime io non rinvengo il finalismo noumeniconascosto nella natura fenomenica in una “forma”, cioè nella sua armonia (misura,proporzione, simmetria), dal momento che nessuna “forma” può contenere l’infinito; alcontrario, lo ritrovo proprio nell’informe, nel disarmonico, nella disordine. Ma come èpossibile? Anzi, come può non essere contraddittorio, visto che il finalismo è incompatibilecol disordine? Kant vuol dire che, a un livello più profondo, l’ordine noumenico, “ilsostrato sovrasensibile”, della natura fenomenica è talmente complesso che trascendequalsiasi configurazione limitata dell’ordine. In altri termini, la sconfinatezza o lacatastroficità della natura rimandano a un’anarchia caotica che apparentemente ènegazione dell’ordine ma in realtà manifesta un ordine di livello superiore, un ordine dicomplessità infinita e come tale trascendente ogni “forma” fisica e intellettiva.Il giudizio estetico del sublime, in questo modo, corrobora ulteriormente le idee dellaragione metafisica e ne legittima pienamente la “vaghezza”, cioè l’indeterminazionescientifica, riabilitandone ed anzi esaltandone la valenza conoscitiva (benché non di tiposcientifico).Ora che la concezione del giudizio estetico di Kant è completa, possiamo chiudereaccennando brevemente alla connessa teoria kantiana dell’arte. Pur tradendo unapredilezione per la bellezza naturale, Kant stabilisce un’equivalenza tra bello naturale ebello artificiale o artistico. Egli afferma che la natura è bella quando ha l’apparenza diun’opera d’arte e, in modo complementare, l’arte è tale, cioè è bella, quando appare comenatura. In altre parole, un’opera d’arte è una rappresentazione artificiale della natura cheha gli stessi caratteri di immediatezza e spontaneità delle cose naturali. Più semplicemente,per Kant il bello c’è quando la natura e la sua riproduzione artistica sono indistinguibili,p.e. un tramonto è bello quando sembra il dipinto di un tramonto, il dipinto di un

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tramonto lo è quando sembra un tramonto naturale. E’ chiaro che la posizione kantiana, inquesto senso, presuppone una interpretazione dell’arte in chiave realistica.

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TAPPA 14KANT: IL GIUDIZIO TELEOLOGICO

Si applica tuttavia con ragione il giudizio teleologico alla ricerca naturale,almeno problematicamente; ma solo per sottoporla, seguendo l’analogia dellacausalità secondo fini, a principi di osservazione ed investigazione, senzapretendere di poterla spiegare. Esso appartiene dunque al Giudizioriflettente, non a quello determinante. Il concetto di legami e di forme dellanatura secondo fini è perlomeno un principio in più per ricondurre a regole ifenomeni naturali, dove le leggi della causalità puramente meccanica nonsono sufficienti. […][…] noi non possiamo neppure conoscere a sufficienza gli esseri organizzati ela loro possibilità interna secondo principi della natura semplicementemeccanici, tanto meno spiegarli; e questo è così certo che si può direarditamente che è assurdo per gli uomini anche solo concepire un taledisegno, o lo sperare che un giorno possa sorgere un Newton capace di farcomprendere, secondo leggi naturali non ordinate da alcuna intenzione,anche solo la produzione di uno stelo d’erba; bisogna invece assolutamentenegare agli uomini questa comprensione.

Kant, Critica del Giudizio, Utet 1993, Critica del giudizio teleologico, § 77

Direi per ora: una cosa esiste come scopo della natura, quando è la causa edeffetto di se stessa (sebbene in due sensi diversi); qui v’è infatti una causalitàche non si può legare col semplice concetto di natura, senza attribuire aquesta uno scopo; causalità che si può pensare senza contraddizione, ma nonconcepire […].In primo luogo, un albero ne produce un altro secondo una legge naturaleconosciuta. Ora, l’albero prodotto è della stessa specie; e così esso produce sestesso, secondo la specie, nella quale, volta a volta effetto e causa di se stesso,incessantemente prodotto da se stesso e sovente riproducendo se stesso, siconserva costantemente in quanto specie.In secondo luogo, un albero si produce da sé anche in quanto individuo.Questo tipo di effetto noi ci limitiamo a chiamarlo crescita; ma questa crescitava intesa in senso completamente diverso da ogni altro accrescimentosecondo leggi meccaniche […].Il nesso causale, in quanto è pensato semplicemente dall’intelletto, è unlegame che dà luogo a una serie (di cause e d’effetti) sempre in sensodiscendente; e le cose stesse che in quanto effetti ne presuppongono altrecome cause, non possono a loro volta essere insieme cause di queste. Questo èil legame causale che viene detto delle cause efficienti (nexus effectivus). Sipuò però anche pensare a un nesso causale secondo un concetto di ragione(dei fini), che, quando lo si consideri come una serie, comporti unadipendenza tanto in senso discendente quanto in senso ascendente; in esso lacosa che da un lato è designata come un effetto, risalendo merita il nome dicausa di ciò di cui è effetto. […] E’ questo il legame causale che viene dettodelle cause finali (nexus finalis).

Kant, Critica del Giudizio, Utet 1993, Critica del giudizio teleologico

[…] tutta la varietà delle creature, per quanto sia grande l’arte con la qualesono organizzate, e vario il rapporto finalistico che le lega l’una all’altra, anzilo stesso insieme di tali sistemi di creature, cui noi poco correttamente

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attribuiamo il nome di mondi, esisterebbero invano, se in essi non vi fosserouomini (esseri ragionevoli in generale); cioè, senza uomini l’intera creazionenon sarebbe che un deserto inutile e senza scopo finale.

Kant, Critica del Giudizio, Utet 1993, Critica del giudizio teleologico, § 86

Il giudizio estetico non è l’unico tipo di giudizio riflettente. Come anticipato, la “riflessività”della ragione produce anche il giudizio teleologico (“che riguarda lo scopo”, dal grecotélos=scopo, fine). Stante che il giudizio riflettente in generale riguarda il finalismonoumenico della natura fenomenica, mentre il giudizio estetico avverte intuitivamente talefinalismo come “forma” bella o “abnormità” sublime, il giudizio teleologico lo coglieconcettualmente come “scopo”. Corrispondentemente, se nel giudizio estetico il finalismogenerale della natura, in quanto bellezza o sublimità, è sentito come proprio del soggetto,cioè come proiezione di una qualità soggettiva nell’oggetto; nel giudizio teleologico, invece,il finalismo naturale, in quanto scopo, è pensato come inerente all’oggetto, come oggettivo.Attenzione, però: per Kant, anche lo “scopo” è e rimane in ogni caso un’esigenza dellaragione, cioè una caratteristica del soggetto umano universale. Né potrebbe esserealtrimenti, dato che, se lo fosse, il giudizio teleologico non sarebbe un giudizio riflettentema determinante. Solo che, benché di diritto soggettivo, la ragione mi spinge a pensarlo difatto come oggettivo, e a non poter fare a meno di pensarlo così. In altre parole, nelgiudizio teleologico la mia ragione si rispecchia pur sempre nella natura ma conl’insopprimibile e universale convinzione soggettiva che quel che vede nello specchio sia lanatura stessa. E’ chiaro allora che il finalismo naturale come scopo, cioè appunto comeproprietà oggettiva della natura, è solo una supposizione, destituita di certezza scientifica.Tuttavia, è indubbio che per queste sue caratteristiche, il giudizio teleologico è il giudizioriflettente più omogeneo al giudizio determinante scientifico. Infatti, in quanto pensatocome oggettivo, lo scopo non è un’intuizione sentimentale ma un concetto dell’intelletto. Inaltre parole, nel giudizio teleologico diventa, per così dire, complice della ragione quellostesso intelletto che costituisce il paladino della scienza, cioè del vincolo all’esperienza equindi della limitazione della conoscenza.Com’è possibile dunque, se non un accordo, quanto meno un raccordo tra intelletto eragione, visto che quest’ultima ambisce invece proprio a una conoscenza totale, illimitata?Secondo Kant il paradosso è soltanto apparente. In realtà il raccordo teleologico di ragionee intelletto segue logicamente proprio dalla limitatezza della scienza, di cui l’intelletto èconsapevole custode. La ricerca scientifica, rileva Kant, proprio nel suo slancio ad allargaree approfondire il suo dominio sulla realtà fisica si scontra con l’impossibilità di spiegarecompiutamente quantomeno gli esseri biologici e i processi della vita organica. Perché?Perché la scienza deve basarsi sulla causalità efficiente, cioè sul meccanicismo, ma appuntoil meccanicismo mostra la corda se applicato ai fenomeni biologici. Fuori di metafora, nonriesce a spiegarli compiutamente, anzi quasi non riesce a spiegarli tout court. L’intelletto ècosciente di tale limite, tanto più clamoroso in quanto non riguarda solo e tanto la realtàcome totalità infinita, ma la realtà come parte finita; non la questione di cos’è l’universo,ma di cos’è, p.e., un “filo d’erba”. Si tratta di uno scacco che spinge l’intelletto adassecondare l’ipotesi esplicativa suggerita dalla ragione, ossia che l’ordine meccanico ditutta la natura sia un’emergenza – cioè un livello secondario – di un’organizzazione piùprofonda e basilare di tipo finalistico, un ordine noumenico incardinato sul concetto discopo (la causalità finalistica della III antinomia della ragione metafisica).Kant espone 2 esempi paradigmatici di finalismo biologico: a) quello della riproduzione eb) quello della crescita.Se consideriamo la riproduzione di un albero (ovviamente vale per qualsiasi essere vivente,oggi potremmo dire anche per la riproduzione cellulare), possiamo e dobbiamo certamenteconcepire l’albero-padre come causa efficiente dell’effetto albero-figlio. Ma, dal momento

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che l’albero-figlio, cioè in generale la riproduzione, è anche il fine dell’esistenza dell’albero-padre, possiamo e dobbiamo anche pensare che l’albero-figlio è a sua volta la causaefficiente dell’effetto albero-padre, nello stesso modo in cui pensiamo che lo scopo didissetarci sia la causa del fatto che riempiamo il bicchiere d’acqua.Considerando, invece, la crescita di un albero (anche in questo caso, all’albero può esseresostituito qualsiasi altro essere vivente) possiamo e dobbiamo giudicare l’aumento delledimensioni e il miglioramento delle funzioni dell’albero come l’effetto dello sviluppo dellesue parti (radici, tronco, rami, foglie, ecc.); ma a loro volta i singoli sviluppi di queste partipossono e devono essere pensati come effetti della crescita dell’albero intero.In entrambi i casi, ma si potrebbe estendere l’esemplificazione anche al rapportoindividuo/specie, abbiamo a che fare con una relazione parte/tutto diversa da quellameccanica. In un organizzazione meccanica – p.e. un orologio – l’insieme non funziona senon funziona la singola parte, ma la funzionalità della singola parte, p.e. del bilanciere, nondipende dal funzionamento dell’insieme. In un’organizzazione biologica – p.e. il corpoumano – anche la funzionalità della singola parte, p.e. il fegato – dipende dalfunzionamento dell’insieme. Questo significa che il rapporto parte/tutto si basa appunto suuna causalità finale tale per cui ogni parte del tutto è configurata e interconnessa alle altreparti in modo tale da raggiungere lo scopo della vita del tutto. In altre parole, nel giudizioteleologico, la natura si manifesta come non solo ordinata causalmente ma anche esoprattutto come ordinata finalisticamente. L’ordine meccanico, in questo senso, si svelacome un epifenomeno e al contempo un mezzo dell’ordine finalistico.Questa tesi kantiana, ha tre importanti corollari:

1. la natura è capace di autorganizzazione, cioè possiede una forza formativaautonoma, per analogia con qualsiasi organismo vivente;

2. la natura presuppone un’intelligenza ordinatrice, in quanto un ordine meccanicopuò avere un’origine casuale ma un ordine finalistico non può che essererazionalmente progettato e realizzato;

3. la natura possiede uno scopo ultimo, cioè l’uomo.Soffermiamoci, su quest’ultimo corollario. Per Kant in un ordine finalistico ognicosa/processo è mezzo di uno scopo, che a sua volta diventa mezzo di uno scopo ulteriore,e così via. P.e., nella catena alimentare i vegetali sono il mezzo per la sopravvivenza deglierbivori e questi, a loro volta, lo sono dei carnivori, ecc. Da questo punto di vista, la naturapuò essere finalisticamente ordinata solo se c’è un fine ultimo. Questo fine ultimo, affermaKant, è la specie umana. Ma attenzione: non in quando specie animale, ma solo in quantospecie razionale e, segnatamente, morale. Dunque, a ben vedere, è la razionalità/moralità ilfine ultimo della natura, l’uomo se, e solo quando, è razionale e morale.La tesi finalistica kantiana, e i suoi corollari, va ribadito, non hanno validità scientifica.Essi esprimono una esigenza della ragione teoretica che si raccorda con l’istanza scientificadell’intelletto, in quanto supplisce in modo ipotetico ai limiti della spiegazione scientifica,ma non può sostituirla e nemmeno integrarla. Che valore ha allora il giudizio teleologicoper la scienza? Perché l’intelletto accondiscende ad ascoltarlo? Perché, sostiene Kant, ilgiudizio teleologico svolge una funzione “regolativa” per la scienza, analoga a quella delle 3idee della ragione, cioè stimola e aiuta la scienza a progredire. In questo senso, piùmodernamente, possiamo dire che per Kant le 3 idee della ragione e il giudizio teleologicohanno una validità scientifica di tipo “euristico”, ossia sono ipotesi incontrollabiliempiricamente, e dunque a rigore non scientifiche, ma che agevolano la scienza in quantosono strumenti utili all’indagine scientifica e dunque funzionali all’elaborazione di nuoveteorie scientifiche.

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VIAGGI NEL PASSATO E VIAGGI NEL PRESENTEKANT E LA SCIENZA CONTEMPORANEATra i numerosi collegamenti possibili, i più interessanti mi sembrano quelli:

a) tra il metaordine finalistico rivelato nel sublime e l’attuale teoria delcaos/complessità;

b) tra la concezione del nesso finalistico nella natura organica e il concetto difeedback nella cibernetica/teoria dell’informazione contemporanee;

c) tra la tesi kantiana dell’impossibilità di un Newton della biologia e ilneodarwinismo.

Nel 1961, il meteorologo Edward Lorenz testando un modello matematico di previsioni alungo termine scoprì che una differenza quantitativa infinitesimale in uno dei dati dipartenza (p.e. la temperatura) produceva previsioni radicalmente divergenti eaddirittura opposte (sereno vs uragano). Lorenz aveva scoperto il “caos” scientifico, il cuiconcetto fu divulgato dai giornali di tutto il mondo con la metafora della farfalla chebatte le ali a Los Angeles provocando alla lunga un uragano in Asia orientale. Il “caos”scientifico non è sinonimo di disordine, ma di “ordine complesso”, cioè da noi nondeterminabile precisamente, e quindi non esattamente prevedibile, ma in sé determinato,appunto come l’ordine finalistico infinito rivelato dal giudizio estetico del sublimesecondo Kant. Oltretutto le forme geometriche generate dalle equazioni non lineari dellateoria della complessità producono forme “belle” (in linguaggio kantiano: sublimi).La cibernetica, strettamente imparentata con la teoria dell’informazione o informatica, èla scienza che studia l’interazione automatica nelle macchine sul modello di quella degliorganismi viventi. Fondata nel 1948 (Cibernetica, ovvero il controllo e la comunicazionenell’animale e nella macchina) da Norbert Wiener, si fonda sul concetto di feedback, cioèdi retroazione o retroalimentazione: in altre parole, come nel finalismo kantiano, unelemento A agisce su B il quale retroagisce su A, in modo tale che si stabilisca un rapportodi causazione reciproca. Il concetto di feedback in questo senso si collega alla teoria deisistemi (utilizzata sia dalla biologia sia dall’informatica) secondo la quale tra un tutto euna sua parte (p.e. un organo e l’intero corpo, l’economia e l’intera società, ecc.) vi è unrapporto di interazione circolare.Infine, dopo la pubblicazione nel 1859 dell’Origine delle specie di Charles Darwin, ilriconoscimento (1902) e l’utilizzo da parte della comunità scientifica delle leggi di Mendel(scoperte già nel 1863) e la scoperta della “doppia elica” del DNA (1953) da parte di Cricke Watson, la teoria dell’evoluzione sembra aver smentito la profezia negativa di Kant,secondo la quale non ci sarebbe mai stato un Newton della biologia, cioè una teoriascientifica capace di spiegare in modo soddisfacente i fenomeni biologici in base alloschema meccanicistico. Infatti secondo la teoria neodarwiniana dell’evoluzione, ifenomeni biologici possono spiegarsi esaurientemente con la combinazione ericombinazione casuale dei genotipi e la selezione naturale dei fenotipi. Ma negli ultimianni, vi sono scienziati che sostengono che tale spiegazione non è esauriente e vaintegrata con spiegazioni di tipo finalistico.

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TAPPA 15KANT: LA TEORIA POLITICA E LA FILOSOFIA DELLA STORIA

Lo stato civile, considerato solo come stato giuridico, è fondato sui seguentiprincipi a priori:

1) la libertà di ogni membro della società, in quanto uomo.2) L’uguaglianza di esso con ogni altro, in quanto suddito.3) L’indipendenza di ogni membro di un corpo comune, in quanto

cittadino.Questi principi non sono leggi che lo Stato già costituito emani, bensì leggisecondo le quali solo è possibile in generale una costituzione dello statosecondo i principi della pura ragione che riguardano il diritto esternodell’uomo.1) La libertà dell’individuo in quanto uomo. Io esprimo il suo principio per lacostituzione di un corpo comune nella formula seguente: “Nessuno mi puòcostringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina ilbenessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per lavia che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà deglialtri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesisterecon la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè nonleda questo diritto degli altri)”. […]2) L’uguaglianza degli individui in quanto sudditi, la cui formula può cosìesprimersi: “Ogni membro dello Stato ha verso gli altri diritti coattivi, daiquali solo il sovrano è escluso (poiché egli non è membro dello Stato, ma locrea e lo conserva). Solo il sovrano ha il potere di costringere, senza essereegli stesso sottoposto a una legge coattiva”. Tutti quelli che sono sottoposti aleggi sono sudditi in uno Stato e sono quindi sottoposti a una legge coattiva alpari di ogni altro membro della comunità, fatta eccezione di un’unica persona(fisica o morale): il capo dello Stato, attraverso il quale soltanto ogni coazionegiuridica può essere esercitata. […]3) L’indipendenza (sibi sufficientia) di un membro della comunità in quantocittadino, cioè come partecipe del potere legislativo. In fatto di legislazione,tutti quelli che sono liberi ed eguali sotto leggi pubbliche già esistenti nonsono tuttavia da considerarsi uguali per ciò che riguarda il diritto di darequeste leggi. […] Ora, colui che ha il diritto di voto in questa legislazione sichiama cittadino (citoyen, cioè cittadino dello Stato, non cittadino di unacittà, bourgeois). La qualità che a ciò si esige, oltre quella naturale (che nonsia un bambino né una donna), è questa unica: che egli sia padrone di sé (suiiuris) e quindi abbia una qualche proprietà (e in questa può essere compresaogni attività, manuale, professionale, artistica, scientifica), che gli procuri imezzi di vivere […].

Kant, Sopra il detto comune: “questo può essere giusto in teoria,ma non vale per la pratica”, in Scritti politici, Utet 1956

TERZO ARTICOLO DEFINITIVO PER LA PACE PERPETUA: “IL DIRITTOCOSMOPOLITICO DEV’ESSERE LIMITATO ALLE CONDIZIONI DI UNAUNIVERSALE OSPITALITÀ”Qui, come negli articoli precedenti, non si tratta di filantropia, ma di diritto, equindi ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio diun altro Stato di non essere da questo trattato ostilmente. Può essereallontanato, se ciò può farsi senza suo danno, ma, fino a che dal canto suo si

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comporta pacificamente, non si deve agire ostilmente contro di lui. Non sitratta di un diritto di ospitalità, cui si può fare appello (a ciò si richiederebbeun benevolo accordo particolare, col quale si accoglie per un certo tempo unestraneo in casa come coabitante), ma di un diritto di visita, spettante a tuttigli uomini, cioè di entrare a far parte della società in virtù del diritto comunedel possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gliuomini non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimorassegnarsi a incontrarsi e coesistere. Nessuno in origine ha maggior dirittodi un altro ad una porzione determinata della terra.

Kant, Per la pace perpetua, in Scritti politici, op. cit.

La teoria politica e storica di Kant si snoda intorno a 3 questioni fondamentali:1) l’origine della civiltà umana, dello Stato e quindi della storia, ossia il passaggio dalla

stato di natura allo Stato civile;2) la “costituzione civile” , ossia il patto (o contratto) di unione degli individui in uno

Stato, che si estende anche al “diritto internazionale”, cioè al patto di coesistenzapacifica tra gli Stati;

3) il fine della storia, ossia il progresso e il suo traguardo.Relativamente alla prima di queste questioni, Kant si serve di una lettura allegorica delGenesi per delineare una personale versione del giusnaturalismo. Egli afferma, infatti, cheil mito della cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden simboleggia il passaggio dell’uomo dallacondizione naturale, in cui era determinato dagli istinti come qualsiasi animale, allacondizione civile, a fondamento della quale sta la libertà di scelta, connessa, come abbiamovisto, da un lato con la legge morale dall’altro con l’inclinazione alla sua trasgressione.Divenuto libero, dunque, l’uomo può compiere il male e degradarsi moralmente – questo èil significato razionale del peccato originale – ma può anche e soprattutto iniziare il suotortuoso ma esaltante cammino di perfezionamento morale e civile. Grazie alla capacità diautodeterminazione del proprio comportamento, infatti, l’uomo può sottrarsi almeccanicismo naturale e generare una nuova natura, la civiltà storica.La condizione costitutiva della civiltà, secondo Kant, è il diritto, cioè la statuizione di uncorpo di leggi che regolamentino i rapporti tra gli individui in modo tale che la libertàindividuale di ognuno si accordi con la libertà individuale di ogni altro. Da questo punto divista, Kant sostiene che il passaggio dallo stato di natura allo stato civile non consiste in unsalto da una situazione di assenza di diritto a una di presenza di diritto, ma inun’evoluzione graduale da una situazione di diritto spontaneo a una situazione di dirittoobbligatorio. In altre parole, nello stato di natura per Kant i rapporti tra gli uomini sonoprevalentemente conflittuali, ma vige anche un certo livello di socialità dovuto allatendenza spontanea degli individui a rispettare la reciproca libertà. Ma tale socialitànaturale non è garantita e quindi è occasionale e precaria. Col passaggio alla società civile,il diritto viene istituzionalizzato diventando coattivo, cioè forzato, in virtù della coerzioneesterna che lo Stato, con i suoi organi specializzati (giudici, polizia), esercita su tutti i suoimembri, che proprio per questo sono “sudditi”. In questo modo lo Stato istituisce egarantisce la certezza del diritto.Secondo Kant, la transizione dallo stato di natura allo stato civile non è motivata daconsiderazioni utilitaristiche, cioè da un giudizio razionale di maggiore convenienza di undiritto coercitivo rispetto a un diritto spontaneo. Per Kant questa transizione è unimperativo della ragione pratica. Non si tratta di un imperativo morale, perché la moralitàè appunto interiore e spontanea, ma di un imperativo politico, in quanto riguarda la sferaesteriore e implica la coercizione esterna. Esso spinge l’uomo a ricercare una maggioreintegrazione con gli altri anche sul piano fisico-materiale, cioè a perseguire l’universalitàesteriore, in consonanza con la legge morale.

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Ciò nonostante, Kant sostiene che storicamente lo Stato non è nato da un contratto tra gliuomini. In questo senso l’origine contrattuale dello Stato è solo un modello ideale: ogniStato per essere legittimo deve essere costituito “come se” fosse stato istituito da uncontratto collettivo. Di fatto però ogni Stato è storicamente nato dalla “coazione”, cioè dallaforza detenuta da un potere sovrano. Infatti, se lo Stato è, come abbiamo visto, certezza deldiritto fondata sulla coercizione esterna, esso per Kant presuppone appunto un poteresovrano in grado di esercitare una coercizione.Stando così le cose, la “costituzione civile” dello Stato deve basarsi su un potere esecutivoassoluto. Ma l’assolutismo teorizzato da Kant è un assolutismo “illuminato”. Esso èl’antitesi del “dispotismo” e si configura dunque come una “repubblica”. Kant usa questotermine in un significato diverso dal nostro, come sinonimo di Stato di diritto o liberale,ossia di uno Stato in cui vigano le seguenti condizioni:

1) la libertà, intesa come piena scelta da parte dell’individuo del propriocomportamento privato, in particolare come piena facoltà di praticare il proprioideale di felicità. In questo senso, la “repubblica” non si deve proporre di realizzarela felicità dei suoi sudditi. La felicità infatti è diversa da individuo a individuo e unoStato che la perseguisse per tutti, cioè uno Stato “paternalistico”, sarebbe per Kantlo Stato più dispotico che si possa immaginare.

2) L’uguaglianza, intesa in senso giuridico, ossia come principio secondo cui le leggisono uguali per tutti senza alcuna differenziazione né tanto meno discriminazione.

3) L’indipendenza, intesa sia come tripartizione dei poteri (esecutivo, legislativo,giudiziario), sia come diritto di voto per ogni cittadino, cioè per ogni sudditoeconomicamente autosufficiente, per l’elezione di un Parlamento avente il compitodi proporre le leggi al potere esecutivo detentore della sovranità (che può essereindividuale o collegiale).

4) La critica pubblica, intesa come facoltà di tutti i sudditi/cittadini di esprimerepubblicamente e di diffondere attraverso la stampa il proprio giudizio sull’operatodelle autorità statali e in particolare dell’autorità esecutiva assoluta.

Ma com’è possibile conciliare un potere esecutivo assoluto con uno Stato di diritto? Lasoluzione di Kant è che il potere esecutivo, sia individuale o collegiale non importa, devedecidere e governare “come se” decidesse e governasse l’intero popolo. In altre parole èlegittimo se, e solo se, interpreta la volontà di tutti i sudditi/cittadini, ovvero se opera colloro consenso. D’altra parte, secondo Kant, in nessun caso il popolo può considerarsititolare del diritto alla rivoluzione, in quanto il suo esercizio distruggerebbe lo Stato stesso.L’unica via per migliorare lo Stato ed, eventualmente, correggere il potere esecutivo, perKant è quella delle riforme promosse e ottenute in modo legale e quindi pacifico.A giudizio di Kant, inoltre, il diritto non deve essere solo intrastatale ma anche interstatale.In parole semplici: anche gli Stati e i loro rapporti devono essere regolamentati da undiritto che, come tale, è detto internazionale. Kant individua 3 principi fondanti del dirittointernazionale:

1) ogni Stato deve essere una “repubblica”, nel senso sopra chiarito;2) tutti gli Stati devono formare una “federazione” mondiale, ovvero una “lega della

pace”: non si tratta, dunque, di un super Stato, di uno Stato mondiale, bensì di una“confederazione”, cioè di un’associazione di Stati indipendenti che, pur mantenendoil pieno esercizio della propria sovranità, si vincolano a criteri comuni diregolamentazione delle loro relazioni per garantire una condizione di pacepermanente;

3) tutti gli Stati devono permettere, nei limiti del rispetto delle leggi, anche ai membridi Stati esteri la libera circolazione degli individui e delle merci al loro interno, alfine di evitare sia l’isolazionismo sia il colonialismo imperialistico.

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L’eliminazione delle guerre e la conquista di una situazione di “pace perpetua” è lamotivazione decisiva della necessità del diritto internazionale e quindi di unaconfederazione mondiale di Stati repubblicani. Questo obiettivi sono indicati da Kant comecompiti da perseguire e raggiungere nel corso della storia, e vanno pertanto inquadrati inuna concezione generale della storia umana come progresso verso una comunità umanaperfetta e dunque pacifica.In questo senso, Kant afferma che sulla base di una considerazione puramente scientificadella storia, vincolata all’esperienza, non sarebbe possibile concepire fondatamente unavisione della storia come progresso illimitato. Però, il giudizio riflettente, extrascientificoma pur sempre razionale, ci consente di concepire la storia non solo sulla base dellacasualità efficiente ma anche e soprattutto sulla base di una causalità finalistica. In questomodo è possibile rinvenire nella storia l’attuazione di un disegno razionale che si attuaprogressivamente nel tempo. Alla luce di questo disegno, la concordia discors (l’“insocievole socievolezza”), cioè il conflitto presente in ogni uomo tra tendenza aintrattenere rapporti con gli altri e tendenza a perseguire il proprio interesse individuale,pur storicamente alla base di eventi nefandi e guerre d’ogni tipo, appare come un mezzodel progresso storico. Tenendo conto che il giudizio riflettente non dispone della certezzadel giudizio determinante (o scientifico), non possiamo pensare che il progresso sianecessario ma che sia possibile, per non dire probabile, sì.E il progresso storico, continua Kant, è reso possibile da un fine ultimo, da una metaideale, verso la quale tendono tutti gli eventi storici e verso cui convergono tutte le azioniindividuali: una “costituzione civile perfetta”, una comunità politica mondiale di esserirazionali. In questo senso, il criterio del progresso non è né può essere di tipo economico otecnico, ma solo di tipo culturale: è l’aumento della conoscenza e, in generale, dellarazionalità teorizzata e praticata, che fa il vero autentico progresso. Ma il suo traguardo èirraggiungibile, è una meta ideale cui si deve tendere nella consapevolezza di non poterlamai raggiungere compiutamente.

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TAPPA 16KANT: LA RELIGIONE MORALE E LA CHIESA INVISIBILE

Il dominio del buon principio [la virtù morale, ndc], nella misura in cui gliuomini vi possono contribuire, è dunque realizzabile, per quanto è datovedere, non altrimenti che con la fondazione e l’estensione di una Societàgovernata dalle e per le leggi della virtù; di una Società, l’adesione alla quale èresa dalla ragione un compito e un dovere per l’intero genere umano. […]Un’associazione degli uomini sotto le sole leggi della virtù, secondo laprescrizione di questa idea, può chiamarsi una Società etica, e, in quantoqueste leggi sono pubbliche, si può chiamare (in opposizione alla Societàgiuridico-civile) una Società etico-civile o ancora una comunità etica. Questapuò essere costituita in seno ad una comunità politica ed anzi da tutti imembri che la compongono (e in verità gli uomini non potrebbero maicostituirla senza aver come fondamento quest’ultima). Ma la prima ha unparticolare principio di associazione suo caratteristico (virtù): e perciò hapure una forma e una costituzione che differiscono essenzialmente dallaforma e dalla costituzione dell’altra. Tuttavia si trova una certa analogia traqueste due specie di Società, considerate come due comunità in generale; e,da questo punto di vista, la prima può essere chiamata ancora uno Statomorale, cioè un regno della virtù (del buon principio), l’idea del quale trova lasua oggettiva realtà, pienamente fondata, nella ragione umana (come doveredi riunirsi per formare un simile Stato), benché, soggettivamente, non cisarebbe mai da sperare, dal buon volere degli uomini, che essi si decidesseroa collaborare armoniosamente a questo scopo. […]Ogni specie di esseri ragionevoli è, infatti, destinata oggettivamente, nell’ideadella ragione, ad un fine comune, cioè al promuovimento del sommo bene,come bene comune a tutti. Ma siccome il sommo bene etico non vieneprodotto solo con lo sforzo fatto dalla persona singola per il proprio esclusivoperfezionamento morale, ed esige invece la riunione dei singoli in un Tutto,per tendere precisamente allo stesso fine, per formare un sistema di uominiben intenzionati, nel quale, e con l’unità del quale, solamente, può essereattuato; siccome, d’altra parte, l’idea di questo Tutto, come di una repubblicauniversale retta da leggi della virtù, è un’idea completamente differente datutte le leggi morali (che concernono cose che sappiamo essere in nostropotere), è in altre parole, l’idea di quanto è da farsi per ottenere un tutto, dicui non c’è possibile sapere se, come tale, esso sia anche in nostro potere: datotutto questo, noi abbiamo qui un dovere che, per la sua natura e il suoprincipio, si distingue da tutti gli altri.Si prevede già, anticipatamente, che questo dovere esigerà la supposizione diun’altra idea, cioè di quella di un Essere morale superiore, per la cui generalecura, le forze in sé insufficienti degli individui, sono riunite per un effettocomune. […]Una comunità etica con legislazione morale divina è una chiesa, che, inquanto non è oggetto dell’esperienza possibile, si chiama chiesa invisibile(semplice idea della riunione di tutti i giusti sotto l’immediato, ma moralegoverno universale divino, che serve da modello ad ogni altro governofondato dagli uomini). La chiesa visibile è la riunione effettiva degli uomini inun Tutto che concorda con questo ideale.

Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza 2004, cap. III

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Per Kant la “costituzione civile perfetta”, cioè lo Stato ideale, non è l’obiettivo ultimo e piùimportante dell’umanità. Il traguardo decisivo è infatti la comunità morale perfetta, inquanto è nella dimensione morale che l’umanità può realizzare la sua massimaintegrazione e così avvicinarsi al grado più elevato di perfezione. Da questo punto di vista,lo Stato, come comunità politica basata sulla coercizione esteriore, è solo la condizioneoggettiva della comunità morale fondata sull’intenzione interiore.Il presupposto di tale comunità è individuato da Kant nella duplice costituzione moraledell’umanità: da un lato, l’uomo alberga in sé il “male radicale”, cioè l’inclinazione atrasgredire la legge morale; dall’altro lato, però, la sua natura originaria è razionale epertanto l’uomo conserva intatto “il principio buono”, cioè la “buona volontà”, la capacitàdi scegliere e agire moralmente. Egli dunque può e deve perfezionarsi moralmente pergiungere a ripristinare pienamente la sua condizione originaria di essere morale,estirpando da sé il “principio cattivo”, cioè il “male radicale”.Questa missione morale è propria di ogni individuo ma, poiché si riferisce ai rapportiinterindividuali, può essere realizzata solo in una dimensione collettiva, in una “comunitàetica”, cioè in una società unita solo dalle leggi della virtù, cioè da leggi non costrittive, maliberamente scelte e seguite da ogni individuo.Secondo Kant la comunità etica umana implica l’esistenza di un Essere superiore capace di“scrutare i cuori” degli uomini, cioè capace di conoscere la loro vera intenzione. L’agiremorale, infatti, è tale solo se intenzionale e nessun individuo può accertare quale sia lareale intenzione non solo di un altro ma anche di sé medesimo. D’altra parte, il giudiziocerto dell’intenzione è decisivo per la vita morale, perché solo esso permette di stabilireuna ricompensa proporzionata al merito, cioè il conseguimento del “sommo bene”,l’unione di virtù e felicità. Ciò significa, afferma Kant, che la comunità etica umana implical’esistenza di Dio come “Signore morale del mondo”, ossia come supremo e unicolegislatore delle leggi morali. Di conseguenza le leggi morali sono al contempocomandamenti divini e la comunità etica umana non può che essere concepita come un“popolo di Dio”, cioè come una “chiesa”.Ma, a questo proposito, Kant introduce una distinzione fondamentale tra:

1) la “chiesa invisibile”, ossia l’idea di chiesa, la chiesa ideale unica e universale, deltutto priva di riti e di autorità ufficiali, basata su una fede razionale pura e aventecome unica pratica religiosa l’agire morale;

2) la “chiesa visibile”, ossia le molteplici chiese reali, storico-empiriche, basate su unafede rivelata, su un culto e dei riti, e quindi su precetti esteriori e su autoritàufficiali.

La chiesa visibile, sostiene Kant, è una necessità storica connessa alla componenteempirico-sensibile dell’uomo, la quale fa sì che gli uomini siano “deboli” e abbianopertanto bisogno di sostenere la loro fede con manifestazioni oggettive di Dio, le sacrescritture, e con atti di culto moralmente irrilevanti. Kant giustifica una chiesa visibile se, esolo se, assume la chiesa invisibile come ideale e quindi come suo fine, ossia se si consideraun mezzo storico, e quindi provvisorio, di realizzazione progressiva della chiesa invisibile.In questo senso, secondo Kant, una chiesa visibile deve avere i seguenti requisiti:

a) l’universalità, cioè la tensione alla formazione di un’unica chiesa di tutta l’umanità;b) la purezza, cioè la moralità come movente prioritario ed essenziale;c) la libertà, cioè relazioni libere, non gerarchiche, tra i suoi membri e con lo Stato

all’interno del quale agisce.In base a questa impostazione, Kant riconosce la funzione positiva di tutte le religionistoriche, ma solo in quanto mezzi parziali e temporanei di costruzione e sviluppo dell’unicavera religione, morale e universale, dell’umanità. Egli pertanto critica, al contempo, tutte lereligioni storiche in tanto in quanto si sono considerate come fini a se stesse, e dunquecome uniche e assolute, e ne denuncia le conseguenti degenerazioni: la superstizione, il

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dogmatismo, l’autoritarismo, il fanatismo e soprattutto le guerre di religione, “che cosìspesso hanno scosso il mondo e l’hanno coperto di sangue”. Queste ultime, afferma Kant,sono impropriamente chiamate “guerre di religione”, perché in realtà non sono suscitatedalla religione, cioè dalla fede razionale pura della chiesa invisibile, ma dagli interessi dellechiese visibili nel momento in cui non si considerano più mezzi della chiesa invisibile edunque non sono più chiese autentiche.Sullo sfondo di questa visione generale delle religioni tradizionali, Kant giudica la religionecristiana come la migliore delle religioni storiche poiché secondo lui è la religione che piùdi ogni altra fa coincidere il comportamento religioso con quello morale. In questaprospettiva, Kant sostiene che l’Antico e il Nuovo Testamento non vanno interpretati allalettera bensì sempre in chiave razionale e morale, assumendo come presupposto che ilmessaggio biblico corrisponde sempre alla legge morale ma è espresso in forma simbolicaper raggiungere il maggior numero di uomini. Per esempio, egli afferma che il mito delpeccato originale di Adamo ed Eva non è altro che la rappresentazione simbolica del “maleradicale”, cioè del fatto che l’uomo è responsabile di aver attivato volontariamente in sestesso il “principio cattivo”, cioè l’inclinazione a trasgredire deliberatamente la leggemorale. D’altra parte, la simbologia del Genesi, attraverso la figura del serpente tentatore,sta a significare che il male non appartiene alla natura umana, creata infatti “buona” daDio, ma a uno spirito malvagio, esterno all’uomo.In particolare, la figura storica di Cristo, il figlio di Dio immune dal peccato, è interpretatada Kant come il simbolo della possibilità umana della santità, cioè della perfezione morale.In Cristo l’umanità ha avuto e ha un modello di moralità da imitare per attivare il proprioprocesso di perfezionamento morale. In questo modo, attraverso Cristo, Dio concede la suaGrazia agli uomini, cioè integra il loro sforzo di miglioramento, che di per sé sarebbeinsufficiente, rendendo effettivamente possibile il raggiungimento della perfezione morale.Per questo il miglioramento morale non può basarsi solo sull’allenamento costante eprogressivo alla pratica della virtù ma deve partire da una “rivoluzione del cuore”, da unarinascita interiore che ripristini il “principio buono”, cioè l’originaria natura moraledell’uomo così come era stata creata da Dio. In questo senso Kant afferma che Cristo si èincarnato una volta in modo visibile ma innumerevoli volte in modo invisibile in ogniuomo che si converte, sia prima sia dopo la sua incarnazione storica.Considerando l’epoca a lui contemporanea, Kant ritiene che sia arrivato il tempo in cuil’umanità possa finalmente abbracciare una fede razionale pura che concepisca larivelazione divina come un processo che avviene continuamente in tutti gli uomini. In altreparole, Kant si fa profeta dell’arrivo del Regno di Dio inteso come inizio del passaggioprogressivo dalle chiese storiche, dogmatiche e gerarchiche, all’unica chiesa universalefondata sulla ragione e sull’uguaglianza di tutti i fedeli e destinata a progredire fino allarealizzazione completa di una comunità etica umana, cioè di una comunità universalesenza male e stabilmente pacifica.In questo modo, Kant, riallacciandosi alla tradizione rinascimentale della docta religio,elabora la propria versione del deismo illuministico. Si tratta di una versione personale edecisamente più concessiva nei confronti delle chiese tradizionali di quelle della maggiorparte dei filosofi illuministi, ma non per questo meno radicale, anzi, sul piano dellaproposta per il presente e della prospettazione del futuro. Segnatamente, risulta chiaro enetto che la piena realizzazione dell’utopia di una società umana perfetta non è affidata daKant alla dimensione politica ma a quella religiosa, benché la prima sia considerata unacondizione, ovvero un mezzo indispensabile, della seconda.

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VIAGGIO IILA COSTRUZIONE RAZIONALE DI TUTTA LA REALTA’

ROTTA A: IL ROMANTICISMO TEDESCO

TAPPA 1SCHILLER: LA PEDAGOGIA DELLA BELLEZZA

L’educazione estetica come educazione alla libertàIl riferimento principale della filosofia estetica di Schiller è costituito dalla Critica delGiudizio di Kant. In questa opera Kant aveva individuato nel sentimento del bello unafacoltà intermedia della ragione capace di conciliare l’opposizione tra l’intelletto e lamoralità, ovvero tra il meccanicismo della natura scientifica e la libertà dell’uomo.L’intento di Schiller è quello di sviluppare e completare la Critica del Giudizio di Kant inuna duplice direzione: a) mostrando come la bellezza possa non solo conciliare ma ancheintegrare e armonizzare tutti i dualismi della filosofia kantiana: intelletto e ragione, istintosensibile e legge morale, individuo e collettività; b) elaborando non solo e non tanto unateoria estetica quanto anche e soprattutto una pedagogia estetica, cioè facendo dellabellezza il criterio cardine per un nuovo, più profondo ed efficace metodo di educazionedell’umanità alla libertà. L’istanza pedagogica di Schiller ha forti implicazioni politiche inquanto per lui la rivoluzione francese aveva dimostrato che senza un nuovo tipo d’uomo,cioè un individuo autenticamente libero, ogni tentativo di arrivare all’autodeterminazionepolitica era destinato alla degenerazione e al fallimento.

La differenza tra uomo moderno e uomo grecoL’uomo moderno, secondo Schiller, è interiormente diviso in molti interessi e facoltàautonomi che si rapportano tra loro in modo squilibrato. Questa sua frammentarietàspirituale è conseguenza sia dell’organizzazione sociale – caratterizzata dalla divisione dellavoro e da una complessa articolazione in classi e ceti – sia della situazione culturale,segnata dalla sempre più radicale specializzazione delle scienze e dalla contrapposizionetra razionalità scientifica e fantasia artistica. Grazie alla crescente complessità del sistemasocio-culturale l’uomo moderno ha sensibilmente migliorato le sue condizioni materiali divita, ma a prezzo della rottura della sua unità interiore. Da questo punto di vista, egli sitrova agli antipodi della “splendida umanità” rappresentata per Schiller dall’uomo grecoantico la cui civiltà era invece caratterizzata da una maggiore omogeneità socio-culturale equindi dall’armonia tra razionalità e fantasia, sensibilità e moralità, individuo e comunità.Eppure, secondo Schiller, l’inferiorità dell’uomo moderno rispetto all’uomo greco contienein sé la potenzialità di trasformarsi in superiorità. L’uomo moderno infatti ha la possibilitàdi realizzare un nuovo equilibrio spirituale basato su una maggiore differenziazioneinterna, e dunque più ricco ed elevato. La chiave di volta per conseguire questo risultato ècostituita dall’educazione alla bellezza basata sull’arte.

La vita, la forma e il giocoLa pedagogia estetica di Schiller ha come fondamento la sua teoria antropologica secondola quale ogni uomo è costituito dall’interazione di due principi opposti:

• L’ “impulso materiale” o “vita”, in base al quale partecipa al mondo fisicocaratterizzato dal bisogno, dall’istintività, dal mutamento temporale,dall’accidentalità;

• L’ “impulso formale” o “forma”, in base al quale partecipa del mondo ideale,puramente razionale, caratterizzato dalla libertà, dalla moralità, dalla stabilitàsovratemporale, dalla finalità.

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La sua natura duale espone costitutivamente l’uomo al rischio della scissione, dellosquilibrio, del conflitto intestino. D’altra parte questo stesso dualismo fonda la superioritàdell’uomo legata alla possibilità di equilibrare e accordare i suoi impulsi immediatamenteopposti ma potenzialmente complementari. Tale possibilità è affidata da Schiller a un terzoimpulso umano, intermedio rispetto ai primi due, ovvero all’ “impulso al gioco” propriodell’attività artistica.

L’attività artistica, afferma Schiller, è un “gioco” in quanto essa è l’espressione di unatteggiamento del tutto disinteressato, sia materialmente sia scientificamente siamoralmente, nei confronti della realtà. In altre parole l’arte in quanto gioco è assolutaspontaneità, libertà da tutte le leggi sia naturali sia culturali, sospensione di qualsiasinecessità fisica o dover-essere morale. Questo “stato estetico” dell’uomo è possibile inquanto il gioco artistico consiste nel perfetto equilibrio di “vita” e “forma”, di impulsomateriale e impulso formale. I due impulsi così si neutralizzano a vicenda, si integrano, siarmonizzano. La bellezza è appunto il risultato di tale armonizzazione, è la sintesi di vita eforma resa possibile dall’essenza ludica dell’attività artistica.Su queste basi Schiller si fa assertore di una concezione classica della bellezza comeperfetto equilibrio di forma e contenuto. Egli però l’articola originalmente in due tipi:

• La bellezza rilassante o dolce, che ha la funzione di attenuare un eccesso di vitaproprio di uno stato d’animo troppo teso attraverso un eccesso opposto di forma;

• La bellezza stimolante o energica, che ha la funzione di temperare un eccesso diforma proprio di uno stato d’animo troppo rilassato attraverso un eccesso oppostodi vita.

L’anima bella come fusione di moralità e grazia esteticaL’educazione estetica, secondo Schiller, ha il compito di utilizzare l’arte come strumentopedagogico per sviluppare in ogni uomo lo “stato estetico”, cioè l’equilibrio interno tra vitae forma. Grazie ad essa ogni individuo può diventare un’ “anima bella”. Con taledenominazione Schiller delinea il suo ideale di uomo nuovo, obiettivo ultimo dell’opera dieducazione estetica. L’anima bella è l’individuo pienamente realizzato in quanto capace diarmonizzare compiutamente la sua sensibilità naturale e istintiva con la legge morale. Egli,cioè, è in grado di compiere il dovere morale senza autocostrizione ma con naturalespontaneità perché ha imparato ad apprezzare e a praticare la bellezza dell’agire morale edè dunque attratto e spinto da essa. In altre parole, l’anima bella è l’uomo che fa di se stessoun’opera d’arte vivente, in quanto come questa realizza in sé la bellezza come perfettoequilibrio di vita e forma. Schiller chiama “grazia” la bellezza dell’agire umano propriadell’anima bella. La grazia per lui è superiore al kantiano “dovere per il dovere” ed è la piùalta forma di libertà, la libertà autentica. In conclusione: la superiore dignità dell’uomo ècostituita dalla libertà, ma questa si fonda sulla grazia ovvero sulla perfettacomplementarità di sensibilità e moralità, intelletto e ragione, razionalità e fantasia,necessità e libertà, individuo e collettività. L’educazione estetica è dunque la più profonda ecompiuta forma di educazione alla libertà e come tale è la condizione di qualsiasi autenticocambiamento politico.

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TAPPA 2SCHLEGEL: L’IRONIA COME APPROSSIMAZIONE ALL’INFINITO

L’arte romantica come rappresentazione dell’infinitoPromotore dei circoli romantici di Jena e Berlino, Schlegel è il principale teorico tedescodel romanticismo. Egli contamina le filosofie di Kant, Schiller e soprattutto di Fichte con leproduzioni poetiche di Goethe e di Tieck. L’obiettivo ultimo dell’uomo, e quindi il criteriodi giudizio fondamentale di tutte le sue attività, è per Schlegel l’Infinito, o Assoluto,termine con il quale egli designa l’essere totale e compiuto, e dunque perfetto. All’infinito sipuò pervenire per due vie autonome ma complementari e convergenti: la prima è quellalogico-concettuale della filosofia; la seconda è quella intuitivo-fantastica dell’arte. Schlegeldenomina “romantica” la forma d’arte che riesce a rappresentare e quindi a manifestarel’infinito o assoluto. In questo modo, il termine “romanticismo” – che prima avevadesignato il genere letterario dei romanzi cavallereschi e aveva assunto le accezioniderivate di “fantastico” e “stravagante” – assume un nuovo, pregnante significato, venendoa indicare una specifica concezione dell’arte e, più in generale, della vita umana.

L’ironia come coscienza della inattingibilità dell’infinitoConvinto del parallelismo di filosofia e arte, Schlegel individua il loro comunedenominatore nel principio dell’ “ironia”. Egli si rifà ai dialoghi socratici di Platone, neiquali l’ironia costituiva sia un omaggio al “sapere di non sapere”, ovvero al senso dei limitiumani, sia un metodo per stigmatizzare la presunzione umana, sia la manifestazione dellostile con cui Socrate ingentiliva e abbelliva le sue taglienti confutazioni. Schlegel tuttaviageneralizza e approfondisce il significato dell’ironia socratica rendendola una categoriainterpretativa dell’arte e soprattutto il canone essenziale e unitario del romanticismo. Ilfondamento ultimo dell’ironia è infatti per Schlegel la coscienza dello iato incolmabile chesussiste tra la finitezza umana e l’infinito. Di conseguenza ogni tentativo umano dirappresentare l’infinito è destinato allo scacco.

L’ironia come strumento artistico per rappresentare l’irrappresentabileL’arte, come la filosofia, si fonda su un paradosso, cioè sull’esigenza di rappresentarel’infinito, ovvero l’irrappresentabile, cioè di realizzare il fallimento, di comunicarel’incomunicabile. Tale paradosso si esprime e si risolve appunto nell’ironia, cioènell’autoparodia della propria opera da parte dell’autore stesso, nel conseguente usodello scherzo e dell’umorismo.Attraverso l’adozione di uno stile ironico, infatti, l’opera s’arte denuncia la suainsufficienza a rappresentare l’infinito ma, implicitamente, proprio così lo allude, lo rendepresente nell’unico modo possibile, quello cioè del rinvio a un’ulteriorità assente.

L’ironia come “buffoneria trascendentale”In questo senso Schlegel definisce l’ironia “buffoneria trascendentale” e la consideracome il corrispettivo artistico dell’idea dialettica, a cui Kant aveva attribuito la funzionetrascendentale di pungolare la ricerca scientifica a oltrepassare ogni risultato conseguitoper approssimarsi sempre più all’infinito.Con la sua nuova concezione dell’ironia Schlegel pone le fondamenta di quel principio delromanticismo che la critica successiva ha denominato Sehnsucht, termine cheletteralmente significa “passione dell’anelare”, cioè anelito struggente, dolorosaaspirazione. L’ironia, infatti, in quanto “buffoneria trascendentale”, costringe l’artista arelativizzare ogni sua produzione e a perseverare indefessamente nell’impresa impossibiledi raggiungere l’irraggiungibile, cioè l’infinito. Ma proprio per questo l’artista e l’artepossono sempre più perfezionarsi, produrre opere sempre più elevate.

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L’opera d’arte romantica come “poesia trascendentale”Schlegel concepisce l’arte romantica – cioè quella incardinata sull’ironia – essenzialmentecome poesia. Egli cioè ritiene che l’arte più elevata sia quella letteraria, basata sulla parola.In secondo luogo per lui l’arte romantica deve essere “totale”, cioè deve fondarsi sullafusione di tutti i generi e gli stili poetico-letterari tradizionali. Come tale l’opera d’arteromantica nasce dal “genio”, cioè è una “produzione inconscia” che scaturisceintuitivamente dalla fantasia dell’artista. In questo senso essa da un lato è la più altarealizzazione della libertà dell’uomo, dall’altro è manifestazione di un essere trascendenteil singolo individuo, cioè appunto dell’infinito.Il genio artistico consiste appunto nella capacità di annullare la propria finitezzaindividuale per rendersi vaso e cassa di risonanza dell’infinito, ovvero per farsi strumentodi comunicazione dell’assoluto a tutti gli uomini. Per questo Schlegel definisce l’operad’arte romantica “poesia trascendentale” e attribuisce all’artista la responsabilità di unamissione che è al contempo filosofica e religiosa, in quanto consiste nel porre gli uomini incontatto con l’assoluto il quale coincide con il divino.

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TAPPA 3NOVALIS: L’IDEALISMO MAGICO

Dalla magia dell’oggetto alla magia del soggettoAmico di Schlegel, ammiratore di Fichte, poeta e romanziere egli stesso prima ancora chefilosofo dell’arte, Novalis teorizza nei suoi saggi e rappresenta nelle sue opere artistiche lavisione del mondo che lui stesso battezza “idealismo magico”. Con questa denominazioneNovalis vuole indicare una versione attuale e alternativa del tradizionale “realismomagico”, cioè della filosofia della natura rinascimentale (Ficino, Pico, Bruno). Ilnaturalismo rinascimentale infatti aveva concepito la natura come un’entità viva, animata,le cui parti sono tutte in corrispondenza simpatetica le une con le altre e sono pertanto ingrado di influenzarsi e trasformarsi reciprocamente in base a precise leggi qualitative equantitative. Il filosofo per i rinascimentali era appunto l’uomo che conosceva tale leggi epoteva dunque dominare magicamente la natura. La concezione magica rinascimentaleera “realistica” in quanto riteneva che il fondamento della magia – cioè l’animazioneuniversale – fosse una proprietà autonoma della realtà naturale, fosse cioè interna almondo fisico oggettivo. Applicando originalmente la “rivoluzione copernicana” di Kant alpensiero magico-naturalistico del rinascimento, Novalis rovescia la magia oggettiva in unamagia soggettiva, ovvero ribalta il “realismo magico” in “idealismo magico”. Ciò significache per Novalis il principio dell’agire magico non è un da rinvenire all’interno della natura,bensì all’interno del soggetto umano.

La realtà naturale come fiaba creata dal “grande Io”La natura, infatti, secondo Novalis, è creata e governata dallo Spirito, ovvero dal “grandeIo” che è il fondamento comune e universale di tutti gli “io comuni”, cioè di ogni singolaragione umana.In questo senso la realtà altro non è che una costruzione ideale che Novalis avvicina alsogno o meglio ancora alla fiaba, che per lui è il genere sommo e il canone stesso dellapoesia. Lo Spirito, infatti, è come un “sommo mago” che è riuscito a produrre degliincantesimi talmente raffinati e vividi da illudere il loro stesso artefice.Fuor di metafora, l’Io universale crea una “fiaba” o un “sogno” così perfetti da apparirglicome realtà oggettiva, come un non-Io, cioè come un mondo autonomo, esistente di per sée opposto all’Io. Per questo gli uomini – gli io individuali comuni – sono portati a credereche la natura sia una alterità eterogenea e perfino ostile rispetto a loro, un meccanismodominato dal destino, cioè da una inesorabile necessità che si impone su ogni cosa.

La Sehnsucht come presagio dell’essenza segreta della naturaQuesta falsa credenza per Novalis è la vera causa della sofferenza psichica e fisicadell’umanità. Ma proprio perché ogni individuo alberga in sé lo Spirito, essendone unaparte, sotto le ceneri del suo autoinganno cova la fiamma della consapevolezza. Questobarlume di consapevolezza si manifesta, afferma Novalis, in un peculiare sentimento, laSehnsucht, lo struggimento dell’anelare.Si tratta di un desiderio particolare, doloroso e piacevole a un tempo: doloroso perché ilsuo oggetto e la sua meta sono non solo tutti da scoprire ma anche in sé stessi indefiniti equindi mai raggiungibili in modo pieno e definitivo; piacevole perché legato alla speranza ealla volontà attiva di riscoprire il mondo come “casa propria”, cioè di riconoscere nellanatura per così dire una seconda faccia o un alter ego dell’uomo, cioè un’entità a lui affine,fraterna, accogliente.

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Le allegorie artistiche della Sehnsucht e dell’idealismo magicoNovalis, come accennato, non si limita a teorizzare filosoficamente ma rappresenta ancheartisticamente la sua concezione dell’idealismo magico. Egli utilizza il genere tipicamenteromantico del Bildungsroman (romanzo di formazione) in cui i protagonisti, attraverso uncammino di ricerca contrassegnato dal superamento di una serie di esperienze checostituiscono altrettante prove, arrivano ad acquisire una piena consapevolezza dellapropria identità e a raggiungere così la propria realizzazione. Nei suoi romanzi Novalisrappresenta simbolicamente la Sehnsucht e l’idealismo magico, in particolare attraversodue diverse ma complementari allegorie. La prima è quella della avventurosa ricerca inEgitto del tempio della “dea di Sais”, ovvero Iside, simbolo della Natura. Tale ricerca siconclude positivamente con lo svelamento della statua della dea. Il volto che la dea mostraappare identico a quello del protagonista che l’ha svelata e la sta guardando. La secondaallegoria è quella del “fiore azzurro” che sfugge quanto più il protagonista si avvicina adesso e cerca di afferrarlo. Con la prima Novalis esprime la tesi idealistica dell’identità tra Ioe Natura, ovvero della Natura come copia dell’Io, come sua produzione poetica. Con laseconda l’impossibilità di arrivare a possedere l’Infinito o Assoluto, ovvero la sintesidefinitiva e totale di Io e Natura.

Il poeta e il filosofo come “maghi” moderniSecondo Novalis, l’individuo che riesce a comprendere che la realtà è una fiaba inventata eraccontata dallo Spirito, cioè in ultima analisi da lui stesso, è il filosofo e soprattutto ilpoeta. Essi sono entrambi dei moderni “maghi”, ovvero dei “geni”, in quanto sono in gradodi farsi tutt’uno con lo Spirito e quindi di acquisire la capacità di trasformare i loro pensieriin realtà e la realtà nei loro pensieri.Il motore della loro capacità magica è per Novalis la loro volontà morale, connessa allacoscienza della loro libertà, cioè della loro indipendenza dalle leggi naturali; il lorostrumento fondamentale è l’amore, poiché l’amore è la forza che unisce e lega ogni cosa aogni altra, l’uomo alla natura, il passato al futuro, la vita alla morte, il corpo alla mente,ogni parte dell’universo all’universo stesso come totalità unitaria.

La poesia come autentica realtà e la filosofia come teoria della poesiaLa poesia, afferma Novalis, è la realtà stessa nel senso che è lo svelamento dell’essenzaassoluta della realtà apparente. Come si è visto, infatti, la realtà naturale non è altro cheuna “fiaba”, cioè un’opera d’arte, segnatamente una poesia, tanto ben riuscita dadissimulare la sua vera natura e da sembrare diversa da ciò che è. Dunque la poesia rivelala verità perché coincide essa stessa – in quanto comunica non solo attraverso deisignificati logici ma anche e soprattutto attraverso delle forme estetiche (suoni, ritmo,musicalità, immagini simboliche, paradossi) – con l’essenza segreta della realtà, èquell’essenza stessa. Tant’è vero che Novalis giunge a sostenere l’uguaglianza di poetare,pensare e generare, nel senso di produrre e creare.Il poeta crea la sua opera come lo Spirito ha creato il mondo. La poesia è reale tanto quantoil mondo è poesia. Per questo Novalis afferma che il poeta è “onnisciente” e “comprende lanatura meglio dello scienziato”. Addirittura il poeta assume nel mondo moderno il ruolodel “vate”, del “profeta” e del “sacerdote”. L’essenza della realtà che egli svela coincideinfatti con il principio divino che è alla base della religione. In questo prospettiva lafilosofia per Novalis è “la teoria della poesia”, ovvero è il tipo di pensiero che ha il compitodi spiegare razionalmente il significato e la funzione della poesia per insegnare a tutti gliuomini a comprenderla e a valorizzarla. La poesia è “l’eroina” e “il principio” della filosofia.

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ROTTA BL’IDEALISMO ASINTOTICOAlla fine del ‘700 nacque in Germania un nuovo indirizzo filosofico che sarebbe poi statodenominato “idealismo tedesco contemporaneo”. Esso ebbe 3 matrici principali: 1) latradizione idealistica che da Platone e Plotino si era poi sviluppata sino a Spinoza, Leibniz eBerkeley; 2) la filosofia di Kant e in particolare l’acceso dibattito critico-interpretativo che siera sviluppato intorno al concetto di “cosa in sé”; 3) la nascente cultura romantica e inparticolare la sua concezione dell’infinito.Dalla tradizione idealistica i nuovi idealisti mutuarono la tesi dell’essenza razionale di tutta larealtà sia fisica sia mentale, dandole però una nuova interpretazione e una diversaconfigurazione. Mentre per gli idealisti antichi il principio ideale della realtà era innanzituttooggettivo (p.e. il mondo delle idee), per gli idealisti tedeschi esso è innanzitutto soggettivo, cioèè “io puro” oppure “spirito”, cioè una sorta di supercoscienza metaempirica e metaindividualema analoga, omogenea e immanente alla coscienza o mente di ogni uomo.Da Kant, di cui Fichte si professò fedele discepolo, gli idealisti tedeschi ripresero il tema della“rivoluzione copernicana” e la concezione dell’io trascendentale “legislatore della natura”,dando però una più sfumata interpretazione del limite costituito dalla cosa in sé.Questo ridimensionamento della cosa in sé - e quindi la maggiore valorizzazione dell’agireteorico e pratico dell’uomo - furono la ricaduta filosofica della concezione romantica per cuil’uomo è costituito dalla sua tensione verso l’infinito. In questo senso Fichte e Schelling furono imaggiori interpreti filosofici del romanticismo: il primo, più fedele a Kant, ne espresse laconcezione titanica dell’uomo come sforzo perenne di raggiungere la perfezione morale; ilsecondo, più legato agli ambienti artistici romantici, ne espresse la concezione dell’operad’arte come manifestazione simbolica dell’infinito. Entrambi mantennero però l’istanzakantiana del limite e quella romantica della precarietà del rapporto con l’infinito. Il loroidealismo è pertanto definibile “asintotico”, nel senso che ammette un legame uomo/infinitosolo come progressiva e interminabile approssimazione, vuoi pratico-morale vuoi artistico-simbolica.

VITA DI UN CAPITANOJohann Gottlieb FichteFichte nacque nel 1762 a Rammenau, una piccolo centro urbano della Germania nordorientale.Di famiglia poverissima, Fichte poté frequentare la scuola superiore grazie al mecenatismo di unnobile e l’università lavorando come precettore privato. Entusiasta studioso di Rousseau esostenitore della rivoluzione francese, nel 1790 fu segnato dalla lettura delle opere di Kant di cuilasciò scritto: “Il rivolgimento che questa filosofia ha operato in me è enorme. Le debbo, inspecial modo, il fatto che ora credo fermamente nella libertà dell’uomo”.L’anno successivo con l’aiuto di Kant Fichte ottenne la cattedra di filosofia nell’università diJena. Qui cominciò l’elaborazione della sua filosofia, dando alle stampe nel 1794 I fondamentidell’intera dottrina della scienza. Quest’opera fu integrata sul piano etico con il Sistema dellafilosofia morale (1798) e su quello politico con Lezioni sulla missione del dotto (1794) esoprattutto con I fondamenti del diritto naturale (1796) e Lo stato commerciale chiuso (1800).Nel 1799 Fichte fu costretto ad abbandonare l’università di Jena e a trasferirsi a Berlino. A causadi un articolo di un suo seguace nel quale Dio veniva identificato con l’ordine moraledell’umanità, Fichte fu accusato di ateismo e preferì dimettersi piuttosto di annacquare le suetesi. A Berlino, ricevette la notizia che Kant lo aveva ripudiato come discepolo ma continuò aprofessarsi suo discepolo. Gli anni berlinesi furono caratterizzati dai difficili rapporti con gliartisti e gli intellettuali romantici ma soprattutto dalla rottura con il suo ex discepolo Schellingavvenuta nel 1802. Solo nel 1810, Fichte riuscì a ottenere la nomina a professore nella neonatauniversità di Berlino, di cui in seguito divenne rettore. Nel periodo berlinese la “dottrina della

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scienza” fu continuamente rielaborata in chiave sempre più teologica: solo le versioni piùimportanti ammontano a sei ma con le minori se ne contano addirittura quindici. In seguitoall’invasione della Prussia da parte di Napoleone, Fichte si pose alla testa del movimento direazione all’imperialismo napoleonico, pubblicando i Discorsi alla nazione tedesca (1808), incui sostenne il primato culturale della nazione tedesca sulle altre attribuendole una missionestorica di civilizzazione universale. Morì a Berlino nel 1814 a causa di un’epidemia di tifo.

VITA DI UN CAPITANOFriedrich Wilhelm Joseph SchellingSchelling nacque nel 1775 a Leonberg, nei dintorni di Stoccarda, nella Germania sud-occidentale. Il padre, pastore protestante, lo avviò agli studi classici e religiosi. A soli quindicianni fu ammesso all’università di Tubinga, dove stabilì un sodalizio filosofico con i più anzianicompagni Hölderlin ed Hegel. A Tubinga studiò mitologia e storia delle religioni e lesseRousseau, Kant e soprattutto Fichte di cui inizialmente si professò discepolo. Laureatosi inteologia, divenne precettore a Stoccarda e a Lipsia, dove approfondì la sua conoscenza dellamatematica e delle scienze naturali.Sulla base di questi studi Schelling cominciò l’elaborazione della sua filosofia originaleconcentrandosi appunto sul problema della natura. Nell’arco di pochi anni pubblicò Idee peruna filosofia della natura (1797), Dell’anima del mondo (1798), Primo abbozzo di un sistemadella filosofia della natura (1799) e Deduzione generale del processo dinamico o delle categoriedella fisica (1800).La filosofia della natura guadagnò a Schelling l’ammirazione e l’interessamento di Goethe, chegli permisero di entrare nel 1798 all’università di Jena come collaboratore di Fichte. L’annodopo, quando Fichte lasciò Jena per Berlino, Schelling, a soli 24 anni, ereditò la sua cattedra.Nei primi anni del suo insegnamento universitario, Schelling scrisse il Sistema dell’idealismotrascendentale (1800), riorganizzando la filosofia della natura ed elaborando la sua filosofiadello spirito per arrivare alla filosofia dell’arte come loro sintesi.A Jena Schelling - oltre a rapporti diretti con Goethe e Schiller - ebbe burrascose relazioni congli scrittori romantici del “circolo di Jena”. Dal 1801 Schelling entrò nella fase della cosiddetta“filosofia dell’identità”, concentrandosi sul problema del coglimento dell’assoluto come identitàdi soggetto e oggetto. Questa fase della ricerca schellinghiana produsse l’Esposizione del miosistema filosofico (1801), Ulteriori esposizioni (1801), Bruno o sul principio divino e naturaledelle cose (1802), Filosofia e religione (1804).Negli anni in cui Schelling scrisse queste opere, crebbero la sua amicizia e la sua collaborazionecon Hegel - insieme al quale pubblicò il Giornale critico della filosofia - mentre peggiorarono isuoi rapporti con Fichte e con i romantici. La rottura definitiva si consumò nel 1803 anno in cuiSchelling sposò in seconde nozze Karoline Michaelis, già moglie di A.W. Schlegel, e si trasferìprima a Würzburg e poi a Monaco. Nel 1806 Schelling prese pubblicamente posizione contro ipiù recenti sviluppi della filosofia di Fichte pubblicando Esposizione del vero rapporto dellafilosofia della natura con la dottrina migliorata di Fichte. L’anno successivo ruppe anche conHegel, in seguito alla pubblicazione da parte di quest’ultimo della Fenomenologia dello spirito,la cui prefazione conteneva una tagliente confutazione dell’intuizionismo romantico eschellinghiano. Nel 1809 Karoline Michaelis morì e qualche anno dopo Schelling si risposò conPauline Gotter dalla quale avrebbe avuto sei figli.Nel primo periodo di Monaco, le rotture con Fichte e Hegel furono al tempo stesso stimolo esintomo della nuova strada imboccata da Schelling e convenzionalmente denominata “filosofiadella libertà” o “teosofia”. Nel 1809 pubblicò Ricerche filosofiche sull’essenza della libertàumana. In quest’opera Schelling identificò l’assoluto con il Dio trascendente e personale dellatradizione religiosa monoteistica, ma lo concepì originalmente come duale e dinamico.Dopo il 1810, negli anni del trionfo di Hegel, Schelling non diede alle stampe alcuna opera dirilievo. Nel 1827 riprese l’insegnamento universitario a Monaco fino al 1841 quando, a dieci anni

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dalla morte di Hegel, Schelling fu chiamato a sostituirlo all’università di Berlino, dove insegnòfino al 1847, avendo tra i suoi studenti Kierkegaard, Feuerbach ed Engels. Il ventennio 1827-1847 rappresenta l’ultima fase della ricerca filosofica di Schelling, da lui stesso battezzata“filosofia positiva” o “empirismo filosofico”. Schelling espose la sua nuova dottrina inEsposizione dell’empirismo filosofico (1830), Filosofia della mitologia e Filosofia dellarivelazione, pubblicate nel 1854, poco dopo la sua morte che avvenne a Bad Ragaz, in Svizzera,dove si era ritirato a vita privata nel 1847.

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TAPPA 1FICHTE: L’IDEALISMO CRITICO

Questo fatto, che lo spirito finito deve necessariamente porre al di fuori di séqualcosa di assoluto (una cosa in sé) e tuttavia, dall’altro canto, riconoscereche questo qualcosa esiste solo per esso (è un noumeno necessario), è quelcircolo che lo spirito può infinitamente ingrandire, ma dal quale non può maiuscire. Un sistema che non bada punto a questo circolo è un idealismodogmatico1, poiché solo il circolo indicato ci limita e ci rende esseri finiti; unsistema che immagini di esserne uscito è un dogmatismo trascendentalerealistico2. La dottrina della scienza tiene il mezzo tra i due sistemi ed è unidealismo critico che si potrebbe chiamare un real-idealismo o un ideal-realismo (...)

Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, II, 4, E, 3, 13

La riflessione di Fichte parte dal compito che Kant aveva assegnato ai suoi continuatori:quello di unificare i risultati delle sue tre Critiche in un “sistema”.Per la filosofia tedesca dell’epoca elaborare un “sistema” significava delineare una visionecomplessiva della realtà in forma rigorosamente ipotetico-deduttiva, e cioè:

a) individuare per via intuitiva il principio primo di tutta la realtàb) e quindi ricavare deduttivamente e organicamente da questo tutti i suoi aspetti

fondamentali.Il primo compito che Fichte affronta è dunque quello di individuare il principio primo dellarealtà, cioè il caposaldo del sistema.Fichte svolge tale compito elaborando 3 tesi fondamentali:

1) l’Io originariamente produce se stesso come assoluto;2) l’Io assoluto si trova contrapposto a un Non-Io assoluto;3) l’Io contrappone, al suo interno, un Non-Io divisibile a un Io divisibile.

Questi 3 enunciati sono riducibili all’unità in due modi diversi ma complementari:• in primo luogo, in quanto essi hanno un soggetto comune, cioè l’Io, che dunque emerge

come il principio primo e unitario di tutta la realtà;• in secondo luogo, perché essi sono considerati da Fichte come un ragionamento dialettico -

cioè probabile - di cui i primi due enunciati sono le premesse e il terzo la conclusione.Per Fichte, dunque, l’Io è il principio primo del sistema e il punto di partenza delladeduzione dialettica di tutta la realtà. Come tale Fichte lo dichiara indeducibile: infatti peressere condizione di ogni dimostrazione successiva deve essere a sua volta incondizionato.Ciò non toglie che la sua scelta come principio primo debba essere giustificata. Per farlo,Fichte si appella innanzitutto a una verità universalmente riconosciuta, quella del principiodi identità: “A=A”. Questo principio è per tutti evidente, certo, indubitabile, anche se èimpossibile darne una dimostrazione. Ciò significa che la ragione umana ha la facoltà diindividuare un principio primo in modo assoluto e incondizionato.D’altra parte, osserva Fichte, il principio di identità “A=A” è solamente logico-formale.Esso significa solo che se A esiste, allora è identico a se stesso; dove A sta per qualsiasicosa. Dunque “A=A” non fonda la propria esistenza reale e come tale non può costituire unprincipio ontologico, un principio, cioè, dal quale si possa dedurre la realtà.

1 Un idealismo per cui la realtà è totalmente creazione dell’io e la “cosa in sé” viene eliminata. E’ “dogmatico” perchél’assolutezza dell’io diventa un dogma, una certezza fideistica, che toglie ogni senso al rischio e quindi alla libertà.2 Un realismo per cui la realtà è totalmente “cosa in sé”, cioè oggetto, e la coscienza ne è un mero prodotto.

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E’ dunque necessario risalire dal principio di identità a un altro principio. Questo principionon può essere che l’Io in quanto il principio di identità è un prodotto dell’attività pensantedell’Io. Anzi in questo senso Fichte può affermare che il fondamento e insieme la matricedi “A=A” è “Io=Io”, cioè l’identità dell’Io con se stesso.Ma in questo modo, prosegue Fichte, al posto di una verità unicamente logica, abbiamouna verità ontologica in quanto l’Io non è un mero simbolo formale come “A” ma qualcosadi realmente esistente. In questa prospettiva Fichte sostiene che Io=Io equivale allaproposizione: “Io sono”. Questo significa che Io=Io è un principio ontologico in quantorappresenta l’atto dell’autocoscienza, la quale è l’azione trascendentale originaria con laquale l’Io - riflettendosi in sé e prendendo così coscienza di sé - si costituisce, si produce, sipone in essere appunto come coscienza, come pensiero, come mente pensante.L’Io pertanto, conclude Fichte, è assoluto e infinito in quanto nella sua autoproduzionenon è condizionato né limitato da qualcosa di altro e diverso da sé.L’Io però, secondo Fichte, pensa anche un altro principio logico indubitabile, quello di noncontraddizione: “¬A≠A”, che tradotto ontologicamente comporta l’esistenza di un principioopposto all’Io, cioè il Non-io.Il Non-Io è incondizionato, e dunque assoluto e infinito, come l’Io. Esso infatti, per Fichte,non può essere dedotto formalmente dall’Io in quanto è la sua negazione. Ma cos’è allora ilnon-Io e da dove viene? Il Non-Io è l’inspiegabile “urto” che l’Io subisce dentro di sé ognivolta che ha un’intuizione sensibile ma di cui ignora l’origine. Sul piano ontologico,dunque, il Non-Io è un’alterità del tutto accidentale e oscura, qualcosa di meramentevirtuale.Il Non-Io però è deducibile dall’Io per quanto riguarda il contenuto, in quanto le sueproprietà sono determinabili per opposizione rispetto a quelle dell’Io. Infatti, essendo perdefinizione l’opposto dell’io, se l’Io è attivo, cosciente e immateriale, il Non-Io non può cheessere passivo, inconscio e materiale. Sotto questo aspetto, il Non-Io risulta pertantoprodotto dall’Io, in quanto è l’Io che gli conferisce caratteristiche, visibilità e quindi realtàeffettiva.In sintesi, l’Io non crea il Non-io, in quanto non ne è l’origine ontologica; ma lo produce inquanto ne permette la manifestazione, lo fa apparire, lo rende conoscibile, portandolo dallavirtualità alla realtà.Proprio a ragione della loro opposizione, per Fichte Io e Non-Io non possono esistereindipendentemente e separatamente l’uno dall’altro ma sono legati costitutivamente dauna relazione di interdipendenza.D’altra parte l’opposizione tra Io e Non-Io non può dar luogo a un annientamentoreciproco - dal momento che entrambi i principi sono in sé assoluti e infiniti - ma soltantoa una vicendevole limitazione, che a sua volta si manifesta come una reciproca divisione. Inaltre parole, Io e Non-Io si delimitano l’un l’altro trasformandosi in una molteplicitàinfinita:a) di Io finiti, cioè di uomini in quanto esseri razionalib) e di Non-Io finiti, cioè di enti naturali di ogni genere e specie, compreso l’uomo comecorpo.Ciò significa che l’Io e il Non-Io come principi separati sono meri elementi astratti che difatto esistono soltanto nella loro interazione - un po’ come l’idrogeno e l’ossigeno in quantoelementi primi del composto acqua.

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TAPPA 2FICHTE: L’ATTIVITA’ CONOSCITIVA

l’Io deve intuire3; che ora l’intuente debba essere realmente un Io, valelo stesso che: l’Io deve porsi come intuente [...].E’ chiaro che all’intuente come attivo debba essere opposto un intuìto.Si chiede soltanto come e in che modo possa essere posto un taleintuìto.Un intuìto che deve essere opposto all’Io, all’Io in quanto intuente, ènecessariamente un Non-io; da qui segue innanzi tutto che l’atto dell’Io,il quale pone tale intuìto, non è riflessione4, non è un’attività che sidirige al di dentro, ma è un’attività che si dirige al di fuori e quindi [...] èuna produzione5. L’intuìto come tale è prodotto. [...]La facoltà producente è sempre l’immaginazione; quindi quel porrel’intuìto ha luogo per mezzo dell’immaginazione ed esso stesso è unintuire.

Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, parte II, § 4

Tutta la realtà è interazione e reciproca delimitazione di Io e Non-Io, soggetto e oggetto,spirito e materia: questa è la conclusione sintetica cui Fichte perviene al termine della suadeduzione dialettica. Trattandosi, però, di un procedimento dimostrativo di tipo“dialettico”, la sua conclusione non è certa ma ha una valore unicamente congetturale,ipotetico.In particolare, per Fichte, la vicendevole determinazione di Io e Non-io è deducibile dallaloro immediata opposizione logica solo sul piano formale ma non su quello del contenuto.Ciò significa che la deduzione dialettica non è in grado di stabilire i modi concreti in cuiavviene l’interazione tra Io e Non-io.Pertanto, secondo Fichte la conclusione della deduzione dialettica deve essere messa allaprova e definitivamente avvalorata in base alla sua capacità di dare conto della realtàeffettiva in tutta la sua concretezza. Solo grazie a questa verifica per così dire “a valle” essapotrà trovare piena conferma e al tempo stesso riempirsi di contenuti precisi.La verifica del risultato della deduzione dialettica per Fichte deve essere effettuata dalpunto di vista dell’Io, in quanto è questo il principio primo, su cui si fonda anche il Non-io.Si tratta quindi di spiegare innanzitutto la realtà dell’Io, cioè dell’uomo in quanto esserecosciente.L’uomo in quanto coscienza, secondo Fichte, è essenzialmente attività di cui si possonodistinguere due modalità:

a) quella teoretica o conoscitiva;b) quella pratica o morale.

Entrambe queste modalità sono riconducibili alla conclusione della deduzione dialettica,cioè alla delimitazione reciproca di Io e Non-io. Questa infatti è articolabile in 2 momentidistinti benché simultanei e convergenti:

a) la delimitazione che il Non-io opera sull’Iob) la delimitazione che l’Io opera sul Non-io.

Per Fichte il primo momento fonda l’attività teoretica, il secondo l’attività pratica.

3 Nel senso, kantiano, di intuizione sensibile di un oggetto esterno.4 Per riflessione Fichte intende l’atto dell’autocoscienza dell’Io in quanto in esso l’Io “riflette” se stesso.5 In quanto costituisce qualcosa - il mondo sensibile - che immediatamente non è la coscienza.

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Stabilito che l’essenza dell’attività conoscitiva è la delimitazione dell’Io da parte del Non-io,si tratta di spiegare come è possibile e come avviene tale delimitazione.L’origine di tale delimitazione è qualificata da Fichte come un “urto”. L’Io nel corso dellasua attività infinita fa esperienza al proprio interno di uno scontro, di unacontrapposizione. Si tratta di un’esperienza del tutto contingente, enigmatica, in se stessaingiustificabile sul piano teoretico.Essa però, per Fichte, è riconducibile all’aspetto passivo-ricettivo dell’Io. In altre parolel’urto corrisponde a una disposizione interna dell’Io - la passività o ricettività appunto - etrova in questa una indiretta e parziale giustificazione.Ma se l’Io è per essenza attività com’è possibile che abbia una lato passivo? Fichte rispondeche la passività dell’Io è una forma inversa di attività, o meglio è quell’attività che non ha ilproprio fondamento in se stessa ma in qualcosa d’altro dall’Io - ovvero in un Non-io. Inquesto senso la passività è quell’attività che consiste nell’accogliere una modificazionesubita.Con ciò, però Fichte non ha ancora spiegato perché e come noi conosciamo il mondo con isuoi oggetti, i suoi colori, i suoi odori, i suoi sapori. Nell’urto infatti ciò che ci urta rimanedel tutto indeterminato, oscuro, privo di caratteristiche sensibili.Il problema diventa pertanto quello di spiegare come dall’esperienza dell’urto - che svela lapassività dell’Io e che rimanda a un indeterminato Non-io - possa costituirsi il mondoconcreto con tutti i suoi enti e le sue proprietà, cioè il mondo così come noi lo percepiamo elo conosciamo.La spiegazione di Fichte è incardinata sulla facoltà dell’immaginazione. L’Io per Fichte,essendo per essenza attività, reagisce immediatamente all’urto attivando la sua capacità diprodurre immagini, cioè forme e proprietà sensibili. In questo modo l’Io - sotto il pungolodell’urto - attribuisce caratteristiche determinate al Non-io rendendolo visibile, cioècostituendolo come fenomeno sensibile e conoscibile. Questa costituzione è possibileperché l’immaginazione trasferisce una parte della razionalità dell’Io sul Non-io dandogli,per così dire, un volto, un corpo e dei vestiti e permettendogli di manifestarsi, di apparire,di mostrarsi.Il mondo che noi conosciamo, pertanto, è per Fichte il prodotto del rivestimento operatodall’immaginazione su quell’inconoscibile alterità contro cui l’Io si scontra nell’esperienzatrascendentale ed originaria dell’urto.Nell’attività teoretica, dunque, l’immaginazione è, secondo Fichte, lo strumento che rendepossibile l’interazione tra Io e Non-io, la facoltà che media i due principi opposti di tutta larealtà mettendoli in comunicazione, permettendo un interscambio tra loro.In questo senso per Fichte l’immaginazione:

• da un lato segna il confine tra Io e Non-io, in quanto è essa che ne permette la distinzione;• dall’altro, rappresenta un confine mobile, variabile, permeabile, in quanto deve permettere

una sorta di osmosi tra i due principi.Per questo Fichte paragona l’immaginazione alla sottile linea di confine che separa la luce el’oscurità, cioè a qualcosa di assolutamente sfumato e fluttuante. E in questo senso Fichtene parla anche come di una facoltà capace di “librarsi” tra Io e Non-io.Ma se è grazie al suo libero fluttuare che l’immaginazione può trasferire parti dell’Io alNon-io, proprio per questo stesso motivo l’immaginazione da sola non è in grado di darconto della saldezza e della stabilità della realtà oggettiva. In altre parole, secondo Fichte,se fosse un prodotto della sola immaginazione la realtà ci apparirebbe fluida, sfumata,evanescente. Ma così non è e dunque l’immaginazione da sola non basta a spiegare lanostra conoscenza del mondo.La funzione dell’immaginazione, pertanto, deve essere affiancata e integrata, per Fichte,dall’intervento di un’altra facoltà. Questa facoltà è la ragione, in quanto solo essa ha lacapacità di fissare e per così dire consolidare l’intuizione oggettiva dell’immaginazione. E’

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dunque grazie all’intervento della ragione che la realtà oggettiva acquista quella saldezza,quella stabilità e quella coerenza con la quale si presenta nella percezione.Ma il processo trascendentale di costituzione della realtà oggettiva non termina nemmenocon la ragione. Il suo compimento, per Fichte, si ha solo nell’intelletto. Infattil’immaginazione produce il mondo oggettivo, la ragione lo fissa ma è solo nell’intelletto cheil risultato della loro duplice azione viene concepito in modo chiaro e consapevole.Ciò spiega, secondo Fichte, perché per la “riflessione naturale” - cioè per il senso comune,per la nostra coscienza immediata - la realtà risulta qualcosa di assolutamenteindipendente da noi, qualcosa che sussiste di per sé e che non dipende in alcun modo dallacoscienza. Infatti la costituzione della realtà avviene al livello trascendentaledell’immaginazione e della ragione: l’intelletto, che ne concepisce soltanto il prodottofinale, non è consapevole del processo attraverso il quale essa si è venuta a costituire.

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TAPPA 3FICHTE: L’ATTIVITA’ PRATICO-MORALE

Dove e quando tu scorgi attività, scorgi necessariamente anche unaresistenza; poiché altrimenti non scorgeresti alcuna attività. [...]Questa resistenza viene rappresentata come il contrario dell’attività;quindi come qualcosa che sussiste solamente, tranquillo e morto, che èsoltanto, ma non agisce affatto, che mira soltanto a permanere e arestare; quindi, con una certa quantità di forza, come ciò che è,opponendosi sul proprio terreno all’influenza della libertà, senza peròessere in grado di invadere il terreno di questa - in breve, come meraoggettività. Una cosa siffatta si chiama, con il suo vero nome, materia[...].

Fichte, Il sistema della dottrina morale, Introduzione

Anche l’attività pratico-morale, come quella teoretico-conoscitiva, è una modalità dimanifestazione del principio conclusivo della deduzione dialettica, cioè della delimitazionereciproca di Io e Non-io. Ma:• mentre l’attività teoretico-conoscitiva è fondata sulla prevalenza della limitazione dell’Io

da parte del Non-io,• al contrario il fondamento dell’attività pratico-morale consiste nella superiorità della

limitazione del Non-io da parte dell’Io.In altre parole l’Io - dopo aver subito la determinazione sensibile dell’oggetto ma ad untempo dopo essersene appropriato conoscitivamente - reagisce praticamentedeterminando a sua volta l’oggetto, cioè imponendogli la sua libera impronta.L’attività pratica per Fichte si realizza in due modi distinti ma convergenti:1. attraverso il modellamento tecnico della natura, cioè l’imposizione alla natura esterna di

un ordine funzionale alle esigenze dell’uomo;2. attraverso il modellamento morale del comportamento umano, cioè l’imposizione alla

natura interna - cioè agli istinti naturali - di un ordine funzionale alla realizzazione diuna comunità sociale.

In entrambi i casi, l’agire pratico-morale si configura come un processo di progressivaliberazione dell’uomo dai vincoli della natura e come un’imposizione alla naturadell’ordine razionale e libero proprio dell’uomo.Dunque, il principio fondamentale dell’agire pratico è per Fichte la libertà. Agiremoralmente significa, secondo Fichte,• renderci indipendenti dalla natura,• emanciparci dalla determinazione della materia,• liberarci dalla sottomissione alle leggi e alle forze naturali.La stessa attività conoscitiva è finalizzata a questo scopo ultimo e in esso trova il suo sensofondamentale, quello cioè di essere uno strumento essenziale dell’attività pratico-morale.La libertà intesa così come sforzo di liberazione dalla natura rappresenta pertanto perFichte l’essenza stessa dell’uomo in quanto Io, cioè in quanto coscienza razionale pensantee operante.In questa prospettiva la deduzione dialettica del Non-io trova una conferma e la suaesistenza una stringente giustificazione.Senza l’opposizione del Non-io, sostiene Fichte, l’Io non potrebbe attuarsi come esserelibero e dunque non potrebbe realizzare la sua essenza, in quanto, per essere sforzo diautoliberazione, l’Io deve necessariamente scontrarsi contro un ostacolo, lottare contro unimpedimento.

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Infatti,• se questo ostacolo non ci fosse, se l’Io non avesse impedimenti e non incontrasse

resistenza,• allora non dovrebbe liberarsi da alcunché, non avrebbe alcun bisogno di agire

praticamente, di sforzarsi di liberarsi;• ma ciò è assurdo, poiché il libero agire è l’essenza dell’Io, e dunque venendo meno il

libero agire l’Io non sarebbe più Io, perderebbe la sua identità, non esisterebbe più comeIo.

Dunque il Non-io per Fichte è indispensabile perché l’Io possa realizzare la sua identità,possa essere se stesso, cioè possa essere sforzo di autoliberazione.In quanto resistenza all’azione dell’Io, il Non-io è la condizione oggettiva della possibilitàdel male. Infatti, proprio perché è per essenza Non-io, la natura esterna si oppone all’uomocon l’inerzia della sua materia e con la potenza delle sue forze naturali. A sua volta lanatura interna, cioè istinti e passioni, spinge l’uomo ad anteporre l’interesse individuale aquello universale.Ma di per sé l’opposizione della natura non è male, in quanto è funzionale all’esercizio dellibero attivismo umano. Essa per Fichte lo diventa solo quando l’uomo rinunciavolontariamente a lottarle contro. Tale comportamento rinunciatario è l’accidia, uninsieme di sfiducia nella propria possibilità di liberazione e di passiva rassegnazione allasuperiorità delle forze naturali. E’ questo ripiegamento dell’uomo, secondo Fichte, chepermette alla natura di sopraffarlo e di infliggergli rovina e sofferenza.L’indispensabilità del Non-io per la libertà dell’Io ha una fondamentale conseguenzalogica: l’infinità dell’attività pratica dell’Io.La meta ultima dello sforzo di autoliberazione dell’uomo, infatti, è la completa liberazionedalle catene della natura. Ma:• se tale meta fosse raggiunta• allora il non-Io sarebbe definitivamente eliminato• ma ciò non è possibile perché in questo modo verrebbe meno lo stesso Io.

Il sistema di Fichte, cioè, sembra così trovarsi di fronte a un’aporia:• da una lato il fine e il senso dell’attività pratica dell’Io è il raggiungimento della libertà

assoluta;• dall’altro questo fine non è raggiungibile perché altrimenti l’Io verrebbe meno.Fichte supera l’aporia affermando l’esistenza necessaria di una serie infinita di azioni che alsuo massimo prolungamento arriva fino alla libertà assoluta. L’esistenza di questa seriepermette all’Io di considerare ogni sua azione come un’approssimazione ulteriore alla metafinale della libertà assoluta. Per usare una metafora, la lotta di liberazione dell’Io contro ilNon-io è come una guerra di cui l’Io vince continuamente tutte le battaglie ma che non hamai fine perché non c’è mai una battaglia decisiva in cui l’Io possa debellare totalmente edefinitivamente il Non-io.Lo sforzo di autoliberazione dell’Io è pertanto un processo infinito, senza compimento, untendere all’infinito alla libertà assoluta, un’attività incessante. In questo senso, per Fichte,l’Io stesso è per essenza infinito.L’etica di Fichte costituisce il presupposto più immediato della sua nuova concezione dellastoria. Per Fichte infatti la storia è il prodotto dello sforzo perenne della ragione di passaredall’istinto cieco alla libertà consapevole.Essa si configura pertanto come un cammino ascendente scandito in 5 epoche: dell’istintoe dell’innocenza; dell’autorità; della liberazione; della moralità; della santificazione. Leprime due epoche corrispondono al passato, le ultime due sono destinate a realizzarsi nelfuturo, la terza rappresenta il presente. L’età a lui contemporanea, in quanto segnatadall’Illuminismo, è infatti interpretata da Fichte come quella della ribellione contro

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l’autorità sfociata nell’individualismo, cioè nell’illusione di una completa indipendenzadell’individuo dagli altri e dalla storia come cammino collettivo.Fichte legge però nel suo presente i prodromi della nuova epoca della moralità, nella qualegli individui riconosceranno la superiorità della legge morale raggiungendo la pienacoesione sociale. L’ultima epoca, culmine e conclusione del progresso storico, è quella incui l’umanità raggiungerà la santità, cioè la capacità di agire moralmente in modospontaneo e immediato. Essa è per Fichte il regno di Dio, cioè la compiuta realizzazionedella storia intesa come manifestazione di Dio attraverso gli uomini.

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TAPPA 4SCHELLING: LA FISICA SPECULATIVA

La regolarità di tutti i movimenti della natura, ad esempio la sublimegeometria messa in atto dai corpi celesti, (...) o il fatto che nel regno animale,questo prodotto di cieche forze naturali, osserviamo il sorgere di atti che perregolarità sono paragonabili a quelli compiuti coscientemente (...); tutto ciòva spiegato con l’esistenza di una produttività inconscia, ma originariamenteaffine a quella conscia, di cui noi scorgiamo nella natura il riflesso, e che dalpunto di vista del modo di vedere naturale deve apparire come quell’unico eidentico cieco impulso che è egualmente attivo, benché in gradi diversi, dallacristallizzazione fino al culmine della formazione organica (...)

Schelling, Primo abbozzo di un sistema della filosofia della natura, Introduzione

Il punto di partenza della filosofia di Schelling è la tesi dell’autonomia della natura dallospirito, ovvero dall’attività razionale dell’uomo. In questo senso, la rielaborazione in formasistematica del criticismo kantiano - cui Schelling mira seguendo le orme di Fichte - nonpuò che passare dall’articolazione della ricerca filosofica in 2 direzioni distinte anche secomplementari:1. quella della filosofia della natura, finalizzata a isolare ed esaminare i principi autonomi

del mondo naturale;2. quella della filosofia trascendentale, finalizzata a individuare e analizzare i principi

autonomi della ragione umana.Su queste basi Schelling considera la sua filosofia della natura una scienza, cioè una fisica,dal momento che, ritenendo la natura un autonomo ambito di ricerca, egli fa proprio ilpresupposto di ogni scienza naturale: spiegare i fenomeni della natura sulla base di forzerigorosamente naturali.La filosofia della natura, però, non va confusa per Schelling con la fisica sperimentale, inquanto è invece una “fisica speculativa”: infatti mentre la fisica sperimentale assume comepostulati l’esistenza della materia e l’esistenza del movimento, la filosofia della natura sipropone di risalire a monte della materia e del moto, per spiegarne l’origine. Ma per farlodeve inevitabilmente procedere oltre l’esperienza utilizzando un procedimento puramenteteorico.Il principio primo e unitario della natura è per Schelling la “volontà” intesa come uninfinito impulso produttivo, cioè come una pulsione a generare perennemente e in tutti imodi e le forme possibili. Tale produttività infinita si attua attraverso un’attività intuitiva,e dunque razionale, che però non riesce ad autointuirsi pienamente, cioè non riesce aprendere coscienza di se stessa, a diventare autocoscienza, caratterizzandosi pertanto comeuna intelligenza inconscia.Tuttavia, la volontà tenta incessantemente di autointuirsi e proprio a causa di questo vanoma tenace e perenne tentativo si scinde in 2 forze:1. una forza espansiva tendente all’infinito, che è intuizione pura, immediata e inconscia, e

pertanto indeterminata: come tale essa rappresenta la polarità oggettiva della natura;2. una forza attrattiva limitante, che è il ritorno dell’intuizione su se stessa nel tentativo di

autointuirsi e di determinarsi, raggiungendo così la piena infinità: come tale essacostituisce la polarità soggettiva della natura.

Poiché lo sforzo di autointuizione non giunge a compimento - e in questo senso Shellingafferma che ogni ente naturale è un tentativo fallito di conquistare l’autocoscienza - nellanatura prevale la polarità oggettiva. Di qui il carattere finito e insieme il residuoindeterminato degli enti naturali.

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Da queste due forze primarie Schelling deduce i tre principi fondamentali della fisica:spazio, tempo e materia. Lo spazio, inteso come punto che si espande in ogni direzione, èmanifestazione diretta dell’espansione; il tempo, inteso come un punto che scorre in unasola direzione, è manifestazione diretta dell’attrazione. La materia, invece, è il prodottodell’interazione delle due forze, cioè del loro reciproco bilanciamento.Spiegando la materia come prodotto dell’interazione di due forze, Schelling la declassa arealtà secondaria, derivata, e insieme le attribuisce una natura fondamentalmentedinamica, cioè la concepisce come una sorta di energia staticizzata, solidificata. In questomodo Schelling:• da un lato, spiega la causa originaria del moto individuandola appunto nel carattere

essenzialmente dinamico della materia in quanto manifestazione di un’attività intuitiva;• dall’altro, può interpretare la materia come una realtà vivente, attiva, dotata di

autorganizzazione, cioè come qualcosa di diverso ma non di contrapposto allo spirito.In questa prospettiva, Schelling accoglie anche l’atomismo ma lo interpreta in sensoqualitativo. Gli atomi infatti sono da lui concepiti come punti di arresto dell’attivitàintuitiva primaria, cioè come azioni originarie qualitativamente connotate edifferenziate. Come tali gli atomi sono il fondamento delle proprietà qualitative (colori,sapori, forme, odori ecc.) delle cose.

Una volta dedotti dalla volontà i tre principi fondamentali della natura - spazio, tempo, emateria -, Schelling passa alla spiegazione delle forze e dei fenomeni particolari dellanatura che costituiscono l’oggetto delle varie scienze naturali. Sempre a partiredall’interazione tra espansione e attrazione, Schelling divide la natura in tre grandi domini:1. il mondo inorganico, fondato sulla stabilità del rapporto tra espansione e attrazione, che

si manifesta nella forza di gravità, puramente quantitativa e meccanica, la quale governail moto degli astri e di tutti i corpi non viventi;

2. il mondo chimico, basato su un equilibrio parziale e intermittente tra espansione eattrazione, che si manifesta nella forza di affinità, quantitativa e qualitativa insieme, laquale sovraintende ai fenomeni magnetici, elettrico-luminosi e chimici;

3. il mondo organico, caratterizzato da un perenne squilibrio tra espansione e attrazione,che si manifesta nella forza vitale, essenzialmente qualitativa, la quale presiede allasensibilità, cioè alla capacità di recepire stimoli esterni, alla reattività, la capacità direagire agli stimoli con il movimento, e alla riproduttività, cioè la capacità di generaresempre nuovi individui.

La natura vivente è per Schelling il livello più alto del mondo naturale, in quanto è quelloin cui l’attività intuitiva originaria si avvicina maggiormente all’obiettivo di prenderecoscienza di se stessa. Anzi, in questo senso, Schelling afferma che tutta la natura nel suoinsieme è organica, in quanto il mondo inorganico ha il compito di stimolare la vita edunque è funzionale ad essa.A conferma del carattere complessivamente vivente della natura, Schelling sostienel’omogeneità strutturale di mondo inorganico e mondo organico, avanzando come prova lacorrispondenza biunivoca tra le tre forze particolari della natura inorganica - magnetismo,elettro-luminosità, chimismo - e le tre forze particolari della natura organica: sensibilità,reattività, riproduzione.Se dunque la natura nel suo complesso è un unico organismo vivente, allora secondoSchelling:• essa non può essere compresa solo e tanto in base alla legge meccanica di causa ed

effetto• ma anche ed essenzialmente in base alla legge razionale di fine e mezzo.In altre parole per Schelling le relazioni causali che regolano i fenomeni naturali sonomanifestazioni superficiali di una legge finalistica profonda in virtù della quale ogni entenaturale è mezzo e contemporaneamente è fine dell’esistenza di tutti gli altri.

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Il finalismo che costituisce la natura - e che ha la sua origine nel suo incessante sforzo diconseguire l’autocoscienza - si manifesta nei livelli di crescente perfezione con cui la naturaproduce i suoi ordini e le sue specie. La natura, cioè, si struttura in una serie ascendente egerarchica di forme, che si avvicinano sempre più all’autocoscienza, pur senza mai poterlaraggiungere. In questo senso la natura rappresenta per Schelling la “preistoria” dellospirito.

VIAGGI DEL PASSATO E DEL FUTUROLa concezione gerarchica e progressiva della natura di Schelling sembra implicare unateoria evoluzionistica del mondo naturale simile a quella che Darwin avrebbesuccessivamente elaborato e portato al successo. In realtà, però, nella natura di Schellingnon c’è “evoluzione”, se per evoluzione intendiamo, con Darwin, la nascita di una specievivente da un’altra per trasformazioni successive in successione temporale. Infatti, perSchelling, in primo luogo non vi è avvicendamento delle specie nel tempo e in secondoluogo non vi è trasformazione di una specie nell’altra: le specie derivano da forme idealieterne e distinte l’una dall’altra anche se disposte in un ordine gerarchico ascendente. Ciònon toglie che la filosofia della natura di Schelling sia stata fonte quanto meno disuggestioni favorevoli all’affermazione della teoria evoluzionistica.

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TAPPA 5SCHELLING: LA FILOSOFIA DELL’ARTE

Se l’intuizione estetica non è se non l’intuizione intellettuale divenutaoggettiva, s’intende da sé che l’arte sia l’unico vero ed eterno organo edocumento insieme della filosofia, il quale sempre e continuamente di nuovoattesta quel che la filosofia non può rappresentare esternamente, cioèl’inconscio nell’agire e nel produrre e la sua originaria identità con il conscio.L’arte appunto perciò è per il filosofo quanto vi è di più alto, poiché essa gliapre per così dire il santuario, dove in eterna e originaria unione arde comeuna sola fiamma ciò che nella natura e nella storia è separato (...).

Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale

Dopo aver mostrato con la filosofia della natura che nell’oggetto è presente il soggetto,Schelling passa a mostrare che nel soggetto è presente l’oggetto. Il suo scopo è arrivare aconcludere che tutta la realtà si fonda su unico principio originario, sintesi di oggettività esoggettività.In questa prospettiva, la filosofia della natura trova il suo complemento nella filosofiatrascendentale, cioè nell’indagine scientifica della struttura a priori che costituisce ilsoggetto, ovvero l’io in quanto attività razionale autocosciente. Questa indagine, secondoSchelling, mette in luce come l’io sia costituito da due attività fondamentali:1. un’attività reale inconscia che produce l’oggetto;2. un’attività ideale conscia che intuisce l’oggetto e lo riconosce come un proprio prodotto.L’attività reale tende all’infinito ma risulta finita in quanto è determinata e quindi limitatadall’attività ideale. Questa dunque è infinita, perché limitando l’attività reale è sempre oltreogni limite e non è limitata da niente.In realtà, per Schelling, attività reale e attività ideale sono l’articolazione funzionale diun’unica attività intuente dell’io. L’io infatti, in quanto capace di autocoscienza, adifferenza della natura, riesce ad autointuirsi pienamente. Esso però non può intuirsi comesoggetto ma necessariamente solo come oggetto, scindendosi così in un’attività reale (l’iocome oggetto intuito) e in un’attività ideale (l’io come soggetto che intuisce). E’ evidente,quindi, che per Schelling l’oggetto è, per così dire, uno stato o modo dell’io. Compito dellaconoscenza sarà dunque quello di scoprire il soggetto nell’oggetto, cioè di ricondurre ilmondo naturale alle leggi razionali dell’io.Una volta riconosciuto l’oggetto come un proprio prodotto attraverso l’attività conoscitiva,l’io per Schelling• acquista piena capacità di autodeterminazione• e diviene così volontà libera che si realizza nell’attività pratica.L’attività pratica si svolge costitutivamente in una dimensione collettiva, implica cioè larelazione di ogni uomo con tutti gli altri. Condizione di questa relazione è, secondoSchelling, il diritto. Il diritto, infatti, è un insieme razionale di norme che impone dei limitialla libertà individuale, per consentire a ognuno di esercitare la propria libertà senzaimpedire o negare quella degli altri.Schelling può così rinvenire anche al fondamento della civiltà umana un’interazione tradue forze opposte, appunto la libertà individuale e la necessità del diritto. In questo senso,lo sviluppo civile si basa proprio sulla capacità umana di unificare sempre più strettamentequesti due principi.La storia pertanto è per Schelling la realizzazione progressiva dell’identità di libertà enecessità, ovvero di conscio e inconscio. Infatti nella storia ogni individuo agisceliberamente ma l’insieme delle azioni individuali produce un risultato diverso dalle

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intenzioni degli individui e coincidente invece con un progetto razionale che è ilfondamento necessario del progresso storico.L’attività conoscitiva e l’attività pratica dell’uomo, secondo Schelling, integrano soggetto eoggetto, libertà e necessità in misura sempre maggiore ma senza mai poter arrivare allaloro completa unificazione. In altre parole esse tendono all’infinito o assoluto senza maipoterlo conquistare.Vi è però, per Schelling, un’altra attività umana capace di raggiungere una piena sintesi disoggetto e oggetto. Si tratta dell’attività estetica, cioè dell’attività che produce le opered’arte.Secondo Schelling, la produzione artistica si fonda sulla stessa polarità di principi su cui sibasano la conoscenza e la storia. L’artista infatti:• da un lato agisce intenzionalmente, liberamente e in piena coscienza;• dall’altro è spinto da un impulso involontario, da un’ispirazione inconscia, come se

subisse l’influsso di una forza cogente a lui sconosciuta.Diversamente dalla conoscenza e dalla storia, la contraddizione di soggettività e oggettivitàè però risolta nell’arte in una completa conciliazione. Pertanto l’arte raggiungequell’assoluto o infinito che alla conoscenza e alla storia sfugge. Infatti l’opera d’arte:• pur essendo nella sua singolarità qualcosa di limitato e finito,• possiede un’infinità inesauribile di significati simbolici.In altre parole nell’arte l’infinito si manifesta e si rivela pienamente nel finito. Ma labellezza per Schelling è per essenza proprio la manifestazione dell’infinito nel finito.Dunque la bellezza è il carattere fondamentale dell’opera d’arte.Secondo Schelling i prodotti della natura e quelli dell’arte hanno in comune l’unità disoggetto e oggetto, ma si differenziano per due aspetti determinanti:1. nella natura non vi è vera differenziazione tra soggetto e oggetto, quindi la loro unità

risulta indistinta; l’arte invece unifica i due principi dopo che si sono distinti tra loro;2. la produzione naturale non nasce dalla coscienza, mentre l’opera d’arte presuppone

l’acquisizione piena dell’autocoscienza.Per questi motivi nella natura, secondo Schelling, non si dà un’autentica conciliazione diinconscio e conscio. Dunque nei prodotti della natura non si manifesta l’infinito. Poiché,come si è visto, la bellezza è manifestazione dell’infinito, ne consegue per Schelling che glienti naturali non possono essere considerati belli in se stessi. Essi possono sì possedere labellezza ma in modo estrinseco e casuale, cioè in quanto per caso possono essere simili aopere d’arte.Se dunque la bellezza non è una proprietà della natura, Schelling nega che il criteriodell’arte debba essere l’imitazione della natura e sostiene al contrario che non è la natura lanorma della bellezza artistica, ma viceversa è l’arte la norma della bellezza naturale.Su queste basi, Schelling giunge a sostenere che l’arte è l’organo della filosofia, cioè lostrumento che permette alla filosofia di raggiungere pienamente il suo fine ultimo: ilcoglimento dell’infinito. La filosofia, infatti, in quanto basata sulla intuizione intellettuale,non può conseguire, afferma Schelling, una validità universale, perché in essa prevalel’aspetto soggettivo. Di conseguenza mentre la filosofia porta alla verità solo un frammentodell’uomo, l’arte vi porta l’uomo nella sua interezza, includendo cioè tutta la suaoggettività.In questa prospettiva, Schelling indica alla filosofia la strada di una contaminazione con lapoesia, cioè di un ritorno alla forma che era stata propria delle sue origini, la mitologia.

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ROTTA CL’IDEALISMO ASSOLUTO

L’idealismo assoluto di Hegel fu, insieme al positivismo e al marxismo, una delle filosofieegemoni del XIX secolo ed è tuttora considerato uno dei vertici della storia del pensiero. Laragione della forza speculativa e del successo di Hegel sta nella sua capacità di far interagireuna vasta e profonda cultura tradizionale, teologica, filosofica e letteraria, con l’esperienzadiretta dei due grandi eventi della sua epoca - la rivoluzione francese e la rivoluzioneindustriale inglese - e con lo studio degli innovativi sviluppi di pensiero ad essi connessi,l’illuminismo francese e la filosofia politica ed economica inglese (Locke, Smith). Hegel,tuttavia, si formò nella fase montante del romanticismo e partecipò al movimento di reazionenazionale tedesca all’imperialismo francese. Egli valorizzò e utilizzò le novità storico-culturalidella sua epoca tenendo fermo il principio della tradizione, ovvero puntando a unrinnovamento della tradizione che ne riconfermasse il primato. In questo senso egli accettò efece sua la “rivoluzione copernicana” di Kant, così come era stata interpretata e sviluppata daFichte e soprattutto da Schelling, ma la interpretò e la sviluppò a sua volta comeun’attualizzazione della grande tradizione razionalistica platonica, aristotelica e neoplatonicafiltrata soprattutto attraverso Spinoza e Leibniz.In questo modo, la filosofia hegeliana segnò la frattura tra l’idealismo e quella culturaromantica che ne era stata il terreno di coltura. A differenza dei romantici, Fichte e Schellingcompresi, per Hegel non solo l’Assoluto può essere conquistato in modo definitivo masoprattutto può essere colto solo in modo mediato, razionale e teoretico. Hegel infatti concepìl’Assoluto come Spirito, cioè come un Soggetto razionale autocosciente che, autocostruendosi,costruisce l’intera realtà. Lo Spirito è sempre finito, e quindi in movimento per raggiungerel’infinito, e sempre già pienamente realizzato come infinito. La chiave per comprendere questaconcezione volutamente contraddittoria dell’Assoluto è la dialettica, intesa da Hegel come lalegge dello sviluppo dello Spirito ovvero come l’ordine razionale che connette in una tramaunitaria ogni aspetto della realtà. Infatti, la dialettica hegeliana è la relazione logica eontologica che attraverso la contraddizione tra due elementi opposti produce un elementosuperiore, che è sintesi dei primi due. Dunque l’Assoluto è tale proprio e solo perché è sintesi dimovimento e quiete, cammino e meta, tensione e compimento, sforzo e conquista. Hegel perònon rinnegò la lezione romantica in quanto non abbracciò una visione gradualistica equietistica della realizzazione dello Spirito ma anzi ne enfatizzò aspramente il momentopropriamente dialettico del conflitto, della rottura, della morte, come condizione sine qua nondel compimento finale.In questa prospettiva la filosofia fu concepita da Hegel come scienza del processo diautorealizzazione dello Spirito. Ciò significa che la filosofia ha il compito di individuare latotalità delle tappe dello sviluppo dello Spirito nel loro ordine dialettico, cioè ricostruendo lerelazioni di opposizione e di sintesi intercorrenti tra ognuna di esse e tutte le altre. La filosofia,allora, non può che essere sistema enciclopedico, cioè una sinossi dialettica di tutte leconoscenze umane. Ma poiché lo sviluppo dialettico dello spirito fu inteso da Hegel comecambiamento nel tempo, il sistema enciclopedico hegeliano assunse una strutturazionefondamentalmente storica: in altre parole esso, e insieme tutto il sapere umano, è la storiadello Spirito dalla sua origine al suo compimento assoluto. Il tratto peculiare dell’idealismo diHegel fu la storicità dell’Assoluto.

VITA DI UN CAPITANOGEORG HEGELGeorg Wilhelm Friedrich Hegel nacque nel 1770 a Stuttgart (Stoccarda), nella Germania sud-occidentale. Di famiglia agiata - suo padre era funzionario statale - dopo aver concluso ilginnasio, studiò teologia all’università di Tubinga, dove divenne amico di Hölderlin e Schelling e

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si appassionò alla lettura dei nuovi pensatori (Rousseau, Lessing, Kant, Jacobi, Fichte, Herder,Goethe) nonché agli eventi della rivoluzione francese, che acclamò partecipando allapiantumazione simbolica di un albero della libertà.Laureatosi, dal 1793 al 1800, Hegel fece il precettore dapprima a Berna, in Svizzera, poi aFrancoforte, dove riallacciò i rapporti con Hölderlin partecipando al suo circolo romantico. Inquesto periodo Hegel scrisse le sue prime opere, raccolte e pubblicate nel 1907 col titolo Scrittiteologici giovanili. In Religione popolare e cristianesimo (1792-3) egli cercò di individuare lecaratteristiche di una nuova religione basata al contempo sulla spontaneità interiore del singoloe sulla concretezza dei comportamenti pubblici di un popolo. In questa prospettiva, Hegel criticòil cristianesimo in quanto religione insieme dogmatica e privata, e ravvisò un modelloalternativo nella religione civile della polis greca attraverso la quale gli individui si univanoliberamente in una comunità organica. In Vita di Gesù (1795) Hegel, rifacendosi a Kant,interpretò il cristianesimo originario come una religione morale e razionale, mentre in Positivitàdella religione cristiana (1795-6) individuò le cause della istituzionalizzazione dogmatica delcristianesimo nell’esigenza di Cristo di farsi credere figlio di Dio per poter diffondere il suomessaggio razionale. Nel successivo Lo spirito del cristianesimo e il suo destino (1798-1800)Hegel rivalutò il cristianesimo, sostenendo che, mentre la religione ebraica si fonda sullascissione (uomo/Dio, ebrei/altri popoli) e quella greca sull’unità inconsapevole e immediata, lareligione cristiana grazie al principio dell’amore è fondata sulla ricerca consapevole eintenzionale dell’unità tra tutti gli uomini. Infine in Frammento di sistema (1800) Hegelteorizza che solo la religione può arrivare a cogliere la totalità infinita non come semplice unitàdegli opposti finiti ma come unità della loro unità e della loro non-unità, perché soltanto così èpossibile salvare nell’infinito la determinatezza delle sue parti finite.Nel 1801 Hegel ottenne l’abilitazione all’insegnamento nell’università di Jena dove avevanoinsegnato Reinhold e Fichte e dove in quel momento insegnava il suo amico Schelling. Insieme alui Hegel redasse Il giornale critico di filosofia facendosi sostenitore della filosofiaschellinghiana nella polemica contro Kant, Jacobi e Fichte. Pubblicò così numerosi saggi, tra cuispicca Differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e di Schelling. In questo scritto Hegel criticaFichte perché pone l’unità di soggetto e oggetto solo nell’Io puro, cioè astrattamente, mentre allivello concreto dei molteplici Io limitati l’oggettività risulta esterna al soggetto e a essounificabile solo in un decorso infinito. All’idealismo soggettivistico di Fichte, Hegel contrapponel’idealismo di Schelling basato sull’effettiva unificazione di soggetto e oggetto nell’Assolutointeso come loro identità compiutamente realizzata. Nello stesso periodo Hegel si occupò anchedi filosofia politica nei saggi I modi scientifici di trattare il diritto naturale e Costituzione dellaGermania. Nel primo Hegel criticò il giusnaturalismo nella variante individualistica di Hobbes eLocke e in quella universalistica, ma per lui astratta, di Kant e Fichte, proponendo comealternativa l’eticità di un popolo in quanto universalità oggettivata in istituzioni sociali,giuridiche e politiche. Nel secondo saggio, Hegel elaborò un modello di stato tedesco unitariobasato sul rispetto delle diversità e delle libertà locali ma accentrato a livello militare.Nel 1803, in seguito al trasferimento di Schelling, Hegel interruppe la sua collaborazione con luie cominciò a sviluppare il suo pensiero in una direzione sempre più personale. Nel 1807, Hegelpubblicò la sua prima grande opera, la Fenomenologia dello Spirito. Nella sua famosaPrefazione Hegel prese pubblicamente le distanze dal romanticismo e dall’idealismo estetico-intuizionistico, rompendo definitivamente con Schelling.Nella Fenomenologia Hegel espone la terza e ultima fase dello sviluppo dello Spirito, quella chedalla “coscienza”, cioè dall’uomo, arriva all’Assoluto. Le tappe fondamentali del cammino dellacoscienza sono 6, e costituiscono 2 triadi dialettiche: Coscienza, Autocoscienza, Ragione; Spirito,Religione, Sapere assoluto. Hegel compone così una storia ideale dell’umanità come suaprogressiva presa di coscienza di essere l’Assoluto spirituale.Nel 1808, Hegel si trasferì come direttore del ginnasio cittadino a Norimberga dove sposò unagiovane di famiglia nobile dalla quale ebbe altri due figli. A Norimberga Hegel scrisse e pubblicò

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la Scienza della logica (1812-6) come prima parte del suo sistema complessivo. Infatti, dopo laprova della Fenomenologia, Hegel cominciò a dare attuazione al suo progetto di un sistemaenciclopedico complessivo dello Spirito che includesse anche la logica pura e la natura e alcontempo approfondisse e articolasse meglio lo stesso sviluppo della coscienza.Dal 1816 al 1818 Hegel insegnò all’università di Heidelberg, dove pubblicò la prima edizionedell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), esposizione sintetica di tutto ilsuo sistema a scopo didattico. In quest’opera Hegel rifuse il contenuto della Scienza della logica,elaborò in modo organico la sua filosofia della natura, secondo momento dello sviluppo dellospirito, e infine espose una nuova versione della filosofia dello spirito. Egli realizzò così il suosistema filosofico completo della realtà, cioè l’esposizione dell’intero cammino storico delloSpirito dall’essere fino all’Assoluto.Finalmente nel 1818 Hegel diventò professore di filosofia all’università di Berlino doveinsegnerà fino 1831. In questi anni Hegel scrisse una sola grande opera, i Lineamenti di filosofiadel diritto (1821), in cui riprese, approfondì e sviluppò la sua filosofia dello Spirito oggettivo,rimanendo fedele all’impostazione dell’Enciclopedia. Tuttavia, con la sua approvazione e inparte con la sua revisione, i suoi studenti trascrissero, raccolsero e pubblicarono i suoi corsiuniversitari con i titoli di Lezioni sulla filosofia della storia, Lezioni sulla storia della filosofia,Lezioni di estetica, Lezioni sulla filosofia della religione. Anche queste opere, purrappresentando interessanti approfondimenti, non si discostano dall’Enciclopedia.La vita e la produzione filosofica di Hegel furono stroncate dal colera nel 1831.

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TAPPA 1HEGEL: L’AUTOCOSTRUZIONE DIALETTICA DELLA REALTA’

Ora l’idea si mostra come il pensiero assolutamente identico con sestesso, e questo nel tempo stesso come l’attività di opporre sé a se stesso,e in questa alterità di essere sempre presente solo a se stesso, acciò diessere, in fine, per sé.

Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 18

Non quella vita che indietreggia di fronte alla morte e si mantiene puradalla devastazione, bensì quella che porta in sé la morte e nella morte siconserva, è la vita dello Spirito. Esso raggiunge la propria verità soloquando ritrova sé nell’assoluta lacerazione.

Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione

La tesi di base della filosofia hegeliana è che la realtà, in tutti i suoi molteplici aspetti, èil prodotto dinamico del processo progressivo di differenziazione, potenziamento eperfezionamento di un principio razionale, unitario e universale: lo Spirito, il cui primostadio è l’Idea. Ciò significa che per Hegel pensiero e realtà, ideale e reale, coincidono,ovvero che il mondo fisico (oggetto) è la manifestazione oggettiva del mondo ideale(soggetto).Lo sviluppo dell’Idea, ossia l’autocostruzione dello Spirito, segue una legge interna, cheper Hegel è l’essenza stessa della razionalità: la dialettica. Il termine “dialettica”designava originariamente la contraddizione, ovvero la negazione reciproca, di dueelementi, p.e. giorno/notte. Data l’identità Idea/realtà, in Hegel la dialettica possiedeuna valenza ontologica e designa il processo di autocostruzione dello Spirito in quantoil suo motore è il conflitto tra elementi opposti che conduce al loro superamento in unnuovo elemento, sintesi dei due contraddittori. In questo senso la legge dialettica ètriadica, cioè dà luogo a una catena di triadi dialettiche.Ogni triade dialettica ha un suo contenuto, che corrisponde a un aspetto della realtà,ma tutte le triadi hanno la medesima forma dialettica che Hegel così illustra:

1. l’ “in sé”, cioè il momento iniziale della posizione immediata e astratta di qualcosa (p.e.l’infanzia di un uomo), che ne rappresenta il lato soggettivo o interiore;

2. il “per sé” o “altro da sé” o “fuori di sé”, cioè il momento intermedio della negazionedell’in sé ovvero della posizione altrettanto immediata e astratta dell’opposto dell’in sé(p.e. l’adolescenza/giovinezza), che rappresenta il lato oggettivo o esteriore diqualcosa;

3. l’ “in sé e per sé” o il “ritorno a sé”, cioè il momento della sintesi finale odell’unificazione mediata e concreta dei primi due momenti (p.e. la maturità), cherappresenta la totalità in quanto insieme soggettiva e oggettiva, esteriore e interiore.Per capire fino in fondo il significato della dialettica va evidenziato che:

• i primi due momenti rappresentano aspetti unilaterali e quindi parziali di qualcosa,mentre il terzo ne costituisce l’unità completa, cioè la realtà vera, in quanto per Hegel“il vero è l’intero”;

• in questo senso i primi due momenti corrispondono al concetto aristotelico di potenza,ovvero di incompiutezza che tende al perfezionamento, mentre il terzo a quello di atto,cioè di compiutezza/perfezione (benché relativa);

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• il terzo momento, cioè la sintesi, consiste nel depurare i primi due dai rispettivi difettiunilaterali, nell’isolare i pregi di entrambi - cioè i loro nuclei veritativi - e nell’integrarecosì ognuno dei due con l’altro;

• i primi due momenti non sono dunque eliminati, annullati nel terzo, ma vi sono filtratie conservati, ovvero, come dice Hegel, “inverati”;

• il terzo momento in questo senso rappresenta l’equilibrio ovvero la giusta misura deiprimi due;

• ogni triade dialettica è paragonata da Hegel a un cerchio, sia in quanto rappresentauna realtà in sé compiuta sia in quanto la relazione che lega i suoi tre momenti “ruota”su se stessa, cioè trascorre dal primo momento attraverso il secondo per tornare alprimo: il terzo momento, infatti, non è altro che la realizzazione compiuta del primograzie al passaggio attraverso la negazione costituita dal secondo;

• anche se l’ordine di successione risulta talvolta invertito, di norma il primo momentorappresenta il polo soggettivo o ideale-razionale di qualcosa, il secondo momento il suopolo oggettivo o fisico-reale, il terzo l’identità compiuta di soggettività e oggettività,ideale e reale, intesa però come soggettivizzazione dell’oggettività, cioè basata sulprimato relativo della soggettività.Per comprendere meglio il significato dello sviluppo dialettico, è utile prendere inconsiderazione un esempio di sua applicazione a un aspetto concreto della realtà.L’esempio è quello, già accennato, delle età fondamentali dell’uomo: infanzia,giovinezza, maturità (o età adulta).

1. L’infanzia è l’uomo in sé, cioè nella sua condizione immediata e astratta, perché piùlontana dalla pienezza dell’uomo adulto, caratterizzata dall’essere sì un individuo matotalmente dipendente rispetto ai genitori e più in generale alla società;

2. la giovinezza è l’uomo per sé o altro da sé, l’opposto dell’infanzia, in quanto lagiovinezza è caratterizzata da una volontà esasperata di indipendenza che si manifestanel conflitto con i genitori e nel rifiuto della società adulta;

3. la maturità è l’uomo in sé e per sé o tornato a sé, cioè la sintesi di infanzia e giovinezza,in quanto caratterizzata dal raggiungimento della autentica libertà individuale checonsiste nel realizzare la propria indipendenza integrandosi pienamente nella vitasociale e politica.Le triadi dialettiche non sono separate l’una dall’altra, ma ognuna è connessa a tutte lealtre, o direttamente o indirettamente, cioè attraverso altre triadi. In questo senso sipuò paragonare la dialettica a un’immensa rete con maglie triangolari.Tuttavia non tutte le triadi dialettiche hanno la stessa portata, nel senso che alcunesono più ampie e generali, altre più ristrette e particolari. Continuando a utilizzare lametafora della rete, potremmo dire che vi sono maglie più grandi che contengonomaglie più piccole. Fuor di metafora, le triadi dialettiche costituiscono un ordinegerarchico: le triadi più generali, diciamo di primo livello, si articolano in triadi piùparticolari di secondo livello, e così via fino alle triadi singolari, relative cioè alle cosesingole.In questo senso, tutte le triadi dialettiche, cioè tutte le cose, muovono da un’unicatriade, la più generale, la triade onnicompresiva, da cui si dipartono e in cui sonoinscritte tutte le altre. Questa triade suprema, che circoscrive l’intera rete dialetticaovvero che abbraccia l’intero processo di autocostruzione dello Spirito, è la seguente:

1. L’idea in sé o Idea pura: è la posizione immediata dell’Idea come soggettoastratto, puramente razionale, puro pensiero e dunque libera attività creatrice. Hegelparagona questo primo momento dello svolgimento dello Spirito al mondo delle idee diPlatone, all’Uno di Plotino, al Dio come implicazione di tutte le cose di Cusano, infine

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al Dio come mente razionale eterna, prima della creazione del mondo e dell’uomo,della teologia cristiana.

2. L’idea altra da sé o Natura: è l’alienazione dell’Idea, la sua autonegazione,ovvero la sua trasformazione nel suo opposto, cioè nella sostanza oggettiva, nellamateria irrazionale, che costituisce il principio proprio del mondo fisico. In altreparole, per Hegel la materia, e quindi la dimensione fisica, è l’Idea che si camuffatalmente bene nel suo contrario da rendersi irriconoscibile persino a se stessa, cioèappunto irrazionale, passiva, necessitata. Secondo Hegel questo secondo momentodello sviluppo dello Spirito è il significato razionale del mito platonico della “caduta”dell’anima nel corpo e del mito evangelico dell’incarnazione e soprattutto della mortedi Cristo, in quanto solo l’esperienza della morte è il suggello dell’effettivafisicizzazione, la prova provata dell’autentica incarnazione.

3. L’idea in sé e per sé o Spirito - E’ il ritorno dell’Idea in sé stessa, sintesi disoggetto e oggetto, razionalità e fisicità. Corrisponde al genere umano, in quantol’uomo è corpo, cioè oggettività naturale, ma anche coscienza razionale, cioèsoggettività ideale. Questo momento è ricondotto da Hegel al mito platonicodell’anamnesi, cioè dell’accendersi nell’uomo del ricordo del mondo delle idee, e almito evangelico della resurrezione e della trasfigurazione di Cristo, ovvero della suavittoria sulla morte e della sua ascesa in Cielo con tutto il corpo, ma un corpodivinizzato, compiutamente spiritualizzato, e dunque immortale.

Hegel denomina propriamente “Spirito” solo quest’ultimo stadio dello svolgimentodialettico dell’Idea, portato e sintesi dei primi due, perché solo a questo terzo livello loSpirito raggiunge la sua completezza, in quanto unione di razionalità e fisicità,soggettività e oggettività. Ma va tenuto ben presente che, da un lato, lo Spirito perHegel è anche l’intero processo, comprensivo di tutti e tre gli stadi; dall’altro, che il suoterzo stadio è a sua volta un lungo processo di sviluppo e perfezionamento, in quanto laraggiunta completezza dello Spirito non coincide con la sua compiutezza.

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TAPPA 2HEGEL: LA LOGICA IN QUANTO SCIENZA DELL’IDEA PURA

La logica è la scienza dell’idea pura, cioè dell’idea nell’elemento astratto delpensare.(...) Si può ben dire che la logica sia la scienza del pensare, delle suedeterminazioni e leggi, ma il pensare è anzitutto la pura identità del saperecon se stesso, e perciò costituisce soltanto l’universale determinatezza6 (...).L’idea è certamente il pensare, ma non in quanto formale, bensì come latotalità delle sue peculiari determinazioni che esso dà a se stesso.

Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 12

Secondo Hegel lo Spirito - principio unico e assoluto della realtà - è un processo diautorealizzazione che si sviluppa e si compie in un’infinita rete dialettica di momenti finiti.Poiché la dialettica è per Hegel il movimento di unificazione di due momenti opposti, essaha una forma triadica. Sul piano della logica, cioè dell’idea pura, la triadicità dialetticaassume una forma generale, che per Hegel equivale al metodo scientifico, cioè allaprocedura che ogni mente individuale deve adottare se vuole conoscere la realtà, ovveropensare in modo veritiero.La forma logica della dialettica secondo Hegel si articola nei seguenti passaggi:

1. l’impostazione analitica o intellettuale astratta: il punto di partenza dell’attivitàconoscitiva è la facoltà analitica dell’intelletto, che mette a fuoco la realtà distinguendone eseparandone parti e proprietà. In questo modo però l’intelletto rinuncia al punto di vistadella totalità e non è in grado di cogliere le relazioni dialettiche intercorrenti tra i singoliaspetti reali. Di conseguenza la sua visione della realtà, priva com’è di un ordine unitario eorganico, rimane astratta e non perviene alla verità.

2. Lo sviluppo dialettico o negativo-razionale: l’intelletto deve essere integrato dallaragione, la quale, in una prima fase, interviene sui contenuti della conoscenza intellettivain modo puramente negativo, cioè confutando l’assolutezza e l’autonomia di ognuno diessi. Per esempio contrapponendo al movimento la quiete, al mondo inorganico il mondoorganico, al corpo la psiche ecc. Così facendo la ragione rompe l’isolamento dei contenutiintellettivi e comincia a porli in relazione tra loro.

3. La conclusione speculativa o positivo-razionale: la ragione dialettica si sviluppanaturalmente nella ragione speculativa, la quale assumendo il punto di vista della totalità èin grado di unificare i contenuti intellettivi opposti operando la loro sintesi concettuale.Per esempio pensando il concetto di natura come sintesi di mondo organico e mondoinorganico di cui questi sono manifestazioni parziali dialetticamente connesse.

Stabilita così la forma dello svolgimento logico del pensiero, Hegel passa a considerarne icontenuti. Essi sono i concetti intesi come determinazioni interne del pensiero, comepensieri sì puri ma al contempo concreti. Infatti i concetti sono per Hegel il fondamento ditutte le cose reali, in quanto ne costituiscono le matrici razionali. La loro universalità,dunque, possiede, benché in forma implicita o potenziale, tutta la ricchezza del mondonaturale e del mondo intellettuale e culturale dell’uomo.In questo senso, Hegel afferma che la logica è “scienza prima” e “filosofia speculativa”, cioèontologia. Essa però non esaurisce la filosofia, in quanto considera l’idea solamente inquanto assoluto puramente pensante e chiuso nella sua eternità. In tal senso, Hegel

6 Il pensiero contiene le caratteristiche fondamentali della realtà, ma in modo puramente universale, generale, privo cioèdelle differenziazioni specifiche della realtà e della concretezza individuale.

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afferma che la logica corrisponde alla rappresentazione cristiana di Dio “come egli è nellasua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito”.

Lo sviluppo dialettico dell’idea a livello di pensiero puro si articola per Hegel in 3 momenti:1. essere: è il piano più immediato, cioè più astrattamente universale, nel quale l’idea si

produce come “in sé”;2. essenza: è la dimensione dell’autoapprofondimento dell’idea la quale si fa “per sé”, cioè,

per così dire, si scava al proprio interno e si costruisce una profondità interiore;3. concetto: è il livello della sintesi di essere ed essenza, cioè di esterno e interno, immediato

e mediato, attraverso cui l’idea si realizza compiutamente “in sé” e “per sé”.

Il puro essere (coincidente col puro pensiero) è, secondo Hegel, la prima e più immediatamanifestazione dell’idea e al contempo dell’Assoluto. Esso è pertanto il “principio”dell’intero svolgimento dialettico dello Spirito, paragonabile a Dio come implicazione ditutte le cose. L’essere è infatti l’idea più universale e onnicomprensiva, ma può esserlo solograzie alla sua totale indeterminatezza, alla sua assoluta mancanza di definizione e dicaratterizzazione, in una parola alla sua vacuità. Come tale, però, l’idea di essere finisce perrovesciarsi in quella opposta di nulla, cioè di non-essere. Infatti il nulla è l’idea dellaindeterminatezza assoluta. Dunque essere e nulla non si negano totalmente, non si elidonoa vicenda ma possono unificarsi in quanto posseggono un denominatore comune. La lorounificazione produce l’idea di divenire. Infatti, secondo Hegel, divenire significa avereinizio, ma nell’inizio, appunto, ogni cosa da un lato non è ancora, dall’altro sta per essere;dunque il divenire contiene in se stesso il non essere e l’essere.Il divenire esprime la fluidità pura del pensiero. Tale fluidità deve però determinarsi incontenuti definiti. Il divenire trapassa così nell’esserci, cioè nell’essere un qualcosa, uncontenuto circoscritto e dunque singolare del pensiero. Ciò che determina l’esserci èl’acquisizione di una qualità specifica. Ma tale specificazione qualitativa implica lanegazione di tutte le altre da essa diverse e dunque implica un rapporto costitutivodell’esserci con l’esser-altro. L’esserci sviluppa questa opposizione negando la proprianegazione dell’esser-altro e costituendosi così come esser-per-sé cioè come essercicompiutamente individuale in quanto include nella sua identità il rapporto con tutte lealtre identità degli altri esserci. Alla determinazione qualitativa dell’esserci si contrapponequella quantitativa, ma qualità e quantità trovano la loro unificazione nella misura, intesacome “quantità qualitativa”.

Riflettendosi in se stessa, l’idea produce la sua dimensione interna e mediata, dando luogoalle categorie dell’identità, della differenza e della contraddizione. In questo modo l’ideadiventa essenza la quale, in quanto fondamento, si viene a contrapporre all’essereimmediato imponendogli la determinazione dell’apparenza. Questo movimento diautodifferenziazione dell’idea ne innesca un secondo, uguale ma in direzione contraria, inbase al quale l’essenza si esteriorizza nell’esistenza, dando luogo al fenomeno comemanifestazione individuale e veritiera dell’essenza. La sintesi di essenza ed esistenzaproduce la realtà in quanto esistenza che possiede dentro di sé la ragione e la strutturadella propria costituzione. Come sintesi di essenza ed esistenza la realtà è dunquerelazione che si attua in 3 modalità: a) la sostanza, intesa come relazione tra unità emolteplicità degli accidenti del fenomeno; b) la causalità, intesa come azione unilaterale diuna sostanza su di un’altra; c) l’azione reciproca, intesa come interazione bilaterale tra duesostanze.

La sintesi di essere ed essenza produce il concetto. Il concetto per Hegel è l’elemento primoe insieme il motore del pensiero come attività pensante, cioè come processo produttivo

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infinito, fluido e continuo. In quanto concetti, le categorie dell’essere e dell’essenzaperdono la loro contrapposizione e si integrano in quella totalità processuale che è ilpensiero pensante.L’idea si costituisce come concetto scindendosi negli opposti della soggettività edell’oggettività. La soggettività è il movimento con cui il concetto (p.e. uomo) costituisce ilpensiero pensante, cioè le forme mentali del pensiero come soggetto pensante. Talemovimento parte dal giudizio in cui il concetto si divide in un soggetto e in un predicato(p.e. l’uomo è mortale) per poi riunificarsi a un livello superiore nel sillogismo (p.e. gliuomini sono mortali, i filosofi sono uomini, il filosofo Socrate è mortale). Nel sillogismoinfatti il giudizio è presente nell’opposizione dei termini estremi (mortali e filosofi) ed ilconcetto nel termine medio (uomini) che appunto li unifica nella conclusione. In altreparole il concetto soggettivo è l’idea operante nelle catene dei ragionamenti in cui consisteil pensiero a livello mentale.L’oggettività è invece il movimento con cui il concetto costituisce il “pensato”, cioè ilcontenuto reale del pensiero in quanto oggetto pensato. Questo movimento consistenell’esteriorizzazione e nell’articolazione del concetto nei concetti reali del meccanismo,del chimismo e dell’organismo.A questo punto, operando la sintesi di concettualità oggettiva e soggettiva, l’idea raggiungeil livello della sua completa e finale costituzione. L’unità di concetto pensante e concettopensato, cioè della mente e della natura, costituisce immediatamente l’idea come vita.Ogni essere vivente (animali, uomini, Stati, civiltà, ecosistemi, ecc.) infatti consiste nellarelazione con se stesso mediata dall’alterità oggettiva del proprio corpo e del mondoesterno. Ma l’idea deve ancora svilupparsi oltre l’immediatezza della vita come liberasoggettività. In questo modo grazie alla conoscenza, con cui si eleva dall’individuale vitaleall’universale concettuale, raggiunge la coscienza di ciò che è veramente, producendo larappresentazione, la fede e il sentimento. Con l’ultimo movimento, infine, l’idea soggettivasi appropria del suo lato oggettivo sia introiettando il mondo esterno attraverso laconoscenza - e costituendosi così come vero -; sia trasformando attivamente il mondoesterno - e producendosi così come bene.L’idea pura raggiunge così la sua assolutezza nella suprema sintesi di verità e bene.

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TAPPA 3HEGEL: LA FILOSOFIA DELLA NATURA COME IDEA ALIENATA

La natura si è data come l’Idea nella forma dell’esser-altro. Poiché in essal’Idea è come il negativo di se stessa ovvero è esterna a sé, non soltanto lanatura è relativamente esteriore nei confronti di questa Idea, ma l’esterioritàcostituisce la determinazione nella quale essa è in quanto natura.

Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 192

Una volta sviluppata e conquistata compiutamente la sua purezza razionale, l’Idea,secondo Hegel, deve negarsi trasformandosi nel suo opposto, cioè nella natura. Questorovesciamento dialettico è presentato da Hegel come la spiegazione pienamente razionaledi alcune fondamentali allegorie della tradizione filosofica e teologica:• quella platonica della “caduta” dell’anima immortale dell’uomo e della sua conseguente

incarnazione in un corpo mortale;• quella neoplatonica dell’emanazione dell’Uno infinito in quanto fuoriuscita da se stesso

ed ingresso nella dimensione del finito;• quella ebraica della creazione divina del mondo fisico;• quella cristiana dell’incarnazione e della morte di Cristo, in quanto Dio fattosi uomo.Il significato razionale comune a queste figure classiche del pensiero è per Hegel ilmovimento dialettico dello Spirito che per realizzarsi deve necessariamente negare la suaessenza originaria per accettare e vincere la sfida del suo opposto e giungere così ariconquistarsi in modo effettivamente compiuto.

L’Idea in sé, nella sua originaria purezza razionale, rappresenta per Hegel la polaritàdialettica della interiorità (o soggettività). Di conseguenza, la natura, in quanto Idea che sinega per farsi altro da sé, non può che rappresentare la polarità dialettica opposta, cioèquella dell’esteriorità (o oggettività).Poiché la natura è per essenza esteriore essa non può possedere l’ordine unitario propriodel concetto. Infatti, in quanto copia negativa dell’Idea, la natura ha pur sempre il concettocome proprio fondamento, ma esso rimane chiuso e separato nella sua interiorità. Gli entie i caratteri naturali, pertanto, sussistono uno accanto all’altro, per così dire alla rinfusa,senza cioè un profondo e organico rapporto. A causa di tale disorganicità nella naturauniversalità e particolarità sono divise e contrapposte. Di conseguenza i fenomeni naturaliper Hegel sono un misto:• di ferrea necessità, in quanto per i loro caratteri generali sono rigidamente soggetti alle

leggi universali della natura;• e di arbitraria casualità, in quanto invece i loro caratteri particolari non dipendono da

alcuna regolarità razionale.

A partire da questa concezione del mondo naturale, Hegel svolge una serrata critica delladivinizzazione della natura sostenuta dagli artisti e dai filosofi romantici. La natura infattiè divina, a parere di Hegel, solo in quanto deriva dall’Idea. In se stessa, però, nel suo modoproprio e specifico di manifestazione alienata dell’Idea, essa non ha alcunché di divino.Infatti, la determinazione essenziale della natura - cioè la materia - è per definizione non-essere, mera negatività, cioè irrazionalità. L’essere della natura, pertanto, non corrispondeper Hegel al suo concetto, cioè al suo fondamento razionale.Tuttavia Hegel ammette che la natura, in quanto pur sempre prodotto dell’Idea, possaessere considerata legittimamente una mirabile manifestazione di Dio. Ma anche in questocaso i singoli enti naturali - il sole, la luna, gli animali, le piante - non solo non sono da

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porre, come espressioni della sapienza divina, su un piano superiore a quello delle opereumane, ma nemmeno possono essere ritenuti ad esse equivalenti. Secondo Hegel infattianche la più bassa e capricciosa manifestazione dello spirito umano e perfino un’azionemalvagia dell’uomo sono superiori al più alto dei fenomeni naturali. L’uomo infatti hacoscienza della propria individualità e agisce comunque in modo eticamente libero. Tuttigli enti naturali, invece, anche i più elevati, cioè gli esseri viventi, non possiedono lacoscienza della propria individualità e non fanno altro che eseguire passivamente quantoloro imposto dalle leggi generali della natura.

Nonostante ciò, secondo Hegel, la natura possiede un certo grado di ordine. Essa, infatti, inquanto negazione dell’Idea non può possedere il suo compiuto ordine razionale; però inquanto pur sempre derivata dall’Idea la natura conserva nel suo fondo un ordine razionale.In altre parole, l’Idea struttura la natura per così dire dall’esterno e pertanto le conferisceun grado solo parziale di razionalità.In virtù dell’ordine ideale che la innerva, la natura è per Hegel un “tutto vivente”, cioèconsiderata come totalità è un unico, grande organismo biologico. Ciò significa che nellanatura è presente un finalismo, ovvero un processo dialettico di miglioramento. Taleprocesso ha come punto di partenza l’immediatezza esteriore, che corrisponde alla morte, eche pertanto deve avere come punto di arrivo appunto la vita. Ma il vero fine ultimo dellanatura è portare la vita al suo grado più elevato, cioè allo spirito, ovvero dare origine allaspecie umana.

L’ordine dialettico e finalistico della natura si manifesta secondo Hegel nel suaorganizzazione per gradi ascendenti che parte dal mondo meccanico per arrivare al mondoanimale. Ogni grado della natura consegue dal suo antecedente e lo presuppone, in quantone è la condizione d’esistenza. Per esempio i fenomeni chimici sono un mezzoindispensabile alla sussistenza di un organismo vivente.D’altra parte, per Hegel, questo non significa che nella natura vi sia un’evoluzione interna,cioè una metamorfosi spontanea e autonoma di un grado in quello successivo. Peresempio, la vita per Hegel non nasce da una combinazione spontanea di fenomeni fisici echimici. In altre parole, i gradi della natura sono sì disposti in ordine ascendente econsequenziale, ma rimangono compartimenti stagni, privi di relazioni dirette e interne. Illoro ordine consequenziale e gerarchico infatti deriva dall’esterno, cioè dalla strutturazionedell’Idea. E’ cioè l’Idea che produce il sistema di gradi, è all’interno dell’Idea che ogni gradogenera internamente l’altro. La natura invece si limita a ricevere e a riprodurrepassivamente ciò che l’Idea produce nel suo movimento concettuale.

Su queste basi Hegel costruisce il suo sistema dialettico della natura, basato su 3 momentifondamentali:1. il mondo meccanico, comprendente i principi fondamentali dello spazio e del tempo,

della materia e del movimento, dell’attrazione e della repulsione, della gravitazione;2. il mondo fisico, comprendente la luce, il calore, il peso specifico, la coesione, il suono, il

magnetismo, l’elettricità, gli elementi e le reazioni chimiche;3. il mondo organico, comprendente la natura geologica, la natura vegetale e la natura

animale.Il parametro dello sviluppo dialettico da un grado della natura a quello superiore ècostituito per Hegel dall’individualità. Il mondo meccanico, puramente quantitativo, ècaratterizzato dalla totale generalizzazione astratta, corrispondente al massimo livello diesteriorità. Nel mondo fisico l’individualità comincia a emergere per poi affermarsicompiutamente nel mondo organico nell’“individualità soggettiva”, cioè nell’organismovivente in quanto caratterizzato dal più alto grado di unità interna.

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ROTTE FILOSOFICHE E ROTTE SCIENTIFICHEGRAVITA’ E FORZA GRAVITAZIONALEHegel considera la gravità come una proprietà intrinseca della materia. La materia,infatti, in quanto rappresenta per eccellenza l’esteriorità della natura, la sua puranegatività, è costituita dalla repulsione di ognuna delle sue parti nei confronti delle altreche ne spiega la suddivisione in singoli corpi. D’altra parte le singole parti della materiasono pur sempre la stessa cosa ed esprimono la loro unità di fondo nell’attrazione. Lagravità è appunto per Hegel l’equilibrio tra repulsione e attrazione intese come forzecostitutive della materia. In questa prospettiva Hegel critica Newton e apprezza inveceKeplero. Infatti per Hegel la terza legge di Keplero (i quadrati dei tempi di rivoluzione deipianeti stanno tra loro come i cubi delle rispettive distanze dal Sole) da una partecontiene implicitamente la legge di gravità di Newton e dall’altra esprime in formasemplice e puramente razionale il concetto di gravità. Al contrario la formulanewtoniana (due corpi si attraggono in modo direttamente proporzionale al prodottodelle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza) per Hegeltradisce il concetto puro della gravità considerandola come una forza attrattivaautonoma indipendente dalla materia e oltretutto di origine ignota e inspiegabile.All’inizio del ‘900, nella sua teoria della relatività, Einstein concepisce la gravità comeuna proprietà geometrica dello spazio, cioè la sua incurvatura correlata alla presenza inesso di massa/materia. Anche per Einstein, però, la forza gravitazionale era unicamenteattrattiva. Alla fine del ‘900, i fisici hanno invece scoperto l’esistenza di una gravitàrepulsiva.

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TAPPA 4HEGEL: L’EMERGERE DELLO SPIRITO COME COSCIENZA

Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si compie mediante il suosviluppo. Bisogna dire dell’Assoluto che esso è essenzialmente risultato, cheesso soltanto alla fine è ciò che è in verità; e proprio in questo consiste la suanatura, che è di essere realmente effettivo, soggetto o divenir-se-stesso.

Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Prefazione

Sulla base della concretezza del suo contenuto, la certezza sensibile appareimmediatamente come la conoscenza più ricca (...). Inoltre, essa appare comela conoscenza più vera, in quanto non ha ancora trascurato nulla dell’oggetto,ma lo ha piuttosto davanti a sé in tutta la sua integrità e completezza.Di fatto, però, tale certezza si rivela proprio come la verità più astratta e piùpovera. Il suo sapere si riduce soltanto all’enunciazione: “esso è”, e la suaverità contiene unicamente l’essere della Cosa.

Hegel, Fenomenologia dello Spirito, I

Secondo Hegel, l’Idea, dopo essersi negata e resa altra da sé nella natura, torna a se stessa.Questo ritorno alla sua identità originaria non è una mera restaurazione della suacondizione precedente, bensì è la sua rinascita in una forma superiore, in quanto l’Idea,affrontando e vincendo la sfida della materia, si è arricchita e potenziata. In questo senso,essa ora rinasce come Spirito, sintesi di razionalità e fisicità, ovvero fisicità permeata dirazionalità e quindi compiutamente ordinata. Ma in cosa consiste lo Spirito,concretamente? La risposta di Hegel è semplice e chiara: nella specie umana, nell’uomo inquanto animale razionale, cioè in quanto essere fisico che può però controllare e guidare ilsuo corpo con la sua ragione.Ma lo Spirito non è già bell’e fatto; come e ancor più dell’Idea e della Natura, lo Spirito,cioè l’umanità, è un farsi, ovvero un processo dialettico di autocostruzione, di sviluppo eperfezionamento. E naturalmente anche la dialettica dello Spirito si snoda intorno a unatriade fondamentale:

1. Spirito soggettivo: è lo sviluppo della dimensione individuale dello Spirito;2. Spirito oggettivo: è lo sviluppo della dimensione sociale, istituzionale, e quindi

storica, dello Spirito;3. Spirito assoluto: è lo sviluppo della totalità dello Spirito, ovvero la fusione della sua

dimensione individuale e della sua dimensione collettiva, che si realizza nell’interaconoscenza umana.

Il primo livello dello Spirito è dunque lo Spirito soggettivo. Esso si svolge dialetticamentein base alla seguente triade:

1. Antropologia: è la costituzione naturale specifica dell’uomo, ovvero la peculiareanimalità dell’essere umano, il suo lato oggettivo-materiale, che però, in quantocorrelato al lato soggettivo-razionale, assume una fisionomia diversa da quella deglialtri animali. Questa costituzione fisiologica dell’uomo è legata alle tre fasifondamentali della crescita naturale degli esseri umani: infanzia, giovinezza ematurità (Tappa 1).

2. Fenomenologia: è lo sviluppo dialettico del lato soggettivo-razionale dell’individuoumano, quello che ne costituisce la differenza e la superiorità rispetto agli animali.

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3. Psicologia: è la sintesi dei due lati precedenti, basata sulla correlazione tra teoria eprassi, cioè conoscenza e azione, che genera compiutamente l’individuo umano inquanto essere libero, cioè capace di autodeterminarsi razionalmente.

La fenomenologia è la parte più significativa dello sviluppo dello Spirito soggettivo, forseaddirittura quella di maggior pregio dell’intera filosofia di Hegel. Essa è incardinata sullaseguente triade dialettica:

1. coscienza: è il primo livello della razionalità umana, in quanto essere uomo significainnanzitutto, e come requisito minimo, essere cosciente;

2. autocoscienza: è la consapevolezza delle capacità conoscitive della coscienza che sisviluppa nel dominio pratico della natura;

3. ragione: è la consapevolezza della coscienza di essere il fondamento della realtàumana e della realtà naturale.

La prima e più immediata manifestazione della coscienza è chiamata da Hegel “certezzasensibile”. Con questa espressione Hegel vuole indicare la convinzione della coscienza diconoscere completamente gli oggetti grazie all’esperienza sensibile, cioè grazie alla capacitàdi riprodurre dentro di sé gli oggetti esterni così come sono. Apparentemente, la “certezzasensibile” è il massimo grado di conoscenza e pertanto la coscienza crede di valere molto.Ma in questo modo, afferma Hegel, la coscienza implicitamente si riduce a un semplicespecchio passivo della realtà empirica, ovvero a un vuoto che, proprio in quanto tale, vieneriempito dagli oggetti esterni. Dunque, in realtà, in questa fase per così dire neonatale, lacoscienza possiede un basso grado di consapevolezza di sé e di autostima.La coscienza, però, secondo Hegel, a mano a mano che fa esperienza della realtà si rendegradualmente conto che è impossibile conoscere un oggetto meramente sensibile. P.e., èimpossibile conoscere, e quindi non solo dire ma perfino pensare, una sensazione di“liscio” piuttosto che di “ruvido”. Infatti, una sensazione è qualcosa di assolutamenteindividuale, diversa da ogni altra, mentre, quando penso o dico “liscio” oppure “ruvido”, iopenso e dico un concetto, cioè una rappresentazione mentale universale. Nel tentativo dievitare l’uso di un concetto, continua Hegel, potrei pensare e dire “questo qui ed ora”,riferendomi a una sensazione avuta in un certo luogo in un dato istante. Ma anche in talcaso, in realtà, non si pensa e non si dice qualcosa di individuale ma pur sempre deiconcetti universali, anzi ancora più universali di “liscio” o “ruvido”, perché più generali.Infatti, “questo” sta per qualsiasi oggetto di una sensazione, “qui” può essere usato perindicare qualsiasi luogo, “ora” per riferirsi a qualsiasi istante.In base a questa autoriflessione, la coscienza comprende che gli oggetti della “certezzasensibile” sono sempre dei concetti, cioè sue rappresentazioni, ovvero scopre di dare uncontributo fondamentale alla costituzione, per così dire al disegno, dell’oggetto sensibile.In tal modo la coscienza giunge alla consapevolezza di essere molto di più di uno specchio,ossia di un vuoto, incrementando il proprio grado di autostima.Hegel suggella la sua dialettica della “certezza sensibile” con un’esplicita confutazionedell’empirismo. Secondo Hegel, gli empiristi affermano, attraverso il linguaggio scritto oparlato, che noi facciamo esperienza diretta di oggetti sensibili esterni e indipendenti dallanostra coscienza. Ma proprio nel momento in cui scrivono o dicono questa loro tesi, el’argomentano, facendo uso del linguaggio, negano ciò che credono di affermare. Infattitutti i termini che usano sono degli universali. Quando dicono “una cosa singolare” o“questa cosa” gli empiristi in realtà pronunciano sempre un universale, in quanto ogni cosaè “una cosa singolare”, e “questa cosa” può essere qualunque cosa. Se poi gli empiristi, persfuggire a questa generalizzazione, ricorrono a termini più specifici come “questo pezzo dicarta”, “questa penna”, in realtà non fanno che evidenziare ulteriormente che parlano solo

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e sempre di universali. Insomma, conclude Hegel, la posizione degli empiristi è indicibile,inesprimibile: è il linguaggio stesso che ne attesta l’infondatezza in modo immediato eincontrovertibile. Infatti, il linguaggio è composto di universali e noi non possiamo dire néscrivere, ma nemmeno pensare, al di fuori del linguaggio.

Nel momento in cui la coscienza comprende i limiti della “certezza sensibile”, essa trapassadialetticamente nella “percezione”. Per “percezione” Hegel intende l’attività dellacoscienza in base alla quale essa conosce non solo oggetti-proprietà (“liscio”, “verde”,“alto”, “quadrupede”), ma anche oggetti-cose (un tavolo, una gatto, una mela). Tale attività“percettiva” consiste nell’assemblare alcune sensazioni (per esempio, “tondo”, “rosso”,“liscio” nel caso di una mela) scartandone altre, che vengono invece agglomerate in altrioggetti-cose. Per fare ciò, la percezione si basa su modelli universali degli oggetti-cose -cioè p.e. i concetti di sostanze, come “tavolo”, “gatto”, “mela” - cioè su costruzioni dellacoscienza. Dunque, mentre inizialmente, come “certezza sensibile”, la coscienza si credevafondata sull’oggetto, ora, come “percezione”, crede di fondarsi unicamente su se stessa,cioè sul soggetto.

L’unilateralità oggettiva della “certezza sensibile” e l’unilateralità soggettiva della“percezione” sono superate nell’ “intelletto”, che, mediandole e unificandole, rappresentaun nuovo, superiore livello di consapevolezza e autostima della coscienza. Per “intelletto”Hegel intende la facoltà che spiega gli oggetti-cose e le loro proprietà in base a forzenaturali, ovvero li unifica riconducendoli a leggi causali universali della natura. In questomodo la coscienza, da un lato, riconosce l’alterità oggettiva della natura in sé, dall’altrocomprende che la conoscenza della natura, cioè la scienza, è una propria autonomacostruzione e che le leggi della natura, in quanto leggi scientifiche, sono le sue leggi.

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TAPPA 5HEGEL: LA DIALETTICA DELL’AUTOCOSCIENZA

L’autocoscienza ottiene il proprio appagamento solo in un’altraautocoscienza. [....]Adesso si tratta di un’autocoscienza per un’autocoscienza. Solo cosìl’autocoscienza è tale effettivamente; solo così, infatti, per l’autocoscienzadiviene l’unità di se stessa nel suo essere-altro. Io, che è l’oggetto del concettodell’autocoscienza, non è di fatto un oggetto. L’oggetto del desiderio, alcontrario, è soltanto autonomo: esso è infatti l’indistruttibile sostanzauniversale, la fluida essenza uguale a se stessa. Quando invece l’oggetto ècostituito da un’autocoscienza, esso allora è tanto Io quanto oggetto.

Hegel, Fenomenologia dello Spirito, IV, 3

L’autocoscienza è per Hegel la coscienza di che cos’è la coscienza, cioè la coscienza che haacquisito la consapevolezza di non essere un vuoto specchio delle cose naturali, bensìl’attività costitutiva della conoscenza della natura, ovvero un essere autonomo e di ordinesuperiore. Questa consapevolezza di superiorità si manifesta, a livello immediato, neldesiderio di vincere l’opposizione della natura, cioè di impadronirsi e servirsi degli oggettinaturali. Più precisamente, la coscienza cerca di affermare la propria superioritàsull’oggettività naturale consumando, cioè annientando, le cose naturali per soddisfare, equindi annullare, i propri bisogni fisiologici, cioè pur sempre impulsi naturali,determinazioni imposte all’uomo dalle leggi della natura. P.e., l’uomo desidera una mela, lastrappa dall’albero, la mangia, placando la propria fame.Ma in questo rapporto negativo con l’oggettività naturale l’autocoscienza desiderante nonpuò trovare una soddisfazione definitiva in quanto:• da un lato gli oggetti naturali oppongono una resistenza mai del tutto eliminabile al loro

uso e consumo;• dall’altro lato, il desiderio, dopo essere stato appagato, risorge sempre.A causa dell’alterità insopprimibile degli oggetti naturali, l’autocoscienza non puòappropriarseli completamente e quindi non può oggettivarsi in essi. Per questo non puòacquisire una sicurezza piena e salda in se stessa. Ma in tal modo l’autocoscienza non puòessere veramente tale. In parole più semplici, il senso di superiorità dell’uomo sulla natura,derivato dalle sue capacità razionali, viene meno nel momento in cui l’uomo non risce atradurre in pratica la sua superiorità conoscitiva.

Com’è allora possibile l’autocoscienza? Ovvero, in che altro modo l’autocoscienza puòsoddisfare il suo desiderio fondamentale di oggettivazione? Hegel risponde che, in questafase del suo sviluppo dialettico, l’unico altro ente in cui l’autocoscienza può oggettivizzarsi,e dunque confermare la sua superiorità, è un’altra autocoscienza individuale. Infatti, unaseconda autocoscienza, ovvero un altro uomo, da un lato è un oggetto per la primaautocoscienza - in quanto è esterna e indipendente da essa - ma dall’altro - a differenzadell’oggetto naturale -, è anche un soggetto razionale come lei e come tale puòrispecchiarla in se stessa, cioè può mentalmente riconoscerla come autocoscienza. Dunquel’autocoscienza individuale, per Hegel, implica necessariamente l’esistenza di unamolteplicità di autocoscienze. E in questo senso il desiderio di ogni autocoscienza puòtrovare vero e completo appagamento solo nell’ottenere che la propria superiorità siarispecchiata e riconosciuta da parte di un’altra autocoscienza.

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L’autocoscienza può conseguire questo obiettivo solo attraverso l’agire. In altre parole, ilriconoscimento di un’autocoscienza da parte di un’altra non è un fatto contemplativo mapratico. Ma qual è l’azione con la quale un’autocoscienza può dimostrare all’altra di“essere-per-sé”, cioè di costituire una soggettività indipendente e quindi libera? Dovràtrattarsi di un’azione che renda evidente al massimo grado la differenza e l’indipendenzadell’autocoscienza dal suo opposto, cioè dall’oggettività naturale.Tale azione non può essere che la negazione assoluta della dimensione naturale, cioè ilmorire. Dunque un’autocoscienza deve dimostrare all’altra di essere disposta a morire. Ciòavviene perché ogni autocoscienza, spinta dal desiderio del riconoscimento, cerca dicostringere un’altra a riconoscerla come tale. Ne consegue una lotta per il riconoscimentounilaterale di ognuna da parte di un’altra in cui entrambe cercano di uccidere l’altra edentrambe perciò devono affrontare il rischio di essere uccise dall’altra, cioè di morire.

Nella lotta per la vita e per la morte che si ingaggia così tra le autocoscienze:• alcune autocoscienze si arrendono per evitare di morire e sono sconfitte, non riuscendo

perciò a farsi riconoscere e quindi a oggettivarsi;• altre invece accettano fino in fondo il rischio della morte e vincono, riuscendo così a

ottenere il riconoscimento e a oggettivarsi.Di conseguenza la coscienza si scinde in due:• una coscienza indipendente e superiore, in quanto ha dimostrato di non essere legata

all’oggettività fisica e ha raggiunto così la piena consapevolezza del suo essere per sé,cioè di essere un soggetto razionale;

• una coscienza dipendente e inferiore, in quanto ha dimostrato di essere legataall’oggettività fisica e pertanto non ha acquisito la consapevolezza di essere per sé.

A questa scissione della coscienza corrisponde la divisione nelle due classi dei signori e deiservi. Hegel allude alla situazione storico-sociale tipica delle civiltà antiche e medievali,basate sulla polarizzazione sociale in aristocrazia fondiaria e contadini servi.

Il rapporto del signore con l’oggettività naturale è mediato dal servo: questo, infatti,avendo rinunciato alla sua autonomia dall’ente naturale, non può più consumarlo ma puòsolo trasformarlo attraverso il lavoro per renderlo disponibile al consumo del signore.L’autocoscienza signorile così supera il limite opposto dalla natura al desideriodell’autocoscienza semplice, non ancora oggettivata e piena, e riesce a soddisfarecompletamente i suoi bisogni fisici, a liberarsi dal condizionamento dell’oggettivitànaturale e a vivere nel pieno godimento.Ma, a sua volta, il servo trova proprio nel lavoro lo strumento per raggiungere ilriconoscimento della propria autocoscienza. Il lavoro infatti:• implica la rinuncia al consumo immediato dell’oggetto naturale, cioè la capacità di

controllare i desideri e di rimandarne il soddisfacimento, pertanto costituisceun’esperienza formativa di autonomia dall’oggettività naturale;

• consiste nel trasformare l’oggetto naturale, cioè nell’imprimergli la forma soggettivadella propria autocoscienza: in questo modo l’oggettività naturale perde la sua alteritànegativa e diventa uno specchio oggettivo dell’autocoscienza servile.

In altri termini, il servo si libera progressivamente dal condizionamento della materialitànaturale e insieme si riconosce e si oggettiva nel prodotto del proprio lavoro, raggiungendol’autonomia del suo pieno essere per sé e rovesciando il suo rapporto di sudditanza neiconfronti del signore. La liberazione del servo rinvia al processo storico di formazione esviluppo della borghesia fino alla conquista del primato economico-sociale e del poterepolitico.

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TAPPA 6HEGEL 4: LA COSCIENZA INFELICE

La coscienza infelice (...) è duplicata perché in sé è già coscienza unica eindivisa. Essa è l’atto di un’autocoscienza che guarda dentro un’altra, ed èessa stessa, in sé, l’una e l’altra autocoscienza: l’essenza è, ai suoi occhi,l’unità di entrambe; solo che, per sé, la coscienza infelice non si coglie ancoracome questa essenza stessa, non è ancora l’unità delle due autocoscienze (...)ma le vede piuttosto come opposte, e precisamente le vede: una, quellasemplice e immutabile, come l’essenza, mentre l’altra, molteplice e mutevole,come l’inessenziale.

Hegel, Fenomenologia dello Spirito, I

Secondo Hegel, la “coscienza infelice” è la rappresentazione interiore della scissioneesteriore in signori e servi da parte di ogni autocoscienza, ovvero il modo in cui la divisioneoggettiva, storico-sociale, delle autocoscienze si riflette nel loro pensiero ed è concepitasoggettivamente. In questo senso, la coscienza infelice è caratterizzata da una sorta didoppia personalità, ovvero dalla scissione ideale della coscienza in due parte separate eopposte, che tuttavia convivono in essa:a) una coscienza infinita pienamente unitaria e quindi stabile, concepita come essenziale e

superiore, che rimanda al Dio della tradizione teologica monoteistica;b) una coscienza finita, differenziata in singole personalità mutevoli e temporanee,

considerata inessenziale e perciò inferiore, che corrisponde agli uomini in quantocreature di Dio.

In questo sdoppiamento interno, la coscienza assume il punto di vista della coscienzafinita, ovvero si identifica con quest’ultima. La coscienza, in tal modo, si relazione alla suaparte infinita come a un’Alterità in confronto alla perfezione e potenza illimitate dellaquale essa non può che sentirsi qualcosa di misero e insignificante. Ciò spiega la sua“infelicità”. Tuttavia, secondo Hegel, nonostante la sua sofferenza, anzi propria grazie adessa, l’autocoscienza comincia ad assumere la consapevolezza della propria essenzainfinita, ovvero a conquistarla. In tal senso, la coscienza infelice è anche, fin dal suosorgere, il processo dialettico di superamento della sua autoscissione e di raggiungimentodell’unificazione tra coscienza infinita e coscienza finita.

La prima esperienza che la coscienza infelice compie nel suo cammino verso lariunificazione è quella della singolarità, ovvero della personalità unica e irripetibile.L’emergere della singolarità avviene in modo specularmente dialettico sia nella coscienzainfinita sia in quella finita sulla base di 3 momenti:1. la coscienza mutevole e finita concepisce la propria singolarità in contrapposizione alla

coscienza immutabile e infinita, che le appare come un’essenza universale estranea,lontana, trascendente, che si rapporta a lei solo in quanto negazione della sua esistenzaindividuale;

2. la coscienza infinita si manifesta essa stessa come singolarità facendo così assurgere lasingolarità a modalità universale e privilegiata dell’esistenza;

3. la coscienza finita si riconcilia con quella infinita riconoscendosi come singolarità che èparte integrante dell’universalità.

Il primo momento di questo movimento dialettico rimanda alla concezione teologica delmonoteismo ebraico, il secondo al cristianesimo medievale, il terzo al cristianesimomoderno. In particolare la manifestazione singolare della coscienza infinita rinvia

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chiaramente alla figura di Cristo, in quanto figlio di Dio. In questo senso Cristo - cioè Dioincarnato in un singolo uomo - rappresenta per Hegel un avvicinamento tra la coscienzainfinita e la coscienza finita. D’altra parte, però, proprio in quanto individualità corporea,Cristo rappresenta la conferma e il consolidamento della separazione tra Dio e l’uomo. Egliinoltre, appartenendo a un’epoca e a un luogo unici e irripetibili, ha fin da subitoriproposto la lontananza tra Dio e l’umanità.

Ma proprio grazie a questa lontananza, secondo Hegel, la coscienza finita può considerarela singolarità concreta di Cristo-Dio come l’obiettivo cui tendere per avviare e sviluppare ilsuo processo di riunificazione con la coscienza infinita. Questo processo si svolge a livellosoggettivo/ideale attraverso la devozione religiosa basata sull’imitazione di Cristo e alivello oggettivo/materiale attraverso il lavoro consacrato, cioè concepito e attuato comecompito assegnato all’uomo da Dio. In base a questa autoformazione ideale e materiale, lacoscienza perviene alla sua completa autocomprensione. Essa infatti si nega comecoscienza singolare per identificarsi con la coscienza universale. Inizialmente questaidentificazione avviene in modo meramente oggettivo, cioè come annullamento dellasingolarità a favore dell’universalità, rappresentata dalla chiesa come istituzione, cheallude alla chiesa cattolica. In un secondo momento però essa si attua anchesoggettivamente, cioè come riconoscimento consapevole da parte della coscienza singolafinita della sua identità con la coscienza universale infinita, rappresentata dalla chiesacome assemblea dei credenti, che allude alla chiesa riformata. In questo modo la coscienzainfelice supera la sua scissione e consegue la certezza di poter essere, in quanto singolarità,la totalità della realtà. In altre parole, la coscienza giunge alla consapevolezza che sia ilmondo fisico che l’umanità sono il prodotto di una coscienza universale e infinita di cuiogni coscienza singola e finita è parte integrante e a cui ogni coscienza individuale puòestendersi fino a coincidere con essa.

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TAPPA 7HEGEL: LA RAGIONE ATTIVA

Inizialmente, questa ragione attiva è consapevole di se stessa soltanto come diun individuo, e in quanto individuo deve esigere e produrre la propria realtànell’altro. In un secondo tempo, però, elevando la propria coscienza auniversalità, questo individuo diviene ragione universale (...). Ora, la meta diquesto processo è il concetto che è già sorto dinanzi a n o i, è cioèl’autocoscienza riconosciuta, la quale ha la certezza di se stessa nell’altraautocoscienza libera e vi trova quindi la propria verità.

Hegel, Fenomenologia dello Spirito, V.B

Al culmine del movimento della Coscienza infelice, la coscienza ha raggiunto, secondoHegel, la consapevolezza di essere, in quanto singolarità, tutta la realtà. In questo modoessa diventa Ragione, la quale è appunto per Hegel consapevolezza dell’unità di pensieroed essere, soggetto e oggetto, mente e mondo fisico.La dialettica della Ragione è la concreta attuazione di questa unificazione come sviluppocompleto di ciò che costituisce a un tempo il suo motore fondamentale e il suo limite: ladimensione individuale. Il suo primo momento è la Ragione osservativa, ossia la Ragioneche si attua sul piano conoscitivo nell’indagine scientifica della natura. Nel corso di questaindagine, la Ragione si accerta di essere tutta la realtà in quanto scopre le leggi razionaliche governano i fenomeni naturali. In questo modo la coscienza acquisisce la certezza chela natura non è un’oggettività estranea ma è un’autocoscienza autonoma che si realizzanella forma della cosalità. Tale certezza però deve trasformarsi in verità. In altre parolel’unificazione tra autocoscienza e natura deve approfondirsi ulteriormente superandoanche la differenza della cosalità. Ma perché ciò sia possibile è necessario che la Ragione sisviluppi anche sul piano pratico, cioè come Ragione attiva, costruendo la sua dimensionesociale, collettiva.

La prima tappa del cammino della Ragione attiva verso l’universalità collettiva èrappresentata dal piacere. L’individuo, infatti, secondo Hegel, agisce e si rapporta agli altriinnanzitutto seguendo la legge del desiderio. Richiamandosi esplicitamente al Faust diGoethe, Hegel sostiene che l’autocoscienza rinuncia all’intelletto e alla scienza per offrirsi aSatana, cioè per godere immediatamente della vita così come essa spontaneamente si offre.In questa prospettiva le altre autocoscienze diventano strumenti per il soddisfacimento deipropri desideri. L’individuo non vuole sopprimere l’altro, ma vuole sopprimernel’autonomia, in quanto lo considera, per così dire, una proiezione di se stesso. In questomodo, però, nel godimento dell’altro l’autocoscienza perviene a una parziale coscienzadella sua unità con lui conferendo così un primo livello di oggettivazione alla propriasingolarità.Eppure, proprio nel momento del godimento, l’autocoscienza fa esperienza del carattereeffimero del piacere attraverso cui si manifesta tutta l’astrattezza e la povertàdell’individualità, la sua finitezza e la sua precarietà costitutive. In questo modo il piaceresi tramuta nella coscienza dei limiti necessari e insuperabili del mero essere individuale el’individualità si frantuma scontrandosi con la dura necessità della realtà: l’individuo hacreduto di prendersi la vita ma alla fine si ritrova fra le mani la morte.Tuttavia la necessità sgretola l’individualità in tanto in quanto è in realtà unamanifestazione dell’universalità, cioè dell’unità di tutti gli individui. Di conseguenzal’autocoscienza individuale, dopo essersi sentita perduta nella necessità, credendola

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erroneamente un’essenza estranea, giunge a comprendere che questa necessità, in quantouniversalità, è la sua propria essenza.

La necessità universale introiettata dall’autocoscienza, secondo Hegel, le si presentainnanzitutto nella forma della legge interiore. In quanto espressione di un’universalitàimmediata, la legge interiore assume la determinazione della “legge del cuore”, cioè di unalegge dettata dal sentimento individuale. La legge del cuore, in quanto aspirazione darealizzare, si pone come alternativa all’ordine del mondo violento e tirannico, che reprimel’individualità, e all’umanità sofferente che subisce passivamente la sua oppressione.L’individuo, pertanto, impegnandosi ad abbattere quest’ordine e a eliminare questasofferenza, acquisisce la serietà di chi agisce per il bene dell’umanità.Ma proprio nel momento in cui la legge del cuore si realizza, rovesciando l’ordinamentotirannico, cessa, secondo Hegel, di essere legge del cuore in quanto assume la formadell’essere reale e si costituisce a sua volta come ordine universale indifferente alsentimento individuale. L’individuo avverte così come estranea e avversa la sua stessaopera. Questa situazione paradossale porta alla luce, per Hegel, la contraddizione insitanella legge del cuore: in essa infatti l’individuo vuole come universale qualcosa che è peressenza particolare. Infatti, la legge di un cuore, nascendo dal sentimento individuale, nonpuò coincidere con quella di un altro cuore e pertanto mentre prima l’individuo trovavaintollerabile l’ordine tirannico, ora trova contrari alle proprie nobili intenzioni le leggi delcuore degli altri uomini.In questo modo, l’autocoscienza da un lato riconosce la sua oggettivazione reale nel nuovoordine da lei stabilito, dall’altro avvertendolo come estraneo trae da esso la consapevolezzadella propria irrealtà. Questa contraddizione sconvolgente trasforma la preoccupazione peril benessere dell’umanità in “furore della presunzione”, cioè in una furia distruttiva controla società. Essa nasce dalla falsa convinzione che la negatività dell’ordine sociale siaconseguenza semplicemente dell’inganno e dell’oppressione di preti fanatici e di despoticorrotti. L’autocoscienza, così, si nasconde che in realtà la vera causa della negativitàdell’ordine sociale è l’immediatezza della legge del cuore. Questa infatti non può realizzarela sua universalità se non nella forma della resistenza che tutti gli altri individuioppongono alla legge del cuore che ogni individuo tenta di imporre. In altri termini, alivello della legge del cuore, l’universale si dà solo come conflitto generalizzato tra gliindividui in cui ognuno vuol far valere la propria singolarità ma al contempo deve subire lasingolarità degli altri.

La legge del cuore, secondo Hegel, si sviluppa, oltrepassandosi, nella “virtù”, la qualeconsiste nell’affermazione della totale superiorità della legge universale sull’individuo. Talesuperiorità si attua contemporaneamente su due piani:a) all’interno della coscienza virtuosa, nella forma del sacrificio dell’intera personalità

attraverso la sua completa sottomissione al vero e al bene in sé;b) all’interno del “corso del mondo” - cioè della realtà storica così come concretamente si

configura - nella fede e nella testimonianza che esso contenga un ordine universaleideale come essenza interna e come fine ultimo destinato a realizzarsi nel tempo.

Di conseguenza il “cavaliere della virtù” ingaggia una lotta contro il corso del mondo realein nome del suo corso del mondo ideale. Egli però si ritrova impotente e incapace dicombattere perché il corso del mondo reale, per Hegel, è il bene reale, è l’universaleconcreto. Proprio in quanto virtuoso, cioè dedito alla causa del bene, il cavaliere della virtùnon riesce dunque a colpire effettivamente con le sue armi il corso del mondo.La virtù viene così sconfitta dal corso del mondo perché il suo fine - l’universalità assolutanel sacrificio totale dell’individualità - è astratto, mentre il corso del mondo rappresental’universale reale, quello basato sul diritto alla felicità dell’individualità. Di fatto, afferma

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Hegel, il corso del mondo trionfa su discorsi pomposi e vacui, su un ideale astratto cheedifica senza costruire, su nobili fini che in realtà esprimono solo la volontà di sentirsi e diessere considerati eccellenti.Il fallimento della virtù porta la coscienza a comprendere la positività universale del corsodel mondo, a rinunciare al sacrificio dell’individualità e a considerarla momentoindispensabile della realizzazione dell’universalità. L’individualità che agisceegoisticamente nel corso del mondo, infatti, è migliore per Hegel di quanto la coscienzavirtuosa creda perché in realtà essa realizza comunque l’universale. In questo senso, laconvinzione individuale di agire sulla base dell’egoismo e di pensare che tutti gli uominiagiscono per egoismo non è altro che mancanza di consapevolezza delle proprie azioni. Laconclusione cui Hegel giunge è dunque che l’universalità non può costruirsisull’annullamento dell’individualità perché altrimenti sarebbe un universale astratto, privodi esistenza, morto, in quanto è proprio il conflitto tra gli individui egoisti che infonde vitae realtà all’universale.

In questo modo la dialettica della Ragione pratica raggiunge il suo punto di arrivo: il“regno dell’eticità”, inteso come assoluta unità spirituale di tutti gli individui nella pienavalorizzazione della loro autonomia. Nell’eticità, cioè, ogni autocoscienza è autonoma maproprio nella sua autonomia è consapevole della sua unità con le altre autocoscienze. Hegelchiama questa unità “sostanza reale” e afferma che essa si realizza compiutamente nellavita di un popolo libero. Ciò risulta evidente sotto due aspetti:• quello ordinario della divisione del lavoro grazie alla quale il singolo soddisfacendo i

propri bisogni soddisfa simultaneamente quelli dell’intera collettività;• quello straordinario del sacrificio individuale, in cui un singolo è disposto a morire per il

bene della collettività.L’eticità dunque si realizza compiutamente in quella “lingua universale” che sono i costumie le leggi di un popolo. In essi infatti ogni individuo, secondo Hegel, intuisce sé come l’altroe l’altro come sé. Per questo, conclude Hegel, i grandi saggi dell’antichità hanno sostenutoche l’autentica virtù consiste nel vivere in conformità ai costumi del proprio popolo.

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TAPPA 8HEGEL: LO SPIRITO OGGETTIVO

Il diritto degli individui per la loro determinazione soggettiva alla libertà hail suo compimento nel fatto che essi appartengono alla realtà etica, poiché lacertezza della loro libertà ha la sua verità in tale oggettività, ed essi nel campoetico posseggono realmente la loro propria essenza, la loro i n t e r n auniversalità.

Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 153

Nel momento in cui lo spirito soggettivo, cioè individuale, nel suo movimento diapprofondimento, cioè di unificazione degli individui, arriva a comprendere che la propriaessenza è collettiva, ovvero è la cooperazione tra gli individui, trapassa in spirito oggettivo.Lo Spirito oggettivo è per Hegel il processo dialettico di sviluppo dell’unione collettiva fragli uomini. In altre parole, così come cresce e si perfeziona l’individualità umana cresce e siperfeziona anche la anche socialità umana, cioè la capacità degli uomini di integrarsi ecooperare, di “fare squadra”. Lo sviluppo dello spirito oggettivo, infatti, consistenell’emergere di sempre più efficaci forme di aggregazione economico-sociali e diistituzioni giuridico-politiche, quelle che hanno fatto la storia dell’umanità. Esso è scanditoda un movimento dialettico imperniato su tre momenti:1. il diritto, che ne rappresenta la forma reale ma meramente esteriore, dunque la polarità

oggettiva;2. la moralità, che ne costituisce la dimensione interiore ma meramente intenzionale,

dunque la polarità soggettiva;3. l’eticità, che è il compimento dello spirito oggettivo in quanto unifica in sé le sue

dimensioni esteriore e interiore, reale e intenzionale, oggettiva e soggettiva.

Lo spirito oggettivo, nella sua immediatezza, si realizza come singolo individuo chepersegue il soddisfacimento dei propri bisogni e desideri entrando in relazione con ilmondo naturale e con altri individui. In questo modo l’individuo costituisce la sfera deldiritto in base alla quale egli riconosce e rispetta se stesso e gli altri individui in quanto“personalità”, cioè in quanto esseri spirituali infiniti, universali e liberi. Da questoreciproco riconoscimento formale deriva una regola sociale puramente negativa, cioèquella di non danneggiare l’altra “personalità”. Tale regola vale su tre piani fondamentali,che costituiscono altrettante condizioni e articolazioni della personalità giuridica:a) il piano del possesso dei beni materiali che costituiscono il fondamento oggettivo della

personalità;b) il piano del contratto, come scambio consensuale e conveniente di beni materiali tra

diverse personalità;c) il piano del delitto e della pena, come trasgressione e ristabilimento della regola

giuridica.L’individuo come persona, secondo Hegel, ha bisogno per realizzarsi di una dimensioneesteriore, concreta, materiale. Poiché gli enti naturali non hanno in sé alcuna coscienza ealcun fine razionale, la persona ha il diritto di imporre a ogni cosa il proprio fine razionale,appropriandosene e servendosene. In altre parole, l’uomo, in quanto persona, è titolare diun diritto assoluto di possesso e sfruttamento dei beni naturali. Ma proprio in quantofondato su un diritto, il semplice possesso di un bene diventa “proprietà”, cioè possessolegittimo e quindi giuridicamente riconosciuto e tutelato.Il riconoscimento e la tutela della proprietà è la condizione della possibilità di uno scambiodi beni materiali tra gli uomini. Tale scambio è a sua volta riconosciuto e tutelato

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giuridicamente come “contratto”, cioè come atto consensuale basato sulla reciprocaconvenienza.Ma il diritto rimane sempre fondato sull’interesse particolare dei singoli individui e cometale esso è intrinsecamente parziale e quindi difettoso. I suoi limiti si manifestano neldelitto inteso come violazione del rispetto formale di una personalità, cioè comedanneggiamento di un altro individuo nel suo corpo o nei suoi beni. Tale violazione è peròsolo momentanea in quanto il diritto attraverso la punizione del criminale è in grado diristabilirsi a un livello più profondo e solido. La pena infatti non restaura solo il diritto dichi ha subito il danno ma anche quello del criminale, cioè ne ricostituisce la personalitàgiuridica emendando la sua volontà interiore dal delitto commesso.

Nel momento in cui la pena riabilita la volontà stessa del criminale, lo spirito oggettivo siapre alla dimensione interiore, cioè si costituisce come moralità.Nella moralità infatti la volontà libera dell’individuo non si limita ad accettare una regolacollettiva esterna ma si impegna a realizzare una norma collettiva interiore, che scaturisce,cioè, dall’intimo della sua soggettività. Tale norma è quella di agire per il Bene, inteso comevalore universale posto al di sopra delle singole felicità individuali.Ma nella moralità, secondo Hegel, la volontà individuale si relaziona con il Bene in quantosuo principio sostanziale, ma non riesce a unificarsi completamente con esso. In altreparole, sulla base della sola moralità, Bene universale e felicità individuale restano divisi,non collimano. Infatti l’agire morale per il Bene, essendo meramente intenzionale, nonesige la sua realizzazione particolare ed effettiva. Pertanto l’agire per il Bene universale siconfigura come una legge puramente formale e astratta, cioè come un dover-essere, comeuna pura esigenza soggettiva senza garanzia di realizzazione oggettiva.Proprio la formalità e l’astrattezza del Bene costituiscono la condizione del male. Infatti,non essendoci un’integrazione tra Bene universale e felicità individuale, l’individuo puòdecidere di volere come universalità la propria felicità individuale, cioè appunto dicompiere il male in quanto negazione del Bene universale in nome del bene individuale.

L’unilateralità oggettiva del diritto e l’unilateralità soggettiva della moralità trovano la lorogiusta misura e il loro reciproco bilanciamento, ovvero la loro sintesi, nell’eticità. Infatti lalegge etica, afferma Hegel, è un’obbligazione sia interiore sia esteriore ed è insieme siaun’intenzione soggettiva sia una realtà oggettiva ed efficace. Essa infatti si realizza:• nei doveri sociali (p.e. studiare, lavorare, difendere la patria, salutare il vicino di casa

ecc.) che ogni individuo ha in quanto parte di una comunità;• nella virtù, intesa come completo e stabile adempimento dei propri doveri;• nei costumi (o usanze) e nelle associazioni del popolo cui si appartiene, che

costituiscono modalità specifiche e concrete ma al tempo stesso universali, in quantocomuni e uniformi, di attuazione dei propri doveri.

Per Hegel, nell’eticità la libertà individuale trova la sua piena realizzazione in quantol’essenza dell’uomo non è l’individualismo ma il collettivismo, cioè l’integrazione con glialtri. Di conseguenza i diritti individuali sono doveri e viceversa i doveri sono diritti. Inquesto senso doveri e costumi, pur avendo autorità assoluta, non costituiscono unalimitazione dell’individuo, ma la sua completa liberazione dai limiti degli impulsi naturali edel soggettivismo morale particolaristico e astratto. Nell’eticità, dunque, lo spiritooggettivo unifica universale e particolare, collettivo e individuale, costruendo una vera epropria “seconda natura” grazie alla quale l’individuo può attuare effettivamente edefficacemente la sua autentica libertà.

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TAPPA 9HEGEL: FAMIGLIA, SOCIETA’ CIVILE, STATO

Lo stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch’esso hanell’autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale in sé eper sé. Questa unità sostanziale è assoluto immobile fine in se stesso, nel quale lalibertà perviene al suo supremo diritto, così come questo fine ultimo ha ilsupremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è d’esser membridello stato.

Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 258

Per Hegel l’eticità è l’unità collettiva umana basata sulla piena valorizzazione della dimensioneindividuale, il noi che è io e l’io che è noi. Essa si realizza e si sviluppa, quindi, in un movimentodialettico di sempre più profonda integrazione tra agire individuale e agire collettivo. Talemovimento dialettico si snoda in base a tre momenti fondamentali, che sono altrettanteistituzioni sociali:

1) la famiglia, che è il polo oggettivo dell’eticità;2) la società civile, che è il polo soggettivo dell’eticità;3) lo Stato, che è la sintesi di oggettività e soggettività etica, ovvero la forma

compiuta dell’unificazione etica di individuo e collettività.

La famiglia è la forma immediata dell’eticità, poiché l’unità tra gli individui che in essa sirealizza è naturale in quanto legata alla funzione biologica della riproduzione sessuale. Purrestando vincolata alla natura, la famiglia d’altra parte sviluppa l’istinto sessuale in un rapportospirituale attraverso lo svolgimento dei suoi momenti dialettici interni, costituiti dalmatrimonio, dal patrimonio e dall’educazione dei figli.Il matrimonio è l’origine della famiglia e consiste, secondo Hegel, nella libera scelta che dueindividui fanno reciprocamente di se stessi come marito e moglie. Tale scelta però non implicanecessariamente per Hegel un preesistente amore soggettivo fra i coniugi. Infatti il consenso el’impegno all’unione coniugale sono condizioni sufficienti per generare l’amore coniugale.Il patrimonio, inteso come insieme dei beni materiali necessari alla vita dei membri dellafamiglia, e l’educazione dei figli sono, invece, le componenti oggettive del matrimonio. Entrambisi basano su un rapporto di fiducia: ogni membro della famiglia ha fiducia nel fatto che ilpatrimonio venga utilizzato per il bene di tutti; ogni figlio ha fiducia che l’educazione che gliviene impartita vada a suo vantaggio. Grazie a questa fiducia reciproca, che ha le sue radici nellasuperiorità naturale del marito sulla moglie e dei genitori sui figli, la famiglia realizza per Hegeluna coesione totale e priva di conflitti interni.

La compattezza immediata dell’eticità familiare trova il suo necessario contraltare dialetticonella società civile. Questa è per Hegel unità etica mediata, cioè basata sulla differenziazione,sull’autonomia e quindi sulla contrapposizione tra gli individui. In questo senso la società civileè l’autonegazione interna dell’eticità indispensabile alla piena conquista di se stessa.Hegel delinea la società civile come l’insieme delle relazioni che gli uomini in quanto “atomi”sociali, cioè sia come singole famiglie sia in quanto individui autonomi, stabiliscono liberamentetra loro per il perseguimento dei loro interessi particolari. In questo senso la società civile èinnanzitutto e fondamentalmente il “sistema dei bisogni”, cioè il sistema economico basato sullibero mercato. In tale sistema pur essendo divisi e in concorrenza tra loro, gli individuirealizzano spontaneamente livelli sempre maggiori di integrazione etica:

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• nella divisione del lavoro che, nata dalla naturale tendenza alla specializzazione dellaproduzione, crea una rete di interdipendenza tra i soggetti economici tale per cui l’insiemedegli interessi particolari realizza spontaneamente l’interesse collettivo;

• nella formazione, indispensabile per svolgere con successo ogni attività economica, cioènell’educazione scolastica sia a livello di cultura generale sia a livello di cultura tecnico-scientifica e professionale, che getta le basi per la comunicazione sociale;

• nei ceti sociali, prodotti dalla divisione del lavoro, in cui gli individui si aggregano a partire dauna condivisione di interessi e di formazione culturale;

• nelle corporazioni, cioè nelle associazioni professionali e di mestiere, in cui all’aumentataintensità della comunanza di interessi e formazione corrisponde un grado più alto di coesioneche segna il ritorno completo dell’eticità a se stessa introducendo alla dimensione dello Stato.

Lo Stato, per Hegel, è insieme la sintesi e il fondamento sostanziale della famiglia e della societàcivile. Esso, cioè, da un lato unifica in sé i valori opposti dell’una e dell’altra, eliminandone irispettivi eccessi unilaterali; dall’altro grazie a ciò costituisce per così dire la culla di entrambe,cioè è la condizione di possibilità della loro esistenza autonoma. Ciò significa che, secondoHegel, le libertà individuali e familiari in tanto possono attuarsi in quanto c’è uno Stato che letutela e le garantisce e senza il quale esse non potrebbero esercitarsi concretamente.In questo senso Hegel rigetta la teoria contrattualistica che legittima lo Stato come il prodottoartificiale di un libero patto tra individui. Secondo lui, infatti, è impensabile l’esistenza di liberiindividui antecedentemente a quella dello Stato. D’altra parte per Hegel se non può esisterelibertà senza Stato non può nemmeno esistere Stato senza libertà, anzi lo Stato deve essere larealizzazione massima della libertà individuale.La coincidenza di libertà e statalità è teoreticamente fondata da Hegel sulla tesi della volontàcollettiva insita, a suo parere, in ogni individuo umano. In tal senso la volontà individuale puòanche manifestarsi superficialmente in forme individualistiche, ma affonda le sue radici in unavolontà universale profonda che è la vera identità di ogni individuo. In modo più semplice,l’individualità umana è solo apparente; in realtà, ogni uomo è una parte di un unico grandeindividuo, l’umanità. Di conseguenza Hegel può sostenere che la libertà individuale non solonon è negata dallo Stato ma trova solo in esso la sua piena e compiuta realizzazione.

In questa prospettiva, uno Stato è legittimo per Hegel quando le decisioni delle sue istituzionisono conformi alla libera volontà dei suoi cittadini. In base a questo criterio Hegel elabora il suomodello costituzionale di Stato basata sulla sua articolazione in 3 poteri fondamentali:1. il potere legislativo, che corrisponde al principio dell’universalità, esercitato da un

parlamento diviso in una camera alta e in una camera bassa;2. il potere monarchico, che rappresenta il principio di individualità, esercitato da un re in cui si

incarna l’unità soggettiva dello Stato e che ha il compito di approvare e rendere effettive ledecisioni del governo.

3. il potere esecutivo, che incarna il principio di particolarità, esercitato da un governo cheattraverso i funzionari statali ha il compito di adattare la volontà universale delle leggiparlamentari alle esigenze particolari della popolazione.

Insomma, Hegel propone come Stato ideale una monarchia costituzionale il cui baricentro siarappresentato dal governo e dall’apparato burocratico, in quanto organi collegiali dotati dellemaggiori competenze politiche.

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TAPPA 10HEGEL: LA FILOSOFIA DELLA STORIA

La storia del mondo è il progresso nella coscienza della libertà: un progressoche noi dobbiamo riconoscere nella sua necessaria natura. [...]La storia universale è la rappresentazione del processo divino e assoluto dellospirito nelle sue più alte forme, di questo corso graduale onde esso conseguela sua verità, l’autocoscienza di sé.

Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cap. II, §§ c), e)

Secondo Hegel, gli Stati moderni - in quanto stati nazionali - costituiscono delleindividualità assolutamente autonome e sovrane. Di conseguenza un diritto internazionale- cioè un insieme di norme sovranazionali - non può avere alcuna esistenza reale. Esso peròcostituisce un dover-essere, cioè un’esigenza dei singoli Stati realizzabile nell’autonoma erevocabile adesione a trattati di volta in volta stipulati.E’ pertanto possibile che non si raggiunga, o che si rompa, un’intesa e in questo caso perHegel le controversie internazionali non possono che essere risolte attraverso la guerra.Tuttavia la guerra non elimina il reciproco riconoscimento degli Stati e quindi mantiene traessi alcuni vincoli che si configurano di fatto come norme non scritte di un dirittointernazionale di guerra. Tali vincoli sono:• la temporaneità della guerra e quindi la necessità di arrivare a una pace nei più brevi

tempi possibili;• il rispetto degli ambasciatori;• il rispetto della popolazione civile e delle istituzioni interne degli Stati.In base a queste regole, attraverso la guerra e i suoi esiti, gli Stati ricompongono le lorocontroversie altrimenti inconciliabili. In questo senso la guerra rappresenta per Hegel il“giudizio universale” degli Stati, cioè la suprema e razionale istanza giudiziaria che nedecreta la ragione o il torto.

In questa prospettiva, secondo Hegel, la storia umana si svolge secondo un disegnorazionale. Essa infatti è realizzazione dell’idea che ha raggiunto la consapevolezza di sécome spirito, più precisamente come spirito oggettivo. Dunque, il vero soggetto della storianon è il singolo individuo, ma lo “spirito del mondo”, cioè il principio universaleimmanente che unifica in sé tutta l’umanità. Lo spirito del mondo però non agiscedirettamente nella storia, bensì attraverso gli “spiriti dei popoli”, cioè i principi idealiunitari che costituiscono il fondamento dell’identità, e quindi dell’esistenza, di ogninazione.In quanto articolazioni specifiche dello spirito del mondo, gli spiriti dei popoli sidifferenziano gli uni dagli altri per i diversi livelli di profondità con cui comprendonol’idea. In altre parole, ogni civiltà storica, secondo Hegel, rappresenta una modalitàparziale e relativa della presa di coscienza di se stesso da parte dello spirito. Da questamodalità specifica di intuizione dello spirito derivano tutte le caratteristiche specifiche diuna civiltà: usanze e costumi, diritto, religione, istituzioni politiche, organizzazioneeconomica, letteratura e arte. In questo senso lo spirito del popolo è l’atmosfera culturaleche forma e accomuna tutti gli individui appartenenti a una nazione.

Le forme di autocoscienza dello spirito espresse dalle diverse civiltà costituiscono, nellaloro successione storica, una scala gerarchica a perfezione crescente. In ogni periodostorico vi è infatti un popolo che raggiunge la più elevata coscienza dello spirito incarnandoe realizzando così nella sua particolarità l’universalità dello spirito del mondo. Grazie a ciò,questo popolo assume una posizione dominante e assoggetta a sé tutti gli altri. Attraverso

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la sua egemonia infatti si manifesta e si impone un più avanzato stadio dello sviluppo dellospirito del mondo.Secondo Hegel, ogni popolo può detenere questa superiorità solo temporaneamente e unasola volta nel corso della storia universale, in quanto è destinato prima o poi a esseresuperato dalla più profonda visione spirituale di un altro popolo. Per questo ogni civiltàstorica trapassa necessariamente da una fase di ascesa a una fase di declino. Nonostante lospettacolo delle sue rovine, la storia si rivela pertanto come un progresso necessario edunque inarrestabile.

Se il fondamento del progresso storico è lo spirito, la sua essenza, afferma Hegel, è lalibertà. Tutte le caratteristiche dello spirito, infatti, sussistono solo grazie alla libertà e nonsono che mezzi per l’attuazione della sua libertà. Ne consegue che il progresso storico nonpuò consistere che nella realizzazione sempre più perfetta della libertà e della coscienzache lo spirito ha della sua libertà.Assumendo la libertà come criterio del progresso storico, Hegel ne individua 4 tappefondamentali:1. il mondo orientale, improntato alla teocrazia e al dispotismo, in cui uno solo è libero e

agli individui non è riconosciuta alcuna personalità e alcun diritto;2. il mondo greco, caratterizzato da un’eticità naturale e immediata, in cui solo alcuni sono

liberi in quanto solo a pochi è riconosciuta una personalità individuale;3. il mondo romano, segnato dalla scissione tra un potere sostanziale autocratico e

l’estensione a tutti della libertà che però è solamente giuridico-formale e dunque solopotenziale;

4. il mondo germanico, cioè moderno, in cui la scissione viene superata e si raggiunge unalibertà sostanziale ed effettiva per tutti gli individui.

Hegel intende la libertà come libertà individuale, ma la distingue nettamente dall’arbitriosoggettivo. In quanto l’individuo ha la propria essenza nello spirito, l’autentica libertàindividuale coincide con la necessità universale dello spirito. Apparentemente, però,ammette Hegel, le azioni umane nella storia sembra abbiano come unici moventi i bisogni,gli interessi, le passioni, gli egoismi individuali. Tale apparenza è del tutto giustificata. Perconcretizzarsi e realizzarsi, infatti, lo spirito deve attuarsi attraverso la soddisfazione deibisogni materiali degli individui, deve riconoscere il diritto del singolo alla felicità epermettergli di gratificarsi con il proprio lavoro e con i suoi proventi.D’altra parte, il capriccio casuale e caotico dei moventi individuali si conciliacompletamente per Hegel con l’universalità necessaria e ordinata del corso della storia inquanto le passioni non sono altro che strumenti attraverso cui si attua il progresso storico.Gli uomini infatti agiscono coscientemente per perseguire i loro scopi particolari, ma inrealtà, inconsapevolmente, proprio agendo individualisticamente e passionalmente,realizzano il piano razionale dello spirito del mondo. Questo uso che lo spirito fa deimoventi soggettivi delle azioni umane è chiamato da Hegel “astuzia della ragione”.

Nella storia, dunque, gli individui sono dei semplici mezzi dello spirito del mondo. Ma perHegel il modo in cui gli uomini sono mezzi è del tutto peculiare e assume per questo unvalore positivo. Infatti mentre nella natura ciò che è mezzo è esteriore rispetto al fine e nonne partecipa, nella storia l’uomo partecipa al fine di cui è strumento ed è pertanto unmezzo intrinseco al fine. Ciò significa che ogni uomo, pur essendo mezzo dello spirito, èanche un fine in se stesso.In questo senso Hegel proclama il valore assoluto della personalità, anche del più miseroindividuo, e afferma che esso è del tutto autonomo dal corso della storia. Inoltre, sempredal punto di vista del destino dell’individuo, Hegel nega che la storia punisca i giusti e

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premi i malvagi. Un tale giudizio, secondo lui, deriva solo da un fraintendimento del verouniversale storico, dalla sua sostituzione con costruzioni fittizie della fantasia individuale.Per lo stesso motivo, Hegel rigetta i lamenti dei singoli individui sulla irrealizzabilitàstorica di tutti gli ideali. Se un ideale non si realizza ciò è dovuto, secondo Hegel, al fattoche si tratta di un ideale soggettivo, particolare, astratto, laddove la storia realizza solo iveri ideali, cioè gli ideali oggettivi, universali, concreti. In realtà, per Hegel gli idealiirrealizzabili manifestano solo la presunzione e l’esibizionismo di chi li sostiene.

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TAPPA 11HEGEL: LA CONQUISTA DELL’ASSOLUTO

Lo spirito assoluto è identità, che è tanto eternamente in sé, quanto uncontinuo ritornare ed esser ritornata in sé; è l’unica e universale sostanza,come sostanza spirituale, il distinguersi in sé e in un sapere, per cui essa ècome tale.

Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 258

Lo spirito, secondo Hegel, non raggiunge la sua assolutezza né a livello soggettivo - comelibera volontà individuale -, né a livello oggettivo - come necessaria eticità collettiva.Entrambe queste forme infatti sono affette dall’accidentalità a causa del loro legame alladimensione naturale dell’uomo. Sia lo spirito soggettivo sia lo spirito oggettivo devonodunque essere considerati come vie, in sé parziali e relative, per arrivare allo spiritoassoluto.L’assoluto è infatti per Hegel sostanza spirituale, cioè sia oggettività che soggettività. Diconseguenza non può esaurirsi nella limitatezza astratta della coscienza individuale manemmeno nell’universalità non autocosciente dello Stato. Pertanto, dopo aver oggettivatoeticamente la sua soggettività individuale, lo spirito può conquistare definitivamente la suaassolutezza solo tornando nella sua autocoscienza, cioè solo filtrando e unificando lospirito soggettivo e lo spirito oggettivo al livello della loro pura contemplazione.In questa prospettiva per Hegel sono 3 le modalità con cui e in cui lo spirito prendecoscienza di se stesso e si realizza come assoluto:

1) la creatività artistica,2) la fede religiosa,3) la speculazione filosofica.

L’arte, afferma Hegel, è la modalità immediata dell’autocoscienza assoluta dello Spirito.Nell’arte infatti l’assoluto è colto per via intuitiva e pertanto si manifesta in forme sensibili,attraverso la fisicità naturale dei materiali di cui l’opera d’arte è fatta. Su queste basi Hegelsostiene che la bellezza dell’opera d’arte consiste soltanto nella sua forma. Essa infattideriva dalla plasmazione e dalla trasformazione della materia in puro segnorappresentativo dell’idea. In questo senso l’arte raggiunge il massimo livello di bellezzanella rappresentazione del corpo umano, in quanto questo è l’oggetto fisico che più siavvicina all’idea.La creazione artistica è una sintesi di soggettività conscia e oggettività inconscia,sbilanciata però a favore di quest’ultima. Essa, infatti, da un lato presuppone l’arbitriosoggettivo dell’artista, ma dall’altro si dà solo se l’artista si libera da ogni accidentalitàsoggettiva e si fa strumento dello spirito. Poiché nell’arte lo spirito è solo intuìto, cioè non ècompreso in modo logico-concettuale, l’ispirazione che guida l’artista assume il carattere diuna forza inconscia, estranea, necessaria. Questa produttività naturale è l’essenza del genioartistico. Per la creazione artistica, però, l’ispirazione inconscia non è sufficiente. Essa deveessere accompagnata da un’intelligenza tecnica e da una manualità meccanica capaci diconcretizzare l’ispirazione nell’opera d’arte vera e propria.

La creatività artistica, per Hegel, è costitutivamente basata sulla contraddizione tra spiritoe materia, infinito e finito, conscio e inconscio. L’opera d’arte in questo senso è sempre untentativo di conciliare questa contraddizione. Tale tentativo si basa su 3 possibilità logichedi combinare spirito infinito e materia finita cui corrispondono 3 stadi di sviluppo storico eal tempo stesso una classificazione permanente delle arti in 3 gruppi:

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1. l’arte simbolica (o sublime), propria della prima antichità, in cui la materialità finitaprevale sulla spiritualità infinita, in quanto l’artista cerca di rappresentare lo spiritonella grandiosità, nella sproporzione e nell’abnormità della sua opera; in questo senso ilsimbolismo si realizza soprattutto come arte architettonica e costituisce dunque ilprincipio distintivo dell’architettura.

2. L’arte classica, propria dell’antichità greco-romana, basata sull’equilibrio tra spiritualitàinfinita e materialità finita, in quanto l’artista tenta di rappresentare compiutamente lospirito assoluto nella perfezione finita del corpo umano; per questo la classicità siesprime soprattutto nella scultura, di cui rimane il principio connotativo permanente.

3. L’arte romantica, propria dell’epoca moderna, in cui la spiritualità infinita prevale sullamaterialità finita, in quanto l’artista ha compreso che l’assoluto può essere colto solorappresentando l’insufficienza rappresentativa di ogni forma fisica, cioè lo scarto, larottura tra significato e significante; date queste sue caratteristiche, il romanticismotrova la sua compiuta espressione nella pittura, nella musica e soprattutto nella poesia ene costituisce il principio specifico e insieme la ragione di superiorità.

Per giungere a un più profondo livello di comprensione della propria assolutezza lo Spiritoper Hegel deve superare dialetticamente i limiti sensibili dell’arte per abbracciare lareligione rivelata, cioè il cristianesimo. Il concetto di rivelazione, infatti, esprime l’attributoessenziale dello Spirito, cioè la sua autocoscienza come manifestazione diretta di sé a sestesso.Nella religione, però, tale manifestazione se da un lato supera i limiti fisici dell’intuizioneestetica, dall’altro resta irretita nei limiti della esteriorità in quanto si basa sullaseparazione tra Dio come spirito infinito e l’uomo come spirito finito. Tali limiti sievidenziano nella modalità di coglimento dell’assoluto propria della religione, che Hegeldenomina “rappresentazione”. Usando questo termine in un’accezione del tutto personale,Hegel vuole esprimere il fatto che nella religione i momenti del movimento dialetticodell’assoluto vengono colti in modo indipendente l’uno dall’altro, in successionecronologico-narrativa anziché in una connessione dialettico-razionale.

Dal momento che lo spirito è autocoscienza razionale, per Hegel la sua comprensione di sécome assoluto può raggiungere la piena verità solo nella modalità del puro pensierorazionale, ovvero logico-concettuale. Per questo l’organo della verità assoluta è laspeculazione filosofica, intesa come scienza enciclopedica e suprema che media e unifica insé la creatività artistica e la fede religiosa.La filosofia è infatti pensiero concettuale che comprende i contenuti di arte e filosofia nellaloro necessaria correlazione dialettica e raggiunge così la dinamica coincidenza disoggettività e oggettività. Ma più in generale la filosofia coglie assolutamente l’assoluto inquanto è visione simultanea e sintetica di tutte le realizzazioni parziali che lo spirito haconseguito in tutto il suo svolgimento a partire dalla prima determinazione dell’idea pura,l’essere. Questa visione totale dell’intero cammino dello spirito svela completamente edefinitivamente il disegno dialettico che ne costituisce l’essenza unitaria.Ma anche questa visione totale, propria delle filosofia, si costruisce e si perfeziona in unprocesso dialettico, quello proprio della storia della filosofia, ovvero quello che a partire daTalete si dipana dialetticamente fino a giungere all’ultima triade dialettica, quellacomposta da Fichte, Schelling e Hegel stesso. In questo senso Hegel propone la suafilosofia come la versione perfetta e dunque definitiva di tutte le filosofie precedenti,ovvero come la piena e compiuta autocoscienza che lo Spirito assoluto ha di se stesso.

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Ma, secondo Hegel, anche l’autocoscienza assoluta dello Spirito assoluto non può essereuna visione conoscitiva statica e fissa. L’assolutezza dell’autocontemplazione conoscitivadello Spirito assoluto è infatti data proprio dal suo continuo fluire circolare attraverso 3movimenti dialettici:1. quello dell’assoluto reale o oggettivo, che parte dal presupposto della sua autonomia

nella logicità per arrivare - attraverso la mediazione oggettiva della natura - a farsi veritàin atto nello spirito: i suoi momenti sono concepiti come estrinseci e necessari e solo altermine del loro svolgimento si rivela la loro essenziale libertà;

2. quello dell’assoluto ideale o soggettivo, in cui lo spirito media e unifica in sé i dueestremi opposti della natura e della logica, riconducendo il caotico divenire naturale allasua origine ideale e producendo un sapere scientifico soggettivo inteso come mezzo perconquistare la libertà;

3. quello dell’identità assoluta di reale e ideale, oggettività e soggettività, in cui la Ragioneautocosciente pura, principio della logica, media e unifica in sé spirito e natura,concependoli e producendoli come sue libere manifestazioni: in questo modo ogni cosatrova la sua natura nel concetto che la pensa e i processi naturali vengono a coinciderecon l’attività pensante che li conosce.

In questo circolo dialettico supremo, che unisce in sé i due precedenti, l’idea eterna,conclude Hegel, giunge ad attuarsi in sé e per sé, cioè in modo totale e definitivo, e agodere compiutamente e semplicemente di se stessa in quanto spirito assoluto. E’ alla lucedi questa somma triade dialettica che va letto il lapidario aforisma di Hegel: “Tutto ciò cheè reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale”.

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VIAGGIO IIILA LIBERAZIONE DAGLI INGANNI DELLA RAGIONE

CANNOCCHIALE SU…L’ORIZZONTE STORICO 1831-1873

L’estensione e l’accelerazione della rivoluzione industrialeA partire dagli anni ’30 dell’800 il processo di industrializzazione segnò una nettaaccelerazione che intorno alla metà del secolo - nella cosiddetta età del libero scambio(1849-1872) - si trasformò in un vero e proprio boom economico.In questo modo l’industrializzazione si intensificò nei paesi (Inghilterra, Belgio, Francia,Olanda, Svizzera) in cui si era già avviata e si estese a nuovi paesi europei come laGermania e la Svezia intorno alla metà del secolo e ad alcune aree dell’Italia settentrionale,dell’Austria, della Boemia e della Russia, ai Paesi Baschi e alla Catalogna in Spagna, neglianni Sessanta. Soprattutto cominciò a industrializzarsi il primo paese non europeo, gliStati Uniti d’America, segnando l’inizio del processo di mondializzazione del capitalismoindustriale.Tale processo tecnicamente fu reso possibile dall’invenzione e soprattutto dalla diffusionedei treni (1830, linea Manchester-Liverpool) e delle navi a vapore, nonché da quelle deltelegrafo elettromagnetico Morse (1840) e del francobollo (1841) che miglioraronoenormemente le possibilità di comunicazione a lunga distanza. La locomotiva a vapore nonfu solo un formidabile fattore di crescita degli scambi commerciali ma anche il nuovoelemento trainante dello sviluppo industriale. Mentre fino agli anni ’20 l’industria siidentificava con il settore tessile, a partire dagli anni 30 il boom delle costruzioniferroviarie lanciò l’espansione dell’industria metallurgica e meccanica, che diventò così ilnuovo settore industriale di punta. Fu in questa fase inoltre che si stabilì un rapportoorganico tra industria e finanza, con la nascita delle prime banche d’investimentofinalizzate al credito industriale. Si innescò inoltre un circolo virtuoso tra aumento dellaproduzione e aumento del commercio che crebbe e si internazionalizzò anche grazieall’assenza di forti barriere doganali. In questo modo si giunse alla formazione di un vero eproprio sistema industriale integrato, che, contribuendo in modo predominante allaformazione della ricchezza, si impose definitivamente sull’agricoltura come primo settoredell’economia.Lo sviluppo industriale, però, non fu lineare e tanto meno esente da contraddizionieconomiche e conflitti sociali: il forte e rapido aumento della produttività e quindidell’offerta a fronte di una domanda ingessata dai bassi salari produsse un nuovo tipo dicrisi economica, la crisi di sovrapproduzione che ciclicamente provocava fallimenti diimprese, riduzione della produzione, licenziamenti, miseria e sommosse dei lavoratorisalariati. Il fenomeno si accentò e acquisì una ciclicità decennale a partire dal 1849 fino aculminare nella più grave e ampia crisi del 1873.

Il boom demografico e l’ascesa della borghesiaConcausa e insieme effetto dell’accelerazione dell’industrializzazione, la crescitademografica europea proseguì ancora più impetuosamente, passando dai c.ca 230 milioniintorno al 1830 ai 300 milioni verso il 1870, superando il tasso di crescita del periodoprecedente a partire da valori assoluti molto più alti.Anche grazie a ulteriori progressi medici – come l’anestesia (1846) e l’antisepsi (1865) - ladurata media della vita raggiunse negli ultimi decenni dell’800 i 45-50 anni.Parallelamente si intensificarono i flussi migratori sia, all’interno di ogni paese, dalle

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campagne alle città industriali, sia tra diversi paesi e continenti, da quelli più arretrati aquelli più avanzati o meno densamente popolati.Dal punto di vista della stratificazione sociale, l’800 fu il secolo in cui la borghesia agraria,industriale, finanziaria e commerciale conquistò – anche se limitatamente ai paesiindustrialmente sviluppati - la supremazia economico-sociale e politica imponendosi sullanobiltà e sui ceti borghesi preindustriali legati alla rendita immobiliare. Tuttavia la classearistocratica continuò a mantenere a lungo molti dei suoi privilegi politici e soprattutto ilprimato nel prestigio sociale e culturale. La classe borghese crebbe numericamente e sidifferenziò in una grande borghesia industriale e finanziaria, in una media borghesiaagraria, commerciale, manageriale e di funzionari soprattutto in un’ampia piccolaborghesia - il cosiddetto “ceto medio” - composta da liberi professionisti, piccoli produttoriautonomi, negozianti, impiegati statali e privati, intellettuali e insegnanti. Parallelamentesi ridusse il peso numerico dei contadini tradizionali a favore del proletariato agricolo eindustriale. In particolare nei paesi più avanzati – primo fra tutti l’Inghilterra - i lavoratorisalariati dell’industria raggiunsero e superarono la metà della popolazione attiva esoprattutto si concentrarono maggiormente nei nuovi stabilimenti industriali.

Le rivoluzioni europee del 1830 e del 1848Il ciclo delle “rivoluzioni atlantiche” proseguì con le rivoluzioni europee del 1830 eraggiunse l’apice con le grandi rivoluzioni europee del 1848. A differenza dei moti del1820, le nuove rivoluzioni europee posero chiaramente all’ordine del giorno da un latol’esigenza della democratizzazione, cioè non solo di uno stato rappresentativo ma anchedella partecipazione politica; dall’altro l’istanza dell’indipendenza e dell’unità delle nazioni.Protagonisti politici ne furono i movimenti politici liberale e democratico. I liberali, cheebbero l’egemonia sui movimenti rivoluzionari almeno fino al 1848, puntavanoall’instaurazione di uno stato di diritto, cioè di uno stato garante dei diritti fondamentali(vita, salute, proprietà, libertà) degli individui, e privilegiavano come forma di governo lamonarchia parlamentare. Essi sostenevano l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, maerano decisi oppositori dell’uguaglianza di diritti politici e dell’uguaglianza socio-economica. In questo senso i liberali erano contrari a qualsiasi intervento statale chelimitasse la libera iniziativa economica privata.I democratici, invece, finalizzavano la loro lotta politica alla instaurazione di uno Statonazionale repubblicano e democratico. Essi, infatti, concepivano lo stato come proiezionedel popolo-nazione e dunque ritenevano che tutti i cittadini dovessero disporre di ugualidiritti politici (suffragio universale maschile) e che lo stato dovesse intervenire perattenuare le disparità economico-sociali, condizione indispensabile per garantire l’unitàdella nazione.A partire dagli anni 1830, venne emergendo un terzo filone politico, quelloliberaldemocratico, che, pur rimanendo fedele ai principi più universali del liberalismoclassico - primato dell’individuo rispetto alla collettività, difesa della sfera privata - nerigettava gli aspetti oligarchici e conservatori (limitazione del diritto di voto ai possidenti oagli uomini, difesa esclusiva degli interessi imprenditoriali) per accettare il processo didemocratizzazione e perfino alcune istanze di tipo sociale.

Le unificazioni nazionali italiana e tedescaL’andamento delle rivoluzioni del 1848 fu contraddittorio: se da un lato ebbero maggioreestensione e radicalità di quelle precedenti, mettendo in crisi soprattutto l’imperoasburgico, dall’altro alla fine risultarono seccamente sconfitte. Nell’immediato pertantol’assetto politico europeo - e in particolare quello dell’area centro-orientale - fu ristabilito eanzi sembrò consolidarsi. Fece eccezione però la Francia, paese in cui la rivoluzione

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democratica ebbe almeno momentaneamente successo portando alla ricostituzione dellaRepubblica. Anche dopo la sua sostituzione con il II impero di Napoleone III la Franciarimase un elemento di destabilizzazione dell’ordine continentale europeo, grazie al suosostegno ai movimenti nazionali antiasburgici, soprattutto a quello italiano ma anche,almeno inizialmente, a quello tedesco.In questo modo il regno di Sardegna, in Italia, e il regno di Prussia, in Germania,riuscirono a unificare politicamente sotto il proprio dominio le nazioni italiana e tedescatramite un’abile miscela di diplomazia internazionale e guerra aperta ai danni dell’imperoaustro-ungarico. L’ultimo passo dell’unificazione tedesca, inoltre, portò al crollo del IIimpero napoleonico e alla nascita del II impero tedesco, cambiando completamente gliequilibri politici internazionali del continente europeo.

La nascita del movimento socialista europeoL’insurrezione socialista della Comune di Parigi del 1871 fu l’unica eccezione rivoluzionariadell’età del libero scambio. Essa fu il sintomo dell’autonomia raggiunta del movimentosocialista e soprattutto assunse per esso il ruolo di un mito galvanizzatore, contribuendofortemente alla sua successiva crescita.In realtà già nella rivoluzione francese del 1848, i socialisti avevano costituito unacomponente di rilievo e addirittura due loro esponenti erano entrati nel governorivoluzionario provvisorio, che anche per questo aveva approvato l’istituzione non solo delsuffragio universale maschile ma anche della giornata lavorativa di 11 ore . Ciò nonostante isocialisti francesi erano rimasti subordinati alla leadership democratico-borghese dellarivoluzione e ben presto erano stati estromessi dal governo.Ma soprattutto nel 1848 fu pubblicato e cominciò a diffondersi in tutta Europa il Manifestodel partito comunista di Marx ed Engels, in cui per la prima volta era teorizzataorganicamente la presa rivoluzionaria del potere da parte della classe operaia el’instaurazione di una “dittatura del proletariato”, cioè di un governo ad indirizzounicamente socialista. Nel loro scritto Marx ed Engels contrapponevano all’uguaglianzaformale dei liberali e a quella politica dei democratici l’uguaglianza delle condizionieconomiche e l’abolizione delle classi sociali, considerate condizioni imprescindibili delleprime due.Negli anni successivi, in seguito all’accelerazione della industrializzazione, vi fu una fortecrescita del proletariato e una forte diffusione delle idee socialiste. Su queste basi vennefondata nel 1864 l’Associazione internazionale dei lavoratori, che unificava a livelloeuropeo le organizzazioni che si richiamavano agli ideali socialisti e più in generale aidiritti dei lavoratori. L’attività della I internazionale fu travagliata dai conflitti interni e siconcluse definitivamente con la sconfitta della Comune di Parigi. Ciò nonostante essa era ilsintomo della crescita ormai inarrestabile del movimento socialista e della sua prossimaentrata sulla scena politica di tutti i principali paesi europei.

Apogeo e declino del paradigma meccanicisticoDopo il 1830, la ricerca scientifica, basata sull’indiscussa egemonia del paradigmameccanicistico, mietè nuovi allori. In astronomia la prima misurazione della parallassedella Terra rispetto alle stelle fisse (1838) e l’esperimento del pendolo di Foucault (1851)fornirono le prove inoppugnabili e definitive della teoria eliocentrica. Inoltre nel 1846 fuscoperto Nettuno. Nell’elettrodinamica Joule codificò la legge dell’energia elettrica (1841).Nacque e si sviluppò la termodinamica in base alla quale un fenomeno tradizionalmenteconsiderato qualitativo, e pertanto irriducibile al meccanicismo, fu ricondotto almovimento di particelle materiali e alla spiegazione matematico-quantitativa. In chimicafu realizzata la prima sintesi di laboratorio di una sostanza organica, l’acetilene. Inbiologia, la scoperta della cellula - considerata l’equivalente organico dell’atomo - e della

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funzione glicogena del fegato permisero di assimilare il funzionamento di un organismovivente complesso, corpo umano compreso, a quello di una macchina che brucia energia eda questa combustione trae il suo movimento. Soprattutto la biologia, scienza anch’essaconsiderata qualitativa e legata a paradigmi tradizionali di tipo vitalistico, fu conquistatadal paradigma meccanicistico grazie alla teoria dell’evoluzione di Darwin (1859). Questateoria produsse nell’800 lo stesso effetto di sconvolgimento culturale di quella copernicananel 1500, mettendo in crisi soprattutto le teorie religiose dell’origine del mondo edell’uomo ma più in generale tutte le visioni tradizionali della realtà. Non paga dellapressoché totale conquista del vasto territorio delle scienze naturali, il paradigmameccanicistico mosse all’invasione dei territori delle scienze umane (psicologia,antropologia, sociologia, storia), tradizionali appannaggi della letteratura, dell’arte, dellafilosofia.Sulla base di questi successi, dell’estensione del metodo della ricerca collettiva, dei nuovimezzi di comunicazione, dell’incremento della produzione editoriale si venne formandoper la prima volta una vera e propria comunità scientifica europea e perfino mondiale.Tuttavia, proprio il grande sviluppo della ricerca scientifica a tutti i livelli portò allascoperta delle prime anomalie, cioè di fatti sperimentali o teorie in contrasto con ilparadigma meccanicistico, preludio della sua successiva crisi. In campo matematico,vennero scoperte, ampliate e sempre più accreditate le geometrie non-euclidee che miseroin crisi l’univocità e l’oggettività della concezione euclidea dello spazio fondamento di tuttala fisica. Ma soprattutto in campo fisico, e segnatamente in quello della termodinamica, lascoperta del principio di entropia (1850), secondo il quale il calore passa sempre dai corpipiù caldi a quelli più freddi, mise in discussione il principio di reversibilità fisica corollarionecessario del paradigma meccanicistico.

Tra romanticismo e positivismoMentre la cultura romantica proseguiva la sua parabola, toccando il suo culmine per poicominciare a declinare, nacque e si sviluppò la nuova tendenza culturale positivistica,destinata a diventare egemone negli ultimi decenni dell’800 e a trasformarsi in mentalitàcomune diffusa in tutte le nuove classi sociali, non solo quella borghese ma anche quellaproletaria. In questo modo romanticismo e positivismo si sovrapposero cronologicamenteper alcuni decenni sulla base di rapporti di contrapposizione ma anche di reciprocacontaminazione.Sul piano politico la cultura romantica alimentò inizialmente un filone reazionario chepropugnava la restaurazione dell’assolutismo cattolico sulla base dell’idealizzazione dellasua tradizione storica. In una seconda fase, però, il romanticismo si abbinò e si associòstrettamente al filone politico democratico e nazionale, trovando il punto di contatto neivalori della libertà dei popoli e del progresso storico. In questo modo esso infuse aimovimenti democratici un senso messianico e uno slancio eroico che contribuirono allaloro diffusione e al loro attivismo.Il positivismo, invece, nacque e si sviluppò in continuità con l’illuminismo, e quindi inaperta rottura con il romanticismo. Per i positivisti infatti vi era un’unica realtà, quellafisica, materiale, tangibile, conoscibile solamente in base all’esperienza e all’indaginescientifica concepita secondo il modello della fisica meccanica. Al rigetto della metafisica ealla riduzione della filosofia all’epistemologia facevano seguito l’esaltazione dei progressidella scienza e della tecnica.A livello politico, il positivismo non si abbinò né a progetti politici reazionari né a progettipolitici rivoluzionari, ma espresse un progetto di stabilizzazione moderata basato, peralcuni, sul controllo tecnocratico dei conflitti sociali e politici attraverso un ampiointervento dello Stato, per altri, sull’assecondamento della spontanea dinamica economico-sociale ritenuta capace da sola di superare i suoi squilibri. Accomunava entrambi i filoni

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politici positivisti la ferrea convinzione che la civiltà europea fosse entrata nella fase finaledi un progresso storico inarrestabile ed irreversibile. In questo senso, il positivismo, trannealcune eccezioni, in qualche modo partecipò della cultura romantica, in quanto, seppure inchiave materialistica, ne mutuò l’afflato assolutistico.Nel periodo centrale dell’800 la letteratura romantica si sviluppò raggiungendo la suamaturità. Ne furono esempi emblematici nella letteratura inglese Oliver Twist (1839) eDavid Copperfield (1850) di Dickens, che innovarono la tradizione dei romanzi diformazione in senso più realistico sullo sfondo sociale della I rivoluzione industrialeinglese; Cime tempestose (1947) di Emily Bronte, forse l’esempio più passionale e visceraledella concezione romantica dell’amore; nella nuova letteratura americana Racconti (1845)di Poe, che spaziano dall’avventuroso al gotico, Moby Dick (1851), allegoria della vana mainevitabile lotta dell’uomo per superare i proprio limiti, La lettera scarlatta (1851) diHawthorne, storia di un tragico amore adulterino nel contesto storico delle primecomunità puritane del New England; nella letteratura francese i grandi romanzi storici diHugo, tra cui spicca I miserabili (1862), storia della redenzione umana di un ex galeotto, edi Dumas (I tre moschettieri, 1844, Il conte Montecristo, 1845-6), nonché La certosa diParma (1839) di Stendhal, un’altra paradigmatica storia d’amore romantico, tantostruggente quanto impossibile; infine nella letteratura russa con i Racconti di Pietroburgo(1842) di Gogol, che col suo interesse per le situazioni di degradazione sociale e moraleanticipa il successivo realismo.Per quanto molti dei romanzieri tardoromantici avessero già adottato, almenoparzialmente, moduli realistici, intorno alla metà dell’800 si affermò un nuovo tipo di“realismo”, che connetté, senza soluzioni di continuità, il romanzo romantico a quellonaturalistico del 2° Ottocento. Il realismo ottocentesco ebbe la sua origine in Francia conBalzac (La commedia umana, 1842), che già si basa sull’assunto di un’analogia traorganizzazione animale e società umana, e Flaubert (Madame Bovary, 1851-7), fine analisisociologica e psicologica della condizione femminile, ma si estese all’Inghilterra conTacherary (La fiera delle vanità, 1847-8), superbo entomologo dei nuovi protagonisticompetitivi e arrivisti della società inglese, alla Russia con Turgenev (Memorie di uncacciatore, 1852), che denunciò la miseria e l’oppressione dei servi della gleba, e conTolstoj che nel grande romanzo storico Guerra e pace (1863-69) dipinse un grandiosoaffresco delle guerre napoleoniche e della società russa. Esempio di realismo fu in ItaliaNievo con Le confessioni di un italiano (1858), romanzo di formazione storico-psicologicolegato alle vicende risorgimentali, che fece da ponte tra il romanzo romantico di Manzoni equello verista di Verga.Nell’ultimo periodo dell’800 nacque il “naturalismo”, una nuova forma di realismo che,facendo propria la cultura positivistica, si propose di dare una descrizione scientifica, cioèdistaccata e oggettiva, della realtà sia a livello sociologico sia a livello psicologico,assumendo come temi privilegiati la condizione della nuova classe proletaria e le sue lottesindacali e politiche. Anche il naturalismo nacque in Francia grazie soprattutto all’opera diZola, tra cui Teresa Raquin (1867) ma soprattutto Germinale (1885), che racconta lacondizione e le lotte dei minatori francesi. Dalla Francia il naturalismo si diffuse in tuttaEuropa: in Germania con Hauptmann (La fabbrica tessile, 1892) e Fontane (Effi Briest,1895, sul tema della condizione femminile); in Italia, dove assunse il nome di Verismo, conVerga, che in I Malavoglia (1881) raccontò la storia di una famiglia di pescatori sicilianiche tenta vanamente di uscire dalla miseria; infine alla penisola scandinava con i drammidi Ibsen (Casa di bambola, 1879, che sostenne la causa dell’emancipazione della donna) eStrindberg (Il padre, 1887, sulla predestinata sconfitta dell’uomo a opera della superioritànaturale della donna).Nella poesia, il periodo si apre in Italia con I canti (1831) di Leopardi, uno dei vertici dellapoesia romantica, di cui esprime il conflitto insuperabile tra la finitezza umana e il suo

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inappagabile bisogno d’infinito. Espressione della transizione dal romanticismo alrealismo è Carducci che in A Satana (1863) assunse un tema tipicamente positivista – ilprogresso tecnico simboleggiato dalla locomotiva a vapore – svolgendolo nei toniappassionati del romanticismo. Ma il caso poetico più significativo fu quello di Baudelaireche in Fleurs du Mal (1857) cantò il satanismo, il macabro, la sensualità nonché le segrete“corrispondenze” tra i sentimenti poetici e l’essenza nascosta della realtà. Baudelaire,insieme al suo discepolo Mallarmé (L’Après-midi d’un faune, 1865), furono assunti tra lafine dell’800 e l’inizio del ‘900 come modelli dalla nuova corrente poetica del“simbolismo”, che fu parte del più vasto fenomeno letterario del decadentismo. In questosenso nel secondo ‘800 si verificò una divisione tra il romanzo, che aderì alla culturapositivistica, e la poesia che al contrario, sviluppando temi romantici, anticipa il rigetto delpositivismo del primo ‘900.Anche le arti visive furono caratterizzate da un analogo dualismo di poetiche. Infatti, dopoulteriori sviluppi del romanticismo con il preraffaellismo, nato a Londra nel 1848, leesperienze neogotiche di Ruskin e Morris, e il purismo italiano – caratterizzati dal ritornoallo stile e ai soggetti medievali -, la pittura ottocentesca si divise tra l’impressionismo,vicino alla cultura positivistica, e il simbolismo, decisamente antipositivistico. La correnteimpressionista (Monet, Manet, Pissarro, Renoir, Sisley, Degas) praticò una nuova forma direalismo, basata sulla rappresentazione della natura o di aspetti della vita quotidianadell’uomo (bagnanti, ballerine, clienti di caffè e ristoranti) così come essi appaionoall’occhio del pittore in un determinato istante di una determinata giornata, caratterizzatopertanto da una luce e quindi da colori del tutto specifici. Al contrario la correntesimbolista (Moreau, Redon, Gauguin), seguendo i canoni del simbolismo poetico, rifiutò ilrealismo per dedicarsi alla rappresentazione del sogno, del mito, o di ambienti naturali eumani esotico-primitivi.In musica, a partire dal soggettivismo di Beethoven, il romanticismo dominò incontrastatotutto l’800. Sulla base del comune denominatore costituito dall’amore per la natura e dalsenso del mistero, il romanticismo musicale si articola in un filone intimistico, proprio diSchubert, Schumann e Chopin, e in un filone improntato al titanismo, cui appartengonoBerlioz, Liszt, Brahms, Verdi e Wagner. In quest’ultimo, in particolare, confluiscono e sonoportati alle estreme conseguenze, nei loro pregi quanto nei loro difetti, tutte le forme e lecaratteristiche della musica romantica. La musica di Wagner è stilisticamente legata allaricerca del “dramma totale” capace di fondere poesia, musica, recitazione, danza escenografia (architettura, pittura, scultura) e basata sull’intreccio dei Leitmotiven (motiviguida), cioè su melodie ricorrenti che rappresentano diversi personaggi o forze.Filosoficamente essa è invece imperniata sullo scontro tra il principio naturale dell’eros,che costituisce l’Assoluto, e il principio egoistico e artificiale del possesso materiale, comesi evidenzia nella tetralogia L’anello dei Nibelunghi (1848-1874). La scuola russa diRimskij-Korsakov e Musorgskij praticò invece un romanticismo nazionale legato allatradizione della musica popolare russa.Dunque, mentre nella prima metà dell’800, la produzione artistico-culturale europearisultò omogenea grazie alla comune impronta romantica, nella seconda metà del secolol’affermazione del positivismo a livello scientifico e filosofico si tradusse in una spaccaturatra la produzione letteraria di romanzi e pittorico-impressionista, che si fanno veicoli dellacultura positivistica, da un lato, e la produzione poetica, musicale e pittorico-simbolista,dall’altro, che invece si contrappose alla cultura positivistica. Ma mentre il filone artistico-culturale di stampo positivistico si caratterizzò come una cultura di massa capace diinfluenzare tutte le classi sociali, dall’alta borghesia imprenditoriale al proletariato, quellodi stampo antipositivistico fu decisamente minoritario e in questo senso divenneespressione di un’élite intellettuale di matrice piccolo-borghese che tendeva aautoidealizzarsi per autopromuoversi socialmente utilizzando gli argomenti e lo stile

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antiborghesi e antiproletari che tradizionalmente connotavano l’aristocrazia. Da questopunto di vista, la dinamica culturale ottocentesca appare strettamente legata all’estensionee alla radicalizzazione del processo di laicizzazione e borghesizzazione del cetointellettuale, avviato tra fine ‘700 e primo ‘800, e in particolare al notevole aumento degliintellettuali di origine piccolo-borghese. Si può anzi dire che a partire dalla fine del secolola produzione artistico-culturale e più in generale l’attività intellettuale divennero unappannaggio e insieme il principale strumento di ascesa economico-sociale della piccolaborghesia.

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ROTTA AL’IDEALISMO NEGATIVO

Arthur Schopenhauer, connazionale e contemporaneo di Schelling ed Hegel, rientra apieno titolo nella tendenza - di orgine romantica - della filosofia tedesca a riformare e asviluppare il criticismo di Kant in senso idealistico. Nonostante la sua aspra polemica congli idealisti tedeschi, Schopenhauer condivide infatti la loro esigenza del sistemametafisico e la loro critica alla tesi kantiana dell’inconoscibilità della cosa in sé. Numerosisono inoltre nel suo sistema filosofico gli elementi mutuati dalla tradizione idealistica(Platone, Plotino, Berkeley) e dagli stessi idealisti tedeschi: lo sforzo (streben) di Fichte, lanatura di Schelling, l’autocoscienza di Hegel.Tuttavia Schopenhauer - ispirandosi anche alla tradizione religiosa indiana e allognosticismo - si differenzia nettamente dall’idealismo tedesco perché sostituisce ilprincipio soggettivo, razionale e positivo, dell’Io o dello Spirito con un principioimpersonale, irrazionale e negativo: la volontà. Di conseguenza mentre l’idealismotedesco si risolve nell’esaltazione della realtà immanente, la metafisica della volontà diSchopenhauer giunge a una netta condanna del mondo e della vita.In questo senso nel corso dell’800 la filosofia di Schopenhauer inaugura quella correnteantirazionalistica e drasticamente critica nei confronti della società europea che avrà ilsuo seguito in Kierkegaard e Nietzsche; e nel ‘900 diventerà uno dei riferimentiprivilegiati dell’esistenzialismo e più in generale del cosiddetto pensiero negativo.

Schopenhauer nacque nel 1788 a Danzica, che in quel momento era una città libera emultietnica, ma che solo cinque anni dopo fu inglobata nel regno di Prussia. I genitori diSchopenhauer erano di nazionalità tedesca: il padre era un ricco e colto mercante di ideerepubblicane e cosmopolitiche, che nel 1793 trasferì tutta la famiglia ad Amburgo persfuggire al governo prussiano e che si suicidò nel 1805; la madre era una donna di vastacultura e di temperamento artistico, che dopo la morte del marito si trasferì a Weimar dovedivenne scrittrice di romanzi e animatrice di un salotto frequentato, tra gli altri, da Goethe,dai fratelli Schlegel e dall’orientalista Friedrich Majer.Schopenhauer, dunque, ebbe fin dall’infanzia una formazione culturale aperta ecosmopolitica che a partire dai nove anni poté approfondire, per volontà del padre, incontinui soggiorni all’estero (Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Austria).Egli imparò così il francese e l’inglese, studiandone al contempo le rispettive letterature.Dopo aver compiuto studi superiori di indirizzo prevalentemente commerciale, nel 1805 siimpiegò come tirocinante presso una ditta amburghese. Nel 1807 abbandonò il lavoro eintraprese gli studi classici trasferendosi a Weimar, ma abitando separatamente dallamadre. Nel 1809 si iscrisse alla facoltà di medicina di Gottinga, dove studiò le scienzenaturali. La frequentazione dei corsi di psicologia e metafisica di Schulze lo portò adabbandonare la medicina per iscriversi alla facoltà di filosofia. Studiò Leibniz, Wolff,Hume, Berkeley, Jacobi, ma soprattutto Platone e Kant. Nel 1811 andò a Berlino e seguì lelezioni di Fichte, che però lo delusero. Si dedicò allora nuovamente agli studi scientifici,approfondendo le più recenti teorie e studiando la filosofia della natura di Schelling.In seguito allo scoppio della guerra con la Francia napoleonica, Schopenhauer nel 1813abbandonò Berlino e si stabilì a Rudolstadt, dove scrisse il trattato La quadruplice radicedel principio di ragione sufficiente, che pubblicò nello stesso anno e grazie al qualeottenne la laurea in filosofia dall’università di Jena.

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Alla fine del 1813 Schopenhauer tornò a Weimar, dove collaborò con Goethe allaelaborazione della sua “teoria dei colori”, ma soprattutto, su suggerimento di Majer, lessele Upanishad e studiò le dottrine filosofico-religiose indiane. Trasferitosi a Dresda, iniziòla stesura della sua opera decisiva, Il mondo come volontà e rappresentazione, che uscì neldicembre del 1818 ma con la data del 1819.La prima edizione del Mondo non ebbe alcun successo e la maggior parte delle copiefinirono al macero. Anche le recensioni critiche furono poche e prevalentemente negative.Schopenhauer sfogò la delusione in un lungo viaggio in Italia durante il quale approfondìla sua conoscenza della letteratura italiana e visse una storia d’amore con una nobildonnaveneziana. Tornato in Germania, nel 1820 si trasferì a Berlino e iniziò l’insegnamentocome libero docente nell’università in cui imperava Hegel, con il quale ebbe subito unoscontro accademico e di cui subì pesantemente la concorrenza, tanto che i suoi corsirimasero per anni quasi deserti. Su Hegel Schopenhauer lasciò taglienti apprezzamenti,tacciandolo di essere un “ciarlatano di mente ottusa”, un “accademico mercenario” eaddirittura un “sicario della verità” al soldo del regime prussiano.Dopo aver alternato per undici anni insegnamento universitario, nuovi viaggi in Italia e inGermania, e nuovi studi filosofici e letterari - apprendendo lo spagnolo e approfondendo laletteratura ispanica - nel 1831 in seguito all’epidemia di colera, che avrebbe causato lamorte di Hegel, fuggì da Berlino e si stabilì a Francoforte, dove scrisse il trattato scientificoSulla volontà della natura (1836), in cui espose le prove scientifiche della sua visione delmondo. Nel 1839 ricevette il primo riconoscimento ufficiale: vinse infatti il concorsobandito dalla Reale società delle scienze della Norvegia con il saggio Libertà del volereumano, in cui sostiene la determinazione naturale dell’agire dell’uomo nel mondofenomenico. Nel 1844 pubblicò la seconda edizione del Mondo come volontà erappresentazione, aggiungendovi cinquanta capitoletti intitolati Supplementi checommentano e sviluppano le tesi fondamentali del testo del 1818. Ma anche la nuovaedizione della sua opera fondamentale non ebbe successo. Solo nel 1851, con lapubblicazione di Parerga e Paralipomena, una versione divulgativa e sintetica del Mondo,Schopenhauer ottenne finalmente il sospirato successo, soprattutto in Inghilterra.Contemporaneamente, i suoi discepoli aumentarono di numero e di levatura culturale esociale. Nel 1858, proseguendo instancabilmente le sue letture, lesse Leopardi e inparticolare le Operette morali e i Pensieri. Morì di polmonite a Francoforte nel 1860.

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TAPPA 1SCHOPENHAUER: IL MONDO E’ UN’ILLUSIONE UNIVERSALE

Infine, chi ha ben penetrato la forma speciale del principio di ragionsufficiente7 che regge il contenuto delle forme precedenti, tempo e spazio, (...)ha con ciò stesso colto per intero l’essenza della materia come tale, nonessendo la materia che mera causalità (...). L’essenza della materia è infatti ilsuo agire, il suo produrre effetti (...) Soltanto con l’azione la materia riempielo spazio e il tempo. La sua azione sull’oggetto immediato8 (esso stessomateriale) è condizione indispensabile della percezione, senza la quale nonpuò esistere la materia; l’azione poi di un qualsiasi oggetto materiale su di unaltro può essere conosciuta solo in quanto quest’ultimo agisce a sua voltasull’oggetto immediato (...) Causa ed effetto: ecco dunque tutta l’essenza dellamateria: il suo essere consiste unicamente nel suo produrre effetti.

Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, libro 1, § 4

“Il mondo è una mia rappresentazione”, è la lapidaria premessa della filosofia diSchopenhauer. Essa attesta che qualsiasi oggetto esiste perché è percepito da un soggetto.In altri termini, sostiene a mo’ d’esempio Schopenhauer, noi non conosciamo il Sole o laTerra come tali, ma conosciamo un occhio che guarda il Sole o una mano che tocca laTerra. Ciò significa che la relazione tra soggetto e oggetto è la condizione costitutiva delmondo.

Secondo Schopenhauer, le rappresentazioni in cui il mondo consiste possono essere di duetipi:a) intuitive,b) astratte.Le prime si basano sull’esperienza, le seconde coincidono con i concetti. Lerappresentazioni intuitive sono costituite da tre forme a priori, cioè proprie del soggetto eindipendenti da ogni esperienza: il tempo, lo spazio e la causalità. L’essenza del tempo èper Schopenhauer la successione degli istanti; quella dello spazio la posizione di ogni suaparte rispetto alle altre. La causalità costituisce il contenuto e insieme la sintesi delle formea priori dello spazio e del tempo.Schopenhauer afferma infatti che spazio e tempo, sebbene possano essere intuiti dalsoggetto anche separatamente, in rapporto alla causalità non sono mai indipendenti, masempre relativi l’uno all’altro. Infatti né la sola coesistenza nello spazio, né la solasuccessione di eventi sono sufficienti a configurare una relazione di causa ed effetto, masolo la loro presenza simultanea e il loro reciproco riferimento.

Su queste basi Schopenhauer può sostenere che la materia è una manifestazione delrapporto di causa ed effetto, cioè di una forma a priori della ragione umana. In altre paroleper Schopenhauer la sensazione della consistenza materiale degli oggetti non è che unanostra rappresentazione mentale prodotta dalla forma a priori della causalità.Infatti noi non possiamo rappresentarci il rapporto tra l’oggetto-causa e l’oggetto-effettoche come contatto materiale tra parti estese. Viceversa l’urto fisico tra due corpi non è altroche la raffigurazione sensibile della relazione causale che lega l’uno all’altro. Per esempio,se la mia mano muovendosi urta un libro, la mia sensazione della relativa durezza del libro,

7 E’ il principio su cui per Leibniz si fondano le “verità di fatto”. Esso corrisponde alla relazione logica “se p allora q”che indica appunto che il fatto “p” è la ragione sufficiente a spiegare l’evento “q”.8 Il corpo umano in quanto, a differenza dei corpi esterni, è percepito direttamente dal soggetto percepiente.

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per Schopenhauer, non è che il mio modo di raffigurarmi sensibilmente la relazionementale di causa ed effetto tra il libro e la mia mano.

La conoscenza intuitiva, secondo Schopenhauer, ha la sua origine nella modificazione delcorpo da parte dell’oggetto, cioè nella sensazione. La sensazione, però, opera solo unordinamento spazio-temporale e fornisce solo dei dati grezzi, privi di significato. Con essinon è possibile arrivare a una vera intuizione, ma unicamente a una confusa percezione dimutamenti corporei quale quella che può avere un vegetale. Solo l’intervento dell’intelletto, che stabilisce i nessi di causa ed effetto, dà un significatoalle sensazioni e permette di giungere a una chiara rappresentazione del mondo. Perquesto, afferma Schopenhauer, non ci può essere alcuna separazione tra sensibilità eintelletto.

La rappresentazione astratta è per Schopenhauer un prodotto della ragione, intesa come lafacoltà che produce i concetti. Essa sta a quella intuitiva, sostiene Schopenhauer, come laLuna al Sole, ovvero riceve tutto il suo contenuto dall’intuizione. E infatti l’attività con laquale la ragione produce è chiamata da Schopenhauer “riflessione”, perché essenzialmenteconsiste appunto nel riflettere l’intuizione.Il concetto è dunque per Schopenhauer una rappresentazione di una rappresentazione,cioè la copia astratta e universale di un’intuizione. La sua universalità, però, non sicostruisce filtrando gli aspetti comuni di una pluralità di rappresentazioni intuitive.Al contrario per Schopenhauer il concetto può unificare una molteplicità dirappresentazioni intuitive in quanto è originariamente dotato di universalità. Infatti inquanto rappresentazione di rappresentazione il concetto non è determinato dallaparticolarità propria dell’intuizione sensibile e dunque è in sé stesso universale.

La realtà è dunque per Schopenhauer una costruzione della mente, anzi del cervello stessodell’uomo. La nostra conoscenza del mondo ha la stessa consistenza di un sogno notturno ese ne differenzia solo perché è un sogno universale e necessario, cioè identico e vincolanteper tutti gli uomini. Per questo Schopenhauer afferma che l’idealismo è l’unica filosofiapossibile e si richiama a Platone, a Berkeley e allo stesso Kant, da lui considerato l’ultimo eil massimo esponente dell’idealismo.Schopenhauer però distingue nettamente l’idealismo autentico da quello di Fichte,Schelling ed Hegel, da lui considerato un falso idealismo, in quanto per lui il mondo non èuna produzione dell’Io o dello Spirito, cioè di un soggetto assoluto. La rappresentazioneinfatti è unità indissolubile di soggetto ed oggetto, e dunque l’oggetto è costituito dalsoggetto, tanto quanto il soggetto lo è dall’oggetto. In questo senso i falsi idealisticommettono un errore uguale e contrario a quello dei realisti o materialisti: mentre i primiconsiderano il soggetto causa dell’oggetto, i secondi reputano l’oggetto causa del soggetto.Entrambi sbagliano, seppure in direzioni opposte.In conclusione vi deve essere, secondo Schopenhauer, un altro principio, al di là dellarelazione tra soggetto e oggetto, che sia origine di questa relazione stessa e insieme delmondo come rappresentazione.

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TAPPA 2SCHOPENHAUER: IL PROPRIO CORPO COME VOLONTA’

Al soggetto conoscente che deve la sua individuazione all’identità con il proprio corpo, talecorpo è dato in due maniere affatto diverse: da un lato come rappresentazione intuitivadell’intelletto, come oggetto fra oggetti, sottostante alle loro leggi; ma contemporaneamente èdato anche come qualcosa di immediatamente conosciuto da ciascuno, e che viene designatocol nome di volontà.

Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cap. 2, § 18

La conoscenza razionale, che ha la sua più alta realizzazione nella scienza moderna, perSchopenhauer incontra dappertutto limiti insuperabili. Il progresso scientifico hacertamente portato alla scoperta delle forze naturali - dalla gravità al magnetismo eall’elettricità - ma esse per Schopenhauer rimangono qualitates occultae, cioè proprietàmisteriose della natura, in quanto la scienza non è in grado di scoprirne l’origine el’essenza.L’uomo, invece, secondo Schopenhauer, conosce non tanto per avere un sistema ordinato ecoerente di rappresentazioni superficiali, ma soprattutto per comprendere il senso delmondo. La ragione scientifica, in questa prospettiva, ha il valore di suscitare una domandametafisica – quali l’essenza e il senso dell’universo? - che però non può ricevere risposta alsuo interno. La scienza deve dunque cedere il passo alla filosofia.

Solo la filosofia, secondo Schopenhauer, è in grado di scoprire quali sono l’essenza e ilsenso dei fenomeni naturali. Ciò le è consentito perché il filosofo, a differenza delloscienziato, utilizza la ragione pratica. In altri termini, mentre lo scienziato usa la ragioneteorica per indagare oggetti esterni al fine di scoprirne le leggi universali, il filosofo rivolgel’indagine razionale su se stesso al fine di scoprire le leggi del proprio agire, del propriocomportamento pratico.Ma il se stesso che il filosofo deve indagare attraverso la ragione pratica non è perSchopenhauer l’io trascendentale, bensì il proprio corpo. Questo a sua volta non va intesosemplicemente come insieme di ossa, muscoli, organi, ecc., ma come un’unitàpsicosomatica, cioè come una fusione di elementi fisiologici e di elementi psicologici, qualiistinti, pulsioni, attitudini, carattere. Cioè come un processo dinamico, come un’attivitàperenne.

Il corpo così inteso, secondo Schopenhauer, può svelare la verità sull’essenza del mondo.Ma perché tale disvelamento si attui, il corpo non deve essere considerato come un oggettonaturale, in modo obiettivo e distaccato, così come accade per esempio nella scienzamedica. Esso deve invece essere intuito nella sua immediatezza pratica, deve essere coltocosì come immediatamente si manifesta nel mio comportamento quotidiano. Il corpoallora mi si manifesta, sostiene Schopenhauer, come un flusso perenne di impulsi, bisogni,desideri - di mangiare, di bere, di dormire, di godimento sessuale, ecc. - e come una seriecontinua di azioni volte a soddisfarli. In questo modo, per Schopenhauer, il corpo mi sisvela come “volontà di vivere”.La “volontà”, nel senso impersonale di pulsione di vita, è dunque l’essenza del mio corpo.Essa, precisa Schopenhauer, non va divisa dai miei comportamenti e intesa così comecausa delle mie azioni di bere, mangiare, ecc. Il rapporto di causa ed effetto infatti riguardasolo il corpo come oggetto, non inerisce al corpo come volontà.In altre parole, l’azione del corpo e la volontà coincidono, la volontà è tutt’uno con ilbisogno perentorio di mangiare e con l’atto che lo soddisfa e i comportamenti del corponon sono effetti della volontà, ma volontà materializzata in atto.

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In questo senso Schopenhauer sostiene che ogni organo del corpo è l’oggettivazione di unaspetto della volontà: per esempio, l’apparato digerente è fame oggettivata, gli organigenitali istinto sessuale oggettivato, e così via.

La volontà scoperta nel proprio corpo ha un carattere individuale, è solo la “mia” volontà.Però, sostiene Schopenhauer, una volta scoperta nel proprio corpo, essa può esserericonosciuta per analogia nel corpo degli altri uomini e quindi in tutte le cose: nella forzache fa crescere le piante, in quella che struttura un cristallo, in quella che sposta l’agocalamitato a Nord, perfino nell’attrazione gravitazionale.Questa generalizzazione non viene proposta da Schopenhauer come una tesi certa macome la più attendibile delle ipotesi possibili. Tuttavia, il suo valore congetturale èsufficiente a sostenere e a persuaderci che la volontà è il principio metafisico di tutta larealtà sensibile, la “cosa in sé” di cui il mondo come rappresentazione altro non è che laproiezione illusoria.

La volontà è in sé assolutamente unica. Infatti il principium individuationis - che dàorigine alla molteplicità di tutti gli esseri naturali - è un prodotto dello spazio e del tempocui la volontà non sottostà, in quanto ne è il fondamento. Ma la volontà per Schopenhauernon si manifesta immediatamente negli esseri individuali e nei singoli fenomeni bensì sioggettiva attraverso la mediazione delle forze naturali generali: gravità, solidità, fluidità,elettricità, magnetismo, chimismo.Tali forze sono il corrispettivo reale, secondo Schopenhauer, delle idee di Platone. Comel’idea platonica, ogni forza naturale è unica, immutabile, eterna e rappresenta un certogrado di una scala gerarchica ascendente che comincia dal mondo inorganico e culminanella specie umana. Filtrando attraverso il prisma del tempo e dello spazio ogni idea siscinde e si fraziona nella molteplicità dei singoli esseri e fenomeni naturali.In questo quadro, la causalità rappresenta il criterio di ordinamento in base al quale ifenomeni naturali si producono. Ma le cause naturali, per Schopenhauer, sono sempre esolo occasionali, in quanto non sono il vero fondamento del fenomeno ma solo imezzi/modi attraverso i quali la volontà agisce e si manifesta nel mondo.

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TAPPA 3SCHOPENHAUER: LA VERITA’ DELL'ARTE

Quando, elevandosi con la forza dell'intelligenza, l'uomo abbandona lamaniera consueta di considerare le cose: quando cessa di cercare, alla luce delprincipio di ragion sufficiente9, le sole relazioni degli oggetti fra loro,relazioni che, in ultima analisi, non si risolvono che nella relazione di talioggetti con la nostra volontà; (...) quando riempie tutta la sua coscienza dellacontemplazione tranquilla di qualche oggetto naturale presente, paesaggio,albero, roccia, edificio, (...) e non sussiste più se non come soggetto puro,come limpido specchio dell'oggetto (...), allora ciò che viene conosciuto non èpiù la cosa particolare come tale, ma è invece l'idea, la forma eterna,l'oggettità immediata della volontà a quel dato grado; e colui che è rapito intale contemplazione non è più individuo (...), ma assurge a soggettoconoscente puro, a soggetto che è di là del dolore, di là dalla volontà, di là daltempo.

Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, libro 3, § 34

L’indagine scientifica del mondo e l’indagine filosofica del corpo come insieme di azioni efunzioni non esauriscono per Schopenhauer le possibilità di conoscenza della realtà.L’uomo può conoscere la realtà anche adottando un atteggiamento estetico, cioèconcentrandosi unicamente sulla sua bellezza. In questo modo il mondo viene conosciutoin modo puramente contemplativo, cioè in modo del tutto disinteressato, non utilitaristico.P.e., quando sono rapito dalla bellezza della corsa di uno stambecco, non lo considero piùcome un animale da cacciare per alimentarmi. In altre parole, quando un individuo provail godimento estetico nella visione di un bell’oggetto, secondo Schopenhauer, smette didesiderare fisiologicamente quell’oggetto e di agire scientificamente e praticamente perimpossessarsene e servirsene. Ma ciò significa che la contemplazione estetica addormentail mio volere, neutralizza e interrompe la volontà di vita che il mio corpo è - e con essaanche la rappresentazione illusoria del mondo dal momento che questa è una una funzionedel volere.

Di conseguenza nella conoscenza estetica, sostiene Schopenhauer, ogni cosa si manifestafuori dello spazio, del tempo e della causalità, ovvero come l’idea di cui la cosa rappresentauna oggettivazione individuale. Per questo nell’arte ogni cosa è bella, come secondoSchopenhauer è provato dalle nature morte dei pittori fiamminghi che pure riproduconooggetti quotidiani del tutto banali e perfino repellenti.Ciò non significa però che si debba attribuire a ogni cosa lo stesso valore estetico. Glioggetti riprodotti nell’opera d’arte, infatti, hanno diversi gradi di bellezza, a seconda dellaloro capacità di indurre nell’uomo un atteggiamento puramente contemplativo. In questosenso, il massimo livello di bellezza dell’oggetto artistico obbliga l’uomo all'atteggiamentocontemplativo, glielo impone in modo necessario. Due sono le condizioni, affermaSchopenhauer, del carattere cogente della bellezza artistica:a) l'oggetto rappresentato deve esprimere con esattezza l'idea della sua specie;b) l'idea che l'oggetto esprime deve appartenere a un grado elevato dell'oggettivazione della

volontà.

9 E’ il principio che si traduce nelle tre forme a priori (spazio, tempo, causalità) che per Schopenhauer costituiscono laconoscenza razionale di tipo scientifico.

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Sulla base di questi due criteri Schopenhauer fonda la superiorità del bello artistico suquello naturale e stabilisce una classificazione gerarchica delle arti.

Come le idee, così anche le arti, in quanto le rispecchiano, hanno un ordine gerarchicoascendente. L'architettura esprime il grado più basso dell'oggettivazione della volontà, cioèla forza di gravità. L'essenza artistica dell'architettura, per Schopenhauer, consiste infattinell'offrire una manifestazione "per vie traverse" della gravità giocando sul contrasto traslancio e pesantezza.Sopra l’architettura, si collocano, secondo Schopenhauer, la pittura e la scultura deglianimali, ma soprattutto dell'uomo, in quanto la specie umana è l'oggettivazione naturale dipiù alto grado della volontà. A sua volta la poesia è superiore a pittura e scultura in quantoesprime le idee nella loro purezza razionale ma in forma intuitiva, trasformando i concettiuniversali in immagini. Essa rispecchia tutti i gradi di oggettivazione della volontà, masoprattutto l'uomo nelle sue aspirazioni e nelle sue azioni. In questo senso il vertice dellapoesia è la tragedia perché rappresenta la lotta perenne che contrappone gli uominisvelando così il carattere strutturalmente conflittuale della volontà.

L'arte suprema, secondo Schopenhauer, è però la musica. Essa raggiunge il massimo gradodi bellezza perché non manifesta le idee, ma la volontà in quanto tale, e in modo più ampioe con una evidenza molto maggiore della tragedia.La musica è infatti una copia di incomparabile esattezza della volontà e questo spiegaperché può essere compresa da tutti. Essa è una oggettivazione immediata della volontàcosì come le idee e dunque possiede il loro stesso livello di perfezione. Per questo tra suonimusicali e idee intercorre per Schopenhauer un preciso rapporto di parallelismo:• i suoni più bassi corrispondono alle idee inferiori, quelle delle forze meccaniche;• i suoni più alti alle idee che ordinano il mondo vegetale e animale;• la melodia infine corrisponde all’idea più alta, quella dell'uomo.

Su queste basi, Schopenhauer può giungere a una decisiva conclusione: l’esperienzaestetica, soprattutto quella musicale, dà una conferma definitiva all’ipotesi della volontàcome principio unico di ogni cosa. Pertanto, tale congettura, emersa dall’indagine delproprio corpo e dall’analogia con gli altri corpi, passando attraverso l’esperienza artistica sitrasforma in una verità certa.

Per Schopenhauer l'artista non imita la natura. L’artista, infatti, in primo luogo selezionagli oggetti naturali che intende rappresentare nella sua opera. Solo presupponendo in luiun criterio a priori di bellezza, sostiene Schopenhauer, è possibile spiegare come possascegliere tra gli infiniti enti naturali i modelli della sua produzione artistica.In secondo luogo, continua Schopenhauer, il bello artistico si dimostra superiore a quellonaturale, in quanto rispecchia maggiormente le idee. Dunque, anche sotto questo aspetto,la nozione di bello non può essere fatta derivare dall'esperienza, ma dev'esserenecessariamente pensata come presente a priori nell'uomo.Non si tratta, però, sostiene Schopenhauer, di un a priori dello stesso tipo degli a prioridella conoscenza razionale: spazio, tempo, causalità. L’a priori artistico, infatti, nonriguarda solo la causalità, cioè le relazioni tra le cose, ma anche e soprattutto il contenutoessenziale degli enti naturali; il loro che sostanziale, non il loro mero come; ovvero ciò chedavvero ognuno di essi è, non solo come interagiscono tra loro.

Per Schopenhauer, però, il valore più importante dell’arte non consiste tanto nelpermettere all’uomo di conoscere la verità sulla sua condizione.

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Il suo valore è anche e soprattutto pratico: la contemplazione artistica sottrae l’uomo aldominio della volontà e dunque elimina il dolore proprio della condizione umana eindissolubilmente connesso alla volontà. Poiché però ha una durata limitata, lacontemplazione estetica costituisce solo un rimedio temporaneo del dolore esistenziale.

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TAPPA 4SCHOPENHAUER: LA VITA UMANA COME SOFFERENZA

Ad eccezione dell’uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza(...). La sua meraviglia è tanto più profonda, in quanto qui, per la prima volta,essa si trova coscientemente di fronte alla morte e in quanto, accanto allaconsapevolezza della finitudine di ogni esistenza, le si impone anche, con piùo meno forza, quella della vanità di qualsiasi aspirazione.

Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cap. 17

Ogni tendere nasce (...) da una privazione, da una scontentezza del propriostato; è dunque, finché non sia soddisfatto, un soffrire; ma nessunasoddisfazione è durevole; anzi, non è che il punto di partenza di un nuovotendere. Il tendere lo vediamo sempre impedito, sempre in lotta: è dunquesempre un soffrire; non c’è alcun fine ultimo al tendere: dunque nessunamisura e nessun fine al soffrire.

Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cap. 4, § 56

L’autoindagine che ogni individuo può condurre sul proprio corpo alla luce della suaragione pratica, l’estensione per analogia del suo risultato a tutti gli altri corpi, la confermadi tale risultato da parte della conoscenza estetica attestano al di là di ogni dubbio, perSchopenhauer, che ogni cosa è essenzialmente volontà di vivere.La volontà è così innalzata a principio unico, infinito, eterno, onnipotente, immateriale,assolutamente libero. In altre parole, Schopenhauer attribuisce alla volontà alcune dellecaratteristiche proprie di Dio. Ma allo stesso tempo ne rovescia completamente il valore dapositivo in negativo. La volontà, infatti, si configura come una forza totalmenteirrazionale, impersonale e inconscia, come un impulso cieco, senza scopi, senzagiustificazione, privo di senso. Essa infatti è mera brama di esistere fine a se stessa, inquanto l’unico scopo del suo volere è la sua stessa esistenza e nient’altro.

L’unico fine della volontà è dunque per Schopenhauer autoconservarsi, esistereeternamente e in tutti i modi possibili. L’immenso numero degli enti individuali in cui essasi oggettiva è solo il mezzo indispensabile a realizzare l’infinità della sua esistenza.Per questo motivo gli individui non hanno alcun valore in se stessi e quindi sono destinatia perire. La loro morte è infatti condizione necessaria per permettere la nascita di nuoviindividui e con essa la moltiplicazione e il proseguimento infiniti delle specie.In questo senso la morte individuale costituisce la manifestazione primaria del dolore edell’insensatezza costitutivi e irrimediabili dell’esistenza. Ciò nondimeno la morte è solo lacondizione generale delle altre innumerevoli forme della sofferenza esistenziale.

Infatti, anche se, per assurdo, non andasse incontro alla morte, l’esistenza individualesarebbe comunque segnata perennemente dal dolore. Esistere significa infatti perSchopenhauer volere, e volere significa desiderare. Ma ogni desiderio è uno sforzo diraggiungere qualcosa di cui si è privi. Il desiderio implica pertanto una triplice sofferenza:• quella insita nel presupposto dello sforzo, cioè nel bisogno come condizione di

mancanza di qualcosa;• quella propria dello sforzo in quanto tensione verso qualcosa d’altro da sé;• quella causata dagli ostacoli, naturali e umani, ovvero gli altri uomini come competitori,

che si oppongono allo sforzo prolungandolo e intensificandolo.Ma soprattutto, secondo Schopenhauer, vi è una sproporzione strutturale tra l’intensità e ilnumero dei desideri e le possibilità reali di soddisfarli tale per cui desiderare significa

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essere necessariamente insoddisfatti. Schopenhauer non nega l’esperienza del piacere, maafferma che il piacere non è qualcosa in sé, bensì è solo una modalità difettiva del dolore.Esso infatti non è altro che una momentanea attenuazione del dolore, cioè un minordolore, quanto basta a illudere gli individui che la vita sia piacevole per farli cosìcontinuare a vivere. Subito dopo ogni suo parziale soddisfacimento, il bisogno e quindi ildesiderio risorgono imperiosi come prima.Non solo, ma proprio il pur breve intervallo di appagamento tra il soddisfacimento di undesiderio e il suo riaccendersi è occupato da un male molto più doloroso dello stessobisogno: la noia. Per questo Schopenhauer paragona l’esistenza a un pendolo che oscillacontinuamente tra il dolore e la noia.

Il desiderio per eccellenza, superiore a tutti gli altri, è per Schopenhauer quello sessuale.Infatti, dal momento che la volontà ha come unico scopo la conservazione delle specie, lariproduzione è la funzione primaria degli esseri viventi.Per questo il desiderio sessuale è il più intenso dei desideri, l’affermazione più decisa dellavolontà di vivere. Ma esso non è altro che una riaffermazione del dolore e della morte, inquanto perpetua la condizione di sofferenza in nuovi individui. Ciò spiega, secondoSchopenhauer, perché ogni accoppiamento sessuale nell’uomo è accompagnato dallavergogna.

La legge del desiderio che domina ogni cosa esistente non comporta dolore soltanto sulpiano individuale. Come si è accennato, non appena consideriamo la dimensione sociale,cioè la relazione che ogni ente individuale intrattiene con un altro, scopriamo che daquesta deriva una dose aggiuntiva di sofferenza. La volontà infatti, secondo Schopenhauer,è unica ed è quindi totalmente presente in ogni cosa.Per questo ogni ente naturale vuole tutto per sé, vuole dominare su tutti gli altri eannientare chi gli si oppone. Inoltre negli esseri umani, ogni individuo considera l’altrosolo una rappresentazione, cioè una cosa in sua funzione, un oggetto dipendente da lui.Ogni uomo è dunque egocentrico e ciò comporta che il rapporto con gli altri sianecessariamente conflittuale. La società umana, come l’intera natura, è dunque una guerrapermanente di tutti contro tutti.

In questo quadro, si comprende pienamente la funzione della conoscenza sensibile maanche di quella razionale di tipo scientifico. Le rappresentazioni spazio-temporali e causalidella conoscenza sono prodotte dalla volontà e sono funzionali alla sua attuazione.Esse infatti costruiscono gli oggetti che suscitano i desideri umani e al contempoforniscono all’uomo i mezzi indispensabili a illuderlo di poterli soddisfare.

Rotte filosofiche&rotte scientificiheLA VOLONTA’ COME LIBIDOLa teoria della sessualità di Schopenhauer mostra significativi punti di contatto con la teoriapsicanalitica che Sigmund Freud elaborerà alla fine dell’800. Per Freud infatti il principiofondamentale dell’essere umano, alla base di tutti i suoi comportamenti, è la libido,un’energia inconscia di natura essenzialmente sessuale. Freud, però, da un lato considera lasessualità in un significato molto più ampio di cui la “genitalità” - cioè la sessualitàriproduttiva - è solo una modalità; dall’altro lato ritiene che i sentimenti di vergogna ad essalegati non siano naturali bensì un prodotto della repressione sessuale su cui si fonda la civiltà.

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TAPPA 5SCHOPENHAUER: LA VIA DELLA LIBERAZIONE DAL DOLORE

Nell’uomo la volontà può (...) arrivare a una piena coscienza di sé, ad unaconoscenza chiara ed esauriente del suo proprio essere quale si rispecchia nelmondo. (...) Ma, alla fine del nostro studio, vedremo che la stessa conoscenzaimpiegata dalla volontà come lume a se stessa, rende possibile alla volontàmedesima la propria soppressione e negazione: così la libertà (...) riesce ainsinuarsi nel mondo fenomenico e sopprimendo l’essenza di questo, mentrel’individuo continua a sussistere nel tempo, provoca un antagonismo delfenomeno con se stesso fino a creare così lo stato di santità e di abnegazione.

Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, libro 4°, § 55

Il dolore, sostiene Schopenhauer, è una realtà universale. Tutti gli enti naturali - minerali,vegetali, animali - soffrono il dominio della volontà. Il dolore però aumenta nella natura alcrescere del grado di manifestazione della volontà. L’uomo, in quanto capace diconoscenza razionale, è il più alto prodotto della volontà. Per questo l’uomo, secondoSchopenhauer, è l’essere che soffre maggiormente, dal momento che la conoscenza lorende più consapevole della tragicità e dell’insensatezza della vita.Ma proprio questo sovrappiù di dolore, dovuto alla conoscenza, è la condizione che puòpermettere all’uomo di sottrarsi alla schiavitù della volontà. Il compito della filosofia è perSchopenhauer aiutare l’uomo a realizzare questa possibilità. In altri termini la filosofia perlui non può avere un fine puramente conoscitivo, ma acquista un senso solo se si pone ilfine pratico della liberazione dell’uomo dal dolore.

Solo la volontà, in quanto “cosa in sé”, secondo Schopenhauer, è libera. Tutti i fenomenispazio-temporali sottostanno alla ferrea regola della causalità imposta dalla volontà. Ilcomportamento umano non si differenzia: l’uomo non è libero in quanto soggiace comeogni ente naturale alla legge di causa ed effetto. Ogni individuo, afferma Schopenhauer,crede di scegliere liberamente i propri atti, ma in realtà questi conseguono alla suacostituzione psicofisica individuale con la stessa necessità per cui dato un triangolo nesegue che la somma dei suoi angoli interni sia 180°.Schopenhauer ammette però una decisiva eccezione: l’uomo può acquisire la libertà che èpropria della volontà come cosa in sé quando giunge a comprendere pienamente che ildolore è l’essenza della vita. Grazie a questa comprensione, infatti, egli può superarel’illusione della conoscenza scientifica e arrivare a conoscere le idee e la volontà stessa. Inquesto modo l’uomo, secondo Schopenhauer, trascende il mondo fenomenico e può cosìpartecipare dell’assoluto libero arbitrio della volontà universale. Questa, proprio perchéassolutamente libera, può anche volere la propria autosoppressione. Ciò permette all’uomoconsapevole di intraprendere la via della negazione della volontà in se stesso.

Negare la volontà non significa suicidarsi. Per Schopenhauer anzi il suicidio è la piùenergica affermazione della volontà. Il suicida infatti non rinuncia alla volontà, ma soloalla vita, e rinuncia alla vita non perché ha rinunciato al desiderio, ma perché si ribella allesue limitate possibilità di soddisfacimento. Egli dunque uccidendosi afferma al massimogrado la volontà. Il suicidio inoltre nega solo l’individuo, non la specie, e quindi nonscalfisce minimamente la volontà.

Secondo Schopenhauer, l’autentica liberazione dalla volontà consiste invece nell’etica, cheha la sua prima espressione nel comportamento improntato alla giustizia.

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L’uomo giusto riconosce l’altro come uguale a sé e per questo rinuncia all’egoismo,limitando l’affermazione della propria volontà in modo da non danneggiare l’espressionedella volontà altrui.La giustizia, però, è per Schopenhauer solo una negazione parziale della volontà. Come taleessa va sviluppata nell’amore, in cui a una piena coscienza del carattere illusorio delprincipium individuationis corrisponde la totale identificazione con tutta l’umanità el’impegno a lenire le sofferenze degli altri.In questo senso l’amore è essenzialmente compassione, perché ciò che spinge ad aiutarel’altro è sempre il sentimento del dolore universale che accomuna tutti gli uomini el’obiettivo di ridurlo combattendone la causa, cioè la volontà.

Al culmine dell’amore, continua Schopenhauer, l’uomo avverte come proprio il dolore ditutte le creature dell’universo. Ma proprio l’acuita consapevolezza del male universale fasorgere in lui una ripugnanza totale per la volontà di vivere. La virtù etica si trasforma cosìin ascesi, cioè in una condotta di vita basata sulla castità, la povertà, l’accettazione gioiosadei dolori e delle offese, il digiuno, la mortificazione del corpo.Lo scopo delle pratiche ascetiche è la noluntas: estinguere tutti i desideri e con essi lastessa volontà di vivere. Il loro compimento è la morte ma una morte non subita bensìagita in quanto approdo e coronamento del progressivo e graduale spegnimento dellavolontà. Per questo la morte ascetica non segna la fine di un individuo ma quella della cosain sé, cioè della stessa volontà.

Al termine della sua esposizione è lo stesso Schopenhauer a domandarsi se la strada dellaliberazione da lui indicata non abbia come esito il nulla. Egli si risponde evidenziando cheil concetto di nulla assoluto è logicamente inammissibile e che dunque si può parlare dinulla solo in senso relativo o privativo, cioè come assenza di qualcosa.Se il nulla è relativo, allora è il punto di vista che decide cosa sia nulla e cosa essere. E’ soloperché crediamo che il mondo sia l’essere che la soppressione della volontà ci appare comeun nulla. Ma una volta guadagnato il punto di vista dell’asceta è il mondo, in quantoillusione della volontà, a svelarsi come nulla, mentre il nulla, in quanto annientamento delmondo illusorio, si manifesta come il vero essere.In ogni caso, però, la condizione dell’uomo che si è completamente liberato della volontà,secondo Schopenhauer, non può essere conosciuta razionalmente se non in negativo, maiin positivo. Per darne una descrizione positiva si dovrebbe uscire dall’ambito dellarazionalità, e quindi della filosofia, per rifarsi all’esperienza dell’estasi sperimentata datutti i santi e gli “illuminati” di ogni epoca e luogo. Ma l’estasi è un’esperienza del tuttopersonale, comunicabile sono in modo allusivo e analogico, dunque mai in una formacompleta e universalmente comprensibile.Tuttavia, benché limitandosi a un discorso in negativo, la filosofia, secondo Schopenhauer,può e deve dire che la noluntas, in quanto opposto negativo della voluntas, trasformal’uomo in puro essere contemplativo e lo innalza a una condizione di totale pace interiore,di profonda calma, di imperturbabile sicurezza e serenità.

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ROTTA BIL CRISTIANESIMO COME FILOSOFIA DELL’ESISTENZANel panorama filosofico dell’800 Kierkegaard è il filosofo cui spetta la palma del“solista”. Egli infatti sia per il contenuto sia per lo stile è un pensatore originale, fuori daogni scuola e schema. In questo senso l’unica tradizione a cui può essere ascritto è quella -esigua, carsica ed eterogenea - degli altri grandi solisti della storia della filosofia,soprattutto il Pascal dei Pensieri e l’Agostino delle Confessioni, ma anche Montaigne eSocrate. Come i primi due Kierkegaard si basa sul primato della fede nel Dio cristiano e sipropone di attualizzare e far comprendere il significato radicale del cristianesimo; cometutti loro pratica la filosofia come introspezione individuale, è antisistematico eframmentario, ricorre a una vasta gamma o addirittura a un intreccio di registristilistici (saggio, dialogo, racconto, diario), utilizza la retorica (metafore, allegorie,similitudini, ossimori, paradossi) come elemento centrale e costitutivo del propriomessaggio filosofico.Tuttavia, nemmeno Kierkegaard può sottrarsi del tutto alle inevitabili influenze delmilieu culturale in cui si forma. In questo senso la sua esasperata sensibilità filosofica èriconducibile sia alla passionale e tormentata visione cristiana di Lutero sia al contorto elacerante sentimento dello struggimento (Sehnsucht) per l’infinito tipico dei romantici.Più tecnicamente, tra i contemporanei Kierkegaard trova un aggancio filosofico direttocon l’ultimo Schelling, da cui riprese e sviluppò originalmente il concetto di “esistenza” ela tesi della sua irriducibilità alla razionalità.

VITA DI UN CAPITANOSören KierkegaardKierkegaard nacque a Copenaghen nel 1813. Suo padre era un commerciante che avevaraggiunto una certa agiatezza dopo una gioventù di duro lavoro e di stenti. Morta la primamoglie, si era risposato con la sua cameriera, avendone sette figli, di cui l’ultimo, Sörenappunto, all’età di 56 anni. Kierkegaard, come Kant, fu educato alla cupa e severa visionecristiana del pietismo, un movimento luterano fondamentalista. Di carattere introverso, finda bambino - come lasciò scritto nel suo Diario - soffrì di “depressione maniacale”. Nel1830 si iscrisse alla facoltà di teologia dell’università di Copenaghen. La sua formazione sibasò soprattutto sulla lettura dei romantici, degli interpreti biblici, dei grandi mistici, degliidealisti tedeschi. Per un breve periodo si infatuò per l’idealismo di Hegel, che poco doporigettò drasticamente, individuando in Socrate il suo filosofo prediletto. In seguitoKierkegaard tacciò Hegel di essere un “brillante spirito di putridità” e la sua filosofia diessere una “abominevole pompa corrutrice”.Gli anni universitari del filosofo danese furono funestati dalla morte di cinque fratelli e daquella della madre, ma soprattutto dalla confessione di suo padre relativa a una tremendacolpa assuntosi anni prima, probabilmente l’adulterio commesso con la futura madre diKierkegaard mentre la prima moglie giaceva sul letto di morte. La rivelazione scosseKierkegaard che ne lasciò testimonianza nel suo Diario definendola il “grande terremoto”della sua vita. Per reazione si allontanò dal padre, che sarebbe morto poco dopo, e insiemedalla fede, vivendo da libertino gli ultimi anni universitari.Nel 1840 Kierkegaard si laureò in teologia e l’anno dopo ottenne il grado di magisterartium della facoltà di filosofia con la tesi Sul concetto di ironia con riferimento costante aSocrate. Negli stessi anni Kierkegaard si era fidanzato con Regine Olsen, ma aveva poiclamorosamente rotto il fidanzamento, pur continuando ad amare Regine.Successivamente, Kierkegaard declinò l’incarico di pastore luterano che gli era statoproposto. Su queste due scelte decisive di Kierkegaard influirono la credenza nellapunizione che gravava sulla sua famiglia e su lui stesso e soprattutto la consapevolezza chela sua depressione gli avrebbe impedito di essere un buon marito e un buon pastore. Ma

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più ancora Kierkegaard era venuto maturando la convinzione che la sua esperienzafamiliare e la sua condizione psichica erano segni di una missione personale, quella di dareuna testimonianza radicale della fede cristiana.Seguendo questa ispirazione, alla fine del 1941, Kierkegaard si recò a Berlino dove seguì lelezioni di Schelling sulla “filosofia positiva”. Tornato a Copenaghen, grazie alla renditagarantitagli dall’eredità paterna, Kierkegaard decise di dedicare la sua esistenza allascrittura come testimonianza di fede, e pubblicò con diversi pseudonimi ben nove opere insoli sette anni, dal 1843 al 1850.La prima e, insieme, l’ultima opera di Kierkegaard, fu però il Diario che Kierkegaard avevagià cominciato a scrivere nel 1834, che continuò a scrivere fino alla sua morte e che fupubblicato postumo. Nel Diario, seguendo le orme di Agostino, Montaigne e Pascal,Kierkegaard dà attuazione pratica alla sua concezione della filosofia come riflessioneautobiografica, come autoanalisi di un’esistenza individuale.Le prime opere pubblicate da Kierkegaard sono però Aut-Aut - un’opera composita di cuifanno parte, tra gli altri, il saggio Don Giovanni e il romanzo Diario di un seduttore - eTimore e tremore, entrambe del 1843 e strettamente collegate. Dopo aver chiarito eapprofondito il tema della ripetitività intenzionale della vita etica in La ripresa (1843) e ipilastri concettuali del suo pensiero - esistenza, singolarità, possibilità - in Briciolefilosofiche (1844), Kierkegaard amplia la sua riflessione filosofica in Il concettodell’angoscia (1844). Successivamente approfondì i temi di Aut-Aut in Stadi nel camminodella vita (1845) e quelli di Briciole filosofiche in Postilla conclusiva non scientifica(1846), e infine terminò il suo affresco filosofico indagando il sentimento delladisperazione in Malattia mortale (1849).Nel 1855, Kierkegaard pubblicò a sue spese e redasse da solo il periodico Il momento, perpolemizzare contro il razionalismo dei vescovi luterani e la perdita del senso autentico delcristianesimo da parte della società danese. Nel vivo di questa violenta polemica, nel corsodella quale si trovò sempre più isolato e bersagliato da feroci critiche, Kierkegaard siammalò e in breve trovò la morte a soli 42 anni.

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TAPPA 1KIERKEGAARD: LE FORME POSSIBILI DELL’ESISTENZA

La fede è appunto questo paradosso, cioè che il Singolo come Singolo è piùalto del generale10; esso è giustificato di fronte a questo, non subordinato masopraordinato11. Questo però va inteso a questo modo: ch’è il Singolo il quale,dopo essere stato subordinato come Singolo al generale, ora mediante ilgenerale diventa il Singolo il quale, come Singolo, è sopraordinato; il Singolocome Singolo sta in un rapporto assoluto all’Assoluto. Questo punto di vistanon si lascia trattare con la mediazione, poiché ogni mediazione avvieneappunto in virtù del generale; esso è e resta per tutta l’eternità un paradosso,inaccessibile per il pensiero.

S. Kierkegaard, Aut-aut

Il presupposto decisivo della filosofia di Kierkegaard è l’impossibilità di ridurre la vitaconcreta di ogni uomo a un sistema di principi razionali. Per Kierkegaard, infatti, ilpensiero razionale non precede ma segue l’esistenza, ne è una manifestazione specifica.Dunque non è dal pensiero che si può “dedurre” l’esistenza, bensì è dall’esistenza che sipuò dedurre il pensiero. Ragione ed esistenza inoltre sono incommensurabili. Infatti,mentre la ragione è costituita di uniformità concettuali astratte, statiche e sovratemporali,l’esistenza è invece unicità, differenza, movimento, divenire.Su queste basi, Kierkegaard pone al centro della sua ricerca l’uomo inteso come singoloindividuo. Per l’uomo, infatti, esistere (dal latino ex-sistere) significa emergere, uscirefuori, differenziarsi dal genere cui si appartiene. Ma se l’esistenza umana non si risolvenelle proprietà comuni dell’umanità, ciò significa che è libera e che si svolge nelladimensione della pura possibilità.La riflessione filosofica, secondo Kierkegaard, se non può imprigionare l’esistenza informule razionali, può però giungere a individuare delle modalità tipiche dell’esistenza.Esse non sono generalizzazioni induttive di tutte le esperienze esistenziali, matipicizzazioni analogico-intuitive dell’esperienza esistenziale di un uomo. Tali modalitàtipiche sono: l’esistenza estetica, l’esistenza etica, l’esistenza religiosa.

Con l’aggettivo “estetica” Kierkegaard denota un’esistenza improntata al godimento deisensi e al gusto del bello. L’uomo estetico, cioè, vive per il piacere sensibile ma fa alcontempo dello stile la sua condizione determinante. Ciò che conta per lui non è tanto ilgodimento immediato, naturale, grezzo, bensì un godimento formalmente raffinato efortemente cerebrale, cioè preparato e costruito sapientemente in modi sempre nuovi eoriginali, intessuto di aspettative, attese, fantasie, avventure.Kierkegaard presenta tre personaggi esemplari della vita estetica. Il primo è il DonGiovanni dell’omonima opera lirica di W.A. Mozart, l’instancabile seduttore cherappresenta con le sue conquiste il tentativo di vivere tutte le possibilità di vita senzalasciarsi mai imbrigliare da alcuna di esse. Il secondo è Faust, il protagonista dell’omonimaopera di Goethe, che vende la sua anima a Mefistofele in cambio di una vita eccezionale, incui possa gustare tutte le possibili esperienze. Il terzo è Johannes, un personaggioinventato dallo stesso Kierkegaard e ispirato al suo vissuto, che ha come unico scopo quellodi progettare e attuare un elaboratissimo piano di seduzione di una vergine. L’obiettivofinale di Johannes - il rapporto sessuale - conta solo come pretesto, ed è continuamenterimandato per lasciare spazio a un gioco di continui avvicinamenti e allontanamenti legato

10 La collettività umana come ordine etico universale.11 Non è inferiore al generale, bensì gli è superiore.

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all’invenzione di situazioni sempre nuove, di colpi di scena sempre più originali efantasiosi.Questi tre personaggi sono accomunati da una condotta di vita sospesa e dispersa nellapossibilità, che rifugge cioè dai vincoli che ogni realizzazione concreta comporta. In questosenso l’uomo estetico è per Kierkegaard colui che vive senza scegliersi - cioè senzadecidersi per una propria specifica identità - passando così da una maschera all’altra. Diconseguenza egli vive il tempo come una successione di attimi, che stanno uno accantoall’altro senza alcuna continuità, cioè senza durata. In altre parole l’uomo estetico nonmatura, bensì rimane immutato, fissato a un eterno presente di fanciullo.L’esistenza estetica, secondo Kierkegaard, è però destinata a naufragare contro lo scogliodella ripetitività. Proprio la continua invenzione di nuove forme di piacere da partedell’esteta tradisce la sua paura della noia. Per quanto possa essere abile, prima o poil’uomo estetico finisce nella ripetizione. Sopraffatto dalla noia, cade nella disperazione.Davanti a lui si apre allora un’alternativa secca: o fingere di non essere disperato eriprendere disperatamente il suo gioco estetico; oppure riconoscere la propria disperazionee spiccare il salto verso un’altra dimensione di vita.

L’esistenza etica è la dimensione della scelta. Mentre vivere esteticamente significalasciarsi essere quello che immediatamente si è, vivere eticamente significa perKierkegaard diventare ciò che si sceglie intenzionalmente di essere. La scelta fondamentaleche l’uomo etico compie è quella di se stesso, della sua stessa personalità. L’uomo etico,insomma, è colui che decide di realizzarsi in una sola possibilità, rinunciando alle altre, e sidà così un’identità unica e stabile. Ciò significa considerare l’esistenza come un compito,come un dovere interiore, come un’opera da realizzare.Kierkegaard offre un solo esempio di uomo etico, il giudice Guglielmo, un personaggio disua invenzione caratterizzato dalle sue funzioni di professionista, marito, padre efunzionario statale. La scelta di se stessi, infatti, non è per Kierkegaard qualcosa di astrattoo di individualistico, bensì ciò che vi è di più concreto e sociale. Essa si articola in una seriedi scelte particolari tra cui spiccano quelle del lavoro e del matrimonio. Il lavoro infatti nonè una necessità estrinseca, ma uno strumento fondamentale per divenire se stessi.Attraverso di esso l’uomo, secondo Kierkegaard, da un lato deve provare la preoccupazioneper il sostentamento quotidiano e dall’altro deve forgiare la sua personalità scegliendo unmestiere come una propria vocazione. Analogamente, nel matrimonio l’uomo etico sicostruisce un’identità determinata e permanente scegliendo di amare una sola persona pertutta la vita. In entrambi i casi ciò che conta non è il valore intrinseco dell’oggetto dellascelta - il mestiere o la moglie -, bensì il fatto che essi siano l’esito della propria scelta.Infatti è la decisione individuale che trasforma l’interesse per un mestiere in unavocazione, l’attrazione per una donna in un amore unico ed eterno e la propria moglie nelladonna più bella e desiderabile. Vivere eticamente significa, insomma, optare perl’ordinarietà contro la straordinarietà, per la normalità contro l’eccezionalità, perl’uniformità sociale contro l’individualismo.

Anche l’esistenza etica, secondo Kierkegaard, è destinata allo scacco. In essa infatti l’uomodiventa sempre più consapevole dello scarto incolmabile tra il suo ideale di perfezionemorale e la sua imperfezione pratica. Questa consapevolezza induce nell’uomo etico ilpentimento, cioè il riconoscimento della propria insuperabile limitatezza. Ma talericonoscimento, per Kierkegaard, può essere autentico e pieno solo se coincide con ilriconoscimento di Dio in quanto perfezione trascendente. Allora davanti all’individuo eticosi apre la possibilità di saltare nell’esistenza religiosa.L’esempio assoluto di uomo religioso è, per Kierkegaard, Abramo. Allorché obbedisce allarichiesta di Dio di sacrificargli il figlio Isacco, Abramo, infatti, è colui che dà la più

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autentica prova di fede. L’eccezionalità di Abramo, secondo Kierkegaard, sta nel fatto checompie la volontà divina nonostante ami suo figlio con tutte le sue forze, nonostante siaangosciosamente consapevole di infrangere una norma etica, ma soprattutto agendo nonper paura o servilismo bensì per una totale e convinta fiducia in Dio. In altri termini,Abramo è eccezionale perché crede nell’assurdo, crede cioè che il sacrificio di suo figlioavrebbe accresciuto la sua felicità terrena sebbene la sua convinzione risulti anche per luirazionalmente inconcepibile, realisticamente del tutto infondata. La sua fede èricompensata da Dio, che all’ultimo momento gli impedisce di sacrificare Isacco rendendocosì effettivamente più gioiosa, prospera e felice la sua vita successiva.

Nonostante il lieto fine, l’agire di Abramo, secondo Kierkegaard rimane incomprensibile escandaloso per l’uomo etico, che in lui può vedere solo un assassino o un folle. Per l’uomoreligioso, invece, Abramo è l’esempio assoluto delle fede proprio in quanto questa èsuperiore all’eticità e dunque ne sconvolge i criteri. La fede, infatti, per Kierkegaard innalzail singolo al di sopra dell’universalità, oltre qualsiasi norma collettiva. Essa non nasce dallariflessione ma dalla passione più profonda, ed è assurdità e paradosso. D’altra parte, però,la fede non è pulsione irrazionale, perché presuppone l’esperienza della vita etica, senza laquale non è fede ma solo cieco e selvaggio individualismo. In questo senso Kierkegaarddefinisce la fede come un “movimento dell’infinito”, cioè un processo graduale econsapevole. Questo processo si scandisce per Kierkegaard in due momenti fondamentali:• quello della rassegnazione, cioè della rinuncia al finito, dell’accettazione

dell’impossibilità di raggiungere la piena soddisfazione nel mondo;• quello della ripresa, cioè del ritorno al finito, della riconquista della possibilità di

raggiungere la piena soddisfazione nel mondo.Conseguentemente, Kierkegaard descrive il “cavaliere della fede” come un uomoapparentemente qualunque, come un comune borghese, pieno di allegria, capace diapprezzare e gustare fino in fondo le più piccole, banali e piatte gioie della vita quotidiana.

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TAPPA 2KIERKEGAARD: L’ANGOSCIA COME VERTIGINE DELLA LIBERTA’

Il divieto angoscia Adamo, poiché il divieto sveglia in lui la possibilità della libertà. Ciò ch’erarimasto fuori dell’innocenza come il nulla dell’angoscia è entrato ora dentro di essa stessa equi è di nuovo un nulla, cioè la possibilità angosciante di potere.

S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia

L’angoscia è secondo Kierkegaard la modalità esistenziale con cui l’uomo entra in rapportocon le sue possibilità di realizzazione nel mondo. Essa è, cioè, il sentimento che manifestala facoltà dell’uomo di scegliere liberamente la propria vita. L’uomo, infatti, come ognianimale, è per Kierkegaard una sintesi di anima - intesa come principio vitale - e corpo.Ma, a differenza degli animali, questa sintesi nell’uomo non è possibile senza l’interventodi un terzo elemento, lo spirito, un principio puramente interiore, non biologico.Proprio perché il rapporto tra anima e corpo è mediato dallo spirito, l’uomo può scegliereliberamente come realizzare la loro sintesi. Per questo lo spirito, afferma Kierkegaard, èvissuto in modo ambivalente dall’uomo. Da un lato egli lo ama, perché gli permette dicomportarsi liberamente, dall’altro lo odia perché genera in lui l’angoscia della scelta edella responsabilità personale.

Sulla base della sua concezione dell’angoscia, Kierkegaard interpreta l’episodio biblico delpeccato originale di Adamo. Il primo uomo, secondo Kierkegaard, viveva in originenell’Eden in uno stato di completa innocenza, ovvero di ignoranza. Adamo godeva così diuna condizione di totale quiete non avendo nulla contro cui lottare. Egli non era ancoraspirito, ma solo il sogno, ovvero il presagio, dello spirito. Ma proprio in quanto spirito“sognato” Adamo si avvertì come possibilità assolutamente indeterminata e vuota, cioècome nulla. Questo primo e minimale grado di coscienza spirituale è appunto l’angoscia.L’angoscia, infatti, non è paura di qualcosa di determinato, di reale, bensì è la paura dellalibertà come possibilità pura, la paura dell’indeterminato e del non ancora reale.Kierkegaard, inoltre, collega l’emergere dell’angoscia in Adamo con l’ordine di nonmangiare i frutti dell’albero della conoscenza impartitogli da Dio. Adamo non potevacomprendere il contenuto esplicito del divieto divino, in quanto, proprio perché non avevaancora mangiato quei frutti, non possedeva alcuna cognizione del bene e del male. Egli,però, secondo Kierkegaard, ne comprese il significato implicito: se Dio gli proibivaqualcosa ciò voleva dire che egli era libero di agire, che aveva il potere di scegliere, ovverodi obbedire o di trasgredire. Così, continua Kierkegaard, il divieto divino attualizzò inAdamo l’angoscia, prima solo latente, rendendola il sentimento inquietante del suo poteredi scelta.Tuttavia, l’angoscia se è il presupposto del peccato originale, non ne è però la causa.L’angoscia infatti di per sé non è una colpa, non è peccato, in quanto in origine è tutt’unocon l’innocenza e afferra Adamo come una potenza esterna. Dunque tra l’angoscia provatada Adamo e la sua successiva scelta di disobbedienza vi è per Kierkegaard un salto che nonè razionalmente comprensibile, ma che è il fondamento della responsabilità e della colpaindividuali.

Nella sua interpretazione del mito biblico, Kierkegaard spiega anche il ruolo di Eva.Secondo lui, Eva, pur essendo un essere spirituale del tutto alla pari dell’uomo, in quantonata da una costola di Adamo, ne rappresenta una derivazione e quindi possiede perquesto un più cosciente e potente sentimento d’angoscia. Questa maggiore potenzadell’angoscia femminile per Kierkegaard è strettamente connessa alla maggiore sensualità

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della donna. Che la donna sia più sensuale dell’uomo, è dimostrato da Kierkegaardfondamentalmente da due fatti:

1. il corpo della donna è più bello di quello dell’uomo2. il corpo della donna, a differenza di quello maschile, ha la capacità di generare un

altro essere umano.Ora, poiché il corpo è insieme la sede e l’espressione della sensualità, è evidente che lasuperiorità corporale della donna si traduce nella superiorità della sua sensualità.Questo secondo Kierkegaard spiega perché Eva sia caduta nella tentazione del serpenteprima di Adamo e abbia contribuito a tentarlo. Ciò non significa affatto che la sensualitàsia per Kierkegaard in se stessa peccaminosa. Al contrario, la sensualità è innocente ed è ilpeccato commesso che la fa diventare peccaminosa, trasformandola in sessualità. In altreparole, afferma Kierkegaard, la sessualità è la coscienza peccaminosa del proprio corpo chenasce in conseguenza del peccato originale. Il sentimento che segna la nascita dellasessualità è la vergogna, intesa da Kierkegaard come una modalità dell’angoscia eprecisamente come l’angoscia per la determinazione dello spirito da parte non solo e nontanto di un corpo, quanto soprattutto come determinazione da parte di un corpo sessuato,cioè sessualmente caratterizzato.Il riscontro di questa tesi, si ha per Kierkegaard in ogni esperienza erotica e in particolareal culmine del rapporto sessuale, cioè nell’orgasmo. Ma non perché l’orgasmo sia di per sépeccaminoso, ma perché esso, in seguito al peccato originale, rappresenta il momento dellatotale assenza dello spirito nell’uomo, cioè il momento in cui l’uomo regredisce a meroessere naturale, cioè ad animale.

Adamo, come tutti gli esseri umani, è per Kierkegaard al tempo stesso particolare euniversale, individuo e specie. Per questo, per quanto il suo primo peccato sia una suacolpa personale, esso si trasmette a tutti i suoi discendenti, cioè a tutta l’umanità. Ciò nonsignifica, però, che gli uomini non siano responsabili individualmente dei loro peccati.Infatti, chiarisce Kierkegaard, tra la colpa di Adamo e quelle di tutti gli altri uomini vi è unadifferenza quantitativa, ma anche un’identità qualitativa. La differenza quantitativa èdovuta al fatto che, in seguito all’esperienza di Adamo, i suoi discendenti hanno una piùsviluppata coscienza dell’angoscia cui corrisponde una maggiore propensione al peccato inquanto, essendo riflessa, l’angoscia agisce più potentemente su di loro. L’identitàqualitativa, invece, è dovuta al fatto che ogni uomo parte da una condizione di innocenzaanaloga a quella di Adamo nell’Eden e rivive come lui l’esperienza originaria dell’angosciae del peccato.Nel suo stato iniziale di innocenza l’individuo sperimenta l’angoscia come una “vertiginedella libertà”. Ricorrendo all’allegoria, Kierkegaard spiega che è come se ogni individuodall’alto della coscienza della sua libertà lanciasse uno sguardo nell’abisso delle sue infinitepossibilità esistenziali. In quel momento l’individuo è preso dalla vertigine dell’angoscia ecade nell’abisso del possibile (l’infinito). Per vincere l’intollerabile angoscia, allora, l’uomoafferra una solida roccia (il finito) che sporge dalla parete. Quando vi si alza sopra sa diessere colpevole, anche se il passaggio dalla caduta alla colpa rimane un mistero in quantonon si configura come una relazione di causa ed effetto.

Solo dopo questo salto qualitativo dalla caduta alla colpa, sostiene Kierkegaard, si ponel’alternativa tra il bene e il male e si istituisce dunque la vita etica. Infatti per Kierkegaard ilbene coincide con la libera scelta del bene ed è dunque la facoltà umana di scegliereliberamente che istituisce la distinzione tra bene e male, non il contrario.Ma cosa succede dopo il primo peccato individuale? Una volta che la colpa è commessapuò ancora il singolo provare l’angoscia? Kierkegaard risponde affermativamente,spiegando come la prima colpa commessa da un individuo non possa non avere delle

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conseguenze. L’angoscia riemerge proprio in relazione alle possibili conseguenze dellacolpa originaria. Ciò significa che l’individuo sa che si troverà di fronte a una nuova sceltatra diverse possibilità e che egli potrebbe ancora una volta scegliere quella del perdimento,cioè assumersi una nuova colpa. Insomma, secondo Kierkegaard, dopo la prima caduta,l’uomo può cadere ancora più in basso e così via, perché non c’è alcun limiteall’abbrutimento morale.Anzi, da questo punto di vista per Kierkegaard nemmeno il pentimento può porre unargine all’angoscia, alla caduta e al salto nella colpa. Il pentimento infatti non toglie lacolpa commessa né evita le sue conseguenze negative, ma è solo un vano angustiarsi perl’una e le altre.

Ciò nonostante, per Kierkegaard l’angoscia può avere per l’uomo anche una funzionepositiva. Essa infatti è innanzitutto la manifestazione di quella libertà grazie alla qualel’uomo è superiore agli esseri naturali.Ma soprattutto l’angoscia, in quanto sentimento dell’infinità della possibilità, spingel’uomo a relativizzare e superare il finito, cioè ogni limitato bene materiale e ogni parzialerealizzazione esistenziale, indirizzandolo così verso la trascendenza divina. Infatti, solo nelrapporto con Dio, in quanto libertà e possibilità assolute, l’angoscia dell’uomo può trovareil suo sbocco adeguato e insieme il suo acquietamento.

Rotte del passato&rotte del futuroL’ANGOSCIA NELL’ESISTENZIALISMO DEL PRIMO NOVECENTOLa concezione dell’angoscia è forse il più importante lascito della filosofia di Kierkegaard alpensiero contemporaneo. Essa fu ripresa, sviluppata e reinterpretata, per esempio, dai duemaggiori esponenti della filosofia dell’esistenza che nacque in Europa tra le due guerre mondiali:M. Heidegger e J.-P. Sartre. In Heidegger l’angoscia è il sentimento del nulla in quanto esperienzadell’anticipazione della propria morte da parte dell’individuo che si apre così all’esistenzaautentica. In Sartre l’angoscia diventa invece l’esperienza del nulla propria dell’assoluta libertàumana in quanto capacità di negare e quindi di annullare qualsiasi condizione oggettiva.

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TAPPA 3KIERKEGAARD: LA DISPERAZIONE COME MALATTIA MORTALE

Quando il maggior pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando siconosce il pericolo ancora più terribile, si spera nella morte. Quando ilpericolo è così grande che la morte è divenuta speranza, la disperazione èassenza della speranza di poter morire.In quest’ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale:quella contraddizione tormentosa, quella malattia dell’io di morireeternamente, di morire eppure di non morire, di morire la morte. Perchémorire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere,provare vivendo il morire; e poter vivere in questo stato per un solo momentovuol dire dover vivere in eterno.

S. Kierkegaard, La malattia mortale

La disperazione è per Kierkegaard la modalità esistenziale con cui l’io umano vive il suorapporto con se stesso a causa della sua impossibilità di realizzarsi autonomamente. Essa èqualificata come una “malattia mortale” da Kierkegaard non perché provochi la mortefisica, ma perché consiste nella morte dell’io. In altre parole, la disperazione è la morteinteriore, spirituale, che si abbina alla vita fisica e perfino al migliore stato di salute delcorpo.In questo senso il disperato è per Kierkegaard una sorta di morto vivente, di morto che nonpuò morire, o anche un vivo che anziché la vita vive la morte. Kierkegaard sceglie iltermine “disperazione” proprio per sottolineare la totale mancanza di speranza, perfinodell’estrema speranza, quella appunto di poter morire. Infatti la morte spirituale, adifferenza di quella naturale, non è una fine ma una durata senza fine.

La disperazione, secondo Kierkegaard, può avere diverse origini e diverse forme, a secondadella personalità di ogni individuo. Kierkegaard si propone di svolgerne un esame,distinguendo innanzitutto un’analisi della disperazione indipendentemente dalla suaconsapevolezza e una in riferimento alla sua consapevolezza.Nell’ambito della prima direzione analitica la disperazione può essere vista sotto duedeterminazioni:• quella del finito e dell’infinito;• quella del necessario e del possibile.

L’io per Kierkegaard ha in sé una componente finita e una infinita. La sua realizzazionesarebbe raggiungere la sintesi tra queste sue due componenti. Ma tale sintesi risultaimpossibile e l’uomo riesce solo a sbilanciarsi alternativamente verso l’infinito o verso ilfinito. La disperazione può pertanto manifestarsi in due modi: o per la mancanza del finitoo per la mancanza dell’infinito.Il tentativo dell’uomo di farsi infinito si basa sulla fantasia, che si fa guida del sentimento,dell’intelligenza e della volontà. Ma seguendo la fantasia l’io si perde in unsentimentalismo astratto e si priva di legami concreti con gli altri uomini, diventandosempre più evanescente fino ad annientarsi. All’opposto l’io può cercare di realizzarsicompletamente come qualcosa di finito. In questo modo però, secondo Kierkegaard, perdeogni originalità e si omologa completamente agli altri. Questo tipo di io raggiungefacilmente il successo mondano, è onorato e stimato dalla società, ma rinuncia alla suapersonalità ed è spiritualmente nullo.

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La stessa dialettica di reciproca negazione senza sintesi si ripropone, secondo Kierkegaard,in un altro rapporto costitutivo dell’io, quello tra possibilità e necessità. Infatti, se l’io cercadi realizzarsi nella possibilità, non riesce a darsi alcuna concretezza, si agita a vuoto, oinseguendo un desiderio irraggiungibile o struggendosi in una malinconia fantastica. All’iodella possibilità manca la forza di piegarsi ai propri limiti e quindi la capacità dideterminarsi. Al contrario, se l’io cerca di realizzarsi nella necessità, si sente subitosoffocato, in quanto la possibilità è per l’io ciò che per i polmoni è l’aria. L’io della necessitàè infatti determinista o fatalista, annulla la sua interiorità nell’esteriorità, lasciandosiinvadere e dominare dai fatti esterni.

Considerando la disperazione in rapporto alla consapevolezza Kierkegaard ne distinguedue forme:

1. la disperazione di non voler essere se stesso, o della debolezza;2. la disperazione di voler essere se stesso, o dell’ostinazione.

Una modalità della prima è innanzitutto la disperazione per qualcosa di terreno, che èpropria dell’uomo immediato, dell’uomo istintivo che vive la vita come desiderio egodimento. Per questo tipo d’uomo, afferma Kierkegaard, la disperazione si originapassivamente da un evento accidentale, per esempio subire la perdita di un bene materialeo una sconfitta professionale o sentimentale. Egli allora desidera essere un altro, desideracambiare il proprio io così come si cambia un vestito, ma ben presto si accorge che ciò nonè possibile.Nell’uomo che invece ha raggiunto un certo livello di interiorità, la disperazione nasce dallariflessione, non è un subire, ma almeno parzialmente un agire. Egli infatti cerca diidentificarsi completamente con il suo io, ma prima o poi ne scopre un difetto checonsidera inaccettabile. Allora, pur non nutrendo l’illusione di poter diventare un altro,abbandona provvisoriamente il suo io nella speranza di poterlo ritrovare cambiato,diverso, privo di difetti. Ma anche questa è un’illusione di breve durata.Una seconda modalità della disperazione della debolezza è denominata da Kierkegaard“disperazione dell’eterno”. In questo caso, l’io ha raggiunto la consapevolezza che èdebolezza disperarsi per qualcosa di terreno, ma sprofonda nella disperazione proprioperché non riesce a superare questa propria debolezza. In realtà, secondo Kierkegaard,questo tipo d’uomo si dispera per la mancanza dell’eterno, ma in modo puramentenegativo, cioè solo in quanto vorrebbe sentirsi appagato dal suo contrario, l’effimero.

La disperazione di voler essere se stesso, o ostinazione, implica per Kierkegaard unmaggior grado di consapevolezza e in questo senso è pienamente attiva. Questo tipo didisperazione si basa infatti sulla coscienza del carattere eterno ed infinito dell’io. Essa èostinazione perché questo carattere è assolutizzato, è creduto totale e reale, quando invecenell’uomo è solo parziale e astratto.L’uomo ostinato si crede totalmente padrone di se stesso, ma in realtà, secondoKierkegaard, è come un re senza regno, non fa che costruire castelli in aria o combatterecontro mulini a vento. Prima o poi egli fa inevitabilmente l’esperienza di un suo limite, chediventa per lui come una scheggia nella carne. In questo caso, però, non chiede aiuto anessuno perché lo aiuti a liberarsene. Al contrario l’ostinato cerca di fare del suo difetto unpregio, una dote personale, e del suo tormento un motivo di orgoglio.

L’analisi della disperazione condotta da Kierkegaard mette capo a una significativaconclusione: la disperazione non è una condizione accidentale e temporanea di alcuniuomini, ma lo stato esistenziale costitutivo e permanente di ogni uomo. Tutti gli uominisono soggetti alla disperazione e si differenziano tra loro solo per il grado diconsapevolezza che ne hanno e per la conseguente modalità in cui la vivono.

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In questa prospettiva Kierkegaard sostiene ancora una volta una tesi paradossale: ladisperazione è quella malattia che è più grave quando si manifesta blandamente o non simanifesta affatto. Infatti se un uomo ha raggiunto il massimo grado di disperazione da unlato certo corre il massimo pericolo - cioè quello di non uscirne più - ma dall’altro ha la solapossibilità di uscirne, di guarirne completamente. Da questo punto di vista, propriol’individuo che è assolutamente convinto di non essere disperato è il più disperato di tutti,in quanto è il più lontano dalla guarigione.

Kierkegaard giunge così a svelare quello che per lui è il più profondo significato delladisperazione: essa non è altro che l’unico, vero, essenziale peccato che l’uomo commette:non riconoscere Dio come propria origine. Kierkegaard chiarisce che è questo il motivo percui l’uomo non può essere né finito né infinito, né possibilità, né necessità, né se stesso manemmeno un altro: l’uomo è un essere finito che deriva però da un essere infinito di cuiconserva in sé, nella sua profonda identità, una impronta indelebile. Pertanto, se siconsidera autosufficiente, l’uomo non può che involgersi in una perenne, irrisolvibile,dilacerante contraddizione. Proprio perché da un lato non è solo finito, ma anche infinito, edall’altro non può essere pienamente infinito, in quanto non ha in sé il principio dellapropria infinitezza, l’uomo non potrà mai arrivare da solo alla sintesi, all’equilibrio trafinito e infinito, tra possibilità e necessità, tra voler essere se stesso e non voler essere sestesso.

L’unico esito positivo della disperazione è dunque, secondo Kierkegaard, la fede nel Diocristiano. La fede infatti consiste essenzialmente, per Kierkegaard, nel mettersi in rapportocon se stesso e nel voler essere se stesso, riannodandosi però in modo trasparente allapropria origine infinita, cioè a Dio. In altre parole, l’uomo attraverso la disperazione puògiungere a comprendere l’impossibilità della propria autosufficienza, a scoprire che è statoposto da qualcos’altro e infine a entrare in rapporto con questa alterità. Egli così puòguarire dalla disperazione e realizzarsi pienamente come se stesso, trovando in Dio lacompensazione dei suoi limiti e soddisfacendo attraverso il rapporto con Dio il proprioinsopprimibile bisogno di perfezione e assolutezza. Per questo, conclude Kierkegaard,l’unica alternativa al disperarsi è credere.

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VIAGGIO IVLA RAZIONALITA’ SCIENTIFICA COME MOTORE

DEL PROGRESSO STORICO-SOCIALE

Cannocchiale su….L’orizzonte scientifico dell’Ottocento

Anche se una piena integrazione tra scienza, tecnica e industria si realizzò solo alla finedell’Ottocento, già a partire dall’inizio del secolo il progresso tecnico e scientifico fece unsalto di qualità grazie alla sua interazione con lo sviluppo industriale: da un lato l’industriapiù cresceva più aveva bisogno di fondare i processi produttivi su solide basi teoriche e dirinnovare continuamente la propria tecnologia, dando in questo modo impulso alla ricercascientifica; dall’altro quest’ultima si estendeva e si approfondiva utilizzando i nuovistrumenti di ricerca e sperimentazione messi a disposizione dallo sviluppo tecnicodell’industria.Emblematica, da questo punto di vista, l’istituzione per iniziativa dello scienziato-imprenditore tedesco Liebig del primo laboratorio di chimica, nel quale fu utilizzato ilcosiddetto “sistema di Giessen”, cioè il primo metodo di collaborazione collettiva applicataalla ricerca scientifica, destinato a diffondersi in breve in tutti i paesi scientificamenteavanzati.Sull’onda di questo nuovo rapporto tra industria e scienza, il paradigma materialistico-meccanicistico - costruito nel corso del ‘600 da Galilei e Newton e sviluppato nel ‘700 daifilosofi e dagli scienziati illuministi – celebrò il suo trionfo. I caratteri fondamentali delparadigma meccanicistico emerso dalla rivoluzione scientifica moderna erano:

• la riduzione di tutta la realtà a materia indistruttibile dotata di movimento;• il carattere corpuscolare della materia per cui questa è sì divisibile in parti ma non

oltre un certo limite in quanto composta da particelle minime indivisibili;• la conservazione della quantità totale di moto/forza, che può redistribuirsi tra le

parti materiali ma mai né aumentare né diminuire complessivamente;• la trasmissione del moto/forza da una parte materiale all’altra in base a relazioni di

causa ed effetto in cui vige una totale equivalenza tra la quantità di moto/causa e laquantità di moto/effetto;

• la completa quantificazione e quindi la totale matematizzazione delle partimateriali, dei loro moti e dei loro rapporti causali.

In poche parole, l’universo è un’enorme macchina matematica in movimento perenne incui le molteplici parti/ingranaggi ricevono le une dalle altre e trasmettono le une alle altreil moto/forza.Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, il paradigma meccanicistico aveva ormai conquistatola maggioranza della comunità scientifica. Nel corso dell’800 ebbe così il via uno dei piùtipici e lunghi periodi di “scienza normale” (T. Kuhn: The Structure of ScientificRevolut ions , 1962), cioè di attività scientifica dedicata al perfezionamento,all’approfondimento e all’espansione di un paradigma, assunto come certo einnoppugnabile, attraverso la ricerca sperimentale.Il rafforzamento e lo sviluppo del paradigma meccanicistico si ebbe innanzitutto nellascienza che ne era stata la culla, cioè la fisica. In questa direzione diede un contributofondamentale la Meccanica analitica (1811) del piemontese Lagrange, il quale fece fare unsalto di qualità alla matematizzazione dei concetti-base della meccanica (forza, velocità,accelerazione, ecc.) applicando loro le derivate e gli integrali del calcolo infinitesimale. Inquesto modo, Lagrange rese la meccanica una compiuta scienza ipotetico-deduttiva: egli

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riuscì infatti a dedurre matematicamente tutte le proprietà fisico-meccaniche a partire daipochi concetti-base.Il francese Laplace utilizzò a sua volta la meccanica matematica lagrangiana per dare unformidabile impulso alla fisica astronomica. In sintonia con la teoria cosmologica giàelaborata da Kant, Laplace riuscì infatti a mettere a punto una teoria fisico-matematicadell’origine e della formazione del nostro sistema planetario basata sull’evoluzionemeccanica di un originario ammasso gassoso. Forte di questo risultato Laplace giunse poi ateorizzare il determinismo totale dell’universo e la conseguente possibilità di principio diuna sua conoscenza completa. Assunto, infatti, che ogni evento fisico è, da un lato, effettototale di tutti gli eventi precedenti e, dall’altro, causa totale di tutti quelli successivi, nederivava, per Laplace, che sarebbe possibile descrivere l’intero divenire cosmico, passato efuturo, a partire dalle condizioni fisiche totali (numero delle particelle materiali, loroposizioni reciproche, loro velocità, forze agenti, ecc.) dell’universo in un qualunque istante.Di fatto tale tesi per Laplace non si poteva provare perché non si conoscevano tutte lecondizioni dell’universo in un istante dato. Ciò però non escludeva la possibilità che ungiorno tali condizioni potessero essere conosciute e dunque che in futuro si potessegiungere a una conoscenza scientifica totale. Nel frattempo anche per Laplace eranecessario accontentarsi di previsioni probabilistiche e in questo senso egli diede anche unimportante contributo allo sviluppo del calcolo probabilistico. Fermo restando, però, che illimite probabilistico della scienza non era imputabile alle caratteristiche dell’oggetto fisico,ovvero a una loro anche solo parziale irregolarità, ma unicamente ai limiti almenoprovvisori delle capacità conoscitive del soggetto umano.In questo quadro, è possibile comprendere in tutta la sua epocale portata il significato dellarisposta che Laplace diede alla famosa domanda postagli da Napoleone I, dopo che ebbeascoltato l’esposizione della sua teoria cosmologica: “E Dio che ruolo ha in tutto questo?”:“Dio? Non ho avuto bisogno di questa ipotesi.” In altre parole, a differenza di Newton, cheaveva dedicato a Dio un capitolo dei Principia, indicandolo come la causa prima dellamateria e del moto, Laplace poteva permettersi di fare a meno di Dio come causa motricedell’universo e dunque di attribuirgli una funzione all’interno della fisica. Egli portò così acompimento il processo storico-culturale di completo affrancamento della scienza dallateologia.Dopo il 1830, il progresso dell’indagine fisica mietè nuovi allori soprattutto nell’ambitodell’astrofisica: la prima misurazione effettiva della parallasse della Terra rispetto allestelle fisse (1838) e l’esperimento del pendolo di Foucault (1851) fornirono finalmente leprove inoppugnabili della fondatezza della teoria eliocentrica. Inoltre nel 1846, grazie aicalcoli permessi dalla legge gravitazionale di Newton, fu prima ipotizzato e subito doposcoperto un nuovo pianeta al di là di Saturno: Nettuno. Così, la secolare guerra scientificacominciata nel 1543 con la pubblicazione del De revolutionibus orbium coelestium diCopernico poteva considerarsi conclusa con la disfatta del geocentrismo e la vittoriadefinitiva dell’eliocentrismo, vessillo e insieme ariete della rivoluzione scientifica moderna.Ma un contributo forse ancora più consistente al successo del paradigma meccanicisticovenne da un’altra scienza: la chimica. La pubblicazione nel 1789 del Traité èlèmentaire dechimie del francese Lavoisier può essere a buon diritto considerato l’atto di nascita dellachimica scientifica. Lavoisier, proprio assumendo come modello la fisica newtoniana, attuòinfatti il passaggio dal tradizionale metodo qualitativo, basato sull’uso dei sensi, al nuovometodo quantitativo-matematico e sperimentale, basato sulla pesatura delle sostanze construmenti di precisione. Egli inoltre elaborò la definzione di elemento, individuò eclassificò 33 elementi, inventò una nuova nomenclatura e soprattutto stabilì il principio diconservazione della massa, diventato poi la “legge di Lavoisier”: “Si può porre per principioche in ogni operazione si abbia una quantità uguale di materia prima e dopo l’operazione;

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che la qualità e la quantità dei principi è la stessa e che non vi sono se non alcunicambiamenti e alcune modificazioni”.Innescata da Lavoisier, la rivoluzione scientifica della chimica proseguì all’iniziodell’Ottocento con la scoperta della legge delle proporzioni semplici di Proust, della leggedelle proporzioni multiple di Dalton e del principio di Avogadro, il quale riuscì a pesare gliatomi assumendo come unità di misura il peso dell’atomo d’idrogeno. In questo modo siebbero i primi riscontri sperimentali della struttura corpuscolare della materia, che fino aquel momento era rimasta solo un’ipotesi filosofica. Un altro clamoroso passo avanti inquesta direzione fu la messa a punto della Tavola periodica degli elementi da parte diMendeleev nel 1869.In onore di Democrito, che nel V sec. a.C. aveva sostenuto l’esistenza di atoma(“indivisibili”), cioè di particelle elementari irriducibili di materia, le porzioni non divisibili(per allora) degli elementi chimici furono chiamate “atomi”. Al di là del fatto che siscambiarono inizialmente gli atomi con le molecole, si trattava di una sensazionaleconferma del paradigma meccanicistico sull’onda della quale esso poté muovere allaconquista di nuovi territori inesplorati della fisica: l’elettrodinamica e la termodinamica.Entrambe queste nuove scienze, infatti, riescono a ricondurre al moto di particellemateriali elementari, e quindi a quantificare e matematizzare, fenomeni quali elettricità,magnetismo e calore che fino a quel momento erano stati considerati eminentementequalitativi e come tali spiegati in base al paradigma magico-animistico.Dopo la scoperta della pila elettrica (1800) da parte di Volta e le successive indaginisperimentali che attestarono sempre più la connessione tra elettricità e magnetismo, laTeoria dei fenomeni elettromagnetici (1828) del francese Ampère pose le fondamentadella nuova scienza elettrodinamica che nel 1841 trovò piena conferma con la scopertadella legge di Joule, la legge basilare dei fenomeni elettrici. Poco dopo, grazie soprattutto aFaraday (teorizzatore della struttura elettrica materia), fu progettata e realizzatal’induzione elettro-magnetica che provava nel modo più netto che elettricità e magnetismocostituivano un solo tipo di forza.La termodinamica, invece, nacque dagli esperimenti sulla trasmissione del calore nel vuotoe attraverso i corpi. Fu Fourier a dare una prima formulazione matematica delle sueproprietà e delle sue leggi, mentre successivamente Carnot arrivò a stabilire il “primoprincipio della termodinamica” secondo il quale la trasformazione del calore in energiameccanica comporta una dispersione di calore. Grazie alla nascita e allo sviluppo dellatermodinamica un altro fenomeno fisico tradizionalmente considerato qualitativo, epertanto irriducibile al meccanicismo, fu ricondotto al movimento di particelle materiali ealla spiegazione matematico-quantitativa.Mentre la ricerca chimica giungeva a realizzare nel 1828 la prima sintesi di laboratorio diuna sostanza organica, l’urea, in biologia, a partire dalla costruzione del microscopio a lentiacromatiche nel 1827, si ebbe la decisiva scoperta della cellula considerata l’equivalentedell’atomo nei corpi viventi. In questo modo, la teoria cellulare, integrata dalla successivascoperta della funzione glicogena del fegato, permise di assimilare il funzionamento di unorganismo vivente complesso, corpo umano compreso, a quello di una macchina chebrucia zuccheri e da questa combustione trae energia e dunque movimento. Su questa basela nuova visione materialistico-meccanicistica dell’uomo giunse a teorizzare che il pensierosta al cervello come la bile sta al fegato: in altre parole, il pensiero altro non sarebbe cheuna secrezione ghiandolare, ovvero qualcosa di totalmente riducibile alla materia.Altri notevoli passi avanti della ricerca scientifica in campo biologico, soprattutto perl’enorme impulso che diedero allo sviluppo della medicina, furono la scoperta (1872) deimicrorganismi (batteri, virus) da parte di Pasteur e l’isolamento (1882) del batterio dellatbc da parte di Koch. Queste ultime due scoperte furono fondamentali per promuovere il

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successo del paradigma meccanicistico in quanto ebbero un enorme impatto positivo sullostato di salute della popolazione europea.Ma soprattutto la biologia, scienza anch’essa considerata qualitativa e legata a paradigmitradizionali di tipo vitalistico, fu conquistata dal paradigma meccanicistico grazie allateoria dell’evoluzione di Darwin (1859). Questa teoria produsse nell’800 un effetto disconvolgimento culturale maggiore di quello prodotto dalla teoria copernicana nel 1500,mettendo in crisi soprattutto le teorie religiose dell’origine del mondo e dell’uomo ma piùin generale tutte le visioni tradizionali della realtà. Infatti secondo la teoria darwiniana,tutte le specie viventi si sono formate per evoluzione di un primo organismo unicellulare inbase, in primo luogo, a mutazioni accidentali dei geni nel corso della riproduzione e, insecondo luogo, alla selezione naturale di tali mutazioni dovuta all’interazione di ogni nuovoessere vivente con l’ambiente (“lotta per la sopravvivenza”). In questo modo, nel corso dimilioni di anni, le mutazioni favorevoli all’esistenza e alla maggiore riproduttività degliindividui si sono conservate e trasmesse modificando e moltiplicando i primi esseri viventinella miriadi di specie esistenti. In un colpo solo, dunque, l’evoluzionismo darwinianoabbatteva 3 capisaldi della cultura e della mentalità tradizionali:

1. il fissismo, cioè l’idea che le specie viventi fossero immutabili e dunque esistesserocosì com’erano dall’origine del cosmo, idea che chiaramente supportava la fede nellacreazione divina;

2. il finalismo, cioè l’idea che i fenomeni biologici avvenissero e fossero dunquespiegabili in relazione a uno scopo perseguito da ogni essere vivente a sua voltaconnesso a un fine universale complessivo (p.e., l’esistenza dell’umanità);

3. l’eterogeneità e la superiorità della specie umana, ossia il fatto che l’uomo non fosseconsiderabile un animale, o quanto meno un animale come tutti gli altri.

La teoria darwiniana trovava supporto nella geologia scientifica, nata quanto meno nel1830 con la pubblicazione di Principi della geologia da parte di Charles Lyell, che avevasostenuto la nuova teoria dell’uniformismo, secondo la quale la configurazione della crostaterrestre dipendeva da lenti e costanti processi di sollevamento e di erosione, per cui si erastimato che la Terra doveva essere nata da milioni di anni. Questa nuova stima dell’età delnostro pianeta da un lato confutava la credenza religiosa nella datazione della creazionedivina a 4.000 anni prima di Cristo, dall’altro confermava che gli esseri viventi avevanoavuto a disposizione il necessario lasso di tempo per evolversi secondo le modalità indicateda Darwin.Anche sulla scorta di questa riconduzione dell’uomo alla sua natura animale, il paradigmameccanicistico venne sempre più applicato anche all’indagine conoscitiva sulla realtàindividuale e collettiva dell’uomo, una dimensione da sempre appannaggio dellaletteratura, dell’arte, della filosofia, ovvero legata a un paradigma umanistico-spirituale.Nacquero così le scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia, storia), chetendevano a riportare il più possibile il mondo umano al mondo naturale (p.e. nello studiodella società umana, ogni individuo è il corrispettivo della cellula, ovvero dell’atomo) e adadottare il metodo quantitativo, matematico e sperimentale che stava trionfando nellaricerca fisica e biologica.Sulla base di questi successi, dell’estensione del metodo della ricerca collettiva, dei nuovimezzi di comunicazione, dell’incremento della produzione editoriale, si venne formandoper la prima volta una vera e propria comunità scientifica europea e perfino mondiale.Tuttavia, proprio il grande sviluppo della ricerca scientifica a tutti i livelli portò allascoperta delle prime anomalie, cioè di fatti sperimentali o teorie in contrasto con ilparadigma meccanicistico, preludio della sua successiva crisi. P.e., in campo matematico,vennero scoperte, ampliate e sempre più accreditate le geometrie non-euclidee che miseroin crisi l’univocità e l’oggettività della concezione euclidea dello spazio, fondamento di tuttala fisica. In campo fisico, e segnatamente in quello della termodinamica, la scoperta del

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principio di entropia (1850), secondo il quale il calore passa sempre dai corpi più caldi aquelli più freddi, mise in crisi il principio di reversibilità fisica corollario necessario delparadigma meccanicistico. L’anomalia costituita dall’entropia, ovvero dalla “freccia deltempo”, fu risolta con la teoria della probabilità, assumendo che la reversibilità deifenomeni termici avesse un grado minimo di probabilità di accadimento, tale per cui difatto risultava impossibile constatarla, pur esistendo. Questa soluzione minava però laconcezione deterministica della realtà perché, nel caso dell’entropia, il ricorso al calcoloprobabilistico non era più addebitabile alla carenza dei dati conoscitivi a disposizione (aparte subiecti) ma alla natura stessa del mondo fisico (a parte obiecti).Negli anni Settanta, soprattutto, proprio da una delle più grandi conquiste scientifiche delsecolo, la teoria elettromagnetica di Maxwell, scaturì un’anomalia irriducibile: la costanzadella velocità della luce per qualsiasi osservatore, sia in avvicinamento sia inallontanamento sia fermo, che metteva in crisi il principio di relatività galileiana e quindi lapossibilità di unificare tutti i fenomeni fisici.Dai molteplici tentativi – tutti fallimentari - di “domare” questa anomalia, ovvero direnderla compatibile col paradigma materialistico-meccanicistico, sarebbe scaturita larivoluzione scientifica contemporanea.

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ROTTA AIL POSITIVISMO SOCIALEComte è il padre fondatore di una delle più importanti e durature tendenze filosofichecontemporanee che egli stesso denomina “positivismo” basandosi sia sul significatooriginario del termine “positivo” – “ciò che è posto, che è istituito”, ovvero “reale”,“effettivo”, “esistente” – sia sulle sue numerose accezioni, derivate dall’uso: “certo”,“esatto”, “vero”, “di valore”, “affidabile”, “costruttivo”, “utile”.Per Comte il “positivo”, cioè la realtà, coincide con la fisicità, ovvero ciò che non è fisiconon esiste. Pertanto l’unica conoscenza “positiva” è quella scientifica, cioè quellasperimentalmente accertabile. La scienza, infatti, grazie al metodo sperimentale, èconoscenza della realtà fisica, cioè di tutto ciò che esiste. Ogni altra produzione culturaleumana, in quanto non scientifica, è priva di qualsiasi valore conoscitivo e pratico, è soloinganno e superstizione: le religioni tanto quanto le filosofie, la letteratura tanto quantola storia, le ideologie politiche tanto quanto l’arte.Sulla base di questo presupposto radicale, Comte si dedica all’elaborazione di un progettodi rifondazione complessiva della cultura occidentale incardinato sulla scienza. In primoluogo, stabilisce quali sono le scienze autentiche, come si connettono organicamente traloro e in cosa consiste il metodo sperimentale. In secondo luogo, fonda una nuova scienza– la fisica sociale, ovvero una scienza della società umana basata sui principi e i metodidella meccanica – capace di completare la conquista scientifica della realtà abbattendol’ultimo baluardo della tradizione antiscientifica. In terzo luogo, avanza una proposta diriconfigurazione delle istituzioni statali basata sull’idea di un governo scientifico, affidatocioè ai “fisici sociali”, gli scienziati della società.Infine, fonda una religione della scienza, definendone dottrina, precetti e riti, e istituendouna nuova chiesa scientifica basata su una propria gerarchia, propri santi e proprieliturgie, convinto che la cultura scientifica si sarebbe potuta affermare solo fornendoun’alternativa completa a tutti i bisogni dell’umanità, innanzitutto quello religioso.

VITA DI UN CAPITANO AUGUSTE COMTENato a Montpellier nel 1798 da genitori di modeste condizioni, studiò all’ÉcolePolytechnique, istituita durante la rivoluzione francese per la formazione degli ingegneri ealla quale Napoleone I aveva dato nel 1805 uno statuto militare e una prestigiosa sede aParigi. Durante i “cento giorni” di Napoleone, Comte partecipò al movimento studentescoche prima sostenne il ritorno dell’imperatore e poi, dopo Waterloo, contestò larestaurazione monarchica. Di conseguenza, fu costretto a lasciare la scuola statale e aproseguire la sua formazione da autodidatta, studiando opere filosofiche, soprattutto degliilluministi, ma anche testi scientifici. Il prezzo della coerenza di Comte fu la suaemarginazione dal mondo accademico e intellettuale ufficiale nonché la permanenteprecarietà della sua condizione economica. Dal 1818 al 1824, però, Comte stabilì unrapporto di amicizia e collaborazione con l’intellettuale illuminista e politico rivoluzionarioClaude-Henri de Saint-Simon, di quasi quarant’anni più grande di lui, che gli offrì ancheun lavoro retribuito come suo segretario. Dalla comune attività di ricerca scaturironoalcune idee – la “società industriale” basata sulla cooperazione tra imprenditori e operaiall’insegna della scienza e della tecnica; la “filosofia positiva” incentrata sulla scienza ecapace di rimpiazzare la religione – che Saint-Simon rese note come proprie. Comte neprotestò la paternità e ruppe il rapporto con Saint-Simon. Rimasto solo e senza lavoro,Comte cercò di ottenere una cattedra all’École Polytechnique ma riuscì a strappare soltantoincarichi precari come assistente ed esaminatore. Negli stessi anni cominciò a tenerelezioni private di filosofia positiva nel suo appartamento e si sposò con un ex prostituta che

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lo lasciò, per poi tornare con lui, diverse volte. Colpito da una grave crisi depressiva,trascorse un periodo di cura in una clinica per malati mentali e, una volta dimesso, tentòanche il suicidio. Si riprese trascrivendo le sue lezioni e pubblicando così, in 6 volumi dal1830 al 1842, la sua opera più importante: Corso di filosofia positiva, di cui le successiveDiscorso sullo spirito positivo (1844) e Discorso sull’insieme del positivismo (1848)costituiscono versioni sintetiche e divulgative. Grazie alla diffusione di Corso di filosofiapositiva, nel 1841 Comte divenne amico di John Stuart Mill, filosofo inglese liberal-democratico e poi lui stesso positivista, il quale promosse anche una sottoscrizione a favoredi Comte tra i suoi lettori e simpatizzanti inglesi. Ma nel 1844 anche questa amicizia siruppe a causa delle divergenze filosofiche. Nel 1845, Comte si innamorò, ricambiato, diClotilde de Vaux, sorella di un suo allievo, scrittrice, già sposata e non divorziata perché ilmarito l’aveva abbandonata fuggendo all’estero per sottrarsi al pagamento di debiti digioco. Comte decise di convivere con lei e questa volta riuscì a stabilire una profonda earmonica intesa. La sua gioia fu però breve: pochi mesi dopo, nel 1846, Clotilde de Vauxmorì di tubercolosi. Comte sentì che Clotilde era per lui ciò che Beatrice era stata perDante, ovvero un tramite verso una dimensione superiore. E infatti negli anni successivi lafilosofia positiva di Comte assunse sempre più un carattere religioso, che emerseparzialmente nel Sistema di politica positiva (1851-1854, 4 volumi), dedicato al modello disocietà e di Stato positivi, e fu invece esplicitato totalmente in Catechismo positivista(1852), opera in cui Comte propose una nuova religione basata sul pensiero scientifico.

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TAPPA 1COMTE: IL SISTEMA DELLE SCIENZE

Per ottenere una classificazione naturale e positiva delle scienze fondamentalidobbiamo cercarne il principio nella comparazione dei diversi ordini difenomeni di cui esse tendono a scoprire le leggi. Quel che vogliamodeterminare è la dipendenza reale dei diversi studi scientifici. Orbene, taledipendenza può risultare soltanto da quella dei fenomeni corrispondenti.Considerando da questo punto di vista tutti i fenomeni osservabili vedremoche è possibile classificarli in un piccolo numero di categorie naturali,disposte in maniera tale che lo studio razionale di ogni categoria sia fondatosulla conoscenza delle leggi principali della categoria precedente e diventi ilfondamento dello studio di quella seguente. Quest’ordine è determinato dalgrado di semplicità o – il che è lo stesso – dal grado di generalità deifenomeni, da cui risulta la loro dipendenza successiva e, di conseguenza, lamaggiore o minore facilità del loro studio.E’ infatti chiaro a priori che i fenomeni più semplici, quelli che risultanomeno complicati degli altri, sono necessariamente anche i più generali; infatticiò che si osserva nel maggior numero di casi è, per ciò stesso, svincolato ilpiù possibile dalle circostanze proprie di ciascun caso particolare. Occorrequindi cominciare dallo studio dei fenomeni più generali o più semplici,procedendo in seguito fino ai fenomeni più particolari o più complicati, se sivuole concepire la filosofia naturale in maniera veramente metodica. Infattiquest’ordine di generalità o di semplicità, determinando necessariamente ilcollegamento razionale delle diverse scienze fondamentali mediante ladipendenza successiva dei loro fenomeni, stabilisce pure il loro grado difacilità.

Comte, Corso di filosofia positiva, lezione 2, trad. di Pietro Rossi, in Positivismo e societàindustriale, Loescher 1973

Per Comte la scienza è l’unica forma di sapere che abbia un effettivo contenuto conoscitivo,ossia l’unico sapere veritiero. Sulla base di questa assunzione, Comte si chiede: quali equante sono le scienze? Che relazioni intercorrono tra esse? Quali sono i requisiti dellascientificità? In cosa consiste il metodo scientifico? Come nascono e come evolvono lescienze? La risposta a queste domande è affidata alla filosofia, che pertanto è concepita epraticata da Comte esclusivamente come indagine sulla scienza. In breve, per Comtel’unica filosofia possibile è filosofia della scienza, e la “filosofia positiva” è appunto filosofiadella scienza.Sulla base della sua riflessione filosofica, Comte stabilisce in primo luogo quali sono leuniche scienze:

1. l’astronomia;2. la fisica;3. la chimica;4. la biologia;5. la fisica sociale (o sociologia).

Dall’elenco delle scienze, Comte esclude sia la matematica e sia la psicologia, ma per duemotivi del tutto opposti.Secondo Comte, la matematica è il linguaggio stesso e, al contempo, la logica stessa dellascienza. In altre parole, Comte, seguendo la tradizione di Galilei e Newton, ma anche delconnazionale Descartes, afferma che una conoscenza è scientifica se descrive e spiega larealtà in base a quantità e relazioni matematiche.

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Per quanto riguarda, la psicologia, Comte ritiene, invece, che la psiche, cioè la coscienza ointeriorità dell’uomo, sia inconoscibile. L’indagine scientifica, infatti, presuppone ladistinzione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, ma questa viene meno nonappena lo scienziato tenti di indagare la propria psiche attraverso l’introspezione. Tuttavia,ciò non significa che l’uomo non possa essere studiato scientificamente in assoluto, anzi.L’uomo, per Comte, può essere indagato come specie animale dalla biologia e come esserecivile e sociale dalla sociologia. In entrambi i casi lo scienziato studia le caratteristiche e icomportamenti fisici esteriori dell’uomo e pertanto il soggetto conoscente (la menteumana) e l’oggetto conosciuto (il corpo umano) rimangono ben distinti.Dunque, le scienze sono solo cinque. Ma quello che apparentemente ne è solo un elenco inrealtà ne delinea il sistema. La successione stabilita da Comte, infatti, non è casuale, madefinisce un ordine relazionale e, insieme, genetico. Tale ordine si incardina in 2 proprietàper così dire inversamente proporzionali:

a) la generalità decrescente: l’astronomia è la scienza più generale, la fisica socialequella più particolare o specifica;

b) la complessità crescente: l’astronomia è la scienza più semplice, ossia col minornumero di variabili e relazioni; la fisica sociale è la scienza più complessa, ossia colmaggior numero di variabili e di interconnessioni.

Al tempo stesso, l’elenco comtiano delle 5 scienze contiene un ordine di generazione neltempo, ovvero rappresenta una sorta di albero genealogico delle scienze. Infatti:l’astronomia per Comte è la scienza che è nata per prima, la fisica sociale per ultima; edalla fisica in poi ogni scienza nasce sulla base di quella precedente, come fecondata dairisultati da essa acquisiti. Naturalmente è facile notare la connessione logica tra le prime 2e quest’ultima proprietà del sistema comtiano delle scienze: l’astronomia nasce primaproprio perché più semplice della fisica; la fisica parte dall’astronomia proprio perchéentra, per così dire, più nel dettaglio della realtà conosciuta dall’astronomia; e così via.Dopo aver così definito il quadro sistematico delle scienza, Comte affronta il nodo delmetodo delle scienze, indicandone innanzitutto un denominatore comune: la superioritàdell’osservazione sull’immaginazione. Egli precisa poi che l’osservazione si articola in 3modalità:

1) l’osservazione empirica, cioè la conoscenza dei fatti attraverso i sensi naturali;2) l’osservazione sperimentale, cioè la conoscenza dei fatti basata sulla predisposizione

di un contesto artificiale e l’uso di apparecchiature tecniche capaci di potenziare isensi naturali;

3) la comparazione dei fatti sia empirici sia sperimentali.In questo modo, Comte dà indubbiamente una connotazione induttivistica al metodoscientifico: questo consiste nell’inferire regole generali da dati d’osservazione singolari. Inaltre parole, lo scopo della scienza è individuare le leggi dei fenomeni, “cioè le lororelazioni invariabili di successione e similitudine”.D’altra parte quello comtiano non è affatto un induttivismo ingenuo e monolitico. Comteinfatti afferma chiaramente che:

la ricerca dei fatti è orientata da un’ipotesi teorica; il fatto deve essere sempre interpretato in base a una teoria; i fatti singolari non possono essere correlati in leggi generali senza teoria.

In questo senso, il metodo scientifico deve consistere in un’interazione tra elaborazioneteorica e verifica sperimentale, ossia, come dice Comte, in un “uso ben combinato delragionamento e dell’osservazione”. Non solo. Comte attribuisce un ruolo ancheall’immaginazione, che ha il compito di inventare ipotesi teoriche di partenza che stimolinoe orientino l’osservazione. Resta fermo, però, che sia l’immaginazione sia il ragionamentopuro devono essere selezionati in base all’osservazione, ossia appunto dal controlloempirico/sperimentale. Infatti, afferma Comte, “ogni proposizione che non è strettamente

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riducibile alla semplice enunciazione di un fatto, particolare o generale, non puòpresentare nessun senso reale e intelligibile”.Comte, inoltre, sostiene anche che il metodo scientifico generale così delineato debbaessere diversamente modulato a seconda delle diverse scienze. In altre parole, a secondadel tipo di scienza, nella combinazione di immaginazione, ragionamento e osservazione, laproporzione di ognuna e la forma della loro interazione devono cambiare. Piùprecisamente, il ruolo di immaginazione e ragionamento è maggiore passando dall’ambitodelle scienze della natura inorganica (astronomia, fisica e chimica) all’ambito delle scienzedella natura organica (biologia e fisica sociale). Infatti, le scienze della natura inorganica,più semplici, devono procedere dalle parti al tutto (p.e. dall’atomo alla molecola), epertanto il metodo scientifico deve privilegiare l’osservazione e la generalizzazioneinduttiva. Invece, le scienze della natura organica, più complesse, devono procedere daltutto alle parti (p.e. dal corpo umano ai suoi organi, tessuti, cellule) e di conseguenzamaggiore dev’essere il peso dell’invenzione teorica e del procedimento ipotetico-deduttivo.In conclusione, benché assuma come modello di scienza la fisica meccanica di Galilei eNewton, Comte evita il riduzionismo e valorizza le specificità metodologiche delle altrescienze, segnatamente della biologia e della sociologia. In questo senso, pur riconoscendoche il sogno di ogni scienziato è quello di ricondurre tutti i fenomeni a una sola leggeuniversale – sogno realizzato da Newton per l’astronomia e la fisica grazie alla sua legge digravitazione universale – Comte è fermo nel negare la possibilità di trovare una leggeuniversale capace di unificare tutti i fatti e quindi tutte le scienze; e molto netto neldifendere la specificità e la parzialità delle diverse leggi delle differenti scienze, inparticolare della fisica sociale.

Rotte filosofiche&rotte scientificheDa Comte alla teoria dei sistemi e alla ciberneticaAlcuni aspetti della filosofia della scienza di Comte possono essere proficuamentecollegati alla attuale problematica scientifica della “complessità”. In estremasintesi per complessità si intende un fenomeno che presenta un numero tale divariabili indipendenti e di correlazioni da risultare indeterminabile e dunqueimprevedibile. Complessi, p.e., sono le perturbazioni atmosferiche ma anche i corpiorganici, che in quanto tali vengono definiti “sistemi”. Per il loro studio èconsiderato più adeguato un approccio “olistico”, cioè centrato sulla priorità deltutto rispetto alle parti, in base all’assunto che, in un sistema complesso, il tutto èpiù della somma delle sue parti. Dalla problematica della complessità hanno presoil via sia la teoria dei sistemi (Bertalanffy: Teoria generale dei sistemi, 1969) sia lacibernetica, la scienza del trattamento automatico delle informazioni, oggi piùnota come informatica o teoria dell’informazione. Da esse è nato il concetto di“sistema aperto”, secondo cui i fenomeni (fisici, biologici, sociologici) non si devonopiù studiare solamente in riferimento allo scambio di materia ed energia ma anchee soprattutto in riferimento allo scambio di informazioni.

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TAPPA 2COMTE: LA SOCIOLOGIA O FISICA SOCIALE

Studiando così lo sviluppo totale dell’intelligenza nelle sue diverse sfere diattività, dal suo primo e più semplice sviluppo ai giorni nostri, credo di averscoperto una grande legge fondamentale alla quale è assoggettato da unanecessità invariabile, e che mi sembra possa essere solidamente stabilita, siasulle prove razionali fornite dalla conoscenza della nostra organizzazione, siasulle verifiche storiche che risultano da un esame attento del passato. Questalegge consiste nel fatto che ognuna delle nostre concezioni principali, ognibranca della nostra conoscenza, passa successivamente attraverso tre staditeorici differenti: lo stadio teologico o fittizio, lo stadio metafisico o astratto,lo stadio scientifico o positivo. In altri termini, lo spirito umano, per suanatura, impiega successivamente in ognuna delle sue ricerche tre metodi difilosofare, di cui il carattere è essenzialmente differente e anche radicalmenteopposto: dapprima il metodo teologico, quindi il metodo metafisico, e infine ilmetodo positivo. Di qui tre tipi di filosofie o di sistemi generali di concezionisull’insieme dei fenomeni che si escludono a vicenda: la prima è il punto dipartenza necessario dell’intelligenza umana; la terza, il suo stadio fisso edefinitivo; la seconda è unicamente destinata a servire da transizione.Nello stadio teologico lo spirito umano, dirigendo essenzialmente le suericerche verso la natura intima degli esseri, le cause prime e finali di tutti glieffetti che lo colpiscono, in una parola, verso le conoscenze assolute, sirappresenta i fenomeni come prodotti dell’azione diretta e continua di agentisovrannaturali, più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega tuttele anomalie apparenti dell’universo.Nello stadio metafisico, che in fondo non è che una semplice modificazionegenerale del primo, gli agenti sovrannaturali sono sostituiti da forze astratte,vere e proprie entità (astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri delmondo e concepite come capaci di generare di per se stesse tutti i fenomeniosservati, la cui spiegazione consiste allora nell’assegnare per ciascunol’entità corrispondente.Infine, nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità diottenere delle nozioni assolute, rinuncia a ricercare l’origine e la destinazionedell’universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni, per volgersiunicamente a scoprire, attraverso l’uso ben combinato del ragionamento edell’osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabili disuccessione e similitudine. La spiegazione dei fatti, ridotta allora ai suoitermini reali, ormai non è più che il legame stabilito fra i diversi fenomeniparticolari e alcuni fatti generali di cui i progressi della scienza tendonosempre più a diminuire il numero.

Comte, Corso di filosofia positiva, lezione I, in Per una rilettura di Comte,a cura di F. Barbano-E Roggero, Celid, 1979

Secondo Comte, la “fisica sociale” è la più giovane delle cinque scienze. Anzi, per così dire,è una scienza neonata. Comte stesso se ne ritiene il padre e dedica un’ampia parte della suaopera alla sua costruzione.

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Per comprendere a fondo in cosa consista questa nuova scienza, è utile partire dalla suadenominazione, “fisica sociale”, ossia scienza fisica, secondo il modello galileiano-newtoniano, dei fenomeni sociali, cioè dei comportamenti umani collettivi. Talicomportamenti possono essere economici, politici, giuridici, sociali in senso stretto,culturali. Ciò significa che la “fisica sociale” di Comte include non solo l’attuale sociologia,ma anche la politologia, la scienze economica, la teoria del diritto, la dottrina dellereligioni, ecc. Inoltre, poiché i comportamenti umani variano nel tempo, la fisica socialecomprende anche la storia, intesa come storia politico-militare, ma anche come storia dellaletteratura, storia del costume, ecc. Insomma: la fisica sociale comtiana corrisponde aquell’insieme di discipline che oggi vengono definite “scienze umane” o anche “scienzestorico-sociali”.Comte divide la fisica sociale in due branche distinte ma complementari:

1. la “statica sociale”, che ha il compito di studiare i fattori di sussistenza e stabilitàdella società, per individuare la legge dell’ordine sociale;

2. la “dinamica sociale”, che ha il compito di studiare i fattori e le modalità delmutamento sociale, per individuare la legge del cambiamento storico.

Questa partizione è sintomatica dell’intenzione comtiana di attenersi al modello dellameccanica classica, canonicamente divisa per l’appunto in statica e dinamica. Comte,tuttavia, non è affatto un riduzionista radicale, non si appiattisce sul metodomeccanicistico, anzi rovescia l’approccio atomistico – dalle parti al tutto – adottandoun’impostazione che oggi definiremmo “sistemica” – dal tutto alle parti -, e attribuendo piùimportanza al metodo comparativo e storico-genealogico, piuttosto che a quello induttivo.Su queste basi, Comte giunge a isolare il principio del “consensus” come legge dell’ordinesociale. Per Comte una società, così come un corpo animale, è un sistema, cioè un insiemeorganico fondato sull’interazione di diversi componenti. In prima battuta, il consensus è, aun tempo, la omogeneità, meglio ancora l’isomorfismo, la complementarità e lacooperazione, in altre parole la relazione di funzionalità e armonia, che connettono idiversi settori della società: a un livello più generale, il settore economico, il settorepolitico, il settore sociale, il settore culturale, ecc.; a un livello più specifico, p.e. quelloeconomico, l’agricoltura, l’industria, il commercio, la finanza. In questo senso, p.e., nelsettore economico c’è consensus, e quindi l’economia funziona, se l’agricoltura producematerie prime per l’industria e questa macchine per l’agricoltura; oppure se le banchefanno credito alle imprese e queste a loro volta depositano i loro capitali nelle banche, ecc.In seconda battuta, su questa base, il consensus è più genericamente il senso dicoappartenenza che lega gli individui, attori di tutti i diversi sottosistemi sociali, e cheproduce la coesione sociale.Ma la società umana cambia nel tempo, è storica, dunque il consensus a sua volta variacontinuamente. In che modo? Qual è la legge del mutamento storico? La risposta di Comte,in prima approssimazione, è molto semplice: il progresso. La storia umana, ilcambiamento sociale, è dovuta al progresso, cioè alla tendenza al miglioramento dellecondizioni sociali. Questa tendenza, si badi bene, si attua lentamente e gradualmente, maper Comte è ineluttabile, irrefrenabile. La legge del progresso sta alla storia umana come lalegge di gravità sta ai fenomeni meccanici: è una legge di natura universale e necessaria.Ma in cosa consiste più precisamente il progresso? Come avviene? In che modo si passa daun tipo a un altro di consensus?A un livello di maggior approfondimento, Comte dettaglia la legge del progressoconfigurandola come “legge dei 3 stadi”, cioè come transizione necessaria dalla primaall’ultima di 3 forme di organizzazione sociale:

1. lo stadio teologico o fittizio, quello di partenza, paragonato all’infanzia dell’umanità(dall’età primitiva alla fine del Medioevo);

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2. lo stadio metafisico o astratto, quello intermedio, paragonato all’adolescenza dellaciviltà umana (dal Rinascimento alla rivoluzione francese);

3. lo stadio positivo o scientifico, quello finale e definitivo, comparato alla maturitàumana (dal Congresso di Vienna in poi, per sempre).

E’ facile notare che Comte connota ogni stadio in riferimento al parametro dellaconoscenza. In altre parole, i 3 stadi si caratterizzano innanzitutto e soprattutto per il lorotipo di cultura, per il loro modo di concepire e praticare l’attività conoscitiva, per i lorodiversi metodi di ricerca. Il che non significa che per Comte il progresso sia soloconoscitivo. Esso coinvolge tutti i diversi sottosistemi sociali, ovvero il principio delconsensus. Però, secondo Comte, il sottosistema culturale è quello decisivo, ossia ilprogresso è anzitutto incremento e perfezionamento della conoscenza e la conoscenza è ilmotore del progresso generale. In altre parole, quando progredisce la conoscenza, per ilprincipio del consensus, tutti gli altri sistemi si adeguano al progresso conoscitivo e quindimutano, fermo restando così il loro isomorfismo. Vediamo come.Nello stadio teologico (o fittizio) l’uomo, secondo Comte, si chiede quale siano l’origine, ilfine e il senso del cosmo e della vita, ossia concepisce e pratica la conoscenza come ricercadi essenze, cioè di verità assolute e totali. La risposta si basa sulla facoltàdell’immaginazione che, antromorficamente, spiega tutti i fenomeni imputandoli a agentisoprannaturali, cioè a divinità. In altre parole, la conoscenza del primo stadio dellosviluppo dell’umanità è di tipo religioso, con un’evoluzione dal feticismo (gli agentisovrannaturali sono esseri naturali), al politeismo fino al monoteismo. Si tratta di unaconoscenza “fittizia”, cioè illusoria, cui però Comte riconosce il merito di aver avviato laricerca conoscitiva e di averle dato un orientamento, certo sbagliato ma che avrebbe poipermesso una correzione di rotta.Nello stadio metafisico (o astratto) le domande non mutano, ossia l’umanità tiene fermal’esigenza di una conoscenza essenzialistica e assoluta. Ma le divinità vengono sostituitecon enti o principi razionali, in particolare con il principio della Natura. Il riferimento èalle metafisiche rinascimentali (p.e. Giordano Bruno) o moderne (Cartesio, Spinoza,Leibniz). La conoscenza metafisica si basa, per Comte, sul ragionamento puro, dunque“astratto”, che, privo di criteri di controllo, sfocia in argomentazioni tanto vacue quantovane, ossia alla fine inconcludenti. Tuttavia, la conoscenza metafisica costituiscel’indispensabile ponte tra quella teologica e quella positiva, dal momento che la storiaprocede sempre gradualisticamente, non può saltare alcun passaggio intermedio.Lo stadio positivo (o scientifico) si differenzia dagli altri, da un lato perché, secondoComte, è appena cominciato e quindi deve ancora completarsi; dall’altro perché costituisceil traguardo dello sviluppo storico, e quindi è definitivo. Ciò non significa che, una voltache lo stadio positivo avesse raggiunto la sua compiutezza, non ci sarebbe più stato, perComte, progresso. Ma che il progresso sarebbe continuato illimitatamente sulla base peròdello stesso metodo conoscitivo e dello stesso tipo di consensus.La trasformazione indotta dallo stadio positivo alla società umana è molto più radicale diquella apportata dallo stadio metafisico. Infatti, prima ancora delle risposte, sono ledomande a cambiare. Giunto finalmente all’età adulta, l’uomo smette di chiedersi qualisono la causa prima e lo scopo ultimo, cioè rinuncia all’obiettivo velleitario di unaconoscenza essenzialistica e assoluta. Al posto cercare il “perché” dei fenomeni, ne ricercail “come”. In altre parole, la scienza consiste nel cercare e scoprire le relazioni costanti trale cose e gli eventi, cioè è conoscenza non di essenze e cause prime e destini ultimi ma solodi leggi. Il sapere scientifico, dunque, è un sapere limitato e basato sulla consapevolezza diquesta limitatezza: per Comte non solo non possiamo conoscere l’essenza della realtà, manemmeno tutti i fatti che la costituiscono, sicché la conoscenza scientifica è sempreparziale e relativa. Tuttavia, proprio grazie a questa consapevolezza, la scienza è la forma diconoscenza più produttiva e progressiva. In altri termini essa è in grado di sviluppare

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esponenzialmente il patrimonio conoscitivo umano, sia sul piano quantitativo –accrescendo il numero di fatti conosciuti – sia sul piano qualitativo – unificando sempre dipiù i fatti singolari in leggi e le leggi particolari in leggi più generali. In questo senso,afferma Comte, così come la conoscenza teologica ha raggiunto il suo culmine nell’idea diun unico dio e quella metafisica nella concezione di un’unica Natura, la scienza punta, enon può non puntare, alla scoperta di un’unica legge universale, capace di unificare tutte lealtre leggi, allo stesso modo in cui la legge di gravità di Newton ha unificato tutti ifenomeni e le leggi fisico-astronomiche. Quest’aspirazione per Comte è senza dubbiofondamentale, perché traina il progresso scientifico. Tuttavia Comte afferma chiaramentedi giudicare improbabile che la scienza possa mai giungere alla scoperta di una tale leggeuniversale, dimostrando ancora una volta di non essere affatto un esaltato assertore di unaconcezione assolutistica e fanatica della scienza e del progresso scientifico.Inoltre, per quanto sostenga in modo netto la superiorità e l’irreversibilità dello stadiopositivo, Comte si guarda bene dal denigrare la stadio teologico e quello metafisico. Egliinfatti ritiene che le forme di pensiero e organizzazione del passato siano state, per cosìdire, degli scalini indispensabili per raggiungere il presente e proiettarsi nel futuro. E, inquesta prospettiva, Comte valorizza e addirittura esalta credenze e istituzioni tradizionali –p.e. la teologia e la chiesa cattolica medievale – sostenendo che esse, relativamente allaloro epoca, rappresentarono un decisivo progresso della civiltà umana. Più in generale,secondo Comte, ogni nuova forma di consensus – cioè di ordine sociale – in una prima faseha una funzione progressiva, e quindi positiva, e solo quando ha espresso tutto quello chepoteva esprimere diventa regressiva, ossia negativa, in quanto ostacola l’ulterioreprogresso dell’umanità. Allora, e solo allora, deve essere superata e sostituita da una nuovaforma di consensus.

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TAPPA 3COMTE: LO STATO SOCIOCRATICO E LA CHIESA POSITIVA

[…] lo spirito generale dell’economia politica […] conduce essenzialmenteoggi ad erigere a dogma universale l’assenza necessaria di ogni interventoregolatore perché costituisce, per la natura del soggetto, il mezzo piùconveniente di secondare il progresso naturale della società: di maniera che,in ogni grave occasione che viene successivamente a presentarsi, questadottrina non sa rispondere, di solito, ai più urgenti bisogni della pratica, senon con l’inutile uniforme ripetizione di questa negazione sistematica, allamaniera di tutte le altre parti della filosofia rivoluzionaria. Per avere più omeno imperfettamente constatato, in qualche caso particolare diun’importanza assolutamente secondaria, la tendenza naturale delle societàumane a un certo ordine necessario, questa pretesa scienza ne ha moltoerroneamente concluso l’inutilità fondamentale di ogni particolareistituzione, direttamente destinata a regolarizzare questa coordinazionenaturale, invece di vedervi soltanto la sorgente prima della possibilità di taleorganizzazione […]. Questa inutile e irrazionale disposizione a nonammettere se non quel livello di ordine che si stabilisce da se stesso, equivaleevidentemente, nella pratica sociale, ad una specie di solenne rinuncia fattada questa pretesa scienza nei riguardi di ogni difficoltà un po’ grave che losviluppo industriale faccia sorgere. Ciò è soprattutto evidente nella famosa eimportante questione economica delle macchine, la quale, convenientementeconsiderata, coincide con l’esame generale degli inconvenienti socialiimmediati inerenti ad ogni perfezionamento industriale, come tendente alperturbamento più o meno durevole del modo attuale di esistenza delle classilavoratrici. Alle giuste e urgenti lamentele che solleva così frequentementequesta lacuna fondamentale del nostro ordine sociale […] i nostri economistinon sanno che ripetere, con una spietata pedanteria, il loro sterile aforisma dilibertà industriale assoluta. Senza riflettere che tutte le questioni umane,considerate da un certo punto di vista pratico, si riducono necessariamente asemplici questioni di tempo, essi osano rispondere a tutte le lamentele che,alla lunga, la maggior parte della nostra specie, ed anche la classeinizialmente lesa, deve finire con lo sperimentare dopo questi passeggeriperturbamenti, un miglioramento reale e permanente. Questo fatto,nonostante l’incontestabile esattezza di tale conseguenza necessaria, puòesser considerato come costituente, da parte di questa pretesa scienza, unarisposta veramente derisoria dove sembra si dimentichi che la vita dell’uomoè ben lontana dal comportare una durata indefinita.

Comte, Corso di filosofia positiva, lezione XLVII, a cura di F. Ferrarotti, Utet, 1967

La scienza, per Comte, è conoscenza vera in quanto praticamente utile ed è praticamenteutile in quanto conoscenza vera. In altri termini, la scienza è tutt’uno con la suaapplicazione tecnica finalizzata al progresso dell’umanità. In questo senso, se le scienzenaturali si prolungano nella tecnologia industriale, la fisica sociale si compie nella tecnicapolitica.Comte, pertanto, delinea una sua teoria scientifica dello Stato imperniata su 2 presupposti:

1. l’uomo è un essere per natura sociale e dunque la sua dimensione individuale èsecondaria e deve essere subordinata a quella collettiva;

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2. lo Stato non è un’istituzione esterna e aggiuntiva rispetto alla società ma ne è laforma di organizzazione intrinseca e strutturale, e dunque è suo compito guidare eregolamentare la società.

Contro la teoria liberal-liberista dello Stato minimo e del laissez-faire, Comte proclamal’essenziale funzione di uno Stato interventista e sociale, in particolare per renderepossibile la conciliazione e la cooperazione fra la classe degli imprenditori e la classe deilavoratori, ovvero, più in generale, per stabilire un rapporto funzionale tra ordine eprogresso, in modo tale da evitare il loro conflitto distruttivo. In altre parole, secondoComte, nello stadio positivo, per la prima volta diventa possibile che la società umanaautoregolamenti e autodiriga in modo consapevole e costruttivo il proprio sviluppo storico,evitando sia i dispotismi sia le rivoluzioni che hanno afflitto in passato l’umanità.Perché questa possibilità si realizzi è necessario basare lo Stato sociale sulla “sociocrazia”,cioè attribuire agli scienziati, e in particolare ai sociologi, un potere di orientamento dellescelte governative. Più precisamente, Comte teorizza una gerarchia sociale al cui vertice siaposta la classe “speculativa”, cioè appunto l’élite scientifico-intellettuale, seguita dallaclasse “attiva”, ossia la borghesia imprenditoriale, e infine dalla classe lavoratrice. Allaclasse speculativa spetta il potere spirituale, ossia il potere di educare e orientaremoralmente la società. Alla classe attiva compete il potere temporale, cioè la gestioneeconomica e politica della società. I due poteri devono essere distinti e autonomi, ma dallasuperiorità del primo deriva il suo diritto a illuminare, influenzare e quindi orientare ledecisioni del secondo. In particolare, la classe speculativa deve spingere la classe attiva asoddisfare le giuste rivendicazioni della classe lavoratrice dal momento che la solidarietàtra le classi è un valore superiore all’arricchimento individuale. Insomma, pur rifiutandol’uguaglianza economico-sociale e l’abolizione della proprietà privata, Comte propugna laperequazione sociale e la subordinazione del diritto di proprietà al principio del consensus,cioè dell’integrazione e della collaborazione collettiva.In questo quadro, Comte, pur riconoscendo il valore della libertà individuale, ne afferma larelatività e di conseguenza sembra attribuire un carattere autoritario al suo modello diStato. Il dispotismo statale è però controbilanciato e, in prospettiva almeno, annullato dalruolo che Comte attribuisce all’educazione morale dei cittadini attuata dalla classespeculativa e finalizzata allo sviluppo sempre maggiore dell’altruismo. Nella misura in cuinel corso del tempo i cittadini incrementano il loro grado di moralità, ossia il loroaltruismo, le istituzioni statali, secondo Comte, sono destinate a ridursi fino a sparire.Il ruolo strumentale, e dunque temporaneo, della politica e dello Stato è ribadito dallafunzione preminente che Comte attribuisce alla religione e alla chiesa. La politica non èaffatto sufficiente, secondo Comte, a garantire il massimo grado di consensus e dunque lapiù funzionale interazione tra ordine sociale e progresso. La solidarietà che lega gliindividui in quanto cittadini dello stesso Stato non coinvolge l’intera personalità umana.Per giungere a un suo coinvolgimento completo Comte ritiene sia necessaria una nuovareligione, perché solo una religione è in grado di suscitare un sentimento dicoappartenenza tra gli uomini e quindi è capace di unirli interiormente e quindi in modoprofondo. Quella che Comte propone è però una religione radicalmente alternativa a quelletradizionali. Si tratta infatti di una religione scientifica e terrena basata sul culto delGrande Essere, cioè dell’umanità stessa intesa come l’insieme di tutti gli uomini passati,presenti e futuri, ovvero come un unico corpo di cui ogni individuo è una cellula.Cionondimeno, Comte teorizza la fondazione di una chiesa positiva organizzata sulmodello della chiesa cattolica, ossia dotata di sacerdoti, riti, sacramenti, nonché santi,rappresentati dai grandi uomini (da Mosè a Omero, a Aristotele, a Carlo Magno,Gutemberg, Galilei, Cartesio, ecc.) che più hanno contribuito al progresso dell’umanità.

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ROTTA BIL POSITIVISMO ATEOL’idealismo hegeliano ebbe un largo seguito soprattutto nell’area culturale tedesca dandoluogo a sviluppi interpretativi diversi che possono essere schematizzati in 2 filonicontrapposti:

a) la destra hegeliana (o “vecchi hegeliani”) che interpretava l’idealismo hegelianocome una fondazione razionale del cristianesimo e dell’ordine politico-socialeesistente;

b) la sinistra hegeliana (o “giovani hegeliani”) che interpretava l’hegelismo come unadecostruzione razionale del cristianesimo e come una filosofia del cambiamentostorico-politico.

In particolare, la sinistra hegeliana, nella sua interpretazione progressista di Hegel,risente della diffusione della nascente filosofia positivistica, segnatamente della suaprima versione, quella di A. Comte. Questa influenza è evidente in Feuerbach, l’esponentepiù significativo della sinistra hegeliana. Allievo di Hegel, Feuerbach sviluppa l’idealismohegeliano nella direzione di un materialismo sensistico e naturalistico, teorizzando lanecessità di demistificare l’illusione religiosa e additando all’umanità l’ideale di unanuova civiltà umana, solidale e scientifica, in cui la religione sia sostituita dallaantropologia, cioè da una filosofia dell’uomo del tutto terrena, e dalla filantropia, cioè daun’etica compiutamente altruistica.Conseguentemente, la filosofia di Feuerbach si sviluppa come una critica antropologicadel cristianesimo, e più in generale di ogni religione, basata sulla tesi secondo la qualenon è Dio che ha creato l’uomo, ma l’uomo che ha creato Dio. In altre parole, la religioneè un prodotto dell’immaginazione umana in cui l’umanità rappresenta se stessa in modoinconsapevole e deformato. Il compito della filosofia è dunque decostruire e demistificarela religione in modo tale che l’uomo possa prendere chiara e completa coscienza dellapropria identità e del proprio destino e agire liberamente ed efficacemente.In questo senso, Feuerbach è l’emblema di una tendenza storico-culturale decisivadell’Ottocento, e poi anche del secolo successivo: quella della diffusione dell’ateismo,anche e soprattutto nell’ambito dell’élite culturale e scientifica.

VITA DI UN CAPITANO LUDWIG FEUERBACHNato nel 1804 a Landshut, in Baviera, figlio di un giurista e di un’aristocratica, studiòteologia nella celebre università di Heidelberg e poi filosofia all’università di Berlino, doveseguì le lezioni di Hegel. Laureato, nel 1828 ottenne la libera docenza all’università diErlagen, in Baviera, ma negli anni successivi non riuscì a diventare professore per l’ostilitàdelle autorità accademiche suscitata dalla pubblicazione, pur anonima, del suo primo libro,Pensieri sulla morte e l’immortalità (1830). Nel 1837 decise così di ritirarsi a vita privata,mantenendosi grazie al notevole patrimonio e ai redditi della moglie Berta Löw. Negli annisuccessivi, oltre a collaborare con la rivista dei giovani hegeliani Annali di Halle, scrissenumerose opere, tra cui: Per la critica della filosofia hegeliana (1839), L’essenza delcristianesimo (1841), la più famosa e importante, Principi della filosofia dell’avvenire(1843), L’essenza della religione (1845). Durante la rivoluzione tedesca del 1848, partecipaal Congresso di Francoforte e tiene lezioni della sua filosofia all’università di Heidelberg suinvito degli studenti. Negli anni successivi aderisce al Partito socialdemocratico tedesco epubblica Teogonia (1857). Dal 1860 vive in povertà, a causa di un tracollo economico, macontinua a scrivere e pubblicare (Spiritualismo e materialismo, 1866, di argomento etico)fino alla morte nel 1872. Fu sepolto a Norimberga omaggiato da migliaia di operaisocialisti.

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TAPPA 1 FEUERBACH: L’ALIENAZIONE RELIGIOSA

La coscienza che l’uomo ha di Dio è la conoscenza che l’uomo ha di sé. Tuconosci l’uomo dal suo dio e, reciprocamente, Dio dall’uomo; l’uno e l’altro siidentificano. Per l’uomo, è Dio il proprio spirito, la propria anima; e ciò cheper l’uomo è spirito, ciò che è la sua anima, il suo cuore, quello è il suo dio:Dio è l’intimo rivelato, l’essenza dell’uomo espressa; la religione è la solennerivelazione dei tesori celati dell’uomo, la pubblica professione dei suoi segretid’amore.Ma da quanto abbiamo detto non si deve dedurre che l’uomo religioso siadirettamente consapevole che la coscienza che ha di Dio sia la stessaautocoscienza del suo proprio essere, poiché appunto il non essereconsapevole di ciò è il fondamento della vera e propria essenza dellareligione. Per evitare questo equivoco diremo meglio: la religione è la prima,ma indiretta autocoscienza dell’uomo. Perciò la religione precede sempre lafilosofia, nella storia dell’umanità così come nella storia dei singoli individui.L’uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo in sé. In un primotempo egli è consapevole del proprio essere come di un altro essere. Lareligione è l’infanzia dell’umanità; il bambino vede il proprio essere, l’uomo,fuori di sé, ossia oggettiva il proprio essere in un altro uomo. […]Il nostro compito è appunto di dimostrare che la distinzione tra il divino el’umano è illusoria, cioè che null’altro è se non la distinzione fra l’essenzadell’umanità e l’uomo individuo, e che per conseguenza anche l’oggetto e ilcontenuto della religione cristiana sono umani e nient’altro che umani.La religione, per lo meno la religione cristiana, è l’insieme dei rapportidell’uomo con se stesso, o meglio con il proprio essere, riguardato però comeun altro essere. L’essere divino non è altro che l’essere dell’uomo liberato dailimiti dell’individuo cioè dai limiti della corporeità e della realtà, eoggettivato, ossia contemplato e adorato come un altro essere da lui distinto.Tutte le qualificazioni dell’essere divino sono perciò qualificazioni dell’essereumano.

Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, cap. II, a cura di C. Cometti, Feltrinelli

Il sentimento di dipendenza dell’uomo è il fondamento della religione;l’oggetto di questo sentimento di dipendenza, ciò da cui l’uomo dipende, e sisente dipendente, non è però altro, originariamente, che la natura. […]L’essenza divina che si manifesta nella natura non è altro che la natura stessache si manifesta, si mostra e si impone all’uomo come un ente divino.

Feuerbach, L’essenza della religione, a cura di C. Ascheri e C. Cesa, Laterza

La filosofia della religione di Feuerbach prende le mosse dal concetto di alienazione (dallatino alius, altro), mutuato da Hegel. In Hegel l’alienazione indicava la negazioneoggettiva/irrazionale dell’essenza soggettiva/razionale di qualcosa. In questo sensol’alienazione per eccellenza, modello di ogni alienazione specifica, era rappresentata dallaNatura, in quanto Idea altra da sé, ossia Idea che nega la sua purezza razionale pertrasformarsi nel suo contrario, la fisicità.Feuerbach reinterpreta l’alienazione hegeliana in chiave religiosa elaborando un concettooriginale di alienazione intesa come proiezione dell’essenza dell’uomo nel divino, cioè inentità immaginarie diverse dall’uomo, altre da lui e superiori a lui.

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Ma perché e in che modo l’uomo cade vittima dell’alienazione religiosa? Feuerbachindividua due fattori e insieme due componenti fondamentali dell’alienazione religiosa.Il primo fattore è connesso alla capacità che distingue la specie umana dalle altre specieanimali: l’autocoscienza. Grazie alla coscienza di se stesso, l’uomo avverte la differenzaradicale che sussiste tra sé:

come individuo, ossia come singolo elemento della specie umana, e come essenza, ossia come umanità, intesa, a un tempo, come l’insieme di tutti gli

individui e come l’insieme di tutte le caratteristiche fondamentali della specieumana (intelligenza, creatività, volontà, moralità, gusto, ecc.).

Se l’individuo è limitato spazio-temporalmente e quindi è finito, l’umanità non ha limitispazio-temporali e dunque è tendenzialmente infinita.Il secondo fattore dell’alienazione religiosa è, invece, la dipendenza e la soggezionedell’uomo nei confronti degli enti naturali e delle forze della natura.Più precisamente, per Feuerbach gli uomini in quanto individui finiti non riescono adavere una piena consapevolezza della propria essenza in quanto quest’ultima è infinita.P.e., l’uomo possiede una forza fisica limitata; la sua essenza, ovvero l’umanità, è inveceonnipotente. A causa di questo iato tra la sua dimensione individuale finita e la suadimensione essenziale infinita, l’uomo riesce a prendere coscienza della propria essenza(onniscienza, onnipotenza, amore assoluto, perfezione morale, perfetta beatitudine, ecc.)solo attribuendola a un dio, cioè a un alter-ego superiore, prodotto dalla propriaimmaginazione. A sua volta la costruzione fantastica delle divinità è stimolata e orientatadall’esperienza umana di dipendenza e subordinazione nei confronti della natura, inquanto l’uomo ricava il suo sostentamento dalla natura e si trova spesso in balia delle forzenaturali, p.e. delle tempeste marine piuttosto che dei terremoti o delle alluvioni. E’ proprioquesta esperienza di inferiorità e soggezione che impedisce all’uomo di attribuire a sestesso la propria essenza e lo spinge invece a trasferirla alle forze naturali, trasfigurandolecosì in divinità.In questa prospettiva, la religione, secondo Feuerbach, è costitutivamente ambigua, pernon dire contraddittoria: infatti essa, da un lato, è una rappresentazione dell’essenza - equindi del valore, del fine e del senso - dell’uomo, dunque uno strumento fondamentaleper valorizzare la sua esistenza terrena; dall’altro lato, però, la religione attribuiscel’essenza umana a divinità trascendenti - deprivandone l’uomo e facendolo sentire misero,gracile, impotente – e pertanto è un fattore di svalutazione e mortificazione dell’esistenzaumana.Feuerbach articola poi storicamente questa interpretazione generale della religione,sostenendo che la variazione e l’evoluzione delle religioni nel tempo riflettono la crescitadella consapevolezza della propria essenza da parte dell’uomo e al contempo la progressivaemancipazione umana dal dominio della natura. In questo senso, il cristianesimo, secondoFeuerbach, è la religione più evoluta, addirittura la “religione assoluta”, in quanto, da unlato, solo il Dio cristiano è concepito come pienamente infinito e, dall’altro, la suaconfigurazione trinitaria è la manifestazione più precisa e completa delle 3 facoltàcostitutive dell’uomo: la ragione, la volontà e il sentimento. In particolare, la figura di GesùCristo - manifestazione del sentimento, innanzitutto e soprattutto nella forma dell’amore –è per Feuerbach la più esplicita rappresentazione religiosa dell’identità di uomo e Dio,ovvero la costruzione mitico-simbolica che più si avvicina alla comprensione dell’effettivorapporto che intercorre tra uomini e dei.Tuttavia, afferma Feuerbach, anche il cristianesimo è alienante per l’uomo in quanto inesso la fede individuale nel Dio trascendente - vissuta come condizione decisiva perraggiungere la salvezza e quindi la beatitudine eterna – mette in secondo piano l’amore el’impegno attivo per gli altri, finendo col promuovere l’individualismo egoistico e ildisimpegno pratico-morale.

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Per questo, secondo Feuerbach, la teologia deve essere abbandonata e sostituitadall’antropologia, ossia dalla filosofia dell’uomo, il cui caposaldo è proprio la coscienza cheè l’uomo che ha creato Dio a propria immagine e somiglianza, e non viceversa. Questocapovolgimento del rapporto uomo-Dio, che ovviamente implica la negazionedell’esistenza reale di ogni dio, costituisce il raggiungimento della piena autocoscienza daparte dell’uomo, ovvero il conseguimento della consapevolezza che lo scopo ultimo degliuomini è realizzare completamente la propria essenza infinita, la propria umanità, cioèdiventare onniscienti, onnipotenti, moralmente perfetti, capaci di amore reciprocoassoluto, ecc.Ma come è possibile che dopo millenni di alienazione religiosa l’uomo possa fare a meno diogni divinità? Feuerbach ritiene che nella sua epoca il progresso tecnico-scientifico abbiapermesso all’uomo, e sempre più possa permettergli, di sottrarsi alla soggezione neiconfronti della natura e anzi di dominarla. In questo modo, attraverso la scienza e latecnica l’umanità potrà nel futuro prossimo realizzare sempre più ampiamente la propriaessenza divina, cioè approssimarsi sempre più all’ideale di Dio fino a attuarlocompiutamente.Il progresso tecnico-scientifico, però, ha una condizione imprescindibile: la formazione diuna società umana sempre più coesa e cooperativistica. Per Feuerbach, infatti, l’uomo è unessere fisico naturalmente comunitario. Ogni individuo umano, ogni “io”, esiste solo in unarelazione con ciò che è altro da sé, che sia una cosa naturale o un altro uomo. Questarelazione parte dai sensi, cioè dal corpo, per arrivare alla mente, cioè alla psiche, intesacome un livello superiore di corporeità, ed è simultaneamente conoscitiva, pratica eaffettiva. Infatti, sostiene Feuerbach, il mio rapporto conoscitivo e pratico con un oggetto,p.e. una mela, è sempre connotato affettivamente, p.e. è gioioso piuttosto che fastidioso, aseconda dei miei bisogni psico-fisici. Da questo punto di vista, il dolore per l’assenza diqualcosa che desidero è per Feuerbach la prova inoppugnabile dell’esistenza di un mondoesterno all’io e indipendente dall’io, ovvero la confutazione incontrovertibiledell’idealismo.Anche a livello psichico o mentale, l’individuo umano può essere tale, cioè può svilupparela propria autocoscienza, se e solo se si rapporta a un tu, cioè a un’altra autocoscienza. Inquesto senso la relazione di un uomo con l’altro uomo è costitutiva della sua identità, cioèappartiene alla sua essenza. Pertanto, ogni uomo può realizzarsi solo attraverso lafilantropia, ossia in una relazione di stima, solidarietà e collaborazione reciproci con glialtri uomini. In altri termini, la demistificazione dell’alienazione religiosa di Feuerbach hacome esito finale il vagheggiamento di una comunità genericamente socialista capace direalizzare sempre più e sempre meglio l’essenza infinita dell’umanità grazie allo sviluppoillimitato della scienza e della tecnica, in quanto queste permetteranno il pienosoddisfacimento di tutti i bisogni umani e il conseguimento della completa felicità per tuttigli uomini.

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ROTTA CIL POSITIVISMO RIVOLUZIONARIODi formazione hegeliana e posthegeliana, Marx col procedere della sua produzionefilosofica Marx assorbe sempre di più temi e stilemi positivistici, quali il rigettodell’idealismo a favore del materialismo, l’esigenza di scientificità, la fedenell’inesorabilità del progresso storico, la previsione di un futuro imminente nel quale laciviltà umana, grazie all’illimitato sviluppo della produzione industriale e della ricchezzamateriale, avrebbe raggiunto una condizione pressoché perfetta.Marx, però, si differenzia nettamente dagli altri positivisti, perché interpreta la societàfutura non come l’esito di un’evoluzione della società del suo presente bensì come ilprodotto di una sua rottura rivoluzionaria e di un conseguente salto dello sviluppostorico. In questo senso il pensiero filosofico di Marx possiede complessivamente unaforte valenza politica e si esprime anche in molte opere squisitamente politiche.In un primo tempo, la critica rivoluzionaria di Marx alla società capitalistico-borghesedell’800 si basa sulla categoria dell’alienazione, interpretata in chiave economico-sociale.E’ la classe operaia ad essere alienata, a causa delle condizioni in cui è costretta alavorare. E sarà dunque la classe rivoluzionaria il soggetto della lotta di liberazione cheabbatterà il capitalismo e instaurerà il socialismo.Successivamente, Marx sostituisce questa versione soggettivistica e volontaristica dellarivoluzione con una concezione sempre più oggettivistica e necessaria. Egli infattielabora la teoria materialistica della storia intesa come scienza dello sviluppo storico-sociale della civiltà umana. In questa prospettiva Marx ritiene di aver isolato le leggifondamentali dello sviluppo storico che hanno per la storia umana la stessa valenzaattribuita alle leggi chimiche e fisiche per la natura. Di conseguenza le previsioni sulfuturo decorso della storia, secondo Marx, sono destinate ad avverarsi con “bronzeanecessità”. E tali previsioni stabiliscono che il capitalismo crollerà a causa delle suecontraddizioni interne e che sulle sue macerie verrà edificato il socialismo.In questo modo il materialismo storico assume al contempo la funzione di teoriascientifica della storia e di manifesto politico della rivoluzione socialista.

VITA DI UN CAPITANO KARL MARX

Nacque nel 1818 a Treviri, città della Renania, regione occidentale della Germania alconfine con la Francia, allora parte del Regno di Prussia. La sua famiglia aveva originiebraiche, il padre era un brillante avvocato di tendenze illuministico-liberali. Marx seguìgli studi universitari prima a Bonn, poi a Berlino, dove entrò in contatto con i giovanihegeliani, ma si laureò a Jena con la tesi Differenza tra la filosofia della natura diDemocrito ed Epicuro, sintomo del suo orientamento materialistico. Vista impossibile lacarriera universitaria, a causa delle sue idee, Marx si diede al giornalismo politico,collaborando con la Gazzetta renana, di tendenza liberale, che però fu chiusa nel 1843dalle autorità prussiane. Ciononostante, Marx sposò Jenny von Westphalen, con cui si erasegretamente fidanzato già nel 1836, e da cui avrebbe avuto 8 figli, e si trasferì a Parigidove pubblicò la rivista Annali franco-tedeschi e i libri Introduzione alla Critica allafilosofia hegeliana del diritto pubblico (1844) e Sulla questione ebraica (1844).Soprattutto, però, Marx a Parigi strinse un’amicizia, che sarebbe durata tutta la vita, conFriedrich Engels, figlio di un industriale tessile comproprietario di una fabbrica aManchester, in Inghilterra. Engels vi aveva lavorato, entrando in contatto e assorbendo leidee del movimento cartista e del socialista Robert Owen. Sollecitato da Engels, Marx lessegli economisti inglesi e scrisse i Manoscritti economico-filosofici del 1844 (pubblicatipostumi nel 1932). Subito dopo, a quattro mani con Engels, scrisse e pubblicò la Sacra

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famiglia (1845), una critica dei giovani hegeliani, e, da solo, le Tesi su Feuerbach, 11 brevicritiche della filosofia feuerbachiana, pubblicate postume da Engels nel 1886. Espulso daParigi, si rifugia a Bruxelles dove, insieme a Engels, scrisse L’ideologia tedesca, pubblicatapostuma nel 1932, interessante soprattutto per l’esposizione della concezionematerialistica della storia; e, da solo, Miseria della filosofia (1847), critica delle idee delsocialista anarchico francese Proudhon. Nel 1847 Marx ed Engels aderirono alla Lega deicomunisti, un’associazione clandestina svizzero-tedesca, da cui furono incaricati discriverne il programma che fu poi pubblicato nel 1848 con il titolo di Manifesto del PartitoComunista. Marx tornò in Germania nel 1848, allo scoppio della rivoluzione, ma dopo ilsuo fallimento, l’anno successivo, si rifugiò a Parigi e subito dopo a Londra, dove trascorseanni di miseria, sopravvisse solo grazie all’aiuto economico di Engels, tornato a lavorare aManchester nell’azienda del padre, e fu funestato dalle morti dei figli piccoli Heinrich edEdgard. Ma proprio in quegli anni Marx, utilizzando la biblioteca del British Museum, siimmerse più che mai negli studi, in particolare di taglio economico, da cui nacquero le suemaggiori opere: Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (pubblicatipostumi dal 1939), Per la critica dell’economia politica (1859) e soprattutto Il Capitale,pubblicato in 4 libri, solo il primo dallo stesso Marx nel 1867, il secondo e il terzorispettivamente nel 1885 e nel 1894 da Engels, e il quarto dal Karl Kautsky nel 1905 con iltitolo Teorie del plusvalore. Dal 1864, però, Marx è di nuovo impegnato nella lotta politicaall’interno della neocostituita Associazione internazionale dei lavoratori, meglio nota comeI Internazionale, di cui diventa subito uno dei leader, benché in conflitto soprattutto conl’anarchico russo Bakunin, che riuscì a fare espellere solo nel 1872 al duro prezzo delladisgregazione successiva dell’associazione. Nel 1875, in occasione del congresso di Gotha,che diede vita al Partito socialdemocratico tedesco unificato, Marx scrisse la Critica delProgramma di Gotha (pubblicato postumo nel 1891), in cui delineò alcune dellecaratteristiche della futura società comunista. Nel 1881 Marx perse la moglie Jenny e nelgennaio 1883 la figlia maggiore. Morì qualche mese dopo per una bronchite aggravata daun’ulcera polmonare e fu seppellito a Londra. Engels gli sopravvisse fino al 1895 e fu anchelui sepolto a Londra.

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TAPPA 1: MARX: L’ALIENAZIONE DELL’OPERAIO

L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto piùla sua produzione cresce in potenza ed estensione. […] Questo fatto nonesprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto del lavoro, prodottosuo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenzaindipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissatoin oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. Larealizzazione del lavoro è la sua realizzazione. Questa realizzazione del lavoroappare […] come privazione dell’operaio, e l’oggettivazione appare comeperdita e schiavitù dell’oggetto, e l’appropriazione come alienazione, comeespropriazione. […]Tutte queste conseguenze si trovano nella determinazione: che l’operaio sta inrapporto al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto estraneo. Poiché èchiaro, per questo presupposto, che quanto più l’operaio lavora, tanto piùacquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch’egli si crea di fronte, e tantopiù povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno eglipossiede. Come nella religione. Più l’uomo mette in Dio e meno serba in sestesso. […]Ma l’alienazione non si mostra solo nel risultato, bensì anche nell’atto dellaproduzione, dentro la stessa attività producente. […]Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè nonappartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro,bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna liberaenergia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito.L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sénel lavoro. […] Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavorocostrittivo. […]Il lavoro alienato fa dunque:

3) della specifica essenza dell’uomo, tanto della natura che del suo poterespirituale di genere, un’essenza a lui estranea, il mezzo della suaesistenza individuale; estrania all’uomo il suo proprio corpo, come lanatura di fuori, come il suo essere spirituale, la sua essenza umana;

4) che un’immediata conseguenza del fatto che l’uomo è estraniato dalprodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale, dalla sua specificaessenza, è lo straniarsi dell’uomo dall’uomo.

Marx, Manoscritti economico-filosofici, in Opere filosofiche giovanili,trad. di G. Della Volpe, Editori Riuniti

La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protestacontro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, ilsentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizionesenza spirito. Essa è l’oppio del popolo.

Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione,in K. Marx, La questione ebraica, Editori Riuniti.

I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo ma si tratta ditrasformarlo.

Marx, Tesi su Feuerbach, in Marx-Engels, Opere scelte,a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti

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La prima fase dell’elaborazione filosofica di Marx è imperniata sul concetto di alienazione,attinto sia da Hegel sia da Feuerbach. Da entrambi Marx si distingue in modo originale inquanto reinterpreta l’alienazione in chiave socio-economica, cioè come connotazioneessenziale della condizione operaia, ovvero, in senso lato, dell’uomo in quanto lavoratoredipendente.Il presupposto della reinterpretazione marxiana del concetto di alienazione è la suaconcezione del lavoro come essenza della specie umana. Per Marx tutti gli animali, uomocompreso, per sopravvivere usufruiscono delle risorse naturali, ovvero si pongono inrapporto con la natura. Ma le specie animali non umane intrattengono con la natura unrapporto immediato, cioè diretto, e quindi meccanico, ovvero determinato. P.e., le pecorebrucano l’erba, gli orsi stabiliscono le loro tane nelle grotte. Gli uomini invece usano econsumano le risorse naturali in modo mediato e indiretto, cioè appunto attraverso illavoro e le sue tecniche. P.e., mangiano il frumento, ma dopo averlo coltivato, macinato eimpastato; si costruiscono case con mattoni e malta da essi stessi prodotti, ecc.L’intelligenza e la stessa autocoscienza dell’uomo, secondo Marx, sono tutt’uno conl’attività lavorativa, derivano da essa e sono finalizzate ad essa. Ciò significa che grazie allavoro l’uomo non si lascia determinare dalla natura, ma è creatore del suo rapporto conessa e pertanto lo può cambiare nel tempo. Ecco perché, mentre il rapportoanimale/natura è fisso e immutabile, il rapporto uomo/natura è dinamico, muta neltempo, ovvero genera la storia. Per Marx dunque è il lavoro che rende l’uomo un esserestorico e quindi anche civile e culturale.Ma dire che il lavoro è l’essenza dell’uomo equivale a dire che ogni individuo umano puòrealizzarsi e conseguire il suo benessere psicofisico solo lavorando. Com’è possibile allorache il lavoro sia alienante per l’operaio, ossia non solo non lo renda ciò che è, e quindifelice, ma lo renda al contrario ciò che non è, altro da se stesso, e quindi infelice?La risposta di Marx si articola in relazione a 4 parametri:

1) al prodotto del lavoro operaio;2) alle modalità del lavoro operaio;3) all’essenza dell’operaio in quanto uomo;4) ai rapporti personali tra gli uomini.

In primo luogo, Marx afferma che il lavoratore è alienato perché il prodotto del suo lavoronon appartiene a lui, ma all’imprenditore capitalistico suo padrone. L’operaio produce,p.e., una borsa, ma essa appartiene al padrone che poi la venderà a un commerciante. Altermine dell’attività lavorativa l’operaio riceve invece il salario, che non è l’equivalente delvalore di ciò che ha prodotto ma del costo della sua forza-lavoro, cioè dei mezzi necessarialla sua sopravvivenza e alla sua riproduzione. In questo senso, questa prima modalità dialienazione si manifesta nella miseria materiale dell’operaio.In secondo luogo, il lavoratore è alienato perché, non avendo la possibilità di un lavoroautonomo, è costretto a lavorare alle dipendenze altrui è pertanto non può organizzare ilsuo lavoro liberamente ma deve lavorare come e quando vuole il suo padrone.In terzo luogo, l’alienazione colpisce l’essenza umana stessa dell’operaio. Infatti, in quantouomo, l’operaio potrebbe realizzare la sua essenza solo nel lavoro. Ma, poiché non puògestirlo liberamente e non può disporre del suo prodotto, di fatto non può realizzarsi nellavoro. Paradossalmente, allora, l’operaio cerca di realizzarsi nel tempo libero, p.e.mangiando e bevendo, ma in questo modo non si realizza come uomo, bensì come bestia.In quarto ed ultimo luogo, nel momento in cui non è considerato un fine ma è usato comeun mezzo dal padrone, l’operaio non può che concepire e praticare le relazioni umane –con il padrone stesso, ma anche con gli altri operai, con la moglie e i figli - in modo distortoe strumentale. In altre parole, i rapporti tra uomini si alienano riducendosi a rapporti tracose.

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Ma com’è possibile che l’attività che dovrebbe costituire la realizzazione dell’identitàumana sia invece la sua negazione? Marx risponde che l’alienazione del lavoro è l’esito diun mutamento storico, ovvero di determinate condizioni socio-economiche. In particolare,il presupposto fondamentale dell’alienazione operaia è la proprietà privata dei mezzi diproduzione (terre, sementi, utensili, capannoni, macchinari, ecc.). Grazie ad essa, è nato esi è affermato il sistema economico capitalistico-borghese che aumenta continuamente laprivatizzazione dei mezzi di produzione polarizzando la società in una ristretta élite dicapitalisti sempre più ricchi e in una massa di proletari sempre più poveri.Stando così le cose, sostiene Marx, l’alienazione potrà essere superata solo mutando lecondizioni economico-sociali capitalistico-borghesi, ovvero solo instaurando il socialismo.In una prima fase, Marx fonda la possibilità del rovesciamento del capitalismo nelsocialismo sulla dialettica alienazione/disalienazione. Se l’alienazione capitalista ha negatol’essenza originaria dell’uomo, essa non potrà che essere a sua volta negata, cioè abolita,dall’esigenza umana di disalienarsi, cioè di riconquistare l’essenza perduta. Naturalmente,sarà la classe che maggiormente subisce l’alienazione, cioè il proletariato, il soggettorivoluzionario che abbatterà il capitalismo e instaurerà il socialismo.Una volta attuata, la rivoluzione socialista permetterà all’umanità di superare anchel’alienazione religiosa. La causa dell’illusoria credenza in Dio, infatti, afferma Marx, non èla coscienza umana del divario tra l’esistenza individuale finita e l’essenza di specieinfinita, e nemmeno la dipendenza strutturale dell’uomo nei confronti della natura, mal’oppressione economico-sociale prodotta dall’evoluzione storica dell’umanità. In questosenso, Marx giudica ogni religione “oppio del popolo”, cioè una droga mentale che infondenegli oppressi un’illusoria sensazione di benessere prospettando loro il paradiso celeste,cioè un’immaginaria liberazione futura dall’oppressione e dalla miseria. La religione,dunque, da un lato spinge l’oppresso a sopportare senza ribellarsi la sua oppressione,dall’altro, però, esprime il suo bisogno di liberazione e dunque la critica alla condizione dioppressione. Di conseguenza, sostiene Marx, l’alienazione religiosa, faccia superficialedell’alienazione economico-sociale, non può essere eliminata dalla persuasione filosofica,cioè su un piano teorico, ma soltanto dalla rivoluzione socialista, cioè su un piano pratico-politico.

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TAPPA 2 MARX: IL MATERIALISMO STORICO

Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filoconduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nellaproduzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapportideterminati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti diproduzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loroforze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzionecostituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla qualesi eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondonodeterminate forme sociali della coscienza. Il modo di produzione della vitamateriale condizione, in generale, il processo sociale, politico e spiritualedella vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è,al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un datopunto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano incontraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti diproprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali taliforze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delleforze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca dirivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge piùo meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studianosimili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra losconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, chepuò essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le formegiuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in una parola le formeideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e dicombatterlo. […] Una formazione sociale non perisce finché non sianosviluppate tutte le forze produttive per la quale essa offra spazio sufficiente;nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che sianomaturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loroesistenza. […] A grandi linee i modi di produzione asiatico, antico, feudale eborghese moderno possono essere designati come epoche che marcano ilprogresso della formazione economica della società. I rapporti di produzioneborghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzionesociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di unantagonismo che sorge dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma leforze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano inpari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo.Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della societàumana.

Marx, Per la critica dell’economia politica, Prefazione,in Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti

“Materialismo storico” è il nome col quale Marx battezza la sua teoria della realtà storico-sociale. Per Marx si tratta di una teoria scientifica, di una scienza della società e dellastoria, fondata su fatti empirici e leggi necessarie e universali, cioè dotate della stessaforma logica e della stessa valenza predittiva delle leggi di natura. Tuttavia i fatti e le leggistorico-sociali differiscono parzialmente da quelle naturali in quanto sono di tipodialettico, sono cioè caratterizzati da una relazione binaria di interazione conflittuale, o“negazione”, destinata a svilupparsi e risolversi in una “negazione della negazione”, dando

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così origine a una nuova civiltà e a una nuova epoca. E’ questo carattere dialettico chespiega la variabilità della realtà storica rispetto alla fissità della realtà naturale e, quindi, laspecificità della scienza storica rispetto alle scienze della natura.Ogni società umana, afferma in prima battuta Marx, è divisibile in 2 sottosistemi:

1. la struttura, che coincide con il sistema economico, cioè con l’attività produttivafinalizzata al sostentamento materiale di una società;

2. la sovrastruttura, che comprende lo Stato, e quindi il diritto, la religione/chiesa,l’arte, la letteratura, la filosofia, la scienza, i costumi, le mode, la mentalità, più ingenerale le idee.

Le denominazioni che Marx utilizza per designare questi due sottosistemi sociali sonorivelative del loro rapporto gerarchico: la struttura rappresenta il livello primario edeterminante, la sovrastruttura quello secondario e determinato. Ciò significa che perMarx il sottosistema politico-culturale di una società è un effetto del sottosistemaeconomico, ossia che le istituzioni politiche, le associazioni sociali, i movimenti culturali ele mentalità diffuse rispecchiano il modo in cui una società organizza e svolge la suaattività produttiva. Dunque, a seconda del tipo di economia una società avrà uncorrispondente tipo di Stato, un corrispondente tipo di chiesa, una certa letteratura e cosìvia.Ciò vuol dire che la sovrastruttura è un mero ornamento della società o una appendicesenza alcuna funzione? No, perché la sovrastruttura retroagisce sulla struttura in duemodi:

a) in quanto rende la struttura più salda e quindi più efficiente, agendo dunque siacome un collante sia come un catalizzatore;

b) in quanto può rimanere uguale al variare della struttura, ovvero possiede una sortadi inerzia, e quindi può frenare il cambiamento della struttura.

Può frenare, ma non impedire: prima o poi il cambiamento strutturale vince la resistenzadell’inerzia sovrastrutturale e impone un cambiamento sovrastrutturale.La struttura dunque può cambiare e proprio questo cambiamento, come si è detto,costituisce la specificità delle società umane rispetto al mondo naturale. La domandacruciale è allora: cosa fa cambiare la struttura e, di conseguenza, la sovrastruttura? In altreparole, qual è la causa del divenire storico-sociale? La risposta di Marx, che costituisce ilcuore pulsante del materialismo storico, è:

il conflitto dialettico tra le forze produttive (FP) e i rapporti di produzione (RdP),che rappresentano i due fattori fondamentali del sottosistema economico.

Ma cosa intende Marx per FP e RdP? Le FP sono l’insieme delle capacità fisico-mentali umane (forza muscolare, abilità

manuale, conoscenze tecnico-gestionali) e dei mezzi naturali e materiali (p.e. uncavallo, una zappa o un altoforno) grazie ai quali si produce e che determinano laquantità del prodotto.

I RdP sono le relazioni che si stabiliscono tra gli uomini come produttori e chedipendono dalla diversa divisione 1) della proprietà dei mezzi di produzione, 2) dellemansioni lavorative, 3) del prodotto. In sostanza, i RdP determinano le diverseclassi sociali, p.e. i nobili feudali, in quanto proprietari della terra che svolgevanoattività politico-militare e incameravano la maggior parte del prodotto, o i servidella gleba, in quanto nullatenenti che coltivavano le terre concesse loro dai nobili ericevevano una porzione del prodotto finale.

Secondo Marx, lo sviluppo delle FP è una sorta di variabile indipendente della storia. Le FPinfatti tendono costantemente a crescere. I RdP costituiscono il contesto organizzativo cherende possibile tale crescita, ovvero ne sono lo strumento e la modalità. Ma mentre lacrescita delle FP è illimitata, i RdP sono limitati, cioè permettono solo un certo grado disviluppo delle FP. Di conseguenza, raggiunto il tetto massimo di crescita consentito da un

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certo tipo di RdP, la necessità di un ulteriore incremento delle FP impone il cambiamentodei RdP. In altre parole, mentre in un primo tempo tra FP e RdP vi è un rapportofunzionale, in un secondo momento emerge il conflitto dialettico tra FP e RdP, conconseguente “negazione” degli RdP, ovvero con la loro sostituzione da parte di nuovi RdPfunzionali a un ulteriore sviluppo delle FP.Per comprendere immediatamente la concezione di Marx, può essere utile usare unesempio analogico alla portata di tutti: quello del cambio di un’automobile. Di solito peravviare un’auto si mette la prima, che consente un piccolo incremento della velocità fino aun limite oltre il quale, per poter andare più veloci, bisogna inserire la seconda(possibilmente senza dimenticare di schiacciare il pedale della frizione); poi la terza e cosìvia fino alla quinta. La velocità dell’auto rappresenta allegoricamente le FP, le marce i RdP,l’acuto del motore fuori giri il conflitto dialettico tra la tendenza all’aumento delle FP e laresistenza dei RdP dati alla loro sostituzione con nuovi RdP, il rombo baritonale delmotore di nuovo nei giri l’imporsi dei nuovi RdP e il successivo aumento di velocitàl’ulteriore incremento delle FP reso possibile dai nuovi RdP.Marx classifica 5 tipi di RdP in base a 5 modi di produzione (MdP) che sono, in successionestorico-cronologica:

1. il MdP asiatico-tribale, proprio delle società primitive nomadiche, che vivevano diraccolta, caccia e allevamento, caratterizzate da una sorta di comunismo dellapenuria, in quanto non conoscevano né proprietà privata, né una significativadifferenziazione delle mansioni né una sostanziale disuguaglianza delladistribuzione del prodotto;

2. il MdP antico-schiavistico, proprio delle società stanziali antiche (da quella sumeraa quella romana), che vivevano soprattutto di agricoltura, nelle quali all’aumentaredella ricchezza complessiva corrispondeva la prima divisione in classi (aristocraziafondiaria, piccoli proprietari, commercianti, artigiani e schiavi) e le prime forme didisuguaglianza;

3. il MdP feudale, proprio della società europea medievale, basato sull’agricoltura e suuna divisione in classi simile a quella del MdP antico ma con la sostituzione dei servidella gleba agli schiavi;

4. il MdP capitalistico-borghese, proprio della società occidentale moderna econtemporanea, basato sulla preminenza dell’industria e sulla divisione in borghesi(o capitalisti), proprietari dei mezzi di produzione, e proletari (braccianti e operai),nullatenenti costretti a vendere la loro forza-lavoro in cambio di un salario di merasussistenza;

5. il MdP socialista/comunista, destinato a imporsi in un futuro prossimo nella societàoccidentale, e nel medio-lungo periodo in tutto il mondo, sempre basato sullapreminenza dell’industria ma caratterizzato dalla proprietà collettiva dei mezzi diproduzione e dall’abolizione di ogni differenza di classe, cioè dall’uguaglianzaeconomico-sociale.

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TAPPA 3 MARX: LA LOTTA DI CLASSE, LO STATO SOCIALISTA E IL COMUNISMO

La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi.Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri dellecorporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre statiin contrasto tra loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta,a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazionerivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.Nelle prime epoche della storia troviamo quasi dappertutto una completadivisione della società in varie caste, una multiforme gradazione delleposizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi;nel medioevo signori feudali, vassalli, maestri d’arte, garzoni, servi dellagleba, e per di più in quasi ciascuna di queste classi altre speciali gradazioni.La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non haeliminato i contrasti tra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuovecondizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche.L’epoca nostra, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché hasemplificato i contrasti fra le classi. La società intiera si va sempre piùscindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamenteopposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.

Marx-Engels, Manifesto del partito comunista,in Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti

Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale cheusurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo ditrasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione,dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anchela ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata,unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzionecapitalistico. Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo dip r o d u z i o n e , che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. Lacentralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavororaggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucrocapitalista. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privatacapitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.Il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzionecapitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la primanegazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale.Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di unprocesso naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione. Equesta non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietàindividuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione esul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dallavoro stesso.

Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti

Come si è detto, la teoria materialistica della storia di Marx sostiene che il passaggio daogni MdP, ossia da ogni tipo di RdP, all’altro è causato dal conflitto dialettico ricorrente traMdP esistente e necessità di un ulteriore sviluppo delle FP. Questa spiegazione scientifica

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della storia vale però, sostiene Marx, al livello della massima generalizzazione e quindidella massima astrazione teorica. A un livello più specifico, il conflitto dialettico RdP/FPassume la configurazione più concreta della lotta tra le classi, in particolare tra le due classimaggiormente antagoniste, e quindi determinanti, di ogni MdP: aristocratici e schiavi,nobili e servi, borghesi e proletari. Ciò significa che in ogni società umana, secondo Marx,la classe dominante è quella che ha inventato e introdotto i RdP vigenti, e quindi lotta perconservarli, mentre la classe dominata è quella che inventa nuovi RdP e che lotta perimporli al posto dei vecchi. Qual è il movente soggettivo di questa lotta, cioè della lotta diclasse? L’interesse materiale, risponde Marx. P.e., la nobiltà medievale cerca di conservarei RdP feudali perché grazie ad essi detiene il primato economico-sociale e il potere politico;i borghesi, ex servi della gleba fuggiti ed emancipati, vogliono imporre i loro nuovi RdP perottenere maggiore ricchezza e conquistare il potere politico. Certo, la lotta di classe è anchelotta di idee, anzi si presenta soprattutto come lotta di idee. Ma le idee – e quindi tutti gliideali religiosi, filosofici, morali e politici – sono sempre funzionali alla promozione degliinteressi materiali, cioè sono il loro travestimento razionale, la loro propagandadissimulata.Dunque, in ultima analisi, Marx fonda la sua legge dello sviluppo storico, quella appuntodel conflitto dialettico RdP/FP, sul comportamento individualistico e concorrenzialedell’uomo. Si tratta di un comportamento naturale, cioè innato, oppure acquisito, cioèindotto dalle condizioni storico-sociali? Marx opta per la seconda soluzione. Infatti, da unlato, la società umana primitiva, quella più vicina allo stato di natura rousseauiano, per luisi basa sull’uguaglianza e la solidarietà; dall’altro l’ultimo stadio dello sviluppo storico,quello socialista/comunista, restaura proprio l’uguaglianza e la solidarietà originarie. Inquesto senso, Marx attribuisce il prevalere del comportamento individualistico econcorrenziale, e quindi l’affermarsi della disuguaglianza, all’esigenza umana provvisoriadi emanciparsi dalla penuria e di conquistare l’agiatezza. Infatti, egli sostiene che ilpassaggio alla futura società socialista/comunista potrà avvenire solo quando il MdPcapitalistico-borghese sarà arrivato a un grado di sviluppo delle FP tale non solo darendere inutile, per un loro ulteriore incremento, il comportamento individualistico-concorrenziale ma da rendere anzi necessario il comportamento collettivistico-solidaristico.In questa prospettiva, il materialismo storico ha come sbocco naturale la previsione delcrollo del MdP capitalistico e l’avvento rivoluzionario del socialismo. In tal modo l’esigenzadi scientificità di Marx si salda con il suo progetto politico di rivoluzione sociale. Marx, diconseguenza, dedica il suo maggior sforzo intellettuale all’analisi della struttura economicacapitalistica e alla declinazione specifica e dettagliata del conflitto dialettico RdP/FP alivello della società capitalistico-borghese. Egli isola così una serie di leggi particolari delcapitalismo che provocheranno inevitabilmente la sua implosione. Tra queste, quelladecisiva è rappresentata dalla legge della polarizzazione economico-sociale, cioè dellasempre più netta divisione della società in una sempre più ristretta e ricca élite di borghesie in una sempre più numerosa e povera massa di operai. Una volta giunta a compimento,tale polarizzazione non può che avere come esito la rivoluzione operaia che instaurerà ilsocialismo, inteso come stadio di transizione dal capitalismo al comunismo. Infatti, dalpunto di vista politico, il socialismo dovrà conservare lo Stato e anzi imporre la “dittaturadel proletariato”, cioè un governo autoritario della maggioranza operaia sulla minoranzaborghese; mentre più avanti, una volta superati i condizionamenti sovrastrutturali delcapitalismo, si potrà abolire lo Stato ed entrare così nel comunismo. Corrispondentemente,sul piano economico-sociale, nel socialismo si dovrà ancora dividere il prodotto in base alprincipio “a ognuno in base al lavoro erogato”; mentre col comunismo il prodotto verràdiviso in base al principio “da ciascuno in base alle sue capacità, a ciascuno in base ai suoibisogni”.

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Ma la tesi più clamorosa di Marx è quella secondo cui il comunismo è il MdP definitivodella storia umana, in quanto è l’unico che permette uno sviluppo illimitato delle FP. Inaltri termini, mentre tutti i precedenti RdP entrano necessariamente in conflitto dialetticocon le FP, i RdP social-comunisti sono immuni da questo conflitto, cioè sono del tuttofunzionali alla crescita delle FP. Perché dunque fanno eccezione? Perché, risponde Marx, adifferenza delle classe precedenti, proprietarie e quindi vincolate ai propri interessiparticolari, il proletariato è una classe “universale”, cioè una classe il cui interesseparticolare coincide con quello dell’intera collettività, in quanto non è legata alla proprietàprivata e quindi non può che aspirare alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione ealla distribuzione egualitaria del reddito. Di conseguenza, il proletariato non può avere uninteresse materiale contrario alla crescita delle forze produttive che dunque nelsocialismo/comunismo potranno finalmente svilupparsi senza alcun freno.Grazie all’abbondanza delle risorse materiali, a sua volta ogni individuo potrò scegliere lapropria attività in piena libertà, senza alcun condizionamento economico-sociale, cioèseguendo le proprie inclinazioni e le proprie attitudini, e in questo modo “il libero sviluppodi ognuno sarà condizione del libero sviluppo di tutti” e viceversa.

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ROTTA DIL POSITIVISMO LIBERALEJohn Stuart Mill si pone apertamente nel solco della migliore tradizione liberale inglese.Attraverso la sua originale rielaborazione, il pensiero liberale classico viene attualizzatoe riformato dando origine a quella cultura liberal che è un tratto tipico dei paesianglosassoni nel XX secolo.In questo senso, pur aderendo al programma positivistico di un nuovo ordine socialefondato sulla scienza, Mill rovescia il rapporto collettività/individuo sostenuto da Comte,attribuendo la priorità alla dimensione individuale.Su questa base, l’opera filosofica di Mill si articola su 3 livelli: quello epistemologico,quello etico e quello politico.A livello epistemologico, Mill concentra la sua indagine sul metodo induttivo. Da un lato,ne individua il fondamento nel principio di uniformità della natura; dall’altro non loidentifica con la semplice generalizzazione per enumerazione ma lo riconfigura come unintreccio di 4 strategie induttive: per concordanza, per differenza, per variazioneconcomitante e per residuo.A livello etico, Mill si rifà all’utilitarismo di Bentham, basato sul principio del “maggiorbenessere possibile per il maggior numero di uomini”, dandone però una versione piùsofisticata nella quale i piaceri intellettuali sono superiori a quelli materiali e il criterio discelta è soprattutto qualitativo anziché esclusivamente quantitativo.Infine, a livello politico, Mill porta il liberalismo alla completa accettazione del principiodell’uguaglianza non solo dei diritti giuridici ma anche dei diritti politici, ossia del dirittodi voto, oltretutto rivendicandolo anche per le donne, della cui emancipazione si faautorevole sostenitore. Inoltre, pur rifiutando il dirigismo statale, accoglie l’istanza diuguaglianza sociale, sostenendo il principio delle pari opportunità di partenza per tuttigli individui e appoggiando il movimento cooperativistico dei lavoratori.Tuttavia, Mill mette in guardia la società moderna da quello che per lui è il suo rischiomaggiore: la tirannide della maggioranza, che si può instaurare a livello socialeattraverso il conformismo di massa e a livello politico attraverso la prevaricazione delpartito più votato su quelli di minoranza.

VITA DI UN CAPITANO JOHN STUART MILLNato a Londra nel 1806, venne educato e istruito da suo padre James - intellettualeseguace e collaboratore di Jeremy Bentham, capostipite dell’utilitarismo inglese – che glifece seguire un programma di studi intensissimo e complesso, soprattutto in rapportoall’età (a 12 anni, p.e., è costretto a leggere Platone e Aristotele), utilizzando il metodopunizione/premio (o, come più espressivamente si dice, del bastone e della carota),improntato alla concezione utilitaristica, già presente in illuministi come Helvétius,secondo cui l’individuo umano è modellato dal suo ambiente, ovvero plasmabile apiacimento attraverso l’educazione. In tal senso, in omaggio al principio primodell’utilitarismo, il criterio-guida dell’educazione paterna fu far acquisire al figliol’associazione spontanea tra il sentimento del piacere e l’agire a favore della felicità altrui.Appena diciassettenne Mill, senza smettere di studiare, cominciò anche a lavorare, comedipendente di suo padre, nella Compagnia delle Indie Orientali, occupandosi dellacorrispondenza. L’anno successivo iniziò anche a scrivere per la Westminster Reviewfondata da Bentham. Nel 1826 Mill cadde vittima della depressione che, distruggendo lasua convinzione in tutto quello che aveva appreso, lo portò a leggere i romantici Coleridge,Wordsworth e Carlyle, che sostenevano una visione del mondo assai diversa da quellautilitaristica. Da essi Mill trasse la convinzione che la formazione culturale è il massimobene umano in quanto frutto e, al contempo, potenziamento della libertà individuale; e che

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formarsi culturalmente comportava aprirsi a molti e diversi orientamenti di pensiero. Inseguito, a partire dal 1929, Mill venne a conoscenza del pensiero di Saint-Simon e poi diquello di Comte, sensibilizzandosi alle grandi questioni della giustizia sociale e della paritàtra uomini e donne. L’anno dopo si innamorò, ricambiato, di Harriet Hardy, donna diprofonda cultura sposata con un commerciante. Nel 1831 conobbe personalmente Carlyle erimase profondamente ammirato dalla sua personalità. Nel 1832, in seguito alla morte diBentham, pubblicò Osservazioni su Bentham, in cui criticò l’interpretazione bethamianadell’utilitarismo senza però rinnegare i suoi principi di fondo. Il saggio su Bentham segnòla fine del periodo di disorientamento spirituale di Mill e l’inizio del processo creativo dellasua filosofia originale. Nel 1834 Mill, senza mai smettere di lavorare per la Compagniadelle Indie, diventò direttore della nuova rivista radical-liberale London and WestminsterReview. L’anno successivo lesse e recensì La democrazia in America, il decisivo saggio delliberal-democratico francese Tocqueville, di cui diventa anche amico. Affetto dallatubercolosi, viaggiò in Europa per soggiornare a scopo terapeutico in Svizzera e in Italia,dove, dopo aver declinato l’offerta della cattedra di filosofia morale da parte dell’universitàdi Glasgow, sarebbe tornato nel 1838 con Harriet Hardy, anche lei sofferente per la tbc.Nel 1837 iniziò a leggere Corso di filosofia positiva di Comte, con il quale intrattennerapporti diretti di corrispondenza e amicizia dal 1841 al 1847, quando Comte ruppebruscamente con lui per la critica che Mill aveva rivolto alla concezione comtiana delrapporto individuo/collettività da lui giudicata dispotica e assimilata a quella di Ignazio diLoyola, il fondatore della Compagnia di Gesù. Solo dal 1836, e cioè dopo la morte delpadre, che non aveva voluto in alcun modo contrariare in vita, Mill cominciò a scrivere epubblicare le opere in cui espose la sua nuova filosofia: Sistema di logica induttiva ededuttiva (1843), Principi di economia politica (1848), Sulla libertà (1859),Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), L’utilitarismo (1863), Auguste Comtee il positivismo (1865). Nel 1851 morì il marito di Harriet Hardy e Mill poté finalmentesposarla. Tre anni dopo i due tornarono a viaggiare in Europa per curare la tbc e Harrietdecise di stabilirsi nella Francia meridionale. Nel 1856 Mill iniziò a scrivere Autobiografia,un’opera di genere molto diverso dalle altre e per la quale possiamo avvicinare Mill alselezionato novero di filosofi – Seneca, Agostino, Montaigne, Pascal, Kierkegaard – cheancorarono concretamente la filosofia alla propria esperienza esistenziale. Nel 1858 Mill silicenziò dalla Compagnie delle Indie per assistere la moglie malata che morì ad Avignonealla fine dell’anno. Nel 1865 diventò deputato della Camera dei Comuni in cui si batté perfar approvare la legge di estensione del diritto di voto alle donne. Non ci riuscì ma continuòugualmente la sua battaglia politico-culturale pubblicando L’asservimento delle donne(1869), che aveva scritto alcuni anni prima su sollecitazione della moglie e avvalendosidella sua collaborazione. Per questo Mill fu il primo intellettuale europeo di grandelevatura a sostenere teoricamente e praticamente la causa dell’emancipazione femminile.Mill morì ad Avignone nel 1873. L’anno successivo fu pubblicata la sua ultima opera, Tresaggi sulla religione.

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TAPPA 1 MILL: UTILITARISMO QUALITATIVO E STATO LIBERAL-DEMOCRATICO

Nella nostra epoca chiunque, dalla più elevata alla più infima classe sociale,vive come se fosse sotto lo sguardo di un censore ostile e temibile. Non solonelle questioni che riguardano gli altri, ma anche in quelle che riguardanoloro soltanto, l’individuo o la famiglia non si chiedono “Che cosa preferisco?”o “Che cosa si addice al mio carattere e alle mie inclinazioni?” o “Che cosapermetterebbe alle mie qualità migliori e più elevate di esprimersi e crescererigogliosamente?”. Ma si chiedono “Che cosa si addice alla mia posizione?”,“Come si comportano abitualmente le persone della mia condizioneeconomica e sociale?” o, peggio ancora, “Come si comportano abitualmente lepersone di condizioni economiche e sociali superiori alle mie?”. Non vogliodire che scelgano la consuetudine invece di ciò che si addice alle loroinclinazioni: non hanno inclinazioni che non siano per consuetudine. Così lastessa mente si piega sotto il giogo: persino in ciò che gli uomini fanno per ilpiacere, il conformismo è il loro primo pensiero; amano stare tra la folla;esercitano la scelta solo tra cose comunemente fatte; l’originalità del gusto,l’eccentricità della condotta sono rifuggiti al pari di crimini; finché, a furia dinon seguire la propria natura, non hanno più natura propria. Le loro facoltàumane deperiscono e inaridiscono; diventano incapaci di desideri forti e dipiaceri spontanei, e in genere sono privi di opinioni e di sentimentiautonomamente sviluppati e propriamente loro. […]Non è stemperando nell’uniformità tutte le caratteristiche individuali, macoltivandole e facendo appello ad esse entro i limiti imposti dai diritti e dagliinteressi altrui, che gli uomini diventano nobili e magnifici esempi di vita; epoiché l’opera partecipa del carattere di chi la compie, mediante lo stessoprocesso la vita umana si arricchisce, si diversifica e si anima, fornendomaggiore stimolo ai pensieri e ai sentimenti più elevati e rafforzando illegame che unisce ciascun individuo alla specie, rendendola infinitamente piùdegna di appartenervi.

Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, 1981

La riflessione etica e socio-politica di Mill mira a rinnovare e perfezionare la grandetradizione liberale inglese avviata da J. Locke e incentrata sul valore prioritariodell’individuo e dei diritti individuali.Nel corso del ‘700 e all’inizio dell’800, nell’alveo del pensiero liberale inglese si erasviluppato l’utilitarismo. Il principale esponente ne era stato Jeremy Bentham, il quale,riprendendo spunti degli illuministi Helvétius, Hutcheson e Beccaria, aveva proposto comeprincipio fondamentale dell’agire appunto l’utilità, definita come “la massima felicità per ilmaggior numero” (“the greatest happiness of the greatest number”).Per “felicità” Bentham intendeva il benessere fisico individuale raggiungibile attraverso lamassimizzazione dei piaceri e la minimizzazione dei dolori. Sulla base di una concezionefondamentalmente materiale dei piaceri, e quindi della felicità, Bentham teorizzava lapossibilità di selezionarli in base al criterio oggettivo immediato della maggior o minorequantità. P.e., un abito invernale più pesante, e quindi più caldo, per lui era preferibile a unabito invernale più leggero e quindi meno caldo.Il principio di utilità, in questo senso, si riferiva per Bentham anzitutto e soprattuttoall’agire individuale. Però non si limitava alla sfera individuale, in quanto il suo meritomaggiore, a parere di Bentham, consisteva proprio nel raccordare effettivamente edequilibratamente sfera individuale e sfera collettiva. A partire dalla propria felicità e

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compatibilmente con essa, infatti, l’individuo doveva agire in modo da contribuire anchealla felicità del maggior numero possibile di altri individui, dal momento che la felicitàaltrui è un fattore della propria felicità.Attraverso la mediazione del padre James, amico di Betham e filosofo utilitarista eglistesso, J.S. Mill fa proprio l’utilitarismo benthamiano ma lo riforma, giudicandolo tropposchiacciato sul materialismo e quindi alquanto grezzo e meccanico. Ferma restando ladefinizione di utilità come “massima felicità per il maggior numero” , Mill sostiene che lafelicità ha certo una componente materiale ma al contempo una più rilevante componenteintellettuale o spirituale. In altre parole, per Mill non solo accanto ai piaceri materiali visono anche i piaceri mentali, ma soprattutto i secondi sono superiori ai primi. Diconseguenza, secondo Mill la selezione e la gerarchizzazione dei piaceri, e dei relativicomportamenti, non possono essere effettuate sulla base del mero criterio quantitativo, maanzitutto e soprattutto sulla base di una criterio qualitativo.Mill, insomma, mette a punto una versione più raffinata e sofisticata dell’utilitarismo, unutilitarismo di tipo intellettual-qualitativo anziché material-quantitativo. Ma come si puògiudicare la maggiore o minore qualità di un piacere senza cadere nel soggettivismo equindi nel relativismo? Basandosi sul parametro quantitativo, Bentham aveva dato al suoutilitarismo un saldo fondamento oggettivo e universale. Mill sembrerebbe aver reso piùarticolato e completo l’utilitarismo, ma al prezzo di minarne l’universalità e di ridurloall’individualismo esasperato.Per risolvere il problema, Mill indica una modalità di giudizio universale della qualità di unpiacere di tipo empirico-statistico, ovvero basata sulla ricorrenza delle effettive scelte degliindividui. In parole più semplici, la qualità di un piacere intellettuale (p.e. la lettura di unromanzo) è maggiore di quella di un altro (p.e. la visione di un dipinto) se a uno di essidanno la preferenza tutti coloro che li hanno provati entrambi e ne sono quindicompetenti.Sul piano politico, Mill apre il liberalismo alle istanze del pensiero democratico e, almenoin parte, del pensiero socialista, diventando così una delle fonti più importanti dei filonipolitici liberal-democratico e liberal-socialista del ‘900.Infatti, ribadendo con forza il primato del valore della libertà individuale, che dunque devecostituire il fine ultimo della politica, Mill sostiene che l’uguaglianza, sia politica siasociale, non va considerata il fine prioritario – questo l’errore dei socialisti - ma tuttaviadebba essere valorizzata come uno dei mezzi utili a realizzare pienamente la libertàindividuale. Di conseguenza, Mill in primo luogo perora la causa del diritto di voto pertutti, ossia del suffragio universale, e oltretutto non solo per gli uomini ma anche per ledonne, distinguendosi come uno dei rari intellettuali maschi dell’800, sicuramente il piùautorevole, sostenitore della causa dell’emancipazione femminile. In secondo luogo,afferma che ogni individuo, uomo o donna, ricco o povero, deve godere di pari opportunitàdi partenza, in particolare grazie al riconoscimento e all’attuazione del diritto allo studioper tutti. Successivamente, però, in base ai diversi meriti e alle diverse preferenzeindividuali, secondo Mill, è giusto che i redditi e gli status sociali si differenzino, purchéentro certi limiti. Lo Stato, dunque, deve astenersi da qualunque intervento nell’economia,però può e deve evitare le eccessive e ingiustificate sperequazioni economico-socialiutilizzando l’imposizione fiscale e operando con essa una parziale redistribuzione deiredditi.Nel momento in cui apre alla democrazia sociale, Mill però denuncia quello che, a suoparere, è il pericolo mortale che essa comporta: la tirannide della maggioranza. In altreparole, la “democrazia” - intesa in senso classico come “potere del popolo”, ossia dei piùpoveri, contro i più ricchi – corre il rischio di trasformarsi in una nuova, più potente eopprimente forma di dispotismo. Essa può instaurarsi a 2 livelli:

1. a livello sociale e culturale, come conformismo;

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2. a livello politico-istituzionale, come dominio di un partito di maggioranza su uno opiù partiti di minoranza.

Al primo livello, quello socio-culturale, Mill, prevedendo le caratteristiche della futurasocietà di massa che cominciava appena a delinearsi nella sua epoca, afferma che la societàè in grado di esercitare un condizionamento spontaneo degli individui, una pressionepsicologica e culturale che li spinge ad agire in modo convenzionale e a uniformarsi gli uniagli altri nel modo di pensare, nelle preferenze culturali, nelle scelte e negli stili di vita,nella moda, ecc. Il risultato è appunto l’imporsi del conformismo di massa che soffoca finoa estinguerle le diversità, le differenze personali, le forti individualità che per loro stessanatura sono eccentriche, divergenti, anticonformiste. Si tratta di un pericolo mortale,secondo Mill, in generale perché la principale ricchezza di una società sono proprio lediversità che permettono di avere più risorse a disposizione per affrontare e risolvere iproblemi; e in particolare perché i maggiori contributi al progresso in ogni campo della vitasociale e culturali sono storicamente venuti proprio dalle forti personalità individualieccentriche e anticonformiste. Per prevenire il pericolo del conformismo socio-culturale egarantire il maggior pluralismo culturale possibile, Mill sostiene che il sistema scolastico,pur se accessibile a tutti, non deve essere controllato dallo Stato e quindi monolitico, maaffidato ad associazioni private di differente orientamento e quindi il più diversificatopossibile.Al secondo livello, quello politico-istituzionale, Mill sostiene che il rischio della tirannidedella maggioranza è insito nel principio democratico secondo cui il partito che ottiene lamaggioranza dei consensi assume il controllo del potere esecutivo. In mancanza di limiti ecorrettivi, il mero criterio della maggioranza – degli elettori o degli eletti – può consentireal partito al potere di limitare o addirittura annullare le chance di rivincita elettorale deipartiti risultati minoritari in una consultazione elettorale. In altri termini, il partito dimaggioranza al governo può usare i poteri statali per garantirsi la superiorità operativa epropagandistica sui partiti di opposizione, impedendo di fatto che essi possano vincereogni successiva elezione e rimanendo per sempre al potere, in modo formalmentedemocratico ma sostanzialmente dittatoriale. Per allontanare il pericolo della tirannidedella maggioranza sul piano politico-istituzionale, occorre, secondo Mill, che sia istituitoun sistema di controlli e contrappesi (checks and balances) in modo da garantire che inogni elezione il partito di governo e quelli di opposizione abbiano effettivamente ugualipossibilità di vincere, ovvero che sia possibile il ricambio delle maggioranze parlamentari edei governi.In conclusione, per evitare il rischio della tirannide della maggioranza, le modernedemocrazie, secondo Mill, devono assorbire e metabolizzare i valori del liberalismo:l’intangibilità dei diritti individuali, il pluralismo culturale, la concorrenza leale.

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ROTTA DIL POSITIVISMO EVOLUZIONISTICOLa versione del positivismo elaborata da Spencer si caratterizza e si distingue dalleprecedenti per il suo taglio evoluzionistico. Attingendo soprattutto a Lamarck, Spencerrivendica di aver elaborato originalmente una teoria dell’evoluzione prima eautonomamente da Darwin. Ciò non gli impedisce, in seguito, di includere e rifonderenella sua filosofia anche alcuni aspetti del darwinismo.Di certo, l’evoluzionismo spenceriano presenta una fondamentale differenza sia dallamarckismo sia dal darwinismo: esso non riguarda solo la realtà biologica, ma l’interarealtà, cioè spazia dagli ambiti astronomico, fisico e chimico a quelli biologico,psicologico, storico-sociale, gnoseologico ed etico. In altre parole Spencer ha l’ambizionedi aver scoperto, con la sua teoria dell’evoluzione, la legge unica universale, quella da cuidipendono tutte le altre leggi particolari della realtà.Tale legge consiste nel passaggio necessario della materia da uno stato semplice edisorganizzato a livelli sempre più alti di complessità e organizzazione. Dopo averladefinita nella sua generalità, Spencer declina la legge dell’evoluzione nei vari settori dellarealtà specificandola e diversificandola come evoluzione fisico-chimica, evoluzionebiologica, evoluzione psicologica, evoluzione storico-sociale, evoluzione scientifica,evoluzione etica. In ogni caso, l’evoluzione per Spencer si configura come progressonecessario e continuo, benché non infinito.Su questa base, fedele all’idea tipicamente positivista secondo cui la scienza è anche esoprattutto previsione del futuro, la filosofia di Spencer sfocia in una visione utopica diun’umanità spontaneamente e compiutamente morale e, di conseguenza, di una societàcapace di autoregolarsi senza aver più bisogno di un potere coercitivo di tipo statale. Inquesto modo, il liberalismo spenceriano ha come esito ultimo una sorta di anarchismoutopico.Tuttavia, Spencer ammette un limite alla conoscenza scientifica e quindi anche allapropria filosofia. Secondo lui, la causa prima e il fine ultimo della realtà sonoinconoscibili e costitutivamente avvolti da un mistero che solo il pensiero religioso puòsondare in base a modalità del tutto autonome da quelle scientifiche. Pertanto, Spencerconclude che scienza e religione sono due sfere complementari e, al contempo, del tuttoindipendenti l’una dall’altra.

VITA DI UN CAPITANO HERBERT SPENCERNacque a Derby in Inghilterra nel 1820 in una famiglia piccoloborghese. Il padre fudapprima seguace del metodismo, un movimento di rinascita religiosa nato all’internodell’anglicanesimo e poi costituitosi in chiesa autonoma, e in seguito del più radicalequaccherismo, che professava un cristianesimo del tutto interiore, l’assoluta non-violenza,l’anticonformismo sociale e la tolleranza verso tutte le religioni e le idee. L’educazionepaterna alimentò l’emergere in Spencer di uno spirito aperto e libertario, ma anchel’interesse per la conoscenza tecnico-scientifica. Spencer, però, subì anche l’influenza dellozio, un puritano intransigente, che gli trasmise un rigoroso senso del dovere e l’ansia diperfezione. Raggiunta l’adolescenza Spencer proseguì la sua istruzione da autodidatta. Nel1840 lesse i Principi di geologia di Lyell, venendo a conoscenza, seppur indirettamente,della teoria dell’evoluzione di Lamarck, prima fonte di ispirazione della sua filosofia.Sempre studiando autonomamente, divenne ingegnere e fu assunto dalla compagniaferroviaria che stava costruendo la linea Londra-Birmingham. La morte dello zio nel 1846e, nel 1853, quella dello stesso padre, lo fecero entrare un possesso di una consistenteeredità che gli permise di vivere di rendita. Spencer abbandonò il suo impiego ferroviarioper dedicarsi totalmente alla sua passione per la filosofia e alla scrittura di articoli e saggi.

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Dal 1848 iniziò a collaborare con la rivista The Economist e nel 1852 pubblicò l’articoloIpotesi dello sviluppo, in cui delineò la sua teoria dell’evoluzione, benché senza ancorautilizzare il termine “evoluzione”, che in seguito fu proprio lui a rendere famoso. Nel 1855pubblicò il libro Principi di psicologia, nel quale spiegò la struttura e il funzionamentodella mente dell’uomo come altrettanti risultati della graduale evoluzione della specieumana. Il libro non ebbe successo, al contrario di L’origine della specie che Darwinpubblicò nel 1859 e nel quale, peraltro, il termine “evoluzione” è usato raramente, mentrepredomina l’espressione “selezione naturale”. Anche per riaffermare la paternità dellascoperta della teoria dell’evoluzione, Spencer nel 1860 scrisse, senza pubblicarlo, Sistemadi filosofia sintetica, in cui tratteggiò il piano complessivo della sua filosofia, che poirealizzò effettivamente negli anni immediatamente successivi pubblicando: Primi principi(1862), esposizione dettagliata della teoria generale dell’evoluzione, Principi di biologia(1864-1867), analisi dell’evoluzione degli esseri viventi, una nuova edizione di Principi dipsicologia (1870-72), Principi di sociologia (1876-86), analisi dell’evoluzione delle societàe degli Stati, Principi di etica (1892-93), spiegazione evoluzionistica della formazione deivalori morali. Durante gli anni della composizione e della pubblicazione del suo sistemafilosofico, Spencer fu afflitto da una grave depressione, connessa anche ai pesanti ritmi dilavoro cui si sottoponeva. Riuscì a superarla, ma da allora fu costretto a limitaredecisamente le ore quotidiane di impegno intellettuale. Di certo non era estranea alle suesofferenze psichiche la sua freddezza sentimentale e la sua incapacità a stabilire legamiaffettivi profondi e duraturi sia con uomini sia con donne. L’episodio più significativo dellesue relazioni con le donne fu la temporanea frequentazione di Mary Ann Evans, futurascrittrice nota con lo pseudonimo maschile di George Eliot, cui faceva visita nella casa-salotto del mentore di lei. In realtà gli unici rapporti umani di Spencer furono quelli di tipoprofessionale e intellettuale, molto lontani dalla vera amicizia e spesso competitivi, comenel caso del suo rapporto con Darwin. In tal senso è molto indicativo il giudizio su Spencerlasciatoci appunto da Darwin: «La conversazione di Herbert Spencer mi parevainteressante, ma non mi piaceva particolarmente e sentivo che non sarei entrato facilmentein intimità con lui. Penso che fosse estremamente egoista. Dopo aver letto qualcuno deisuoi libri provo in genere un'entusiastica ammirazione per il suo talento eccezionale, e misono domandato se in un lontano futuro egli non sarà per caso classificato assieme apensatori come Cartesio, Leibniz e altri, anche se di questi autori conosco ben poco.Cionondimeno, non sono consapevole d'essermi giovato nella mia opera degli scritti diSpencer. Il suo modo di trattare qualunque argomento con un sistema puramentededuttivo è del tutto opposto alla mia struttura mentale. Le sue conclusioni non miconvincono mai, e dopo aver letto qualcuna delle sue discussioni mi è successo molte voltedi dire a me stesso: “Ecco un bell'argomento da lavorarci sopra una mezza dozzina d'anni”.Le sue fondamentali generalizzazioni (che qualcuno ha paragonato per importanza alleleggi di Newton!), e che sono forse utilissime in campo filosofico, sono di tal natura chenon appaiono utilizzabili, in campo strettamente scientifico. Sono piuttosto definizioni chenon leggi di natura e non aiutano a predire ciò che accadrà in casi particolari. Comunquesia, a me non sono state di alcuna utilità». Al netto dei limiti soggettivi del punto di vista diDarwin, il brano mette a fuoco in modo obiettivo l’incommensurabilità tra la teoriafilosofica dell’evoluzione di Spencer e la teoria scientifica dell’evoluzione di Darwin,facendoci comprendere che ha poco senso porsi il problema di chi precedette e influenzòchi. La competitività, in ogni caso, affliggeva anche Darwin, il quale solo in una successivaedizione dell’Origine delle specie citò Spencer e oltretutto presentandolo in modo riduttivocome un anti-creazionista. Spencer morì a Brighton nel 1903. Postuma fu pubblicata la suaAutobiografia.

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TAPPA 1SPENCER: LA LEGGE DELL’EVOLUZIONE COSMICA

L’evoluzione, nel suo aspetto primario, è un mutamento da forme menocoerenti a forme più coerenti, conseguente alla dissipazione del movimento eall’integrazione della materia. […] I fatti provano che tale carattere èegualmente manifesto sia nei primi mutamenti che si suppone l’universoabbia subito nel suo complesso, sia negli ultimi mutamenti che ritroviamonella società e nei prodotti della vita sociale. Dappertutto l’unificazioneprocede in diversi modi simultaneamente.Nell’evoluzione del sistema solare, o di un pianeta, o di un organismo, o diuna nazione, vi è una progressiva unificazione dell’intera massa. Essa puòvenir prodotta dalla crescente densità della materia già contenuta in essa odall’aggiungersi di materia che ne era prima separata oppure da entrambe lecose; ma comporta in ogni caso una perdita di movimento relativo. Nellostesso tempo le parti, nelle quali la materia si è divisa, si consolidano ciascunaal suo interno. Lo constatiamo nella formazione dei pianeti e dei satelliti,sviluppatasi parallelamente alla concentrazione della nebulosa che ha datoorigine al sistema solare; lo constatiamo nella crescita di organi distinti, laquale progredisce di pari passo con la crescita di ciascun organismo; loconstatiamo infine nella nascita di particolari centri industriali e diparticolari masse di popolazione, che accompagna la nascita di ogni società.[…]Ovviamente se, mentre è avvenuta la trasformazione dall’incoerente alcoerente, si sono avute anche altre trasformazioni, la massa, in luogo dirimanere uniforme, è necessariamente diventata multiforme: la proposizioneè identica. Dire che la re-distribuzione primaria è accompagnata da re-distribuzioni secondarie significa dire che, insieme al mutamento da unostato di dispersione a uno di concentrazione, vi è pure un mutamento da unostato omogeneo a uno eterogeneo. Le componenti della massa, integrandosi,si differenziano. […]L’evoluzione, se da un lato è un mutamento dall’omogeneo all’eterogeneo,d’altro lato costituisce un mutamento dall’indefinito al definito. Insieme alpassaggio dalla semplicità alla complessità vi è quello dalla confusioneall’ordine, da un sistemazione indeterminata a una sistemazione determinata.Lo sviluppo, non importa di quale tipo, presenta non soltanto unamoltiplicazione di parti diverse, ma anche un aumento della distinzione concui queste parti si definiscono l’una rispetto all’altra. […]Procedendo in questo modo, e fatta la dovuta aggiunta, la formula definitivapuò essere così stabilita: l’evoluzione è un’integrazione di materia e unaconcomitante dissipazione di movimento, durante cui la materia passa daun’omogeneità indefinita e incoerente a un’eterogeneità definita e coerente,e durante cui il movimento conservato subisce una trasformazione parallela.

H. Spencer, Primi principi, parte II, trad. di Pietro Rossi,in Positivismo e società industriale, ed. cit.

Spencer concepisce e pratica la filosofia come una scienza delle scienze, cioè come unascienza generale e totale, consistente nella sintesi dei risultati particolari delle scienzesettoriali. Tale sintesi si configura come una teoria dell’evoluzione cosmica, secondo la

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quale tutta la realtà è un processo continuo e necessario di perfezionamento, benchédiversificato a seconda dei suoi diversi livelli.Per fondare questa sua teoria Spencer innanzitutto riprende dalla scienza moderna iprincipi canonici della conservazione della materia e del movimento. Secondo lui, infatti, larealtà è costituita da 3 principi generali:

1. l’indistruttibilità della materia: tutto è materiale, ovvero fisico, e la materia è eterna,ossia non si genera né si distrugge;

2. la continuità del movimento: la materia è composta da corpuscoli dotati di un motoperenne, che non si interrompe mai né si esaurisce, ma soltanto si redistribuisce;

3. la persistenza della forza: la forza, o energia, che produce movimento è anch’essapermanente e inesauribile e soggetta unicamente alla redistribuzione e allatrasformazione.

Insomma, anche per Spencer vale la tradizionale sentenza materialistica, secondo cui“nulla si crea, nulla si distrugge, tutto continuamente si trasforma”.Questi 3 principi, secondo Spencer, sono altrettanti pilastri della legge dell’evoluzione, lalegge unica e universale dalla quale dipendono tutte le altre leggi e tutti i fenomeni naturalidella realtà. La legge universale dell’evoluzione consiste nel passaggio necessario, continuoe graduale di tutte le cose:

a) dall’omogeneità all’eterogeneità;b) dall’incoerenza alla coerenza;c) dall’indefinitezza alla definitezza.

In primo luogo, evoluzione, afferma Spencer, significa che la natura passa da uno stato diindifferenziazione, oppure da stati di bassa differenziazione, a stati sempre più alti didifferenziazione. P.e., dalla nebulosa originaria, miscuglio indifferenziato di gas e polveri,si sono evoluti pianeti, stelle, comete, satelliti, meteoriti, ecc.; dagli organismimonocellulari di sono evoluti gli organismi pluricellulari; dalle società primitive prive diclassi e ceti sociali si sono evolute le società moderne stratificate in classi e ceti.In secondo luogo, evoluzione vuol dire che la natura passa da stati di minore coesione dellamateria di cui è fatta a stati di sempre maggiore coesione, integrazione, compattamento,dipendenza reciproca e interazione tra le parti. P.e., un pianeta è più “coerente”, ovverocoeso, della nebulosa originaria; un delfino è più coerente di un lombrico: se fatto a pezzimuore, a differenza del lombrico che invece si moltiplica; la solidarietà sociale tra icittadini di uno Stato democratico moderno è maggiore di quella tra i sudditi di uno Statodispotico antico.In terzo luogo, l’evoluzione consiste nella trasformazione della natura da una condizione diindeterminazione e confusione a una condizione di determinazione e distinzione, cioè auna condizione in cui ogni parte di qualcosa è più specializzata e quindi funzionaleall’insieme. P.e., il sistema solare è più definito della nebulosa originaria in quanto bendistinto in Sole e pianeti, ognuno dei quali dotato di un moto di rivoluzione proprio e alcontempo correlato a tutti gli altri dall’interazione gravitazionale; gli organi interni di unmammifero sono più distinti e quindi meglio interconnessi di quelli di un gasteropode; inuna società moderna la divisione e la specializzazione dei lavori e delle professioni è moltomaggiore che nelle società primitive, e ciò si traduce in una maggiore produttività e quindiin una maggiore ricchezza.E’ chiaro che per Spencer omogeneità, incoerenza e indefinitezza, da un lato, eeterogeneità, coerenza e definitezza, dall’altro, sono sfaccettature di un medesimo eunitario stato naturale. In particolare il trinomio eterogeneità, coerenza e definitezza, cioè irequisiti dell’evoluzione, si sintetizzano in una condizione di articolazione,specializzazione, complessità e funzionalità. In una parola, l’evoluzione secondo Spencerconsiste nell’accrescimento del grado di organizzazione degli enti naturali.

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Tuttavia Spencer sostiene che l’evoluzione non è un processo infinito. Pertanto, raggiuntoil livello massimo di organizzazione l’evoluzione sarà temporaneamente seguita dalladissoluzione, cioè da una dinamica opposta a quella evolutiva, al termine della quale siriavvierà un nuovo ciclo di evoluzione.Spencer declina la sua legge universale dell’evoluzione in 3 modalità parzialmente diverse:

1. l’evoluzione inorganica, propria della realtà meccanico-chimica, studiata daastronomia, fisica e chimica;

2. l’evoluzione organica, propria della realtà vivente, studiata dalla biologia e dallapsicologia;

3. l’evoluzione superorganica, propria della civiltà umana, studiata dalla sociologia edall’etica.

In particolare, l’evoluzione organica si basa, secondo Spencer, sul principiodell’adattamento degli organismi all’ambiente in cui vivono. In altre parole, l’ambientestimola l’uso e quindi lo sviluppo di organi sempre più differenziati e specializzati che sitrasmettono e si perfezionano di generazione in generazione. Questa modalità evolutivariguarda non solo il corpo ma anche la psiche, la quale si trasforma adattandosi sempremeglio all’ambiente. In questa prospettiva Spencer elabora una teoria della mente umanache concilia empirismo e criticismo kantiano. Secondo Spencer, infatti, la mente umana alivello ontogenetico, cioè di sviluppo di ogni singolo individuo, possiede, come avevasostenuto Kant, forme a priori (spazio, tempo, causalità, ecc.), cioè criteri diorganizzazione razionale innati, non derivati dall’esperienza. Tuttavia, a livellofilogenetico, cioè di sviluppo della specie umana, quelle forme a priori hanno avuto unorigine empirica, cioè sono a posteriori, in quanto sono il prodotto selettivo delleesperienze accumulate e trasmesse nei millenni da milioni di individui umani. In altritermini, dai primi sapiens sapiens in poi, gli uomini hanno messo a fuoco per induzione, apartire da singole intuizioni sensibili, delle regole generali. Tali regole, trasmesse pereredità biologica, sono state perfezionate e sedimentate da ogni nuova generazione fino acristallizzarsi in quelle che per Kant erano le forme trascendentali della ragione umana.Ma il livello più alto di evoluzione è quello superorganico, cioè quello proprio della civiltàumana. La sua superiorità, afferma Spencer, è dovuta al suo carattere collettivo. In altritermini, l’adattamento della specie umana all’ambiente è più efficace di quello delle altrespecie viventi perché basato sul più alto grado di cooperazione tra gli individuiappartenenti alla specie e quindi su una maggiore specializzazione. In questo senso,l’evoluzione storico-sociale dell’umanità è un progresso da forme più semplici a formesempre più complesse di cooperazione sociale. Più specificatamente, Spencer circoscrive 2funzioni sociali fondamentali:

1. la funzione militare, connessa al bisogno vitale di aggredire e difendersi;2. la funzione industriale, relativa al bisogno di nutrimento.

In relazione alla modalità di queste 2 funzioni strategiche, Spencer classifica 3 tipi disocietà corrispondenti ad altrettanti periodi del progresso storico-sociale dell’umanità:

1. la società militare, tipica dell’età antico-medioevale, caratterizzata da un poterestatale dispotico, dalla subordinazione dell’individuo alla collettività e da formecoercitive di cooperazione, corrispondenti a un basso grado di coesione sociale;

2. la società industriale, tipica dell’epoca moderno-contemporanea, caratterizzata daun potere statale liberale, dalla subordinazione della collettività all’individuo e daforme libere di cooperazione basate sull’interesse egoistico, corrispondenti a ungrado medio di coesione sociale;

3. la società altruistica, che sarà propria della nuova epoca post-contemporanea,caratterizzata dalla progressiva riduzione del potere statale fino alla sua scomparsa,dalla completa conciliazione e integrazione di individui e collettività, da formealtruistiche di cooperazione, corrispondenti al massimo grado di coesione sociale.

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In questo modo, la sociologia evoluzionistica di Spencer sfocia nella previsione scientificadell’avvento imminente di una nuova società umana concepita come il traguardo delprogresso storico. Questa previsione però non è fondata da Spencer solo sull’evoluzionestorico-sociale ma anche e soprattutto sull’evoluzione etica dell’umanità, che peraltro èsincronica e strettamente intrecciata con quella storico-sociale.In modo analogo al suo evoluzionismo psicologico, l’evoluzionismo etico di Spencerconsiste in un’originale sintesi della tradizione utilitaristica inglese e della morale kantianadel dovere. Secondo Spencer, a livello ontogenetico, ogni individuo umano trova innata insé la legge morale, ovvero un imperativo categorico che, in nome del puro dovere, loobbliga razionalmente ad agire in modo universale e a reprimere quindi gli impulsinaturali e i moventi egoistici. Ma a livello filogenetico, la legge morale è il prodotto dimiriadi di esperienze pratiche che progressivamente hanno portato gli uomini a capire cheil criterio migliore di comportamento è quello della “maggiore felicità per il maggiornumero”, ovvero che il comportamento altruistico è più vantaggioso di quello egoistico. Inquesto modo nella coscienza umana si è gradualmente costituito e sempre più messo apunto l’imperativo categorico teorizzato da Kant che è stato poi trasmesso ereditariamenteda una generazione all’altra, trasformandosi così in una regola universale a priori fine a sestessa, ovvero del tutto disinteressata, che deve essere seguita solo per dovere.Secondo Spencer, l’evoluzione etica futura porterà gli uomini a seguire sempre piùspontaneamente – e dunque sempre più facilmente e sempre più spesso – la legge morale.In altre parole, per Spencer l’uomo diventerà in futuro sempre più istintivamente altruistae questo gli permetterà di avvertire e subire sempre meno l’opposizione degli impulsi e deimoventi egoistici, cioè di infrangere sempre meno la legge morale. E’ chiaro che è su questaevoluzione etica verso la perfezione morale, e dunque verso l’agire spontaneamente epienamente altruistico, che Spencer fonda la sua previsione scientifica di una futura societàpriva di un potere statale.

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SCOPERTA

LA REALTA’ COME CAOS INDETERMINABILE

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CANNOCCHIALE SU…L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE 1873-1913

1. Il capitalismo monopolistico e la II rivoluzione industrialeDal 1873 al 1896 l’economia europea fu colpita da una nuova crisi di sovrapproduzione, più grave epiù lunga delle precedenti, che fu chiamata dai contemporanei “grande depressione”. Essa diedeavvio a un gigantesco processo di ristrutturazione economica che segnò la fine del modello disviluppo liberista e l’affermazione di un nuovo modello di sviluppo di tipo monopolistico eprotezionistico. Tale modello si venne costruendo con la concentrazione delle imprese, attuataattraverso fusioni tra aziende originariamente concorrenti. Il risultato fu la formazione di monopolie oligopoli che disponendo di maggiori capitali d’investimento poterono innovare tecnologicamentegli apparati produttivi. In questo modo le aziende riuscirono ad aumentare la produttività ericostituire ampi margini di profitto.Alla concentrazione del sistema aziendale corrispose la concentrazione del sistema produttivo, cheportò alla nascita della grande fabbrica, in cui erano accentrati enormi macchinari e grandi masse dioperai, sottoposti a un costante controllo e a una rigida disciplina basata sui nuovi metodi diorganizzazione del lavoro (parcellizzazione delle mansioni, definizione dei loro tempi massimi,adattamento dell’operaio ai ritmi delle macchine) teorizzati dall’ingegnere americano Taylor eapplicati per la prima volta nell’industria automobilistica Ford di Chicago.La ristrutturazione del sistema industriale innescò una nuova fase di ripresa e sviluppo di taliproporzioni quantitative e innovazioni qualitative da caratterizzarsi come un nuovo stadio nelprocesso storico dell’industrializzazione. Infatti, non solo l’area dei paesi industrializzati si allargòulteriormente, con l’ingresso dell’Italia e della Russia, ma soprattutto si verificò un salto di qualitànell’innovazione tecnologica in seguito a una vera e propria esplosione di invenzioni che mutaronoil volto della civiltà occidentale marcandone lo sviluppo per mezzo secolo almeno.

2. La belle époque e la società di massaCostruita per l’Esposizione universale del 1889 quale simbolo del progresso tecnico, la torre Eiffeldi Parigi è il monumento emblematico della belle époque, il lungo periodo di pace e sviluppo di cuil’Europa godette tra la guerra franco-prussiana del 1870/71 e la Grande guerra del 1914/18. Lapopolazione aumentò dai circa 300 milioni del 1870 ai 450 milioni del 1913, il massimo tasso dicrescita della storia europea. La durata media della vita, a sua volta, toccò i 55 anni, grazie al calodella mortalità reso possibile dallo sviluppo della batteriologia (Pasteur, Koch), che permise diindividuare e combattere gli agenti della polmonite, della tubercolosi, del colera, del tifo, delladifterite e della peste. In questo modo la durata media della vita ebbe un incremento complessivonell’arco dell’800 di ben vent’anni, cioè di oltre il 60%.Eppure la belle époque fu al tempo stesso un periodo di rapidi, radicali e vastissimi sconvolgimentisociali con un lungo strascico di miserie, sofferenze e frustrazioni che negli anni accumularono unenorme potenziale di aggressività diffusa. La ristrutturazione e il rilancio del sistema economico,infatti, comportarono innanzitutto massicce ondate migratorie che dalle campagne si riversarono neigrandi poli industriali dei paesi europei e oltreoceanici, generando il nuovo proletariatodequalificato e a basso costo delle grandi fabbriche che viveva in condizione di miseria nelleperiferie. Ma in secondo luogo la ristrutturazione capitalistica colpì anche la borghesia tradizionaleprovocando il declassamento di molti elementi del suo strato intermedio - piccoli e mediimprenditori e commercianti, piccoli professionisti e impiegati -, vittime dei fallimenti o degliaccorpamenti aziendali.Nel fuoco di questi processi, venne forgiandosi la nuova “società di massa” caratterizzata dallaconcentrazione della popolazione nei centri urbani, dal maggior numero di contatti e frequentazionitra gli individui, ma insieme dalla spersonalizzazione e dalla anonimia delle relazioni, e dalla

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tendenza all’uniformità culturale indotta a diversi livelli dal comune riferimento a un unico mercatodi prodotti, dai mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio, cinematografo), dalle nuoveforme politiche e sociali di aggregazione (partiti di massa, sindacati), dai sempre più estesi epervasivi apparati statali (esercito, scuola).

3. La crisi dello Stato liberaleLa prima ripercussione politica di questi mutamenti sociali fu la grandiosa espansione delmovimento operaio sia a livello socio-economico - con la nascita di sindacati nazionali - sia alivello politico - con la nascita dei nuovi partiti socialisti e la fondazione della II internazionale diorientamento marxista. Il rafforzamento dei sindacati nel corso della lunga fase di crescitaeconomica si tradusse in un’ondata di lotte contrattuali che strappò forti aumenti salariali,migliorando il tenore di vita delle masse operaie e bracciantili e insieme provocando unallargamento della domanda che contribuì alla ripresa economica.La diffusione in tutti i paesi industrializzati dei partiti socialisti mutò radicalmente gli equilibripolitici sui quali era nato e si era sviluppato il sistema politico liberale. Il movimento socialista,infatti, da un lato impose un progressivo allargamento del diritto di voto fino al suffragio universalemaschile; dall’altro aumentò gradualmente i suoi consensi e la sua rappresentanza parlamentare,arrivando così a costituire un’oggettiva e temuta minaccia per l’egemonia dei partiti liberal-democratici. In questo modo la necessità di rendersi elettoralmente competitivi spinse i partitiliberal-democratici a varare alcune riforme sociali finalizzate ad acquisire consensi elettorali anchedagli strati proletari e al contempo a disinnescare le istanze rivoluzionarie dei partiti socialisti alfine di integrarli nel sistema politico. Contemporaneamente, per evitare il rischio di esplosionirivoluzionarie e per tutelare gli interessi della borghesia e della piccola borghesia, la classe dirigenteliberale abbandonò la tradizionale politica liberista di laisser-faire e cominciò ad attribuire alloStato un ruolo di propulsore e regolatore dello sviluppo economico sia attraverso l’incremento dellecommesse pubbliche sia attraverso l’adozione del protezionismo doganale.L’egemonia liberaldemocratica però non era erosa solo da sinistra ma anche da destra, a causa dellanascita di nuovi movimenti politici di stampo reazionario e nazionalistico, che assorbirono ediffusero le idee razzistiche e xenofobe teorizzate da Gobineau (Saggio sull’ineguaglianza dellerazze umane, 1853-55) e da H.S. Chamberlain (I fondamenti del diciannovesimo secolo, 1899),trovando un seguito, per il momento minoritario ma pur sempre consistente, soprattutto tra lapiccola borghesia che si sentiva minacciata dall’emancipazione del proletariato.

Il colonialismo imperialisticoIn connessione con questa dinamica economico-sociale e politica, il colonialismo europeo raggiunseil suo culmine, ovvero la sua fase imperialistica, basata sulla generalizzazione del dominio politicodiretto o indiretto. L’imperialismo infatti trovò una potente spinta nella convergenza enell’integrazione di una vasta e diversificata serie di fattori e di interessi: a livello economico, laricerca di nuovi mercati protetti, di ulteriori commesse pubbliche e di maggiori occasioni dispeculazione finanziaria; a livello politico-militare, una facile modalità di attuazione della politicadi potenza e insieme di attivazione di una valvola di sfogo alle tensioni dirette tra gli Stati europei; alivello sociale, la crescita demografica e le aspettative di lavoro, di promozione sociale e diarricchimento; a livello ideologico, l’esigenza di suscitare e al contempo di soddisfare lo spiritopatriottico e nazionalistico delle masse.

La deriva verso la I guerra mondialeAnche a causa dell’accumulo delle tensioni legate alla competizione imperialistica, nel primodecennio del ‘900 l’Europa cominciò a scivolare verso la Grande guerra. A livello politicointernazionale, durante la belle époque si erano vieppiù inaspriti i conflitti bilaterali tra Francia eGermania per l’Alsazia-Lorena, Austria e Italia per il Trentino e Trieste, Austria e Russia per

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l’egemonia sui Balcani, e soprattutto tra Inghilterra e Germania per l’egemonia continentale.Quest’ultimo contrasto spinse l’Inghilterra a uscire dal suo “splendido isolamento”, ad abbandonareil suo ruolo di arbiter super partes delle controversie internazionali e a scendere nell’arena europea.In questo modo il conflitto Inghilterra-Germania si trasformò da bilaterale in multilaterale, inquanto le due massime potenze europee divennero i centri di coagulo di due sistemi di alleanzecontrapposte – la Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia) e la Triplice Intesa (Inghilterra,Francia, Russia). Dopo l’attentato di Sarajevo, fu questa polarizzazione in blocchi antagonisti chetrasformò la guerra locale tra Austria, da una parte, e Serbia e Russia, dall’altra, in una guerraglobale.Questa dinamica politica internazionale si intrecciò strettamente con le dinamiche politiche e socialiinterne dei diversi Paesi. Sul piano politico, la concorrenza dei movimenti nazionalistici spinse leélite politiche liberal-democratiche ad assumere posizioni più nazionalistiche, e quindi bellicistiche,onde evitare la perdita di consenso da parte dell’opinione pubblica piccolo borghese; al contempo,la minaccia socialista, considerata più pericolosa per il suo potenziale rivoluzionario, le indusse avedere nella guerra una opportunità per deviare la lotta di classe e per bloccare l’avanzata operaia.In modo speculare, le frange più radicali dei partiti socialisti europei, i cosiddetti sindacalistirivoluzionari e gli anarchici, erano favorevoli allo scoppio della guerra perché credevano che essapotesse innescare una rivoluzione.Questa situazione politica affondava le sue radici in un contesto sociale nel quale i livelli diaggressività individuale e di violenza diffusa si erano impennati a causa dell’intreccio di diversiprocessi. Da una parte la lunga e potente crescita economica a cavallo del secolo aveva provocatoun forte aumento delle aspettative di crescita del reddito e di ascesa sociale, cui fece seguito, se nonuna diminuzione, quanto meno una stasi delle opportunità reali di miglioramento a causa di unanuova fase di stagnazione economica cominciata sul finire del primo decennio del ‘900. A ciò siaggiunsero la sempre più aspra concorrenza economica scatenata dal capitalismo monopolistico eprotezionistico, e la sempre più acuta tensione internazionale non solo tra gli Stati ma anche tra ipopoli europei. La convergenza sincronica di questi tre processi si tradusse nella diffusione disentimenti di deprivazione relativa, di precarietà e di incombente minaccia, ovvero in uno statopsicologico generalizzato di frustrazione e depressione. Tale condizione psicologica costituì ilterreno di coltura delle idee e delle pratiche violente che incanalarono e sfogarono frustrazione edepressione in aggressività contro individui e gruppi catalogati come “nemici”. Il più evidente einquietante campanello d’allarme dell’esito politico violento di questa situazione psicologica dimassa fu la recrudescenza dell’antisemitismo in tutti i paesi europei.Anche la produzione culturale concorse a provocare la situazione bellica. In parte essa favorìdirettamente la scelta di entrare in guerra, come nei casi paradigmatici del filosofo Sorel,teorizzatore della “guerra di classe” e della violenza come “madre della storia”, del poeta futuristaMartinetti, propugnatore della violenza e della guerra come “unica igiene dei popoli”, del poeta-vate D’Annunzio, che nei suoi romanzi e nei suoi drammi diffuse una versione riduttiva, imperniatasulla forza e sulla prevaricazione, del modello del “superuomo” del filosofo Nietzsche.In parte essa non si oppose al diffondersi degli atteggiamenti nazionalistici e bellicistici e li favorìindirettamente alimentando il sentimento di crisi, decadenza e prossima dissoluzione della civiltà.Una riprova di ciò si ebbe in quello che l’intellettuale francese Benda chiamò il “tradimento deichierici”, cioè nell’arruolamento da parte di ogni stato belligerante dei propri intellettuali più famosinon solo per sostenere la causa dell’intervento nella guerra ma anche e soprattutto per condurre lafondamentale lotta propagandistica contro i popoli e gli stati nemici. I casi più clamorosi furonoquelli di Bergson in Francia, di Mann in Germania, di D’Annunzio in Italia.

La II rivoluzione scientificaLa sempre maggiore interazione tra innovazione tecnologica e scienza teorica, connessa alla IIrivoluzione industriale, e insieme l’ampliamento e la sempre maggiore integrazione della comunità

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scientifica internazionale diedero un nuovo, potente impulso all’estensione e all’approfondimentodella ricerca scientifica, che giunse così alla scoperta di nuove anomalie rispetto al paradigmameccanico newtoniano che aveva dominato l’800. In questo modo si avviò la II rivoluzionescientifica che portò all’abbandono del paradigma meccanicistico e alla definizione di nuoviparadigmi relativistico e quantistico.La svolta si ebbe nel 1873 con l’elaborazione della teoria elettromagnetica da parte di J.C. Maxwell.Le equazioni con cui Maxwell descriveva e unificava i fenomeni elettromagnetici, infatti,risultavano in contrasto con il principio classico della relatività galileiana. Fu questa anomalia chenel 1905 spinse A. Einstein alla formulazione della sua prima teoria della relatività - detta ristretta ospeciale, perché valida solo per il moto rettilineo uniforme. Mentre Einstein elaborava la suarivoluzione scientifica a livello della fisica macroscopica, una rivoluzione ancora più radicale siandava compiendo nella fisica microscopica. Essa prese l’avvio da un’anomalia rispetto alle leggidella termodinamica classica mostrata dai fenomeni di interazione tra la materia e le radiazioni.L’anomalia venne spiegata nel 1900 da M. Planck con l’elaborazione della teoria dei “quanti”. Lateoria quantistica fu applicata nel 1913 da N. Bohr alla descrizione dei fenomeni subatomici e inparticolare del movimento degli elettroni, scoperti nel 1897. Il modello di Bohr si rivelò efficace maal prezzo di sovvertire le leggi della meccanica classica.

La rivoluzione psicanaliticaMa ancora più dirompente fu l’effetto arrecato, nell’ambito delle discipline psicologiche, ma conenormi influenze sulla letteratura e l’arte successive, dalla psicanalisi di S. Freud. Freud infattiarrivò alla scoperta dell’inconscio quale fondamento di tutta la psiche umana, facendo crollare ilpresupposto secolare della psicologia secondo cui la sfera dello psichico si identificava con quelladella coscienza razionale. Questa, inoltre, non solo veniva ridimensionata da totalità a piccola partedella psiche, ma soprattutto era drasticamente depotenziata in quanto epifenomeno dell’inconscio.Si trattava di un nuovo sconvolgimento della concezione dell’uomo che si aggiungeva, a pochi annidi distanza, moltiplicandone gli effetti dirompenti, a quello provocato da Darwin che dopo averelaborato la teoria evoluzionistica l’aveva applicava alla realtà dell’uomo (L’origine dell’uomo,1871), sostenendone la discendenza dai primati e sovvertendo così la millenaria teoriacreazionistica, pilastro della fede religiosa.

La crisi della cultura occidentaleIl processo di formazione di un’industria culturale di massa, iniziato alla fine del ‘700 e acceleratosinel corso dell’800, compì un salto di qualità grazie all’innovazione tecnologica della II rivoluzioneindustriale, alla formazione della società di massa e alle nuove funzioni acquisite dagli Stati. Da unlato il potenziamento delle tecniche tradizionali di stampa permise la crescita e la maggiorediffusione della produzione editoriale (quotidiani, riviste, libri) anche attraverso l’uso di nuoviprodotti, come il feuilleton o romanzo d’appendice, finalizzati al consumo popolare di massa.Dall’altro lato, innovazioni tecnologiche – quali il grammofono, la fotografia, il cinematografo –moltiplicarono le forme e le possibilità di comunicazione e diffusione capillare della cultura alivello di massa. Allo stesso tempo gli Stati, con l’estensione dell’obbligo scolastico e della scuolapubblica, e la maggiore esigenza di istruzione a scopo di promozione economico-sociale feceroaumentare la domanda di libri ma anche le opportunità di lavoro intellettuale. Di conseguenza ilceto intellettuale – dal maestro elementare al musicista – si espanse enormemente. La sualaicizzazione era ormai pressoché totale e la sua estrazione ormai prevalentemente piccoloborghese. Gli intellettuali finirono così per riflettere nella loro azione e della loro opera sia leaspirazioni di ascesa economico-sociale dei piccolo borghesi sia le caratteristiche strutturali dellaloro condizione di classe media posta tra l’incudine della grande borghesia imprenditoriale e ilmartello del proletariato organizzato. Di qui il loro ondeggiare tra atteggiamenti sociali, politici eculturali opposti ma comunque estremi e il loro ribellismo confuso e praticato in modi antagonistici,

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ma accomunato dal rigetto della realtà moderna, della cultura borghese, dello status quo sociale epolitico.A questa evoluzione dell’industria culturale e del ceto intellettuale corrispose il primo emergere diuna cultura della crisi della civiltà occidentale. Scienziati, filosofi, letterati, artisti, seppur per viediversissime, convergettero nel mettere in dubbio e nel rovesciare il patrimonio culturaleconsolidato. Le teorie scientifiche vennero ribaltate e la stessa immagine della scienzarivoluzionata, le certezze filosofiche sgretolate sotto i colpi di una critica spietata, i canoni realisticidell’espressione artistica stravolti da nuove poetiche soggettivistiche che rifiutavano ogni regola.E’ significativa da questo punto di vista la convergenza intorno allo spartiacque del 1870 di opereinnovative della massima rilevanza, che tagliano trasversalmente tutti gli ambiti culturali: L’originedell’uomo (1871) di Darwin, Il battello ebbro (1871) e Una stagione all’inferno (1873) di Rimbaud;La nascita della tragedia (1872) di Nietzsche, I demoni (1872) di Dostoevskij; il Trattatosull’elettromagnetismo (1873) di Maxwell. Si tratta di opere che hanno due denominatori comuni:la messa in discussione di credenze consolidate e la convinzione angosciata di una fine imminente.In campo letterario Dostoevskij, pur dal punto di vista di un credente e secondo i canoni stilistici delrealismo, metteva in scena nei suoi romanzi l’abbandono di massa della fede in Dio e laconseguente crisi morale della società. Dal canto suo Rimbaud, prototipo del “poeta maledetto”,espresse il più drastico rifiuto delle convenzioni sociali, dei valori morali, dei principi estetici dellaciviltà occidentale, teorizzando e praticando il deréglèment (sregolatezza, deragliamento) di tutti isensi come unica via per giungere a scoprire e a realizzare una dimensione autentica di vita.Se gli anni ’70 rappresentarono il punto di svolta, fu nel ventennio successivo che si avviò e siimpose quella mutazione culturale destinata a sovvertire i valori fondamentali della civiltàoccidentale. Essa si manifestò innanzitutto in campo letterario a partire dal 1882, anno di nascita diquel movimento letterario e culturale dall’emblematico nome di “decadentismo”. In quell’annoinfatti il poeta francese Verlaine pubblicò la poesia Arte poetica, che divenne il manifesto dellanuova corrente letteraria improntata al totale ripudio di ogni forma di realismo. In essa Verlaineteorizza la riduzione della poesia a puro suono musicale (“La musica prima di ogni altra cosa”),l’irregolarità del verso, il gusto della sfumatura e della vaghezza allusiva, il rigetto delle rime edell’eloquenza tradizionale. Ma se Arte poetica indica i principi formali del Decadentismo, è lasuccessiva Languore (1883) che ne esprime a pieno i sentimenti e la visione del mondo. Verlaine siparagona all’impero romano nel periodo delle invasioni germaniche, simbolo per eccellenza delladecadenza, della fine, della dissoluzione. Ogni possibilità di vita si è ormai consumata: tutto è giàstato provato, tutto si è dimostrato vano.La poetica di Verlaine fu ripresa e sviluppata da Pascoli, per il quale il poeta deve essere un“fanciullino”. Come tale egli rifiuta la razionalità oggettiva dell’adulto e si affida a una sensibilitàinfantile che non coglie le cose come si presentano oggettivamente, ma come le sente in modoistintivo, immediato, soggettivo. Il poeta divenne così un “veggente”, capace di intendere illinguaggio simbolico delle cose, sognando a occhi aperti, mettendo sullo stesso piano reale e irreale.Anche il linguaggio della poesia deve essere quello del fanciullo. Questi sente la realtà in modoalogico, sconnesso, frammentario e dunque la poesia deve rinunciare alla sintassi per la paratassi eper l’analogia.Se Languore fu il manifesto del Decadentismo a livello della poesia, il romanzo À rebours (1884) diHuysmans lo fu a livello della prosa. Il suo protagonista, Des Esseintes, è un uomo che, dopo avertrascorso la propria vita all’insegna dell’estetismo abbinando con cura maniacale piaceri sensibili eraffinatezza culturale, si ritrova estenuato e in preda a una sempre più profonda nevrosi. Ilpersonaggio di Huysmans fu poi ripreso, pur in modo del tutto particolare, da Stevenson in Il dottorJekyll e Mr Hyde (1886), e soprattutto da D’Annunzio nel Piacere (1889) e da Wilde nel Ritratto diDorian Gray (1890). I protagonisti di questi romanzi additarono come modello umano agliintellettuali e ai piccoloborghesi, quello dell’esteta, che si contrapponeva sia ai valori di

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perbenismo, risparmio e moderazione della borghesia sia a quelli di solidarietà e lotta di classe delproletariato, assumendo tratti tipici dell’antica aristocrazia.Il romanziere che espresse però con più radicalità la crisi del soggetto umano borghese –anticipando i grandi romanzieri del primo ‘900 - fu Pirandello con Il fu Mattia Pascal (1904), il cuiprotagonista è un caso di sdoppiamento della personalità, in quanto ha abbandonato un’identità percostruirsene artificialmente un’altra, ma è destinato a rimanere spaccato tra l’una e l’altra, a nonpoter più essere nessuna delle due. Ma Pirandello fu anche e soprattutto un grande drammaturgo. Ipersonaggi dei suoi drammi sono uomini disgregati, dalla personalità alterata, maniacale oschizoide, emblemi del caos dell’esistenza. Soprattutto i drammi Pirandelliani – Così è (se vi pare),1917 – inscenarono la frammentazione della realtà in un ventaglio illimitato di punti di vista diversie contrapposti, trasmettendo un messaggio di radicale relativismo e soggettivismo.Nello stesso anni in cui Wilde pubblicava il suo più famoso romanzo, il pittore fiammingo VincentVan Gogh (1853-1890) dipingeva il suo ultimo quadro - Campo di grano con volo di corvi - e poi sidava la morte. Come già Rimbaud, Van Gogh espresse l’atmosfera del decadentismo sia nella suavicenda personale - prima del suicidio, soffrì di depressione e di psicosi - sia nella sua pitturapostimpressionistica che anticipò l’espressionismo, che come il decadentismo propugnava unapoetica antinaturalistica, di trasfigurazione soggettivistica della realtà alla ricerca della veritànascosta in essa. Un altro pittore che mediò il passaggio dall’impressionismo all’espressionismo fuil norvegese Edvard Munch (1863-1944), esponente della corrente esistenziale del movimentosimbolista. Munch si ispirò alla filosofia di S. Kierkegaard ed ha il merito di aver contribuito allasua diffusione al di fuori dei Paesi scandinavi all’interno dei quali era rimasta confinata per tuttol’800. Nei suoi quadri Munch esprime i temi dell’esistenzialismo di Kierkegaard e in particolarequelli dell’angoscia e della disperazione (Disperazione,1892) in quanto sentimenti che manifestanola limitatezza e conflittualità interna dell’io.La reazione al neorealismo impressionista portò successivamente all’emergere delle primeavanguardie artistiche contemporanee, l’espressionismo, il cubismo e il futurismo. Le“avanguardie” svilupparono il senso della crisi della civiltà europea e insieme l’esigenza dirinnovamento del linguaggio artistico fino alle più radicali conseguenze.La tendenza espressionistica nacque nel 1905, l’anno in cui Einstein pubblicava la teoria dellarelatività, con la fondazione quasi contemporanea di due circoli artistici, i fauves (belve) a Parigi, dicui fu leader Matisse, e Die Brücke (Il ponte) a Dresda, i cui principali esponenti furono Kirchner ee Heckel. L’Espressionismo intende l’arte come proiezione immediata, spontanea - e pertantoformalmente caotica - di sentimenti e stati d’animo soggettivi, realizzabile attraverso ilprivilegiamento e l’uso libero del colore e la deformazione del disegno. Come i simbolisti e ipostimpressionisti, e più in generale come i decadentisti, gli espressionisti negano valoreall’apparenza sensibile e cercano l’assoluto (la gioia di vivere o lo spirito cosmico o il gridooriginario) in una realtà invisibile, penetrabile solo dalla sensibilità artistica. Ma a differenza deiprimi non la cercano in una più profonda e misteriosa natura, celata in quella apparente, ma nellerisorse e nelle forme dell’arte stessa.Negli stessi anni, grazie alle opere di Braque e Picasso, comincia a definirsi un’altra nuovatendenza, quella del cubismo, che in apparenza contraddiceva quella espressionista in quantomuoveva dall’esigenza di un realismo totale, cioè di rappresentare l’oggetto reale da unamolteplicità di punti di vista simultanei. Tuttavia proprio per questo estremo realismo geometrico ilcubismo giunse a produrre una rottura ancora più radicale delle forme di rappresentazionetradizionali e della visione della realtà.Anche il Futurismo pittorico – legato al Futurismo letterario di Martinetti (Mafarka il futurista,1910) e nato ufficialmente nel 1910 a Milano con il Manifesto dei pittori futuristi promosso daBoccioni, Balla, Carrà - si contrappose alla tradizione in nome di un nuovo realismo. Ma la realtàper i futuristi erano i più avanzati prodotti della civiltà industriale - l’automobile, l’areoplano, laluce elettrica - in quanto simboli del progresso umano. La rivoluzione dei contenuti rappresentativi

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si tradusse così in quella del linguaggio figurativo: rappresentare una macchina significarappresentare la velocità, ma per farlo occorre deformare sia l’oggetto sia lo spazio. L’oggetto inmovimento infatti modifica lo spazio circostante e a sua volta ne viene modificato.Anche nella musica, prese avvio una tendenza al sovvertimento delle forme classiche del linguaggiomusicale. Già Wagner si era mosso in questa direzione con la sua “melodia infinita”. I suoi seguaci(Franck, Bruckner, Mahler) cominciarono a mettere in crisi il sistema armonico privilegiando ilcromatismo cioè la scelta di semitoni non presenti nella scala tonale classica. ContemporaneamenteDebussy, pur mentendosi fedele al tonalismo, crea una musica in cui è assente lo sviluppo tematico.Per questa via negli anni successivi la musica perverrà alla rivoluzione dodecafonica.

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Messaggio nella bottiglia

125. L’uomo folle12. Avete sentito di quel folle uomo che accese unalanterna13 alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise agridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”14. E poiché proprio làsi trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio15, suscitògrandi risa. “E’ forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come unbambino?” fece un altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Siè imbarcato? E’ emigrato?” - gridavano e ridevano16 in una granconfusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoisguardi: “Dove se n’è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo statinoi ad ucciderlo: voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini17! Ma comeabbiamo fatto questo? Come potremmo vuotare il mare bevendolo finoall’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’interoorizzonte? Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena delsuo sole?18 Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via datutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, difianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso?19 Nonstiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su dinoi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venirenotte, sempre più notte?20 Non dobbiamo accendere lanterne lamattina21? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio,non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divinaputrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio restamorto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassinidi tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente22 il mondopossedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chidetergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremo noi lavarci?Quali riti espiatori, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non ètroppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo

12 Il filosofo, ovvero Nietzsche stesso, che comprende e annuncia verità ritenute folli perché contrarie al senso comune escomode da sccettare.13 Da sempre simbolo della conoscenza, ma in questo contesto è anche una provocazione dell’uomo folle che è come sedicesse agli uomini che la luce naturale - cioè il buon senso - non è sufficiente per comprendere a fondo la realtà. Mapotrebbe esserci anche una polemica con Platone che nel mito della caverna aveva considerato la luce del fuoco -simbolo della conoscenza sensibile - inferiore alla luce solare - simbolo della conoscenza razionale delle idee.14 Ovviamente le parole dell’uomo folle non riflettono il suo pensiero ma hanno lo scopo di attirare l’attenzione e diprovocare la reazione degli astanti.15 Nietzsche considera l’ateismo un fenomeno storico, un dato di fatto dell’epoca contemporanea.16 La folla al mercato professa un ateismo superficiale, inconsapevole e non comprende l’ironia dell’uomo folle.17 Sono state le conquiste scientifiche e tecniche dell’uomo contemporaneo a scardinare la fede in Dio.18 Metafore del carattere sovraumano dell’eliminazione di Dio, rappresentato dal mare, dall’orizzonte e dal Sole.19 Metafore del possibile disorientamento esistenziale dovuto alla mancanza di un punto di riferimento assoluto.20 Metafore del nichilismo, cioè della perdita di senso della vita e quindi del suo rifiuto.21 Ripresa della metafora iniziale: dal momento che è venuto meno il Sole, simbolo di Dio, l’uomo ora dovrà usare laluce artificiale, cioè una conoscenza basata unicamente sull’uomo.22 Per quanto infondata, la fede in Dio secondo Nietzsche ha avuto un fondamentale ruolo educatore e propulsore.

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noi stessi diventare dèi23, per apparire almeno degni di essa? Non ci fumai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noiapparterranno, in virtù di quest’azione, ad una storia più alta di quantomai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomotacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essitacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sualanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto24 -proseguì - non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento èancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivatofino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lumedelle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopoessere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione èancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppureson loro che l’hanno compiuta!” Si racconta ancora che l’uomo folleabbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quiviabbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori einterrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente inquesto modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e isepolcri di Dio?”.

F. Nietzsche, La gaia scienza, parte III, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi 1965

23 L’uomo non può limitarsi a lasciare il vuoto al posto di Dio, deve invece sostituirlo con un’alternativa, deve cioèelaborare un senso umano della vita assumendosi così il ruolo di un dio.24 La coscienza di Nietzsche del carattere profetico e quindi inattuale della sua filosofia.

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VIAGGIO ILA VITA COME GIOCO DELLA VOLONTA’ DI POTENZA

ROTTA ALA “FILOSOFIA DEL MARTELLO”Nella storia della filosofia occidentale, Friedrich Nietzsche rappresenta una rottura e unpunto di svolta. Il suo pensiero è infatti una confutazione tanto spietata quanto taglientedell’intera tradizione metafisica razionalistica nata da Socrate e culminata nei grandisistemi idealistici e positivistici dell’800.In questo senso, la filosofia di Nietzsche potrebbe essere classificata come uno degliesempi più radicali e attuali dello scetticismo. Sennonché essa esorbita anche da questofilone per la sua originalità, che ne fa un caso unico nel panorama filosofico occidentale.In Nietzsche, innanzitutto, la critica filosofica alla metafisica si amplia e si approfondiscefino a diventare una critica storico-antropologica dell’intera civiltà occidentale. Insecondo luogo l’attuazione di questa istanza critica globale sfocia nell’annuncio profeticodi una rivoluzione culturale capace di dare origine a un “superuomo”, cioè a un nuovotipo di uomo e a una nuova epoca dell’umanità basati su valori alternativi a quelli dellamodernità. Per ultimo, ma non meno importante, le diverse forme e i variegati stililetterari e poetici in cui Nietzsche esprime il suo pensiero costituiscono non solo e nontanto un peculiare e magari stravagante modo di filosofare, quanto soprattutto la cifradella valenza profetica del suo messaggio, che ambisce a proporsi in questo modo comeun’alternativa alla millenaria religione cristiana.Per questi motivi, il pensiero di Nietzsche può essere considerato uno spartiacque tra lafilosofia ottocentesca e quella novecentesca. A parte la questione della sua influenza sullagenesi della teoria psicanalitica di Freud, Nietzsche è infatti uno dei riferimentifondamentali sia dell’esistenzialismo sia dell’ermeneutica. Ma in un modo o nell’altro,implicitamente o esplicitamente, tutti i grandi filosofi novecenteschi, anche quelli a lui piùavversi, dovettero fare i conti con la sua critica e le sue idee.

VITA DI UN CAPITANOFRIEDRICH WILHELM NIETZSCHENacque nel 1844 a Röcken, nei pressi di Lipsia, nella Germania centro-orientale, all’epocafacente parte del regno di Prussia. Entrambi i suoi nonni erano stati pastori luterani e suopadre lo era egli stesso. Alla devozione della sua famiglia per la dinastia Hohenzollern sidevono i suoi nomi propri, attribuitigli in onore del re Federico Guglielmo IV. Primogenito,ebbe una sorella di nome Elisabeth e un fratello che morì ad appena due anni. Mal’esperienza più drammatica dell’infanzia di Nietzsche fu la lunga malattia e la morte delpadre per necrosi cerebrale quando lui aveva solo cinque anni. Terminate le elementari,Nietzsche svolse gli studi superiori prima al ginnasio di Naumburg poi nella prestigiosascuola di Pforta, ricevendone una formazione umanistica rigorosa ma una lacunosaistruzione scientifica. Contemporaneamente imparò a suonare il pianoforte ed acquisì unanotevole educazione musicale, destinata a incidere non poco sulla sua sensibilità e sui suoistessi orientamenti filosofici. Negli anni giovanili, Nietzsche credette a lungo che la suavocazione professionale fosse quella del musicista. Invece, conclusi gli studi ginnasiali, nel1864 si iscrisse alla facoltà di teologia dell’università di Bonn, assecondando i desideri dellamadre. L’anno successivo, però, abbandonò la fede cristiana, complice la lettura di Vita diGesù di D.F. Strauss, entrando per la prima volta in contrasto con la madre. Sull’onda diquesto cambiamento interiore, Nietzsche si trasferì all’università di Lipsia iscrivendosi alla

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facoltà di filologia. A Lipsia lesse due libri fondamentali per la genesi della sua filosofia - Ilmondo come volontà e rappresentazione di A. Schopenhauer e Storia del materialismo diF.A. Lange - e diventò amico del futuro filologo Erwin Rohde. Proprio nel periodo diLipsia, cominciò a soffrire di disturbi fisici - emicranie e reumatismi - che lo avrebberoperseguitato per tutta la vita aggravandosi negli anni. Alla loro origine è probabile che vifosse la sifilide, malattia contagiosa che può colpire il sistema nervoso. Nonostante il suoprecario stato di salute, Nietzsche svolse il servizio militare volontario, rimanendooltretutto ferito in una caduta da cavallo. Alla fine del 1868 incontrò personalmenteRichard Wagner, di cui già conosceva e ammirava la musica. L’anno successivo, i suoiprimi saggi filologici sulla letteratura greca gli valsero a soli 25 anni una cattedra pressol’università di Basilea, in Svizzera. Nel periodo di Basilea conobbe J. Burckhardt, il grandestorico del Rinascimento, strinse una profonda e duratura amicizia con F. Overbeck,storico della chiesa cristiana, frequentò Wagner che abitava nei pressi di Lucerna, si legò aisuoi allievi H. Koselitz - ribattezzato da Nietzsche Peter Gast - e Paul Rée. Oltre adattendere ai suoi corsi universitari, Nietzsche utilizzò la biblioteca universitaria perapprofondire le sue conoscenze scientifiche. Nel 1870 partecipò alla guerra franco-prussiana come infermiere ma si ammalò di dissenteria e difterite e venne ricoverato inospedale. Nel 1872 pubblicò La nascita della tragedia dallo spirito della musica (inseguito ribattezzata La nascita della tragedia. Ovvero: grecità e pessimismo), un saggioapparentemente filologico ma sostanzialmente filosofico. Si tratta infatti di un’opera chetrae spunto dal problema delle origini della tragedia greca - da Nietzsche rintracciate neiriti in onore del dio Dioniso - per proporre un’immagine anticlassicista della civiltà greca esoprattutto un’interpretazione dell’intero sviluppo storico della civiltà occidentalefinalizzata alla profezia di una imminente rivoluzione culturale. Alla interpretazionetradizionale - per la quale la civiltà greca si identifica con la cultura apollinea basata suicriteri della moderazione, della chiarezza, della razionalità, dell’individualità, delmascheramento estetico della tragicità della vita - Nietzsche contrapponeun’interpretazione dualistica dell’origine e dello sviluppo della civiltà greca secondo laquale la cultura apollinea è sempre affiancata dalla più antica cultura dionisiaca fondatasui principi dell’eccesso, dell’ebbrezza, della musica danzata, dello scatenamento degliistinti, del superamento della tragicità della vita e dell’individualità nella fusione orgiasticacon l’unità primordiale della natura. Nel V secolo d.C. le due culture antagoniste trovanoun equilibrio e una conciliazione, dando origine al “miracolo” letterario della tragedia. Magià con l’ultimo grande tragico, Euripide, questo equilibrio comincia a spezzarsi, in quanto,a causa dell’influenza di Socrate, la cultura dionisiaca è sopraffatta e definitivamentesoffocata dalla cultura apollinea. Socrate infatti impone la fede nella ragione, nella moralee nell’ottimismo in nome dell’esistenza di un mondo metafisico perfetto. Da lui ha originecosì quella civiltà occidentale - fondata sul supremo principio della razionalità scientifica emorale - che secondo Nietzsche raggiunge il suo culmine e insieme il suo limite storiconell’epoca contemporanea. Nietzsche auspica perciò il ritorno della cultura dionisiaca, cioèdi una cultura basata sul primato dell’arte e in particolare della musica tragica, identificatanelle opere liriche di Wagner. Con l’unica eccezione dell’amico Rohde, La nascita dellatragedia suscitò reazioni negative tra i filologi accademici che la criticarono per lo scarsorigore metodologico e la scarsa obiettività.Nel 1873, mentre cominciava ad accusare sempre più gravi disturbi alla vista, Nietzschepubblicò la prima delle sue quattro “Considerazioni inattuali”, David Strauss, l’uomo difede e lo scrittore, cui seguirono Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874),Schopenhauer come educatore (1874) e Richard Wagner a Bayreuth (1876). In questisaggi Nietzsche prosegue il discorso avviato nella Nascita della tragedia svolgendo unacritica della cultura contemporanea nella prospettiva di una rivoluzione culturale ispirataall’arte. In particolare nella seconda inattuale, la più significativa, Nietzsche polemizza

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contro l’eccesso di sapere storico della cultura ottocentesca, che vincola gli uomini alpassato e impedisce loro di creare un nuovo futuro, e contro le filosofie storicistiche cheteorizzano l’adattamento passivo a un presunto corso necessario della storia. Per indicare ilgiusto modo di utilizzare la storia Nietzsche distingue tre tipi di atteggiamento storico: 1)l’atteggiamento monumentale che cerca nella storia i personaggi e gli eventi più elevaticome fonti d’ispirazione e modelli per l’azione nel presente; 2) l’atteggiamento antiquario,che si dedica alla ricostruzione del passato perché lo venera e desidera conservarlo cometale; 3) l’atteggiamento critico, che al contrario giudica il passato e ne condanna gli aspettinegativi per legittimare l’azione volta a costruire una nuova realtà futura. Per Nietzschenon bisogna seguire in modo unilaterale uno solo di questi atteggiamenti bensìcontemperarli l’uno con l’altro in modo da evitare il loro difetti e da utilizzarne i rispettivivantaggi. In questa sintesi, però, Nietzsche pone l’accento sull’atteggiamento critico, chepiù degli altri esprime l’esigenza di un cambiamento storico, e inoltre esalta l’arte e lareligione come potenze sovrastoriche e perciò capaci di scuotere l’uomo dal suoattaccamento al presente e al passato per spingerlo a costruire una nuova epoca.A partire dal 1874 Nietzsche adempì sempre più faticosamente ai suoi impegni accademici,a causa dell’ulteriore peggioramento delle sue condizioni di salute cui si aggiunse una crisipsicologica legata ai ricordi della malattia e della morte del padre. La sua precariacondizione psico-fisica lo spinse prima a sospendere l’insegnamento e poi a presentare lesue dimissioni dall’università (1879). Tuttavia negli stessi anni Nietzsche scrisse epubblicò, il giorno del centenario della morte di Voltaire, Umano, troppo umano (1878),che insieme a Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali (1881) e a La gaia scienza (1882)forma il trittico della cosiddetta “fase illuministica” del pensiero nietzscheano. In questeopere infatti Nietzsche imprime una svolta alla sua filosofia, emancipandosi dall’influenzadi Schopenhauer, rinunciando a individuare nell’arte il principio della sua rivoluzioneculturale e valorizzando invece la scienza. Nietzsche però riabilita la scienza non in nomedell’oggettività della verità scientifica, ma perché ne apprezza illuministicamente lo spiritocritico, antimetafisico e più in generale antitradizionalistico, nonché il rigore e la serietàmetodologica. In questo senso, Nietzsche fonde liberamente la sua cultura storica eumanistica con le scienze naturali, in particolare la biologia, allo scopo di dimostrare chetutti i presunti valori ideali e assoluti su cui si è costruita la civiltà occidentale hanno avutoun’origine e una formazione storica a partire da impulsi naturali e relativi. Utilizzando ilnuovo stile aforistico, allo scopo di indurre una maggiore e attiva riflessione nel lettore, lacritica nietzscheana colpisce a 360 gradi tutti gli aspetti della tradizione metafisica:• sul piano gnoseologico, Nietzsche confuta la possibilità di una verità oggettiva e

assoluta, sostenendo che tutti i principi e le nozioni scientifiche non sono altro cheelaborazioni soggettive, interpretazioni prospettiche, “errori” funzionali allaconservazione della specie umana;

• sul piano morale, Nietzsche sostiene innanzitutto che non esistono né il liberoarbitrio né la responsabilità personale in quanto ogni individuo originariamenteagisce per raggiungere il piacere ed evitare il dolore; in secondo luogo spiega che ipresunti valori altruistici in realtà sono fondati sull’utilità e l’interesse sociali i quali sisono storicamente imposti e sostituiti all’utilità e all’interesse individuale;

• sul piano culturale, Nietzsche ritiene che religione, filosofia e arte, nell’intento di dareun fondamento assoluto ai valori conoscitivi e morali, hanno costruito e diffuso,ognuna con i propri strumenti, la credenza in un mondo soprannaturale perfetto edeterno, svalutando così la dimensione terrena e soffocando gli impulsi vitalidell’uomo;

• sul piano socio-politico, Nietzsche ritiene che gli Stati si siano serviti della credenza invalori assoluti per imporre ed estendere i loro poteri, sfruttando il bisogno di

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sicurezza degli individui disposti a barattare la propria libertà con migliori condizionidi vita.

La critica storica di Nietzsche culmina e trova la sua sintesi conclusiva nella tesi della“morte di Dio”, cioè della fine della credenza nel fondamento di tutti i valori assoluti e ditutti i mondi ideali ultraterreni. Nietzsche da un lato propone la “morte di Dio” come undato di fatto della civiltà contemporanea, dall’altro la interpreta come l’esito ultimo e piùpericoloso del nichilismo da sempre latente nella cultura occidentale a causa del suocarattere ascetico e antivitale. Con la morte di Dio, infatti, vengono meno i valori in cuil’uomo occidentale ha sempre creduto, viene meno il senso assoluto della vita che “Dio”garantiva e la vita sembra non avere più alcun senso. Di conseguenza si diffonde il“nichilismo passivo”, che si manifesta nel pessimismo, nel senso della decadenza, nelrisentimento nei confronti dell’esistenza. Ma se il nichilismo passivo è un segno didebolezza e di esaurimento vitale, la morte di Dio può anche essere per Nietzsche lamanifestazione di un “nichilismo attivo”, cioè di una volontà di distruzione di tutti iprincipi ideali che soffocano la vita. In questo senso il nichilismo attivo è un sintomo diforza e rinascita e si realizza negli “spiriti liberi”, cioè negli uomini che considerano lamorte di Dio come la grande occasione per vivere in modo del tutto autonomo e personale.Nel maggio del 1882 Nietzsche conobbe a Roma Lou Salomé, figlia diciannovenne di ungenerale russo, colta e poliglotta, presentatagli dall’ex allievo e amico Rée. Nietzschecredette di aver trovato in lei il suo vero discepolo, e le chiese di sposarlo. Salomé declinòl’offerta matrimoniale, ma accettò di partecipare a una sorta di sodalizio filosofico con idue uomini, entrambi innamorati di lei. I tre progettarono di trasferirsi ad abitare insiemea Parigi o a Lipsia. Nell’immediato però si limitarono a frequentarsi per alcuni mesi aLucerna e Tautenburg. Questa frequentazione fu comunque sufficiente a provocare unanuova, violenta rottura tra Nietzsche e sua madre e sua sorella, le quali volevano chetroncasse ogni rapporto con Salomé. In ottobre Nietzsche, Rée e Salomé passarono unmese insieme a Lipsia, al termine del quale però decisero di separarsi. Nietzsche sentìdeluse le proprie aspettative nei confronti di Rée e Salomé, che a loro volta decisero diandare a Parigi da soli. In seguito alla separazione Nietzsche si trasferì sulla riviera ligure,cadde in stato depressivo, meditò di suicidarsi e abusò di farmaci e alcol. Eppure proprio intale condizione critica scrisse Così parlò Zarathustra di cui pubblicò la prima parte già nelmaggio 1883 (la pubblicazione completa seguì nel 1885). L’opera segna una nuova svoltanella produzione di Nietzsche, che pur senza rinunciare alla critica ambisce ora soprattuttoa proporre una concezione del mondo e una tavola di valori alternative a quelle metafisico-cristiane. Questo intento si riflette anche nella scelta del genere letterario, quella delpoema filosofico, e dello stile linguistico, una sorta di prosa poetica in versetti, sul modellodei Vangeli. Dal punto di vista del contenuto filosofico, Così parlò Zarathustra è centratosull’annuncio del “superuomo” (übermensch), cioè di un nuovo essere che sta all’uomocome l’uomo all’animale. I caratteri fondamentali con i quali Nietzsche tratteggia taleessere destinato a superare l’uomo sono:• la trasvalutazione dei valori, ovvero la sostituzione dei tradizionali valori ideali e

assoluti con nuovi valori naturali e relativi: per esempio dell’altruismo conl’individualismo, dell’amore per il prossimo con l’egoismo, dell’uguaglianza conl’aristocrazia, dell’umiltà con l’orgoglio, della debolezza con la forza; dellasottomissione con il dominio; del cattivo gusto con la bellezza, della volgarità con lostile, ecc.;

• la volontà di potenza, cioè la pulsione a incrementare incessantemente le propriecapacità e le proprie possibilità di vita;

• la creatività, cioè la libera e autonoma capacità individuale di stabilire il senso dellavita e del mondo, di porre nuovi valori, di individuare i fini dell’esistenza;

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• la danza, in quanto simbolo di una modalità giocosa, gioiosa e artistica di vivere lavita;

• l’eterno ritorno, cioè la convinzione dell’infinito ripetersi ciclico di ogni vita, intesa siacome accettazione volontaria di tutto il passato sia come redenzione della vita dallasua limitatezza temporale sia come conferimento a ogni attimo presente di un valoreassoluto.

Tra il 1883 e il 1884 Nietzsche, dopo una breve riconciliazione, entrò nuovamente in urtocon la sorella, a causa del fidanzamento di lei con Bernhard Förster, noto agitatorenazionalista e antisemita., che sposò poi nel 1885. In continuo vagabondaggio da una cittàall’altra, negli anni successivi Nietzsche scrisse e pubblicò Al di là del bene e del male(1886) e Genealogia della morale (1887). In queste opere, forte della nuova prospettivafilosofica guadagnata, Nietzsche torna a smantellare con più radicalità che mai latradizione culturale occidentale. In particolare, in Al di là del bene e del male, Nietzscheporta alle estreme conseguenze la sua precedente critica al soggetto cosciente e razionale,negando ogni possibilità di considerare l’io come origine dei pensieri. Egli afferma infattiche i pensieri sorgono spontaneamente, indipendentemente dalla volontà individuale.Nella Genealogia della morale invece Nietzsche torna a concentrarsi sul problema dellagenesi storica della cultura occidentale riprendendo e completando l’analisi avviata nellaNascita della tragedia. Secondo Nietzsche, nell’antichità la morale dominante è quella deisignori-guerrieri, improntata ai valori del corpo, della forza, dell’orgoglio e del coraggio.Ma la casta sacerdotale - costretta dal suo ruolo a una condotta di vita più regolare eascetica - per rivalsa concepisce una nuova morale basata su valori opposti, cioèsull’anima, la debolezza, l’umiltà e la viltà. Questa nuova morale negatrice della vita siafferma inizialmente soprattutto tra gli ebrei - che Nietzsche considera un popolosacerdotale - per poi diffondersi in tutto l’Occidente attraverso il cristianesimo. Essa troval’adesione delle masse diseredate diventando la “morale degli schiavi” o “del gregge”, laquale nel corso dei secoli riesce a prevalere sulla morale dei signori, sconfiggendoli esottomettendoli. Lo Stato nazionale moderno, la democrazia, il socialismo el’emancipazione femminile per Nietzsche non sono altro che versioni moderne dellamorale del gregge.Nell’autunno del 1887 Nietzsche progettò una nuova opera, cui attribuiva un valoredecisivo - dal titolo ipotetico di “La volontà di potenza. Saggio di una trasvalutazione ditutti i valori” -, e intraprese il primo tentativo di stenderne una redazione definitiva,scrivendone alcune parti e rifondendovi materiali precedentemente elaborati. Nel 1888 aTorino, dove aveva trasferito la sua dimora, Nietzsche invece utilizzò una parte degliappunti e abbozzi della “Volontà di potenza” per comporre Il crepuscolo degli idoli (1888)e L’anticristo (pubblicato postumo). Nel Crepuscolo Nietzsche torna a criticare Socrate e latradizione metafisica, professandosi ultimo discepolo di Dioniso. Nell’Anticristo inveceattacca violentemente il cristianesimo in quanto religione del senso di colpa,dell’automortificazione e della negazione della vita, salvando tuttavia la figura di Cristo,considerato uno spirito libero sui generis. In autunno Nietzsche scrisse Ecce homo. Comesi diventa ciò che si è, una sorta di autobiografia filosofia, in cui indica il senso ultimodella sua filosofia nella contrapposizione di Dioniso, il dio dell’affermazione della vita, al“Crocifisso”, cioè al dio cristiano della negazione della vita. Contemporaneamente continuòa scrivere appunti e a rielaborare il materiale già predisposto per la pubblicazione della“Volontà di potenza”. Dai frammenti rimastici emerge in particolare il tentativo dielaborare una nuova teoria dell’essere e del cosmo sulla base della volontà di potenza, inquanto principio primo e unico di ogni cosa.Nel gennaio 1889 a Torino Nietzsche diede forti segni di squilibrio psichico. Ricoverato inclinica psichiatrica, Nietzsche ne fu dimesso nel 1890 ma non recuperò più la sanitàmentale e passò gli ultimi dieci anni della sua vita affidato alle cure prima della madre e

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poi della sorella, delle quali aveva lasciato ironicamente scritto che erano la più forteobiezione contro la sua teoria dell’eterno ritorno. Nietzsche morì a Weimar il 25 agosto del1900. Dopo la sua morte, la sorella Elisabeth e l’ex allievo e amico Peter Gast raccolserotutti i suoi appunti inediti, li ordinano per temi a loro discrezione e li pubblicarono con iltitolo La volontà di potenza, in una prima edizione ridotta nel 1901 e in una secondacompleta nel 1906.

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TAPPA 1NIETZSCHE: APOLLINEO E DIONISIACO

Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe25 il legame frauomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile o soggiogata celebradi nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. Laterra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terrerocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso ètutto coperto di fiori e ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano lapantera e la tigre.

Nietzsche, La nascita della tragedia, § 1

Alla base della riflessione filosofica di Nietzsche vi è la convinzione di una crisi epocaledella civiltà occidentale e l’esigenza di accertarne le ragioni per individuarne una viad’uscita. Da ciò Nietzsche è spinto a esaminare la cultura greca, in quanto matriceoriginaria di tutto il successivo sviluppo culturale e civile dell’Occidente. La prima tesi allaquale la sua indagine perviene è che la cultura greca nacque e si sviluppò a partire da dueprincipi fondamentali:a) l’impulso “apollineo”, legato cioè al dio Apollo;b) l’impulso “dionisiaco”, connesso cioè al dio Dioniso.L’impulso apollineo, secondo Nietzsche, trova la sua più immediata espressione fisiologicanel sogno, inteso come costruzione mentale di una realtà illusoria bella e gioiosa. Gliantichi greci rappresentarono tale impulso in Apollo, dio

L’impulso apollineo, secondo Nietzsche, trova la sua più immediata espressione fisiologicanel sogno, inteso come costruzione mentale di una realtà illusoria bella e gioiosa. Gliantichi greci rappresentarono tale impulso in Apollo, dio della luce, della preveggenza edella scultura. Apollo è infatti per Nietzsche il simbolo del principium individuationis, cioèdel principio dell’individualità finita e delimitata, dunque della misura, delladeterminazione, della chiarezza. Tale principio si esprime artisticamente nellaraffigurazione dai confini nitidi e precisi tipica della scultura.Date queste sue caratteristiche, l’impulso apollineo è alla base della religione olimpicagreca, la quale fu appunto la modalità in cui i greci riuscirono a trasfigurare esteticamentee quindi a sopportare la vita. Infatti all’origine della civiltà greca vi era, secondo Nietzsche,la coscienza dell’insensatezza della vita, contenuta nella terribile massima mitologicasecondo cui la cosa migliore per un uomo sarebbe non essere mai nato e, una volta nato,morire il prima possibile. Appunto per controbilanciare illusoriamente il dolore di questatremenda verità, i greci, attraverso l’arte plastica, crearono l’Olimpo, un mondo umanosublimato, potenziato, circonfuso di bellezza e di felicità.

L’impulso dionisiaco è invece ricondotto da Nietzsche allo stato di ebbrezza prodotto dabevande narcotiche o dall’eccitazione fisiologica indotta dalla primavera o anchedall’esaltazione provocata dalla danza e dalla sfrenatezza sessuale nelle feste orgiastiche.Gli antichi greci rappresentarono tale impulso in Dioniso, dio del vino, della natura e dellamusica - insieme demone crudele e dolce dominatore - che Nietzsche interpreta come ilsimbolo dell’abolizione del principium individuationis, cioè come simbolo dell’unitàprimigenia indifferenziata, della volontà di vita originaria da cui scaturiscono tutte le cose.Per questo, Dioniso è l’impulso interiore che spinge ogni uomo a fondersi con gli altri

25 Nel senso di “si fa più stretto”.

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uomini e al tempo stesso con gli animali, le piante e tutta la natura, a trasgredire le normeetiche e le convenzioni sociali.Tale impulso si esprime e si realizza nella musica intesa come poesia musicata, cantata esoprattutto danzata. Nella musica dionisiaca, per Nietzsche, l’uomo raggiunge il massimopotenziamento di tutte le sue capacità simboliche, si esprime simbolicamente non soloattraverso la bocca, la parola e il volto, ma attraverso il movimento di tutte le parti delcorpo. Attraverso la musica il seguace di Dioniso diventa così come un dio olimpico, inquanto non è più solo artista ma egli stesso si fa opera d’arte e giunge a squarciare il velodell’apparenza sensibile per penetrare nella terribile essenza della realtà - la volontà di vita- fino a coincidere con essa raggiungendo così una gioia totale.

Secondo Nietzsche, la dialettica tra gli impulsi apollineo e dionisiaco fu alla base di tuttal’evoluzione della civiltà greca. Dopo l’originario dominio dionisiaco, che si espresse nellamitologia dei titani, si affermò l’apollineo con la poesia epica di Omero, quindinuovamente prevalse il dionisiaco che fu ancora una volta soppiantato dall’apollineodell’arte dorica.Però, per quanto opposti e in conflitto tra loro, apollineo e dionisiaco, per Nietzsche, sonoin realtà impulsi complementari. La trasfigurazione estetica apollinea, infatti, ha bisognodell’impulso vitale del dionisiaco e a sua volta quest’ultimo necessita della attenuazione edella trasfigurazione illusoria dell’apollineo. E’ questa la condizione di quel fenomenounico e irripetibile che fu per Nietzsche la conciliazione di apollineo e dionisiaco all’iniziodell’età classica. Tale conciliazione si realizzò nella tragedia greca in quanto basatasull’equilibrio tra il coro e il mito - che rappresentano l’elemento dionisiaco - e la vicendadrammatica e i dialoghi - che costituiscono l’elemento apollineo.

Nella tragedia, il coro dionisiaco, afferma Nietzsche, aveva la funzione di eccitare glispettatori per fare in modo che all’apparire dell’eroe protagonista essi non vedessero unattore mascherato ma avessero una visione estatica dell’eroe in quanto alter-ego diDioniso. La vicenda tragica è infatti per Nietzsche una rappresentazione della vita diDioniso, che secondo il mito fu fatto a pezzi e sbranato dai Titani.In questo senso Nietzsche interpreta Dioniso come il dio che sperimenta su di sé il doloredel principium individuationis, cioè della suddivisione dell’unità originaria nellamolteplicità degli individui. Ciò significa che la verità dionisiaca consiste appunto nellaconsapevolezza che l’individuazione è la causa prima di ogni sofferenza umana. MaDioniso è anche il dio della rinascita, cioè del ritorno all’unità sorgiva. In questo senso latragedia aveva per Nietzsche lo scopo di infondere nel pubblico la speranza nelsuperamento della sofferenza individuale attraverso il ritorno all’uno primordiale.

L’equilibrio tra apollineo e dionisiaco che produsse la tragedia greca fu per Nietzsche unmiracolo temporaneo. Dopo i primi grandi tragediografi Eschilo e Sofocle, il terzo,Euripide, svalorizzò il coro, dando priorità alla vicenda drammatica e soprattuttoincentrandola su dialoghi costruiti come dispute dialettiche. Poiché Euripide era pursempre un autore tragico, Nietzsche considera la sua opera come un suicidio della tragedia.Ma in realtà per Nietzsche Euripide fu solo l’esecutore di un delitto che aveva il suomandante in Socrate. Euripide, infatti, trasfuse il razionalismo e il moralistico ottimismo diSocrate nella tragedia, soffocandone così lo spirito dionisiaco.

In questa senso, Socrate rappresenta per Nietzsche il prototipo di un nuovo tipo di uomodestinato a eliminare l’uomo “tragico” e ad affermarsi nella civiltà occidentale fino araggiungere il culmine nella modernità. Socrate è infatti l’ “uomo teoretico”, cioè l’uomo

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razionale e morale, l’uomo che si realizza nella conoscenza scientifica del mondoapparente. Ma un tale uomo è condannato all’insoddisfazione in quanto la conoscenza razionale,irretita dall’apparenza sensibile, non può attingere alla verità dionisiaca. Di conseguenza,l’uomo teoretico si sforza di raggiungere la felicità, ma al contrario, allontanandosi semprepiù dall’unica verità, quella della volontà di vita, recide le sue radici vitali, si inaridisce ediviene preda dell’insensatezza e dell’angoscia. In questa prospettiva, Nietzsche interpreta la crisi della civiltà contemporanea come ilsintomo dell’esaurimento del razionalismo socratico e insieme della rinascita dello spiritodionisiaco. Questa rinascita è destinata a manifestarsi in un nuovo primato dell’artedionisiaca, con il ritorno della musica, del mito e della tragedia. Nietzsche vede le primemanifestazioni di tale ritorno nell’opera dei musicisti tedeschi del ‘700 e dell’800 - Bach,Beethoven e soprattutto il suo contemporaneo Richard Wagner - e nelle filosofie di Kant eSchopenhauer che hanno evidenziato i limiti insuperabili della scienza e valorizzato l’arte.

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TAPPA 2NIETZSCHE: LA CRITICA DELLA TRADIZIONE METAFISICA

Tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che allo stato presente delle singole scienzepuò esserci veramente dato è una chimica delle idee e dei sentimenti morali,religiosi ed estetici (...); ma che avverrebbe, se questa chimica concludesse colrisultato che anche in questo campo i colori più magnifici si ottengono damateriali bassi e persino spregiati?

Nietzsche, Umano troppo umano, § 1

Secondo Nietzsche la metafisica consiste essenzialmente nel postulare l’esistenza di unarealtà superiore, ideale, razionalmente perfetta, composta di “cose in sé”. Tale realtàpermette ai metafisici di far credere che vi siano principi conoscitivi e valori morali assolutiin base ai quali l’uomo può dare un senso certo, oggettivo, universale alla propria vita.Nietzsche si propone di smantellare tale credenza, conducendo una rigorosa e radicaleindagine critica della tradizione metafisica occidentale. Questa indagine si caratterizzacome una “filosofia storica” in quanto assume come presupposto che gli assoluti dellametafisica siano costruzioni edificate dall’uomo nel corso del suo sviluppo storico.Per Nietzsche, però, la filosofia storica fa propri anche i metodi e i risultati delle scienzenaturali configurandosi così come una “chimica delle idee e dei sentimenti”, cioè un’analisidegli elementi primi reali che sono alla base dei principi ideali della metafisica. Infatti, laproduzione di tali principi si può spiegare in analogia al processo chimico della“sublimazione”: come l’acqua può passare direttamente dallo stato solido del ghiaccio allostato gassoso del vapore, rendendosi per così dire irriconoscibile e quasi invisibile, allostesso modo gli istinti vitali e i sentimenti naturali dell’uomo possono trasformarsi in altiprincipi e valori ideali dissimulando la loro “bassa” origine fisiologica.

Il fondamento primario della metafisica è, secondo Nietzsche, il fenomeno fisiologico delsogno. I primi uomini, infatti, credettero che il sogno fosse un altro mondo, diverso daquello della veglia ma con lo stesso grado di realtà. E’ il sogno, dunque, l’origine dellascissione metafisica tra mondo fisico e mondo ideale, corpo e anima, uomini e dei.Il sogno, in questa prospettiva, fornì agli uomini primordiali la prima, elementare forma dilogica. Infatti, afferma Nietzsche, il sogno è una rappresentazione immaginaria delle causedelle sensazioni che il corpo prova durante il sonno. Per esempio se qualcuno dormendosente caldo può sognare di trovarsi nel deserto e identificare nel sole cocente sognato lacausa della sua sensazione di calore. In tal modo, i primi uomini, anche in condizioni diveglia, si abituarono a considerare cause dei fenomeni naturali le prime immaginifantastiche che venivano loro in mente e a rovesciare il rapporto tra causa ed effetto:anziché considerare le cose reali come cause delle proprie immagini, consideravano leproprie immagini come cause delle cose reali. Per Nietzsche è questa la genesi dellacredenza nella “cosa in sé”.

In uno stadio storico più avanzato, continua Nietzsche, l’uomo scoprì il linguaggio chedivenne il fondamento dello sviluppo di tutte le grandi civiltà. La potenza del linguaggio sidimostrò così grande che esso finì per l’assumere agli occhi dell’uomo il carattere di unmondo a sé stante, autonomo da quello reale.In questo modo i nomi finirono con l’essere considerati essenze reali che racchiudevano insé l’intera conoscenza delle cose naturali. Per questo la scoperta del linguaggio vaconsiderata, secondo Nietzsche, il primo gradino nella costruzione della conoscenzascientifica.

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Chiarita la genesi della metafisica in generale, Nietzsche passa a considerarne i suoi singoliaspetti, a cominciare da quello della conoscenza. Egli rileva che la metafisica ha concepito erappresentato conoscitivamente la realtà empirica come un grande quadro che da sempremostra invariabilmente lo stesso disegno. Il suo scopo ultimo era di scoprire l’autore delquadro, cioè la “cosa in sé”. Per Nietzsche la scienza metafisica era completamente fuoristrada, in quanto quel quadro è stato dipinto gradualmente nel corso di migliaia di anni e ilsuo autore non è nessun altro che l’uomo. Infatti, afferma Nietzsche, se il mondo sensibileè oggi così “colorato” - cioè se ai nostri occhi manifesta un ordine razionale - ciò accadeperché l’uomo per secoli ha indagato il mondo in base alle sue aspettative scientifiche,morali, religiose ed estetiche, ha perciò proiettato sulla realtà le sue forme mentali e l’hacosì conformata a lui.In questa prospettiva, Nietzsche dimostra che perfino la logica e la matematica si fondanosull’arbitrio umano. La logica infatti si basa sui presupposti:

• dell’identità di un ente con se stesso• e dell’uguaglianza di due enti,

ma tali presupposti sono falsi in quanto:• nella realtà ogni cosa cambia continuamente

• e non vi sono mai due cose uguali.Anche i presupposti della matematica sono falsi, dal momento che in natura non esistonolinee rette, veri cerchi, misure di grandezza assolute.In conclusione ciò che dalla scienza metafisica viene chiamato mondo per Nietzsche non èaltro che l’esito di una serie di fantasie e di errori che sono nati a poco a poco nel corsodell’evoluzione storica e sono cresciuti su se stessi fondendosi l’uno con l’altro fino atrasformarsi in una seconda realtà. Ma qual è la causa di queste fantasie e di questi errori?Nietzsche risponde che è l’istinto di conservazione umano, cioè la pulsione dell’uomo acercare il piacere e a sfuggire il dolore. Insomma, la metafisica è stata sì un errore, ma unerrore funzionale alla sopravvivenza e al miglioramento delle condizioni di vitadell’umanità.

Anche la storia dei sentimenti morali è per Nietzsche la storia di un errore e della suaevoluzione. Essa si svolge in varie tappe:

• originariamente le azioni vengono dette “buone” o “cattive” a seconda che sia utili odannose;

• progressivamente si dimentica l’origine di queste denominazioni e ci si immagina che ilbene e il male siano proprietà intrinseche di determinate azioni;

• in seguito le azioni sono considerate neutre e il bene e il male vengono attribuiti allemotivazioni che ne sono alla base;

• infine si ritengono buoni o cattivi non i singoli motivi ma i singoli uomini in quanto fontidei motivi.In questo modo, secondo Nietzsche, nel tempo si è venuta costituendo e consolidando lacredenza nella responsabilità morale e nella libertà del volere dell’uomo. In realtà, si trattadi due errori naturali. Infatti le azioni umane sono conseguenze necessarie delle influenzedi eventi passati e presenti. Dunque nessun uomo è responsabile né del suo essere, né dellesue motivazioni pratiche, né delle sue azioni, né delle loro conseguenze. Giudicare, affermapertanto Nietzsche, significa essere ingiusti.

Quello che vale per la conoscenza e la morale, vale anche per la religione e l’arte. Nessunareligione, secondo Nietzsche, ha mai contenuto una sola verità, ma ognuna è nata dallapaura e dal bisogno ed è cresciuta sugli errori della ragione. Anche la trasfigurazioneestetica e fantastica della realtà operata dall’arte è un errore, finalizzato ad alleviare ladurezza la vita umana.

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Ma pure come rimedio l’arte ha perso la sua attualità, perché essa è espressione dell’etàfanciullesca dell’umanità, basata sull’emotività, l’irruenza, la facile credenza. In questosenso l’arte è per Nietzsche un ricordo della giovinezza dell’uomo, una reliquia del suopassato. Nel presente, l’uomo artistico, secondo Nietzsche, deve essere sostituito dall’uomoscientifico, poiché questo rappresenta un tipo d’uomo più maturo, più avveduto, piùpreciso ed equilibrato.

Tuttavia, proprio lo sviluppo dell’errore metafisico ha portato l’uomo a un grado superioredi conoscenza e ha originato nell’età presente una nuova scienza critica consapevole delfatto che non esistono verità assolute. Per Nietzsche, però, non bisogna accontentarsi diraggiungere la consapevolezza che gli assoluti metafisici sono degli errori privi difondamento. Al contrario, tenendo ferma questa consapevolezza, bisogna rivalutare glierrori del passato metafisico comprendendone le motivazioni storico-psicologiche,riconoscendone la funzione formativa e prevedendo i rischi del loro smascheramento. Peresempio, le credenze metafisiche passate hanno spronato gli uomini a intraprendere lacostruzione di istituzioni e opere pur sapendo che sarebbero state ultimate solo doposecoli. La fine della metafisica dunque rischia di produrre un uomo incapace diintraprendere grandi e durature imprese. Ancora, la metafisica attribuiva al camminostorico umano una meta finale, stimolando l’attività degli individui. La caduta degliassoluti, facendo venir meno anche tale credenza, potrebbe portare gli uomini aconvincersi dell’inutilità della vita e dell’agire.Tuttavia, secondo Nietzsche, proprio comprendendo la funzione delle credenze metafisichee reagendo ai rischi del loro crollo, l’uomo moderno ha di fronte a sé la più alta dellepossibilità storiche, cioè quella di non evolversi più inconsciamente ma di svilupparsiconsapevolmente in una nuova civiltà, creando migliori condizioni di nascita, dialimentazione, di educazione, di istruzione, di organizzazione economica. In questo senso,afferma Nietzsche, il progresso, se non è più considerabile necessario, rimane certamentepossibile. E la scienza - intesa come sapere critico - può sostituire la metafisica, suscitandoquella fede nei suoi risultati capace di spingere gli uomini a imprese grandi e durature.Essa inoltre può sviluppare una conoscenza delle condizioni della civiltà che le consenta diindividuare gli scopi comuni dell’umanità e di fondare così su di essi una nuova moraleautenticamente universale.

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TAPPA 3NIETZSCHE: LA GENESI STORICA DELLA MORALE

Come? e se la verità fosse il contrario? Come? e se nel bene fosse insito ancheun sintomo di regresso, come pure un pericolo, una seduzione, un veleno, unnarcoticum, attraverso il quale a un certo punto il presente vivesse a spesedell’avvenire? [...] Così che precisamente la morale sarebbe responsabile delfatto che una in sé possibile suprema possanza e magnificenza del tipo uomonon è mai stata raggiunta?

F. Nietzsche, Genealogia della morale, Prefazione

Una volta appurato che i valori ideali su cui si è costruita la civiltà occidentale hannoun’origine e un’evoluzione storica, Nietzsche approfondisce la sua indagine concentrandosiin particolare sulla questione per lui cruciale, quella cioè della morale. Approfondendo lesue radici, le analisi dei “psicologi inglesi”, secondo Nietzsche, mostrano tutta la loroparzialità, in quanto si sono arrestate ad alcuni fenomeni psicologici di superficie - comel’abitudine - trascurando la dimensione storica. Secondo loro, infatti, la morale nacqueallorché gli uomini che ne beneficiavano chiamarono “buone” le azioni individuali cherisultavano utili per se stessi. Successivamente, per abitudine, essi ne dimenticaronol’utilitarismo e giunsero a considerarle semplicemente buone in sé.Al contrario, per Nietzsche, l’indagine storica attesta che originariamente ladenominazione di “buono” non fu coniata dai beneficiari di un comportamento altrui,bensì dagli uomini nobili e potenti che giudicavano “buone” le proprie azioni, inopposizione a quelle “cattive” degli uomini volgari, di bassi sentimenti, plebei. In questosenso la morale nacque, per Nietzsche, da un “pathos della distanza” che non ha nulla a chevedere con l’utilitarismo, anzi ne è la radicale negazione. Questa tesi trova riscontronell’analisi etimologica la quale dimostra che il termine “buono” presso i popoli antichisignificava “spiritualmente nobile”, mentre “cattivo” stava per “plebeo”, cioè indicaval’uomo comune, banale, codardo.

Gli aristocratici antichi, continua Nietzsche, giudicavano “buone” le azioni libere, forti egioiose che essi compivano nella loro vita dedita alla guerra, all’avventura, alla caccia, alladanza e ai tornei. Pertanto la morale aristocratica presupponeva una sana e potentecostituzione fisica.Tuttavia una parte dell’aristocrazia antica era costituita dalla casta sacerdotale, la qualecostruì una propria specifica morale per valorizzare la sua condizione e la sua funzione. Atal fine, diversamente dai guerrieri, i sacerdoti fecero coincidere l’opposizione buono-cattivo con quella puro-impuro, intendendo per “puro” colui che si lava, segue una dietaper evitare le malattie della pelle e non frequenta donne dalle quali potrebbe contrarremalattie veneree. In quanto contraria all’azione e al rischio, la morale igienista e prudentedei sacerdoti, per Nietzsche, fu espressione di uomini malsani e deboli che mascherarono illoro senso di inferiorità nei confronti dei guerrieri con il disprezzo per la vita e per la realtàsensibile.

La morale sacerdotale, secondo Nietzsche, nell’antichità si radicò in modo particolare nelpopolo ebraico. Questo, infatti, sentendosi impotente nei confronti di dominatori e nemici,seppe escogitare una speciale forma di vendetta: la “trasvalutazione dei valori”, consistentenel rovesciare il primato dell’azione, della forza e della salute nel primato dellacontemplazione, della debolezza e della infermità. In questo modo gli ebrei sostituironol’originaria equazione “buono” = nobile, potente, bello, felice, caro agli dei, con l’equazione

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contraria “buono” = miserabile, povero, impotente, umile, sofferente, indigente, deforme.Gli antichi “buoni” divennero pertanto uomini malvagi, crudeli, lascivi ed empi, destinatialla dannazione eterna.La sete di vendetta della morale ebraica raggiunse poi il suo vertice nella dottrina cristianache annunciava la beatitudine ai poveri, agli infermi, ai derelitti. In questo senso, perNietzsche, la crocifissione di Cristo fu la mossa decisiva di un grande piano degli ebrei perdiffondere in tutta l’umanità, cioè tra tutti i loro nemici, la loro morale antivitale. Il mitoparadossale e inebriante di un Dio che si fa uccidere per il bene dell’umanità fu infatti lostrumento più efficace grazie al quale gli ebrei riuscirono a far trionfare la lorotrasvalutazione dei valori.

Con la diffusione del cristianesimo alla fine dell’epoca antica la morale ebraica sconfissedefinitivamente la morale signorile sostituendosi dappertutto ad essa. L’unica, veraredenzione cristiana del genere umano, afferma Nietzsche, fu appunto l’eliminazione deisignori a favore del dominio generalizzato dei plebei e degli schiavi. Infatti, essendo gliebrei un popolo di schiavi, la loro morale trovò l’adesione e il sostegno della maggioranzaschiavizzata dell’umanità antica che rovesciò così il dominio dell’élite aristocratica romana.Nel corso di questo processo storico, l’antica morale sacerdotale si strutturò in una formadefinitiva che Nietzsche chiama “morale degli schiavi”, caratterizzandola come:

• una morale non dell’azione ma della reazione: infatti mentre la morale aristocratica è unamorale dell’affermazione immediata di se stessi, la morale degli schiavi si manifesta solocome negazione di tutto ciò che le è opposto;

• una morale del “risentimento”, cioè basata su una vendetta immaginaria, consistente neldestituire di valore il comportamento che si è incapaci di praticare e quindi si è costretti asubire, prefigurando una dimensione ultraterrena dove esso sarà punito;

• una morale della passività, in quanto per essa la felicità non consiste nella vita attiva ma inuna condizione di pace, di quiete, di inattività.

Secondo Nietzsche, mentre il nobile parte dall’assunzione di se stesso come “buono” pergiungere a definire il diverso come “cattivo”, lo schiavo al contrario partedall’identificazione del suo nemico come “malvagio” e quindi determina per antitesi il“buono”, ovvero se stesso. In questa sostituzione del “cattivo” con il “malvagio” si misuratutta la distanza tra morale aristocratica e morale degli schiavi. Mentre infatti il “cattivo”era semplicemente il plebeo in quanto volgare, il “malvagio” è il nobile in quantoaggressore e dominatore.

Ma il comportamento del nobile, per Nietzsche, è del tutto naturale. Infatti nel fondo di ogniguerriero aristocratico sta una “belva feroce”, una “magnifica bionda bestia” desiderosa dicombattimento, vittoria e bottino, che ricorrentemente deve trovare uno sfogo nelle guerre,nelle invasioni e nelle razzie. Così come è insensato rimproverare i rapaci perché sinutrono di agnelli, allo stesso modo non si può pretendere che un individuo dotato di forzanon la manifesti nella sopraffazione e nella volontà di dominio. Una certa quantità di forza,infatti, è costitutiva della natura umana e sgorga da istinti insopprimibili.

Secondo Nietzsche, se si è giunti a disconoscere questa elementare verità, ciò è avvenutoperché si è frainteso l’agire umano considerandolo il prodotto di un soggetto libero eresponsabile. Infatti, allo stesso modo in cui separa il fulmine dal lampo, l’individuo deboledistingue la forza dalla sua attuazione, credendo che possano esistere l’una senza l’altra. Inquesto modo egli stabilisce che l’individuo forte, in quanto soggetto autonomo delle sueazioni, sceglie liberamente di aggredirlo, e lo può così giudicare moralmente colpevole. Male cose per Nietzsche stanno esattamente all’opposto: così come il lampo è tutt’uno colfulmine, la sopraffazione è tutt’uno con l’uomo forte.

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Simmetricamente è del tutto naturale che i deboli siano portati a svalutare la prepotenza el’orgoglio a favore della sottomissione e dell’umiltà. Anche in questo caso si tratta di unautomatismo biologico analogo a quello di quegli animali che in situazione di pericolo sifingono morti, in quanto non sono capaci di una reazione più efficace. Ma il debole non siaccontenta affatto di questo, bensì ha bisogno che la sua debolezza appaia come una liberascelta a favore di un comportamento morale. Il suo menzognero istinto di conservazione lospinge così a inventare il “soggetto” - ovvero l’anima - per poter trasformare la suadebolezza in merito.

Se il processo di civilizzazione consiste essenzialmente nel trasformare la belva umana inun animale domestico, allora - afferma Nietzsche - la morale del risentimento è stata il suostrumento fondamentale. In base a questa morale, infatti, le élite aristocratiche sono stateumiliate e sottomesse insieme ai loro valori e ideali. Ma l’epoca contemporanea dimostra,secondo Nietzsche, che la civiltà europea non è affatto un’autentica civiltà. Al contrario, inquanto immenso contenitore di istinti repressi e di bisogni di compensazione, essacostituisce un regresso, un decadimento della civiltà antica.Infatti, il trionfo della morale degli schiavi ha prodotto per Nietzsche un tipo d’uomorepresso, mansuefatto, mediocre, che oltretutto coltiva l’illusoria pretesa di essere meta eculmine della storia umana. E’ in questo contesto che si è sviluppato e dilaga il nichilismo:immeschinitosi e livellantosi, recise le sue radici istintive e vitali, l’uomo europeo diventasempre più stanco di sé, non nutre più alcuna aspirazione superiore, avverte che tutti i suoivalori vacillano e sprofondano nel nulla.

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TAPPA 4NIETZSCHE: LA MORTE DI DIO

Il carattere complessivo del mondo è invece caos per tutta l’eternità, non nelsenso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, articolazione,forma, bellezza, sapienza [...] Non esistono sostanze eternamente durature: lamateria è un errore, né più né meno del dio degli Eleati. [...] Quando sarà chetutte queste ombre d’Iddio non ci offuscheranno più? Quando avremosdivinizzato del tutto la natura! Quando potremo iniziare a naturalizzare noiuomini, insieme alla pura natura, nuovamente ritrovata, nuovamenteredenta!

F. Nietzsche, La gaia scienza, § 109

Nietzsche interpreta tutta la storia della cultura occidentale postsocratica come unosviluppo in forme differenziate e sempre più radicali di un medesimo errore: la credenza inuna realtà ideale ultraterrena. Sul fondamento di tale credenza l’uomo occidentale haedificato la religione, la metafisica, la morale, l’arte, la scienza, ovvero un insiemearticolato di valori funzionali a dare un senso assoluto alla sua vita. Ma per ottenere questorisultato l’uomo occidentale ha dovuto sacrificare la dimensione terrena e naturale dellavita, dal momento che questa risultava inferiore e subordinata alla dimensione ideale eultraterrena. In questo senso la storia della civiltà occidentale è per Nietzsche la storiadell’affermazione sempre più ampia e profonda del nichilismo, inteso innanzitutto comesoffocamento della vitalità naturale dell’uomo.Paradossalmente, però, proprio l’ultimo e più raffinato prodotto dello sviluppo dellacultura occidentale - cioè la scienza moderna - ha sgretolato il suo fondamento originario,la credenza, appunto, in un mondo metafisico e in un principio unico e assoluto di tutte lecose. Più precisamente, afferma Nietzsche, sono state la stessa morale cristiana, lapuntigliosità dei suoi esami di coscienza, la sua rigorosa esigenza di verità che al culminedella loro evoluzione hanno prodotto la conoscenza scientifica e attraverso di essa hannoportato alla scoperta dell’inesistenza di Dio e di ogni principio assoluto.

Secondo Nietzsche, l’epoca contemporanea segna oggettivamente l’esaurimento dellapossibilità di credere nell’esistenza di Dio. Infatti le scoperte della scienza, i progressi dellatecnologia, la crescita economica e l’evoluzione sociale hanno spazzato via le condizioniculturali, psicologiche e materiali che spingevano l’uomo alla fede religiosa e, insieme, alleconvinzioni metafisiche. A questa situazione oggettiva non corrisponde, però, una presa dicoscienza soggettiva da parte dell’uomo occidentale. Questo infatti• o continua per tradizione e abitudine a credere in Dio e negli assoluti metafisici;• o subisce il fascino delle “ombre di Dio”, cioè di nuove ideologie metafisiche che, pur

essendo formalmente atee, in realtà sono versioni camuffate della religione e dellametafisica tradizionali in quanto sono basate sull’assolutizzazione di un principioastratto;

• o rimane indifferente, non si pone il problema ed evita di prendere posizione;• o ancora, pur ritenendosi e dichiarandosi ateo, non è consapevole di cosa significhi

esserlo.Di fronte a questi atteggiamenti, Nietzsche si attribuisce il compito filosofico di annunciarela “morte di Dio”, cioè di diffondere la consapevolezza del significato profondo di questoevento e di provocare una chiara presa di posizione. Innanzitutto, infatti, gli uominidevono comprendere che Dio non è morto di morte naturale ma che sono stati essi stessiad assassinarlo, cioè che la fine della fede in Dio è un effetto del loro sviluppo culturale,

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quindi delle loro stesse azioni. In secondo luogo gli uomini devono essere consapevoli delleimplicazioni profonde e delle conseguenze della morte di Dio.

L’annuncio della “morte di Dio” non ha un significato esclusivamente religioso. Dio infattiè per Nietzsche il simbolo di tutti i principi assoluti ideali e razionali. In questo sensoaccettare e comprendere l’evento della morte di Dio significa prendere atto che il mondo èpuro caos, cioè che non possiede nessun ordine interno, nessun valore, nessun fine. Ciòcomporta il rigetto di tutte le cosmologie razionali• tanto di quella organicistica, che considera il cosmo un essere vivente• quanto di quella meccanicistica, che considera il cosmo una macchina.Contro la cosmologia organicistica, Nietzsche rileva che se il mondo fosse un essere viventedovrebbe estendersi, nutrirsi, crescere. Ma tutto ciò è assurdo, come è anche assurdorinvenire un’analogia tra l’universo intero e i piccoli organismi viventi nati sulla superficiedi uno dei suoi innumerevoli pianeti.Alla cosmologia meccanicistica, Nietzsche obietta invece che il concetto di macchinaimplica sempre quello di un artefice che si costruisce e usa uno strumento in vista di unfine. Si tratta dunque di una concezione smaccatamente antropomorfica, di una proiezionedella mentalità umana sull’universo. Il fatto poi che nel nostro sistema solare sia statopossibile scoprire un ordine di tipo meccanico nei movimenti planetari non costituisce unaprova a favore della cosmologia meccanicistica. Niente infatti ci autorizza a pensare che ciòche avviene nella nostra piccolissima porzione d’universo debba avvenire anche in tuttol’universo. Al contrario, basta osservare la via lattea per trovare indizi sufficienti aipotizzare che fuori del nostro sistema solare i moti degli astri siano irregolari e imperfetti.

In ogni caso, continua Nietzsche, non ha alcun senso parlare di perfezione o imperfezione,razionalità o irrazionalità dell’universo. L’universo infatti non ha nulla in comune conl’uomo, non possiede ragione, sensibilità, perfezione, bellezza, nobiltà, ma nemmenocaratteri contrari. E’ dunque insensato pensare che l’universo sia governato da “leggi dinatura” o che possieda degli scopi. Ma è altrettanto insensato ritenere che esso sia guidatodal caso, in quanto il concetto di caso dipende sempre per opposizione da quello di scopo.Quindi se l’universo non possiede scopi non può nemmeno essere il regno del caso.Tantomeno esso è fondato su rapporti di causa e effetto. Infatti tutti gli eventi naturalicostituiscono un continuum, cioè un flusso senza distinzioni in cui è impossibile separareun elemento da un altro facendo del primo la causa e del secondo l’effetto. In conclusioneper Nietzsche bisogna rifiutare tutte le immagini antropomorfiche dell’universo e accettarel’unica plausibile perché naturale: l’universo non è altro che un caos infinito aperto ainfinite interpretazioni.

La morte di Dio e la sdivinizzazione dell’universo costituiscono però per l’umanitàoccidentale il massimo pericolo. Infatti per secoli Dio è stato il pilastro dell’assolutezza deisuoi valori religiosi, scientifici, morali, estetici. Dunque insieme a Dio crollano tutti i valorie la possibilità di attribuire al mondo e alla vita un senso oggettivo e assoluto. Di fronteall’uomo occidentale si spalanca così l’abisso del nulla. A chi accetta l’ateismo sembra,afferma Nietzsche, che il sole sia tramontato, che il dubbio offuschi ogni cosa, che il mondoassuma una luce crepuscolare e funerea, che tutto diventi estraneo, vecchio, decrepito.In altre parole, sembra che l’esistenza sia insensata e che non vi sia più nulla per cui valgala pena di vivere. L’uomo occidentale sprofonda così nel pessimismo e nel decadentismo,che altro non sono che la manifestazione aperta e radicale del nichilismo da sempre latentenella civiltà occidentale ma finora coperto e compensato dalla fede in un senso assolutodella vita.

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Proprio contro il dilagare del nichilismo, Nietzsche sostiene che di fronte alla morte di Dionon si può rimanere indifferenti e inerti, limitandosi a lasciare un vuoto al posto di Dio. Sel’uomo si è assunto la responsabilità di uccidere Dio, ora gli spetta l’onere, ma anchel’onore, di rimpiazzare la sua funzione, di sostituirsi a Dio come fondamento del sensodella vita. Questo è il compito dello “spirito libero”, cioè di colui che fa della morte di Diol’occasione per sconfiggere il nichilismo, sia quello virulento dl presente sia quello latentedel passato, e raggiungere la completa liberazione.Infatti lo spirito libero comprende che senza più Dio l’uomo può finalmente condurre lasua vita in modo pienamente libero, senza costrizioni esteriori, senza condizionamenti elimiti precostituiti, creando liberamente i suoi valori e scegliendo liberamente le sue mete.Forte di questa consapevolezza, lo spirito libero reagisce gioiosamente alla morte di Dio,interpretando questo evento non come un tramonto, ma come un’aurora, cioè come lanascita di una nuova epoca, la più alta della storia umana.

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TAPPA 5NIETZSCHE: L’ANNUNCIO DEL SUPERUOMO

L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di unabisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, unperiglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. Lagrandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si puòamare che egli sia una transizione e un tramonto.

Nietzsche, Così parlo Zarathustra, parte I, Prologo di Zarathustra

Per Nietzsche il dilagare del nichilismo - cioè della perdita di senso della vita - è il sintomoincontrovertibile non di una crisi congiunturale ma della fine definitiva della civiltàoccidentale nata dall’assassinio socratico dell’impulso dionisiaco. Tale fine coincide conl’esaurimento stesso della funzione storica della specie umana e apre le porte al ritorno diDioniso con la genesi di una nuova specie di esseri razionali destinata a dare origine a unanuova, più elevata forma di civiltà. Questo nuovo essere razionale è chiamato da Nietzscheübermensch, che significa sia “oltreuomo o uomo nuovo” - in quanto rappresenta unostadio evolutivo più avanzato rispetto all’uomo -, sia “superuomo o uomo superiore” -poiché è dotato di maggiori capacità vitali dell’uomo.Secondo Nietzsche l’übermensch è “il senso della terra”, cioè egli incarna il valore capace dirappresentare il nuovo senso della vita dopo la morte di Dio e il crollo di tutti i valori ideali.In altre parole, l’übermensch è il valore che può sostituire Dio, evitando che al posto diquest’ultimo resti il vuoto e che quindi dilaghi il nichilismo. Si tratta, però, di un principiodiverso da Dio, in quanto mentre Dio è ultraterreno e assoluto, l’übermensch è del tuttoterreno e relativo.

In quanto principio terreno, l’übermensch non è concepito da Nietzsche come una veritàassoluta - cioè allo stesso modo di Dio - ma come una “favola”, cioè come un’opinionesoggettiva e relativa. L’indagine storica condotta da Nietzsche ha infatti dimostrato chetutte le verità della civiltà occidentale - a cominciare da quella dell’esistenza di Dio - eranoin realtà “favole”, libere interpretazioni creative, credute erroneamente verità oggettive eassolute per secoli. Da questo punto di vista non vi è alcuna differenza tra la favola di Dio equella dell’übermensch. Ma• mentre la prima era una favola inconsapevole perché camuffata da verità assoluta,• la seconda è una favola consapevole che si sa e si propone apertamente come tale.D’altra parte ciò nulla toglie al suo valore. Infatti, dopo la morte di Dio, è completamenteconsumato il senso delle contrapposizioni tra mondo ideale e mondo fisico, realtà eapparenza, verità e opinione. Dunque ritenere che una favola non sia vera è assurdo tantoquanto pensare che sia vera. La coscienza di questo paradosso è una condizione essenzialedell’übermensch.

Nel caratterizzare l’übermensch Nietzsche usa spesso espressioni evoluzionistiche cherimandano alle teorie di Lamarck, Darwin e Spencer. Tali espressioni hanno però unavalenza retorica, sono cioè metafore finalizzate a enfatizzare la radicalità della transizionedall’uomo all’übermensch, considerata da Nietzsche equivalente a quella dell’evoluzionebiologica che segnò il passaggio dalla scimmia all’uomo. In realtà, Nietzsche nonconcepisce la transizione dall’uomo all’übermensch come un’evoluzione biologicanecessaria, bensì come una rivoluzione culturale intenzionale e solamente possibile.

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Infatti, la transizione dall’uomo all’übermensch viene descritta da Nietzsche come ilrisultato di tre “metamorfosi” dello spirito umano, cioè della sua mentalità e della suacultura:• il “cammello”, simbolo dell’uomo morale, che si sottopone con forza e pazienza al carico

del dovere, che si umilia di fronte a Dio e si sottomette ai valori ideali e assoluti;• il “leone”, simbolo dello “spirito libero”, dell’uomo che si ribella al giogo di Dio e dei

valori assoluti e che ingaggia una lotta mortale con il drago del “tu devi” in nome dell’“io voglio”;

• il “fanciullo”, simbolo dell’innocenza, dell’oblio del passato, di un nuovo inizio esoprattutto del gioco creativo che dà origine a nuovi valori.

L’übermensch è infatti colui che vive la vita come un gioco e una danza gioiosi e opera diconseguenza una “trasvalutazione” dei valori, cioè rovescia gli antichi valori ideali,improntati allo spirito di serietà, per sostituirli con nuovi valori terreni ispirati allo spiritodella leggerezza. Il primo nuovo valore che l’übermensch istituisce è quello del corpo inquanto per lui solo il corpo esiste e l’anima non è altro che una parola con la quale sidesigna una funzione del corpo. I sensi e la ragione sono solo strumenti del corpo e lostesso “Io” dipende dal “Sé”, cioè da un principio impersonale inconscio che è tutt’uno conil corpo. E’ infatti il Sé che guida l’Io, che gli fa provare piacere o dolore, che stimola così lasua attività pensante. In questo senso, afferma Nietzsche, nel corpo vi è più sapienza chenella ragione.La rivalutazione del corpo ha come immediata conseguenza la piena riabilitazione dellepassioni. Le virtù ideali sono morte, e le sole virtù ammissibili sono quelle terrene, quellecioè che nascono dalle passioni e che consistono nel perseguimento del più alto obiettivo diogni passione. In questa prospettiva, non vi sono per l’übermensch passioni “cattive” eanche l’invidia, la collera e l’odio sono “buone” in quanto la guerra è un ingredienteessenziale del gioco della vita.

La guerra - intesa sia come rivalità tra gli individui sia come scontro violento tra gruppi -costituisce un valore per l’übermensch. Secondo Nietzsche, infatti, l’übermensch si realizzasolo nella lotta con un nemico. Di conseguenza il falso valore del lavoro - inteso comeattività ripetitiva in cui l’individuo si sottomette alla società - va sostituito con l’autenticovalore della guerra e, a sua volta, il falso valore della pace va sostituito con l’autenticovalore della vittoria. In questa prospettiva, Nietzsche afferma che non è vero che la guerra ègiustificata solo da una buona causa, ma, al contrario, che è la guerra per essa che rendebuona una causa. Infatti, a suo parere, la guerra e il valore in battaglia hanno contribuitomaggiormente allo sviluppo dell’umanità dell’amore cristiano per il prossimo.Al valore della guerra corrisponde il disvalore dello Stato. Nietzsche intende infatti perStato non solo l’insieme delle istituzioni politiche, ma anche la società di massa da esseorganizzata e dominata. In questo quadro lo Stato è per Nietzsche un mostro edificato suuna doppia menzogna: che esso rappresenti l’ordine di Dio in terra e insieme la massimarealizzazione di un popolo. Al contrario lo Stato è per definizione la soppressione di unpopolo. Esso si regge solo sul consenso dei “superflui”, cioè delle masse umane prodottedall’abnorme e incontrollata crescita demografica. Da queste masse lo Stato è adoratocome un vero idolo perché apparentemente provvede a garantire le loro condizionimateriali di vita. In realtà lo Stato per Nietzsche è un prodotto dei “predicatori di morte” e,in cambio del benessere materiale, trasforma tutti gli uomini in morti viventi.

Il punto cruciale della trasvalutazione dei valori è costituito dal rovesciamento delprincipio cristiano dell’amore per il prossimo. Secondo Nietzsche, l’übermensch si realizzaamando se stesso, cioè comprendendo la propria personalità e sviluppando al massimo le

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proprie capacità. In questa prospettiva, l’amore altruistico è solo una compensazione dellamancanza di amore per se stessi e l’attaccamento al prossimo non è altro che un modo perevitare di assumersi la responsabilità di occuparsi di se stessi.Di conseguenza all’amore per il prossimo - cioè per l’uomo vicino e presente, ovvero perl’uomo contemporaneo - Nietzsche contrappone• l’amore per il più lontano, per l’uomo futuro, ovvero per l’übermensch;• l’amicizia, intesa come una relazione in cui ogni individuo stimola l’altro a essere se

stesso e a sviluppare le proprie potenzialità non solo con la reciproca stima ma anche esoprattutto con la critica vicendevole e con la lotta: il proprio amico - sostiene in questosenso Nietzsche - deve essere il proprio migliore nemico.

La radicalità dell’individualismo nietzscheano si manifesta al massimo grado nellaconcezione della “libera morte”. L’übermensch è infatti l’individuo consapevole che nonesiste vita ultraterrena, che la morte segna la sua fine definitiva e la cui unicapreoccupazione è di morire al momento giusto per trasformare così la morte in una festa. In altre parole, per Nietzsche bisogna evitare sia di morire troppo presto - quando ancoranon si sono raggiunte le massime capacità proprie della maturità - sia di morire troppotardi - quando ormai si sono conseguite tutte le proprie potenzialità e si sopravvive a sestessi. Per morire al momento giusto vi sono due vie: o togliersi liberamente la vita omorire in battaglia. Una morte di questo genere rappresenta, afferma Nietzsche, il degnocompimento di una vita veramente vissuta e costituisce per i vivi un potente stimolo allavita.

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TAPPA 6 NIETZSCHE: LA VOLONTA’ DI POTENZA

Tutti gli “scopi”, le “mete”, i “significati” non sono che espressioni emetamorfosi dell’unica volontà che inerisce a ogni accadere, la volontà dipotenza; l’avere scopi, mete, intenzioni, il volere in genere equivalgono aun voler diventare più forti, a un voler crescere, e in più a volere anche imezzi [...].

F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, 11, 96

Secondo Nietzsche il concetto di “forza”, su cui si impernia la spiegazione scientificadel mondo, deve essere integrato sul piano filosofico dal principio della volontà dipotenza. Infatti, afferma Nietzsche, ciò che gli scienziati sono soliti chiamare forza,distinguendola in attrattiva e repulsiva, non è che una parola vuota dal momento chela forza è solamente dedotta dalla constatazione di una serie di effetti ma maiconstatata in sé stessa in quanto causa. Ne consegue che il contenuto reale della forzaè la volontà di potenza e che pertanto tutti i fenomeni e le leggi naturali devono essereinterpretati come sue manifestazioni. A ulteriore sostegno di questa sua tesi, Nietzsche rileva che non è possibile pensare auna forza attrattiva che non contenga un’intenzionalità, cioè la volontà diimpadronirsi di qualcosa. Inoltre, il susseguirsi senza variazioni di certi fenomeni nonprova l’esistenza di una legge naturale, bensì soltanto che una forza non può esserealtrimenti da come è. Pertanto è erroneo credere che il ripetersi uniforme di unfenomeno dipenda dal fatto che un ente naturale obbedisce al comando di una leggeesterna e superiore. Al contrario, un fenomeno si ripete allo stesso modo perché l’enteda cui deriva è costituito internamente di volontà di potenza, si basa cioè su unmedesimo e univoco principio. In questo senso i comportamenti degli enti naturalinon sono né liberi né determinati. In essi infatti libertà e necessità coincidono inquanto sono le manifestazioni della loro identità più profonda.

La volontà di potenza, in quanto principio unico di ogni cosa e di ogni evento, perNietzsche va distinta nettamente• sia dalla volontà, intesa come facoltà cosciente in base alla quale l’uomo, come

soggetto razionale, può comportarsi liberamente;• sia dalla volontà di essere o di vita, intesa come istinto inconscio di sopravvivenza e

conservazione, ovvero come pulsione a mantenere la propria esistenza e aprolungarla il più possibile.

La volontà di potenza infatti è una pulsione inconscia che mira però non almantenimento della vita bensì all’accrescimento della forza vitale e alla conquista e aldominio di tutti i mezzi a tal fine necessari. Essa pertanto subordina a questo fineanche la conservazione dell’esistenza, nel senso che preferisce un più alto livello divitalità a una durata più lunga dell’esistenza. In questa prospettiva Nietzsche dàanche un fondamento cosmologico alla volontà di potenza. Il cosmo infatti possiedeuna quantità limitata e costante di energia. Di conseguenza la natura si basa su unprincipio di economicità, ovvero di risparmio energetico, che corrisponde alla volontàdi potenza. Voler diventare più forti significa infatti ottenere il massimo risultato conil minimo sforzo, cioè con il livello minimo di dissipazione energetica.

In questo quadro, Nietzsche sostiene che è ancora possibile attribuire un senso alconcetto di “Dio”: quello di massimo grado dello sviluppo della volontà di potenza.

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Questo nuovo significato di Dio è connesso al carattere ciclico dello sviluppo dellavolontà di potenza. Essa infatti, secondo Nietzsche, alterna eternamente fasi di“divinizzazione”, cioè di crescita, e fasi di “sdivinizzazione”, cioè di deperimento, incui si riduce ai minimi livelli. Ciò è dovuto al fatto che il mondo, in quantomanifestazione della volontà di potenza, rifugge uno stato duraturo e stabile.Dunque, anche “Dio”, cioè il culmine supremo del potenziamento del mondo, non èconcepibile come uno stato di equilibrio. Una volta raggiunto questo livello limite, lavolontà di potenza non può smettere di voler crescere e per questo impiega la suaforza a distruggere quanto aveva costruito per poter tornare poi a ricostruirlo ancorauna volta.

Il fenomeno fondamentale della natura in quanto volontà di potenza, affermaNietzsche, è il sacrificio di molti individui inferiori per rendere possibili pochiindividui superiori. Ciò vale anche e soprattutto per la specie umana, in cui lamaggior parte degli individui sono solo un mezzo per ottenere individui più forti, cioèdotati di un più alto grado di energia vitale. Per questo la volontà di potenza è ancheimpulso al dominio, alla sopraffazione e alla sottomissione del più debole da parte delpiù forte. Anzi Nietzsche giunge ad auspicare non solo la nascita di una nuovaaristocrazia di dominatori, di “signori della terra”, ma il divieto di procreare e perfinola castrazione per gli individui fisicamente deformi o psichicamente malati.Ciò nonostante, Nietzsche polemizza aspramente con l’evoluzionismo darwiniano, esoprattutto con il darwinismo sociale, sotto diversi aspetti:• per l’eccessiva influenza attribuita alle condizioni ambientali esterne, laddove il

fattore fondamentale della vita è la potenza interna che usa le condizioni esternecome strumenti;

• per la tesi secondo cui la lotta per l’esistenza e la selezione naturale eliminano gliindividui deboli e favoriscono quelli forti, mentre al contrario per Nietzschepenalizzano i forti e avvantaggiano i deboli in quanto questi sono più fecondi ecapaci di coalizzarsi, avendo così dalla loro la supremazia numerica;

• per l’idea che vi sia una progresso evolutivo complessivo delle specie e della natura,quando invece esso si attua solo all’interno di ogni specie con l’emergere di alcunitipi superiori e oltretutto in modo temporaneo perché questi, essendo piùcomplessi, muoiono con maggiore facilità.

In riferimento specifico all’essere umano, la volontà di potenza è indicata daNietzsche come un principio alternativo a quello della felicità. In altre parole, non hasenso per Nietzsche ritenere che l’individuo agisca per conseguire la sua felicità. Ilcomportamento individuale infatti è finalizzato all’aumento della potenza, cioè dellecapacità e delle possibilità di vita. In questo senso non si deve nemmeno pensare chesia il piacere il criterio del comportamento umano. Infatti il vero piacere è solo ilsintomo del conseguimento di un incremento di potenza. Il fine essenziale delcomportamento umano non deve essere dunque il piacere, ma la crescita dellapotenza e il piacere deve essere solo la sua conseguenza e insieme, per così dire, il suotermometro.A sua volta, il dispiacere - ovvero il dolore - deriva dalle limitazioni esterne che lavolontà di potenza individuale incontra nel suo sforzo di espansione. Infatti, inquanto forza, la volontà di potenza può realizzarsi soltanto vincendo delle resistenze.In altri termini accrescere la propria potenza significa lottare contro un’opposizioneper ridurla sotto il proprio dominio. Da questo punto di vista, il dispiacere non è altroche il modo di avvertire le resistenze e le opposizioni. Ma proprio per questo esso non

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è da considerare negativo in quanto è un ingrediente fondamentale dellarealizzazione della volontà di potenza e quindi dello stesso piacere.

Secondo Nietzsche, l’attività conoscitiva dell’uomo è una manifestazione della volontàdi potenza. Come tale essa è fondamentalmente un interpretare strettamente legato esubordinato ai diversi punti di vista individuali. Anche valutare - sia nel senso digiudicare sia in quello di porre dei valori - è un’espressione dell’impulso individuale aincrementare la forza vitale e come tale è relativo e funzionale a questo impulso.In questo senso Nietzsche afferma che l’aumento della potenza è l’unico criterio dellaverità teoretica e pratica, precisando che da ciò consegue che non vi è alcunadifferenza di principio tra verità ed errore. La verità infatti non è altro che un errorefunzionale alla volontà di potenza.

Per Nietzsche anche la bellezza è una delle forme essenziali in cui si manifestal’aumento della potenza. In altri termini la volontà di potenza significa anchetensione al proprio abbellimento, cioè a una maggiore armonia sia delle passioniinteriori sia dei movimenti e dei comportamenti fisici. In questo senso Nietzscheafferma che il vertice dello sviluppo individuale della volontà di potenza è il “grandestile”.Da un intenso desiderio di bellezza nasce l’arte che per Nietzsche induce l’ebbrezza,un particolare stato di piacere che corrisponde a un’alta sensazione di potenza. I veriartisti infatti sono individui straripanti di vita, esuberanti e sensuali, e le opere d’arteautentiche sono quelle che non si limitano a riprodurre la realtà così com’è ma cherappresentano e anticipano una realtà più piena, più forte, più potente. In questaprospettiva, l’arte è considerata da Nietzsche come il massimo stimolante alla vita,come una spinta al raggiungimento della massima potenza, come redenzione dal caose dal dolore, cioè dalla vitale tragicità dell’esistenza.

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TAPPA 5NIETZSCHE: LA TEORIA DELL’ETERNO RITORNO

“Ciò che fu”: ecco la pietra che la volontà non può rovesciare. [...]Tutto ciò “che fu” è frammento ed enigma, e spaventevole caso, finchénon dica la volontà creatrice: “Ma così io volli!”.

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Della redenzione

La volontà di potenza è per Nietzsche il principio capace di liberare l’individuoumano trasformandolo in übermensch, cioè in un essere che si sa e si viveapertamente come perenne tensione ad accrescere la sua potenza vitale. Eppure,afferma Nietzsche, la volontà di potenza sembra essere prigioniera del “così fu”,ovvero sembra incapace di ricomporre in un’unità sensata gli enigmatici frammentidel proprio passato, riscattandoli dall’insensatezza del caso. Infatti mentre essa puòdare un senso alle proprie azioni future, non può darlo a quelle passate, in quantoesse precedono la nascita dell’ übermensch.Al limite del passato si aggiunge il limite del futuro. L’übermensch sa di dover moriree sa che ha una sola vita, quella terrena. Che senso ha il suo potenziamento se èdestinato a interrompersi e ad annichilirsi? Il carattere finito, effimero e parzialedella vita terrena sembra renderla insensata e favorire la credenza in una vitaultraterrena infinita come unico modo per dare un senso alla vita terrena. Ma ciòsarebbe la negazione dell’ übermensch. Come è possibile uscire da questa impasse?

La soluzione di Nietzsche è che la volontà di potenza è totalmente e liberamentecreativa, in quanto possiede un’illimitata capacità di interpretazione della realtà e diproduzione di valori e significati. In questa prospettiva, essa può dissolvere l’ostacolodel “così fu” trasformandolo in un “così io volli!”.In altre parole, Nietzsche sostiene che la volontà di potenza può liberarsi dal pesodell’immodificabilità del passato interpretandola, e quindi ricreandola, come un suolibero e intenzionale prodotto, cioè riconoscendola come il frutto della propria liberascelta. La soluzione che così Nietzsche offre al problema del passato è interpretabile adue livelli:• su un piano individuale, come un riconoscimento di tutti i propri comportamenti

passati;• su un piano storico-culturale, come una accettazione di tutta la tradizione

nichilistica della cultura occidentale.

La reinterpretazione del proprio passato come un prodotto della volontà di potenzanon è però per Nietzsche solo il cambiamento soggettivo del proprio punto di vista edel proprio giudizio. Al contrario, il “così io volli!” per Nietzsche è un atto pratico conuna fondamentale e primaria implicazione ontologica, cioè comporta l’istituzione el’accettazione di una nuova concezione del tempo e in ultima analisi dell’essere inquanto perenne divenire.Infatti la decisione con cui l’individuo, in quanto volontà di potenza, riconosce il suopassato come voluto da lui significa volere che esso torni nel futuro, desiderare diripetere ancora una volta le stesse azioni compiute nel passato. Ma ciò a sua voltacomporta che l’individuo, in quanto volontà di potenza, deve credere nell’eternoritorno di tutti gli eventi e nella circolarità del tempo. In questo modo, infatti, insiemeal limite del passato, è superato anche quello del futuro: il potenziamento finito che l’

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übermensch attua nella sua vita limitata non si annichilisce, in quanto è destinato aritornare infinite volte, cioè si eterna.

La teoria dell’eterno ritorno è presentata da Nietzsche innanzitutto in formasimbolica. Nietzsche paragona l’attimo presente a una porta dalla cui soglia sidipartono in direzioni opposte due sentieri di lunghezza indefinita che rappresentanol’uno il tempo passato e l’altro il tempo futuro. I due sentieri apparentemente diversie contrastanti in realtà si uniscono, costituendo pertanto un unico sentiero.La metafora nietzscheana significa che il tempo è un flusso infinito in quanto ècircolare e che dunque tutto quello che accadrà deve già essere accaduto e viceversache tutto ciò che è già accaduto dovrà accadere nuovamente. In altre parolenell’infinito trascorrere del tempo tutti gli eventi sono destinati a ripetersiperennemente.

La teoria dell’eterno ritorno è proposta da Nietzsche come libera produzione creativadella volontà di potenza, ovvero dell’übermensch. Nietzsche però ne elabora ancheun’argomentazione razionale di carattere cosmologico.Secondo Nietzsche, l’universo è:

• senza inizio e senza fine e dunque eterno;• costituito da una quantità fissa e immutabile di energia;• spazialmente finito e circondato dal nulla;• privo di vuoto e totalmente pieno di centri di forza e onde di energia che in un gioco

eterno si combinano e si scombinano senza alcun scopo.Dal momento che il tempo è infinito e i centri/onde di energia sono finiti, ogni loropossibile combinazione deve realizzarsi infinite volte. Inoltre, poiché tra ognicombinazione e la sua ripetizione devono intercorrere tutte le altre possibilicombinazioni e poiché ogni combinazione è concatenata alle altre in un ordine disuccessione stabile, ne consegue che l’universo è un ciclo che si è ripetuto infinitevolte e che è destinato infinitamente a ripetersi. Questo ciclo per Nietzsche ècaratterizzato dal perenne alternarsi di una fase di creazione e di crescita e di una fasedi deperimento e di distruzione. In questo senso Nietzsche definisce “dionisiaco” ilsuo universo.

Per Nietzsche la conoscenza è sempre interpretazione e come tale è sempre unafunzione della volontà di potenza. Di conseguenza la stessa teoria dell’eterno ritornonon può essere considerata una verità certa fondata sulla sua intrinseca razionalità.Essa assume un valore soltanto per l’individuo che la istituisce con un atto della suavolontà di potenza.Anche questa tesi è esposta da Nietzsche in forma simbolica. Egli narra cheZarathustra, il profeta dell’übermensch, subito dopo aver formulato il pensierodell’eterno ritorno, vede un giovane pastore che si contorce soffocato da un grossoserpente entratogli in bocca. Grazie all’incitamento di Zarathustra, il pastore morde ilserpente e si trasforma: egli appare illuminato e ride di un riso sovraumano.Nel racconto di Nietzsche, il serpente rappresenta l’eterna circolarità del tempo e ilsoffocamento l’angoscia che inizialmente l’idea dell’eterno ritorno può provocarenell’individuo. A sua volta il morso del pastore è il simbolo della decisione individualedi totale accettazione dell’eterno ritorno. Infine la trasfigurazione del pastore e il suoriso sono metafore della trasformazione dell’uomo nell’übermensch e del suo modogioioso e lieve di vivere la vita.

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In questo senso con la teoria dell’eterno ritorno Nietzsche indica i criteri in base aiquali l’übermensch deve concepire e vivere il tempo:• la realtà è divenire, è cambiamento perenne, ma il divenire ha il carattere e la

dignità piena dell’essere in quanto è destinato a ripetersi e dunque è eterno;• ogni attimo, ogni azione, ogni situazione della vita, essendo destinati a tornare

eternamente, hanno valore assoluto e vanno vissuti come tali;• poiché non vi è alcuna meta finale, ogni momento della vita non deve essere

subordinato strumentalmente a uno scopo ultimo ma deve essere vissutopienamente come fine a se stesso.

Questa concezione del tempo è chiaramente connessa all’idea dionisica della vita comegioco e danza, cioè come successione di esperienze fini a se stesse dal momento cheproducono in sé stesse valore, senso e soddisfazione. In questo modo, secondo Nietzsche,l’angoscia dovuta alla finitezza temporale della vita e alla precarietà di ogni azione puòessere completamente debellata.

VIAGGI PASSATI&VIAGGI PRESENTICon la sua teoria dell’eterno ritorno Nietzsche si riallaccia consapevolmente allafilosofia greca presocratica. Elementi di una concezione ciclica del tempo sonoattestabili già in Anassimandro - che concepisce il cosmo come una eterna vicenda dimorte e rinascita -, in Empedocle - secondo cui il cosmo trascorre eternamentedall’amore all’odio e dall’odio all’amore - ma soprattutto in Eraclito e negli stoici, peri quali l’universo alterna perennemente una fase di espansione vitale e una fase dicontrazione distruttiva cosicché tutti gli eventi sono destinati a ripetersi eternamentenello stesso modo in virtù della perfezione divina del divenire universale. La teorianietzscheana dell’eterno ritorno si differenzia da queste antiche dottrinecosmologiche in quanto ha un’origine e un primario significato antropologico - nascecioè dal pensiero dell’ übermensch ed è finalizzata a connotarlo. Il suo fondamentoinoltre non è oggettivo, bensì soggettivo, in quanto consiste in un atto di volontàdell’individuo. Fatte salve le debite differenze, è inoltre possibile collegare la teorianietzscheana dell’eterno ritorno - soprattutto nella sua versione cosmologica - a unadelle 3 varianti della teoria scientifica contemporanea del big bang, quella secondo laquale l’espansione dell’universo ha un limite, raggiunto il quale un’implosione (bigcrunch) riaggrumerebbe tutta l’energia cosmica nella “singolarità” iniziale.

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VIAGGIO IILA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA CONTEMPORANEA

ROTTA ALA PSICANALISI, O PSICOLOGIA DEL PROFONDONel corso dell’800, il successo del positivismo nella comunità scientifica in campopsicologico aveva favorito l’affermazione della tesi organicistica secondo la quale lamalattia psichica è sempre conseguenza di un difetto neurologico, ossia di un dannocerebrale, o, più in generale, del sistema nervoso. Benché di formazione scientifico-positivistica, Freud giunge alla convinzione che la realtà psichica, seppure strettamenteconnessa a quella fisiologica, possiede una propria irriducibile autonomia. Sul pianomedico, ciò significa che esistono malattie psichiche non dipendenti da lesioni omalformazioni organiche. Per Freud, pertanto, la scienza psicologica deve scoprire iprincipi costitutivi e le leggi della psiche allo scopo di elaborare una efficace terapia dellemalattie psichiche.In questa prospettiva, Freud attua una rivoluzione teorica sostenendo il carattereprevalentemente inconscio della psiche: l’Io, ossia la coscienza, non è che la puntadell’iceberg psichico; la sua parte più estesa, ovvero determinante, è sommersa, cioè nonè cosciente. Più precisamente Freud denomina “Es” (“Esso”) il principio fondamentaledella vita psichica e sostiene che l’Es consiste nella libìdo. Con questo termine (in latinovoglia, brama) Freud intende un’energia vitale originaria di carattere sessuale il cuiunico scopo è procurarsi il piacere corporeo. Per adattarsi alla realtà naturale e sociale,una parte dell’Es si trasforma in Io, cioè in coscienza sensitiva e intellettiva, e in Super-io,cioè nell’insieme dei valori e delle norme comportamentali che ogni società inocula negliindividui attraverso l’educazione.Il corollario della teoria freudiana dell’Es è una tesi ancora più rivoluzionaria in quanto,contraddicendo la mentalità comune tradizionale, risulta sconvolgente non solo per lacomunità scientifica ma per l’intera comunità umana: fin dalla nascita i bambiniprovano e soddisfano desideri sessuali. La sessualità infantile però è diversa, secondoFreud, da quella genitale, propria degli adulti, e inoltre si evolve nel tempo: prima èorale, poi anale, quindi fallica e solo alla fine dell’adolescenza diventa compiutamentegenitale. Soprattutto nel cruciale passaggio dalla fase fallica a quella genitale, il divietodell’incesto, la norma morale che per Freud fonda la civiltà, ingenera il “complesso diEdipo/Elettra”: il bambino desidera il genitore del sesso opposto e quindi odia il genitoredel proprio sesso, in quanto rivale, ma al tempo stesso ne teme la possibile reazionepunitiva. In questo modo il bambino vive un conflitto che può essere superato solo serinuncia al soddisfacimento del proprio desiderio, identificandosi con il genitore delproprio sesso. Così facendo egli introietta le norme morali, costituendo il proprio Super-io, e di conseguenza indirizza il proprio desiderio su un individuo esterno alla famigliacon cui è possibile soddisfarlo.Il mancato o il carente superamento del complesso di Edipo/Elettra genera le nevrosi,cioè le malattie psichiche. La psicanalisi, secondo Freud, può curare le nevrosi riportandoalla coscienza e facendo ricordare e rivivere al paziente le situazioni emotivo-relazionaliche le hanno prodotte. A questo scopo Freud mette a punto 3 tecniche fondamentali: lalibera associazione, l’interpretazione degli “atti mancati”, cioè parole o gesti involontari,e soprattutto l’interpretazione dei sogni. Grazie a queste tecniche è possibile, secondoFreud, scandagliare l’inconscio e far riaffiorare alla coscienza i traumi rimossi, cioèdimenticati, perché insopportabili per l’Io.In una fase ulteriore della sua ricerca, Freud configura l’Es in modo dualistico: esso non èsolo èros, cioè istinto vitale, ma anche thànatos, cioè pulsione di morte, intesa come

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desiderio di tornare alla condizione originaria della materia inanimata, ovvero allaquiete assoluta. La pulsione di morte spiega così la violenza insita in ogni individuo, chepuò manifestarsi sia nel masochismo, cioè come violenza contro se stessi, sia nel sadismo,cioè come violenza contro gli altri.Freud stesso dichiara la portata rivoluzionaria della teoria psicanalitica per laconcezione dell’uomo e quindi della civiltà umana. Egli sostiene, infatti, che la psicanalisirappresenta la terza e più grave ferita narcisistica, cioè della sua autostima, inferta dalprogresso scientifico all’uomo: dopo che Copernico aveva sovvertito la centralità cosmicadella Terra e Darwin la superiorità dell’uomo rispetto agli animali, la psicanalisi hascoperto che l’uomo “non è più padrone nemmeno a casa sua”, dal momento che l’Iocosciente è agito dall’Es inconscio.

VITA DI UN CAPITANOSIGMUND FREUDSigmund Freud nacque nel 1856 a Freiberg, in Moravia - oggi regione della RepubblicaCeca, allora appartenente all’Impero austro-ungarico degli Asburgo -, dalla seconda mogliedi un piccolo commerciante ebreo che, quando Freud aveva quattro anni, ebbe un rovescioeconomico e si trasferì con la famiglia a Vienna. Qui Freud visse infanzia e giovinezzanell’atmosfera politica innovativa del regno di Francesco Giuseppe, il quale nel 1867emancipò definitivamente gli ebrei concedendo loro pieni diritti politici. Dopo averacquisito una vasta formazione umanistica, grazie ai suoi eccellenti risultati scolastici, chegli permisero di sopperire alle difficoltà economiche, frequentò la facoltà di Medicina,concentrandosi sullo studio del sistema nervoso, ma si interessò anche di filosofia e seguì icorsi di Franz Brentano dedicati all’analisi delle attività psichiche. Conseguita la liberadocenza in neuropatologia nel 1885, vinta una borsa di studio, approfondì la propriaformazione a Parigi, nella clinica della Salpêtrière, sotto la guida del famoso neuropatologoMartin Charcot. Oggetto della ricerca e della terapia di Charcot era la sindromepsicopatologica allora denominata “isteria” (dal greco hystèra, utero), caratterizzata dasintomi eterogenei, quali paralisi, convulsioni, cecità, e ritenuta esclusivamente femminile.La sintomatologia isterica non era imputabile a traumi o difetti del sistema nervoso epertanto l’isteria era derubricata a simulazione o autosuggestione dagli psichiatripositivistici. Charcot, invece, sosteneva l’idea innovativa che l’isteria avesse cause psichichele quali potevano essere ricercate ed eliminate tramite l’ipnosi. Tornato a Vienna, ormaiconvinto dell’autonomia della sfera psichica e dell’efficacia terapeutica della parola, nonchédell’esistenza di un’isteria maschile, Freud si scontrò con il conservatorismo e, insieme,l’antisemitismo dell’ambiente medico ufficiale. Privo di sostegno economico familiare,rinunciò alla carriera universitaria e decise di esercitare privatamente la professione dimedico delle malattie nervose, proseguendo in tal modo la sua ricerca basata sull’usodell’ipnosi finalizzata però a far ricordare al paziente i suoi vissuti passati. Nel 1886 Freudaprì il suo studio e sposò Martha Bernays dalla quale avrebbe avuto poi sei figli. Negli annisuccessivi, divenne amico e collaboratore di Josef Breuer che praticava anche lui l’ipnosicon uguale scopo, in particolare per il caso della paziente Anna O. Nel 1895 Freud e Breuerpubblicarono insieme Studi sull’isteria, esposizione dei casi clinici sui quali entrambiavevano lavorato. Successivamente, a differenza di Breuer, che riteneva che la terapia“catarchica” da loro usata possa portare alla guarigione una volta che il paziente avesseriacquisito coscienza degli eventi traumatici causa dei sintomi isterici, Freud si convinseche tutti i vissuti riemersi grazie all’ipnosi avessero un fondamento affettivo-sessuale e chepertanto la terapia dovesse arrivare a far emergere i vissuti sessuali dei pazienti. Breuernon condivise questo convincimento e anzi, quando si accorse che Anna O. era innamoratadi lui, interruppe la cura e al tempo stesso la collaborazione con Freud. Verificando nellapratica clinica la sua nuova tesi, Freud, invece, credette di scoprire, in un primo tempo, che

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i traumi psichici causa dell’isteria fossero fondamentalmente episodi di seduzione,molestie o addirittura violenze sessuali subite nell’infanzia dalle pazienti da parte diparenti e in particolare dei padri. Più avanti, però, Freud rettificò la sua tesi appurando chein molti casi i ricordi delle violenze sessuali subiti non corrispondono a fatti reali ma afantasie, fermo restando che queste possono essere altrettanto traumatiche di un eventoreale. Ne trasse la conclusione che quello che conta per la terapia psichica non è il fattooggettivo, ma il vissuto soggettivo. In ogni caso, Freud arrivò così a mettere a fuoco la tesifondamentale della teoria psicanalitica: l’esistenza di una psiche inconscia caratterizzatadalla pulsione sessuale e determinante per il comportamento umano. Su questa base, negliultimi anni del XIX secolo Freud elaborò i fondamenti di una nuova teoria psicologica: lapsicanalisi, definita “psicologia del profondo”, ossia dell’inconscio. In questa fase diincubazione, divenne molto importante per Freud l’amicizia e la collaborazione conWilhelm Fliess, un medico di Berlino, anche lui appassionato studioso di fisiologiasessuale, che aiutò Freud a superare i propri dubbi e le proprie resistenze nei confrontidella sua “scandalosa” teoria. Nel prosieguo della loro sempre più assidua collaborazione,Freud e Fliess posero sempre più al centro dei loro studi e della loro discussione il temadella bisessualità costituzionale di ogni essere umano. Però, soprattutto in seguito allamorte di suo padre (1896), Freud si rese conto di essere psicologicamente dipendente daFliess e intraprese un lungo processo di autoanalisi che lo portò prima al distacco e poi alladolorosa rottura con Fliess, ma anche all’elaborazione compiuta della sua teoria. Tra il1900 e il 1905, Freud rese pubblica la teoria psicanalitica attraverso tre opere-cardine:L’interpretazione dei sogni (1900), in cui interpreta il sogno come manifestazionemascherata di desideri sessuali inconsci in base all’esposizione e alla decifrazione deisimboli di sogni personali e dei suoi pazienti; Psicopatologia della vita quotidiana (1901),in cui illustra e analizza numerosi e spesso spassosi casi di “atti mancati” (lapsus, gaffe,amnesie, sbadataggini, smarrimenti, gesti maldestri, ecc.) interpretati come altrettanteespressioni dell’inconscio; Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), in cui afferma l’esistenzadi una sessualità infantile e ricostruisce le tappe evolutive della sessualità dalla nascitaall’età adolescenziale. In seguito alla pubblicazione e diffusione di questi libri, Freud uscìdall’isolamento e coagulò intorno a sé un gruppo sempre più folto di medici e psicologiorganizzando un vero e proprio movimento. Nel 1909 pubblicò due resoconti approfonditidi casi clinici – Caso clinico del piccolo Hans e Caso clinico dell’uomo dei topi -, entrambiesempi paradigmatici di analisi e terapia psicanalitiche. Nel 1910 esce Cinque conferenzesulla psicanalisi, trascrizione di conferenze divulgative tenute l’anno precedente negli USA– dove ottenne quell’apprezzamento che in Europa ancora non aveva ricevuto -, esoprattutto fondò ufficialmente la Società Psicoanalitica Internazionale, divisa innumerose sezioni nazionali. Già un anno dopo, però, si verificò la prima scissione, quella diAlfred Adler (1870-1937), seguita nel 1913 da quella più grave di Carl Gustav Jung (1875-1961), che Freud considerava suo possibile successore alla guida della SPI. Per converso,negli anni seguenti Freud allacciò un rapporto umano e professionale sempre più strettocon Lou Salomè, la scrittrice russa, ormai cinquantenne, che era stata amica di Nietzsche eamante di Rilke, e che lo aveva conosciuto nel 1911, diventando poi sua allieva e quindi ellastessa psicanalista e collaboratrice, fino alla sua morte nel 1937. Dal 1913 al 1920, Freudsviluppò e approfondì la prima versione della sua teoria psicanalitica in opere quali Toteme tabù (1913), in cui spiega l’origine dei due divieti istitutivi della civiltà – quellodell’uccisione del padre e quello dell’incesto – da cui deriva il complesso di Edipo/Elettra;Introduzione al narcisismo (1914), sulla costituzione dell’Io in base al riversamento su essodi una quota della libìdo; Metapsicologia (1915), in cui espone una versione più teorica esistematica della psicanalisi; Introduzione alla psicanalisi (1917), esposizione dei capisaldidella teoria psicanalitica in forma accessibile al grande pubblico; Al di là del principio delpiacere (1920), in cui Freud teorizza il dualismo psichico tra pulsione di vita e pulsione di

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morte. In particolare, la composizione di quest’ultima opera fu influenzata dall’esperienzadella I guerra mondiale, la cui conclusione coincise per Freud con la perdita di una figlia edi un nipotino a causa dell’influenza spagnola. Nel 1923 a Freud, grande fumatore di sigari,fu diagnosticato un tumore alla mandibola, che poi l’avrebbe afflitto sempre più fino allamorte. Ciò nonostante, nell’ultimo ventennio della sua vita e della sua riflessione, Freudcontinuò ad approfondire aspetti della teoria psicanalitica in opere quali L’Io e l’Es (1923),Nevrosi e psicosi (1924), Il tramonto del complesso edipico (1924), Autobiografia (1925),Sessualità femminile (1931), Analisi terminabile e interminabile (1937), Compendio dipsicanalisi (1940), e soprattutto estese la teoria psicanalitica all’interpretazione deifenomeni storico-sociali in opere come Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), incui spiega psicanaliticamente la tendenza delle masse a identificarsi con leader politiciautoritari; L’avvenire di un’illusione (1927), in cui illustra la teoria psicanaliticadell’origine delle religioni di cui prevede il progressivo esaurimento; Il disagio della civiltà(1930), in cui teorizza l’esistenza di un Super-io della civiltà e sulla sua base spiega ilfondamento della società umana; L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1938) in cuiFreud torna a interpretare psicanaliticamente la religione, in particolare quella ebraica.Nel 1933 Hitler conquistò il potere in Germani e negli anni succesivi i libri di Freud furonobruciati sulle piazze in quanto espressioni della “scienza ebrea”. Nel 1938 i nazisticonquistarono l’Austria e diedero inizio alla persecuzione anche nei confronti degli ebreiaustriaci. Grazie alla sua fama e alle protezioni di cui godeva all’estero, si trasferì con lafamiglia a Londra, dove fu accolto con grandi onori, per salvare non sé ma la figlia Anna.Le sue quattro sorelle, e le loro famiglie, invece, morirono nei lager nazisti. Nel 1939, iltumore mandibolare di Freud si aggravò facendolo soffrire in modo non più sopportabile etale da impedirgli la stessa attività intellettuale. Freud, che fino a quel momento avevaridotto al minimo l’uso dei medicinali, sopportando il dolore pur di mantenere intatta lalucidità mentale, decise che era giunta per lui l’ora di morire e chiese al suo medico diiniettargli una dose mortale di morfina.L’opera di Freud negli anni successivi alla sua morte e nel corso di tutto il XX secolo sidiffuse sempre più e influenzò in profondità non solo la psicologia, ma l’intera cultura, inparticolare la filosofia, la letteratura e il cinema. Per citare solo alcuni di centinaia diesempi: L’essere e il nulla (1943) di J.P. Sartre, Eros e civiltà (1955) di H. Marcuse, Lacoscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo, Agostino (1944) di Alberto Moravia, Marnie(1964) di Alfred Hitchcock, Shutter Island (2009) di Martin Scorsese.

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TAPPA 1FREUD: I PRINCIPI DELLA PSICHE: ES, IO, SUPER-IO

Il più antico e il migliore significato del termine “inconscio” è quellodescrittivo; chiamiamo inconscio un processo psichico di cui dobbiamosupporre l’esistenza – per esempio, perché la deduciamo dai suoi effetti – madel quale non sappiamo nulla. La nostra relazione con questo processo è lastessa che abbiamo con un processo psichico che ha luogo in un altro uomo,salvo che è, appunto, nostro. Volendo esprimerci ancora più correttamente,modificheremo la proposizione nel senso che chiamiamo inconscio unprocesso quando dobbiamo supporre che al presente sia in atto benché, alpresente, non ne sappiamo nulla. [...] Per spiegare, per esempio, un lapsusverbale, ci vediamo costretti a supporre che quella data persona avesse avutol’intenzione di dire una certa cosa. Lo indoviniamo con certezza dall’avvenutaperturbazione nel discorso; ma l’intenzione non si era fatta valere, dunqueera inconscia. [...]La considerazione di questi rapporti dinamici ci permette adesso didistinguere due specie di inconscio: uno, che si trasforma facilmente inconscio, in condizioni spesso ricorrenti, e un altro, nel quale questaconversione avviene difficilmente, solo a patto di un notevole dispendio diforze, o in cui forse non avviene mai. [...] Chiamiamo “preconscio”quell’inconscio che è solo latente, e quindi diventa facilmente conscio, eriserviamo all’altro la designazione di “inconscio”. Abbiamo ora tre termini:“conscio”, “preconscio” e “inconscio”, con i quali possiamo destreggiarci nelladescrizione dei fenomeni psichici. [...]Adeguandoci all’uso linguistico di Nietzsche e seguendo un suggerimento diGeorg Groddeck, lo [l’inconscio, ndr] chiameremo d’ora in poi “Es”. Questopronome impersonale sembra particolarmente adatto a esprimere il carattereprecipuo di questa provincia psichica, la sua estraneità all’Io. [...]A parte il nuovo nome, non aspettatevi che abbia da comunicarvi molto dinuovo sull’Es. E’ la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità; il pocoche ne sappiamo, l’abbiamo appreso dallo studio del lavoro onirico e dellaformazione dei sintomi nevrotici; di questo poco, la maggior parte hacarattere negativo, si lascia descrivere solo per contrapposizione all’Io. All’Esci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos, un calderone dieccitamenti ribollenti. Ce lo rappresentiamo come aperto all’estremità versoil somatico, e che ivi accolga in sé i bisogni pulsionali, i quali trovano così laloro espressione psichica, senza che sappiamo dire in quale substrato.Attingendo alle pulsioni, esso si riempie di energia, ma non haun’organizzazione, non produce una volontà collettiva, ma solo lo sforzo perprocurare soddisfacimento ai bisogni pulsionali rispettando il principio dipiacere. Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es,soprattutto non il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistonouno accanto all’altro, senza annullarsi e diminuirsi a vicenda; tutt’al più, sottola dominante costrizione economica di scaricare l’energia, confluiscono informazioni di compromesso. Non vi è nulla nell’Es che si possa paragonarealla negazione, e si osserva pure con sorpresa un’eccezione all’assioma deifilosofi, secondo cui spazio e tempo sarebbero forme necessarie dei nostri attimentali. Nulla si trova nell’Es che corrisponda all’idea di tempo, nessunriconoscimento di uno scorrere temporale e [...] nessun’alterazione del

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processo psichico ad opera dello scorrere del tempo. Impulsi di desiderio chenon hanno mai varcato l’Es, ma anche impressioni che sono state sprofondatenell’Es dalla rimozione, sono virtualmente immortali, si comportano dopodecenni come se fossero appena accaduti. Solo quando sono divenuticoscienti mediante il lavoro analitico, essi possono venir riconosciuti comepassato, venir svalutati e privati della loro carica energetica, e su ciò si fonda,e non in minima parte, l’effetto terapeutico del trattamento analitico. [...]E’ ovvio che l’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né lamoralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamenteconnesso al principio di piacere, domina tutti i processi. Cariche pulsionaliche esigono la scarica: ecco tutto ciò che, a parer nostro, vi è nell’Es.

Freud, Introduzione alla psicanalisi, Lezione 31,trad. di Marilisa Tonin Dogana ed Ermanno Sagittario, Boringhieri

Freud descrive la psiche e spiega la sua attività in base a due “topiche” (dal greco tòpos,luogo), cioè due mappe, tra loro complementari, ognuna delle quali è suddivisa in 3 aree:

1) inconscio, preconscio, conscio;2) Es, Io, Super-io.

Per comprenderle bisogna innanzitutto precisare che Freud parla di “topiche” in sensometaforico, in quanto esse non rispecchiano dei luoghi effettivi – la psiche non è fisica edunque non è spazialmente divisibile – ma delle forze, delle funzioni, che oltretuttointeragiscono tra loro. In secondo luogo, le due mappe, benché non collimino, sisovrappongono, in quanto inconscio, preconscio e conscio sono proprietà di Es, Io e Super-io. Semplificando, l’Es è totalmente inconscio, l’Io conscio e preconscio, il Super-io in parteconscio e in parte inconscio. Come vedremo, però, alcune esperienze traumatiche dell’Iopossono essere sprofondate nell’Es inconscio e riportate, con la terapia psicanalitica, all’Iocosciente: pertanto ci sono anche parti dell’Io inconsce e parti acquisite dell’Es chepossono tornare a far parte della coscienza.Relativamente alla prima topica, Freud denomina:

a) “inconscio” un contenuto psichico (p.e. un ricordo connesso a una o più emozioni)che influenza il nostro comportamento senza che ne abbiamo la minimaconsapevolezza, e che in certi casi può diventare cosciente ma solo ricorrendo allaterapia psicanalitica;

b) “preconscio” un contenuto psichico non immediatamente cosciente che può essereportato alla coscienza con un nostro atto mentale intenzionale;

c) “conscio” un contenuto psichico di cui siamo immediatamente coscienti in un datoistante.

Passando alla seconda topica, Freud chiama:a) Es: la forza psichica primaria, e quindi fondamentale, basata sul principio del

piacere;b) Io: la forza psichica secondaria, basata sul principio di realtà, che si forma a partire

dalla nascita di ogni individuo per la modificazione di una parte dell’Es;c) Super-io: la forza psichica basata sui valori e le norme morali, che si forma

soprattutto a partire dalla seconda infanzia.L’Es, dunque, è per Freud la forza determinante della psiche. Freud lo connota comelibìdo, cioè al contempo come:

l’energia vitale originaria: per così dire, il propellente dell’agire umano; un desiderio essenzialmente sessuale, ovvero che mira a un soddisfacimento tramite

il piacere corporeo; una tensione o carica psichica, il cui accumulo implica sofferenza e che pertanto

cerca necessariamente di scaricarsi.

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Come tale, l’Es è un ribollire di pulsioni, cioè di desideri irrefrenabili, del tutto alieno aregole e quindi privo di qualsiasi ordine razionale. L’Es dunque non rispetta alcun limite enon sa cosa sia la contraddizione, vuole tutto e il contrario di tutto. E subito. Infatti,afferma Freud, l’Es non conosce lo scorrere del tempo, dunque è fissato a una sorta dieterno presente, cioè alla perenne sussistenza e sollecitazione dei propri impulsi. In questosenso, l’Es è inconscio per costituzione, in quanto parla un linguaggio incompatibile conquello razionale dell’Io e pertanto l’Io non è in grado di pensarlo.Come mai allora esiste un Io? Quale la sua funzione? L’Io, afferma Freud, è il prodottodella modificazione di una parte dell’Es, cioè di una quota di energia libidica. Esso si formaper permettere all’Es di adattarsi alla realtà naturale, ovvero per consentire all’individuo disoddisfare le proprie pulsioni senza subire danni psico-fisici da parte delle forze naturali,di animali o anche di altri uomini, e innanzitutto evitando la morte. P.e., evitando diannegare in un fiume, piuttosto che di patire la fame (infatti, se si soddisfacesse solo ildesiderio sessuale non si avrebbe modo di procurarsi il cibo), o ancora di essere assalito dabelve piuttosto che malmenato da altri uomini. Per svolgere questa funzione, l’Io devepossedere la capacità di conoscere la realtà esterna, ma anche la propria realtà interiore.Per questo deve essere cosciente. Grazie alla coscienza, l’Io può guidare l’Es a soddisfare ipropri desideri in modo non nocivo, cioè nella massima sicurezza possibile, e, a tal fine,possiede anche la capacità di incanalare e perfino di frenare l’Es, cioè di indurlo, senecessario, a rimandare il soddisfacimento di una pulsione. L’Io rimane, tuttavia,subordinato all’Es, in quanto ne è uno strumento, e quindi spesso è prevaricato dall’Es, equindi messo in pericolo, e comunque è costretto prima o poi ad assecondarlo. In questosenso, Freud paragona il rapporto Es-Io a quello di un cavallo e del suo cavaliere,precisando però che spesso è il cavallo a decidere dove andare.A sua volta il Super-io si sviluppa dalla modificazione di una parte dell’Es - e dunque sinutre anch’esso di una quota di energia libidica - ma in relazione alla comunità umana,innanzitutto alla famiglia. In altri termini, l’Es è costretto a produrre il Super-io peradattarsi alle regole (norme morali, usi e costumi, pregiudizi della tradizione) dellaconvivenza sociale. Pertanto mentre l’Io nasce con l’uomo naturale, il Super-io nasce con laciviltà umana, è un prodotto della civilizzazione. In questo senso, l’adattamento del Super-io consiste nell’interiorizzare le regole di comportamento sociale e nell’abituarsi arispettarle. Tali regole consistono fondamentalmente in proibizioni, le più antiche eprincipali delle quali – fondative dunque della civiltà - sono, sostiene Freud, il divieto diuccidere il proprio padre e il divieto dell’incesto. In questo senso, il Super-io è un insiemedi norme morali ma è anche una sorta di guardiano interno pronto a punire ognitrasgressione con il senso di colpa, cioè scaricando aggressività contro l’Io.Dunque con la formazione del Super-io, ai limiti posti dall’ambiente naturale siaggiungono quelli ancora più pesanti imposti dall’ambiente sociale. Ne segue che ilcompito di guida dell’Io si fa più problematico, perché non si tratta più per l’Io di trovareuna mediazione solo tra due bensì tra tre contendenti: Es, realtà naturale, comunitàumana. In questo senso Freud paragona l’Io a un servo costretto a obbedirecontemporaneamente a tre padroni, anzi a tre “tiranni”, con la conseguenza di fallirespesso e di provare un’angoscia pressoché costante.

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TAPPA 2FREUD: L’EVOLUZIONE DELLA SESSUALITA’ UMANA

E’ innanzitutto un errore insostenibile negare al bambino una vita sessuale esupporre che la sessualità inizi soltanto al tempo della pubertà, con lamaturazione dei genitali. Al contrario, il bambino ha fin dall’inizio una riccavita sessuale, che si differenzia in molti punti da quella ritenuta in seguitonormale. Ciò che noi chiamiamo “perverso” nella vita degli adulti si scostadalla normalità nei seguenti punti: primo, per l’incuranza della barriera dellespecie (dell’abisso tra uomo e animale); secondo, per lo scavalcamento dellabarriera del disgusto; terzo, di quella dell’incesto (del divieto di ricercaresoddisfacimento sessuale con stretti consanguinei); quarto, di quellodell’uguaglianza di sesso; e, quinto, per il trasferimento del ruolo dei genitaliad altri organi e parti del corpo. Tutte queste barriere non esistono findall’inizio, ma vengono erette solo a poco a poco nel corso dello sviluppo edell’educazione. Il bambino piccolo ne è libero. Egli non conosce ancora ilgrande abisso tra uomo e bestia; l’orgoglio con cui l’uomo si separadall’animale cresce in lui solo più tardi. Inizialmente non prova alcundisgusto di fronte agli escrementi, ma lo apprende lentamente, sotto l’influssodell’educazione; rivolge le sue prime brame sessuali e la sua curiosità sullepersone a lui più vicine e, per altri motivi, più care: sui genitori, sui fratelli, suchi ha cura di lui: e infine si evidenzia in lui [...] il fatto che egli non si aspettapiacere solo dalle parti sessuali, ma che molte altre parti del corpo reclamanoper sé la medesima sensibilità, permettono analoghe sensazioni di piacere epossono quindi svolgere il ruolo di genitali. Il bambino può quindi venirdefinito “perverso polimorfo” e, se esercita tutti questi impulsi solo in formarudimentale, ciò dipende, da una parte, dalla loro minor intensità rispetto aperiodi successivi della vita. E dall’altra, dal fatto che l’educazione reprimesubito energicamente tutte le manifestazioni sessuali del bambino. [...]Così il primo oggetto della componente orale della pulsione sessuale è il senomaterno, il quale soddisfa il bisogno di nutrizione del lattante. Lacomponente erotica, che viene contemporaneamente soddisfatta durante ilpoppare al seno, si rende poi indipendente come atto del succhiare,abbandona l’oggetto estraneo e lo sostituisce con una zona del proprio corpo.La pulsione orale diventa autoerotica, come lo sono sin dall’inizio le pulsionianali e le altre pulsioni erogene. [...].[...] già a partire dal terzo anno, non ci son più dubbi per quanto riguarda lavita sessuale del bambino: a quest’epoca i genitali cominciano già a destarsi;ne risulta regolarmente, forse, un periodo di masturbazione infantile, quindidi soddisfacimento genitale. [...]All’incirca dal sesto fino all’ottavo anno si può notare un arresto e unaregressione dello sviluppo sessuale che, nei casi più favorevoli al bambino dalpunto di vista culturale, merita il nome di periodo di latenza. [...]Sarete ora impazienti di sapere che cosa contenga questo terribile complessoedipico. Il nome ve lo dice. Voi tutti conoscete la leggenda greca del re Edipo,che è destinato dal fato a uccidere suo padre e a prendere in sposa sua madre,che fa di tutto per sfuggire alla sentenza dell’oracolo e che poi si punisceaccecandosi, dopo aver appreso che ha nondimeno commesso,inconsapevolmente, entrambi questi delitti. [...]

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Che cosa si può dunque scoprire del complesso edipico mediantel’osservazione diretta del bambino, all’epoca della scelta oggettualeprecedente il periodo di latenza? Ebbene, si vede facilmente che il maschiettovuole avere la madre soltanto per sé, avverte come incomoda la presenza delpadre, si adira se questi si permette segni di tenerezza verso la madre emanifesta la sua contentezza quando il padre parte per un viaggio o è assente.Spesso dà diretta espressione verbale ai suoi sentimenti, promette alla madreche la sposerà.

Freud, Introduzione alla psicanalisi, lezioni 13 e 21, ed. cit.

Corollario fondamentale ed eclatante della teoria dell’Es di Freud è la tesi secondo cuianche i bambini hanno una vita sessuale. Secondo Freud, se gli adulti non si accorgonodella sessualità infantile è solo perché identificano la sessualità con la sessualità genitale,cioè con la forma di sessualità, propria dell’età adulta, fisiologicamente legata alla funzioneriproduttiva. Ma la sessualità, per Freud, si evolve dalla nascita fino all’età adulta, dunquesi manifesta nell’infanzia in altre forme e solo al termine dell’adolescenza assume la formagenitale.In questo senso, Freud elabora una periodizzazione dello sviluppo sessuale umano:

a) fase orale (1° anno);b) fase anale (2° anno);c) fase fallica (3°-4° anno);d) fase di latenza (dal 5° anno all’adolescenza);e) fase genitale (al termine dell’adolescenza).

La sessualità orale è la prima forma di sessualità ed è strettamente connessa alla suzionedel latte materno. Quando il neonato si alimenta al seno della madre, afferma Freud, provauno specifico piacere di natura sessuale per il contatto tra le sue labbra e il capezzolomaterno. Questo lo porta poi a provare piacere nel succhiare anche parti del proprio corpo,p.e. il dito, oppure degli oggetti, p.e. il ciucciotto.La successiva sessualità anale è invece basata sul piacere che il bambino prova nell’urinaree soprattutto nel defecare, anche in connessione alla progressiva acquisizione dellacapacità di controllare i propri sfinteri e quindi di opporsi o cedere al bisogno di espellerele proprie feci.Nella fase fallica, invece, il bambino scopre i propri organi sessuali, naturalmente ancoranon sviluppati, e cerca il piacere derivante dalla loro stimolazione.Complessivamente, dunque, la sessualità del bambino è autoerotica. Però verso il 5° annolo sviluppo della fase fallica arriva alle soglie di quella genitale: il bambino non cerca piùsoddisfazione erotica solo in se stesso ma anche e soprattutto negli altri, in particolare neipropri genitori: seppur confusamente, il desiderio sessuale del bambino si orienta verso lamadre, quello della bambina verso il padre. Ma nella società umana vige il divietodell’incesto, che secondo Freud è, insieme al divieto di uccidere il padre, la regola fondativadella morale e quindi della civiltà. Gli adulti hanno introiettato questo divieto e quindi,almeno normalmente, non assecondano e anzi contrastano i desideri incestuosi infantili egli atti finalizzati a soddisfarli. Il bambino e la bambina, di conseguenza, provano gelosia esviluppano sentimenti aggressivi rispettivamente verso il padre e verso la madre, vissuticome concorrenti e quindi come ostacoli al soddisfacimento dei propri desideri. Maovviamente i bambini sono e si sentono più deboli degli adulti. Pertanto nello stessomomento in cui provano aggressività nei confronti dei genitori del proprio sesso temonoanche di essere puniti da loro.Secondo Freud, il timore della punzione si palesa al bambino come “paura dellacastrazione” e nella bambina come “invidia del pene”. Il bambino, infatti, osservando ladifferenza tra il proprio organo genitale e quello femminile immagina che la bambina sia

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un maschio evirato e quindi teme che anche lui possa subire lo stesso destino. La bambina,invece, immagina di aver già subito la punizione dell’evirazione e di conseguenza prova l’“invidia del pene”, associata a un senso di inferiorità nei confronti dei maschi.Poiché la paura della punzione prevale sul desiderio di unirsi col genitore del sessoopposto, la bambina e il bambino rinunciano al proprio desiderio, reprimono la propriaaggressività e anzi si immedesimano col genitore del proprio sesso, introiettando e facendocosì propri il loro ruolo sessuale femminile o maschile e al contempo le loro norme dicomportamento sociale. In questo modo nei bambini si forma gradualmente il Super-io,costituito da una porzione di energia dell’Es usata per limitare il soddisfacimento deidesideri dell’Es. Naturalmente per imbrigliare l’Es, il Super-io esercita una pressionesull’Io e nel caso di trasgressione lo punisce con la colpevolizzazione, ossia scaricandocontro di lui aggressività.Freud sostiene che l’Io è in grado di mediare il conflitto, altrimenti inconciliabile, tra Es eSuper-io grazie alla capacità di deviare una parte della libìdo dal suo oggetto, ilsoddisfacimento del desiderio sessuale, per investirla e consumarla in altri oggetti, cioènelle attività civili, per esempio nello studio o nel lavoro, ma anche nello sport, nei giochi,nella lettura, nell’espressione artistica. Freud denomina questa deviazione della libìdo“sublimazione”, utilizzando un termine che, non a caso, in chimica indica il passaggioimmediato della materia dallo stato solido a quello gassoso e che Nietzsche avevaadoperato per indicare la trasformazione/mascheramento dei valori corporali egoistici invalori ideali altruistici. In questa prospettiva, tutta la civiltà umana per Freud si fonda sullasublimazione di massicce quote di libìdo.Freud denomina “complesso di Edipo”, in riferimento ai maschi, e “complesso di Elettra”,in riferimento alle femmine, l’insieme del processo psichico che si svolge nell’età dellalatenza, cioè l’insieme delle relazioni affettive e dei vissuti emotivi che lo caratterizzano.Edipo ed Elettra, infatti, sono i due protagonisti di antichi miti greci, ripresi e attualizzatinelle tragedie greche del V secolo. Edipo, inconsapevolmente, uccide il padre Laio e sposasua madre Giocasta; Elettra, consapevolmente, odia la madre Clitemnestra e fomenta ilfratello Oreste perché la uccida per vendicare loro padre, Agamennone. I miti di Edipo eElettra sono per Freud una delle prove della fondatezza e dell’universalità del processopsichico che egli battezzò, anche per questo, con i nomi dei loro protagonisti. Ma non èquesta né la sola né la principale prova empirica che Freud adduce a favore della suateoria. L’altra più importante, anzi, le molte altre più importanti sono quelle che emergonoprogressivamente dall’esperienza terapeutica di Freud, cioè da molti casi di pazientianalizzati, in particolare di pazienti donne. La loro psicanalisi fa affiorare, secondo Freud,fantasie di rapporto sessuale con i rispettivi padri.Il complesso di Edipo/Elettra per Freud svolge un ruolo cruciale nello sviluppo psichicodell’individuo. Infatti, se esso si dipana in modo equilibrato conduce il bambino adiventare un adulto psichicamente sano: sulla base dell’identificazione col genitore delproprio sesso, durante la crescita adolescenziale, egli sviluppa simultaneamente i propriorgani sessuali, il proprio ruolo sessuale e il proprio Super-io, raggiungendo al termine lostadio genitale della sessualità e la possibilità di soddisfare la propria libìdo con uncoetaneo al di fuori della propria famiglia in un sano rapporto di coppia. Ma il complessodi Edipo/Elettra può anche rimanere irrisolto, ovvero può essere vissuto in modosquilibrato, e in questo caso l’adulto è caratterizzato da malattie psichiche.Schematicamente, p.e., se l’Es subisce una repressione pesante, e si sviluppa quindi unSuper-io molto esigente e schiacciante, l’individuo adulto soffre di nevrosi; se, invece, lalimitazione dell’Es è insufficiente, il Super-io è troppo debole, e l’individuo adulto è portatoalle perversioni, cioè a assumere comportamenti sessuali contrari alle norme moralicomuni. Inoltre è possibile che l’adulto rimanga libidicamente fissato, perlopiù in modoparziale, nei casi più gravi anche in modo totale, al suo desiderio infantile per il genitore

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del sesso opposto e non riesca così a stabilire una relazione di coppia soddisfacente estabile con un altro individuo.

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TAPPA 3 FREUD: LA TERAPIA PSICANALITICA

In un articolo destinato al vasto pubblico (Neue Freie Press, 29 agosto 1900)sulla “Formazione dei lapsus”, Meringer mette in risalto il significato praticoche talvolta si ritrova nelle sostituzioni di parole, soprattutto quando unaparola viene sostituita con un’altra di senso opposto.“Certamente ci si ricorderà ancora del modo in cui il presidente della Cameradei Deputati austriaco ha aperto una volta una seduta: ‘Signori, disse,constato la presenza di tanti deputati e pertanto dichiaro la seduta chiusa’.“L’ilarità generale provocata da questa dichiarazione lo avvertìimmediatamente del suo errore ed egli si corresse”.Il caso può essere spiegato plausibilmente in questo modo: dentro di sé, ilpresidente si augurava di arrivare presto a chiudere questa seduta, dallaquale non si aspettava niente di buono; e questo desiderio, come spessosuccede, riuscì parzialmente ad esprimersi; e così disse “chiusa” anziché“aperta”, cioè esattamente il contrario di quanto era nelle sue intenzioni.Varie volte ho constatato che questa sostituzione di un nome da parte del suocontrario è un fenomeno molto frequente. Strettamente associati nella nostracoscienza verbale, situati in regioni molto vicine, i termini opposti sirichiamano reciprocamente con grande facilità.[…]7) Sto analizzando un’altra paziente. A un certo punto sono costretto a dirleche certi dati emersi dall’analisi mi fanno pensare che, nel ricordo di cui cistiamo occupando, essa doveva vergognarsi della sua famiglia e rimproverarea suo padre qualcosa che non avevamo ancora chiarito. Essa dice che non sene ricorda proprio, e ritiene infondati i miei sospetti. Ma proprie lei inseriscenella conversazione considerazioni sulla sua famiglia: “Devo essere giusta conloro; sono persone come se ne vedono poche, sono pieni di avarizia [Geiz]…volevo dire: sono pieni di spirito [Geist]”. Ed ecco scoperto il rimprovero cheessa aveva rimosso dalla memoria. E capita spesso che l’idea espressa nellapsus sia proprio quella che si voleva rimuovere [….].

Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, trad. C. Galassi, Newton Compton,pp. 72-73 e 77.

E’ facile dimostrare che spesso i sogni si rivelano, senza alcuna maschera,come adempimenti di desideri; cosicché ci si può meravigliare che illinguaggio dei sogni non sia stato già compreso da lungo tempo. Per esempio,c’è un sogno che io posso produrre in me quando voglio, per modo di diresperimentalmente. Se la sera mangio sardine, olive o qualsiasi altro cibomolto salato, durante la notte mi viene sete e mi sveglio. Ma il mio risveglio èpreceduto da un sogno che ha sempre lo stesso contenuto, cioè che stobevendo. […] La sete dà vita al desiderio di bere ed il sogno mi mostra queldesiderio soddisfatto; nel fare ciò sta eseguendo una funzione, che è facileindovinare: io ho un buon sonno e non sono solito farmi svegliare da qualsiasibisogno fisico. Io posso calmare la mia sete sognando che sto bevendo, alloranon ho bisogno di svegliarmi per soddisfarla. […]L’adempimento di un desiderio si può dedurre altrettanto facilmente daqualche altro sogno che ho raccolto tra persone normali. Un mio amico, checonosce la mia teoria dei sogni e ne ha parlato a sua moglie, mi disse un

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giorno: “Mia moglie mi ha pregato di dirti che ieri ha sognato di avere lemestruazioni. Tu puoi capire che cosa significa”. Naturalmente locomprendevo. Il fatto che questa giovane sposa avesse sognato lemestruazioni significava che non le aveva avute. Potevo ben ritenere chesarebbe stata felice di continuare a godere la sua libertà per un altro po’ ditempo, prima di affrontare le fatiche della maternità.[…]Sembra in effetti impossibile che i sogni di angoscia ammettano lageneralizzazione dei sogni come adempimenti dei desideri; anzi fanno quasidiventare un’assurdità questa affermazione.Tuttavia non è difficile affrontare queste obiezioni apparentemente definitive.Basta tenere presente che la mia teoria non si basa sulla valutazione delcontenuto evidente del sogno, ma si riferisce ai pensieri che si manifestanoattraverso il lavoro di interpretazione, come celati dietro il sogno. E’ fuor didubbio che ci siano sogni il cui contenuto manifesto è estremamente penoso.[…]Il fatto che il fenomeno della censura e quello della deformazione del sognocoincidano nei minimi particolari giustifica la supposizione che entrambiabbiano un analogo fattore determinante. Possiamo quindi presumere che,nel singolo individuo, i sogni ricevano una forma dall’azione di due forzepsichiche […], una delle quali costruisce il desiderio espresso nel sogno,mentre l’altra esercita una censura su questo desiderio del sogno e produce diconseguenza una deformazione della sua espressione.[…]Un sogno più cupo mi è stato raccontato da una paziente, sempre comeobiezione alla mia teoria dei sogni come desiderio.La paziente, che era una ragazza, cominciò così: “Come ricorderà, mia sorellaha ora solo un figlio, Karl; ha perduto il più grande, Otto, mentre io vivevoancora con lei. Otto era il mio preferito; si può dire che l’ho allevato io. Sononaturalmente affezionata anche al più piccolo, ma non quanto lo ero a quelloche è morto. Questa notte dunque ho sognato che vedevo Karl morto davantia me. Giaceva nella sua piccola bara con la mani incrociate e intorno a luic’erano tante candele, proprio come il piccolo Otto, la cui morte era stataper me un tale colpo. Ora mi dica lei, che cosa può significare? […]La ragazza era rimasta orfana da piccola ed era stata allevata in casa di unasorella molto più grande. Tra gli amici che frequentavano la casa c’era statoun uomo che aveva fatto un’impressione durevole sul suo cuore. Per un certotempo era sembrato che i suoi rapporti, poco notati, con lui si sarebberoconclusi con un matrimonio; ma questo felice esito era stato impedito dallasorella, i cui motivi non erano mai stati completamente spiegati. Dopo larottura, l’uomo cessò di frequentare la casa; e poco dopo la morte del piccoloOtto, al quale intanto aveva rivolto il suo affetto, anche la mia paziente sistabilì in una casa da sola. Non riuscì comunque a liberarsi dell’attaccamentoper l’amico della sorella. Il suo orgoglio la induceva ad evitarlo; non riuscivaperò a trasferire il suo amore su alcuno degli ammiratori che si erano intantopresentati. Quando veniva annunciato che l’oggetto del suo amore, unletterato, avrebbe dato una conferenza in qualche posto, ella si trovavainvariabilmente tra gli uditori; e approfittava di ogni occasione per vederlo dalontano, in terreno neutrale. Ricordai che mi aveva detto il giorno prima che ilprofessore sarebbe andato ad un particolare concerto e che anche lei avevaintenzione di andarci e di godere della sua vista ancora una volta. Questo era

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accaduto il giorno precedente il sogno ed il concerto avrebbe avuto luogo ilgiorno in cui mi raccontò il sogno. Fu quindi semplice per me costruire lacorretta interpretazione e le chiesi se poteva ricordare qualcosa avvenutadopo la morte del piccolo Otto. Mi rispose subito: “Naturalmente; ilprofessore venne a trovarci di nuovo dopo una lunga assenza e lo vidi ancorauna volta vicino alla bara del piccolo Otto”. Questo era proprio quanto miaspettavo e interpretai il sogno in questo modo: “Se morisse l’altro ragazzo,accadrebbe la stessa cosa. Lei passerebbe la giornata dalla sorella e verrebbecertamente il professore per fare le sue condoglianze, così lei potrebbevederlo di nuovo nelle stesse condizioni dell’altra volta. Il sogno non significaaltro che il suo desiderio di vederlo di nuovo, desiderio che lei combatteinternamente. Io so che lei ha un biglietto per il concerto di oggi. Il suo sognoera un sogno di impazienza: anticipava il fatto che lei lo vedrà oggi, tra pocheore”.

Freud, L’interpretazione dei sogni, trad. di A. Ravazzolo, Newton Compton, pp. 135, 137,144, 150-151, 157-158

La teoria psicanalitica di Freud è finalizzata alla terapia delle malattie psichiche, inparticolare delle “nevrosi”, ossia dei disturbi psico-comportamentali che non implicanouna deformazione della percezione della realtà (p.e. stati allucinatori) come avviene invecenelle psicosi (p.e. le diverse forme di schizofrenia o di paranoia), oggetto di terapiapsichiatrica. Esempi immediati e leggeri di nevrosi sono i tic, ovvero movimenti ricorrentie incontrollati del corpo, o le fobie, cioè le paure/repulsioni eccessive verso qualcosa, p.e.nei confronti dei cani. Altri esempi, più gravi, di nevrosi sono p.e. la gelosia ossessiva o gliattacchi di panico.In linea generale per Freud le nevrosi sono caratterizzate dalla “coazione a ripetere”: ilnevrotico è costretto, inconsapevolmente, a ripetere lo stesso comportamento nonostantesi sia rivelato e continui a rivelarsi insoddisfacente e fallimentare e quindi fonte disofferenza. Secondo Freud, le nevrosi si generano soprattutto nella situazionepsicorelazionale da lui chiamata complesso di Edipo/Elettra. In tale situazione alcuni atti odiscorsi o accadimenti possono costituire per il bambino o la bambina dei traumi psichici,cioè danni o ferite che non colpiscono il corpo ma la psiche. P.e., può essere un traumatanto vedere un cane bere nel proprio bicchiere, quanto sentir dire da un genitore chepreferisce il proprio fratello o sorella, oppure osservare o udire o anche solo immaginare ipropri genitori mentre hanno rapporti sessuali, piuttosto che subire delle vere e propriemolestie sessuali da un parente o da un adulto. Non è il fatto di per sé a essere traumatico.Lo diventa se in relazione ad esso il bambino o la bambina provano una pulsione emotiva –desiderio, disgusto, rabbia – che vivono come una vergogna e non sono quindi in grado diaccettare e di esprimere per paura di essere puniti fino alla perdita dell’amore dei genitori.Il trauma psichico dunque consiste nella repressione di un impulso, più precisamente nellasua “rimozione”. Con questo termine, Freud designa lo spostamento di un’esperienza -costituita da fatti ma soprattutto dalle emozioni con cui certi fatti sono stati vissuti -dall’area della coscienza a quella dell’inconscio. In tal senso, la rimozione è una reazionedifensiva e protettiva dell’Io incapace di controllare e sciogliere il conflitto tra l’Es, fontedelle pulsioni, e il Super-io, che vieta l’espressione delle pulsioni. In altre parole, l’Iodimentica l’esperienza vissuta in modo da evitare un conflitto lacerante. Ma la rimozioneha comunque un prezzo: la pulsione rimossa costituisce un grumo di energia libidica chenon può scaricarsi ma che nemmeno può essere distrutto, annullato. Esso rimane comeimprigionato nell’inconscio e la sua ritenzione rende necessaria una compensazione, unasorta di soddisfacimento sostitutivo, che però si configura come un atto psichicomenomato, in quanto la psiche è come mutilata. Tale compensazione è appunto il

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comportamento nevrotico, p.e. un tic o una fobia o una gelosia ossessiva, o, in casi piùgravi, p.e. la frigidità o l’impotenza sessuali.In base a questa teoria diagnostica delle nevrosi, Freud sostiene che la terapia psicanaliticadeve consistere essenzialmente nel riportare alla coscienza le esperienza vissute rimosse,ovvero nel conseguire l’ “abreazione”. E’ decisivo aver chiaro che l’abreazione non èriducibile alla consapevolezza intellettiva astratta. Essa consiste soprattutto del riportare agalla gli impulsi rimossi, cioè nell’acquisizione di una consapevolezza emotiva. In altreparole, si tratta di rivivere la situazione traumatica rimossa, in maniera tale che gli impulsilibidici repressi possano essere questa volta manifestati e accettati, affrontando esuperando così il conflitto che ne aveva provocato la rimozione. In questo modo la feritapsichica si rimargina e di conseguenza il comportamento nevrotico scompare.Ma come è possibile indagare ciò che per costituzione è inconscio? Freud individua tremodalità fondamentali che corrispondono alle tecniche terapeutiche della psicanalisi:

1) le libere associazioni;2) l’interpretazione degli atti mancati;3) l’interpretazione dei sogni.

La tecnica delle libere associazioni consiste nel sollecitare il paziente a collegareparole/immagini nel modo più immediato e quindi spontaneo possibile. P.e., se il pazienteparla di una sciarpa rossa questa immagine può essere collegata con la muleta del torero,quindi con la corrida, quindi con un combattimento cruento o una morte violenta.Attraverso la catena associativa il paziente può arrivare a esprimere uno o più elementi diun vissuto inconscio frutto di una rimozione.Gli atti mancati sono parole, frasi, comportamenti non intenzionali, omissioni verbali ocomportamentali, che possiamo cioè pronunciare o (non) compiere, in modo indipendenteo addirittura contrario alla nostra volontà: p.e., i cosiddetti lapsus linguae (dire: “porco”anziché “parco”, o Marco al posto di Giorgio), oppure gli atti maldestri (rompere unbicchiere o mettere un libro nel frigorifero oppure un panetto di burro in libreria),dimenticanze (saltare un appuntamento, non riuscire a ricordare un nome o una parola),smarrimenti di oggetti, o ancora le gaffe (raccontare una barzelletta sull’avarizia deigenovesi a un genovese). Gli atti mancati sono considerati da Freud manifestazioni dell’Es,ovvero dell’inconscio, e, adeguatamente interpretati, possono anch’essi portare allacomprensione di un contenuto rimosso.I sogni, secondo Freud, sono manifestazioni dei nostri desideri, ovvero delle pulsioniinconsce dell’Es. Infatti durante il sonno, la vigilanza e quindi la censura dell’Io risultanoindeboliti e ciò consente all’Es inconscio di “parlare” più ampiamente e più liberamente.Ma il linguaggio dell’Es non è quello dell’Io. L’Es infatti parla per immagini, per così dire inmodo teatrale o cinematografico, le sue raffigurazioni e azioni sceniche hanno una valenzaemotiva e simbolica, le sue trame narrative non sono logiche, cioè non rispettano la spazio-temporalità e il nesso di causa/effetto, bensì analogiche, cioè connesse per somiglianzaanche solo di un dettaglio, ovvero basate sulle associazioni tipiche delle figure retoriche,quali la sineddoche, la metonimia, ecc. In particolare, spesso il linguaggio onirico dell’Esutilizza la “condensazione”, ovvero concentra in un oggetto-simbolo piùsignificati/riferimenti, p.e. un anziano può rappresentare il nonno, ma al tempo stessoanche il padre e il fratello maggiore, e lo “spostamento”, ovvero un oggetto-simbolo nerappresenta un altro diverso, p.e. una zia rappresenta in realtà la madre.Per interpretare correttamente i sogni, al fine di comprendere i desideri/impulsi checomunicano, secondo Freud, occorre dunque distinguere il loro “contenuto manifesto” e illoro “contenuto latente”. Compito dello psicanalista è quello di decifrare il contenutomanifesto per estrarne il contenuto latente, cioè il messaggio mascherato che consiste inun certo desiderio/impulso inconscio. Per comprendere la problematicità di tale opera didecifrazione, è necessario considerare anche un’ulteriore difficoltà: l’Io, seppur in modo

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attenuato, continua a svolgere il suo controllo e quindi a opporsi a manifestazioni troppoesplicite dell’Es. Di conseguenza molti sogni non si ricordano o si ricordano in modoparziale e frammentario, oppure sono addirittura interrotti da un risveglio improvviso,come nel caso degli incubi.Proprio gli incubi, d’altra parte, sembrerebbero smentire la tesi freudiana secondo cui tuttii sogni esprimono desideri. Essi infatti manifestano paura, terrore, panico. In realtà,afferma Freud, la paura che proviamo durante un incubo è la reazione dell’Io all’emergeredi un desiderio inconscio che l’Io non è in grado di sopportare. La paura, in questo senso, èun campanello d’allarme finalizzato a provocare il risveglio in modo da bloccare lamanifestazione dell’Es. Dunque, al contrario di quanto si può comunemente credere,l’incubo è manifestazione dei desideri più profondi e dei contenuti più rimossi.Per comprendere appieno, però, il processo terapeutico psicanalitico, spesso chiamatosemplicemente “analisi”, occorre tener presente che le tre tecniche della liberaassociazione, dell’interpretazione degli atti mancati e dell’interpretazione dei sogni sonousate in modo correlato e intrecciato tra loro; che l’analisi necessita di tempo e digradualità, ovvero che l’indagine procede in base a correzioni e perfezionamenti successivi;che l’analista deve costantemente misurarsi con quella che Freud chiama “resistenza”, cioècon la tendenza dell’Io del paziente ad opporsi al disvelamento delle esperienze rimosse, equindi a negare o a depistare le interpretazioni analitiche. Proprio allo scopo di ridurrequesta resistenza, l’analista deve favorire il rilassamento del paziente – questa è lafunzione del “lettino” sul quale Freud fa stendere i suoi pazienti – e soprattutto indurre il“transfert”, cioè fare in modo che il paziente stabilisca con lui un rapporto di affetto efiducia, simile a quello vissuto con i propri genitori, ovvero che “trasferisca” nell’analista ilproprio padre e la propria madre. In altre parole, solo se l’analista è sentito come unsecondo padre o una seconda madre, il paziente può confidarsi e accettare queidesideri/impulsi che i propri genitori naturali gli avevano impedito, con la loro educazione,di accettare, ingenerando in lui la nevrosi. Ma questo comporta anche che il pazienteproietti sull’analista i sentimenti aggressivi o comunque negativi covati nei confronti deipropri genitori, ovvero che li esprima e li riviva credendo, almeno inizialmente, di provarliper il proprio analista.

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TAPPA 4FREUD: PULSIONE DI VITA E PULSIONE DI MORTE

La nostra concezione è stata dualistica fin dall’inizio, e oggi – da che i termini opposti nonsono più chiamati pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali, ma pulsioni di vita e pulsioni dimorte – lo è più decisamente che mai. […]Abbiamo preso le mosse dalla grande contrapposizione fra le pulsioni di vita e le pulsionidi morte. Lo stesso amore d’oggetto ci mostra una seconda polarità di questo tipo, quellafra amore (tenerezza) e odio (aggressività). Magari riuscissimo a mettere in rapporto fraloro queste due coppie polari, a far risalire l’una all’altra! Abbiamo sempre riconosciuto lapresenza di una componente sadica nella pulsione sessuale; come sappiamo essa puòrendersi autonoma e sotto forma di perversione, dominare l’intera attività sessuale di unindividuo. Essa compare anche, come pulsione parziale dominante, in una di quelle che hochiamato “organizzazioni pregenitali”. Ma come è possibile derivare la pulsione sadica, chemira a danneggiare l’oggetto, dall’Eros che preserva la vita? Non pare naturale supporreche questo sadismo sia in realtà una pulsione di morte che sotto l’influenza della libidonarcisistica [cioè rivolta verso l’Io, ndr] è stata costretta ad allontanarsi dall’Io, per cui puòmanifestarsi soltanto in relazione all’oggetto? Il sadismo entra al servizio della funzionesessuale nel modo seguente: nella fase orale di organizzazione della libidol’impossessamento erotico coincide ancora con l’annientamento dell’oggetto, più tardi lapulsione sadica si separa, e, infine, nella fase del primato genitale, si subordina alla metadella riproduzione assumendosi la funzione di sopraffare l’oggetto sessuale nella misura incui lo richiede l’esecuzione dell’atto sessuale. Si potrebbe dire che il sadismo espulso dall’Ioha indicato la strada alle componenti libidiche della pulsione sessuale, e che più tardiqueste ultime si accalcano nell’oggetto. Quando il sadismo originario non si attenua né simescola con altre pulsioni, si determina, nella vita amorosa, la nota ambivalenza amore-odio. […]Osservazioni cliniche ci avevano costretti, in passato, a ritenere che il masochismo, e cioèla pulsione parziale complementare al sadismo, debba essere inteso come un sadismo che ètornato a rivolgersi contro l’Io del soggetto. Ma una pulsione che abbandona l’oggetto perindirizzarsi sull’Io non è affatto diversa, in linea di principio, da una pulsione che compie ilmovimento inverso – dall’Io all’oggetto – tema di cui ci stiamo attualmente occupando. Ilmasochismo, e cioè il volgersi della pulsione contro l’Io del soggetto, sarebbe dunque inrealtà un ritorno a una fase precedente della storia della pulsione stessa, sarebbe unaregressione. L’interpretazione del masochismo che avevo dato in passato dovrebbe essererettificata in un punto, perché troppo perentoria: il masochismo potrebbe anche averecarattere primario, possibilità che avevo allora escluso. […]L’aver riconosciuto che la tendenza dominante della vita psichica, e forse della vita nervosain genere, è lo sforzo che trova espressione nel principio di piacere, inteso a ridurre, amantenere costante, a eliminare la tensione interna provocata dagli stimoli (il “principiodel Nirvana”, per usare un’espressione di Barbara Low), è in effetti uno dei più fortiargomenti che ci inducono a credere nell’esistenza delle pulsioni di morte.

S. Freud, Al di là del principio del piacere, traduzione diA.M. Marietti e R. Colorni, Boringhieri

Il proseguimento e l’approfondimento della ricerca psicanalitica, basati sull’interazione trariflessione teorica e pratica terapeutica, spingono Freud a ipotizzare che la vita psichica siimperni su un dualismo ancora più profondo e radicale di quello che oppone il principiodel piacere e il principio di realtà.

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Il principio del piacere è espressione diretta dell’Es, è libìdo, cioè desiderio sessuale, allostato puro e immediato. Il principio di realtà sovrintende alla realizzazione effettiva deldesiderio sessuale, il cui soddisfacimento, altrimenti, sarebbe puramente immaginariooppure potrebbe mettere in pericolo la sopravvivenza dell’individuo. In questo senso, ilprincipio di realtà coincide con l’Io, ossia con l’istanza psichica dotata delle capacità dipercezione, attenzione e ragionamento e soprattutto di limitazione, differimento,adattamento della libìdo.Freud giunge a comprendere che l’Io si costituisce in base a un processo che chiama“narcisismo”, rifacendosi anche in questo caso a un mito greco, quello del giovane Narcisoche si innamora della propria immagine riflessa nell’acqua, ovvero di se stesso. Ilnarcisismo consiste nel fatto che una quota della libìdo viene distolta dal suo investimentosull’oggetto esterno e investita invece sul soggetto stesso, ovvero sull’Io, che così sicostituisce e tende a conservarsi. In questa prospettiva, da un lato il principio di realtà ètutt’uno con la pulsione di conservazione, dall’altro, pur differenziandosi dal principio delpiacere, ovvero dalla libìdo sessuale rivolta all’esterno, non è altro che una suatrasformazione, cioè appunto una libìdo narcisistica, l’amore dell’Io per se stesso.In realtà, secondo Freud, al di là del dualismo relativo Io/Es, principio di realtà/principiodel piacere, nella psiche si annida un dualismo assoluto, quello tra:

una pulsione di vita, Èros, che è alla base sia del narcisismo, cioè dellavalorizzazione dell’Io, sia della libìdo sessuale che spinge l’individuo a stabilire congli altri rapporti affettivi e costruttivi;

una pulsione di morte, Thànatos, che è alla base dei comportamenti aggressivi edistruttivi di ogni individuo non solo contro gli altri (sadismo) ma anche contro sestesso (masochismo).

Freud giunge a teorizzare l’esistenza di una pulsione di morte a partire dalle sueosservazioni cliniche, in particolare dei fenomeni psichici del sadismo e della coazione aripetere. Infatti, nella libìdo sessuale rivolta all’oggetto, cioè a un altro individuo, è semprerinvenibile una componente sadica, cioè aggressivo-distruttiva nei confronti dell’altro.Freud sostiene che in origine, nella fase orale della sessualità, la componente sadica èaddirittura prevalente, in quanto il bambino assimila il possesso erotico all’annientamentodell’oggetto d’amore. Con l’evoluzione della sessualità fino alla fase genitale, il sadismo siattenua sino a esprimersi in quel grado minimo di aggressività necessario all’attuazionedell’unione sessuale. Ma in ogni caso, benché subordinato e funzionale alla libìdo, ilsadismo rimane per Freud un impulso irriducibile a Èros, alla pulsione di vita.A sua volta, la coazione a ripetere, tipica di molte nevrosi, è quella sorta di automatismoche spinge il nevrotico a ripetere ossessivamente un comportamento fonte di sofferenzapsichica, perfino quando è diventato consapevole che è la causa del suo malessere. Nellacoazione a ripetere Freud rileva la presenza di una tendenza fondamentale all’odio di sestessi, a scaricare aggressività distruttiva non contro l’altro ma contro il proprio Io, in altreparole al masochismo. Ancor più del sadismo, il masochismo non può essere ricondotto,secondo Freud, alla pulsione di vita, ma deve essere imputato a una pulsione del tuttoopposta, la pulsione di morte. Addirittura, in questa prospettiva, Freud giunge adipotizzare che il masochismo sia la forma originaria di manifestazione della pulsione dimorte, la quale solo in un secondo momento si esprime nel sadismo, spostando il suoinvestimento aggressivo dal soggetto interno all’oggetto esterno. In altre parole, per Freudil masochismo degli adulti è una modalità regressiva del sadismo, ovvero è un ritornoindietro della pulsione di morte dalla sua forma più evoluta alla sua forma primitiva.Ma com’è possibile che la psiche alberghi originariamente una pulsione di morte? Comepuò convivere Èros con Thànatos, sua negazione assoluta? Per risolvere questi problemi,Freud si basa su una teoria generale della realtà naturale. Egli sostiene che lo statooriginario, e quindi fondamentale della natura, è la materia inorganica, meccanica, priva di

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vita. Di conseguenza, esiste per Freud una tendenza regressiva originaria in tutti gli esseriviventi, cioè una tendenza a tornare alla condizione primaria di materia non vivente,ovvero appunto a morire. Tale tendenza è confermata dal “principio di costanza”,caratteristico di tutti gli esseri viventi a partire dai primissimi organismi unicellulari,secondo il quale ogni animale tende a scaricare la tensione energetica che gli stimoliesterni gli suscitano in modo da raggiungere una condizione interna di rilassatezza. In altreparole, il soddisfacimento dei desideri ha come scopo ultimo l’assenza di qualsiasidesiderio, ovvero la quiete totale propria della materia non vivente.

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TAPPA 5FREUD: IL SUPER-IO DELLA CIVILTA’

L’analogia tra il processo d’incivilimento e il cammino dello sviluppoindividuale si presta a essere significativamente estesa. Infatti, si puòsostenere che anche la comunità sviluppi un Super-io, sotto il cui influsso sicompie l’evoluzione civile. […] Il Super-io di un’epoca della civiltà haun’origine simile al Super-io dell’individuo; è basato sull’impressione chehanno lasciato dietro di sé grandi personalità di capi: uomini dotati di unaforza spirituale capace di trascinare gli altri, o uomini in cui una delletendenze umane abbia trovato lo svolgimento più forte e più puro e soventeperciò anche più unilaterale. […]Lo studio e la terapia delle nevrosi c’inducono a muovere due rimproveri alSuper-io individuale: esso si preoccupa troppo poco, nella severità dei suoiimperativi e divieti, della felicità dell’Io, in quanto non tiene abbastanza contodelle resistenze contro l’ubbidienza: della forza pulsionale dell’Es in primoluogo e, inoltre, delle difficoltà del mondo circostante reale. Quindi siamomolto spesso obbligati, per i nostri intenti terapeutici, a combattere il Super-io e ci sforziamo di ridurre le sue pretese. Obiezioni del tutto analoghepossiamo sollevare contro le esigenze etiche del Super-io della civiltà.Anch’esso non si preoccupa abbastanza degli elementi di fatto nellacostituzione psichica degli esseri umani; emana un ordine e non si domandase sia possibile eseguirlo. Presume, anzi, che l’Io dell’uomo siapsicologicamente in grado di sottostare a qualsiasi richiesta, che l’Io abbia unpotere illimitato sul suo Es. Questo è un errore, e anche negli uominicosiddetti normali la padronanza dell’Es non può superare certi limiti.Esigendo di più, si produce nell’individuo la rivolta o la nevrosi, o lo si rendeinfelice. […]Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra siaquesto: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare iturbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva eautodistruttiva degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presentemerita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente ilproprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facilesterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona partedella loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è daaspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”, l’Eros eterno farà uno sforzoper affermarsi nella lotta con il suo avversario [Thànatos: la pulsione dimorte, ndr] parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo equale sarà l’esito?

S. Freud, Il disagio della civiltà, trad. A.M. Marietti e R. Colorni, Boringhieri, §§ 7-8

Freud ritiene che la teoria psicanalitica possa essere applicata non solo alla spiegazionedella vita psichica individuale ma possa anche essere estesa alla spiegazione della vitasociale.Da questo punto di vista, innanzitutto Freud si impegna nella spiegazione psicanaliticadella possibilità stessa della comunità umana, ovvero dell’origine della società. Infatti, lacostituzione psichica naturale dell’individuo include la tendenza di ogni uomo ad aggrediree distruggere gli altri, nata dalla necessità di deviare la pulsione di morte da sé versol’esterno. Stando così le cose, com’è possibile la convivenza pacifica tra gli uomini, ovvero

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la loro cooperazione civile? Freud risponde che è possibile grazie alla formazione delSuper-io individuale, ovvero dell’insieme di regole introiettate nel processo educativo chehanno la funzione di limitare non solo il soddisfacimento dei propri desideri ma anche latendenza naturale alla violenza contro gli altri. Ma il Super-io può svolgere la sua funzionelimitativa solo in quanto ha la capacità di esercitare una pressione coercitiva sull’Io, ovverodi punirlo se trasgredisce le regole e di minacciarlo di punizione per indurlo a rispettare leregole. Dunque il Super-io, sostiene Freud, deve possedere una forza psichica autonoma econtraria all’Io. Da dove viene tale forza?Essa, afferma Freud, è una quota della pulsione di morte non più scaricata contro gli altribensì, come in origine, contro l’Io. Lo strumento che il Super-io usa per punire ominacciare l’Io, ossia per obbligarlo a rispettare le regole sociali, è il senso di colpa che èpercepito da ogni individuo come “angoscia morale”, cioè come un dolore interioreassociato a una senzazione di schiacciamento o contrazione. Ma come è possibile che l’Io,dopo aver deviato verso l’esterno la pulsione di morte, e quindi l’aggressività, grazie allapulsione di vita investita narcisisticamente su di sé, torni a rivolgerla, pur soloparzialmente, contro di sé? Cosa lo spinge, o lo costringe, ad attuare questo processomasochistico?La soluzione di Freud è incardinata sulla natura debole, e quindi necessariamentedipendente dagli altri, dell’essere umano. In altre parole, per risolvere il problema, Freud sischiera a favore della antica tesi della natura sociale dell’uomo: ogni individuo umano èoriginariamente legato agli altri perché altrimenti, vivendo da solo, si priverebbe dellaprotezione sia nei confronti degli elementi naturali sia nei confronti di altri individui piùforti e dunque metterebbe in pericolo la propria sopravvivenza. Stando così le cose, ogniindividuo è spinto a limitare la propria aggressività verso gli altri, e quindi a rivolgerne unaparte contro di sé, perché teme che, se non lo facesse, perderebbe la protezione degli altri.Insomma, il senso di colpa si costruisce sulla paura della perdita dell’amore altrui e, diconverso, il conseguimento dell’amore degli altri è per Freud il criterio fondamentale dellamorale, ciò che stabilisce se un’azione è buona o malvagia.Avendo così messo in luce la radice sociale del Super-io individuale, Freud introduce unanuova tesi, ancor più radicale: esiste un Super-io della civiltà, una sorta di Super-iocollettivo, che, oltretutto, è il motore dell’evoluzione della civiltà, cioè del progresso storico,e dunque muta con le diverse epoche della storia. Il Super-io della civiltà si forma in modoanalogo a quello individuale: se il Super-io individuale si costituisce in baseall’interiorizzazione delle figure parentali, in particolare del padre, il Super-io sociale sisviluppa a partire dell’impressione suscitata nella collettività umana da alcune grandipersonalità storiche dotate di un’enorme forza spirituale di convincimento oppure di unacerta capacità naturale posseduta in quantità straordinaria. In alcuni casi tali uominicarismatici sono derisi, insultati, maltrattati e perfino uccisi. Freud cita l’esempioparadigmatico di Gesù Cristo per sostenere che sono proprio gli uomini eccezionalimisconosciuti e perseguitati coloro che più hanno contribuito alla formazione e allosviluppo del Super-io civile. Perché? Freud spiega l’apparente paradosso, ipotizzando, sullascorta di Darwin, che nell’epoca primitiva la specie umana vivesse in orde, cioè piccolecomunità tribali, guidate da un unico maschio adulto che aveva il monopolio delle donneed esercitava il dominio sugli altri maschi-figli. Crescendo, i figli maschi si sarebberocoalizzati per uccidere il padre-padrone e se ne sarebbero cibati per acquisirne la forza. Mauna calamità naturale o una sventura casuale avrebbe suscitato nei figli il senso di colpaper il delitto commesso e il bisogno di espiarlo attraverso la divinizzazione e il cultoreligioso del padre ucciso. Analogamente, nella storia successiva, uomini straordinari comeGesù Cristo – ma Freud avrebbe potuto citare anche Socrate o Giulio Cesare – avrebberoriattivato e rafforzato il senso di colpa, ovvero il Super-io.

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Però, secondo Freud, c’è anche un altro aspetto per il quale il Super-io della civiltà è simileal Super-io individuale: anche il primo, come il secondo, impone agli uomini di seguire uncomportamento ideale, anzi sempre più ideale, e, in caso contrario, anch’esso punisceattraverso l’angoscia. A differenza dell’ideale del Super-io individuale, quello del Super-iocivile si configura come un’etica, cioè come un sistema ordinato, esaustivo e soprattuttouniversale di regole comportamentali. In questo senso il principio etico cristiano “ama ilprossimo tuo come te stesso”, è l’esempio emblematico dell’etica e della sua idealità. PerFreud, infatti, da un lato rappresenta in linea di principio il massimo fondamento dellaconvivenza civile, dall’altro però è di fatto irrealizzabile, perché non tiene contodell’effettiva natura dell’uomo. Di conseguenza, Freud muove al Super-io civile una fortecritica: esso pretende troppo dall’uomo, perché non tiene conto delle sue inestirpabilipulsioni naturali. Ciò non ha solo e tanto come conseguenza l’infelicità individuale, quantola nevrosi o addirittura la ribellione, cioè lo scatenamento della violenza troppo e troppo alungo repressa. In altri termini, l’ideale etico del Super-io della civiltà rischia di produrreproprio l’effetto distruttivo che vorrebbe evitare.Per questo Freud dichiara di non poter unirsi al coro degli intellettuali che esaltano laciviltà umana e il suo inarrestabile progresso. D’altra parte, Freud aggiunge anche dicomprendere le ragioni di chi sostiene che la civiltà è inevitabile, ovvero che èimproponibile un ritorno allo stato naturale originario. In tal senso, Freud ammette, nonsenza rammarico, di non essere un “profeta”, cioè di non avere la capacità di indicareall’uomo europeo contemporaneo una via d’uscita alla sua crisi di civiltà. Di fatto, però,Freud ci dà un’indicazione almeno parziale: la civiltà non si può e non si deve eliminare e,con essa, di conseguenza, nemmeno il Super-io e l’inevitabile quota di infelicità che essocomporta; ma questa può e deve essere circoscritta al minimo necessario, attenuando lerichieste del Super-io, abbassandone decisamente le pretese idealistiche, in modo dalegittimare le insopprimibili esigenze naturali dell’uomo, il cui soddisfacimento èindispensabile a dargli quella parziale felicità che sola rende apprezzabile la vita.

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ROTTA BLA TEORIA DELLA RELATIVITA’ E LA TEORIA DEI QUANTINel corso dell’Ottocento la ricerca scientifica si estende e si intensifica sulla base delparadigma materialistico-meccanicistico risalente a Galileo e Newton, la cosiddetta“fisica classica”. Nel 1873 il fisico inglese Maxwell pubblica il Trattatosull’elettromagnetismo, contenente una teoria matematica organica e completa dellaforza elettromagnetica. L’unificazione definitiva del magnetismo e dell’elettricità, nonchédella luce, considerata un tipo di radiazione elettromagnetica, sembra rappresentare iltrionfo della fisica classica. Eppure, paradossalmente, proprio la teoria elettromagneticadi Maxwell implica un’anomalia del paradigma materialistico-meccanicistico: lacostanza della velocità della luce, pari a 300.000 km/s. Ciò significa che la velocità dellaluce non aumenta né diminuisce mai per qualsiasi sistema di riferimento, ovvero perqualsiasi osservatore. P.e., il raggio di luce emesso dalla torcia di un pedone fermo ha lastessa velocità di quello emesso da un’auto in corsa a 300 all’ora, piuttosto che daun’aereo che vola alla velocità del suono. Per comprendere il significato dell’esempio fattobasta compararlo con un esempio analogo in cui il pedone, l’auto o l’aereo sparano unproiettile nel senso del loro moto: il proiettile sparato dall’auto è più veloce di quellosparato dal pedone, e quello sparato dall’aereo lo è ancora di più di quello sparatodall’auto. Infatti in tutti e tre i casi la velocità del proiettile è data dalla somma della suavelocità, quella impressagli dalla pistola, e della velocità del sistema di riferimento(pedone, auto, aereo) dal quale è sparato.In altre parole, dalle equazioni di Maxwell risulta che la luce, e in generale tutte le ondeelettromagnetiche, non rispetta il principio di composizione (addizione o sottrazione)delle velocità, secondo il quale, p.e., se su un tram che va a 60 km/h io cammino a 5 km/hnel suo stesso senso di marcia, la mia velocità è di 65 km/h (rispetto a un osservatoreesterno) mentre se vi cammino a 5 km/h nel senso di marcia opposto (cioè muovendomiverso il retro) la mia velocità è 55 km/h (sempre rispetto a un osservatore esterno). Ma ilprincipio di composizione delle velocità, a sua volta, è parte integrante del principio direlatività galileiana, secondo il quale tutti i moti meccanici inerziali (cioè rettilineiuniformi) sono relativi uno all’altro: se sono in un’auto in movimento non posso stabilireche mi muovo e a quale velocità se non in relazione a un sistema di riferimento esterno,p.e. un albero o una casa. Il punto è che il principio di relatività galileiana, grazie asemplici equazioni (dette “trasformazioni galileiane”), permette di “tradurre” i fenomenimeccanici di un sistema di riferimento in quelli di ogni altro, ovvero permette di unificaretutti i fenomeni meccanici, cioè di avere le leggi fisiche uniche e invarianti per tutta larealtà. Dunque, la scoperta della costanza della velocità della luce colpisce al cuore lafisica classica, introducendo un dualismo tra fenomeni meccanici e fenomenielettromagnetici e incrinandone la fiducia nella possibilità di disporre di una conoscenzaunitaria del mondo fisico.La reazione della comunità scientifica alla scoperta teorica di Maxwell è di scetticismoper non dire di rifiuto. Alcuni la mettono alla prova con opportuni esperimenti, altricercano di confutarla a livello teorico-matematico: sia gli uni sia gli altri falliscono.Einstein è lo scienziato che, invece, accetta la costanza della velocità della luce come undato reale e ne deduce due conseguenze fisico-teoriche rivoluzionarie: né lo spazio né iltempo sono grandezze assolute, entrambi sono relativi, cioè variano al variare delsistema di riferimento. Questa tesi costituisce il nucleo e, insieme, il punto di partenzadella “teoria della relatività” che Einstein elabora in due stadi e che pertanto risultaarticolata in due parti:

la teoria della relatività ristretta (o speciale), che riguarda tutti i fenomeni fisici(sia meccanici sia elettromagnetici) riconducibili al moto inerziale, cioè al motorettilineo uniforme;

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la teoria della relatività allargata (o generale), che comprende anche i fenomenifisici riconducibili ai moti accelerati, ovvero a tutti i tipi di moti.

Ma a partire dal 1900, ad opera di numerosi scienziati (Planck, lo stesso Einstein, Bohr,De Broglie, Heisenberg, Born, Schroedinger, Dirac, Pauli, Feynman, Bell, e altri ancora),nasce e si sviluppa una teoria ancora più rivoluzionaria di quella della relatività: lateoria dei quanti. “Quanto” è il nome che viene dato alle particelle elementari (dapprimafotoni, elettroni, protoni, neutroni, poi i quark, i neutrini, ecc.), cioè ai “mattoni” dellamateria, dal momento che esse consistono in “pacchetti” o “grumi” di energia che sitrasmette, ovvero aumenta o diminuisce d’intensità, solo per multipli interi di un valorepiccolissimo (detto costante di Planck), cioè in modo discreto o discontinuo. La teoria deiquanti si contrappone alla fisica classica in primo luogo perché sostiene che le particelleelementari possono essere sia onde sia corpuscoli e che è impossibile determinarne conesattezza il moto e la posizione; in secondo luogo perché teorizza che una stessaparticella/onda possa essere in più luoghi simultaneamente, possa attraversare areeinaccessibili, possa emergere dal vuoto, e possa trasmettere informazioni a un’altraparticella istantaneamente, cioè a velocità infinita. Ma, per questi stessi, motivi la teoriadei quanti è in contrasto con la stessa teoria della relatività di Einstein, secondo la qualela natura è deterministica, l’energia è continua e la velocità della luce non è superabile. Ilcontrasto è ancor più stridente non appena si metta a fuoco che i corpi oggetto dellateoria della relatività sono composti di particelle elementari e dunque dovrebberocomportarsi come ciò di cui sono costituiti.

VITA DI UN CAPITANOALBERT EINSTEINNacque nel 1879 a Ulm, città della Germania sud-occidentale, non lontana da Tubinga,sede della famosa università dove avevano studiato Schelling ed Hegel. La sua famiglia eradi origini ebraiche, ma non credente, e nel 1880 si trasferì a Monaco di Baviera, dove ilpadre Hermann e il fratello Jakob, ingegnere, fondarono una piccola aziendaelettromeccanica. Einstein seguì l’iter degli studi scolastici tedeschi di quegli anni,coltivando un particolare interesse, fin dai 10 anni e fino ai 16, per la filosofia, poirimpiazzata dalla fisica. A partire dai sei anni, per volontà della madre musicista, studiò ilviolino che continuò poi a suonare per tutta la vita. Lo zio invece lo stimolò nello studiodell’algebra, e più in generale della matematica, nel quale Einstein rivelò fin dall’inizio unasorprendente capacità. Per alcuni anni l’impresa familiare si espanse ma poi fu schiacciatadalla concorrenza. Così nel 1894, gli Einstein si trasferirono prima a Pavia, nella stessacasa dove aveva vissuto Ugo Foscolo, poi a Milano, nella speranza di poter trovarecondizioni più favorevoli a un nuovo tentativo imprenditoriale. Albert fu però lasciato aMonaco presso un parente, perché non interrompesse i suoi studi liceali. Ma, oltre asoffrire la lontananza dei genitori, Einstein aborriva la scuola tedesca, sia per il pesoeccessivo del greco e del latino sia per la disciplina marziale. Da bambino era scoppiato inpianto assistendo a una parata militare e si era fatto promettere dai genitori che nonavrebbe mai dovuto fare il soldato da grande. Ma nel II Reich tedesco era quasi impossibileper un maschio evitare il servizio militare, a meno di andare all’estero e rinunciare allacittadinanza tedesca. Fu così che nel dicembre del 1894 Albert Einstein bussò alla portadella casa italiana dei suoi genitori: approfittando dell’invito del suo professore di Greco adabbandonare l’Istituto che frequentava, Einstein di propria iniziativa aveva deciso diabbandonare per sempre la scuola tedesca e la stessa Germania e di partire per l’Italia. Isuoi genitori furono costretti ad accettare la sua decisione. Einstein così terminò gli studisuperiori presso un liceo svizzero. Ottenuto poi il ritiro della cittadinanza tedesca, edunque libero da qualsiasi obbligo militare, nel 1896 Einstein poté iscriversi al Politecnicodi Zurigo. Negli anni universitari Einstein divenne amico del suo compagno di studi Marcel

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Grossmann, che diventerà un importante matematico, e si innamorò di una sua compagnadi corso, l’unica donna ammessa al Politecnico, una ragazza serba, Mileva Maric, di quattroanni più grande di Einstein, per alcuni brutta per altri di una bellezza inquietante, di certoclaudicante a causa di una malformazione all’anca. In realtà era una donna dallo sguardodeciso e sensuale, con un volto dai caratteri forti e marcati, grandi occhi scuri, naso elabbra quasi africane, che potevano darle un aspetto mascolino. Negli anni universitari,Einstein mise in secondo piano gli studi matematici puri e si dedicò prevalentemente aglistudi fisici, in particolare allo studio degli esperimenti di laboratorio. Come scrisse nellasua autobiografia, era “affascinato dal contatto diretto con l’esperienza”.Nel 1900 Einstein conseguì la laurea che gli permetteva di insegnare Matematica e Scienzenelle scuole superiori. Ma il suo obiettivo era diventare assistente di un docenteuniversitario, cioè intraprendere da subito la carriera universitaria. Pertantonell’immediato puntò a ottenere un dottorato di ricerca sulla base di una sua dissertazionescientifica. Come se non bastasse decise di sposarsi con Mileva Maric scontrandosi conl’opposizione dei genitori. Ma Einstein si dovette scontrare anche e soprattutto con iltradizionalismo, i pregiudizi e gli intrighi di potere dell’ambiente accademico e alla finedecise di ritirare la sua dissertazione e di rinunciare al dottorato. In compenso nel 1901ottenne la cittadinanza svizzera e questo gli permise di trovarsi un lavoro, dal momentoche, senza il dottorato, non sarebbe stato altrimenti in grado di mantenersi e soprattutto disposarsi. Dapprima fece il supplente in una scuola tecnica, poi diede ripetizioni in uncollegio privato. Einstein viveva con Mileva Maric in un monolocale arredato conl’essenziale e in ristrettezze economiche. Per aumentare le sue entrate decise allora di dareanche ripetizioni private e mise un’inserzione su un quotidiano di Berna: “Lezioni privatedi Matematica e Fisica per studenti universitari e di scuola superiore tenute con lamassima accuratezza da Albert Einstein, diplomato al Politecnico federale,Gerechtigkeitsgasse 32, primo piano. Lezioni di prova gratuite.” In base a questo annuncio,Einstein conobbe lo studente romeno Maurice Solovine, diventò suo amico e con lui fondòl’Akademie Olympia: un circolo di intellettuali amici che si riuniva in casa di Einstein perdiscutere di volta in volta una diversa opera classica, di carattere filosofico o scientifico,spesso nel corso di una cena. Einstein apprezzava molto la buona cucina, anche se nonpoteva permettersi cibi costosi. Eppure l’amore per la conoscenza superava in lui ogni altropiacere. Gli amici, infatti, una sera gli avevano comprato del caviale e glielo avevano fattomangiare a sorpresa, senza dirgli prima cosa fosse. Impegnato a parlare del principiod’inerzia in Galileo, Einstein lo mangiò come se fosse pane e solo dopo aver finito e aversaputo cosa aveva mangiato si rammaricò di non avergli dedicato la dovuta attenzione.All’inizio del 1902 Milena diede alla luce una bambina, Lieserl. In seguito alla morte delpadre, Einstein nel 1903 poté finalmente sposare Mileva con rito civile. Poco dopo, grazieall’interessamento del padre dell’amico Grossmann, Einstein riuscì a ottenere l’assunzionea tempo indeterminato come impiegato dell’Ufficio brevetti di Berna. Ciò nonostante dal1903, la figlia Lieserl sparì nel nulla. L’ipotesi più attendibile sulla sua scomparsa è cheEinstein, che avrebbe voluto un maschio, convinse Mileva a lasciarla in adozione a qualchesuo parente serbo. L’anno successivo nacque il primo figlio maschio, Hans Albert, chesarebbe diventato un brillante ingegnere idraulico. Nel 1905 Einstein lasciò Berna e sitrasferì a Lione. L’Akademie Olympya si sciolse per sempre. Einstein aveva scelto lacarriera e rinunciato ai sogni giovanili. Proprio il 1905 è l’annus mirabilis (espressioneconiata per la prima volta in riferimento al 1666 di Newton) nel quale Einstein scrisse epubblicò cinque saggi (Su un punto di vista euristico relativo alla produzione e allatrasformazione della luce, Una nuova determinazione delle dimensioni molecolari, Sulmoto di piccole particelle in sospensione nei liquidi a riposo come prescritto dalla teoriacinetico-molecolare del calore, Sull’elettrodinamica dei corpi in moto, L’inerzia di uncorpo di un corpo dipende dal suo contenuto d’energia?), che rendevano note altrettante

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scoperte teoriche: il carattere quantistico della luce in relazione all’effetto fotoelettrico (dacui in seguito venne tratta la nozione di fotone, il quanto di energia luminosa), un nuovometodo per calcolare le dimensioni delle molecole e del numero di Avogadro, ladimostrazione teorica dell’esistenza degli atomi (sperimentalmente confermata in seguitoda J.-B. Perrin), la teoria della relatività ristretta e infine la famosa equazione E=mc2, chene rappresentava il coronamento. Una tale produttività teorica, a giudizio degli stessiscienziati, era straordinaria, se non del tutto incredibile. Per questo qualcuno ha ipotizzatoche le teorie di Einstein, in particolare quella della relatività, siano state il frutto di unaricerca comune di Einstein e di Mileva Maric. Non ci sono elementi sufficienti né peraffermarlo né per escluderlo. E’ quasi certo, però, che Mileva Maric collaborò con Einsteinnell’effettuazione dei lunghi e complessi calcoli matematici su cui si basavano le teorieeinsteiniane, fornendogli un aiuto decisivo.Con la pubblicazione dei suoi cinque saggi nel 1905, la comunità scientifica accademicacominciò a cambiare atteggiamento nei confronti di Einstein: nel 1908 divenne liberodocente a Berna, l’anno dopo docente associato a Zurigo, nel 1911 docente ordinario aPraga, nel 1912 docente ordinario a Zurigo. Nel frattempo, nel 1910, Mileva ebbe un terzofiglio, un altro maschio che fu chiamato Eduard, e che in seguito, dopo essere diventatopsichiatra, fu affetto da una grave forma di schizofrenia e passò la sua vita negli ospedalipsichiatrici. La fulminea carriera accademica di Einstein non era affatto conclusa. Anzi eraancora agli esordi. Nel 1913 Einstein ricevette la visita dei famosi scienziati tedeschi Plancke Nernst che gli comunicarono la richiesta di essere eletto nell’Accademia prussiana dellescienze, senza obbligo d’insegnamento, e quindi con la possibilità di dedicarsi totalmentealla ricerca in collaborazione con i massimi scienziati dell’epoca, nonché con uno stipendiospeciale, di gran lunga superiore ai precedenti, pur notevoli. Avendo avuto la garanzia chenon avrebbe dovuto riprendere la cittadinanza tedesca, Einstein accettò e si trasferì aBerlino nell’aprile del 1914. In realtà, in seguito Einstein, messo sotto pressione, accettò diriprendere la cittadinanza tedesca. Benché i suoi rapporti col marito si fossero giàdeteriorati, Mileva lo seguì coi figli a Berlino ma, poco dopo, mentre scoppiava la I guerramondiale, tornò a Zurigo con i figli definitivamente. Nel 1919 Mileva Moric e AlbertEinstein divorziarono consensualmente e nello stesso anno Einstein sposò la cugina Elsa,anche lei divorziata e con due figlie. Ma nemmeno il secondo matrimonio andò meglio.Come con Milena, anche con Elsa, Einstein si disamorò ben presto e allacciò relazioni conmolte altre donne, soprattutto più giovani di lui. Nonostante i continui tradimenti delmarito, Elsa non lo lasciò mai, fino alla sua morte nel 1936. Dopo l’inizio della Grandeguerra, Einstein aderì al Manifesto degli europei, una presa di posizione contro la guerradi una minoranza di scienziati e intellettuali tedeschi, in contrapposizione al manifestobellicista e filomilitarista sottoscritto precedentemente dalla stragrande maggioranza degliscienziati e degli intellettuali tedeschi. Durante gli anni della guerra, Einstein si dedicòtotalmente all’elaborazione della sua teoria della relatività generale, che pubblicò nel 1916con il saggio intitolato I fondamenti della teoria della relatività generale, e che completònel 1917 pubblicando il saggio Considerazioni cosmologiche sulla teoria della relativitàgenerale. Già durante la guerra, lo scienziato inglese Eddington provò a sfruttare un’eclissidi Sole e a organizzare una spedizione per controllare sperimentalmente la predizione diEinstein sulla deflessione dei raggi stellari che giungono sulla Terra passando vicino alSole. Il primo tentativo fallì, a causa della guerra in corso, ma il secondo, nel 1919 a guerrafinita, sull’isola di Principe, nel golfo di Guinea, riuscì e confermò la previsione einsteianabasata sulla teoria della relatività generale. Il risultato fu ratificato da un’altra spedizionedi scienziati, contemporanea, ma nel Nord del Brasile. Quando, nel novembre del 1919, lanotizia arrivò a Londra e fu pubblicata sui giornali, Einstein divenne improvvisamente loscienziato più famoso del mondo.

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L’anno successivo, però, Einstein perdette la madre e cominciò a essere oggetto di attacchie diffamazioni dei movimenti antisemitici tedeschi, che negli anni successivi si sarebberofatti sempre più numerosi e drastici. Nel 1921, Einstein ricevette il premio Nobel, ma nonper la sua teoria della relatività, bensì per la teoria dell’effetto fotoelettrico e della naturaquantistica della luce. In ogni caso, Einstein diede alla ex moglie Mileva Moric tutti i soldidel premio. Negli anni ’20 e ’30, sul piano scientifico Einstein lavorò dapprima alladimostrazione teorica, sulla base dell’equazione della relatività generale, del caratterestatico, ovvero stazionario, dell’universo. A tal fine introdusse una ulteriore grandezza –chiamata poi “costante cosmologica” -, interpretabile come una forza repulsiva, che,compensando ed equilibrando la forza attrattiva gravitazionale, garantiva appunto lastaticità dell’universo. Nel 1929, la scoperta da parte di Hubble dell’allontanamentoreciproco delle galassie falsificò clamorosamente la teoria einsteiana e lo stesso Einsteindichiarò che si era trattato del più grande errore scientifico che aveva commesso.Paradossalmente, alla fine degli anni ’90, gli scienziati sono invece tornati a teorizzarel’esistenza di una gravità repulsiva per spiegare l’accelerazione, sperimentalmenteaccertata, del moto centrifugo delle galassie. Questo, naturalmente, senza mettere indiscussione la teoria del big bang, ma solo rivedendo le ipotesi sugli esiti futuridell’espansione dell’universo.Il secondo fronte scientifico sul quale Einstein combatté fino alla morte fu quello dellateoria dei quanti. Einstein era fermamente convinto che la natura si basasse sul principiodi causalità e quindi credeva nel determinismo, come attesta la sua famosa sentenzametaforica: “Dio non gioca a dadi”. La teoria quantistica, invece, sostenendol’indeterminatezza oggettiva del comportamento delle particelle elementari, minava lostesso principio di causalità, in quanto rendeva impossibile per principio ogni previsioneesatta. Einstein fino alla fine sostenne che la teoria dei quanti era incompleta, ovvero chenon teneva conto di alcune “variabili nascoste”, una volte scoperte le quali tutte le suestranezze si sarebbero spiegate in modo causale e deterministico. Di fatto, però, benchéancora dal 1945 al 1955 lavorasse assiduamente all’elaborazione di una teoria unificata,cioè capace di conciliare relatività, elettromagnetismo e quantismo, allo scopo di superareil dualismo onda-corpuscolo, il principio di indeterminazione e tutte le stranezze delquantismo, Einstein non riuscì mai a completarla e a metterla a punto in modosoddisfacente.D’altra parte, a partire dagli anni ’20, Einstein si dedicò sempre di più, da un lato, alsostegno del movimento sionista e, dall’altro, alla promozione del pacifismo nel mondo.Durante il suo primo viaggio negli USA, nel 1921, si prodigò per raccogliere finanziamentiper la costruzione dell’Università ebraica di Gerusalemme, fondata da Chaim Weizmann,presidente dell’Organizzazione mondiale del sionismo e futuro primo presidente di Israele.Nel 1925 Einstein firmò con Gandhi, che incontrò personalmente, il manifesto contro ilservizio militare obbligatorio, da lui considerato il principale fattore dei nazionalismo edelle guerre. Nel 1932 partecipò alla Conferenza per il disarmo, ma più in generale durantetutti gli anni ’20 e ‘30 tenne numerosi discorsi e conferenze in Germania e in tutto ilmondo per sostenere la causa pacifista. Proprio alla fine del 1932, ormai consapevole deldestino della Germania, Einstein tornò negli USA, diede le dimissioni dall’Accademia dellescienze e rinunciò, per la seconda volta, alla cittadinanza tedesca. Dopo un ultimo tour inEuropa, nel 1933 Einstein si stabilì definitivamente negli USA (avrebbe ottenuto lacittadinanza americana nel 1940), dove divenne docente all’Univesità di Princeton e, inseguito, strinse un’amicizia particolarmente forte ed emblematica con il matematico KurtGoedel, l’autore del famoso teorema di incompletezza (1931).Nel 1939, in una lettera inviata a F.D. Roosevelt, Einstein avvertì il presidente USA che inazisti stavano conducendo ricerche per costruire una bomba atomica e che avevano lapossibilità di raggiungere l’obiettivo e, pertanto, lo sollecitò ad avviare un analogo

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programma di ricerca per evitare che la Germania nazista potesse ottenere la superioritàmilitare a livello mondiale. Einstein lasciò scritto che era consapevole delle conseguenzeche l’uso di un’arma atomica avrebbe comportato, e di quanto ciò contrastasse con il suoideale pacifista, ma che considerava ancora più terribile la possibilità che il nazismoimponesse il suo dominio sul mondo intero. Ciò nonostante, Einstein non partecipò inalcun modo al progetto Manhattan di costruzione della bomba atomica americana equando Truman nel 1945 fece sganciare due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki,Einstein condannò recisamente la decisione del presidente USA, e negli anni successivinon smise di pentirsi della lettera scritta a Roosevelt. Nel secondo dopoguerra, riprese eradicalizzò la sua azione di propaganda a favore del pacifismo, teorizzando la necessità deldisarmo e di un governo mondiale capace di evitare i conflitti bellici.Infine, negli ultimidecenni della sua vita, Einstein si occupò anche di religione. Benché non credessenell’esistenza di un Dio personale, Einstein credeva nell’esistenza di un dio-natura, di unordine naturale necessario, cioè professava una sorta di panteismo scientifico, alla manieradi Spinoza, cui si richiamava esplicitamente. In particolare, Einstein valorizzzava lareligione come ricerca di un fine etico universale dell’umanità, in quanto riteneva che lascienza potesse conoscere solo ciò che è ma assolutamente non indicare ciò che deveessere. In questo senso, è significativa la sentenza einsteiniana, parafrasi di quella di Kant:“La religione senza scienza è cieca, la scienza senza religione è zoppa”.Einstein morì nel 1955 e, per sua volontà, fu cremato e le sue ceneri disperse nell’aria.

VITE DI CAPITANIPLANCK, BOHR, DE BROGLIE, HEISENBERG, SCHRÖDINGER, DIRAC,BORN, PAULI, FEYNMAN, BELL

La teoria dei quanti è il frutto della più ampia e prolungata opera collettiva della scienza.Tale opera si può far cominciare dal 1900, con la scoperta della legge fondamentale dellateoria quantistica (E=hv) da parte del fisico tedesco Max Karl Planck (1858-1947), che ebbeil Nobel nel 1918. L’opera fu poi proseguita dal danese di Niels Bohr (1885-1962), inriferimento al quale si parla di “scuola di Copenaghen”, il quale elaborò il modelloquantistico dell’atomo (Nobel nel 1922) e formulò il principio di complementarità; dalfrancese Louis-Victor de Broglie (1892-1987), che appurò la natura quantistica deglielettroni e fu premiato con Nobel nel 1929; il tedesco Werner Heisenberg (1901-1976), cheenunciò il principio di indeterminazione (1927), premio Nobel nel 1932, direttore delprogetto tedesco per la costruzione della bomba atomica durante la II guerra mondiale,progetto che fallì forse anche per volontà delo stesso Heisenberg; l’austriaco ErwinSchroedinger (1887-1961) che coniò il concetto di “funzione d’onda” e ne formulòl’equazione fondamentale, Nobel nel 1933; l’inglese Paul Dirac (1902-1984), che elaboròuna teoria e una formula dei moti quantistici alternative a quelle di Schroedinger e ipotizzòa livello teorico l’esistenza dei positroni (elettroni con carica positiva, confermatisperimentalmente nel 1932), Nobel nel 1933; Max Born (1882-1970) che elaboròl’interpretazione probabilistica della meccanica quantistica secondo cui l’equazione dellafunzione d’onda aveva una validità meramente statistica, premio Nobel 1954; l’austriacoWolfgang Pauli (1900-1958) che stabilì il “principio di esclusione”, secondo cui nonpossono esistere nello stesso atomo due elettroni con gli stessi numeri quantici, e prevideteoricamente l’esistenza del neutrino, Nobel nel 1954; lo statunitense Richard Feynman(1918-1988), che elaborò un nuovo metodo matematico per il calcolo delle interazioni tra leparticelle elementari detto “diagramma di Feynman”, Nobel nel 1965; l’irlandese StewartJohn Bell (1928-1990) autore del “teorema di Bell” che confuta la tesi einsteiana secondocui la meccanica quantistica potrebbe essere riconfigurata in modo deterministico in base auna teoria a variabili nascoste.

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TAPPA 1EINSTEIN: LA TEORIA DELLA RELATIVITA’ RISTRETTA O SPECIALE

Il regolo rigido risulta dunque più corto quando è in moto che non quando è in quiete,e tanto più corto quanto più rapidamente si muove. [...]Come conseguenza del proprio moto l’orologio cammina più lentamente che nonquando è in quiete.

A. Einstein, Relatività, parte I, § 12

La teoria della relatività ristretta (o speciale) ha questo nome perché, da un lato, è unanuova versione del principio di relatività galileiana; dall’altro, perché è circoscritta, come ilprincipio di relatività galileiana, ai fenomeni fisici inerziali, cioè riconducibili a motirettilinei uniformi. La novità della relatività einsteiniana consiste, innanzitutto, nelcomprendere non solo i fenomeni meccanici, come quella galileiana, ma anche quellielettromagnetici. E’ proprio l’inclusione dei fenomeni elettromagnetici che porta Einstein ariconcepire e riformulare il principio di relatività galileiana.Questo stabiliva che il moto rettilineo uniforme di un “sistema di riferimento” (un corpocompatto, p.e. una nave, un treno, un’auto, un uomo che cammina) è sempre relativo a unaltro sistema di riferimento in quiete relativamente al primo (p.e. un promontorio, unastazione, una casa, un albero). Dunque, un osservatore (p.e. il passeggero di un treno che simuove a velocità fissa su un binario rettilineo) all’interno di un sistema di riferimento, senon può guardare fuori di esso, non è in grado di stabilire se il sistema stesso è fermo o inmovimento. Proprio questa “relatività” (che non ha nulla a che vedere col relativismo delleopinioni o dei valori) fonda l’invarianza, cioè l’uniformità, delle leggi fisico-meccaniche equindi l’unità della natura. Infatti, se all’interno di un sistema di riferimento unosservatore non è in grado di stabilire se è fermo o si sta muovendo, ciò significa che in unsistema di riferimento in moto rettilineo uniforme tutto accade allo stesso modo che in unsistema di riferimento in quiete, ovvero che i fenomeni fisici, e quindi le leggi della fisica,sono gli stessi al variare dei sistemi di riferimento.

La relatività galileiana applicata al calcolo delle velocità comporta che si può determinarela velocità di un corpo inerziale sempre e solo in riferimento a un altro corpo, fermo o inquiete. Per calcolare la mia velocità in riferimento a diversi osservatori devo applicare ilsemplice principio di composizione delle velocità. P.e., se all’interno di un tram che va a30/h io cammino a 5 km/ora nella sua stessa direzione e verso, relativamente a unpasseggero seduto mi muovo appunto a 5 km/ora, ma per un pedone in attesa alla fermataio mi muovo a 35 km/h, in quanto devo sommare alla mia velocità quella del tram. Se unpedone cammina sul marciapiede parallelo alla rotaia del tram nella mia stessa direzione enello stesso verso a 2 km/h, per lui io mi muovo a 33 km/h, perché alla mia velocità devosottrarre quella del pedone.Ma per la teoria elettromagnetica di Maxwell, la velocità della luce è costante. Ciò significa,riprendendo l’esempio precedente, che se io cammino nel tram con una torcia elettricaaccesa in mano (direzionata verso l’avantreno del tram) la velocità della luce (300.000km/s) è la stessa sia per il passeggero seduto, sia per il pedone in attesa alla fermata sia peril pedone che cammina parallelamente. In altre parole, il moto della luce non è relativo, maassoluto e quindi il principio di composizione delle velocità non si applica alla luce. Ma, ciòcomporta una divisione tra mondo meccanico e mondo elettromagnetico.

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E’ proprio questa divisione che la teoria della relatività evita, riconfermando l’invarianzadei fenomeni e delle leggi fisiche per tutti i sistemi inerziali, anche quello elettromagnetici.Tanto che Einstein avrebbe preferito chiamare la sua nuova teoria della relatività teoriadell’invarianza. Ma cosa permette a Einstein di unificare fenomeni meccanici e fenomenielettromagnetici?In primo luogo, Einstein assume che la costanza della velocità della luce sia un fatto realeinoppugnabile. Dunque, il punto di partenza della teoria della relatività einsteiana è che lavelocità della luce è l’unica grandezza assoluta. Di conseguenza, lo spazio e il tempo, cheper la fisica classica erano assoluti, diventano invece relativi. Perché?Per rispondere, Einstein prende in considerazione la simultaneità di due fenomenielettromagnetici, ovvero luminosi. P.e.: immaginiamo una carrozza di un treno in motorettilineo uniforme con al centro una lampada spenta e due persone ai lati opposti, lapersona A appoggiata al lato dalla parte del senso di marcia, la persona B dalla parteopposta al senso di marcia. Sia A sia B guardano verso la lampada equidistante da ognunodi loro. Quando si accende la lampada, due raggi di luce raggiungono rispettivamente gliocchi di A e di B. Poiché hanno la stessa velocità e percorrono la stessa distanza, A e Bvedono la lampada accendersi nello stesso istante. I due fenomeni sono simultanei. Ma peruna terza persona C, ferma alla stazione, che vede passare la carrozza nell’istante in cui siaccende la luce, B vede la luce prima di A, ovvero i due eventi che per A e B (appartenentiallo stesso sistema di riferimento) sono simultanei, non sono simultanei per C (cheappartiene a un altro sistema di riferimento). Com’è possibile?Dal punto di vista di C, nel pur infinitesimale tempo in cui il raggio di luce “sparato” dallalampada si muove verso A, A si allontana da esso, quindi la distanza che il raggio devepercorrere è maggiore della metà della lunghezza del vagone, dunque il raggio impiega piùtempo. Viceversa, ma sempre dal punto di vista di C, B durante il moto del raggio verso dilui si avvicina a esso (gli si muove incontro), pertanto la distanza che il raggio di luce devepercorrere per raggiungere B è minore della metà della lunghezza del vagone; diconseguenza il raggio ci mette meno tempo a percorrerla. Conclusione: per C, la luceraggiunge prima B e poi A, ovvero i due eventi non sono simultanei. (Se qualcuno si chiedecome faccia C a vedere il momento in cui la luce raggiunge gli occhi di B e A, bastaimmaginare che B e A abbiano in mano uno specchietto rivolto obliquamente in parteverso la lampada e in parte verso C.)Ora, il punto fondamentale è che se al posto della lampada considerassimo un uomo condue pistole in mano, rivolte l’una verso A e l’altra verso B, che spara loro, anche per C i dueproiettili raggiungerebbero A e B nello stesso istante. Perché? Perché il moto dei proiettili,a differenza di quello della luce, è relativo, ovvero non è costante/assoluto. Dunque ad essosi applica il principio di composizione delle velocità. Pertanto, il proiettile che va verso Adeve percorrere più spazio ma possiede una velocità maggiore data dalla somma della suavelocità di sparo e della velocità del treno, mentre il proiettile che va verso B devepercorrere meno spazio ma la sua velocità è minore di quella dell’altro, perché alla suavelocità di sparo si deve sottrarre la velocità del treno. Risultato: le diverse velocitàcompensano le differenti distanze e i proiettili anche per C colpiscono A e B nello stessomomento. (E oltretutto in questo caso non c’è bisogno che A e B abbiano in mano unospecchietto perché C se ne possa accorgere!).In altre parole, la non simultaneità per C della visione dell’accensione della lampada daparte di A e B è dovuta alla proprietà esclusiva che la luce possiede, appunto la costanzadella sua velocità, e che la rende refrattaria all’applicazione del principio di composizionedelle velocità. D’altra parte, la luce è il medium che ci permette di conoscere tutti ifenomeni. Tutto quello che vediamo lo vediamo perché la luce trasporta ai nostri occhi, oalle nostre apparecchiature sperimentali, le informazioni relative alla realtà fisica. Dunque,ciò che vale per la luce è generalizzabile a tutta la realtà fisica.

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A questo punto, Einstein può trarre la prima, grande conclusione rivoluzionaria:nell’universo non esistono due eventi simultanei, la simultaneità vale solo all’interno di unsistema di riferimento per gli osservatori che ne fanno parte, ma non vale per tutti gli altrisistemi di riferimento esterni, dunque non è generalizzabile. Ma quando diciamosimultaneità, ci riferiamo a una delle due grandi coordinate fisiche: il tempo. Lasimultaneità è stabilita dal tempo, è data cioè da due eventi che accadono nello stessoistante temporale. Pertanto, dire che non esistono due eventi simultanei per tutti i sistemidi riferimento implica affermare che il tempo non scorre nello stesso modo per tutti isistemi di riferimento, ovvero che non esiste un tempo assoluto o, utilizzando unametafora, che non c’è un grande orologio unico che batte la stessa ora per tutto l’universo,ma tanti orologi diversi per ogni sistema di riferimento che battono ore diverse.Si tratta di una tesi radicalmente controintuitiva, cioè che cozza col nostro buon senso, conil senso comune. Per questo è difficile comprenderla, perché una parte della nostra stessamente la rifiuta come assurda. Eppure Einstein ha dimostrato teoricamente, e molti altriscienziati lo hanno confermato sperimentalmente, che le cose stanno così: il tempo rallentaall’aumentare della velocità del sistema di riferimento. P.e., per un uomo sulla superficiedella Terra, all’interno di un aereo che si muove nell’atmosfera sopra di lui il tempo scorrepiù lentamente che per lui, ovvero gli orologi dei passeggeri sono più lenti del suo. Ladifferenza però è talmente piccola e il viaggio aereo talmente breve che nessuno è in gradodi accorgersene. Ma considerando una sonda spaziale che viaggia per mesi a velocità moltopiù elevate diventa invece evidente. (Questo non significa, in ogni caso, che un uomo cheviaggiasse per mesi o anni in una sonda spaziale avrebbe più tempo libero, ovvero chevivrebbe più a lungo. Infatti, insieme al tempo battuto dall’orologio, rallenta anche iltempo di tutti i movimenti, ossia rallentano in proporzione tutti i movimenti, da quellidegli arti al battito cardiaco, alla trasmissione neuronale degli impulsi elettro-chimici chesono alla base della nostra attività mentale. Insomma, chi viaggia a grandi velocità, rispettoa noi sulla Terra, per così dire si “bradipizza”.)La relatività del tempo teorizzata da Einstein può essere illustrata e argomentata in modoquasi intuitivo, se prendiamo in considerazione un particolare tipo di orologio, ossia un“orologio a luce”. Esso è costituito da 2 specchi piatti, rivolti l’uno verso l’altro, alladistanza di 15 cm, che si rimbalzano un fotone, cioè l’unità minima di luce. Ogni miliardodi andirivieni l’orologio segna 1 secondo. Se l’orologio fotonico è fermo il fotone rimbalzacon traiettorie perpendicolari agli specchi. Ma se l’orologio si muove, p.e. da sinistra versodestra, la traiettoria del fotone diventa obliqua e, all’aumentare della velocità, sempre piùorizzontale, cioè sempre più parallela agli specchi. Infatti, mentre il fotone viaggia da unospecchio all’altro, gli specchi si muovono verso destra e il fotone anche, e dunque la suatraiettoria è la risultante del moto verticale perpendicolare agli specchi e delcontemporaneo moto orizzontale da sinistra a destra parallelo agli specchi. (Naturalmente,sempre assumendo che noi osservatori del movimento dell’orologio fotonico siamo inquiete rispetto ad esso.) Ne consegue che la traiettoria del fotone tra i due specchi è piùlunga se l’orologio fotonico si muove, e diventa tanto più lunga quanto più velocementel’orologio si sposta. Pertanto, essendo costante la velocità della luce (cioè non potendoessere incrementata dal moto degli specchi), in un orologio a luce in moto il fotone impiegapiù tempo a rimbalzare da uno specchio all’altro. Risultato finale: in un orologio a luce inmoto un secondo dura di più che in un orologio a luce in quiete rispetto ad esso, ovverol’orologio in moto segna un tempo minore di quello in quiete. (E’ come se usassimo unmetro taroccato, cioè più lungo di quello autentico, per misurare una lunghezza: la misurasarebbe più corta che con il metro esatto.)

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Ma secondo Einstein non è solo il tempo che varia al variare del sistema di riferimento,bensì anche lo spazio. Più precisamente, per Einstein lo spazio, e quindi ognicorpo/sistema di riferimento, si contrae, ovvero si accorcia nella direzione del moto, tantopiù quanto più aumenta la velocità. Anche in questo caso, a basse velocità, l’accorciamentoè talmente piccolo che i nostri sensi non sono in grado di rilevarlo. Per questo guardandouna F1 lanciata a 300 km/h o un jet supersonico non potremmo mai notare il lororestringimento. Ma avvicinandoci alla velocità della luce tutto cambia. P.e., un corpo che simuova al 98% della velocità della luce si restringe dell’80%, ossia è lungo 1/5 di quanto èlungo quando è osservato in quiete.Per rendere più intuitiva la tesi di Einstein, immaginiamo che un pilota di F1 misuri la suaauto ferma ottenendo come risultato 4 m. Dopodiché parte per sfrecciare a 300 km/h sulrettilineo. Il suo meccanico, fermo sulla pista, misura a sua volta la lunghezza della F1 inmovimento. Come fa? Si munisce di un cronometro, quando il muso della F1 arriva sullalinea del traguardo schiaccia il cronometro e quando il bordo della coda della F1 è sullalinea del traguardo rischiaccia il cronometro per fermarlo. Moltiplicando il temporegistrato dal cronometro per la velocità della F1 (300 km/h) il meccanico ottiene lalunghezza dell’auto. Infatti, s=t.v, cioè lo spazio/lunghezza è il prodotto della velocità per iltempo. Attenzione: così come possiamo considerare il meccanico in quiete rispetto al pilotache viaggia sulla F1 a 300 km/h, allo stesso modo possiamo considerare il pilota in quiete eil meccanico in moto, in senso opposto a quello della F1, alla velocità di 300 km/h.Ricordiamoci, infatti, che i sistemi inerziali sono perfettamente simmetrici, ed è dunque lastessa cosa dire che A si muove verso destra a 300 km/h rispetto a B in quiete e dire che Bsi muove a 300 km/h verso sinistra rispetto ad A in quiete. Stando così le cose, per il pilotail tempo del suo meccanico scorre più lentamente del suo. Dunque il cronometro delmeccanico misura un tempo minore rispetto a quello che potrebbe misurare il pilota sullaF1 (per arrivare a battere un decimo di secondo il cronometro ci mette di più, quindi batteun minor numero di decimi di secondo). Come fa il pilota a misurare il tempo di passaggiodell’auto sul traguardo? Con un cronometro, assumendo che sia la linea del traguardo, cioèla pista, che si muove prima verso e poi sotto la sua F1 ferma. Pertanto, applicando laformula s=t.v, essendo t minore, il meccanico misura e vede la F1 più corta di come l’avevavista il pilota prima della partenza e di come la vede anche dopo stando dentro di essamentre sfreccia a 300 km/h.

Facciamo il punto della situazione. In base a quanto abbiamo considerato, Einsteindimostra che:

il tempo di un sistema di riferimento rallenta all’aumentare della sua velocità per gliosservatori di un altro sistema di riferimento supposto in quiete rispetto al primo;

lo spazio di un sistema di riferimento in moto, e quindi tutti i corpi in esso presenti,si accorcia longitudinalmente nel verso del moto per gli osservatori di un altrosistema di riferimento supposto in quiete rispetto al primo.

Ricordando che spazio e tempo erano considerati grandezze assolute, uniche e uniformiper tutto l’universo, è possibile valutare la portata rivoluzionaria della relatività einsteiana.Naturalmente una teoria fisica non può essere compiutamente tale se non ha una formamatematica, ovvero se non è esprimibile in formule. In questo senso, Einstein utilizza le“trasformazioni di Lorentz”, ovvero le formule già elaborate dal fisico olandese Lorentz perequiparare i fenomeni elettromagnetici. Ma è Einstein a dare un significato fisico compiutoalle formule che Lorentz aveva dedotto matematicamente dalle quattro equazionifondamentali della teoria elettromagnetica di Maxwell. Infatti, inquadrandole nella teoriadella relatività ristretta, Einstein, da un lato, le spiega concettualmente, cioè spiega comemai in esse spazio e tempo variano al variare della velocità; dall’altro lato, le fa diventare leformule di trasformazione sostitutive di quelle di Galileo, che erano inapplicabili ai

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fenomeni elettromagnetici. In tal modo Einstein ristabilisce l’unità della fisica: grazie allenuove trasformazioni relativistiche, tutti i fenomeni (sia meccanici sia elettromagnetici) diun sistema di riferimento possono essere “trasformati” in quelli di un altro sistema diriferimento. In altri termini, Einstein dimostra che è possibile unificare tutti i fenomenifisici, confermando così che le leggi della natura sono le stesse in tutto l’universo.Paradossalmente, proprio grazie alla relatività dello spazio e del tempo, cioè all’esistenza ditanti e diversi spazi e tempi nell’universo.

Ma la concezione dello spazio e del tempo di Einstein è rivoluzionaria anche per un altroaspetto. Mentre la fisica classica considerava spazio e tempo due realtà e due parametridistinti e indipendenti, per Einstein spazio e tempo si influenzano a vicenda a tal punto dadover essere considerati una cosa sola: lo spaziotempo (o cronòtopo), ovvero il “continuumquadridimensionale”. Perché “quadridimensionale”? Perché per Einstein il tempo vaconcepito come un’ulteriore dimensione simile alle tre dimensioni spaziali: lunghezza,larghezza, altezza.A questo punto Einstein si pone un ulteriore problema, implicito nelle sue precedenticonclusioni: perché il tempo rallenta, ovvero diminuisce, all’aumentare della velocità, eviceversa? Ovvero: è possibile trovare una spiegazione più profonda della relatività dellospaziotempo? La soluzione di Einstein è legata proprio al concetto diquadridimensionalità. Infatti, se il tempo è una dimensione come le tre dimensionispaziali, allora, deduce Einstein, ci si può muovere a diverse velocità nel tempo così comeci si muove a diverse velocità nello spazio. Dunque, tutti i corpi nell’universo si muovonosia spazialmente sia temporalmente. La quiete assoluta non esiste. Innanzitutto perchéquando assumiamo che un corpo è in quiete rispetto a un secondo corpo, non solopossiamo considerarlo in moto rispetto al secondo fermo, come si è visto, ma è anchecomunque in moto rispetto a un terzo corpo. P.e., un uomo seduto su una panchina èfermo rispetto a un ragazzo che si muove in bici nella pista ciclabile davanti alla panchina,ma è in moto rispetto al Sole, in quanto sappiamo che la Terra si muove intorno a se stessae intorno al Sole. In secondo luogo, anche un uomo seduto si muove nel tempo, anziquanto più è in quiete tanto più velocemente “viaggia” nella dimensione temporale. In altreparole, Einstein intuisce che nell’universo tutto si muove sia spazialmente siatemporalmente. Da questa intuizione deduce che ogni corpo fisico può distribuire la suavelocità di movimento tra lo spazio e il tempo: se va più veloce nello spazio va più lento neltempo e viceversa. Ecco la ragione di fondo della relatività dello spaziotempo.

Sulla base di tale ragione, Einstein si pone un ulteriore problema: ma perché la luce simuove a 300.000 km/s, perché non di più e non di meno, perché 300 km/s è la velocitàmassima dell’universo e perché solo la luce, ovvero le radiazioni elettromagnetiche, laraggiungono? La risposta di Einstein è che tutti i corpi sono dotati di una velocità pari aquella della luce, ovvero 300.000 km/s, solo che ne utilizzano la maggior parte perviaggiare nel tempo e quindi nello spazio sono più lenti. Pertanto, afferma Einstein, solo laluce ha il privilegio di viaggiare nello spazio a 300.000 km/s perché non si muove neltempo. In altre parole, i fotoni non “invecchiano” sono tali e quali come quando si sonoformati e tali e quali rimangono.Ma anche questa soluzione apre a Einstein la possibilità di porsi un ennesimo problema:perché la luce può permettersi di non viaggiare nel tempo? Per risolvere anche questoproblema Einstein giunge alla formulazione della tanto semplice quanto rivoluzionarialegge che sintetizza e corona la sua teoria della relatività ristretta:

E=mc2

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Questa formula significa che l’energia cinetica, più precisamente il suo incremento odiminuzione, è uguale al prodotto della massa di un corpo per un enorme coefficiente, ilquadrato della velocità della luce. Se l’energia cinetica, cioè la velocità, di un corpoaumenta, la massa aumenta proporzionalmente. P.e., anche un granello di polvere se micolpisce a un alta velocità può ferirmi, mentre a una bassa velocità è innocuo (sempre chenon finisca nell’occhio). Perché? Perché ad alta velocità la sua massa aumenta e con essa lasua forza d’urto e di penetrazione. Quanto più un corpo si avvicina alla velocità della lucetanto più la sua massa aumenta e tanta più energia occorre per ottenere un ulterioreaumento della sua velocità. Infatti, la seconda legge della meccanica stabilisce che F=ma(dove a=accelerazione). A una velocità prossima a quella della luce anche la massa piùpiccola si approssima a una grandezza infinita e per accelerarla ulteriormente occorrerebbeuna forza/energia infinita. Poiché niente e nessun può disporre di un’energia infinita,nessun corpo dotato di massa può raggiungere la velocità di 300.000 km/s. Perché, allora,il fotone può raggiungerla? Perché è privo di massa, è energia pura.

La formula conclusiva della relatività ristretta distrugge un’altra certezza della fisicaclassica: la netta distinzione tra energia/forza, da un lato, e massa/materia, dall’altro. Laformula di Einstein, infatti, asserisce l’equivalenza di energia e massa, ovvero afferma chesono due conformazioni che una stessa sostanza assume al variare della sua velocità. Inaltri termini, significa che l’energia è massa enormemente velocizzata e la massa energiafortemente rallentata. E, al contempo, che una piccolissima quantità di massa consiste, equindi può trasformarsi, in una enorme quantità di energia. L’umanità ne ebbe la tantotragica quanto inoppugnabile prova quando meno di un etto di uranio si trasformò nellapiù potente esplosione della storia (fino a quel momento). Era il 6 agosto 1945 e la cittàgiapponese di Hiroshima fu letteralmente incenerita.

L’equivalenza di massa ed energia ribadisce la tesi einsteiana secondo cui tutto si muove,niente è fermo, statico, inerte, passivo. Ma tale tesi contiene un’ulteriore implicazionerivoluzionaria: per la relatività di Einstein non esistono propriamente “cose”, o “corpi”, masolo “eventi”, cioè “azioni”, movimenti.

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TAPPA 2EINSTEIN: LA TEORIA DELLA RELATIVITA’ ALLARGATA O GENERALE

Secondo la teoria della relatività generale, le proprietà geometriche dello spazio nonsono autonome, ma sono determinate dalla materia. [...] I calcoli indicano [...] che se lamateria fosse uniformemente distribuita l’universo dovrebbe risultare di necessitàsferico (o ellittico). Poiché la materia non è uniformemente distribuita nei dettagli,l’universo reale divergerà nelle singole parti da quello sferico, cioè sarà quasi-sferico.Esso sarà però necessariamente finito.

A., Einstein, Relatività, parte II, § 32

Con la teoria della relatività ristretta (o speciale) Einstein ha conferito piena dignità teoricaalla costanza della velocità della luce, ovvero al fatto, già sperimentalmente comprovato,che la velocità della luce (300.000 km/s) è quella massima consentita nell’universo, unasorta di limite di velocità universale irraggiungibile da tutti i corpi fuorché dalla luce (e daogni altro tipo di radiazione elettromagnetica). Grazie alla spiegazione teorica einsteiana,infatti, la velocità della luce assurge a unico valore assoluto della fisica.Proprio per questo, però, la teoria della relatività ristretta contraddice la teoriagravitazionale newtoniana, cioè la teoria-regina della fisica classica. Per Newton, infatti, laforza gravitazionale è una forza che agisce:

da un lato, a distanza nel vuoto, cioè fa sì che due corpi si attraggano senza alcuncontatto tra loro e senza nemmeno un mezzo che ne permetta un contatto indiretto(come, p.e., le onde sonore che partendo da una sorgente si trasmettono al riceventeattraverso il mezzo dell’aria);

dall’altro, in modo istantaneo, cioè con una velocità infinita (p.e., secondo la teoriagravitazionale newtoniana, se il Sole in questo istante sparisse, immediatamente laTerra partirebbe per la tangente).

Dunque le due teorie, quella di Newton e quella di Einstein, almeno per questo aspettoerano incompatibili. E’ questa incompatibilità che spinge Einstein a proporsi di elaborareuna nuova teoria gravitazionale, alternativa a quella newtoniana; ma a tale impresa lospinge anche, e forse soprattutto, il suo desiderio di affrontare e risolvere il più grande“mistero” (così l’aveva definito lo stesso Newton) della fisica classica, rimasto insoluto dal1687, l’anno in cui Newton aveva reso pubblica la sua teoria gravitazionale: che cos’è laforza di gravità? Di cosa è fatta? In cosa consiste? Cosa la origina? Newton stesso avevaaffermato di essere in grado di descriverla matematicamente in modo perfetto, cioè dicapire come funzionava, ma non di spiegare, rimanendo su un piano scientifico, cosa fossee come potesse agire. Addirittura aveva dichiarato lui per primo che la concezione di unaforza agente a distanza nel vuoto è una “assurdità”.Per svelare il segreto della forza gravitazionale, Einstein si basa su una nuova, grandeintuizione teorica: l’equivalenza tra accelerazione e gravitazione. In altre parole, un motoaccelerato, secondo Einstein, produce gli stessi effetti, ovvero ha le stesse caratteristiche, diun campo gravitazionale (Einstein riprende da Maxwell il concetto di “campo”, cioè diporzione di spazio in cui in ogni punto è presente e agisce una forza).Per spiegare questo nuovo principio di equivalenza, Einstein ricorre a un esperimentomentale, invitandoci a immaginare una larga porzione di spazio vuoto (ovvero in cui non èpresente alcuna forza) in cui si trovi una grande cassa (delle dimensioni di una stanza)contenente un uomo. Quest’uomo non subisce nessuna forza gravitazionale, dunquefluttua all’interno della cassa tanto che deve assicurarsi con corde al pavimento per evitareche anche un suo piccolo movimento degli arti lo catapulti verso il soffitto a causa dellalegge di azione e reazione. (Quello che Einstein ha immaginato è quello che noi abbiamo

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visto nei filmati sugli astronauti nelle capsule spaziali in orbita intorno alla Terra.) Sopra ilcoperchio della cassa, nel lato esterno, continua Einstein, viene fissato un gancio cui èlegata una corda. A un certo punto la corda viene tirata con forza in crescita costante. Lacassa allora comincia a muoversi di moto uniformemente accelerato. Da un altro corpo diriferimento, esterno alla cassa e assunto in quiete rispetto ad essa, la cassa appariràacquisire una velocità sempre maggiore. L’uomo nella cassa, invece, comincerà a stare inpiedi da solo sul pavimento, grazie alla pressione che ora questo esercita su di lui. Se lasciaandare un oggetto che prima teneva in mano, egli ora lo vedrà cadere sul pavimento.Studiando la caduta di altri oggetti all’interno della cassa, potrà constatare che si tratta diun moto uniformemente accelerato. Insomma: la sua situazione fisica è la stessa di quelladi chi si trova sulla superficie terrestre ed è sottoposto alla forza di gravità.Una situazione analoga a quella ipotizzata da Einstein, ma decisamente più praticabile, èquella che possiamo sperimentare all’interno di un ascensore di un grattacielo (solitamentepiù veloce) almeno fin quando accelera: ci sembra di essere più pesanti, ovvero di essere“schiacciati” verso il pavimento dell’ascensore. Salvo che dentro l’ascensore agisce già laforza gravitazionale e quindi ci sembra di essere più pesanti del normale. Ipotizzando chela forza gravitazionale cessi e che l’ascensore salga con un’accelerazione uniforme di 9,8m/s2 ci sentiremmo esattamente come ci sentiamo quando siamo in piedi sulla superficieterrestre. Ancora, ipotizzando che i cavi dell’ascensore si spezzino, cadendo ci sentiremmoprivi di peso, fluttuanti e immobili come l’uomo della cassa nello spazio vuoto, dalmomento che la nostra accelerazione verso il centro della Terra corrisponde esattamentealla forza gravitazionale e quindi annulla la percezione che ne abbiamo, ovvero lapercezione di essere pesanti e pressati verso il pavimento.Einstein si serve del principio di equivalenza tra moto accelerato e forza gravitazionale,innanzitutto, per allargare il suo principio di relatività (fino a questo momento “ristretta”,cioè limitata ai moti inerziali) anche ai moti accelerati, cioè a tutti i moti. In che modo?Immaginiamo di essere all’interno di un treno in moto rettilineo uniforme, con le cortinedei finestrini abbassate. Come sappiamo, non possiamo stabilire se siamo in moto o inquiete. Dunque il principio di relatività regna sovrano e con esso l’unità della fisica, dalmomento che, se non posso stabilire se sono in moto o in quiete, ciò significa che ifenomeni fisici sono gli stessi in un corpo in quiete e in uno in moto inerziale. Però, se iltreno accelera (o frena) immediatamente l’incanto della relatività sembra dissolversi: sentochiaramente che il treno si sta muovendo perché mi sento spinto contro lo schienale delsedile (o viceversa in caso di frenata). Invece, l’incanto relativistico non si spezza: grazie alprincipio di equivalenza posso spiegare la mia sensazione in un altro modo, ugualmentescientifico: il treno è fermo, ma è entrato in azione un campo gravitazionale la cui sorgenteè alle mie spalle (oppure davanti a me) e che quindi mi attrae all’indietro (oppure inavanti). In tal modo, è possibile affermare che i fenomeni fisici sono gli stessi sia in unsistema di riferimento in quiete, sia in uno in moto inerziale, sia in uno in moto noninerziale, cioè accelerato (o decelerato). In altri termini, Einstein con la relatività allargatafonda l’unità della natura e delle sue leggi, ovvero della scienza fisica.Ma, in secondo luogo e soprattutto, Einstein utilizza l’equivalenza tra accelerazione egravitazione per dissolvere il mistero della forza di gravità. A tal fine, prende inconsiderazione un caso particolare di moto accelerato, il moto rotatorio. Per esempio,immaginiamo una giostra a alta velocità (del tipo di quelle che nei Luna Park vengonochiamate Tornado o Rotor o Centrifuga), costituita da una piattaforma circolare chiusa conparatie lungo tutta la circonferenza. Quando comincia a ruotare tutti quelli che vi sonosaliti sono schiacciati di schiena alle paratie tanto che se anche la piattaforma si inclinasseo, al limite, si rovesciasse, nessuno cadrebbe (ovviamente a seconda della velocità dirotazione). Il moto circolare uniforme della giostra simula un moto accelerato, nel sensoche ha gli stessi effetti fisici. Poiché la piattaforma è un cerchio, il rapporto tra raggio e

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circonferenza, per degli osservatori esterni in quiete (noi stessi sospesi in aria, p.e.arrampicati su un alto lampione della luce), è pari a 2" (6,28 c.ca). Ipotizziamo che unodegli ospiti della giostra (A), strisciando lungo la piattaforma, ne misuri il raggio, e un altro(B) la circonferenza nel verso del moto. Per la teoria della relatività i corpi in moto siaccorciano nel verso del loro moto. Poiché A misura il raggio in direzione perpendicolare alverso del moto della giostra, il suo metro non si accorcia e quindi la misura del raggiocorrisponde a quella della piattaforma in quiete (ovvero alla lunghezza del raggio come noila osserviamo dall’alto del lampione cui siamo abbarbicati). Invece, il metro di B si accorciaperché è posto nella direzione del moto e quindi la lunghezza della circonferenza misuratada B sarà maggiore della sua lunghezza a giostra ferma (ovvero della lunghezza dellacirconferenza come noi la osserviamo dal lampione), in quanto un metro più corto sta unmaggior numero di volte in una stessa lunghezza. Conclusione: il rapporto tracirconferenza misurata da B e raggio misurato da A è maggiore di 2", perché il raggio staun numero maggiore di volte nella circonferenza “maggiorata”.Ma in questo modo sembra risultati violata la geometria euclidea. Dunque anche Euclideaveva commesso un errore? No, risponde Einstein, la geometria euclidea è coerente, logica,ineccepibile. E allora come è possibile che i corpi accelerati non ne rispettino le regole? Lasoluzione di Einstein è una rivoluzione nella rivoluzione, perché scardina una concezionemillenaria che nessuno aveva mai messo in dubbio, che cioè appariva naturale, ovvia.Bisogna pensare, afferma Einstein, che lo spazio reale non coincida con lo spazio dellageometria euclidea, cioè con lo spazio piano, ovvero lo spazio in cui le 3 dimensioni altezza,larghezza, lunghezza sono rappresentabili come 3 rette perpendicolari l’una all’altra. In chealtro modo, allora, potrebbero essere rappresentabile? Come si può configurare uno spaziodiverso da quello euclideo? Einstein è aiutato a rispondere dalla sua conoscenza dellegeometrie non-euclidee, elaborate nel corso dell’Ottocento sulla base della variazione del Vpostulato di Euclide:

la geometria iperbolica che, a partire dal postulato che per un punto passano infiniterette parallele a una retta data, costruisce uno spazio concavo (p.e., la superficie diuna terrina o, meglio, di una sella), in cui la somma degli angoli interni di untriangolo risulta <180°;

la geometria ellittica che, a partire dal postulato che per un punto non passa alcunaretta parallela a una retta data, costruisce uno spazio convesso (p.e., la superficie diun pallone, o della Terra), in cui la somma degli angoli interni risulta >180°.

Solo che, fino ad Einstein le geometrie non-euclidee erano considerate costruzionipuramente teoriche che poco o nulla avevano a che fare con la realtà, mentre Einstein lepromuove a descrizioni dello spazio fisico reale. P.e., la piattaforma circolare della giostrain moto assume la forma geometrico-spaziale che avrebbe un cerchio disegnato su unasuperfie concava a sella. Per farsene un’immagine si può disegnare su un foglio di carta uncerchio, tracciare al suo interno 3 diametri, poi piegare leggermente all’indentro il foglio inmodo che il cerchio disegnato si incurvi (piegando invece il foglio all’infuori, si ottiene,sempre approssimativamente, un cerchio “ellittico”). Oppure, oppure, sempre per avereun’immagine intuitiva della modificazione dello spazio, si può ricorrere all’esperienza deglispecchi concavi e convessi del Luna Park (forse Einstein ne era un frequentatore assiduo),che deformano la nostra figura allungandola e assottigliandola, oppure abbassandola eallargandola.Collegando l’esperimento mentale della giostra con i nuovi tipi di spazio scoperti dallegeometrie non-euclidee, Einstein può arrivare a sostenere che i moti accelerati implicanouna deformazione dello spazio. Poiché l’accelerazione è equivalente alla gravitazione,Einstein subito dopo può concludere che il campo gravitazionale consiste in unadeformazione dello spazio, più precisamente nella sua incurvatura. Dunque, il mistero

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della forza gravitazionale comincia a diradarsi: Einstein ha scoperto una prima proprietàdella gravitazione.Ma non basta. Come si sa, per la relatività ristretta, lo spazio non esiste separatamente daltempo, e viceversa. Non esistono lo spazio e il tempo, ma esiste lo spaziotempo, ilcontinuum quadridimensionale. Dunque, già così è intuibile che ciò che vale per lo spazio,in rapporto all’accelerazione e alla gravitazione, deve valere in qualche modo anche per iltempo. Perché e in quale modo? Tornando all’esperimento della giostra (siamo di nuovoaggrappati al lampione a guardarla girare dall’alto), possiamo ipotizzare che B se ne stiafermo contro la paratia, cioè su un punto della circonferenza del disco, mentre A è sedutoin un punto del disco vicino al centro. Entrambi girano all’unisono, ma B percorre nel suomoto una circonferenza più lunga di quella interna percorsa da A, cioè B fa più strada di Anello stesso intervallo di tempo. Ne segue che B sul bordo si muove più velocemente di Avicino al centro. Per la relatività ristretta, l’orologio di B rallenta rispetto a quello di A. Se Asi avvicinasse alla paratia, a mano a mano il suo orologio rallenterebbe fino a sincronizzarsicon quello di B. Poiché muovendosi dal centro al bordo A aumenta la sua accelerazione, ciòsignifica che l’accelerazione produce la deformazione, ovvero l’incurvatura, anche deltempo. Facendo due volte 2+2, ne deduciamo che il campo gravitazionale producel’incurvatura dello spaziotempo.Einstein così può rispondere alla domanda cui Newton non era riuscito a rispondere(almeno rimanendo sul piano scientifico): che cos’è la gravità? La risposta è, appunto,l’incurvatura dello spaziotempo, cioè una proprietà o conformazione dello spaziotempo.Ma non è ancora finita, perché Einstein, come ognuno di noi a questo punto, non può nonchiedersi: cosa produce l’incurvatura dello spaziotempo? Questa volta la risposta,strettamente legata alla teoria newtoniana, è: la massa, cioè la presenza di corpi materialiin diversi punti dello spaziotempo. P.e., nel nostro sistema planetario, il Sole, l’oggetto dimassa maggiore, incurva lo spaziotempo circostante con un’intensità direttamenteproporzionale alla sua massa e inversamente proporzionale al quadrato della distanza dalsuo centro. Per tradurlo visivamente (sempre in modo approssimativo), possiamoimmaginare lo spaziotempo (anche se riusciamo a visualizzare solo lo spazio) come un teloelastico al cui centro ci sia una boccia molto pesante. La boccia produce nel telo elasticouna specie di buca (o una specie di cratere) la cui pendenza (a imbuto) è maggiore intornoalla boccia e sempre minore a mano a mano che ci si allontana dalla boccia. Se una pallinada ping-pong fosse fatta rotolare sul telo fino a superare il “bordo” della buca/imbuto vicadrebbe dentro con una accelerazione sempre maggiore a mano a mano che si avvicinaalla boccia in quanto la parete della buca diventerebbe sempre più verticale. Se sostituiamoalla pallina da ping-pong un oggetto, p.e. un vaso lasciato cadere da un balcone, e allaboccia la Terra, abbiamo la spiegazione della caduta dei gravi e della legge (terrestre) diaccelerazione (9,8 m2/s) nella versione offerta da Einstein.Se la pallina da ping-pong avesse una sufficiente dose di energia cinetica, e se fosseannullato l’attrito del telo e dell’aria, essa, una volta entrata in buca, continuerebbe aruotare sul suo bordo intorno alla boccia, come i ciclisti o le auto da corsa sulle curveparaboliche. Se sostituiamo alla boccia il Sole e alla pallina da ping-pong la Terra (o Gioveo Marte), otteniamo la spiegazione dei moti orbitali ellittici dei pianeti (e dei satellitiintorno ai pianeti) secondo Einstein. Solo che questa descrizione è assai limitata, non soloperché è solo spaziale ma anche perché è solo bidimensionale. Anche l’incurvatura del“solo” spazio è 3D, a tre dimensioni, cioè la buca di prima dovremmo immaginarlatridimensionale, una specie di buca sferica in cui si può cadere da sopra, da sotto e da ognilato. Ma con un ulteriore slancio immaginativo ci si può avvicinare.Ancora più difficile, per non dire impossibile, visualizzare, e quindi rendere almeno un po’intuitiva, la curvatura del tempo. Essa, comunque, comporta che un orologio rallenti tantopiù quanto più aumenta l’intensità di un campo gravitazionale. P.e., in un’astronave che

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viaggi verso il Sole, il tempo rallenta quanto più l’astronave si avvicina al Sole anche per ilsolo effetto del campo gravitazionale (cioè senza considerare la velocità dell’astronave),rispetto a noi rimasti sulla superficie della Terra. E’ importante considerare che in tal caso(a differenza che nei moti inerziali) il sistema di riferimento degli astronauti e il nostro nonsono simmetrici. In altre parole, nell’ambito dei fenomeni gravitazionali (e accelerati odecelerati) si può stabilire chi è in quiete rispetto a chi in modo univoco. Nell’esempio, iltempo degli astronauti più vicini al Sole rallenta rispetto al nostro e sarebbe erroneopensare che per gli astronauti il nostro tempo rallenti rispetto a loro.Dunque, mentre Newton aveva concepito la forza gravitazionale come una specie di laccioinvisibile e immateriale (“assurdo”!) con cui il Sole (come fosse un cow-boy) afferra e faruotare intorno a sé i pianeti (come fossero cavalli da domare: insomma una grande rodeoplanetario); Einstein descrive il campo gravitazionale come una grande curva parabolicadello spazio che costringe i pianeti a curvare le loro traiettorie in quanto non possono chemuoversi nello spazio, come un’auto da corsa nella pista (con la differenza che i pianetinon possono mai uscire di pista, a meno che il Sole sparisca). In altre parole, nella versionedi Einstein, la gravitazione non è una forza che agisce a distanza nel vuoto, bensì grazie al“contatto” tra i corpi e lo spazio-campo gravitazionale (tenendo presente che l’energiagravitazionale può avere la forma sia di un’onda sia di uno sciame di corpuscoli, igravitoni). Ci si potrebbe chiedere: una curva parabolica la si può percorrere più in alto opiù in basso: quale delle possibili traiettorie curve intorno al Sole percorrono i pianeti eperché? La risposta di Einstein è semplice: quella più facile per ognuno di loro, cioè quellache comportano il minor consumo di energia cinetica.Naturalmente Einstein descrive la sua nuova teoria gravitazionale anche, e anziinnanzitutto, in forma matematica. In tal senso, le sue equazioni dimostrano che la forzagravitazionale si muove alla stessa velocità della luce e dunque a velocità finita, benché lamassima consentita nell’universo. Per comprenderlo in modo intuitivo, torniamo alprecedente esempio del telo elastico: quando vi si pone al centro la boccia la buca intornoad essa non si forma immediatamente, la curvatura dovuta al peso della boccia si propaganel telo gradualmente come l’onda prodotta da un sasso lanciato in uno stagno. Quindi se ilSole sparisse in questo momento (se la boccia fosse tolta dal telo) passerebbero 8 minuti (iltempo che un raggio di luce impiega a percorrere la distanza Sole-Terra) prima che la Terrapartisse per la tangente. Su questa base, a differenza di quella di Newton, la teoriagravitazionale di Einstein si accorda con la teoria della relatività ristretta. Ciò non significache per Einstein la teoria newtoniana sia del tutto erronea e quindi da archiviare. Einstein,infatti, la considera un sottoinsieme della teoria della relatività generale, cioè una teoriavalida, e la cui celebre formula era quindi ancora utilizzabile, ma con un grado diprecisione inferiore.Tanto la teoria della relatività ristretta quanto quella della relatività generale sonoelaborate da Einstein “a tavolino”, ovvero in modo teorico-matematico, sulla scorta di datisperimentali già noti. In altre parole, Einstein non è autore di scoperte sperimentali(almeno nell’ambito della teoria della relatività) e nemmeno di esperimenti di controllodella sua teoria. Però, in primo luogo, trova una prima conferma sperimentale applicandole sue equazioni gravitazionali al calcolo dell’orbita di Mercurio. Perché proprio Mercurio?Perché la formula di Newton si applicava adeguatamente alle orbite osservate degli altripianeti (quelli noti dall’antichità) ma non a quella di Mercurio che presentava un’anomalia,la “precessione del perielio”, cioè una piccola deviazione rispetto all’orbita prevista dallalegge gravitazionale newtoniana. Invece, in base alle equazioni einsteiane, la descrizionedell’orbita di Mercurio coincide con l’orbita osservata, ovvero include e spiega laprecessione del perielio.La teoria della relatività generale, però, trova una conferma sperimentale ancora piùimportante. E’ Einstein stesso a suggerire come mettere sperimentalmente alla prova la

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sua teoria gravitazionale: verificando se i raggi stellari che da una stella arrivano alla Terra,passando vicino al Sole, sono o non sono deflessi, cioè deviati dal campo gravitazionalesolare. Nel 1919, lo scienziato inglese Eddington, approfittando di un’eclissi solare, verificache effettivamente i raggi solari non solo sono deflessi ma soprattutto lo sono proprio nellamisura deducibile dalle equazioni di Einstein: 0.00049 gradi.

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TAPPA 3PLANCK, EINSTEIN, BOHR, DE BROGLIE, HEISENBERG, SCHRÖDINGER,BORN, PAULI, FEYNMAN, BELL E MOLTI ALTRI: LA TEORIA DEI QUANTI

Occorre essere molto prudenti nella fraseologia di una qualunqueaffermazione concernente il comportamento delle particelle atomiche. Infattinon abbiamo assolutamente bisogno di parlare di particelle. Per molteesperienze è più comodo parlare di onde corpuscolari [...]. Ecco perché Bohrha sostenuto la necessità di utilizzare due immagini che ha chiamato“complementari”.

W. Heisenberg, Fisica e filosofia

Un tempo i giornali scrivevano che solo dodici uomini al mondo erano ingrado di capire la teoria della relatività. Non penso che sia vero. Forse c’èstato anche un momento in cui un uomo solo ne capiva qualcosa, perché eral’unico che ci stava pensando, prima di scrivere il suo articolo. Ma dopo lapubblicazione, la teoria è stata capita da molta gente, certo più di una dozzinadi persone. Invece penso di poter affermare con sicurezza che nessunocapisce la meccanica quantistica.

R. Feynman, La legge fisica, Boringhieri 1996 (1965), p. 140

La meccanica quantistica dice che la natura è assurda dal punto di vista delsenso comune. E concorda pienamente con gli esperimenti. Quindi spero cheaccetterete la natura per quello che è: assurda.

R. Feynman, QED, La strana teoria della luce e della materia, Adelphi 1989 (1988), p. 15

Se nell’ambito dell’elettrodinamica emerge l’anomalia della costanza della velocità dellaluce, i fisici termodinamici vedono la loro costruzione teorica incrinarsi a causa dellascoperta di un’altra anomalia, quella del cosiddetto “corpo nero”. Questo è il nome – un po’sinistro, forse non per caso – che gli scienziati danno a una specie di forno utilizzato peralcuni esperimenti sull’emissione e l’assorbimento dell’energia elettromagnetica: unparallelepipedo di metallo ermeticamente chiudibile e isolato, tranne che per un piccoloforo laterale indispensabile per osservare cosa accade al suo interno (che dunque risultabuio) riducendo al minimo la dispersione di energia all’esterno. Riscaldandolo a 180° il suocolore diventa rosso scuro, poi giallo e infine bianco intenso (quello che gli antichialchimisti chiamavano “calor bianco”, che altro non è che emissione di luce). Ma ilproblema che gli scienziati si pongono non riguarda il technicolor, bensì il calcolodell’energia totale delle onde elettromagnetiche presenti all’interno del forno riscaldato.Dalla teoria elettromagnetica di Maxwell si deduce necessariamente che dentro il fornopossono generarsi solo onde con un numero intero di picchi e di ventri, in modo tale cheogni onda si incastri esattamente tra le pareti. Questo vincolo, naturalmente, riduceenormemente il numero delle onde che un forno può contenere (vietando onde dilunghezza corrispondente, p.e., ai numeri irrazionali). Tuttavia, i numeri interi sonoinfiniti e dunque nel forno possono generarsi infinite onde. Poiché le leggi dellatermodinamica stabilivano che ogni tipo d’onda, indipendentemente dalla sua lunghezza,fornisse la stessa quantità d’energia, la conclusione è manifestamente inaccettabile: nelforno si dovrebbe sviluppare un’energia infinita! Pertanto l’esperimento del “corpo nero”sembra smentire uno dei gioielli della scienza ottocentesca: appunto la teoriatermodinamica.

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Nel 1900, il fisico tedesco Max Planck riesce a disinnescare l’anomalia del corpo nero, sullabase di un’intuizione fondamentale: l’energia non è continua, ma discontinua, ovverodiscreta. In parole più semplici, è costituita di “pacchetti”, ovvero di grumi energetici, cioèè segmentata in quantità minime, chiamate tecnicamente “quanti”. In termini scientifici,ossia più precisamente, Planck elabora la legge quantistica dell’energia: l’energia sitrasmette solo in valori interi, esattamente in multipli interi di una grandezza minima datadal prodotto della frequenza dell’onda (v) e di un coefficiente ultraminuscolo (1,05 x 10-27 gx cm2/s, aritmeticamente equivalente circa a un miliardesimo di miliardesimo dimiliardesimo) chiamato “costante di Planck” (h). L’incredibile piccolezza di h è importante,perché spiega come mai la realtà fisica (che è fatta di energia, spazio compreso, in quantopervaso di energia gravitazionale) ci appaia continua mentre è discreta: i “quanti” sonotalmente piccoli e fitti che neanche con il più potente microscopio è possibile distinguerli edunque ci sembrano un tutt’uno. Come un quadro divisionista che visto da lontano sembradipinto con colori continui, mentre visto da vicino ci accorgiamo che è composto da tantipuntini separati l’uno dall’altro; oppure come una scala con gradini di altezza talmentepiccola che, osservata a una certa distanza, ci appare uno scivolo.

Planck sintetizza la sua legge nella formula: E=hv. Questa formula significa che l’energia diun onda è direttamente proporzionale alla sua frequenza (e quindi inversamenteproporzionale alla sua lunghezza) e che ogni tipo d’onda è composta da pacchetti di energiadi quantità appunto pari al prodotto della sua frequenza per h. Forte della sua formula,Planck affronta e risolve l’enigma del corpo nero ipotizzando che al suo interno le onde chehanno una frequenza maggiore di un certo valore/soglia (ovvero quelle più corte), e chedunque sono composte da pacchetti energetici sempre più grandi, non forniscono apportoenergetico. In altre parole, stranamente ma realmente, l’energia complessiva che sisviluppa all’interno del corpo nero è fornita unicamente da un numero finito di onde piùlunghe e quindi la sua quantità totale, per quanto possa essere grande, rimane pur semprefinita.Per comprendere meglio la spiegazione di Planck, si può ricorrere a questo esempioanalogico: dobbiamo comprare una bibita da una distributrice automatica che funzionasolo con monete da 10, 20, 50 centesimi di euro e non dà resto; una bibita costa 80centesimi. Se inseriamo nella distributrice 8 monete da 10, 4 da 20 o 1 da 50 e 3 da 10 ouna da 20 e una da 10, otteniamo una bibita; se inseriamo una moneta da 1 € o da 2 € ladistributrice si tiene le monete ma non ci eroga la bibita (naturalmente si tratta di specialibibite energetiche, tipo quelle per gli atleti; e altrettanto naturalmente non si puòprotestare per riavere indietro gli euro incautamente inseriti).

Appresa la legge di Planck, Einstein la utilizza per spiegare il fenomeno sperimentale, detto“effetto fotoelettrico”, dell’emissione di elettroni da parte di alcuni metalli quando sonoinvestiti dalla luce. Secondo Einstein, anche la luce – che, ricordiamoci, è un tipo diradiazione/onda elettromagnetica – ha una natura quantistica, cioè è costituita da grumiminimi di energia, chiamati fotoni. In altre parole, la luce è uno sciame di fotoni (unalampadina da 10 W emette circa 100 miliardi di miliardi di fotoni al secondo) i quali, sesufficientemente energetici, come minuscoli proiettili colpiscono gli elettroni più esternidegli atomi di metalli e li sbalzano via. In questo modo, Einstein dà una connotazione fisicaalla legge di Planck, che di per sé è solo una funzione matematica, ridando attualitàall’ipotesi di Newton, che aveva sostenuto che la luce aveva una natura corpuscolare.

La teoria fotonica della luce di Einstein apre un conflitto nella comunità scientifica, chefino alla scoperta einsteiniana era convinta che la luce avesse invece una natura

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ondulatoria. Tale convinzione si basa sul famoso esperimento delle due fenditure effettuatoda Young all’inizio dell’800. Esso consta di 3 elementi:

1. una sorgente di luce (una semplice lampadina);2. una lamina opaca con due fenditure verticali, cioè due aperture rettangolari

perpendicolari rispetto alla base della lamina e tra loro parallele;3. una lastra fotografica, e quindi impressionabile dalla luce, posta dietro alla

lamina.Dopo aver acceso la luce la lastra fotografica mostra un disegno chiamato “figurad’interferenza”, cioè un’alternanza di strette strisce verticali nere (cioè non colpite edunque non impressionate dalla luce) e bianche (colpite e quindi impressionate dalla luce),che si sfumano verso i bordi della lastra che rimangono del tutto neri. Questo disegno erastato giudicato da Young la prova sperimentale della natura ondulatoria della luce. Infatti,le onde possono interagire tra loro amplificando o cancellando i loro effetti. P.e., quandodue onde marine per così dire si incastrano (ovvero quando i picchi dell’una collimano conquelli dell’altra e i ventri dell’una con quelli dell’altra) rafforzano l’innalzamento (picchi) ol’abbassamento (ventri) dell’acqua; quando invece, per così dire, si scontrano (ovveroquando i picchi dell’una toccano i ventri dell’altra e viceversa) attenuano o addiritturaannullano sia l’innalzamento sia l’abbassamento dell’acqua (che dunque rimane lisciacome se non ci fossero onde). Similmente, le onde luminose, dopo essere passate per le dueferitoie, in alcuni casi si incastrano in altri si scontrano, per cui alcune arrivano a toccare lalastra (impressionandoloa, cioè producendo le bande verticali bianche), altre si annullanoa vicenda (ed ecco perché delle bande rimangono nere: il fenomeno dell’interferenzaimpedisce che le onde luminose arrivino a impressionare la lastra fotografica nelle aree cherimangono appunto nere, cioè non impressionate).

Per comprendere appieno il significato dell’esperimento delle due fenditure, bisogna tenerpresente che se al posto della sorgente di luce ci fosse una mitragliatrice che sparasseproiettili all’impazzata nella direzione delle feritoie della lastra, sul muro retrostante(meglio non usare una lastra fotografica: non ce n’è bisogno per rilevare dove finiscono iproiettili e andrebbe subito in pezzi) si disegnerebbero due fasce rettangolari verticalisenza intonaco in corrispondenza delle feritoie della lastra. E’ intuitivo perché. Ma cosìdovrebbe risultare ancora più intuitivo capire perché il fatto che la luce, passando dalle dueferitoie, produca una “figura d’interferenza” (e non due sole bande bianche) confuta la tesiche essa abbia una natura corpuscolare: se fosse fatta di fotoni, la luce dovrebbe produrrelo stesso effetto dei proiettili della mitragliatrice.Dunque, l’esperimento dell’effetto fotoelettrico avvalora l’ipotesi che la luce siacorpuscolare, mentre l’esperimento delle due fenditure corrobora l’ipotesi che la luce abbianatura ondulatoria. In altre parole, ci sono due esperimenti contraddittori. Com’èpossibile? Naturalmente, gli scienziati si impegnano a risolvere il nuovo enigma, ripetendogli esperimenti e ideandone nuove varianti. Una di queste, però, fornisce un risultatoancora più stupefacente ed enigmatico. Si tratta di un esperimento identico a quello diYoung, tranne per un decisivo particolare: la sorgente luminosa emette un quanto dienergia luminosa, cioè un fotone, alla volta, con un intervallo di alcuni secondi tra l’uno el’altro. Dopo molto tempo, si controlla la lastra fotografica. Come risulta impressionata?Con la stessa figura d’interferenza che si era formata nella prima versione youngianadell’esperimento. Se prima era difficile pensare che molti fotoni costituissero un’onda,capace di attraversare entrambe le fenditure e poi interferire con altre onde formate daaltri fotoni; ora sembra impossibile credere che un solo fotone possa costituire un’ondacapace di passare per entrambe le fenditure e interagire con se stessa! D’altra parte qualealtra spiegazione si potrebbe dare? Il mistero si infittisce.

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C’è di più: chiudendo prima la fenditura di destra e “sparando” un fotone alla volta per uncerto tempo, poi chiudendo quella di sinistra e riaprendo quella di destra e sparando dinuovo un fotone alla volta per un certo tempo, sulla lastra non risulta la figurad’interferenza, ma due più grandi bande bianche verticali in corrispondenza dellefenditure. Insomma, in questo caso i fotoni si comportano come i proiettili dellamitragliatrice. La contraddizione è ancora più diretta e acuta. Com’è possibile che quandoentrambe le fenditure sono aperte – ovvero ci sono più possibilità di colpire la lastrafotografica – i fotoni non riescono a colpire parti della lastra che invece colpiscono quandoè aperta una sola fenditura, cioè quando le possibilità di colpire la lastra si restringono?Sarebbe come dire che fotoni che potevano passare per la fenditura sinistra, quando soloquesta era aperta, non riescono più a passarci quando è aperta anche l’altra!Come se non bastasse, lo scienziato francese De Broglie provò a ripetere i vari tipi diesperimenti delle due fenditure, utilizzando, invece della luce, degli sciami di elettroni. Perla fisica classica gli elettroni erano indubitabilmente delle particelle dotate di massa ariposo, e come tali ben distinti dalle onde elettromagnetiche (tra cui la luce) prive di massaa riposo. Ma De Broglie, sulla scorta degli esperimenti relativi alla luce, sospetta che cosìcome la luce, che sembrava un’onda, mostra di avere anche proprietà corpuscolari,simmetricamente l’elettrone, che sembrava una particella, possa manifestare proprietàondulatorie. I risultati sperimentali confermano la sua intuizione: gli elettroniimpressionano la lastra negli stessi modi dei fotoni, in particolare formano figured’interferenza quando entrambe le fenditure della lastra sono aperte. E’ un esito clamorosoche, da un lato, conferma l’equivalenza materia/energia, già teorizzata da Einstein(E=mc2), dall’altro, attesta la doppia natura di tutte le particelle elementari: fotoni,elettroni, protoni, neutrini che siano, tutti sono sia onde sia corpuscoli!

Il fisico danese Bohr si assume la responsabilità, e l’onore, di sancirlo ufficialmente,enunciando il “principio di complementarità”, secondo il quale tutte le particelleelementari, cioè tutti i costituenti primi della massa/energia, devono essere consideratiscientificamente sia onde sia corpuscoli, ovvero né onde né corpuscoli. Ma in tal modo lascienza non infrange il venerando principio di non-contraddizione? Per i fisici classici sì,ma per Bohr no perché egli stabilisce che la doppiezza delle particelle elementari ha unlimite: esse non mostrano e non possono mostrare entrambe le naturecontemporaneamente, cioè nell’ambito di uno stesso tipo di esperimento. Questo vincoloper Bohr è sufficiente a salvaguardare la scienza dalla sovversione della logica elementare,presupposto di qualsiasi discorso razionale, senza d’altra parte impedirle di spiegare larealtà.Quasi contemporaneamente, il fisico tedesco Heisenberg enuncia un secondo principiofondamentale della teoria quantistica, destinato a diventare ancora più celebre: il“principio di indeterminazione”, secondo il quale non è possibile determinare allo stessotempo sia la posizione sia la velocità di una particella elementare. Più precisamente,Heisenberg stabilisce che la precisione della misurazione della velocità di una particella èinversamente proporzionale alla precisione della misurazione della sua posizione, per cuiquanto più si misura precisamente la velocità tanto più rimane indeterminata la posizionee quanto più si misura precisamente la posizione tanto più rimane indeterminata lavelocità. Come mai? A causa dell’effetto di disturbo prodotto dall’osservazione. Laperturbazione dell’osservazione conoscitiva sull’oggetto conosciuto era nota anche ai fisiciclassici che, di conseguenza, avevano introdotto nel protocollo dei propri esperimentimetodi e tecniche per renderla praticamente nulla. Un esempio analogico: io posso“osservare” la posizione di una pallina da baseball in volo colpendola con una mazza edeviandola, oppure sfiorandola con la guancia e quindi non interferendo con il suo moto.Ma la seconda modalità nel mondo microscopico dei “quanti” non è possibile. Perché? In

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prima approssimazione, Heisenberg risponde che le osservazioni delle particelleelementari si basano sulla luce, la cui energia non può essere ridotta a meno di un quanto,cioè di un fotone. Ma un fotone è sufficiente a perturbare un elettrone o un protoneosservati. Più precisamente: l’energia di un fotone è direttamente proporzionale allafrequenza della sua onda e quindi inversamente proporzionale alla lunghezza della suaonda. Per localizzare una particella elementare, più l’onda è lunga, meno precisa è lalocalizzazione (immaginate di voler localizzare un oggetto normale, p.e. un quaderno, suun pavimento, utilizzando una rete: più le sue maglie sono larghe più la localizzazione èvaga; più sono strette, ovviamente mai più piccole del quaderno, più la localizzazione èprecisa). Dunque per localizzarla precisamente occorrerebbero onde luminose corte. Ma aqueste corrisponde una grande frequenza, dunque una grande energia, quindi una forteperturbazione del moto della particella (più o meno come l’effetto della mazza da baseballsulla pallina) che impedisce di misurarne con precisione la velocità. E viceversa.

Per capire l’effetto dirompente del principio di indeterminazione, bisogna ricordare che,nella fisica classica, velocità e posizione di un corpo sono i due elementi necessari esufficienti per prevederne il comportamento futuro e passato. All’inizio dell’800 Laplaceaveva di fatto enunciato il “principio di determinazione” della fisica classica, affermandoappunto che se fosse possibile conoscere velocità e posizione di tutti i corpi dell’universo inun solo istante, sarebbe possibile ricostruire tutto il passato e prevedere tutto il futurodell’universo stesso. Ora il determinismo laplaciano, condiviso da quasi tutta la comunitàscientifica ottocentesca, crolla: poiché non è mai possibile conoscere al contempo velocità eposizione anche di una sola particella elementare, è per principio impossibiledeterminarne il comportamento, tanto quello passato quanto quello futuro.Per un altro aspetto, il principio di indeterminazione fornisce quantomeno uninquadramento teorico alla anomalia del comportamento di fotoni ed elettroni messo inluce (è proprio il caso di dirlo) dagli esperimenti delle due fenditure, in particolare quelli incui fotoni ed elettroni sono centellinati, cioè emessi uno alla volta. Come può uno stessofotone passare per entrambe le fenditure? Ovvero, come può un elettrone che passa per lafenditura A quando quella B è chiusa, non passarvi più quando anche B è aperta? Unaprima risposta è che il suo comportamento è indeterminato e indeterminabile. Manaturalmente la scienza non può rinunciare alla spiegazione e alla previsione, a meno dirinnegare se stessa. Pertanto i fisici quantistici rinunciano sì al determinismo, ma non allaricerca di metodi capaci di poter spiegare e prevedere almeno parzialmente icomportamenti quantistici. Così, ulteriori studi e ricerche, permettono loro di mettere apunto due metodi efficaci:

un metodo probabilistico basato sul concetto di “ampiezza d’onda” (e la relativaformula matematica detta “funzione d’onda”), dovuto soprattutto ai fisiciSchrödinger, austriaco, e Born, inglese di origine tedesca;

un metodo statistico basato sul concetto di “somma dei cammini” (e la relativaformula detta “integrale di Feynman) dovuto al fisico statunitense Feynman.

Quanto al primo metodo, ricordato che l’ampiezza di un onda è la sua altezza (nelle ondesonore maggiore è l’ampiezza maggiore è il volume del suono), esso si basa sull’assunto,sperimentalmente testato, che la probabilità di trovare una particella in un certo puntodella sua onda è direttamente proporzionale all’ampiezza. Immaginiamo un pianoondulato con delle colline più o meno alte: la probabilità maggiore è che una particellaelementare si trovi sul colle più alto. Poniamo che un colle/ampiezza sia il doppio di unaltro. Allora ci sarà il doppio di probabilità di trovare la particella sul primo rispetto che sulsecondo. Ciò significa che, considerando i moti di più particelle, mediamente ogni duevolte che una particella si localizza sul colle/ampiezza più alto, una volta si localizza su

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quello alto la metà. Insomma, secondo Schrödinger e Born, il comportamento quantisticopoteva essere spiegato e previsto in base al calcolo probabilistico, che era già statosviluppato e usato dalla fisica classica per prevedere i moti delle molecole dei gas. L’enigmadell’esperimento delle due fenditure, in tal senso, era almeno parzialmente risoltopensando che ogni fotone/elettrone ha una certa probabilità di passare dalla fenditura Ama anche una certa probabilità di passare dalla fenditura B e che quindi queste due“funzioni d’onda” (o “onde di probabilità) interferiscono tra loro.Feynman è decisamente più radicale. Secondo lui bisogna assumere non solo che unaparticella passi contemporaneamente per entrambe le fenditure ma anche che percorratutte le traiettorie possibili dalla sorgente alla lastra, ovvero che passi sia solo da unafenditura, sia solo dall’altra, o ancora che vi passi dopo aver zigzagato tra la lamina e lalastra, per non dire dopo aver girato intorno alla Luna, ecc. insomma, sarebbe come direche, prima di decidere quale percorso fare, una particella li prova tutti e poi ne sceglie unoe lo percorre. (Chiaro no? No? Allora avete capito!) Il metodo messo a punto da Feynmanper prevedere il percorso effettivo della particella consiste nell’assegnare un numero a tuttii percorsi “annusati” (i “cammini”) e poi farne la media: il percorso di volta in voltarisultante da questa particolare “somma dei cammini” è quello buono. (Insomma: è ilpercorso, non un percorso. Chiaro? No? C.s.!) I risultati matematici del metodo dellasomma dei cammini coincidono perfettamente con quelli della funzione d’onda. Ossia: unanuova dualità complementare, due interpretazioni fisiche degli eventi sperimentali peròdel tutto convergenti negli esiti matematici e pertanto entrambe scientificamente valide.

Non è ancora tutto. Sulla base dei risultati teorici e matematici conseguiti, i fisiciquantistici proseguono la loro ricerca con nuovi e sempre più raffinati esperimenti che liconvincono definitamente di quattro proprietà, tanto fondamentali quanto “assurde”, delleparticelle elementari:

la “sovrapposizione di stati”, cioè il fenomeno già evidenziatosi nei primiesperimenti delle due fenditure, della compresenza simultanea di una particella inpiù luoghi;

l’ “effetto tunnel”, per il quale una particella possiede un certo grado di probabilitàdi attraversare regioni spaziali che le sarebbero precluse (p.e. esempio per lapresenza di una forza repulsiva), che sarebbe come dire – ma è solo un esempioanalogico – che noi avremmo una buona probabilità di passare attraverso un muro(se fossimo una particella elementare, ma essendo invece un aggregato di miriadi diparticelle, la nostra probabilità effettiva di attraversare un muro si approssima allozero, in modo tale che dovremmo aspettare molto più di 15 miliardi di anni, l’etàstimata dell’universo, perché possa davvero accaderci: dunque, armiamoci di santapazienza!);

la “fluttuazione” energetica: tutte le particelle si redistribuiscono continuamentel’energia complessiva dell’universo, in modo tale che ognuna può sempre, per cosìdire, prenderne in prestito una quota per incrementare la propria energia, all’unicacondizione di restituirla tanto più rapidamente quanto maggiore è il prestitoottenuto, in modo tale da poter superare un ostacolo (immaginiamo analogicamenteun dosso) che altrimenti non sarebbero state in grado di superare (un casoparticolare di “effetto tunnel”) o addirittura in modo tale da generarsi dal vuoto,ovvero dal nulla (apparente, perché per la fisica quantistica, tutto lo spazio èpervaso di energia), come nel caso delle cosiddette “particelle virtuali”, p.e. unelettrone e un positrone (l’antiparticella dell’elettrone) che appaionoimprovvisamente in uno spazio apparentemente vuoto, ma solo per poche frazionidi frazioni di secondo, perché subito si annichiliscono a vicenda, avendo caricaopposta;

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l’ “entanglement” (intreccio, correlazione), consistente nel fatto che due particellepossono scambiarsi informazioni in modo istantaneo anche a distanza di milioni dianni luce, in modo tale che, p.e., se una muta il suo spin (il verso di rotazione sulproprio asse) immediatamente lo muta anche l’altra.

Questi “effetti speciali” delle particelle elementari danno luogo – e come sarebbe potutoessere altrimenti? – a numerose interpretazioni filosofiche, le più significative delle qualisono:

quella di Einstein e di altri fisici: la teoria dei quanti è una teoria incompleta, inquanto non è riuscita ancora a scoprire delle “variabili nascoste”, grazie allaconoscenza e al calcolo delle quali i comportamenti quantistici perderebbero tutte leloro stranezze e sarebbero spiegabili in modo del tutto coerente con la teoria dellarelatività (Einstein pro domo sua?);

quella “mentalistica”: la natura in sé è caos, ma l’osservazione conoscitiva dell’uomole impone un ordine, ovvero le particelle sanno di essere osservate – e calcolate – eallora e solo allora, in relazione alla mente umana, si comportano regolarmente (p.e.si manifestano in un luogo ben preciso, rinunciando alla loro ubiquità, almenotemporaneamente);

quella “degli universi paralleli”: non esiste un solo universo infinito, esistono infinitiuniversi infiniti e paralleli, che però in qualche modo sono in relazione tra lorocosicché una stessa particella in un universo è in un luogo, in un altro in un altroluogo, ecc. Tutte le sue infinite dislocazioni negli infiniti universi sono però collegatetra loro e questo spiega perché, p.e., una particella può sembrarcicontemporaneamente in più luoghi.

Al di là delle interpretazioni filosofiche, la teoria quantistica ottiene conferme sperimentalie perfezionamenti teorico-matematici per tutto il ‘900, sicché è indubbio che la rivoluzionescientifica moderna ha riproposto un nuovo dualismo nell’ambito della fisica: quello tra lateoria della relatività e la teoria dei quanti, ossia tra la fisica dei corpi macroscopici e dellemassime grandezze e la fisica dei corpi microscopici e delle grandezze minime. Le dueteorie, infatti, non sono compatibili almeno per due aspetti:

a) lo spaziotempo per la teoria relativistica è continuo, per la teoria quantisticaè discreto, ossia discontinuo;

b) per la teoria relativistica l’informazione non può trasmettersi a velocitàsuperiori a quella della luce, mentre per la teoria quantistica può trasmettersiistantaneamente, cioè a velocità infinita.

Naturalmente la ricerca scientifica attuale ha come obiettivo fondamentale l’unificazionedelle due teorie. Negli ultimi anni l’obiettivo è stato avvicinato ma non ancora raggiunto.

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VIAGGIO IIILA FILOSOFIA DELLA SCIENZA POST-RIVOLUZIONARIA

Canocchiale su…L’orizzonte storico-culturale 1914-1945

La II guerra dei Trent’anniAlcuni storici hanno denominato il periodo 1914-1945 “la II guerra dei Trent’anni”,volendo così sottolineare che il suo fondamentale carattere bellico. E’ certamente fuor didubbio che questo trentennio è aperto e chiuso dalle 2 più cruente guerre della storiamondiale, che insieme occupano un terzo della sua durata, e che i restanti 20 anni centralisono connotati prima dagli effetti dell’una e poi dalle premesse dell’altra. In questo sensonon è forzato concepire le due guerre mondiali come il primo e il secondo tempo diun’unica guerra di cui il periodo intermedio rappresentò un lungo armistizio, o una pacearmata, se non addirittura una guerra “fredda”, cioè una guerra strisciante, non ancoradichiarata e combattuta apertamente.Questa interpretazione appare ancor più convincente se consideriamo che lo spartiacquedell’intero periodo è costituito dalla grande crisi economica mondiale del 1929 che ebbe lafunzione di trait d’union tra le due guerre “calde” non solo perché fu una delle conseguenzestrutturali della prima e una delle cause determinanti della seconda, ma anche perchéinnescò una nuova fase di guerra economica, di proseguimento della I guerra mondiale conmezzi economici e politici e spinse a cercare una sua soluzione nella guerra aperta, la IIguerra mondiale, che in questo senso non è altro che il proseguimento della guerraeconomico-politica con mezzi militari.Ma ancora più chiaramente la tesi della “II guerra dei Trent’anni” trova conferma nellenumerose e devastanti guerre civili che insanguinano l’Europa nel ventennio 1916-1939: laguerra civile russa, conseguente alla rivoluzione del 1917, e le guerre civili italiana, tedescae spagnola (solo per citare le maggiori), premesse dell’instaurazione dei regimi dittatorialifascista, nazista e franchista. Da queste guerre civili, inoltre, prende avvio la costruzionedei totalitarismi in Unione sovietica, Italia e Germania, i quali con la loro violenza legalesistematica e generalizzata, e in particolare con il ricorso al metodo dello sterminio deglioppositori, reali o immaginari, rappresentano il suggello del carattere bellico del periodo.Non a torto, anche se facendone un indebito uso insieme assolutizzante e assolutorio,alcuni storici hanno interpretato il periodo considerato come caratterizzato essenzialmenteda una “guerra civile europea”, che si combatté al tempo stesso tra Stati nemici e,all’interno degli Stati, tra fazioni politiche di diverso orientamento ideologico (liberal-democratico, nazifascisma, comunista).

La genesi del Novecento come “secolo del Male”Quest’interpretazione è tanto più significativa in quanto gli eventi storici compresi nelperiodo 1914-1945 sono quelli che hanno dato la loro impronta all’intero Novecento,inteso come “secolo del Male”, ovvero come il secolo in cui l’umanità ha compiuto e alcontempo ha subito i crimini peggiori e più vasti, più generalizzati, contro i dirittidell’uomo. Basti pensare che gli storici hanno stimato in 187 milioni gli individui uccisidirettamente o indirettamente a causa della violenza di altri uomini. Di questi circa 36milioni sono vittime di guerre classiche, le restanti 150 di repressioni, deportazioni,stermini, genocidi, guerre civili, dovute all’azione repressiva degli Stati e all’azione militaredi movimenti sovversivi.Dopo la fine della Grande guerra, i diversi moventi della quasi totalità di questi morti sonoriconducibili al conflitto mondiale a 3 tra Stati democratico-capitalistici occidentali (USA,GB, F), totalitarismo nazifascista e totalitarismo comunista, un conflitto che imperversò

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nel mondo fino al crollo dell’URSS nel 1991. Se, in una prima fase, ovvero nella II guerramondiale, l’alleanza tattica tra stati democratico-capitalistici e totalitarismo comunistaconsentì l’annientamento del totalitarismo nazi-fascista, in una seconda fase, ovverodurante la cosiddetta guerra fredda (1947-1989), si scontrarono Stati democratico-capitalistici e totalitarismo comunista. In entrambi i casi la continuità storica con la Iguerra mondiale e con il primo dopoguerra appare evidente.

I fattori politici internazionali della I guerra mondialeSe il Novecento si caratterizza come il secolo del Male e se la “II guerra dei Trent’anni” nefu il periodo costitutivo, la I guerra mondiale ne rappresentò sicuramente la genesi. Inquesto senso la questione delle cause dello scoppio della Grande guerra acquista un rilievodecisivo.L’innesco della guerra mondiale fu il risultato di una convergenza sincronica di molteplicifattori politici, sociali e culturali.A livello politico internazionale, nella cosiddetta belle époque - il quarantennio di paceeuropea precedente il 1914 -, si erano vieppiù inaspriti i conflitti bilaterali tra Francia eGermania per l’Alsazia-Lorena, Austria e Italia per il Trentino e Trieste, Austria e Russiaper l’egemonia sui Balcani, e soprattutto Inghilterra e Germania per l’egemoniacontinentale. Tali conflitti in un primo momento avevano trovato nell’espansione colonialedi tipo imperialistico una camera di compensazione e insieme una valvola di sfogo. Maprogressivamente l’imperialismo si trasformò in fattore catalizzatore della guerra. Essoinfatti permise da un lato ai vertici militari dei diversi paesi di acquisire un maggiore pesopolitico e di sperimentare nuove tecniche belliche e repressive. Paradigmatici in questosenso l’invenzione inglese dei campi di concentramento, usata per vincere la resistenza deiBoeri in Sudafrica, e il genocidio della popolazione africana degli Herero da parte deitedeschi. Da un altro lato, l’imperialismo favorì l’accumulo di ulteriori motivi di tensionetra le potenze europee. Esso raggiunse il culmine quando si esaurirono i territori adisposizione per la colonizzazione e la Germania capì definitivamente di aver perso la garaper la loro conquista.Il fattore internazionale decisivo per lo scoppio della guerra fu però il conflitto economico epolitico-militare tra Inghilterra e Germania. Esso infatti spinse l’Inghilterra a uscire dalsuo “splendido isolamento”, ad abbandonare il suo ruolo di arbiter super partes dellecontroversie internazionali e a scendere nell’arena europea. In questo modo il conflittoInghilterra-Germania si trasformò da bilaterale in multilaterale, in quanto le due massimepotenze europee divennero i centri di coagulo di due sistemi di alleanze contrapposte – laTriplice Alleanza (Germania, Austria, Italia) e la Triplice Intesa (Inghilterra, Francia,Russia). Dopo l’attentato di Sarajevo, fu questa polarizzazione in blocchi antagonisti chefece degenerare la guerra locale tra Austria, da una parte, e Serbia e Russia, dall’altra, inuna guerra globale.

I fattori politici interni della I guerra mondialeQuesta dinamica politica internazionale si intrecciò strettamente con le dinamichepolitiche e sociali interne dei diversi Paesi. Sul piano politico, la formazione della società dimassa e la politicizzazione delle masse operaie e contadine provocarono la crisi della formaclassica dello Stato liberale a causa del divario crescente tra le capacità politiche delle classidirigenti tradizionali e la nuova situazione sociale e politica sempre più complessa esempre più polarizzata.La centralità e il potere dei politici liberali erano minacciati, da un lato dalla sempre piùampia diffusione dei nuovi movimenti nazionalistici di ideologia razzistica e reazionaria, edall’altro dalla formidabile crescita dei partiti socialisti e più in generale del movimentooperaio. La prima minaccia spingeva le élite politiche tradizionali ad assumere posizioni

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più nazionalistiche, e quindi bellicistiche, onde evitare la perdita di consenso da partedell’opinione pubblica piccolo borghese a causa della sempre più incisiva e capillarepropaganda nazionalistica a favore della guerra imperialistica; la minaccia socialista,considerata di gran lunga più pericolosa per il suo potenziale rivoluzionario, le induceva avedere nella guerra uno strumento utile per deviare la lotta di classe e per bloccarel’avanzata operaia. In modo speculare, le frange più radicali dei partiti socialisti europei, icosiddetti sindacalisti rivoluzionari e gli anarchici, erano favorevoli allo scoppio dellaguerra perché credevano, in base agli esempi storici della Comune di Parigi e dellarivoluzione russa del 1905, che essa potesse innescare una rivoluzione.Questa situazione politica affondava le sue radici in un contesto sociale nel quale i livelli diaggressività individuale e di violenza diffusa si erano impennati a causa dell’intreccio didiversi processi. Da una parte la lunga e potente crescita economica a cavallo del secoloaveva provocato un forte aumento delle aspettative di crescita del reddito e di ascesasociale, cui fece seguito, se non una diminuzione, quanto meno una stasi delle opportunitàreali di miglioramento a causa di una nuova fase di stagnazione economica cominciata sulfinire del primo decennio del ‘900. D’altra parte la II rivoluzione industriale, coi suoiprocessi di ristrutturazione, concentrazione e urbanizzazione, aveva prodottosconvolgimenti sociali di portata biblica innescando nuovi fenomeni di declassamento,impoverimento e marginalizzazione. A ciò si aggiunsero la sempre più aspra concorrenzaeconomica scatenata dal capitalismo monopolistico e protezionistico, e la sempre più acutatensione internazionale non solo tra gli Stati ma anche tra i popoli europei. La convergenzasincronica di questi tre processi si tradusse nella diffusione di sentimenti di deprivazionerelativa, di precarietà e di incombente minaccia, ovvero in uno stato psicologicogeneralizzato di frustrazione e depressione. Tale condizione psicologica costituì il terrenodi coltura delle idee e delle pratiche violente che incanalarono e sfogarono frustrazione edepressione in aggressività contro individui e gruppi catalogati come “nemici”. Il piùevidente e inquietante campanello d’allarme dell’esito politico violento di questa situazionepsicologica di massa fu la recrudescenza dell’antisemitismo in tutti i paesi europei.

I fattori culturali e filosofici della I guerra mondialePoiché però l’agire umano è sempre mediato ideologicamente, non si può comprendere laderiva verso la guerra senza considerare la situazione culturale europea. Da questo puntodi vista, due appaiono le tendenze culturali più rilevanti.La prima è quella del pensiero razionalistico ottocentesco: idealismo, positivismo emarxismo, pur in modi diversi e anche antitetici, convergevano nel sostenere e diffondereuna fiducia pressoché assoluta nel capacità prometeiche dell’umanità, nella inesorabilitàdel progresso nonché nella necessità del ricorso, ancorché parziale e controllato, allaviolenza. Tali tradizioni di pensiero, che contribuirono a formare una coscienza collettivaportata a sottovalutarre i limiti e gli errori dell’uomo, caratterizzavano soprattutto legenerazioni mature e le leadership politiche sia della destra sia della sinistra.La seconda tendenza, che si afferma alla fine dell’800, è quella del pensiero vitalistico, chedemolì il primato della razionalità classica in nome del primato della pulsionalità naturalee dell’attività creatrice soggettiva. Questo filone, più eterogeneo del primo, ebbe i suoicapostipiti nella teoria della volontà di potenza e del superuomo di Nietzsche, e nella teoriadell’inconscio di Freud, ma comprese anche lo storicismo tedesco, in particolare Simmelcon il suo dualismo vita/forme oggettive, l’evoluzionismo idealistico di Bergson, la filosofiaspiritualistica dell’azione di Blondel, e soprattutto il neomarxismo di Sorel, che esaltava lacreazione di miti funzionali alla rivoluzione e l’uso della violenza non tanto come“ostetrica” (Marx) ma come “madre” della storia. Il pensiero vitalistico esasperò la visioneprometeica dell’uomo, svincolandola anche dai limiti parziali postile dal pensierorazionalistico ottocentesco, cioè dai criteri della razionalità conoscitiva, dall’istanza morale

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dell’universalità, dal senso politico della gradualità. Esso trovò oltretutto una fortecorrispondenza e un formidabile veicolo di diffusione nelle nuove correnti letterarie eartistiche, ovvero nel decadentismo – basti pensare a Pascoli, D’Annunzio, Pirandello – esoprattutto nel futurismo di Martinetti, idolatra della violenza e propagandista della guerracome “sola igiene del mondo”. Attraverso la decisiva mediazione di questi movimentiartistico-letterari, la filosofia vitalistica alimentò culturalmente le nuove generazioni e inuovi movimenti politici di estrema destra e di estrema sinistra, ovvero i partitinazionalisti, le correnti massimalistico-rivoluzionarie dei partiti socialisti, i sindacalistirivoluzionari, gli anarchici.E’ chiaro che entrambi questi filoni filosofici – seppur in forme e in gradi diversi –colludevano con le dinamiche politiche e sociali in quanto, lungi dallo smorzare e arginarela crescita delle aspettative e della disponibilità alla violenza, la legittimavano e lafomentavano. Una riprova di ciò si ebbe in quello che l’intellettuale francese Benda chiamòil “tradimento dei chierici”, cioè nell’arruolamento da parte di ogni stato belligerante deipropri scrittori, artisti, filosofi e uomini di cultura non solo per sostenere la causadell’intervento nella guerra ma anche e soprattutto per condurre la fondamentale lottapropagandistica contro i popoli e gli stati nemici. I casi più clamorosi furono quelli diBergson in Francia, di Mann in Germania, di D’Annunzio in Italia.

Lo svolgimento e la conclusione della prima guerra mondialeIl primo scacco dell’erronea coscienza collettiva in base alla quale la civiltà europea si gettònella guerra fu rappresentato dal fallimento quasi immediato di tutte le previsioni sul suodecorso. Mentre infatti la quasi totalità delle classi dirigenti politiche e militari siaspettavano una guerra breve basata su poche grandi battaglie risolutive, nel giro di pochimesi la forbice tra le nuove armi, segnatamente la mitragliatrice, e le antiquate strategiemilitari trasformò la guerra di movimento in una guerra di posizione basata sulle trincee esoprattutto in una guerra di logoramento, ovvero di scontro e distruzione di enormi risorseumane, tecnologiche ed economiche.La Grande guerra così si tradusse ben presto in un drastico peggioramento delle condizionidi vita non solo e tanto dei soldati in trincea quanto anche delle popolazioni civili, e diconseguenza in un fattore di radicale destabilizzazione interna di tutti gli Stati coinvolti,che si manifestò in ammutinamenti militari al fronte e rivolte operaie e contadine in patria.Il caso più estremo e clamoroso fu in questo senso quello della rivoluzione russa che,partita come rivoluzione liberal-democratica si trasformò in pochi mesi, sotto la guida diLenin e del partito bolscevico, nella prima rivoluzione socialista vittoriosa. Da essanacquero l’URSS, il primo Stato socialista basato sulla dittatura del proletariato, e la IIIinternazionale comunista che promosse la nascita di partiti comunisti in Europa e in tutti ipaesi del mondo sulla base della dottrina marxista-leninista e della subordinazione agliinteressi dell’Unione sovietica.In questo modo, la prima guerra mondiale non solo produsse un nuovo evento catastroficodi massa – una cruentissima guerra civile con milioni di morti – ma favorì la genesi delprimo regime totalitario della storia e con esso di un nuovo, potentissimo fattore diviolenza, dovuto sia alla contrapposizione frontale tra Stati comunisti e Stati non comunistisia all’azione rivoluzionaria dei partiti comunisti all’interno degli stati non comunisti.Al netto dei morti della guerra civile russa, il bilancio umano del I conflitto mondiale fu di8,5 milioni di morti e 20 milioni di feriti su 62 milioni di soldati coinvolti. Nell’ambito diquesto massacro, si consumò ad opera dei turchi un nuovo genocidio, preludio di quelli piùvasti e atroci della seconda guerra mondiale: quello della popolazione armena, le cui stimevariano da 1 a 2 milioni di vittime. Alle perdite umane si aggiunsero naturalmente ledisastrose perdite economiche.

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Polarizzazione e destabilizzazione dei paesi europei nel primo dopoguerraUna volta terminata, l’enorme distruttività della Grande guerra ebbe un lungo e pesantestrascico negli enormi problemi economici di ricostruzione e riconversione produttiva, didisoccupazione, di inflazione selvaggia e falcidie dei risparmi. Inoltre essa lasciò in ereditàl’abnorme potenziamento dell’intervento e del controllo dello Stato sull’economia e sullasocietà che stravolse in modo irreversibile le basi dell’economia liberista e del sistemapolitico liberale classici.Ma soprattutto il primo dopoguerra fu caratterizzato da una nuova impennata delleaspettative e delle rivendicazioni sociali: nei paesi usciti vincitori, anche in seguito allepromesse di ricompense, per esempio in terre, fatte dalle autorità nel corso del conflittomilioni di soldati tornati dal fronte, provati da anni di una vita misera e precaria,pretendevano come ricompensa un netto miglioramento della loro condizione economico-sociale; nei paesi vinti, la perdita di credibilità e la caduta dei precedenti regimi politiciincentivarono la nascita e i tentativi di eversione politica di nuovi movimenti estremisti siadi destra (fascismo, nazismo) sia di sinistra (partiti comunisti, gruppi anarchici). Se in unaprima fase, non a caso chiamata “biennio rosso”, l’iniziativa politica eversiva sembrò esserein mano alla sinistra socialista, comunista e anarchica ben presto tutti i tentativirivoluzionari fallirono e l’iniziativa fu assunta dalla destra reazionaria, soprattutto in Italia,dove il movimento fascista di Mussolini, dopo aver condotto una guerra civile contro ipartiti e i sindacati della sinistra, prima riuscì ad andare al governo e poi impose unregime dittatoriale. Negli stessi anni o poco dopo, altri regimi autoritari filofascisti preseroil potere con le armi in Ungheria, Polonia, Bulgaria, Spagna, e in generale movimenti distampo fascista sorsero e tentarono la conquista del potere con la violenza in tutti i Paesieuropei, perfino nell’avanzata Inghilterra, patria storica del liberalismo.

La fine dell’eurocentrismo e l’assenza di un equilibrio internazionaleSe, a livello delle situazioni politiche interne, la Grande guerra ebbe una continuità nelleguerre civili aperte o striscianti che insanguinarono i paesi europei negli anni 20, essa nonsi può considerare del tutto conclusa nemmeno sul piano dei rapporti internazionali fra gliStati. A questo livello, va innanzitutto chiarito che la I guerra mondiale segnò la fine nonsolo dell’egemonia mondiale inglese ma anche della centralità politica dell’Europa nelmondo. Specularmente, l’intervento degli USA nel 1918 e lo sbarco dell’esercito americanoin Europa segnarono l’inizio della egemonia mondiale statunitense cui si abbinò l’avvio,seppur timido, del processo di decolonizzazione mondiale dovuto soprattutto alla crescitadei movimenti indipendentistici nazionali nei paesi coloniali, ma anche al dissanguamentodelle potenze europee nella guerra e al sostegno internazionale statunitense in funzioneantieuropea. In questo senso si può senz’altro affermare che, ad eccezione degli USA, tuttigli Stati europei, non solo i vinti ma anche i formali vincitori, uscirono sconfitti dallaGrande guerra.Consapevole del ruolo centrale acquisito dal proprio paese, il presidente democraticoWilson impose il principio di nazionalità come criterio fondamentale per la definizionedella nuova carta geopolitica europea e promosse la costituzione della Società della nazionicome antidoto allo scoppio di nuovi conflitti. Ciò nonostante dal un lato la rigidità dellaFrancia lo costrinsero ad accettare la tesi della totale responsabilità tedesca nell’esplosionedella guerra e le conseguenti condizioni di pace vessatorie imposte alla Germania;dall’altro lato, il voto contrario del Congresso americano alla partecipazione degli USA allaSocietà delle nazioni gli impedì di affidare agli USA il ruolo di garante internazionale dellapace mondiale. Di conseguenza, mentre l’umiliazione politica e la spoliazione economicadella Germania producevano un nuovo forte potenziale di conflittualità proprio nel cuoredell’Europa, l’isolazionismo degli USA faceva sì che non ci fosse alcuna potenza in grado diesercitare un ruolo di arbitro internazionale e un’azione deterrente nei confronti della

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possibilità di nuove guerre. In questo modo i trattati di Parigi non si può dire propriofossero trattati di pace, in quanto non garantivano affatto l’equilibrio internazionaleeuropeo e mondiale e anzi erano fonte di nuovi fattori di forte squilibrio.

Lo sconvolgimento interno e internazionale della grande crisi del 1929Se la guerra non riespose già negli anni ‘20 lo si dovette da un lato alla necessità per tuttigli Stati di far fronte alla crisi sociale e politica interna, di riparare i danni prodotti dallaguerra e di ricostituire il proprio sistema economico e il proprio apparato militare;dall’altro alla ripresa economica internazionale che permise sia un aumento dei redditipopolari sia la disponibilità di capitali necessaria per la ricostruzione e il rilancio degliapparati produttivi. Tale ripresa però era in gran parte drogata dal naturalesovradimensionamento della domanda conseguente ai periodi di guerra e soprattutto dallaricchezza degli USA i quali non avevano subito danni al proprio apparato produttivo, sierano anzi arricchiti prestando ingenti capitali agli Stati dell’Intesa e ora erano nellemigliori condizioni concorrenziali per poter esportare i loro prodotti sui mercati europei.Ne conseguì un vero e proprio boom dell’economia americana che in una prima fase feceda volano anche alla ripresa delle economie europee e permise inoltre ai banchieriamericani di prestare capitali alla Germania sia per pagare l’ingente debito di guerra allaFrancia sia per rilanciare la sua economia. In questo modo nella seconda metà degli anni‘20 la situazione interna tedesca sembrava stabilizzarsi all’interno di un quadroistituzionale democratico, i mercati mondiali sembravano riaprirsi al libero scambio e irapporti internazionali europei avviarsi alla completa distensione. Invece, proprio a causadelle sue basi prevalentemente congiunturali, in un secondo momento il boomdell’economia americana si trasformò in un boomerang scatenando la più grave e vastacrisi della storia del capitalismo mondiale, la grande crisi del 1929. Infatti, una volta che leeconomie europee si riavviarono e che gli Stati europei riuscirono a ridimensionare i lorodebiti con gli USA, le esportazioni di prodotti statunitensi in Europa e l’afflusso degliinteressi europei negli USA diminuirono. Contemporaneamente il mercato internostatunitense raggiunse una provvisoria saturazione di beni di consumo durevoli (radio,frigo, auto). Si generò così una nuova crisi di sovrapproduzione i cui effetti furonoamplificati dalla vertiginosa speculazione azionaria al rialzo e dal conseguente catastroficocrollo della Borsa di Wall Street.

La costruzione degli Stati totalitari sovietico, fascista, nazista e nipponicoLa crisi, aggravata dalle politiche economiche rigidamente deflazionistiche adottate daigoverni di quasi tutti gli Stati, dilagò per tutto il mondo provocando il ritorno alprotezionismo e alla più aspra concorrenza economica fra aziende nazionali,l’inasprimento del totalitarismo sovietico, l’imbocco definitivo della via totalitaria da partedel fascismo, l’avvio del Giappone sulla strada del totalitarismo e dell’imperialismo piùaggressivo, la nascita del totalitarismo nazista e la conseguente rapida riacutizzazione delletensioni politiche internazionali. In questo modo i campi di concentramento furonosadicamente raffinati e moltiplicati, fino a trasformarsi in campi di sterminio, strumentiimplacabili di nuovi e più vasti genocidi quali quelli degli ebrei europei, dei kulak russi, deicoreani e dei cinesi.In particolare, la nuova destabilizzazione economica della Germania, a soli pochi anni didistanza dalla catastrofe economica dei primi anni ’20, fu il fattore propulsivo dellaconquista del potere da parte del Partito nazista di Hitler, che sotto il 3% prima del 1929,nel 1933 ottenne la maggioranza relativa dei voti e dei seggi e con essa il diritto diinsediarsi alla guida del governo. Con il possesso del potere legittimo, Hitler, seguendo leorme di Mussolini, ma molto più rapidamente di lui, impose la sua dittatura personale eriuscì a costruire in pochi anni il più spietato e meglio organizzato dei regimi totalitari.

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Contemporaneamente, diede avvio a una politica estera aggressiva che puntava asmantellare una dopo l’altra le restrizioni militari e territoriali imposte alla Germania daltrattato di pace e ad arrivare all’aggressione militare e alla guerra di espansione imperialein condizioni di forza. Banco di prova della nuova guerra mondiale e insieme preludio diessa, fu la Guerra civile spagnola che vide la partecipazione militare della Germania nazistae dell’Italia fascista a sostegno del generale reazionario Franco contro il governorepubblicano legittimo e i militanti della sinistra democratica, socialista, comunista eanarchica, aiutati unicamente dall’URSS. Vinta la guerra di Spagna e cementate le alleanzemilitari con l’Italia e il Giappone, Hitler si garantì con il patto Ribbentrop-Molotov laneutralità dell’URSS e invase la Polonia scatenando la seconda guerra mondiale.

La cultura tra le due guerre mondialiIn sintonia con la temperie storico-culturale di quegli anni, per la cultura occidentale ilperiodo tra le due guerre mondiali sia aprì nel segno di Il tramonto dell’Occidente(1918-22), opera del filosofo della storia tedesco Oswald Spengler, che annunciava laprossima fine della civiltà europea e l’aurora di una nuova civiltà russo-orientale.Tuttavia, la 'cultura della crisi' fra le due guerre mondiali segnò un periodo tra i piùfecondi e significativi della storia della civiltà occidentale, perché le esperienze dellaGrande guerra, della rivoluzione russa, dell’instaurazione dei totalitarismi e della derivaverso un secondo conflitto mondiale impressero un’ancor più radicale e innovativatensione tragica e autocritica alla produzione culturale, soprattutto in ambito artistico-letterario.La percezione del prossimo avvento di una crisi epocale - già espressasi daldecadentismo e dalle prime avanguardie artistiche a cavallo tra il XIX e il XX secolo - sitrasformò nella descrizione del suo accadimento e stigmatizzazione dei suoi effetticatastrofici, attraverso nuovi contenuti e nuovi linguaggi.Ciò avvenne innanzitutto nella produzione letteraria di romanzi, che come mai primaabbinò a un’incredibile profusione quantitativa un altissimo livello qualitativo. Proust inAlla ricerca del tempo perduto (1913-1927) narrò le contraddizioni e gli scacchidell’esistenza umana indicando nella rimemorazione artistica l’unica precaria possibilitàdi riscatto dall’insensatezza. Joyce in Ulisse (1922) trasforma l’avventura dell’eroe grecosimbolo dell’uomo occidentale nella peregrinazione urbana di un uomo qualunquetradito dalla moglie. Musil in L’uomo senza qualità (1930-33) fa del crollo dell’imperoasburgico una metafora della dissoluzione della civiltà occidentale, denuncial’impossibilità del superuomo di Nietzsche in un mondo privo di valori assoluti e offrecome unica via d’uscita la fuga regressiva nell’amore incestuoso tra fratello e sorella.Mann nella Montagna incantata (1924) per rappresentare il disfacimento del mondooccidentale utilizza invece la metafora di un sanatorio per malati terminali ditubercolosi. Pirandello in Uno, nessuno e centomila (1927) rappresenta lo sfarinamentodell’io, l’esplosione in una miriade di frammenti dell’identità individuale. Svevo in Lacoscienza di Zeno (1923) mostra, seppure in toni più ironici e leggeri, l’impotenzaumana a modificare la propria condizione. Ma fu soprattutto Kafka, forse la più lucida eradicale coscienza artistica della crisi, in La metamorfosi (1916), Il processo (1925) e Ilcastello (1926), a denunciare l’assurdità della condizione dell’uomo nei suoi protagonistitotalmente in balia di un destino o di un potere assolutamente superiore, schiacciante,irrazionale, nei confronti del quale l’unico atteggiamento possibile è quellodell’accettazione autoannichilatoria. I romanzi di questi scrittori, vere pietre miliaridella letteratura occidentale, sono accomunati dalla denuncia dell’insensatezza della vitae della irrimediabile finitudine e difettosità dell’uomo. L’eroe del romanzo ottocentescoe in generale della tradizione classica diventò un antieroe – un inetto, un escluso, un

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tradito, un fuggitivo, un perseguitato, un malato o addirittura un essere deforme, unmostro, mezzo uomo e mezzo insetto. Parallelamente avvenne una rivoluzione nellaforma: venne meno il narratore onnisciente, la continuità spazio-temporale vienedisarticolata, si impone lo stream of consciousness, il flusso di coscienza, cioè iltentativo di riprodurre la corrente spontanea dei pensieri usando un discorsoparatattico privo di punteggiatura e delle congiunzioni logiche tradizionali.La medesima visione dell’uomo e un’analoga rottura della forma classica si espressero,in modo non meno alto ed emblematico, nella produzione poetica, a cominciare da Laterra desolata (1922) di Thomas Eliot, profonda e vibrata denuncia della perdita delleradici culturali e civili dell’uomo occidentale, passando per L’allegria (1916-1931) diUngaretti, cantore della sofferenza e della precarietà della vita del soldato che si fa peròmetafora dell’intera vita umana, fino ad arrivare a Ossi di seppia (1925) e a Le occasioni(1939) di Montale, rappresentazione di un mondo inaridito e corroso attraverso duesimboli fondamentali: quello della petraia, che ne esprime appunto la desolazione e lasterilità, e quello del meriggio, del sole a picco, simbolo del suo disfacimento. In questasituazione al poeta non resta che il compito “negativo” di riconoscere la finitudinedell’uomo, di segnalare l’impossibilità di credere in una spiegazione assoluta del mondoe in una sua palingenesi, di testimoniare che il “male di vivere” è un dato costitutivo einsuperabile della condizione umana.. Più ancora che nei grandi romanzi, nella poesiadel primo ‘900 il senso della crisi non si manifesta solo e tanto nei contenuti quantosoprattutto nella forma: nella frammentazione spazio-temporale di Eliot, nello stile“ermetico” di Ungaretti, rapido ed essenziale, che utilizza il lessico quotidiano e unasintassi elementare, disgrega le forme metriche tradizionali ed enfatizza i vuoti e lepause, producendo un’accesa intensità ritmica, fonica ed emotiva; nella disgregazionedell’io lirico tradizionale della poesia classica e nella ricerca di una nuovainterpretazione simbolica della realtà attraverso l’uso di un sapiente impasto linguisticodi termini aulici e quotidiani.La crisi trovò una rappresentazione anche nelle opere teatrali di Luigi Pirandello,Bertold Brecht e Eugene O’Neill. Quest’ultimo, in particolare, in Il lutto si addice adElettra, intenzionale versione negativa dell’Orestea di Eschilo, trasfigurò la Grandeguerra nella guerra di secessione americana e rappresentò le vicende tragiche di unafamiglia puritana dell’alta borghesia americana minata dall’istinto di morte facendoneuna vivida metafora della natura nichilistica della civiltà occidentale e del suo prossimodisfacimento.Nel campo delle arti plastiche, da un lato le avanguardie del primo Novecento(espressionismo, futurismo, cubismo, astrattismo) svilupparono più radicalmente le loropoetiche, dall’altro emersero nuove e più estreme avanguardie come il dadaismo di ManRay, Picabia e Duchamp - che aveva come programma la totale distruzione della culturadel passato, attraverso la sua riduzione a nonsenso, paradosso, assurdo – e come ilsurrealismo di Ernst, Mirò, Dalì, che si rifaceva invece esplicitamente a Freud rifiutandoogni rappresentazione della realtà a favore del mondo dei sogni. Vecchie e nuoveavanguardie artistiche portarono a esiti ancora più sconvolgenti la rottura delle formefigurative tradizionali. Per esse infatti lo scopo della pittura non poteva più essere quello diimitare o anche trasfigurare la realtà esterna ma doveva essere quello di rappresentarel’universo interiore della psiche umana. Questa però non si configurava come unacoscienza razionale, esprimibile in forme chiare e distinte, bensì - freudianamente - comeun Es inconscio contenente forze misteriose e irrazionali. L’esigenza di cogliere eriprodurre tali forze rese necessari il rigetto di ogni forma di realismo e il ricorso allarappresentazione astratta o simbolica. In questo modo le avanguardie pittoriche portaronoalle estreme conseguenze la generale tendenza artistica a dissolvere il significato logico nel

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significante simbolico che fu l’altra faccia - quella formale - della crisi della razionalitàclassica e dei valori tradizionali della civiltà europea.La rivoluzione artistica operata dalle avanguardie pittoriche ebbe un impatto di massa digran lunga superiore al passato grazie alla sua influenza sulla nascente artecinematografica e alle già prodigiose capacità di diffusione del cinema. A parte i casi delregista francese dadaista Cocteau e di quello spagnolo surrealista Bunuel, che si avvalseanche della collaborazione diretta di Dalì, la cinematografia che con maggior rigore epotenza artistica rappresentò la crisi della cultura, sia a livello di contenuto che a quelloformale, fu quella espressionistica tedesca. Il suo film-manifesto fu Il gabinetto del dottorCaligaris (1919) di R. Wiene, le cui scenografie furono realizzate da tre pittoriespressionisti secondo i canoni del movimento e nel quale si riproponeva in chiave horroril tema pirandelliano della pluralità relativistica delle realtà. Ancora più significativi diquesta tendenza furono i film di Lange (Il dottor Mabuse, 1921; M-Il mostro diDuesseldorf, 1931) e Murnau (Nosferatu il vampiro, 1922), che, utilizzando anch’essisoggetti horror, espressero lo stato d’animo di apprensione e paura che caratterizzava lapopolazione europea, e in particolare la nazione tedesca, nel primo dopoguerra.Analogamente, in campo musicale l’esito artistico più rivoluzionario fu la dodecafonia diArnold Schoenberg, che creò una nuova sintassi della musica. Mentre nella musicatonale tradizionale l’armonia è data dall’assunzione di un suono unitario privilegiato, lamusica dodecafonica, o atonale, rinuncia a tale ordine per basare l’armonia sul rapportoparitetico fra tutti i 12 suoni componenti la scala musicale, con dirompenti effettiespressivi di dissonanza.Non meno numerosi e non meno sconvolgenti furono gli sviluppi che si ebbero neglistessi anni nell’ambito della ricerca scientifica.La teoria psicoanalitica di Sigmund Freud aveva raggiunto una configurazionesistematica prima della guerra. Ora Freud le impresse una svolta, fra l'altroriconoscendo nella psiche l'azione antitetica di due pulsioni fondamentali: Eros, oprincipio di vita, e Thanatos, o principio di morte. La svolta freudiana, che implicavauna visione decisamente più critica e pessimistica dell’uomo e della civiltà, ebbe vastericadute culturali, data l’enorme influenza esercitata, come si è visto, dalla teoriapsicoanalitica sulla produzione artistica.Nella fisica, scienza interessata in quei decenni da profondi rivolgimenti, si sviluppò larivoluzione scientifica cominciata con Planck (teoria dei quanti, 1900) ed Einstein(teoria della relatività ristretta, 1905). Nel 1915 Einstein rese nota la teoria dellarelatività generale, che completava il paradigma relativistico con una nuova versionedella gravitazione universale, basata sulla curvatura dello spazio indotta dalla presenzadelle masse planetarie e stellari. Nella fisica delle particelle si raggiunsero risultatiancora più sconvolgenti, con gli sviluppi della teoria quantistica che portarono a definireun quadro in contrasto con la teoria classica newtoniana e con la stessa relatività diEinstein. Infatti da un lato il principio di indeterminazione (1927) di Werner Heisenbergaffermò che la misurazione sperimentale di una particella ne altera necessariamente lecaratteristiche, e quindi le teorie fisiche non possono avere una dimostrazioneincontrovertibile; dall’altro il principio di complementarità (1927) di Niels Bohr stabilìche la materia può presentare una doppia natura, corpuscolare oppure ondulatoria, aseconda dei contesti in cui la si considera. L’esito più dirompente della nuovarivoluzione scientifica fu il dualismo di paradigmi che essa instaurò. Infatti la teoriaquantistica, valida per i fenomeni subatomici non risultava compatibile con la teoriadella relatività, valida per i fenomeni astrofisici, provocando una spaccatura della realtàfisica tanto più grave in quanto in linea di principio i fenomeni macrofisici dovrebberodipendere da quelli microfisici.

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A completare lo scardinamento della solida e rassicurante visione scientificaottocentesca, il matematico Goedel enunciò nel 1931 il teorema di incompletezza,secondo cui qualsiasi sistema assiomatico-deduttivo include una proposizioneindecidibile. Ciò significava che anche la conoscenza matematica è parziale in quantocontiene un limite strutturale invalicabile.Insomma letteratura, arti plastiche, cinema, scienze umane e scienze naturaliconvergevano, confermandosi e rafforzandosi reciprocamente, nella denuncia non solo enon tanto dei profondi e insuperabili limiti della ragione quanto soprattutto della suainferiorità rispetto alle componenti irrazionali della realtà naturale, sia a livello di psicheumana sia a livello di mondo fisico. La diffusa consapevolezza di questa inferioritàdissolse la concezione tradizionale dell’uomo come soggetto razionale capace dicontrollare, grazie alla conoscenza e alla morale, le forze naturali e di essere così arteficedel proprio destino. Ormai storicamente bruciata la possibilità di affidarsi a un Diotrascendente, la coscienza culturale della crisi epocale dell’uomo occidentale non potevache sfociare nella dilagante affermazione del nichilismo.

La filosofia tra le due guerre mondialiIn sintonia con la temperie storico-culturale di quegli anni, per la filosofia il periodo tra ledue guerre mondiali sia apre e si svolge nel segno di Il tramonto dell’Occidente (1918-22),opera del filosofo della storia Spengler, che annunciava la prossima fine della civiltàeuropea e l’aurora di una nuova civiltà russo-orientale. Nell’atmosfera apocalittica diffusadal successo del libro di Spengler, sorsero e si svilupparono 4 nuovi principali indirizzifilosofici: 1) l’esistenzialismo; 2) il neospiritualismo cristiano; 3) l’epistemologia(neopositivismo, pragmatismo, razionalismo critico); 4) il pensiero totalitario (attualismo eneomarxismo).L’esistenzialismo è sicuramente il filone filosofico in cui più direttamente e nettamente siespresse il clima storico-culturale d’interludio tra le due guerre mondiali. Esso non fu unascuola ma un orientamento comune declinato in modi assai diversificati. Come tale puòessere suddiviso in un esistenzialismo ontologico, proprio del primo Heidegger, quello diEssere e tempo (1927); in un esistenzialismo religioso ma aconfessionale, proprio diJaspers a partire da Filosofia (1932); in un esistenzialismo umanistico e ateo tipico diSartre (L’essere e il nulla, 1943). Il comune denominatore di questi filosofi fu la denunciadella finitezza, della colpevolezza e della nullità della condizione umana, in aperta e asprapolemica con il prometeismo delle filosofie ottocentesche e primonovecentesche.Anche il rinnovamento dello spiritualismo cristiano si manifestò in varie forme che inparte intersecano lo stesso esistenzialismo laico: il neotomismo, che ebbe il suo piùrilevante esponente in Maritain (Umanesimo integrale, 1936); il personalismo di Mounier(Esprit, 1932); la nuova teologia di Barth (L’epistola ai romani, 1919), sviluppata poi daBultmann (Fede e comprensione, 1933), che con il suo ritorno a Kierkegaard anticipò epreparò l’esistenzialismo, in particolare quello di Heidegger; infine l’esistenzialismocristiano, di cui furono esponenti di rilievo Marcel (Giornale metafisico, 1927; Essere eavere, 1935), e i pensatori russi Berdjaev (Lo spirito di Dostoevskij, 1932) e Sestov(Kierkegaard e la filosofia esistenziale, 1936). Pur con significative differenze, questipensatori sono accomunati dalla riproposizione del primato del Dio cristiano trascendente,dalla subordinazione dell’uomo a Dio, e dunque dalla sua drastica limitazione, e dallavalorizzazione della dimensione comunitaria dell’uomo in polemica con le filosofieindividualistiche.Molto diverso dai due precedenti, fu invece il nuovo filone epistemologico, ovveroinnanzitutto il neopositivismo (o empirismo logico) e l’affine pragmatismo americano. Ilpunto di avvio del neopositivismo fu la pubblicazione nel 1922 del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, ma ufficialmente il neopositivismo nacque nel 1924 con la

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costituzione del Circolo di Vienna, i cui principali esponenti furono Schlick (Sulfondamento della conoscenza, 1934), Carnap (coautore del manifesto della scuola: Laconcezione scientifica del mondo, 1929; La costruzione logica del mondo, 1928); Neurath(Sociologia empirica, 1931). Teorizzando il principio di verificabilità come unica normadella verità, i neopositivismi riaffermarono che le scienze sperimentali sono l’unico tipo diconoscenza veriteria e scomunicarono la filosofia metafisica, rigettando così in blocco tuttele tradizioni di pensiero dell’800 e del primo Novecento. Anche a causa della fuga inAmerica dei neopositivisti austro-tedeschi, a causa dell’avvento del Nazismo, ilneopositivismo si contaminò con il pragmatismo - la corrente filosofica americana già natanell’800 con James e Peirce - in particolare con lo sviluppo che ad esso impresse lostrumentalismo di Dewey (Ricostruzione filosofica, 1920). Laddove il neopositivismotendeva a privilegiare l’autonomia teoretica della scienza, il pragmatismo accentuava ilvalore veritativo dell’efficacia pratico-applicativa delle teorie. Dalla critica alneopositivismo, inoltre, prese spunto il razionalismo critico di Popper (La logica dellascoperta scientifica, 1934) che è a sua volta il punto di partenza della nuova filosofia dellascienza del secondo Novecento. Tutti questi indirizzi sono accomunati dalla valorizzazionedella ricerca scientifica e al contempo della liberal-democrazia, e non a caso finirono con ilcollocarsi tutti nel contesto socio-politico del mondo anglo-sassone. Pur avendo unaconcezione critica della ragione umana, essi si differenziarono dall’esistenzialismo e dallospiritualismo per la maggior fiducia nelle capacità umane e nella possibilità di un rilanciodella civiltà occidentale appunto grazie alla scienza e alla democrazia.Un quarto e ultimo gruppo di nuovi indirizzi filosofici è caratterizzato dalla comuneorganicità ai totalitarismi storici, sia a quello fascista sia a quello sovietico. E’ il caso, da unlato, dell’attualismo di Gentile (Teoria generale dello spirito, 1916) - una forma diidealismo che assolutizza la volontà e l’azione pratica e al contempo teorizza la totalerealizzazione dell’individuo nello stato etico - che diventò il principale e più dignitosoriferimento filosofico-culturale del fascismo. Dal lato opposto, invece, si sviluppò un nuovomarxismo, che ebbe il suo punto di partenza in Lenin (Imperialismo, fase suprema delcapitalismo, 1916), e proseguì con Lukacs (Storia e coscienza di classe, 1923), Korsch(Marxismo e filosofia, 1923), Gramsci (Quaderni del carcere, composti dal 1929 al 1935, epubblicati tra il 1948 e il 1951). Questo filone reinterpretò il marxismo in sensorivoluzionario valorizzando la volontà e l’azione del soggetto rivoluzionario e teorizzando laferrea guida del partito sulla classe operaia come condizione prima della rivoluzione. Daquesto punto di vista, pur nella diametrale antitesi, l’attualismo gentiliano e ilneomarxismo convergevano nell’affermazione del primato dell’azione e nell’indicare nellasovversione dello stato liberal-democratico e nella plasmazione dell’ “uomo nuovo” daparte dello Stato totalitario la risposta alla crisi della civiltà occidentale. Il pensierototalitario, dunque, riconobbe e assunse, come gli altri, il carattere epocale della crisieuropea, ma per interpretarlo e proporlo, a differenza degli altri indirizzi filosoficicontemporanei, come l’argomento più convincente a favore della necessità storica di unapalingenesi socio-politica. In questo senso, questo filone di pensiero tenne ferma e portòanzi a sviluppi ancora più estremi e devastanti il prometeismo della tradizione filosoficaottocentesca e primonovecentesca.

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ROTTA AIL NEOPOSITIVISMO

Negli ultimi anni dell’Ottocento, emerge, sia all’interno della comunità scientifica sia inambito filosofico, una tendenza a criticare e a superare l’immagine positivistica dellascienza. Tale tendenza si può denominare “convenzionalismo”, in quanto i suoiprotagonisti, benché in modi differenti e a volte perfino contrastanti, sono accomunatidalla tesi secondo cui la scienza è un linguaggio e, come tale, una convenzione, cioè unacostruzione umana la cui universalità è frutto di un accordo collettivo, sempre daaggiornare e perfezionare.In altre parole, i convenzionalisti rimettono in discussione la concezione fortedell’oggettività e della verità propria dei positivisti, secondo i quali, invece, la scienza eral’unica conoscenza vera in quanto riproduceva la realtà nella sua oggettività e come taleera univocamente e definitivamente universale. L’assioma su cui i positivisti avevanofondato questa concezione della scienza era quello dei “fatti”: la scienza certo è costituitada generalizzazioni induttive e da teorie universali, ma queste sono saldamente ancoratea dati empirici indipendenti da qualsiasi operazione mentale dello scienziato e quindiimmuni da deformazioni soggettivistiche.Questo assioma è confutato da tutti i convenzionalisti, per i quali, invece, non esistono“fatti”, cioè contenuti dell’esperienza del tutto indipendenti dal modo in cui lo scienziato lipercepisce e soprattutto li organizza. La scienza, infatti, non è una semplice riproduzionedella realtà, ma è un linguaggio che parla della realtà, cioè un ordinamento e unaconnessione dei dati dell’esperienza, e come tale include criteri e modalità propri dellasoggettività umana. Per esempio, secondo il fisico ceco Ernst Mach (1838-1916), lascienza non è conoscenza delle cose ma delle loro relazioni funzionali, ovvero è unordinamento “economico”, cioè sintetico ed efficace, dei fatti reali; per il matematicofrancese Jules-Henri Poincaré ( 1854-1912) ogni teoria scientifica, seppur in gradidiversi, incorpora una dose di creatività cui fonte esclusiva è la mente dello scienziato;per il filosofo francese Edouard Le Roy (1870-1954), la scienza è una ricostruzione“strumentale” dei fatti reali, cioè una produzione creativa degli scienziati finalizzata apermetterci di interagire con la realtà nel modo più efficace possibile dal punto di vistapratico-utilitaristico; per il fisico ed epistemologo francese Pierre Duhem (1861-1916),una teoria non può essere confermata, ovvero confutata, da un fatto sperimentale, inquanto lo svolgimento e l’interpretazione di ogni esperimento implica il riferimento a uninsieme vasto e variegato di altre teorie, il che comporta che non esiste un fattosperimentale puro, ma ogni fatto sperimentale è intriso di teoria.Al convenzionalismo reagiscono, nel periodo tra le due guerre mondiali, altri scienziati efilosofi della scienza, che, da un lato, riprendono la concezione della scienza deipositivisti, dall’altro, però, la rinnovano e la declinano in termini più rigorosi e sofisticati.Per questo sono classificati come “neopositivisti” o “positivisti logici” o ancora “empiristilogici”. Essi, pur accettando la tesi convenzionalistica del carattere linguistico dellascienza, e cioè della distinzione tra i fatti reali e i fatti scientifici, sono convinti di poterindividuare le condizioni semantiche e le regole sintattiche in base alle quali il linguaggioscientifico può pretendere alla rappresentazione oggettiva, e quindi universale enecessaria, della realtà fisica. In questa prospettiva, i neopositivisti individuano nella“verificabilità” sperimentale il principio sul quale è possibile fondare la verità scientifica.

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VITE DI CAPITANISCHLICK, WITTGENSTEIN, CARNAP, HAHN, NEURATH, RTEICHENBACHIl neopositivismo si coagulò intorno al “circolo di Vienna”, promosso dal fisico tedescoMoritz Schlick (Berlino 1882-Vienna 1936), il quale nel 1922, nominato docente di scienzeinduttive all’Università di Vienna, cominciò ad organizzare i suoi seminari nella forma diriunioni periodiche aperte a filosofi, matematici, fisici, giuristi, ecc. Grande importanzaebbe, nel definire l’indirizzo del circolo, la lettuta e la discussione del Tractatus logico-philosophicus (1921) del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889-Cambridge1951), il quale nel 1927 partecipò in prima persona ad alcuni incontri del circolo, pur nonfacendone parte. Membro influente del circolo di Vienna fu invece il tedesco RudolfCarnap (Wuppertal 1891-Santa Monica 1970), anch’egli docente all’Università di Vienna edautore di La costruzione logica del mondo (1928), prima opera propriamente positivista. Ilsaggio-manifesto del circolo – Concezione scientifica del mondo - fu invece pubblicatol’anno successivo a firma di Carnap, del matematico austriaco Hans Hahn (1879-1934Vienna) e del sociologo austriaco Otto Neurath (Vienna 1882, Oxford 1945). Al circolo diVienna si affiancò, nei medesimi anni, un altro gruppo di neopositivisti, animato a Berlinodal filosofo della scienza e docente universitario Hans Reichenbach (Amburgo 1891-LosAngeles 1953), codirettore, insieme a Carnap, della rivista Erkenntnis (1930-40). Conl’avvento del nazismo, gli intellettuali positivisti emigrarono in Inghilterra e negli USA,dove continuarono la loro ricerca e il loro insegnamento.

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TAPPA 1IL PRINCIPIO DI VERIFICABILITA’

E’ il metodo dell’analisi logica che essenzialmente distingue il recenteempirismo e positivismo dalla precedente versione che aveva unorientamento più biologico e psicologico. Se qualcuno afferma “c’è un Dio”,“il fondamento primo del mondo è l’inconscio”, “c’è un’entelechia che è ilprimo principio dell’organismo vivente”, noi non gli diciamo: “ciò che dici èfalso”, ma gli chiediamo: “cosa vuoi dire con queste proposizioni?”. Alloraappare che vi è una netta demarcazione tra due tipi di proposizioni. Ad untipo appartengono proposizioni come quelle che vengono enunciate dallascienza empirica, il cui significato può essere determinato dall’analisi logicao, più precisamente, mediante la riduzione a più semplici proposizioni su datiempirici. Le altre proposizioni, alle quali appartengono quelle citate sopra, sirivelano vuote di significato se le si prende nel senso in cui le intendono imetafisici. Uno può, naturalmente, reinterpretarle spesso come proposizioniempiriche; ma allora esse perdono il contenuto emotivo che è solitamenteessenziale alla metafisica. La metafisica e la teologia credono, ingannandosi,che le loro proposizioni dicano, o denotino, uno stato di cose. L’analisi,tuttavia, dimostra che queste proposizioni non dicono niente, ma esprimonosemplicemente un certo stato d’animo. L’espressione di tali sentimenti versola vita può essere una cosa importante, ma il modo più appropriato per far ciòè l’arte, la poesia lirica o la musica. E’ pericoloso invece scegliere la formalinguistica di una teoria, in quanto viene simulato un contenuto teoreticodove non esiste affatto.

H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap: La concezione scientifica del mondo, 1929

Stabilire il significato di una frase equivale a stabilire le regole, in accordo conle quali essa deve essere usata, il che è lo stesso che stabilire il modo in cuiessa deve venire verificata (o falsificata). Il significato di una proposizione è ilmetodo usato per verificarla. […]Il risultato delle nostre considerazioni è che la verificabilità, condizionenecessaria e sufficiente del significato, è la possibilità logica di verificazione:essa è assicurata dalla costruzione della frase secondo le regole chedefiniscono i termini.

M. Schlick: Significato e verificazione, 1936

Secondo i neopositivisti, la scienza è l’unico linguaggio capace di rappresentareoggettivamente, e cioè in modo veritiero, la realtà, assunto che la realtà coincide con ilmondo fisico. Il linguaggio scientifico, infatti, a differenza di tutti gli altri, è rigoroso, cioè ècostituito da regole logiche e metodologiche che garantiscono la sua corrispondenza allarealtà. Le regole logiche sono fondamentalmente due:

la regola semantica, in base alla quale ogni termine deve avere una ed una soladefinizione, che descriva precisamente un oggetto o a uno stato di cose reali, equindi deve essere usato in una sola accezione universale;

la regola sintattica, per cui i termini devono essere collegati in proposizioni in baseai principi della logica (p.e. principio di non-contraddizione, principio di causa-effetto, deduzione, induzione) e alle norme della sintassi.

In questo quadro, le proposizioni fondamentali, quelle che assicurano la corrispondenzadel linguaggio scientifico alla realtà, sono chiamate dai neopositivisti “protocolli”. Con tale

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termini i neopositivisti denominano le proposizioni singolari che si riferisconoimmediatamente a un oggetto o a uno stato di cose (p.e. “questo tavolo è rotondo”, “sultavolo ci sono due bicchieri”, “i raggi solari hanno scaldato il pavimento”, ecc.). In ultimaanalisi, dunque, la verità scientifica si basa sui protocolli.

Ma come è possibile accertarsi della corrispondenza tra i protocolli e la realtà? La rispostaa questa domanda conduce alla regola metodologica fondamentale, secondo ineopositivisti, ossia al principio di verificazione in base all’esperienza: un protocollo è veroquando un’esperienza o un esperimento certificano che corrisponde a uno stato di cosereale; è falso quando un’esperienza o un esperimento smentiscono che corrisponda a unostato di cose reali. P.e., se io voglio verificare se è vero il protocollo “questo cucchiainoesposto ai raggi solari si è dilatato”, devo misurarlo quando è caldo e poi quando, dopoaverlo messo all’ombra, è diventato freddo e confrontare le due misurazioni. A loro volta leleggi scientifiche, che sono proposizioni universali, p.e. “il calore dilata i metalli”, siverificano in base al maggior numero possibile di protocolli confermativi in assenza diprotocolli confutativi. In altre parole, una legge scientifica è vera quando ottiene molteconferme sperimentali, traducibili in altrettanti protocolli a suo favore. In questo modo ineopositivisti fondano la scienza sul procedimento logico dell’induzione: le leggi e le teoriescientifiche sono il prodotto di generalizzazioni induttive tratte da numerosi protocolli veri,ovvero da numerosi esperimenti positivi.

Tuttavia, i neopositivisti introducono un’ulteriore distinzione in merito al principio diverificazione. Essi, infatti, lo articolano in verificazione in senso stretto e in verificabilità.Con “verificazione” intendono l’avvenuta certificazione sperimentale di un protocollo, con“verificabilità” la possibilità reale, effettiva, di una verificazione. P.e., sostiene Schlick, ilprotocollo “sull’altra faccia della Luna esistono montagne di tremila metri”, anche se non èstato ancora verificato, può esserlo e quindi in futuro potrebbe essere verificato. Alcontrario, il protocollo “Dio è onnipresente” non è mai stato verificato né mai potràesserlo, per principio, in quanto al termine “Dio” non corrisponde alcun oggetto fisico. Inquesto senso, la verificazione certifica la scientificità effettiva di una proposizione, mentrela verificabilità ne certifica il significato, ovvero la significatività sul piano scientifico. Intermini più semplici, il principio di verificabilità – cioè la possibilità di principio che unaproposizione sia verificata sperimentalmente – è un criterio di significanza scientifica,ossia permette di selezionare le proposizioni che possono essere giudicate vere o false, edunque hanno rilevanza conoscitiva, separandole da quelle (p.e. “Dio è onnipresente”) chenon possono essere giudicate né vere né false, in quando sono prive di significatoconoscitivo, cioè sono scientificamente insensate. Se una proposizione è verificabile inseguito potrà essere effettivamente verificata e se lo sarà positivamente allora diventeràuna proposizione non solo scientificamente sensata ma anche vera.

Sulla base di questa impostazione, i neopositivisti confutano spietatamente tutta latradizione filosofica di stampo metafisico. Infatti, in base al principio di verificabilità,secondo i neopositivisti, tutte le teorie filosofico-metafisiche risultano insiemi diproposizioni prive del minimo significato conoscitivo. Esse hanno solo un valore emotivo,sono forme di effusione sentimentale. I filosofi, afferma Carnap, sono dei musicisti eoltretutto dei musicisti falliti. In altre parole, per i neopositivisti, la filosofia non valeneanche come effusione sentimentale, in quanto la forma appropriata per esprimere erappresentare i sentimenti e le emozioni è l’arte.

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ROTTA BIL FALSIFICAZIONISMO O RAZIONALISMO CRITICO

Karl Popper rovescia la filosofia della scienza del neopositivismo con una nuovaimpostazione che è chiamata “falsificazionismo” o “fallibilismo”. Ma Popper stessoautodenomina la sua filosofia “razionalismo critico”, richiamandosi alla tradizione diKant e prima ancora di Socrate.Secondo Popper la scienza non si basa sulla verificabilità delle sue proposizioni, ma sullaloro falsificabilità, cioè sulla possibilità che esse siano sottoposte a esperimentipotenzialmente capaci di confutarle. In questo senso, la scoperta scientifica non nascedall’induzione, ma da un’intuizione teorica pura dalla quale si ricavano deduttivamentedelle conseguenze singolari che vengono sottoposte al vaglio di esperimenti.Dunque il criterio di demarcazione tra scienza e non scienza è la possibilità di confutareuna teoria in base a severi controlli sperimentali. Ma ciò per Popper non significa cheuna teoria, o una proposizione, non falsificabile siano prive di significato conoscitivo.Infatti, p.e., la teoria atomistica di Democrito, di stampo metafisico, all’inizio del ‘900 èdiventata una teoria scientifica. Dunque la filosofia ha un significato logico, ovvero unavalenza conoscitiva, benché non abbia validità scientifica in quanto, a differenza dellascienza, non se ne può stabilire il grado di verosimiglianza, cioè di approssimazione alvero.Per Popper infatti nemmeno una teoria scientifica può essere considerata vera, in quantola verità esiste ma l’uomo non può conoscerla. La scientificità dunque non si basasull’alternativa secca vero/falso, ma sulla maggiore o minore verosomiglianza relativa.

VITA DI UN CAPITANOKARL RAIMUND POPPERMacque a Vienna il 28 luglio 1902. Da giovane, durante il biennio rosso (1919-20) fuattratto dalle idee socialiste, che da adulto avrebbe rigettato. Negli anni Venti è ammesso,come assistente sociale, all'Istituto pedagogico di Vienna, da cui esce abilitato nel 1927.Sono anni in cui fa molte esperienze intellettuali (musica, fisica, matematica, politica) elavora per un certo periodo presso la clinica di consulenza per l'infanzia di Alfred Adler,psicanalista in dissidio con Freud. Nel 1928 si laurea in filosofia con lo psicologo KarlBühler e l'anno seguente ottiene la qualifica di insegnante di matematica e fisica nellescuole medie, dove insegnerà dal 1930 al 1936. Nel 1934 pubblica la prima edizione di Lalogica della scoperta scientifica col titolo La logica della ricerca. Benché non fossemembro del Circolo di Vienna, Popper intrattiene rapporti con Hans Hahn, Rudolf Carnap,e Herbert Feigl, con Otto Neurath, e più tardi con Kurt Gödel e Alfred Tarski. Dopol'occupazione nazista dell'Austria nel 1938, a causa della sua origine ebraica, emigra inNuova Zelanda, dove insegna, dal 1937 al 1945, al Canterbury University College diChristchurch, e dove scrive e pubblica tra il 1944 e il 1945 La miseria dello storicismo e Lasocietà aperta e i suoi nemici. All'inizio del 1946 accetta il lettorato di logica e poi dimetodologia alla London School of Economics dove, nel 1949, diventa professore ordinarioe successivamente capo del Dipartimento di Filosofia. Nel 1959 pubblica la secondaedizione di La logica della scoperta scientifica e nel 1963 Congetture e confutazioni.Lasciò l’insegnamento universitario nel 1969. A partire dagli anni Cinquanta Popper haavuto numerosissimi riconoscimenti per la sua attività di ricerca: dalla nomina a membrodella Royal Society sino all'investitura del titolo di baronetto nel 1965. È morto nel 1994.

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TAPPA 1POPPER: IL PRINCIPIO DI FALSIFICABILITA’

Ma io ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto unsistema che possa essere controllato dall’esperienza. Queste considerazionisuggeriscono che, come criterio di demarcazione, non si deve prendere laverificabilità, ma la falsificabilità di un sistema. In altre parole: […] unsistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza.

K. Popper: Logica della scoperta scientifica, p. 22

Secondo Popper, la conoscenza nasce dallo scontro tra una nostra aspettativa eun’esperienza che la contraddice. In questo modo sorge un problema e la conoscenza siorigina e si sviluppa come tentativo di risolverlo.Ma se le cose stanno così, allora l’attività conoscitiva presuppone sempre una “conoscenzainnata” cioè un patrimonio conoscitivo acquisito costituito da:attitudini, disposizioni, funzioni geneticamente ereditate;teorie religiose, mitiche, filosofiche, artistiche, scientifiche elaborate precedentemente etrasmesse culturalmente.Questa conoscenza “innata” svolge, a giudizio di Popper, due funzioni fondamentali:suscita aspettative a priori che orientano l’osservazione spingendoci a mettere a fuoco soloalcuni aspetti della realtà che diventano così “esperienza”;ci fornisce il materiale di base per poter ideare ipotesi di soluzione dei problemi che divolta in volta ci si presentano.In base a queste due funzioni giungiamo a elaborare delle teorie, cioè dei sistemi di assertiuniversali. Le teorie infatti non sono altro che uno sviluppo raffinato delle nostredisposizioni innate a rilevare delle somiglianze e a stabilire delle connessioni regolari tra lenostre esperienze.

Le teorie però non sono tutte uguali. Vi è infatti per Popper una demarcazione decisiva trale teorie scientifiche e quelle non scientifiche o “metafisiche”. Il criterio di taledemarcazione non è la verità, in quanto di nessuna teoria è possibile stabilire la completacorrispondenza alla realtà empirica.Ciò che fa la differenza tra teorie scientifiche e no è che le prime, diversamente dalleseconde, consentono una maggiore possibilità di critica perché sono empiricamentecontrollabili. In particolare il controllo empirico delle teorie scientifiche si basa sulprincipio di falsificabilità, cioè sulla possibilità di dimostrarne la falsità.

Il controllo empirico delle teorie scientifiche si attua grazie a una procedura metodologicadi tipo ipotetico-deduttivo, che Popper chiama anche metodo “per prova ed errore”. Taleprocedura consiste nei seguenti passaggi:ideazione di una teoria generale avente il valore di un’ipotesi di soluzione di un problema;deduzione delle conseguenze della teoria generale, cioè dei fatti particolari che essapredice;confronto tra le deduzioni particolari ricavabili dalla teoria e i fatti sperimentali, o meglio,come dice Popper, gli “asserti-base” singolari che gli esperimenti stabiliscono.Se gli asserti-base concordano con le predizioni teoriche allora la teoria ha superato ilcontrollo critico e ottiene un parziale attestato di validità; in caso contrario la teoria risultafalsificata e dunque non può essere considerata scientificamente valida.

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Secondo Popper, l’esempio migliore di teoria scientifica è rappresentato dalla teoria dellarelatività di Einstein. Essa infattifu originata dall’inaspettata scoperta sperimentale dell’invarianza della velocità della luce,– che contraddiceva il principio di composizione delle velocità – cioè dall’emergere di unproblema rispetto alla fisica classica;fu elaborata in modo puramente teorico come ipotesi fisico-matematica di soluzione delproblema priva di prove sperimentali;ma Einstein stesso ne indicò le conseguenze singolari in base alle quali poteva esserefalsificata: per esempio la deviazione dei raggi luminosi provenienti dalle stelle a causa delcampo gravitazionale del Sole;tale predizione rese possibile l’esperimento di Eddington del 1919 che accertò che unraggio di luce stellare passante vicino al Sole viene deflesso nella misura matematicaprevista dalla teoria della relatività.

Dunque, una teoria è scientifica se, e solo se, indica la possibilità di confutarla mettendolaalla prova con rigorosi esperimenti.Il principio di falsificabilità si fonda per Popper su di una decisiva asimmetria logica:

il più ampio numero di esperimenti favorevoli a una teoria non è sufficiente adimostrare la sua verità;

invece un solo esperimento sfavorevole è sufficiente a dimostrare che una teoria nonè vera.

Infatti una teoria, in quanto universale per definizione, deve valere per una totalità infinitadi fatti singolari. Dunque mentre i controlli sperimentali non possono per principioverificare tutti i fatti che una teoria predice, un solo controllo negativo basta perconfutarne l’universalità.Per esempio, l’aver osservato mille cigni bianchi non è sufficiente a dimostrare la veritàdell’asserto universale “tutti i cigni sono bianchi”, perché esistono o esisteranno sempremolti altri cigni che non abbiamo osservato; ma è sufficiente l’osservazione di un cignonero per confutare quell’asserto universale.In altre parole, la scienza non si fonda sulla verifica empirica affermativa ma sul controlloempirico negativo perché mentre la prima è sempre incompleta e quindi dubbia, il secondoè completo e dunque certo.

Lo scienziato, secondo Popper, è un uomo diverso da tutti gli altri in quanto mentre lamaggior parte degli uomini si sforza di dimostrare di aver ragione, lo scienziato cerca didimostrare di avere torto. In altre parole, l’attività scientifica deve consistere non neltentativo di trovare conferme alle teorie proprie o altrui, bensì nel tentativo incessante difalsificarle.Tale tesi paradossale si giustifica in base a due fondamentali motivazioni:solo un esperimento ideato e realizzato con la ferma volontà di falsificare una teoria se nonriesce nel suo intento costituisce una conferma fondata della sua validità;a differenza della conferma di una teoria, la falsificazione di una teoria ci apre nuove vie diricerca e stimola così l’accrescimento della nostra conoscenza.Quando una teoria scientifica viene falsificata non è più valida ovvero attuale, purconservando sempre un parziale grado di verosimiglianza. Quando invece resiste aitentativi di falsificazione conseguendo una conferma sperimentale è empiricamente“corroborata” cioè può e deve essere considerata scientificamente valida e attuale fino aprova contraria.

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TAPPA 2POPPER: IL PRINCIPIO DI VEROSIMIGLIANZA

Lo status della verità intesa in senso oggettivo, come corrispondenza ai fatti,con il suo ruolo di principio regolativo, può paragonarsi a quello di una cimamontuosa, normalmente avvolta tra le nuvole. Uno scalatore può non soloavere difficoltà a raggiungerla, ma anche non accorgersene quando vi giunge,perché può non riuscire a distinguere, nelle nuvole, fra la vetta principale eun picco secondario. Questo tuttavia non mette in discussione l’esistenzaoggettiva della vetta; e se lo scalatore dice “dubito di aver raggiunto la veravetta”, egli riconosce, implicitamente, l’esistenza oggettiva di questa. L’ideastessa di errore, o di dubbio (nella semplice accezione usuale) comporta ilconcetto di una verità oggettiva, che possiamo essere incapaci di raggiungere.

K. Popper: Congetture e confutazioni, p. 388

Popper ha una concezione realistica della verità. Egli infatti riprende e riabilita laconcezione tradizionale, legata al senso comune, della verità come corrispondenza traasserti, cioè proposizioni, e fatti, cioè stati di oggetti. Rifacendosi al logico polacco Tarski,Popper afferma che è possibile stabilire rigorosamente la corrispondenza asserti/fattigrazie alla distinzione tra:

il “linguaggio oggetto”, cioè il linguaggio con cui parliamo dei fatti il “metalinguaggio semantico”, cioè il linguaggio con cui possiamo parlare sia del

“linguaggio oggetto” sia dei fatti.Grazie all’utilizzo di questi due linguaggi possiamo affermare con certezza che l’asserto“Il gatto sulla poltrona dorme” (linguaggio oggetto)è vero se, e solo se, sulla poltrona c’è un gatto che dorme (metalinguaggio semantico).In altre parole il metalinguaggio semantico per Popper è il fondamento logico-razionaledella possibilità di stabilire in modo rigorosamente certo la corrispondenza asserti/fatti.

Sulla base di questa concezione della verità, Popper sostiene che nessuna teoria scientificapotrà mai conseguire la verità in modo pieno e assoluto. Infatti:

una teoria è scientifica soltanto se può essere empiricamente controllata sui fatti; una teoria scientifica è per costituzione un sistema di asserti universali, ovvero si

riferisce a una totalità di fatti in linea di principio infinita; ma gli scienziati non potranno mai controllare la corrispondenza degli asserti di una

teoria a tutti gli infiniti fatti cui si riferisce.Dunque anche ipotizzando per assurdo che uno scienziato scopra una teoria vera, né lui nél’intera comunità scientifica potrebbero accertarsene e dunque esserne coscienti. In altritermini: la scienza non può conoscere la verità.

Stando così le cose, secondo Popper tutte le teorie scientifiche devono essere considerate e usatecome semplici congetture, ovvero come ipotesi sicuramente relative e fallibili, e pertantoinevitabilmente destinate, prima o poi, a essere falsificate da un fatto.Nondimeno, Popper afferma con forza che non possiamo né dobbiamo rinunciare allaconvinzione che la verità esista. Infatti:un solo fatto contrario a una teoria può attestarne la falsitàdunque se non possiamo accertarci della verità di una teoria, possiamo raggiungere unapiena certezza riguardo alla sua falsitàma, poiché la falsità è la negazione della verità, la certezza della falsità di qualcosa implicala certezza dell’esistenza della verità.

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Insomma, se la scienza, e dunque l’uomo, non può mai arrivare a possedere la verità è soloper i suoi limiti, non perché la verità non esiste.

La possibilità di stabilire la superiorità di una teoria scientifica rispetto a un’altra Per Popper, inoltre, il fatto che tutte le teorie scientifiche siano congetture fallibili nonimplica che esse siano tutte equivalenti. E’, infatti, possibile stabilire che una teoria èmigliore di un'altra in base a due semplici criteri:

maggiore quantità di informazioni ovvero di riferimenti empirici maggiore capacità di spiegazione e comprensione.

Entrambi questi criteri si traducono e si sintetizzano in un unico criterio fondamentale: la maggiore possibilità di controllo e di falsificabilità.

In altre parole, secondo Popper, una teoria è migliore quando permette agli scienziati disottoporla a controlli empirici più numerosi e più severi, ovvero quando offre più ampie erigorose possibilità di dimostrarne la falsità in base a fatti contrari.

In base alla sua concezione della scienza, Popper giunge a una conclusione paradossale,cioè del tutto contraria al senso comune:mentre comunemente si crede che una teoria scientifica sia più valida di un’altra se laprima è più probabile della secondaPopper afferma che se una teoria è più valida di un’altra allora è meno probabile diquest’ultima.La tesi di Popper ha un fondamento logico. Per capirlo, basta considerare il seguenteesempio:

l’asserto “domani sorgerà il sole” è più probabile dell’asserto “domani sorgerà il solee pioverà”

ma il primo è di gran lunga meno falsificabile del secondo, dal momento che le sueimplicazioni empiriche sono di gran lunga più ristrette.

Dall’esempio è facile ricavare che le teorie più probabili, cioè quelle che hanno piùprobabilità di ottenere conferme positive dall’esperienza, sono quelle che hanno minorericchezza conoscitiva. Ma sarebbe assurdo giudicare migliore una teoria con minorericchezza conoscitiva. Dunque la maggiore probabilità non può essere il criterio dellascienza.

Dal momento che, anche se irraggiungibile, la verità esiste, dire che una teoria è migliore diun’altra, per Popper equivale a dire che è più vicina alla verità di un’altra. Ciò significa chela scienza può e deve adottare la verità come criterio regolativo della propria evoluzione,cioè che se deve rifuggire l’obiettivo di possedere la verità deve però porsi quello diapprossimarsi sempre di più alla verità. Infatti solo in questo modo la scienza puòprodurre quella continua crescita del sapere che è una sua proprietà essenziale.In altri termini: di una teoria scientifica non possiamo stabilire se è vera in assoluto, mapossiamo e dobbiamo stabilire se è più o meno verosimile – cioè vicina al vero – diun’altra. Dunque nella pratica scientifica il principio di verità va tradotto in quello diverosimiglianza. Grazie a tale principio è possibile affermare che l’evoluzione della scienzaè stata, almeno finora, un progresso. Infatti, possiamo affermare che la teoria astronomicadi Keplero è più verosimile di quella di Copernico, quella di Newton è più verosimile diquella di Keplero e quella di Einstein, infine, più verosimile di quella di Newton.