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Anno Accademico 2017-2018 Modulo di Storia medievale II – 12 crediti Le crociate Prof. Alfonso Marini

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Anno Accademico 2017-2018

Modulo di Storia medievale II – 12 crediti

Le crociate Prof. Alfonso Marini

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Alfonso Marini BERNARDO DI CLAIRVAUX E LA TERRASANTA

Dispense Storia medievale II – Anno Acc. 2017-18 San Bernardo e la sua spiritualità Bernardo di Clairvaux conosceva il mondo dei cavalieri, le loro ambizioni, aspira-zioni, occupazioni, il loro modo di combattere, la forza e la violenza, le vanità anche nel vestire e nell’ornare i cavalli. Sono cose, queste ultime, che rimprovera nel trattato Lode della nuova cavalleria, non soltanto perché le vedeva quando si trovava a uscire dal monastero, ma perché le ricordava dalla sua giovinezza. Nel 1111-12 era entrato nel monastero di Cîteaux sotto il terzo abate, Stefano Harding, conquistato dall’ideale mo-nastico benedettino che in questo cenobio aveva avuto una nuova riforma in senso rigo-ristico, con la ripresa di una vita più povera, austera anche nelle forme architettoniche esteriori e nella liturgia, con impegno nel lavoro manuale dei campi. L’ordine cistercen-se (da Cistercium, la forma latina di Cîteaux) era nato da pochissimi anni, nel 1098, a opera di san Roberto di Molesme che a Cîteaux aveva fondato un nuovo monastero, la-sciando quello cluniacense di Molesme, nel quale tuttavia tornò alcuni anni più tardi, per desiderio dei suoi vecchi monaci che intendevano riformare il loro stile di vita. Pri-vati del fondatore, i cistercensi trovarono proprio in san Bernardo un grande propagato-re del loro ideale, tanto che essi vennero detti anche bernardini. Quando entrò a Cîteaux Bernardo aveva più di vent’anni, un’età ormai adulta per i suoi tempi, nei quali dopo i cinquant’anni un uomo già era a rischio di morte naturale e attorno ai quattordici un giovane diventava maggiorenne, con possibilità di sposarsi. Era nato nei pressi di Digione, in una famiglia in cui entrambi i genitori appartenevano alla piccola aristocrazia della Borgogna, regione tra le più vivaci sotto l’aspetto culturale e religioso. Conosceva bene dunque il mondo dei cavalieri e con trenta di essi, parenti e amici, entrò a Cîteaux, compiendo una scelta decisiva per la sua vita e per il futuro del nuovo ordine. Nel 1115 fondò, sempre in Borgogna, il monastero di Clairvaux (Chiaravalle), che divenne uno dei cinque monasteri-madre dei cistercensi e diede vita a filiazioni in varie parti d’Europa, come ad esempio in Italia il monastero di Chiaravalle Milanese. A Clairvaux rimase come abate fino alla morte, che lo raggiunse nel 1153. Ventun’anni dopo la morte, nel 1174, Bernardo fu canonizzato da Alessandro III e nel 1830 venne dichiarato da Pio VIII dottore della Chiesa. Doctor mellifluus, dottore dalle cui labbra scorre il miele viene detto per la dolcezza e la forza poetica di cui è ca-pace, per la profondità spirituale, per l’impeto d’amore che sa esprimere verso il centro della sua vita, il Cristo, e la sua madre Maria, di cui contribuisce a diffondere in Occi-dente il culto, che in precedenza era molto meno sviluppato. Ottantasei sermoni, composti in vari momenti della sua vita fino in punto di morte, dedicò a commentare il testo biblico dell’amore, il Cantico dei cantici, che la tradizione ebraica e quella cristiana avevano sempre interpretato in senso allegorico, come imma-gine dell’amoredi Jahvé e di Israele, di Dio e del suo popolo, di Cristoe della sua Chie-sa, del Verbo e dell’anima del fedele, in particolare, per gli esegeti medievali, l’anima del monaco; ottantasei sermoni nei quali egli commenta il Cantico soltanto fino al pri-mo versetto del capitolo III, degli otto che costituiscono questo poema. I sermoni - non soltanto quelli sul Cantico, ma molti altri che seguono il ciclo delle letture dell’anno li-turgico - Bernardo, ordinato sacerdote prima di diventare abate, li preparò per i suoi

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monaci; per il cistercense Bernardo Pignatelli di Pisa divenuto papa col nome di Euge-nio III (1145-1153) compose il De consideratione, un ampio trattato in cui, indicandole cose che il pontefice deve considerare (un procedimento che precede la contemplazione e porta a essa), traccia un ritratto spirituale del pontefice ideale, diverso dal papa giurista che ormai andava affermandosi proprio in quegli anni; scrisse inoltre opere di argomen-to morale, come I gradi dell’umiltà e della superbia, o teologico, come La grazia e il libero arbitrio. Bernardo restava monaco contemplativo nel profondo della sua anima: per lui la Gerusalemme celeste è anticipata in terra proprio tra le mura del monastero dalla pace spirituale che vi si gode, nella ruminatio della Parola di Dio e nella preghiera, nella ricerca dell’unione col Cristo, lo sposo desiderato, che, anche se realizzata per brevi attimi, illumina la vita nell’attesa del nuovo incontro. Gli scritti qui presentati - che costituiscono dunque una piccola parte della produzio-ne di Bernardo - sono di tono e di contenuto diverso. L’ardente amore del santo si può rintracciare nella tenerezza espressa verso i luoghi santi della Palestina o in alcuni passi delle lettere inviate a persone amiche; appaiono evidenti la centralità di Dio e la critica e il disprezzo per le inutili glorie e le ostentazioni esteriori del mondo aristocratico, in nome di una più significativa ed essenziale scelta di vita al seguito del Cristo. Ma se un misticismo vi si esprime in maniera dominante, non è quello del rapimento, della visio-ne, della contemplazione, dell’altezza della preghiera e della profondità dell’introspe-zione spirituale: è quello del martirio, non visto però come abbandono nelle mani del carnefice nella testimonianza di una fede incrollabile quanto pacifica. Qui siamo di fronte al martirio armato, al martirio militare, alla mistica del sangue e della morte, su-bita ma anche imposta. Il Cristo sposo, amante dell’anima, mostra un volto difficilmente rintracciabile nel Vangelo e nel Nuovo Testamento (salvo, forse, in alcuni passi dell’A-pocalisse, peraltro assolutamente simbolici): l’immagine di colui che chiede vendetta sul malvagio e che «nella morte del pagano è glorificato». È una «mistica» che altre vol-te comparirà, con diversi segni, nella tradizione spirituale e politica dell’Occidente e della stessa Chiesa, se la Lode della nuova cavalleria verrà stampato per l’esercito pon-tificio ancora nel 1860 sotto Pio IX1 ma che ribalta il tradizionale valore della militia Christi, intesa fin dall’antichità come una milizia spirituale, tanto che il miles Christi per eccellenza era diventato nell’alto Medio Evo il monaco. In questi testi militia e mi-les valgono «cavalleria» e «cavaliere», come normalmente nel linguaggio profano del XII secolo, ma è evidente che Bernardo può giocare sul loro doppio valore semantico, dato che nel linguaggio religioso i termini mantenevano il loro significato. Ovviamente questo gioco va perduto nella traduzione italiana. Si tratta di due mistiche diverse? Ai nostri occhi sì: la seconda è un palese travisa-mento della logica evangelica. Anche uno storico deve avere il coraggio di dirlo, senza trincerarsi dietro troppi distinguo; non per sovrapporre anacronisticamente la propria mentalità a quella di un uomo del XII secolo, ma proprio per far notare che la dialettica era presente già allora se un altro uomo nato nell’ultimo ventennio di quello stesso seco-lo (1182), Francesco d’Assisi, che tanto aveva desiderato in gioventù nobilitarsi nella cavalleria, quando lasciò l’armatura lo fece in maniera davvero definitiva e qualche an-no dopo (attorno al 1220), durante la quinta crociata, mise a repentaglio la vita andando disarmato dal Sultano d’Egitto, in guerra contro i cristiani, per predicargli il Cristo. Fatta questa onesta premessa, lo storico deve però continuare dicendo che la diversi-tà, evidente ai nostri occhi, non era tale per san Bernardo e nemmeno per la maggioran-

1 Delle laudi di una nuova milizia. Libro di S. Bernardo reso italiano, tedesco, francese ed inglese; e messo a stampa per l’esercito pontificio, Tipi della Civiltà Cattolica, Roma 1860.

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za degli uomini del suo secolo. Se si vuole quindi comprendere quanto l’abate di Clair-vaux esprime in questi scritti, bisogna accettare l’unitarietà dei suoi valori religiosi, cer-cando di penetrare nella sua psicologia e negli avvenimenti della sua vita. Bernardo era un entusiasta, le scelte che faceva comportavano il coinvolgimento totale della sua per-sona, come si è visto per l’entrata in monastero, nella quale coinvolse una trentina di uomini. Abbracciato l’ideale cistercense, in sua difesa sviluppò una polemica con l’ordine cluniacense, quello che, riformato il monachesimo benedettino agli inizi del se-colo X, era il più diffuso quando nacque la riforma di Cîteaux. Trovò a rispondergli il pacato e profondo abate di Cluny (dal 1122 al 1156) Pietro il Venerabile - con cui man-tenne poi relazioni di amicizia -, il quale contrappose alle rigide esigenze di austerità del cistercense un atteggiamento fatto di comprensione, tolleranza e discrezione anche nei riguardi dello stile di vita di un monaco. Bernardo si impegnò a fondo a difesa della riforma della Chiesa e nello stesso tempo della sua ortodossia tradizionale, contribuendo in gran misura a risolvere lo scisma nato nel collegio dei cardinali nel 1130 con una doppia elezione papale, a favore di Innocen-zo II invece che di Anacleto II (1138). Contro quanto insegnava Pietro Abelardo si lan-ciò a più riprese, facendo cadere sulla testa del filosofo che applicava il metodo raziona-le la condanna del concilio di Sens (1140). Ma l’ortodossia era minacciata più che dal metodo del maestro Abelardo, anch’egli divenuto monaco e sicuramente non deviante dalla fede, dalla grande diffusione che prima della metà del secolo XII stavano avendo a livello popolare le eresie. Alcune erano di carattere evangelico, cioè, leggendo e inter-pretando letteralmente il Vangelo, si limitavano a mettere in dubbio certi aspetti della dottrina cattolica, accentuando il valore e l’esigenza di povertà ed essenzialità, anche nei riti religiosi; altre erano invece di tipo dualistico e tendevano a rifiutare in blocco la Chiesa cattolica, contrapponendole una propria chiesa e predicando il rifiuto del mondo, della carne, della materia, ritenuti dominio - se non creazione - del male come entità metafisica. Si trattava, in quest’ultimo caso, dei càtari (vocabolo greco che significa pu-ri), che però si denominavano buoni cristiani. Tali eresie stavano avendo un grande svi-luppo soprattutto in tre zone europee: Renania, Italia centro-settentrionale (quella dei Comuni) e attuale Francia meridionale, regione che allora veniva chiamata tutta Proven-za ed esprimeva una raffinata cultura nella lingua d’oc. Invocato da più parti Bernardo nel 1145, nonostante fosse malato, si incamminò per il meridione francese a predicare contro gli eretici: trovò folle di persone che lo ascoltarono, ma anche confutazioni; con la parola e i miracoli sembrò che riuscisse a ricondurre all’ortodossia la maggioranza e così lui stesso pensò; ma fu più lungimirante il suo segretario Goffredo, il quale scrisse che per riconvertire quelle masse sarebbero stati necessari anni di predicazione. Infatti, partito Bernardo, l’eresia pullulò come prima. Quasi sessant’anni dopo, nel 1203, pas-sando per quei territori, il canonico Domenico di Calaruega capì che andava compiuta un’azione specifica in tal senso e perciò fondò l’Ordine dei Predicatori (o Domenicani, 1206); nel 1208 il papa Innocenzo III, dopo l’uccisione di un suo legato, bandì la crocia-ta contro gli Albigesi (il termine, dalla città di Albi, indicava i catari della zona), con la quale i signori del nord francese distrussero insieme l’eresia e la civiltà provenzale con la sua lingua. Bernardo si era ingannato per la scarsa valutazione che aveva della gente di umile condizione: la considerava ignorante e incapace di discutere di problemi di fe-de, poteva essere tutt’al più guidata. Questo atteggiamento non era soltanto suo, ma cor-rispondeva a quello della maggioranza degli ecclesiastici e delle gerarchie della Chiesa, prevalentemente di estrazione aristocratica. Spirito aristocratico anch’egli per prove-nienza sociale e per esperienza religiosa, il santo non comprendeva le esigenze reali del

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popolo cristiano, che ormai non concedeva più fiducia al modello monastico e gerarchi-co, ma chiedeva coerenza di vita con il dettato evangelico e una rivalutazione del valore religioso della vita dei laici nonché della loro apostolicità. Era un mondo in fermento, che vedrà poi accettate in ambito ortodosso molte di queste istanze con l’approvazione data al primitivo gruppo francescano da Innocenzo III nel 1210 e con altre iniziative si-mili dello stesso papa. Non bastava quindi una predicazione passeggera quanto trionfa-le, ma Bernardo non possedeva gli strumenti concettuali e psicologici per comprenderlo. Resta ammirevole il suo sforzo, che fu davvero grande per lui, non soltanto per le malat-tie, ma proprio perché egli, monaco nel profondo, non gradiva allontanarsi dal monaste-ro e dalla sua esperienza contemplativa, benché per essa si sia parlato - come per altri mistici - di «contemplazione operosa», volendo indicare che l’abate di Clairvaux poteva trovare i suoi spazi contemplativi anche, se non proprio, in queste attività esterne. A noi importa notare, in conclusione, non solo la serietà, ma lo slancio e il coinvolgimento af-fettivo ed emotivo col quale Bernardo si impegnava in tutte queste imprese in difesa della Chiesa contro scismi, nuove teorie filosofiche, eresie. Tale passione difensiva ave-va però come corrispettivo l’enfatizzazione del pericolo, dello scontro e della negatività dell’avversario. Se la cristianità, cioè in pratica nel XII secolo l’Europa di fede cristiana, poteva te-mere questi nemici interni, vi era un pericolo esterno obiettivamente ancora più temibi-le, pericolo insieme militare e religioso: l’Islam. I musulmani arabi e turchi in realtà da tempo non erano in espansione, ma sulla difensiva di fronte al contrattacco che i cristia-ni portavano per terra e per mare. Avevano perso la Sicilia a opera dei normanni che avevano costituito un regno unitario e compatto comprendente l’isola e l’Italia meridio-nale: il regno di Sicilia appunto, il cui primo re era stato incoronato nel 1130. Nella pe-nisola iberica la reconquista li stava progressivamente respingendo, anche se soltanto nel 1492 ne saranno cacciati completamente. Infine dal 1099, a seguito della prima cro-ciata, i cristiani occupavano al di là del mare la Terra Santa, organizzata in Regno di Gerusalemme, la città santa che dal VII secolo si trovava nel cuore dei territori musul-mani. Ma l’immaginario collettivo non per questo minimizzava per l’Europa e per la fe-de cristiana il pericolo islamico e d’altronde la spinta musulmana era ben lontana dall’esaurirsi, come mostra la storia dei secoli successivi (escludendo la reconquista cri-stiana nella penisola iberica), diciamo dalla riconquista di Gerusalemme da parte del Sa-ladino nel 1187 alla presa di Costantinopoli da parte di Maometto II nel 1453 e oltre, almeno fino alla battaglia di Lepanto del 1571. C’era chi considerava l’Islam un’eresia del cristianesimo, chi paventava l’unione di musulmani ed eretici europei per abbattere Chiesa e cristianità. Certo bisogna rilevare che non tutti avevano nei confronti del mondo islamico tale atteggiamento di paura-aggressione. Gli studiosi si rivolgevano ai pensatori arabi del passato o loro contempo-ranei per riscoprire Aristotele o per acquisire nuove conoscenze matematiche e scienti-fiche. Il già ricordato abate di Cluny Pietro il Venerabile mantenne un atteggiamento di-verso da quello di Bernardo verso l’Islam, pur considerato un avversario da confutare e non certo da incontrare secondo una sensibilità ecumenica del nostro tempo; egli si preoccupò di tale confutazione per mezzo non della spada, ma di un Trattato contro la setta dei saraceni e durante un suo viaggio in Spagna nel 1141 fece tradurre in latino il Corano perché la discussione avvenisse con cognizione di causa. Bernardo era di carattere impetuoso e non incline alla conciliazione o alla conviven-za con gli avversari, anche in ciò come la maggioranza della classe dirigente politica ed ecclesiastica del suo tempo. Il suo amore per il Cristo lo spingeva a difendere in tutti i

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modi la sua Chiesa e i suoi fedeli dal pericolo e dalla tirannide dei pagani2, il suo cuore si scioglieva nel pensiero dei luoghi santi toccati dal Salvatore bambino o immolatosi per l’umanità, soprattutto per il Santo Sepolcro, il santuario della cristianità. Questi luoghi dovevano, per giustizia, essere cristiani. Ciò che ai nostri occhi può sembrare contraddizione era invece in Bernardo parte di una stessa spiritualità; quel Cristo che si presentava dolcissimo ai suoi fedeli aveva il volto guerriero e vendicatore contro i suoi avversari, emissari del demonio. Si trattava di uno scontro tra bene e male, tra giustizia e iniquità, in cui i singoli uomini perdevano la loro individualità. Era quindi naturale che la strada di Bernardo si incrociasse con quelle dei Templari e della seconda crociata. Si può dire che dagli anni Venti del XII secolo fino alla morte il santo non abbia mai smes-so, fra i tanti suoi pensieri, di averne uno per quanto avveniva in Terra Santa, come te-stimoniano eloquentemente i testi qui riportati. I cavalieri del Tempio Il regno di Gerusalemme non era vicino all’Europa cristiana, se si tiene conto dei tempi e dei mezzi di trasporto e di comunicazione del secolo XII. I guerrieri della prima crociata, terminata l’impresa nel 1099, erano tornati in patria e non molti uomini armati erano rimasti ai signori delle entità politiche feudali create in Terra Santa, cioè, dal nord al sud, contea di Edessa, principato di Antiochia, contea di Tripoli e regno di Gerusa-lemme, del cui re gli altri signori erano vassalli. Oltremare erano stati costruiti castelli come nel cuore d’Europa, ma le controffensive musulmane restavano un pericolo in-combente e soprattutto i predoni potevano scorrazzare in territori non sufficientemente protetti. La difesa della Terra Santa era dunque un problema importante nei primi de-cenni del secolo XII e, se per i sovrani e i signori europei poteva non essere proprio primario, lo era assolutamente per i papi, che della crociata e della conquista palestinese si erano fatti promotori fin dal convegno di Clermont del 1095, dove Urbano II lanciò il famoso grido «Dio lo vuole». Lo stesso papa concesse ai crociati, partiti nel 1096, l’indulgenza plenaria, la remissione totale della pena derivata dal peccato che con di-versi sviluppi successivi avrebbe avuto un posto non secondario nella storia del cristia-nesimo. Quello della Terra Santa era dunque avvertito a livello generale primariamente come un problema religioso e ciò aiuta a comprendere l’atteggiamento di san Bernardo; ov-viamente diverso è il caso particolare di cavalieri che al di là del mare cercassero fortu-na e territori o di mercanti che vi stabilissero basi commerciali (ma non tutti gli storici sono convinti che le crociate abbiano realmente portato vantaggi economici all’Occidente). Da queste esigenze nascono i Templari, il primo ordine monastico-cavalleresco sorto con finalità di difesa militare fin dalle sue origini. Nel 1118-1119 - a vent’anni dalla fine di quella che era la crociata, non ancora classificata come prima - alcuni cavalieri pre-valentemente di area franca decidono di scegliere una vita consacrata non entrando in monastero - come pochi anni prima aveva fatto il cavaliere Bernardo - ma dedicandola alla difesa dei pellegrini che si recavano ai luoghi santi, presidiando le vie che conduce-vano a Gerusalemme. L’iniziativa parte da ambiente aristocratico, come d’altronde la maggior parte di quelle monastiche del tempo, ma a maggior ragione non poteva essere che così trattandosi di guerra, che era in mano alle classi privilegiate, per tradizione e

2 Bernardo definisce i musulmani «pagani»; in lui non compare l’idea che essi siano «eretici».

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per i costi di cavallo e armatura. I fondatori, come si è detto, sono cavalieri, e tra i primi nove di essi si trovano Ugo di Payns e Goffredo di Saint-Omer, che già nel 1110 aveva-no costruito in Terra Santa una torre per l’ospitalità e la protezione dei pellegrini, e An-drea di Montbard, che sarà quinto maestro dei Templari (1153-1156); entro il 1125 arri-vano Folco d’Angers e Ugo conte di Champagne, la stessa regione di Payns, posta im-mediatamente a nord della Borgogna di san Bernardo, del quale non solo Andrea è zio materno, ma lo stesso Ugo di Payns, secondo alcune ipotesi, è parente. Non è difficile comprendere il coinvolgimento affettivo e anche «ideologico», potremmo dire, dell’abate di Clairvaux nel progetto di questi cavalieri appartenenti al suo ambiente so-ciale e familiare. Lui che aveva lasciato la cavalleria per entrare a Cîteaux, vede ora prospettarsi un tipo di cavalleria religiosa in cui la forza, la baldanza, il coraggio e l’abilità sono finalizzati alla difesa dei cristiani e dei luoghi santi a costo della vita; una cavalleria che lui, monaco ex cavaliere, cercherà di rendere il più monastica possibile nella spiritualità e nel tipo di vita. Si ricordi però che la professione monastica resterà sempre per lui al di sopra di ogni altro impegno, come mostrano alcune lettere qui ri-prodotte in cui egli ribadisce che nessun monaco può, volontariamente o per costrizione, lasciare la sua vita di preghiera nel monastero per imbarcarsi nella spedizione crociata. Bernardo non fondò né progettò i cavalieri del Tempio: incontrò inevitabilmente la loro strada e rimase loro vicino, sicché anche in seguito i rapporti tra templari e cister-censi rimasero privilegiati. I templari ebbero le loro origini in Terra Santa e pronuncia-rono il primo voto davanti al patriarca di Gerusalemme; il re Baldovino II, già tra il 1119 e il 1120, li accolse in una sala del suo palazzo che, situato presso la spianata del Tempio, venne identificato proprio con il Tempio di Salomone distrutto dai romani e trasformato dai musulmani nella moschea di al-Aksa; trasferitosi poi il re nella torre di Davide, tutto l’edificio rimase all’ordine che venne detto del Tempio, da cui il nome di templari a quelli che ufficialmente vollero chiamarsi «Poveri cavalieri di Cristo». Il progetto e la realtà iniziale dei Templari avevano bisogno di una regola e di un ri-conoscimento dal centro, poiché si trattava non solo di religiosi, ma di un tipo assolu-tamente nuovo. Si pensi che, formalmente, agli ecclesiastici era vietato portare le armi e anche andare a caccia (quest’ultimo divieto rimase anche per i Templari, con l’ecce-zione della caccia al leone). Perciò nel 1127 Ugo di Payns e altri cinque «poveri cavalie-ri» si recarono prima a Roma dal papa Onorio II, poi in Francia, nei loro territori di ori-gine; e a Troyes, nella Champagne, a circa dodici chilometri a sud di Payns, si riunì un concilio locale per organizzare il nuovo ordine, sotto la presidenza del legato papale Matteo, cardinale vescovo di Albano, e con la partecipazione di arcivescovi, vescovi, abati. Tra questi ultimi il terzo abate di Cîteaux, Stefano Harding, e probabilmente quel-lo di Clairvaux, cioè Bernardo. Il concilio approva una regola, che secondo alcune fonti sarebbe stata composta da san Bernardo su richiesta di Ugo. Ma, a parte i dubbi di alcu-ni storici sulla stessa partecipazione del santo a questo concilio, la regola ebbe subito dopo, tra il 1128 e il 1130, una nuova redazione dovuta al patriarca di Gerusalemme Stefano di Chartres, il cui testo latino è stato conservato, come una più ampia versione francese del 1140 circa. Quindi non si può attribuirla a Bernardo, anche se egli può averne ispirato ampiamente l’impianto e la spiritualità3. Ma i Templari continuarono a

3 Afferma che Bernardo compose la regola dei Templari FERRUCCIO GASTALDELLI in San Bernardo, Let-tere, I, Milano 1986, pp. 134-135, nota 2 alla lettera 21 (Opere di San Bernardo, VI, 1). In questa lettera, inviata al legato papale Matteo, cardinale vescovo di Albano, tra la fine del 1127 e i primi del 1128 Ber-nardo si scusa di non poter intervenire al prossimo concilio di Troyes per questioni di salute (questa lette-ra non è tra quelle selezionate). Gastaldelli ricorda altre fonti che invece testimoniano della presenza del

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rivolgersi a lui per averne un testo esortativo e infine, dopo tre richieste del loro primo maestro, il santo compose la Lode della nuova cavalleria ai cavalieri del Tempio (Ad milites Templi de laude novae militiae), in una data che va da poco dopo il concilio di Troyes al 1136, anno della morte di Ugo di Payns, cui il libro è dedicato. L’opera nella prima parte, secondo il suo titolo, è una lode dei cavalieri del Tempio e della funzione che essi svolgono sia all’interno della società cristiana, sia nella difesa esterna contro i musulmani. Va subito notato che agli occhi di Bernardo la maggiore contrapposizione presente nella sua società non è tra violenza e non-violenza, ma tra la nuova cavalleria religiosa e i cavalieri «profani», del mondo feudale, volti a combattersi reciprocamente per insulsi motivi di orgoglio, stupide ripicche, desiderio vanaglorioso di primeggiare. Questa è in fondo per Bernardo la vera violenza, assolutamente inutile, anzi fortemente dannosa per la tranquillità e l’ordinato vivere della società cristiana; violenza perché tale nelle motivazioni e nei fini, o meglio perché esercitata senza un ve-ro fine. I Templari, come già i crociati (e Bernardo lo ripeterà con maggior passione ne-gli appelli per la seconda crociata), hanno invece un fine nobile, una giusta causa per la quale combattere e uccidere o restare uccisi, che non è soltanto quella di difendere i pel-legrini cristiani né di mantenere alla cristianità i santi luoghi della presenza terrena di Cristo, ma di opporsi al male, al demonio, che vuole dilagare e che ha il suo braccio ar-mato nei «pagani». Se non ci fosse l’aggressione da parte loro, scrive Bernardo, non bi-sognerebbe ucciderli, attendendo fiduciosamente la fine dei tempi per la loro conversio-ne, come si fa con gli ebrei, difesi appassionatamente dal santo un decennio dopo contro la terribile realtà dei primi pogrom anti-giudaici che in Renania accompagnarono la se-conda crociata, come già era avvenuto durante la prima. Certo può fare effetto leggere, nella Lode della nuova cavalleria, che l’uccisione di un pagano- cioè di un musulmano - non è un omicidio, ma un malicidio; a questo neologismo bernardino si possono dare due interpretazioni: la prima intendendo mali genitivo di malus, malvagio, quindi «ucci-sione di un malvagio»; la seconda prendendo mali come genitivo di malum, il male, quindi come uccisione del male. Non è facile affermare con decisione cosa intendesse veramente Bernardo, ma in ogni caso non si trattava certo di una bella considerazione del nemico, di cui viene sminuita l’umanità. Nella seconda parte del Liber ad milites Templi Bernardo abbandona i toni guerre-schi e passa a scrivere di ciò che lo appassiona di più, l’oggetto e il fine dell’impegno dei Templari, cioè la Terra Santa. Al termine della lode per i cavalieri arriva al Tempio, il loro luogo di residenza, guerresco per le armi, monastico per la preghiera e la vita in comunione fraterna, quindi passa alla città santa che lo racchiude, innalzando un saluto e una lode a Gerusalemme. Da qui inizia un cammino che ripercorre la vita terrena di Gesù Cristo: Bethleem, Nazareth, il monte degli Ulivi e la valle di Giosafat, il Giordano, il luogo del Calvario, il Sepolcro. Si sofferma a lungo sulla tomba vuota di Cristo, «che ha come il primato tra i luoghi santi e desiderati», ricordo della morte del Salvatore, che è stata per gli uomini «la liberazione dalla morte». Bernardo non si recò mai in Terra Santa e non si preoccupa di seguire descrizioni che ne erano state fatte in diversi tempi. Il suo è un viaggio spirituale, in cui sulla base della lettura allegorica propria dell’esegesi medievale, in particolare di quella monastica, si innalza a considerazioni di carattere morale e soprattutto teologico. Ogni luogo ha un significato dello spirito, par-

santo al concilio, che si aprì il 13 gennaio 1128, concludendo: «La Regola, composta da Bernardo, si ispi-ra a quella di san Benedetto; dopo essere stata ritoccata, fu approvata dal concilio; due anni dopo, sarà nuovamente ritoccata dal patriarca di Gerusalemme Stefano di Chartres che si ispirerà a quella dei Cano-nici regolari».

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tendo dall’etimologia attribuita al suo nome e rincorrendo una catena di citazioni bibli-che, che a volte danno l’effetto di uno scoppiettare di fuochi di artificio. Betlhleem è la «casa del pane» in cui apparve il pane disceso dal cielo nato dalla Vergine; Nazareth è il «fiore», perché il profumo del Dio bambino aspirato dai profeti ha preceduto il sapore del frutto gustato dagli apostoli e dai cristiani; per altri luoghi la meditazione, la con-templazione geografico-spirituale, parte dal loro significato nella Scrittura: la misericor-dia di Dio e il suo perdono nel Giudizio finale (Giosafat), il battesimo di Cristo con la presenza dell’intera Trinità (il Giordano), la croce salvifica di Cristo (il Calvario). Dopo il Sepolcro, i luoghi dove si colgono i frutti della salvezza dalla morte, Betfage, «casa della bocca», «villaggio di sacerdoti… dove è racchiuso il mistero della confessione e del ministero sacerdotale», e Betania, «casa dell’ obbedienza», dove fu risuscitato Laz-zaro e dove si ricordano i due generi di vita religiosa simboleggiati dalle sue sorelle Ma-ria e Marta, quella contemplativa e quella attiva, e «la meravigliosa demenza di Dio ver-so i peccatori e la virtù dell’obbedienza insieme ai frutti della penitenza», per l’unzione fatta a Gesù da questa Maria, identificata con la Maddalena penitente4. Questa seconda parte del Liber ad milites Templi, più lunga della prima, diviene nel suo complesso un’esposizione delle verità della fede, soprattutto della redenzione derivata dalla morte e risurrezione del Cristo, perché i Templari in primo luogo difendono tale patrimonio: «Queste delizie del mondo, questo tesoro del cielo, questa eredità dei popoli fedeli sono affidati alla vostra fede, carissimi, consegnati alla vostra perizia e al vostro coraggio». Così Bernardo, terminato il viaggio spirituale per una Terra Santa simbolica, torna a ri-volgersi direttamente ai cavalieri del Tempio, senza dimenticare che essi difendono an-che la Terra Santa storica, materiale, non meno reale dell’altra, anzi - come sempre nella lettura allegorica o figurale - condizione della realtà superiore che simboleggia. Le ric-chezze spirituali sono quelle «che l’annuncio profetico promette» e sono elargite ai Templari, a condizione che essi facciano affidamento non sulle proprie forze, «ma sem-pre e soltanto nell’aiuto di Dio… Non a noi Signore, non a noi ma al tuo nome da’ glo-ria (Salmo 115,1), affinché in tutte le cose sia benedetto lui, che addestra le vostre mani alla battaglia e le vostre dita alla lotta (Salmo 144,1)». Se si leggono con un po’ di attenzione i testi selezionati, si nota che concetti, imma-gini, citazioni bibliche e persino parole e frasi non solo si ritrovano uguali o simili in di-verse lettere inviate in occasione della seconda crociata, ma già erano presenti più di dieci anni prima nella Lode della nuova cavalleria: il parallelo è particolarmente inte-ressante fra questo trattato e la lettera 363; in entrambi, per esempio, è descritto quasi con le stesse frasi il contrasto tra cavalleria (militia) in nome di Cristo e cavalleria mon-dana, detta con gioco di parole malitia. Bernardo mostra una forte coerenza non solo all’interno del suo pensiero, ma anche nei suoi atteggiamenti a distanza di anni: quanto egli dice per Templari e crociati e le stesse citazioni bibliche che accompagnano e so-stanziano la sua argomentazione hanno a volte il sapore dello slogan, nel senso di qual-cosa ripetuto più volte e più o meno nello stesso modo5. Per quanto riguarda la sua coerenza nel tempo si veda la sua corrispondenza con la regina di Gerusalemme Melisenda, alla quale scrive a più riprese e in diverse occasioni,

4 Vedi la nota al testo della Lode della nuova cavalleria. 5 Nella seconda parte del Liber ad milites Templi Bernardo presenta una panoramica pressoché completa dei luoghi cristiani della Terra Santa, ma anche altrove nelle sue opere si trovano accenni, etimologie e interpretazioni simili, a conferma della ripetitività di concetti e letture bernardine: ad es. nella lettera 77 o in alcuni sermoni per la Vergine, che qui ritengo inutile riportare. Ma il riferimento ai luoghi della Pale-stina in Bernardo è sempre simbolico.

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spesso per sostenerla, sia nel dolore per la morte del marito, sia di fronte alle responsa-bilità di governo che venne a trovarsi sulle spalle. Non tutti, come s’è detto, si trovarono d’accordo con l’atteggiamento di Bernardo. Ma certo anche la sua avversione e la sua preoccupazione per la violenza che i cavalieri esercitavano all’interno della cristianità erano ampiamente condivise, almeno negli am-bienti ecclesiastici, e da molto tempo. Fin dal secolo precedente, prima della crociata, la Chiesa aveva cercato di porre un freno al disordine provocato dalle disfide aristocrati-che, che significavano non soltanto scontro armato tra i signori, ma anche scorrerie nelle campagne, razzie e violenze compiute sui loro servi. Franco Cardini scrive che si tratta-va di una guerra di tutti contro tutti, «che si risolveva spesso in danni ingenti per gli enti ecclesiastici e le relative proprietà nonché sempre in un supplemento di sofferenze per i miseri, gli imbelli, insomma i pauperes e le miserabiles personae la tutela delle quali il diritto canonico assegnava alla Chiesa»6. Si iniziò già dalla fine del sec. X a vietare i combattimenti nel giorno di Pasqua e nelle domeniche. Verso la metà del sec. XI si an-dò diffondendo dal basso e dall’alto un vasto movimento religioso reclamante la pace di Dio, che si cercò di concretizzare nella tregua di Dio, imposta da sinodi e autorità reli-giose, per la quale il combattimento era vietato sotto pena di scomunica dal giovedì alla domenica compresi; contro quanti infrangessero la tregua vennero istituite anche milizie diocesane, anticipatrici in un certo senso di quelle armate che, nella crociata, si sarebbe-ro lanciate contro gli infedeli. Si comprende meglio così quella specie di equazione che sottostà al pensiero di Bernardo tra peccatore cristiano e aggressore pagano, entrambi ispirati da Satana. I Templari dunque furono molto cari all’abate di Clairvaux, che sottolineò la loro vocazione non solo di cavalieri combattenti per il bene contro il male, non solo di possi-bili martiri di Cristo, ma anche di monaci che dovevano condurre una vita di preghiera, di obbedienza, di castità e di povertà, senza lusso nelle vesti e nel vitto, senza nessun orpello esteriore. La regola dei Templari stabilisce la loro organizzazione e il loro stile di vita. Hanno a capo il maestro del Tempio, la cui autorità gerarchica e paterna corri-sponde a quella dell’abate (che, negli ordini monastici centralizzati come quello di Clu-ny è a capo di tutti i monaci, non di un solo monastero); questi è assistito da un consi-glio formato da fratelli saggi, mentre le decisioni più importanti richiedono il parere del capitolo. I monaci-cavalieri portano il mantello bianco con la croce rossa sulla spalla, che li contraddistingue rispetto agli scudieri e a quanti solo temporaneamente si unisco-no loro per combattere, senza alcun voto monastico. Vi è dunque una precisa gerarchia interna, il cavaliere è un nobile e un combattente, che per esigenze della sua missione, oltre che del suo stato sociale, ha bisogno di vario personale che lo aiuti, poiché il com-battente medievale a cavallo è una vera e propria macchina da guerra che da sola diffi-cilmente può essere messa in funzione. Le donne non sono ammesse nelle case dei Templari. La regola inizia con l’indicazione dell’ufficio liturgico che i «poveri cavalie-ri» ogni giorno devono osservare, con l’obbligo di sostituirlo con la recita di vari Padre nostro alle diverseore in caso di impedimento. Il vitto è più abbondante e sostanzioso di quello dei monasteri e ciò è facilmente comprensibile perché i cavalieri devono essere ben in forze per combattere. I «poveri cavalieri di Cristo» si diffusero presto per tutta Europa, anche se il loro compito principale rimase quello di difendere i luoghi santi e la loro casa generalizia re-stò il Tempio di Salomone a Gerusalemme, finché fu possibile. Con una struttura cen-

6 F. CARDINI, I poveri cavalieri del Cristo. Bernardo di Clairvaux e la fondazione dell’Ordine templare, Rimini, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 1994, p. 43.

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tralizzata, l’ordine si suddivise, in Terra Santa e in Europa, in commende, rette da un commendatore (che in diversi documenti viene anche detto procuratore, maestro, mini-stro, istitutore o precettore): Gerusalemme città, regno di Gerusalemme, Tripoli, Antio-chia, Inghilterra, Francia, Poitou, Provenza, Aragona, Portogallo, Puglia, Ungheria. Dal 1139, con una bolla del papa Innocenzo II, l’ordine riceve una serie di privilegi, come la dipendenza diretta dalla Santa Sede, l’assoluta autonomia nell’elezione del maestro, la presenza di sacerdoti propri (cappellani) indipendenti dai vescovi diocesani e una più generale esenzione dalla giurisdizione episcopale. I Templari accumularono progressi-vamente grandi ricchezze, non solo immobiliari (per le donazioni che ricevevano come gli altri ordini monastici), ma anche in denaro, per l’abile amministrazione di tale patri-monio immobiliare, in cui si dimostrarono particolarmente capaci (d’altronde le loro ca-se delle diverse commende d’Europa non servivano certo direttamente alla difesa dei pellegrini, né come baluardi antimusulmani, tranne che nella penisola iberica); così, grazie alla disponibilità di denaro liquido, iniziarono una vera e propria attività bancaria. Tramite le loro case si potevano trasferire somme consistenti senza spostamento di mo-neta, ma semplicemente con lettere di cambio, di cui i «poveri cavalieri» furono in pra-tica gli inventori nell’Europa medievale. Autonomia da autorità laiche e religiose, ric-chezza, fiorente attività economica, organizzazione accentrata, forza militare, fama di valore e coraggio in combattimento: tutto ciò portò rispetto e ammirazione, ma anche ostilità per la loro potenza, con accuse di orgoglio e di avidità, che tornarono drammati-camente nei processi che segnarono la loro fine. Per quanto riguarda la progressiva diffusione al di fuori della Terra Santa, si tenga anche conto che dalla metà del XII secolo i cristiani furono pian piano rigettati dai loro possedimenti d’Oriente. Sono avvenimenti che Bernardo non vide, perché nel 1153 mo-rì. Dopo il fallimento della seconda crociata - di cui lui era stato predicatore - e la man-cata riconquista della contea di Edessa persa nel 1146, una nuova offensiva musulmana guidata dal famoso Saladino tolse la stessa Gerusalemme dalle mani dei cristiani (1187) e i Templari dovettero abbandonare la casa del Tempio, spostando la loro sede centrale a San Giovanni d’Acri, sulla costa palestinese. Inutile per riconquistare la città risultò la terza crociata (1189-1192), nonostante la partecipazione dell’imperatore Federico I Bar-barossa (che vi morì) e del re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. Anche la quarta (1202-1204) e la quinta crociata (1217-1221) andarono fallite e soltanto Federico II di Svevia, imperatore, re di Sicilia e re di Gerusalemme, riottenne la città a seguito di ac-cordi diplomatici con il sultano d’Egitto, che vi estendeva il suo dominio (1229). Ma questo suo regno d’oltremare era ristretto a Gerusalemme e Betlemme con un corridoio che le collegava a Nazareth e ad alcune postazioni sulla costa, da Ascalona a sud fino a Beirut a nord, al confine con la contea di Tripoli. Nel 1244 la città col sepolcro di Cristo e quella con la grotta della sua natività tornarono definitivamente in mano musulmana, mentre in meno di un quarantennio, nonostante le due ultime crociate (sesta nel 1248-1254; settima nel 1270) condotte dal re di Francia san Luigi IX, a uno a uno caddero i domini cristiani: nel 1268 il principato di Antiochia; nel 1288 la contea di Tripoli; nel 1291 i restanti capisaldi, Tiro, Sidone, Beirut e per ultimo San Giovanni d’Acri. Gli or-dini monastico-militari dovettero lasciare la Terra Santa; gli Ospitalieri di San Giovanni andarono prima a Rodi, poi divennero gli attuali Cavalieri di Malta trasferendosi in quest’isola; i Templari spostarono il loro centro a Cipro; rimasero un forte e ricco ordine in Europa finché le loro ricchezze fecero gola al re di Francia Filippo IV il Bello, che a partire dal 1307 organizzò contro di loro una congiura, riprendendo voci inconsistenti e inventando accuse che rimasero nella fantasia dei secoli successivi, fondendosi con una

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pretesa tradizione esoterica che lo storico deve assolutamente rigettare (a meno che non voglia fare la storia di queste fantasie, popolari o pseudo dotte che siano). La realtà sto-rica ci parla della fine dei Templari, con lo svolgimento di inchieste e processi da parte del re di Francia, del papa Clemente V e di tribunali diocesani. Cinquantaquattro di essi furono mandati al rogo dall’arcivescovo di Sens nel 1310. Nel 1311 il concilio generale (cioè, con linguaggio moderno, ecumenico) di Vienne, in Francia, non espresse condan-ne, ma il 22 marzo del 1312 Clemente V con la bolla Vox in excelso ne soppresse (o «sospese») l’ordine7, concedendo gran parte dei loro beni agli Ospitalieri di San Gio-vanni, che pagarono ingenti somme al re di Francia. Il 18 marzo 1314 furono mandati al rogo a Parigi l’ultimo maestro dei Templari Giacomo di Molay e il precettore di Nor-mandia Geoffroy de Charnay, come relapsi, cioè per aver ritrattato le confessioni estorte loro in precedenza, in interrogatori in cui era prevista normalmente la tortura: di fronte alla rovina del loro ordine vollero affermarne la assoluta innocenza a costo della morte. La seconda crociata Nel 1144 cadde in mano musulmana la città di Edessa ed entro due anni, come s’è detto, l’intera contea. Per riconquistarla e soprattutto per difendere dal pericolo i luoghi santi - dopo un appello della regina di Gerusalemme Melisenda - partì la seconda cro-ciata, guidata dall’imperatore Corrado III di Hohenstaufen e dal re di Francia Luigi VII. Il papa Eugenio III la bandì il 10 dicembre 1145, con una bolla inviata al re di Francia; questi chiese l’aiuto di Bernardo di Clairvaux, perché la predicasse; il santo, dopo un espresso ordine del papa, iniziò la predicazione da Vézelay il 31 marzo 1146. «Comincia allora per lui una serie di viaggi che per circa due anni lo terranno spesso lontano dal suo monastero. In Lorena, nella Fiandra e nell’Artois egli passa a proclama-re l’indizione della guerra santa e a invitare gli uomini ad arruolarsi nell’armata di Cri-sto. Viene a sapere che ha un rivale nel monaco cistercense Raoul [Radulfus], il quale, senza alcun mandato, solleva le folle delle rive del Reno contro i Giudei. Bernardo ac-corre sul posto, gli si oppone risolutamente e prende con sé le reclute che quello aveva già radunato. A Magonza e a Worms, così come a Bruges e a Liegi e ovunque, ottiene il trionfo che già aveva conosciuto in Italia, in Germania e in Aquitania. A Francoforte sul Meno si intrattiene con l’imperatore Corrado III; quindi discende nella Germania del sud fino a Costanza e alla fine del mese di dicembre assiste alla dieta di Spira. Purtrop-po i nobili e i prìncipi non rispondono alla sua chiamata con lo stesso entusiasmo delle folle che, d’altra parte, non possono far nulla senza i loro capi. Bernardo, a forza di mi-racoli, riesce a convincere l’imperatore, poi rientra in Borgogna attraversando la Vallo-nia, la Piccardia e la Champagne; arriva a Clairvaux nel febbraio 1147, dopo aver predi-cato, negoziato, sofferto mille fatiche per un anno intero. Nel frattempo invia lettere ed emissari in tutto l’Occidente: in Inghilterra, in Spagna, in Boemia, in Italia e in Baviera e finanche in Moravia, in Polonia e in Danimarca. Dopo aver trascorso solo quattro giorni nel suo monastero, Bernardo parte per Étampes dove assiste al consiglio di Luigi VII, alla presenza di ambasciatori dell’Imperatore e del re di Sicilia. Designa Sugero8 ad assumere il comando durante l’assenza del re di Francia e quindi torna a Clairvaux,

7 Barbara Frale trovò nell’Archivio Segreto Vaticano una bolla di Clemente V che assolve i Templari. Ta-le bolla non riuscì però a fermare la distruzione dei Templari, né a evitare il loro scioglimento (o «sospen-sione») da parte dello stesso Clemente V. 8 Abate di Saint-Denis a Parigi.

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dove non si fermerà che poche settimane. Riprende il viaggio diretto a Treviri, quindi va a Francoforte, dove in marzo si terrà una nuova dieta». Questo il quadro dell’attività di san Bernardo offerto da uno dei suoi studiosi più ap-passionati, Jean Leclercq9, che sottolinea il successo, almeno tra le folle, riscosso dalla sua propaganda, prima in Francia, poi in Germania; nel 1147 il papa Eugenio III si recò in Francia e nello stesso anno partirono per via di terra l’esercito francese (fine maggio) e quello tedesco (fine giugno). Ma un così roseo inizio non vide affatto un felice svol-gimento. Sconfitte militari, contrasti fra i capi, dissidi tra crociati e signori feudali di Terra Santa e persino la crisi matrimoniale tra Luigi VII ed Eleonora d’Aquitania (che, ottenuto infine lo scioglimento, sposerà il futuro re d’Inghilterra Enrico II) caratterizza-rono questa spedizione, che non ottenne alcun risultato positivo, anzi sfatò il mito dell’invincibilità dei cavalieri europei e diede forza alla progressiva riconquista musul-mana, di cui s’è detto in precedenza. Nel settembre 1148 tornò in Europa Corrado, nell’estate 1149 lo seguì Luigi. Il regno di Melisenda restava esposto al pericolo più di prima. Bernardo si sentì in parte responsabile dell’insuccesso, cui si aggiungeva quello della crociata contro i Vendi (popolo slavo pagano residente al di là dell’Elba), che egli aveva sostenuto anche partecipando di persona nel marzo 1147 alla dieta di Francoforte. Fu invitato ancora a predicare la crociata, a capo della quale nel convegno di Chartres del 7 maggio 1150, presente il re di Francia, si volle addirittura mettere lui, che alla fine, do-po un primo rifiuto, dovette accettare. Questo convegno non ebbe la partecipazione di quelli degli anni precedenti; Bernardo scrisse a Pietro il Venerabile rammaricandosi che questi non vi fosse intervenuto e invitandolo a un nuovo convegno a Compiègne per il 15 luglio. Pietro, di cui si è notatala diversa spiritualità, non vi si recò, e non solo lui: ormai questa avventura crociata era terminata. Bernardo ne portò in sé la pena fino alla morte, sopraggiunta tre anni dopo. Scritti di Bernardo selezionati L’impegno di san Bernardo per il regno di Gerusalemme (nella persona della sua re-gina Melisenda), i Templari, la crociata negli anni dal 1124 al 1153 è documentato, ol-tre che nella Lode della nuova cavalleria (attribuibile agli anni Trenta del secolo XII), nelle lettere, selezionate in base alloro argomento dall’ampio epistolario dell’abate di Clairvaux, composto di 548 missive, di cui 499 sue. Non sono state selezionate tutte le lettere riguardanti i temi qui trattati, ad esempio manca la lettera 247 a papa Eugenio III del maggio 1146, in cui Bernardo affronta il problema dello scontro tra l’arcivescovo di Bourges Pietro e quello di Reims Sansone a causa della nuova incoronazione di re Luigi VII nell’alta corte di Bourges del Natale 1145. Qui la reggenza durante la spedizione crociata del re fu affidata a Sugero, abate di Saint-Denis e Luigi fu nuovamente incoro-nato da Sansone invece che dal vescovo del luogo, come avrebbe dovuto avvenire. Eu-genio per punizione privò del pallio arcivescovile Sansone, ma a distanza di qualche mese, quando la crociata è ormai bandita e Bernardo stesso ha avuto l’incarico di predi-carla, l’abate di Clairvaux interviene presso il papa, con toni decisi e rimproveranti, in difesa dell’arcivescovo di Reims. Nelle ultime righe della lettera Bernardo annuncia di aver iniziato la predicazione della crociata e che molti uomini rispondono all’invito: «Si svuotano città e castelli ed ormai sette donne non trovano nemmeno un sol uomo».

9 ]. LECLERCQ, San Bernardo. La vita, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 165-166.

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Sono state selezionate dunque diciotto lettere dal 1124 al 1153. Sono riportati infine due passi del trattato dedicato a Eugenio III De consideratione (composto tra il 1148 e il 1153), brevi ma significativi: nel primo, riguardante l’esito negativo della seconda cro-ciata, della quale era stato posto a capo lui stesso, Bernardo traccia un’appassionata di-fesa del suo operato insieme a un’aspra critica del comportamento dei capi crociati, di-chiarati privi di fede; nel secondo il santo ricorda al papa gli impegni per la conversione dei non cristiani, tralasciando per un momento i toni e gli argomenti della guerra e dello scontro a favore di uno slancio missionario, non privo però della richiesta di un deciso intervento contro coloro che portano traviamento dalla fede, gli eretici. Nota ai testi L’edizione critica latina delle opere di Bernardo di Clairvaux è in Sancti Bernardi Opera, voll. I-VIII, a cura di J. Leclercq, H.M. Rochais, C.H. Talbot, Roma 1957-1977. Le medesime opere, sia nel testo latino sia in traduzione italiana a fronte, sono raccolte in Opere di san Bernardo, a cura di Ferruccio Gastaldelli, vol. I-VI, Milano 1984-1987. La traduzione italiana dei testi qui selezionati è mia, anche se confrontata con quelle esistenti. Nelle citazioni scritturali l’indicazione di capitoli e versetti è di uso moderno, poiché nel sec. XII la Bibbia non era ancora stata suddivisa in capitoli (lo fu a partire dal secondo decennio del sec. XIII), né in versetti (introdotti nelle edizioni a stampa del sec. XV). La traduzione delle citazioni non segue il testo della Conferenza Episcopale Italia-na (CEI) né altre traduzioni moderne, che si basano sul testo originale dei libri scritturali (ebraico e greco), mentre Bernardo, come i suoi contemporanei, leggeva la Vulgata lati-na di san Girolamo, che a volte può essere diverso dalla corretta traduzione moderna. Solo la numerazione dei Salmi non segue la Vulgata, ma quella ebraica, più diffusa nel-le moderne edizioni della Bibbia (un numero più alto per i salmi dal 10 al 147).

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BREVE CRONOLOGIA della vita di Bernardo di Clairvaux

con riferimento ad alcune sue opere qui considerate 1090 ca Bernardo nasce a Fontaines-lès-Dijon (villaggio a 2 km da Digione), terzogeni-to di Tescelino, uno dei più importanti vassalli del duca di Borgogna, e di Aletta, figlia del potente feudatario borgognone Bernardo di Montbard; ha cinque fratelli (Guido, Ge-rardo, Andrea, Bartolomeo, Nivardo) e una sorella (Umbelina). Lo zio materno, Andrea di Montbard, diventerà templare nel 1129, gran maestro dell’Ordine dal 1153 alla morte (1156). 1097-98 Bernardo viene inviato alla scuola dei canonici di Saint-Vorles a Châtillon-sur-Seine dove studia le discipline del trivium (soprattutto grammatica e retorica). 1107-1108 Morte della madre Aletta. 1112-1113 Ingresso, con circa trenta parenti e amici, nel monastero di Cîteaux, fondato nel 1098 da Roberto di Molesmes. 1114 I trenta novizi emettono la professione solenne dinanzi a Stefano Harding, terzo abate di Cîteaux (dopo Roberto e Alberico). 1115 Cîteaux realizza con un gruppo di suoi monaci la sua quarta fondazione, Clair-vaux; Bernardo ne viene nominato abate. 1115-1116 Bernardo viene consacrato abate e sacerdote da Guglielmo di Champeaux, vescovo di Châlons-sur-Marne. 1119 ca. Tescelino, padre di Bernardo, entra nel monastero di Clairvaux e poco dopo vi muore (1120). 1122-24 (o 1128) Bernardo e Guglielmo di Saint Thierry (benedettino, dal 1121 abate di St.-Thierry) trascorrono un periodo insieme nell'infermeria di Clairvaux, è un’importante occasione di confronto su questioni teologiche e spirituali e Bernardo viene introdotto alla lettura e alla comprensione del Cantico dei Cantici. 1124 Lettera 359 contro Arnoldo di Morimond. 1127-29 Primo intervento di Bernardo in vicende esterne all'ambiente monastico: nella lite tra Luigi VI, re di Francia (1108-1137), e Stefano di Senlis, arcivescovo di Parigi, per la sostituzione del capitolo di Nôtre Dame (cfr. Ep 45-47). 1128 (13 gennaio) Apertura del concilio di Troyes durante il quale viene redatta la pri-ma regola dei Templari; 1130-38 Bernardo si schiera a favore del papa Innocenzo II (1130-1143) nello scisma contro l'antipapa Anacleto II (cfr. Ep 124-140, 189; Super Cantica 24). 1130 (ottobre) Al concilio di Étampes, convocato da Luigi VI, Bernardo espone pub-

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blicamente la propria posizione e orienta i partecipanti a favore di Innocenzo II. 1131 Viaggio di Bernardo a Liegi e in Aquitania; primo scontro a distanza tra Bernardo e Pietro Abelardo a proposito della sostituzione, operata dalle monache del Paracleto e ritenuta da Bernardo arbitraria, del termine coti-dianum con supersubstantialem nella recita del Pater noster. 1132-35 (o 1129-31) Liber ad milites Templi. 1133 Primo viaggio di Bernardo in Italia. 1135 inizio della composizione dei Sermones Super Cantica Canticorum. (febbraio-marzo) Viaggio di Bernardo in Germania; (marzo) Guglielmo di Saint-Thierry entra nell'ordine cistercense; (maggio) secondo viaggio di Bernardo in Italia; 1137-38 Terzo viaggio di Bernardo in Italia (cfr. Ep 144). 1139 Concilio Lateranense II al quale partecipa anche Bernardo; il concilio, dopo la fine dello scisma di Anacleto II, condanna gli errori dei seguaci di Pietro di Bruys (condan-nato al rogo a Saint-Gilles tra il 1132 e il 1133) e di Arnaldo da Brescia (che sarà impic-cato e il suo corpo bruciato a Roma nel 1155); 1140-1141 Attiva partecipazione di Bernardo al concilio di Sens per la condanna di di-ciannove proposizioni di Pietro Abelardo (Ep 187-194,327, 330-336, 338). 1142 Morte di Abelardo; Bernardo scrive a Ermanno vescovo di Costanza per invitarlo a cacciare Arnaldo da Brescia, rifugiatosi a Zurigo (cfr. Ep 195-196). 1143 (o 1144) Lettera a Bernardo di Evervino, prevosto dei premonstratensi di Stein-feld, sulla diffusione di una setta eretica (dalle caratteristiche catare) in Renania. 1145 (15 febbraio) Bernardo Pignatelli di Pisa, abate del monastero cistercense delle Tre Fontane “Ad Aquas Salvias” di Roma, è il primo cistercense ad essere eletto papa, con il nome di Eugenio III (cfr. Ep 237-238, 508); morirà nel 1153, come Bernardo; (maggio-giugno) Bernardo si reca in Linguadoca per combattere le idee eretiche dei ca-tari e del monaco Enrico (cfr. Super Cantica 65-66; Ep 241-242). (1° dicembre) Eugenio III invia al re di Francia Luigi VII (1137-1180) una bolla per l’organizzazione della crociata. 1146 (1 marzo) Eugenio III, con la bolla Universis fidelibus Dei, indice solennemente la seconda crociata e incarica Bernardo della sua predicazione in Francia, Baviera, Germania e Fiandre; (31 marzo) a Vézelay grande riunione per l'annuncio ufficiale della seconda Crociata (cfr. Ep 363).

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1147 (6 aprile) Bernardo riceve papa Eugenio III a Clairvaux; (22 aprile) Bernardo è a Parigi per la discussione, alla presenza di Eugenio III, del caso di Gilberto de la Porrée; il giudizio viene rinviato al concilio di Reims convocato per il 22 marzo 1148; scambio di lettere tra Bernardo e Ildegarda di Bingen (Ep 366). 1148 (marzo-aprile) Al concilio di Reims Bernardo viene incaricato di esporre i presun-ti errori teologici sulla Trinità di Gilberto de la Porrée, vescovo di Poitiers (cfr. Super Cantica 80); ma Gilberto non viene condannato; viaggio di Bernardo in Renania per contrastare la predicazione antisemita del monaco cistercense Radolfo (cfr. Ep 363, 365); disfatta dei Crociati in Terra Santa (cfr. De Consideratione II, 2); (8 settembre) muore Guglielmo di Saint-Thierry; 1148-53 De Consideratione ad Eugenium papam. 1150 (7 maggio) Nel concilio di Chartres viene conferito a Bernardo il comando di una nuova crociata (cfr. Ep 256, 364, 521); l'incarico viene confermato il 19 giugno da Eu-genio III, ma ben presto il progetto viene abbandonato; viaggio di Bernardo in Bretagna e forse in Normandia. 1153 (marzo o aprile) Viaggio di Bernardo a Metz; (8 luglio) a Tivoli muore papa Eugenio III; (20 agosto) a Clairvaux muore Bernardo; alla sua morte le fondazioni o affiliazioni claravallensi sono 167 su 345 monasteri ci-stercensi; 1174 (18 gennaio) Papa Alessandro III canonizza san Bernardo. 1830 (20 agosto) Papa Pio VIII proclama Bernardo Dottore della Chiesa.

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LODE DELLA NUOVA CAVALLERIA AI CAVALIERI DEL TEMPIO

A Ugo, cavaliere di Cristo e maestro della cavalleria di Cristo, Bernardo, abate di Clairvaux solo di nome: combatti la buona battaglia (2 Timoteo 4,7). Carissimo Ugo, per tre volte, se non mi sbaglio, mi hai chiesto di scrivere un’esortazione per te e i tuoi commilitoni e di lanciare la penna - dato che non mi è permessa la lancia - contro la tirannide dei nemici, affermando che vi sarei stato di non poco aiuto se vi avessi incoraggiato con uno scritto, non potendolo fare con le armi. Ho rimandato un po’ la cosa non perché la richiesta mi sembrasse poco importante, ma per-ché non mi si rimproverasse un consenso leggero e precipitoso, se da inesperto avessi preso su di me un compito che una persona migliore avrebbe potuto realizzare meglio, rendendo forse meno adeguata per colpa mia una cosa estremamente necessaria. Ma siccome sembrava che con questa attesa abbastanza lunga volessi eludere il compito e perché la mia non sembrasse cattiva volontà piuttosto che incapacità, alla fine ho fatto quel che ho potuto: giudichi il lettore se l’ho soddisfatto. Tuttavia anche se a qualcuno non piacerà affatto o sembrerà insufficiente, non me ne importerà; ciò che conta è che, nei limiti del mio sapere, non sono venuto meno al tuo desiderio. I. Esortazione ai cavalieri del Tempio l. Si è diffusa la notizia che da poco è nato un nuovo genere di cavalleria, e proprio in quella regione dove un tempo Cristo, nascendo dall’alto (Luca 1,78), abitò e fu visto con il suo corpo, perché dove allora scacciò con la potenza della sua mano (Isaia 10,13) i principi delle tenebre, anche adesso disperda e distrugga con la mano dei suoi forti i loro servitori, la gente senza fede (Efesini 2,2 e 5,6), realizzando ancorala redenzione del suo popolo e facendo sorgere di nuovo per noi una salvezza potente nella casa di Davide suo servo (Luca 1,68-69). Dicevo, un nuovo genere di cavalleria, sconosciuto ai secoli precedenti, che senza stancarsi combatte nello stesso tempo una doppia lotta, sia contro i nemici in carne ed ossa, sia contro gli invisibili spiriti malvagi (Efesini 6,12). E certo io non credo ci sia da stupirsi né ritengo raro che con le sole forze del corpo ci si opponga con valore al nemico. E non direi nemmeno straordinario - anche se lodevole - dichiarare guerra con forza d’animo ai vizi o ai demòni, visto che il mondo è pieno di monaci. Ma chi non riterrebbe degno di ogni ammirazione il fatto - con tanta evidenza insolito - che sia l’uomo materiale sia quello spirituale si cingano con forza ciascuno della propria spada, si fregino con onore della propria cintura? Senza paura e sicuro da ogni parte il cavaliere che riveste il corpo con la corazza di ferro e l’animo con quella della fede (cfr. 1 Tessalonicesi 5,8); difeso da entrambe le armi, non teme il demonio né l’uomo. E non ha paura della morte chi desidera morire. Infatti, che viva o che muoia, cosa può temere colui per il quale vivere è Cristo e morire un guadagno (Filippesi 1,21)? Vive con fiducia e volentieri per Cristo, ma preferisce annientarsi ed essere con Cristo: è meglio questo (Filippesi 1,23), infatti. Andate dunque avanti sicuri, cavalieri, e con animo intrepido cacciate via i nemici della croce di Cristo (Filippesi 3,18), sicuri che né la morte né la vita potranno separarvi dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù (Romani 8,38), ripetendovi in ogni pericolo: Sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore (Romani 14,8). Con quanta gloria ritorneranno vittoriosi dalla battaglia! Quanto beati moriranno martiri in battaglia! Gioisci forte atleta se vivi e vinci nel Si-

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gnore; ma esulta di più e gloriati se morirai e ti unirai al Signore. La vita è ricca di frutti e la vittoria di gloria, ma a entrambe va anteposta a buon diritto una santa morte. Infatti se sono beati quelli che muoiono nel Signore (Apocalisse 14,13), non lo sono molto di più quelli che muoiono per il Signore? 2. Che uno muoia nel letto o in battaglia, sarà senza dubbio preziosa davanti al Si-gnore la morte dei suoi santi (Salmo 116,15), ma in battaglia è certamente tanto più preziosa quanto più gloriosa. La vita è tranquilla quando la coscienza è pura, la vita è tranquilla quando la morte è aspettata senza paura, anzi è desiderata come dolce ed è ac-cettata con devozione. O milizia davvero santa e sicura e assolutamente libera dal dop-pio pericolo che corrono spesso quei cavalieri per i quali la ragione del combattere non è Cristo. Quante volte infatti tu, che militi nella cavalleria del mondo, combatterai col timore di uccidere un nemico nel corpo e te stesso nell’anima, oppure di poter essere tu ucciso da lui, sia nel corpo sia nell’anima. Il pericolo o la vittoria per un cristiano si va-lutano dall’atteggiamento interiore. Se la causa di chi combatte è giusta, l’esito della battaglia non può essere cattivo, così come non può essere considerato buono il risulta-to, se non proviene da una causa buona e da una giusta intenzione. Se ti accadesse di es-sere ucciso con la volontà di uccidere un altro, moriresti da omicida. Se invece vinci e uccidi un uomo con la volontà di prevalere o di vendicarti, vivi da omicida. E non con-viene né al morto né al vivo né al vincitore né al vinto essere omicida. Che vittoria infe-lice se hai la prevalenza su un uomo ma soccombi al male e, dominato dall’ira o dalla superbia, inutilmente ti vanti di aver prevalso su un uomo. Vi è tuttavia chi uccide un uomo non per ansia di vendetta o per ambizione di vittoria, ma soltanto per difendersi. Ma nemmeno questa vittoria mi sembra buona, perché, tra i due mali, è meno grave mo-rire nel corpo che nell’anima. Se il corpo viene ucciso non è detto che muoia anche l’anima; solo l’anima che ha peccato morirà (Ezechiele 18,4). II. La cavalleria del mondo 3. Quale dunque il fine o il frutto di questa cavalleria del mondo - che non chiamerei milizia, ma malizia - se l’uccisore compie peccato mortale e l’ucciso muore per l’eternità? Infatti, per usare le parole di san Paolo, sia chi ara sia chi trebbia deve farlo nella speranza di riceverne i frutti (1 Corinzi 9,10). Invece, cavalieri, perché questa in-credibile pazzia, perché questa insopportabile furia di combattere con tante spese e fati-che, ma con nessun guadagno se non la morte o il delitto? Bardate i cavalli con seta e ricoprite le corazze con non so quali frange; dipingete le lance, gli scudi e le selle; orna-te le redini e gli speroni di oro, argento e gemme e con tanto sfarzo correte verso la mor-te con un furore di cui dovreste vergognarvi se non foste così stupidi. Queste sono inse-gne militari oppure ornamenti da donna? Credete che le armi dei nemici avranno rispet-to dell’oro, risparmieranno le gemme, non potranno trapassare la seta? Infine avete spe-rimentato di persona che tre cose sono necessarie prima di tutto a chi combatte: che il cavaliere sia valoroso, abile e prudente nel difendersi; senza troppi impacci nel cavalca-re; rapido a colpire. Voi fate crescere i capelli come le donne e ciò è un grosso ostacolo per la vista; fate inciampare i vostri piedi in camici lunghi e larghi; seppellite le mani morbide e delicate in maniche ampie e avvolgenti. Ma soprattutto - ciò che preoccupa di più la coscienza di un guerriero - il motivo per cui viene intrapreso questo tipo di milizia tanto pericolosa è leggero e frivolo. Niente altro tra di voi provoca guerre e suscita liti, se non un irrazionale moto di rabbia, o un’inutile fame di gloria, o qualunque brama di

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possesso. Per questi motivi non è affatto tranquillo né uccidere né morire. III. La nuova cavalleria 4. Invece i cavalieri di Cristo combattono tranquilli le battaglie del loro Signore, non temendo affatto di commettere peccato uccidendo un nemico né di correre un pericolo con la propria morte, dal momento chela morte subita o infetta per Cristo non è assolu-tamente un crimine e merita una grandissima gloria. Uccidendo si guadagna per Cristo, morendo si guadagna Cristo, che senza dubbio accetta volentieri la morte del nemico come vendetta e che più volentieri offre se stesso come consolazione al cavaliere. Il ca-valiere di Cristo uccide tranquillo, muore più tranquillo ancora. Giova a se stesso se muore, a Cristo se uccide. Infatti non senza motivo porta la spada: è al servizio di Dio (Romani 13,4) per punire i malfattori e premiare i buoni (1 Pietro 2,14). Quando uccide un malfattore non è certo omicida ma, per così dire, malicida, cioè vendicatore di Cristo contro quelli che si comportano male (cfr. Romani 13,4), ed è considerato difensore dei cristiani. Quando invece viene ucciso è sicuro che non è finito, ma arrivato. Dunque la morte che dà è un guadagno di Cristo, quella che riceve un guadagno suo. Nella morte del pagano il cristiano si gloria, perché Cristo è glorificato; nella morte del cristiano si mostra la liberalità del Re, che prende con sé il cavaliere per dargli la ricompensa. Sul pagano dunque si rallegrerà il giusto quando vedrà la vendetta; del cristiano diranno gli uomini: C’è un premio per il giusto, c’è Dio che fa loro giustizia sulla terra (Salmo 58,11-12). Tuttavia i pagani non dovrebbero essere uccisi, se in qualche altro modo si potesse impedire loro di vessare o di opprimere tanto i fedeli; ora invece è meglio che siano uccisi piuttosto che la verga dei peccatori sia lasciata sul destino dei giusti, per-ché i giusti non stendano la loro mano verso il male (Salmo 125,3). 5. Non è così? Se colpire con la spada non è mai permesso al cristiano, perché l’araldo del Salvatore ordinò ai soldati di accontentarsi delle loro paghe (Luca 3,14) e non proibì loro invece ogni tipo di servizio militare? Se invece, com’è vero, è permesso a tutti quelli stabiliti a ciò da Dio e che non abbiano fatto alcuna professione più elevata, da chi piuttosto che dalle loro mani e dal loro valore può essere difesa Sion, la città della nostra fortezza, per la protezione di tutti noi, perché, scacciati i trasgressori della legge di Dio, vi entri sicuro il popolo dei giusti (Isaia 26,2) che custodisce la verità? Con tranquillità d’animo possiamo dunque abbattere le genti che vogliono la guerra (Salmo 68,31) e fare a pezzi quelli che turbano (Galati 5,12) la nostra pace e disperdere dalla città del Signore tutti gli operatori di iniquità (Salmo 101,8) che ardono dalla voglia di prendersi le inestimabili ricchezze del popolo cristiano riposte in Gerusalemme, profa-nare i luoghi santi e possedere in eredità il santuario di Dio. Siano sguainate le due spa-de dei fedeli contro le teste dei nemici per distruggere chiunque si levi contro la cono-scenza di Dio (2 Corinzi 10,4-5), che è la fede dei cristiani, perché non dicano le genti: dov’è il loro Dio? (Salmo 114,2). 6. Espulsi i pagani, il Signore ritornerà nella sua eredità e nella sua casa, della quale dice irato nel Vangelo: Ecco, la vostra casa vi sarà lasciata deserta (Matteo 23,38), e per mezzo del profeta Geremia così si lamenta: Ho lasciato la mia casa, ho abbandona-to la mia eredità (Geremia 12,7); realizzerà la parola del profeta: Il Signore ha redento il suo popolo e lo ha liberato; verranno ed esulteranno sul monte Sion e gioiranno dei beni del Signore (Geremia 31,11.12). Rallegrati, Gerusalemme, e sappi che è giunto il

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tempo in cui sarai visitata. Gioite e innalzate lodi tutte insieme, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme, il Signore ha levato il suo santo braccio davanti agli occhi di tutti i popoli (Isaia 52,9-10). Vergine d’Israele, eri caduta e non c’era chi ti risollevasse. Alzati ormai, scuotiti dalla polvere, vergine prigioniera figlia di Sion (Isaia 52,2). Alzati, ti dico, e sta’ su, dritta (Baruc 5,5), e vedi la gioia che ti viene dal tuo Dio (Baruc 4,36). Non sarai chiamata più dere-litta, e la tua terra non sarà più chiamata deserto, perché il Signore si è compiaciuto in te e la tua terra sarà abitata (Isaia 62,4). Volgi intorno i tuoi occhi e guarda: tutti que-sti si sono radunati e sono venuti da te (Isaia 49,18). Questo è l’aiuto mandato a te dal Santo (cfr. Salmo 20,3). Per mezzo di questi per te si è ormai realizzata del tutto quell’antica promessa: Ti innalzerò per i secoli, come gioia di generazione in genera-zione, e succhierai il latte dei popoli e ti allatterai alla mammella dei re (Isaia 60,15); e ancora: Come una madre consola i suoi figli, così io vi consolerò e in Gerusalemme sa-rete consolati (Isaia 66,13). Vedete con che ricca testimonianza degli antichi è attestata la nuova cavalleria e che cosa, così come abbiamo udito, vediamo realizzata nella città del Signore della forza (Salmo 48,9)? Purché l’interpretazione letterale non pregiudichi il senso spirituale: cioè purché manteniamo la speranza per l’eternità di tutto ciò che prendiamo dalle parole dei Profeti applicandolo al nostro tempo, affinché di fronte a ciò che si vede non svanisca ciò che si crede e la miseria dei fatti non sminuisca la ricchez-za della speranza, la realtà delle cose presenti non sia la scomparsa di quelle future. Al contrario, la gloria temporale della città terrena non distrugge i beni del cielo, ma li ga-rantisce, a patto che non dubitiamo affatto che questa città è figura di quella che è la no-stra madre nei cieli (Galati 4,26). IV. Lo stile di vita dei cavalieri del Tempio 7. Ma per l’emulazione o per la vergogna dei nostri cavalieri che sono al servizio non di Dio, ma del diavolo, parliamo ora brevemente dei costumi e della vita dei cavalieri di Cristo e di come si comportino in guerra o in pace, perché risulti chiaramente quanto siano differenti tra loro la cavalleria di Dio e quella del mondo. Per prima cosa non manca mai la disciplina e l’obbedienza non viene mai disprezzata, poiché, secondo la testimonianza della Scrittura, il figlio indisciplinato morirà e opporsi è un peccato di sortilegio e non volere assoggettarsi è quasi un delitto di idolatria (1 Samuele 15,23). Si va e si torna a un cenno del superiore, si indossa ciò che egli ha donato e non si pre-tende altro vestito o alimento. Nel vitto e nel vestiario ci si guarda da tutto ciò che è su-perfluo, pensando solo al necessario. Si vive in comune, con uno stile gioioso e sobrio, senza mogli e senza figli. E perché non manchi nulla della perfezione evangelica, abita-no nella stessa casa seguendo una sola regola senza proprietà privata, attenti a conser-vare l’unità di spirito nel vincolo della pace (Efesini 4,3). Si potrebbe dire che tutta la moltitudine ha un cuore solo e un’anima sola (Atti 4,32), dato che ognuno si preoccupa di non seguire affatto la propria volontà, ma piuttosto di obbedire a chi comanda. In nessun momento siedono oziosi o vanno in giro a curiosare10 ma sempre, quando non vanno fuori - il che avviene proprio raramente -, per non mangiare gratis il pane (2 Tes-salonicesi 3,8), riparano gli strappi delle armi o delle vesti, rimettono a nuovo quelle vecchie, sistemano quelle in disordine e infine eseguono quanto impone la volontà del Maestro o la necessità della comunità. Tra di loro non viene preferita alcuna condizione

10 Alla fine del periodo precedente e all’inizio di questo Bernardo si richiama alla Regola di san Benedet-to, capp. 3 e 48.

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(cfr. Romani 2,11): ci si affida al migliore, non al più nobile. Si prevengono a vicenda nell’onorarsi (Romani 12,10); portano l’uno i pesi dell’altro, per adempiere così la leg-ge di Cristo (Galati 6,2). Una parola insolente, un’occupazione inutile, un riso smodato, un mormorio anche tenue o delle chiacchiere, se vengono colti, non vengono mai lasciati impuniti11. Dete-stano gli scacchi e i dadi, odiano la caccia e non si divertono, come di solito, con l’uccellagione. Rifiutano e aborriscono come cose inutili e pazze menzogne (Salmo 39,5) gli attori, i maghi, i cantastorie, le canzoni oscene e gli spettacoli di giochi. Porta-no i capelli corti, sapendo, secondo san Paolo, che è una vergogna per il maschio far crescere la chioma (1 Corinzi 11,14). Mai eleganti, di rado lavati, piuttosto ispidi per i capelli trascurati, sporchi di polvere, scuri di pelle per l’armatura e il forte calore. 8. Quando poi si avvicina la battaglia, si proteggono dentro con la fede, fuori col fer-ro, non con l’oro, perché, armati e non ornati, nei nemici incutano terrore, non provo-chino l’avidità. Vogliono avere cavalli forti e veloci, non bardati di stoffe colorate o di piastre preziose, pensando alla battaglia, non alla parata, alla vittoria, ma non alla gloria; e curando di suscitare paura, non ammirazione. Quindi si ordinano e si schierano in campo non turbolenti o impetuosi per eccessiva leggerezza, ma con ponderatezza e con ogni cautela e prudenza, come è stato scritto a proposito dei padri. Come veri Israeliti si avviano tranquilli alla battaglia. Ma quando si arriva al combattimento, allora, messa da parte la calma di prima, si precipitano contro gli avversari come se dicessero: Non odio forse quelli che ti odiano, Signore, e non mi struggo davanti ai tuoi nemici? (Salmo 138,21). Reputano i nemici come pecore e, anche se sono pochissimi, non hanno mai paura della loro barbara crudeltà o del loro numero soverchiante, perché non presumono delle proprie forze, ma sperano la vittoria dalla potenza del Signore degli eserciti. Han-no piena fiducia che per lui sia facile, secondo le parole dei Maccabei, imprigionare molti nelle mani di pochi e che davanti al Dio dei cieli non faccia differenza portare la liberazione in molti o in pochi: perché la vittoria in guerra non dipende dalla grandez-za dell’esercito, ma dal cielo viene la forza (1 Maccabei 3,18-19). Lo hanno sperimen-tato molto spesso, tanto che il più delle volte uno solo ha quasi inseguito mille e due hanno messo in fuga diecimila (Deuteronomio 32,30). Infine, in maniera in certo senso ammirevole e singolare, si mostrano più miti degli agnelli e più feroci dei leoni, così che quasi non so come pensare di chiamarli, cioè se monaci o cavalieri: ma forse è più giu-sto dar loro tutti e due i nomi, perché è noto che a essi non manca né la mansuetudine del monaco né la forza del cavaliere. Cosa bisogna dire di ciò, se non che dal Signore è stato fatto questo ed è meraviglioso ai nostri occhi (Salmo 118,23)? Tali servi si è scelto Dio e li ha radunati dai confini della terra tra i più forti di Israele, che custodiscono con vigilanza e fedeltà il letto del vero Salomone, il sepolcro, tutti impugnanti la spada ed espertissimi nella guerra (Cantico 3,7-8). V. Il Tempio 9. Il Tempio di Gerusalemme, nel quale abitano insieme, come costruzione non è certo pari a quello antico e famosissimo di Salomone, ma non è inferiore per la gloria. Infatti tutta la magnificenza di quello consisteva in cose corruttibili: l’oro e l’argento, la perfetta squadratura delle pietre, i legni di diverse qualità; invece tutto l’ornamento e lo

11 Cfr. la Regola di san Benedetto, cap. 4.

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splendore dell’amabile bellezza di questo è la pia religiosità e il ben regolato stile di vita degli abitanti. Quello era da ammirare per i vari colori; questo da venerare per le diverse virtù e le azioni sante: alla casa di Dio infatti si addice la santità, egli non si compiace tanto dei marmi lucidi quanto dei buoni costumi e ama le menti pure più delle pareti d’oro. Tuttavia anche questo Tempio è decorato, ma con armi, non con gemme, e le pa-reti sonori coperte, invece che con le antiche corone d’oro, con scudi che pendono tutt’intorno; al posto dei candelabri, dei turiboli e dei vasi, la casa è difesa da ogni parte con redini, selle e lance. Come tutte queste cose dimostrano chiaramente, i cavalieri fer-vono di quello stesso zelo per la casa di Dio, dal quale una volta fu fortemente infiam-mato il loro Capo: Gesù, armata la sua mano non con la spada ma con una frusta che aveva fatto con delle cordicelle, entrò nel Tempio, ne espulse i mercanti, sparse il dena-ro dei cambiavalute e abbatté i tavoli dei venditori di colombe, giudicando assai inde-gno che la casa di preghiera (Matteo 21,12-13) fosse contaminata da simili affaristi. Spinto dunque dall’esempio del suo grande re, l’esercito devoto resta in attesa nella san-ta casa con i cavalli e le armi, ritenendo molto più indegno e di gran lunga più intollera-bile che le cose sante siano profanate dagli infedeli che infestate dai mercanti; e, respin-ta dalla casa come dagli altri luoghi santi tutta la sporca e tirannica rabbia degli infedeli, essi al suo interno giorno e notte sono occupati in compiti tanto onesti quanto utili. Fan-no a gara a onorare il Tempio di Dio con continui e sinceri ossequi, immolando in esso con perenne devozione non certo carni di animali, secondo il rito degli antichi, ma dav-vero offerte pacifiche (Esodo 32,6): l’amore fraterno, la sottomissione devota, la povertà volontaria. 10. Queste cose avvengono a Gerusalemme e tutto il mondo ne è colpito. Le isole ascoltano e i popoli osservano da lontano (Isaia 49,1) e ribollono da Oriente e Occiden-te, come un torrente che sommerge la gloria dei pagani (Isaia 66,12) e come l’impeto di un fiume che allieta la città di Dio (Salmo 45,5). Si osserva con grande gioia e avvie-ne con grande utilità che, fra tanti uomini che affluiscono al Tempio, ben pochi non so-no scellerati ed empi, ladri e sacrileghi, omicidi, spergiuri e adulteri (cfr. 1 Timoteo 1,9-10), sicché la loro partenza non solo produce senza dubbio un bene, ma provoca una doppia gioia, dal momento che essi con la loro andata allietano i loro vicini, col loro ar-rivo quelli che si affrettano a soccorrere. Giovano dall’una e dall’altra parte, non solo proteggendogli uni, ma non facendo più violenza agli altri. Così si rallegra l’Egitto nel-la loro partenza (Salmo 105,38), ma della loro protezione si rallegra altrettanto il monte Sion ed esultano le figlie di Giuda (Salmo 48,12). A ragione si gloria il primo di essere liberato dalla loro mano violenta, il secondo ancor di più si gloria di esserlo grazie alla loro mano. Il primo volentieri perde i suoi crudelissimi devastatori, il secondo accoglie con gioia i suoi fedelissimi difensori, e dove Sion si consola con tanta dolcezza, quello viene abbandonato con suo estremo vantaggio. Così Cristo sa vendicarsi contro i suoi nemici, che non solo su di loro, ma anche per mezzo di loro spesso trionfa in modo tan-to più glorioso quanto più potente. Con gioia e con utilità comincia ormai ad avere come difensori quelli che a lungo sopportò come avversari e fa del nemico un cavaliere colui che un tempo di Saulo persecutore fece Paolo predicatore. Perciò non mi meraviglio se anche la corte del cielo, secondo la testimonianza del Salvatore, esulta di più per un peccatore che fa penitenza che per moltissimi giusti che non hanno bisogno di peniten-za (Luca 15,7), dato che la conversione di un peccatore e di un malvagio senza dubbio giova a tante persone, quante quelle cui aveva nuociuto la sua vita precedente.

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11. Salve dunque città santa, che lo stesso Altissimo si è santificato come suo taber-nacolo (Salmo 46,5), affinché molti si salvassero in te e per te. Salve città del gran Re (Salmo 48,3), dalla quale fin dall’inizio non sono quasi mai mancati miracoli nuovi e lieti per il mondo. Salve signora delle genti, prima delle province (Lamentazioni 1,1), possesso dei patriarchi, madre dei profeti e degli apostoli, iniziatrice della fede, gloria del popolo cristiano, che dall’inizio Dio ha sempre sopportato che fosse assalita, perché ciò fosse occasione di valore e di salvezza per gli uomini forti. Salve terra della promes-sa, che offri gli alimenti della vita, un tempo facendo scorrere latte e miele (cfr. Esodo 3,8; 13,5, ecc.) solo per i tuoi abitanti, ora offrendo al mondo intero i rimedi della sal-vezza. Terra buona, buonissima, che, accogliendo in quel tuo fecondissimo seno il gra-no del cielo dall’arca del cuore del Padre, hai prodotto dal seme divino una grande mes-se di martiri, e inoltre da ogni altro genere di fedeli come fertile campo hai fatto fruttare in molti modi su tutta la terra il trenta, il sessanta, il cento (cfr. Matteo 13,8). Per cui saziati con gioia e nutriti magnificamente dall’abbondanza della tua dolcezza (Salmo 31,20), quelli che ti hanno vista spandono dappertutto il ricordo della ricchezza della tua soavità e fino all’estremità della terra parlano della grandezza della tua gloria a quelli che non ti hanno vista e narrano le meraviglie (Salmo 145,5-7) che avvengono in te. Cose gloriose si dicono di te, città di Dio (Salmo 87,3), ma anche noi dobbiamo dire poche cose semplici di quelle delizie che hai in abbondanza, a lode e gloria del tuo no-me. VI. Bethleem 12. Prima di tutto, per il ristoro delle anime sante, considera Bethleem, la casa del pane, dove con il parto della Vergine per la prima volta apparve quel pane vivo che era disceso dal cielo (Giovanni 6,51). Sempre là viene mostratala mangiatoia ai pii animali e nella mangiatoia il fieno del prato virginale, perché così il bue conosca il suo padrone e l’asino la mangiatoia del suo Signore (Isaia 1,3). Ogni uomo infatti è fieno e tutta la sua gloria è come il fiore del fieno (Isaia 40,6). Ma poiché l’uomo, non comprendendo l’onore in cui è stato creato, è stato paragonato agli animali sciocchi ed è divenuto si-mile a essi (Salmo 49,13), il Verbo, pane degli angeli, si è fatto cibo degli animali, per-ché abbia il fieno di carne da ruminare chi si è del tutto disabituato a cibarsi di quel pa-ne, fino a quando, restituito alla dignità primitiva grazie all’uomo Dio e da animale di nuovo mutato in uomo, possa dire con Paolo: Anche se abbiamo conosciuto Cristo se-condo la carne, ora non lo conosciamo più così (2 Corinzi 5,16). Per quanto ritengo che nessuno possa dire veramente ciò, se non abbia prima ascoltato, come Pietro, quelle pa-role di Cristo, che è la Verità: Le parole che io vi ho detto sono spirito e vita; la carne invece non serve a nulla (Giovanni 6,64). Del resto chi trova la vita nelle parole di Cri-sto, non cerca più la carne ed è del numero dei beati, che non hanno visto e hanno cre-duto (Giovanni 20,29). Infatti il latte serve solo al bambino (cfr. 1 Corinzi 3,1-2) e il fieno solo all’animale (cfr. Genesi 42,27). Chi invece non trova inciampo nella Parola, è un uomo perfetto (Giacomo 3,2), adatto a nutrirsi di cibo solido (cfr. Ebrei 5,11-14) e, anche se col sudore del suo volto (Genesi 3,19), mangia il pane della Parola senza suo danno. Ma in più, sicuro e senza scandalo parla della sapienza di Dio solo tra i perfetti (1 Corinzi 2,6), preparando cose spirituali per uomini spirituali (1 Corinzi 2,13), men-tre invece ai bambini o agli animali è prudente, secondo la loro capacità, proporre sol-tanto Gesù, e Gesù crocifisso (1 Corinzi 2,2). Tuttavia un solo e identico cibo, che viene soave dai pascoli del cielo, è ruminato dall’animale e mangiato dall’uomo e dà all’uomo

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le forze e al bambino il nutrimento. VII. Nazareth 13. Si vede anche Nazareth, che si interpreta come fiore, dove quel Dio bambino che era nato a Bethleem fu nutrito come il frutto che cresce nel fiore, perché l’odore del fio-re precedesse il sapore del frutto e dalle narici dei profeti si infondesse come un santo liquore nelle bocche degli apostoli e, mentre gli ebrei restavano contenti del tenue odo-re, ristorasse i cristiani col suo forte sapore. Tuttavia aveva percepito questo fiore Nata-naele, perché profumava soave sopra ogni aroma (Cantico 4,10), per cui diceva: «Da Nazareth ci può essere qualcosa di buono?». Ma non contento affatto della sola fra-granza, seguì Filippo che gli rispose: «Vieni e vedi» (Giovanni 1,46). Anzi, tanto attratto dal diffondersi di quella meravigliosa dolcezza e reso più avido del sapore solo da un sorso di quel buono odore, seguendolo stesso odore si preoccupò di arrivare senza indu-gio fino al frutto, desideroso di sperimentare più pienamente ciò che aveva tenuemente preavvertito e di gustare di persona ciò che aveva odorato senza vederlo. Vediamo se anche l’olfatto di Isacco abbia mai presagito qualcosa di ciò che stiamo trattando. Così dice di lui la Scrittura: Appena sentì il profumo delle sue vesti senza dubitare che fosse Giacobbe disse: «Ecco l’odore di mio figlio come l’odore di un campo abbondante che il Signore ha benedetto» (Genesi 27,27). Sentì il profumo del vestito, ma non riconobbe la persona che lo indossava, e, rallegrato dal solo odore esteriore della veste, come di un fiore, quasi non gustò la dolcezza del frutto interiore, dato che non arrivò a conoscere né il figlio che aveva scelto, né la più grande realtà nascosta. Che significa ciò? La lettera è la veste dello spirito, la carne quella del Verbo. Ma nemmeno adesso gli ebrei comprendono il Verbo nella carne, la divinità nell’uomo, né sotto il rivestimento della lettera riconoscono il significato spirituale, e palpando da fuori la pelle di un capretto, simbolo dell’antico antenato che commise il primo peccato, non arrivano alla nuda verità. Infatti chi veniva nona fare, ma a togliere il peccato, apparve non nella carne del peccato, ma a somiglianza della carne del pecca-to (Romani 8,3), affinché, come disse egli stesso, quelli che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi (Giovanni 9,39). Ingannati da questa somiglianza gli ebrei, ciechi ancora oggi, benedicono profetica-mente colui che non conoscono, poiché ignorano chi sia colui del quale leggono conti-nuamente nelle Scritture e nei miracoli, e non comprendono chi profanano con le pro-prie mani, legandolo, flagellandolo, prendendolo a pugni, nemmeno quando risorge. Se infatti lo avessero conosciuto, non avrebbero mai crocifisso il Signore della gloria (1 Corinzi 2,8). Percorriamo in breve anche gli altri luoghi santi, se non tutti, poiché non possiamo ammirarli singolarmente, almeno alcuni, ricordando brevemente i più famosi. VIII. D Monte degli Ulivi e la Valle di Giosafat 14. Si sale sul monte degli Ulivi, si scende nella valle di Giosafat, per pensare alla ricchezza della misericordia di Dio, senza mai nascondersi l’orrore del giudizio. Infatti, anche se nella sua grande misericordia (Daniele 9,18) è molto facile al perdono (Isaia 55,7), sono tuttavia un immenso abisso i suoi giudizi (Salmo 36,7), con i quali si dimo-stra veramente terribile verso i figli degli uomini (Salmo 66,5). Anche Davide da un lato indica il simbolico monte degli Ulivi quando dice: Salverai uomini e animali Signore, come hai moltiplicatola tua misericordia, Dio (Salmo 36,7-8); ma nello stesso salmo,

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d’altro lato, ricorda anche la valle del giudizio, dicendo: Non venga su di me il piede della superbia e non mi muova la mano del peccatore (Salmo 36,12), e confessa di ave-re un grande terrore del precipizio di quella valle, quando pregando in un altro salmo di-ce così: Trafiggi le mie carni col tuo timore, poiché sono spaventato dai tuoi giudizi (Salmo 119,120). Il superbo precipita in questa valle e va in rovina; l’umile vi discende e non corre alcun pericolo. n superbo scusa il suo peccato, l’umile se ne accusa, sapendo che Dio non giudica due volte la stessa colpa e che se giudicheremo noi stessi non sa-remo giudicati (1 Corinzi 11,31). 15. Inoltre il superbo, non pensando quanto sia orribile cadere nelle mani del Dio vi-vente (Ebrei 10,31), tira fuori facilmente parole malvagie per trovare scuse ai suoi pec-cati (Salmo 141,4). È davvero una grande malvagità non avere pietà di te stesso e re-spingere l’unico rimedio al peccato, la confessione, covandoti il fuoco in seno (Proverbi 6,27) piuttosto che gettarlo via, senza prestare ascolto al consiglio del Sapiente che dice: Abbi pietà della tua anima tu che sei gradito a Dio (Siracide 30,24). Perciò chi è cattivo con se stesso, con chi può essere buono? (Siracide 14,5) Adesso è il giudizio di questo mondo, adesso il principe di questo mondo sarà cacciato fuori (Giovanni 12,31): fuori dal tuo cuore, se tu stesso, umiliandoti, ti giudicherai. Il giudizio del cielo avverrà quan-do dall’alto lo stesso cielo, insieme alla terra, sarà chiamato a separare il popolo (Sal-mo 50,4) del principe di questo mondo, e nel giudizio devi temere di non essere gettato con lui e i suoi angeli (Matteo 25,41), se sarai trovato non giudicato. Del resto l’uomo spirituale, che tutto giudica, non è giudicato da nessuno (1 Corinzi 2,15). Perciò dunque il giudizio comincia dalla casa di Dio (1 Pietro 4,17), per ché il giudice, quando verrà, trovi già giudicati i suoi, che egli conosce, e allora non abbia più nulla da giudicare di loro quando devono essere giudicati coloro che non condividono la fatica e i tormenti degli uomini (Salmo 73,5). IX. Il Giordano 16. Come è lieto il Giordano, che si gloria di essere stato consacrato con il battesimo di Cristo, quando accoglie in sé i cristiani! Certamente mentì quel lebbroso della Siria che preferì non so quali acque di Damasco alle acque di Israele (cfr. 2 Re 5,12)12 dal momento che il nostro Giordano ha dato prova tante volte del suo devoto servizio a Dio quando, fermando miracolosamente la sua corrente, ha offerto un passaggio asciutto nel suo letto sia a Elia (cfr. 2 Re 2,1-8), sia a Eliseo (cfr. 2 Re 2,13-14), sia anche - per ri-cordare un fatto più antico - a Giosué e a tutto il popolo (cfr. Giosuè 3). E poi, quale fiume è più importante di questo, che la stessa Trinità ha consacrato a sé con una sua chiara presenza? Il Padre fu udito, lo Spirito Santo visto, il Figlio vi fu anche battezzato. Perciò per volere di Cristo tutto il popolo fedele sperimenta nell’anima quella stessa guarigione che Naaman sentì nel corpo per la parola del profeta Eliseo. X. Il luogo del Calvario 17. Si esce da Gerusalemme verso il luogo del Calvario (Giovanni 19,17), dove il vero Eliseo, deriso da ragazzi stupidi (cfr. 2 Re 2,23), ha comunicato il riso eterno ai suoi, dei quali dice: Ecco io e i miei ragazzi che mi ha dato Dio (Isaia 8,18), i ragazzi buoni che, in contrasto con quelli che fanno il male, il salmista esorta alla lode dicendo: Lodate il

12 Si tratta di Nàaman, la cui guarigione è narrata nel cap. 5 di 2 Re.

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Signore, ragazzi, lodate il nome del Signore (Salmo 113,1), finché nella bocca dei santi bambini e lattanti si compirà la lode (Salmo 8,3) che era caduta dalla bocca degli invi-diosi, di quelli dei quali così si lamenta: Ho nutrito e fatto crescere dei figli, ma essi mi hanno disprezzato (Isaia 1,2). Così salì sulla croce il nostro uomo calvo, esposto al mondo per il bene del mondo; realizzando la giustificazione dei peccati (Ebrei 1,3) col viso nudo (2 Corinzi 3,18) e la fronte scoperta, non si vergognò per l’ignominia di una morte infamante e dura e non si spaventò di quella pena, per strapparci dall’eterna ver-gogna, per restituirei alla gloria. E non è strano: di che cosa avrebbe dovuto vergognarsi lui, che ha lavato i nostri peccati (Apocalisse 1,5) non come l’acqua che scioglie lo sporco trattenendolo in sé, ma come il raggio di sole che asciuga mantenendo la sua pu-rezza? Sì, è la sapienza di Dio che tocca ogni cosa grazie alla sua purezza (Sapienza 7,24). XI. Il sepolcro 18. Il sepolcro ha come il primato tra i luoghi santi e desiderati: si sente più devozio-ne dove Gesù riposò morto che dove passò da vivo e commuove di più il ricordo della sua morte che della sua vita. Forse perché la morte sembra più dura e la vita più dolce, forse perché alla debolezza umana piace di più la pace del sonno che la fatica dell’agire, la sicurezza della morte che il giusto cammino della vita. Per me la vita di Cristo è la regola del vivere, la morte la liberazione dalla morte. La sua vita ha istruito la vita, la sua morte ha distrutto la morte. La sua vita è stata laboriosa, ma la sua morte preziosa; ed entrambe estremamente necessarie. Infatti come potrebbe giovare la morte di Cristo a chi vive nell’ingiustizia o la sua vita a chi muore nella dannazione? Forse la morte di Cristo libera dalla morte eterna chi ancora vive male fino alla morte? Forse la santità della sua vita ha liberato i santi padri morti prima di Cristo? Infatti è scritto: Qual è l’uomo che vivrà e non vedrà la morte, strapperà la sua anima dalla mano dell’inferno? (Salmo 89,49). Ora dunque, poiché entrambe le cose ci erano necessarie, sia vivere pia-mente, sia morire con sicurezza, vivendo ha insegnato a vivere, morendo ha reso sicura la morte, poiché è stato nel sepolcro nell’attesa di risorgere e ha creato per quelli che muoiono la speranza di risorgere. Ma ha aggiunto anche un terzo beneficio, senza il quale gli altri non avrebbero avuto valore: ha perdonato i peccati. A che potrebbe giova-re infatti per la vera e somma beatitudine la vita più retta o più lunga a chi fosse tenuto legato anche al solo peccato originale? Prima c’è stato il peccato, la morte è una conse-guenza, per cui se l’uomo lo avesse evitato non avrebbe provato mai la morte. 19. Perciò peccando ha perso la vita e ha trovato la morte, sia perché già prima Dio aveva detto così, sia perché senza alcun dubbio era giusto che, se avesse peccato, l’uomo morisse. Infatti cosa poteva essere più giusto che ricevere il taglione? Dio è la vita dell’anima e l’anima., è la vita del corpo. Peccando volontariamente, col suo volere ha perso la vita, senza suo volere perda anche la capacità di dare la vita. Ha respinto spontaneamente la vita quando non volle vivere; non sia in grado di darla a chi o quando vorrà. Non ha voluto essere retta da Dio; non possa reggere il corpo. Se non obbedisce a chi è superiore, perché deve comandare a chi è inferiore? Il Creatore ha trovato la sua creatura ribelle a sé; l’anima trovi ribelle a sé la sua serva. L’uomo è stato trovato tra-sgressore della legge divina; anche lui trovi nelle sue membra un’altra legge, che lotta con la legge della sua mente e lo fa prigioniero della legge del peccato (Romani 7,23). Il peccato, come è scritto, pone una separazione tra noi e Dio; anche la morte pone una

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separazione tra il nostro corpo e noi. L’anima non ha potuto essere divisa da Dio se non peccando, il corpo non può esserlo da lei se non morendo. È una punizione troppo dura per l’anima subire dal sottomesso la stessa separazione che prima aveva osato contro il creatore? No, non c’è niente di più congruente che la morte abbia procurato la morte, la morte dello spirito quella del corpo, la morte colpevole quella come pena, la morte vo-lontaria quella di necessità. 20. L’uomo dunque era stato condannato, secondo le sue due nature, a questa doppia morte, una spirituale e volontaria, l’altra corporale e necessaria; a entrambe ha posto ri-medio con amore e potenza il Dio uomo per mezzo della sua unica morte corporale e volontaria e con quella sua unica morte ha distrutto entrambe le nostre. A buona ragio-ne: infatti, senza aver commesso la colpa, si è assunto la pena di entrambe le nostre morti, quella spirituale compenso della colpa, quella corporale debito della pena, e con la sua morte volontaria e soltanto nel corpo ci ha mèritato la vita e la giustizia. Se, in ca-so contrario, non avesse patito con il corpo, non avrebbe saldato il debito; se non fosse morto volontariamente, quella morte non avrebbe avuto compenso. Ora, come si è detto, il compenso della morte è il peccato13 e il debito del peccato la morte, ma se Cristo ha rimesso il peccato ed è morto per i peccatori, ormai il compenso è annullato e il debito è saldato. 21. Ma come sappiamo che Cristo può rimetterei peccati? Senza dubbio per il fatto che è Dio e può tutto ciò che vuole. Ma come sappiamo che è Dio? Lo provano i mira-coli: infatti compie opere che nessun altro può fare. Per non parlare degli oracoli dei profeti e della testimonianza della voce del Padre venuta giù dal cielo su di lui dalla magnifica gloria (2 Pietro 1,17). Allora se Dio è per no chi è contro di noi? (Romani 8,31) Se è Dio che giustifica, chi è che può condannare? (Romani 8,33-34). Se è lui, non un altro, a cui ogni giorno ci confessiamo dicendo: Contro te solo ho peccato (Sal-mo 51,6), chi meglio, anzi chi altro può rimettere quanto è stato peccato contro di lui? Come non può lui, che può tutto? Io, se voglio, posso perdonare il male fatto contro di me e Dio non potrebbe rimettere quanto commesso contro di sé? Se dunque l’onnipotente può rimettere i peccati e se lo può lui solo, contro di cui solo si pecca, beato l’uomo cui egli stesso non imputerà il peccato (Salmo 32,2). Abbiamo imparato così che Cristo con la potenza della sua divinità ha potuto sciogliere i peccati. 22. Della sua volontà di scioglierli chi può dubitare? Infatti lui che ha vestito la no-stra carne e ha subito la nostra morte, si può pensare che negherà a noi la sua giustizia? Lui che volontariamente si è incarnato, volontariamente ha patito, volontariamente è stato crocifisso, potrà trattenere da noi soltanto la giustizia? Si ve de chiaramente, dun-que, che quanto ha potuto come Dio ha voluto come uomo. Ma ancora, da dove traiamo fiducia che ha eliminato anche la morte? Sicuramente dal fatto che lui, che non l’ha me-ritata, l’ha subita. Per qual motivo sarebbe di nuovo preteso da noi ciò che lui ha già pa-gato per noi? Lui che ha sopportato il compenso del peccato, donandoci la sua giustizia, ha pagato il debito della morte e ha ridato la vita. Morta la morte, ritorna la vita, così

13 Lasciandosi andare alla ripetizione degli stessi termini, con veri e propri giochi di parole, qui Bernardo usa un’espressione che sembra impropria, anche in relazione a quanto scritto da lui; eppure ritengo che non si possa tradurre diversamente, come altri hanno invece fatto (ad es. COSIMO DAMIANO FONSECA, in Opere di san Bernardo, cit. p. 469: «La conseguenza del peccato è la morte»), poiché in latino la lettura mi sembra chiarissima: «Mortis meritum est peccatum et peccati debitum mors».

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come, eliminato il peccato, torna la giustizia. Nella morte di Cristo la morte è messa in fuga e la giustizia di Cristo ci viene attribuita. Ma come ha potuto morire chi era Dio? Perché era anche uomo. Ma in che modo la morte di quell’uomo ha avuto valore per un altro? Perché era anche un uomo giusto. Certo, dunque, essendo uomo ha potuto morire, essendo giusto ha dovuto farlo non gratis. Infatti un peccatore non può pagare il debito della morte per un altro peccatore, perché ognuno muore per la propria colpa. Chi inve-ce non ha l’obbligo di morire per sé, lo deve forse fare senza utilità per un altro? Quanto è più indegno che muoia chi non ha meritato la morte, tanto è più giusto che viva colui per il quale muore. 23. «Ma», si potrebbe dire, «che giustizia è che un innocente muoia per un empio?». Non è giustizia, ma misericordia. Se fosse giustizia non morirebbe gratis, ma per il suo debito. Se morisse per il suo debito, morirebbe certo lui, ma quello per il quale muore non vivrebbe. Se però non è giustizia, tuttavia non è contro giustizia, altrimenti Dio non potrebbe essere allo stesso tempo giusto e misericordioso. «Ma anche se il giusto può senza ingiustizia pagare per il peccatore, in che modo uno solo può pagare per molti? Infatti potrebbe sembrare sufficiente secondo giustizia che uno solo, morendo, restitui-sca la vita solo a un altro». A ciò può rispondere l’apostolo Paolo, che dice: Come infatti per la colpa di uno solo su tutti gli uomini è venutala condanna, così per la giustizia di uno solo su tutti gli uomini è venutala giustificazione per la vita. Come infatti per la di-sobbedienza di un solo uomo molti sono stati costituiti peccatori: così anche per l’obbedienza di un solo uomo molti saranno costituiti giusti (Romani 5,18-19). Ma allo-ra uno solo ha potuto restituire a molti la giustizia e non ha potuto restituire la vita? Per un solo uomo - dice Paolo - la morte e per un solo uomo la vita. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così anche in Cristo tutti avranno la vita (1 Corinzi 15,21-22). Quindi? Uno solo ha peccato e tutti sono ritenuti colpevoli, e invece l’innocenza di uno solo sarà attribuita solo a un altro innocente? Il peccato di uno solo ha procurato la morte a tutti e la giustizia di uno solo restituirà la vita solo a uno? La giustizia di Dio ha avuto più for-za a condannare che a restaurare? O ha potuto più Adamo nel male che Cristo nel bene? Il peccato di Adamo mi sarà imputato e la giustizia di Cristo non si estenderà fino a me? La disobbedienza di Adamo mi ha perso e l’obbedienza di Cristo non mi gioverà? 24. «Ma», si potrebbe dire, «a ragione tutti contraiamo la colpa di Adamo, nel quale tutti abbiamo peccato, perché quando peccò eravamo in lui e siamo stati generati dalla sua carne con la concupiscenza della carne». Eppure noi nasciamo da Dio secondo lo spirito molto più propriamente che da Adamo secondo la carne, e secondo lo spirito noi fummo in Cristo molto prima che secondo la carne in Adamo, se abbiamo fiducia di es-sere compresi anche noi tra quelli, di cui parla l’apostolo Paolo: Egli (il Padre) che ci ha scelti in lui (il Figlio) prima della creazione del mondo (Efesini 1,4). Che sono nati da Dio lo attesta poi anche l’evangelista Giovanni, quando dice: I quali non da sangue, né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio sono nati (Giovanni 1,13); e ancora Giovanni nella lettera: Chiunque è nato da Dio non pecca (1 Giovanni 3,9), poiché la generazione dall’alto lo custodisce. «Ma», si può dire, «la concupiscenza della carne attesta un collegamento della carne, e il peccato che sentiamo nella carne prova chiaramente che secondo la carne discendiamo dalla carne del peccatore». Ma tut-tavia quella generazione spirituale è sentita non nella carne, bensì nel cuore, almeno da coloro che possono dire con Paolo: Ebbene, noi abbiamo il sentire di Cristo (1 Corinzi 2,16), nel quale sentono di aver progredito fino a tanto, da dire con ogni fiducia: Lo

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stesso Spirito rende testimonianza al nostro spirito che siamo figli di Dio (Romani 8,16), e ancora: Noi invece non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo, ma lo Spi-rito che è da Dio, per conoscere le cose che ci sono state donate da Dio (1 Corinzi 2,12). Per mezzo dello Spirito che è da Dio, dunque, la carità è stata diffusa nei nostri cuori (Romani 5,5), così come per mezzo della carne che è da Adamo la concupiscenza rimane insita nelle nostre membra. E come la concupiscenza, che discende dal progeni-tore dei corpi, in questa vita mortale non si allontana mai dalla carne, così la carità che procede dal Padre degli spiriti non viene mai meno (1 Corinzi 13,8) nel proposito dei fi-gli, almeno di quelli perfetti. 25. Se dunque siamo nati da Dio e siamo stati eletti in Cristo, che giustizia è questa, che faccia più danno la generazione umana e terrena di quanto abbia forza quella divina e celeste, che la successione carnale vinca l’elezione di Dio e la concupiscenza della carne trasmessa nel tempo comandi al suo eterno disegno? Anzi, se per un solo uomo la morte, perché non molto di più per un solo uomo, e quell’uomo, la vita (cfr. Romani 5,12 e 17)? E se tutti moriamo in Adamo, perché in modo molto più potente non avremo tutti la vita in Cristo (cfr. 1 Corinzi 15,22)? Infine il dono non è come la colpa: infatti da una sola colpa venne il giudizio per la condanna, invece da molte colpe venne la grazia per la giustificazione (Romani 5,15-16). Cristo dunque, essendo Dio, ha potuto rimetterei peccati ed, essendo uomo, ha potuto morire ed, essendo giusto, morendo ha potuto pagare il debito della morte e lui solo ba-stare a tutti per la vita e la giustizia, dal momento che da uno solo il peccato e la morte si erano estesi su tutti. 26. Ma con assoluta necessità è stato anche previsto che, rinviata la morte, si degnas-se di vivere per un po’ uomo tra gli uomini, per spingere alle cose invisibili con la ric-chezza e la verità delle sue parole, per sostenere la fede con opere mirabili, per educare i costumi con opere rette. Perciò cosa non ha fatto per la nostra salvezza il Dio uomo, che sotto gli occhi degli uomini ha vissuto in sobrietà, giustizia e pietà (Tito 2,12), ha parla-to delle verità, ha operato miracoli, ha patito ingiustamente? Si aggiunga la grazia della remissione dei peccati, cioè che rimetta i peccati gratis, ed è compiuta l’opera della no-stra salvezza. E non bisogna temere che per perdonare i peccati manchi il potere a Dio o la volontà a chi ha patito, e ha patito tanto per i peccatori, se tuttavia, com’è giusto e ne-cessario, siamo trovati solleciti a imitarne gli esempi e a venerarne i miracoli, non siamo increduli dei suoi insegnamenti e ingrati verso le sue sofferenze. 27. Così tutto di Cristo ha avuto valore per noi, tutto è stato di salvezza e tutto neces-sario e la sua debolezza non ci ha giovato meno della sua maestà perché, anche se co-mandando con la potenza della divinità ha tolto via il giogo del peccato, tuttavia moren-do con la debolezza della carne ha abbattuto il potere della morte. Per cui dice bene l’apostolo Paolo: Ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini (1 Corinzi 1,25). Ma anche quella sua follia, per la quale volle salvare il mondo, per confutare la sapienza del mondo, confondere i sapienti - cioè che, pur essendo di natura divina, uguale a Dio annientò se stesso prendendo la natura del servo (Filippesi 2,6-7); pur essendo ricco, per noi si è fatto bisognoso (2 Corinzi 8,9), da grande piccolo, da alto umile, debole da potente; ebbe fame, ebbe sete, si stancò nel cammino, e tutte le altre cose che soffrì per sua volontà, non per necessità - dunque questa sua specie di follia non fu per noi via di prudenza, modello di giustizia, esempio di santità? Perciò dice sempre l’apostolo Pao-

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lo:Ciò che è stoltezza di Dio, è più sapiente degli uomini (1 Corinzi 1,25). La sua morte quindi ci ha liberato dalla morte, la sua vita dall’errore, la sua grazia dal peccato. La sua morte ha raggiunto la vittoria per la sua giustizia, poiché lui giusto, pagando ciò che non aveva rubato (cfr. Salmo 69,5), a buon diritto riprese tutto ciò che aveva perso. La sua vita, che è per noi modello e specchio di vita e di dottrina, ha compiuto ciò che la ri-guardava per mezzo della sapienza. La sua grazia ha rimesso i peccati in base a quel po-tere che, come è stato detto, ha realizzato tutto ciò che ha voluto. Così la morte di Cristo è la morte della mia morte, perché lui è morto affinché io vivessi. Infatti come può non vivere colui per il quale muore la Vita? Chi avrà paura di sbagliare nella via della mora-le o della conoscenza della realtà con la guida della Sapienza? Come sarà ritenuto col-pevole colui che la Giustizia ha assolto? Lui stesso si proclama la vita nel Vangelo, di-cendo: Io sono la vita (Giovanni 14,6). Le altre due cose poi le testimonia l’apostolo Paolo quando dice: Lui, che è stato costituito per noi giustizia e sapienza da Dio Padre (1 Corinzi 1,30). 28. Se dunque la legge dello spirito di vita in Cristo Gesù ci ha liberato dalla legge del peccato e della morte (Romani 8,2), perché moriamo ancora e non siamo subito ve-stiti di immortalità? Perché si compia la verità di Dio. Infatti, poiché Dio ama la miseri-cordia e la verità (Salmo 84,12), è necessario che l’uomo muoia, come Dio aveva pre-detto, ma che risorga dalla morte, affinché Dio non si dimentichi di avere misericordia (Salmo 77,10) Così dunque la morte, anche se non domina per sempre, tuttavia per la verità di Dio rimane in noi solo temporaneamente, come il peccato, anche se non regna più nel nostro corpo mortale (Romani 6,12), tuttavia non manca del tutto in noi. Per questo Paolo da una parte si gloria di essere stato liberato dalla legge del peccato e della morte, ma dall’altra parte si lamenta di essere gravato ancora da tutte e due queste leggi, sia quando grida con dolore contro il peccato: Trovo un’altra legge nelle mie membra, ecc. (Romani 7,23), sia quando geme, gravato (cfr. 2 Corinzi 5,4) senza dubbio dalla legge della morte, aspettandola redenzione del suo corpo (Romani 8,23). 29. Sia queste considerazioni, sia molte altre simili vengano suggerite con l’occa-sione del sepolcro ai cristiani, secondo la ricchezza della sensibilità di fede di ciascuno, credo che una dolcissima devozione si infonda in chi contempla e che sia davvero utile vedere da vicino, anche con gli occhi del corpo, il luogo della quiete del corpo del Si-gnore. Anche se certo è ormai vuoto delle sacre membra, tuttavia è pieno dei misteri più nostri e più lieti. Nostri, dico, nostri, se non solo crediamo senza ombra di dubbio, ma abbracciamo con ardore ciò che dice l’apostolo Paolo: Per il battesimo siamo stati se-polti (insieme a lui)14 nella morte, affinché come Cristo è risorto dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi camminiamo in una vita nuova. Se infatti siamo diventati una sola pianta con lui nella somiglianza della sua morte, lo saremo anche nella somiglianza della risurrezione (Romani 6,4-5). Quanto è dolce per i pellegrini, dopo la grande fatica del lungo viaggio, dopo moltissimi pericoli per terra e per mare, finalmente riposare là, dove sanno che ha riposato anche il loro Signore! Penso che di fronte alla gioia non sentano più la fatica del cammino e non calcolino l’entità delle spe-se, ma, come chi ottiene la ricompensa del la fatica e il premio del viaggio, secondo la frase della Scrittura gioiscono intensamente di aver trovato il sepolcro (Giobbe 3,22). E non si creda che per caso o all’improvviso, come per mutevole opinione del favore po-

14 Nella citazione manca «cum illo», che ho reintegrato tra parentesi, per far meglio comprendere il senso del passo paolino.

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polare, il sepolcro abbia raggiunto così celebre fa ma, poiché Isaia lo aveva predetto apertamente molto tempo prima: Vi sarà, dice, in quel giorno la radice di lesse, che si leverà come vessillo dei popoli; le genti lo invocheranno e il suo sepolcro sarà glorioso (Isaia 11,10). Vediamo dunque adempiuto nella realtà ciò che leggiamo profetizzato, cosa nuova per chi guarda, ma antica per chi legge, perché così vi sia gioia per la novità e non manchi autorità per l’antichità. E ciò basti per il sepolcro. XII. Betfage 30. Che dirò di Betfage, piccolo villaggio di sacerdoti che stavo per tralasciare, dove è racchiuso il mistero della confessione e del ministero sacerdotale? Il nome Betfage viene interpretato come «casa della bocca». Infatti è scritto: La parola è vicina, nella tua bocca e nel tuo cuore (Romani 10,8). Ricordati di avere la parola non solo in uno di essi, ma in entrambi. La parola nel cuore del peccatore opera una salutare contrizione, la parola nella bocca toglie la vergogna dannosa, perché non impedisca la necessaria con-fessione. Dice infatti la Scrittura: C’è un pudore che conduce al peccato e c’è un pudore che conduce alla gloria (Siracide 4,25). È buono il pudore per il quale ti vergogni di aver peccato o di peccare e, anche se non c’è alcun testimone umano, temi lo sguardo di Dio più di quello dell’uomo, con una vergogna tanto maggiore quanto più pensi che ve-ramente Dio è più puro dell’uomo e che è offeso da chi pecca in maniera tanto più gra-ve, quanto più lontano da lui è ogni peccato. Senza dubbio questo tipo di pudore scaccia l’obbrobrio, preparala gloria, perché o non lascia passare affatto il peccato, o col penti-mento punisce quello commesso e con la confessione lo rimuove, se questa è la nostra gloria; la testimonianza della nostra coscienza (2 Corinzi 1,12). Invece se qualcuno si turba di confessare ciò di cui pure prova compunzione, tale pudore inopportuno provoca il peccato e distrugge la gloria della coscienza, perché, chiusa la porta delle labbra, non permette che esca il male che la compunzione si sforza di espellere dal profondo del cuore, mentre, sull’esempio di Davide, bisognerebbe dire: Non chiuderò le mie labbra: Signore, tu lo sai (Salmo 40,10). Credo che anche Davide rimproveri se stesso per que-sto pudore stolto e irrazionale, quando dice: Poiché ho taciutosi sono invecchiatele mie ossa (Salmo 32,3). Per cui chiede che sia posta una soglia intorno alle sue labbra (Sal-mo 141,3), perché sappia aprire la porta della bocca alla confessione e chiuderla alla propria giustificazione. Inoltre pregando chiede apertamente ciò al Signore, sapendo che la confessione e la magnificenza sono opera sua (Salmo 111,3). Grande è il bene della duplice confessione - cioè che proclamiamo la nostra malvagità e la magnificenza della bontà e della forza divina - ma è un dono di Dio. Infatti Davide dice: Non far cadere il mio cuore in parole malvagie per trovare scuse ai miei peccati (Salmo 141,4). Perciò è necessario che i sacerdoti, ministri della parola, siano solleciti a vigilare su questi due punti, cioè di imprimere la parola del timore e della contrizione nei cuori dei peccatori con grande moderazione, perché non abbiano mai paura della parola della confessione, così che aprano i cuori e non chiudano le bocche; ma non assolvano chi è compunto, se non si sarà anche confessato, perché con il cuore si crede per la giustizia, ma con la bocca si fa la confessione per la salvezza (Romani 10,10). Del resto non esiste la con-fessione da parte di un morto, che non c’è. In conclusione, chi ha la parola nella bocca e non ce l’ha nel cuore, è falso o stupido; chi nel cuore e non nella bocca, è superbo o pauroso.

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XIII. Betania 31. Anche se ho molta fretta, non debbo passare del tutto sottosilenzio la casa dell’obbedienza, cioè Betania, il villaggio di Maria e Marta nel quale Lazzaro fu risusci-tato (cfr. Giovanni 11,1-44), dove ci vengono presentatela figura dei due tipi di vita15, la meravigliosa clemenza di Dio verso i peccatori e la virtù dell’obbedienza insieme ai frutti della penitenza16. In questo luogo basti rilevare brevemente che né l’ardore per la buona azione, né la quiete della santa contemplazione, né la lacrima della penitente po-terono essere accette fuori da Betania a colui, che ebbe un’obbedienza tanto grande, che preferì perdere la vita piuttosto che essa, fatto obbediente al Padre fino alla morte (Fi-lippesi 2,8).

*** Queste sono dunque le ricchezze che l’annuncio profetico promette dalla parola del Signore: Il Signore consolerà Sion, consolerà tutte le sue rovine e farà del suo deserto un luogo di delizie e della sua solitudine un giardino del Signore; in essa si troverà gioia e letizia, rendimento di grazie e voce di lode (Isaia 51,3). Queste delizie del mon-do, questo tesoro del cielo, questa eredità dei popoli fedeli sono affidati alla vostra fede, carissimi, consegnati alla vostra perizia e al vostro coraggio. Sarete capaci di custodire sicuramente e fedelmente quanto vi è affidato dal cielo, se non confiderete mai nella vo-stra perizia o nel vostro coraggio, ma sempre e soltanto nell’aiuto di Dio, sapendo che l’uomo non troverà potenza nella sua forza (1 Samuele 2,9), e perciò dicendo con il pro-feta: Il Signore è il mio sostegno e il mio rifugio e il mio liberatore (Salmo 18,3); Cu-stodirò presso di te il mio coraggio, perché Dio è il mio difensore, il mio Dio la sua mi-sericordia mi starà innanzi (Salmo 59,10-11); Non a noi: Signore, non a noi: ma al tuo nome da’ gloria (Salmo 115,1), affinché in tutte le cose sia benedetto lui, che addestra le vostre mani alla battaglia e le vostre dita alla lotta (Salmo 144,1).

15 Si tratta dell’interpretazione simbolica o figurale delle due sorelle di Lazzaro, Marta e Maria. Viste nel-la tradizione esegetica come figure rispettivamente della vita attiva e di quella contemplativa, poiché Mar-ta, la più grande, si dà da fare per servire Gesù, mentre Maria sta ferma ad ascoltare la sua parola, per questo rimproverata dalla sorella, ma lodata dal Signore (Luca 10,38-42). Bernardo, sulla linea di altri au-tori suoi contemporanei, non sembra in questo brano dare palese preferenza alla contemplazione, benché la sua scelta monastica vada in questa direzione; ma forse non è un caso che nel citare le due sorelle ante-ponga, almeno a livello affettivo, Maria a Marta. 16 Il riferimento è all’episodio della pubblica peccatrice che versa sui piedi di Gesù, baciandoli, lacrime e olio profumato, e viene da lui perdonata «quoniam dilexit multum» («perché ha molto amato»), narrato da Luca 7,36-50, ambientato nella casa del fariseo Simone, forse nel villaggio di Nain. Cambiano alcuni par-ticolari in Matteo 26,6-13 e Marco 14,39, per i quali l’episodio si svolge a Betania nella casa di Simone il lebbroso e l’unzione è fatta da una donna- senza alcun riferimento al fatto che fosse una peccatrice- sul capo di Gesù e non sui piedi, quindi manca anche il particolare della donna che li asciuga con i suoi ca-pelli. Giovanni 12,1-8 (anticipato in Giovanni 11,2) colloca l’unzione a Betania, forse in casa di Lazzaro (poiché si dice che sua sorella Marta serviva a tavola), ad opera dell’altra sorella di Lazzaro, Maria, che unge i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli, ma non è affatto definita peccatrice. La tradizione ese-getica - seguita da Bernardo - unificò i vari particolari di questi racconti e identificò la donna con Maria sorella di Lazzaro, che divenne quindi anche «peccatrice» e venne ulteriormente identificata- senza però riferimenti scritturistici- con Maria di Magdala, di cui si dice solo: «dalla quale erano usciti sette demòni» (Luca 8,2); tale figura divenne modello della penitente per gli autori medievali.

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Dalle LETTERE di Bernardo di Clairvaux17 l. Lettera 359 A Papa Callisto18 da parte dei monaci di Clairvaux (dicembre 1124 - gennaio 1125) Desiderano che sia trattenuto l’abate di Morimond, che si accinge ad andare pellegrino a Gerusalemme19.

Al sommo pontefice Callisto, il piccolo gregge (Luca 12,32) di Clairvaux, esprime la devotissima obbedienza della dovuta sottomissione e la preghiera dei peccatori, se può qualcosa. Poiché ci rallegriamo che voi occupiate il posto di chi diceva che la sua preoccupazione quotidiana era la premura verso tutte le Chiese (2 Corinzi 11,28), la nostra piccolezza non teme un rifiuto presso gli orecchi della vostra pietà, anche se occupati in affari più grandi, dato che ci spinge una grande necessità. Infatti non potete ascoltare come cosa da nulla ciò che state per ascoltare, quello che avete fatto a uno dei miei più piccoli lo avete fatto a me (Matteo 25,40). D’altra parte questa causa non è soltanto nostra, ma di tutto il nostro Ordine, e per essa lo stesso vostro figlio padre di tutti noi20 sarebbe venuto da sé alla presenza della vostra maestà o certo avrebbe incaricato di scrivere in suo nome questa lacrimosa lamentela, se

17 Vengono proposte diciotto lettere; i numeri da 1 a 18 indicano solo la loro successione in questa piccola antologia, in base al criterio cronologico. Si indica poi il numero della lettera nell’epistolario bernardino, che – come si potrà notare – non segue invece la cronologia. L’indicazione del destinatario e il breve rias-sunto del contenuto delle singole lettere sono ripresi dall’edizione critica dell’epistolario, ma ovviamente non sono dello stesso Bernardo. 18 Callisto II, 1119-1124. 19 Questa lettera fa parte di un piccolo gruppo riguardante Arnoldo, abate di Morimond (una delle cinque abbazie-madri dell’ordine cistercense), il quale nel 1124 decise di lasciare l’abbazia e di recarsi in Pale-stina, insieme ad alcuni dei suoi giovani monaci, per fondarvi un monastero, secondo Bernardo di fronte a difficoltà nel governare la comunità monastica (cfr. lettera 141 del 1137). Questo progetto vide il santo fortemente contrario, impegnato a far sì che Arnoldo vi rinunciasse o che vi fosse impedito direttamente dal papa, poiché per Bernardo il monaco deve restare nel suo monastero per realizzare la sua vocazione, tanto più se si tratta di un abate, che ha obblighi pastorali e paterni verso gli uomini a lui affidati. Nulla è più importante, nemmeno un pellegrinaggio in Terra Santa o la volontà di fondarvi un monastero, se ciò è fatto solo per desiderio personale, senza il consenso dei superiori. Tale consenso, secondo quanto scrive Bernardo, non c’era stato da parte dell’abate generale di Cîteaux, che manteneva il controllo sulle altre quattro abbazie-madri cistercensi, che da Cîteaux erano state fondate. Arnoldo aveva ottenuto però il con-senso del papa Callisto, poi aveva chiesto quello dell’abate di Cîteaux, partendo nel dicembre del 1124. Bernardo scrisse nel dicembre 1124 personalmente ad Arnoldo (lettera 4), ad Adamo, uno dei monaci che volevano seguirlo (lettera 5), a Bruno di Colonia, fratello di Everardo, un altro monaco al seguito di Ar-noldo (lettera 6) e ancora ad Adamo nel febbraio 1125 (la lunghissima lettera 7, divisa in venti paragrafi); tra il dicembre 1124 e il gennaio 1125, insieme alla comunità di Clairvaux, inviò questa lettera al papa. Ho selezionato questa lettera perché mi sembra importante per collocare l’interesse di Bernardo per la Terra Santa entro le sue dimensioni reali; per il monaco la vera Gerusalemme, anticipo di quella celeste, resta il monastero (vedi più avanti anche la lettera 459); non è invece il caso di pubblicare qui le altre let-tere di questo piccolo gruppo, poiché gli argomenti in esse sviluppati toccano prevalentemente il proble-ma spirituale del legame con il monastero, indipendentemente dalla Terra Santa, che in pratica non vi viene nemmeno nominata. 20 Cioè l’abate di Cîteaux, in quegli anni Stefano Harding, terzo abate dal 1109 al 1133, anno in cui si di-mise; morì nel 1134.

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fosse stato a casa quando questa lettera è stata inviata; ma è avvenuto che per caso allora fosse assente e ancora ignaro di questo fatto. Ma non teniamo sospese a lungo le viscere della vostra sollecita carità: uno dei nostri fratelli abati, quello che era detto di Morimond, abbandonando del tutto sconsiderata-mente lo stesso monastero cui era preposto, spinto da spirito di leggerezza ha deciso di dirigersi a Gerusalemme, ma prima, a quanto dicono, tenterà la prudenza della vostra circospezione cercando di poter estorcervi in qualche modo il permesso al suo errore. Se in ciò gli offrirete un qualche assenso - che non avvenga! - valutate bene voi stesso che occasione di grande distruzione possa essere per il nostro Ordine, perché, sull’esempio di costui, qualunque abate si sentisse aggravato dal peso pastorale, subito lo lascerebbe, ritenendo di poterlo lasciare liberamente, soprattutto presso di noi, dove non è un grande onore e sembra un grave onere. Inoltre, a maggior desolazione della casa a lui affidata, ha preso come compagni del suo vagabondare i migliori e i più perfetti che vivevano sotto di lui, e tra di essi anche quel nobile ragazzo che prima, non senza scandalo, aveva portato da Colonia21 - crediamo che ciò non vi sia sfuggito - adesso per maggiore scandalo ha l’ardire di portarselo con sé. Se, come ci è stato riferito, dice che in quella terra lui vuole seminare le osservanze del nostro Ordine e che perciò conduce con sé una moltitudine di fratelli, chi non vede che là sono necessari più cavalieri per combattere che monaci per cantare o piangere? Ma da ciò la nostra disciplina religiosa trarrà moltissimo detrimento, perché per chiunque bra-masse vagare, sarebbe facile senza alcun rischio. 2. Lettera 31 A Ugo, conte di Champagne, fattosi cavaliere del Tempio22 (1125) Si congratula con Ugo per aver intrapreso la cavalleria sacra e promette il ricordo dei suoi benefici. Se per la causa di Dio ti sei fatto da conte cavaliere e povero da ricco, in questo certo mi congratulo con te, com’è giusto, e in te glorifico Dio, sapendo che questo è un cambia-mento della destra dell’Eccelso (Salmo 77,11). Invece, lo confesso, non sopporto sere-namente il fatto che la tua gioiosa presenza mi sia stata tolta, non so per quale giudizio di Dio, sicché non posso vederti nemmeno ogni tanto, mentre non avrei mai voluto stare senza di te, se fosse stato possibile. Posso infatti dimenticarmi del vecchio amore e dei benefici che hai dato con larghezza alla nostra casa? Possa non dimenticarli mai Dio stesso, per il cui amore lo hai fatto, perché io, che non sono affatto ingrato, per quanto è in me terrò fermo nella mente il ricordo della dolcezza della tua generosità (Salmo 145,7) e, se fosse possibile, lo mostrerei di fatto.

21 Corrado, figlio del duca di Baviera. 22 Conte di Troyes dal 1093 all’anno in cui è inviata questa lettera, unificò la Champagne e fu molto at-tento alle realtà religiose. Nella contea di Troyes venne fondata proprio l’abbazia di Clairvaux (1115), di cui fu abate Bernardo, ma trovò ospitalità anche il suo avversario Abelardo, che vi fondò il monastero del Paracleto, nel quale si ritirò più tardi Eloisa. Prima di farsi templare, Ugo già due volte si era recato in Terra Santa. Vi tornò nel 1125 ed entrò tra i cavalieri del tempio, dopo aver nominato erede il nipote Teo-baldo di Blois, diseredando e disconoscendo il figlio avuto dalla seconda moglie, che riteneva non suo. A Troyes si riunì nel 1128 il concilio che approvò i cavalieri del tempio e diede loro la regola.

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O con che animo contento avrei provveduto nello stesso tempo al tuo corpo e alla tua anima, se mi fosse stato concesso di essere insieme! Poiché non è così, se non ti posso avere con me, in tua assenza non mi resta che pregare sempre per te. 3. Lettera 175 Al patriarca di Gerusalemme23 (1130) Preceduto dal patriarca, risponde familiarmente alle sue lettere e gli raccomanda i ca-valieri del Tempio. Essendo stato raggiunto molto spesso da scritti del patriarca, sembrerò ingrato ormai se non risponderò. Ma se saluto chi mi ha salutato, che ho fatto di più? (Matteo 5,47). Tu infatti mi hai prevenuto con le tue dolci benedizioni (Salmo 21,4), tu per primo ti sei de-gnato di visitarmi con le tue lettere d’oltremare; tu mi hai sottratto i primi obblighi di umiltà e di carità. Che restituirò di altrettanto degno? In fondo non mi hai lasciato niente che possa contraccambiare in pari modo, poiché ti sei preoccupato di farmi parte del te-soro dei secoli, cioè del legno della croce del Signore. Ma allora devo tralasciare ciò che posso, perché non posso affatto fare ciò che devo? Almeno manifesto il mio affetto e la mia volontà rispondendo e ricambiando i saluti, la sola cosa consentita di fronte a tanto spazio di terra e di mare. Ma mostrerò, se mai ne avrò il tempo, che non amo affatto a parole o con la lingua, ma in opere e verità (l Giovanni 3,18). Vi prego, ponete i vostri occhi sui cavalieri del Tempio24 e aprite le viscere della vostra grande pietà a difensori della Chiesa tanto valorosi. Sarà sicuramente gradito a Dio (1 Timoteo 5,4) e caro agli uomini se aiuterete quelli che hanno messo le loro anime a difesa dei fratelli (cfr. Gio-vanni 15,13). Quanto al luogo al quale mi invitate25 il fratello Andrea vi dirà la mia vo-lontà26.

23 Guglielmo di Messines (presso Ypres), fiammingo, appena divenuto in quest’anno patriarca di Gerusa-lemme. 24 Proprio attraverso i Templari Guglielmo di Messines aveva preso contatto con Bernardo. Si noti il pas-saggio dal tu al voi. 25 Si tratta dell’offerta di un terreno per l’edificazione di un’abbazia cistercense, filiazione di Clairvaux, che fece a Bernardo anche il re di Gerusalemme Baldovino II. Il luogo era vicino a Gerusalemme, sul Mons Gaudii presso la tomba di Samuele (oggi Nabi Samwil). Bernardo era contrario e girò la proposta a Ugo di Fosses, abate dei Premonstratensi, che accettò. La contrarietà era probabilmente dovuta all’aria poco salubre e al rischio di incursioni musulmane, secondo alcuni anche al fatto che l’abate dell’abbazia madre aveva l’obbligo di visitare ogni anno le figlie, secondo le norme cistercensi. Il diniego di Bernardo può forse spiegare il fatto che solo dopo vario tempo egli si decise a rispondere al patriarca, quando non poteva più evitare di farlo di fronte al dono della reliquia della santa croce. 26 Ferruccio Gastaldelli (Opere di san Bernardo, VI. Lettere, Parte Prima, Milano 1986, p. 736 nota) ipo-tizza che sia il fratello carnale di Bernardo, più giovane di lui e anch’egli monaco a Clairvaux, di cui il santo si servì per varie missioni, citato nella lettera 184 al papa Innocenzo II.

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4. Lettera 355 Alla regina di Gerusalemme (Melisenda)27 (1141) Raccomanda dei Premonstratensi pellegrini a Gerusalemme. Vedete quanto mi attenda da voi, se oso raccomandarvi anche altre persone, benché rac-comandare questi fratelli Premonstratensi sia forse più superfluo che temerario. Si rac-comandano tanto per il loro merito, che non hanno bisogno di quello altrui. Se non mi sbaglio, saranno trovati uomini saggi, ferventi nello spirito, pazienti nelle tribolazioni (Romani 12,11-12), capaci nell’azione e nella parola. Hanno indossato l’armatura di Dio e hanno cinto la spada dello Spirito, che è la parola di Dio, non contro la carne e il sangue, ma contro le forze del male che sono nel mondo spirituale (Efesini 6,12.17). Accoglieteli come guerrieri pacifici, mansueti con gli uomini, violenti con i demòni. Anzi in essi accogliete Cristo, che è la causa del loro pellegrinaggio. 5. Lettera 354 Alla regina di Gerusalemme Melisenda, figlia del re Baldovino e moglie di Folco (1143-1144) Come si debba comportare dopo la morte di suo marito Folco. All’illustrissima regina di Gerusalemme Melisenda Bernardo, abate di Clairvaux, con l’augurio di trovare grazia presso il Signore. Tra i molti impegni e preoccupazioni della corte reale mi sembrerebbe proprio fuori luogo scriverti, se in te vedessi soltanto la gloria del tuo regno, la tua potenza e la nobile origine. Tutte queste cose valgono agli occhi degli uomini e quelli che non le hanno in-vidiano quelli che le hanno e dicono beato l’uomo cui appartengono. Ma che senso ha questa beatitudine nel possedere quelle cose, che una per una inaridiscono velocemente come l’erba e presto cadono giù come le foglie delle piante (Salmo 37,2)! Sono buone ma instabili, mutevoli, destinate a passare e a morire, perché sono beni della carne; e della carne e dei suoi beni è stato anche detto: La carne è solo erba e tutta la sua gloria è come il fiore dell’erba (Isaia 40,6). Perciò scrivendoti non ho dovuto riverire molto queste cose, nelle quali il piacere è bugiardo e la bellezza inutile (Proverbi 31,30). Accogli in poche parole quanto voglio dire; infatti, benché abbia molto da dirti, tuttavia abbrevierò il discorso per i molti impegni tuoi e miei. Accogli da una terra lontana un consiglio breve ma utile, dal quale, come da un piccolo seme, possa crescere in futuro un grande raccolto; ti prego, accogli un consiglio dalla mano di un amico che non cerca il proprio interesse, ma il tuo onore, perché per un consiglio nessuno può esserti più fe-dele di chi vuole bene non alle tue cose, ma a te. Morto il re tuo marito, con il piccolo re

27 Melisenda era figlia di Baldovino II, re di Gerusalemme dal 118 al 1131; sposò Folco d’Angiò, che di-venne re nel 1131 e morì nel 1143. Melisenda fu reggente per il piccolo figlio Baldovino III, al quale però non concesse di governare con la maggiore età (1145). Si ebbe una temporanea divisione del regno, poi una breve guerra civile; solo nel 1152 Melisenda cedette il regno al figlio e si ritirò a Nablus, continuando a intervenire negli affari del regno. Morì nel 1160, due anni prima del figlio. Nella lettera 289 (qui la n. 16) del 1153 Bernardo si rallegra con la regina perché si comporta in maniera pacifica, senza ulteriori specificazioni né riferimenti al figlio.

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ancora poco idoneo a reggere gli affari del regno e a dare continuità alla carica di re, gli occhi di tutti guardano a te e solo su di te si appoggia tutto il peso del regno. È necessa-rio che tu metta mano ad azioni forti e nella donna mostri l’uomo, compiendo ciò che va compiuto con spirito di ponderazione e di fortezza. Bisogna che tu disponga ogni cosa con tale prudenza e moderazione, che tutti coloro che ti vedranno dalle opere ti giudi-chino re piuttosto che regina, perché non si dica tra le genti: «Dov’è il re di Gerusa-lemme»? (Salmo 79,10). Tu dirai: «Ma non sono capace, perché si tratta di compiti grandi, al di sopra delle mie forze e del mio sapere. Queste sono azioni da uomo, ma io sono una donna, debole di corpo, instabile di cuore, sprovveduta nelle decisioni, non abituata agli affari di stato». Lo so, figlia, lo so che sono grandi impegni, ma so anche che, se sono straordinarie le onde del mare, straordinario è nei cieli il Signore (Salmo 93,4). Sono impegni grandi, ma grande è il nostro Signore e grande è la sua forza (Salmo 147,5). 6. Lettera 206 Alla regina di Gerusalemme (Melisenda) (?) Raccomanda un suo parente e in poche parole ammonisce la regina a vivere in modo da regnare in eterno. La gente sa che ho la vostra amicizia e molti che stanno per partire per Gerusalemme chiedono di essere raccomandati da me alla vostra Eccellenza. Tra loro c’è questo mio giovane parente, che, come dicono, è forte in combattimento e gentile nel comporta-mento, e io sono felice che, quando è venuto il momento, abbia scelto di militare per Dio anziché per il mondo28. Perciò fate com’è vostra abitudine e, grazie a me, vada bene a lui, come è stato per tutti gli altri miei parenti che tramite me hanno potuto farsi cono-scere da voi. Per il resto, state attenta che i desideri materiali e la gloria mondana non vi ostacolino sulla via del regno del cielo. Infatti che vantaggio c’è a regnare pochi giorni sulla terra ed essere privati del re-gno eterno dei cieli? Ma confido nel Signore che farete sempre meglio e, se è vera la te-stimonianza che vi rende il mio carissimo zio29 Andrea, a cui credo molto, regnerete sia qui sia in eterno, per la misericordia di Dio. Abbiate cura dei pellegrini, dei bisognosi e soprattutto dei prigionieri, perché con tali offerte si merita Dio (Ebrei 13,16). Scrivetemi più spesso, perché non sarà di peso a voi e farà piacere a me se verrò a sapere in modo più ampio e preciso che è vostro impegno preoccuparvi del bene.

28 Non si sa chi sia questo giovane parente di Bernardo, che dal contesto sembra essere diventato templa-re. 29 Andrea di Montbard, zio materno: il vocabolo latino avunculus è infatti preciso. A lui è inviata l’ultima lettera riportata in questa breve antologia, la n. 288 dell’Epistolario bernardino.

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7. Lettera 363 Agli arcivescovi della Francia orientale e della Baviera (agosto-settembre 1146) Esorta a prendere le armi contro gli infedeli per la difesa della Chiesa d’Oriente. Inol-tre, contro un predicatore violento, insegna che gli Ebrei non devono essere perseguita-ti e tanto meno uccisi. Ai signori e padri carissimi arcivescovi e vescovi e a tutto il clero e il popolo della Francia orientale e della Baviera, Bernardo, abate di Clairvaux, con l’augurio di abbon-dare nello spirito di fortezza. l. Vi parlerò dell’impresa di Cristo, nella quale è oggi la nostra salvezza. Dico ciò per-ché l’autorità del Signore e anche la considerazione della vostra utilità scusino l’indegnità della mia persona. Sono di poca importanza, ma con non poco affetto tutti vi amo nel cuore di Cristo Gesù (Filippesi l, 8). Questa è la ragione di scrivervi ora, questa la causa per cui oso incentrarmi per lettera con tutta la vostra comunità. Lo farei più vo-lentieri a viva voce se, come vorrei, se ne offrisse la possibilità. Ecco ora il tempo da accogliere, ecco ora il giorno di un’abbondante salvezza. La terra si è scossa e ha tre-mato (Salmo 18,8), perché il Dio del cielo ha cominciato a perdere la sua terra. La sua, dove è stato visto e per più di trent’anni ha vissuto uomo tra gli uomini, proprio la sua, che lui ha illuminato coni miracoli, che ha consacrato col proprio sangue, nella quale apparvero i primi fiori della risurrezione. E ora, per colpa dei nostri peccati, gli avversa-ri della croce hanno sollevato il capo sacrilego, devastando in punta di spada la terra be-nedetta, la terra della promessa. È vicino il momento in cui, se non ci sarà chi resista, irromperanno nella stessa città del Dio vivente, distruggeranno i posti dove è stata ope-ratala nostra redenzione, profaneranno i luoghi santi, arrossati dal sangue dell’Agnello immacolato. Che dolore! Già spalancano la bocca sacrilega contro lo stesso sacrario del-la religione cristiana e si preparano a invadere e calpestare lo stesso letto in cui per noi la nostra Vita si addormentò nella morte. 2. Che fate, uomini forti? Che fate, servi della croce? Darete ciò che è santo ai cani e le perle ai porci (Matteo 7,6)? Quanti peccatori in Terra Santa, confessando i loro peccati con le lacrime, ottennero il perdono dopo che l’immondezza dei pagani era stata elimi-nata dalle spade dei padri! Il maligno vede ciò ed è geloso, digrigna i denti e si rode (Salmo 112,10). Incita i vasi della sua iniquità deciso a non lasciare nemmeno i segni o le orme di una pietà così grande, se mai - che Dio ce ne scampi - dovesse entrarne in possesso. Ciò sarebbe davvero un dolore inconsolabile per tutti i secoli futuri, perché perdita irrecuperabile, e rimarrebbe infinita vergogna ed eterno disonore particolarmente per questa pessima generazione. 3. Che pensare, fratelli? Forse la mano del Signore si è indebolita (Isaia 59,1) o è diven-tata incapace di salvare, dato che a proteggere e restituire a sé la sua eredità chiama dei vermi piccoli e deboli? Non può forse mandare più di dodici legioni di angeli (Matteo 26,53), o meglio, dire una sola parola (Matteo 8,8) e la terra sarà liberata? Sì, ne ha to-talmente il potere, se vuole; ma vi dico: Il Signore Dio vostro vi mette alla prova (Deu-teronomio 13,3). Si volge a guardare i figli degli uomini, se ci sia chi capisca il suo pe-ricolo e si interroghi (Salmo 14,2) e se ne addolori. Dio infatti ha misericordia del suo popolo e offre una possibilità di salvezza a chi ha compiuto gravi colpe. 4. Considerate di quale artificio si serve per salvarvi e stupitevi ;contemplate l’abisso della sua pietà e abbiate fiducia, peccatori. Non vuole la vostra morte, ma che vi conver-

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tiate e viviate30 perché procura questa occasione non contro di voi, ma per voi. Cos’è infatti se non un’occasione di salvezza particolarmente ricercata e che solo Dio poteva inventare il fatto che l’Onnipotente si degni di invitare al suo servizio omicidi, rapinato-ri, adulteri, spergiuri e tutti gli altri criminali come fossero persone che hanno sempre seguito la giustizia? Non disperate, peccatori: il Signore è benigno. Se vi volesse punire non solo non richiederebbe il vostro servizio, ma non ne accette-rebbe nemmeno l’offerta. Ripeto, pensate alla ricchezza della sua bontà, fate attenzione all’altissimo disegno della compassione: fa in modo - oppure finge - di aver bisogno di dare come paga a chi combatte per lui l’indulgenza per le colpe e la gloria eterna. Bisognerà perciò dire beata questa generazione abbracciata dal tempo di un’indulgenza così abbondante, trovata viva da quest’anno della clemenza del Signore, un vero giubi-leo. Questa benedizione infatti si diffonde in tutto il mondo e tutti insieme accorrono al segnale della vita. 5. Poiché dunque la vostra terra è feconda di uomini forti ed è notoriamente piena di ro-busta gioventù - vostra lode in tutto il mondo - e la fama del vostro valore ha riempito la terra, preparatevi anche voi virilmente e per lo zelo del nome cristiano afferrate le armi fortunate. Finisca quella vecchia non milizia, ma - diciamolo chiaramente - malizia, con la quale abitualmente vi abbattete l’un l’altro, vi rovinate l’un l’altro per distruggervi l’un l’altro. Perché una passione così feroce, miserabili? Uno trafigge con la spada il corpo del suo prossimo, di cui forse muore anche l’anima; ma neppure il vincitore riesce a sfuggire: una spada trafigge anche la sua anima (Luca 2,35), perché non possa gioire che sia caduto solo il nemico. Dare tutto se stesso a una lotta così è da pazzi, non da va-lorosi; non va attribuito all’audacia, ma all’imbecillità. Adesso però tu, forte cavaliere, tu, uomo valoroso, puoi combattere senza pericolo dove vincere è gloria e morire un guadagno (Filippesi 1,21). Se sei un mercante esperto, se sai riflettere sulle cose del mondo (1 Corinzi 1,20), ti indico uno scambio vantaggioso, non fartelo sfuggire. Prendi il segno della croce e otterrai l’indulgenza per tutte quante le colpe, di cui ti confesserai con cuore pentito. Questa merce, se si compra, costa poco; se si mette con devozione sulle spalle vale senza dubbio il regno di Dio. Hanno fatto bene dunque quelli che hanno già preso l’insegna del cielo; anche gli altri, per non essere stupidi, faranno bene ad af-frettarsi e ad afferrare ciò che può salvarli. 6. Di un’altra cosa, fratelli, vi ammonisco, non solo io ma insieme a me l’Apostolo di Dio: non bisogna credere a ogni persona (l Giovanni 4,1). Ho saputo e gioisco che in voi ferva lo zelo di Dio, ma è necessario che non manchi del tutto l’equilibrio della ra-gione. Gli Ebrei non devono essere perseguitati, non devono essere trucidati e nemmeno messi in fuga. Chiedete a quelli che conoscono la Sacra Scrittura cosa è stato profetato degli Ebrei nel Salmo (58,12): Dio mi ha rivelato sui miei nemici - è la Chiesa che parla - di non ucciderli: perché non si dimentichi mai il mio popolo. Essi sono per noi come uno scritto vivente che ci mette sempre davanti agli occhi la passione del Signore. Per-ciò sono stati dispersi in tutte le regioni, perché, espiando la giusta pena di un delitto co-sì grande, dappertutto siano testimoni della nostra redenzione. Perciò nello stesso Salmo la Chiesa continua a dire: Disperdili e abbattili con la tua forza, Signore mio difensore. Così è avvenuto: sono stati dispersi, sono stati abbattuti, sopportano una dura prigionia sotto i principi cristiani. Ma a sera si convertiranno (Salmo 58,15) e nel tempo opportu-no ci sarà scampo per loro (Sapienza 3,6). Infine, quando saranno entrate tutte le genti,

30 La frase non è una citazione letterale, ma riecheggia parole del profeta Ezechiele, in particolare 18,23-32 e 33,11.

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allora tutto Israele sarà salvo (Romani 11,25-26), dice san Paolo, anche se chi muore nel frattempo rimane nella morte (Giovanni 3,14). 7. Non dovrei dire che, dove mancano gli ebrei, è un dolore vedere i cristiani compor-tarsi peggio di loro nel prestito a usura, se ancora si deve chiamarli cristiani e non ebre i battezzati. Se gli Ebrei vengono del tutto eliminati, come si potrà più sperare la loro sal-vezza promessa alla fine, la loro conversione che verrà alla fine? È chiaro che anche i pagani, se stessero ugualmente sottomessi in vista della fine che deve venire, ugualmen-te dovrebbero essere attesi a quel giudizio piuttosto che assaliti con le spade. Invece adesso, dato che hanno cominciato a essere violenti contro di noi, bisogna che respinga-no la violenza con la violenza coloro che non senza motivo portano la spada (Romani 13,4). Appartiene alla pietà cristiana, come debellare i superbi, così risparmiare i sotto-messi31 soprattutto gli Ebrei, cui appartengono la legge, la promessa, i padri e da cui secondo la carne viene il Cristo, che è Dio benedetto sopra ogni cosa nei secoli (Roma-ni 9,4-5). Tuttavia bisogna esigere da loro che, secondo i termini del mandato papale, liberino da ogni riscossione di interessi tutti coloro che prenderanno il segno della croce. 8. Miei carissimi fratelli, devo avvertirvi di un’altra cosa: se qualcuno, a cui piace pri-meggiare tra voi, vorrà partire prima dell’esercito crociato con una sua spedizione, non ascoltatelo assolutamente, anche se si fingesse mandato da me - il che non è vero - o mostrasse come mia una lettera che voglio riteniate non scritta da me, ma del tutto falsa, per non dire fraudolenta. Bisogna che si scelgano come capi uomini valorosi ed esperti e che l’esercito del Signore parta tutto insieme, così che in ogni luogo sia forte e da nes-suno possa subire violenza. Infatti nella precedente spedizione, prima che fosse presa Gerusalemme, ci fu un uomo di nome Pietro, di cui anche voi, se non sbaglio, avete spesso sentito parlare. Egli dunque, dominando una folla che credeva in lui e andando avanti solo con i suoi, li espose a pericoli così grandi, che nessuno o pochissimi di loro si salvarono dal morire di fame o di spada. Perciò bisogna stare molto attenti che non vi tocchi la stessa fine, se anche voi farete nello stesso modo. Ve ne scampi Dio, che è benedetto nei secoli (Ro-mani 9,5) sopra ogni cosa. Amen. 8. Lettera 365 Ad Enrico arcivescovo di Magonza contro fratel Radolfo che era stato d’accordo ad uc-cidere gli Ebrei (agosto-settembre 1146) Accusa il monaco Radolfo32 che armava i fedeli per uccidere gli Ebrei. Al venerabile signore e carissimo padre Enrico, arcivescovo di Magonza, Bernardo, abate di Clairvaux, con l’augurio di trovare grazia presso Dio (Luca 1,30). l. Ho ricevuto con la dovuta venerazione la lettera, espressione del vostro affetto; ma per il gran numero di impegni la mia risposta è breve. L’aver affidato a me il vostro lamento è segno e pegno di affetto e prova di particolare umiltà. Infatti chi mai sono io, qual è la famiglia di mio padre, perché mi si riferisca il disprezzo subito da un arcivescovo e l’offesa ricevuta da una Chiesa metropolitana? Non sono invece un bambino piccolo che

31 VIRGILIO, Eneide, VI, 853. 32 Si trattava di un monaco cistercense. Nel silenzio di molte cronache contemporanee (ma non di Ottone di Frisinga nei Gesta Friderici imperatoris), un cronista ebreo, Efraim bar Jakob, riporta notizia del mas-sacro di ebrei nelle città della Renania e dell’impegno di Bernardo in loro difesa.

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non sa come entrare e come uscire (l Re 3,7)? Tuttavia non ignoro l’eterna parola di verità (Salmo 119,43)che viene dalla bocca dell’Altissimo (Siracide 24,5): È necessario che avvenga lo scandalo, ma guai a colui per causa del quale avviene (Matteo 18,7)! Quell’uomo di cui si tratta nella vostra lettera non viene da un uomo né a nome di un uomo (Galati 1,1), ma non è nemmeno mandato da Dio. Se si vanta di essere monaco o eremita, e perciò si arroga la libertà o il servizio della predicazione, può e deve sapere che il monaco non ha la missione di insegnare, ma di piangere, e che per lui la città deve essere un carcere e la solitudine un paradiso. Ma lui, viceversa, considera la solitudine come un carcere e la città come un paradiso. Uomo senza cuore, uomo senza dignità, la cui stoltezza è stata sollevata sopra un candelabro perché appaia a tutti quelli che sono in casa (Matteo 5,15)! 2. Tre suoi atteggiamenti devono essere assolutamente rimproverati: l’abuso della pre-dicazione, il disprezzo dei vescovi, la licenza di approvare l’omicidio. È un genere di autorità mai sentito: Sei forse più grande di nostro padre Abramo (Giovanni 8,63) che, quando Dio glielo proibì, depose la spada che aveva sollevato per comando di lui stes-so? Sei forse più grande del principe degli apostoli, che al Signore chiese: Signore, dob-biamo colpire con la spada? (Luca 22,49). Conosci invece tutta la sapienza degli Egi-ziani (Atti 7,22), cioè la sapienza di questo mondo, che è stoltezza presso Dio (1 Corinzi 3,19); risolvi il problema di Pietro in modo diverso da chi disse: Metti a posto la spada, perché chiunque impugnerà la spada, di spada morirà (Matteo 26,52). La Chiesa con-vincendo o convertendo gli Ebrei giorno per giorno non trionfa su di loro in modo più ampio di quanto farebbe se li sterminasse in punta di spada tutti insieme una volta per sempre? È stata stabilita inutilmente la grande preghiera universale della Chiesa, che viene offerta dal sorgere del sole fino al tramonto (Salmo 50,1) per «i perfidi giudei»33, perché il Signore Dio strappi il velo dai loro cuori (cfr. 2 Corinzi 3,14-16) e siano tirati fuori dalle loro tenebre verso la luce della verità? Se la Chiesa non sperasse che quelli che sono increduli crederanno, sembrerebbe superfluo e inutile pregare per loro (2 Maccabei 12,44); ma con occhio pietoso ha considerato che il Signore possiede uno sguardo d’amore, lui che rende il bene per il male e l’amore per l’odio. Non vale più quanto è stato detto: Bada a non ucciderli (Salmo 59,12)? Non vale: Quando la totalità delle genti sarà entrata, allora tutto Israele sarà salvo (Romani 11,25-26)? Non vale: Edificando Gerusalemme il Signore radunerà i dispersi di Israele (Salmo 147,2)? Sei tu quello che renderà bugiardi i profeti e svuoterà tutti i tesori della pietà e della misericor-dia di Gesù Cristo? La tua dottrina non è tua, ma di quel padre che ti ha mandato (cfr. Giovanni 7,16) e credo che ti basti essere come il tuo maestro. Egli era infatti omicida fin dall’inizio (Giovanni 8,44), bugiardo e padre della menzogna. Scienza mostruosa, sapienza infernale, contraria ai profeti, nemica degli apostoli, sovversione della pietà e della grazia! Eresia tutta immonda, prostituta sacrilega che, ingravidata dallo spirito di falsità, ha concepito il dolore e partorito l’ingiustizia (Salmo 7,15)! Vorrei continuare, ma non è il caso. Infine, per riassumere in breve tutto ciò che penso di questi fatti, quest’uomo si ritiene importante, è pieno di arroganza e si sforza di farsi un nome pari a quello dei grandi della terra (2 Samuele 7,9), come dimostrano le sue parole e le sue azioni; ma non ha i mezzi per portare a termine (Luca 14,28) l’opera. Vi saluto.

33 La preghiera per la conversione dei «perfidi giudei», con queste precise parole, era inserita nella liturgia del venerdì santo fino alla riforma liturgica immediatamente successiva al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Attualmente la preghiera per gli Ebrei rimane nella liturgia del venerdì santo, ma senza queste parole e con toni diversi, anche in relazione alla missione del popolo eletto.

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9. Lettera 544 A tutti gli abati cistercensi (novembre 1146-maggio 1147)34 Ammonisce che nessun monaco parta per la spedizione in Terra Santa. A tutti gli abati, reverendi signori e amati fratelli, il fratello Bernardo, chiamato abate, con l’augurio di abbondare della grazia di Dio. Anche se per obbligo dello stato religioso l’ardore della mia carità si estende a qualun-que fedele, tuttavia la mia attenzione è maggiore verso quelli con cui il comune proposi-to di vita mi ha fatto quasi una sola cosa. Perciò godendo insieme delle vostre prosperi-tà, mi affliggo delle vostre avversità non diversamente delle mie. Conosco, perché rife-ritemi da molti, le mormorazioni contro di voi di alcuni vostri fratelli e io stesso ho udi-to in parte che, disprezzato il proposito di vita santissima, si affrettano a lanciarsi verso il mondo in tumulto. Cos’altro significa il fatto che Abiron e Dathan, che mormoravano contro Mosè, furono inghiottiti dalla terra, se non che le menti di tali persone sono state sepolte dai desideri delle cose terrene35? Cosa hai a che fare con la moltitudine tu che hai deciso per la sin-golarità? Perché cerchi la gloria del mondo, tu che hai scelto di essere trascurato nella casa del tuo Dio (Salmo 84,11)? Cosa offre l’andare in giro per le regioni a te che hai professato di condurre la vita nella solitudine? Perché cuci la croce sulle vesti tu che non cessi di portarla nel tuo cuore, se conservi la vita religiosa? Evitando dunque troppe parole, dico a livello generale non per mia autorità, ma per quella apostolica: Se qualche monaco o converso andrà nella spedizione, sarà sottoposto al debito giudizio di scomu-nica. State bene. 10. Lettera 459 A G. di Staufen36 (poco dopo gennaio 1147) Scusa dal pellegrinaggio crociato un tale Enrico, che ha indossato l’abito monastico. Bernardo, chiamato abate di Clairvaux, al diletto figlio in Cristo G. di Staufen37 salute e preghiere. Il mio carissimo figlio, tuo fratello Enrico, ha deviato il suo cammino verso di me e, su mio consiglio, non ha abbandonato il proposito del segno di salvezza38 che aveva preso, ma ne ha assunto di gran lunga di migliori: fattosi infatti come un povero per Cristo po-vero, ha deciso di vivere con l’abito monastico nella casa dei poveri di Cristo.

34 Jean Leclercq ha espresso qualche dubbio sull’autenticità di questa lettera, pensando che possa essere attribuita a qualche collaboratore di Bernardo. 35 Cfr. Numeri cap. 16. Il nome di Abiron nella Vulgata latina e nelle correnti traduzioni italiane è Abiram. 36 Il destinatario è della casata degli Staufen, come dunque suo fratello Enrico, che Bernardo ha convinto a lasciare il proposito della crociata e a farsi cistercense. Questa lettera è una palese dimostrazione di co-me Bernardo, anche nel pieno della crociata che aveva predicato nel gennaio 1147 in Germania, abbia in cima alla sua scala di valori la conversione al monachesimo. 37 Secondo il Tüchle si tratta di Goffredo di Staufen. 38 Cioè il segno della croce sulla veste; il termine «crociato» non è ancora in uso al tempo di Bernardo.

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Ciò non ti deve sembrare né grave né aspro, perché con Maria ha scelto la parte miglio-re, che non gli sarà tolta (Luca 10,42), e si è rivestito dell’immagine di chi va a Gerusa-lemme, non quella che uccide i profeti (Matteo 23,37), ma quella della quale si parteci-pa nella concordia (Salmo 122,3). Consolati dunque con queste parole (l Tessalonicesi 4,18) e ricorda cosa vi siete detti fra di voi pochissimo tempo fa. E in tutte le cose com-portati con lui così da ottenere riconoscenza da me e da lui e misericordia (cfr. 1 Timo-teo l,13 e 16) da Dio. Sta bene, mio sempre diletto. 11. Lettera 458 Al duca Ladislao, ai nobili e al popolo della Boemia (poco dopo il 13 febbraio 1147)39 Incita tutti alla spedizione verso Gerusalemme e affida l’impresa al vescovo della Mo-ravia. Al duca Ladislao, ai nobili e a tutto il popolo della Boemia, Bernardo, abate di Clair-vaux: salute spirituale in Cristo. l. Devo parlarvi dell’impresa di Cristo, nella quale è anche la vostra salvezza. Lo dico subito perché l’autorità del Signore, la considerazione della vostra utilità e lo slancio d’amore che è in me scusino presso di voi l’indegnità della mia persona. Sono di poca importanza, ma con non poco affetto tutti vi amo nel cuore di Gesù Cristo (Filippesi 1,8). Ora lo zelo mi spinge a scrivere ciò che più volentieri a viva voce mi sforzerei di incidere nei vostri cuori se, come vorrei, se ne offrisse la possibilità. Però lo spirito è pronto, ma la carne è debole (Matteo 26,41). Il corpo corruttibile non può sottomettersi al desiderio dell’anima e la massa materiale non è capace di seguire la velocità dello spirito. Ma perché me ne lamento? È lontana da voi una parte di me, ma quella che vale di meno. Il mio cuore invece si apre a voi, Boemi, il mio cuore si è dilatato (2 Corinzi 6,11) fino a voi, anche se la di stanza delle nostre terre tiene lontano il corpo pesante. 2. Ascolti dunque la vostra comunità la parola sincera, ascolti la parola di salvezza e stringa con le devote braccia dell’anima l’abbondante offerta di indulgenza. Questo tempo infatti non è uguale agli altri che son passati finora. Dal cielo viene una nuova ricchezza di misericordia. Beati quelli trovati vivi da quest’anno della clemenza del Si-gnore (Isaia 61,2), anno del perdono un vero giubileo. Vi dico che il Signore non fece altrettanto per ogni (Salmo 147,20) generazione precedente e non effuse un dono di grazia così abbondante sui nostri padri. Considerate di quale artificio si serve per sal-varvi; contemplate l’abisso della sua pietà e stupitevi, peccatori: fa in modo (o finge) di aver bisogno, mentre invece vuole provvedere alle vostre necessità. Questo disegno vie-ne dal cielo; non è di un uomo ma procede dal cuore della pietà di Dio. 3. La terra si è scossa e ha tremato (Salmo 18,8), perché il Signore del cielo ha comin-ciato a perdere la sua terra, dove è stato visto e per più di trent’anni ha vissuto uomo tra gli uomini. La sua, che ha onorato con la sua nascita, ha illuminato con i miracoli, ha consacrato col sangue, ha arricchito con la sepoltura. La sua, dove è stata udita la voce della tortora (Cantico 2,12), quando il figlio della Vergine raccomandò l’amore della castità. La sua, dove apparvero i primi fiori della risurrezione. I malvagi hanno comin-ciato a occupare questa terra della promessa e, se non ci sarà chi resista, spalancheranno

39 La lettera 458 ha molte frasi simili o uguali a brani della 363 inviata nel 1146 agli arcivescovi della Francia orientale e della Baviera; manifesta quindi un lavoro di segreteria che riutilizza frasi e concetti di una precedente missiva.

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la bocca contro lo stesso sacrario della nostra religione e si preparano a macchiare lo stesso letto in cui per noi la nostra Vita si addormentò nella morte e a profanare il sanc-ta sanctorum, i luoghi arrossati dal sangue dell’Agnello immacolato. 4. Ascoltate ancora una cosa che dovrebbe commuovere qualunque cristiano, anche se dal cuore duro. Il nostro re è accusato di tradimento: gli si rimprovera di non essere un dio, ma di aver simulato falsamente ciò che non era. Chi di voi gli è fedele si alzi, di-fenda il suo signore dall’infamia del tradimento attribuitogli, affronti una lotta sicura, dove vincere è gloria e morire un guadagno (Filippesi l, 21). Perché indugiate, servi della croce? Perché vi nascondete, se non vi mancano la forza del corpo e le sostanze terrene? Prendete il segno della croce e il Sommo Pontefice, vicario di Pietro, cui è stato detto: Tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche in cielo (Matteo 16,19), vi offre questa piena indulgenza per tutte le colpe di cui vi confesserete con cuore pentito. Prendete il dono che vi è offerto e fate a gara nel superarvi l’un l’altro per vincere un’irripetibile possibilità di indulgenza. 5. Vi chiedo e vi prego che nessuno pensi di anteporre i propri affari all’impresa di Cri-sto, e che, per cose che si possono o si potrà trattare in altri momenti, lasci andare ciò che in futuro non si può più riavere. E per sapere quando, per dove, come si debba anda-re, ascoltate poche parole: l’esercito del Signore partirà nella prossima Pasqua e in gran parte ha deciso di passare per l’Ungheria. È stato anche stabilito che nessuno indossi abiti variopinti o di pelle e nemmeno di seta e che non si mettano sulle borchie dei ca-valli ricoperture d’oro o d’argento; soltanto sugli scudi e sul legno delle selle che si adopereranno quando si andrà in battaglia sarà consentito a chi lo vorrà di mettere oro o argento, perché in essi splenda il sole (cfr. l Maccabei 6,39) e per il terrore siano disper-se le forze dei pagani. Più ampiamente e più a lungo dovrei proseguire il discorso, se non aveste presso di voi il vescovo di Moravia, uomo santo e dotto, che voglio pregare di darsi pensiero di esortare con grande cura riguardo a ciò la vostra comunità, secondo la sapienza datagli (2 Pietro 3,15) dal Signore. Vi ho mandato anche una copia della lettera del papa; con la massima attenzione dovete ascoltarne l’esortazione e osservarne le decisioni. Vi saluto. 12. Lettera 457 A tutti i fedeli (dopo il 13 marzo 1147) Sulla spedizione in Terra Santa. Stabilisce la festa dei santi Pietro e Paolo come giorno in cui radunarsi a Magdeburgo (per una spedizione crociata contro i popoli pagani al di là dell’Elba). Ai signori e padri reverendi arcivescovi, ai vescovi e ai principi e a tutti i fedeli di Dio, Bernardo, abate di Clairvaux: abbiate spirito di fortezza e di salute spirituale. Non dubi-to che sia stato udito nella vostra terra e divulgato con grandi discorsi come Dio abbia risvegliato lo spirito dei re (Geremia 51,11) e dei principi per far vendetta in mezzo ai popoli (Salmo 149,7) ed estirpare dalla terra i nemici del popolo cristiano. Gran bene, grande ricchezza della misericordia divina! Ma il maligno vede ciò e prova la sua solita invidia, digrigna i denti e si rode (Salmo 112,10); perde molti di quelli che teneva stretti con vari crimini e misfatti: i più perduti si convertono, allontanandosi dal male, pronti a fare il bene. Ma teme un altro danno molto più grande dalla conversione dei pagani, perché sa che

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tutti entreranno e che allora anche l’intero Israele dovrà essere salvato (cfr. Romani 11,25-26). Gli sembra che ora questo momento sia imminente e con astuta malizia si dà da fare per vedere con quale inganno possa opporsi a tanto bene. Perciò ha prodotto un seme cattivo, dei figli scellerati (Isaia 1,4), i pagani, che la forza dei cristiani - per dirlo con vostra pace troppo a lungo ha sopportato, nascondendosi che la insidiavano rovino-samente e non calpestando col suo calcagno le loro teste (cfr. Genesi 3,15) velenose. Ma poiché la Scrittura dice: Il cuore sarà inorgoglito prima della rovina (Proverbi 16,18), avverrà per volere di Dio che la loro superbia sarà presto umiliata e non sarà im-pedita perciò la via per Gerusalemme; poiché il Signore ha affidato alla mia piccolezza di predicare questo lieto annuncio della crociata, rendo noto che il re, i vescovi e i prin-cipi radunatisi a Francoforte hanno deciso che le forze dei cristiani si armino contro di loro e innalzino il segno di salvezza per distruggere totalmente o magari per convertire quelle nazioni, promettendo loro la stessa indulgenza dei peccati concessa a quanti sono partiti per Gerusalemme. Molti hanno preso il segno in quello stesso luogo, contempo-raneamente ho incitato all’impresa gli altri, perché i cristiani che ancora non hanno pre-so il segno per la via di Gerusalemme sappiano che otterranno per sé la stessa indulgen-za con questa spedizione, se tuttavia proseguiranno in essa seguendo il piano dei vesco-vi e dei principi. Una cosa è assolutamente proibita: fare un patto con essi per qualsiasi ragione, né per denaro né per altro tributo, finché, con l’aiuto di Dio, non si distrugga la loro religione o il loro popolo. Parlo anche a voi, arcivescovi e vescovi vostri suffraga-nei, impegnatevi totalmente ad avere la massima sollecitudine per questa impresa e, quanto più potete, adoperatevi con passione e diligenza perché sia compiuta virilmente. Secondo il volere di Dio siete ministri di Cristo e perciò con maggior fiducia si esige da voi che vigiliate sulla sua impresa per quanto vi spetta. Anch’io lo chiedo e lo supplico nel Signore (l Tessalonicesi 4, l) il più possibile. L’aspetto di questo esercito, nelle ve-sti, nelle armi, negli stemmi, sarà poi lo stesso di quello dell’altro esercito, poiché la stessa retribuzione protegge entrambi. Tutti gli uomini radunati a Francoforte hanno poi deciso: che una copia di questa lettera fosse portata ovunque; che i vescovi e i preti ne dessero l’annuncio al popolo di Dio; e che sigillassero col segno della santa croce e armassero contro i nemici della croce di Cristo, che sono al di là dell’Elba, tutti coloro che devono radunarsi a Magdeburgo nella festa degli apostoli Pietro e Paolo. 13. Lettera 380 A Sugero abate di Saint-Denis (aprile 1150) Sulla pericolosa situazione della Chiesa d’Oriente. Al padre pieno d’amore e signore Sugero, per grazia di Dio abate di Saint-Denis, Ber-nardo, chiamato abate di Clairvaux, con l’augurio di salute e con le preghiere di cui è capace nel Signore. Ho ricevuto la parola che mi hanno portato il Maestro del Tempio40 ed il fratello Gio-vanni41 così lieto come se credessi che venisse da Dio. Infatti ormai la Chiesa d’Oriente invoca così miseramente che chiunque nonne condivide la sofferenza con tutto il cuore dimostra di non essere figlio della Chiesa. Ma come sono stato lieto dell’annuncio, così

40 Everardo di Barres. 41 Personaggio non identificabile se non come monaco.

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sono stato triste per la data troppo vicina, nella quale non ho potuto assolutamente veni-re incontro al vostro amore42. Infatti avevo promesso al vescovo di Langres43 di avere con lui nello stesso giorno un colloquio, che per fiducia verso di me aveva chiesto su questioni grandi e gravi. Ad essi44 però ho indicato la data in cui, se per voi va bene, verrò lieto45 con lo stesso vescovo, che potrà essere molto utile all’incontro. 14. Lettera 364 A Pietro abate di Cluny (aprile 1150) Invita Pietro all’assemblea di Chartres, dove bisogna decidere sull’aiuto alla Chiesa d’Oriente. A Pietro suo affezionatissimo padre, per grazia di Dio venerabile abate di Cluny, il fra-tello Bernardo di Clairvaux manda saluti e tutte le preghiere che può nel Signore. l. Credo che sia arrivato ai vostri orecchi, anzi nel più profondo del cuore, il gravissimo e pietoso lamento della Chiesa d’Oriente. È giusto che secondo la vostra grandezza mo-striate un grande affetto alla madre vostra e di tutti i fedeli, soprattutto ora che è tanto fortemente afflitta, in così grave pericolo. È giusto che lo zelo della casa di Dio vi divo-ri (Salmo 69,10) tanto di più, quanto più importante è il posto che vi occupate per sua stessa volontà. Se viceversa rendiamo duri e insensibili i nostri cuori, se giudichiamo piccola questa piaga e non ci addoloriamo di questa rovina (Geremia 8,21), dov’è il no-stro amore verso Dio, dov’è l’affetto per il prossimo? Anzi se non ci diamo da fare per preparare, il più possibile in fretta, un piano e un rimedio a mali e pericoli così grandi, come non dimostreremo di essere ingrati verso colui che nel giorno del pericolo ci na-sconde nel suo tabernacolo (Salmo 27,5), di meritare una punizione più giusta e più for-te per il fatto di restare indifferenti sia verso la gloria di Dio sia verso la salvezza dei fratelli? Ho ritenuto di suggerirvi ciò, con fiducia e familiarità, per la benevolenza che l’eccellenza vostra si degna di mostrare verso la mia indegnità. 2. Infatti i nostri padri, vescovi di Francia, insieme con il re e i principi, verranno a Chartres la terza domenica dopo Pasqua46 per trattare di questo progetto: mi auguro, di meritare di avere qui la vostra presenza. Siccome è evidente che questo progetto ha as-solutamente bisogno di grandi idee di grandi uomini, offrirete a Dio un servizio sicura-mente gradito se non riterrete estranea a voi la sua impresa, ma proverete lo zelo del vo-stro amore nella tribolazione, ora che se ne presenta l’opportunità (Salmo 9,10). Sapete infatti, affezionatissimo padre, sapete che l’amico si prova nella necessità. Perciò confi-do che la vostra presenza darà un grande apporto a questo progetto, sia per l’autorità della santa Chiesa di Cluny, di cui siete a capo per disposizione di Dio, sia soprattutto per la sapienza e la grazia che egli vi ha donato, per utilità del prossimo e per il suo stes-so onore. Egli si degni ora di ispirarvi ancora, perché non vi sia gravoso venire e unirvi ai suoi servi, che devono radunarsi nel suo nome e per lo zelo del suo nome, con la vo-

42 Si tratta dell’assemblea di Laon, convocata per i primi di aprile 1150 da Sugero, abate dell’abbazia re-gia di Saint-Denis e reggente durante l’assenza di Luigi VII, per annunciare il suo progetto di ripresa della crociata ed iniziare a raccogliere i fondi. 43 Goffredo de la Roche-Vanneau, ritornato dalla crociata. 44 Cioè Everardo e Giovanni. 45 Si tratta dell’assemblea di Chartres che si terrà il successivo 7 maggio, nella quale Bernardo fu procla-mato capo della crociata. 46 7 maggio 1150.

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stra presenza, davvero molto desiderata. 15. Lettera 521 A Pietro abate di Cluny (maggio-giugno 1150)47 Lo esorta a non mancare all’incontro che si terrà sull’impresa della Terra Santa. Al venerabile signore e amico carissimo Pietro, per grazia di Dio abate di Cluny, il fra-tello Bernardo, abate di Clairvaux: salute e affetto profondo. È apparsa grande e grave su tutta la terra la questione del Signore. Proprio grande, per-ché il re del cielo sta perdendo la sua terra, la terra della sua eredità, la terra dove posa-rono i suoi piedi. I suoi nemici agitano le loro mani sopra il monte della figlia di Sion, sul colle di Gerusalemme (Isaia 10,32). Manca poco che sia tolto dalla terra il caro letto bello e fiorito nel quale il virgineo fiore di Maria fu sepolto con lenzuoli e aromi, che il suo sepolcro non sia più glorioso, ma ignominioso, a perpetua ignominia della fede cri-stiana. Minacciano di profanare i luoghi resi famosi dagli oracoli dei profeti e dai mira-coli del Salvatore, consacrati dal sangue e dalla parola di Cristo. Che sarà ciò se non di-struggere le fondamenta della nostra salvezza, le ricchezze del popolo cristiano? Il Si-gnore guarda dal cielo per vedere se c’è chi comprenda o Io cerchi (Salmo 14,2), se ci sia chi si addolori per lui; ma non c’è nessuno che aiuti (Salmo 22,12). Si sono intiepidi-ti i cuori dei principi, senza motivo portano la spada (Romani 13,4): è stata riposta den-tro pelli di animali morti, abbandonata alla ruggine, e non la sguainano, benché Cristo patisca dove già un’altra volta ha patito; però allora la subì in un solo angolo, mentre oggi questa passione si prospetta ancora più dura in tutto il mondo. Il Figlio di Dio ricorre anche a voi come a uno dei più grandi principi della sua casa. In-fatti quest’uomo nobile che se n’è andato in una regione lontana (Luca 19,12) vi ha af-fidato molto dei suoi beni sia spirituali che materiali ed è necessario che nel suo bisogno senta il vostro aiuto e il vostro consiglio. Sapete che nel convegno di Chartres si è fatto poco o niente per l’impresa di Dio. Lì è stata molto richiesta e attesa la vostra presenza. Per il 15 luglio è stato indetto un altro convegno a Compiègne, dove chiedo e supplico che la vostra nobiltà sia presente. Così bisogna fare, così esige la necessità, una necessità davvero grande. Per il resto, raccomando al vostro favore il vostro Gualchero - nipote del mio, anzi an-che vostro, Gualchero48 - un giovane che vi vuole molto bene perché è stato vostro al-lievo. Grazie a me vi sia più familiare di prima, così che sappia sempre che la mia inter-cessione gli ha portato un vantaggio. Vi saluta Nicola, mio come vostro: infatti è vo-stro49.

47 Anche in questa lettera tornano concetti, immagini e talvolta parole e frasi della 363 e della 458. 48 Questo secondo Gualchero era un giovane monaco passato da Cluny, di cui era abate Pietro, a Clair-vaux; la scelta di cambiare ordine non aveva però offuscato il suo affetto per il vecchio abate. 49 Nicola di Montiéramey, segretario di Bernardo, che evidentemente fu l’estensore materiale della lettera, lasciando questo suo saluto particolare all’abate di Cluny.

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16. Lettera 256 Al signor papa Eugenio (III) (maggio-giugno 1150) Spinge Eugenio a portare aiuto alla Chiesa d’Oriente, senza perdersi d’amino per la sconfitta subita con la perdita della città di Edessa. Si meraviglia di essere stato eletto a Chartres capo della crociata. l. Non è leggera la notizia che è risuonata: è proprio triste e grave. Triste per chi? Anzi, per chi non è triste? Solo i figli della violenza non avvertono la violenza e non si rattri-stano per le cose tristi, ma si rallegrano ed esultano negli eventi peggiori (Proverbi 2,14). Per tutti gli altri la tristezza è comune, perché la causa è comune. Avete fatto bene a elogiare e rafforzare con l’autorità della vostra lettera il giustissimo zelo della nostra Chiesa francese. Vi dico che in una causa così generale e così grave non bisogna agire tiepidamente e nemmeno timidamente. Ho letto in Seneca50: «Non è forte l’uomo a cui non aumenta il coraggio proprio nella difficoltà». E io aggiungo che l’uomo di fede de-ve avere maggior fiducia in mezzo ai flagelli. Le acque sono entrate fino (Salmo 69,2) all’anima di Cristo, è stata toccata la pupilla del suo occhio. Adesso bisogna sguainare entrambe le spade (cfr. Luca 22,38) di fronte alla passione del Signore, poiché Cristo patisce di nuovo là dove già un’altra volta patì. Chi deve farlo, se non voi? È Pietro che deve sguainarle entrambe ogni volta che è necessario, una per suo comando, l’altra di sua propria mano. Infatti proprio a proposito di quella che sembrava meno sua fu detto a Pietro: Rimetti la tua spada nel fodero (Giovanni 18,11). Quindi era sua anche quella, ma non doveva essere tirata fuori dalla sua mano. 2. Penso che sia tempo e che si debba tirarle fuori tutte e due in difesa della Chiesa d’Oriente. Non dovete trascurare lo zelo di colui del quale tenete il posto. Che senso ha avere il primato e rifiutarne il ministero? Voce di uno che grida (Isaia 40,3; Matteo 3,3; Marco 1,3; Luca 3,4; Giovanni 1,23): «Vengo a Gerusalemme a essere crocifisso di nuovo»51. Anche se alcuni sono tiepidi a questa voce, altri persino sordi, al successore di Pietro non è concesso fingere. Anche lui dirà: Se anche tutti si scandalizzeranno, io no (Marco 14,29). E non sarà atterrito dalle perdite del primo esercito, si darà da fare di più per ripararle. Forse l’uomo non deve fare quello che deve, poiché Dio fa quello che vuole? Io anzi di fronte a mali così grandi come cristiano e uomo di fede spererò in un futuro migliore e sarà per me solo gioia aver subito numerose prove difficili. Davvero abbiamo mangiato il pane del dolore e abbiamo avuto da bere il vino della sofferenza; ma perché diffidi, amico dello sposo (Giovanni 3,29), come se lo sposo buono e saggio non avesse tenuto da parte fino a ora il vino migliore, com’è sua abitudine (cfr. Giovan-ni 2,10)? Chi sa se Dio non cambi e ci perdoni e lasci dietro di sé la benedizione? (Gioele 2,14). È certo che l’alta divinità opera e giudica in questo modo: parlo a uno che lo sa. Quando mai sono venuti ai mortali grandi beni, che non siano stati prevenuti da grandi mali? Per tacere di altro, la morte del Salvatore non precedette quell’unico e par-

50 Ad Lucilium 22,7. 51 Allusione alla leggenda narrata negli Atti del martirio di Pietro dello Pseudo-Lino: Pietro si allontanava da Roma per evitare la persecuzione, gli apparve Cristo e l’apostolo gli chiese: «Quo vadis, Domine?» («Dove vai, Signore?»). La risposta fu: «Vado a Roma a essere crocifisso di nuovo». Il luogo, secondo la tradizione, si trova presso Roma lungo la via Appia (antica), a ottocento metri fuori dalla porta San Seba-stiano, dove attualmente sorge la chiesetta del Domine quo vadis? (Santa Maria in palmis), già esistente nel secolo IX.

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ticolare beneficio della nostra salvezza? 3. Tu dunque, amico dello sposo, dovrai provare di essere amico nella necessità. Se an-che tu, come devi, vuoi bene a Cristo con quell’amore che venne domandato tre volte al tuo predecessore (cfr. Giovanni 21,15-17), con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza, nulla terrai da parte, nulla negherai alla sua sposa in questo grande pericolo; ma spenderai tutte le forze, tutto lo zelo, tutta la sollecitudine, tutta l’autorità, tutto il potere che hai. Un pericolo straordinario esige un’azione straordinaria. Le fondamenta sono state scosse e bisogna opporsi con tutte le forze alla rovina quasi imminente. Tutto ciò l’ho detto proprio per voi, con fiducia, ma con animo fedele. 4. Infine c’è una notizia che, se non sbaglio, avrete già sentito, cioè che nell’assemblea di Chartres, con una decisione di cui mi meraviglio molto, mi hanno eletto come co-mandante militare e politico della crociata. Siate sicuro che non è stata né è mia inten-zione, né mia volontà e tantomeno mia possibilità - giudicando delle mie forze - arrivare fino a questo punto. Chi sono io per disporre le schiere degli accampamenti, per uscire alla testa degli armati? Ma anche se mi bastassero le forze, anche se ne avessi la capaci-tà, cosa c’è di più lontano dalla mia professione? Ma non devo dare lezioni alla vostra saggezza: sapete tutto. Vi scongiuro soltanto, per quell’amore di cui mi siete particolar-mente debitore, di non abbandonarmi al volere degli uomini, ma, secondo il vostro compito particolare, di indagare il disegno di Dio e di impegnarvi perché, come sarà la volontà in cielo, così avvenga. 17. Lettera 289 Alla regina di Gerusalemme (Melisenda) (1153) Le insegna come comportarsi per compiere il proprio dovere di buona vedova davanti a Dio e di regina davanti agli uomini. All’amata figlia in Cristo Melisenda, regina di Gerusalemme, Bernardo, abate di Clair-vaux, augura misericordia da Dio sua salvezza (Salmo 24,5). l. Mi meraviglio che ormai da molto tempo non vedo una tua lettera, non ricevo i soliti saluti, mi sono quasi dimenticato della tua vecchia devozione verso di me, che ho spe-rimentato in molte occasioni. Ti confesso di aver sentito non so quale brutta notizia che, anche se non la credo sicura, mi ha addolorato perché, sia vera o sia falsa, fa sbiadire un po’ la tua reputazione. È intervenuto però il mio carissimo zio52 Andrea, a cui non posso assolutamente non credere, che in suo scritto mi dà notizie migliori, cioè che ti comporti in maniera pacifica e mansueta53, governi te e i tuoi domini con saggezza e con il consi-glio di persone sagge, hai affetto e familiarità per i fratelli del Tempio, fai fronte atten-tamente e saggiamente ai pericoli che minacciano la tua terra con decisioni e rimedi sal-vifici, secondo la sapienza datati da Dio. Queste, proprio queste sono le opere giuste di una donna forte, umile vedova, grande regina. Per te infatti non è indegno, dato che sei regina, essere vedova, perché, se tu avessi voluto, non lo saresti. Penso anzi che per te sia una gloria, soprattutto tra i cristiani, vivere non meno da vedova che da regina. Esse-re regina dipende dalla successione, rimanere vedova dipende dalla virtù; la prima cosa ti viene dalla famiglia, la seconda da un dono di Dio; alla prima sei nata felicemente, la

52 Zio materno (avunculus, come sopra nella lettera 206 a Melisenda), cui è inviata la lettera successiva (n. 288 dell’epistolario bernardino). 53 Riferimento alla raggiunta pace con il figlio Baldovino III, cfr. sopra, nota alla lettera 354 (n. 5).

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seconda l’hai raggiunta virilmente. È un doppio onore: l’uno secondo il mondo, l’altro secondo Dio, entrambi provengono da Dio. Non ti sembri piccolo l’onore della vedo-vanza, di cui dice san Paolo: Onora le vedove che sono davvero vedove (l Timoteo 5,3). 2. Certo presso di te è familiare l’esortazione di un altro salvifico detto dell’Apostolo, che ti insegna a compiere il bene non soltanto davanti a Dio) ma anche davanti agli uomini (2 Corinzi 8,21). Davanti a Dio come vedova, davanti agli uomini come regina. Attenta come regina, le cui azioni degne o indegne non possono essere nascoste sotto il moggio. Sono sul candelabro, perché appaiano a tutti. Rifletti come vedova, che non deve più piacere al suo uomo, perché possa piacere solo a Dio. Beata te se poni il Salva-tore come muro a protezione della tua coscienza e come antemurale per respingere il di-sonore. Beata te se come vedova lasciata sola ti affiderai totalmente alla guida di Dio. D’altronde non governi bene se non sei ben governata. La regina del sud venne ad ascoltare la sapienza di Salomone per imparare a essere governata e imparare così a go-vernare. Ed ecco qui più di Salomone (Matteo 12,42): parlo di Gesù e di lui crocifisso (1 Corinzi 2,2). Affidati a Lui per essere governata, a Lui per essere istruita su come devi governare. Come vedova impara che è mite e umile di cuore (Matteo 11,29), come regi-na impara che giudica i poveri con giustizia e prende decisioni eque in favore dei man-sueti della terra (Isaia 11,4). Quindi se ti preoccupi della dignità, sta’ attenta anche alla vedovanza perché, per esprimerti chiaramente ciò che penso, non puoi essere una buona regina se non sei una buona vedova. Chiedi da cosa si giudichi buona una vedova? Sicu-ramente da ciò che dice san Paolo: Se ha educato i figli, se ha dato ospitalità, se ha la-vato i piedi dei santi, se ha dato aiuto a chi soffriva tribolazioni, se ha seguito ogni ope-ra buona (1 Timoteo 5,10). Se fai queste cose, sei beata e sarà bene per te. Ti benedica il Signore da Sion (Salmo 128,5), figlia degna di ammirazione nel Signore e di ogni vene-razione. È stata mandata l’esortazione, si attende ora il seguito dalla vostra degnazione. È stata data l’occasione: non si ammette più scusa se la familiarità rinnovata da parte mia non sarà poi corrisposta spesso da voi con parole e lettere familiari. 18. Lettera 288 A suo zio materno Andrea, cavaliere del Tempio54 (1153) Lamenta l’infelice esito della spedizione sacra; desidera la venuta dello zio. l. La tua lettera, che hai mandato da pochissimo, mi ha trovato a letto malato. L’ho rice-vuta tendendo le mani; volentieri l’ho letta, volentieri l’ho riletta, ma ancora più volen-tieri ti avrei voluto vedere. Ho letto in essa il tuo desiderio di vedermi, vi ho letto anche il tuo timore per il pericolo della terra che il Signore ha onorato con la sua presenza; per il pericolo della città che ha consacrato con il suo sangue. Guai ai nostri principi! Nella terra del Signore non hanno fatto niente di buono; nelle loro terre, alle quali ritornarono velocemente, mostrano un’incredibile malizia e non hanno compassione della rovina di Giuseppe (Amos 6,6). Sono potenti per fare il male, non sono capaci invece di fare il bene.

54 Andrea di Montbard, imparentato anche con la famiglia del fondatore dei Templari, Ugo di Payns tra-mite il matrimonio del fratello Gauderico. Entrato tra i Templari verso il 1129, ne divenne gran maestro verso il 1153. Morì nel 1156, solo tre anni dopo san Bernardo.

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Ma confido che il Signore non respingerà il suo popolo e non abbandonerà la sua ere-dità (Salmo 94,14). In futuro la destra del Signore gli darà forza (Salmo 118,16) e il suo braccio lo aiuterà (cfr. Salmo 89,22), perché tutti sappiano che è bene sperare nel Si-gnore piuttosto che sperare nei principi (Salmo 118,9). Fai bene a paragonarti alla formica. Infatti che altro siamo tutti noi se non formiche abi-tanti della terra e figli dell’uomo (Salmo 49,3), che sudano per cose inutili e vuote? Che ricchezza ha l’uomo per tutto il lavoro con cui si affatica sotto il sole (Qoelet 1,3)?Perciò ascendiamo sopra il sole e il nostro soggiorno sia nei cieli (Filippesi 3,20), andando prima con la mente là dove seguiremo anche col corpo. Là, mio Andrea, là sarà il frutto della tua fatica, là la tua ricompensa. Militi sotto il sole, ma per chi siede sopra il sole. Militando qui, da là aspettiamo i doni. Il pagamento della nostra milizia non viene dalla terra, non da quaggiù; la sua ricom-pensa viene da lontano e dagli estremi confini (Proverbi 31,10). Sotto il sole c’è penu-ria, sopra il sole abbondanza, nei nostri grembi daranno una misura buona, ripiena, colma, sovrabbondante (Luca 6,38). 2. Desideri vedermi e, come scrivi, il compimento del tuo desiderio dipende dal mio vo-lere. Infatti mi riveli di aspettare un mio comando su ciò. E che ti posso dire? Desidero che tu venga e ho timore che venga. Così, posto tra il volere e il non volere, sono stretto da tutti e due e non so che scegliere (Filippesi l, 22-23), se cioè soddisfare nello stesso tempo il tuo desiderio e il mio, o dar credito piuttosto a quanto si dice più spesso di te, che sei ritenuto tanto necessario alla terra da credere che per la tua assenza incomba su di essa una grande rovina. Perciò non oso comandartelo, tuttavia desidero vederti prima di morire (cfr. Genesi 45,28). Tu puoi vedere e sapere meglio se in qualche modo puoi venire senza danno e senza scandalo di quella gente. E potrebbe succedere che la tua venuta non sia proprio inutile. Forse, col favore di Dio, non mancherebbero quelli che ti seguirebbero nel ritorno per soccorrere la Chiesa di Dio, perché sei conosciuto e amato da tutti. Dio può fare che anche tu dica col santo patriarca Giacobbe: Ho attraversato questo Giordano appoggiato al mio bastone ed ecco ritorno con tre schiere (Genesi 32,10). Dico una sola cosa: se vuoi venire, non tardare, perché non succeda che tu venga e non mi trovi. Io infatti sono dato in libagione (2 Timoteo 4,6) e non credo di fare un lungo cammino sulla terra. Chi mi concederà, se Dio vuole, di rinfrescarmi un po’, pri-ma che me ne vada (Salmo 39,14), con la tua amabile e dolce presenza? Ho scritto alla regina55 come volevi, e sono felice della buona testimonianza che le dai. Per tuo tramite saluto nel Signore il maestro e tutti i vostri fratelli del Tempio e quelli dell’Ospedale. Salutando nel Signore per tuo tramite anche i reclusi56 e tutti i santi con i quali potrai parlare al momento opportuno, mi affido alle loro preghiere. Sta al mio posto presso di loro. Assai devotamente saluto anche con grande affetto il nostro Gerardo, che un tempo ha vissuto nella nostra casa e ora, come ho sentito, è stato fatto vescovo57.

55 Si tratta della lettera precedente, n. 289 dell’epistolario bernardino. La regina è ovviamente Melisenda. 56 Si intendono i religiosi che vivono in reclusione, i monaci. 57 Forse Gerardo vescovo di Betlemme dal 1147 al 1154, oppure Gerardo vescovo di Laodicea in quegli anni.

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Da LA CONSIDERAZIONE A PAPA EUGENIO

Libro II, capitolo I

Apologia per la rovina di Gerusalemme 1. Memore della mia promessa, per la quale già da tempo ormai ti sono obbligato, voglio mantenerla anche se in ritardo, o papa Eugenio, migliore tra gli uomini. Mi ver-gognerei del ritardo se fossi consapevole che vi è stata incuria o indifferenza. Non è co-sì, ma ho passato, come tu ben sai, un periodo difficile, che sembrava annunciarmi quasi la cessazione di ogni attività della vita e tanto più dei miei impegni, quando il Signore, provocato dai nostri peccati, sembrò che giudicasse prima del tempo il mondo, certo nella giustizia (cfr. Salmo 9,9 e 96,13), ma dimenticatosi della sua misericordia. Non ha risparmiato il suo popolo (Gioele 2,18), non la sua fama. Non si dice forse tra le genti: «Dov’è il loro Dio»? (Salmo 114,10; Gioele 2,17). E non è strano. I figli della Chiesa e coloro che sono ritenuti di nome cristiano sono abbat-tuti nel deserto (1 Corinzi 10,5), uccisi di spada o consumati dalla fame (cfr. Ezechiele 32,21; 35,8; Lamentazioni 4,9). La contesa si è diffusa sui principi (Salmo 107,40) e il Signore li fece errare in luoghi impraticabili, non lungo la strada. Sulle loro strade avvi-limento ed infelicità (Salmo 14,3), nelle segrete stanze degli stessi re (Salmo 105,30) paura, dolore e confusione. Quanto sono confusi i piedi di coloro che annunciano pace, che annunciano cose buone (cfr. Isaia 52,7; Romani 10,15)! Abbiamo detto: «Pace» e non c’è pace (Ezechiele 13,10), abbiamo promesso il bene, ed ecco lo sconvolgimento (cfr. Geremia 14,19; Isaia 17,14), come se in questa impresa avessimo usato temerarietà o leggerezza (2 Corinzi 1,17). Mi sono gettato in essa chiaramente, non come in una co-sa dubbia (1 Corinzi 9,26), ma per comando tuo, anzi, attraverso di te, di Dio. Perché dunque ho digiunato e non mi ha guardato, ho umiliato la mia anima e mi ha ignorato (Isaia 58,3)? Infatti in tutte queste cose non si è allontanato il suo furore, ma la sua mano è ancora stesa (Isaia 5,25). Intanto con quanta pazienza ascolta le voci sacrileghe e che bestemmiano gli Egiziani, perché con inganno li condusse fuori (Esodo 32,12), per ucciderli nel deserto? Eppure chi ignora che i giudizi del Signore sono veri (Salmo 19,10)? Ma questo giudizio è un abisso così grande (cfr. Salmo 36,7), che mi sembra che non a torto possa dirsi beato chi non sarà scandalizzato (Matteo 11,6) per esso. 2. E in che modo dunque la temerarietà umana osa rimproverare ciò che non è affatto capace di capire? Ricordiamoci dei giudizi del cielo, che sono da secoli (Salmo 25,6), se può essere una consolazione. Qualcuno infatti disse così: «Mi sono ricordato dei tuoi giudizi antichi, Signore, e mi sono consolato» (Salmo 119,52). Dico una cosa nota a tut-ti, ma ora nota a nessuno. I cuori degli uomini son fatti proprio così: ciò che sappiamo quando non è necessario, lo ignoriamo nella necessità. Mosè, quando stava per condurre fuori il popolo dalla terra d’Egitto, gli promise una terra migliore. Altrimenti infatti quando lo avrebbe seguito un popolo capace di gustare solo le cose della terra? Li con-dusse fuori, ma quelli condotti fuori non li introdusse nella terra che aveva promesso. Non è certo alla temerarietà del capo che si può imputare l’evento triste e impensato. Faceva tutto per comando di Dio, con Dio che aiutava e confermava l’opera con i segni che seguivano (Marco 16,20). «Ma - dirai - quel popolo fu di dura cervice (Esodo 32,9; Deuteronomio 9,13), e si comportava sempre polemicamente contro Dio (Deuteronomio

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31,27) e il suo servo Mosè». Va bene, quelli58 erano increduli e ribelli (Numeri 20,10); ma questi che cosa sono? Interroga loro stessi. Che bisogno c’è che io dica quello che loro stessi ammettono? Io dico una sola cosa: che potevano ottenere quelli - gli israeliti - che quando camminavano ritornavano sempre indietro (Ezechiele 1,17)? Anche loro, per tutto il cammino, quando non tornarono col cuore in Egitto? Se quelli caddero e mo-rirono per la loro iniquità (Salmo 73,19) ci meravigliamo che questi - i cristiani - fa-cendo le stesse cose, abbiano subito le stesse conseguenze? La rovina di quelli non fu contraria alle promesse di Dio (Galati 3,21); dunque nemmeno la rovina di questi. Le promesse di Dio non pregiudicano mai la giustizia di Dio. Ascolta un’altra cosa. 3. La tribù di Beniamino aveva peccato59: le altre tribù si preparano alla vendetta con il consenso di Dio. Egli stesso designò il comandante per i combattenti. Così vanno a combattere, confidando nella loro maggiore forza, nella causa più giusta e, ciò che è più importante, nel favore divino. Ma quanto è terribile Dio nei suoi giudizi sui figli degli uomini (Salmo 66,5)! I vendicatori dell’empietà volsero le spalle agli empi, i più ai me-no. Ma ricorrono al Signore e il Signore dice loro: «Assalite» (Giudici 20,23). Assaltano di nuovo e di nuovo sono sconfitti e dispersi. Così prima con il favore di Dio, la seconda volta anche per suo comando, i giusti iniziano una giusta lotta e soccombono. Ma quan-to inferiori nella lotta, tanto superiori nella fede vennero trovati. Che credi che avrebbe-ro fatto di me questi - i principi cristiani60 - se su mia esortazione avessero di nuovo as-salito e di nuovo avessero perso? Quando mi avrebbero ascoltato se li avessi esortati a ripetere la spedizione, ripetere l’impresa, nella quale già una prima e una seconda volta erano stati delusi? Tuttavia gli Israeliti, non considerando la prima e la seconda delusio-ne, per la terza volta obbediscono e vincono. Invece questi diranno: «Come possiamo sapere che il tuo discorso viene da Dio? Che segni fai perché ti crediamo?» (cfr. Gio-vanni 6, 30). Non è il caso che a queste domande risponda io stesso: mi si deve rispar-miare la vergogna. Rispondi tu per me e per te stesso, secondo ciò che hai udito e visto (cfr. Matteo 11,4), o secondo quanto Dio certamente ti ispirerà. 4. Forse ti meravigli che io, che mi ero proposto un altro tema, continui a parlare di queste vicende. Lo faccio non perché abbia dimenticato il mio proposito, ma perché non le ritengo estranee a esso. Di preciso, come ricordi, il mio discorso alla tua degnazione verte sulla considerazione. Ma questa è certo una grande impresa, che necessita di una considerazione non piccola. Se è necessario che le grandi cose siano considerate dai grandi, a chi compete questa cura se non a te, che non hai pari sulla terra? Ma riguardo a ciò tu ti comporterai secondo la sapienza e il potere dati a te dall’alto (Giovanni 19,11). Non compete alla mia umiltà indicarti di fare qualcosa in questo o in quell’altro modo. Basta che ti abbia suggerito che bisogna fare qualcosa perché la Chiesa sia consolata e sia tappata la bocca di quanti dicono cose ingiuste (Salmo 63,12). In mia difesa basta che siano state dette queste poche cose, perché la tua stessa coscienza riceva da parte mia tutti gli argomenti che possano scusare contemporaneamente me e te, almeno pres-so te stesso, anche se non presso quelli che giudicano i fatti dai risultati. Per ciascuno la giustificazione perfetta e assoluta è la testimonianza della sua coscienza (2 Corinzi

58 Bernardo si riferisce agli ebrei liberati dall’Egitto e ai cristiani crociati senza chiamarli per nome, ma indicandoli rispettivamente con i pronomi dimostrativi quelli (gli ebrei) e questi (i cristiani), sino alla fine del paragrafo. 59 Per l’episodio v. Giudici 20,2-30. 60 Ancora una volta Bernardo indica solo il pronome dimostrativo questi.

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1,12). Per me non ha alcun valore essere giudicato (1 Corinzi 4,3) da quelli che dicono bene il male e male il bene, e considerano la luce tenebre e le tenebre luce (Isaia 5,20). E se è proprio necessario che avvenga una di queste due ipotesi, preferisco che la mor-morazione degli uomini vada contro di me che contro Dio. È bene per me se egli si de-gnerà di usarmi come scudo. Assumo volentieri su di me le lingue malevole dei detrat-tori e le frecce avvelenate dei bestemmiatori, perché non arrivino a lui. Non rifiuto di diventare inglorioso, per evitare che ci si avventi contro la gloria di Dio. Chi mi conce-derà di essere glorificato in queste parole: «Poiché per causa tua ho sostenuto l’obbrobrio, la confusione ha coperto la mia faccia» (Salmo 69,8)? La mia gloria è con-dividere la sorte di Cristo, di cui sono queste parole: «Gli oltraggi di chi ti biasimava sono ricaduti sopra di me» (Salmo 69,10). Adesso la penna può tornare al suo argomen-to e per suo tramite il discorso può procedere nei temi che mi ero proposto.

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Libro III, capitolo I

Le cose sottoposte al papa da considerare. Corregga gli eretici, converta i pagani, trattenga gli ambiziosi

2. (…) Ricordati di quelle parole: Sono debitore verso i sapienti e verso gli stolti (Romani 1, 14). Se non le ritieni indebitamente rivolte a te, ricordati anche di ciò, che lo spiacevole nome di debitore si adatta più a chi serve che a chi domina. Nel Vangelo un servo si sente dire: «Quanto devi al mio signore?» (Luca 16,5). Perciò se ti riconosci non dominatore, ma debitore verso i sapienti e gli stolti (Romani 1,14), devi preoccu-parti moltissimo e considerare con tutta l’attenzione che quelli che non lo sono diventi-no sapienti, quelli che sono sapienti non diventino stolti, quelli che lo sono diventati re-cuperino la saggezza. Ma nessun tipo di stoltezza, per così dire, è peggiore dell’infedeltà verso Dio. Dunque sei debitore verso gli infedeli, i giudei, i greci e i popoli pagani. 3. È importante perciò che ti impegni quanto è possibile perché gli increduli si con-vertano alla fede, i convertiti non si allontanino, i lontani ritornino, i perversi siano di-sposti nella rettitudine, quanti sono traviati vengano richiamati alla verità, quanti causa-no traviamento siano convinti con ragioni inconfutabili, perché, se è possibile, si cor-reggano essi stessi, o, se no, perdano l’autorità e la facoltà di traviare gli altri. Non devi affatto ignorare quale sia il peggior genere di stolti, cioè gli eretici e gli scismatici: sono questi infatti i traviati e i travianti, cani per la divisione, volpi per l’inganno. Sarà tua massima cura di correggerli perché non vadano in rovina, o di reprimerli perché non mandino in rovina. Per quanto riguarda i giudei ti scusa il tempo: hanno infatti il loro limite, che non si può anticipare61. Deve convertirsi prima la totalità dei popoli pagani (Romani 11,25). Ma su questi stessi popoli che rispondi? Anzi che risponde la tua con-siderazione a te che vai riflettendo su ciò? Perché i nostri padri hanno creduto di porre un limite al Vangelo, di trattenere la parola della fede mentre dura ancora l’infedeltà? Per qual motivo, mi chiedo, la predicazione che corre veloce sta ferma? Chi ha fermato

61 Bernardo ha sempre presente quanto scrive san Paolo nella lettera ai Romani 11,25-26: «Non voglio, fratelli, che ignoriate questo mistero, perché non siate presuntuosi, che la cecità è stata data a una parte di Israele finché non sia entrata la totalità dei popoli e allora tutto Israele sarà salvo».

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per primo questa corsa di salvezza? Forse ai nostri padri si oppose una causa che igno-riamo o una necessità. 4. Noi quale motivo abbiamo di fingere? Con quale ardire, con quale coscienza non offriamo Cristo a quelli che non ce l’hanno? Con questa nostra ingiustizia teniamo lega-ta la verità di Dio? Eppure è necessario che un giorno la totalità dei popoli arrivi. Aspettiamo che su di essi la fede cada dall’alto? A chi è successo di credere per caso? Come crederanno senza uno che predichi (Romani 10,14)? Pietro fu mandato a Corne-lio, Filippo all’eunuco62 e, se cerchiamo un esempio più recente, Agostino, inviato dal beato Gregorio, trasmise la forma della fede agli angli63. Tu continua fra te a meditare così di questi fatti.

62 Cfr. Atti 10,25 e 8,26. 63 Agostino, monaco romano, fu inviato da papa Gregorio I Magno (590-604) nel 596, insieme a un grup-po di monaci, a evangelizzare il popolo degli Angli, a cominciare dal Kent, il cui re Etelberto fu battezza-to nel 597. Prima della partenza Agostino fu consacrato vescovo e divenne il primo primate di Inghilterra, stabilendosi in quella che ancora oggi è la sede primaziale anglicana, cioè Canterbury; per cui è chiamato sant’Agostino di Canterbury.

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LIBER AD MILITES TEMPLI DE LAUDE NOVAE MILITIAE

PROLOGUS Hugoni, militi Christi et magistro militiae Christi, Bernardus Claraevallis solo nomine abbas: bonum certamen certare. Semel, et secundo, et tertio, nisi fallor, petisti a me, Hugo carissime, ut tibi tuisque commilitonibus scriberem exhortationis sermonem, et adversus hostilem tyrannidem, quia lanceam non liceret, stilum vibrarem, asserens vobis non parum fore adiutorii, si quos armis non possum, litteris animarem. Distuli sane aliquamdiu, non quod contem-nenda videretur petitio, sed ne levis praecepsque culparetur assensio, si quod melius me-lior implere sufficeret, praesumerem imperitus, et res admodum necessaria per me mi-nus forte commoda redderetur. Verum videns me longa satis huiuscemodi exspectatione frustratum, ne iam magis nolle quam non posse viderer, tandem ego quidem quod potui feci: lector iudicet, an satisfeci. Quamquam etsi cui forte aut minime placeat, aut non sufficiat, non tamen interest mea, qui tuae pro meo sapere non defui voluntati. I. SERMO EXHORTATORIUS AD MILITES TEMPLI I. Novum militiae genus ortum nupcr auditur in terris, et in illa regione, quam olim in carne praesens visitavit Oriens ex alto, ut unde tunc in fortitudine manus suae tenebra-rum principes exturbavit, inde et modo ipsorum satellites, filios diffidentiae, in manu fortium suorum dissipatos exterminet, faciens etiam nunc redemptioncm plebis suae, et rursum erigens cornu salutis nobis in domo David pueri sui. Novum, inquam, militiae genus, et saeculis inexpertum, qua gemino padter conflictu atque infatigabiliter decerta-tur, tum adversus carnem et sanguinem, tum contra spiritualia nequitiae in caelestibus. Et quidem uhi solis viribus corporis corporeo fortiter hosti resistitur, id quidem ego tam non iudico mirum, quam nec rarum existimo. Sed et quando animi virtute vitiis sive daemoniis bellum indicitur, ne hoc quidem mirabile, etsi laudabile dixerim, cum plenus monachis cernatur mundus. Ceterum cum uterque homo suo quisque gladio potentcr ac-cingitur, suo cingulo nobiliter insignitur, quis hoc non aestimet omni admiratione di-gnissimum, quod adeo liquet esse insolitum? Impavidus profecto milcs, et omni ex parte securus, qui ut corpus ferri, sic animum fidei lorica induitur. Utrisque nimirum munitus armis, nec daemonem timet, nec hominem. Nec vero mortem formidat, qui mori deside-rat. Quid enim vel vivens, vel moriens metuat, cui vivere Christus est, et mori lucrum? Stat quidem fidenter libenterque pro Christo; sed magis cupit dissolvi et esse cum Chri-sto: hoc enim melius. Securi ergo procedite, milites, et intrepido animo inimicos crucis Christi propellite, certi quia neque mors, neque vita poterunt vos separare a caritate Dei, quae est in Christo Iesu, illud sane vohiscum in omni periculo replicantes: Sive vivimus, sive morimur, Domini sumus. Quam gloriosi revertuntur victores de proelio! Quam beati moriuntur martyres in proelio! Gaudc, fortis athlcta, si vivis et vincis in Domino; sed magis exsulta et gloriare, si moreris et iungeris Domino. Vita quidem fructuosa, et vic-toria gloriosa; sed utrique mors sacra iure praeponitur. Nam si Beati qui in Domini mo-riuntur, non multo magis qui pro Domino moriuntur? 2. Et quidem sive in lecto, sive in bello quis moritur, pretiosa erit sine dubio in conspec-tu Domini mors sanctorum eius. Ceterum in bello tanto profecto pretiosior, quanto et gloriosior. O vita secura, ubi pura conscientia! O, inquam, vita secura, uhi absque for-midine mors exspectatur, immo et exoptatur cum dulcedine, et exdpitur cum devotione!

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O vere sancta et tuta militia, atque a duplici ilio pcriculo prorsus libera, quo id hominum genus solet frequenter periclitari, ubi dumtaxat Christus non est causa militandi. Quoties namque congrederis tu, qui militiam militas saecularem, timendum omnino, ne aut occi-das hostem quidem in corpore, te vero in anima, aut forte tu occidaris ab illo, et in cor-pore simul, et in anima. Ex cordis nempe affectu, non belli eventu, pensatur vel pericu-lum, vel victoria christiani. Si bona fuerit causa pugnantis, pugnae exitus malus esse non poterit, sicut nec bonus iudicabitur finis, uhi causa non bona, et intentio non recta prae-cesserit. Si in voluntate alterum occidendi te potius occidi contigerit, moreris homicida. Quod si praevales, et voluntate superandi vel vindicandi forte ocddis hominem, vivis homicida. Non autem expedit sive mortuo, sive vivo, sive victori, sive vieto, esse homi-cidam. Infclix victoria, qua superans hominem, succumbis vitio et, ira tibi aut superbia dominante, frustra gloriaris de homine superato. Est tamen qui ncc ulciscendi zelo, nec vincendi typho, sed tantum evadendi rcmedio interficit hominem. Sed ne hanc quidem bonam dixerim victoriam, cum de duobus malis, in corpore quam in anima mori levius sit. Non autem quia corpus occiditur, etiam anima moritur; sed anima, quae peccaverit, ipsa morietur. II. DE MILITIA SAECULARI 3. Quis igitur fìnis fructusve saecularis huius, non dico, militiae, sed malitiae, si et occi-sor letalitcr peccat, et occisus actcrnalitcr perit? Enimvero, ut verbis utar Apostoli, et qui arat, in spe debet arare, et qui triturat, in spe fructus percipiendi. Quis ergo, o milites, hic tam stupendus error, quis furor hic tam non ferendus, tantis sumptibus ac laboribus militare, stipendiis vero nullis, nisi aut mortis, aut criminis? Operitis equos sericis, et pendulos nescio quos panniculos loricis superinduitis; depingitis hastas, dypeos et scllas; frena et calcaria auro et argento gemmisque circumornatis, et cum tanta pompa pudendo furore et impudenti stupore ad mortem propcratis. Militaria sunt haec insignia, an muliebria potius ornamenta? Numquid forte hostilis mucro reverebitur aurum, gem-mis parcet, serica penetrare non poterit? Denique, quod ipsi saepius certiusque experi-mini, tria esse praecipue necessaria praelianti, ut scilicet strenuus industriusque milcs et circumspectus sit ad se servandum, et expeditus ad discurrendum, et promptus ad fe-riendum; vos, per contrarium oculorum gravamen ritu femineo comam nutritis, longis ac profusis camisiis propria vobis vestigia obvolvitis, delicatas ac teneras manus amplis et circumfluentibus manicis sepelitis. Super haec omnia est, quod armati conscientiam magis terret, causa illa nimirum satis levis ac frivola, qua videlicet talis praesumitur et tam periculosa militia. Non sane aliud inter vos bella movet litesque suscitat, nisi. aut irrationabilis iracundiae motus, aut inanis gloriae appetitus, aut terrenae qualiscumque possessionis cupiditas. Talibus certe ex causis neque occidere, neque occumbere tutum est. III. DE NOVA MILITIA 4. At vero Christi milites securi praeliantur praelia Domini sui, nequaquam metuentes aut de hostium caede peccatum, aut de sua nece periculum, quandoquidem mors pro Christo vel ferenda, vel inferenda, et nihil habeat criminis, et plurimum gloriae me-reatur. Hinc quippe Christo, inde Christus acquiritur, qui nimirum et libenter accipit ho-stis mortem pro ultione, et libentius praebet seipsum militi pro consolatione. Miles, in-quam, Christi securus interimit, interit securior. Sibi praestat cum interit, Christo cum interimit. Non enim sine causa gladium portat: Dei enim minister est ad vindictam mal-efactorum, laudem vero bonorum. Sane cum occidit malefactorern, non homicida, sed,

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ut ita dixerim, malicida, et planc Christi vindex in his qui male agunt, et defensor chris-tianorum reputatur. Cum autem occiditur ipse, non periisse, sed pervenisse cognoscitur. Mors ergo quam irrogat, Christi est lucrum; quam excipit, suum. In morte pagani chri-stianus gloriatur, quia Christus glorificatur; in morte christiani, Regis liberalitas aperi-tur, cum miles remunerandus educitur. Porro super illo lactabitur iustus, cum vi derit vindictam. De isto dicet homo: si utique est fructus iusto? Utique est Deus iudicans eos in terra. Non quidem vel pagani necandi essent, si quo modo aliter possent a nimia inf-cstatione seu oppressione fidelium cohiberi. Nunc autem melius est ut occidantur, quam certe relinquatur virga peccatorum super sortem iustorum, ne forte extendant iusti ad iniquitatem manus suas. 5. Quid enim? Si percutere in gladio omnino fas non est christiano, cur ergo praeco Sal-vatoris contentos fore suis stipendiis militibus indixit, et non potius omnem eis militiam interdixit? Si autcm, quod verum est, omnibus fas est, ad hoc ipsum dumtaxat divinitus ordinatis, nec aliud sane quidquam melius professis, quibus, quaeso, potius quam quo-rum manibus et viribus urbs fortitudinis nostrae Sion pro nostro omnium munimine re-tinetur, ut depulsis divinae transgrcssoribus lcgis, secura ingrediatur gens iusta, custo-diens veritatcm? Secure proinde dissipentur gentes quae bella volunt, et abscidantur qui nos conturbant, et disperdantur de civitate Domini omnes opcrantes iniquitatcm, qui re-positas in Ierosolymis christiani populi inaestimabiles divitias tollere gestiunt, sancta polluere, et hereditate possidere Sanctuarium Dei. Exseratur gladius uterque fidelium in cervices inimicorum, ad destruendam omnem altitudinem extollentem se adversus scicntiam Dei, quae est christianorum fides, ne quando dicant gentes: Ubi est Deus eo-rum? 6. Quibus expulsis revertetur ipse in hereditatem domumque suam, de qua iratus in Evangelio: Ecce, inquit, relinquetur vobis domus vestra deserta, et per Prophetam ita conqueritur: Reliqui domum meam, dimisi hereditatem meam, implebitque illud item propheticum: Redemit Dominus populum suum et liberavit eum, et venient et exsulta-bunt in monte Sion, et gaudebunt de bonis Domini. Laetare, Ierusalem, et cognosce iam tempus visitationis tuae. Gaudete et laudate simul, deserta Ierusalem, quia consolatus est Dominus populum suum, redemit Ierusalem, paravit Dominus brachium sanctum suum in oculis omnium gentium. Virgo Israel, corrueras, et non erat qui sublevaret te. Surge iam, excutere de pulvere, virgo, captiva filia Sion. Surge, inquam, et sta in excel-so, et vide iucunditatem, quae venit tibi a Deo tuo. Non vocaberis ultra derelicta, et ter-ra tua non vocabitur amplius desolata, quia complacuit Domino in te, et terra tua inha-bitabitur. Leva in circuitu oculos tuos et vide: omnes isti congregati sunt, venerunt tibi. Hoc tibi auxilium missum de sancto. Omnino per istos tibi iam iamque illa persolvitur antiqua promissio: Ponam te in superbiam saeculorum, gaudium in generatione et ge-nerationem, et suges. Lac gentium, et mamilla regum lactaberis; et item: Sicut mater consolatur filios suos, ita et ego consolabor vos, et in Ierusalem consolabimini. Videsne quam crebra veterum attestatione nova approbatur militia, et quod, sicut audivimus, sic videmus in civitate Domini virtutum? Dummodo sane spiritualibus non praeiudicet sen-sibus litteralis interpretatio, quominus scilicet speremus in aeternum, quidquid huic tempori significando ex Prophetarum vocibus usurpamus, ne per id quod cernitur evane-scat quod creditur, et spei copias imminuat penuria rei, praesentium attestatio sit eva-cuatio futurorum. Alioquin terrenae civitatis temporalis gloria non destruit caelestia bo-na, sed astruit, si tamen istam minime dubitamus illius tenere figuram, quae in caelis est

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mater nostra. IV. DE CONVERSATIONE MILITUM TEMPLI 7. Sed iam ad imitationem seu confusionem nostrorum militum, non piane Deo, sed diabolo militantium, dicamus brevitcr Christi equitum mores et vitam, qualiter bello domive conversentur, quo palam fiat, quantum ab invicem differant Dei saeculique mili-tia. Primo quidem utrolibet disciplina non deest, oboedientia nequaquam contemnitur, quia, teste Scriptura, et filius indisciplinatus peribit, et peccatum ariolandi est repugna-re, et quasi scelus idololatriae nolle acquiescere. Itur et reditur ad nutum eius qui praeest, induitur quod ille donaverit, nec aliundè vestimentum seu alimentum praesumi-tur. Et in victu et in vestitu cavetur omne superfluum, soli necessitati consulitur. Vivitur in communi, plane iucunda et sobria conversatione, absque uxoribus et absque liberis. Et ne quid desit ex evangelica perfectione, absque omni proprio habitant unius moris in domo una, solliciti servare unitatem spiritus in vinculo pacis. Dicas universae multitudi-nis esse cor unum et animam unam: ita quisque non omnino propriam sequi voluntatem, sed magis obsequi satagit imperanti. Nullo tempore aut otiosi sedent, aut curiosi vagan-tur; sed semper, dum non procedunt, - quod quidem raro contingit -, ne gratis comedant panem, armorum seu vestimentorum vel scissa resarciunt, vel vetusta reficiunt, vel inor-dinata componunt, et quaeque postremo facienda Magistri voluntas et communis indicit necessitas. Persona inter eos minime accipitur: defertur meliori, non nobiliari. Honore se invicem praeveniunt; alterutrum onera portant, ut sic adimpleant legem Christi. Verbum insolens, opus inutile, risus immoderatus, murmur vel tenue, sive susurrium, nequa-quam, uhi deprehenditur, inemendatum relinquitur. Scacos et aleas detestantur; abhor-rent venationem, nec ludicra illa avium rapina, ut assolet, delectantur. Mimos et magos et fabulatores, scurrilesque cantilenas, atque ludorum spectacula, tamquam vanitates et insanias falsas respuunt et abominantur. Capillos tondent, scientes, iuxta Apostolum, ignominiarn esse viro, si comam nutrierit. Numquam compti, raro loti, magis autem ne-glecto crine hispidi, pulvere foedi, lorica et caumate fusci. 8. Porro imminente bello, intus fide, foris ferro, non auro se muniunt, quatenus armati, et non ornati, hostibus metum incutiant, non provocent avaritiam. Equos habere cupiunt fortes et veloces, non tamen coloratos aut phaleratos: pugnam quippe, non pompam, victoriam, sed non gloriam cogitantes, et studentes magis esse formiclini quam admira-tioni. Deinde non turbulenti aut impetuosi, et quasi ex levitate praecipites, sed consulte atque cum omni cautela et providentia seipsos ordinantes et disponentes in aciem, iuxta quod de patrihus scriptum est. Veri profecto Israelitae procedunt ad bella pacifici. At vero uhi ventum fuerit ad certamen, tum demum pristina lenitate postposita, tamquam si dicerent: Nonne qui oderunt te, Domine, oderam, et super inimicos tuos tabescebam? irruunt in adversarios, hostes velut oves reputant, nequaquam, etsi paucissimi, vel saevam barbariem, vel numerosam multitudinem formidantes. Noverunt siquidem non de suis praesumere viribus, sed de virtute Domini Sabaoth sperare victoriam, cui nimi-rum facile esse confidunt, iuxta sententiam Macchabaei, concludi multos in manus pau-corum, et non esse differentiam in conspectu Dei caeli liberare in multis, et in paucis, quia non in multitudine excercitus est victoria belli, sed de caelo fortitudo est. Quod et frequentissime experti sunt, ita ut plerumque quasi persecutus sit unus mille, et duo fu-garint decem millia. Ita denique miro quodam ac singulari modo cernuntur et agnis mi-tiores, et leonihus ferociores, ut pene dubitem quid potius censeam appellandos, mona-chos videlicet an milites, nisi quod utrumque forsan congruentius nominarim, quibus

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neutrum deesse cognoscitur, nec monachi mansuetudo, nec militis fortitudo. De qua re quid dicendum, nisi quod a Domino factum est istud, et est mirabile in oculis nostris? Tales sibi delegit Deus, et collegit a finibus terrae ministros ex fortissimi Israel, qui veri lectulum Salomonis sepulcrum vigilanter fideliterque custodiant, omnes tenentes gla-dios, et ad bella doctissimi. V. DE TEMPLO 9. Est vero templum Ierosolymis, in quo pariter habitant, antiquo et famosissimo illi Sa-lomonis impar quidem structura, sed non inferius gloria. Siquidem universa illius ma-gnificentia in corruptibilibus auro et argento, in quadratura lapidum et varietate ligno-rum continebatur; huius autem omnis decor et gratae venustatis ornatus, pia est habitan-tium religiositas et ordinatissima conversatio. Illud variis exstitit spectandum coloribus; hoc diversis virtutibus et sanctis actibus venerandum: domum quippe Dei decet sancti-tudo, qui non tam politis marmoribus quam ornatis moribus delectatur, et puras diligit mentes super auratos parietes. Ornatur tamen huius quoque facies templi, sed armis, non gemmis, et pro antiquis coronis aureis, circumpendentihus clypeis paries operitur; pro candelabris, thuribulis atque urceolis, domus undique frenis, sellis ac lanceis communi-tur. Piane his omnibus liquido demonstrantibus eodem pro domo Dei fervere milites ze-lo, quo ipse quondam militum Dux, vehementissime inflammatus, armata illa sanctissi-ma manu, non tamen ferro, sed flagello, quod fecerat de resticulis, introivit in templum, negotiantes expulit, nurnmulariorum effudit aes et cathedras vendentium columbas evertit, indignissimum iudicans orationis domum huiuscemodi forensibus incestari. Talis proinde sui Regis permotus exemplo devotus exercitus, multo sane indignius longeque intolerabilius arbitrans sancta pollui ab infidelibus quam a mercatoribus in-festari, in domo sancta cum equis et armis commoratur, tamque ab ipsa quam a ceteris sacris omni infidelitatis spurca et tyrannica rabie propulsata, ipsi in ea die noctuque tam honestis quam utilibus officiis occupantur. Honorant certatim Dei templum sedulis et sinceris obsequiis, iugi in eo devotione immolantes, non quidem veterum ritu pecudum carnes, sed vere hostias pacificas, fraternam dilectionem, devotam subiectionem, volun-tariam paupertatem. 10. Haec Ierosolymis actitantur, et orbis excitatur. Audiunt insulae, et attendunt populi de longe, et ebulliunt ab Oriente et Occidente, tamquam torrens inundans gloriae genti-um et tamquam fluminis impetus laetificans civitatem Dei. Quodque cernitur iucundius et agitur commodius, paucos admodum in tanta multitudine hominum illo confluere, ni-si utique sceleratos et impios, raptores et sacrilegos, homicidas, periuros atque adul-teros, de quorum profecto profectione, sicut duplex quoddam constat provenire bonum, ita duplicatur et gaudium, quandoquidem tam suos de suo discessu laetificant, quam il-los de adventu quibus subvenire festinant. Prosunt quippe utrobique, non solum utique istos tuendo, sed etlam illos iam non opprimendo. Itaque laetatur Aegyptus in profect-lone eorum, cum tamen de protectione eorum nihilominus laetetur mons Sicin et exsultent filiae Iudae. Illa quidem se de manu eorum, ista magis in manu eorum liberari se merito gloriatur. Illa libenter amittit crudelissimos sui vastatores, ista cum gaudio su-scipit sui fidelissimos defensores, et unde ista dulcissime consolatur, inde illa aeque sa-luberrime desolatur. Sic Christus, sic novit ulcisci in hostes suos, ut non solum de ipsis, sed per ipsos quoque frequenter soleat tanto gloriosius, quanto et potentius triumphare. Iucunde sane et commode, ut quos diu pertulit oppugnatores, magis iam propugnatores habere indpiat, faciat que de hoste militem, qui de Saulo quondam persecutore fecit

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Paulum praedicatorem. Quamobrem non miror, si etiam superna illa curia, iuxta testi-monium Salvatoris, exsultat magis super uno peccatore paenitentiam agente, quam su-per plurimis iustis qui non indigent paenitentia, dum peccatoris et maligni tantis procul dubio prosit conversio, quantis et prior nocuerat conversatio. 11. Salve igitur civitas sancta, quam ipse sanctificavit sibi tabernaculum suum Altissi-mus, quo tanta in te et per e generatio salvaretur. Salve civitas Regis magni, ex qua nova et iucunda mundo miracula nullis paene ab initio defuere temporibus. Salve domina gentium, princeps provinciarum, Patriarcharum possessio, Prophetarum mater et Apo-stolorum, initiatrix fidei, gloria populi christiani, quam Deus semper a principio propte-rea passus est oppugnari, ut viris fortibus sicut virtutis, ita fores occasio et salutis. Salve terra promissionis, quae olim fluens lac et mel tuis dumtaxat habitatoribus, nunc univer-so orbi remedia salutis, vitae porrigis alimenta. Terra, inquam, bona et optima, quae in fecundissimo illo sinu tuo ex arca paterni cordis caeleste granum suscipiens, tantas ex superno semine martyrum segetes protulisti, et nihilominus ex omni reliquo fidelium genere fructum fertilis gleba tricesimum, et sexagesimum, et centesimum, super omnem terram multipliciter procreasti. Unde et de magna multitudine dulcedinis tuae iucundis-sime satiati et opulentissime saginati, memoriam abundantiae suavitatis tuae ubique eructuant qui te viderunt, et usque ad extremum terrae magnificentiam gloriae tuae lo-quuntur eis qui te non viderunt, et enarrant mirabilia quae in te fiunt. Gloriosa dicta sunt de te, civitas Dei. Sed iam ex his quibus affluis deliciis, nos quoque pauca proferamus in medium, ad laudem et gloriam nominis tui. VI. DE BETHLEEM 12. Habes ante omnia in refectione animarum sanctarum Bethleem domum panis, in qua primum is qui de caelo descenderat, pariente Virgine, panis vivus apparuit. Monstratur piis ibidem iumentis praesepium, et in praesepio fenum de prato virginali, quo vel sic cognoscat bos possessorem suum et asinus praesepe Domini sui. Omnis quippe caro fenum, et omnis gloria eius ut flos feni. Porro homo quia suum, in quo factus est, hono-rem non intelligendo, comparatus est iumentis insipientlbus et similis factus est illis, Verbum panis angelorum factum est cibaria iumentorum, ut habeat carnis fenum quod ruminet, qui verbi pane vesci penitus dissuevit, quousque per hominem Deum priori redditus dignitati, et ex pecore rursus conversus in hominem, cum Paulo dicere possit: Etsi cognovimus Christum secundum carnem, sed nunc iam non movimus. Quod sane non arbitror quempiam dicere posse veraciter, nisi qui prius cum Petro ex ore Veritatis illud item audierit: Verba quae ego locutus sum vobis, spiritus et viva sunt; caro autem non prodest quidquam. Alioquin qui in verbis Christi vitam invenit, carnem iam non re-quirit, et est de numero beatorum, qui non viderunt et crediderunt. Nec enim opus est vel lactis poculum, nisi utique parvulo, vel feni pabulum, nisi utique iumento. Qui au-tem non offendit in verbo, ille perfectus est vi,, solido piane vesci cibo idoneus, et, licet in sudore vultus sui, panem verbi comedit absque offensione. Sed et securus ac sine scandalo loquitur Dei sapientiam dumtaxat inter perfectos, spiritualibus spiritualia com-parans, cum tamen infantibus sive pecoribus cautus sit pro captu quidem eorum propo-nere tantummodo Iesum, et hunc crucifixum. Unus tamen idemque cibus ex caelestibus pascuis suaviter quidem et ruminatur a pecore, et manducatur ab homine, et viro vires, et parvulo tribuit nutrimentum. VII. DE NAZARETH

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13. Cernitur et Nazareth, quae interpretatur flos, in qua is qui natus in Bethleem erat, tamquam fructus in flore coalescens, nutritus est Deus infans, ut floris odor fructus saporem praecederet, ac de naribus Prophetarum faucibus se Apostolorum liquor sanc-tus infunderet, Iudaeisque tenui odore contentis, gustu solido reficeret christianos. Senserat tamen bune florem Nathanad, quod super omnia aromata suave redoleret. Unde et aiebat: A Nazareth potest aliquid boni esse? Sed nequaquam sola contentus fra-grantia, respondentem sibi: Veni et vide, Philippum secutus est. Immo vero mirae illius suavitatis admodum respersione delectatus, haustuque boni odoris factus saporis avi-clior, odore ipso duce, ad fructum usque sine mora pervenire curavit, cupiens plenius experiri quod tenuiter praesenserat, praesensque degustare quod odoraverat absens. Videamus et de olfactu Isaac, ne forte aliquid, quod pertineat ad haec ipsa quae in manibus sunt, portenderit. Loquitur de ilio Scriptura sic: Statimque ut sensit vestimento-rum eius fragrantiam - haud dubium quin Iacob -: Ecce, inquit, odor filii mei sicut odor agri pleni, cui benedixit Dominus. Vestimenti fragrantiam sensit, sed vestiti praesentiam non agnovit, soloque vestis, tamquam floris odore, forinsecus ddectatus, quasi fructus interioris dulcedinem non gustavit, dum et decti fìlii simul et sacramenti fraudatus cog-nitione remansit. Quo spectat hoc? Vestimentum profecto spiritus, littera est et caro Verbi. Sed ne nunc quidem Iudaeus in carne Verbum, in homine scit deitatem, nec sub tegmine litterae sensum pervidet spiritualem, farisque palpans hoecli pellem, quae simil-itudinem maioris, hoc est primi et antiqui peccatoris, expresserat, ad nudam non perven-it veritatem. Non sane in carne peccati, sed in similitudine carnis peccati, qui peccatum non facere, sed tollere veniebat, apparuit, ea scilicet de causa, quam ipse non tacuit, ut qui non vident videant, et qui vident caeci fiant. Hac ergo similitudine deceptus Prophe-ta, caecus hodieque, quem nescit benedicit, dum quem lectitat in libris, ignorat et in mi-raculis, et quem propriis attrectat manibus, ligando, flagellando, colaphizando, minime tamen vd resurgentem intelligit. Si enim cognovissent, numquam Dominum Gloriae crucifixissent. Percurramus succincto sermone et cetera loca sancta, et si non omnia, sal-tem aliqua, quoniam quae digne admirari per singula non sufficimus, libet vel insignio-ra, et ipsa breviter recordari. VIII. DE MONTE OLIVETI ET VALLE IOSAPHAT 14. Ascenditur in montem Oliveti, descenditur in vallem Iosaphat, ut sic divitias divinae misericordiae cogites, quatenus horrorem iudicii nequaquam dissimules, quia etsi in multis miserationibus suis multus est ad ignoscendum, iudicia tamen eius nihilominus abyssus multa, quibus agnoscitur valde omnino terribilis super :filios hominum. David denique qui montem Oliveti demonstrat, dicens: Homines et iumenta salvabis, Domine, quemadmodum multiplicasti misericordiam tuam, Deus, etiam iudicii vallem in eodem Psalmo commemorat: Non veniat, inquiens, mihi pes superbiae, et manus peccatoris non moveat me, cuius et praecipitium se omnino perhorrescere fatetur, cum in allo Psalmo ita loquitur, orans: Confige timore tuo carnes meas: a iudiciis enim tuis timui. Superbus in hanc vallem corruit, et conquassatur; humilis descendit, et minime periclita-tur. Superbus excusat peccatum suum, humilis accusat, sdens quia Deus non iudicat bis in idipsum, et quod si nosmetlpsos iudicaverimus, non utique iudicabimur. 15. Porro superbus non attendens quam horrendum sit incidere in manus Dei viventis, facile prorumpit in verba malitiae ad excusandas excusationes in peccatis. Magna revera malitia, tui te non misereri, et solum post peccatum remedium confessionis a te ipso re-pellere, ignemque in sinu tuo involvere potius quam excutere, nec praebere aurem con-

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silio Sapientis qui ait: Miserere animae tuae placens Deo. Proinde qui sibi nequam, cui bonus? Nunc iudicium est mundi, nunc princeps huius mundi eicietur foras, hoc est de corde tuo, si te tamen ipse humiliando diiudicas. Erit iudicium caeli, quando ipsum vo-cabitur caelum desursum et terra discernere populum suum, in quo sane timendum, ne proiciaris tu cum ipso et angelis eius, si tamen inventus fueris iniudicatus. Alioquin spi-ritualis homo, qui omnia diiudicat, ipse a nemine iudicabitur. Propter hoc ergo iudicium incipit a domo Dei, ut suos, quos novit iudex, cum venerit, inveniat iudicatos, et iam de illis nil haheat tunc iudicare, quando videlicet iudicandi sunt hi qui in labore hominum non sunt, et cum hominibus non flagellantur. 16. Quam laeto sinu Iordanis suscipit christianos, qui se Christi gloriatur consecratum baptismate! Mentitus est plane Syrus ille leprosus, qui nescio quas Damasci aquas aquis praetulit Israelis, cum Iordanis nostri devotus Deo famulatus toties probatus exstiterit, sive quando Eliae, sive quando Elisaeo, sive etiam, ut antiquius aliquid recolam, quando Iosue et omni populo simul impetum mirabiliter inhibens, siccum in se transitum prae-buit. Denique quid in fluminibus isto eminentius, quod ipsa sibi Trinitas sui quadam evidenti praesentia dedicavit? Pater auditus, visus Spiritus Sanctus, Filius est et baptiza-tus. Merito proinde ipsam eius virtutem, quam Naaman ille consulente Propheta sensit in corpore, iubente Christo universus quoque fìdelis populus in anima experitur. X. DE LOCO CALVARIAE 17. Exitur etiam in Calvariae locum, ubi verus Elisaeus ab insensatis pueris irrisus, ri-sum suis insinuavit aeternum, de quibus ait: Ecce ego et pueri mei, quos mihi dedit De-us. Boni pueri, quos per contrarium illorum malignantium ad lauclem excitat Psalmista, dicens: Laudate, pueri, Dominum, laudate nomen Domint, quatenus in ore sanctorum infantium et lactentium perficeretur laus, quae ex ore defecerat invidorum, eorum utique, de quibus queritur ita: Filios enutrivi et exaltavi; ipsi autem spreverunt me. As-cendit itaque crucem calvus noster, munda pro mundo expositus et, revelata facie ac discooperta fronte, purgationem peccatorum faciens, probrosae et austerae mortistam non erubuit ignominiam quam nec poenam exhorruit, ut nos opprobrio sempiterno eriperet, restitueret gloriae. Nec mirum: quid enim erubesceret, qui ita lavit nos a pecca-tis, non quidem ut aqua diluens et retinens sordes, sed veluti solis radius desiccans et retinens puritatem? Est quippe Dei sapientia ubique attingens propter munditiam suam. XI. DE SEPULCRO 18. Inter sancta ac desiderabilia loca sepulcrum tenet quodammodo principatum, et de-votionis plus nescio quid sentitur, uhi mortuus requievit, quam uhi vivens conversatus est, atque amplius movet ad pietatem mortis quam vitae recordatio. Puto quod illa aus-terior, haec dulcior videatur; magisque infumitati hlandiatur humanae quies dormitionis quam labor conversationis, mortis securitas quam vitae rectitudo. Vita Christi vivendi mihi regula exstitlt, mors a morte redemptio. Illa vitam instruxit, mortem ista destruxit. Vita quidem laboriosa, sed mors pretiosa; utraque vero admodum necessaria. Quid enim Christi prodesse poterat, sive mors nequiter viventi, sive vita damnabiliter morienti? Numquid denique aut mors Christi etiam nunc male usque ad mortem viventes a morte aeterna liberat, aut mortuos ante Christum sanctos Patres vitae sanctitas liberavit, sicut scriptum est: Quis est homo qui vivet et non videbit mortem, eruet animam suam de ma-nu inferi? Nunc ergo quia utrumque nobis pariter necessarium erat, et pie vivere, et se-cure mori, et vivendo vivere docuit, et mortem moriendo securam reddidit, quoniam

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quidem resurrecturus occuhuit, et spero fecit morientibus resurgendi. Sed addidit et ter-tium beneficium, cum etiam peccata donavit, sine quo utique cetera non valebant. Quid enim - quantum quidem ad veram summamque beatitudinem spectat - quantalibet vitae rectitudo seu longitudo prodesse poterat illi, qui vel solo originali peccato teneretur ad-strictus? Peccatum quippe praecessit, ut sequeretur mors, quod sane si cavisset homo, mortem non gustasset in aetemum. 19. Peccando itaque vitam amisit et mortem invenit, quoniam quidem et Deus ita prae-dixerat, et iustum profecto erat, ut si peccaret homo, moreretur. Quid namque iustius po-terat quam recipere tallonem? Vita siquidem Deus animae est, ipsa corporis. Peccando volontarie, volens perdidit vivere; nolens perdat et vivificare. Sponte repullt vitam cum vivere noluit; non valeat eam dare cui vel quatenus voluerit. Noluit regi a Deo; non queat regere corpus. Si non paret superiori, inferiori cur imperet? Invenit Conditor suam sibi rebellem creaturam; inveniat anima suam sibi rebellem pedissequam. Transgressor inventus est homo divinae legis; inveniat et ipse aliam legem in membris suis, repu-gnantem legi mentis suae, et captivantem se in legem peccati. Porro peccatum, ut scrip-tum est, separat inter nos et Deum; separat proinde etiam mors inter corpus nostrum et nos. Non potuit dividi a Deo anima nisi peccando, nec corpus ab ipsa nisi moriendo. Quid itaque austerius pertulit in ultione; id solum passa a subdito, quod praesumpserat in auctorem? Nihil profecto congruentius, quam ut mors operata sit mortem, spiritualis corporalem, culpabilis poenalem, voluntaria necessariam. 20. Cum ergo hac gemina morte secundum utramque naturam homo damnatus fuisset, altera quidem spirituali et voluntaria, altera corporali et necessaria, utrique Deus homo una sua corporali ac voluntaria benigne et potenter occurrit, illaque una sua nostram utramque damnavit. Merito quidem: nam ex duabus mortibus nostris, cum altera nobis in culpae meritum, altera in poenae debitum reputaretur, suscipiens poenam et nesdens culpam, duro sponte et tantum in corpore moritur, et vitam nobis et iustitiam promere-tur. Alioquin si corporaliter non pateretur, debitum non solvisset; si non voluntarie mo-reretur, meritum mors illa non habuisset. Nunc autem si, ut dictum est, mortis meritum est peccatum et peccati debitum mors, Christo remittente peccatum et moriente pro pec-catoribus, profecto iam nullum est meritum, et solutum est debitum. 21. Ceterum unde sdmus, quod Christus possit peccata dimittere? Hinc procul dubio, quia Deus est, et quidquid vult potest. Unde autem et quod Deus sit? Miracula probant: facit quippe opera, quae nemo alius facere possit, ut taceam oracula Prophetarum, nec non et patemae vocis testimonium elapsae caelitus ad ipsum a magnifica gloria. Quod si Deus pro nobis, quis contra nos? Deus qui iustificat, quis est condemnet? Si ipse est et non alius, cui quotidie confitemur dicentes: Tibi soli peccavi, quis melius, immo quis alius remittere potest quod in eum peccatum est? Aut quomodo ipse non potest, qui om-nia potesti Denique ego, quod in me delinquitur, valeo, si volo, donare, et Deus non queat in se commissa remittere? Si ergo peccata remittere et possit omnipotens, et solus possit, cui soli peccatur, heatus profecto, cui non imputabit ipse peccatum. Itaque co-gnovimus quod peccata Christus divinitatis suae potentia valuit relaxare. 22. Porro iam de voluntate quis dubitet? Qui enim nostram et induit carnem, et subiit mortem, putas suam nobis negabit iustitiam? Voluntarie incarnatus, voluntarie passus, voluntarie crucifixus, solam a nobis retinebit iustitiam? Quod ergo ex deitate constat il-

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lum potuisse, ex humanitate innotuit et voluisse. Sed unde rursum confìdimus quod et mortem abstulit? Hinc plane quod eam ipse, qui non meruit, pertulit. Qua enim ratiooe iterum exigeretur a nobis quocl pro nobis ille iam solvit? Qui peccati meritum tulit, suam nobis donando iustitiam, ipse mortis debitum solvit et reddidit vitam. Sic namque mortua morte revertitur vita, quemadmodum ablato peccato redit iustitia. Porro mors in Christi morte fugatur et Christi nobis iustitia imputatur. Verum quomodo mori potuit qui Deus erat? Quoniam nimirum et homo erat. Sed quo pacto mors hominis illius pro altero valuit? Quia et iustus erat. Profecto namque curo homo esset, potuit mori; cum iustus, debuit non gratis. Non quidem peccator mortis sufficit solvere dehitum pro altero peccatore, cum quisque moriatur pro se. Qui autem mori pro se non habet, numquid pro allo frustra debet? Quanto sane indignius moritur qui mortem non meruit, tanto is iu-stius, pro quo mocitur, vivit. 23. «Sed quae», inquis, «iustitia est, ut innocens pro impio moriatur?». Non est iustitia, sed misericordia. Si iustitia esset, iam non gratis, sed ex debito moreretur. Si ex debito, ipse quidem moreretur, sed is pro quo moreretur non viveret. At vero si iustitia non est, non tamen contra iustitiam est; alioquin et iustus et misericors simul esse non posset. «Sed etsi iustus non iniuste pro peccatore satisfacere valeat, quo tamen pacto etiam unus pro pluribus? Etenim satis esse videretur ad iustitiam, si unus uni moriens vitam resti-tuat». Huic iam respondeat Apostolus: Sicut enim, inquit, per unius delictum, in omnes homines in condemnationem, sic et per unius iustitiam, in omnes homines in iustifica-tionem vitae Sicut enim per inoboedientiam unius hominis peccatores constituti sunt multi, ita et per unius hominis oboedientiam iusti constituentur multi. Sed forte unus pluribus iustitiam quidem restituere potuit, vitam non potuit? Per unum, ait, hominem mors, et per unum hominem vita. Sicut enim in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur. Quid enim? Unus peccavit, et omnes tenentur rei, et unius inno-centia soli reputabitur innocenti? Unius peccatum omnibus operatum est mortem, et unius iustitia uni vitam restituet? Itane Dei iustitia magis ad condemnandum quam ad restaurandum valuit? Aut plus potuit Adam in malo quam in bono Christus? Adae pec-catum imputabitur mihi, et Christi iustitia non pertinebit ad me? Illius me inoboedientia perdidit, et huius oboedientia non proderit mihi? 24. «Sed Adae», inquis, «delictum merito omnes contrahimus, in quo quippe omnes peccavimus, quoniam cum peccavit, in ipso eramus, et ex eius carne per carnis concupi-scentiam geniti sumus». Atqui ex Deo multo germanius secundum spiritum nascimur, quam secundum carnem ex Adam, secundum quem etiam spiritum longe ante fuimus in Christo quam secundum carnem in Adam, si tamen et nos inter illos numerari confidi-mus, de quibus Apostolus: Qui elegit nos, inquit, in ipso - haud dubium quin Pater in Fi-lio - ante mundi constitutionem. Quod autem etiam ex Deo nati sunt, testatur evangelista loannes, uhi ait: Qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt; item ipse in epistola: Omnis qui natus est ex Deo, non peccat, quia generatio caelestis conservat eum. «At carnis traducem», ais, «carnalis testatur concupiscentia, et peccatum, quod in carne sentimus, manifeste probat quod secundum carnem de carne peccatoris descendimus». Sed enim nihilominus spiritualis illa genera-tio, non quidem in carne, sed in corde sentitur, ab his dumtaxat qui cum Paulo dicere possunt: Nos autem sensum Christi habemus, in quo et eatenus profedsse se sentiunt, ut et ipsi cum omni :fiducia dicant: Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filii Dei, et illud: Nos autem non spiritum huius mundi accepimus, sed Spi-

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ritum qui ex Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. Per Spiritum ergo qui ex Deo est, caritas diffusa est in cordibus nostris, sicut et per carnem, quae est ex Adam, manet concupiscentia nostris insita membris. Et quomodo ista quae a progenitore corpo-rum descendit, numquam in hac vita mortali a carne recedit, sic illa procedens ex Patre spirituum, ab intentione filiorum, dumtaxat perfectorum, numquam excidit. 25. Si ergo ex Deo nati et in Christo electi sumus, quaenam iustitiaest, ut plus noceat humana atque terrena quam valeat divina caelestisque generatio, Dei electionem vincat carnalis successio, et aeterno eius proposito carnis praescribat temporaliter traducta concupiscentia? Quinimmo, si per unum hominem mors, cur non multo magis per unum, et illum hominem, vita? Et si omnes in Adam morimur, cur non longe potentius in Christo omnes vivifìcabimur? Denique non sicut delictum, ita et donum: nam iudi-ciuim ex uno in condemnationem, gratia autem ex multis delictis in iustificationem. Christus igitur et peccata remittere potuit, cum Deus sit, et mori, cum sit homo, et mor-tis moriendo solvere debitum, quia iustus, et omnibus unus ad iustltiam vitamque suffi-cere, quandoquidem et peccatum, et mors ex uno in omnes processerit. 26. Sed hoc quoque necessarie omnino provisum est, quod dilata morte homo inter homines dignatus est aliquarndiu conversari, quatenus crebris et veris locutionibus ad invisibilla excitaret, miris operibus adstrueret fidem, rectis mores instrueret. Itaque in oculis hominum Deus homo sobrie, et iuste, et pie conversatus, vera locutus, mira oper-atus, indigna passus, in quo iam nobis defuit ad salutem? Accedat et gratia remissionis peccatorum, hoc est ut gratis peccata dimittat, et opus profecto nostrae salutis consum-matum est. Non autem metuendum, quod donandis peccatis aut potestas Deo, aut volun-tas passo, et tanta passo pro peccatoribus desit, si tamen solliciti inveniamur digne, ut oportet, et imitati exempla, et venerati miracula, doctrinae quoque non exsistamus in-creduli, et passionibus non ingrati. 27. Itaque totum nobis de Christo valuit, totum salutiferum totumque necessarium fuit, nec minus profuit infirmitas quam et maiestas, quia, etsi ex deitatis potentia peccati iu-gum iubendo submovit, ex carnis tamen infirmitate mortis iura moriendo concussit. Un-de pulchre ait Apostolus: Quod infirmum est Dei, fortius est hominibus. Sed et illa eius stultitia, per quam ei placuit salvum facere mundum, ut mundi confutaret sapientiam, confunderet sapientes, quod videlicet, cum in forma Dei esset, Deo aequalis semetipsum exinanivit formam servi accipiens, quod, dives cum esset, propter nos egenus factus est, de magno parvus, de celso humilis, infirmus de potente, quod esuriit, quod sitiit, quod fatigatus est in itinere, et cetera quae passus est voluntate, non necessitate, haec ergo ipsius quaedam stultitia, nonne fuit nobis via prudentiae, iustitiae forma, sanctitatis ex-emplum? Ob hoc item Apostolus: Quod stultum est, inquit, Dei, sapientius est homini-bus. Mors igitur a morte, vita ab errore, a peccato gratia liberavit. Et quidem mors per iustitiam suam peregit victoriam, quia iustus, exsolvendo quae non rapuit, iure omnino, quod amiserat, recepit. Vita vero, quod ad se pertinuit, per sapientiam adimplevit, quae nobis vitae et disciplinae documentum ac speculum exstitit. Porro gratia ex illa, ut dic-tum est, potestate peccata remisit, qua omnia, quaecumque voluit, fecit. Mors itaque Christi, mors est meae mortis, quia ille mortuus est, ut ego viverem. Quo pacto enim iam non vivat, pro quo moritur Vita? Aut quis iam in via morum seu rerum notitia errare timebit, duce Sapientia? Aut unde iam reus tenebitur, quem absolvit Iustitia? Vitam qui-dem se ipse perhibet in Evangelio: Ego sum, inquiens, vita. Porro duo sequentia testatur

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Apostolus, dicens: Qui factus est nobis iustitia et sapientia a Deo Patre. 28. Si ergo lex spiritus vitae in Christo Iesu liberavit nos a lege peccati et mortis, ut quid adhuc morimur, et non statim immortalitate vestimur? Sane ut Dei veritas implea-tur. Quia enim misericordiam et veritatem diligit Deus, necesse est mori quidem homi-nem, quippe quod praedixerat Deus, sed a morte tamen resurgere, ne obliviscatur mise-reri Deus. Ita ergo mors, etsi non perpetuo dominatur, manet tamen propter veritatem Dei vel ad tempus in nobis, quemadmodum peccatum, etsi iam non regnat in nostro mortali corpore, non tamen deest penitus nobis. Proinde Paulus ex parte quidem libera-tum se a lege peccati et mortis gloriatur, sed rursum se utraque nihilominus lege aliqua ex parte gravari conqueritur, sive cum adversus peccatum miserabiliter clamat: Invenio aliam legem in membris meis, et cetera, sive cum ingemiscit gravatus, haud dubium quin lege mortis, redemptionem xspectans corporis sui. 29. Sive itaque haec, sive alla quaecumque in hunc modum, prout in talibus in suo qui-sque sensu abundat, ex occasione sepulcri christianis sensibus suggerantur, puto quod non mediocris dulcedo devotionis infunditur quominus intuenti, nec parum profìcitur cernendo, etiam corporalibus oculis, corporalem locum dominicae quietis. Etsi quippe iam vacuum sacris membris, plenum tamen nostris et iucundis admodum sacramentis. Nostris, inquam, nostris, si tamen tam ardenter amplectimur quam indubitanter tenemus quod Apostolus ait: Consepulti enim sumus per baptismum in mortem, ut quomodo sur-rexit Christus a mortuis per gloriam Patris, ita et nos in novitate vitae ambulemus. Si enim complantati facti sumus similitudini mortis eius, simul et resurrectionis. Quam duke est peregrinis, post multam longi itineris fatigationem, post plurima terrae marisque pericula, ibi tandem quiescere, uhi et agnoscunt suum Dominum quievisse! Puto iam prae gaudio non sentiunt viae laborem nec gravamen reputant io expensarurn, sed tamquam laboris praemium cursusve bravium assecuti, iuxta Scripturae sententiam, gaudent vehementer cum invenerint sepulcrum. Nec casu vel subito, aut veluti lubrica popularis favoris opinione, id tam celebre nomen sepulcrum nactum esse putetur, cum hoc ipsum tantis retro temporibus Isaias tam aperte praedixerit: Erit, inquit, in die illa radix Iesse, qui stat in signum populorum; ipsum gentes deprecabuntur, et erit sepul-crum eius gloriosum. Revera ergo impletum cernimus quod legimus prophetatum, no vum quidem intuenti, sed legenti antiquum, ut sic adsit de novitate iucunditas, ut de ve-tustate non desit auctoritas. Et de sepulcro ista sufficiant. XII. DE BETHPHAGE 30. Quid de Bethphage dicam, viculo sacerdotum, quem pene praeterieram, uhi et con-fessionis sacramentum, et sacerdotalis ministeril mysterium continetur? Bethphage quippe domus buccae interpretatur. Scriptum est autem: Prope est verbum in ore tuo et in corde tuo. Non in altero tantum, sed simul in utroque verbum habere memineris. Et quidern verbum in corde peccatoris operatur salutiferam contritionem, verbum vero in ore noxiam tollit confusionem, ne impediat necessariam confessionem. Ait enim Scrip-tura: Est pudor adducens peccatum, et est purdor adducens gloriam. Bonus pudor, quo peccasse aut certe peccare confunderis, et omnis licet humanus arbiter forte absit, divi-num tamen quam humanum tanto verecundius revereris aspectum, quanto et verius De-um quam hominem cogitas puriorem, tantoque eum gravius offendi a peccante, quanto constat longius ab ilio esse omne peccatum. Huiuscemodi procul dubio pudor fugat op-probrium, parat gloriam, dum aut peccatum omnino non admittit, aut certe admissum et

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paenitendo punit, et confitendo expellit, si tamen gloria etiam nostra haec est, testimo-nium conscientiae nostrae. Quod si quispiam confiteri confunditur id quoque, unde compungitur, talis pudor peccatum adducit, et gloriam de conscientia perdit, quando malum quod ex profondo cordis compunctio conatur expellere, pudor ineptus, obstruso labiorum ostio, non permittit exire, cum eum exemplo David dicere potius oporteret: Et labia mea non prohibebo: Domine, tu scisti. Qui et seipsum redarguens, puto super huiusmodi stulto et irrationabili pudore: Quoniam tacui, inquit, inveteraverunt ossa mea. Unde et optat ostium poni circumstantiae labiis suis, ut oris ianurun et aperire con-fessioni, et defensioni claudere norit. Denique et aperte hoc ipsum orans petit a Domino, sciens nimirum quia Confessio et magnificentia opus eius. Et quod videlicet nostram malitiam, et quod aeque divinae bonitatis et virtutis magnificentiam minime tacemus, magnum quidem geminae confessionis bonum, sed Dei est donum. Ait itaque: Non de-clines cor meum in verba malitiae, ad excusandas excusationes in peccatis. Quamobrem ministros verbi sacerdotes caute necesse est ad utrumque vigilare sollicitos, quo videli-cet delinquentium cordibus tanto moderamine verbum timoris et contritionis infligant, quatenus eos nequaquam a verbo confessionis exterreant, sic corda aperiant, ut ora non obstruant, sed nec absolvant etiam compunctum, nisi viderint et confessum, quoniam quidem corde creditur ad iustitiam, ore autem confessio fit ad salutem. Alioquin a mor-tuo, tamquam qui non est, perit confessio. Quisquis igitur verbum in ore habet et in cor-de non habet, aut dolosus est, aut vanus; quisquis vero in corde et non in ore, aut super-bus est, aut timidus. XIII. DE BETHANIA 31. Sane non omnino, etsi multum festinem, debeo transire silenter domum oboedien-tiae, Bethaniam videlicet, castellum Mariae et Marthae, in quo et Lazarus est resusdta-tus, uhi nimirum et utriusque vitae figura, et Dei erga peccatores mira clementia, necnon et virtus oboedientiae una cum fructibus paenitentiae commendatur. Hoc ergo in loco breviter intimatum sufficiat, quod nec studium bonae actionis, nec otium sanctae con-templationis, nec lacrima paenitentis extra Bethaniam accepta esse poterunt illi, qui tanti habuit oboedientiam, ut vitam quam ipsam perdere maluerit., factus ohoediens Patri usque ad mortem. Hae sunt illae profecto divitiae, quas sermo propheticus ex verbo Domini pollicetur: Consolabitur, inquiens, Dominus Sion, consolabitur omnes ruinas eius, et ponet deser-tum eius quasi delicias, et solitudinem eius quasi hortum Domini; gaudium et letitia in-venietur in ea, gratiarum actio et vox. Hae igitur orbis deliciae, hic thesaurus caelestis, haec fidelium hereditas populorum, vestrae sunt, carissimi, eredita fidei, vestrae pruden-tiae et fortitudini commendata. Tunc autem caeleste depositum secure et fideliter custo-dire sufficitis, si nequaquam de ipsa vestra vel prudentia, vel fortitudine, sed de Dei tan-tum adiutorio ubique praesumitis, scientes quia non in fortitudine sua roborabitur vir, et ideo dicentes cum Propheta: Dominus firmamentum meum, et refugium meum, et libera-tor meus, et illud: Fortitudinem meam ad te custodiam, quia Deus susceptor meus; Deus meus, misericordia eius praeveniet me, et item: Non nobis, Domine, non nobis, sed no-mini tuo da gloriam, ut in omnibus sit ipse benedictus, qui docet manus vestras ad proe-lium et digitos vestros ad bellum.

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EPISTOLA CCCLIX CLARAVALLENSIUM AD CALLIXTUM PAPAM

Abbatem Morimundi Ierosolymam peregrinaturum cupiunt retineri. Summo Pontifici Callixto, pusillus grex de Claravalle: devotissimam dehitae suhiectio-nis ohoedientiam et, si quid potest, peccatorum oratio. Quoniam illius vos gerere vicem gratulamur, qui suam dicehat instantiam quotidianam sollicitudinem omnium ecclesiarum, apud aures pietatis vestrae, licet maiorihus occupa-tas negotiis, repulsam tamen non metuit nostra pusillitas, uhi magna compellit necessi-tas. Neque enim pro minimo audire potestis, de quibus auditurus estis: Quod uni ex mi-nimis meis fecistis, mihi fecistis. Causa autem haec non nostra tantum, sed totius Ordinis nostri, ob quam etiam ipse filius vester, noster omnium videlicet Pater, si, cum hae datae sunt, domi fuisset, - forte enim contingerat eum tunc abesse et huius rei adhuc ignarum esse -, aut vestrae per seipsum maiestatis praesentiam adisset, aut certe ex suo nomine scriptam hanc miserabilem lacrimabilemque delegisset querimoniam. Sed ne diu sollici-tae caritatis vestrae viscera suspendamus, unus ex fratrihus nostris ahbatibus, qui dice-hatur de Morimundo, ipsum cui praeerat inconsulte satis deserens monasterium, spiritu levitatis impulsus statuit petere Ierosolymam, prius quidem, ut aiunt, circumspectionis vestrae prudentiam tentaturus, si quo modo a vohis suo possit errori extorquere licen-tiam. Qua in re si quem ei, quod ahsit, assensum praebueritis, ipse perpendite quantae possit nostro Ordini esse destructionis occasio, curo, exemplo huius, quicumque ahhas pastorali se sentiet sarcina gravatum, mox illam ahiciat, utpote quam se licite posse abi-cere arhitretur, praesertim apud nos, uhi nec grandis honor, et grave videtur onus. Dein-de ad maiorem domus sibi commissae desolationem, meliores quosque ac perfectiores, qui sub ipso degehant, suae socios vagationis assumpsit, inter quos etiam nobilem illum puerum, quem et ante de Colonia, - quod nec vos latuisse credimus -, non sine scandalo tulerat, ad maius scandalum nunc abducere secum praesumit. Quod si, ut nobis relatum est, dicit se in illa terra nostri Ordinis velie seminare observantias, et ideo fratrum secum ducere multitudinem, quis non videat, plus illic milites pugnantes quam monachos can-tantes vel plorantes necessarios esse? Sed et nostra religio plurimum ex hoc capiet de-trimentum, cum facile sit cuique vagari gestienti, ilio, tamquam absque ullo discrimine, praesumere peregrinari, ubi scilicet idem, quod professus est, inventurus est propositum observari. Iam vero quid super hoc vobis placeat quidve vestram decernere deceat auc-toritatem non est nostrae praesumptionis iudicare, sed vestrae discretionis examinare.

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EPISTOLA XXXI AD HUGONEM COMITEM CAMPANIAE, MILITEM TEMPLI FACTUM

Hugoni gratulatur ob susceptam mifitiam sacram et beneficiorum memoriam promittit. Si causa Dei factus es ex comite miles et pauper ex divite, in hoc profecto tibi, ut iustum est, gratulamur, et in te Deum glorifìcamus, scientes quia haec est mutatio dexterae Ex-celsi. Ceterum, quod tua iucunda praesentia nobis ita nescio quo Dei est subtracta iudi-cio, ut ne interdum quidem videre te valeamus, sine quo numquam, si fieri posset, esse vellemus, hoc aequanimiter, fateor, non portamus. Quid enim? Possumusne oblivisci an-tiqui amoris, et beneficiorum quae domui nostrae tam largiter contulisti? Utinam ipse, pro cuius amore fecisti, in aeternum non obliviscatur Deus! Nam nos, quantum in nobis est, minime prorsus ingrati, memoriam abundantiae suavitatis tuae mente retinemus et, si liceret, opere monstraremus. O quam libenti animo et corpori tuo pariter et animae providissemus, si datum fuisset, ut simul fuissemus! Quod quia non est, restat ut quem praesentem habere non possumus, pro absente semper oremus.

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EPISTOLA CLXXV AD PATRIARCHAM IEROSOLYMORUM

Praeventus eitts litteris familìariter respondet, et Milites Templi commendat. Patriarchalibus scriptis saepius visitatus, ingratus iam videbor si non rescripsero. At si saluto eum qui me salutavit, quid amplius feci? Tu enim me praevenisti in benedictioni-bus dulcedinis; tu ne prior dignatus es tuis transinarinis epistolis visitare; tu mihi primas humilitatis caritatisque praeripuisti partes. Quid condignum iam referam? Nihil mihi denique religuisti quod pari queam rependere vice, qui etiam de thesauro saeculorum mihi impertire curasti, id est de ligno Domini. Quid tamen? Debeone omittere quod pos-sum, quoniam quod debeo minime possum? Affectum saltem voluntatemque aperio, re-scribendo dumtaxat atque resalutando, quod solum interim per tot utique spatia terrae et maris licet. Ostendam autem, si umquam accepero tempus, me nequaquam diligere ver-bo sive lingua, sed opere et veritate. Super Milites Templi ponite quaeso oculos vestros et tantae pietatis viscera tam strenuis Ecclesiae propugnatoribus aperite. Hoc siquidem acceptum erit Deo et gratum hominibus, si fovetis eos, qui suas animas pro fatribus posuerunt. De loco autem ad quem nos invitatis, frater Andreas dicet vobis voluntatem nostram.

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EPISTOLA CCCLV AD REGINAM IEROSOLYMORUM

Praemonstratenses Ierosolymam peregrinantes commendat. Videtis quantum praesumam de vobis, qui audeo etiam alios commendare. Quamquam Praemonstratenses fratres istos magis fortassis superflue commendarim quam temerarie. Sunt merito ita commendabiles suo, ut non egeant alieno. Invenientur, nisi follor, viri consilii, spiritu ferventes, in tribulatione patientes, potentes in opere et sermone. Indue-runt se armatura Dei et gladio Spiritus, quod est verbum Dei, sese accinxerunt, non ad-versus carnem et sanguine, sed contra spiritualia nequitiae in caelestibus. Suscipite il-los tamquam bellatores pacicificos, mansuetos ad homines, violentos ad daemones. Im-mo Christum in eis suscipite, qui est causa peregrinationis eorum.

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EPISTOLA CCCLIV AD REGINAM IEROSOLYMORUM MILISENDEM, FILIAM BAIDUINI RE-

GIS ET FULCONIS UXOREM Mortuo Fulcone viro suo, ut se gerere debeat. Illustrissimae Ierosolymorum reginae Milisendi, Bernardus Clararo vallensis abbas: in-venire gratiam apud Dominum. Inter multiplices curas et negotia regalis aulae satis incongruum mihi scribere videtur, si in te tantum gloriam regni tui, potentiam tuam et lineam nobilitatis respexissem. Et haec omnia videntur in oculis hominum, et qui non habent, invident habentibus ea, et beatum dicunt hominem cuius haec sunt. Sed quae est ista beatitudo in possidendis illis, quae omnia tamquam fenum velociter arescunt et quemadmodum olera herbarum cito deci-dunt! Bona sunt haec, sed mobilia, sed mutabilia, sed praeteritura et peritura, quia bona carnis. Porro de carne et bonis eius dictum est: Omnis caro fenum et omnis gloria eius tamquam flos feni. Scribentem ergo ad te non multum ista revereri oportuit, in quibus fallax gratia et vana est pulchritudo. Accipe paucis quae dico; nam etsi multa habeam tibi dicere, verbum tamen faciam abbreviatum propter multas curas tuas et meas. Accipe breve consilium, sed utile, de terra longinqua, de quo tamquam de parvo semine multa seges surgat in posterum; accipe, inquam, consilium de manu amici, non commodum suum quaerentis, sed honorem tuum. Nullus siquidem tibi fìdelior ad consilium esse po-test quam qui non tua, sed qui te diligit. Mortuo rege viro tuo, et parvulo rege adhuc mi-nus idoneo ad portanda negotia regni et ad prosequendum regis officium, oculi omnium in te respiciunt et in te solam universa regni moles inclinata recumbit. Opus est ut manum tuam mittas ad fortia et in muliere exhibeas virum, agens ea quae agenda sunt in spiritu consilii et fortitudinis. Ita prudenter et moderate oportet te cuncta disponere, ut omnes, qui te viderint, ex operibus regem te potius quam reginam existiment, ne forte dicant in gentibus: «Ubi est rex Ierosolymorum?». «Sed non sum», inquies, «ad ista suf-ficiens. Magna enim haec sunt; supra vires meas, et supra scientiam meam. Opera haec opera sunt viri: ego autem mulier sum, corpore debilis, mobilis corde, nec provida con-silio, nec assueta negotiis». Scio, filia, scio, quia magna sunt haec; sed et hoc scio quia, etsi mirabiles elationes maris, mirabilis in altis Dominus. Magna sunt haec, sed magnus Dominus noster et magna virtus eius.

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EPISTOLA CCVI AD REGINAM IEROSOLYMORUM

Commendat quemdam consanguinemn suum, et paucis monet Reginam ita vivere, ut regnet perpetuo. Audierunt homines, quod locum gratiae habeam apud vos, et multi profecturi Ie-rosolymam petunt se vestrae excellentiae per me commendati. Ex quibus est iste iuvenis consanguineus meus, iuvenis, ut aiunt, strenuus in armis, suavis in moribus. Et gaudeo quod ad tempus elegit militare Deo magis quam sacculo. Itaque facite morem vestrum, et bene sit huic propter me, sicut ceteris omnibus propinquis meis fuit, qui per me vobis innotescere potuerunt. De cetero cavete, ne voluptas carnis et gloria temporalis impe-diant vobis iter regni caelestis. Nam quid prodest paucis diebus regnare super terram, et regno caelorum aetemo privari? Sed confido in Domino quod melius facietis, et si ve-rum est testimonium quod vobis perhibet carissimus avunculus meus Andreas, cui mul-tum credimus, et hic, et in aeternum Deo miserante regnabitis. Peregrinis, egenis et maxime inclusis curam impendite, quia talibus hostiis promeretur Deus. Scribite nobis frequentius, quia et vobis non oberit, et nobis proderit, si esse vestrum et bona studia plenius certiusque noverimus.

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EPISTOLA CCCLXIII AD ARCHIEPISCOPOS ORIENTALIS FRANCIAE ET BAVARIAE

Ad arma contra infideles pro defensione Orientalis Ecclesiae suscipienda hortatur. Praeterea, contra turbulentum quemdam praedicatorem, docet Iudaeos non esse perse-quendos, nedum occidendos. Dominis et patribus carissimis, archiepiscopis, episcopis et universo clero et populo orientalis Franciae et Bavariae, Bernardus, Claravallensis vocatus Abbas: spiritu fortitu-dinis abundare. 1. Sermo mihi ad vos de negotio Christi, in quo est utique salus nostra. Haec dico, ut excuset indignitatem personae loquentis auctoritas Domini, excuset et consideratio pro-priae utilitatis. Modicus quidem sum, sed non modice cupio vos omnes in visceribus Christi Iesu. Ea mihi nunc ratio scribendi ad vos, ea causa, ut universitatem vestram lit-teris audeam convenire. Agerem id libentius viva voce, si, ut voluntas non deest, suppe-teret et facultas. Ecce nunc, tempus acceptabile, ecce nunc dies copiosae salutis. Com-mota est siquidem et contremuit terra, quia coepit Deus caeli perdere terram suam. Suam, inquam, in qua visus est, et annis plus quam triginta homo curo hominibus con-versatus est. Suam utique, quam illustravit miraculis, quam dedicavit sanguine proprio, in qua primi resurrectionis flores apparuerunt. Et nunc, peccatis nostris exigentibus, cru-cis adversarii caput extulerunt sacrilegum, depopulantes in ore gladii terram benedic-tam, terram promissionis. Prope est, si non fuerit qui resistat, ut in ipsam Dei viventis irruant civitatem, ut officinas nostrae redemptionis evertant, ut polluant loca sancta, Agni immaculati purpurata cruore. Ad ipsum, proh dolor, religionis christianae sacra-rium inhiant ore sacrilego, lectumque ipsum invadere et conculcare conantur, in quo propter nos Vita nostra obdormivit in morte. 2. Quid facitis, viri fortes? Quid facitis, servi crucis? Itane dabitis sanctum canibus et margaritas porcis? Quam multi illic peccatores, confitentes peccata sua cum lacrimis, veniam obtinuerunt, postquam patrum gladiis eliminata est spurcitia paganorum! Videt hoc malignus, et invidet; frendet dentibus, et tabescit. Excitat vasa iniquitatis suae, ne ulla quidem tantae pietatis signa aut vestigia relicturus, si quando forte, quod Deus aver-tat, obtinere valuerit. Verum id quidem omnibus deinceps saeculis inconsolabilis dolor, quia irrecuperabile damnum, specialiter autem generationi huic pessimae infinita confu-sio et opprobrium sempiternum. 3. Quid tamen arbitramur, fratres? Numquid abbreviata manus Domini, aut impotens facta est ad salvandum, quod ad tuendam et restituendam sibi hereditatem suam exiguos vermiculos vocat? Numquid non mittere potest angelorum plusquam duodecim legio-nes, aut certe tantum dicere verbo, et liberabitur terra? Omnino subest ei, cum voluerit, posse; sed, dico vobis, tentat vos Dominus Deus vester. Respicit filios hominum, si forte sit qui intelligat, et requirat, et doleat vicem eius. Miseratur enim populum suum Deus, et lapsis graviter providet remedium salutare. 4. Considerate quanto ad salvandos vos artificio utitur, et obstupescite; intuemini pieta-tis abyssum, et confidite, peccatores. Non vult mortem vestram, sed ut convertamini et vivatis, quia sic quaerit occasionem, non adversum vos, sed pro vobis. Quid est enim ni-

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si exquisita prorsus et inventibilis soli Deo salvationis occasio, quod homicidas, rapto-res, adulteros et periuros, ceterisque obligatos criminibus, quasi gentem quae iustitiam fecerit, de servitio suo submonere dignatur Omnipotens? Nolite diffidere, peccatores: benignus est Dominus. Si vellet punire vos, servitium vestrum non modo non expeteret, sed nec susciperet quidem oblatum. Iterum dico; pensate divitias bonitatis, altissimum consilium miserationis attendite. Necessitatem se habere aut facit, aut simulat, ut mili-tantibus sibi stipendia reddat, indulgentiam delictorum et gloriam sempiternam. Beatam ergo dixerim generationem quam apprehendit tam uberis indulgentiae tempus, quam in-venit superstitem annus iste placabilis Domino, et vere iubileus. Diffunditur enim haec benedictio in universum mundum, et ad signum vitae convolant universi. 5. Quia ergo fecunda virorum fortium terra vestra et robusta noscitur iuventute referta, sicut laus est vestra in universo mundo, et virtutis vestrae fama replevit orbem, accingi-mini et vos viriliter et felicia arma corripite christiani nominis zelo. Cesset pristina illa non militia, sed plane malitia, qua soletis invicem sternere, invicem perdere, ut ab invi-cem consumamini. Quae enim miseris tam dira libido? Transverberat quis proximi cor-pus gladio, cuius fortassis et anima perit; sed nec ipse effugit qui gloriatur: et ipsius animam pertransit gladius, ne solum hostem gaudeat cecidisse. Huic sese dare discri-mini insaniae est, non virtutis, nec audaciae, sed amentiae potius ascribendum. Habes nunc, fortis miles, habes, vir bellicose, ubi dimices absque periculo, ubi et vincere glo-ria, et mori lucrum. Si prudens mercator es, si conquisitor huius saeculi, magnas qua-sdam tibi nundinas indico, vide ne te praetereant. Suscipe Crucis signum, et omnium pa-riter, de quibus corde contrito confessionem feceris, indulgentiam obtinebis delictorum. Materia ipsa si emitur, parvi constat; si devote assumitur humero, valet sine dubio re-gnum Dei. Bene ergo fecerunt qui caeleste iam signaculum susceperunt; bene facient et ceteri, nec ad insipientiam sibi, si festinent et ipsi apprehendere quod et eis sit in salu-tem. 6. De cetero, fratres, moneo vos, non autem ego, sed Apostolus Dei mecum, non esse credendum omni spiritui. Audivimus et gaudemus quod in vobis ferveat zelus Dei, sed oportet omnino temperamentum scientiae non deesse. Non sunt persequendi Iudaei, non sunt trucidandi, sed nec effugandi quidem. Interrogate eos qui divinas paginas norunt, quid in Psalmo legerint prophetatum de Iudaeis: Deus, inquit Ecclesia, ostendit mihi su-per inimicos meos ne occidas eos, nequando obliviscantur populi mei. Vivi quidam api-ces nobis sunt, repraesentantes iugiter Dominicam passionem. Propter hoc et in omnes dispersi sunt regiones, ut duro iustas tanti facinoris poenas luunt ubique, testes sint no-strae redemptionis. Unde et addit in eodem Psalmo loquens Ecclesia: Disperge illos in virtute tua, et depone eos, protector meus Domine. Ita factum est: dispersi sunt, depositi sunt; duram sustinent captivitatem sub principibus christianis. Convertentur tamen ad vesperam, et in tempore erit respectus eorum. Denique, curo introierit gentium plenitu-do, tunc omnis Israel salvus erit, ait Apostolus. Interim sane qui moritur, manet in mor-te. 7. Taceo quod sicubi illi desunt, peius iudaizare dolemus christianos feneratores, si ta-men christianos, et non magis baptizatos Iudaeos convenit appellati. Si Iudaei penitus atteruntur, unde iam sperabitur eorum in fine promissa salus, in fine futura conversio? Piane et gentiles, si essent similiter in fine futura subiugati, in eo quidem iudicio essent similiter expectandi quam gladiis appetendi. Nunc autem curo in nos esse coeperint vio-

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lenti, oportet viro vi repellere eos, qui non sine causa gladium portant. Est autem chri-stianae pietatis, ut debellare superbos, sic et parcere subiectis, his praesertim quorum est legislatio et promissa, quorum patres, et ex quibus Christus secundum carnem, qui est super omnia Deus benedictus in saecula. Id tamen exigendum ab eis iuxta tenorem apo-stolici mandati: omnes qui crucis signum acceperint, ab omni usurarum exactione libe-ros omnino dimittant. 8. Illud quoque admonitos vos esse necesse est, fratres mei dilectissimi, ut si quis forte amans primatum gerere inter vos, expeditione sua regni voluerit exercitum praevenire, nullatenus audiatur, etiam si a nobis missum se simulet, quod non est verum, aut si ostendat litteras, tamquam a nobis missas quas nolo ut a nobis datas, sed omnino falsas, ne dicam furtivas esse dicatis. Viros bellicosos et gnaros talium duces eligere est, et si-mul proficisci exercitum Domini, ut ubique habeat robur et non possit a quibuslibet vio-lentiam sustinere. Fuit enim in priori expeditione, antequam Ierosolyma caperetur, vir quidam, Petrus nomine, cuius et vos, nisi fallor, saepe mentionem audistis. Is ergo po-pulum qui sibi crederet habens, solus cum suis incedens tantis eos periculis dedit, ut aut nulli, aut paucissimi eorum evaserint, qui non corruerint, aut fame, aut gladio. Propterea omnino timendum, si similiter et vos feceritis, ne contingat et vobis similiter. Quod avertat a vobis Deus, qui est super omnia benedictus in saecula. Amen.

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EPISTOLA CCCLXV AD HENRICUM MOGUNTINUM ARCHIEPISCOPUM, CONTRA FRATREM

RADULFUM, QUI NECI IUDAEORUM CONSENSERAT Radulfum monachum, qui fideLes in Iudaeorum necem armabat, arguit. Venerabili domino et carissimo patri Henrico, Moguntino archiepiscopo, Bernardus, Claraevallis abbas: invenire gratiam apud Deum. 1. Litteras dilectionis vestrae debita veneratione suscepi; sed prae multitudine negotio-rum brevis est responsio. Depositum querelae vestrae apud nos signum est et pignus di-lectionis, et praecipuae humilitatis indicium. Quis enim ego sum, aut quae domus patris mei, ut ad me referatur Archiepiscopi contemptus et metropolitanae sedis iniuria? Non-ne ego sum puer parvulus, ignorans introitum et egressum meum? Verumtamen non ignoro verbum veritatis usquequaque, quod ex ore Altissimi procedit: Necesse est ut ve-niat scandalum; vae autem illi per quem venit! Homo ille, de quo agitur in litteris ve-stris, neque ab homine, neque per hominem, sed neque a Deo missus venit. Quod si se monachum aut eremitam iactat, et ex eo sibi assumit libertatem vel officium praedica-tionis, potest scire, et debet, quod monachus non habet docentis, sed plangentis offi-cium, quippe cui oppidum carcer esse debet et solitudo paradisus. Hic vero, a contrariis, et solitudinem pro carcere, et oppidum habet pro paradiso. O hominem sine pectore! O hominem sine fronte, cuius stultitia elevata est super candelabrum, ut appareat omnibus qui sunt in domo! 2. Tria sane sunt in eo reprehensione dignissima: usurpatio praedicationis, contemptus episcoporum, homicidii approbati libertas. Novum genus potentiae! Numquid tu maior es patre nostro Abraham, qui, eodem prohibente, gladium deposuit, quo iubente levave-rat? Numquid tu maior es Principe apostolorum, qui quaesivit a Domino: Domine, si percutimus in gladio? Sed instructus es omni sapientia Aegyptiorum, id est sapientia huius mundi, quae stultitia est apud Deum. Aliter solvis quaestionem Petri quam ille qui dixit: Mitte gladium in locum suum. Omnis enim qui acceperit gladium, gladio peribit. Nonne copiosius triumphat Ecclesia de Iudaeis per singulos dies vel convincens, vel convertens eos, quam si semel et simul consumeret eos in ore gladii? Numquid incas-sum constituta est illa universalis oratio Ecclesiae, quae offertur pro perfidis Iudaeis a solis ortu usque ad occasum, ut Deus et Dominus auferat velamen de cordibus eorum, ut ad lumen veritatis a suis tenebris eruantur? Nisi enim eos, qui increduli sunt, credituros speraret superfluum videretur et vanum orare pro eis. Sed considerabat oculo pietatis quod Dominus habet respectum gratiae apud eum, qui reddit bona pro malis et dilectio-nem pro odio. Ubi est ergo illud quod dictum est: Videas ne occidas eos? Ubi est: Cum plenitudo gentium intraverit, tunc omnis Israel salvus fiet? Ubi est: Aedificans Ierusa-lem Dominus dispersiones Israelis congregabit? Tune es ille qui mendaces facies prophetas et evacuabis omnes thesauros pietatis et misericordiae Iesu Christi? Tua doc-trina non est tua, sed eius qui misit te patris. Sed credo sufficit tibi, si sis sicut magister tuus. Ille enim erat homicida ab initio; ille mendax, et pater mendacii. O monstruosa scientia! O sapientia infernalis, contraria Prophetis, Apostolis inimica, subversio pietatis et gratiae! O immundissima haeresis! O meretrix sacrilega, quae impraegnata de spiritu falsitatis, concepit dolorem et peperit iniquitatem. Libet, sed non licet ultra progredi. Ad ultimum, ut omnia quae sentio super his breviter comprehendam, homo est magnus in

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oculis suis, plenus spiritu arrogantiae, et sicut verba et opera eius praetendunt, conatur sibi facere nomen iuxta nomen magnorum qui sunt in terris; sed non habet sumptus ad perficiendum. Vale.

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EPISTOLA DXLIV AD OMNES ABBATES CISTERCIENSES

Monet ne quis monachus in Terrae Sanctae expeditionem proficiscatur. Reverendis dominis et dilectis fratribus universis abbatibus, frater Bernardus Claraval-lensis vocatus abbas: gratia Dei abundare. Cum caritatis nostrae ardor debito religionis ad quoslibet fideles extendatur, maius ta-men erga ipsos nostrum est studium quos commune vitae propositum paene fecit unum. Vestris itaque prosperitatibus congaudentes, de adversis non secus ac nostris affligimur. Murmurationes quorumdam fratrum vestrorum contra vos multorum relatu novimus et ipsi ex parte audivimus quod, spreto conversationis sanctissimae proposito, tu multuanti saeculo se infligere contendunt. Quid est aliud quod Abiron et Dathan murmurantes contra Moysen absorpti sunt a terra, nisi mentes talium desideriis terrenorum esse de-fossas? Quid tibi cum multitudine, qui de singularitate censeris? Quid mundi gloriam requiris, qui in domo Dei tui abiectus esse elegisti? Quid ad te regionum circuitus, qui in solitudine vitam ducere professus es? Quid crucem yestibus assuis, qui hanc corde tuo baiulare non cessas, si religionem conservas? Verborum itaque prolixitatem vitantes, non nostra, sed apostolica auctoritate generaliter dicimus: Si quis monachus conver-susve in expeditionem ierit, debitae excommun, icationis sententiae subiacebit. Valete.

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EPISTOLA CDLIX AD G. DE STOPHO

A peregrinatione Henricum quemdam excus, qui religionis habitum induit. Bernardus, Claravallensis vocatus abbas, dilecto in Christo filio G. de Stopho: salutem et orationes. Carissimus filius noster, frater tuus Henricus, ad nos divertit et; consilio nostro, salutaris signi quod acceperat propositum non deposuit, sed longe meliora: uti pauper enim fac-tus pro paupere Christo, in domo pauperum Christi sub religionis habitu disposuit con-versari. Quod tibi nec grave debet videri nec asperum, quia cum Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab eo, et faciem induit euntis Ierusalem, non quae occidit pro-phetas, sed ea cuius participatio in idipsum. Consolare igitur in verbis istis et memento quid inter vos novissime fueritis collocuti. Et sic age cum eo de omnibus, ut a nobis et ab ipso gratiam, et a Deo misericordiam consequaris. Bene vale, semper dilecte.

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EPISTOLA CDLVIII AD WLADISLAUM DUCEM, MAGNATES ET POPULUM BOHEMIAE

Omnes ad expeditionem Hierosolymitanam invitat idemque negotium episcopo Mora-viensi commendat. Duci Wladislao ceterisque nobilibus et universo populo Bohemiae, Bernardus, Claraval-lensis vocatus abbas: salutem in Christo. 1. Est mihi sermo ad VOS de negotio Christi, in quo est etiam salus vestra. Quod lo-quor, ut indignitatem personae scribentis excuset apud vos auctoritas Domini, excuset consideratio utilitatis vestrae, excuset quae in nobis est intentio caritatis. Modicus enim sum, sed non modice cupio omnes vos in visceribus Iesu Christi. Hic zelus urget ut scri-bam quod libentius viva voce cordibus vestris inscribere laborarem, si, ut voluntas non deest, suppeteret et facultas. Sed spiritus quidem promptus est, caro autem infirma. Ob-temperare non potest corruptibile corpus animae desiderio, nec spiritus velocitatem mo-les terrena valet comitare. Sed quid hinc querimur? Abest a vobis portio nostri, sed quae vilior est. Cor nostrum tamen patet ad vos, o Bohemi, cor nostrum usque ad vos dilata-tum est; etsi corpus onerosum terrarum intercapedo detineat. 2. Audiat ·ergo universitas vestra verbum bonum, audiat verbum salutis, et oblatam in-dulgentiae copiam devotis quibusdam animae brachiis amplectatur. Neque enim simile est tempus istud ceteris, quae hucusque praeteriere temporibus: nova venit e caelo divi-nae miserationis ubertas. Beati quos invenit superstites annus placabilis Domino, cannus remissionis, annus utique iubileus! Dico vobis: non fecit Dominus taliter omni retro ge-nerationi, nec tam copiosum in patres nostros gratiae munus effudit. Videte quo artificio utitur ad salvandum vos; considerate pietatis abyssum et obstupescite, peccatores: ne-cessitatem se habere aut facit, aut simulat, dum vestris cupit necessitatibus subvenire. De caelo venit consilium hoc nec ab homine est, sed a corde pietatis divinae processit. 3. Commota est et contremiuit terra, quia caeli Dominus coepit perde e terram suam, in qua visus est et annis plus quam triginta, homo inter homines conversatus. Suam, quam honoravit nativitate sua, illustravit miraculis, dedica it sanguine, sepultura ditavit. Suam, in qua vox turturis audita est, cum Virginis Filius castitatis studium commendaret. Suam, in qua primi apparuerunt flores resurrectionis. Hanc repromissionis terram coepe-runt occupare maligni, et nisi fuerit, qui resistat, ad ipsum inhiant religionis nostrae sa-crarium, lectumque ipsum maculare conantur, in quo propter nos vita nostra obdormivit in morte, et profanare sancta sanctorum, loca dico Agni immaculati purpurata cruore. 4. Audite a plius aliquid quod movere debeat quodlibet durum pectus hominis christiani. Accusatur proditionis Rex noster: imponitur ei quod non sit Deus, sed falso simulaverit quod non erat. Quis in vobis est fidelis eius, surgat, defendat Dominum suum ab imposi-tae proditionis infamia; securum conflictum ineat, ubi sit et vincere gloria, et mori lu-crum. Quid, moramini, servi crucis? Quid dissimulatis vos, quibus nec robur corporum, nec terrena substantia deest. Suscipite signum crucis, et omnium, de quibus corde con-trito confessionem feceritis, plenam, indulgentiam delictorum hanc vobis summus Pon-tifex offert, vicarius eius cui dictum est: Quodcumque solveris super terra, erit solutum et in caelo. Suscipite munus oblatum, et ad irrecuperabilem indulgentiae facultatem al-

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ter alterum praevenire festinet. 5. Rogo et consulo, ne propria quisque negotia Christi negotio videat praeferenda, nec propter ea quae temporibus aliis potuerunt vel poterunt exerceri, illud omittat quod re-cuperari ultra non possit. Et ut noveritis quando, qua, quomodo sit eundum, paucis audi-te: in proximo Pascha profecturus est exercitus Domini, et pars non modica per Hunga-riam ire proposuit. Illud quoque statutum est ne quis aut variis aut griseis seu etiam seri-cis utatur vestibus, sed neque in equorum faleris auri vel argenti quippiam apponatur; tantum in scuto et ligno sellarum, quibus utentur, cum ad bella procedent, aurum vel ar-gentum apponi licebit his qui voluerint, ut refulgeat sol in eis et terrore dissipetur gen-tium fortitudo. Copiosius haec et latius prosequi oportuerat, nisi quod habetis apud vos dominum Moraviensem episcopum, virum sanctum, et doctum, quem exoratum volu-mus esse, ut secundum sapientiam, quae data est ei a Domino, diligentius super hoc universitatem vestram studeat exhortari. Exemplar quoque litterarum domini papae mi-simus vobis, cuius admonitionem intentissima debetis aure percipere et eius observare decreta. Valete.

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EPISTOLA CDLVII AD UNIVERSOS FIDELES

De expeditione in Terram Sanctam. Festum SS. Petri et Pauli indicit, quo die apud Magdeburgum sunt conventuri. Dominis et Patribus reverendis archiepiscopis ceterisque episcopis et principibus et uni-versis fìdelibus Dei, Bernardus Claravallensis vocatus abbas: spiritum fortitudinis et sa-lutis. Non dubito quin auditum sit in terra vestra, et celebri sermone vulgatum, quomodo su-scitaverit spiritum regum Deus et principum ad faciendam vindictam in nationibus et exstirpandos de terra christiani nominis inimicos. Magnum bonum, magna divinae mise-rationis ubertas! Verumtamen videt hoc malignus et invidet more suo; frendet dentibus et tabescit; multos amittit ex his quos variis criminibus et sceleribus obligatos tenebat: perditissimi quique convertuntur, declinantes a malo, parati facere bonum. Sed alium damnum veretur longe amplius de conversione gentium, curo audivit plenitudinem eo-rum introituram, et omnem quoque Israel fare salvandum. Hoc, ei nunc tempus immine-re videtur, et tota fraude satagit versuta malitia, quemadmodum obviet tanto bono. Su-scitavit proinde semen nequam, fìlios sceleratos, paganos, quos, ut pace vestra dixerim, nimis diu sustinuit christianorum fortitudo, perniciose insidiantes dissimulans, calcaneo suo nec conterens capita venenata. Sed quia dicit Scriptura: Ante ruinam exaltabitur cor, fiet ergo, Deo volente, ut eorum superbia crtms humilietur, et non propter hoc impedia-tur via Ierosolymitana; quia enim verbum hoc crucis parvitati nostrae Dominus evange-lizandum commisit, consilio domini Regis et episcoporum et principum, qui convene-rant Frankonovort, denuntiamus armari christianorum robur adversus illos, et ad delen-das penitus, aut certe convertendas nationes illas signum salutare suscipere, eamdem eis promittentes indulgentiam peccatorum quam et his qui versus Ierosolymam sunt profec-ti. Et multi quidem signati sunt ipso loco, ceteros autem ad opus simul provoro cavimus, ut qui ex christianis necdum signati sunt ad viam Ierosolymitanam, noverint eamdem sese indulgentiam hac adepturos expeditione, si tamen perstiterint in ea pro consilio epi-scoporum et principum. Illud enim omnimodis interdicimus, ne qua ratione ineant foe-dus cum eis, neque pro pecunia, neque pro tributo, donec, auxiliante Deo, aut ritus ipse, aut natio deleatur. Vobis sane loquimur archiepiscopis et coepiscopis vestris, opponite omnino, ut maximam super his geratis sollicitudinem, et quantumcumque potestis, stu-dium adhibeatis et diligentiam, ut viriliter fiat; et secundum Deum ministri Christi estis, et idcirco fiducialius a vobis exigitur, ut negotio eius, quod ad vos spectat, invigiletis. Nos quoque plurimum id rogamus et obsecramus in Domino. Erit autem huius exerci-tus, et in vestibus, et in armis, et phaleris ceterisque omnibus eadem quae et alterius ex-ercitus observatio, quippe quos eadem retributio munit. Placuit autem omnibus in Frankenevort congregatis quatenus exemplar istarum litterarum ubique portaretur, et episcopi atque presbyteri populo Dei annuntiarent, et eos contra hostes crucis Christi, qui sunt ultra Albi, signo sanctae crucis consignarent et armarent; qui nimirum omnes in festo apostolorum Petri et Pauli apud Magdeburg convenire debent.

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EPISTOLA CCCLXXX AD EUMDEM

De periculoso statu Ecclesiae Orientalis. Amantissimo patri et domino Sugerio, Dei gratia Beati Dionysii abbati, Bernardus, Cla-raevallis vocatus abbas: salutem et orationes quas potest in Domino. Verbum quod attulerunt Magister Templi et frater Ioannes tam laetus accepi quam id quod a Deo crederem processisse. Ipsa enim iam Orientalis Ecclesia tam miserabiliter clamat, ut quisquis non toto compatitur affectu, Ecclesiae fìlius non esse probetur. Ve-rum quam laetus de nuntio, tam tristis de angusto termino, ad quem vestrae dilectioni. occurrere omnino non potui. Siquidem promiseram domino Lingonensi ipsa die occur-rere ad colloquium, quod de magnis et gravibus negotiis fiducia nostri acceperat. Indi-cavi autem ipsis tempus, quando, si placet laetus occurram cum eodem Episcopo, qui multum poterit utilis esse colloquio.

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EPISTOLA CCCLXIV AD PETRUM ABBATEM CLUNIACENSEM

Invitat Petrum ad cunventum Carnotensem, ubi de auxilio Orientali Ecclesiae ferendo consultandum. Amantissimo patri Petro, Dei gratia venerabili Cluniacensi abbati, frater Bernardus de Claravalle: salutem, et quas potest orationes in Domino. 1. Gravem nimis ac miserabilem Orientalis Ecclesiae gemitum ad aures vestras, immo ad ipsa etiam penetralia cordis arbitrar pervenisse. Dignum quippe est ut secundum ma-gnitudinem vestram, magnum exhibeatis eidem vestrae et omnium fìdelium matri com-passionis affectum, praesertim tam vehementer afflictae, tam graviter periclitanti. Di-gnum, inquam, ut tanto amplius comedat vos zelus domus Dei, quanto ampliorem in ea locum, ipso auctore, tenetis. Alioquin si duramus viscera, si obduramus corda, si plagam hanc parvi pendimus nec dolemus super contritione, uhi nostra in Deum caritas, ubi di-lectio proximorum? Immo vero, si non satagimus; quanta possumus sollicitudine, consi-lium aliquod et remedium tantis malis tantisque periculis adhibere, quomodo non ingrati esse convincimur ei qui abscondit nos in die malorum in tabernaculo suo, iustius perin-de et vehementius puniendi, utpote tam divinae gloriae quam fraternae salutis negligen-tes? Haec vobis tam fiducialiter quam familiariter duximus suggerenda, oh gratiarh uti-que qua nostram indignitatem excellentia vestra dignatur. 2. Nam et patres nostri, episcopi Franciae, una cum domino Rege et principibus, tertia dominica post Pascha apud Carnotum venturi sunt, et de verbo hoc tractaturi, ubi utinam mereamur habere praesentiam vestram. Quia enim magnis omnino magnorum virorum consiliis, hoc verbum constat egere, gratum profecto obsequium praestabitis Deo, si ne-gotium eius a vobis non duxeritis alienum, sed caritatis vestrae zelum probaveritis, in opportunitatibus, in tribulatione. Nostis enim, pater amantissime, nostis, quoniam ami-cus in necessitate probatur. Confidimus autem, quod magnum huic verbo proventum praesentia vestra praestabit, turo pro auctoritate sanctae Cluniacensis ecclesiae, cui Deo disponente praeestis, tum maxime pro sapientia et gratia quam vobis ipse donavit, ad utilitatem utique proximorum, et suum ipsius honorem. Qui vobis etiam mmc inspirare dignetur, ut non gravemini venire, et servis suis in nomine eius, et pro zelo ipsius nomi-nis congregandis, vestram admodum desiderabilem conferre praesentiam.

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EPISTOLA DXXI AD PETRUM ABBATEM CLUNIACENSEM

Eum hortatur ne a conventu absit qui de Terrae Sanctae negotio habebitur. Venerabili domino et amico carissimo Petto, Dei gratia Cluniacensi abbati, frater Ber-nardus, Claraevallis vocatus abbas: salutem et intimam dilectionem. Negotium Domini grande et grave apparuit in universa terra. Grande plane, quia rex caeli perdit terram suam, terram hereditatis suae, terram ubi steterunt pedes. Agitant manus suas inimici eius super montem filiae Sion, collem Ierusalem. Prope est ut aufe-ratur de terra lectulus floridus et decorus, in quo virgineus flos Mariae linteis et aroma-tibus conditus est, ut iam non sit sepulcrum eius gloriosum, sed ignominiosum ad perpe-tuam ignominiam fidei christianae. Minantur contaminare loca, prophetarum oraculis, Salvatoris miraculis insignita, consecrata Christi sanguine et conversatione. Quid erit hoc, nisi tollere fondamenta salutis nostrae, divitias populi christiani? De caelo respicit Dominus ut videat si est intelligens aut requirens eum, si sit qui doleat vicem eius; sed non est qui adiuvet. Intepuerunt corda principum; sine causa gladium portant: pellibus mortuorum animalium reconditus est, rubigini consecratus. Nec exerunt eum, cum Chri-stus patiatur, ubi et altera vice passus est, nisi quod tunc in uno angulo, nunc in toto saeculo molestior ista passio prospectatur. Recurrit et ad vos Filius Dei tamquam ad unum de maximis principibus suis domus suae. Homo enim iste nobilis qui abit in re-gionem longinquam multum vobis tam interioris quam exterioris substantiae suae com-misit, et neces est ut in necessitate sua sentiat auxilium et consilium vestrum. Nostis quod in Carnotensi conventu de negotio Dei aut parum aut nihil factum est. Ibi multum et expetita et expectata est praesentia vestra. Indictus est alius conventus apud regium Compendium idus Iulii, ubi vestram interesse sublimitatem et supplicamus et exigimus. Sic oportet fieri, sic exigit necessitas, et necessitas magna. De cetero Gau-cherium vestrum, nepotem Gaucherii nostri, immo et vestri, vestrae gratiae commenda-mus, iuvenem qui vos multum diligit tamquam alumnus vester. Sit de familiari familia-rior propter nos, ut semper noverit intercessionem nostram sibi aliquid accedisse. Salu-tat vos Nicholaus noster ut vester: vester est enim.

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EPISTOLA CCLVI AD DOMINUM PAPAM EUGENIUM

Excitat Eugenium ad suppetias Orientali Ecclesiae ferendas; nec abiciendum animum ob acceptam cladem in amissione civitatis Edessae. Miratur vero se Carnoti in ducem belli electum. 1. Non est leve verbum quod sonuit: triste satis et grave est. Et cui triste? Immo cui non triste? Soli filii irae iram non sentiunt, nec tristantur tristibus, sed laetantur et exsultant in rebus pessimis. De cetero communis tristitia est, quia communis est causa. Bene feci-stis iustissimum zelum nostrae Gallicanae Ecclesiae collaudando et corroborando aucto-ritate litterarum vestrarum. Non est, dico vobis, in causa tam generali et tam gravi tepide agendum, sed ne timide quidem. Legi apud quemdam sapientem: Non est vir fortis, cui non crescit animus in ipsa rerum difficultate. Ego autem dico fideli homini magis et in-ter flagella fidendum. Intraverunt aquae usque ad animam Christi, tacta est pupilla oculi eius! Exserendus est nunc uterque gladius in passione Domini, Christo denuo patiente, ubi et altera vice passus est. Per quem autem, nisi per vos? Petri uterque est, alter suo nutu, alter sua manu, quoties necesse est, evaginandus. Et quidem de quo minus videba-tur, de ipso ad Petrum dictum est: Converte gladium tuum in vaginam. Ergo suus erat et ille, sed non sua manu utique educendus. 2. Tempus et opus esse existimo ambos educi in defensionem Orientalis Ecdesiae. Cuius locum tenetis, zelum negligere non debetis. Quale est hoc, principatum tenere et mini-sterium declinare? Vox clamantis: Venio Ierosolymam iterum crucifigi. Ad quam vo-cem etsi alii tepidi, alii et surdi sint, successori Petri dissimulare non licet. Loquetur et ipse: Et si omnes scandalizati fuerint, sed non ego. Nec terrebitur damnis prioris exerci-tus, quibus magis risarciendis operam dabit. Numquid ideo non debet facere homo quod debet, quia Deus facit quod vult? Ego vero pro tantis malis, tamquam christianus et fide-lis, meliora sperabo, et omne gaudium aestimabo quod in varias tentationes incidimus. Revera panem doloris comedimus et potati sumus vino compunctionis. Quid diffidis, amice Sponsi, quasi non more suo vinum bonum servaverit usque adhuc benignus et sa-piens sponsus? Quis scit si convertatur et ignoscat Deus, et relinquat post se benedic-tionem? Et certe sic operari, sic iudicare superna divinitas solet: scienti loquor. Quando magna bona mortalibus provenerunt, quae non magna praevenerint mala? Nam, ut cete-ra taceam, nonne illud unicum et singulare beneficium nostrae salutis praecessit mors Salvatoris? 3. Tu ergo, amice Sponsi, amicum te in necessitate probato. Si triplici illo amore, de quo tuus interrogatus est praedecessor, tu quoque toto corde, tota anima, tota virtute Chri-stum diligis, ut oportet, nihil reservabis, nihil dissimulabis in tanto periculo sponsae eius; sed quidquid habes virium, quidquid zeli, quidquid sollicitudinis, quidquid auctori-tatis, quidquid potestatis, impendes. Singulare periculum singularem exigit operam. Fundamentum concutitur, et tamquam imminenti ruinae totis est nisibus occurrendum. Et haec propter vos, fidenter quidem, sed fideliter dicta. 4. De cetero verbum illud quod iam, ni fallar, audistis: quomodo videlicet in Carnotensi conventu, - quonam iudicio satis miror -, me quasi in ducem et principem militiae elegerunt, certum sit vobis nec consilii mei, nec voluntatis meae fuisse vel esse, sed nec

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possibilitatis meae, quantum metior vires meas, pervenire usque illuc. Quis sum ego, ut disponam castrorum acies, ut egrediar ante facies armatorum? Aut quid tam remotum a professione mea, etiam si vires suppeterent, etiam si peritia non deessset? Sed neque hoc meum est vestram docere sapientiam: nostis haec omnia. Tantum obsecro per illam caritatem, qua mihi specialiter debitor estis, ne me humanis voluntatibus exponatis, sed, sicut singulariter vobis incumbit, divinum consilium perquiratis, et operam detis ut, sicut fuerit voluntas in caelo, sic fiat.

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EPISTOLA CCLXXXIX AD REGINAM IEROSOLYMORUM

Instruit eam quomodo se gerat, ut probae viduae coram Dea, et reginae coram homini-bus partes impleat. Dilectae in Christo filiae Milisendi, reginae Ierosolymorum, Bernardus, Claraevallis vo-catus abbas: misericordiam a Deo salutari suo. 1. Miror quod a multo iam tempore non vidimus litteras tuas, non solitas salutationes habuimus, quasi nos obliti simus antiquae tuae erga nos devotionis, quam in multis pro-bavimus. Audivimus, fateor, nescio quae sinistra, quae, etsi non pro certo credidimus, doluimus tamen sivè veritate, sive mendacio tuam aliquatenus decolorati opinionem. Sane intervenit Andreas carissimus avunculus meus, cui in nullo decredere possumus, scripto suo nobis significans meliora, quod scilicet pacifice et mansuete te habeas, sa-pienter et consilio sapientum te et tua regas, fratres de Templo diligas et familiares ha-beas, periculis imminentibus terrae, secundum sapientiam tibi a Deo datam, salutaribus consiliis et auxiliis provide et sapienter occurras. Talia prorsus, talia decent opera mulie-rem fortem, humilem viduam, sublimem reginam. Neque enim, quia regina es, indi-gnum tibi viduam esse, quod, si voluisses, non esses. Puto quod et gloria tibi est, praecipue inter christianos, non rninus vivere viduam quam reginam. Illud successionis est, hoc virtutis: illud tibi ex genere, istud ex munere Dei; illud feliciter nata es, hoc viri-liter nacta. Duplex honor: alter secundum saeculum, alter secundum Deum, uterque a Deo. Nec parvus tibi videatur honor viduitatis, de quo Apostolus: Honora, inquit, vidu-as, quae vere viduae sunt. 2. Habes certe penes teipsam familiare commonitorium apostolicae iterum salutaris sen-tentiae, qua doceris ab eo providere bona, non tantum coram Deo, sed etiam coram hominibus. Coram Deo, ut vidua; coram hominibus, ut regina. Attende reginam, cuius digna indignave non possunt latere sub modio. Super candelabrum sunt, ut appareant omnibus. Memento viduam, cui iam non est quod velit piacere viro, ut soli possit piace-re Deo. Beata es, si Salvatorem ponas tibi murum ad protectionem conscientiae, et an-temurale ad repulsionem infamiae. Beata, inquam, si veluti desolatam et viduam totam te Deo regendam comtniseris. Alioquin bene non regis, si bene non regeris. Regina Au-stri venit audire sapientiam Salomonis, ut regi disceret, et sic regere sciret. Et ecce plus quam Salomon hic: Iesum loquor et hunc crucifixum. Huic te committe regendam, huic docendam, quomodo regere debeas. Disce, tamquam vidua, quod sit mitis et humilis corde; disce, tamquam regina, quod iudicet in iustitia pauperes et arguat in aequitate pro mansuetis terrae. Ergo cum cogitas dignitatem, attende et viduitatem, quia, ut pure apud te quod sentio proferam, non potes esse regina bona, si bona non fueris vidua. Quaeris unde bona vidua aestimetur? Ex his profecto quae Apostolus dicit: Si filios edu-cavit, si hospitio recepit, si sanctorum pedes lavit, si tribulationem patientibus submini-stravit, si omne opus bonum subsecuta est. Si haec facis, beata es et bene tibi erit. Bene-dicat tibi Dominus ex Sion, eximia in Domino fìlia et omni veneratione digna. Admoni-tio praemissa est; prosecutio iam a vestra dignatione exspectatur. Occasio data est: ex-cusatio iam non admittitur, si non renovata a nostra parte familiaritas, familiaribus deinceps a vobis verbis et litteris frequentetur.

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EPISTOLA CCLXXXVIII AD ANDREAM AVUNCULUM SUUM, MILITEM TEMPLI

Infelicem exitum sacrae expeditionis dolet; avunculi adventum optat. 1. Litterae tuae, quas novissime transmisisti, invenerunt me in lectulo decumbentem. Accepi eas obviis manibus; libenter legi, libenter relegi, sed libentius te vidissem. Legi in illis desiderium tuum videndi me, legi et metum tuum pro periculo terrae, quam Do-minus sua praesentia honoravit; periculo civitatis, quam suo sanguine dedicavit. Vae principibus nostris! In terra Domini nihil boni fecerunt: in suis, ad quas velociter redie-runt, incredibilem exercent malitiam, et non compatiuntur super contritione Ioseph. Po-tentes sunt ut faciant mala, bonum autem facere nequeunt. Confidimus autem quia non repellet Dominus plebem suam et hereditatem suam non derelinquet. Porro dextera Domini faciet virtutem et brachium suum auxiliabitur ei, ut cognoscant omnes quia bo-num est sperare in Domino quam sperare in principibus. Bene facis formicae te compa-rans. Quid enim aliud quam formicae quique terrigenae et filii hominum sumus, rebus inutilibus atque inanibus insudantes? Quae autem abundantia homini de universo labo-re, quo laborat ipse sub sole? Ergo ascendamus super solem et conversatio nostra in caelis sit, iam mente praecedentes quo sumus et corpore secuturi. Ibi, mi Andrea, ibi fructus iaboris tui; ibi retributio tua. Sub sole militas, sed sedenti super solem. Rie mili-tantes, inde donativa exspectemus. Merces militiae nostrae non de terra, non de deorsum est; procul et ab ultimis finibus pretium eius. Sub sole penuria est; super solem abun-dantia est. Mensuram bonam, et confertam, et coagitatam, et superfeffluentem dabunt in sinus nostros. 2. Desideras me videre, et de meo, ut scribis, arbitrio desiderii tui pendet effectus. Nam mandatum super hoc meum te indicas exspectare. Et quid dicam tibi? Et cupio ut venias, et timeo ne venias. Ita inter velie et nolle positus, coarctor e doubus; et quid eligam, ignoro. Unum, ne videlicet tuo satisfaciam desiderio, et meo pariter: an credam magis celebri de te opinioni, qua terrae ita pernecessarius praedicaris, ut de tua absentia non mediocris illi desolatio imminere credatur. Itaque quod mandare non audeo, opto tamen ut te videam antequam moriar. Tu melius id videre et cognoscere potes, si quo modo si-ne damno et sine scandalo illius gentis venire possis. Et fieri posset quod adventus tuus omnino non esset inutilis. Forte, favente Deo, non deessent qui te sequerentur reverten-tem ad subveniendum Ecclesiae Dei, quoniam omnibus notus es et dilectus. Potest face-re Deus, ut et tu cum sancta patriarcha Iacob loquaris: In baculo meo transivi Iordanem istum, et ecce cum tribus turmis regredior. Unum dico: si venturus es, ne tardaveris, ne forte venias et non me invenias. Ego enim delibor, nec puto me longum facere super ter-ram. Quis mihi tribuat tua, in voluntate Domini, amabili et dulci praesentia vel paulum refrigerati, priusquam abeam? Reginae scripsi, sicut voluisti, et gaudeo de bono testi-monio quod ei perhibes. Magistrum et fratres vestros omnes de Templo, necnon et eos de Hospitali, per te in Domino salutamus. Inclusos quoque et sanctos omnes, ad quos opportune loqui poteris, per te in Domino salutantes, eorum nos orationibus commen-damus. Esto pro me ad eos. Girardum nostrum, qui in domo nostra aliquando conversa-tus est et nunc, ut audivimus, episcopus factus est, et ipsum affectu magno devotissime salutamus.

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DE CONSIDERATIONE AD EUGENIUM PAPAM

LIBER II APOLOGIA SUPER CONSUMPTIONEM IEROSOLYMITARUM

1. Memor promissi mei, quo ecce iam aliquamdiu teneor apud te, vir optime, Papa Eu-geni, volo ipso absolvere me vel sero. Puderet dilationis, si mihi conscius forem incuriae aut contemptus. Non ita est; sed incidimus, ut ipse nosti, tempus grave, quod et ipsi paene vivendi usui videbatur indicere cessationem, nedum studiis, cum Dominus scili-cet, provocatus peccatis nostris, ante tempus quodammodo visus sit iudicasse orbem ter-rae, in aequitate quidem, sed mi.sericordiae suae oblitus. Non pepercit populo suo, non suo nomini. Nonne dicunt in gentibus: Ubi est Deus eorum? Nec mirum. Ecdesiae filii, et qui christiano censentur nomine, prostrati sunt in deserto, aut interfecti gladio, aut fame consumpti. Effusa est contentio super principes, et Dominus errare fecit eos in in-vio et non in via. Contritio et infelicitas in viis eorum; pavor et maeror, et confusio in penetralibus regum ipsorum. Quam confusi pedes annuntiantium pacem, annuntiantium bona! Diximus: «Pax», et non est pax; promisimus bona, et ecce turhatio, quasi vero temeritate in opere isto aut levitate usi simus. Cucurrimus plane in eo, non quasi in in-certum, sed te iubente, immo per te Deo. Quare ergo ieiunavimus, et non aspexit, humi-liavimus animas nostras, et nescivit? Nam in his omnibus non est aversus furor eius, sed adhuc manus eius extenta. Quam patienter interim adhuc audit voces sacrilegas et Ae-gyptios blasphemantes, quia callide eduxit cos, ut ocdderet in deserto? Et quidem iudica Domini vera, quis nesciat? At iudicium hoc abyssus tanta, ut videar mihi non immerito pronuntiare beatum, qui non fuerit scandalizatus in eo. 2. Et quomodo tamen humana temeritas audet reprehendere quod minime comprehende-re valet? Recordemur supernorum iudiciorum, quae a saeculo sunt, si forte sit consola-tio. Nam quidam ita dixit: Memor fui iudiciorum tuorum a saeculo Domine, et consola-tus sum. Rem dico ignotam nemini, et nunc nemini notam. Nempe sic se habent mor-talium corda: quod scimus cum necesse non est, in necessitate nescimus. Moyses, educturus populum de terra Aegypti, meliorem illls pollicitus est terram. Nam quando ipsum aliter sequeretur populus, solam sapiens terram? 1 Eduxit; eductos tamen in ter-ram, quam promiserat, non introduxit. Nec est quod ducis temeritati imputaci queat tristis et inopinatus eventus. Omnia faciebat Domino imperante, Domino cooperante et opus confirmante, sequentibus signis. «Sed populus ille», inquis, «durae cervicis fuit, semper contentiose agens contra Dominum et Moysen servum eius». Bene: illi increduli et rebelles; hi autem quid? Ipsos interroga. Quid me dicere opus est, quod fatentur ipsi? Dico ego unum: quid poterant proficere, qui semper revertcbantur, cum ambularent? Quando et isti per totam viam non redierunt corde in Aegyptum? Quod si illi ceciderunt et perierunt propter iniquitatem suam, miramur istos eadem facientes, eadem passos? Sed numquid illorum casus adversus promissa Dei? Ergo nec istorum. Neque enim ali-quando promissiones Dei iustitiae Dei praeiudicant. Et audi aliud. 3. Peccavit Beniamin: accinguntur reliquae tribus ad ultionem, nec sine nutu Dei. Deni-que ipse designavit ducem praellaturis. Itaque praeliantur, fred et manu validiori, et cau-sa potiori et, quod his maius est, favore divino. At quam terribilis Dcus in consiliis su-per filios hominum! Terga dedere sceleratis ultores sceleris, et paucioribus plures. Sed recurrunt ad Dominum, et Dominus ad eos: Ascendite, inquit. Ascendunt denuo, denuo-

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que fusi et confusi sunt. Ita Deo primum quidem favente, secundo et iubente, iusti iu-stum certamen ineunt, et succumbunt. Sed quo inferiores certamine, eo fide superiores inventi sunt. Quid putas de me facerent isti, si meo hortatu iterato ascenderent, iterato succumberent? Quando me audirent monentem tertio repetere iter, repetere opus, in quo semel iam et secundo frustrati forent? Et tamen Israelitae, unam et alteram non reputan-tes frustrationem, tertio parent, et superant. Sed dicunt forsitan isti: «Unde scimus quod a Domino sermo egressus sit? Quae signa tu facis, ut credamus tibi?». Non est quod ad ista ipse respondeam: parcendum verecundiae meae. Responde tu pro me et pro te ipso, secundum ea quae audisti et vidisti, aut certe secundum quod tibi inspiraverit Deus. 4. Sed forte miraris me prosequi ista, qui aliud proposueram. Facio non oblitus proposi-ti, sed quod a proposito non iudicem aliena. Nempe de consideratione, ut memini, sermo mihi ad tuam dignationem. Et sane magna ista res, et egens consideratione non minima. Quod si res magnas a magnis considerari oportet, cui aeque ut tibi id studil competit, qui parem super terram non habes? Sed tu, secundum sapientiam et potestatem datam tibi desuper, facies de hoc. Non est meae humilitatis dictare tibi sic vel sic fieri quidquam. Sufficit intimasse oportere aliquid fieri, unde et Ecclesia consoletur, et obstruatur os lo-quentium iniqua. Haec pauca vice apologiae dieta sint, ut ipsa qualiacumque habeat conscientia tua ex me, unde habeat me excusatum et te pariter, etsi non apud eos qui facta ex eventibus aestimant, certe apud teipsum. Perfecta et absoluta cuique excusatio, testimonium conscientiae suae. Mihi pro minimo est ut ab illis iudicer, qui dicunt bo-num malum et malum bonum, ponentes lucem tenebras et tenebras lucem. Et si necesse sit unum fieri e duobus, malo in nos murmur hominum quam in Deum esse. Bonum mi-hi, si dignetur me uti pro clypeo. Libens excipio in me detrahentium linguas maledicas et venenata spicula blasphemorum, ut non ad ipsum perveniant. Non recuso inglorius fieri, ut non irruatur in Dei gloriam. Quis mihi det gloriari in voce illa: Quoniam propter te sustinui opprobrium, operuit confusio faciem meam? Gloria mihi est, consortem fieri Christi, cuius illa vox est: Opprobria exprobrantium tibi ceciderunt super me. Nunc iam recurrat stilus ad suam materiam, et in ea quae proposueramus, suo tramite gradiatur oratio.

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LIBER TERTIUS UT HAERETICOS CORRIGAT, GENTILES CONVERTAT,

AMBITIOSOS REPRIMAT Recordare nunc vocis illius: Sapientibus et insipientibus debitor sum. Et si non indebi-tam tibi ipsam censes, hoc quoque simul memento, debitoris molestum nomen servienti potius quam dominanti congruere. Servus in Evangelio audit: Quantum debes domino meo? Ergo si te agnoscis sapientibus et insipientibus, non dominatorem, sed debitorem, curandum summopere tibi, et tota vigilantia considerandum, quomodo et qui non sa-piunt sapiant, et qui sapiunt non desipiant, et qui desipuere resipiscant. At nullum genus insipientiae infìdelitate, ut sic loquar, insipientius. Ergo et infidelibus debitor es, Iudae-is, Graecis et Gentibus. 3. Interest proinde tua dare operam quam possis, ut increduli convertantur ad fidem, conversi non avertantur, aversi revertantur, porro perversi ordinentur ad rectitudinem, subversi ad veritatem revocentur, subversores invictis rationibus convincantur, ut vel emendentur ipsi, si fieri potest, vel, si non, perdant auctoritatem facultatemque alios subvertendi. Non omnino et ab hoc insipientium genere pessimo tibi dissimulandum. Dico autem haereticos schismaticosque, nam hi sunt subversi et subversores, canes ad scissionem, vulpes ad fraudem. Erunt, inquam, huiusmodi maxime tuo studio aut corri-gendi, ne pereant, aut, ne perimant, coercendi. Esto, de Iudaeis excusat te tempus: ha-bent terminum suum qui praeveniri non poterit. Plenitudinem gentium praeire oportet. Sed de ipsis gentibus quid respondes? Immo quid tua consideratio respondet tibi per-cunctanti sic? Quid visum est patribus ponere metam Evangelio, verbum suspendere fi-dei, donec infidelitas durat? Qua ratione, putamus, substitit velociter currens sermo? Quis primus inhibuit hunc salutarem cursum? Et illis causa forte, quam nescimus, aut necessitas potuit obstitisse. 4. Nobis quae dissimulandi ratio est? Qua fiducia, qua conscientia Christum non vel ofierimus eis qui non habent? An veritatem Dei in iniustitia detinemus? Et quidem quandoque perveniat gentium plenitudo necesse est. Exspectamus ut in eas incidat fides? Cui credere casu contigit? Quomodo credent sine praedicante? Petrus ad Corneli-um, Philippus ad Eunuchum missi sunt et, si exemplum recentius quaerimus, Augusti-nus, a beato Gregorio destinatus, formam fidei tradidit Anglis. Et de his tu ita tecum.

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Francesco D'Angelo

Da «rudes in fide» a devoti cristiani: aspetti della devozione

popolare in Norvegia tra XI e XIII secolo

[«Archivio italiano per la storia della pietà», 30 (2017), pp. 139-175, estratto]

Con la conversione al cristianesimo, avvenuta tra i secoli X e XI, la società

norvegese fu gradualmente e progressivamente trasformata mediante l'introduzione,

l'adozione, e a volte l'imposizione, di nuove forme di religiosità e di devozione. Nelle

pagine che seguono, tale processo verrà esaminato in un arco cronologico di circa

duecento anni e in relazione a tre espressioni tipiche della devozione cristiana (non solo)

medievale: il culto dei santi e delle reliquie, i pellegrinaggi e le crociate1.

La Norvegia e il movimento crociato

Con il suo appello al concilio di Clermont-Ferrand (1095), papa Urbano II (1088-

1099) mobilitò le folle cristiane per la liberazione di Gerusalemme dal dominio

musulmano: è l'inizio del movimento crociato, che si strutturerà e si istituzionalizzerà

nel corso dei decenni successivi2. La storiografia recente ha gradualmente riconsiderato

il posto occupato dagli scandinavi all'interno di questo movimento e negli ultimi anni,

con l'allargamento degli studi oltre l'area mediorientale fino al Baltico e all'Europa

dell'est, è stata definitivamente accantonata l'immagine delle crociate come un

fenomeno mediterraneo di cui i popoli nordici sarebbero stati quasi esclusivamente

spettatori passivi3.

1 Tutte le traduzioni sono mie salvo dove diversamente specificato. Nelle citazioni dal norreno il grafema ð/Ð indica la spirale dentale sonora come nell’inglese that; il grafema þ/Þ rappresenta la spirale dentale sorda come nell’inglese three. Abbreviazioni utilizzate: DN: Diplomatarium Norvegicum, eds. C.C.A. Lange et al., voll. I-, Christiania (Oslo) 1849-; DS: Diplomatarium Suecanum, ed. J.G. Liljegren, I, Stockholm 1829. 2 Sulle crociate, che sotto molteplici aspetti erano assimilabili a dei pellegrinaggi armati, oltre al classico di S. Runciman, Storia delle crociate, 2 voll., Torino, Einaudi, 2002 (ed. or. Cambridge, Cambridge University Press, 1951-1954), segnalo il recente volume di C. Tyerman, Le guerre di Dio: nuova storia delle crociate, Torino, Einaudi, 2012 (ed. or. London, Penguin, 2007). 3 Sul tema, oltre alla pionieristica opera di P. Riant, Expéditions et pélerinages des Scandinaves en Terre Sainte au temps des croisades, Paris 1865, si veda G.B. Doxey, Norwegian crusaders and the Balearic Islands, «Scandinavian Studies», 68 (1996), pp. 139-160; J. Møller Jensen, Denmark and the Holy War: a

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La presenza di crucesignati scandinavi è attestata sin dal tempo della prima crociata

(1096): secondo l'inglese Guglielmo di Malmesbury, che scrisse attorno al 1125,

spronati dall'appello di Urbano II «tunc Danus continuationem potuum, tunc Noricus

cruditatem reliquit piscium»4, mettendosi in cammino per Gerusalemme; la notizia è

confermata dagli Annales regii islandesi (metà XIV secolo), secondo i quali in

quell’anno «hófz Jorsalaferð af Norðrlöndum»5. Per tutto il XII secolo la partecipazione

dei Norvegesi al movimento crociato è ben documentata: nel 1110 una flotta al

comando di re Sigurðr Magnússon, dopo aver attraversato il Mediterraneo passando da

Gibilterra, approdò a Giaffa, visitò Gerusalemme e i luoghi santi e infine aiutò re

Baldovino I a conquistare Sidone, prima di ripartire alla volta di Costantinopoli, dove

Sigurðr fu ospite dell’imperatore Alessio I Comneno6. Nel 1153 Rögnvaldr Kali

Kolsson, conte delle Orcadi, e il norvegese Eindriði il Giovane partirono seguendo un

itinerario in parte identico a quello di re Sigurðr: essi navigarono nell'Atlantico e poi nel

Mediterraneo fino a San Giovanni d'Acri, quindi visitarono Gerusalemme e il Giordano,

poi raggiunsero Costantinopoli e passarono in Bulgaria, da dove si imbarcarono per la

Puglia; finalmente, dopo aver visitato Roma, ripresero la via di casa7. Sappiamo inoltre

che la terza crociata (1189-1192), proclamata da papa Gregorio VIII con la bolla Audita

tremendi (29 ottobre 1187), fu predicata anche in Scandinavia: l'anonima Historia de

profectione Danorum in Hierosolymam, composta attorno al 1200 da un canonico

premonstratense norvegese del monastero di Túnsberg, racconta di una lettera papale

altrimenti sconosciuta, la Quoniam divina patientia, inviata da Gregorio VIII

all'indomani della caduta di Gerusalemme8. In Norvegia l'appello fu accolto da un

redefinition of a traditional pattern of conflict 1147-1169, in J. Adams - K. Holman (eds.), Scandinavia and Europe 800-1350. Contact, conflict and coexistence, Turnhout, Brepols 2004, pp. 219-236. 4 «Allora i Danesi abbandonarono il loro continuo bere, i Norvegesi il loro pesce crudo»: William of Malmesbury, Gesta Regum Anglorum, ed. and tr. by R. A. B. Mynors, vol. I, Oxford, Clarendon Press, 1998, IV:348, pp. 606-607. 5 «Ebbe inizio il viaggio gerosolimitano dalle terre del nord»: Islandske Annaler, p. 110. 6 Sull'impresa di Sigurðr «viaggiatore di Gerusalemme» si veda Riant, Expéditions et pélerinages, pp. 173-215; Doxey, Norwegian crusaders; Ármann Jakobsson, Image is everything: the Morkinskinna account of King Sigurðr of Norway's journey to the Holy Land, «Parergon», 30 (2013), pp. 121-140. 7 Su questa spedizione si veda Riant, Expéditions et pélerinages cit., pp. 244-264; Cucina, Il pellegrinaggio nelle saghe, pp. 109-112; A. Nedkvitne, Why did medieval norsemen go on crusade?, in Medieval history writing and crusading ideology, ed. T.M.S. Lehtonen et al., Tampere, Finnish Literature Society, 2005, pp. 37-50: 39-47. 8 Historia de profectione Danorum in Hierosolymam, in Scriptores minores historiae Danie medii aevi, ed. M.C. Gertz, København, G.E.C. Gad, 1917-1920, II, pp. 457-492: 463-464. Benché condivida le tematiche della Audita tremendi e di altre bolle papali, il testo di questa lettera non corrisponde letteralmente a quello della bolla di Gregorio VIII e lo stesso autore della Profectio afferma di aver

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gruppo di uomini comandati da un certo Ulf di Lauvnes, che salparono probabilmente

nel 1190-1191 e, fra mille peripezie e avversità, arrivarono in Terrasanta solo dopo la

firma della tregua tra il Saladino e Riccardo I d'Inghilterra (21 settembre 1192): non

avendo più possibilità di ingaggiare battaglia con i saraceni, essi visitarono i luoghi

santi prima di intraprendere la via del ritorno, alcuni passando per Roma, altri per

Costantinopoli e l'Ungheria9.

Nel Duecento le notizie sui crociati norvegesi si fanno molto più frammentarie ed

episodiche: alcuni annali islandesi registrano, nell'anno 1211, la partenza di Pétr stéypir

(«fonditore») e Reiðarr sendimaðr («messaggero») per Gerusalemme10, ma su di loro

sappiamo soltanto che il primo perse la vita durante il tragitto, mentre il secondo

raggiunse Gerusalemme e in seguito si mise al servizio dell'imperatore di

Costantinopoli, città in cui infine morì nel 121411. Da una lettera di papa Onorio III,

datata 6 marzo 1217, sappiamo poi che in Norvegia re Ingi Bárðarson (1204-1217)

aveva preso la croce ed era stato posto sotto la protezione della Sede apostolica12: la

morte improvvisa, tuttavia, gli impedì di adempiere il suo voto; nell'estate di quello

stesso anno, comunque, alcuni contingenti si unirono ai frisoni e ai danesi in partenza

per la quinta crociata (1217-1221)13. Nei decenni successivi la partecipazione dei

semplicemente riassunto l'appello del pontefice (verba hanc summam continentia): K. Skovgaard-Petersen, A journey to the Promised Land. Crusading theology in the Historia de profectione Danorum in Hierosolymam (c. 1200), Copenhagen, Museum Tusculanum Press, 2001, pp. 27-37. 9 Historia de profectione Danorum, cap. 18-27, pp. 482-492. Peraltro nell'agosto del 1189, nell'ambito delle operazioni militari successive alla conquista di Gerusalemme da parte del Saladino (2 ottobre 1187), dei crociati norvegesi si erano uniti all'esercito di Guido di Lusignano, re di Gerusalemme, e avevano posto l'assedio ad Acri, anch'essa caduta in mano ai musulmani. La loro presenza è suggerita dal Chronicon di Burcardo di Ursberg (c. 1230), che segnala l'arrivo ad Acri di guerrieri Daci e Normanni: il riferimento è chiaramente ai Danesi e ai Norvegesi e non ai Normanni di Sicilia, poiché subito dopo Burcardo li associa alle altre gentes insularum, que inter occidentem et septentrionem site sunt, e che si spostavano su navi chiamate bisnachie, latinizzazione del norreno snekkja: Die Chronik des Propstes Burchard von Ursberg, hrsg. O. Holder-Egger, B. von Simson, MGH SS rer. Germ. XVI, Hannover - Leipzig, Hahnsche buchhandlung, 1916, p. 61. 10 Islandske annaler indtil 1578, udg. G. Storm, Christiania (Oslo), Grøndahl & Son, 1888, pp. 123, 182. 11 La fonte sono le Böglunga sögur o saghe dei Baglar (1210/1217 circa), incentrate su una delle fazioni che al volgere tra XII e XIII si scontrarono per il controllo della Norvegia. Il nome Baglar deriva da bagall, "bastone", cioè il pastorale del vescovo, un riferimento alla loro alleanza con la Chiesa: Bǫglunga sǫgur, in Fornmanna sögur IX, ed. F. Magnússon, Kaupmannahöfn 1835, p. 193. La notizia della morte di Reiðarr è negli annali islandesi: Islandske annaler, pp. 124, 183. 12 DN I, n° 4, p. 4. 13 Riant, Expéditions et pélerinages, pp. 319-320; P.B. Svenungsen, Norway and the fifth crusade. The crusade movement on the outskirts of Europe, in The fifth crusade in context. The crusading movement in the early thirteenth century, ed. E.J. Mylod et al., London, Routledge, 2017, pp. 218-230. Dalla Saga di Hákon Hákonarson sappiamo che le navi norvegesi si divisero e che alcune giunsero ad Acri, mentre altre approdarono a Damietta insieme al grosso dell'esercito crociato: Sturla Þórðarson, Hákonar saga Hákonarsonar, cap. 30, p. 33.

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norvegesi rimase sostanzialmente confinata alla sfera delle intenzioni, anzi tra il 1220 e

il 1240, nel contesto del conflitto tra il duca Skúli Bárðarson (†1240), un pretendente al

trono, e re Hákon Hákonarson (1217-1263), la promessa della crociata sembra essere

stata usata dai due contendenti per accattivarsi le simpatie e il sostegno dei papi14. Nel

1248 Hákon fu esortato nuovamente, questa volta da Luigi IX di Francia (1226-1270),

che tramite l'inglese Matthew Paris (in quel momento in Norvegia per riformare il

monastero benedettino di Nidarholm) fece pervenire al monarca norvegese l'invito a

recarsi cum ipso in Terram Sanctam, e si dichiarò disposto ad affidargli, quia in mari

potens est et peritus, totius navigii sui dominium, regimen et potestas15. Hákon, pur

ringraziando per un simile onore, disse di dover a malincuore rifiutare la proposta a

causa dell'incompatibilità esistente tra i due eserciti: il carattere dei francesi mal si

accordava con quello dei norvegesi, gens impetuosa et indiscreta, insofferente verso le

ingiustizie di qualsiasi tipo e soprattutto verso le discussioni; c'era perciò il rischio che

insorgessero contrasti tra i due gruppi con grave pregiudizio per l'intera spedizione.

Meglio era che ciascuno procedesse per conto proprio, et quod Domino disposuerit,

faciat; a ogni modo Hákon, volendo comunque rassicurare l'altro della sua buona fede,

chiese delle litterae patentes che garantissero ai suoi uomini libero passaggio e

approvvigionamento sul suolo francese, cosa che Luigi concesse prontamente16.

Nonostante queste parole, Hákon probabilmente non ebbe mai intenzione di partire per

l'Oriente e cercò piuttosto di servirsi della crociata per trattenere per sé la decima Terrae

sanctae, di cui poteva disporre grazie a un privilegio di Innocenzo IV del 124717.

14 Il duca si dichiarò pronto a partire una prima volta attorno al 1220, facendo sì che Onorio III prendesse la sua persona e tutti i suoi beni sotto la protezione della Santa Sede (DN I, n° 6, p. 6), e una seconda volta nel 1226, ottenendo di poter trattenere parte delle rendite ecclesiastiche per allestire un esercito (ibidem, n° 10, pp. 8-9). Dal canto suo, re Hákon prese la croce nel 1237, come riportano gli annali islandesi: «Hákon konungr krossaðr» («Re Hákon prese la croce»): Islandske annaler, pp. 25, 65, 188, 327. Nel 1241 anche lui fu posto sotto la protezione apostolica, ricevendo il permesso di commutare il suo voto in una spedizione contro le popolazioni pagane limitrofe, probabilmente i Finni o Sami: DN I, n° 24, pp. 19-20. Il privilegio di Gregorio IX fu poi rinnovato da Innocenzo IV nel 1246 e nel 1252: ibidem, n° 33, 47, pp. 27, 35-36. 15 «Poiché è capace ed esperto sul mare, il dominio, il comando e il potere di tutta la sua flotta»: Matthew Paris, Chronica Majora, ed. H.R. Luard, London, Longman, 1872-1880, IV, p. 651. 16 Ibidem, pp. 651-652. 17 Il re ottenne il permesso di trattenere per tre anni un ventesimo delle rendite ecclesiastiche della provincia Nidrosiensis, con l'eccezione della diocesi di Hamar: DN I, n° 40, pp. 31. Ulteriori tentativi di coinvolgere il re norvegese si rivelarono sempre fallimentari: nel 1255 Alessandro IV, che stava pianificando una crociata contro Manfredi di Sicilia, conferì all’arcivescovo di Canterbury la potestà di sciogliere Hákon dal voto di crociata in cambio del suo aiuto militare in una eventuale spedizione congiunta con il re d'Inghilterra: DN XIX, n° 264, pp. 169-170. Infine, il 21 ottobre 1263, l'arcivescovo Einarr di Nidaros fu incaricato da Urbano IV (1261-1264) di svolgere in Norvegia una predicationem

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Nel 1147 papa Eugenio III aprì un nuovo fronte bellico per la cristianità: con la

bolla Divina dispensatione, infatti, autorizzò i cristiani dell'Europa del Nord a

combattere i loro vicini pagani nel Baltico (Vendi, Prussiani, Estoni e Livoni) invece di

dirigersi a Gerusalemme18. In questo scenario la Norvegia ebbe un ruolo assai defilato e

gli appelli papali ai sovrani norvegesi caddero sostanzialmente nel vuoto: nel 1171/1172

Alessandro III scrisse ai sovrani dei tre regni scandinavi esortandoli a prendere le armi

contro gli Estoni, tuttavia dalla Norvegia non giunse risposta19; nel 1243 Innocenzo IV

incaricò il priore provinciale dei Domenicani in Scandinavia di predicare in quei paesi

una crociata contro i pagani in Livonia e Prussia20, ma ancora una volta non abbiamo

notizie di contingenti norvegesi partiti nell'immediato, al punto che nel 1252 Innocenzo

si spinse oltre offrendo invano a re Hákon la sovranità sulla penisola di Samland,

qualora fosse riuscito a convertirne gli abitanti21. Le cause di questo apparente

disinteresse vanno ricercate nella situazione politica del Baltico orientale, una regione

contesa da una serie di potenze spesso concorrenti tra loro: la Danimarca di Valdemaro I

(1157-1182) e Valdemaro II (1202-1241), il regno di Svezia, i principi tedeschi e

l'ordine teutonico, con quest'ultimo in posizione di vantaggio dal punto di vista militare

ed economico; la Norvegia, dal canto suo, fu a lungo segnata dall'instabilità,

conseguenza delle guerre civili del XII e dell'inizio del XIII secolo. Ragioni

geopolitiche, inoltre, avevano sempre fatto sì che la direttrice espansionistica del regno

crucis pro Terre [sancte] subsidio, apparentemente senza successo: DN I, n° 56, p. 45-46. Gli appelli di Luigi IX e di Innocenzo IV ottennero comunque l'adesione di alcuni crucesignati norvegesi, come si deduce da una lettera del papa datata 29 novembre 1250: in essa Innocenzo informa il priore dei Domenicani e il ministro provinciale dei Francescani in Germania che tutti i crociati de partibus Frisie ac Norwagie devono congiungersi al prossimo passagium, organizzato da Bianca di Castiglia, madre di Luigi IX e reggente di Francia durante l'assenza del figlio: Les registres d'Innocent IV, ed. É. Berger, 4 voll., Paris 1884-1921, II, n° 4927, p. 161. 18 Sulle crociate del Nord rimando a E. Christiansen, Le crociate del Nord: il Baltico e la frontiera cattolica (1100-1525), Bologna, Il Mulino, 20082 (ed. or. London, Macmillan, 1980); I. Fonnesberg-Schmidt, The popes and the Baltic crusades, 1147-1254, Leiden, Brill, 2007; B. Bombi, 'Novella plantatio fidei'. Missione e crociata nel Nord Europa tra la fine del XII e i primi decenni del XIII secolo, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 2007. 19 DN XVII, n° 854, pp. 778-779. L'iniziativa papale fu probabilmente sollecitata dall'arcivescovo Eskil di Lund, direttamente coinvolto nell'evangelizzazione dei popoli baltici: I. Fonnesberg-Schmidt, Pope Alexander III (1159-1181) and the Baltic crusades, in Medieval history writing, pp. 242-256. 20 DS I, pp. 297-299; si veda anche Les registres d'Innocent IV, I, n° 162, p. 30. 21 DN I, n° 46, p. 35. Hákon non manifestò alcun interesse per l'impresa e la concessione papale fu vanificata dall'intervento di re Ottocaro II di Boemia nel 1254 e dalla definitiva sottomissione dei Prussiani (i Sambiti menzionati da Innocenzo IV) nel 1259 per mano dei Cavalieri Teutonici: Christiansen, Le crociate del Nord, p. 130.

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puntasse piuttosto a occidente e all'Atlantico settentrionale, dove la sua influenza si

estendeva su Orcadi, Shetland, Ebridi e Man22.

Le motivazioni che spingevano i crociati a partire potevano essere molteplici e non

sempre è possibile separare in maniera netta quelle di ordine spirituale da quelle

materiali23. Nel caso degli Scandinavi, diversi studiosi hanno messo in risalto come,

nelle saghe, la componente devozionale sia generalmente relegata in secondo piano

rispetto a quella mondana: è vero che, in tutti i resoconti, i viaggiatori visitano i luoghi

santi della Palestina, ma i temi dominanti sono le considerevoli ricchezze acquisite, la

fama guadagnata combattendo i saraceni e gli onori tributati ai signori norvegesi, ospiti

presso le corti dei più grandi sovrani della cristianità24. In fondo, con le loro storie di

battaglie e saccheggi in terre lontane, queste imprese - perlomeno sul piano letterario -

differiscono poco dalle spedizioni vichinghe dei secoli precedenti25. Nel XII secolo

l'attrattiva maggiore sembra essere stata esercitata dalla città di Costantinopoli e dalla

possibilità, per i guerrieri scandinavi, di fare carriera come mercenari (variaghi) nella

guardia imperiale, un corpo prestigioso in cui in passato avevano militato celebri

vichinghi come Haraldr lo Spietato, divenuto poi re di Norvegia26. Effettivamente la

capitale bizantina era una tappa onnipresente negli itinerari degli scandinavi in

Outremer: a soggiornarvi, tra gli altri, furono re Sigurðr Magnússon, il conte Rögnvaldr

e i protagonisti della Historia de profectione Danorum, anche se per questi ultimi, in

accordo con il tenore generale dell'opera, il significato prettamente secolare della visita

a Costantinopoli è sostituito dal racconto di un miracolo a cui assistettero i crociati

22 Proprio Hákon Hákonarson, così riluttante a impegnarsi in Terra santa e sul fronte orientale, fu invece molto attivo nel difendere gli interessi nazionali su quello occidentale: la Groenlandia e l'Islanda riconobbero la sua sovranità rispettivamente nel 1261 e nel 1262-1264, e nel dicembre del 1263 il re trovò la morte nel mezzo di una campagna militare contro il re di Scozia Alessandro III (1249-1286), che si era impadronito con la forza delle isole Ebridi. Sulla politica estera norvegese di questo periodo si veda Bagge, From Viking stronghold, pp. 85-92. 23 Sulle varie, possibili motivazioni dei crociati si veda ad esempio J. Flori, Le crociate, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 75-76 (ed. or. Paris, Gisserot, 2001). 24 Nedkvitne, Why did medieval Norsemen, pp. 39-45; J. Hill, Pilgrimage and prestige, pp. 433-453; Ármann Jakobsson, Image is everything, pp. 121-140. 25 Cucina, Il pellegrinaggio nelle saghe, p. 110; Del Zotto, Pellegrini e luoghi santi, p. 32. 26 Secondo la Saga dei figli di Magnús "Piedinudi", dedicata a Sigurðr e ai suoi due fratelli Eysteinn e Óláfr, all'origine della crociata di Sigurðr vi furono i racconti di alcuni pellegrini/crociati che erano stati prima a Gerusalemme e poi Costantinopoli, da dove erano tornati colmi di ricchezze e con una reputazione notevolmente accresciuta. Ciò generò un’ondata di entusiasmo in molti norvegesi, i quali, desiderosi di recarsi in oriente a cercare fortuna, chiesero che uno dei re si mettesse a capo della spedizione: Magnússona saga, cap. 11, in Snorri Sturluson, Heimskringla III, p. 238.

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giunti in città27. Questo legame speciale con l'Impero romano d'Oriente spiega

probabilmente perché dal Nord non giunsero rinforzi agli eserciti latini che nel 1204

assediarono e conquistarono Costantinopoli; al contrario, la guardia variaga, composta

da inglesi e danesi, si schierò in prima linea tra i difensori della capitale28. Proprio la

caduta di Costantinopoli in mani latine, che di fatto azzerò le opportunità di

arruolamento per i variaghi, fu verosimilmente una delle cause della sensibile

diminuzione del numero di crucesignati norvegesi nel corso del Duecento.

Le saghe dei re avevano un «carattere ibrido a metà tra storia e letteratura»29 ed

erano destinate a intrattenere un pubblico laico. È facile allora comprendere perché esse

prediligano gli aspetti più mondani dei viaggi e dei pellegrinaggi in Terrasanta; questo,

tuttavia, non esclude l'esistenza di motivazioni spirituali nei crociati del Nord. Ad

esempio la religiosità di re Sigurðr Jórsalafari è messa in luce dai cronisti latini a lui

contemporanei, secondo i quali egli espugnò Sidone ad Christianitatis gratiam30, e pro

amore Dei condusse il suo negotium Christi in Terra santa31, mosso dal desiderium

adorandi in Jerusalem32. L'Ágrip af Nöregskonungasögum (c. 1200) e la Morkinskinna,

una storia anonima dei re di Norvegia scritta attorno al 1220, sostengono poi che, in

vista del suo viaggio, Sigurðr avesse adottato anche delle misure penitenziali, come

facevano molti pellegrini e crociati in procinto di partire: egli infatti abolì leggi

oppressive e tasse onerose che gravavano sul suo popolo «at kaupa sér guðs miskunn ok

vinsæld við alþýðu»33. Inoltre una certa "teologia della crociata" era conosciuta anche

nella Norvegia della fine del XII secolo, dato che un'altra opera di matrice clericale, la

Historia de Profectione Danorum, include elementi tipici della letteratura crociata

27 Skovgaard-Petersen, A journey to the Promised Land, p. 13. 28 La presenza di inglesi e danesi tra i difensori di Costantinopoli è riportata dai cronisti Goffredo di Villehardouin e Roberto di Clari: si veda S. Blöndal, The Varangians of Byzantium, Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1978, pp. 63-67. 29 Del Zotto, Pellegrini e luoghi santi, p. 34. 30 William of Malmesbury, Gesta Regum Anglorum, vol. I, V:410, p. 740; 31 Fulcherio di Chartres, Historia Hierosolymitana, ed. H. Hagenmeyer, Heidelberg, Carl Winters Universitatsbuchhandlung, 1913, II:44, p. 546. 32 Albert of Aachen, Historia Ierosolimitana, ed. and trans. by S. B. Edgington, Oxford, Clarendon Press 2007, XI:26, p. 800. 33 «Per acquistare la misericordia di Dio e il favore del popolo»: Ágrip, cap. 52, p. 70. Secondo la Morkinskinna il re desiderava partire «per acquistare la misericordia di Dio e una buona fama», perciò abolì le leggi inique dei suoi predecessori: Morkinskinna, ed. Ármann Jakobsson, Þórdur Ingi Gudjónsson, Íslenzk fornrit 23-24, II, Reykjavík, Hið Íslenzka Fornritafélag, 2011, cap. 64, p. 71. Decisione analoga fu presa da un altro re crociato, Luigi IX di Francia, allorché, nel 1247, inviò nel suo regno degli inquirenti regi per indagare sulle ingiustizie commesse dagli agenti del re, porvi riparo e rendere giustizia a chi le aveva subite: Le Goff, San Luigi, p. 136.

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contemporanea34, mentre secondo Bjørn Bandlien alcuni discorsi pronunciati da Sverrir

Sigurðarson nella Sverris saga, in cui il re esorta i suoi uomini a essere moderati nel

bere, a non sedurre le donne e a non lasciarsi andare alla violenza immotivata,

lascerebbero supporre da parte dell'autore della saga una conoscenza del De laude

novae militie di Bernardo di Clairvaux (1128/1136) o perlomeno un'influenza della

nuova spiritualità degli ordini monastico-cavallereschi35: difatti per Sverrir «hermenn

skyldu vera hógværir í friði sem lamb, en í ófriði ágjarnir sem león»36, e uno dei suoi

sigilli, ora perduto, riportava proprio la legenda «ferus ut leo, mitis ut agnus»37, un

possibile richiamo alle parole di Bernardo, secondo il quale i milites Christi, ovvero i

Cavalieri Templari, erano agnis mitiores et leonibus ferociores38.

Nel complesso, dunque, le fonti lasciano trasparire motivazioni non troppo dissimili

da quelle degli altri crucesignati europei, ma al tempo stesso ci dicono che, nel XIII

secolo, il contributo norvegese si ridimensionò significativamente e che da parte delle

alte gerarchie laiche si fece un uso strumentale del voto di crociata, finalizzato a

instaurare buone relazioni con la Santa Sede e a trattenere per sé gli introiti derivanti

dalle decime.

Conclusioni

In base a quanto finora esposto, per il periodo preso in esame emerge con chiara

evidenza il contrasto tra la crescita dei pellegrinaggi e del culto dei santi e il declino del

movimento crociato. In merito ai primi, il quadro delineato dalle fonti è quello di una

vita religiosa inizialmente gravitante attorno alle chiese cattedrali e ai loro patroni

34 Skovgaard-Petersen, A journey to the Promised Land, pp. 19-77. 35 B. Bandlien, A new Norse knighthood? The impact of the Templars in late twelfth-century Norway, in Medieval history writing, pp. 175-184. I Templari comunque non fondarono alcuna casa in Scandinavia, dove l'ordine cavalleresco più diffuso fu quello degli Ospitalieri di San Giovanni, mentre i Cavalieri Teutonici ebbero una sola casa in Svezia (c. 1260); in Norvegia l'unica fondazione fu quella degli Ospitalieri a Varne (c. 1190): C. Carlsson, The religious orders of knighthood in medieval Scandinavia: historical and archaeological approaches, «Crusades», 5 (2006), pp. 131-142. 36 «I guerrieri in tempo di pace dovevano essere miti come agnelli, ma in guerra feroci come leoni»: Sverris saga, ed. Þorleifur Hauksson, Íslenzk fornrit XXX, Reykjavík, Hið Íslenzka Fornritafélag, 2007, cap. 104, p. 160. La saga fu scritta tra il 1185 e il 1210 circa. 37 La legenda del sigillo è riportata dall'inglese Guglielmo di Newburgh (c. 1198): Historia rerum Anglicarum, III, 6, in Chronicles of the reigns of Stephen, Henry II, and Richard I. Vol. I: The first four books of the Historia rerum Anglicarum of William of Newburgh, ed. R. Howlett, London, Longman, 1884, p. 232. 38 Bernardo di Clairvaux, Liber ad milites Templi. De laude novae militiae, IV, 8, a cura di C.D. Fonseca, in Opere di san Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, I: Trattati, Milano, Scriptorium Claravallense - Fondazione di studi cistercensi, 1984, pp. 425-483: 452-453.

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celesti; altri luoghi di culto minori, situati sia nelle città episcopali sia in località

periferiche, emergono solamente nella seconda metà del XIII secolo, in alcuni casi

favoriti dalla presenza di conventi francescani di fondazione relativamente recente. Su

tutti i santi - tanto locali quanto stranieri - troneggia indubbiamente la figura di

sant'Óláfr, il rex perpetuus, emblema della concordia tra regnum e sacerdotium e

simbolo di unità nazionale. Quello di Óláfr Haraldsson non è certamente l'unico caso di

santo patrono dinastico e nazionale nel medioevo: altri esempi sono quelli di Oswald

(†642) ed Edmondo (†869) per l'Inghilterra anglosassone, Stefano I (†1038) per

l'Ungheria, Canuto IV il Santo (†1086) e il duca Canuto Lavard (†1131) per la

Danimarca ed Erik IX (†1160) per la Svezia39. Diversamente dai re santi ora citati, il

patronato di Óláfr non è solamente spirituale ma si configura giuridicamente come una

regalità eterna, proclamata da uno dei suoi successori al trono, Magnús Erlingsson, nel

privilegio del 1163/1170. La preminenza di sant'Óláfr, unita alla concorrenza dei

numerosi santi stranieri introdotti in epoca missionaria e al fatto che a ciascuna

cattedrale (tranne quella di Hamar) fosse associato sin dalle origini un patrono speciale,

contribuisce a spiegare perché in Norvegia, nel medioevo, così pochi santi locali

(solamente tre) furono oggetto di una venerazione tanto diffusa. Infine il culto delle

reliquie, benché attestato già dall'XI secolo, inizia soprattutto nel secolo successivo -

complici gli ormai stabili contatti tra il regno scandinavo e il resto dell'Europa cristiana

- a espandersi e arricchirsi, anche sul piano liturgico con l'arrivo di reliquie appartenenti

a santi della Chiesa universale. In particolare le reliquie legate alla passione di Cristo

furono spesso doni di sovrani stranieri ai re e agli arcivescovi di Nidaros: ovvero, oltre

all'intrinseco valore devozionale, esse ebbero un ruolo determinante nella creazione o

nel consolidamento di relazioni diplomatiche tra la Norvegia e le altre monarchie

cristiane.

Al fiorire di queste due forme di devozione fa da contraltare il tramonto del

movimento crociato, un declino che è però meno significativo se inquadrato nel

contesto europeo più generale: difatti la partecipazione del popolo a queste spedizioni -

o perlomeno a quelle in Terrasanta - in varie regioni d'Europa mostra segni di crisi già

dall'inizio del XIII secolo. Non desta quindi sorpresa un simile calo di entusiasmo in

39 G. Klaniczay, Sainthood, patronage and region, in S. Kuzmová - A. Marinković - T. Vedriš (eds.), «Cuius patrocinio tota gaudet regio». Saints' cults and the dynamics of regional cohesion, Zagreb, Hagiotheca, 2014, pp. 441-453: 443-445.

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Norvegia, una regione che peraltro non si confrontava direttamente con i musulmani40.

Nel caso specifico bisogna poi tener conto di una concomitanza di fattori esterni e

interni: da una parte, la caduta di Costantinopoli (1204) divenne certamente uno

spartiacque, poiché i crucesignati nordici, quand'anche mossi da motivazioni spirituali,

videro sfumare la possibilità di fare fortuna a Bisanzio. Dall'altra, occorre notare che nel

Duecento l'organizzazione dell'iter Hierosolymitanum dipendeva pressoché interamente

dall'iniziativa regia e, venendo a mancare quest'ultima per le ragioni sopra citate

(incertezza politica causata dalle guerre civili, concorrenza di altre potenze nel Baltico,

espansione verso il nord Atlantico), l'intero movimento risultò inevitabilmente

indebolito. Con Hákon Hákonarson, infine, la ragione di stato prese il sopravvento sullo

zelo religioso e la necessità di consolidare la monarchia, tanto sul fronte interno quanto

nei suoi possedimenti insulari, divenne inconciliabile con avventure - per quanto

meritorie e potenzialmente molto redditizie - in terre lontane, provocando di fatto

l'abbandono del negotium Terrae sanctae.

Pur con le loro specificità e differenze, queste forme di devozione, così strettamente

influenzate dalle relazioni con il papato e gli altri regni cristiani, ebbero un impatto

profondo sulla società norvegese. Se attorno al 1063 papa Alessandro II aveva definito

Haraldr lo Spietato «rozzo nella fede», quasi due secoli dopo Innocenzo IV espresse a re

Hákon Hákonarson tutta la sua stima reputandolo addirittura «inter alios orbis reges et

principes specialem»41. Alla metà del Duecento, dunque, la Norvegia si era ormai

pienamente integrata nella Christianitas occidentale.

40 Benché dalla seconda metà del Duecento cessi l'organizzazione di crociate in grande stile, fatta eccezione per quella di Luigi IX di Francia del 1270, la storiografia più recente tende comunque a ridimensionare la portata di questo declino generale, preferendo parlare di attività continua in riferimento alle numerose e spesso piccole spedizioni che, tra XIII e XV secolo, partirono dirette non solo in Terrasanta, mentre il declino vero e proprio si sarebbe avuto dal XV secolo: J.E. Siberry, Il movimento delle crociate da 1198 al 1270, in P. Toubert - A. Paravicini Bagliani (cur.), Federico II e il mondo mediterraneo, Palermo, Sellerio, 1994, pp. 214-229; J. Riley-Smith, Storia delle crociate, Milano, Mondadori, 20092, pp. 318-319, 360-361 (ed. or. New Haven - London, Yale University Press, 1987). 41 «Speciale tra gli altri re e principi della mondo»: lettera di Innocenzo IV ad Hákon Hákonarson del 19 novembre 1247: DN I, n. 40, p. 31 Sui rapporti personali tra Innocenzo IV e Hákon si veda D'Angelo, «In extremo orbe terrarum», pp. 134-135, 137.

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Breve nota

Si riportano le relazioni tenute dagli studenti frequentanti il corso Storia medievale II, AA 2017-18, primo semestre, sulle Crociate. Le relazioni sono riportate in via provvisoria, senza correzioni e non nella loro completezza, mancandone ancora due (La crociata contro gli Albigesi, L'Ordine Teutonico). Seguirà una nuova raccolta, risistemata e completa.

INDICE RELAZIONI

Prospettiva bizantina sulla prima crociata Alessandro Navone Italia e italiani alla prima crociata Bianca Nucci Aspetti militari della prima crociata Edoardo Germani I miracoli nella prima crociata Luca Carfagna Gli scandinavi alle crociate Francesco D’Angelo Federico I Barbarossa e le crociate Edoardo Persichilli Il Saladino Davide Antonio Sancilio L’Occidente visto dagli arabi Pierpaolo Sabattini Quarta crociata: due prospettive a confronto Andrea Raffaele Aquino – Filippo Vaccaro Crociata contro gli Albigesi Gabriel Cugia di Sant’Orsola (mancante) La Crociata dei fanciulli Filippo Moroni La quinta crociata e Francesco d’Assisi Alexa Bianchini

Marco Fulignati Nico Kevin Pisciarelli

Federico II di Hohenstaufen San LuigiL'Ordine Teutonico Andrea Covini (mancante)

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Alessandro Navone

Prospettiva Bizantina sulla Prima Crociata

UNA BREVE PREMESSA: LE FONTI.

A un primo sguardo, la Crociata è un vero e proprio paradiso per la ricerca storica. Per molti fatti, persone, momenti, la storiografia medievale è piagata da un colossale problema: la scarsità di fonti scritte. Questo problema, tuttavia, non è quello che concerne la Prima Crociata.

In maniera del tutto singolare rispetto a molti altri eventi ad essa relativamente vicini nello spazio e nel tempo, della Crociata fu scritto moltissimo, e fu scritto fin dall’inizio, fin dal suo cominciarsi: anche prendendo solo in considerazione i testi contemporanei, si possono annoverare ben undici fonti di ampia portata dall’Occidente, tre dall’Oriente greco, due da quello musulmano, addirittura tre fonti ebraiche; alle quali devono sommarsi poi ampi patrimoni di canzoni epiche, quali la Chanson d’Antioche o la Chanson de Jerusalem, e altrettanto ampi patrimoni epistolari o testi più circostanziati, comprendenti ad esempio le “lettere dal fronte” di Stefano di Blois. A rendere il tutto ancora più intrigante è il fatto che una notevole parte di queste fonti pare essere stata scritta da testimoni diretti degli eventi narrati, in certi casi dai Crociati stessi. Un paradiso, per l’appunto. O un miraggio.

Basta in effetti un semplice lavoro di localizzazione spazio-temporale e di confronto perché l’incanto svanisca. Prendendo in esame anche soltanto gli undici testi maggiori occidentali, possiamo rilevare una quantità di aspetti che farebbero dubitare non poco della loro buona fede. Da questi possiamo isolare tre gruppi principali, di tre fonti ciascuno.

Il primo gruppo, che potremmo definire “delle Gesta Francorum” , comprende, oltre ovviamente all’Anonimo delle Gesta, i suoi figli e successori primi Pietro Tudebodo e Raimondo di Aguilers. I testi presentano evidenti somiglianze nella struttura narrativa, nel resoconto di dettagli anche evidentemente falsi, nella posizione politica assunta. Perché è di politica che si deve parlare. L’Anonimo è sì un Crociato, testimone diretto, ma è anche e soprattutto milite di Boemondo di Taranto; risulta logico che il ruolo di protagonista, così come il punto di vista mostrato, saranno quelli di Boemondo. Pietro Tudebodo, testimone diretto, è militante nel contingente di Raimondo. Raimondo di Aguilers, testimone diretto, partì come monaco dal monastero di Vezelay al seguito di Ademaro di Le Puy, per poi unirsi a Raimondo e divenirne Cappellano personale nel corso della Crociata. Tutti questi scrittori hanno insomma dei patroni, ognuno dei quali ha una propria agenda e pressanti interessi da portare avanti; ad aggravare ancor più le cose, su uno dei più politicamente schierati, le Gesta, si basa sostanzialmente quasi tutto il patrimonio documentario composto.

Il secondo gruppo di fonti è caratterizzato da una ripresa delle fonti del primo, ma nell’ambito di un contesto storico più ampio, che include una serie di premesse alla narrazione degli eventi e una serie di considerazioni successive; è in questo gruppo, ad esempio, che compaiono le prime descrizioni del Concilio di Clermont e si pone maggior enfasi sull’azione papale. Ne fanno parte Fulcherio di Chartres, Alberto di Aachen, Ekkehardo di Aura. Il primo, anche in linea temporale (e dunque forse ispiratore delle altre due fonti), militò nel contingente di Stefano di Blois e si stabilì in Terra Santa, dove divenne Cappellano di Corte

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di Baldovino I di Gerusalemme; la probabilmente immensa mole di informazioni di cui poteva disporre nel ruolo che ricopriva non cancella il fatto che scrivesse con scopi ben evidenti: la sua descrizione insistente delle terre orientali come luoghi di ricchezza e opportunità, così come il tono conciliante verso Alessio Comneno, è chiaro sintomo delle problematiche che il suo sovrano doveva affrontare. Ekkehardo e Alberto, pur non essendo legati con pari forza a patroni direttamente interessati, rappresentano uno specifico punto di vista, dato dal luogo da cui scrissero (Aquisgrana per il primo, Aura in Lorena per il secondo) e dunque dai testimoni cui ebbero accesso, vicini a Goffredo di Buglione e alla Crociata Tedesca – oltre ovviamente ad ispirarsi alle più schierate fonti precedenti.

Il terzo gruppo, di Roberto il Monaco, Baldrico di Dol, Guiberto di Nogent, è il gruppo della “rielaborazione colta”: tutti e tre affermano la propria volontà di riscrivere le Gesta, che considerano rozze e inadatte all’altezza della materia; e tuttavia a questa rielaborazione corrisponde un esercizio retorico di rafforzamento ulteriore, in certi casi fino al fantastico, del giudizio delle Gesta Francorum. Quanto alle ultime due, le Gesta Tancredi di Rodolfo di Caen e la Liberatio Orientis di Caffaro, la prima è un lavoro epico con spiccato gusto per il fantastico, scritto da Rodolfo su commissione in quanto Cappellano ad Antiochia con chiari intenti propagandistici; la seconda è una narrazione glorificatrice del contributo della città di Genova, scritta su misura delle ambizioni di un uomo politico di massima caratura che altri non è che l’autore stesso.

Tra le fonti orientali spicca su tutte l’Alessiade. Sembra logicamente quella su cui chiunque voglia osservare la Crociata dal punto di vista bizantino dovrebbe basare la sua ricostruzione. Una fortuna, stando ad Anna Comnena, poiché l’autrice apre la sua opera con un’ammirevole dichiarazione di neutralità storica tucididea, affermando già dalle prime parole il fine programmatico della ricerca di una Verità pura.

“Il Tempo, nel suo scorrere perpetuo e irresistibile, trascina via con sé tutte le cose create, e le sprofonda negli abissi dell'oscurità, siano esse azioni di nessun conto o, al contrario, azioni grandi e degne di essere celebrate, e pertanto, come dice il grande poeta tragico [Sofocle], "porta alla luce ciò che era nascosto e avvolge nell'oscurità ciò che è manifesto ". Ma la Storia è un valido argine contro il fluire del tempo, e in certo modo costituisce un ostacolo al suo flusso irresistibile, e afferrando con una salda presa quante più cose galleggiano sulla sua superficie, impedisce che scivolino via e si perdano nell'abisso dell'Oblio. (…) Infatti, quando si assume l’abito dello storico, è necessario dimenticare la simpatia e l’odio e spesso esaltare i nemici con i più grandi elogi, quando lo richiedano le loro azioni, e biasimare i parenti più stretti, quando lo suggeriscano gli errori della loro condotta. Perciò non bisogna esitare ad attaccare gli amici e a lodare i nemici. Da parte mia, io, sulla base dei fatti stessi e di coloro che li hanno visti, vorrei soddisfare gli uni e gli altri, sia quelli che si scagliano contro di noi, sia quelli che ci approvano, chiamando a testimonianza sia le persone sia i fatti.”

Non serve rimarcare in questa relazione la grandezza artistica di questi passaggi, anche perché non ne hanno bisogno; ciò che concerne però il presente argomento è il suo valore storico. Anna Comnena mente. Stando ai più recenti studi, tra cui France, Carling, Agnelli, Shepard e più di tutti Frankopan, è stata messa in luce una lunga serie di errori, esagerazioni e contraddizioni interne all’Alessiade - alcuni non voluti, altri invece deliberati - assieme a notevoli inversioni cronologiche nella narrazione degli eventi. Sul dove, nello specifico, Anna menta, cominceremo a rispondere dal principio di questa relazione; quanto al perché, lo rimandiamo alla fine.

BISANZIO E L’IDEA DI CROCIATA

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“Non abbiamo gli stessi punti di vista, noi e i Latini, riguardo i sacerdoti; noi riceviamo gli ordini dai canoni, dalle leggi e dal credo evangelico: “Non sfiorare, non brontolare, non toccare: tu sei, infatti, un sacerdote”. Ma il barbaro Latino contemporaneamente amministrerà i misteri divini ponendosi lo scudo sul braccio sinistro e imbracciando con la destra la lancia, e nello stesso tempo in cui partecipa del corpo e del sangue divino, vede il massacro e diventa uomo di sangue secondo il salmo di Davide. Così questa genia barbara è non meno dedita al sacerdozio che amante della guerra.”

Lo scrive Anna Comnena nel libro X dell’Alessiade, quasi immediatamente dopo aver cominciato ad esporre i fatti relativi alla Prima Crociata. Nello specifico, quel che la porta ad elaborare questa considerazione è un episodio verificatosi durante un incontro poco amichevole tra la flotta bizantina di Nicola Maurokatakalon e una nave del seguito di Boemondo che aveva deviato dalla rotta imposta da Alessio: alla mischia che ne seguì partecipò, apparentemente, un sacerdote latino in armi.

“ Aveva ricevuto molte ferite e grondava sangue, e tuttavia era imperterrito (…) Costui, sacrificatore piuttosto che sacerdote, contemporaneamente indossava l’abito sacerdotale e maneggiava il remo mirando al combattimento navale e alla guerra, combattendo in egual misura col mare e con gli uomini”. Anna lo ritrae in un combattimento disperato contro il greco Mariano, dal quale aveva rifiutato la resa. Finiti i proiettili di balestra era passato alle pietre; finite le pietre, ai tozzi di pane. Si tratta, è chiaro, di finzione narrativa, non di realtà storica; ma ciò non la rende meno significativa.

Anna è scandalizzata dall’abito occidentale di sacralizzazione della violenza, e lo stesso scandalo può essere osservato in svariate altre testimonianze provenienti dall’Oriente greco. Com’è ovvio, la Guerra Santa è un elemento chiave per la costruzione dell’idea di Crociata; elemento che, dando per buona la definizione di Flori, a Costantinopoli è trovato mancante.

Ciò non significa che i due termini, Guerra e Cristianesimo, siano sentiti come del tutto estranei l’uno all’altro: fin dai tempi di Ponte Milvio, l’Impero Romano muoveva guerra in quanto impero Cristiano a dei nemici che erano dunque nemici di Cristo, e Cristo garantiva la vittoria dei giusti. La concezione agostiniana della guerra giusta si fonda su un concetto di legittimità che discende da Dio per tramite del suo vicario in terra, l’Imperatore dei Romani: a lui spetta la difesa dell’ecumene dei credenti e della Verità evangelica per i mille anni che intercorrono tra la Rivelazione di quella Verità e la Seconda Venuta. Alle guerre Sante ordinate da Dio al suo gregge nell’Antico Testamento si sostituiscono perciò quelle Giuste, ordinate da Roma. La guerra a Bisanzio si riveste nel tempo sempre più di sacro, in un processo analogo e per certi aspetti precedente quello dell’Occidente: la troviamo nell’impresa di vendetta di Eraclio del 627 con la distruzione del Tempio del Fuoco e l’esaltato recupero della Vera Croce e di Gerusalemme; la troviamo nella manualistica e trattatistica militare bizantina, che dallo Strategikon di Maurizio al Taktika di Leone ai Praecepta di Niceforo Foca (e con ogni probabilità anche altri che non ho letto) non perde occasione per rimarcare l’importanza della preghiera e dell’aiuto divino prima che di qualunque stratagemma; la troviamo nel grido di guerra dei soldati di Bisanzio, Nobiscum Deus, così come negli stendardi attorno ai quali si raggruppano, che recano i vessilli dei Santi Militari da Maurizio a Sebastiano a Giorgio; la ritroviamo, infine, nei molti testi profetici che dall’Oriente conquistato ai musulmani si fecero strada verso l’Europa, promettendo una riconquista divina e spesso apocalittica.

Questo processo raggiunge il suo acme nel X secolo, un secolo, non a caso, di continuati - e vittoriosi - conflitti portati avanti contro gli Arabi da grandi imperatori guerrieri. Nelle parole di questi ultimi possiamo trovare tutte le tematiche caratteristiche del concetto di Guerra Santa che si sarebbe fatto strada poi, con un secolo di ritardo, in Occidente: aiuto divino in battaglia; lotta per la salvezza dell’anima; unità dei

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cristiani “fratelli” contro un nemico demonizzato e deumanizzato; volontà di vendicare le offese a Dio (con vocabolario tipico della guerra feudale); importanza delle reliquie e, non ultima, la promessa di un’agognata liberazione del Sepolcro.

Così, nel 904, a inizio secolo, Leone VI affermava: “Aiutati da Dio in battaglia, ben armati e ben schierati, se noi li attaccheremo correttamente e coraggiosamente combattendo per la salvezza della nostra anima, per Dio stesso, le nostre famiglie e gli altri cristiani nostri fratelli, e se quindi riporremo una speranza incrollabile in Dio, non subiremo alcuna sconfitta, ma godremo pienamente del frutto della vittoria.”

A metà del secolo, Niceforo II si rivolgeva all’esercito in procinto di prendere Creta: “Uomini, fratelli miei, soldati come me, colmiamo l’anima di Timor di Dio; combattiamo per vendicare l’insulto fatto a Dio; manteniamoci fermamente a Creta di fronte ai nemici la cui arma di guerra è l’empietà; riempiamoci di questa fede, che sconfigge la paura, vendichiamo gli stupri delle ragazze; guardando le sacre reliquie offese, rattristiamoci nel profondo del cuore. Non è senza premio la fatica e il pericolo! Manteniamoci saldi, e fortifichiamoci nella lotta contro chi nega Cristo; e Cristo Dio combatterà con noi, farà perire i nostri nemici e libererà la città da coloro la cui arroganza è diretta contro Cristo”

E verso la sua fine, nel 974, Giovanni Zimisce poteva definire sé stesso “campione di Cristo” e scrivere al Re di Armenia della sua intenzione di “liberare il Santo Sepolcro dagli oltraggi dei Musulmani”, e addirittura “installare il trono di Cristo” alla Mecca.

Ad ogni modo, e malgrado gli sforzi degli stessi imperatori in tal senso, la progressione verso l’idea di crociata si sarebbe rivelata una via senza uscite. Quando Niceforo II chiede al Patriarca di Costantinopoli di legittimare il concetto di santità e martirio dei guerrieri in battaglia contro gli infedeli, le sue parole sono inequivocabili: Santi martiri non sono coloro che uccidono con le armi, ma coloro che muoiono disarmati. Sui possibili motivi per cui in Occidente l’idea trovò terreno fertile e in Oriente no ha già parlato a sufficienza Flori, e non ho intenzione di soffermarmi; fatto sta che a Bisanzio incontrò un muro e non proseguì oltre.

Sulla base di quanto detto, verrebbe da pensare a una sostanziale estraneità del mondo bizantino del 1095 alla Crociata, sia a livello concettuale che a livello materiale. E certamente una quantità di fonti bizantine coeve, o ancor più di fonti successive, sembrano condurre a simili conclusioni. Testimonianze come la descrizione cupa della Crociata e della sua origine da parte di Anna Comnena, o del violento passaggio dei Crociati in terra greca nelle lettere di Teofilatto di Ocrida, gridano al lettore due parole: stupore, e incomprensione.

“Quando ancora non si era riposato un poco dalle sue passate imprese, ad Alessio giunse voce dell’arrivo di una folla sterminata di eserciti Franchi” scrive la principessa dell’Alessiade. “Li animava uno straordinario ardore, invadevano ogni strada. A questi guerrieri si unì una massa disarmata; più numerosi dei granelli di sabbia, più delle stelle in cielo (…) donne e bambini abbandonarono la loro terra. Fiumi di gente convergevano da ogni direzione, si spostavano in massa verso di noi. Tutto l’Occidente” prosegue Anna “e tutti i popoli barbari che abitavano la terra al di là dell’Adriatico e fino alle Colonne di Eracle, emigrando tutti in massa, marciavano verso l’Asia”

“Il passaggio” scrive Teofilatto in una concitata lettera a un amico nel mezzo della tempesta “o invasione, non so come definirla, dei Franchi, ci ha talmente presi e preoccupati che non abbiamo più coscienza di noi stessi. Io ero” afferma, in una metafora splendidamente espressiva, “come ubriaco…”

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Sono immagini vivide, costruite ad arte da scrittori che ancora a mille anni di distanza sono in grado di comunicare a noi moderni un’apprensione e un disorientamento che certo dovevano essere ben reali e tangibili all’epoca. È con questa sostanziale estraneità di fondo nei rapporti tra Occidente e Oriente che buona parte degli studi classici sulla Prima Crociata hanno interpretato lo svolgersi degli eventi.

Quando, perciò, Anna Comnena spiega le cause della Crociata attribuendo con apparente naïveté la sua genesi alla sola predicazione di Pietro l’Eremita – il quale, trovatosi negato l’accesso al Sepolcro dai Turchi, ma intenzionato a portare a termine il pellegrinaggio, torna in Europa millantando di ascoltare la voce di Dio che esortava i cavalieri a recarsi in armi a Gerusalemme – Giorgio Ravegnani e Pasquale Corsi la assumono come prova di una enorme mancanza di comprensione da parte bizantina del fenomeno in atto, nonché di mancanza di responsabilità o volontà di generarlo da parte di Alessio.

Quando Anna, Teofilatto o un qualunque altro cronachista bizantino mostrano disprezzo e acrimonia verso le pratiche religiose dell’Europa latina, Corsi ed altri lo attribuiscono naturalmente allo scisma del 1054, o al più alla controversia del “filioque”; in ogni caso ben prima che la Crociata nascesse. E quando Anna, Attaleiate o altri greci mostrano la loro assoluta distanza dagli occidentali in generale, che chiamano “barbari” o “celti” e di cui evidenziano l’inciviltà dei costumi, il carattere traditore e violento o la forza in battaglia, si tende ad attribuire a questa distanza una dimensione quasi naturale, aggravata poi terribilmente, e a pochissimi anni dallo scoccare di quel 1095, dalle guerre che infuriarono per decadi tra Bizantini e Normanni.

Io sono un profano: il mio mese scarso di ricerche non può permettermi di valutare nel merito la validità o meno delle tesi che si sono espresse su questo argomento, né di costruirmi un’idea completa dell’attuale stato dei lavori o delle scuole che si sono formate; mi sembra però di poter osservare che negli ultimi anni se ne stia facendo avanti una in particolare, specie nel mondo anglosassone, tra i cui esponenti si annoverano Lilie e Shepard e tra i cui epigoni Frankopan, che sta profondamente modificando il campo della ricerca.

Studiano i rapporti tra l’Est e l’Ovest ai primordi della Crociata, e affermano che la vicinanza di questi è molto maggiore di quanto Anna, Teofilatto o le fonti occidentali vogliano dare a vedere. L’assunto di fondo è semplice e convincente; dopotutto, l’Adriatico è un mare terribilmente stretto.

VICINANZA TRA BISANZIO E GLI OCCIDENTALI

Se volessi, potrei trasformare questa relazione in un papiro di cinquecento pagine riempito unicamente delle citazioni di passaggi dell’Alessiade in cui Anna Comnena dileggia o insulta Franchi. Non lo farò: mi limiterò a tre soltanto, con la premessa che sono tutti e tre posizionati nello spazio di poco più di tre periodi.

“ [Alessio]Temeva certamente la loro invasione, conoscendo l’incontenibilità del loro impeto, l’instabilità e la mutevolezza della loro indole e tutte le altre caratteristiche che la natura dei Celti ha in ogni caso come peculiari o consequenziali; sapeva in che modo, stando sempre a bocca aperta di fronte al denaro, era evidente che per un qualsiasi motivo sovvertissero facilmente i loro accordi: era risaputo, e l’aveva perfettamente verificato”

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“La stirpe dei Celti, come si può arguire, è d’altronde molto focosa e impulsiva, e, appena abbia preso l’abbrivo, diventa irrefrenabile.”

“Lo seguivano [Goffredo di Buglione] anche dei Normanni ammontanti a circa diecimila che, distaccatisi dal resto dell’esercito, saccheggiarono il territorio di Nicea, trattando tutti con inaudita crudeltà; fecero a pezzi alcuni dei bambini piccoli, altri infilzandoli con dei pali li arrostirono sul fuoco, a quelli avanzati negli anni inflissero ogni genere di supplizi.”

Troviamo tutti i caratteri che da sempre nella storia contraddistinguono la costruzione dell’alterità, dalla demonizzazione alla barbarizzazione all’attribuzione di tratti distintivi “naturali”. Ne deriva un ritratto poco lusinghiero, di uomini avidi, infidi, impulsivi, crudeli, inumani. “Altri”. L’opera di Anna non è certo sola: esiste una gran massa di fonti greche che rimarca gli stessi pregiudizi, così come un processo del tutto analogo di “alterizzazione” è rilevabile in Occidente nei confronti dei Bizantini. A partire da questa mole di dati, la storiografia classica delle Crociate non ha esitato ad attribuire allo scontro che avrebbe avuto luogo tra le due culture un carattere di ineluttabilità, collegandolo oltretutto agli scontri che opposero Normanni e Bizantini per decadi. Troppo diversi, troppo ostili, tra i due mondi era impossibile collaborare. “È risaputo”, dice Anna.

Ci sono però almeno due falle in una visione di questo genere. La prima è l’aver sostanzialmente ignorato la datazione in cui questi documenti sono stati scritti (praticamente tutti dopo la Prima Crociata, quello di Anna addirittura durante la Seconda). La seconda è l’aver sostanzialmente ignorato la parimenti grande massa di documenti, prodotti questi sì prima della Crociata, che sostengono una tesi esattamente opposta.

Se si pensa quindi che Anna possa parlare (come tenta di farci credere) per i Bizantini, l’entourage di Alessio o Alessio stesso, si sbaglia. I Bizantini non sono neanche un soggetto identificabile, la nobiltà di Bisanzio eraestremamente variegata, e quanto ad Alessio, era uno xenofilo.

Avremo forse poi modo di parlare della vicinanza senza precedenti tra Alessio e i Turchi (il migliore amico e generale di Alessio, Tatikios, era figlio di Turchi) così come della presenza a corte dei cosiddetti “mixobarbaroi”, mezzi barbari, come i Peceneghi Mosastras e Ouzas. In questo paragrafo intendo concentrarmi esclusivamente sui “Franchi”.

Le Blachernae dei tempi di Alessio ne erano letteralmente invase; se già dall’inizio del suo regno i Latini occupavano moltissimi dei principali seggi del potere imperiale, il loro numero esplose successivamente alla congiura (con conseguente epurazione della vecchia guardia e rimpiazzo) del 1092, e non fecero che rafforzarsi nella riconquista sulla scia della Crociata. Costantino Umbertopoulos era protonobelissimos e sebastos, oltre che generale fidato e chiave di volta nella vittoria devastante di Alessio a Levounion nel 1091 contro i Peceneghi. Avrebbe continuato a servire Alessio fino alla morte. Era nato in Bisanzio: suo padre, Umberto d’Altavilla, già nel 1050 era stato Patrizio, Stratega e Domestico dei Numeri. Umberto era il fratello di Roberto il Guiscardo, lo stesso uomo che in quegli anni devastava il Sud Italia bizantino. Pietro Alifa aveva fatto conoscenza con Alessio molto da vicino: durante la pre-crociata di Roberto del 1081, sul campo, dove era quasi riuscito ad ucciderlo di sua mano. Sarebbe stato poi inserito nei ranghi imperiali, e i suoi meriti l’avrebbero portato a ricoprire posizioni di comando sempre più alte, finchè nel 1098 Alessio gli affidò il governatorato su Comana nel mezzo dell’Asia. Un tale Landolfo, di nome longobardo, compare improvvisamente nell’Alessiade come capo della flotta imperiale incaricata di riconquistare la costa dell’Asia nel 1097.

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Welf di Burgundia, prima innominato, appare quando Tatikios gli affida la conquista e il governo di Adana nel 1098. E non è l’unico occidentale a ricevere un trattamento di favore dall’Imperatore al concludersi della crociata; per brevità sorvolerò sulla profonda amicizia che tutte le fonti testimoniano legare Alessio a crociati come Raimondo di Tolosa, Roberto di Fiandra o Stefano di Blois, o al fatto che Baldovino Duca di Edessa, come dimostrato da Frankopan, non aveva titolo di Duca ma di Doux, e del governo della città era stato incaricato da Alessio.

La politica estera del Comneno non faceva eccezione. Alessio, come del resto da tradizione bizantina e Romana in generale, lavorò incessantemente per coltivare relazioni diplomatiche con le potenze ai suoi confini, e particolare attenzione diede ai latini. Intrattenne rapporti stretti con Kiev e con Aquisgrana; ma soprattutto verso l’Italia concentrò i suoi sforzi. Il Patrimonio di San Pietro e le contee normanne saranno entrambi suoi alleati per l’inizio del 1095 (dei suoi rapporti con questi due diremo altrove); se i mercanti di Amalfi già da tempo godevano delle grazie imperiali e delle agevolazioni doganali di Costantinopoli, e possedevano quartieri in tutte le principali città dell’Impero, a partire dal 1092 la Crisobolla imperiale concesse a Venezia privilegi ancor più ampi in cambio di aiuto militare, e i Veneziani inondarono le piazze commerciali dell’Impero. Occorre ricordare, tra l’altro, che sia Amalfi che Venezia erano nominalmente sotto l’autorità di Bisanzio: il serenissimo Doge è un serenissimo Doux.

Ancora più sorprendente, e quasi unico del regno di Alessio rispetto agli imperatori precedenti, è il fatto che la sua vicinanza con gli Occidentali non si fermava alle alleanze formali né ai titoli: Alessio, inconfutabilmente greco, sembra essere stato in grado di pensare e di comportarsi come un Occidentale in qualunque momento ciò fosse stato utile.

Stefano di Blois è una delle pochissime fonti realmente spontanee su cui possiamo fare affidamento. Questo è ciò che scrive a sua moglie di Alessio dopo averlo incontrato a Costantinopoli: “sembra a me che nei nostri tempi nessun principe abbia un carattere tanto integro. Tuo padre, amore mio, fa grandi e molti doni, ma in confronto a quest’uomo non è nulla. Scrivere di lui queste parole, di modo che tu sappia della sua grandezza, mi ha dato piacere”. Il fascino che Alessio fu in grado di esercitare sui Crociati viene riportato, sebbene a volte controvoglia, da notevole fetta delle fonti contemporanee. Era, certamente, il fascino della magnificenza e munificenza bizantina, ma non solo; perché se è vero che Alessio utilizzò appieno la spettacolarità del rituale di corte, è evidente che quel rituale sapeva quando romperlo. L’Alessiade è testimone del comportamento anomalo dell’Imperatore: là dove tradizionalmente l’etichetta bizantina avrebbe voluto accentuare al massimo la distanza tra lui e i suoi ospiti (Olga di Kiev fu tenuta quattro giorni ad aspettare prima di ricevere udienza, che le fu concessa poi in una cena formale) Alessio l’accorciava quasi scandalosamente. Durante un incontro con i Crociati, Anna parla di un cavaliere che osò sedersi sul trono imperiale. Baldovino subito si precipitò a redarguirlo, e il Franco scese dal trono mormorando contro Alessio parole che immediatamente gli furono tradotte: lo chiamava un villano, che accoglieva da seduto i principi crociati in piedi. Alessio, contro ogni aspettativa, rimase in silenzio; ma quando congedò i capi crociati trattenne l’uomo, chiedendogli chi fosse e da dove provenisse. Alla risposta del cavaliere, che con arroganza vantò il suo valore in battaglia, Alessio replicò gentilmente che ciò era un bene, perché ben presto avrebbe potuto mostrarglielo, e proseguì poi a discorrere con lui delle migliori tattiche da utilizzare contro i Turchi. Sono troppe le implicazioni sottese a questo scambio: Alessio era sceso dal trono per parlare ai Crociati; mostrava tolleranza verso i loro costumi e interesse verso di loro; non disdegnava di intrattenersi con i cavalieri minori.

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Casi analoghi di comprensione e mimica delle maniere occidentali percorrono tutta l’Alessiade: dalle richieste di giuramento all’occidentale, alla spartizione delle ricchezze dopo Nicea con i principi e l’indizione di banchetto che replica il comportamento di un Re franco, alle donazioni non solo ai capi Crociati ma anche ai singoli cavalieri in modo da creare obbligazioni dirette tra Alessio e i ranghi a scavalcare i Principi.

Com’è ovvio, la politica di Alessio non era una politica che piaceva a tutti. Katakalon Kekaumenos, prominente comandante e consigliere dell’Imperatore, pare l’avesse apertamente contestata: “ogni volta che elevi uno straniero proveniente dalla massa degli stranieri nominandolo primicerio o generale, quale posizione potresti mai dare a un romano che sia degno di onore? Lo farai tuo nemico”. Lo stesso uomo sarebbe poi stato implicato nella congiura del 1092, per scomparire sinistramente dalle fonti insieme a molti altri; considerato che tutti i nomi degli implicati principali sono di greci, e che furono poi sostituiti da molti stranieri, è possibile ipotizzare che la xenofilia di Alessio avesse determinato una frattura a corte.

Era tuttavia una politica antica. Abbiamo già detto che Costantino Umbertopoulos era figlio di Umberto d’Altavilla, e dunque parte di una tradizione di famiglia che precedeva di molto il regno di Alessio. Nei regni precedenti vi erano stati una quantità di casi simili. Roussel di Bailleul, normanno e tra i principali capi militari di Bisanzio, tradì Romano IV Diogene a Manzikert e costituì un potentato autonomo in Asia ben prima dei Crociati. Fu affrontato e ucciso nel 1076 dalle forze imperiali, ma solo dopo aver tentato la via diplomatica, con l’offerta del titolo di kouropalates in cambio di fedeltà. Herve e Robert Crispin presentavano situazioni identiche: grandi generali normanni in Asia che si ribellarono rispettivamente il primo a Michele VI e il secondo a Romano IV. Magadalino ha raccolto buone prove per ipotizzare che i normanni fossero richiesti da Bisanzio specificamente contro la cavalleria turca.

Vorrei concludere questo paragrafo con una rapida disamina del processo inverso, ossia di adozione da parte di occidentali e di normanni in particolare di mentalità e costumi tipicamente greci. Svariate fonti attestano la passione dei normanni, e dei longobardi prima di loro, per il vestiario bizantino. Nel Chronicon Barensis il ribelle lombardo Melus, nel 1016, è descritto come “vestito alla maniera dei Greci, con il capo magnificamente adornato”. Dopo la sconfitta di Melus, suo figlio Argyrus fu preso ostaggio a Costantinopoli; lo ritroviamo poco dopo a servire l’Impero in Italia come Katepano di Bari. I normanni, come detto, non furono meno assorbiti dalla cultura greca-imperiale dei longobardi. Joscelin di Molfetta e Ruggero Toutebove, ribellatisi probabilmente su istigazione bizantina l Guiscardo nel 1067 e sconfitti, scelsero naturalmente Costantinopoli come luogo del loro esilio, e furono accolti dall’allora Imperatore Romano IV Diogene, il quale, stando a Guglielmo di Puglia (un italiano anch’egli, che tuttavia si interessava moltissimo dei fatti di Bisanzio), “fu massimamente cordiale con lui [Joscelin] e non ebbe esitazioni nel considerarlo suo massimo amico”. Joscelin sarà poi inviato dai Bizantini nuovamente a combattere, stavolta esplicitamente per loro, nel Sud Italia contro Roberto; nuovamente sconfitto, e portato ai piedi del Guiscardo, Goffredo Malaterra ce lo descrive come “meravigliosamente vestito nello stile dei Greci”. Non credo vi sia alcun bisogno di menzionare l’influenza greca nell’arte normanna, ma nel caso, inviterei a mostrare a qualcuno con una base di conoscenze artistiche una foto del mosaico dell’incoronazione di Ruggero II (con tanto di scritte in greco) a Palermo, o il Mausoleo di Boemondo a Taranto, e chiedergli da dove crede provengano. La risposta sarà “Costantinopoli”.

Chiunque studi la storia medievale è al corrente del fatto che la demarcazione di confini precisi per gli Stati sia anacronistica, appartenente a una mentalità ottocentesca in sostanza estranea a quella dell’epoca. Ciò è ancora più vero per quegli Stati che proclamano se stessi Imperi, ossia rappresentativi dell’Ecumene, universali. Bisanzio era uno di questi Stati: nel 1095 era ancora pienamente conscio della sua volontà

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universale, e il Sud Italia si riconosceva ancora in linea di massima all’interno della sua Ecumene, partecipando della sua cultura, della sua lingua, dei suoi intrighi politici.

VICINANZA TRA BISANZIO E IL CLERO LATINO.

Per ragioni di brevità mi soffermerò su di un singolo documento, già da solo più che sufficiente ad evidenziare ciò che serve evidenziare: il “Cormery text”, la cui portata rivoluzionaria è stata scoperta da Becker nel 1988 e riscoperta da Shepard più recentemente.

Il testo riporta una storia delle reliquie che furono portate al monastero di Cormery in Francia nel 1103. Il donatore delle reliquie, nonché autore del testo, è Guglielmo, che ne era stato monaco. Ne riferiremo per ora solo le notizie riguardanti il presente paragrafo, ma tornerà.

Dopo aver descritto la vittoria grandiosa dell’Imperatore Alessio a Nicomedia e la riconquista della città nel 1095, Guglielmo ci parla di sé. Giunto a Costantinopoli “per approfondire gli studi religiosi”, fu introdotto alla corte di Alessio da un altro monaco di Cormery, Goiberto. Questi, suo amico, era apparentemente uno dei principali consiglieri dello stesso Alessio: “era massimamente caro all’imperatore e ai suoi amici per via della probità e nobiltà d’animo”. Già solo questo rivela una situazione difficile a credersi dalla lettura delle sole fonti post-Crociata: non solo l’Imperatore, ma anche la nobiltà bizantina a lui più vicina si circondava di uomini di Chiesa latini. Ma non finisce qui, perché lo stesso Guglielmo fu inviato dall’Imperatore in persona a Nicomedia appena riconquistata “così da poter provvedere ai bisogni spirituali dell’esercito come prete e cappellano, e dirigere la ricostruzione della città in accordo con gli ordini dell’Imperatore”; gli ordini essendo, in particolare, di far sì che somme ingenti fossero destinate a ripopolare un monastero abbandonato. In altri termini, Alessio destinava un monaco occidentale a ricostruire e fortificare la più importante città dell’Asia, conquistata e presieduta (e lo sappiamo anche da altre fonti, vedi i 500 cavalieri di Fiandra) da truppe occidentali, delle cui anime e benessere Alessio si curava inviando Guglielmo e premurandosi che un monastero (occidentale, è ovvio) venisse costruito a sue spese.

Pare assurdo, non lo è: una mole ingente di documenti degli stessi anni presenta casi analoghi. Il monaco Joseph torna dal pellegrinaggio a Gerusalemme passando per Costantinopoli dove incontra “molti amici che erano ora alla corte dell’Imperatore” ed entra in amicizia con “l’ufficiale di guardia alla cappella imperiale”; mentre a Kibotos in Asia in preparazione dell’arrivo dei Crociati Alessio costruisce, oltre a magazzini e torri, una Chiesa latina.

VICINANZA TRA BISANZIO E LA CHIESA CATTOLICA

I rapporti tra le due sedi episcopali di Roma e Costantinopoli, è acclarato, non sono mai stati del tutto sereni. Fin dagli anni di Teodosio, Roma e Nuova Roma sono state in competizione per la primazia sull’Ecumene cristiano; una competizione non priva di rotture spesso gravissime. Il tempo si era rivelato buon medico per queste ultime, che erano andate risanandosi una dopo l’altra; ma le cicatrici non facevano

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altro che accumularsi.

Una lettera di Teofilatto del 1089 ce ne dà un rapido aggiornamento al periodo studiato: i “preti latini” digiunano il sabato invece che la domenica; digiunano in maniera incorretta durante Quaresima; indossano anelli e curano barba e capelli quando non dovrebbero; vestono abiti sgargianti piuttosto che neri e sobri durante la Messa; mangiano carne là dove i greci seguono una dieta strettamente vegetariana; usano pane non lievitato nell’Eucaristia. Il problema più grave, quello del “filioque”, lo lascia per ultimo. È un computo generoso, non più della punta dell’iceberg: abbiamo già sentito l’opinione di Anna Comnena sulla peculiare interpretazione occidentale del concetto di militia Christi. E tuttavia potrebbe sorprendere il contesto in cui questo documento fu scritto. Il committente era non meno che l’Imperatore Alessio Comneno. Il destinatario non meno che il Sommo Pontefice Urbano II. E le parole conclusive erano quelle di speranza di una unificazione delle Chiese, e di superamento di questioni definite “frivole”. Eppure, pochi anni prima, nel 1054, si era consumata quella che è da molti considerata la più grave tra le rotture, quella che neanche il tempo avrebbe potuto risanare. Cos’era accaduto, e cosa stava accadendo?

Il Grande Scisma. Lo Scisma del 1054, fattosi Grande del senno di poi, è la “Frattura” per definizione tra Oriente e Occidente. La sua portata e le sue implicazioni nella storiografia classica devono però essere riviste; è questo che Frankopan, Shepard, Harris cercano di fare, e che io cercherò di riassumere.

Lo scisma nasceva, in realtà, da un tentativo di riavvicinamento. Dopo il disastro di Civitote del 1053, papa Leone IX cercava un’intesa con Bisanzio, allo scopo di elaborare una strategia comune in funzione antinormanna. L’ambasceria papale si avviò dunque verso Costantinopoli con la speranza di tornare con un’alleanza, ed è probabilmente a tale scopo che si parlò delle divergenze nei riti: perché potessero risolversi. I negoziati avevano quindi ottimi intenti, ma per una serie di sfortunati eventi riuscirono a terminare con un Cardinal Umberto di Silva Candida che irrompeva in Hagia Sophia nel mezzo della messa, depositava sull’altare una bolla di scomunica, condannava tutti i presenti a dannazione eterna ed usciva con un’ultima frase: Che Dio veda e giudichi. A parte i dettagli melodrammatici, però, non vi era ragione per cui non potesse essere più che una frattura fra le tante che si erano già consumate, e già ricucite.

E infatti le due Chiese continuarono a dialogare, con sempre maggior intensità, finchè già nel 1073-1074 Michele VII e Gregorio VII discutevano di riunificazione. Ancora una volta, sono disastri militari a originare il contatto: nel 1071 cadevano Bari in Italia e Romano Diogene a Manzikert. Michele VII aveva dunque bisogno di forze ingenti per arginare l’avanzata turca e di alleati contro i Normanni, e Gregorio avrebbe potuto essere la risposta a entrambi i suoi problemi. Nel suo perseguimento dell’idea di Libertas Ecclesiae, Gregorio VII rispose entusiasticamente, e cominciò a promuovere lo sviluppo di quella che avrebbe potuto divenire in effetti la prima vera e propria crociata della storia, rispettando la definizione di Flori. Il Papa scriveva nelle sue lettere di 50.000 armati in attesa di imbarcarsi sotto la sua personale guida, con tappe Costantinopoli e Gerusalemme, mentre riceveva le pronte adesioni di Beatrice di Toscana e Goffredo di Buglione e chiedeva a Enrico IV di Germania di guidare la Cristianità in sua assenza. Per i dettagli rimando a Flori; ciò che mi interessa discutere al momento è la ragione per cui la Crociata non partì. Se Flori, Magadalino ed altri riprendono la vecchia nozione per cui fu il deterioramento dei rapporti con Enrico IV a causare la retromarcia, Frankopan fa un’obiezione dovuta: la retromarcia iniziò ben prima del deterioramento con Enrico e del Dictatus Papae del 1075. Già a metà del 1074 Gregorio scriveva al conte di

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Poitou di disfare armi e bagagli, perché “corre voce che per Grazia di Dio al di là del mare i pagani siano stati del tutto respinti”. Cos’era successo dunque in Asia? Nulla, in realtà. Michele VII non aveva intrapreso alcuna azione contro i Turchi; ciò che aveva fatto era stato siglare l’alleanza matrimoniale con Roberto il Guiscardo. Originata, presumo, nel 1073 dall’annessione da parte di Roberto di Amalfi, primo partner commerciale di Bisanzio, la nuova alleanza rendeva obsoleta quella con Gregorio VII. Il Papa prometteva più di Roberto, ma aveva chiesto in cambio l’unione delle Chiese, e il gioco non valeva più la candela. Quella di Gregorio VII al conte di Poitou era quindi, banalmente, una scusa. Seguì un pesante peggioramento dei rapporti con la Chiesa Cattolica, che però non sconvolse la solida costruzione geopolitica di Michele VII: Gregorio VII era solo, e nonostante le ripetute scomuniche, Niceforo, successore di Michele, la mantenne.

A farla naufragare sarebbe stato Alessio Comneno, e nel più spettacolare dei modi. Detronizzato Niceforo nel golpe del 1081, lo stesso legame di sangue che aveva permesso a Bisanzio di concentrare le forze contro i Turchi e profittare dei Normanni come mercenari in Asia permetteva ora ai Normanni di reclamare il Trono di Bisanzio - nominalmente per Costantino figlio di Michele VII e sposo di Elena d’Altavilla, di fatto per Roberto e il suo diseredato figlio Boemondo. I giochi si capovolgevano: ora Alessio faceva la pace coi Turchi e si alleava con Enrico IV di Germania contro i Normanni, mentre Gregorio VII affidava a Roberto il Guiscardo il Vessillo di San Pietro e benediceva la sua invasione, in quella che Erdmann definì giustamente “pre-crociata del Guiscardo”.

Le relazioni tra Roma e Bisanzio toccavano nuove punte di minimo; ma il crollo dell’edificio diplomatico di Michele VII era fondamentale perché potesse verificarsi una nuova occasione di riavvicinamento.

Che infatti si presentò, nel 1088, con l’ascesa al soglio pontificio di Urbano II. Le sconfitte diplomatiche del suo predecessore contro Clemente III gli avevano fatto perdere legittimità su quasi tutta Europa e su Roma stessa; in questo contesto, Urbano II ritenne di vedere ad Oriente la sua ultima speranza di risollevarsi. E non a torto: con il fallimento dell’invasione di Costantinopoli e la morte di Roberto il Guiscardo, il suo successore Ruggero Borsa, più prudente, più debole e più preoccupato dalle esplicite mire di Enrico IV sul Sud Italia, aveva anch’egli cambiato indirizzo politico; e quanto ad Alessio, in difficoltà almeno quanto gli altri due, non desiderava altro che nuovi alleati – e nuovi mercenari – per combattere le sue guerre. Gli ingranaggi si mossero in fretta. Nel 1088, ossia immediatamente, Urbano II invia una delegazione a Costantinopoli; nel 1089 Nicola Grammatico, patriarca, risponde positivamente; entro la fine dell’anno esponenti delle Chiese d’Oriente e d’Occidente sono riuniti in Concilio a Melfi, presiedendo Ruggero Borsa e Boemondo. È qui che origina la lettera di Teofilatto di cui avevamo parlato.

Frankopan raccoglie le prove di una collaborazione intensa: Urbano II rimuove la scomunica ad Alessio; le principali chiese greche del Sud, Rossano e Santa Severina, riconoscono l’autorità pontificia pur mantenendo il rito; il monastero greco di San Filippo riceve in dono da Ruggero terre, influenza e indipendenza da tutte le Chiese latine. Si stava insomma definendo un accordo che avrebbe potuto trasformare il Sud Italia da terreno di scontro in terreno di incontro, base per una nuova tolleranza e una nuova concordia tra le due Chiese. Anche nella politica estera, in una maniera senza precedenti, Alessio e il papa agivano all’unisono: nel 1094 inviarono ambascerie congiunte al Re di Croazia Zvonimir, mentre con la benedizione pontificia Ruggero tornava a riconoscere l’autorità dell’Imperatore sull’Italia nell’indizione dei documenti ufficiali e mercenari

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normanni andavano a combattere sotto Alessio nella battaglia di Levounion del 1091 - infliggendo ai Peceneghi la sconfitta più devastante della loro storia.

L’APPELLO ALL’OCCIDENTE.

Nello scaricare tutte le responsabilità della Crociata sul fanatismo di Pietro l’Eremita, Anna compie un deliberato atto di dissociazione: la verità che si premura di nascondere è che Alessio fu profondamente e volontariamente responsabile dell’origine della Crociata. La realtà dei fatti è troppo evidente perché possa essere negata, supportata da troppi dati. Ciò su cui si potrebbe discutere – e si discute, infatti – è quanto profondamente ne fosse responsabile; ossia come interpretare i dati. Le tesi di Frankopan sulla questione sono estreme, e mitigate da molti storici; ma le sue provocazioni sono in ogni caso state fondamentali per ravvivare gli studi, e verranno riportate. La premessa che si è fatta finora sulla vicinanza tra Occidente e Oriente, d’altronde, dovrebbe già di per sé far risuonare all’orecchio simili tesi come non del tutto fantascientifiche.

Lettere da Bisanzio. Documento principe nell’ambito del dibattito sull’appello di Alessio all’Occidente è la famosa lettera al Conte di Fiandra, che non citerò per motivi di spazio ma di cui raccomando la lettura. Scritta sicuramente entro il 1106 e probabilmente nel 1091 - anno in cui sappiamo di un assedio per terra e per mare di Costantinopoli da parte di Turchi e Peceneghi e in cui Anna ci dice dell’invio di un messaggio al conte di Fiandra - la lettera potrebbe dimostrare il totale coinvolgimento di Alessio nella preparazione della crociata, se solo la storiografia tradizionale non l’avesse dichiarata un falso. Il linguaggio e i temi presenti sono infatti ben più latini che greci (Gerusalemme e martirio per primi), mentre l’incitamento a prendere Costantinopoli, unito all’auto-umiliazione dell’Imperatore, rende improbabile la mano di Alessio nella sua stesura. Venne quindi inserita all’interno della propaganda occidentale per la Prima Crociata, o al più quella di Boemondo per la spedizione contro Costantinopoli del 1107. Ma la storiografia tradizionale si basava su assunzioni di estraneità tra i due mondi che non sono più sostenibili alla luce delle nuove testimonianze scoperte. Senza arrivare agli estremi di Frankopan, che non esclude una rielaborazione latina ma fedele nei contenuti della lettera, possiamo fermarci a Shepard e Harris che affermano comunque una rielaborazione piuttosto che una creazione ex novo.

Tanto per cominciare, la lettera non è più sola. Fonti coeve e in questo riguardo affidabili convergono tutte nel riportare la stessa immagine: quella di decine di lettere circolanti per tutta Europa, inviate da Costantinopoli e contenenti una disperata richiesta di soccorso. Il “Cormery text”, di cui abbiamo già parlato, racconta di come l’Imperatore “inviò messaggeri ovunque con lettere piene di lacrime e sofferenza, implorando l’aiuto di totius populi christiani e promettendo grandi ricompense” ; Frutolfo, Bernardo ed Ekkehardo, tutti contemporanei, si esprimono con frasi quasi identiche. Anche tralasciando analoghe testimonianze successive, non può trattarsi di un caso: Alessio stava muovendo una notevole macchina di propaganda, della quale la lettera a Roberto di Fiandra era una piccola parte. Come questa suggerisce, la strategia seguita da Alessio era quella dell’invio di missive circolari indirizzate prima di tutto ad amici e conoscenti in Europa (Roberto di Fiandra aveva fatto pellegrinaggio nel 1089, era stato accolto con massimo garbo da Alessio ed aveva inviato 500 cavalieri in suo soccorso nel 1090).

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Frankopan osserva, forse con acume, che gli stessi discorsi e lettere di Urbano II nel 1095, così come sono riportati, implicitamente indicano la portata della campagna propagandistica di Alessio. A Clermont il papa introduce l’argomento della richiesta di soccorso da Oriente con “come ben sapete”, mentre in particolare nella lettera alle Fiandre – il luogo, cioè, in cui Alessio aveva uno degli alleati più preziosi e in cui verosimilmente il messaggio fu veicolato da più tempo e con maggior successo – scrive “la vostra comunità, crediamo, ha da lungo tempo e da molte fonti appreso del barbarico attacco [dei Turchi]”.

Naturalmente, non era solo Alessio a scrivere. Altre notizie giungevano dall’Oriente per mezzo di occidentali al servizio imperiale, mercanti, monaci latini, insomma tutti personaggi che abbiamo visto popolare la corte di Alessio e l’Impero in genere. Alcune di queste voci potevano essere controllate da Alessio, molte no. Soprattutto dei pellegrini di ritorno da Gerusalemme ci rimangono testimonianze, anche in questo caso marcatamente convergenti: indicano allarmate il blocco dei flussi verso Gerusalemme e le angherie subite durante il tragitto. Non c’è ragione di dubitarne: c’era una guerra in corso tra Fatimidi e Selgiuchidi per il possesso della città, e la Palestina doveva essere attraversata da masse di cavalieri e torme di razziatori. Al-Athir, nel 1150, riporta il blocco dei flussi dei pellegrini da parte dei signori di Aleppo tra le ragioni della Crociata.

L’idea di Frankopan per cui anche queste notizie potrebbero essere, nel complesso, dominate e dirette dalla propaganda imperiale si basa solo sulla somiglianza dei temi trattati, che oltretutto, come fa notare Flori, erano stereotipi già autonomamente e anticamente diffusi in Europa. È improbabile, soprattutto, che l’enfasi sulle sacre reliquie o sulla rovina di Gerusalemme sia stata posta dall’Imperatore e “copiata” da Urbano II nel suo appello a Clermont. Bisogna però convenire con Shepard e Harris che Alessio sapesse perfettamente cosa muoveva gli animi religiosi degli Occidentali in quegli anni, e ne facesse un uso magistrale.

Conoscenza della religiosità occidentale: reliquie, martirio, Gerusalemme. Guglielmo racconta nel Cormery text che durante la sua permanenza di studio a Costantinopoli gli venne mostrata una statua di Giustiniano, l’antico conquistatore. Aveva l’indice sollevato, ad indicare qualcosa. Gerusalemme.

Abbiamo detto di come l’idea di Crociata sia tipicamente occidentale e poco abbia a che fare con la religiosità greca. Lo ribadiamo qui. Ma occorre precisare: il fatto che abbia poco a che fare non significa che non abbia mantenuto in comune molti elementi, né significa che Alessio o l’aristocrazia di Bisanzio ne ignorassero i contenuti; e come avrebbero potuto, dal momento che la corte era letteralmente invasa di occidentali e soprattutto di religiosi fino all’apice del potere? Concentreremo qui l’attenzione su tre aspetti chiave della religiosità “di Crociata”, dimostrando come probabilmente siano stati gli aspetti su cui si concentrò anche l’attenzione di Alessio.

Prima di tutto Gerusalemme. Come mostra il Cormery text, è necessario abbandonare l’idea che per i Bizantini Gerusalemme fosse non più che una provincia da conquistare; Gerusalemme era la città di Cristo. Come se non bastasse, i costanti flussi di pellegrini occidentali verso di essa non potevano non passare per Costantinopoli. Per questo non è possibile dichiarare falsa la lettera al Conte di Fiandra sulla base che Alessio non conoscesse la forza attrattiva di questa città ad Occidente: la conosceva certamente, e nessuna ragione gli impediva di farne uso. Le prove accumulate ormai dagli storici sono quasi schiaccianti: non solo Skoutariotes, bizantino del Trecento, ma anche Lupo Protospatario, cronachista greco-italico che scriveva contemporaneamente allo

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svolgersi degli eventi, concordano nell’affermare che Alessio stava presentando ai cavalieri d’Europa il prospetto della Liberazione del Sepolcro; l’ambasciata congiunta papale-bizantina a Zvonimir di Croazia ricorse al tema di Gerusalemme rovinata dai Turchi per muovere il suo ascoltatore; e prima ancora di Alessio, a mostrare che questa strategia comunicativa non era innovativa ma tradizionale, una lettera di Benzo di Alba del 1062 riporta notizia di un’ambasciata imperiale al papa che, pur contenendo in pratica una proposta di alleanza antinormanna, non disdegnava di presentare il prospetto a lungo termine di una liberazione di Gerusalemme. Se colleghiamo questo fatto ai progetti di Gregorio VII con Michele VII nel 1073 il tutto comincia combaciare con eleganza sorprendente.

In secondo luogo, le reliquie. Alessio era conscio della crescente venerazione nei loro confronti in Occidente e ne fece profusamente uso: certamente a scopo diplomatico, cioè per ingraziarsi personaggi da lui ritenuti importanti nello scenario politico europeo; e forse addirittura a scopo pubblicistico, per creare aspettative di un Oriente ricco anche nella spiritualità ed attrarre così i guerrieri dell’ovest. Nella prima categoria rientra l’invio di reliquie di diversi santi rivestite in oro ad Enrico IV di Germania, nell’ambito di un’alleanza antinormanna, e potrebbe rientrare l’invio a Urbano II di schegge della Vera Croce – non ci sono notizie esplicite di questa donazione, ma Frankopan afferma che la reliquia fosse tipicamente associata a Costantinopoli, che l’Imperatore la possedesse, e dunque che le schegge che vediamo Urbano donare massicciamente e improvvisamente durante la predicazione della Crociata fossero a loro volta dono di Alessio. Nella seconda categoria rientra invece, a titolo d’esempio, la testimonianza di Pibo di Toul, che nel 1086, al ritorno dal pellegrinaggio a Costantinopoli, ricevette anch’egli da Alessio una scheggia della Croce. Il comportamento di Alessio è in quest’istanza coerente con quello mostrato in passato, e corrisponde a una strategia di coltivazione di amicizie occidentali che abbiamo già visto attuata con Roberto di Fiandra e che vedremo continuata coi capi Crociati di ritorno dalla spedizione. Merita qui menzione il sorprendente e fitto scambio epistolare tra l’Imperatore e l’abate di Montecassino, dove Alessio fa sfoggio assolutamente tattico di umiltà e devozione (“Giudicami, perché pecco più d’ogni uomo”) per farsi amico un uomo che non a caso era a capo di uno degli ordini più influenti d’Europa.

Per quanto concerne il terzo ed ultimo aspetto, la concezione bellicistica del martirio, ricordiamo che sebbene gli imperatori della dinastia Macedone sembrassero credervi, e con essi certamente parte della popolazione, il clero bizantino aveva mantenuto la più netta intransigenza e Anna Comnena la condivideva appieno. Era insomma argomento dibattuto, o quantomeno famoso. Cosa ne pensava Alessio? Lascio la parola a lui. “Un gran numero di cavalieri e di fanti se ne sono andati verso i tabernacoli eterni; tra loro, alcuni sono stati uccisi, altri sono morti: in verità, essi sono santi, che hanno donato la vita per giusta causa. È per questo motivo che non bisogna considerarli morti, ma vivi, e trasferiti nella vita eterna e incorruttibile”. È parte della cospicua corrispondenza tra Alessio e l’abate di Montecassino, e si riferisce ai Crociati che cadono sotto i colpi dei Turchi. I casi sono due: o Alessio credeva nel martirio in armi, o adottava con massima cura il suo linguaggio alla mentalità dell’Occidente. Come aveva d’altronde già fatto, in una quantità di occasioni già dette.

È insomma chiaro: Alessio fu decisamente responsabile di ciò che avvenne, forse più di chiunque altro. Cosa si aspettasse dalle azioni intraprese è ancora poco chiaro. Frankopan arriva addirittura a porre la possibilità che l’intera Crociata sia stata organizzata a tavolino da Costantinopoli (sebbene Alessio ne avesse poi rapidamente perso il controllo). Ci limiteremo (per ignoranza) a ipotesi più moderate: Alessio cercava mercenari, come i 500 cavalieri dalle Fiandre o la pletora di condottieri occidentali che da decenni popolava

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i ranghi dell’esercito. Tuttavia, come incentivo, Alessio cercò di accendere la miccia della Guerra Santa occidentale, e l’Europa, inaspettatamente, prese fuoco.

PRIMA DELLA CROCIATA: COLLASSO O RECUPERO?

Come mai Alessio ricorre a metodi tanto drastici, tanto imprevedibili? Due risposte sono state date a questa domanda, e l’una esclude l’altra.

La prima è la risposta che ha permesso per lungo tempo a bizantinisti e storici delle Crociate di ignorarsi l’un l’altro sull’argomento della Prima Crociata: Alessio non vi ricorre - o comunque vi ricorre sporadicamente. L’asso nella manica di questa risposta è nella convinzione che già a partire dal 1091 l’Impero bizantino fosse sopravvissuto alla lotta per l’esistenza, e che per il tempo della Crociata fosse ormai in netto recupero. In questo contesto, nel 1095 tutto ciò che Alessio doveva fare era procedere autonomamente alla riconquista del terreno perduto, esattamente come aveva fatto nei quattro anni precedenti; nessun bisogno di strategie innovative. Ci sono due problemi in questa risposta. Il primo è che le strategia complessiva di Alessio non è in realtà innovativa, ma già sperimentata; ad essere nuova, semmai, è l’efficacia con cui viene portata avanti. Il secondo problema è che la manica che nasconde l’asso è quella, come sempre, di Anna Comnena.

L’Alessiade non si chiama così per caso. È un componimento epico, prima che un’opera storica. La struttura del testo è perfettamente sovrapponibile a quella dell’Odissea: Alessio, eroe omerico, nuovo Ulisse, eredita un impero al margine del collasso e lo riporta, lentamente e costantemente, verso nuova grandezza. È “il capitano della nave” dell’Impero, che con perizia e soprattutto astuzia lo guida attraverso “il perenne infrangersi delle onde tempestose … così che non vi era possibilità di respirare né di riposare gli occhi”. Ogni libro dell’Alessiade si apre con l’onda improvvisa che si abbatte su di lui, e si chiude col ritorno vittorioso dell’Eroe a Costantinopoli; tra l’inizio e la fine di ogni libro, ogni viaggio, ogni tempesta, l’Impero si rafforza. Anna ha fatto le sue ricerche e ha ottime fonti, ma è tranquillamente disposta a sacrificarle qualora queste non potessero rientrare nello schema della sua narrazione. Perciò, perché soddisfi i requisiti, la Crociata dev’essere presentata come l’ennesima tempesta improvvisa che l’Eroe affronta nel libro X e che riesce infine a domare; e perché sia mantenuta la premessa di progresso costante, è inevitabile che la nave debba navigare in acque tranquille prima che la tempesta si scateni. Per farla breve: la situazione dell’Impero nel 1095, e in particolare dell’Asia, viene presentata come ottimale per la riconquista di Alessio, e la Crociata come l’ostacolo a questa riconquista. Questo capovolgimento è un lavoro difficile, che impiega ad Anna un notevole sforzo retorico, omissioni di fatti o date qua e là, e una cronologia alle volte deliberatamente manomessa. E se gli sforzi retorici sono stati ampiamente disvelati nella contraddizione tra fatti puntuali e rappresentazione complessiva del quadro, la cronologia utilizzata per disvelarli è rimasta in gran parte quella fornita dall’Alessiade stessa.

Di seguito esporrò in breve la ricostruzione tradizionale della situazione di Alessio nel 1095. Il fronte occidentale, dopo la minaccia tremenda dei Normanni e dei Peceneghi, è stabile: i Normanni sono tranquilli e i Peceneghi annientati dai tempi di Levounion; quanto ai Cumani, sostituitisi ai Peceneghi, la loro incursione del 1095 ha avuto conseguenze minime ed è stata respinta. Il fronte orientale è anch’esso stabile, come mai prima dai tempi di Manzikert: l’emiro di Smirne e terrore dell’Egeo, Caka, è stato

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assassinato abilmente da Alessio, e la flotta imperiale ha ripreso possesso dei mari, riconquistando non solo le isole egee ma anche, nel 1092, Creta e Cipro; sulla terraferma, decine di città romane (Edessa, Attalia e molte altre) resistevano ancora ai Turchi, in attesa di soccorsi; e a rafforzare il vantaggio di Alessio, il Gran Sultano Malik Shah era morto nel 1092 generando divisioni fra i musulmani. Il fronte interno è anch’esso stabile: la congiura del 1092 è stata sventata, uomini di fiducia posti al comando; l’inflazione selvaggia che aveva distrutto le finanze dell’Impero e dei suoi cittadini era stata debellata dalla riforma dell’Hyperpyron, la nuova moneta in oro quasi puro coniata da Alessio.

A proporre un’interpretazione differente è Frankopan. Lungi dall’essere una provocazione, la sua revisione è basata su dati e presenta un livello di coerenza narrativa apparentemente maggiore della vecchia: è in grado cioè di tappare molti buchi.

Da stabilità a collasso. Anna afferma nell’Alessiade che l’Asia era perduta all’inizio del regno di Alessio. Che questo sia falso non è un mistero per gli storici attuali, e neanche per Anna, visto che è lei a fornire le prove. Concordemente alla visione tradizionale, Frankopan osserva che la resistenza bizantina in Asia dopo Manzikert continuava, e che all’inizio del regno di Alessio Cesarea, Antiochia, Edessa, Attalia, Nicea e le isole – ovvero quasi tutte le zone più importanti – restavano in mani romane. Il vero pericolo giungeva da Occidente, dove i Peceneghi e i Normanni insieme avevano invaso e miravano a Costantinopoli stessa. Conseguentemente, Alessio concentrò i suoi sforzi in quella direzione, rimuovendo tutti i contingenti imperiali dall’Asia; così disarmato, lasciò alla diplomazia il compito di gestire la meno grave crisi orientale. Avviò una politica convintamente filoturca: in primo luogo con l’alleanza di Suleyman, uno dei tanti signori della guerra che popolavano l’Asia, cui fu ceduta in cambio Nicea. Niceforo Briennio (marito di Anna) attribuisce la caduta della città all’abbandono di Niceforo Melisseno, suo governatore, ma non ha senso: Melisseno fu rimosso da Alessio all’inizio del regno, nello stesso tempo in cui Anna parla di un accordo tra Alessio e Suleyman di divisione dell’Asia in zone di influenza delimitate dal fiume Drakon; Nicea si trovava dalla parte dei Turchi. Solimano fu servo fedelissimo di Alessio: inviò 7000 uomini sul fronte occidentale, e su quello orientale mosse spietata guerra ai Turchi, liberando varie città e prendendone possesso; tra queste Antiochia, che seppur governata da un bizantino si era sottomessa al Gran Sultano Seljukide. Il successo di Suleyman, e la buona accoglienza datagli nelle città greche, deriva dalla legittimità imperiale concessagli come governatore, così come da essa derivano le minacce del Sultano e le impertinenti risposte dell’emiro: “Suleyman obbedisce al Signore di Baghdad – nelle terre di Baghdad”; Antiochia era bizantina. Ma Suleyman fu sconfitto e ucciso, e l’intera scommessa di Alessio spettacolarmente perduta: Antiochia cadde nelle mani di Malik Shah, mentre Nicea passò ad Abul Kasim, che prontamente la usò per attaccare Alessio e prendere, tra le altre, Nikomedia. Alessio si alleò quindi con Malik Shah: riconoscendogli Antiochia ottenne da lui spedizioni nel cuore dell’Asia contro Abul Kasim. L’alleanza, suggellata anche da una promessa di matrimonio, è testimoniata da moltissime fonti - tra cui una lettera del Sultano in persona ad Alessio - ma non dall’Alessiade, che inventa per spiegare il recupero di città asiatiche ad Abul Kasim improbabili opere di manipolazione psicologica di Alessio. L’Asia, insomma, è ancora sotto controllo, finché Malik Shah vive. La sua morte nel 1092 non è un’occasione per Alessio, ma una tragedia, che sancisce la perdita della seconda scommessa turca. Il successore Barkyaruk, ostile ad Alessio, si lancia in una spedizione che gli sottrae tutta la Cilicia; Alessio fa la terza ed ultima scommessa, alleandosi con Abul Kasim, che viene però linciato dalla folla all’arrivo del figlio di Suleyman, Kilij Arslan, alla guida di cavalieri gentilmente offerti da Barkyaruk.

Fin qui è tutto abbastanza evidente. La tesi di Frankopan sulla manipolazione cronologica della conquista delle isole è forse più dibattuta. Per esigenze di sintesi rimando la dimostrazione alla lettura del suo libro, e

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mi limito ad esporre il risultato. La spedizione della flotta imperiale per il recupero delle isole non poteva essere avviata nel 1092 come Anna cerca di sostenere, ma per forza dopo il 1094; inoltre, le prime campagne sono fallimenti clamorosi, e fino almeno al 1097 Caka resta vivo, vegeto e pericolosissimo. È quindi grazie alla Crociata che Alessio riesce a sbloccare la situazione sul mare e sulla costa.

Pur senza necessariamente condividere quest’ultima affermazione di Frankopan, è evidente che la situazione di Alessio fosse tragica abbastanza per richiedere aiuti esterni: il controllo sull’Asia era in ogni caso in costante declino dal 1081, e in aggiunta si ammassava un numero sempre maggiore di problemi irrisolti. Uno di questi era quello cumano: se pure è vero che l’invasione del 1095 era stata respinta, questa aveva comunque messo in luce la debolezza sostanziale dell’impero, in almeno tre modi. Militare il primo: i Cumani penetrarono in profondità nel territorio balcanico, cosa che rendeva ad Alessio necessario continuare a rafforzare difese ed esercito ad occidente e impossibile divergere forze verso est. Finanziario il secondo: la riforma dell’Hyperpyron era infatti lungi dall’aver risolto il disastro economico; la politica di Alessio restava terribilmente dispendiosa nella diplomazia come nello sforzo bellico, e ben al di là delle possibilità di un Impero continuamente saccheggiato, che dovette reagire con incrementi insostenibili della tassazione nelle poche aree sotto suo pieno controllo; questo spiega la defezione di troppe città balcaniche appena all’inizio dell’invasione cumana. Di stabilità il terzo: i Cumani invadevano guidati da un falso Leo Diogene figlio di Romano IV, che volevano porre sul trono; chiaro sintomo di come, anche dopo la congiura di Niceforo Diogene e l’epurazione del 1092, il nome dell’antico imperatore continuasse ad attrarre odio contro Alessio. La Costantinopoli del 1095 era lo specchio della sofferenza dell’Impero: i rigidi inverni, le razzie di terra dei Cumani e di mare (Caka o non Caka) di tutti i vari emiri della costa, l’auentare costante dei rifugiati, il ripetuto ricorso di Alessio alla fusione dell’oro delle Chiese nonostante le promesse fatte, le voci di alleanze tra Turchi e Cumani o di congiure ulteriori, stavano strangolando la Città in una sorta di psicosi. Giovanni l’Ossita, patriarca di Antiochia in esilio, tuonava contro il suo patrono Alessio: “Dio ha abbandonato l’Impero”. La ragione era il peccare del suo Imperatore.

Nel 1092, dopo la vittoria di Levounion, Alessio riesce a riconquistare Nikomedia, ma piuttosto che proseguire oltre – come avrebbe certo fatto se ne avesse avuto le forze – spese l’anno seguente a fortificarla pesantemente, e non mosse un passo verso l’entroterra per i successivi 5 anni. È paralizzato, di una paralisi che solo la Crociata (ma a tratti neanche quella, vista la sua reticenza ad avanzare) avrebbe potuto sbloccare.

ORGANIZZARE LA CROCIATA: URBANO E ALESSIO COLLABORANO?

In Caduta e Declino dell’Impero Romano, Edward Gibbon inaugura il racconto della Crociata con una favola. un pastore, assetato dal sole dell’India, pregava i suoi Dei per dell’acqua. Le divinità risposero prontamente alla sua richiesta: deviarono il fiume Gange, gettando nell’acqua la casa e il gregge del pastore. Enigmatico. Ebbene, il fiume Gange è la Prima Crociata. Lascio indovinare chi sia il pastore. Questa interpretazione, che vede Alessio come colui che a Piacenza chiese una cosa e ottenne tutt’altro, ha avuto enorme successo nella storiografia, fino anche a Runciman. Come già sappiamo, però, deve essere rivista: Alessio potrebbe essere stato molto più consapevole di ciò che sarebbe arrivato di quanto si è creduto.

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La terza sezione di questa relazione ha inteso mostrare gli intensi e amichevoli rapporti che Alessio Comneno intratteneva con la Chiesa Cattolica e in particolar modo con papa Urbano II. Riprendo ora quei fili, cominciando da quel che è l’inizio di quasi ogni trattazione sulla Crociata ma il culmine a tutti gli effetti di un lungo percorso di collaborazione tra papato e Impero.

Il Concilio di Piacenza. Spesso, nel parlare di Piacenza, succede che se ne ignorino i prodromi. Pasquale Corsi, ad esempio, seguendo l’interpretazione di Anna Comnena di totale non coinvolgimento di Bisanzio nell’elaborazione della Crociata, ritiene subito di dover scartare la disperata richiesta d’aiuto bizantina che viene raccontata dalle fonti occidentali come propaganda: null’altro che invenzioni, costruite a posteriori per evidenziare al contempo la debolezza e la doppia faccia di un Alessio che avrebbe poi tradito gli stessi uomini giunti in suo soccorso. Questa riduzione è ingiustificata. La portata del Concilio si comprende meglio se inserita nel suo contesto; un contesto di assidua collaborazione tra Alessio e Urbano e di gravi difficoltà per entrambi.

L’anno di svolta fu il 1094. Si verificarono infatti due defezioni tragiche per lo schieramento di Enrico IV e del suo protetto Clemente III: la moglie e il figlio dell’Imperatore riconobbero papa Urbano II. Il varco era aperto. Il concilio fu riunito a Piacenza, a sfregio, pugnalata nel cuore di quelle che Enrico considerava terre imperiali; la moglie di Enrico, con sapienza scenica, denunciò l’immoralità del marito dinnanzi a tutti; Clemente III fu solennemente condannato, mentre un appello e un’amnistia si rivolgevano a chiunque volesse rinnegarlo; di lì a pochissimo, a Cremona, il papa avrebbe incontrato e incoronato Corrado figlio di Enrico, mentre Corrado gli avrebbe tenuto le briglie del cavallo. Nello stesso momento – un momento troppo conveniente per non essere stato accuratamente determinato – l’ambasciata bizantina presentava le sue richieste di fronte a tutti i cardinali. In un singolo Concilio la situazione si è del tutto capovolta: il potere di Enrico è minato profondamente, i Normanni sono fedeli alleati, Bisanzio disperata non sembra mai stata tanto pronta a sanare lo Scisma. Visto in quest’ottica, Clermont acquista nuova luce: l’idea di base potrebbe essere stata quella di portare l’attacco papale contro l’ultimo nemico, Filippo di Francia, nel cuore dei suoi domini come con Piacenza; una volta destabilizzato anche lui, Occidente e Oriente sarebbero stati pronti a riconoscere l’autorità di Urbano. La presa di Gerusalemme doveva essere il trionfo del vincitore.

Collaborazione di Alessio e Urbano. Frankopan ritiene che la collaborazione fra Alessio e Urbano sia in realtà proseguita ben oltre Piacenza, e ben oltre Clermont; secondo lui, è possibile che l’intera organizzazione della Crociata sia stata pianificata dai due all’unisono, o quantomeno con stretti contatti.

Un primo indizio di ciò è la mancanza di una chiara leadership tra i Crociati. Urbano II nomina suo legato Ademaro di Le Puy, che diventa quindi un naturale punto di riferimento; ma allo stesso tempo, Le Puy si trovava nel feudo di Raimondo di Saint Gilles. Raimondo pare in effetti il capo perfetto: già crociato in Spagna e guerriero di fama, fu primo tra tutti i principi a prendere la Croce, in una cerimonia che doveva essere stata certamente organizzata con il papa in anticipo; nelle lettere definisce se stesso capo della spedizione, e il suo comportamento in diverse occasioni - dal rifiuto di giurare come tutti gli altri principi alla posizione di preminenza che assunse o tentò di assumere - sono punti a suo favore. E tuttavia almeno altri due Crociati sembrano, almeno all’inizio, convinti di essere al comando: il primo è Ugo di Francia, cui Urbano ha dato anche il vessillo di San Pietro e che afferma dinnanzi ad Alessio di essere il capo; il secondo è Stefano di Blois, che scrive la stessa cosa a sua moglie nelle prime lettere. Era l’ambiguità di Urbano a

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produrre queste convinzioni. Perché? Probabilmente per due ragioni: in primo luogo per motivare maggiormente i vari principi a partire, cullandone vari in sogni di protagonismo; ma in secondo luogo perché il vero leader doveva essere Alessio Comneno.

Altre tracce di questa collaborazione sono rinvenibili. Frankopan argomenta – a buon diritto, credo – che i giuramenti e il rito di cucitura della croce avessero non solo lo scopo di obbligare il Crociato moralmente, ma anche di avere un’idea del numero dei guerrieri, e quindi della logistica necessaria. Non vi è ragione per cui Urbano dovesse nascondere ad Alessio questi numeri, e questo significa che Alessio era stato informato con largo anticipo su cosa dovesse aspettarsi. La data di partenza unificata, il 15 agosto 1097, serve anch’essa propositi di preparazione logistica.

In ultimo, Frankopan asserisce che gli itinerari seguiti dai Crociati, fin dalla partenza, erano stati concordati con Alessio. La prova da lui addotta è nella marcia di Raimondo lungo la costa dalmata e contro il sovrano di Serbia, nonché ribelle di Bisanzio e fedele di Clemente III, Costantino Bodin. È un’assunzione ardita: per quanto sia strategicamente sensato lasciare ad Alessio la parola su tempistica e rotte seguite, non sembra sia stato il caso. La prova addotta è debole oltre che difficilmente generalizzabile; mentre è chiaro da più fonti che persino in territorio bizantino Alessio ebbe notevoli problemi nel dirigere i Crociati.

Resterò prudente con Harris. Alessio era informato sui tempi e sui numeri della Crociata, e aveva collaborato col papa nel generarla e nell’organizzarla. Ma la portata del fenomeno che si verificò non poteva essere prevista, né tantomeno controllata, da nessuno dei due. L’entrata in scena di Pietro l’Eremita, soprattutto, avrebbe stravolto ogni piano: non preventivata, non conteggiata, erratica nel suo movimento, la sua spedizione fu un tragico inizio.

PIETRO L’EREMITA

Se non solo l’Alessiade ma anche altre più affidabili fonti bizantine, come Teofilatto, riportano lo stupore e il timore verso il movimento crociato, ciò dev’essere perché Alessio non aveva alcuna necessità di comunicare dell’arrivo a chiunque non fosse un governatore lungo la strada; ma gli stessi governatori furono presi in contropiede dal momento dell’arrivo di Pietro.

Alessio doveva sapere che la Crociata sarebbe partita il 15 agosto 1096, ed aspettarsi l’arrivo di Goffredo e i suoi a Belgrado come minimo due mesi dopo; la logistica e la preparazione non potevano cominciare senza i dettagli su numero dei partecipanti e rotta seguita, e fino al 15 agosto chiunque avrebbe potuto unirsi; perciò ipotizzo che i calcoli potessero essere fatti solo dopo questa data. L’informazione doveva poi viaggiare attraverso il papa e fino a Costantinopoli, dove si sarebbe dovuta mettere in moto una complessa macchina burocratica, ulteriormente rallentata dalla distanza tra Belgrado e la Città. Andrebbero fatte ricerche precise, ma a spanne si può dire che l’imperatore sarebbe stato pronto forse per novembre. La Crociata di Pietro arrivò a giugno. Una tale massa d’uomini non passava inosservata, e sue notizie dovevano essere arrivate con qualche preavviso; ma se si pensa che la predicazione cominciò a marzo, che la partenza da Colonia fu il 12 aprile e che l’11 giugno già Gualtieri era alle porte dell’Impero, ci si rende conto di quanto rapidamente si fossero svolti gli eventi. Oltretutto – ed è strano a dirsi di una massa disorganizzata, cosa che France non è incline a ritenere – il ritmo di marcia fu più serrato di quello di molte armate dei principi.

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Il governatore a Belgrado, Niceta, subito reagì chiudendo la città, e inviò agenti a vietare ogni compravendita privata, tentando di razionalizzare e centralizzare gli approvvigionamenti: lo Stato doveva fissare prezzi e quantità da vendere, e si attendevano notizie da Costantinopoli. Ma i Crociati avevano dei bisogni; razzie delle campagne e ritorsioni dei reparti imperiali continuarono fino a Nis, dove, giunte disposizioni da Costantinopoli e ormai organizzata la logistica, agenti imperiali si presero cura delle forze di Gualtieri fino all’arrivo, a luglio. A pochi giorni di distanza seguiva Pietro stesso. Il suo contingente era più numeroso e diede ancor maggiori problemi, tanto più che Niceta sapeva dell’assalto dato a Semlin in Ungheria e del triste destino dei suoi abitanti. Si susseguirono un’evacuazione di Belgrado, scambi di ostaggi per aprire i mercati, e una colluttazione generata probabilmente da litigi con mercanti locali sui prezzi - che culminò in una razzia e un contrattacco imperiale tanto violento da disperdere l’intero esercito. Ma alla fine, giunte disposizioni da Bisanzio, i crociati si radunarono e anche Pietro fu scortato in sicurezza.

Arrivarono l’1 agosto, rimasti in 30.000, ma rimanendo stazionari il rifornimento doveva essere ancor più difficile: già l’8 agosto, dopo ulteriori devastazioni e forse addirittura dietro pressanti richieste di alcuni leader crociati, Alessio si risolse a spostarli in Asia con la flotta imperiale ed accamparli a Kibotos. Il settore asiatico era stato preparato con cura e anticipo: Kibotos era fortificata, accogliente, e riceveva costanti rifornimenti dalla flotta. Forse però non abbastanza per gli imprevisti numeri dei Crociati, come i fatti successivi suggeriscono. France argomenta che a segnare la fine per la spedizione siano stati, più che generiche disorganizzazione o incapacità militare, mancanza di viveri e di leadership. Mentre Pietro – e non a caso – andava da Alessio a denunciare i prezzi eccessivi del cibo, il segmento francese della crociata saccheggiò i dintorni di Nicea, e subito dopo quello tedesco assaltava il castello di Xerigordon e ne faceva base per razzie. Kilij Arslan avrebbe dovuto essere lontano, ed è su questo assunto che giocò: con una rapidità e mancanza di preavviso propria soltanto delle armate nomadi, 15.000 cavalleggeri turchi calarono sui Tedeschi cogliendoli fuori dal castello, per poi muovere verso Kibotos sperando anche qui di essere più rapidi dello spargersi delle notizie. Gualtieri ed altri capi crociati mostrarono buone competenze militari, riuscendo ad evitare di essere tratti in un’imboscata e riconoscendo ampiamente la pericolosità di uscire dal campo; ma uno di loro propose di attaccare, e nonostante le obiezioni degli altri, la fame e l’impazienza delle truppe gli diedero ragione. I cavalieri furono circondati e massacrati, il campo razziato, e i superstiti tornarono a Costantinopoli.

Alcune fonti occidentali riportano la contentezza di Alessio alla notizia del disastro, suggerendo intenti malevoli; Anna, che deve difendere il padre, reitera invece quanta insistenza egli avesse fatto perché i Crociati aspettassero prudentemente l’arrivo dei Principi. La verità potrebbe essere nel mezzo: Alessio certo non poteva apprezzare i disordini creati a Costantinopoli né la sua stabilità a corte era tale da permettergli di essere impopolare, e questo spiega la velocità del trasferimento in Asia; d’altra parte non poteva costruirsi una brutta reputazione in vista dei Crociati che sarebbero giunti dopo, e dobbiamo ipotizzare che tentò per quanto possibile di rifornirli e ingraziarsene i capi.

L’ARRIVO DEI PRINCIPI

I fatti generali della Crociata sono conosciuti, e non mi ci dilungherò: questa relazione affronterà soltanto le azioni e reazioni bizantine da qui in avanti.

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Possiamo individuare dei pattern comuni nella gestione dei flussi dei Crociati durante il loro passaggio all’interno dell’Impero. Alcuni sono stati già visti per la spedizione di Pietro; ma l’accoglienza ai principi avvenne in circostanze di molto maggior organizzazione.

Il primo ad informare Alessio su cosa aspettarsi e quando era, come è stato argomentato, probabilmente Urbano. France ritiene che ai principi fosse stato raccomandato di inviare all’Imperatore ambascerie più dettagliate man mano che si avvicinavano: così fecero infatti almeno Ugo di Francia, Raimondo di Tolosa e Goffredo di Buglione, insieme probabilmente con la maggior parte degli altri. Anna riporta la lettera di Ugo nei dettagli, e per quanto la modifichi in modo da far risaltare presunta stupidità e arroganza occidentale, ne mostra scopo e contenuto: Ugo si presentava, indicava i suoi numeri, la distanza dal confine e il punto d’arrivo, dando ad Alessio tempo prezioso per prepararsi. Una volta arrivati, gli eserciti crociati erano contattati da agenti imperiali che intercedevano per loro presso la popolazione, occupandosi di fare in modo che cibo e vettovaglie fossero forniti agli eserciti in quantità sufficiente e a prezzi fissi concordati (probabilmente in anticipo) con lo Stato: persino l’Anonimo delle Gesta, nemico giurato di Alessio, riporta “in qualunque città passavamo, quest’uomo [inviato imperiale] ordinava alla gente di fornire provvigioni”. Così facendo, si evitavano speculazioni sui prezzi da parte dei privati venditori e ci si assicurava un afflusso di viveri tale da non far degenerare il tutto nel caos, com’era invece avvenuto con Pietro all’inizio. Il percorso da seguire era indicato da Bisanzio, e picchetti di truppe imperiali scortavano i Crociati fino a Costantinopoli per accertarsi che non vi fossero deviazioni.

Vi furono comunque problemi con alcuni contingenti. Raimondo, avendo preso la scomoda via dalmata ed essendosi scontrato con la guerriglia serba, arrivò a Durazzo al confine in netto ritardo, a febbraio. La fine dell’inverno e l’inizio della primavera sono il periodo peggiore possibile per marciare: sono finite le scorte invernali della popolazione e nulla cresce nei campi. Inoltre, l’armata di Raimondo seguiva a poche settimane di distanza quella di Boemondo; quel poco che si era riuscito a radunare venne dato ai Normanni, e al passaggio di Raimondo la gente rifiutava di vendere. L’organizzazione imperiale fu perfetta – Giovanni, il governatore, accolse subito Raimondo, gli inviati imperiali si mossero con lui, i picchetti erano posizionati, e lo stesso Raimondo si mostrò ben disposto, avanzando anche da solo per un incontro con l’Imperatore come richiesto – ma non bastò: il caro viveri produsse vari scontri (Le Puy fu ferito e catturato) e Roussa presa d’assalto, prima che la situazione si stabilizzasse.

Con Goffredo tutto proseguì secondo i piani per la logistica; le tensioni furono di natura politica. Realisticamente si può dire che gli scontri furono relativi alla questione del giuramento, ma Raimondo d’Aguilers, cronista di Goffredo, racconta anche di “stranieri” che coltivarono in Goffredo diffidenza verso Alessio, prima con la falsa notizia che Ugo era stato imprigionato e poi, quando Alessio rispose inviando Ugo stesso a parlare con Goffredo, che l’Imperatore gli chiedeva di incontrarlo privatamente per ucciderlo. Probabilmente giustificazioni morali fornite dal cronista verso Goffredo, ma Frankopan vi scorge una traccia di verità: Alessio aveva molti nemici a corte, che potevano voler aizzare Goffredo contro di lui.

Boemondo è un caso peculiare, e continuerà ad esserlo, tra la frustrazione di chiunque cerchi di comprenderlo appieno. Sembra infatti che il governatore dell’Epiro aspettasse il suo arrivo a Durazzo, e lungo tutta la via Egnazia erano stati fatti i dovuti preparativi; ma Boemondo sbarcò a Valona, evadendo deliberatamente il controllo imperiale. Quando fu raggiunto dalle forze bizantine, cambiò tattica, proseguendo sulla via Egnazia e staccandosi dai suoi per raggiungere Alessio da solo, accordarsi e infine giurare; ma la sua armata, guidata da Tancredi, proseguì con la lentezza esasperante di 5 chilometri al giorno, e fonti da ambo le parti evidenziano contatti privati tra inviati normanni e altri principi nei pressi di Costantinopoli. Si farà una possibile ricostruzione del suo pensiero. Il suo obiettivo preciso era ignoto forse

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anche a lui, ma è chiaro che cercasse un’occasione per acquistare maggior potere contrattuale per il momento delle trattative con l’Imperatore. Perciò tentò inizialmente di sfuggire al controllo imperiale; fallito questo, si mostrò massimamente benevolo verso Alessio nella speranza di ottenere cariche di comando (secondo Anna chiese il ruolo di Gran Domestico d’Oriente, massimo grado militare per l’Asia, che ne avrebbe fatto agente bizantino a capo dell’intera crociata), mentre Tancredi rallentava cercando di convincere Goffredo ad aspettarlo e di farsi raggiungere da Raimondo, subito dietro di lui, di modo che un grande esercito crociato potesse ammassarsi sotto le mura della Città e strappare ad Alessio qualunque sorta di concessione.

CONTRATTAZIONI E GIURAMENTI

Sebbene fosse stato Alessio a volere la spedizione, gli incidenti di percorso e la sua portata effettiva non erano rassicuranti. Era un gioco pericoloso, i cui rischi, visto il precedente disastro di Pietro, non sembravano giustificati da guadagni sicuri; l’imperatore era quindi minacciato tanto dall’interno quanto dall’esterno, e non poteva permettersi errori.

Herve si era ribellato a Michele VI, Robert Crispin a Romano Diogene, Roussel di Bailleul a Michele VII. Ciò non doveva ripetersi ancora, e Alessio aveva ideato le sue contromisure: evitare concentrazioni d’uomini alle porte, e guadagnarsi la fedeltà degli occidentali al modo degli occidentali. I due obiettivi erano correlati: Alessio doveva approfittare dell’arrivo scaglionato dei contingenti Crociati per convincerli a giurare uno per uno prima che si riunissero, e se non vi fosse riuscito in tempo avrebbe perso la posizione di forza che gli permetteva di costringerli.

Natura del giuramento. C’è ancora qualche scettico, ma generalmente si ritiene che il giuramento cui Alessio sottopose i Crociati fu un vero giuramento feudale. Non sarebbe in fondo tanto assurdo, trattandosi – è stato detto – di uno di molti casi di spregiudicata adozione da parte di Alessio di linguaggi e costumi dei suoi interlocutori dall’Ovest. Ma abbiamo altre prove.

Anna è greca, e il greco non ha il termine per definire correttamente il vassallaggio: “giuramento tipico dei Latini”, lo chiama. Ad avere il giusto vocabolario sono però le fonti occidentali, pur interessate teoricamente a sminuire la portata del gesto: “ei fidalitatem facere”, dicono le Gesta su Ugo; Raimondo di Aguilers dice che la proposta di Alessio a Saint-Gilles era stata di divenire “eius hominum et fiduciam”; Alberto di Aachen ne descrive addirittura i gesti, inconfondibili, quando dice che Goffredo “rimise la sua mano ad Alessio e si dichiarò suo vassallo”. Potrei continuare.

Degna di discussione è invece la natura degli accordi che Alessio stabilì coi vari capi, fondamentali per cercare di comprendere cos’accadde dopo. La questione d’Antiochia, la più discussa dagli storici vecchi e nuovi di tutta la Crociata, è la vera chiave di volta della sua interpretazione, e i termini del giuramento sono il centro della questione. L’argomento dev’essere affrontato con dovuti distinguo fra comandanti.

Far giurare i capi. “Questo i nostri capi categoricamente rifiutarono, e dissero: davvero ciò non è degno di noi, poiché è ingiusto che giuriamo nei suoi confronti [di Alessio] qualunque giuramento” Un giuramento occidentale, solenne e pubblico come quello richiesto da Alessio era qualcosa di serio, e i Crociati lo sentivano perfettamente. Le resistenze opposte furono in molti casi fortissime, e l’imperatore

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dovette giocare tutte le sue carte per riuscire nell’impresa.

Le dinamiche concernenti l’arrivo a Costantinopoli di Goffredo sono forse quelle maggiormente in grado di evidenziare le tattiche a disposizione dell’una e l’altra parte. Per prima cosa, Alessio ricorre a Ugo di Francia per convincere Goffredo a recarsi di persona dall’imperatore e giurare; quella di usare i Crociati che si erano appena uniti a lui come mezzo di pressione - diplomatica, psicologica e indubbiamente militare – per sottomettere i successivi è uno stratagemma cui Alessio ricorrerà sistematicamente da qui in avanti. Di fronte al rifiuto di Goffredo, Alessio gioca la seconda carta: il blocco dei rifornimenti. Goffredo risponde inviando i suoi cavalieri a razziare i dintorni della Città, ma pare che l’imperatore avesse ragione di confidare nell’effetto delle misure da lui intraprese, perché inviò nuovamente Ugo a proporre gli stessi termini. Goffredo questa volta replicò con quanto Alessio temeva di più: un attacco diretto a Costantinopoli. Apparentemente – e sarebbe interessante analizzarne i motivi - le leggendarie mura di Teodosio si mostrarono ben poco resistenti, tanto che i Crociati riuscirono persino a dar fuoco alla porta che dava alle Blachernae, entrando in città; ma una fortunata sortita della cavalleria imperiale li attaccò alle spalle, portando a casa la giornata. A questo punto però Alessio doveva chiudere la partita, e in fretta: l’ossessione nell’Alessiade per i contatti tra Goffredo e Boemondo è prova non solo degli stessi, ma anche della paranoia che poteva essersi impadronita della città. Già il solo Goffredo era quasi riuscito a prenderla; se poi a lui si fossero aggiunti Raimondo e Boemondo, ed erano ormai alle porte, sarebbe stato un disastro. A testimoniare la pressione estrema cui Alessio era sottoposto dall’interno e dall’esterno è il suo giocare l’ultima carta: la battaglia campale. Solo la vittoria bizantina poté finalmente convincere – o costringere, a questo punto – Goffredo a giurare. Ottenuto ciò che voleva, Alessio trasferiva immediatamente i Crociati al di là del Bosforo, per affrontare la partita che lo attendeva subito dopo.

Certamente la diplomazia bizantina ebbe un ruolo nel convincere i principi, ed a volte sembrò riuscire da sola a sistemare i problemi. Alessio ricorse a tutti i trucchi di grandeur della corte bizantina, e fornì ampie donazioni a chiunque giurasse e anche alla truppa, in modo da legarla a sé con obbligazioni dirette che scavalcavano i capi stessi; Ugo e Stefano di Blois giurarono entusiasticamente “l’imperatore mi ha ricevuto come un figlio, mi ha fatto doni preziosi, mi ha offerto d’incaricarsi di nostro figlio; ha fatto doni agli uomini, ha soccorso i poveri”.

Il giuramento di Raimondo è stato spesso raffigurato come estremamente problematico: è stato detto soprattutto che il motivo per cui il conte rifiutava di giurare risiedeva nel suo percepito ruolo di preminenza all’interno della spedizione, e che il giuramento “diluito” a cui infine decise di sottoporsi era un altro modo per mantenersi in una posizione di distinzione rispetto agli altri capi. France propone qui un’interpretazione intrigante: le difficoltà iniziali erano dovute a cause culturali, e in particolare al fatto che il giuramento richiesto da Alessio, valido nel Nord Europa, non era lo stesso cui erano usi i provenzali; quello provenzale si centrava infatti su criteri di amicizia piuttosto che di omaggio e fedeltà vassallatica, criteri che assomigliano molto ai resoconti dati dalle fonti sul giuramento “diluito”. In questo senso, il trattamento che Raimondo ricevette non aveva nulla di speciale rispetto a quello cui furono sottoposti tutti gli altri principi: riconosciuto l’ostacolo, ancora una volta Alessio si adattava ai costumi dei suoi ospiti.

Anche Boemondo sembra essersi sottomesso con estrema docilità. Abbiamo già descritto però le sue intenzioni probabili, intenzioni che non solo Anna Comnena a posteriori ma forse anche Alessio aveva decriptato. Anna d’altronde ne è certa: per lei Alessio leggeva nella mente di Boemondo e lo plasmava come creta. Rifiutò dunque la sua proposta di nominarlo Gran Domestico, ma con la più diplomatica delle repliche lo rassicurò che terre e titoli gli sarebbero piovuti addosso qualora nella spedizione si dimostrasse

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valido; mostrò poi al normanno una stanza piena di tesori, chiedendogli di servirsi, e Boemondo, nonostante avesse tentato di mantenere compostezza e mostrare falsa gentilezza, fu infine vinto dall’ingordigia e l’impulsività che lo dominavano. Di contro, l’Alessiade rimarca con insistenza eccessiva le buone relazioni tra Alessio e Raimondo, nemesi di Boemondo, che Alessio pare avesse fatto suo agente e informatore per i Crociati e in particolare per avvisare di qualunque comportamento sospetto del normanno. Se da una parte France si rifà generalmente a questa narrazione, Shepard è di diversa opinione: vista soprattutto in luce dei fatti successivi, ne emerge un dipinto di fiducia di Alessio quasi assoluta verso Boemondo, tanto da far sembrare quella di Raimondo null’altro che una copertura di Anna a nascondere la verità, ossia che l’agente di Alessio e tramite tra lui e i Crociati era proprio Boemondo. Lo approfondiremo alla luce della questione d’Antiochia; per ora basti dirsi che è possibile supporre un patto tra i due per cui ampie promesse erano state fatte dall’imperatore in cambio di collaborazione.

Più fonti implicano che non solo i principi, ma anche i vassalli minori e possibilmente i cavalieri dovettero giurare fedeltà; la fuga di Tancredi, che di notte con una nave rubata attraversò il Bosforo per evitare l’imperatore, è significativa, perché Tancredi era in fondo un personaggio secondario, ma fu sottoposto alle stesse pressioni dei grandi. Per quanto le Gesta Tancredi affermino il contrario, sono isolate oltre che a dismisura sospette: la sua resistenza, tollerata inizialmente, fu terminata da Alessio dopo Nicea, al banchetto di Pelekanon, quando Tancredi fu costretto a giurare.

Sembra invece improbabile che Alessio si sia ufficialmente impegnato in giuramenti nei confronti dei Crociati, e in particolare nel giuramento di raggiungerli. È un aspetto della permanenza a Costantinopoli che viene elaborato da alcune fonti occidentali, prima tra tutte le Gesta Francorum, ma per ovvi motivi: il tradimento supposto di questo giuramento è una giustificazione per il tradimento di Boemondo ad Antiochia. Ad ogni modo, il comportamento successivo di alcuni Crociati, come Raimondo, e di Alessio stesso, oltre al fatto che non tutte le fonti occidentali ne parlano, è prova sufficiente di come sia stata una fabbricazione a posteriori. Alessio non ebbe bisogno di prendere impegni di sorta, e non lo fece. Sul perché non lo fece, ossia perché riteneva più saggio evitare di giungere personalmente in contatto con la spedizione crociata, Frankopan (con Anna Comnena) evidenzia la componente di alto rischio per l’Imperatore nel trovarsi troppo vicino a un esercito più grande del suo e dalle poco chiare intenzioni, e i problemi interni che gli impedivano di allontanarsi troppo da Costantinopoli; ma la prima ragione è vaga e la seconda non spiega la sua reale avanzata nel 1098, che lo portò fino a Philomelion e dunque ben lontano dalla capitale. France ne dà due spiegazioni più convincenti: consolidamento delle conquiste fatte dai Crociati la prima, e dissociazione da eventuali loro disfatte, massacri o altri fatti incresciosi la seconda.

CITTA’ DELLA VITTORIA

Al crocevia della strada che collega il Bosforo ad Antiochia e quella che percorre le coste dell’Asia Minore, Nicea era la chiave che apriva la porta della penisola anatolica. Alessio, che per due volte lungo il suo regno, nel 1081 e 1086, aveva cercato di riprenderla, lo sapeva; e lo sapevano egualmente i Turchi, che ne avevano fatto la loro capitale e ne avevano rafforzato le difese con un’ampia guarnigione e un doppio fossato. Dietro il fossato erano le mura, dei tempi antichi del primo Impero ma ottimamente tenute, il cui accesso era protetto da 117 torri e 4 porte, una per ogni punto cardinale. La porta sud dava su un terreno montagnoso e difficilmente accessibile ad eserciti nemici, mentre quella ovest si affacciava sul lago Ascanio: di dimensioni troppo grandi per essere circondato con la città, gli abitanti di Nicea potevano attingervi acqua

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e rifornimenti a tempo indeterminato. Questa era l’entità della prima sfida che aspettava Alessio e i crociati.

Consapevoli dell’impossibilità di una presa per fame, i principi crociati si disposero su tre dei quattro lati: il loro arrivo a scaglioni, con settimane di distanza dal primo all’ultimo contingente, testimonia la grave mancanza di leadership. Cominciarono a schierarsi il 6 maggio 1097, mentre Kilij Arslan era all’esatto opposto del suo dominio, a Melitene. Saputo dell’attacco, questi si precipitò indietro con rapidità sorprendente anche per un’armata turca, puntando a coglierli di sorpresa. Piombò sui Crociati, non a caso, nel momento in cui erano più deboli: Raimondo, appena arrivato, stava disponendo campo alla porta sud; eppure in qualche modo riuscì a resistere, e Goffredo e Boemondo vennero in suo soccorso assalendo il fianco destro turco e mettendo in rotta Arslan. Quando i crociati ebbero completato e fortificato i campi, non c’era più nulla che il Sultano potesse fare: si ritirò per reclutare altri uomini e disturbare le linee di rifornimento.

Ma i meriti della vittoria definitiva non vanno fatti risalire ai crociati, quanto alle forze bizantine.

Nicea cadde l’11 giugno. Le forze crociate stavano conducendo un assalto quel giorno; il loro attacco era stato respinto, ma potevano chiaramente vedere gli stendardi imperiali sollevarsi sulla città, insieme alle grida di giubilo in greco che lodavano Dio. “Al suono dei corni e delle trombe, fu annunciata la notizia dagli spalti delle mura: Alessio I Comneno aveva preso la città”. Alessio, dice Anna, e nessun altro. Come?

L’Alessiade ce ne dà una versione fin troppo ricca. L’azione fondamentale consistette nel portare la flotta bizantina via terra fino al lago: completato il blocco navale, abbattute dai Crociati all’inizio le truppe di soccorso di Arslan, la città doveva aver perso quasi ogni speranza di resistenza nel lungo termine. Da questa posizione di forza, l’ammiraglio imperiale Michele Botoumites cominciò a trattare, portando una crisobolla di Alessio in persona a porre le condizioni di resa in segreto. La guarnigione si accordò: non vi sarebbero stati spargimenti di sangue né saccheggi; ma bisognava inscenare lo spettacolo di una presa violenta e d’assalto perché le trattative segrete e la mancanza del saccheggio fossero giustificabili agli occhi dei Crociati. Perciò, mentre i crociati attaccavano e fallivano l’11 giugno, i bizantini si arrampicarono senza opposizione dalle navi sulle mura. L’inganno ai crociati riuscì perfettamente, e ampie donazioni d’oro da parte di Alessio li resero ancor più euforici. L’intera idea del supposto inganno ai crociati rientra nel topos di Alessio-Odisseo, e va presa con le pinze. Per cominciare, sarebbe bene ipotizzare che l’attacco anfibio avvenne con reale, non inscenata, violenza, perché difficilmente un’intera guarnigione è a conoscenza di accordi segreti; più probabile un patto ristretto che permise ai bizantini di salire su una specifica sezione delle mura. Fatto ciò bisognava però combattere, e in questo senso l’effetto psicologico di un contemporaneo assalto crociato dovette essere ciò che spinse alla resa il resto della guarnigione sulle mura e portò Bisanzio ad assicurarsi la città. Infine, le fonti occidentali riportano un effetto misto di sollievo e sospetto alla vista degli stendardi imperiali al vento sulle torri. Le donazioni a fine battaglia furono apprezzate, ma rimasero delle riserve: “alcuni si sentivano grati ad Alessio, altri no”, scrive un prete in una lettera al vescovo Manasse. Gli accordi segreti e la mancanza di saccheggio furono insomma sentiti nettamente, che Anna lo volesse o meno.

In realtà la vittoria diplomatica di Alessio fu di altro genere, ma di entità forse ancor maggiore di quella descritta da Anna. Con la sua conquista incruenta, infatti, l’imperatore si faceva segreto protettore sia dei cristiani ortodossi d’Asia, e cioè della popolazione di tutte le maggiori città, sia delle guarnigioni turche che avrebbero dovuto impedire a quella popolazione di volgersi naturalmente verso Alessio, contro la minaccia barbarica dei Crociati. La sua dissociazione dai Crociati era qui non solo nelle azioni ma nella distanza reale: come abbiamo detto, Alessio si sarebbe tenuto sempre un poco dietro il grosso dell’armata franca; in

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questo caso si trovava a Pelekanon. Il successo di questa singola azione fu gigantesco: mentre i Crociati avanzavano nel cuore dell’Asia, Costantino Melissenos e Giovanni Doukas conducevano la riconquista dell’intera costa asiatica e, stando a Frankopan, delle isole, il primo al comando della flotta, il secondo dell’esercito imperiali. Le città asiatiche si arrendevano una dopo l’altra, con poca o nulla resistenza. Il dominio turco sull’Anatolia, all’apparenza solido, crollava di fronte a una singola vittoria, grazie alla minaccia congiunta bizantina e crociata e a un oculato esercizio di clemenza. D’altronde, il mondo musulmano era ben conscio dell’enormità che questa vittoria significava: “I sussurri crescevano e si diffondevano in ogni luogo, la gente viveva nell’ansia, i pensieri disturbati”. E lo stesso vale per Alessio, che già prevedeva tutto: subito dopo l’incontro con l’imperatore a Pelekanon Stefano di Blois scriveva a sua moglie che il prossimo obiettivo sarebbe stato direttamente Antiochia.

LA VIA PER ANTIOCHIA La celebrazione della vittoria è di straordinario interesse per approfondire la natura dei rapporti che legavano Alessio ai Crociati un momento prima del loro definitivo separarsi. Sebbene debba esserci stato in effetti qualche scontento, sembra che l’atmosfera a Pelekanon fosse nel complesso distesa. Alessio era in pieno controllo dei Crociati, che trattava da vassalli, atteggiandosi a re occidentale: banchettò con loro, spartì equamente le spoglie di guerra, si fece ripetere il giuramento. Se si trattava per lui del banco di prova di tutti gli sforzi prima fatti a Costantinopoli, il risultato dovette sembrargli pienamente soddisfacente. Le fonti occidentali testimoniano indirettamente il controllo che Alessio esercitava in quel momento: prima di riprendere la marcia aspettarono fino al 29, e cioè al giorno in cui Alessio diede loro il permesso.

Dall’11 al 29, dunque, i Crociati rimasero immobili. C’era naturalmente un perché: prima che si muovessero, Alessio lavorò per disporre una strategia, che indizi successivi – li ignoreremo – suggeriscono essere stata estremamente dettagliata. Gran parte delle decisioni prese dai Crociati furono prese di fatto da Alessio a Pelekanon molti giorni prima; e la stragrande parte delle decisioni determinate da situazioni impreviste furono di fatto prese dal di lui rappresentante, Tatikios. Fu il generale bizantino a dirigere gli archi dell’orchestra crociata nello scacchiere armeno. Dopo la battaglia di Dorylaeum, Kilij Arslan evitò ogni altro scontro campale maggiore, mentre ovunque in Armenia le città massacravano le loro guarnigioni turche appena in vista di crociati o bizantini. L’ostilità degli Armeni ai vecchi dominatori dava occasioni uniche a Tatikios, che si mostrò capace di sfruttarle al massimo. La scelta dei percorsi seguiti, così come molte diversioni di singoli capi, un tempo incompresi, possono ora spiegarsi assumendo l’ottica di una solida direzione bizantina. La deviazione su Cesarea e su Comana, deleteria per facilità e durata del percorso, diventa comprensibile qualora si assuma che l’obiettivo era il ristabilirsi del dominio bizantino nell’area. Alla stessa maniera si può reinterpretare una successione di eventi tra le più strane della Crociata, quella delle avventure cilice di Tancredi e Baldovino. Come da logica, Tatikios aveva tra le altre cose il compito di fornire guarnigioni e governatori alle città liberate; aveva già concordato con Alessio molti nomi. Tra questi, certamente quello del greco Simeone che viaggiò insieme ai Crociati finché fu portato al luogo del suo governatorato; ma oltre ai greci furono scelti e inviati nelle città svariati contingenti di occidentali: Pietro Alifa, vecchio mercenario, fu inviato a liberare e governare Comana, mentre un tale Welf di Burgundia, forse addirittura crociato, viene trovato dagli altri capi a governare un’Adana liberata per conto dell’Imperatore. Frankopan ritiene, e France concorda, che Baldovino fosse stato inviato da Tatikios in Cilicia a svolgere un ruolo analogo. Ciò spiegherebbe le richieste d’aiuto e la fitta diplomazia armene in cui Baldovino si trovò fin da subito immerso; spiegherebbe la calda accoglienza; e

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soprattutto spiegherebbe i suoi aspri scontri con Tancredi, che aveva seguito Baldovino e di cui aveva tentato di prendere il posto come liberatore della Cilicia, ma che non essendo autorizzato non ottenne eguale supporto. D’altro canto la scelta di Baldovino come agente imperiale pare oculata: il guerriero era stato colui che aveva aspramente rimproverato il crociato che aveva osato sedere sul trono dell’imperatore, e aveva dato sempre prova di grande rispetto; inoltre, era uno di quei principi che avevano abbandonato ogni loro terra e titolo in Europa, e che quindi presumibilmente aspiravano alle opportunità che Bisanzio avrebbe offerto loro. Ma i segni più lucidi del nuovo ruolo assunto da Baldovino si trovano ad Edessa. Baldovino è infatti richiamato dal suo Doux, Toros, proprio in qualità di rappresentante imperiale, per difendere la città dai Turchi. Giunto in città, gli fu garantito uno stipendio di metà delle tasse raccolte: lungi dall’essere un dono arbitrario, si trattava esattamente dello stipendio spettante ai capi militari bizantini. E dal momento in cui Baldovino fu coinvolto dagli abitanti della città nella congiura che eventualmente portò all’usurpazione della posizione di Toros, egli viene descritto dalle fonti occidentali per ciò che era diventato: un “duca”, ossia un Doux, governatore romano, che indossava abiti bizantini, si faceva crescere la barba lunga e viaggiava su di un carro recante l’inconfondibile simbolo dell’aquila bicefala. È sensato ritenere, viste anche le ottime relazione che si istituiranno tra lui e Alessio in futuro, che la posizione usurpata gli fosse stata riconosciuta senza problemi da Bisanzio.

LA QUESTIONE D’ANTIOCHIA

Buona parte delle fonti dedicano ben più spazio alla cattura di Antiochia che a quella di Gerusalemme. Un motivo ovvio di questo soffermarsi è di tipo banalmente temporale: l’assedio fu un massacro di nove mesi, e per nulla noiosi oltretutto. C’è però un’altra, meno ovvia, ragione, e cioè che Antiochia è il luogo in cui si consumò un tradimento. Di chi e verso chi dipende dalla fonte che si consulta; i vari cronisti dedicano quante più parole ed argomenti possibile per cercare di far uscire pulita la propria parte e sporca l’altrui. Per quanto concerne questa relazione, l’attenzione sarà rivolta verso le due problematiche più vicine a Bisanzio, ossia la logistica e la questione del tradimento.

Detta non a caso “la Grande”, Antiochia era la porta della Siria, passaggio obbligato per chiunque volesse intraprendere la via verso sud. Vantava difese più possenti che della stessa Nicea, con mura alte oltre venti metri e difficilmente assaltabili. Erano state costruite in tempi più prosperi, e ora la città si era ritirata lasciando entro di esse ampi spazi coltivabili: questo fattore, in aggiunta alla vicinanza col fiume Oronte, rendeva potenzialmente inutile anche un assedio prolungato; come se non bastasse, per quanto immensa fosse l’armata crociata, Antiochia restava troppo grande per essere circondata efficacemente.

I Crociati vi arrivarono nell’autunno del 1097 e posero campo. Inizialmente le condizioni erano idilliache: scrive l’Anonimo che “c’erano vigneti carichi d’uva e magazzini pieni di grano, frutteti di mele e d’ogni cosa deliziosa a mangiarsi”; Raimondo d’Aguilers aggiunge: “mangiavamo all’inizio solo le migliori parti delle carni, e non ci curavamo di risparmiare grano o vino. In questi bei tempi, l’unica cosa che ci ricordava della guerra erano i nemici che ci osservavano dalle mura della città”. Ad aggiungersi alla naturale abbondanza delle campagne era un affidabile supporto logistico, rafforzato dall’enorme successo della “strategia armena” portata avanti nei mesi precedenti. Grazie alla riconquista attenta da parte di Bisanzio, infatti, rifornimenti potevano stabilmente giungere ai Crociati dalla Cilicia, dall’Anatolia e da Cipro, per confluire sul porto di San Simeone subito conquistato appena iniziato l’assedio. Di particolare importanza era la linea

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di supporto navale che portava risorse da Cipro passando per Laodicea, in mano greca, tramite flotte sia bizantine che delle intraprendenti città italiane. Complessivamente, si può dire che senza questi presupposti, ossia senza la logistica fornita da Bisanzio, l’assedio di Antiochia non sarebbe stato neanche pensabile.

Ad ogni modo, l’idillio non era destinato a durare. Nella città, secondo il contemporaneo Ibn al-Qalanisi, vi era stato inizialmente un serio aumento dei prezzi del cibo, dovuto al blocco crociato. Ma dopo i primi mesi “i prezzi cominciarono a calare, poiché sempre più cibo veniva introdotto all’interno”. Inizialmente i mercanti erano stati spaventati dall’esercito franco, ma di lì a breve si erano resi conto che, per metterla nelle parole di Bruno di Lucca, Antiochia era sì stata circondata, ma “non molto bene”; l’occasione di rivendere cibo a una città affamata e prezzo maggiorato non poteva essere mancata. Il processo esattamente opposto prendeva piede invece tra gli assedianti: già entro l’inizio dell’inverno le campagne erano state del tutto consumate, e il grano e la frutta non sarebbero ricresciute fino all’estate successiva; i bizantini facevano con ogni probabilità il massimo sforzo per inviare rifornimenti, ma l’inverno rendeva tempestoso il mare di Siria e innevati i passi montani di Cilicia e Anatolia; a rendere il tutto ancor più tragico era l’aumentare costante delle bande di cavalleggeri siriani che disturbavano le linee verso l’Asia, e che avevano gioco sempre più facile delle sempre più lontane spedizioni di razzia crociate.

Nelle parole di Fulcherio di Chartres: “Poi la gente affamata divorò gli steli dei fagioli e l’erba che cresceva nei campi, e i cardi, che per mancanza di legna da ardere non furono cotti e irritarono le lingue di coloro che li mangiavano. Mangiarono poi i cavalli, gli asini, i cammelli, i cani, e anche i topi. I più poveri mangiarono anche le pelli degli animali e i semi di grano trovati negli escrementi”.

Fame, freddo e un’enorme massa d’uomini in condizioni igieniche dubbie tendono a generare un’ampia prole di epidemie, e questo fu in effetti esattamente ciò che accadde. La malattia imperversò nel campo, portandosi via un crociato su cinque. Per quelli rimasti non vi furono che brutte notizie: i drappelli di uomini che da qualche tempo disturbavano le comunicazioni a nord erano di Ridwan di Aleppo, chiamato in causa dal governatore Yaghi Siyan, che marciava ora alla testa di un’enorme armata verso la liberazione di Antiochia.

È in questo momento di suprema disperazione che si verifica forse il più inspiegabile – e più discusso, dagli storici antichi come dai moderni – evento della Crociata intera: nel febbraio del 1098 Tatikios abbandona, per non tornare mai più.

Per molti dei cronachisti occidentali non vi sono dubbi: codardia e inganno di fronte al pericolo. “È un bugiardo” prorompe l’Anonimo, in un presente definitivo, “e sempre rimarrà”. Ma la spiegazione è semplice perché è retrospettiva, ovvero costruita ad arte all’interno di una narrazione prettamente politica elaborata in un tempo differente. L’avvicinamento di Ridwan di Aleppo viene in realtà scoperto dopo la partenza di Tatikios, mentre l’assenza di ogni polemica sia in Fulcherio sia nelle due fonti epistolari di Stefano di Blois e Anselmo di Ribemont dimostra chiaramente che il fatto non fu in alcun modo ritenuto degno di scandalo nel momento in cui si consumò. Quindi, qual era la vera ragione di Tatikios? Sono le stesse fonti occidentali a rispondere, pur riportandola come una falsa promessa: portare aiuto ai Crociati dal mare. Era del tutto sensato, in fondo; nel mese di febbraio stava per riprendere la stagione in cui le acque erano sicure, e Tatikios si allontanò per poter organizzare la logistica. E l’aiuto, con grande imbarazzo delle fonti occidentali, veniva portato: il 4 marzo appariva una flotta “inglese” al porto di San Simeone con salmerie e materiali da costruzione, grazie ai quali i Crociati furono in grado di completare l’accerchiamento

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della città e continuare a resistere alla fame; la flotta non era “inglese” ma bizantina, protetta da contingenti variaghi che esplicitamente appaiono nelle fonti come a guardia del porto di Laodicea, cioè il porto da cui venivano le navi.

Nulla di strano, insomma. È soltanto propaganda occidentale, volta a screditare Alessio per sostenere la tesi Crociata che il primo a rompere il giuramento (tra l’altro inesistente da parte di Alessio, come abbiamo detto) fosse stato l’imperatore, legittimando quel che avvenne dopo. Sarebbe bello.

Messo in chiaro che la mossa di Tatikios era strategica, c’è un’altra domanda a cui si deve rispondere: a chi viene lasciata Antiochia? Tatikios se ne era andato con tutte le truppe, senza lasciare dietro di sé né un candidato governatore né una guarnigione da installare; posto che i bizantini ancora speravano nella conquista della città, poiché continuarono a inviare rifornimenti, la risposta deve risiedere all’interno del campo crociato. La spiegazione più probabile è la seguente: Tatikios credeva che in caso di vittoria si sarebbe installata una guarnigione “mista” dei contingenti di tutti i capi, finché i bizantini non fossero riusciti a consolidare le conquiste finora effettuate e inviare loro truppe e funzionari; e quanto all’assedio, riponeva la sua fiducia prima di tutto in un uomo, quello su cui sempre aveva fatto affidamento lungo tutta la spedizione. Boemondo di Taranto. E la ragione di ritenere ciò ci viene gentilmente offerta da quella che, fra tutte le fonti, cerca maggiormente di nascondere la realtà dei rapporti che legavano a doppio filo Boemondo e Bisanzio: l’Alessiade.

Secondo Anna, Tatikios parte su consiglio di Boemondo. Il normanno gli comunica che i Crociati stanno organizzando una congiura per eliminarlo, e gli consiglia di tornare indietro per poter fornire aiuto da distanza di sicurezza; in questo modo Boemondo è poi in grado di ribaltare i tavoli, proclamando a gran voce che l’Imperatore Alessio aveva abbandonato i crociati e che pertanto il giuramento era rotto: Antiochia diventava una preda crociata, pronta per essere colta. La vicenda dell’inganno di Boemondo, formulata con l’obiettivo di screditarlo, è però un clamoroso autogol. Se Alessio non si fidava di Boemondo e giungeva sino al punto di chiedere a Raimondo di vegliare su di lui, per quale ragione doveva Tatikios fare affidamento sulla sua parola al punto di essere tanto facilmente convinto? Sarebbe legittimo pensare che Alessio avesse messo in guardia Tatikios più di tutti contro le ambizioni di Boemondo. E quindi, due sono i casi: o Anna mente qui, o ha sempre mentito fino a qui. E per quanto strano sembri, potrebbe essere più probabile la seconda. C’è un articolo di Shepard, “When Greek meets Greek”, di splendida fattura, in cui lo storico dedica 80 pagine di argomenti serrati ad evidenziare il reale ruolo svolto da Boemondo per tutta la durata della Crociata, che è quello dell’anello di congiunzione tra Alessio (e Tatikios) e tutto il resto dei crociati, riportato da praticamente ogni fonte ad eccezione dell’Alessiade. Rimando dunque all’articolo, adducendo solo le ragioni più legate ad Antiochia: Boemondo era educato e gentile con Alessio perché conosceva i costumi dei greci; è detto da Anna in grado di parlare greco, sebbene “con brutto accento”, ed è l’unico tra i crociati che non sembra aver bisogno di un interprete quando parla ai bizantini o ad Alessio; lo stesso tradimento di Firouz l’Armeno in Antiochia fu facilitato dal fatto che Boemondo “capiva la sua lingua” (Aguilers); inoltre, Boemondo era stato diseredato, e questo lo rendeva, al contrario di quanto asseriva Anna, assolutamente prevedibile: voleva terre e titoli, e terre e titoli Alessio gli promise; queste caratteristiche ne facevano il perfetto intermediario tra Imperatore e capi crociati. Ed infatti ad Antiochia, come per tutta quanta la Crociata, l’accampamento di Boemondo era posto accanto a quello di Tatikios, a separare – o unire – il bizantino e gli altri campi crociati. Boemondo, volendo ricominciare da capo la sua carriera a Costantinopoli, era stato per tutta la spedizione il paladino di Alessio, e Alessio si fidava di lui al punto di commettere un madornale errore di valutazione, ossia dimenticare che l’amicizia di Boemondo era un’amicizia condizionata.

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La versione di Anna sul tradimento di Boemondo risulta dunque coerente, se si tiene conto dell’atmosfera di odio e tensione verso Tatikios diffusasi poco prima della “fuga”. Per i cavalieri minori, l’assedio di Antiochia era sempre più ingiustificabile con l’aumentare delle sofferenze e delle perdite – erano lì per Gerusalemme, mentre Antiochia era affare dei greci; inoltre, Tatikios era un bersaglio facile cui attribuire la causa del fallimento logistico e quindi delle presenti sofferenze. La verità era che la causa di questo fallimento non era stato Tatikios ma Raimondo di Tolosa ed i capi crociati in generale. All’inizio dell’impresa vi era stata un’aspra discussione di strategia fra i due. Tatikios aveva messo in guardia dal prossimo inverno, e proponeva un blocco “distante” della città, da posizioni sicure e rifornibili, mentre Alessio consolidava le basi dietro di loro e preparava rinforzi e materiali necessari a premere poi sulla città in primavera; era in questa maniera che nel 969 Niceforo II aveva preso la città. Raimondo aveva invece proposto la strategia corrente, nella speranza di una resa prima dell’inverno che però non si era verificata. Nella crescente disperazione, quindi, Tatikios era tornato a contraddire apertamente Raimondo, mentre quest’ultimo per salvare la faccia sfruttava le sue molto maggiori disponibilità di risorse rispetto a quelle di tutti gli altri crociati, comprandosene la fiducia e permettendo di sostenere una sofferenza altrimenti insostenibile.

Ed è qui che entra in scena Boemondo. Harris ritiene che la giusta domanda da porre nei confronti della “questione d’Antiochia”, alla luce dei comuni interessi che portavano amicizia e collaborazione fra Alessio e Boemondo, sia, più che “perché Alessio si fidò di Boemondo?” un “perché Boemondo non si fidò di Alessio?”. La sua ipotesi – che i rischi della carriera in Bisanzio fossero troppo alti – non è convincente, perché la scommessa di Boemondo e la sfida ad Alessio erano ben più pericolosi. Ma la domanda è ben posta, e ne proverò a proporre una soluzione.

Boemondo era tra i capi crociati uno di quelli che meno disponevano di fondi per sostenere l’assedio, e si trovava in una situazione disperata: più fonti riportano le sue ripetute minacce di andarsene e le sue lamentele riguardo un costante deflusso di cavalieri verso capi più ricchi, come Baldovino a Edessa o Raimondo; la fame era indubbiamente più forte di qualunque gerarchia feudale. Se così si fosse continuato non gli sarebbe rimasto neanche l’esercito, che era fondamentale per la propria carriera di servizio a Bisanzio. Boemondo aveva continuato a sperare nelle terre e nei privilegi che gli erano stati promessi, ma altri venivano scelti al suo posto: Welf, Pietro Alifa, Baldovino. Ogni strada si era chiusa per lui; ma Boemondo era uomo che le strade se le apriva da sé. Sfruttò quindi la tensione incipiente e l’amicizia con Tatikios per convincerlo ad andarsene, e causare quindi la messa in scena del tradimento che gli avrebbe dato il supporto necessario a una occupazione unilaterale di Antiochia. Tatikios, andandosene, gli fece ulteriori promesse di terre in Cilicia, come riportato da Aguilers; ma evidentemente Boemondo alle promesse non credeva più. Il suo piano non prevedeva ostilità verso Bisanzio se non nel breve termine: seguiva l’esempio di successo dell’azione di forza di Baldovino, che era stato poi riconosciuto Doux di Edessa da Alessio. Andò storto.

La proposta di Boemondo - che se un singolo capo fosse riuscito a prendere Antiochia l’avrebbe fatta sua - era arbitraria e fu opposta dagli altri crociati, soprattutto da Raimondo, sulla base del giuramento fatto ad Alessio, che come abbiamo detto non era bilaterale: i crociati non si sentivano “traditi” da Bisanzio. Ma fu accettata nel momento critico dell’arrivo di Kerbogha, perché sapevano che solo Boemondo aveva il segreto (Firouz) per entrare in città e mettere le mura di Antiochia fra i crociati e la fine imminente. Con riserve tuttavia: la città sarebbe stata guarnita da Boemondo “solo finché Alessio non avesse comunicato altrimenti”. Raimondo di Tolosa, anche lui in cerca di nuova vita in Oriente, fu ben felice di prendere il posto di Boemondo come paladino di Alessio, nella speranza di futuri compensi; e continuò a rimandare la partenza per Gerusalemme per tutti e 4 i mesi successivi alla conquista della città - che avvenne il 2 giugno 1098 -

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occupando il palazzo e alcune torri con suoi uomini contro la guarnigione di Boemondo e creando un’impasse. In questo tempo, inviò ambasciate ripetute ad Alessio chiedendogli di pronunciarsi, la prima sotto Stefano di Blois e la seconda sotto Ugo di Francia. Arrivarono ad Alessio, rispettivamente, il 20 giugno e a metà agosto.

Per quale ragione, allora, Alessio non rispose? France si domanda più che altro perché avrebbe dovuto: aveva la sua colossale dose di problemi da gestire a Costantinopoli, un consolidamento delle conquiste da completare e, se Stefano di Blois gli aveva veramente detto del disastro imminente ad Antiochia, non vi era ragione per cui dovesse rischiare nulla. Raggiunto a Philomelion nel cuore dell’Asia, tornò quindi a Costantinopoli. Qui lo trovò Ugo di Francia, che differentemente da Stefano era partito però quando i crociati avevano già vinto. Perché dunque non si pronunciò neanche allora? C’è una sola risposta che mi sento di poter dare: Alessio continuava a riporre la propria fiducia in Boemondo, o quantomeno nel fatto che si sarebbe scelta una guarnigione mista per la città, e in ogni caso che questa gli fosse riconsegnata quando, nella primavera dell’anno seguente, avrebbe effettivamente inviato un esercito a prenderne possesso.

Difatti, Alessio rispose, solo troppo tardi. Nel febbraio del 1099 i Crociati ricevettero una lettera imperiale con l’ordine di fermarsi ad aspettare l’arrivo di una spedizione bizantina, previsto ad Antiochia per il 24 giugno. Ma altre notizie li avevano raggiunti nel frattempo: Stefano di Blois aveva convinto Alessio ad abbandonare la spedizione e ritirarsi a Costantinopoli. E se fino allora la fazione lealista di Raimondo aveva tenuto testa al partito di Boemondo, quella notizia spazzò via ogni equilibrio. Già l’11 settembre il normanno era vittorioso, e una straordinaria lettera ci è arrivata a testimoniarlo.

È indirizzata al papa. In principio gli intestatari: un lungo elenco di nomi e di titoli volti ad impressionare; ma a spiccare su tutti è paradossalmente il primo, unico senza fronzoli, che recita “BOAMUNDUS”. Boemondo non è di Taranto né di Bari; il suo nome non accetta delimitazioni, il suo titolo è quello che decide di prendere per sé. È quello del gigante del mito greco: “BOAMUNDUS”. I crociati riassumono al papa tutte le vicende vissute fino ad allora, ricordando la loro prodezza, i loro sacrifici e il favore divino che gli era stato dato; dopodiché il “noi” viene sostituito in una incredibile sterzata sintattica: “EGO, BOAMUNDUS”, comincia il periodo successivo; narra di come Boemondo, solo, conquistò Antiochia e salvò con la sua carica eroica i crociati da Ridwan e da Kerbogha. È chiaramente un post scriptum, fuori posto, aggiunto dopo aspre discussioni ad una lettera altrimenti coerente. Boemondo le aveva vinte, le discussioni, e cercava ora dal papa la legittimità che Alessio non gli aveva dato. E non solo lui, ma ormai tutta l’armata crociata si sottometteva alla guida del papa e tagliava tutti i ponti con l’imperatore: “Separaci, ti preghiamo, dall’ingiusto imperatore che non ha mai mantenuto le promesse che ci ha fatto. Egli ci ha anzi ostacolati e feriti in ogni maniera possibile”; e poi ancora “riporta la Verità presso questi eretici greci”.

Alessio era già un traditore, i greci già eretici: Urbano II ricevette la lettera nel Concilio di Bari, indetto per discutere la definitiva unificazione delle Chiese; mentre Raimondo, isolato e sconfitto, entro 4 mesi dovette cedere alle pressioni montanti dei Crociati – un attimo prima che la lettera di Alessio potesse raggiungerli.

Da qui in avanti Oriente ed Occidente separano il proprio cammino.

BISANZIO E GLI STATI CROCIATI

Alessio Comneno cercò fino alla fine di mantenere buoni rapporti con gli Stati Crociati, e quasi sempre vi riuscì; lo stesso Boemondo, in realtà, fino al 1104 sembrò interessato a convivere in pace con Bisanzio, non

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intraprendendo azioni ostili ed anzi reinstallando senza problemi il patriarca bizantino Giovanni l’Ossita in Antiochia.

Nel 1100 un duplice vuoto di potere diede però adito ad una rapida successione di eventi: Goffredo moriva a Gerusalemme, mentre Boemondo veniva catturato dai Turchi durante una sua spedizione. Allo stesso tempo Urbano II, sempre filobizantino, era ora morto, sostituito da un più ostile Pasquale II. Due personaggi emersero a tentare di riempire il vuoto, alleati tra loro e contro Bisanzio: Daiberto di Pisa, legato papale in sostituzione di Ademaro di Le Puy dal 1099, e Tancredi nipote di Boemondo. Così, col supporto l’uno dell’altro e una compiacenza papale, Tancredi cacciò Giovanni l’Ossita e lo sostituì con un latino a lui fedele, proclamandosi poi reggente, mentre Daiberto si faceva nominare patriarca a Gerusalemme e cercava di assumere nella città una posizione di comando. Ma la considerazione di Fulcherio di Chartres, che d’altronde scriveva da cappellano proprio a Gerusalemme, doveva riecheggiare nei pensieri di molti; Alessio non poteva essere inimicato. Più che mai adesso ai Crociati serviva un canale sicuro attraverso cui supporto logistico, demografico e militare potesse arrivare. Un partito filobizantino insorse a Gerusalemme, reclamando la presenza in città di uno dei migliori alleati di Alessio, Baldovino Doux di Edessa. Questi, certo con l’approvazione imperiale, nominò suo successore Baldovino Le Bourg ed entrò nella Città Santa in una marcia trionfale, accolto, come Anna dice, dal giubilo “dei Greci e dei Latini”; e poiché il titolo di Advocatus adottato da Goffredo implicava una subordinazione al Santo Sepolcro e quindi a Daiberto, prese per sé quello regio. Subito dopo Daiberto era rimosso dalla carica e un’ambasceria inviata a Costantinopoli a porgere omaggio all’Imperatore, portando ricchi doni in segno di sottomissione e “chiedendo aiuto per le miserie dei Cristiani nel più umile dei modi”[Fulcherio]. Alessio gli apriva i porti e inviava provvigioni, specie da Cipro, e giurava di “mostrare pietà, onore, amore” verso Baldovino; in cambio Baldovino doveva intercedere per lui presso il papa, per dissipare le calunnie di tradimento diffuse ad arte da Boemondo e i suoi. Alessio era riuscito a legare a sé Edessa, Gerusalemme e Tripoli (ora sotto Raimondo) nonostante tutto, e Tancredi era isolato. Tutti costoro si coalizzarono contro di lui, e non è difficile indovinare chi vinse: Alessio. Ma sul trono di Antiochia, inspiegabilmente, chi ritroviamo? Boemondo, “nemico tradizionale” di Bisanzio. La verità è che Alessio aveva inteso assorbire Boemondo nel suo sistema di stati vassalli ad oriente, insieme con Tripoli, Edessa e Gerusalemme. Aveva cercato di riscattare il normanno preso prigioniero dai Turchi; di fronte ad un rifiuto d’orgoglio di Boemondo, il riscatto era stato effettuato per tramite di un suo uomo, Baldovino di Edessa; e al termine della vicenda Boemondo sembrò comportarsi ligiamente, conducendo campagne in Mesopotamia insieme con Baldovino. Persino nel 1108, dopo la Crociata di Boemondo contro Bisanzio, e con Boemondo ai suoi piedi, il trattato di Devol prevedeva di reinstallare il principe in Antiochia come vassallo imperiale.

La nuova rottura dei rapporti con Antiochia avvenne infatti nel 1104, quando Baldovino di Edessa cadde in battaglia e Tancredi, lungi dal riscattarlo come lui aveva fatto con lo zio, ne approfittò per prendere possesso della sua città; Boemondo dovette vedere una nuova opportunità di grandezza nello sfaldarsi del sistema vassallatico di Alessio, e ritenne quel momento adatto per un’ultima, gloriosa avventura. Una crociata, con partenza in Francia e cavalieri francesi, benedetta dal papa Pasquale II e diretta verso Costantinopoli – non per aiutarla, questa volta, ma per distruggerla.

LA COSTRUZIONE DELL’ALTERITA’- OVVERO, PERCHE’ ANNA MENTE

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Siamo giunti alla fine di questa relazione, e bisogna perciò tirare le somme. Soprattutto, bisogna rispondere alla domanda che in principio era stata posta; perché il cerchio deve chiudersi, e perché se qualcosa di morale la Crociata racconta è che le promesse andrebbero mantenute.

Il successo reale di Alessio era stato, nel complesso, enorme. Contro qualunque previsione, dalle ceneri in cui l’impero era ridotto all’anno 1095, la Fenice di Bisanzio risorse: tutta l’Asia Minore, la piccola e grande Armenia, le isole egee, Creta e Cipro erano state recuperate; i Turchi erano in ginocchio e si erano piegati a una pace umiliante; buona parte degli Stati Crociati riconosceva, almeno nominalmente, la sovranità imperiale, e costituiva in ogni caso una solidissima zona cuscinetto contro l’Impero Selgiuchide; le finanze del regno tornavano finalmente a respirare con le tasse dalle province liberate. Era l’inizio della Restaurazione Comnena, un periodo tra i più fulgidi della storia di Bisanzio, che sarebbe continuato per altre otto decadi. Tutto questo fu ottenuto grazie alla Crociata, o, se vogliamo, grazie all’abilità con cui l’Imperatore riuscì ad accenderla, addomesticarla e direzionarla.

Ma il successo non era senza macchia. Il risultato primo della Crociata avrebbe dovuto essere quello di sigillare una nuova alleanza tra Oriente e Occidente; l’effetto fu precisamente opposto.

La grande frattura che si sarebbe aperta di lì a breve si delinea in una divergenza di prospettive, in un mondo del pensiero. Tuttavia, se si dovesse indicare un punto materiale, su una mappa, dal quale la frattura si aprì, lo si potrebbe fare. E quel punto sarebbe Antiochia.

Boemondo di Taranto partì da Antiochia, secondo Anna fingendosi morto in modo che la sua nave fosse lasciata stare dalle flotte bizantine, per poi resuscitare a Bari. Non parlerò della sua crociata contro Costantinopoli – che in ogni caso sarebbe terminata in un altro clamoroso successo militare di Alessio e poche conseguenze politiche – ma degli effetti che essa produsse nel lungo periodo, effetti prospettici.

La propaganda di Boemondo, che si espresse nei suoi discorsi appassionati in giro per l’Europa nella campagna di reclutamento del 1106 e ancora prima, forse già nel 1102 con la redazione delle Gesta Francorum, avrebbe creato una narrativa in Occidente che si sarebbe perpetuata nei secoli, forse per taluni versi fino ad oggi. Alessio Comneno, diceva l’Anonimo, gioì della morte dei Crociati a Xerigordon. Era “perverso nella mente e inebriato dall’odio, e congegnava continuamente piani per porre in trappola i Cristiani, con astuzie e inganni”. Uccidere i cavalieri crociati era l’unico possibile motore di ogni sua azione. A Nicea risparmiò i Turchi perché potesse portarli a Costantinopoli, istruirli sui piani e le debolezze degli occidentali e rimandarli indietro a combatterli. Per Raimondo di Aguilers, l’imperatore era un bugiardo, codardo e traditore; “I Franchi intesero come sincere le sue parole (…) ma Alessio ricompensò l’esercito [crociato] con una dimostrazione della sua gratitudine tale che, finché fosse vissuto, tutti l’avrebbero disprezzato e chiamato soltanto Traditore”. La spedizione di Antiochia non mirava a prendere la città, ma semplicemente a uccidere gli assedianti. Secondo Guiberto di Nogent, Alessio, figlio di una strega maestra nelle arti oscure, ordinò per la sua ingordigia a tutte le famiglie con più di una figlia di venderne una come prostituta ad incassare per il fisco imperiale, e a quelle con più di un figlio di castrarne uno e farne un eunuco imperiale; il suo appello all’Occidente era dovuto al fatto che gli eunuchi non sapevano combattere. Per Guglielmo di Tiro Alessio era “come uno scorpione, dal cui volto non hai nulla da temere, ma di cui devi guardarti di evitare la coda”. Il suo ruolo reale di protagonista doveva essere nascosto, e fu sostituito prontamente, a partire dalle opere del “secondo gruppo”, dalla figura di Urbano II, che divenne unica mente dietro la creazione della Crociata.

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Alessio, come abbiamo già visto in varie occasioni sparse per questa trattazione, cercò sempre di mantenere i migliori rapporti possibili con l’Occidente; ma quel “dominio del discorso”, per dirla con Foucault, che aveva laboriosamente costruito negli anni per trasmettere un’immagine particolare di sé e dell’Oriente, fu perduto in un attimo, per passare nelle mani di Boemondo di Taranto - che sarebbe al contrario divenuto il più grande eroe del suo tempo, di fama maggiore di quella di re e imperatori.

Ma non soltanto all’estero la sua reputazione sarebbe stata irrimediabilmente compromessa; anche in patria, col dovuto tempo. I suoi nemici avrebbero trovato in Antiochia l’errore da rinfacciargli: non solo Alessio aveva fallito nel riconquistarla, l’aveva lasciata in pasto a dei principi che per tutto il suo regno avrebbero continuato consistentemente ad attaccare Bisanzio; ed oltre il suo regno, a perseguitare il figlio Giovanni prima e il nipote Manuele poi, per più di mezzo secolo. Alessio sarebbe divenuto il capro espiatorio per tutti i problemi del futuro. La Seconda Crociata fu indubbiamente uno di essi; questa, sì, non richiesta né voluta dall’Imperatore Manuele Comneno, e deleteria nei confronti dei suoi progetti già ben avviati di conquista asiatica.

Ed è qui, in questi anni concitati di nuova Crociata, che Anna scrive la sua Alessiade. Il nome del padre, infangato da Est ad Ovest, reclamava giustizia, e Anna, figlia affezionata, decise che era giunto il momento di ergersi in sua difesa. L’arringa, come le cronache occidentali e le accuse bizantine coeve, traeva dal presente la lente da cui leggere, deformandolo, il passato: perciò Alessio non c’entrava nulla con la Crociata, e come Manuele ne fu colto di sorpresa in un momento a lui favorevole; come al tempo di Manuele, quindi, gli occidentali non potevano essere che gli indesiderati, gli invasori, i cattivi. Accadeva cioè che da Est come da Ovest si frapponevano due specchi che costruivano mondi paralleli di alterità.

Anna, l’abbiamo detto, mente. L’Alessiade è un atto d’amore, alla memoria di un uomo che non fu perfetto e tuttavia – qui Anna dice il vero – era stato a suo modo grande. Ma, paradossalmente, quell’atto d’amore è testimonianza di una frattura profonda, di un odio risvegliato che avrà conseguenze.

Il cerchio deve chiudersi. Quello della Storia si sarebbe chiuso nell’arco di cento anni, nell’anno famoso del 1204.

Quanto a questa relazione, lascio a Edward Gibbon il compito di chiudere, con la citazione con cui lui aveva iniziato. Cambia di significato a seconda di dove la si pone; anche questo, in fondo, non è che un gioco prospettico.

“In some oriental tale I have read the fable of a shepherd, who was ruined by the accomplishment of his own wishes: he had prayed for water; the Ganges was turned into his grounds, and his flock and cottage were swept away by the inundation. Such was the fortune, or at least the apprehension of the Greek emperor Alexius Comnenus”.

(“In un racconto orientale ho letto la favola di un pastore, rovinato dal realizzarsi dei suoi desideri: aveva pregato per l’acqua; il Gange fu deviato nei suoi pascoli, il suo gregge e la sua casa spazzate via dalla corrente. Tale fu la fortuna, e il tormento, del greco imperatore Alessio Comneno.”)

--- Fonti --- Testi principali:

Alessiade. Opera storica di una principessa porfirogenita. (trad. e commento di Giorgio Agnelli)

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The First Crusade: Call From the East di Peter Frankopan

Victory in the East di John France

Bisanzio e le Crociate di Giorgio Ravegnani

Guerra Santa di Jean Flori

Articoli e testi secondari:

La precrociata di Roberto il Guiscardo, in Il mezzogiorno normanno-svevo e le crociate, di Mario Gallina

Bisanzio e la Crociata di Pasquale Corsi

Dreaming of the Roman Empire, di James Morton

When Greek Meets Greek: Alexius and Bohemond in 1097-1098 di Jonathan Shepard

'A vindication of the Emperor Alexius I, rather than a work of history'. How valid is this description of Anna Comnena's Alexiad? Di Jonathan Carling

How did the Byzantines and Latins other one another in the mid-twelfth century di Dominic Tromans

Byzantium and the First Crusade: Three Avenues of Approach di John Harris

The Byzantine Background for the First Crusade di Paul Magadalino Magdalino

Cross-purposes: Alexius Comnenus and the First Crusade di Jonathan Shepard

Il Concilio di Bari: Boemondo e la Prima Crociata di Francesco Panarelli

Lettera al Conte Roberto di Fiandra, wikipedia (ne fornisce una traduzione completa)

Varie ed eventuali, principalmente da Wikipedia, Treccani, Reti medievali.

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 1

La prima Crociata fu senza dubbio un evento di enorme portata per tutta la cristianità.

Lo scopo principale di questa spedizione armata, bandita ufficialmente a Clermont nel 1095 da Papa

Urbano II, era la liberazione della Terra Santa, minacciata dall’espansionismo musulmano.

I turchi selgiuchidi erano un’ enorme preoccupazione per l’Imperatore bizantino Alessio Comneno,

costretto a chiedere l’intervento dell’Occidente per potersi sbarazzare di questa popolazione che stava

pericolosamente minacciando Costantinopoli.

Urbano II vide in questa richiesta di aiuto l’occasione di un riavvicinamento alla Chiesa di Oriente, per

poter sanare quello scisma che aveva rovinosamente allontanato le due cristianità dal 1054.

La religione islamica nacque nel settimo secolo grazie alla predicazione di Maometto. Dopo la sua

morte l’espansione musulmana continuò in maniera così rapida da mettere in allarme le più grandi

potenze occidentali. Nel 732 la loro avanzata verso la Francia venne fermata da Carlo Martello, mentre

iniziava invece il loro dominio nella Penisola Iberica e nella Sicilia.

Quando i saraceni arrivarono a minacciare Roma, Papa Giovanni VIII (872-882) richiamò l’attenzione

di tutti i principi e sovrani affinché combattessero per la cristianità, promettendo in cambio la

remissione di tutti i peccati. Questo tentativo di scuotere gli animi da parte del Papa, lascia intendere

quanto già in quel momento storico, la cristianità fosse sentita come l’elemento che poneva tutti, senza

distinzioni territoriali, di sesso, di status sociale sotto una comune condizione: quella del fedele che

era sottoposto a precisi doveri e che poteva sentirsi parte di una forte comunità cristiana

(Christianitas).

I legami che la penisola italiana aveva con l’Oriente però, gravitavano intorno al mondo mercantile,

fatto di forti connessioni commerciali che non di rado si trasformavano in vere e proprie alleanze e

rapporti di amicizia. I mercanti arabi importavano in Italia prodotti di ogni tipo già da molto tempo e

lo scontro che divideva il mondo cristiano da quello musulmano, presto arrivò a minacciare anche

quella fitta rete di rapporti. Papa Giovanni VIII, promise dunque la scomunica per chiunque avesse

continuato ad intrattenere affari commerciali con gli arabi e aggiunse anche delle sanzioni di tipo

economico (questo suggerisce che la sola minaccia di scomunica, non sortì alcun effetto).

Un altro pontefice che anticipò alcuni dei temi utilizzati durante l’appello di Clermont da Urbano II, fu

Gregorio VII (1073-1085) che chiese ai cristiani di sospendere le lotte intestine per stringersi contro

un nemico comune, e di aiutare l’Oriente a liberarsi dall’ oppressione degli infedeli.

Si può supporre che fu proprio la rapida invasione islamica a contribuire alla creazione di questa forte

coscienza cristiana comune in Occidente e a creare quel senso di appartenenza ad una comunità

definita prima di tutto dal suo credo religioso, contrapposto a quello dei nemici della fede. E’ forse da

questo momento che il cristianesimo raggiunge la sua piena identità, in opposizione alla nuova

religione monoteista che in breve tempo, stava costituendo un fronte compatto per fare pressione

sulle realtà cristiane esistenti e quindi affermarsi.

L’eco dell’appello di Clermont si diffuse rapidamente in tutto l’Occidente e per assicurarsi che tutte le

potenze cristiane del tempo potessero essere messe nella condizione di partecipare alla crociata, il

Papa fece anche inviare delle lettere.

Due territori furono esclusi dall’ appello: la Penisola Iberica, già impegnata nella lotta contro i

musulmani che avevano invaso la regione, e il meridione d’Italia. Il Papa infatti, non intendeva

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Bianca NucciItalia e Italiani alla prima crociata

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 2

rischiare di rimanere senza l’appoggio dei normanni che in quanto vassalli del pontefice, avevano il

dovere di prestargli aiuto qualora si fosse presentata la necessità, e il clima del tempo, caratterizzato

dalla lotta per le investiture che ancora si stava trascinando opponendo Impero e papato, era una

minaccia piuttosto concreta.

Nella famiglia normanna degli Altavilla però, a quel tempo emergeva fra tutti un personaggio

irrequieto, determinato a liberarsi dal legame che lo subordinava al fratello e allo zio e desideroso di

dar prova delle sue abilità politiche e militari.

Egli era Boemondo, figlio di primo letto del normanno Roberto il Guiscardo e della nobildonna

Alberada, ed era frutto di un matrimonio voluto per unire interessi politico-economici delle famiglia

Altavilla e Buonalbergo.

Il Guiscardo era giunto nel meridione di Italia nel 1045 dalla Normandia e sin da subito aveva

mostrato il suo interesse nel creare un nucleo di potere in Calabria. Nel 1053 l’ espansione di Roberto e

dei fratelli allarmò il pontefice Leone IX che decise di scendere in battaglia a Civitate dove venne fatto

prigioniero. Il conflitto con la Chiesa si risolse solo nel 1059 a Melfi con Niccolò II, quando il Guiscardo

venne riconosciuto Duca di Puglia e Calabria in cambio del giuramento di fedeltà al pontefice.

Roberto sposò la longobarda Sichelgaita dopo aver sconfitto il suo popolo che ancora resisteva a

Salerno e ripudiò quindi la prima moglie. Da questo secondo matrimonio nacque il futuro erede di

Roberto, Ruggero Borsa.

Per le numerose campagne militari che avevano lo scopo di attaccare l’Impero bizantino però, il

Guiscardo si servì della abilità del primogenito che nel 1081 occupò Valona iniziando così ad

avvicinarsi ai territori orientali per poi proseguire verso Canina, Ierico, Corfù e Durazzo.

Dopo un primo scontro con l’esercito di Alessio Comneno, Boemondo riuscì a spingersi fino alla

conquista della Albania e della Tessaglia ma quando rientrò in Italia, i veneziani presero Corfù e

Durazzo. Il Guiscardo rispose prontamente recuperando con Boemondo Corfù, e mandando i figli

Ruggero Borsa e Guido a Valona.

Nel 1085 il Guiscardo morì, lasciando il potere a Ruggero Borsa e garantendogli l’appoggio dello zio

Ruggero I di Sicilia.

Boemondo si ribellò da subito al volere del padre costringendo il fratello a cedergli Otranto, Taranto,

Gallipoli e Oria e continuò a formare alleanze con i signori della zona per assicurarsi nuovi territori.

Ruggero Borsa venne investito del ducato di Puglia da Urbano II stesso, bisognoso dell’appoggio dei

normanni ma quando il duca si ammalò gravemente, Boemondo ne approfittò scontrandosi con lo zio.

L’inaspettata guarigione del fratello, portò ad una veloce riappacificazione che non riuscirà in alcun

modo ad appagare le ambizioni di Boemondo, costretto continuamente a sottostare al giogo dello zio e

di Ruggero.

Non dobbiamo sorprenderci quindi, se la scoperta di una missione in Oriente che oltre alla remissione

di tutti i peccati, lasciava sperare in avventura, ricchezza e potere, richiamò l’attenzione dell’ambizioso

Boemondo che con grande carisma, riuscì a mettere insieme un contingente armato ricordato come il

più organizzato della prima Crociata.

Secondo le fonti, convinse almeno cinquecento cavalieri a prendere la croce raggiungendo

l’impressionante numero di quattromila persone tra fanti, signori, pellegrini e uomini di chiesa.

Considerato che la partenza fu organizzata all’ultimo momento, un numero così alto di partecipanti

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 3

può essere giustificato solamente dal carisma del normanno e dal rispetto e ammirazione che i signori

provavano per lui.

La rigida disciplina imposta da Boemondo all’esercito, suggeriva una capacità di comando ineccepibile

che in più di una occasione diede i suoi risultati e che garantì un’obbedienza e una compattezza

invidiabile dagli altri eserciti di crociati.

Il 26 ottobre 1096 le armate capeggiate da Boemondo partirono da Bari, Otranto e Brindisi per

incontrarsi a Durazzo procedendo prima verso Castoria, dove furono costrette a compiere delle razzie

a causa del rifiuto degli abitanti di dare loro i viveri necessari dietro pagamento, e poi verso Pelagonia

dove si lasciarono andare alla distruzione di un borgo di eretici (unico episodio di violenza permesso

da Boemondo).

I cavalieri del meridione di Italia, erano costantemente seguiti da un contingente mercenario al soldo

dell’imperatore Alessio Comeno con lo scopo di assicurarsi che i crociati non si lasciassero andare in

saccheggi e barbarie. Il comportamento civile di Boemondo, gli fece guadagnare la simpatia degli

orientali che per ricompensarlo, fornirono viveri necessari all’esercito.

Quando il contingente arrivò nei pressi di Serra, Boemondo fu invitato a Costantinopoli per un

colloquio con l’Imperatore stesso, quindi partì lasciando l’esercito sotto la guida di Tancredi, figlio di

sua sorella Emma.

Il 10 aprile Boemondo fu accolto a Costantinopoli e malgrado le cerimonie di benvenuto, il clima di

sospetto lo costrinse alla massima prudenza.

Alessio aveva già conosciuto l’abilità militare del normanno e per questo lo temeva più degli altri capi

crociati, ma quando gli chiese di prestare giuramento di fedeltà (come aveva già fatto con gli altri

signori cristiani), Boemondo non si oppose e aggiunse che ambiva a diventare Domestico d’Oriente,

una carica che lo avrebbe messo a capo dell’intero contingente dei crociati e direttamente agli ordini

dell’Imperatore.

Il comportamento collaborativo adottato dal normanno dal suo arrivo in Oriente, trova forse una

spiegazione alla luce di questa proposta.

L’intento di Boemondo, era probabilmente quello di creare una vera e propria signoria alle dipendenze

di Alessio Comneno del quale sapeva di non poter fare a meno per raggiungere una posizione di potere

in Oriente. Nonostante il basileus si fosse preso un periodo di riflessione in merito a questa offerta,

Boemondo continuò ancora a cooperare con i bizantini spingendo anche Roberto di Tolosa, che si era

rifiutato di prestare giuramento all’Imperatore, a cedere.

Vorrei precisare che non dobbiamo sorprenderci per l’atteggiamento ostile dei capi crociati nei

confronti del basileus che, come ci racconta Anna Comnena, si presentavano al cospetto

dell’Imperatore senza alcun rispetto, atteggiandosi da salvatori dell’Oriente ai quali tutto era dovuto.

Quello che deve stupirci di più invece, è l’intesa che volle stabilire Boemondo e che venne criticata dai

suoi stessi compagni.

In questo clima di rinnovata serenità, si raggiunse un accordo bilaterale tra l’impero e i crociati:

Alessio si impegnava a fornire i viveri necessari all’esercito, a mettere a disposizione un contingente di

truppe bizantine, a mettersi a capo dell’esercito crociato e a difendere i pellegrini nel territorio

dell’Impero. In cambio però, i cavalieri dovevano impegnarsi a restituire le regioni e le città

conquistate all’Imperatore stesso.

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 4

Con questo accordo e l’ iniziale intesa tra i due eserciti cristiani, cominciarono la marcia passando per

Calcedonia, per Nicomedia procedendo verso Nicea che dal 1081 era la città turca più importante

dell’Asia Minore.

L’assenza dell’emiro diede occasione ai crociati di procedere all’assedio della città la cui conquista si

rivelò più ardua del previsto a causa del suo posizionamento strategico: un lato della città infatti,

posava sulla riva di un lago da cui provenivano continui approvvigionamenti che impedivano agli

assediati di crollare.

Mentre continuava lo scontro con le truppe turche di soccorso in arrivo, il morale dei crociati vacillava

sempre di più: ad ogni loro mossa, i turchi continuavano ad opporre resistenza e addirittura la caduta

di un muro della città, non fece alcun danno in quanto gli assediati avevano già provveduto a

costruirne un altro direttamente dietro.

Solo il 19 giugno si ebbe la svolta, grazie all’intervento di Alessio Comneno che mandò delle barche

bizantine nel lago costringendo i turchi di Nicea a trattare la pace, a patto che i crociati fossero esclusi

dalla città per evitare il saccheggio. L’Imperatore poté riannettere Nicea direttamente sotto i suoi

domini spartendo il bottino con i crociati.

Dopo questo successo, i cavalieri crociati furono di nuovo richiamati a Pelekanon dall’Imperatore che

non si era lasciato sfuggire il mancato giuramento di fedeltà da parte di Tancredi.

Questo incontro ci viene raccontato con cura da due fonti: Anna Comnena e lo storico francese del XII

secolo Raoul di Caen, che ne parla nel “Gesta Tancredi principis”.

Di quest’ultimo personaggio sappiamo ben poco, ci giungono solo notizie sulla sua educazione affidata

al maestro Arnolfo (educatore della principessa Cecilia, figlia di Guglielmo il Conquistatore) e sul suo

arrivo in Terra Santa solamente nel 1107, partendo con Boemondo al suo rientro da un periodo

passato in Francia.

Le due versioni comunque, combaciano quasi del tutto sebbene Anna tendesse a sottolineare

l’atteggiamento oltraggioso e ostile di Tancredi nei confronti del padre e la sconcertante richiesta del

normanno di ottenere in cambio del giuramento, la tenda imperiale.

Raoul di Caen invece, ci parla del giovane (che lui considerava un suo compatriota e non un italiano), in

toni solenni, sottolineando la sua coerenza con la posizione che aveva tenuto fino a quel momento

tanto che non giurò.

Gli storici tendono a dare più credito al racconto di Anna Comnena che si conclude invece con il

giuramento di Tancredi sotto la pressione degli altri capi crociati e soprattutto di Boemondo che lo

aveva costretto ad andare all’incontro. Lo scopo di Raoul infatti, non era tanto quello di essere fedele

alla realtà dei fatti ma di elogiare i protagonisti con le informazioni ricavate dalle fonti orali

avvalendosi dello stile classico (arriverà a paragonare Alessio Comneno ad Apollo). Questo ci dà

un’importante indizio sull’epoca nella quale lo storico francese stava operando e cioè che era ancora

viva una cultura classica molto attiva, che lo portò a prendere ispirazione dai modelli antichi e non

dagli autori del suo tempo.

Dopo questo episodio, i cavalieri procedettero senza Alessio verso la Siria con lo scopo di raggiungere

la città di Antiochia. Dopo aver superato le Gole del Tauro, decisero di dividersi in due corpi: Il primo

capeggiato da Boemondo, Tancredi e Roberto di Normandia e il secondo da Ademaro di Puy, Goffredo

di Buglione, Raimondo di Tolosa e Ugo di Vermandois.

Il primo luglio, i selgiuchidi aggredirono il primo corpo presso Dorileo costringendo i crociati ad una

strategia difensiva in attesa dei rinforzi. La tecnica dei turchi, disorientò i cristiani perché si basava

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 5

sull’uso di una cavalleria leggera composta da arcieri che scagliavano una pioggia di frecce sui nemici,

si allontanavano e ripartivano alla carica senza dare il tempo agli avversari di riorganizzarsi. L’arrivo

dei soccorsi mise in fuga i turchi che iniziarono la loro ritirata dall’Asia Minore.

La marcia attraverso la Frigia in direzione di Iconio, fu tormentata a causa delle impervie temperature

e dalla scarsità di viveri che i turchi si portavano via mano a mano che si ritiravano. L’unico attimo di

rifocillamento fu possibile quando i cittadini cristiani di Iconio, depredati dai selgiuchidi, accolsero

l’esercito crociato donandogli cibo ed acqua.

Dopo un altro vittorioso scontro con i musulmani ad Eraclea, i crociati divisi in due gruppi si

ritrovarono il 16 ottobre 1097 a Marrash dopo aver soccorso la città di Placentia assediata dai turchi,

per poi proseguire finalmente verso Antiochia.

Per arrivare alla città tuttavia, era necessario attraversare il fiume Oronte percorribile attraverso il

Ponte di Ferro, sbarrato da due porte costantemente sorvegliate.

Il 20 ottobre i crociati riuscirono a garantirsi il passaggio raggiungendo la città che si rivelò

immediatamente difficile da espugnare: la cinta muraria la circondava totalmente appoggiando da un

lato nel fiume Oronte, dall’altro nelle montagne di Silvio.

L’assedio fu organizzato in quattro punti principali:

A nord, di fronte alla Porta di San Polo, si stabilì Boemondo ed il suo esercito, tra la Porta di San Paolo

e quella del Cane si stabilirono Ugo di Vermandois, Stefano di Blois, Roberto di Fiandra e Roberto di

Normandia, ad ovest si sistemarono Ademaro di Puy e Raimondo di Tolosa e infine, a nord-est tra la

porta del Duca e il fiume si stabilirono Goffredo di Buglione insieme ai lorenesi e ai tedeschi.

In un primo momento gli agguati dei turchi furono continui e provenivano sia dalla città assediata, sia

dalla fortezza di Harim situata di fronte al Ponte di Ferro, ma fu proprio la grande preparazione

militare di Boemondo che il 18 novembre fece cadere quest’ultima sotto il controllo cristiano,

permettendo a Goffredo di Buglione di stabilire una comunicazione via mare dove delle galee genovesi

erano giunte il giorno prima ma erano ancora bloccate dai musulmani.

Si riunì quindi un consiglio di cavalieri che decise di sbloccare la situazione costruendo un castello nel

monte Maregart. Il consiglio stabilì anche la necessità di andare a reperire dei viveri che stavano

iniziando a scarseggiare e Boemondo fu messo a capo della spedizione insieme al conte di Fiandra.

Era impensabile mettersi alla ricerca del necessario per sopravvivere senza cadere sotto l’imboscata

dei turchi, quindi l’esercito partì subito dopo Natale in assetto da guerra e diviso in due gruppi, sotto

indicazione dell’abile normanno che aveva fatto tesoro dell’attacco subito nel Dorileo.

I turchi aggredirono l’esercito ad el-Bara e le cose andarono esattamente come Boemondo aveva

previsto: i turchi si lanciarono all’attacco verso il contingente del conte di Fiandra e furono costretti

alla fuga quando la retroguardia capeggiata dal normanno, intervenne in aiuto dei compagni. La

missione portò l’unico risultato di allontanare l’esercito turco, dissuadendolo da altri tentativi di

agguati futuri ad Antiochia ma in realtà Boemondo tornò senza aver procurato i viveri necessari e

trovando anzi una terribile situazione: i turchi di Antiochia avevano tentato un attacco agli

accampamenti cristiani durante la notte, solo l’ostacolo del fiume aveva evitato il peggio.

Il cibo scarseggiava, l’umore dell’esercito era sempre più provato e l’assedio si stava trasformando in

una frustrante lotta che sembrava protrarsi troppo a lungo, senza alcun miglioramento. A tutto questo

si aggiunse l’abbandono del campo da parte di Tatikios che rappresentava il contingente mandato

dall’Imperatore, convinto da Boemondo a partire per richiedere aiuti. Ma quando questi non si vide

tornare, iniziò a maturare anche quell’ostilità e quel sospetto nei confronti dei bizantini che sarebbe

soltanto peggiorato nel corso della crociata.

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 6

Le prime diserzioni di personaggi importanti come Pietro l’Eremita (ripreso poi da Tancredi),

convinsero Boemondo che presto l’esercito cristiano sarebbe crollato.

Durante un nuovo consiglio, fece presente che la morsa dei turchi si stava pericolosamente stringendo

ed era necessario più che mai agire. Prese in mano la situazione, dividendo nuovamente l’esercito in

due gruppi dei quali uno era destinato a rimanere nei pressi della città. Quello capeggiato dal

normanno invece, mosse verso Harim e grazie ad una organizzazione in sei gruppi dei quali uno era di

riserva, la vittoria contro i turchi che non si aspettavano l’arrivo della retroguardia, fu schiacciante.

Al suo ritorno all’accampamento, Boemondo decise di sfruttare il rapporto che aveva stretto con un

armeno di Antiochia di nome Firouz, ex cattolico che però aveva un conto in sospeso con il suo signore

e intendeva vendicarsi aiutando i crociati ad occupare la città.

In un ulteriore consiglio, Boemondo si disse pronto a portare l’esercito alla vittoria finale ma in

cambio, voleva il riconoscimento del suo potere su Antiochia. Alla fine i crociati accettarono ma con il

patto che se l’esercito bizantino fosse intervenuto in loro aiuto, la città sarebbe passata sotto il

controllo dell’Imperatore, come volevano gli accordi iniziali.

Prima di proseguire, è necessario citare una fonte che partecipò direttamente a questa fase della

crociata. Si tratta di Bruno di Lucca e la sua presenza è fondamentale per farci comprendere l’eco che

l’appello di Urbano II aveva avuto in Italia.

Lucca era una tappa obbligatoria per quanti venivano dal nord per procedere in Terra Santa e proprio

lì il Papa si fermò i primi giorni di novembre del 1096, per attendere il passaggio di Stefano di Blois,

Roberto di Normandia e Roberto di Fiandra.

Durante l’attesa, aveva continuato la sua propaganda per la crociata convincendo molti a prendere la

croce. Di questo evento, ci è giunto un testo importante, in quanto si tratta dell’unico documento

italiano dove era previsto che in caso di non ritorno dalla spedizione da parte di un certo Guido, egli

avrebbe lasciato tutti i suoi beni alla Chiesa.

Il documento che però ci interessa di più, fu ritrovato solamente nel 1880 e si tratta di “La lettera del

popolo e del clero di Lucca”. Questa nacque al rientro di alcuni crociati lucchesi, accolti da una folla

desiderosa di udire i racconti delle imprese di quelli che erano visti come eroi al servizio di Cristo.

Proprio in questa circostanza vi fu la proposta di scrivere una lettera destinata a tutta la cristianità. Fra

tutti, spiccò il racconto di un tale Bruno di Lucca che partì con navi inglesi (con i quali i lucchesi

trattenevano importanti relazioni) e arrivò al porto di S. Simeone nei pressi di Antiochia. Boemondo e

Raimondo di Tolosa erano incaricati di scortarli presso la cittadina ma l’assenza dei due capi crociati

diede occasione ai turchi di attaccare ferocemente l’accampamento cristiano, che rischiò di essere

massacrato se i rinforzi non fossero arrivati in tempo.

Tornando all’accordo di Boemondo con Firouz, ci è prezioso il racconto di Bruno di Lucca che ci

informa della presenza di quattro nobili antiocheni nel campo cristiano la sera prima dell’attacco, i

quali parlarono con Boemondo, Roberto di Fiandra e Roberto di Normandia promettendo di

consegnare la città.

Quello che non poteva sapere Bruno di Lucca, era l’esistenza dell’accordo già stretto tra Firouz e

Boemondo e infatti, gli estranei presenti nel campo cristiano, erano degli ostaggi consegnati dal

traditore di Antiochia per garantire l’osservanza del patto.

Durante la notte Boemondo attuò il suo piano: una scala appoggiata ad una delle torri fu utilizzata

come via di accesso e dall’interno i crociati aprirono una porta, facilitando l’ingresso del resto

dell’esercito che si riversò nella città. Nonostante tutto Antiochia non crollò facilmente perché i

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 7

crociati dovettero prepararsi ad affrontare un ulteriore combattimento straziante che vide

protagonista Kerboga, signore di Mossul che era riuscito a unire le forze con altri emiri, decisi a

liberarsi della presenza cristiana.

Questi, tentò in un primo momento di espugnare Edessa che per tre settimane fu difesa da Baldovino e

non portò ad alcun risultato se non quello di perdere tempo prezioso e forze necessarie per riprendere

Antiochia. L’arrivo alla città tuttavia, inflisse un duro colpo all’umore dei crociati che si trovavano

anche a corto di viveri, tanto che ci furono nuovi episodi di diserzione. E proprio la fuga di Stefano di

Blois che nel suo percorso incrociò le truppe di Alessio Comeno, fece sì che i rinforzi bizantini non

arrivassero mai, in quanto comunicò che la città era caduta rovinosamente sotto il dominio

musulmano spingendo i bizantini a decidere per la ritirata.

È di nuovo grazie al racconto di Bruno di Lucca che possiamo renderci conto di quanto il giorno

seguente alla conquista della città, la situazione fosse minacciosamente vicina a precipitare.

Ci descrive come da assedianti si trovarono ad essere assediati dalla ferocia dell’esercito riunito di

Kerboga e cominciarono a soffrire la fame, tanto che persino personaggi illustri come Stefano di Blois e

il cognato di Boemondo si diedero alla fuga. Questo evento lo colpì a tal punto da convincerlo che la

vigliaccheria dei disertori, avesse spento definitivamente le speranze della maggior parte dell’esercito.

In queste drammatiche circostanze Bruno si soffermò soprattutto sul ritrovamento della Sacra Lancia,

senza riportare le considerazioni che nacquero successivamente sul fatto, secondo alcuni messo in

scena proprio nel momento del bisogno.

Il fatto che Bruno non citi queste voci scettiche, ci fa capire che egli credeva realmente nell’autenticità

del ritrovamento e della reliquia tanto che arriva a metterlo in primo piano come evento determinante

per la presa di Antiochia.

Boemondo spiccò di nuovo in queste tragiche circostanze riuscendo ad impedire altre diserzioni, e

eventi come il ritrovamento della Sacra Lancia, contribuirono quindi a infondere nuova speranza nei

combattenti. Il normanno venne eletto capo supremo da un nuovo consiglio e il 28 giugno 1098 ordinò

che l’esercito scendesse in battaglia, diviso in più gruppi.

La capacità militare di Boemondo, il ritrovato entusiasmo dell’esercito cristiano e le ostilità tra i capi

musulmani, garantirono la vittoria ai crociati che si preoccuparono di mandare subito un’ambasceria

all’Imperatore per annunciare il trionfo. Per quanto riguarda la nascita dell’ ostilità con i greci, non è

quindi giusto parlare di mala fede da parte dell’esercito cristiano che, dopo il disinteresse da parte di

Alessio Comneno, continuò comunque a coinvolgerlo.

Solo quando fu chiaro che l’Imperatore non intendeva tornare, l’atteggiamento di Boemondo nei suoi

confronti cambiò radicalmente ritrovando anche una nuova intesa con il nipote Tancredi che fino alla

presa di Antiochia si era scontrato in più occasioni con lo zio, accusandogli una eccessiva

collaborazione con l’esercito cristiano d’Oriente e troppa clemenza nei confronti dei suoi abitanti.

Nel frattempo le feroci temperature di luglio, spinsero i crociati a decidere di riprendere la marcia

verso Gerusalemme solo il primo novembre e i capi portarono avanti i loro interessi personali mentre

Boemondo cominciò ad occuparsi di quella che ormai considerava la sua città in maniera impeccabile,

cercando di creare i rapporti di alleanza necessari per governare.

Egli aveva compreso da tempo l’importanza delle città marinare italiane e decise di stipulare un

accordo con i genovesi il 14 luglio, i quali si impegnavano ad aiutare il capo normanno contro chiunque

attaccasse Antiochia e di rimanere neutrali in caso di conflitto con il conte di Tolosa, rivale di

Boemondo, con il quale i genovesi erano alleati tramite dei patti commerciali.

E’ chiaro che dopo il mancato soccorso dell’Imperatore, Boemondo abbandonò il progetto di diventare

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 8

Domestico d’Oriente alle sue dipendenze e in lui forse, stava già riemergendo il desiderio di scontrarsi

con i bizantini, progetto incompiuto nel quale il padre lo aveva coinvolto anni prima.

Trascorsa la torrida estate, i capi crociati si ritrovarono a novembre nella chiesa di S.Pietro e

immediatamente si formarono due fazioni che contrapposero Boemondo (che chiedeva che Antiochia

rimanesse sotto il suo dominio) e Raimondo di Tolosa (che voleva restituirla all’Imperatore, forse

perché in realtà aspirava a diventarne il signore). Tra i due non scorreva buon sangue da tempo e

lungo il normanno fu criticato per essere partito in Terra Santa per raggiungere le sue ambizioni

politiche al contrario di Raimondo, dipinto come il devoto cavaliere che combatteva in nome di Dio per

la vittoria della cristianità, senza secondi fini.

Lo scontro armato fra i due fu evitato dalla pressione della massa popolare che voleva procedere per

Gerusalemme, convincendo i capi crociati a rimandare la questione.

Il 23 novembre del 1098 riprese la marcia ma l’esercito, che in un primo momento aveva pensato di

poter prendere velocemente la città di Maarrat-Numan, si trovò a dover gestire un vero e proprio

assedio che li sfiancò e riaccese le ostilità tra Boemondo e Raimondo a causa della spartizione del

bottino.

Da quel momento il conte di Tolosa tentò in ogni modo di aggiudicarsi l’appoggio dei capi crociati e

addirittura tenterà (fallendo) di creare scompiglio anche all’interno dell’esercito normanno.

Nel gennaio 1099 riprese la marcia verso Gerusalemme, di nuovo sotto l’insistenza del popolo, stanco

di rimandare continuamente il pellegrinaggio a causa delle ambizioni personali dei capi crociati. Non

tutti partirono, Boemondo infatti, non seguì l’esercito e attese il primo marzo per tornare ad Antiochia.

La prima cosa che fece il normanno fu espellere tutti i provenzali dalla città, mettendo così in chiaro di

essere disposto ad arrivare fino in fondo pur di diventarne il signore a tutti gli effetti. I primi momenti

della nascita di questo principato non furono affatto facili, perché continuamente disturbati da lotte e

contrasti da parte sia dei turchi, sia dei bizantini che non intendevano rinunciare al dominio di una

zona tanto importante.

Boemondo riuscì abilmente a consolidare il suo potere grazie all’amicizia con il nuovo legato del papa,

Daimberto, arcivescovo di Pisa (Ademaro di Puy era morto poco prima). Il normanno appoggiò il

riconoscimento dell’arcivescovo come patriarca di Gerusalemme (che avvenne nel 1099) e in cambio

ottenne da parte sua la dignità di principe (mentre riconobbe a Goffredo di Buglione a Gerusalemme, il

titolo di defensor S. Sepulchri).

Ritengo che sia importante sottolineare il fatto che in Oriente andava formandosi una realtà in cui i

nuovi territori che venivano posti sotto il dominio crociato, cominciavano ad essere riconosciuti dalla

autorità ecclesiastica e non da una laica. Si può forse parlare di una vera e propria realtà politica

dominata in primo luogo dalla Chiesa dove la conservazione dell’unità cristiana era il fine ultimo per il

quale stavano nascendo questi centri di potere in Levante. Credo sia interessante sottolineare come in

Occidente invece, si stava protraendo il braccio di ferro tra papato e Impero accentuato dalla lotta per

le investiture e in Oriente si andavano a costituire nuovi centri di potere, riconosciuti dalla Chiesa e

profondamente legati ad essa.

Alessio Comneno, continuò ad avanzare pretese su Antiochia chiedendone la restituzione come

volevano i patti iniziali ma per Boemondo, il suo abbandono nel momento del bisogno aveva

significato la rottura dell’accordo. L’aiuto di Daimberto e dei pisani fu di nuovo prezioso quando, dopo

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 9

la conquista della Laodicea (che bloccava strategicamente la via di Antiochia al mare) da parte

dell’Imperatore con l’aiuto di Raimondo di Tolosa, gli si opposero costringendolo a porre fine

all’assedio.

Daimberto aveva trasformato la conquista di Antiochia da parte di Boemondo, in un potentato

ufficialmente riconosciuto e nel 1100 questa era la signoria dei crociati in Terra Santa più forte in

assoluto.

Molti studiosi nel corso del tempo si sono chiesti perché Boemondo avesse insistito sull’ottenere il

titolo principesco ma la risposta può essere soltanto frutto di un’ipotesi, che va ad indagare sul suo

passato e sul difficile rapporto che lo opponeva costantemente al fratello Ruggero Borsa. Dobbiamo

pensare infatti, che il primogenito del Guiscardo si era visto togliere i suoi diritti di successione in

favore del figlio di secondo letto pur essendo stato, senza dubbio, un prezioso collaboratore militare

del padre nel suo progetto di espansione a danno dei territori bizantini.

Forse questo senso di ingiustizia e questo desiderio di governare concretamente un territorio, lo

spinsero a fregiarsi di un titolo che lo metteva allo stesso piano di Ruggero Borsa (il quale si definiva

signore di Salerno), che non aveva mai riconosciuto come proprio signore.

Il consolidamento dei territori di Boemondo ebbe una grave battuta di arresto quando cadde

prigioniero nell’estate del 1100. Il capo armeno della città di Melitene, invasa dai turchi, invocò l’aiuto

del normanno promettendogli di nominarlo signore se li avesse liberati. Ma vicino alla città i

musulmani riuscirono a tendere un agguato al piccolo contingente militare di Boemondo facendolo

prigioniero.

In un primo momento corse inutilmente in suo aiuto Baldovino di Edessa, temendo la ripresa

dell’espansione dei turchi e il nipote Tancredi senza ottenere di fatto, alcun risultato.

Egli venne chiamato come reggente di Antiochia che non poteva assolutamente rischiare di rimanere

senza la guida normanna in un momento così delicato.

Grazie a lui continuarono a consolidarsi i rapporti con i genovesi e si riuscì ad annettere Mamistro,

Adana, Tarso e finalmente la Laodicea.

Nel 1103 Boemondo venne liberato e tornato ad Antiochia, riprese la lotta contro i bizantini

avvalendosi di un ottimo alleato che aveva la stessa necessità di allontanare i greci dai suoi domini, il

conte di Edessa il quale riuscì a prendere la città di Marash.

Nel 1104 l’esercito crociato mirava alla città di Harram ma a causa di un litigio tra Boemondo e

Baldovino del Borgo, la partenza fu rimandata dando tempo all’esercito musulmano di compattarsi e di

fare forza comune. La battaglia infatti, fu un totale fallimento e sebbene le truppe cristiane riuscirono

ad evitare la caduta di Edessa, le conseguenze sul morale dei crociati furono pesanti.

I musulmani occuparono Artesia spingendosi fino al Ponte di Ferro aiutati da gruppi di armeni stanchi

del governo normanno.

La notizia della sconfitta di Harram arrivò anche all’Imperatore che colse l’occasione per fomentare i

greci a ribellarsi ai crociati riprendendo il controllo di Tarso, Adana, Mamistra e di una buona parte

della Laodicea.

Boemondo comprese quanto fosse grave la situazione: l’ostilità del basileus si era trasformata in una

vera e propria guerra e questa volta, minacciato dai turchi, dagli armeni ribelli e dalla cristianità

orientale, decise di tornare in Occidente sapendo di non poter contare solamente sull’appoggio delle

città marinare di Pisa e Genova: aveva bisogno di rivolgere il suo appello alla Francia, lasciando la

reggenza a Tancredi che si era dimostrato estremamente abile a fare le sue veci.

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 10

Il ritorno in Italia fu trionfale e Boemondo fu accolto come un vero eroe ottenendo anche il privilegio

di incontrare Pasquale II e di essere accompagnato dal legato pontificio Bruno Segni.

La prima tappa del normanno in Francia, fu il santuario di Noblat nel Limosino per rendere omaggio a

San Leonardo, considerato il protettore dei milites in difficoltà, al quale portò in dono una copia in

argento delle catene che lo avevano legato durante la sua prigionia.

A fine marzo Boemondo passò per le Fiandre e nella primavera del 1106 sposò la figlia di Filippo I,

Costanza, che aveva appena sciolto il suo matrimonio con Ugo di Champagne a seguito della scoperta

di un legame di consanguineità (nel Medioevo si ricorreva molto spesso a questo stratagemma per

sciogliere matrimoni non più convenienti).

Da questa unione Boemondo credette di poterne ricavare un rafforzamento della sua posizione e di

essersi finalmente garantito l’appoggio che gli era necessario per poter mantenere i suoi domini in

Oriente e procedere all’attacco contro l’Impero bizantino.

Anche la Francia d’altra parte, aveva le sue buone ragioni per puntare tutto su questo matrimonio. Il

sovrano infatti, era ancora in conflitto con la Chiesa a causa delle sue vicende matrimoniali e suo

fratello Ugo di Vermandois si era rivelato un totale fallimento, rientrando dalla crociata addirittura

prima di aver portato a termine il pellegrinaggio a Gerusalemme. Il prestigio del regno quindi, veniva

messo nelle mani dell’abile normanno che aveva dato prova di essere un formidabile condottiero.

Il 25 giugno Boemondo partecipò ad un concilio a Poitiers dove parlò della necessità di condurre una

nuova crociata, questa volta contro l’Impero bizantino dipingendo Alessio Comneno come il principale

nemico dei cristiani. La propaganda antibizantina fu condotta dal normanno con grande veemenza e

questo lo testimonierà anche la lettera indirizzata al Papa con lo scopo di ringraziarlo per avergli

concesso l’appoggio del legato Bruno Segni durante il suo viaggio in Francia. Questa epistola però,

lasciava trasparire anche un secondo fine: ribadendo l’ostilità nei confronti del Comneno e utilizzando

come argomentazioni il suo abbandono della via cristiana e il suo tentativo di recare danno ai

pellegrini diretti a Gerusalemme, Boemondo tentava di avere dalla sua parte il Papa o direi, di

giustificare il suo futuro attacco militare nei confronti della cristianità orientale.

Il principe di Antiochia lasciò la Francia sbarcando Il 9 ottobre 1107 a Valona dove pose l’assedio a

Durazzo, mossa che il basileus aveva previsto ed infatti, nel suo periodo di assenza, si era assicurato di

fortificare l’esercito.

Il normanno era determinato più che mai a portare a termine quello che una volta era stato il progetto

del padre e arrivò a far bruciare tutte le navi per impedire che l’esercito disertasse. Alessio non attaccò

limitandosi a bloccare la parte del mare per impedire che Boemondo comunicasse con i suoi

possedimenti in Puglia.

La morsa che si stringeva intorno all’esercito di Boemondo iniziava a far prevedere una sconfitta

inevitabile e presto, l’abile condottiero dovette scendere a patti con la realtà, ammettendo che l’unico

modo per evitare una carneficina e tentare di mantenere i domini già consolidati in Oriente, fosse

trattare la pace.

Anna Comnena ci racconta come il normanno si rifiutasse di mettere da parte il suo orgoglio fino

all’ultimo tanto che in un primo momento non volle neppure inginocchiarsi di fronte all’Imperatore.

Nel settembre del 1108 si raggiunsero gli accordi dopo una lunga trattativa, che elencavano gli

obblighi di Boemondo e quelli di Alessio e grazie alla testimonianza della figlia Anna, possiamo

ricostruirne il contenuto:

Boemondo si impegnava a giurare fedeltà all’Imperatore, a non prendere le armi contro di lui e ad

aiutarlo in caso di necessità. Non poteva intraprendere campagne militari per sottrarre terre al

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 11

dominio imperiale e doveva costringere i barbari che aveva sottomesso, a prestare giuramento di

fedeltà al basileus. Boemondo inoltre, in caso di ribellione da parte di Tancredi (ostile sin dall’inizio

all’Imperatore), avrebbe dovuto trattarlo da nemico, schierandosi dalla parte di Alessio.

Il patriarca di Antiochia doveva essere di rito greco e nominato dal basileus.

Alessio avrebbe ripreso Tortosa, la Laodicea, Gibel, Valania, Maraclea e la Cilicia mentre Boemondo

avrebbe continuato a dominare Antiochia insieme al porto di San Simeone, i castelli di Doux e Cauca, di

Loulos, la montagna Meravigliosa, Feresia, S. Elia, Borsa, Schaizar, Artah, Telonch, Monte Mauro,

Aleppo e Lapara. Tutti questi territori però, venivano concessi sotto forma di feudo trasmissibile ad

eredi, che dovevano giurare fedeltà all’Imperatore.

Boemondo uscì da questa sconfitta distrutto e umiliato. Il suo orgoglio venne ferito così

profondamente da rifiutarsi di tornare ad Antiochia, preferendo passare i suoi ultimi anni nei vecchi

domini in Puglia. Di questa permanenza nell’Italia meridionale non ci giungono fonti dettagliate quindi

non possiamo sapere se avesse intenzione di organizzare un esercito per tornare in Oriente.

In ogni caso le sue ambizioni furono stroncate il 7 marzo del 1111 quando morì a Bari.

Sebbene Tancredi fu un abile reggente, il principato di Antiochia non tornò mai a brillare come aveva

fatto durante il 1100 e dopo la morte di Boemondo II (figlio di Boemondo e Costanza) senza eredi

maschi, l’elemento normanno andò a scomparire facendo spazio all’egemonia aquitana che

estrometteva direttamente i normanni del meridione d’Italia ormai capeggiati da Ruggero II, dalla

possibilità di dominare i possedimenti in Terra Santa.

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Italia e Italiani alla prima Crociata

Bianca Nucci 12

FONTI:

-Raoul Manselli, Italia e italiani alla prima crociata, Roma, Jouvence, 2002

-Luigi Russo, I Normanni nel Mezzogiorno e il movimento crociato, Bari, Mario Adda Editore, 2014

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PRIMA CROCIATA

INTRODUZIONE

Prendendo in considerazione il periodo delle

Crociate cioè quella spedizione militare che vede

riuniti molti Cristiani per liberare la Terra Santa.

La situazione Europea era molto critica a ovest gli

eserciti iberici erano impegnati a liberare la Spagna

che era sotto invasione dei mori; mentre nella nostra

penisola le città marinare come di Genova e Pisa

dovettero attaccare i porti della Sicilia Islamica.

Nell'alto Medioevo approfittando

delle politiche Mediterranee europee le forze

mussulmane erano riuscite a conquistare diversi

territori;

le conquiste più prestigiose dell'Islam furono ad est

e in poche settimane l'incontenibile esercito

musulmano riuscì a più riprese a sconfiggere l'impero

romano d'oriente, ciò che rimaneva dell'Antico impero

Romano. L'arrivo di una minaccia Islamica cioè i

turchi selgiuchidi aggrava in modo definitivo l'impero

romano d'oriene i nuovi conquistatori iniziarono ad

attaccare anche i pellegrini europei in viaggio verso

Edoardo Germani

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ASPETTI MILITARI DELLA

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la Palestina; le motivazioni delle Crociate sono un

fatto molto discusso ancora oggi Tra gli storici. La

prima crociata oltre a un fatto religioso è anche un

fatto geo politico come per quello di alleggerire

l'attacco dei Turchi su Costantinopoli, attacco che se

non contrastato poteva far si che i turchi potessero

penetrare nell'Europa orientale. Il papa di Allora

Papa Urbano secondo rispose alla richiesta di aiuto

dell'imperatore d'Oriente Alessio Cominio chiamando a

raccolta tutta la nobiltà Cristiana per liberare i

luoghi sacri del cristianesimo

e aiutare Costantinopoli, l'obiettivo era quello di

riportare

la sfera di influenza Cristiana nelle regioni come

l'Egitto,l' Anatolia, la Siria e la Palestina, queste

regioni sono state per secoli il cuore pulsante della

cultura greco romana e poi cristiana,da Alessandro

Magno arrivando poi ad Augusto e poi all'Impero

bizantino .Le Crociate infatti erano viste come una

misura militare per riprendersi i territori che gli

erano stati levati ,aree geografiche che all'epoca

molti percepivano come come appartenenti l'impero

europeo. Le Crociate sono sono viste in due modi

completamente diversi; una parte la vede come un

fanatismo religioso, mentre l'altra parte la vede come

operazioni militari .

ASSEDIO DI GERUSALEMME

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La Battaglia per la conquista di Gerusalemme, un'importante campagna

militare dal punto di vista religioso per i cristiani, che volevano strappare

la città santa dal l'invasore mussulmano. Quando i crociati arrivarono fuori

dalle mura della città Fortezza trovarono un paesaggio completamente arido e

privo di acqua e di cibo non potevano dunque sperare in un blocco della città;

l'unico modo per riuscire a conquistare Gerusalemme era quello di fare un assalto

alla città che era ormai già fortificata. L'esercito crociato inizio il primo

assalto il 13 giugno il contingente provenzale non partecipò all' attacco.

L'offensiva che i crociati fecero il 13 giugno non fu un vero e proprio attacco

ma un tentativo d' offesa Infatti i crociati riuscirono ad entrare dentro le

mura di Gerusalemme però furono poi cacciati fuori dalla città. Questo dimostra

oltre che la conquista di Gerusalemme non fu una campagna molto facile, anche

la forza e la tenacia degli occupanti che riuscirono a strappare La Fortezza

di Gerusalemme agli occupanti mussulmani. Dopo i fatti che sono accaduti dopo

il primo attacco alla fortezza di Gerusalemme si tenne un incontro tra i vari

comandanti che si concordarono che per il futuro sarebbe stato necessario un

attacco concordato . Il 17 giugno giunsero nel porto di Giaffa un gruppo di navi

provenienti da Genova guidate da Guglielmo Embriaco queste navi portarono

rifornimenti e macchine d'assedio come le famigerate torri d'assedio; con il

rinforzo dei Genovesi l'esercito crociato arrivava a un numero pari a 15 mila

soldati, mentre il numero quello dei difensori della città era composto

solamente da 7000 soldati. I crociati iniziarono a raccogliere il legno della

Samaria per costruire macchine da assedio. Dopo i fatti che sono accaduti dopo

il primo attacco alla fortezza di Gerusalemme. Si tenne un incontro tra i vari

comandanti che si concordarono per il futuro sarebbe stato necessario un attacco

concordato

l'assedio finale

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L'attacco decisivo a Gerusalemme iniziò il 13 luglio, le truppe di Raimondo

II di Tolosa si mossero verso la porta sud della città,mentre gli altri

contingenti si concentrarono sul muro settentrionale. La svolta della Battaglia

ci fu la sera del 14 luglio quando i crociati usarono le torri d'assedio,

spingendole verso le mura . Mentre Raimondo II di Tolosa con gli uomini avrebbe

attaccato dalla porta di Sion, mentre Guglielmo di Normandia colpiva a Nord.

La torre d'assedio di Goffredo di Buglione il 15 luglio raggiunse la sezione

delle Mura vicino all'entrata nord est, i primi due uomini che riuscirono ad

irrompere nella città furono Lethal e Engelbert seguiti da Goffredo e i suoi

uomini. La torre di Raimondo fu inizialmente fermata grazie ad un fosso, ma poiché

i crociati erano ormai entrati dentro la città i mussulmani a difesa della porta

si arresero dopo che i crociati superono le Mura esterne erano ormai dentro

la città . Incrociati una volta all'interno della città si diedero al massacro

uccidendo non solo i soldati che gli parvero davanti ma anche i civili, i civili

vennero uccisi perché non era considerato un peccato uccidere un infedele cioè

uccidere una persona non Cristiana,questo perché i crociati ormai erano

indottrinati dalle parole di Urbano II. Molti mussulmani cercarono riparo nella

moschea di al aqsa; che secondo il racconto delle gesta Francorum "...la

carneficina fu così grande che i nostri uomini camminavano nel sangue che gli

arrivava fino alle caviglie...". Mullet recita che non finirono qui secondo

una documentazione; durante la difesa della città i soldati mussulmani erano

fiancheggiati dai soldati ebraici che quando videro che i crociati avevano aperto

una breccia nelle Mura esterne si ritirarono all'interno della loro Sinagoga

che poi in seguito viene data alle fiamme da parte dei crociati.La battaglia

si concluse il 15 luglio giorno dell'ultimo assedio a Gerusalemme dove i suoi

difensori sono stati decimati dalle false crociate.

STRATEGGIE ED ARMI USATE PER LA CONQUISTA

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Ma come si è

arrivati a conquistare una grande Fortezza fortificata come Gerusalemme? Diciamo

che i crociati hanno avuto dalla loro parte oltre che un grande esercito, anche

il vantaggio di avere macchine d'assalto progettate proprio per bombardare e

penetrare nelle fortezze. Le armi che sono state utilizzate per la guerra di

Gerusalemme sono vaste come ad esempio i trabocchi, i Magnani, gli arieti,

le torri d'assedio ,la balista e i manteletti. Ma come venivano usate queste

macchine da guerra?

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TRABOCCHI:venivano usati per bombardare la città oltre che con delle pietre;

quindi stessa concezione delle catapulte; i trabocchi erano in grado anche di

lanciare delle vere e proprie bombe incendiarie lanciando dei vasi di creta

che all'interno erano pieni di un liquido infiammabile; per sigillare il vaso

era usato un panno imbevuto anche questo di un liquido infiammabile che veniva

acceso e poi lanciato verso l'obiettivo.

Questa macchina non usava un principio di elasticità come la catapulta ma aveva

un meccanismo che funzionava sulla Leva.

ARIETE: Era anch'essa un arma usata per gli assedi. L' ariete veniva usato

principalmente per buttare giù le porte d'accesso del Castello della fortezza

che si voleva conquistare; poteva anche essere usato per buttare giù le mura

quando non erano particolarmente spesse o rinforzate. Esistono vari tipi di

ariete; quello che venne usato per la battaglia di Gerusalemme era un ariete

dotato sia di corazza che di ruote; la corazza serviva a protezione delle persone

che dovevano far oscillare indietro e in avanti il tronco d'albero, la parte

che viene usata buttar giù l'obiettivo veniva rinforzata con rinforzo in ferro.

Le ruote invece servivano uno per una comodità per le persone che vi stavano

all'interno e anche per rendere il macchinario più veloce.

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BALISTRA: La balista è un enorme macchina d'assedio, quest'arma veniva anche

essa usata sia in guerra che per la conquista di fortezze; quest'arma era stata

inventata prima dei greci e poi venne usata nell'Impero romano. Anche quest'arma

veniva usata per gli assedi per bombardare i difensori delle fortificazioni come

successe a Gerusalemme. Quest'arma poteva lanciare sia dei dardi e sia delle

pietre e poteva lanciarli sia singolarmente che in piccoli gruppi. Questa era

caratterizzata dal tipo di modello che si usa per l'assedio a Gerusalemme è

stata usata quella che lanciava singolarmente. La balista è l'arma più complessa

che sarà costruita prima della rivoluzione industriale.

MANTELLETTI: Venivano usati come protezione degli arcieri, ed era anche uno scudo

mobile, quindi c'era la possibilità muoversi sul campo di battaglia stando però

al riparo.

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TORRI D'ASSEDIO :

la torre d'assedio o torre mobile era una macchina da guerra usata per raggiungere

le mura difensive di una città o fortezza durante un assedio . La sua struttura

era imponente e doveva essere più alta delle mura d'assediare ,per i costruttori

delle torri mobili, era necessario conoscere l'altezza delle fortificazioni

avversarie nella maniera più accurata possibile.Le torri d'assedio erano in

legno, trainate da buoi e con alcune pareti rivestite con pelli per proteggersi

dai dardi nemici. Le torri d'assedio erano costruite in diversi piani collegati

fra loro con delle scale, in cima poi alle torri c'era un ponte levatoio che

veniva lasciato cadere con violenza sulle mura in questo modo i soldati

all'interno della torre potevano assalire le mura. della fortezza

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Luca Carfagna I MIRACOLI NELLA PRIMA CROCIATA

La prima crociata è un fenomeno fortemente impregnato di una componente mistico religiosa che prende forma e si rende evidente tramite le testimonianze dei cronachisti contemporanei. L’intervento divino, non solo accompagna i crociati per tutta la spedizione, ma sembra essere un elemento importante nella predicazione della crociata, quando l’impresa è ancora solo un progetto. Nel novembre 1095 papa Urbano II bandisce la prima crociata a Clermont, nel centro della Francia. Lui stesso si impegnerà nella diffusione dell’appello ma, parallelamente, altri personaggi si faranno carico della predicazione. Alcuni di questi, per dare una forma legittima alla propria predicazione, non ufficializzata da Urbano II, si fanno portavoce di messaggi e missioni divini.

LA MISSIONE DI PIETRO L’EREMITA Fra questi predicatori vi è Pietro d’Amiens, detto Pietro l’Eremita. Guibert de Nogent ci racconta di come riuscisse a raccogliere attorno a sé molti ferventi seguaci. Non conosciamo in particolare i capisaldi della sua predicazione e le sue modalità ma sappiamo che faceva molto affidamento su un presunto carattere divino che attribuiva alla sua missione. Raccontava, infatti, che nel 1093 si sarebbe recato in pellegrinaggio a Gerusalemme. Recandosi nel Santo Sepolcro, Pietro si sarebbe addormentato al suo interno e avrebbe ricevuto in sogno una visione di Cristo. Costui lo avrebbe informato della gravità della situazione dei cristiani d’oriente e della necessità di un aiuto concreto da parte dei confratelli occidentali esortandolo a chiedere udienza al patriarca greco di Gerusalemme Simeone1. Petre, dilectissime filii Christianorum, surgens visitabis Patriarham nostrum; et ab eo sumes, cum sigillo sanctae crucis, litteras legationis nostrae; et in terram cognationis tuae quantocius iter eccelerabis; calumpnias e injurias populo nostri et loco sancto illatas reserabis, et suscitabis corda Fidelium ad purganda loca sancta Iherusalem, et ad restauranda officia sanctorum. Per pericula enim et temptationes varias Paradisi portae nunc aperientur vocatis et electis. Sono le parole a lui dette da Cristo secondo quanto ci racconta Alberto di Aquisgrana. Alcune fonti, tra cui Anna Comnena, attribuiscono a questo episodio e alla figura di Pietro un’importanza assoluta. Infatti, Pietro si sarebbe effettivamente tornato in Europa con una lettera consegnatagli dal patriarca Simeone e con questa avrebbe convinto il papa a organizzare una crociata. Sebbene questo potrebbe essere un semplice tentativo di Anna per scagionare il padre Alessio da qualsiasi colpa, per aver portato i crociati nel suo territorio chiedendo aiuto all’occidente cristiano, rimane una fonte che testimonia l’importanza di questo episodio. Come sappiamo Pietro scamperà al disfacimento dell’esercito da lui stesso messo in piedi e parteciperà poi alla crociata ufficiale. Lo troviamo, infatti, al termine della crociata quando, conquistata gerusalemme, l’esercito crociato guidato da Goffredo di Buglione si trova a dover affrontare la minaccia dell’esercito fatimide ad Ascalona. Il ruolo di Pietro non è sul campo di battaglia ma a Gerusalemme come guida del clero greco e latino, al posto del patriarca Arnolfo assente per portare alle truppe un frammento della Vera Croce. Pietro è un nuovo Mosè che guida il popolo nella preghiera e intercede presso Dio consentendo a Giosuè di sconfiggere gli Amaleciti2.

EMICH DI LEININGEN Sempre nel contesto della predicazione non ufficiale della prima crociata appare la figura di Emich. È un conte delle della Renania di cui Guglielmo di Tiro ci descrive la ferocia contro gli ebrei. Non essendo un uomo di Chiesa, per giustificare la sua guida e convincere nuovi adepti a seguirlo di presenta come il nuovo Saul, il re degli ultimi tempi. Infatti, appellandosi a un testo attribuito al Venerabile Beda (VII-VIII sec. Santo e Padre della Chiesa, autore della Historia ecclesiastica gentis Anglorum) e a una presunta visita da lui ricevuta da un angelo mandato da Cristo, si autoproclama come il legittimo sovrano dei greci e dei romani (secondo le profezie dell’apocalisse dello Pseudo-Metodio e di

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Azzone di Montier-en-Der) destinato a combattere i popoli di Gog e Magog e convertire gli ebrei3. Il cronista ebreo Bar Simpson afferma: Si fece capo dell’orda e rimuginò una storia secondo cui un apostolo del crocifisso era venuto da lui e gli aveva impresso un segno nella carne per indicargli che, quando fosse giunto nella parte greca dell’Italia, sarebbe apparso lui stesso ed avrebbe posto la corona sulla sua testa, e che Emich avrebbe trionfato su tutti i suoi nemici4. Tale sarebbe stato il suo fervore religioso che sarebbe stato convinto da un’indicazione divina a mettere un’oca a guida della sua banda5.

LA BATTAGLIA DI DORILEO Il 26 giugno i crociati avevano lasciato Nicea dopo averla assediata e conquistata. L’esercito crociato si divide in due gruppi, uno guidato da Boemondo e un altro guidato da Goffredo e Raimondo, per esigenze di approvvigionamento. Kilij Arslan, a capo del Sultanato selgiuchide di Rum, avendo spiato le mosse dell’esercito crociato e sfruttando la divisione delle truppe, si affretta a circondare le truppe di Boemondo. Il 1 luglio 1097 le due parti si scontrano e, per la prima volta, i crociati si trovano a dover affrontare l’esercito selgiuchide e i suoi micidiali arcieri a cavallo, per di più in inferiorità numerica. Boemondo resiste per miracolo e solo l’arrivo di Goffredo e Raimondo consentirà ai crociati di avere la meglio. I Gesta Francorum (di un cronista anonimo al seguito di Boemondo) riportano: Se Dio non fosse stato al nostro fianco in quella battaglia e non ci avesse mandato in fretta quelle altre schiere di armati, nessuno di noi sarebbe scampato6. Anche Roberto il Monaco afferma che il merito della vittoria è da attribuirsi a Dio. Un altro cronista, Alberto di Aquisgrana, riporta un fatto ancor più miracoloso affermando che, dopo due giorni dalla battaglia, gli infedeli ancora fuggivano impauriti e fra i cristiani correva voce che San Giorgio e San Demetrio avessero combattuto al loro fianco7.

L’ASSEDIO DI ANTIOCHIA Il 21 ottobre 1097 l’esercito crociato guidato da Goffredo, Boemondo e Raimondo pone Antiochia sotto assedio. Tra mille difficoltà (epidemie, carenza di viveri, diserzioni come quella di Pietro l’Eremita e Tatikius con il suo contingente bizantino) i crociati riescono a conquistare la città, con l’eccezione della cittadella, il 3 giugno 1098. La conquista non porta alcun sollievo ai crociati in quanto giunge loro notizia dell’arrivo di un esercito musulmano da Mossul guidato da Kerbogha. Altri crociati disertano (tra cui Stefano di Blois) e le truppe bizantine inviate a rinforzo da Alessio rinunciano ad intervenire, convinte che l’esercito crociato fosse ormai spacciato. Il 5 giugno arriva l’esercito di Kerbogha e il 9 pone Antiochia sotto assedio. A questo punto i crociati sono disperati. Sono in netta inferiorità numerica e sono chiusi in città senza viveri. Fra i soldati cominciano ad apparire segni miracolosi che infondono speranza. Il monaco Stefano di Valence afferma di ricevere visioni di Cristo e della Vergine che gli preannunciano una vittoria da lì a cinque giorni se i crociati avessero continuato ad aver fede8, mentre il 14 giugno viene visto un meteorite cadere sul campo degli assedianti. Questi segni sono interpretati favorevolmente ma la definitiva riscossa dei crociati sarà dovuta alla visione di Pietro Bartolomeo. Pietro Bartolomeo (prete dell’arcidiocesi di Marsiglia) era un pellegrino al seguito di Raimondo che sembra avesse cominciato a perdere la vista nel febbraio del 1098 e contemporaneamente avesse cominciato a ricevere visioni di Sant’Andrea. In una di queste visioni (Raimondo di Aguilers ne conta cinque) il santo gli avrebbe mostrato il luogo nel quale sarebbe stata nascosta la Santa Lancia e gli avrebbe chiesto di consegnarla a Raimondo affinché la portasse in battaglia. Informati i comandanti, Raimondo credette a Pietro e, dopo tre giorni di digiuno, un gruppo di 13 crociati cominciò a scavare nella cattedrale di San Pietro ad Antiochia. Per tutto il giorno scavarono senza trovar nulla finché lo stesso Pietro Bartolomeo estrasse dal terreno la punta di una lancia. Molti, soprattutto fra i comandanti della crociata, restarono scettici di fronte al ritrovamento, in particolare il legato papale Ademaro di Le Puy che aveva visto una reliquia della Santa Lancia già a Costantinopoli. Inoltre, essendo Pietro al seguito di Raimondo ed essendo a lui stata affidata la Santa Lancia, il ritrovamento poteva essere inteso come un modo per

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rafforzare la posizione di Raimondo rispetto agli altri comandanti. Tuttavia, la maggior parte dei crociati si esaltò per il ritrovamento a partire da Raimondo di Aguilers che afferma di essere rimasto estasiato da subito dalla reliquia (era presente al momento del ritrovamento) e di averla portata lui stesso in battaglia. Pietro Bartolomeo afferma di aver ricevuto una seconda visione in cui Sant’Andrea chiedeva ai crociati di sottoporsi a cinque giorni di digiuno promettendo loro la vittoria in battaglia. In effetti, Ademaro proclamò tre giorni di digiuno e per il 28 giugno 1098 i crociati erano pronti a scendere in battaglia per affrontare le truppe di Kerbogha. Raimondo, al quale sarebbe dovuta essere affidata la Santa Lancia, in realtà era malato e restò nella città con duecento uomini per controllare la cittadella. Forse per questo motivo la reliquia fu affidata a Raimondo di Aguilers.

LA BATTAGLIA DI ANTIOCHIA Nella sortita del 28 giugno i crociati riuscirono ad avere la meglio e rompere l’assedio. L’episodio è costellato di momenti miracolosi tra cui l’intervento in battaglia di truppe divine e santi guerrieri. I Gesta Francorum riportano: Dall’alto dei monti avanzarono anche truppe innumerevoli, su bianchi cavalli e con bianchi vessilli. Quando i nostri videro un’armata di tal fatta non sapevano proprio cosa fosse né chi fossero, finché non capirono che si trattava dei rinforzi del Cristo, i cui condottieri erano i santi Giorgio, Mercurio e Demetrio. Questa testimonianza deve essere creduta, poiché molti dei nostri videro queste cose9. In realtà i crociati combattevano digiuni e in carenza d’acqua, inoltre, Kerbogha aveva appiccato il fuoco a una parte del terreno per cercare di fermare la carica dei cavalieri crociati ostacolando di molto la visuale. Boemondo, poi, aveva dovuto formare in tutta fretta un distaccamento che non era previsto nella pianificazione della battaglia, per fermare un attacco sul fianco da parte del nemico. Tra le altre testimonianze dell’intervento divino durante la battaglia abbiamo quella di Bruno da Lucca: E quando furono avanzati sulla pianura per una distanza di circa tre miglia, ecco che scorsero un meraviglioso stendardo che s’innalzava fieramente, bianchissimo, e insieme ad esso un’innumerevole mole di guerrieri, accompagnati da un vento violento e da una grande polvere, che misero così bene in fuga i Turchi da costringerli a gettare le armi e persino le vesti. E così tutti, dispersi da Dio, disparvero alla vista dei nostri. Fatto ammirevole! Nessuno sa da dove venisse quella bandiera, né coloro che erano con lei. D’altronde abbiamo già visto come ai crociati fosse stato promesso questo aiuto nelle visioni di Stefano di Valence e Pietro Bartolomeo. A quest’ultimo sant’Andrea avrebbe rivelato il desiderio degli stessi santi di prendere parte alla battaglia: Non sai perché Dio vi ha condotto qui, quanto egli vi ama e in che modo vi ha eletto in modo speciale? Vi ha fatto venire qui per vendicare l’offesa subita da lui e dai suoi. Vi ama talmente tanto che i santi che stanno già riposando, essendo a conoscenza da prima della grazia della disposizione divina, vorrebbero essere di carne ed ossa per combattere accanto a voi […]; poiché voi siete superiori in meriti e in grazia a tutti coloro che vi hanno preceduto e che verranno dopo di voi, come l’oro prevale in valore sull’argento. Anche Raimondo di Aguilers ci parla della visione di Pietro Bartolomeo: Il vostro grido di adunata sia <Dio ci aiuti>, e in verità Dio vi aiuterà. Tutti i fratelli che sono morti dall’inizio di questa spedizione saranno anch’essi con voi in battaglia. Cercate di vincere la decima parte dei vostri nemici, ed essi, per ordine di Dio e con la sua potenza, combatteranno e vinceranno gli altri nove decimi. Pietro Tudebode invece ci racconta della visione di Stefano: Che essi diano quindi inizio alla battaglia ed io fornirò loro l’aiuto dei beati Giorgio, Teodoro e Demetrio e il soccorso di tutti i pellegrini morti sulla strada per Gerusalemme. Possiamo dunque vedere come alcuni identifichino questa schiera apparsa misteriosamente come una schiera di angeli, altri come i pellegrini morti oppure gli altri crociati uccisi, una sorta di martiri della cristianità. Non è la prima volta che accade. Già nello scontro di Leone XII contro i Normanni i guerrieri morti erano considerati alla stregua di santi14. Tuttavia tutte le fonti sono concordi nel sottolineare un intervento divino. Ancora Pietro Tudebode ci descrive la battaglia: Fu allora che uscirono dalle montagne innumerevoli eserciti, su bianchi cavalli e dietro bianchi

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stendardi. Nessuno sapeva quale fosse questo esercito fino a quando i nostri poterono riconoscere l’aiuto di Cristo, come era stato loro annunciato dal prete Stefano. Alla loro testa vi erano san Giorgio, il beato Demetrio e il beato Teodoro. Queste cose devono essere credute, perché molti di noi le hanno viste. La vittoria della battaglia è quindi attribuita dai cronisti all’intervento divino ma, in realtà, sappiamo che nonostante le condizioni disperate dell’esercito crociato anche il loro avversario non si trovava in ottime condizioni. L’emiro di Mossul, infatti, era riuscito a mettere insieme un esercito con la collaborazione di altri emiri ma date le difficoltà incontrate, già ad Edessa, prima ancora che ad Antiochia, molti alleati lo avevano abbandonato10.

ADEMARO DI LE PUY Vescovo di Le Puy che parte con il gruppo di Raimondo di Saint-Gilles come legato papale. Raoul di Caen nelle sue Gesta Tancredi ci racconta della morte del legato papale durante l’epidemia che colpisce i crociati dopo la battaglia contro Kerbogha, il 1 agosto 1098. Appare subito evidente, soprattutto nella sua figura, come i compagni morti nel corso della crociata diventino per gli altri partecipanti una guida e un aiuto alla stregua dei santi guerrieri. Non a caso saranno innumerevoli i crociati che affermeranno di aver ricevuto una visione dello stesso Ademaro. Questo perché Ademaro è stato capace di conquistarsi il rispetto degli altri crociati sia come punto di vista militare, infatti è un abile combattente, che dal punto di vista morale e liturgico, in quanto legato papale11. Sarebbe apparso proprio a Pietro Bartolomeo per scusarsi con lui per non avergli creduto in occasione del ritrovamento della Santa Lancia. Per questo sarebbe anche stato punito passando alcuni giorni all’Inferno (il Purgatorio ancora non esiste), senza essere toccato dai demoni, ma subendo bruciature e flagellamenti prima della liberazione ottenuta grazie a una candela offerta da alcuni amici e a un’offerta da lui stesso fatta in vita alla Sacra Lancia, nonostante lo scetticismo. Raimondo di Aguilers riporta le parole che avrebbe riferito a Pietro: è per questo motivo che sono stato condotto all’inferno; lì, sono stato flagellato in modo molto crudele e, come puoi vedere, la mia testa e il mio viso sono stati bruciati. Avrebbe poi esortato i propri compagni a non dubitare della Santa Lancia e avvertirli del suo aiuto anche da morto: Infatti, io abiterò con loro, e tutti i miei fratelli la cui vita è finita come la mia abiteranno anch’essi con loro, ed io apparirò loro e li aiuterò in modo migliore di prima. Questo episodio secondo cui Ademaro avrebbe passato alcuni giorni all’inferno è l’unica forma di discredito della sua memoria e perde anche un po’ di significato quando a essere screditata sarà la figura di Pietro Bernardo con la prova del fuoco. Sarebbe apparso in seguito a Stefano Valentino per ordinargli di prendere come bandiera la santa Lancia e la santa Croce e poi a Pietro Desiderio per ordinargli come conquistare Gerusalemme (digiuno e processione attorno alla città), durante la cui conquista sarà visto partecipare personalmente da alcuni crociati12.

ASSEDIO DI ARQA Dopo la vittoria ad Antiochia a inizio novembre l’esercito crociato comincia a muoversi e tra fine novembre e inizio dicembre del 1098 assedia la fortezza di Ma’arrat al-Nu’man (accuse di cannibalismo). Boemondo torna indietro per rafforzare il suo dominio su Antiochia. Ormai consolidato il potere di Boemondo su Antiochia, Raimondo ha in progetto di conquistare Tripoli per poter creare un regno simile a quello del suo rivale. Per questo decide di porre sotto assedio Arqa che avrebbe permesso ai crociati di controllare eventuali rinforzi islamici da Aleppo. A marzo Raimondo viene raggiunto dagli altri capi crociati guidati da Goffredo di Buglione. Tuttavia, piuttosto che rendere più rapido ed efficace l’assedio, l’arrivo dei rinforzi genera nuovi scontri all’interno del campo cristiano. È l’occasione per una nuova serie di visioni ricevute dai crociati. Raimondo di Aguilers ci racconta due episodi in particolare. Ad Anselmo di Ribemont sarebbe apparso Angilramno di Saint-Paul, un crociato morto durante l’assedio di Ma’arrat, che gli preannunciava la morte. La morte è però una liberazione, coloro che hanno combattuto per Cristo, infatti, hanno una bellissima casa che li aspetta in cielo. Il giorno seguente Anselmo muore

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colpito alla testa da una pietra. Il concetto è ribadito in una visione ricevuta da un altro crociato, questa volta direttamente di Cristo, che lo avrebbe esortato a continuare l’assedio nonostante le perdite: Quando uomini simili muoiono, sono messi alla destra di Dio ove io mi sono assiso dopo la resurrezione quando sono salito in cielo13.. In questo contesto si sarebbe verificata anche un’altro intervento di Ademaro di Le Puy a un monaco provenzale. Questa visione mette in dubbio ancor di più il ritrovamento della sacra Lancia e la figura di Pietro Bartolomeo in quanto nella visione Ademaro non ha nessun segno di punizione infernale descritto da Pietro. Mancando una guida spirituale l’iniziativa è presa da Arnolfo di Choques che sfida Pietro Bartolomeo alla prova del fuoco. Alla fine Raimondo sarà costretto a desistere dall’assedio e i crociati si muoveranno direttamente verso Tripoli.

LA PROVA DEL FUOCO DI PIETRO BARTOLOMEO Arnolfo di Choques si divideva la guida spirituale della crociata con Pietro di Narbona dopo la morte di Ademaro, in quanto legati papali. Dopo la conquista di Gerusalemme sarà lui a trovare la reliquia della Vera Croce nella Basilica del Santo Sepolcro. Il 1 agosto 1099 sarà scelto come primo Patriarca latino di Gerusalemme anche se sarà subito sostituito nel dicembre 1099 da Dailberto, arcivescovo di Pisa, in quanto, come ci racconta Raimondo di Aguilers, al momento della sua elezione non era nemmeno diacono e la sua moralità era messa in dubbio: In quei giorni, Arnolfo, cappellano del conte di Normandia, fu eletto patriarca da alcuni; il buono (clero) si è opposto non solo perché era solo un ipodiacono, ma soprattutto perché era figlio di un sacerdote e fu accusato di incontinenza nella nostra spedizione, tanto che hanno composto canzoni spudoratamente volgari su di lui. Pietro Bartolomeo aveva annunciato che in un’ennesima apparizione del 5 aprile, Cristo, San Pietro e Sant’Andrea gli avevano fatto presente la necessità di lanciare un attacco verso Arqa. La maggior parte dell’esercito dubita ormai troppo delle visioni di Pietro che appaiono davvero troppo conformi ai progetti di Raimondo. Così Arnolfo si fa portavoce di questo dissenso e sfida pubblicamente Pietro. Diverse voci di protesta (di parte provenzale) si alzano in difesa di Pietro Bartolomeo: Stefano di Valence ricorda la visione che aveva avuto ad Antiochia; Raimondo di Aguilers racconta di aver baciato la lancia quando era ancora conficcata nel terreno; Pietro Desiderio riferisce che anche a lui era apparso Ademaro con i segni del fuoco infernale; Everardo afferma che un siriano gli avrebbe riferito di una visione secondo cui san Marco gli avrebbe parlato della Lancia; Bertrando di Le Puy, un membro del seguito dello stesso Ademaro, riporta di aver ricevuta una visione del vescovo Ademaro e il suo portabandiera gli erano apparsi per confermargli l’autenticità della Lancia. Arnolfo, di fronte a tante testimonianze, è quasi convinto ma altri continuano a esprimere dubbi. A questo punto è lo stesso Pietro Bartolomeo a chiedere di essere sottoposto alla prova del fuoco per fugare ogni dubbio15. Così, l’8 aprile, Venerdì Santo, viene creato uno stretto corridoio di rami di olivo in fiamme alti più di un metro e lunghi quattro benedetti dai vescovi. Pietro, dopo quattro giorni di digiuno, si sarebbe lanciato nel fuoco vestito solo di una tunica portando la reliquia della lancia fra le mani16. L’esito della prova è molto controverso e si articola essenzialmente in due versioni. Una prima secondo la quale Pietro sarebbe morto dopo dodici giorni di agonia per le ferite riportate, versione che avrà successo e screditerà definitivamente la figura di Pietro Bartolomeo e della Lancia che sarà conservata come reliquia dal solo Raimondo di Saint-Gilles; una seconda per la quale Pietro uscì illeso dalla prova e morì a causa dell’esaltazione della folla che lo travolse spezzandogli la colonna vertebrale. Raoul di Caen (anche perché di parte di Boemondo) è l’unico ad affermare chiaramente di aver visto bruciature sul corpo di Pietro Bartolomeo insieme a Fulcherio di Chartres (che però non è testimone oculare). L’Anonimo dei Gesta Francorum non riporta l’accaduto, Guiberto di Nogent riporta entrambe le versioni mentre Guglielmo di Tiro e Alberto di Aquisgrana sospendono il giudizio. A raccontare che Pietro sia morto per la pressione della folla sono Pietro Tudebode, Roberto di San Remigio, Eccheardo di Aura, Gilone di Parigi e

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soprattutto Raimondo di Aguilers che dipinge Pietro come un santo14. Rimane evidente che i cronisti che riportano il fatto aderiscono ala versione più congeniale alla propria fazione.

L’ASSEDIO DI GERUSALEMME Lasciata Arqa il 13 maggio, con una rapida discesa i crociati giungono in vista di Gerusalemme il 13 giugno 1099. La città era in mano ai fatimidi. Date le condizioni dell’esercito crociato c’era bisogno di una vittoria rapida. In tal senso Pietro Desiderio riceve una visione di Ademaro che chiede ai crociati di digiunare per tre giorni e compiere poi un pellegrinaggio a piedi nudi attorno alle mura della città come Giosuè durante l’assedio di Gerico. Da lì a nove giorni la città sarebbe caduta. L’8 luglio i crociati organizzano la processione sotto i continui sberleffi da parte dei difensori. Sul Monte degli Ulivi, Pietro l’Eremita, Arnolfo di Chocques e Raimondo di Aguilers pronunciano sermoni per rinsaldare la fede dei crociati. Pietro Tudebode ci racconta la processione: I vescovi e i preti consigliarono che si facesse una processione intorno alla città. E vescovi e preti dunque, a piedi nudi, vestiti dei paramenti sacri e portando in mano delle croci, vennero dalla chiesa di Santa Maria sul Monte Sion alla chiesa di Santo Stefano Protomartire cantando e pregando che il Signore Gesù Cristo liberasse la Sua Santa Città e il Suo Sepolcro dai pagani e li mettesse nelle mani dei cristiani che si sforzavano di fare il Suo santo servizio. I chierici erano dunque parati per la cerimonia; presso di loro stavano i cavalieri e i sergenti armati. Quando i cristiani giunsero alla chiesa di Santo Stefano e, com'è uso nelle nostre processioni, vi fecero sosta, i Saraceni da sopra le mura misero a berciare sconciamente, a suonare strumenti a fiato e insomma a fare tutto il baccano che potevano. Poi, davanti a tutti i cristiani, battevano con un bastone la santissima croce per mezzo della quale il Cristo ha redento l'umano genere con l'effusione del Suo sangue; e inoltre, per addolorare maggiormente i cristiani, tentavano di spezzarla sbattendola contro le mura e gridando: <Frangi, agip salip>, che nella lingua significa: <Franchi, ecco la vera croce!>. Finalmente il 15 luglio i crociati riescono a conquistare la città. Alla loro guida c’è ancora il defunto Ademaro. Raimondo di Aguilers ci racconta: In questo giorno il signor Ademaro, vescovo di Le Puy, fu visto in città: e molti giurarono di averlo visto salire per primo sulle mura e incitare i compagni e il popolo tutto.

RITROVAMENTO DELLA VERA CROCE Secondo la leggenda sorta a fine IV secolo e tramandata da Ambrogio, Elena, la madre di Costantino, avrebbe ritrovato la Vera Croce sul Golgota, durante il pellegrinaggio a Gerusalemme nel 326, e l’avrebbe identificata fra le tre trovate grazie alle sue capacità di guarigione (una versione della leggenda parla della resurrezione di un uomo, un’altra della guarigione di una dona molto malata). A metà V secolo abbiamo il racconto di Teodoreto di Cirro che ci riporta la leggenda come ormai era comunemente nota: Quando l'imperatrice scorse il luogo in cui il Salvatore aveva sofferto, immediatamente ordinò che il tempio idolatra che lì era stato eretto fosse distrutto, e che fosse rimossa proprio quella terra sulla quale esso si ergeva. Quando la tomba, che era stata così a lungo celata, fu scoperta, furono viste tre croci accanto al sepolcro del Signore. Tutti ritennero certo che una di queste croci fosse quella di nostro Signore Gesù Cristo, e che le altre due fossero dei ladroni che erano stati crocifissi con Lui. Eppure non erano in grado di stabilire a quale delle tre il Corpo del Signore era stato portato vicino, e quale aveva ricevuto il fiotto del Suo prezioso Sangue. Ma il saggio e santo Macario, governatore della città, risolse questa questione nella seguente maniera. Fece sì che una signora di rango, che da lungo tempo soffriva per una malattia, fosse toccata da ognuna delle croci, con una sincera preghiera, e così riconobbe la virtù che risiedeva in quella del Signore. Poiché nel momento in cui questa croce fu portata accanto alla signora, essa scacciò la terribile malattia e la guarì completamente. Nel 614 il re persiano Cosroe II trafugò la croce da Gerusalemme ma l’imperatore Eraclio, nel 628, la recuperò a Ctesifonte per poi riportarla a Gerusalemme. Rabano Mauro (780-856) ci racconta che un angelo avrebbe impedito l’accesso alla porta

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d’oro di Gerusalemme finché l’imperatore bizantino non riportò la reliquia nella chiesa del Santo Sepolcro17. Nel 1099 il governatore fatimide di Gerusalemme espulse i cristiani dalla città all’avvicinarsi dell’esercito crociato. Alcuni preti ortodossi avrebbero quindi nascosto la reliquia prima dii essere costretti ad abbandonare la città. Il 5 Agosto, Arnolfo di Chocques, da poco eletto Patriarca, ritrova la reliquia della Vera Croce probabilmente proprio facendosi indicare il luogo del nascondiglo dal clero ortodosso, forse anche tramite tortura. Questa sarebbe un piccolo pezzo di legno incastonato in una croce d’oro. Caduta nelle mani del Saladino con la sconfitta della battaglia di Hattin nel 1187, di essa si persero le tracce. Il cronista arabo Imad ad-Din ce la descrive così: L'avevano incastrata in una teca d'oro, coronata di perle e di gemme, e la tenevano preparata per la festività della passione, per la solennità della loro festa ricorrente. Quando i preti la tiravano fuori, e le teste (dei portatori) la trasportavano, tutti accorrevano e si precipitavano verso di lei, né ad alcuno era lecito rimanere indietro, né chi si attardasse a seguirla poteva più disporre di sé. La sua cattura fu per loro più grave che la cattura del Re, e costituì il maggior colpo che subirono in quella battaglia.

L’ASSEDIO DI ASCALONA Il 12 agosto 1099 si combatte ad Ascalona la battaglia decisiva che permette ai crociati di tenere Gerusalemme. Al-Afdal, comandante delle truppe dei Fatimidi viene colto di sorpresa dall’offensiva dell’esercito cristiano e le fonti riportano una rapida vittoria con la fuga degli egiziani che si rifugiano nella città. Non ci sono interventi di schiere divine o santi guerrieri. Anche perché i nemici sono i Fatimidi d’Egitto, forse considerati meno pericolosi e semplici da sconfiggere anche senza l’aiuto divino7. Non sarebbe stato loro difficile conquistare la stessa Ascalona se scontri interni fra i crociati, soprattutto fra Raimondo e Goffredo, non li avessero fermati. Partecipano Arnolfo con la Vera Croce e Raimondo di Aguilers con la Santa Lancia sebbene la vittoria non venga attribuite alle reliquie che in questa occasione sembrano più uno strumento di visibilità per i due personaggi. Intanto a Gerusalemme si prega per la vittoria con una processione guidata da Pietro l’Eremita.

I SANTI GUERRIERI San Giorgio Nato in Cappadocia intorno al 280. Avrebbe servito come soldato nell’esercito imperiale romano e per le sue abilità sarebbe stato scelto per entrare nella guardia personale dell’imperatore Diocleziano. Quando questo avrebbe cominciato le sue persecuzioni contro i cristiani, san Giorgio non ebbe timore di confessarsi tale e morì martire. In sei anni di tormenti sarebbe morto e risorto tre volte convertendo molti soldati e la stessa imperatrice Alessandra, a sua volta martirizzata. Leggenda per cui nella città libica di Selem uccise un drago salvando la principessa Silene e convertendo la popolazione. San Demetrio Di san Demetrio si sa meno. Vissuto nello stesso periodo di san Giorgio sarebbe morto martire a Tessalonica nel 306 sotto le persecuzioni di Diocleziano o di Galerio. Sarebbe stato un diacono della zona oppure, anche lui, un soldato dell’esercito romano. È spesso raffigurato in coppia con san Giorgio su un cavallo rosso che uccide un moro mentre il compagno su un cavallo bianco che uccide un drago. San Martino Nato in Ungheria intorno al 316, figlio di un soldato dell’esercito imperiale romano, anch’egli fu addestrato e visse come tale combattendo in Gallia per la maggior parte della sua vita. Nell’inverno del 335 durante una ronda notturna taglia metà del suo mantello e lo dona a un mendicante. La notte sogna Cristo che lo ringrazia per averlo scaldato e il mattino dopo il suo mantello è integro. Questo sogno lo porta alla conversione. Lascia l’esercito, diventa monaco e poi vescovo di Tours nel 371. San Teodoro

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Nato in Cilicia, secondo altri in Armenia, servì nell’esercito romano prima sotto Diocleziano, poi sotto Galerio. Sarebbe morto martire il 17 febbraio 306, arso vivo per essersi rifiutato di venerare le divinità romane nell’accampamento invernale di Amasea, in Ponto. Secondo la leggenda sarebbe morto senza sentire il dolore del fuoco. San Mercurio Vissuto a metà del III secolo, fu un soldato cappadoce (forse di Cesarea) sotto Decio e Valeriano. Quando questi cominciarono a discriminare e poi perseguitare i cristiani non ebbe paura a confessare la propria fede. Torturato per tre volte e per tre volte guarito da un angelo, morì poi martire nonostante fosse un importante generale. La leggenda vuole che fosse l’uccisore di Giuliano l’Apostata intervenuto per via della preghiera di Basilio Magno. Sant’Andrea Apostolo di Cristo, fu il primo a ricevere la chiamata assieme al fratello maggiore Simon Pietro e già allievo di Giovanni Battista. La sua predicazione, come ci racconta Eusebio di Cesarea, si concentra in Asia Minore, nell’Europa dell’est e in Grecia. Proprio qui morirà martire, a Patrasso, crocifisso su una croce decussata in quanto indegno di morire come il suo Maestro.

LA SANTA LANCIA Possiamo identificare tre principali reliquie della santa lancia oggi osservabili: la Lancia del Destino, la Sacra Lancia e la Lancia di Antiochia18. Vi sarebbe anche quella riportata in Francia da Luigi IX ma è andata persa durante la Rivoluzione francese. Lancia di Antiochia Da un manoscritto armeno del XIII secolo sappiamo che la punta della lancia che trafisse il costato di Gesù sarebbe stata portata in Armenia dall’apostolo Giuda Taddeo nel monastero di Geghard la cui fondazione è attribuita allo stesso apostolo. La reale fondazione risale, però, al IV secolo. Resta inoltre il dubbio su come questa lancia sia potuta arrivare ad Antiochia. Potrebbe essere che, essendo le fonti successive alla crociata, la lancia avrebbe fatto un percorso contrario (da Antiochia fino in Armenia) per poi dar vita a una leggenda che l’avrebbe vista originaria di quel luogo. Oggi questa lancia è nel museo armeno di Echmiadzin. Vi è però un’altra lancia di tipologia identica che alcuni domenicani portarono a Smirne dall’Armenia nel XVIII secolo. Sacra Lancia Nel 1492 il sultano Bayazib, figlio di Maometto II, avrebbe inviato a papa Innocenzo VIII il sacro ferro, ovvero la punta in metallo della lancia che avrebbe trafitto il costato di Cristo. Ci testimonia l’arrivo della reliquia via mare il vescovo di Ancona, Marco Vigerio Della Rovere. Qui si sarebbe rotta la punta della lancia che venne lasciata in dono ad Ancona e lì ancora si trova mentre il resto della reliquia avrebbe proseguito il viaggio verso Roma. Qui fu sistemata in Santa Maria del popolo fino al 1629 quando fu spostata a San Pietro. Oggi viene qui esposta nella loggia della Veronica solo la prima domenica di Quaresima. Di questi tre reperti è l’unica che possa essere considerata una vera lancia romana del I secolo. Lancia del Destino Probabilmente una lancia di epoca carolina. Consiste in una punta metallica di circa 50 cm di lunghezza conservata a Vienna. Nasce probabilmente dallo stesso processo di santificazione che porta al concetto di guerra sacra. Infatti la mitologia germanica è ricca di armi magiche, mancava però una componente sacra che la rendesse attuale per il Sacro Romano Impero. Da qui un’identificazione con la lancia di San Maurizio (incisione di Enrico IV tra 1084 e 1105). All’interno della lancia, nel punto di rottura, è incastonato quello che viene indicato come un chiodo della crocifissione di Cristo. Nel1354 Carlo IV la riconoscerà definitivamente come la lancia di Longino e fasciando d’oro il punto di rottura farà incidere: lancea et clavus domini. Hitler avrà grande interesse in questa reliquia e

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dopo l’annessione dell’Austria la fece spostare a Norimberga. Alla fine della guerra la lancia tornò al suo posto a Vienna.

LA CERIMONIA DEL FUOCO SANTO Ogni sabato santo, il giorno precedente alla Pasqua ortodossa si assiste a un miracolo nella basilica del Santo Sepolcro. Le candele all’interno del tempio infatti prendono fuoco da sole e per i primi minuti producono una fiamma azzurrina che non brucia a ricordo delle luci che hanno preceduto la resurrezione di Cristo. Questa cerimonia è esclusivo appannaggio della cristianità ortodossa e il motivo è da ricercarsi nel 1101. infatti la cerimonia è molto antica, abbiamo la prima testimonianza scritta del 920. Nel 1100 il clero cristiano riunito attende con ansia l’apparizione delle luci ma nulla sembra accadere. Finalmente il miracolo avviene ma dopo lunghissimo tempo e inutili preghiere. Anche l’anno dopo ci sono difficoltà ma questa volta nonostante il clero abbia pregato tutta la notte il miracolo non avviene. Il clero latino abbandona il tempio del Santo Sepolcro e quando resta solo quello ortodosso finalmente appaiono le luci. La colpa viene attribuita alle atrocità del massacro compiuto dai crociati occidentali quando avevano conquistato Gerusalemme19.

1 Simonetta Cerrini, L’apocalisse dei Templari2 Jean Flori, La Guerra Santa p. 3733 Giosuè Musca, Il Vangelo e la Torah: cristiani ed ebrei nella prima crociata pp. 34-354 Jean Flori, La Guerra Santa p. 3765 Gad Lerner, Pietro l’Eremita e la crociata degli straccioni articolo La Repubblica6 Jonathan Phillips, Sacri guerrieri p. 197 Joseph Francois Michaud, Storia delle crociate8 Michael Rank, Le Crociate e i Soldati della Croce: 10 biografie dei crociati più importanti9 Jonathan Phillips, Sacri Guerrieri p. 2310 Jean Flori, La Guerra Santa pp. 367-37011 Luigi Russo, Il problematico carisma del crociato: Ademaro di Puy e Pietro l’Eremita ne Il carisma nel secolo XI. Genesi, forme e dinamiche istituzionali, Fonte Avellana 2006, pp.103-12512 Jean Flori, La Guerra Santa p. 36513 Jean Flori, La Guerra Santa pp. 364-36514 Vito Sibilio, Il meraviglioso nella prima crociata15 Steven Runciman, Storia delle crociate16 Jonathan Phillips, Sacri guerrieri p. 2417 Barbara Baert, La leggenda della Vera Croce e la sua iconografia articolo Treccani18 Nicoletta De Matthaeis, Andar per miracoli:guida all’affascinante mondo delle reliquie romane19 Charis Skarlakidis, La Santa Luce: il miracolo della vigilia della Santa Pasqua nel sepolcro di Cristo

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Francesco D'Angelo

Estratto da: Da «rudes in fide» a devoti cristiani: aspetti della

devozione popolare in Norvegia tra XI e XIII secolo

[in «Archivio italiano per la storia della pietà» 30 (2017) pp. 139-175]

Con la conversione al cristianesimo, avvenuta tra i secoli X e XI, la società

norvegese fu gradualmente e progressivamente trasformata mediante l'introduzione,

l'adozione, e a volte l'imposizione, di nuove forme di religiosità e di devozione. Nelle

pagine che seguono, tale processo verrà esaminato in un arco cronologico di circa

duecento anni e in relazione a tre espressioni tipiche della devozione cristiana (non solo)

medievale: il culto dei santi e delle reliquie, i pellegrinaggi e le crociate1.

La Norvegia e il movimento crociato

Con il suo appello al concilio di Clermont-Ferrand (1095), papa Urbano II (1088-

1099) mobilitò le folle cristiane per la liberazione di Gerusalemme dal dominio

musulmano: è l'inizio del movimento crociato, che si strutturerà e si istituzionalizzerà

nel corso dei decenni successivi2. La storiografia recente ha gradualmente riconsiderato

il posto occupato dagli scandinavi all'interno di questo movimento e negli ultimi anni,

con l'allargamento degli studi oltre l'area mediorientale fino al Baltico e all'Europa

dell'est, è stata definitivamente accantonata l'immagine delle crociate come un

fenomeno mediterraneo di cui i popoli nordici sarebbero stati quasi esclusivamente

spettatori passivi3.

1 Tutte le traduzioni sono mie salvo dove diversamente specificato. Nelle citazioni dal norreno il grafema ð/Ð indica la spirale dentale sonora come nell’inglese that; il grafema þ/Þ rappresenta la spirale dentale sorda come nell’inglese three. Abbreviazioni utilizzate: DN: Diplomatarium Norvegicum, eds. C.C.A. Lange et al., voll. I-, Christiania (Oslo) 1849-; DS: Diplomatarium Suecanum, ed. J.G. Liljegren, I, Stockholm 1829. 2 Sulle crociate, che sotto molteplici aspetti erano assimilabili a dei pellegrinaggi armati, oltre al classico di S. Runciman, Storia delle crociate, 2 voll., Torino, Einaudi, 2002 (ed. or. Cambridge, Cambridge University Press, 1951-1954), segnalo il recente volume di C. Tyerman, Le guerre di Dio: nuova storia delle crociate, Torino, Einaudi, 2012 (ed. or. London, Penguin, 2007). 3 Sul tema, oltre alla pionieristica opera di P. Riant, Expéditions et pélerinages des Scandinaves en Terre Sainte au temps des croisades, Paris 1865, si veda G.B. Doxey, Norwegian crusaders and the Balearic Islands, «Scandinavian Studies», 68 (1996), pp. 139-160; J. Møller Jensen, Denmark and the Holy War: a

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GLI SCANDINAVI ALLE CROCIATE

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La presenza di crucesignati scandinavi è attestata sin dal tempo della prima crociata

(1096): secondo l'inglese Guglielmo di Malmesbury, che scrisse attorno al 1125,

spronati dall'appello di Urbano II «tunc Danus continuationem potuum, tunc Noricus

cruditatem reliquit piscium»4, mettendosi in cammino per Gerusalemme; la notizia è

confermata dagli Annales regii islandesi (metà XIV secolo), secondo i quali in

quell’anno «hófz Jorsalaferð af Norðrlöndum»5. Per tutto il XII secolo la partecipazione

dei Norvegesi al movimento crociato è ben documentata: nel 1110 una flotta al

comando di re Sigurðr Magnússon, dopo aver attraversato il Mediterraneo passando da

Gibilterra, approdò a Giaffa, visitò Gerusalemme e i luoghi santi e infine aiutò re

Baldovino I a conquistare Sidone, prima di ripartire alla volta di Costantinopoli, dove

Sigurðr fu ospite dell’imperatore Alessio I Comneno6. Nel 1153 Rögnvaldr Kali

Kolsson, conte delle Orcadi, e il norvegese Eindriði il Giovane partirono seguendo un

itinerario in parte identico a quello di re Sigurðr: essi navigarono nell'Atlantico e poi nel

Mediterraneo fino a San Giovanni d'Acri, quindi visitarono Gerusalemme e il Giordano,

poi raggiunsero Costantinopoli e passarono in Bulgaria, da dove si imbarcarono per la

Puglia; finalmente, dopo aver visitato Roma, ripresero la via di casa7. Sappiamo inoltre

che la terza crociata (1189-1192), proclamata da papa Gregorio VIII con la bolla Audita

tremendi (29 ottobre 1187), fu predicata anche in Scandinavia: l'anonima Historia de

profectione Danorum in Hierosolymam, composta attorno al 1200 da un canonico

premonstratense norvegese del monastero di Túnsberg, racconta di una lettera papale

altrimenti sconosciuta, la Quoniam divina patientia, inviata da Gregorio VIII

all'indomani della caduta di Gerusalemme8. In Norvegia l'appello fu accolto da un

redefinition of a traditional pattern of conflict 1147-1169, in J. Adams - K. Holman (eds.), Scandinavia and Europe 800-1350. Contact, conflict and coexistence, Turnhout, Brepols 2004, pp. 219-236. 4 «Allora i Danesi abbandonarono il loro continuo bere, i Norvegesi il loro pesce crudo»: William of Malmesbury, Gesta Regum Anglorum, ed. and tr. by R. A. B. Mynors, vol. I, Oxford, Clarendon Press, 1998, IV:348, pp. 606-607. 5 «Ebbe inizio il viaggio gerosolimitano dalle terre del nord»: Islandske Annaler, p. 110. 6 Sull'impresa di Sigurðr «viaggiatore di Gerusalemme» si veda Riant, Expéditions et pélerinages, pp. 173-215; Doxey, Norwegian crusaders; Ármann Jakobsson, Image is everything: the Morkinskinna account of King Sigurðr of Norway's journey to the Holy Land, «Parergon», 30 (2013), pp. 121-140. 7 Su questa spedizione si veda Riant, Expéditions et pélerinages cit., pp. 244-264; Cucina, Il pellegrinaggio nelle saghe, pp. 109-112; A. Nedkvitne, Why did medieval norsemen go on crusade?, in Medieval history writing and crusading ideology, ed. T.M.S. Lehtonen et al., Tampere, Finnish Literature Society, 2005, pp. 37-50: 39-47. 8 Historia de profectione Danorum in Hierosolymam, in Scriptores minores historiae Danie medii aevi, ed. M.C. Gertz, København, G.E.C. Gad, 1917-1920, II, pp. 457-492: 463-464. Benché condivida le tematiche della Audita tremendi e di altre bolle papali, il testo di questa lettera non corrisponde letteralmente a quello della bolla di Gregorio VIII e lo stesso autore della Profectio afferma di aver

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gruppo di uomini comandati da un certo Ulf di Lauvnes, che salparono probabilmente

nel 1190-1191 e, fra mille peripezie e avversità, arrivarono in Terrasanta solo dopo la

firma della tregua tra il Saladino e Riccardo I d'Inghilterra (21 settembre 1192): non

avendo più possibilità di ingaggiare battaglia con i saraceni, essi visitarono i luoghi

santi prima di intraprendere la via del ritorno, alcuni passando per Roma, altri per

Costantinopoli e l'Ungheria9.

Nel Duecento le notizie sui crociati norvegesi si fanno molto più frammentarie ed

episodiche: alcuni annali islandesi registrano, nell'anno 1211, la partenza di Pétr stéypir

(«fonditore») e Reiðarr sendimaðr («messaggero») per Gerusalemme10, ma su di loro

sappiamo soltanto che il primo perse la vita durante il tragitto, mentre il secondo

raggiunse Gerusalemme e in seguito si mise al servizio dell'imperatore di

Costantinopoli, città in cui infine morì nel 121411. Da una lettera di papa Onorio III,

datata 6 marzo 1217, sappiamo poi che in Norvegia re Ingi Bárðarson (1204-1217)

aveva preso la croce ed era stato posto sotto la protezione della Sede apostolica12: la

morte improvvisa, tuttavia, gli impedì di adempiere il suo voto; nell'estate di quello

stesso anno, comunque, alcuni contingenti si unirono ai frisoni e ai danesi in partenza

per la quinta crociata (1217-1221)13. Nei decenni successivi la partecipazione dei

semplicemente riassunto l'appello del pontefice (verba hanc summam continentia): K. Skovgaard-Petersen, A journey to the Promised Land. Crusading theology in the Historia de profectione Danorum in Hierosolymam (c. 1200), Copenhagen, Museum Tusculanum Press, 2001, pp. 27-37. 9 Historia de profectione Danorum, cap. 18-27, pp. 482-492. Peraltro nell'agosto del 1189, nell'ambito delle operazioni militari successive alla conquista di Gerusalemme da parte del Saladino (2 ottobre 1187), dei crociati norvegesi si erano uniti all'esercito di Guido di Lusignano, re di Gerusalemme, e avevano posto l'assedio ad Acri, anch'essa caduta in mano ai musulmani. La loro presenza è suggerita dal Chronicon di Burcardo di Ursberg (c. 1230), che segnala l'arrivo ad Acri di guerrieri Daci e Normanni: il riferimento è chiaramente ai Danesi e ai Norvegesi e non ai Normanni di Sicilia, poiché subito dopo Burcardo li associa alle altre gentes insularum, que inter occidentem et septentrionem site sunt, e che si spostavano su navi chiamate bisnachie, latinizzazione del norreno snekkja: Die Chronik des Propstes Burchard von Ursberg, hrsg. O. Holder-Egger, B. von Simson, MGH SS rer. Germ. XVI, Hannover - Leipzig, Hahnsche buchhandlung, 1916, p. 61. 10 Islandske annaler indtil 1578, udg. G. Storm, Christiania (Oslo), Grøndahl & Son, 1888, pp. 123, 182. 11 La fonte sono le Böglunga sögur o saghe dei Baglar (1210/1217 circa), incentrate su una delle fazioni che al volgere tra XII e XIII si scontrarono per il controllo della Norvegia. Il nome Baglar deriva da bagall, "bastone", cioè il pastorale del vescovo, un riferimento alla loro alleanza con la Chiesa: Bǫglunga sǫgur, in Fornmanna sögur IX, ed. F. Magnússon, Kaupmannahöfn 1835, p. 193. La notizia della morte di Reiðarr è negli annali islandesi: Islandske annaler, pp. 124, 183. 12 DN I, n° 4, p. 4. 13 Riant, Expéditions et pélerinages, pp. 319-320; P.B. Svenungsen, Norway and the fifth crusade. The crusade movement on the outskirts of Europe, in The fifth crusade in context. The crusading movement in the early thirteenth century, ed. E.J. Mylod et al., London, Routledge, 2017, pp. 218-230. Dalla Saga di Hákon Hákonarson sappiamo che le navi norvegesi si divisero e che alcune giunsero ad Acri, mentre altre approdarono a Damietta insieme al grosso dell'esercito crociato: Sturla Þórðarson, Hákonar saga Hákonarsonar, cap. 30, p. 33.

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norvegesi rimase sostanzialmente confinata alla sfera delle intenzioni, anzi tra il 1220 e

il 1240, nel contesto del conflitto tra il duca Skúli Bárðarson (†1240), un pretendente al

trono, e re Hákon Hákonarson (1217-1263), la promessa della crociata sembra essere

stata usata dai due contendenti per accattivarsi le simpatie e il sostegno dei papi14. Nel

1248 Hákon fu esortato nuovamente, questa volta da Luigi IX di Francia (1226-1270),

che tramite l'inglese Matthew Paris (in quel momento in Norvegia per riformare il

monastero benedettino di Nidarholm) fece pervenire al monarca norvegese l'invito a

recarsi cum ipso in Terram Sanctam, e si dichiarò disposto ad affidargli, quia in mari

potens est et peritus, totius navigii sui dominium, regimen et potestas15. Hákon, pur

ringraziando per un simile onore, disse di dover a malincuore rifiutare la proposta a

causa dell'incompatibilità esistente tra i due eserciti: il carattere dei francesi mal si

accordava con quello dei norvegesi, gens impetuosa et indiscreta, insofferente verso le

ingiustizie di qualsiasi tipo e soprattutto verso le discussioni; c'era perciò il rischio che

insorgessero contrasti tra i due gruppi con grave pregiudizio per l'intera spedizione.

Meglio era che ciascuno procedesse per conto proprio, et quod Domino disposuerit,

faciat; a ogni modo Hákon, volendo comunque rassicurare l'altro della sua buona fede,

chiese delle litterae patentes che garantissero ai suoi uomini libero passaggio e

approvvigionamento sul suolo francese, cosa che Luigi concesse prontamente16.

Nonostante queste parole, Hákon probabilmente non ebbe mai intenzione di partire per

l'Oriente e cercò piuttosto di servirsi della crociata per trattenere per sé la decima Terrae

sanctae, di cui poteva disporre grazie a un privilegio di Innocenzo IV del 124717.

14 Il duca si dichiarò pronto a partire una prima volta attorno al 1220, facendo sì che Onorio III prendesse la sua persona e tutti i suoi beni sotto la protezione della Santa Sede (DN I, n° 6, p. 6), e una seconda volta nel 1226, ottenendo di poter trattenere parte delle rendite ecclesiastiche per allestire un esercito (ibidem, n° 10, pp. 8-9). Dal canto suo, re Hákon prese la croce nel 1237, come riportano gli annali islandesi: «Hákon konungr krossaðr» («Re Hákon prese la croce»): Islandske annaler, pp. 25, 65, 188, 327. Nel 1241 anche lui fu posto sotto la protezione apostolica, ricevendo il permesso di commutare il suo voto in una spedizione contro le popolazioni pagane limitrofe, probabilmente i Finni o Sami: DN I, n° 24, pp. 19-20. Il privilegio di Gregorio IX fu poi rinnovato da Innocenzo IV nel 1246 e nel 1252: ibidem, n° 33, 47, pp. 27, 35-36. 15 «Poiché è capace ed esperto sul mare, il dominio, il comando e il potere di tutta la sua flotta»: Matthew Paris, Chronica Majora, ed. H.R. Luard, London, Longman, 1872-1880, IV, p. 651. 16 Ibidem, pp. 651-652. 17 Il re ottenne il permesso di trattenere per tre anni un ventesimo delle rendite ecclesiastiche della provincia Nidrosiensis, con l'eccezione della diocesi di Hamar: DN I, n° 40, pp. 31. Ulteriori tentativi di coinvolgere il re norvegese si rivelarono sempre fallimentari: nel 1255 Alessandro IV, che stava pianificando una crociata contro Manfredi di Sicilia, conferì all’arcivescovo di Canterbury la potestà di sciogliere Hákon dal voto di crociata in cambio del suo aiuto militare in una eventuale spedizione congiunta con il re d'Inghilterra: DN XIX, n° 264, pp. 169-170. Infine, il 21 ottobre 1263, l'arcivescovo Einarr di Nidaros fu incaricato da Urbano IV (1261-1264) di svolgere in Norvegia una predicationem

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Nel 1147 papa Eugenio III aprì un nuovo fronte bellico per la cristianità: con la

bolla Divina dispensatione, infatti, autorizzò i cristiani dell'Europa del Nord a

combattere i loro vicini pagani nel Baltico (Vendi, Prussiani, Estoni e Livoni) invece di

dirigersi a Gerusalemme18. In questo scenario la Norvegia ebbe un ruolo assai defilato e

gli appelli papali ai sovrani norvegesi caddero sostanzialmente nel vuoto: nel 1171/1172

Alessandro III scrisse ai sovrani dei tre regni scandinavi esortandoli a prendere le armi

contro gli Estoni, tuttavia dalla Norvegia non giunse risposta19; nel 1243 Innocenzo IV

incaricò il priore provinciale dei Domenicani in Scandinavia di predicare in quei paesi

una crociata contro i pagani in Livonia e Prussia20, ma ancora una volta non abbiamo

notizie di contingenti norvegesi partiti nell'immediato, al punto che nel 1252 Innocenzo

si spinse oltre offrendo invano a re Hákon la sovranità sulla penisola di Samland,

qualora fosse riuscito a convertirne gli abitanti21. Le cause di questo apparente

disinteresse vanno ricercate nella situazione politica del Baltico orientale, una regione

contesa da una serie di potenze spesso concorrenti tra loro: la Danimarca di Valdemaro I

(1157-1182) e Valdemaro II (1202-1241), il regno di Svezia, i principi tedeschi e

l'ordine teutonico, con quest'ultimo in posizione di vantaggio dal punto di vista militare

ed economico; la Norvegia, dal canto suo, fu a lungo segnata dall'instabilità,

conseguenza delle guerre civili del XII e dell'inizio del XIII secolo. Ragioni

geopolitiche, inoltre, avevano sempre fatto sì che la direttrice espansionistica del regno

crucis pro Terre [sancte] subsidio, apparentemente senza successo: DN I, n° 56, p. 45-46. Gli appelli di Luigi IX e di Innocenzo IV ottennero comunque l'adesione di alcuni crucesignati norvegesi, come si deduce da una lettera del papa datata 29 novembre 1250: in essa Innocenzo informa il priore dei Domenicani e il ministro provinciale dei Francescani in Germania che tutti i crociati de partibus Frisie ac Norwagie devono congiungersi al prossimo passagium, organizzato da Bianca di Castiglia, madre di Luigi IX e reggente di Francia durante l'assenza del figlio: Les registres d'Innocent IV, ed. É. Berger, 4 voll., Paris 1884-1921, II, n° 4927, p. 161. 18 Sulle crociate del Nord rimando a E. Christiansen, Le crociate del Nord: il Baltico e la frontiera cattolica (1100-1525), Bologna, Il Mulino, 20082 (ed. or. London, Macmillan, 1980); I. Fonnesberg-Schmidt, The popes and the Baltic crusades, 1147-1254, Leiden, Brill, 2007; B. Bombi, 'Novella plantatio fidei'. Missione e crociata nel Nord Europa tra la fine del XII e i primi decenni del XIII secolo, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 2007. 19 DN XVII, n° 854, pp. 778-779. L'iniziativa papale fu probabilmente sollecitata dall'arcivescovo Eskil di Lund, direttamente coinvolto nell'evangelizzazione dei popoli baltici: I. Fonnesberg-Schmidt, Pope Alexander III (1159-1181) and the Baltic crusades, in Medieval history writing, pp. 242-256. 20 DS I, pp. 297-299; si veda anche Les registres d'Innocent IV, I, n° 162, p. 30. 21 DN I, n° 46, p. 35. Hákon non manifestò alcun interesse per l'impresa e la concessione papale fu vanificata dall'intervento di re Ottocaro II di Boemia nel 1254 e dalla definitiva sottomissione dei Prussiani (i Sambiti menzionati da Innocenzo IV) nel 1259 per mano dei Cavalieri Teutonici: Christiansen, Le crociate del Nord, p. 130.

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puntasse piuttosto a occidente e all'Atlantico settentrionale, dove la sua influenza si

estendeva su Orcadi, Shetland, Ebridi e Man22.

Le motivazioni che spingevano i crociati a partire potevano essere molteplici e non

sempre è possibile separare in maniera netta quelle di ordine spirituale da quelle

materiali23. Nel caso degli Scandinavi, diversi studiosi hanno messo in risalto come,

nelle saghe, la componente devozionale sia generalmente relegata in secondo piano

rispetto a quella mondana: è vero che, in tutti i resoconti, i viaggiatori visitano i luoghi

santi della Palestina, ma i temi dominanti sono le considerevoli ricchezze acquisite, la

fama guadagnata combattendo i saraceni e gli onori tributati ai signori norvegesi, ospiti

presso le corti dei più grandi sovrani della cristianità24. In fondo, con le loro storie di

battaglie e saccheggi in terre lontane, queste imprese - perlomeno sul piano letterario -

differiscono poco dalle spedizioni vichinghe dei secoli precedenti25. Nel XII secolo

l'attrattiva maggiore sembra essere stata esercitata dalla città di Costantinopoli e dalla

possibilità, per i guerrieri scandinavi, di fare carriera come mercenari (variaghi) nella

guardia imperiale, un corpo prestigioso in cui in passato avevano militato celebri

vichinghi come Haraldr lo Spietato, divenuto poi re di Norvegia26. Effettivamente la

capitale bizantina era una tappa onnipresente negli itinerari degli scandinavi in

Outremer: a soggiornarvi, tra gli altri, furono re Sigurðr Magnússon, il conte Rögnvaldr

e i protagonisti della Historia de profectione Danorum, anche se per questi ultimi, in

accordo con il tenore generale dell'opera, il significato prettamente secolare della visita

a Costantinopoli è sostituito dal racconto di un miracolo a cui assistettero i crociati

22 Proprio Hákon Hákonarson, così riluttante a impegnarsi in Terra santa e sul fronte orientale, fu invece molto attivo nel difendere gli interessi nazionali su quello occidentale: la Groenlandia e l'Islanda riconobbero la sua sovranità rispettivamente nel 1261 e nel 1262-1264, e nel dicembre del 1263 il re trovò la morte nel mezzo di una campagna militare contro il re di Scozia Alessandro III (1249-1286), che si era impadronito con la forza delle isole Ebridi. Sulla politica estera norvegese di questo periodo si veda Bagge, From Viking stronghold, pp. 85-92. 23 Sulle varie, possibili motivazioni dei crociati si veda ad esempio J. Flori, Le crociate, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 75-76 (ed. or. Paris, Gisserot, 2001). 24 Nedkvitne, Why did medieval Norsemen, pp. 39-45; J. Hill, Pilgrimage and prestige, pp. 433-453; Ármann Jakobsson, Image is everything, pp. 121-140. 25 Cucina, Il pellegrinaggio nelle saghe, p. 110; Del Zotto, Pellegrini e luoghi santi, p. 32. 26 Secondo la Saga dei figli di Magnús "Piedinudi", dedicata a Sigurðr e ai suoi due fratelli Eysteinn e Óláfr, all'origine della crociata di Sigurðr vi furono i racconti di alcuni pellegrini/crociati che erano stati prima a Gerusalemme e poi Costantinopoli, da dove erano tornati colmi di ricchezze e con una reputazione notevolmente accresciuta. Ciò generò un’ondata di entusiasmo in molti norvegesi, i quali, desiderosi di recarsi in oriente a cercare fortuna, chiesero che uno dei re si mettesse a capo della spedizione: Magnússona saga, cap. 11, in Snorri Sturluson, Heimskringla III, p. 238.

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giunti in città27. Questo legame speciale con l'Impero romano d'Oriente spiega

probabilmente perché dal Nord non giunsero rinforzi agli eserciti latini che nel 1204

assediarono e conquistarono Costantinopoli; al contrario, la guardia variaga, composta

da inglesi e danesi, si schierò in prima linea tra i difensori della capitale28. Proprio la

caduta di Costantinopoli in mani latine, che di fatto azzerò le opportunità di

arruolamento per i variaghi, fu verosimilmente una delle cause della sensibile

diminuzione del numero di crucesignati norvegesi nel corso del Duecento.

Le saghe dei re avevano un «carattere ibrido a metà tra storia e letteratura»29 ed

erano destinate a intrattenere un pubblico laico. È facile allora comprendere perché esse

prediligano gli aspetti più mondani dei viaggi e dei pellegrinaggi in Terrasanta; questo,

tuttavia, non esclude l'esistenza di motivazioni spirituali nei crociati del Nord. Ad

esempio la religiosità di re Sigurðr Jórsalafari è messa in luce dai cronisti latini a lui

contemporanei, secondo i quali egli espugnò Sidone ad Christianitatis gratiam30, e pro

amore Dei condusse il suo negotium Christi in Terra santa31, mosso dal desiderium

adorandi in Jerusalem32. L'Ágrip af Nöregskonungasögum (c. 1200) e la Morkinskinna,

una storia anonima dei re di Norvegia scritta attorno al 1220, sostengono poi che, in

vista del suo viaggio, Sigurðr avesse adottato anche delle misure penitenziali, come

facevano molti pellegrini e crociati in procinto di partire: egli infatti abolì leggi

oppressive e tasse onerose che gravavano sul suo popolo «at kaupa sér guðs miskunn ok

vinsæld við alþýðu»33. Inoltre una certa "teologia della crociata" era conosciuta anche

nella Norvegia della fine del XII secolo, dato che un'altra opera di matrice clericale, la

Historia de Profectione Danorum, include elementi tipici della letteratura crociata

27 Skovgaard-Petersen, A journey to the Promised Land, p. 13. 28 La presenza di inglesi e danesi tra i difensori di Costantinopoli è riportata dai cronisti Goffredo di Villehardouin e Roberto di Clari: si veda S. Blöndal, The Varangians of Byzantium, Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1978, pp. 63-67. 29 Del Zotto, Pellegrini e luoghi santi, p. 34. 30 William of Malmesbury, Gesta Regum Anglorum, vol. I, V:410, p. 740; 31 Fulcherio di Chartres, Historia Hierosolymitana, ed. H. Hagenmeyer, Heidelberg, Carl Winters Universitatsbuchhandlung, 1913, II:44, p. 546. 32 Albert of Aachen, Historia Ierosolimitana, ed. and trans. by S. B. Edgington, Oxford, Clarendon Press 2007, XI:26, p. 800. 33 «Per acquistare la misericordia di Dio e il favore del popolo»: Ágrip, cap. 52, p. 70. Secondo la Morkinskinna il re desiderava partire «per acquistare la misericordia di Dio e una buona fama», perciò abolì le leggi inique dei suoi predecessori: Morkinskinna, ed. Ármann Jakobsson, Þórdur Ingi Gudjónsson, Íslenzk fornrit 23-24, II, Reykjavík, Hið Íslenzka Fornritafélag, 2011, cap. 64, p. 71. Decisione analoga fu presa da un altro re crociato, Luigi IX di Francia, allorché, nel 1247, inviò nel suo regno degli inquirenti regi per indagare sulle ingiustizie commesse dagli agenti del re, porvi riparo e rendere giustizia a chi le aveva subite: Le Goff, San Luigi, p. 136.

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contemporanea34, mentre secondo Bjørn Bandlien alcuni discorsi pronunciati da Sverrir

Sigurðarson nella Sverris saga, in cui il re esorta i suoi uomini a essere moderati nel

bere, a non sedurre le donne e a non lasciarsi andare alla violenza immotivata,

lascerebbero supporre da parte dell'autore della saga una conoscenza del De laude

novae militie di Bernardo di Clairvaux (1128/1136) o perlomeno un'influenza della

nuova spiritualità degli ordini monastico-cavallereschi35: difatti per Sverrir «hermenn

skyldu vera hógværir í friði sem lamb, en í ófriði ágjarnir sem león»36, e uno dei suoi

sigilli, ora perduto, riportava proprio la legenda «ferus ut leo, mitis ut agnus»37, un

possibile richiamo alle parole di Bernardo, secondo il quale i milites Christi, ovvero i

Cavalieri Templari, erano agnis mitiores et leonibus ferociores38.

Nel complesso, dunque, le fonti lasciano trasparire motivazioni non troppo dissimili

da quelle degli altri crucesignati europei, ma al tempo stesso ci dicono che, nel XIII

secolo, il contributo norvegese si ridimensionò significativamente e che da parte delle

alte gerarchie laiche si fece un uso strumentale del voto di crociata, finalizzato a

instaurare buone relazioni con la Santa Sede e a trattenere per sé gli introiti derivanti

dalle decime.

Conclusioni

In base a quanto finora esposto, per il periodo preso in esame emerge con chiara

evidenza il contrasto tra la crescita dei pellegrinaggi e del culto dei santi e il declino del

movimento crociato. In merito ai primi, il quadro delineato dalle fonti è quello di una

vita religiosa inizialmente gravitante attorno alle chiese cattedrali e ai loro patroni

34 Skovgaard-Petersen, A journey to the Promised Land, pp. 19-77. 35 B. Bandlien, A new Norse knighthood? The impact of the Templars in late twelfth-century Norway, in Medieval history writing, pp. 175-184. I Templari comunque non fondarono alcuna casa in Scandinavia, dove l'ordine cavalleresco più diffuso fu quello degli Ospitalieri di San Giovanni, mentre i Cavalieri Teutonici ebbero una sola casa in Svezia (c. 1260); in Norvegia l'unica fondazione fu quella degli Ospitalieri a Varne (c. 1190): C. Carlsson, The religious orders of knighthood in medieval Scandinavia: historical and archaeological approaches, «Crusades», 5 (2006), pp. 131-142. 36 «I guerrieri in tempo di pace dovevano essere miti come agnelli, ma in guerra feroci come leoni»: Sverris saga, ed. Þorleifur Hauksson, Íslenzk fornrit XXX, Reykjavík, Hið Íslenzka Fornritafélag, 2007, cap. 104, p. 160. La saga fu scritta tra il 1185 e il 1210 circa. 37 La legenda del sigillo è riportata dall'inglese Guglielmo di Newburgh (c. 1198): Historia rerum Anglicarum, III, 6, in Chronicles of the reigns of Stephen, Henry II, and Richard I. Vol. I: The first four books of the Historia rerum Anglicarum of William of Newburgh, ed. R. Howlett, London, Longman, 1884, p. 232. 38 Bernardo di Clairvaux, Liber ad milites Templi. De laude novae militiae, IV, 8, a cura di C.D. Fonseca, in Opere di san Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, I: Trattati, Milano, Scriptorium Claravallense - Fondazione di studi cistercensi, 1984, pp. 425-483: 452-453.

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celesti; altri luoghi di culto minori, situati sia nelle città episcopali sia in località

periferiche, emergono solamente nella seconda metà del XIII secolo, in alcuni casi

favoriti dalla presenza di conventi francescani di fondazione relativamente recente. Su

tutti i santi - tanto locali quanto stranieri - troneggia indubbiamente la figura di

sant'Óláfr, il rex perpetuus, emblema della concordia tra regnum e sacerdotium e

simbolo di unità nazionale. Quello di Óláfr Haraldsson non è certamente l'unico caso di

santo patrono dinastico e nazionale nel medioevo: altri esempi sono quelli di Oswald

(†642) ed Edmondo (†869) per l'Inghilterra anglosassone, Stefano I (†1038) per

l'Ungheria, Canuto IV il Santo (†1086) e il duca Canuto Lavard (†1131) per la

Danimarca ed Erik IX (†1160) per la Svezia39. Diversamente dai re santi ora citati, il

patronato di Óláfr non è solamente spirituale ma si configura giuridicamente come una

regalità eterna, proclamata da uno dei suoi successori al trono, Magnús Erlingsson, nel

privilegio del 1163/1170. La preminenza di sant'Óláfr, unita alla concorrenza dei

numerosi santi stranieri introdotti in epoca missionaria e al fatto che a ciascuna

cattedrale (tranne quella di Hamar) fosse associato sin dalle origini un patrono speciale,

contribuisce a spiegare perché in Norvegia, nel medioevo, così pochi santi locali

(solamente tre) furono oggetto di una venerazione tanto diffusa. Infine il culto delle

reliquie, benché attestato già dall'XI secolo, inizia soprattutto nel secolo successivo -

complici gli ormai stabili contatti tra il regno scandinavo e il resto dell'Europa cristiana

- a espandersi e arricchirsi, anche sul piano liturgico con l'arrivo di reliquie appartenenti

a santi della Chiesa universale. In particolare le reliquie legate alla passione di Cristo

furono spesso doni di sovrani stranieri ai re e agli arcivescovi di Nidaros: ovvero, oltre

all'intrinseco valore devozionale, esse ebbero un ruolo determinante nella creazione o

nel consolidamento di relazioni diplomatiche tra la Norvegia e le altre monarchie

cristiane.

Al fiorire di queste due forme di devozione fa da contraltare il tramonto del

movimento crociato, un declino che è però meno significativo se inquadrato nel

contesto europeo più generale: difatti la partecipazione del popolo a queste spedizioni -

o perlomeno a quelle in Terrasanta - in varie regioni d'Europa mostra segni di crisi già

dall'inizio del XIII secolo. Non desta quindi sorpresa un simile calo di entusiasmo in

39 G. Klaniczay, Sainthood, patronage and region, in S. Kuzmová - A. Marinković - T. Vedriš (eds.), «Cuius patrocinio tota gaudet regio». Saints' cults and the dynamics of regional cohesion, Zagreb, Hagiotheca, 2014, pp. 441-453: 443-445.

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Norvegia, una regione che peraltro non si confrontava direttamente con i musulmani40.

Nel caso specifico bisogna poi tener conto di una concomitanza di fattori esterni e

interni: da una parte, la caduta di Costantinopoli (1204) divenne certamente uno

spartiacque, poiché i crucesignati nordici, quand'anche mossi da motivazioni spirituali,

videro sfumare la possibilità di fare fortuna a Bisanzio. Dall'altra, occorre notare che nel

Duecento l'organizzazione dell'iter Hierosolymitanum dipendeva pressoché interamente

dall'iniziativa regia e, venendo a mancare quest'ultima per le ragioni sopra citate

(incertezza politica causata dalle guerre civili, concorrenza di altre potenze nel Baltico,

espansione verso il nord Atlantico), l'intero movimento risultò inevitabilmente

indebolito. Con Hákon Hákonarson, infine, la ragione di stato prese il sopravvento sullo

zelo religioso e la necessità di consolidare la monarchia, tanto sul fronte interno quanto

nei suoi possedimenti insulari, divenne inconciliabile con avventure - per quanto

meritorie e potenzialmente molto redditizie - in terre lontane, provocando di fatto

l'abbandono del negotium Terrae sanctae.

Pur con le loro specificità e differenze, queste forme di devozione, così strettamente

influenzate dalle relazioni con il papato e gli altri regni cristiani, ebbero un impatto

profondo sulla società norvegese. Se attorno al 1063 papa Alessandro II aveva definito

Haraldr lo Spietato «rozzo nella fede», quasi due secoli dopo Innocenzo IV espresse a re

Hákon Hákonarson tutta la sua stima reputandolo addirittura «inter alios orbis reges et

principes specialem»41. Alla metà del Duecento, dunque, la Norvegia si era ormai

pienamente integrata nella Christianitas occidentale.

40 Benché dalla seconda metà del Duecento cessi l'organizzazione di crociate in grande stile, fatta eccezione per quella di Luigi IX di Francia del 1270, la storiografia più recente tende comunque a ridimensionare la portata di questo declino generale, preferendo parlare di attività continua in riferimento alle numerose e spesso piccole spedizioni che, tra XIII e XV secolo, partirono dirette non solo in Terrasanta, mentre il declino vero e proprio si sarebbe avuto dal XV secolo: J.E. Siberry, Il movimento delle crociate da 1198 al 1270, in P. Toubert - A. Paravicini Bagliani (cur.), Federico II e il mondo mediterraneo, Palermo, Sellerio, 1994, pp. 214-229; J. Riley-Smith, Storia delle crociate, Milano, Mondadori, 20092, pp. 318-319, 360-361 (ed. or. New Haven - London, Yale University Press, 1987). 41 «Speciale tra gli altri re e principi della mondo»: lettera di Innocenzo IV ad Hákon Hákonarson del 19 novembre 1247: DN I, n. 40, p. 31 Sui rapporti personali tra Innocenzo IV e Hákon si veda D'Angelo, «In extremo orbe terrarum», pp. 134-135, 137.

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Edoardo Persichilli

FEDERICO I BARBAROSSA E LE CROCIATE

Per circa due secoli le più potenti ed influenti personalità del mondo occidentale si unirono sotto il segno

della croce e tentarono di dimenticare i contrasti interni, focalizzando le violenze tipiche di quei tempi in

una guerra vista come giusta, voluta da Dio, e mettendosi in marcia verso la Terra Santa.

Come furono molte le spedizioni crociate, molti furono anche i protagonisti, tra cui ricordiamo Federico I di

Svevia, imperatore del sacro romano impero dal 1152 al 1190, il quale partecipò alla seconda e alla terza

crociata, durante la quale perse però la vita prima di raggiungere la Terra Santa.

La figura dello svevo è ricordata principalmente per lo scontro con i comuni italiani e il papato, e per

l’abilità con cui ricostituì l’unità imperiale; ad ogni modo non è da sottovalutare il suo ruolo nelle crociate,

dopotutto la sua ascesa al potere inizia con una crociata, la seconda, e il suo impero termina alla sua morte

in un'altra spedizione crociata, la terza.

Durante la predicazione di San Bernardo e negli anni di preparazione della seconda spedizione lo svevo non

era che un ventenne, che nel 1145 non aveva ancora ereditato il titolo e il ducato di Svevia dal padre.

Decise tuttavia di partecipare alla spedizione con lo zio imperatore, Corrado III.

Quest’ultimo non aveva molte scelte, il re di Francia era già crociato e l’unica argomentazione efficace per

rifiutare la croce e rimanere in patria era venuta meno.

L’imperatore infatti sosteneva di non poter partire e lasciare il regno senza protezione dalla potenza guelfa,

ma ,quando questi ultimi accettarono di partire per la crociata, l’imperatore non poté tirarsi indietro.

Se non fosse stato per le infuocate predicazioni di Bernardo di Chiara Valle, probabilmente, molti signori

avrebbero fatto a meno della croce: lo stesso vescovo di Roma, avrebbe preferito avere l’imperatore al suo

fianco contro le minacce normanne piuttosto che in viaggio verso oriente.

Il cistercense durante la dieta tenutasi a Spira nel 1144 si rivolse direttamente all’imperatore e la leggenda

vuole che dopo un energico sermone Bernardo sia caduto a terra stremato e l’imperatore lo abbia preso

sotto la sua cappa e condotto fuori dal duomo; l’aura di santità che lo circondava era al culmine, nessuno si

sarebbe tirato indietro davanti alle sue prediche, lo stesso pontefice dovette accettare la partenza di

Corrado III.

Federico I non visse la crociata da protagonista ma imparò molto dalla spedizione del 1145, constatò la

scarsa organizzazione, le divergenze tra gli eserciti alleati e la presenza di pesi morti tra le truppe formate

anche da braccianti e nullatenenti che non erano in grado di pagare il loro sostentamento rallentando e

complicando l’avanzata dell’esercito.

La spedizione germanica si pose frettolosamente in viaggio senza attendere i rinforzi dei Franchi. Nel

passaggio per i territori di Bisanzio, i crociati si abbandonarono a razzie e violenze di ogni tipo. Tanto

scempio convinse l'imperatore Alessio Comneno ad optare per una possibile alleanza con i Turchi.

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Corrado III prosegui la spedizione, benché fosse stato abbandonato dalle guide locali. Senza il supporto

necessario, l'armata germanica caduta in un'imboscata turca nei pressi di Dorileo, in Anatolia, fu

annientata.

Durante la spedizione, comunque, Federico I si distinse per il suo coraggio difendendo i nobili tedeschi

rimasti nelle retrovie e vittime di pericolose incursioni.

La crociata inoltre permise al futuro imperatore di entrare in contatto con i potenti signori tedeschi e

preparare così la strada per la sua elezione.

Tornato dalla sfortunata spedizione Corrado III muore lasciando così il trono vacante.

La situazione era delicata, 20 anni prima l’arcivescovo di Magonza era riuscito ad imporre al trono il più

debole dei principi tedeschi, Lotario di Sumplisburgo, il quale non riuscì a svincolarsi dal potere papale e

anzi ne risultò sottomesso.

I tempi stavano però cambiando e mai come prima si presentava l’occasione di ribaltare la situazione.

L’ingerenza papale nelle questioni imperiali era ormai mal tollerata e troppo invasiva.

La tensione era alta e i principi decisero di agire rapidamente e tener fuori dalla decisione i personaggi

legati al pontefice, per eleggere un sovrano forte in grado di risolvere l’intrigata situazione e dare

nuovamente prestigio all’impero.

Magonza venne accortamente evitata e i nobili confluirono a Colonia

Federico I era stato molto attento nella scelta dei suoi alleati e con onerose promesse si era garantito

l’appoggio dei più potenti feudatari tedeschi.

Al cugino Enrico il Leone, duca di Sassonia, venne promessa l’investitura a duca di Baviera, che apparteneva

però ai Babenberg, aumentando notevolmente il suo potere e creando una forma di diarchia sulla quale

torneremo più avanti. A Enrico di Babenberg, duca di Baviera, venne promesso, in cambio della suddetta, la

corona della nuova marca d’Austria, creando così uno stato nello stato. Le promesse fatte e le alleanze

stipulate diedero i loro frutti.

Una volta acclamato re a Colonia e incoronato nel 1152 a Francoforte, Federico I iniziò subito la sua opera

di restaurazione del potere regio, dimostrando già nei primi anni di regno che non avrebbe tollerato

l’ingerenza della chiesa, e fece capire che il sogno di Gregorio VII di una chiesa universale e superiore al

potere imperiale, stava tramontando.

I legati papali annunciarono infatti mestamente al Pontefice l’elezione del nuovo sovrano, consapevole che

dal giorno della sua elezione, i rapporti di forza sarebbero drasticamente cambiati.

Per anni il papato aveva approfittato della debolezza dell’impero, aveva trasformato il re di Germania in

una sorta di vassallo della chiesa. Privando l’imperatore di un appoggio effettivo e favorendo le dispute tra

nobili bramosi di potere, la chiesa si era elevata al di sopra dell’impero realizzando così il sogno di vederlo

sottomesso.

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Il nuovo imperatore cambiò la situazione. Come ricordano i cronisti “tutto avvenne con inquietante

celerità”. L’acclamazione a re di Germania e l’incoronazione avvennero in meno di tre settimane. La forza e

l’ascendente che il nuovo re aveva sulle nobili casate tedesche era in parte dovuta alle sue origini. Egli era

infatti figlio di un Hohenstaufen, suo padre Federico di Svevia, e di una Welf, Giuditta di Baviera. Si credeva,

quindi, che sarebbe riuscito a pacificare le due casate, tra le più potenti ed influenti di Germania, e a ridare

forza all’impero.

Per aumentare il suo prestigio e ridare forza al regno, il re di Germania fece appello alla derivazione diretta

da Dio del suo potere, imponendo al Santo padre di riconoscerlo come protettore della cristianità.

Lo svevo reintrodurrà così quella parità di diritto tra imperatore e Papa, che si era persa con il pontificato di

GregorioVII.

Fece inoltre capire che avrebbe accettato l’incoronazione, da parte del Papa, solo per rispettare un’antica

tradizione del suo popolo e non come segno di sottomissione, poiché il suo impero gli era stato concesso da

Dio soltanto. I primi motivi di contrasto si presentarono quando il re elesse Wichman a vescovo di

Magdeburgo, celebrando egli stesso la cerimonia, violando così le norme canoniche. Nel 1153 dei legati

papali vennero inviati a corte per chiarire la controversia. Federico usò la commissione papale per far

allontanare personaggi scomodi come il vescovo di Magonza, e far insediare dei suoi partigiani; si rifiutò

tuttavia di avviare un inchiesta sulla controversa elezione, sostenendo che non c’era nulla da chiarire

poiché essa era avvenuta regolarmente secondo le norme del concordato di Worms (1122).

In realtà con quell’accordo, l’imperatore rinunciava all’elezione dei vescovi.

La vicenda dimostra come fossero cambiati gli equilibri.

Federico I, svincolando il regno dall’ingombrante potere ecclesiastico, ottenne l’appoggio e il rispetto dei

principi.

Dopo questi primi successi però il sovrano doveva affrontare la difficile discesa in Italia, per legittimare

definitivamente il suo regno. Il lungo viaggio verso la capitale in realtà era più che un simbolico gesto di

rispetto delle tradizioni, come voleva far credere il sovrano. L’obbiettivo reale era quello di consolidare il

potere regio nel nord Italia e limitare la minaccia normanna nel sud. Inoltre in quegli anni il senato romano

e la popolazione erano infervorati dalle predicazioni di Arnaldo da Brescia, nemico del papa che sarà

condannato come eretico. Era un viaggio impegnativo e pieno di pericoli che avrebbe richiesto un grande

esercito pronto a venire alle armi, ed era impossibile partire senza l’appoggio dei potenti principi che nel

1153 ancora aspettavano l’attuazione delle promesse fatte loro dal sovrano.

Un alleato fondamentale e già molto potente era il cugino guelfo di Federico I, Enrico il Leone.

Al cugino, il superbo duca di Sassonia, il re aveva promesso l’investitura a conte di Baviera.

La Baviera era stata consegnata decenni prima a Enrico di Babenberg, altro potente signore che non

avrebbe di certo rinunciato al suo ducato senza ottenere qualche cosa in cambio.

Il re decise allora di concedere al Babenberg il nuovo ducato d’Austria, rendendolo ereditabile e dotandolo

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di molti privilegi e grande indipendenza. Così facendo poté affidare la Baviera ad Enrico il Leone che ampliò

notevolmente i suoi domini e il suo potere. In questo modo Federico I concentrò nelle mani di un solo duca

un potere che potrebbe sembrare eccessivo, la Sassonia e la Baviera costituivano infatti quasi la metà del

territorio tedesco. Anche le concessioni fatte al ducato d’Austria creavano una sorta di stato nello stato.

Tuttavia fu proprio questa visione del potere regio a mostrarsi il punto di forza di Federico I.

Egli infatti anziché ostacolare le mire dei signori tedeschi decise di assecondarle, ottenendo la loro fedeltà.

Il re divenne un primus inter pares e riuscì così a imporre la pace nell’impero dopo anni di scontri;

svuotando l’impero di molto potere si vedeva tuttavia riconosciuta la sua posizione.

La Germania era di nuovo unita, questa volta sotto il nome di “Sacro Romano Impero della nazione

tedesca”.

Presi accordi con il papa Adriano IV, il re poté riunire il suo esercito e iniziare il viaggio verso Roma.

Nel 1154 Federico I giunse a Piacenza. La sua fu una lunga permanenza nel nord Italia e tutti i signori della

penisola si resero subito conto che il giovane sovrano non sarebbe partito frettolosamente alla volta di

Roma, disinteressandosi delle questioni che riguardavano un territorio solo nominalmente sotto il suo

dominio. Era chiaro che Federico I voleva rendere effettivo il suo potere e iniziò subito le prime trattative

con Venezia e i primi scontri con Milano. Dopo una lunga permanenza nel nord, il re si diresse verso Roma.

A Sutri venne raggiunto da una delegazione del “Senato del popolo romano” con una strana proposta:

Il popolo romano, in cambio di un generoso tributo e della promessa di proteggere Roma, avrebbe

incoronato Federico I imperatore che avrebbe quindi ricevuto la corona dal popolo e non dal Papa

Nonostante gli scontri con la chiesa Federico I riconosceva l’autorità papale e rifiutò l’offerta congedando

freddamente la delegazione. A Roma, però, il papa si trovava quasi prigioniero del popolo e quando si

svolse la cerimonia di incoronazione le masse insorsero e i tedeschi dovettero ricorrere alle armi.

Già in questa situazione si poté notare l’importanza del guelfo Enrico, che da solo era a capo della metà dei

cavalieri impegnati nella spedizione. Nonostante questo episodio Federico I sarà incoronato imperatore il

18 giugno 1155 appena tre anni dopo la sua acclamazione a re di Germania.

L’imperatore, come abbiamo visto, non vedeva il viaggio in Italia solo in relazione all’incoronazione, egli

aveva altri progetti e il matrimonio con Beatrice di Borgogna rafforzò il suo desiderio di sottomettere la

penisola, avendo acquisito un ricco territorio ad essa confinante.

I primi successi in Italia sono testimoniati dalla prima dieta di Roncaglia nella quale l’imperatore,

avvalendosi dell’esperienza dei giuristi bolognesi, impose gravose condizioni ai comuni italiani, ristabilendo

un effettivo controllo delle regalie e delle arimannie (imposte doganali in uso tra i Longobardi).

Nonostante le imposizioni autoritarie, inizialmente, Federico I venne accolto come liberatore dai comuni

che non sopportavano più lo strapotere di Milano e proprio sconfiggendo duramente la potenza milanese,

dimostrando la sua abilità e la sua risolutezza, il giovane imperatore venne soprannominato dagli italiani, il

Barbarossa.

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Nel 1158 con i nuovi ordinamenti stabiliti per la seconda volta a Roncaglia, la questione italiana sembrava

risolta, ma con lo scisma papale del 1160 la situazione iniziò a complicarsi.

L’imperatore oppose al nuovo papa, Alessandro III, il suo candidato Vittore IV.

Oltre ad essere scomunicato da Alessandro III, l’imperatore causò uno scisma che durò per anni, arrivando

ad una conclusione solo nel 1177 con gli accordi di Venezia. Alessandro III decise di sfidare in campo aperto

Federico Barbarossa, schierandosi con i comuni italiani e assecondando i loro desideri di indipendenza .

Milano si risollevò dalla dura sconfitta grazie al suo nuovo alleato, e formò una lega con i comuni alleati che

alla lunga riuscirà con l’aiuto del papa a ristabilire gran parte dell’indipendenza del nord Italia con la pace di

Costanza del 1183. Tale successo dei comuni arriverà solo dopo anni di scontri armati e trattative

diplomatiche.

L’imperatore, in più di un occasione, era riuscito abilmente a trasformare le sconfitte subite, in vittorie.

Grazie ad accordi segreti presi con il pontefice e grazie alle alleanze con i comuni avversi a milano, aveva

seminato discordia tra gli alleati.

Quindi ai comuni servirono più di 20 anni per ottenere un accordo a loro favorevole e ciò avvenne solo

quando Federico I era ormai avviato verso la vecchiaia. Va considerato, inoltre, che in quegli anni gli

interessi dell’imperatore si erano spostati dall’Italia.

La coesione dell’impero stava vacillando e la questione italiana aveva perso la sua centralità.

Già nel 1168 in territorio tedesco era stata costituita un’alleanza di nobili contro lo strapotere del guelfo

Enrico il Leone. Per capire quanto potente ed influente questo personaggio potesse essere basta pensare

che quando fu inviato dall’imperatore nella marca nord orientale per sottomettere varie tribù slave, la sua

aura di terrore e la sua violenza fecero si che gli slavi iniziarono a venerarlo come un Dio.

Per la nobiltà tedesca era un uomo troppo ingombrante che andava eliminato.

La congiura si risolse però in un nulla di fatto, poiché l’imperatore si schierò dalla parte del cugino,

difendendolo e ottenendo in cambio dal Guelfo le preziose miniere d’argento del Goslar.

Non era la prima volta che l’imperatore si schierava dalla parte di Enrico, questo perché era ben

consapevole di quanto potente ed importante fosse il suo appoggio alla causa imperiale.

Nonostante questo, dieci anni dopo, nel 1176, alla vigilia della battaglia di Legnano, il Leone si rifiutò

categoricamente di soccorrere l’imperatore, suscitando grande sdegno in quest’ultimo.

La situazione precipitò quando, dopo gli accordi di Venezia, nel 1178 Enrico marciò contro il nuovo vescovo

di Halbertstadt, radendo al suolo la città. Negli accordi, infatti, venivano affidati a nuovi vescovi le diocesi

di Brema e Halbertstadt, creando due baluardi papali nel cuore della Sassonia. L’attacco del Leone non

rispettò nessun accordo, e vani furono i tentativi di farlo ragionare. Con i nobili decisi a toglierlo di mezzo

una volta per tutte Federico fu costretto a ricorrere al processo civile.

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L’imperatore si schierò comunque dalla parte di Enrico il Leone assicurandogli la revoca del banno e

garantendogli una soluzione ragionevole.

Tuttavia il Leone non si presentò mai ai processi, sostenendo di non essere obbligato a subire un tale

affronto asserendo la totale incompetenza dei giurati, e vani furono i tentativi di Federico I di rimandare la

decisione poiché il guelfo non si sarebbe mai piegato. L’ostinazione e la superbia di Enrico erano un

affronto troppo grande e così nel 1180 a Wurzburg fu destituito della dignità ducale e i suoi feudi vennero

divisi e affidati ad altri signori tedeschi.

Ovviamente fu subito guerra. Enrico dopo le prime sconfitte si rivolse al cognato re di Inghilterra Enrico II,

del quale aveva sposato la figlia, che inizialmente accettò di aiutare il Guelfo, salvo poi tirarsi in dietro.

Stessa risposta arrivò dal re di Francia che, se inizialmente aveva accettato di partecipare alla rivolta, aveva

poi cambiato idea, ritenendo poco onorevole fomentare la rivolta di un duca contro il suo signore.

Enrico era comunque convinto di riuscire ad avere la meglio sul cugino anche senza aiuti dall’estero.

Federico I, forte del sostegno di molti nobili, preparò l’esercito ma non cercò lo scontro frontale.

Aggirata Brunswick, dove risiedeva gran parte delle forze del ribelle, dalle rovine di Halberstadt Federico

intimò agli alleati di Enrico di abbandonare l’inutile lotta e unirsi al suo esercito, pena il banno.

Nonostante la situazione stesse favorendo Enrico, che aveva il saldo controllo dei suoi vassalli, alcuni tra i

più potenti, stanchi del suo fare despotico, lo abbandonarono per unirsi alle schiere di Federico I.

Le forze schierate ora erano troppo a favore dell’imperatore ed Enrico fu costretto alla fuga.

La parte meridionale della Sassonia era stata conquistata senza spargimenti di sangue.

Il ribelle a quel punto di ritirò sull’Elba e iniziò a fortificare la zona. Secondo il guelfo l’esercito

dell’imperatore non sarebbe mai arrivato in tempo per superare le sue difese che avrebbero sbarrato la

strada alla lenta avanzata imperiale.

Puntò tutto sulle piazzeforti prima dell’Elba, così facendo avrebbe bloccato la strada al cugino che non

avrebbe potuto superare il fiume. Sperava quindi di bloccargli la strada. Tuttavia Federico I attuò un’abile

strategia offensiva. Il guelfo aveva calcolato male i tempi, generalmente le avanzate del Barbarossa erano

lente e attentamente ponderate. Questa volta l’imperatore avanzò a marce forzate e raggiunse con rapidità

le prime roccaforti del nemico Puntando tutto sulla rapidità dell’assalto, l’imperatore divise l’esercito: creò

un avanguardia che marciò spedita verso Artelburg, aggirando le difese nemiche e lasciando un altro

contingente a coprirgli le spalle.

L’esercito ne usciva diviso ma potè puntare sull’effetto sorpresa.

Enrico infatti non si aspettava un attacco così rapido, anzi secondo i suoi calcoli Federico I non sarebbe mai

arrivato ad Artelburg.

Colto alla sprovvista in un ultimo moto di disperata ostinazione decise di dare alla fiamme la città e fuggire

oltre l’Elba. Iniziarono così le trattative con Danimarca e Ungheria per tagliare le vie di fuga al ribelle.

Asserragliato a Lubecca, il guelfo, ostinò un’accanita resistenza grazie al sostegno e alla fedeltà

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dimostratagli dalla città. Dovette tuttavia arrendersi all’arrivo dei rinforzi imperiali. Per il valore dimostrato

Lubecca ottenne il titolo di città libera. Nonostante l’atto di ribellione, Enrico ottenne il permesso di

presentarsi al cospetto dell’imperatore per chiedere la grazia.

Enrico cadde quindi ai piedi del sovrano che decise nonostante tutto di concedergli il perdono, limitando la

condanna a tre anni di esilio.

Il vegliardo imperatore aveva avuto la meglio sulla più potente delle famiglie tedesche e, almeno per il

momento, aveva riportato la pace nell’impero.

Un impero che aveva ampliato i suoi confini, ottenendo nuovi ducati ad est, pacificato i rapporti con la

chiesa e affermato la sua forza su tutto il mondo occidentale.

Nel frattempo, però, le notizie che venivano dagli stati latini d’oriente erano sconcertanti.

L’iniziale alleanza di questi ultimi con l’Egitto era venuta meno e per respingere i cristiani, l’emiro d’Egitto

Shawar, si era rivolto al potente Norandino, che dopo la seconda crociata aveva conquistato Damasco e

unificato la Siria. Tale alleanza permise al Norandino di ampliare i suoi potere e, dopo aver fatto uccidere

Shawar per tradimento , potè annettere l’Egitto al suo regno. Alla sua morte l’impero passerà prima nelle

mani del debole figlio undicenne, per poi essere preso dal nipote del più fidato generale del Norandino, che

verrà chiamato dagli occidentali Saladino.

Uniti i domini di Norandino sotto il suo controllo, il Saladino nel 1184 conquistò Gerusalemme.

Questi avvenimenti scossero tutto l’occidente e Federico I non si sarebbe tirato indietro di fronte alla

necessità di una crociata. Il 27 marzo 1188 a Magonza fu condotta una “dieta di Gesù Cristo”. In quella

occasione l’imperatore, nonostante l’età avanzata, prese la croce suscitando l’ammirazione di tutto

l’occidente. Il Barbarossa era pronto per la sua ultima battaglia. La partenza fu fissata per il 27 marzo 1189,

esattamente un anno dopo la dieta. L’imperatore curò personalmente tutti i preparativi. Per prima cosa

dovevano essere stipulati accordi con gli stati da attraversare per raggiungere Gerusalemme. Bisognava a

evitare scontri inutili, come era avvenuto per la seconda crociata, e velocizzare quanto più possibile la lunga

traversata.

Vennero quindi presi accordi con il re di Ungheria e quello di Serbia che acconsentirono a far passare i

crociati e a fornire loro approvvigionamenti. Le stesse richieste di supporto vennero fatte ad Isacco Angelo,

imperatore di Costantinopoli, e al sultano di Iconio. Tutti sembrarono disposti a facilitare l’avanzata

dell’esercito crociato. Avendo partecipato alla precedente crociata, del 1148, l’imperatore conosceva in

parte i limiti e le difficoltà che si sarebbero presentate. Decise quindi di impedire la partenza a chi non fosse

stato in grado di sostentarsi durante la spedizione. Secondo i calcoli dell’imperatore la lunga marcia,

sarebbe durata due anni, al termine dei quali i crociati avrebbero preso Gerusalemme.

Il piano era di raggiungere via terra il Santo Sepolcro e colpire alle spalle le truppe del Saladino, spinte a

nord dagli eserciti inglese e francese, giunti via mare, bloccandolo in una morsa. Le cose purtroppo

andarono diversamente. Attraversati senza problemi i territori europei, i problemi iniziarono una volta

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giunti nel regno dei bizantini. Isacco venne meno alla parola data e iniziò a vessare i crociati con rapide

incursioni notturne che rallentarono non poco la marcia dell’esercito. Per di più i legati imperiali inviati a

corte, per intavolare una trattativa, vennero presi in ostaggio. Contemporaneamente Isacco preparava un

vero e proprio esercito. Federico I però era deciso ad avanzare ad ogni costo e non si sarebbe fatto

fermare. Per prima cosa assediò, senza troppi indugi, Filippopoli. Stanziato nella città il Barbarossa attese le

truppe bizantine. Quando l’esercito arrivò, i tedeschi uscirono dalla città e caricarono prima ancora che gli

orientali potessero schierarsi in formazioni. Messi in fuga i nemici, l’imperatore si appellò al pontefice che,

dando grande risonanza alle malefatte bizantine, scosse l’opinione pubblica europea.

Federico premeva perché Costantinopoli fosse assediata e sottomessa, il figlio secondo genito, il futuro

Enrico VI, si preparava a partire alla testa di un esercito.

Fino all’ultimo Isacco temporeggiò e non volle cedere, ma la paura di un esercito imperiale sotto le mura

della sua città ebbe la meglio e dopo mesi di scontri decise di favorire l’avanzata crociata attraverso lo

stretto di Gallipoli.

La marcia ne risultava comunque notevolmente rallentata. Dopo la sosta forzata a Filippopoli un'altra

difficoltà attendeva l’esercito guidato dall’Imperatore. Arrivati nei territori selgiuchidi occidentali, i crociati

si resero conto che la popolazione era stata evacuata e le città svuotate delle provviste promesse.

I legati del sultano insistevano, però, che continuando la marcia sarebbe arrivata una carovana con le scorte

richieste; ai crociati non restava che fidarsi delle guide. Tuttavia durante la notte, come previsto, i crociati

vennero abbandonati a loro stessi in territorio nemico e privi di scorte. Già a quel punto la situazione

sembrava disperata. I soldati rischiavano di morire di fame e il clima avverso rendeva la marcia ancora più

ardua. La sete, il freddo e la fame stavano avendo la meglio. I cavalli morivano a centinaia e i selgiuchidi

iniziavano ad attaccare con rapide incursioni l’esercito del vecchio imperatore. L’unica speranza di Federico

I era raggiungere Philomenium. Spronò l’esercito a continuare la disperata marcia; raggiunta la città,

avrebbe potuto rifornirsi e sperare in una rapida trattativa con il sultano. Tuttavia uno straordinario

schieramento di 30 000 selgiuchidi bloccava il passo di Mirocefalo, era impossibile raggiungere

Philomenium senza combattere. Federico decise allora di prendere la strada più lunga attraverso le

montagne, avrebbero così aggirato l’esercito nemico e raggiunto la città senza perdere truppe.

L’esercito imperiale, dopo una lunga marcia attraverso gli impervi monti, raggiunse Philomenium e riuscì

ad ingaggiare i nemici in uno scontro regolare. La cavalleria pesante tedesca, nonostante la stanchezza e la

fame, sbaragliò l’esercito selgiuchida e si aprì la strada verso la città. Raggiunta la città, lo svevo constatò

che anche questa era stata evacuata e l’esercito non avrebbe trovato scorte per il sostentamento.

Tuttavia Federico I spronò l’esercito a riprendere in fretta quella che sembrava una marcia senza speranza.

I cavalieri erano stremati, i cavalli continuavano a morire, sembrava la fine. I crociati riuscirono però a

raggiungere la ricca Iconio, residenza del sultano. La città andava conquistata. La speranza si fece largo tra i

crociati che con la forza della loro cavalleria riuscirono a schiacciare un contingente selgiuchida nei pressi

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della città. Per conquistare la città, il Barbarossa, decise di dividere l’esercito in due contingenti, il primo

capitanato da lui stesso, e il secondo dal suo primo figlio Federico IV. Il 18 maggio 1190 l’esercito guidato da

Federico I si fece strada tra le truppe stanziate fuori le mura e, mentre il figlio gli copriva le spalle,

l’imperatore conquistò la città riportando una gloriosa vittoria che entrerà nella storia. Dopo aver preso la

città e aver catturato come ostaggi i suoi più importanti notabili, la partenza fu fissata ad otto giorni.

Quanto al sultano, l’imperatore decise di non farsi giustizia, e accettò di ricevere rifornimenti durante tutto

il viaggio e di portare con se gli importanti ostaggi. Dopo un mese di marcia, i crociati galvanizzati, giunsero

lungo il fiume Saleph. Federico I decise di guadare il fiume con il grosso dell’esercito per velocizzare il

cammino;

tuttavia durante il guado il vegliardo imperatore perse la vita probabilmente a causa di una paralisi cardiaca

dovuta all’immersione nelle acque gelide. La sua morte causò sostanzialmente la fine della terza crociata

per i tedeschi, era infatti il solo a tener saldamen te unito l’esercito, che con la sua morte perse numerosi

cavalieri che tornarono in patria. La notizia della sua morte sconcertò anche gli eserciti alleati e gli attriti

tra Filippo Augusto e Riccardo cuor di leone aumentarono fino al punto da provocare l’abbandono del re di

francia. Rimanevano quindi pochi contingenti tedeschi, guidati da Federico IV, che si unirono all’esercito

Inglese, niente in confronto allo schieramento previsto in partenza.

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Origini della casata Hohenstaufen

I Buren furono nel 1000 una casata nobile tedesca per lo più sconosciuta che con Federico Buren

iniziò la sua ascesa. Essi risiedevano in Svevia e sul monte Hohenstaufen Federico fece costruire un

imponente castello che divenne la residenza della casata. Da quel momento i Buren vennero

chiamati Hohenstaufen. Suo figlio omonimo terminò la costruzione del castello e garantì una forte

coesione territoriale alla Svevia e all’Alsazia. Grazie alla fedeltà che dimostrò a Enrico IV quando

questi dovette combattere per il trono, Federico I Hohenstaufen ottenne la nomina a duca di

Svevia, e ricevette in moglie la figlia dell’imperatore salico, Agnese. Le due casate, unite ora da un

vincolo di parentela, restarono unite anche dopo la morte di Federico I e Enrico IV. I figli di

Federico I, Federico II e Corrado, vennero riconosciuti come vassalli dell’imperatore e giurarono

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fedeltà ad Enrico V. I più agguerriti rivali degli Hohenstaufen, i Guelfi, alla fine accettarono il

potere di Federico II e decisero di offrirgli in moglie la figli di Enrico il Nero; dopotutto Federico era

il più probabile candidato al trono. Alla morte di Enrico V tutto sembrava pronto per aprire la

strada verso l’elezione a re. Tuttavia, consapevole che l’elezione del potente svevo avrebbe posto

fine al gioco forza tra corona e chiesa, Adalberto di Magonza, capo del partito papale nell’impero,

si oppose con ogni mezzo alla famiglia Hohenstaufen. L’attenzione si spostò su Lotario di

Suplinburgo, duca di Sassonia, acerrimo nemico di Enrico IV e devoto al pontefice.

All’accordo con il vecchio duca si unì Enrico il nero che in cambio ricevette il ducato di Sassonia.

Così si tenne l’assemblea elettiva e, rompendo il principio dinastico, venne eletto re il vecchio

Lotario nel 1133. Inizialmente Federico si piegò al nuovo sovrano, ma quando questi avanzò

pretese sui territori Svevi, considerati proprietà dell’imperatore, i fratelli Hohenstaufen vennero

alle armi. Vennero appoggiati dalla maggior parte dei nobili e Corrado, fratello di Federico, venne

eletto anti-re con il nome di Corrado III. Tuttavia il Guelfo, che aveva unito le casate di Sassonia e

Baviera sposando la figlia di Lotario, era troppo potente e l’unica strada era quella della

mediazione. Durante un incontro segreto in un convento però Enrico il nero tentò di uccidere

Federico II rompendo ogni legame di parentela. Prende così inizio lo scontro tra Guelfi e Ghibellini.

Dopo 10 anni di scontri, Federico è costretto alla resa. Verrà però perdonato e gli sarà concesso il

ducato di Svevia nel quale si rifugerà per il resto dei suoi giorni. Corrado invece venne accolto nella

corte imperiale. Lotario condurrà l’impero sulla strada della sottomissione alla chiesa. Dopo

quattro anni dalla sua elezione Lotario verrà a morire e inizierà un nuovo scontro per la corona.

Questa volta i contendenti erano Corrado ed Enrico il superbo, figlio di Enrico il nero. Gli scontri

continuarono fino alla morte di Enrico il superbo, quando le cose sembravano risolversi per il

meglio in sassonia venne acclamato re suo figlio Enrico il Leone che alla fine verrà privato dei

domini Bavari dal nuovo imperatore Corrado III. E’ in questo ambiente di scontri che nacque il

futuro imperatore Federico I Hohenstaufen, che baserà gran parte del suo potere sull’alleanza con

la famiglia Guelfa, storicamente nemica degli Hohenstaufen.

TESTI DI RIFERIMENTO

Georg Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, Einaudi

Rudolph Wahl, Barbarossa, Mondadori

Franco Cardini, Il Barbarossa, Mondadori

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Davide Antonio Sancilio

Il Saladino Saladino, forma italianizzata del laqab o soprannome onorifico arabo Ṣalāḥ ad-dīn ("restauratore della religione"), sotto la quale (con lievi varianti finali, lat. Saladinus, fr. Saladin) l'Occidente cristiano conobbe il generale curdo, poi il sultano ayyubide d'Egitto Yūsuf ibn Ayyūb (Tikrit o Balbeek 1138-Damasco 1193), noto tra i Musulmani anche col soprannome di al-Malik an-Nāṣir e fondatore della dinastia degli Ayyubidi in Egitto e in Siria.

Fu il più celebre mujahid musulmano contro i crociati e il vincitore della battaglia di Hattin, che permise la riconquista musulmana di Gerusalemme nel 1187.

Di origine armena, Saladino nacque in una famiglia di alti funzionari militari: suo padre, Ayyub, emiro di stirpe curda, e suo zio Shirkuh furono al servizio dei Selgiuchidi prima, quindi della signoria degli zenjidi, regnante sulla Siria e sulla Mesopotamia, e una carriera analoga fu seguita dal fratello di Saladino, Turanshah al-Malik al-Mu‛azzam.

Saladino ricevette un rigoroso insegnamento religioso in una scuola di sufi, una sorta di ordine "monastico" dalle spiccate caratteristiche mistiche e ascetiche.

[Sufi Proprio attorno alla metà del XII secolo andava sempre più diffondendosi nelle terre dell'Islam «la figura del sufi (letteralmente "portatore di lana", cioè che indossa un saio di povertà estrema), una sorta di "cavaliere errante" dello spirito, maestro di meditazione e cercatore di Verità.]

Primo di sei fratelli, fu poi indirizzato alla carriera amministrativa e militare.

In gioventù fu messo a servizio del sultano Norandino (o Nur ad-Din), il quale lo compensò facendone il suo amministratore di fiducia. Nel 1156 egli assunse la carica di rappresentante del governatore militare di Damasco, si trasferì quindi al seguito del sultano ad Aleppo e poi rientrò ancora a Damasco.

Fisicamente non era particolarmente prestante. Corporatura longilinea, statura nella media, pelle olivastra e occhi scuri, la barba tagliata corta, come in uso tra i curdi. Era appassionato di caccia al falcone e del gioco degli scacchi.

Nel 1164 Saladino fu inviato al seguito dello zio Shirkuh in Egitto, dove Shawar, visir del califfo fatimide, aveva chiesto l’aiuto di Norandino contro un rivale e, proprio su suggerimento di Shirkuh, suo generale e ministro, il sultano aveva deciso di accettare la richiesta del visir.

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In Egitto, nella difesa di Bilbays e di Alessandria Saladino si scontrò per le prime volte contro i Franchi capeggiati dal re Amalrico I di Gerusalemme, che dapprima sostenevano le parti del visir rivale di Shawar, e poi alleatisi con lo stesso Shawar minacciavano apertamente il califfato fatimide d'Egitto.

Saladino partecipò alle tre spedizioni che seguirono, dopo l’ultima delle quali (1169), Shirkuh prese il posto di Shawar come vizir del califfo fatimide, associando il nipote alle funzioni connesse alla carica. Shirkuh morì nello stesso anno e Saladino, che aveva respinto l’attacco franco-bizantino a Damietta, gli successe, prendendo il titolo di al-Malik al-Nasir, «il signore vittorioso» e iniziando, con l’ascesa al potere, la costruzione della propria personale leggenda di mujahid, fino a diventare il campione dell’ortodossia sunnita.

Dopo aver sventato una cospirazione fatimide ai suoi danni e aver sedato la rivolta di alcuni emiri egiziani che avevano raccolto un esercito di 50.000 soldati, Saladino dovette fare subito fronte alle richieste di Norandino, formalmente ancora il suo signore, perché ponesse fine in suo nome al califfato fatimide, iniziativa che egli prese nel 1171, senza incontrare resistenza. Conseguenza di tale atto fu il ritorno dell’Egitto al sunnismo come rito ufficiale e al riconoscimento formale del califfato abbaside, da cui Norandino nominalmente riceveva la propria autorità, riconoscimento che era cessato due secoli prima; entrambi giustificano il titolo di «restauratore del regno del comandante dei credenti» che Saladino avrebbe utilizzato nell’epigrafia ufficiale.

Con la morte subito seguita dell'ultimo fatimide al-‛Aḍid, Saladino si trovava padrone assoluto d'Egitto, solo formalmente vassallo del califfo di Baghdad, e stabiliva la dinastia che dal nome di suo padre Ayyub fu detta dagli Ayyubidi, e che nel ramo egiziano doveva colà durare sino al 1250.

I rapporti con Norandino divennero tuttavia più tesi, minacciando di sfociare in una spedizione zenjide contro l’Egitto. Saladino inviò suo fratello Turanshah alla conquista dello Yemen, per garantirsi una via di fuga nel caso di un’invasione zenjide, ma nel 1174 Norandino morì, probabilmente avvelenato. Il suo successore, l’inesperto Isma‛il, divenne subito preda delle opposte fazioni zenjidi, siriane e irachene, resesi indipendenti dopo la morte di Norandino; l’opportunità d’intervenire fu offerta a Saladino dall’appello rivoltogli da Ibn al-Muqaddam, ministro di Isma‛il, dopo che questi fu sequestrato dal signore di Aleppo. Saladino accorse dall’Egitto con un corpo di spedizione, conquistando Damasco e proponendosi come difensore di Isma‛il e della causa dell’islam contro i franchi.

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Saladino dovette domare anzitutto l’opposizione sorta in seno al gruppo di potere zenjide, a Mosul e ad Aleppo, contro il quale condusse numerose campagne militari senza riportare vittorie definitive. Mentre la diversione causata da tale conflitto impediva a Saladino di combattere efficacemente contro i franchi, gli zenjidi di Aleppo aizzarono contro di lui gli Assassini nizariti, con i quali, dopo vari scontri, Saladino giunse a un accordo.

Oramai (1175) la signoria di Saladino comprendeva l'Egitto, parte della Palestina, la Siria Centrale, lo Yemen, conquistato l'anno prima dal fratello di lui Turanshah, e il Maghrib sino a Tripoli; territorî tutti di cui il califfo abbaside gli conferiva l'investitura sultanale.

Saladino appariva sempre più come l’ago della bilancia nel complesso mosaico politico dell’area siro-mesopotamica, dove, agendo in nome del califfo abbaside, egli fu chiamato in aiuto dal signore artuqide di Keyfa contro i Selgiuchidi, e a turno dai vari signori zenjidi in lotta fra di loro. Dal 1176, Saladino tornò in Egitto, dopo aver stretto accordi di pace tali da permettergli di dedicarsi alla riorganizzazione amministrativa del Paese e al jihad contro il regno di Gerusalemme, attuato con alterna fortuna.

Nel 1177 infatti si rivolse verso il Regno di Gerusalemme. Venuto a conoscenza dei piani di Saladino, Baldovino IV lasciò Gerusalemme con 500 cavalieri per tentare la difesa di Ascalona, ma venne bloccato sul posto da Saladino, forte di 30.000 uomini. I Cavalieri Templari cercarono di prestare soccorso a Baldovino ma vennero posti sotto assedio a Gaza. Saladino giustiziò i suoi prigionieri cristiani e continuò la sua marcia verso Gerusalemme, conquistò Ramla e prese d'assedio Lidda e Arsuf, ma poiché non considerava più Baldovino come una minaccia, permise al suo esercito di sparpagliarsi in una vasta area, per razziare e riposare. Nel frattempo, sia Baldovino sia i Templari riuscirono a liberarsi dai rispettivi assedi, e marciarono lungo la costa, nella speranza di intercettare Saladino prima che raggiungesse Gerusalemme. Il 25 settembre 1177 si scontrarono con Saladino a Montgisard, nei pressi di Ramla, cogliendolo del tutto di sorpresa.

I musulmani furono messi in rotta. Molti vennero uccisi e Saladino stesso riuscì a fuggire solo perché cavalcava un cammello da corsa. Saladino tornò in Egitto, subendo continui attacchi dalle tribù di beduini lungo il tragitto. Soltanto un decimo del suo esercito riuscì a tornare in Egitto con lui. Anni dopo, avrebbe definito quella sconfitta “grande come una catastrofe”. Baldovino tallonò Saladino fino nella penisola del Sinai, ma non riuscì a trarne vantaggio e in seguito Saladino tentò un nuovo attacco nel 1179.

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Nel 1182, alla morte dell’emiro zenjide di Mosul, Saladino abbandonò definitivamente Il Cairo, dirigendosi verso la Jazirah, dove attaccò diverse fortezze, raccogliendo, a misura dei suoi successi, l’omaggio dei signori zenjidi, artuqidi e begteginidi. Nel 1183, la vittoria su Renaud de Châtillon, autore di una serie di incursioni sulle coste del Mar Rosso che allarmarono grandemente i musulmani, rafforzò ulteriormente il prestigio di Saladino nel mondo musulmano. L’anno successivo, Aleppo si arrese, mentre un accordo fu stretto con il signore di Mosul nel 1186, con la promessa di aiuti per il jihad in Terrasanta. Fu allora che Saladino poté volgersi interamente alla guerra ai crociati; dopo alcuni tentativi di conquistare Krak des Chevaliers, importante nodo delle comunicazioni fra Egitto e Siria,

« ... Il conte di Tripoli aveva riunito i suoi uomini nella città di Arqa,[14] attendendo l'opportunità di combattere il nemico senza incorrere in serio pericolo. I frati del Tempio,[14] anch'essi presenti nella stessa regione, si barricarono entro i loro castelli[14] attendendo l'assedio, senza arrischiare attacchi sconsiderati; i frati dell'Ospedale[14] indotti da analoghi timori, si raccolsero nel loro castello, denominato Krak, giudicando sufficiente in caso di crisi riuscire a proteggere il suddetto castello dai danni provocati dal nemico. Le truppe nemiche erano a mezza via tra i frati sopra menzionati e le forze del conte di Tripoli in modo da impedire che potessero prestarsi aiuto o inviare messaggeri per tenersi informati sulle rispettive situazioni. Muovendosi liberamente sul territorio e soprattutto attraverso i luoghi coltivati senza che nessuno gli si opponesse, Saladino incendiò il raccolto, parte già pronto per la trebbiatura, parte già riunito in covoni nei campi e parte ancora giacente, predò il bestiame e spopolò l'intera regione... »

(Guglielmo di Tiro, Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, originale in latino, XXII.2.)

Saladino adunò le forze musulmane, provenienti da tutti i centri della Siria-Mesopotamia, per affrontare i regni crociati, con l’eccezione di Antiochia, con cui Saladino aveva stretto un accordo. Lo scontro finale ebbe luogo a Hattin, il 4 luglio 1187.

Di quell'epico scontro, che si risolse in un vero massacro ai danni dei crociati, è rimasta un'interessante descrizione fatta dal figlio del Saladino.

«Ero a fianco di mio padre alla battaglia di Hattin, la prima alla quale avessi assistito. Quando il re dei franchi si ritirò sulla collina, lanciò la sua gente all'attacco con tale violenza da far indietreggiare le nostre truppe fino al luogo dove era mio padre. Io lo guardai. Era teso, scuro in volto, e si afferrava nervosamente la barba. Fece un passo in avanti e gridò: "Satana non deve vincere!". I musulmani tornarono al contrattacco. Quando vidi i franchi indietreggiare sotto la pressione delle nostre truppe, gridai di gioia: "Li abbiamo vinti!". Ma mio padre si voltò verso di me e disse: "Taci! Non li avremo vinti finché non cadrà quella tenda lassù!". Prima che avesse terminato la frase, la tenda del re [Guido di Lusignano] crollò. Mio padre smontò da cavallo e si prosternò a ringraziare Dio, piangendo di gioia». Guido fu catturato, Rinaldo sgozzato personalmente dal Saladino, i Templari passati a fil di spada.

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Uno storico arabo contemporaneo così racconta la fine dei soldati dell'ordine del tempio: «Al mattino del lunedì diciassette rabì secondo, due giorni dopo la vittoria, il sultano fece cercare dei prigionieri Templari e Ospitalieri, e disse: "Purificherò la terra di queste due razze impure"... Egli ordinò fossero decapitati, preferendo ucciderli al farli schiavi... Quante infermità curò col rendere infermo un Templare... quante miscredenze uccise per dar vita all'Islam, e politeismi distrusse per edificare il monoteismo». Tutti gli altri fanti catturati furono venduti come schiavi sulla piazza di Damasco (per loro fu stabilito un prezzo irrisorio, che scombussolò quel fiorente mercato). Guido e il suo seguito furono imprigionati in attesa che per la loro liberazione venisse pagato un riscatto.

Sullo slancio, il Saladino, invece di puntare dritto verso Gerusalemme scelse un tortuoso giro che lo portò alla conquista di Tiberiade, Acri, Nazareth, Nablus, Haifa, Cesarea e Giaffa. E poi Ascalona, Sidone e Beirut. La sola Tiro rimase nelle mani dei crociati. Alla fine pose l'assedio a Gerusalemme, che durò due mesi.

Il 2 ottobre il Saladino fece il suo ingresso nella città santa. I cristiani latini non furono ammazzati ma dichiarati schiavi (potevano però riscattarsi pagando una somma piuttosto elevata) ed espulsi dalla città. Ai cristiani greco-ortodossi e ai siriani giacobiti il Saladino concesse di rimanere e acquistare i beni dei latini. Si narra che alle vedove e agli orfani dei soldati avversari abbia donato del denaro tratto dal suo tesoro personale.

Un cronista cristiano così racconta l'arrivo del Saladino in città: «Quando ebbe preso Gerusalemme non se ne volle andare finché non ebbe pregato nel Tempio e finché tutti i cristiani non fossero fuori dalla città. Egli mandò a prendere a Damasco dell'acqua di rose per lavare il Tempio prima di entrarvi [...]. E fece abbattere una grande croce dorata che stava sul Tempio, e che i saraceni poi legarono con delle corde e trascinarono fino alla torre di David. Là i saraceni miscredenti si dettero a spezzarla e le fecero gravi oltraggi: ma non posso dire se ciò sia avvenuto per comando del Saladino. Questi fece lavare il Tempio, vi entrò e rese grazie a Dio». Il Santo sepolcro fu chiuso e le principali chiese trasformate in scuole teologiche islamiche.

Saladino consacrò la vittoria ponendo nella moschea di al-Aqsa il pulpito (minbar) che Nur al-din aveva voluto costruire per l’occasione.

La mancata conquista di Tiro, regno di Corrado di Monferrato, fu tuttavia uno dei maggiori errori della fortunata campagna di Saladino, poiché la città costiera permise il rifornimento dal mare degli eserciti che mossero, nel 1188, alla terza

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crociata, preparata in Europa dalla raccolta di una tassa speciale (la «decima di Saladino»).

Gli eserciti crociati, guidati da Riccardo I d’Inghilterra ripresero San Giovanni d’Acri, nel 1191, dopo un assedio durato due anni, passando a fil di spada migliaia di musulmani. Nello stesso anno Saladino conobbe una bruciante sconfitta ad Arsuf, ma Gerusalemme rimase in mano musulmana, e il reciproco rispetto dei due avversari condusse, nel 1192 all’Accordo di Ramla, con il quale Saladino permetteva il pellegrinaggio cristiano a Gerusalemme, mentre i regni cristiani furono ridotti agli Stati costieri. L’anno successivo Saladino moriva, senza lasciare, secondo i suoi biografi, denaro sufficiente per la sua sepoltura, avendo speso i suoi averi per scopi caritatevoli. La leggenda al suo riguardo fiorì già durante la sua vita, sia in campo musulmano sia in campo cristiano, alimentata altrettanto dai suoi risonanti successi, ottenuti sia con la forza delle armi sia con un’accorta politica di accordi e tregue, quanto dalla sua famosa generosità (tale da attirargli le critiche dei suoi amministratori) e da un indubbio spirito cavalleresco, riconosciutogli dai suoi avversari cristiani.

La leggenda del Saladino

Tradizione musulmana

La tradizione musulmana, rappresentata soprattutto dal suo biografo personale, l’ex funzionario zenjide Baha’ al-din Ibn al-Shaddad, divenuto suo fedele, insistette sulla sua figura di mujahid e di musulmano devoto.

Le fonti storiche musulmane ne mettono in rilievo lo zelo religioso, la rigida ortodossia, la fermezza, che noi possiamo ben dire fanatismo, nella lotta contro i Franchi, nemici dell'Islam. Atti come la strage, da lui ordinata, dei Templari e Ospitalieri presi prigionieri a Hattin possono invero sembrare in contrasto con la fama di liberalità e umanità che proprio la tradizione occidentale esalta in lui. Ma accanto a questa dura applicazione della legge di guerra, anche nelle fonti orientali appaiono i tratti di una personalità di eccezione, tenace, paziente, lungimirante, di attività e solerzia instancabile, prode sul campo, e insieme amica delle lettere e delle scienze, soprattutto religiose. L'imponente attività monumentale legata al suo nome (cittadella del Cairo, ecc.) congiunge insieme le necessità militari con la passione edificatrice propria di quell'ambiente e di quell'età. Un ricco materiale storico, epistolografico ed epigrafico, sui monumenti superstiti, perpetua sino a noi, da parte musulmana, il ricordo del grande sultano ayyubide.

Alcuni cronachisti arabi inoltre hanno lasciato testimonianza di episodi in cui emerge l’animo "cavalleresco" del Saladino.

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Si narra che durante l'assedio della fortezza di Kerak, dov'era asserragliato Rinaldo Châtillon, il Saladino, venuto a sapere che tra le mura si era appena celebrato il matrimonio tra due giovani nobili del seguito di Rinaldo, disponesse che la torre in cui era la camera dei novelli sposi non fosse colpita in alcun modo da ordigni o frecce.

Ma si racconta anche del suo atteggiamento benigno e prodigo, sempre attento ad aiutare i deboli contro i prepotenti, della generosità nei confronti dei suoi aiutanti (pare sia morto lasciando modesti beni), dell'ampio uso della grazia nei confronti dei soldati catturati (fatta eccezione per Ospitalieri e Templari) o di come consentisse ai pellegrini cristiani di raggiungere il santo sepolcro di Gerusalemme.

Una cronaca araba racconta questo avvenimento: «Tra i prigionieri v'era un vecchio di età assai avanzata, senza più un dente in bocca e senza più forza altro che per muoversi. Saladino, attraverso l'interprete, gli chiese: "Che cosa mai ti ha indotto a venir qui, in così grave età, e quanto c'è di qui al tuo paese?".

Quello rispose: "Il mio paese è a mesi di viaggio, e io son venuto a fare il pellegrinaggio al Santo Sepolcro". Il sultano ne fu commosso e gli fece grazia, lasciandolo in libertà e facendolo tornare, montato su un cavallo, al campo nemico». Ora, c'è da dire che la maggior parte di tali cronache furono redatte poco dopo la scomparsa del sultano, in pieno clima di esaltazione post mortem, ma un pizzico di verità deve nascondersi anche tra queste righe.

Tradizione cristiana

Quella trasfigurazione ed elaborazione fantastica che mancò in generale alla figura del Saladino nelle letterature musulmane (egli compare solo in un episodio del romanzo popolare di Baibars), fiorì invece rigogliosa nella tradizione letteraria e pseudostorica occidentale, in latino, in francese e in italiano, improntata per lo più a un'idealizzazione veramente singolare di colui che pure fu il maggior distruttore dell'opera del pio Goffredo.

Solo un piccolo gruppo di fonti cristiane (probabilmente il più antico, il più vicino o addirittura contemporaneo agli eventi storici che esso prende a esporre) è animato da tendenza ostile al Saladino, e si sofferma particolarmente sugl'inizi della sua carriera, ora insistendo sui punti oscuri dell'uccisione di Shawar e della poco chiara scomparsa del sultano fatimide al-‛Aḍid, ora favoleggiando addirittura d'una origine servile e d'una equivoca carriera di adultero e assassino del sovrano ayyubide.

In alcune cronache era dipinto come il supremo nemico della cristianità. Nemico perché con la battaglia di Hattin si era impossessato della reliquia della Vera Croce di

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Cristo e perché, conquistata Gerusalemme, aveva fatto massacrare i cavalieri Templari e Ospitalieri e ucciso il prode Rinaldo di Châtillon.

Il cronista crociato Guglielmo, arcivescovo di Tiro, lo definiva «superbo tiranno infedele». Altri cronachisti contemporanei si scusavano coi lettori per aver deturpato le pagine manoscritte vergando il nome di un uomo tanto spregevole. Gioacchino da Fiore lo metteva tra i grandi persecutori della Chiesa in compagnia di Erode, Nerone e Maometto.

E la tradizione ostile continuò dalla fine del XII secolo per tutto il XIII, in poemi e romanzi. Salvo poi trasformarsi radicalmente, evidenziando oltre agli aspetti negativi del personaggio anche le sue virtù morali. In un'esigenza, figlia delle regole cavalleresche che si stavano allora diffondendo, di attribuire al nemico la qualifica assai più nobile di "avversario" coraggioso.

A spingere in questo senso era anche un'esigenza che potremmo definire "promozionale": conferire grandezza al Saladino contribuiva infatti a restituire grandezza anche ai crociati, che altrimenti non si poteva spiegare come avessero potuto subire tanti rovesci ad opera dei musulmani.

Da fervente, anzi quasi fanatico musulmano, quale storicamente fu, egli è fatto curioso, simpatizzante, persino segretamente aderente al cristianesimo, con cui è talvolta anche collegato da vincoli di sangue per una sua pretesa discendenza franca da parte di madre! Largo di cortesie, di cavallereschi favori e d'onori ai baroni cristiani egli salda non di rado regalmente, con loro, debiti di amicizia e di ospitalità contratti nei suoi frequenti viaggi in incognito in terra cristiana; rinvia prigionieri senza riscatto, o paga egli stesso riscatti esorbitanti; ama di amor cortese e discreto dame cristiane; mette finemente alla prova la pietà e la saggezza dei suoi avversari, o disputa umanamente della preminenza delle tre religioni. Questa figura generosa,arguta e valente di barone saracino, la cui piena elaborazione si ritrova nella Chronique d'Ernoul, nel Ménestrel de Reims, nel Novellino, nell'Avventuroso Ciciliano di Bosone da Gubbio, e in varie altre fonti, venne così a far parte, già lontana nella leggenda, anche se cronologicamente contemporanea, della cerchia di spiriti magni, che accarezzò con ingenua commozione la fantasia medievale.

Dante la vide nel Limbo, sola tra gli eroi e i savi antichi (Inf., IV, 129), la citò anche nel Convivio nella schiera dei personaggi generosi e magnanimi. Pure Boccaccio destinò al sultano una parte. Anzi tre. Nell'austero De casibus virorum illustrium e poi in due novelle del Decameron: nella prima di queste si narra di una gara d'intelligenza tra un giudeo e il sultano, nella seconda, il condottiero di origine curda è descritto come il depositario di una serie di poteri magici e soprannaturali.

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Trascorsi i secoli, l'illuminismo settecentesco raccolse alcuni tratti di questa leggenda, e per bocca del Lessing (Nathan der Weise, 1776) tornò a vagheggiare nel Saladino il savio sovrano tollerante, superante nell'intimo la contingenza delle confessioni religiose in una più alta e serena sfera di generosità e di umana saggezza.

La sua storia sarebbe poi approdata fino al XIX secolo, in pieno clima romantico, nelle pagine di Walter Scott. Nel romanzo Il talismano, il Saladino è un personaggio magico ed esperto di arti mediche. Nel XX secolo l'epilogo nelle nostrane figurine Liebig, dove il Saladino tornò ad essere "feroce", proprio come otto secoli prima, quando il confronto tra soldati della croce e musulmani era al culmine.

Uso politico contemporaneo della figura di Saladino

Nel mondo arabo-islamico è stato rivendicato, in tempi recenti, come eroe simbolo della lotta degli Stati arabi contro Israele, fino alla pretesa di Saddam Husain, come lui nato a Tikrit, di essere il nuovo Saladino, nella guerra del sunnismo allo sciismo khomeinista prima, quindi nella resistenza all’ingerenza occidentale in Medio Oriente.

1138 Nasce a Tikrit, nell’odierno Iraq

1169 Vizir del califfo fatimide al-‛Adid

1171 Pone fine al califfato fatimide in Egitto, assume di fatto il governo del Paese, restaurandovi l’ortodossia sunnita

1174 Alla morte di Nur al-din, regna sull’Egitto ed estende la sua influenza su Damasco e su parte della Mesopotamia

1183-84 Prende Aleppo e devasta la Samaria e la Galilea

1187 Disfatta dei crociati a Hattin, conquista di Gerusalemme

1191 Gli eserciti crociati riprendono San Giovanni d’Acri

1192 Accordo di Ramla con Riccardo I d’Inghilterra, che permette il pellegrinaggio cristiano a Gerusalemme, mentre i regni cristiani sono ridotti agli Stati costieri

1193 Muore a Damasco

Dizionario di Storia (2011)

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Enciclopedia Italiana (1936) - Francesco Gabrieli

Bibl.: Oltre alle fonti storiche generali citate s. v. crociate (cui è da aggiungere R. Grousset, Histoire des croisades, II, Parigi 1935), C. W. Wilson, The life of Saladin by Behâ ed-din, Londra 1897 (è una traduz. della biografia del S. di Bahā' ad-dīn Ibn Shaddād); S. Lane Poole, Saladin and the fall of the Kingdom of Jerusalem, ivi 1898; M. Sobernheim, in Encyclopédie de l'Islam, IV, 1925, 87-92. - Per la leggenda, v. G. Paris, La légende de Saladin, in Journal des Savants, 1893 (ed estratto a parte).

Il Saladino: vita e leggenda del sultano che batté i crociati – Alessandro Frigerio

• Il Saladino, di F. Cardini - Piemme

• Il Saladino, di G. Regan - ECIG

• Storia della terza crociata, di J. Reston - Piemme

• I templari, di P. Partner - Einaudi

• Storici arabi delle Crociate, a cura di F. Gabrieli - Einaudi

• Le crociate viste dagli arabi, di A. Maalouf - SEI

• Storia delle crociate, di S. Runciman - Einaudi

• L'invenzione delle crociate, di C. Tyerman – Einaudi

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Pierpaolo SabattiniL'Occidente visto dagli Arabi

1Crociate e Jihad

Nel periodo storico delle Crociate ci sono due aspetti paralleli che hanno sempre caratterizzato quest’epoca rispecchiandosi l’uno nell’altro: la nascita dell’idea di guerra santa nella cultura occidentale e l’evoluzione di quella di jihad nel mondo islamico. Per studiare la tematica di questi due concetti all’apparenza diversi ma che come vedremo si intersecano, occorre fare riferimento ai testi sacri delle due religioni: il Vecchio Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano. Tuttavia bisogna essere consapevoli che l’insieme dei precetti di questi libri sacri ha potuto essere interpretato in maniera diversa a seconda del momento storico inerentemente al concetto di guerra santa e jihad. La relazione che hanno i popoli con le proprie sacre scritture quindi è da tenere fortemente in considerazione se parliamo di questi fenomeni tanto delicati, di cui ancora oggi discutono.

Il punto di partenza è segnato, se vogliamo parlare di guerra santa, con il disagio iniziale di fronte alla guerra dei primi cristiani. Perseguitati come nemici dell’impero, i cristiani, che per lo più erano ebrei convertiti, hanno passato i primi secoli della loro storia esclusivamente ponendo l’isolamento al centro della loro vita sociale. Disprezzati per molto tempo per il loro rigore e fanatismo da molti imperatori, come tra i questi Marco Aurelio che descriveva il loro martirio come enfatizzato e al limite della teatralità nei suoi pensieri, i cristiani passarono la vita nell’ombra disprezzando spesso le regole dell’impero e aborrendo (il più delle volte anche questo va detto) il servizio militare. Molti i casi per giunta di militari e ufficiali che convertendosi avrebbero voluto lasciare il servizio militare rischiando il martirio. Questo atteggiamento estremista si attenua quando nel corso del IV secolo il cristianesimo viene riconosciuto dall’impero da Costantino, come cambia anche la prospettiva militare. Il sovrano convertendosi al cristianesimo diventa legittimo agli occhi dei sudditi e fedeli, i quali non si possono rifiutare di aiutarlo quando ne ha bisogno, e nel caso di soldati bisogna darglieli. Semplicemente, si accetta di fare la guerra per un sovrano cristiano anche se per secoli ci si è interrogati angosciosamente se fosse giusto o meno. Interessante a tal proposito analizzare una lettera di risposta ad un ufficiale dell’esercito imperiale romano nel V secolo, dove l’uomo scrive in sostanza a sant’Agostino di non essere tranquillo a praticare il mestiere delle armi essendo cristiano. Dubbio che nonostante più di un secolo da Costantino continua a rendere perplessi gli “uomini in arme”, Agostino sa rispondere citando il Vecchio Testamento

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dando tuttavia una risposta contradditoria, evidenziando i limiti di un pensiero incerto all’argomento che incorniciava l’epoca in questione. Egli rispose << Non si può pensare che piaccia a Dio chi presta servizio militare e chi porta le armi>> , quindi lasciando sottintendere l’idea talmente forte che c’è il comandamento << Non uccidere>>, ma per subito continuare a scrivere, forse rendendosi conto di non aiutare fino in fondo l’ufficiale, << ma anche Davide portava le armi…>> , il re Davide dell’antico testamento. In aiuto ad Agostino il Vecchio Testamento presenta molti passi e capoversi che giustificano la guerra, molto spesso perché Dio dice di farla, del resto gli ebrei conobbero sovente la guerra in molti casi della loro storia. Nel Nuovo Testamento è molto più difficile trovare versi in questo senso, è vero che Gesù a un certo punto dice << Io non porto la pace ma la spada>>, ma non si è ancora sicuri di cosa volesse significare sul serio… Agostino continua la sua lettera ponendo l’accento sul giustificazionismo bellico in relazione ad una necessità che i popoli devo adempiere per portare la pace, cito, << talvolta è necessario che i buoni facciano la guerra ai violenti, per comando di Dio e del governo al fine di mettere l’ordine>>, il che non vuol dire che in guerra si possa uccidere senza problemi.

Per tutto il medioevo la guerra viene accettata e concessa dai capi religiosi se il sovrano la necessitava, tuttavia uccidere viene considerato ancora peccato e quindi è necessario pentirsi e fare confessione. Il concetto di confessione e di penitenza nel medioevo è distinto, per ogni peccato c’è quasi sempre la penitenza corrisposta, si scrivevano libri a tal proposito impegnandosi a trovare le pene più congeniali ad ogni tipo di peccato. Uccidere in battaglia era un peccato gravissimo, anche se come visto la guerra veniva legittimata, il tema veniva affrontato con serietà e colui che commetteva tale trasgressione poteva essere escluso dalla messa e dalla comunione fino a tre anni, nel caso di mancata confessione. Comunque è opportuno sottolineare che in seno alla questione la chiesa latina per secoli fu divisa tra coloro che condannavano l’uccidere come un peccato molto grave, e altri che pensavano fosse ugualmente un peccato, ma di lieve entità, e che occorresse, sì, una penitenza, ma lieve rispetto ad altre.

Il dubbio alla vigilia della Prima Crociata persiste, ma la svolta è dietro l’angolo… Come è noto, Papa Urbano II nel 1095, predica ai cristiani di tutto il mondo di prendere le armi contro i Turchi e di liberare Gerusalemme, inoltre asserisce che tutti coloro che incontreranno la morte sul campo di battaglia avranno la completa remissione dei peccati. Una sottigliezza non da poco, il papa nonostante si fa carico di tutti i peccati un soldato partito per la terra santa, non specifica affatto che uccidere quindi non è un peccato, anticipando il dubbio creatosi sulla mancanza di tempo che si avrebbe per pentirsi prima di spirare, ovviamente. La svolta è incredibile, la Crociata quindi non è una guerra legittima, sarebbe troppo poco per un uomo medievale, è una guerra benedetta e come tale l’impeto e l’entusiasmo al martirio è tale da creare un cortocircuito nella mentalità di un crociato che parte consapevole

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che uccidere i saraceni, è una cosa gradita a Dio e se dovesse morire come martire quindi, guadagnerebbe il paradiso. Come si può osservare non c’è spazio per sottigliezze, aldilà comunque di motivazioni “terrene” meramente economiche e politiche (vedi la situazione in cui vertevano i bizantini pressati dai turchi), lo scopo è quello di analizzare la mentalità di questi uomini che sprezzanti del pericolo adempievano alla causa, come il fine ultimo della loro vita, la stessa vocazione che dopo l’effettiva riconquista di Gerusalemme posero effettivamente molti cavalieri che come diremmo oggi, fondarono un’associazione devota a combattere gli infedeli. Ma all’epoca si parlava di altro, tale confraternita si conclamava come un ordine monastico, e tali cavalieri pretendevano di essere riconosciuti come un ordine religioso che si batteva per difendere il Tempio, l’antico Tempio di Gerusalemme, da lì il loro nome, Templari. Tali considerazioni sono contradditorie alla visione classica di un ordine religioso e monastico, intento a una vita pia e lontana da tentazioni carnali e terrene. Come il sesso o il gioco, figurarsi la guerra e le armi. Sebbene quindi diffidenti in merito all’ufficializzare un ordine monastico di tali prospettive belliche, la fascinazione dei templari nel corso delle Crociate è tale che la differenza tra questi, e altri soldati cristiani dediti solo al saccheggio e all’arricchirsi, ci viene proposta e descritta ovviamente con parzialità e con più riguardo nei confronti dei cavalieri del Tempio. San Bernardo ne è l’esempio nel porre le difese nelle varie controversie sui cavalieri Templari, asserendo che << I cavalieri di Cristo, combattono con sicurezza le battaglie del Signore senza timore e senza peccato>>, o ancora << Il templare accetta con bontà la morte del nemico e ben più volentieri dona se stesso quando cade in battaglia, con serenità uccide, con serenità muore>>, come si può notare a distanza di appena cinquant’anni dal proclama di Urbano II del 1095, che non asseriva affatto che uccidere non fosse peccato, ora si combatte senza peccato.

Certo, il discorso di Bernardo potrebbe essere stato finalizzato solo allo scopo di esaltazione dei Templari, quindi troppo poco per segnare un cambio di mentalità repentina, o meglio totale. Ma di sicuro si potrebbe sottolineare una visione di moralità cavalleresca che stupiva, senza alcun dubbio, molti soldati e uomini del tempo, che come anche i saraceni in più riprese segnalavano, colpiva a tal punto da far sicuramente emulare a molti dei crociati la stessa via di pensiero. Cioè il cavaliere che dona sé stesso a Dio, suo signore, di cui è servo e difensore, e che con onore e orgoglio rispetta la sua parola per il bene della cristianità, è sicuramente una cosa sentita che potrebbe farci asserire una svolta morale di un certo livello, tale da permettere di accettare la morte con più facilità, cosa per un soldato indubbiamente più vantaggiosa.

Dall’altra parte, il concetto di jihad è presente in diversi brani del Corano – un libro che non mancava di contraddizioni a livello tematico- di cui spiega bene l’idea dell’espressione. In realtà la frase complessiva suona come “jihad fi sabil’illah” e

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vuol dire combattere sulla via di Dio. Combattere, può essere interpretato certamente in maniera discutibile, ma l’accezione è complessiva perché nella radice c’è la frase “sforzarsi”, intesa per i musulmani in modi diversi e non meramente bellicosa ma anche a livello “interno”, cioè morale. Vale la pena soffermarci sulle similitudini trovate a questo punto, che accomunano crociati e islamici sulla frase << combattere sulla via di Dio>>, frase che più ha spinto i cuori di soldati di entrambe le fazioni (in messaggi senza dubbio diversi per l’uno e per l’altro) ad accettare il pericolo per il bene della propria religione e società.

Cosa dice, dunque, il corano sul jihad in particolare? Vediamo inizialmente la Sura XXII (Sura del pellegrinaggio), versetti 40-42:<<dato il permesso a quelli che vengono attaccati, poiché essi subiscono violenza e certamente Dio li può soccorrere. Hanno il permesso di reagire quelli che sono stati scacciati dalle loro dimore senza diritto, solo perché dicevano ‘il nostro signore è Dio’, Dio certamente aiuterà chi aiuterà lui, Dio è forte e potente.>>. Concetto quindi sicuramente esplicativo che lascia poco spazio a fraintendimenti. Certamente la “guerra santa” è legittima in maniera molto lineare ma presenta come vedremo, caratteristiche alternanti. Nella Sura II, viene presentata l’idea di jihad in maniera discordante, in un misto di esortazioni alla violenza: << Uccideteli quindi ovunque li troviate>>, per poi tramutare il versetto in inviti alla moderazione: <<; però non eccedete poiché Dio non ama quelli che eccedono>>. C’è tutta la contraddittorietà della concezione coranica che però rispecchia la mentalità del fedele che la interpreta. Nella Sura XLVII,22, inoltre si asserisce riguardo la guerra santa: <<Dicono quelli che credono: perché non è stata fatta scendere una Sura che ordini la guerra?>>, poi continuando il verso è meglio parafrasare che citare, infatti sembra che il senso sia che molti siano troppo deboli per combattere, e Dio non voleva metterli in difficoltà, perciò non l’ha ordinata: sono le autorità terrene che devono, a seconda del caso. Per Maometto inoltre, combattere i nemici di Dio era giusto e Dio l’ha detto molte volte. L’ha detto anche agli ebrei, e sempre loro combatterono guerre che la Bibbia presenta come sacrosante e vittoriose. Un intreccio doveroso da sottolineare tra le due religioni, e di quanto siano difficili entrambe da seguire alla lettera. Nel mondo islamico, di guerra santa se ne parlò ben poco dopo le conquiste avviate nel VII secolo, ma alla vigilia della Prima Crociata la jihad viene nuovamente esaltata. Con la prima battaglia persa dai musulmani, i cronisti arabi raccontano: <<Solo un gruppo di Mujahiddin tenne fermo l’esercito Crociato e si batté per cercare il martirio e acquistare merito presso Dio>>, Mujahiddin, cioè i combattenti della guerra santa.

Possiamo parlare dunque di uno scontro di civiltà, che prende come protagonisti questi due mondi strettamente intrecciati l’uno all’altro, che adoravano lo stesso Dio ma con regole differenti, che facevano ragionamenti talvolta analoghi e atteggiamenti mentali non del tutto diversi scontrarsi ferocemente, magari nemmeno sospettando quanto li accomunava. In quest’epopea si incontrano, si studiano e si descrivono a

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vicenda, risultando in una cornice epica mettendo a nudo le proprie virtù, moralità e difetti sotto due stendardi distinti, ma in una coscienza molto accomunata.

2. Cronache musulmane delle Crociate

Con lo scopo di porre una visione alternata sul racconto delle crociate, e di analizzare attraverso le vicende belliche il punto di vista islamico, seguiremo racconti e cronache islamiche su tre tipi di vicende diverse l’una dall’altra focalizzandoci su questo obiettivo e successivamente anche porre l’attenzione sui comportamenti crociati descritti dai turchi. Un’analisi che prevede lo studio non solo degli aspetti bellici del mondo islamico relazionato con quello crociato, ma anche di quelli sociali, economici e persino superstiziosi.

Un maledetto fabbricante di corazze

Agli albori della Prima Crociata, i franchi, intrapresero battaglia dopo aver attraversato Costantinopoli, con il califfo turco Kilij Arslan di Nicea. Un banco di prova presto superato con la conquista effettiva della città da parte dei crociati, che proseguiranno verso l’entroterra fino alle porte di Antiochia, dove si svolgerà il nostro racconto. La città era governata dall’emiro Yaghi Siyan, che ai primi messaggi e avvisi dell’arrivo dei crociati nel 1097, inizierà a prendere provvedimenti più o meno discutibili, è lo storico islamico ibn al-Athir che ci descrive il comportamento dell’emiro, << Il primo giorno, Yaghi Siyan ordinerà ai musulmani di uscire dalla città per pulire i fossati che la circondavano. Il giorno seguente invierà solo i cristiani (nel documento viene espresso il lavoro dei cristiani nella medesima corvée, una forma di prestazione lavorativa vassallatica) e li farà lavorare fino a sera. Quando poi vorranno rientrare, l’emiro gli chiuderà gli ingressi in città dicendo: Antiochia rimarrà vostra ma mi dovrete lasciare fin quando non avrò regolato i miei affari con i Franchi in arrivo. I cristiani chiederanno: chi proteggerà i nostri figli e le nostre donne? E l’emiro rispose: lo farò io al vostro posto>>, effettivamente nel documento lo storico poi spiega che alle donne non sarà fatto alcun male. La cosa che più interessa capire è il perché di questa mossa, forse a prima vista inspiegabile. Andiamo per gradi, infatti subito si può constatare la disponibilità dell’epoca che i musulmani presentavano nei confronti dei cristiani. Infatti Antiochia, nonostante fosse musulmana contava in città diversi cristiani, che pagavano un’imposta di “soggiorno” per poter rimanere insediati. Il passo successivo è quello del perché Yaghi chiuderà gli ingressi dopo il lavoro svolto dai cristiani. Ebbene l’emiro dubitava di loro, la sua

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mossa era dedita ad una difesa preventiva basata sull’inganno, mandando il primo giorno i musulmani allo svolgimento dell’ordine per non destare sospetti e il successivo i cristiani. Infatti Antiochia era una città considerata inespugnabile che basava le sue difese su alte mura e impedimenti naturali come il fiume Oronte, che di certo inaspriva il compito di qualsiasi assediante. Quindi è interessante capire che la convinzione di Yaghi Siyan era quella di un eventuale tradimento che i cittadini cristiani avrebbero potuto effettuare a sua insaputa, ecco spiegato lo stratagemma.

Yaghi intanto prepara la difesa della città contando sull’effettivo di 6500 uomini, fronte a 30.000 Franchi che stanno marciando in direzione di Antiochia. Ad ottobre dello stesso anno l’emiro inizia a mandare richieste d’aiuto ad altre città musulmane vicine. Da diverse fonti, gli emirati vicini non considerano la minaccia crociata come un’offensiva da prendere in considerazione. Tanto che la supposizione generale è quella che l’esercito Franco fosse stato assoldato dal Basileus Bizantino, per rivendicare Antiochia, ex città Bizantina. Sicuri quindi che l’esercito non andrà oltre la città in questione, diversi emirati mal supportano l’idea di dare manforte. La situazione nel 1097 nella regione inoltre, non era delle più conciliabili. Di fatti nelle vicinanze di Antiochia, la vita politica non era delle migliori. A sud, Doukak re di Damasco era in rotta con suo fratello maggiore, re di Aleppo, Redwan, che nemmeno una situazione in cui si presentava un nemico comune era in grado riconciliarli. Yaghi come descritto, presentava in una situazione che lo penava non poco, in quanto non sicuro su chi poter contare in questa lotta. Come sapeva bene l’emiro, nel 1095, Redwan salito al trono di Aleppo, attua una pratica consueta per la tradizione turca svolta nei secoli dall’impero Ottomano, parliamo del fratricidio. Redwan uccide due suoi fratelli, ma un ultimo riesce a salvarsi e a fuggire dalla città, costui era proprio Doukak che trovando riparo presso Damasco fu poi incoronato re. L’odio di costui per il fratello è tale da trascinarsi in una serie di scaramucce e agguati negli anni successivi tra le due fazioni rivali, questa lotta passò alla storia con il nome della guerra dei due fratelli. Una situazione instabile che favoriva di certo i Franchi che intanto preparavano battaglia. Yaghi Siyan era già entrato in contatto con Doukak dando in sposa sua figlia a quest’ultimo, ma il timore da parte di costui su un eventuale spartizione di potere era tale, da ripudiare la moglie. Yaghi comunque deciderà, fronte alla situazione di forzare i rapporti con il re chiedendo un immediato soccorso militare, che costui accettò di dare soltanto dopo che il figlio di Yaghi Siyan fu mandato dal padre per poter trattare con Damasco. Il figlio di Yaghi, soprannominato il: <<sole dello stato>>, fu abile nel trattare con Doukak, intimandolo con il suo fare infuocato per la giustizia accompagnato da ottime doti di oratore a prendere parte alla spedizione, questa alla fine partì ma non senza qualche problema. Come ibn al-Athir spiega nelle sue cronache, il re di Damasco partirà con parte del suo esercito effettivo nel dicembre del 1097, verso i due terzi del cammino percorso per giungere ad Antiochia egli fu attaccato dai Franchi che gli sbarrarono la

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strada. Lo scontro fu cruento, rasentando una guerriglia corpo a corpo che i Franchi riuscirono a tendere ai danni dei Turchi. La lotta terminò senza vincitori né vinti, nonostante le perdite ingenti dell’esercito di Damasco, che fu costretto successivamente i primi giorni del 1098, a defezionare l’impresa sotto ordine di Doukak. La sconfitta del re di Damasco, lasciò sbigottiti gli abitanti di Antiochia portandosi in uno stato di angoscia e disperazione che evidenzierà anche l’emiro Yaghi Siyan.

Di fatti come asserisce lo storico ibn al-Athir, l’esercito Franco spaventava i Turchi con il suo poderoso numero di effettivi, poi come continua a raccontare facendo un’esaltazione di certo molto importante, considerando la guarnigione musulmana di Antiochia come la più coraggiosa di tutte, e che se non ci fosse stata la “spada” di Yaghi Siyan i Franchi avrebbero di certo conquistato tutti i paesi Islamici. Intanto l’attacco Franco ad Antiochia continua senza sortire effetti significativi per gli occidentali. Infatti la guerra logora talmente il campo Crociato che i musulmani iniziano ad avere informazioni di certo positive riguardanti la miseria che aleggiava al suo interno. Si seppe che i crociati iniziarono a disertare in seguito alle varie sconfitte subite dopo i vari tentativi di assedio e soprattutto per via di alcuni giorni di pioggia incessante, che per un assedio medievale significava rallentamenti importanti. La pioggia venne interpretata dai Franchi come un segno divino, Dio non era con loro, quindi costoro iniziarono a cacciare dal campo ogni prostituta, proibirono il gioco d’azzardo e chiusero le taverne allestite. Ogni tipo di peccato doveva essere bandito per placare l’ira di Dio. Prospettiva che agli occhi degli Islamici era curiosa.

Redwan D’Aleppo dopo la sconfitta del fratello decide di intervenire in aiuto di Yaghi, iniziando a marciare verso Antiochia nel febbraio del 1098, la spedizione del re di Aleppo venne entusiasticamente percepita dagli assediati, che considereranno la marcia del loro alleato come un miracolo. Redwan marciando verso la città però, il 10 febbraio, precisamente tra il fiume Oronte e il lago di Antiochia, gli Aleppini furono attaccati dai franchi che in questa “sacca” naturale trucideranno l’esercito di Aleppo che smarrito romperà i ranghi e si disperderà. Il terrore assalì nuovamente i musulmani della città assediata che raccontano la scena scabrosa e disgustante del lancio, da parte dei Franchi con le loro catapulte, delle teste degli Aleppini dentro le mura di Antiochia. La ferocia dell’esercito Franco è inaudita, e il morale degli assediati si abbasserà notevolmente dopo questo attacco psicologico attuato.

L’ultima speranza dopo l’esercito Aleppino in rottura, che si presentava a Yaghi Siyan, era il governatore di Mosul, Karbouka. Emiro locale della Mesopotamia che però distava ben due settimane di cammino da Antiochia, circa 600 km. Regione, quella Mesopotamica, ricca di petrolio che fin da questi tempi veniva utilizzato in diverse maniere, e considerato come un dono divino. Il petrolio per i Turchi era utile secondo la loro tradizione a vari scopi. Fonti attestano che veniva usato a scopo

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curativo e cosmetico ma soprattutto per scopi bellici data la sua elevata infiammabilità. Di conseguenza l’esercito di Mosul disponeva anche di questa freccia al proprio arco, e di certo aiutava la prospettiva popolare a tenere alto il morale con qualcosa che di certo i Franchi non avevano mai ancora visto. Karbouka inizierà la sua marcia verso la città, accorrendo dopo le richieste d’aiuto di Yaghi Siyan che intanto, ordinando di uscire al proprio esercito dalle mura costringendo dopo vari attacchi a rinculare verso il campo, inoltre l’attività di spionaggio attuata dallo stesso portava i suoi frutti, garantendogli vantaggi posizionali su eventuali attacchi Crociati. A pochi giorni di arrivo verso Antiochia, l’esercito di Karbouka svolterà improvvisamente senza confrontarsi con Siyan verso Edessa. Una mossa che Yaghi non comprenderà intimando all’esercito Mosul di riprendere la marcia verso la propria città. Karbouka d’altro canto, prevedeva che la sua azione avrebbe portato esiti positivi, in quanto Edessa in quel frangente era presa d’assedio da Baldovino I e e conquistata, quindi un attacco preventivo al fine di sventare un eventuale contrattacco a tenaglia verso Antiochia gli parve plausibile. Passarono diversi giorni di assedio per capire che i Franchi di Edessa non avrebbero mai attaccato a tenaglia verso Antiochia, quindi convinto da altri emiri Karbouka decise di riprendere la marcia verso Antiochia.

Frattanto che Yaghi Siyan si rincuora alla notizia della marcia dell’esercito di Mosul, in città accadde l’atto che avrebbe svoltato l’assedio in favore dei Franchi. Un commerciante, fabbricante di corazze e di armi appartenente da molto tempo all’entourage dell’emiro di Antiochia, fu colpito da Yaghi con una forte ammenda in seguito alla condanna di praticare mercato nero e quindi illegale. Convinto di non meritare una sorte tanto pesante, e sicuro di volersi vendicare, Firouz così si chiamava il fabbricante, entrò in contatto con i Franchi poiché egli controllava una sezione del sud della città e una finestra che dava sulla valle. Egli si mostrò pronto a fare entrare i Franchi proprio da lì per poi poter garantire loro una rapida vittoria e conquista. Firouz agì il 3 giugno del 1098, citando ibn al-Athir: << Quando l’accordo fu concluso tra loro e quel maledetto fabbricante di corazze, i Franchi entrarono da quella finestra con l’aiuto di corde. Quando furono in più di 500 nella cittadella si misero a suonare la trombetta. Ascoltando il suono di questa, Yaghi Siyan chiese da dove venisse e i suoi soldati gli dissero che veniva dalla cittadella che sicuramente era stata presa.>>, considerando tutto perduto Yaghi Siyan lascerà la città al suo destino allontanandosi con grande emozione come racconta lo stesso storico: <<Lui si mise a piangere per aver abbandonato la sua famiglia e i suoi musulmani e dal dolore cadde da cavallo>>, Considerando il colpo subito molto grave, la sua scorta lasciò il suo maestro lì dov’era incalzati com’erano dai crociati, poco dopo Yaghi fu trovato da un gruppo Armeno che lo riconobbe e lo catturò per portarlo ai Franchi. La città fu presto cristiana e la vittoria fu ottenuta quindi grazie ad un episodio che

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spostò gli equilibri dell’assedio, per altro ingiunta proprio da un tradimento che il maestro di Antiochia tanto temeva.

I cannibali di Maara

Presa la città di Antiochia, i cristiani videro la propria posizione di assedianti, mutare presto in assediati. Infatti l’emiro di Mosul, Karbouka, arriva alle porte della città, e arrivategli notizia della conquista cristiana inizio a muovere d’assedio nel tentativo di riconquistarla. Per i giorni in cui l’esercito di Mosul era presente alle mura di Antiochia l’esiguo contingente cristiano, ormai esausto, si preparava a reggere l’urto dell’assedio in una situazione non poco complicata. Di fatti in città tra i cristiani non c’era più cibo disponibile e la carestia provocata indusse ai soldati a mangiare i propri cavalli e del fogliame per dodici giorni, come attestarono testimonianze islamiche. La svolta si presentò ai cristiani con il ritrovamento della sacra lancia (la lancia che trafisse il costato di cristo sulla croce), che indusse ai cristiani al rinvigorirsi e sospinti dall’entusiasmo tentarono, uscendo dalle mura in fila di sei, ad attaccare l’esercito musulmano. Come spiega ibn al-Athir: << Tra di loro (i Franchi), il loro comandante, Boemondo, (con il ritrovamento della lancia) ordinò ai suoi di digiunare per tre giorni, e di fare penitenza. Il quarto organizzò l’esercito e il quinto giorno ordinò l’attacco. I franchi uscirono dalla porta in gruppi di cinque o sei.>>. Lo stupore di Karbouka nel vedere l’esercito cristiano uscire dalla porta, lo indusse nuovamente ad attuare una mossa discutibile, che gettò malcontento tra le file islamiche. Molti comandanti di Karbouka cercarono di convincerlo ad attaccare ma come scritto da ibn al-Athir, egli volle aspettare che tutti quanti i cristiani uscissero dalla porta. L’attesa di Karbouka fu interpretata erroneamente dai suoi soldati che mal sopportando la guida del suo capo, e lacerati da sospetti interni, iniziarono a disperdersi e a disertare. L’esercito Cristiano vinse senza nemmeno un colpo di spada o una freccia scoccata, e come ribadirà lo storico di Mosul: << I Franchi sospettaronoun inganno poiché non ebbero da che combattere che potesse giustificare tale fuga, quindi preferirono non gettarsi all’inseguimento del nemico>>. Con l’esercito in rotta e i cristiani che gridavano al miracolo, la giornata si concluse come la più vergognosa per i musulmani in Siria.

Durante i primi mesi del 1098, piccoli battaglioni cristiani si sono sospinti in incursioni nell’entroterra, e dopo la conquista della città di Antiochia, città della località decidono di organizzare difese e di far migrare la propria popolazione altrove. Casistica avvenuta in un villaggio prossimo alla città ora in mano ai Franchi, Maara i quali abitanti migrarono verso Aleppo o verso Damasco, lasciando in città un

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contingente dedito a coprire la ritirata della popolazione. Da sempre le scorrerie Franche in cerca di viveri e vettovaglie per sostenere la campagna militare è stata descritta con molta ferocia dai Turchi, L’assedio di questa cittadina fu completato in un paio di settimane come racconta lo storico ibn al-Athir, che descrive un assedio graduale e una distruzione quasi totale della guarnigione di Maara. Di fatti i Franchi costruirono con molta velocità delle torri d’assedio che costrinsero i difensori a dover lasciare le mura per spostarsi su edifici prossimi ad esse sui quali avrebbero potuto tentare di distruggere la torre. Tentativo che non sortì alcun effetto e i Franchi guadagnarono presto le alte mura gettando sconforto tra i difensori della cittadina. Il destino di Maara fu sconvolgente, per coloro che restarono in citta ivi compresa l’esigua resistenza militare. Boemondo promise loro la vita salva se avessero desistito dal combattere, ed essi così fecero ormai esausti, all’alba del 12 dicembre dello stesso anno arrivarono i franchi, è presto carneficina. La popolazione intera rimasta passò per le armi dei Franchi che senza scrupoli uccisero i soldati musulmani ormai inermi, donne e bambini che non poterono migrare prima. Testimonianze, secondo ibn al-Athir attestano che bambini furono legati e cotti vivi dai Franchi che se li divorarono in preda alla fame che li colpiva da giorni, donne furono stuprate e uomini bolliti per poi essere anch’essi mangiati dall’esercito. Il cronista Oussama ibn Mounqidk, nato tre anni prima questi eventi nella città vicina di Chayzar, scrisse un giorno: << Tutti quelli che si sono informati sui Franchi hanno visto in loro delle bestie che hanno della superiorità del coraggio e dell’ardore nel combattere cosi come gli animali sono superiori in forza e in aggressioni.>>, un’impressione che ben descrive il giudizio sui Franchi al loro arrivo in Siria.

I musulmani accrebbero l’idea dei Franchi su superstizioni, più o meno fondate, sulla loro ferocia e sul loro cannibalismo che si manifestò soprattutto con la presa di Maara, (anche se ci fu forse anche un episodio durante l’assedio di Antiochia, dove una spia musulmana fu catturata al campo Franco, arsa viva e mangiata), del resto la vicenda è plausibile data la lettera ufficiale dei capi Franchi tra cui Boemondo, che facendo un reso conto al papa affermarono: Una terribile carestia ha assalito l’armata di Maara e l’ha messa nella crudele necessita di nutrirsi dei corpi dei saraceni sconfitti. O ancora come asseriva il cronista Franco Albert d’Aix: I nostri non potendo più mangiare non solamente i turchi e i saraceni, hanno incominciato a mangiare anche i cani. La credenza popolare dei musulmani sui Franchi cannibali, crebbe a dismisura, accreditata anche da eventi precedenti che posero già una fortissima base che poi venne consolidata a Maara. Di fatti prima che la crociata dei nobili partisse capeggiata da Boemondo, Baldovino, Raimondo e i nobili franchi, nel 1095 entrò in Terra Santa una Crociata “spontanea” soprannominata successivamente nei libri di storia come la Crociata degli straccioni o la Crociata “0” capeggiata da Pietro l’eremita. Il suo seguito era male armato e si fermò contro l’esercito di Nicea di Kijij Arslan, da lì in poi gruppi isolati di soldati cristiani iniziarono a vagare per le

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terre di Siria, in cerca di bottino per potersi sostentare. Questi gruppi iniziarono a riconoscere addirittura un proprio re, nominato Tafur, un nobile Crociato Normanno che lasciò le sue ricchezze per vivere in povertà con costoro. La leggenda passa i “Tafurs”, come dei demoni che aleggiano nel territorio Arabo in cerca di ricchezze, e cosa più interessante e scabrosa, di carne saracena! Soggetti a una sorta di reverenza nei confronti dei Franchi “nobili” che arrivarono successivamente, ma ai quali non volevano sottostare ad ordini, i Tafurs organizzavano sommosse e azioni di guerriglia ordite contro i musulmani. Questi erano sicuri del loro fanatismo tanto da temere di loro, paragonandoli a dei diavoli che si aggiravano senza alcun frano per queste terre, di notte e di giorno. Il primo impatto dei musulmani con i Tafurs avvenne ad Antiochia, quando alcuni di loro partecipando tra le file Franche, in preda forse alla fame dovuta alla carestia, iniziarono a riesumare nel cimitero fuori le mura cadaveri ancora non in putrefazione di saraceni, e cuocendo quel che ne rimaneva se ne cibavano. Scene mal sopportate dai difensori della città che dalle mura gridavano loro maledicendoli.

Un incontro impossibile

Durante la Terza Crociata, la figura di capi carismatici come Saladino o re Riccardo d’Inghilterra suscitarono nell’una e nell’altra fazione un rispetto reciproco sul quale vale la pena soffermarsi. Inoltre cercheremo di capire come diplomaticamente gli uni si approcciavano agli altri, come Saladino potesse parlare con Riccardo, e come questi due capi militari si relazionavano alla guerra secondo i loro ideali. La riconquista Araba di Gerusalemme avvenne nel 2 ottobre del 1187, i Crociati quindi corrono ai ripari, allestendo una Terza spedizione per poter liberare la città sacra. Dal novembre dello stesso anno, i musulmani guidati da Saladino iniziano a muovere battaglia verso la costa, ancora in mano cristiana. Saladino muove verso Tiro e intende conquistarla, la flotta di cui disponeva però viene annientata dalle difese di Conrado da Montefeltro, bruciando cinque vascelli nemici e mettendo in ritirata la flotta. Saladino quindi reagisce di conseguenza, attaccando l’entroterra cristiano vicino Tiro, riuscendo ad espugnare Baghras, Kawkab e Safed, attuando una politica strategica al quanto insolita. Infatti come scrive ibn al-Athir:<<ogni volta che Saladino prende una città, egli permetteva ai soldati cristiani di poter esiliare verso Tiro (forse convinto che mandando i nemici e i prigionieri verso il litorale sarebbero andati via allestendo un imbarco), questi una volta lì spedivano messaggi sul continente e i Franchi aldilà del mare promettevano di soccorrerli. Così facendo non era Saladino stesso ad organizzare le difese di Tiro contro la propria armata?>>, commento abbastanza spontaneo, frutto forse di una supposizione errata da parte di Saladino o di una sottovalutazione del problema. Comunque Saladino, non mancava di spirito e di tenacia asserendo in più riprese che: << Se altri Franchi verranno dall’altra parte del mare subiranno la stessa sorte di quelli che sono qui!>>.

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I turchi e il mondo musulmano, vedevano i cristiani con aria curiosa dopo alcune loro usanze. Dopo la presa di Gerusalemme, infatti, come racconta lo storico ibn al-Athir, essi iniziarono a vestirsi di nero come se fossero in lutto per via della perdita della città. Dopo vari messaggi di soccorso e richiami da parte dei cristiani della Terra Santa, il mondo occidentale inizia a preparare la vendetta nei confronti di Saladino, che intanto, nel settembre del 1189 inizia a preparare la difesa di Acri, presa d’assedio dai cristiani. La città era molto difficile da poter espugnare, di fatti era difesa sul lato Est dal mare, a Nord da una catena montuosa che cingeva la città anche sul lato ovest e a sud da una fortificazione muraria che formava un angolo retto sulla spiaggia e sul porto. Consapevole che presto i rinforzi cristiani sarebbero arrivati a Guido di Lusignano non rimane che resistere all’urto musulmano per un po'. La notizia arriva anche a Saladino che in apprensione, viene informato della discesa di Federico I Barbarossa verso la Terra Santa, passato già da Costantinopoli. Qui notiamo un’ammirazione che Saladino riconosce ai suoi rivali cristiani nella loro abilità di “propaganda” per potersi assicurare effettivi armati contro la sua armata, e di fatti decide di attuare anche egli stesso una comunicazione simile, chiedendo aiuto ai suoi vicini musulmani di Spagna e Maghreb, un soccorso militare come i Franchi di occidente si sono mossi contro coloro d’oriente. Intanto Federico si trova in Asia minore e attraversando un corso d’acqua ai piedi del monte Taurus, preso da un malore cardiaco cade morendo affogato nell’acqua. ibn al-Athir schernisce il nemico deridendolo in questa maniera: Dove l’acqua non arriva all’anca il suo esercito si disperderà e Dio eviterà dunque che i musulmani combattano con questa squallida razza di Alemanni.

In questa battaglia che logorava i due schieramenti, non era difficile assistere a scene di un modus vivendi che cerca di rasentare un modello sociale di pace quando i due eserciti sono esausti di battersi. Infatti come più attestato in più riprese, musulmani e cristiani entravano in contatto nelle tregue patteggiate, mangiando e discutendo insieme senza alcun tipo di problema. Del resto tregue di tali portate erano solite manifestarsi all’orlo dell’insopportabilità fisica e mentale che la guerra comportava. Un’altra vicenda che incuriosisce è l’atteggiamento che gli adulti ponevano sui ragazzi, che vivendo in una società di certo bellicosa, crescevano sospinti dagli adulti a battersi per la causa più giusta per loro ovviamente. Un esempio quindi ce lo dà il cronista arabo Bahaeddin, che asseriva che era solito assistere a degli incontri di lotta che gli adulti organizzavano tra quattro ragazzi, due musulmani e due cristiani, che la gente e i soldati guardavano molto divertiti e con entusiasmo. Di solito evitavano che quest’ultimi si uccidessero tra di loro, intervenendo separandoli una volta che il vincitore si palesava, ma non è sicuro che delle volte scene tanto violente non incombessero nella morte di un ragazzo. Lo stesso Bahaeddin ci racconta l’arrivo del re di Inghilterra che in soccorso al regno di Acri, si manifestava agli occhi dei musulmani con un fascino interessante da commentare. << Questo re d’Inghilterra è

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certamente un uomo energico, ambizioso e audace nel combattimento. Inferiore al re di Francia, egli è più ricco di questi e più rinomato a carisma e come guerriero.>>, egli arriva nell’aprile del 1191. Agli inizi dell’estate la guarnigione musulmana posta alle difese di Acri, fa pervenire a Saladino che non potrà resistere ancora data la carestia in cui verteva la città. Allora Saladino inizia a cercare una via d’uscita diplomatica, ma i Crociati presi dall’impeto della resa della città passeranno per la spada tutti gli abitanti musulmani di Acri, trucidandoli con lance, spade, pietre. Il capo Curdo è in lacrime per la sorte degli abitanti della città e inizierà un’apertura diplomatica con Riccardo d’Inghilterra, di cui discuteremo alcuni scambi di missive, interessanti per capire come vedeva l’uno l’altro. Nel settembre 1191, dopo alcuni successi militari a nord di Jaffa, Riccardo Scrive:

Non ci sono che tre soggetti di discordia, Gerusalemme, la vera Croce e il Territorio. Parlando di Gerusalemme è il nostro luogo di culto e non accetteremo mai di rinunciarci, anche se dovessimo combattere fino all’ultimo. Per il territorio noi vorremmo ciò che è all’ovest della Giordania. Quanto alla Croce, non rappresenta per voi che un pezzo di legno mentre per noi il suo valore è inestimabile. Che il Sultano ce la renda, e che metta fine a questa lotto logorante.

Saladino per tutta risposta inviò un messaggero con questa missiva:

La città santa è nostra quanto vostra è più importante per noi perché è verso ella che il nostro profeta ha compiuto il suo viaggio miracoloso e da là che la nostra comunità si riunirà il giorno del giudizio ultimo. Quindi è escluso che l’abbandoneremo. Per quanto concerne il territorio è sempre stato nostro, e il vostro ruolo è solo passeggero. Quanto alla Croce rappresenta un grande manufatto nelle nostre mani e non la cederemo, a meno che non ci sia una concessione a favore dell’islam dalla controparte.

Nel corso della guerra tra Riccardo e Saladino, il primo cercò di poter vedere di persona il secondo per meglio accordarsi sul da farsi, dato che i vari tentativi per liberare Gerusalemme fallirono. Riccardo quindi cerca un incontro con il capo Curdo che però, respinge asserendo che ignorando la lingua inglese e lui la propria avrebbero bisogno di interpreti e mal supportando l’idea, per egli era più conveniente discutere tramite messaggeri che riuscivano a tradurre senza problemi, il più celebre fu un certo al-Adel. Nel agosto del 1192 Riccardo è un fascio di nervi, aveva conquistato il centro strategico di Giaffa ma era bloccato nei pressi di Ascalona, un’altra città importante da occupare per poi muovere su Gerusalemme. Riccardo in questo periodo era molto malato e a seguito di pressioni fategli per urgenze in Inghilterra, non poteva più tardare il suo rientro in patria. Così Riccardo ordinò un nuovo messaggio supplicando Saladino a una tregua in cambio della città di Ascalona. La risposta è negativa. Allora il re Inglese manderà una nuova missiva con il suono di un ultimatum, che spiegava che se non si fosse arrivati ad una cessione

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della città entro sei giorni, egli sarebbe dovuto rimanere anche per l’inverno a venire (non lasciando quindi l’assedio). La risposta di Saladino commuove successivamente Riccardo, recitando così:

Mi ha inviato sul serio un messaggio nel quale vuole presagire di passare l’inverno qui, a due mesi di viaggio dalla sua famiglia e dal suo paese, essendo nel pieno della sua età e che può godere ancora dei piaceri della vita? Dalla mia parte io potrei passere qui l’inverno, poi l’estate, poi un altro inverno e un’altra estate, poiché io sono nel mio paese, tra i miei bambini e i miei parenti, che sono al mio fianco, ed io ho un’armata per l’inverno e un’altra armata per l’estate. Io sono un uomo anziano che non ha più a che fare con i piaceri della vita, e che anzi resterà qui fin quando Dio non donerà la vittoria a uno di noi.

3. L’occidente visto dagli “altri”

Quando parte la Prima Crociata, da un po' di tempo sono arrivati i Turchi. Essi non sono affatto Arabi, parlano una lingua che non assomiglia per niente all’arabo, però si convertono all’Islam e impongono la loro egemonia in tutto il mondo musulmano; un po' dappertutto il sultano, gli emiri, i califfi sono turchi, o talvolta curdi come Saladino. Questo mondo di cultura araba ma di egemonia militare turca si prepara all’invasione crociata con una frammentazione singolare. Il califfo di Baghdad dopo l’invasione turca, non conta quasi più nulla, presentando nella regione musulmana una costellazione di emirati o califfati per lo più autonomi dove anche il sultano turco non presenta un’egemonia forte. Per questo anche la Prima Crociata è un successo, perché incontra un mondo islamico composto da tanti principati che qualche volta erano in rotta tra di loro.

Come reagiscono, dunque, i musulmani all’arrivo dei “Franchi”? Che impressione hanno di loro? In primo luogo non riescono a convincersi che vengano per motivi di ideali. Questo lo ribadiranno più volte, i Franchi sono la razza più avida del mondo a loro parere. Riconoscono tuttavia la maestria di quest’ultimi nell’arte della guerra, lo fanno senza problemi. Quella carica di cavalleria che tanto adoperano è irresistibile ai loro occhi: i capi che riescono a tener testa loro, diventano subito popolari. Le relazioni commerciali che i turchi intraprendono con i crociati e, di riflesso, con il mondo occidentale iniziano a intensificarsi. Infatti la fascinazione del mondo turco per il mondo occidentale è tale che nei rapporti commerciali persisterà nei secoli.

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Sono commerci che non si interrompono mai, nemmeno in tempi di guerra e proseguono con estrema disinvoltura. Occhiali, vetri e lampade. Le lampade per le grandi moschee sono spesso comprate a Venezia dai turchi, perché nessuna città produce vetro tanto raffinato e di ottima fattura come lì. Per prodotti invece più alimentari, va di gran moda il formaggio parmigiano che ai turchi piacerà e di cui dipenderanno dall’occidente per secoli. Ammireranno le doti da carpentieri dei Genovesi, abili marinai che in Terra Santa si distingueranno notevolmente, e inoltre sono fortemente colpiti dalle tecnologie belliche, che per tempo ancora strazieranno i soldati islamici. Per non parlare dell’ottima resistenza del ferro di cui i franchi disponevano e le loro qualità di lavorarlo.

Con il successo della Prima Crociata e la conquista di Gerusalemme da parte dei latini, si apre un periodo costante di guerriglia tra le due fazioni, che a periodi alterni cessavano i conflitti per potersi concentrare sul dialogo commerciale (come del resto inevitabile) e sulla diplomazia. Come vediamo quindi intraprendere jihad contro gli infedeli non era sempre opportuno o conveniente, ed è in questi momenti che i contingenti islamici hanno la possibilità di poter studiare il proprio nemico. Di documenti scritti a riguardo ce ne sono abbastanza. Abbiamo la fortuna di poter leggere ad esempio gli scritti di un emiro della Siria, che aveva sede in Cesarea. Il suo nome è Usama ibn Munquidh, che con i Crociati aveva a molto guerreggiato ma anche trattato come vedremo, di fatti nelle sue testimonianze sono presenti parecchi aneddoti sulla differenza culturale delle due fazioni nemiche. Che pensassero che i Crociati fossero strani lo si può capire, ma che le differenze sostanziali arrivassero a colpire anche aspetti più specifici e non solo sociali lo si immagina molto meno. In ambito medico ad esempio la differenza tra la medicina araba e quella occidentale è lampante. Usama infatti scrive che un giorno gli si chiese di spedire un medico al campo Crociato, poiché c’erano parecchi feriti c’era bisogno di medici; era un periodo di tregua e Usama spedì un medico di nome Tabit. Quest’ultimo tornò in territorio islamico dopo appena dieci giorni, quindi gli si chiese del perché fosse tornato così in anticipo e questi rispose: << c’era un cavaliere franco affetto da un ascesso alla gamba e una donna afflitta da consunzione, me li presentarono e io iniziai a curarli. Feci un impiastro al cavaliere e l’ascesso si aprì e migliorò. Prescrissi una dieta alla donna, rinfrescandone il temperamento. Quand’ecco arrivare un medico franco che disse: Costui non sa affatto curarli, e rivolto al cavaliere gli domandò: cosa preferisci, vivere con una gamba sola o morire con due gambe? e avendo quello risposto che preferiva vivere con una sola gamba, ordinò: conducetemi un cavaliere gagliardo e un’ascia tagliente. Vennero il cavaliere e l’ascia, ed io ero lì presente. Colui adagiò la gamba su un ceppo di legno e disse al cavaliere: dagli giù un gran colpo di ascia che la tronchi netto. E quegli sotto i miei occhi la colpì di un primo colpo e, non essendosi troncata di un secondo colpo. Il midollo della gamba schizzò via e il paziente morì. Esaminata quindi la donna disse: costei ha un demonio nel

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capo, che si è innamorato di lei; tagliateli i capelli. Così fecero e quella tornò a mangiare dei loro cibi, aglio e senape, per cui la malattia le aumentò. Il diavolo è entrato nella sua testa, sentenziò colui; e preso il rasoio le apri la testa a croce, asportandone il cervello fino a farne trasparire l’osso del capo, che colui strofinò col sale; e la donna all’istante morì. A questo punto io domandai: avete più bisogno di me? Risposero di no, e io me ne venni via, dopo aver imparato della loro medicina ciò che prima ignoravo.>>.

Interessante quindi notare due tipi di medicina, che di certo sono tutto tranne che simili data la formazione del medico arabo Tabit, che basava al centro della sua istruzione la teoria e l’equilibrio degli umori, che di certo suona più raffinata in confronto alla chirurgia occidentale dell’epoca, ma che comunque non si fondava su precetti scientifici efficaci. Del resto viene comunque da pensare all’eredità che gli antenati franchi lasciano all’occidente aldilà delle superstizioni, in quanto già dal medioevo iniziarono a studiare metodi chirurgici per trapanare il cranio in maniera risolutiva per curare determinate malattie o ferite. Forzando un po’ le cose ma neanche troppo, potremmo asserire che quei rozzi franchi siamo ancora noi, che non sanno guarire se non segando e tagliando come succede ancora oggi.

Usama continua la sua cronaca inserendoci aneddoti interessanti anche riguardanti la gelosia e l’onore dei franchi, che presenta quasi inesistente o in maniera perplessa e contradditoria. Racconta dunque: << Tra i franchi non c’è la minima forma di onore e gelosia. Se uno di loro va per la strada con sua moglie e un altro lo incontra, questi prende per mano la donna e si tira in disparte con lei per parlare, mentre il marito se ne sta da un lato aspettando che lei abbia finito di conversare e se la fa troppo lunga la lascia con il suo interlocutore e se ne va.>>, oppure un'altra storia sempre raccontata da Usama: << Un giorno un mercante cristiano tornò a casa e trovò un uomo con sua moglie nel letto, e questi gli domandò: cos’è che ti ha fatto venir qui da mia moglie ? Ero stanco, replicò colui e sono entrato qui per riposarmi. E com’è che sei nel mio letto? Ho trovato un letto fatto e mi sono messo a dormire. E questa donna dorme con te? Il letto è suo mica posso impedirgli di entrarci. Allora concluse il primo dicendogli: se lo farai nuovamente litigheremo.>>, Questa fu la massima espressione di gelosia che l’uomo ebbe a riguardo della questione. Tanta contraddizione per Usama è sorprendente, mi spiego, essi per lui non presentano il minimo segno di gelosia e di onore, ma al contempo hanno un coraggio da vendere in battaglia che di solito non nasce se non dall’onore stesso! Certamente una scena come quella prima descritta non si sa fino a quanto possa essere successa sul serio, ma al musulmano di quell’epoca forse piace vedere i franchi con quest’ottica, e sicuro l’aneddoto ci aiuta a capire il punto di vista islamico sui nostri antenati franchi. L’argomento è tanto curioso per Usama che ci torna su, raccontando che addirittura tanta spavalderia la presentavano anche nei bagni termali turchi, che frequentavano sovente, soprattutto non amando indossare un panno in vita e non mostrando un

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minimo segno di vergogna. Addirittura ci fu un caso dove il bagnino turco fu pagato da un cavaliere franco per farsi radere il pube in pubblico, e non contento ordinò a costui di adoperare il medesimo servizio a sua moglie. Per Usama la vicenda è scabrosa ma anche divertita, indice di quante dicerie i turchi avevano sui franchi.

Del resto Usama è anche affascinato da loro come spesso scrive nella sua cronaca. Nei tempi di pace Usama era solito visitare Gerusalemme e trattare in territorio cristiano. C’è una sua testimonianza riguardo la sua conoscenza con il re Folco di Gerusalemme, di cui ebbe una grande considerazione e lunghi dialoghi che considerava avvincenti, per esempio scoprì di avere in comune passioni popolari di quel tempo: la caccia, la falconeria, inoltre discussero di cavalli e delle loro diverse razze e infine ovviamente anche di guerra. Un’arte, la guerra, che questi due mondi distinguevano in diversi modi. Le tattiche dei crociati sui loro destrieri, in armature lucenti e lunghe armi sono apprezzate da Usama, che giudica la loro carica come irresistibile e la loro audacia interminabile. Usama inizia inoltre a scorgere differenze sulla figura del cavaliere, che studiando meglio, scopre di essere un rango elevato e di tutt’altra semplicità e affatto semplicisticamente riassumibile come un semplice guerriero. Per i franchi essere cavaliere assume una moralità ben precisa che Usama riesce a scorgere anche sulla figura dei templari, che considera addirittura degli amici con il quale ci si può conversare tranquillamente, ammirandone il rispetto per la propria cultura. Del resto vale la pena osservare una sua citazione riguardo il modo di combattere di costoro in relazione a quello dei Turchi: << Loro[turchi] credevano di spaventare la gente dei franchi con la minaccia delle loro frecce, come hanno spaventato gli arabi, i greci, i siriani, i saraceni, ma se a Dio piace non varranno mai quanto i nostri.>>, come per asserire una bella disputa con un avversario degno di lode. Poi completa con una nota molto interessante: << i turchi dicono di essere della stessa razza dei franchi, e che nessuno uomo merita di essere cavaliere se non loro e i franchi.>>, una razza quindi simile che affonda le radici su superstizioni lontane, delle quali i turchi sono fermamente convinti. Infatti Maometto II sostenne nel corso del suo impero, molto dopo le crociate, di sostenere le ipotesi di discendenza Turca dai Troiani, e di aver vendicato nel 1453 con la conquista di Costantinopoli i suoi antenati, sconfiggendo di fatti i greci (Bizantini) che conquistarono Troia nell’epica guerra di cui tutti conosciamo. Il collegamento è presto fatto, i Romani del resto discendono anch’essi dai Troiani come è noto, quindi una sorta di “parentela” tra i turchi e le popolazioni latine che arriveranno nelle Crociate c’è. Maometto II dichiarò infatti di essere il legittimo erede dell’impero Romano e inoltre assunse il titolo di basileus per legittimazione di quel vasto impero su cui pose la conquista e che ancora sulle basi di questi precetti andrà espandendosi.

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Fonti letterarie utilizzate per la relazione

-Le Crociate viste dagli Arabi; Amin Maaluf (editore francese J’ai lu)

- Benedette Guerre; Alessandro Barbero (Laterza editore)

-Il divano di Istanbul; Alessandro Barbero (Sellerio Editore Palermo)

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Andrea Raffaele Aquino – Filippo Vaccaro

Quarta Crociata: due prospettive a confronto Premesse

La quarta fu Crociata di rottura con le precedenti. È possibile dire ciò sulla base di più punti, primo su tutti il fatto che non arrivò in Terrasanta, e non è quindi neanche definibile tale, in quanto Crociata è detta una spedizione armata verso Gerusalemme (Jean Flori). In realtà, con gli esiti alla mano, questo giudizio critico sarebbe scontato, ma bisogna entrare nel vivo storico di quegli anni per comprendere che le premesse erano di tutt’altro tipo.

Uno storico che si imbatte nello studio della quarta Crociata trova testi anche molto dettagliati sugli avvenimenti (principalmente riassumibili in quattro fonti), ma nessuna lettura critica complessiva dei fatti. Robert de Clery, cavaliere di rango non elevato, si presenta come semplice cronista dei fatti. Niceta Coniate, bizantino che ne subisce gli esiti, ovviamente sa poco sulla direzione e sulla pianificazione. Innocenzo III, che con alcune epistole tenta di imporre direttive ai crociati, dimostra tutta la sua inadeguatezza militare soprattutto perché male e tardivamente informato. Goffredo di Villehardouin, che vedremo essere un po’ l’eminenza grigia dell’impresa, poteva ben conoscere tutti i dettagli, ma molto spesso sembra omettere informazioni che potrebbero essere fondamentali. Da questo nasce una vera e propria storiografia della quarta Crociata, che distingue principalmente chi ne descrive gli esiti nefasti come una irrazionale concatenazione di fattualità circostanziali ed errori umani e chi invece cerca di attribuirne la colpa a singole entità storiche come un Innocenzo III o un Enrico Dandolo. Un ultimo dato curioso è il fatto che non esistano autori veneziani che presentino gloriosamente l’avvenimento (era comunque una vittoria del dogato veneziano).

Il sogno di Innocenzo

Per introdurre la quarta crociata si può prendere come data di partenza l’8 gennaio 1198, giorno in cui Lotario dei conti di Segni sale al soglio pontificio con il nome di Innocenzo III. I primissimi tempi del suo pontificato furono caratterizzati da un rapporto pacifico con l’Impero; avendo ottenuto la restituzione dei privilegi dei Quattro Capitoli da Costanza d’Altavilla, reggente in Italia meridionale, promise di allevare suo figlio investendolo come re di Sicilia con il nome di Federico II. Una momentanea alleanza con Ottone di Brunswick, casata Baviera-Sassonia, garantiva una successione guelfa per l’impero, e quindi una nuova divisione tra il sud italia e i territori imperiali. Inoltre a Roma mise a tacere le dinamiche aristocratiche che al tempo si esprimevano con il Senato e limitavano l’esecutivo al pontefice: sostituì le più elevate cariche senatoriali e giudiziarie e diede un primo assaggio della sua concezione teocratica del potere. Già dall’inizio Innocenzo manifesta la sua capacità di utilizzare politicamente il concetto di crociata nell’episodio di Marcovaldo di Anweiler, pretendente alla reggenza di Federico II e intenzionato a frammentare i possedimenti pontifici nell’Italia centrale. L’idea del papa era quella di trasformare i conflitti politici della Chiesa in guerra santa. Probabilmente non lo capì Marcovaldo, che alleandosi con i musulmani di Sicilia fornì un motivo propagandistico molto efficace a Innocenzo. Con le forze di Gualtiero di Brienne (fratello di Giovanni che avrebbe sposato Maria del Monferrato) riuscì a sconfiggere Marcovaldo. Vedendo risolte nell’immediato le massime tensioni che avevano attanagliato il soglio pontificio nel corso del secolo, Innocenzo iniziò a pensare seriamente a dar vita al suo più grande sogno: riunire greci e latini sotto la Chiesa di Roma. (già prima di diventare papa, e in giovanissima età, intratteneva scambi epistolari con Manuele Comneno)

“Dopo la perdita di Gerusalemme, la Santa Sede di continuo ha chiamato i fedeli a vendicare l'ingiuria fatta a Gesù Cristo, scacciato dalla sua eredità. Uria non volle entrare nella sua casa, né veder la sua moglie,

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mentre l'arca del Signore era nel campo; ma ora i nostri Principi, in tanta pubblica calamità, s'insozzano d'illegittimi amori, di leziose morbidezze, abusando dei beni loro dati dal cielo e si perseguitano vicendevolmente con odi implacabili: e tutti volti a vendicare private ingiurie, non odono gli scherni dei nostri nemici che ci dicono:

Dove è il vostro Dio, che non può liberare sé medesimo dalle nostre mani? Noi abbiamo profanato il vostro santuario e i luoghi dove pretendete che la vostra superstizione sia nata; noi abbiamo spezzato le armi dei Franchi, degli Angli, dei Tedeschi ed abbiamo per la seconda volta domato gli orgogliosi Spagnoli; che ci rimane da compiere, se non cacciare quelli che voi avete lasciato in Siria, e irrompere poi nell'Occidente per spegnere il vostro nome e la vostra memoria?

Ah, mostrate, mostrate che il valor vostro non è ancora venuto meno; prodigate a Dio quello di che vi è stato liberale; se, in tant'uopo, negate di servire a Gesù Cristo, che scusa potrete addurne davanti al suo formidabile tribunale? Se Dio è morto per l'uomo, temerà l'uomo di morire per Dio? Ricuserà di dare la sua vita fugace e i beni caduchi della terra, al sovrano dispensatore della vita eterna?”1

Inoltre i Cristiani d’Oriente erano continuamente minacciati dai Turchi, avevano mandato nel ‘97 un’ambasceria che era però finita dispersa poco dopo. In Europa aveva ancora la croce Riccardo d’Inghilterra, ma non aveva intenzione di partire nuovamente, perché temeva che Filippo Augusto di Francia avrebbe strappato ancora qualcosa al suo dominio. I due re erano in conflitto tra loro ed era impensabile una partenza di entrambi, ma neanche di uno solo dei due. Il re di Germania era ora Filippo di Svevia, che dopo l’annullamento della spedizione di Enrico VI e la sua morte aveva visto rinascere il partito guelfo di Ottone, e non avrebbe lasciato le terre in balìa del giovane.

Si iniziò da subito a pensare ai finanziamenti. Furono poste delle cassette di elemosina in tutte le chiese d’Europa. Lo stesso Innocenzo fece fondere molti oggetti d’oro e metallo e ordinò che gli fossero serviti pasti in piatti di legno per tutta la durata della Crociata. Scrisse poi anche ad Amalrico II, re di Gerusalemme, rassicurandolo sulla prossima venuta degli occidentali, ad Isacco II per rimproverarlo di aver trascurato la causa. Il primo ordine al clero fu quello della predicazione per la ripresa di Gerusalemme, persa da ormai dieci anni. Il legato pontificio Pietro Capuano proclamò pubblicamente un’assemblea a Digione. Qui riuscì a pacificare i re di Francia e Inghilterra, al punto che re Riccardo promise di allestire un torneo dove avrebbe girato la proposta ai suoi Lord (ma morì poco dopo a Chalus). In Francia Filippo II era in ostilità con il papa; si era infatti rifiutato di riprendere in moglie la ripudiata Ingeburga, come aveva comandato il pontefice, e ne aveva seguito la chiusura forzata temporanea di tutte le chiese. In Francia c’era però Folco, vecchio parroco di Neuilly-sur-Marne, personaggio particolare con un oscuro passato e con un grande carisma. Davanti alle sue omelie c’era chi rideva e chi ne rimaneva ammaliato, e molto spesso veniva invitato a predicare nelle diocesi francesi. Nel linguaggio era molto semplice ed essenziale, evitava le sottigliezze e le imbellettature scolastiche, viveva una vera e propria vita “nel mondo”, partecipando ad assemblee cavalleresche e baronali e anche a eventi popolari. Molti lo definivano “la bocca dello Spirito Santo”. Dopo che Innocenzo furbamente gli ordinò la predicazione e Folco prese la croce, fu un attimo e in Francia tutti furono rianimati da un nuovo spirito crociato. Sulla scia di Folco furono molti altri a predicare in diverse zone d’Europa, come Martin Litz nel basso Reno. C’è anche da dire però che tutti questi oratori avevano cento anni di predicazione alle spalle e che ormai era difficile parlare con forme diverse da quelle già usate. Tutto era lasciato quindi alle soggettive capacità carismatiche, le quali pur entusiasmando le folle difficilmente attecchivano sui cavalieri.

Lo stesso Folco comprese ciò e alla fine del 1199 quando Tebaldo di Champagne indisse un torneo nel suo castello, si fece trovare prontamente sul posto e seppe velocemente far dimenticare il torneo e le giostre e mise in luce le afflizioni che colpivano Gerusalemme. [c’è qui da dire che i tornei non erano approvati dalla

1 Innocenzo III, Contemporary Sources for the History of the Fourth Crusade, Leiden 2000

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Chiesa, che li vedeva come manifestazioni della brutalità umana. Un torneo prevedeva l’esaltazione delle doti individuali e comunitarie, e sfociava con lo scontro simulato in arena di due piccoli eserciti (in media 200 unità) in cui era ovviamente vietato uccidere, ma dove poteva spesso capitare che qualcuno non ne uscisse vivo. Ovviamente per i cavalieri erano però momenti di grande celebrazione dell’entusiasmo guerresco e soprattutto crociato, infatti il tutto finiva con grandi feste dove non era raro sentire decantare la Chanson d’Antioche]. Nell’esplosione di euforia presero la croce anche Luigi di Blois e Goffredo di Villehardouin; alla compagnia di Tebaldo si sarebbe aggiunto nel febbraio 1200 Baldovino IX di Fiandra. Questi crociati si incontrano a Soissons in primavera e stabiliscono tra di loro una nuova linea d’azione. Sei fiduciari (tra cui Goffredo) vengono inviati quindi per negoziare con Venezia, l’unica che poteva armare una flotta ingente in poco tempo (Pisa e Genova erano in guerra tra loro). Il doge Dandolo acconsente a patto che si giunga alla ratifica di un contratto. Aprile 1201, l’accordo ufficiale è che Venezia fornirà navi per 4.500 cavalieri, 9.000 scudieri, 20.000 fanti per 85.000 marchi d’argento; “per amor di Dio” Dandolo avrebbe aggiunto di tasca propria 50 galere (in cambio della metà dei territori conquistati). Caparra 2.000 marchi. La data della partenza era fissata al 29 giugno 1202.

«Vi procureremo navi da trasporto per condurre 4500 cavalli e 9000 scudieri, con 4500 cavalieri e 20000 fanti egualmente a bordo. E acconsentiamo a fornire il cibo per tutti questi cavalli e uomini per nove mesi. Questo è il minimo che noi forniremo contro un pagamento di quattro marchi per cavallo e due marchi per persona. Tutte le clausole da noi offerte saranno valide per un anno dal giorno della nostra partenza dal porto di Venezia, per servire Dio e il mondo cristiano, ovunque ciò ci possa portare. Il costo totale di quello che è stato appena elencato ammonterà a 85000 marchi. E ciò che più conta, forniremo, per amore di Dio, 50 galere armate, a condizione che, fin quando durerà la nostra alleanza, potremo beneficiare della metà di tutto quanto conquisteremo per terra e per mare, e voi avrete l’altra metà. Ora sarete in grado di decidere se avete la volontà e i mezzi per procedere oltre.»2

Veneziani: Crociati a contratto

I Veneziani avevano alcuni precedenti in merito alle crociate, ma inizialmente non si erano mai presentati come dei veri ed entusiasti difensori della cristianità. Nel 1099, dopo aver assistito con passività agli ingenti successi commerciali delle rivali Pisa e Genova, fu inviata da Venezia la più grande flotta mai salpata dall’Italia verso Oriente. L’anno dopo fu a Giaffa per sostenere Baldovino, ma non senza una ricompensa: privilegi commerciali nei domini del re. Dieci anni dopo fu nuovamente chiamata in aiuto nella conquista di Sidone, e di nuovo ebbe qualcosa in cambio, concessioni sempre di tipo commerciale nella contea di Acri. Nel ’22 è allestita una nuova flotta di 100 bastimenti e 15.000 uomini, con a capo il doge stesso (Domenico Michiel) che issa sulla sua ammiraglia il vessillo di San Pietro. Adesso i Veneziani sembrano tenere davvero alla difesa della Terrasanta, ma questo atteggiamento apparentemente incoerente si spiega solo alla luce del ritiro da parte di Giovanni II Comneno dei privilegi commerciali nell’Impero d’Oriente. In realtà erano quindi mossi da un sentimento di vendetta nei confronti dei greci. Dopo l’assedio di Corfù (di passaggio) liberano Baldovino ad Ascalona, ottengono un quartiere (esentasse) in ogni città del regno latino di Gerusalemme. Ripartono subito e nel ritorno saccheggiano altre isole greche (Rodi, Chio, Samo, Lesbo). Alle altre crociate (II e III) presero le parti di trasportatori e finanziatori di navi da carico.

Il debito

Gli accordi proseguirono anche privatamente tra i crociati nobili e il doge, e fu stabilito nei mesi successivi un punto di svolta nella campagna. La prima tappa della spedizione sarebbe stata Alessandria d’Egitto. Il

2 Goffredo di Villehardouin, Histoire de la conquete, trad. it. F. Garavini, Milano 1988

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controllo della costa avrebbe garantito all’esercito crociato una più vasta e compatta egemonia. Inoltre dopo la morte del Saladino i domini da lui riuniti erano stati frammentati in più unità, generando dei vuoti di potere. In passato già Amalrico di Gerusalemme aveva tentato la presa d’Egitto, dopo di lui i siciliani avevano attaccato la città di Alessandria nel ’74, e infine Riccardo d’Inghilterra stesso suggeriva una spedizione verso il Nilo prima di raggiungere la Terra Santa, ma non fu poi ascoltato da coloro che erano impazienti di arrivare a Gerusalemme.

La stima di reclutamento dei crociati fu più alta del numero effettivo dei partecipanti, le cifre di crociati promesse superavano di gran lunga persino quelle ottenute da Federico Barbarossa nell’89 (lì furono intorno ai 15000, ma Federico era un noto imperatore carismatico, ora si parlava di semplice nobiltà feudale). Da ciò derivò un pesante indebitamento con la Repubblica. Inoltre la morte di Tebaldo al ritorno della legazione da Venezia impose la scelta di un nuovo capo carismatico. Fu preso in questo ruolo Bonifacio del Monferrato, legato alla Terrasanta attraverso i due fratelli (Guglielmo, marito di Sibilla e padre di Baldovino V, e Corrado, re di Gerusalemme fino alla morte nel 1192) e il cui padre aveva combattuto crociato insieme a Corrado III e Federico I. Prese la croce nel settembre 1201 da Folco di Neuilly a Soissons e prima di unirsi ai crociati a Venezia passa il Natale ad Hagenau alla corte di Filippo di Svevia. Qui incontra Alessio Angelo (imparentato con lo svevo mediante sua sorella Irene), in fuga dallo zio usurpatore (anch’egli di nome Alessio). Ad Alessio, il giovane, balena in mente l’idea di sfruttare i crociati per riappropriarsi di Costantinopoli. Filippo è a favore, ma non avrebbe potuto lasciare la Germania vista la tensione che stava riaccendendo lo scontro con i guelfi di Ottone di Brunswick.

Alessio si reca anche a Roma per dialogare sull’idea con il pontefice, che non vede di buon occhio le richieste del giovane principe greco, tanto da ribadire il suo totale dissenso anche a Bonifacio, quand’egli si recherà a Roma in primavera prima di riunirsi con gli altri a Venezia. (è da ricordare che il padre di Alessio, Isacco II Angelo, spodestato nel ’95, era lo stesso che a sua volta aveva usurpato l’impero durante la dinastia dei Comneni e che aveva ostacolato la III crociata attaccando Federico Barbarossa durante la discesa e alleandosi con il Saladino).

Nella Pasqua del 1202, quando i cavalieri cominciarono a convenire nella Repubblica, il problema del debito viene effettivamente a galla. Un solo terzo dei crociati previsti si era presentato. Viene organizzata anche una colletta per ripagare i veneziani che comunque avevano allestito in poco tempo una flotta che era pronta per salpare, ai quali era stato promesso il versamento prima della partenza e che avevano al momento le finanze in rosso. Chi poté si pagò da solo il passaggio e furono ricavati dalla colletta altri 30.000 marchi. Il debito ammontava perciò ora a 34.000 marchi d’argento.

“Signori, vi siete comportati male con noi: infatti, appena i vostri messi ebbero concluso il contratto con me e la mia gente, io ordinai per tutta la mia terra che nessun mercante andasse a fare commerci, ma contribuisse all’allestimento di questa flotta: e da allora i veneziani si sono costantemente impegnati in questo compito senza guadagnarci nulla per più di un anno e mezzo. Anzi, ci hanno perso molto. Per questo motivo pretendiamo che voi ci paghiate quanto ci dovete. In caso contrario, sappiate che non vi muoverete da quest’isola prima di averci pagati, né troverete chi vi porti da bere e mangiare” (Enrico Dandolo)

È in questo momento che emerse la grandissima capacità diplomatica del doge. Convinse i crociati, che erano anche stanchi dopo l’estate passata in attesa della partenza, a dirottare, per dilazionare il debito dovutogli, verso Zara, città che si era liberata da poco dall’egemonia veneziana ed era stata annessa al re d’Ungheria. Il legato pontificio Pietro Capuano sapeva che il papa non avrebbe approvato e ignorò molte sue lettere che minacciavano di scomunica l’intera spedizione, probabilmente in questo momento comprendeva il grande dilemma che affliggeva i crociati e soprattutto la stanchezza dopo mesi di inattività.

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In settembre si celebrò una grandiosa manifestazione della stessa portata di quella che si tenne nel 1122 al tempo di Domenico Michiel. Tra l’euforia della gente il doge promise di guidare egli stesso la spedizione e in San Marco pianse quando gli fu cucita la croce non sul petto, ma sul cappello dogale. Era evidente che i veneziani avevano ormai preso saldamente in mano la guida della Crociata. Chi lo capì lasciò la compagnia in quello stesso momento.

Enrico Dandolo e Realpolitik

Nasce a Venezia nel 1107, dalla grande famiglia del confino di S. Luca. Le prime testimonianze della sua attività risalgono agli anni ’70, quando ricopre mansioni di alta ambasceria. Oltre ad essere alla corte di Manuele Comneno sia nel 1172 con Filippo Greco che nel 1184 con Domenico Sanuto, è anche ad Alessandria nel ’74 per riscuotere un prestito marittimo e nel 1178 a Venezia tra gli elettori di Orio Mastropietro. Le due esperienze Costantinopolitane sono le più importanti, con le quali si conquista fama a livello Mediterraneo. Tuttavia nel 1183 accade qualcosa di interessante: lascia tutte le sue attività mercantili (impiego che supponiamo quindi averlo occupato fino ai settant’anni) alla moglie Contessa e al fratello Andrea, giustificandosi con un “sicut egomet facere deberem”. Deve essere successo qualcosa che gli impedì di proseguire queste attività, e sicuramente questo fu la cecità. Questa è attestata anche dalle grandi fonti della quarta crociata, come Niceta o Goffredo di Villehardouin. “era vecchio, gli occhi del suo viso erano belli, e tuttavia non ci vedeva per una ferita ricevuta alla testa”. Questa testimonianza, e anche quella del fratello Andrea che lo vuole diventato cieco in quel famoso 1172, quando alla corte costantinopolitana avrebbe osato contraddire il basileus in persona, hanno contribuito all’affermazione di un doge “martire” per la patria, e quindi a una forte sacralizzazione della sua figura probabilmente anche determinante per gli avvenimenti futuri. In ogni caso è poco probabile che Dandolo sia stato cieco dal 1172, dato che come già detto nel ‘74 è ad Alessandria a firmare la restituzione del prestito, e poi anche nel ‘78 non avrebbe potuto partecipare all’elezione dogale. Nell’ ‘83 però firma un atto di procura generale con la tipica sottoscrizione di chi non sa o non può scrivere. Dunque la perdita della vista è da datare tra il ‘78 e l’ ‘83.

Rimane quindi fortemente enigmatica la sua elezione al dogato, visto che tra l’altro se si escludono le missioni diplomatiche non era mai stato segnalato per grandi imprese; non viene tra l’altro mai citato neanche in documenti privati. La famiglia nobile aveva avuto esponenti di spicco, soprattutto in cariche giudiziarie (il patriarca Domenico e i suoi figli Enrico, Vitale e Pietro). Difficile è capire come si collocassero Enrico e suo fratello Andrea all’interno di questa genealogia, visto che come già detto sono esclusi dalla maggior parte dei documenti. Questo dato (unito al fatto che nulla sappiamo di Enrico prima delle sue legazioni) potrebbe indurci a pensare che risiedette stabilmente proprio a Costantinopoli nella prima (grande) parte della sua esistenza. Tanto è vero che nel 1203, quando sarà in vista della città, affermerà “Signori, io conosco più di voi lo stato di cose di questo paese, perché ci sono stato altre volte”. Questo spiega anche perché proprio lui fu inviato a Costantinopoli (dopo che ne era quindi stato cacciato) e perché gli interessasse tanto una tregua con i Comneni (dopo che le tensioni gli avevano impedito di proseguire l’attività mercantile nella capitale bizantina).

Resta da capire come un vecchio cieco sia potuto diventare doge della Repubblica. A Venezia erano nati dei veri e propri partiti politici di portata “familiare”, e la carica dogale era determinante nello stabilirne la predominanza. Era quindi interesse delle famiglie che avevano già in mano il comune svuotare di importanza questa carica, optando per l’elezione di personaggi incolore e senza grandi velleitarie aspirazioni. Il candidato più “popolare” nel ‘92 era Pietro Ziani, uno stans ante litteram, quindi un personaggio che aveva forti interessi privati e che avrebbe favorito per ovvi motivi i “suoi mercanti”. Davanti a lui si presentava Enrico Dandolo, che come già detto aveva sempre lo sguardo rivolto verso l’impero, e poteva benissimo rappresentare anche la classe dei mercanti (della quale egli stesso faceva

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parte), maggiormente colpita dalle ostilità con l’Oriente. Ma anche l’aristocrazia poteva appoggiarlo, vedendo in lui probabilmente un potere debole, in quanto era anziano e cieco. Tentò infatti da subito di limitarne l’esecutivo mettendolo alla dipendenza dei Consigli e garantendosi da subito una Promissio. Tutto ciò entra però fortemente in contrasto con quella che fu poi un’imperiale politica estera, ma anche una carismatica gestione degli affari interni. Riformò l’economia coniando la prima moneta d’argento veneziana, il diritto revisionando i precedenti codici e emanando il Parvum Statutum e i rapporti con i potentati locali stringendo accordi con Verona, Treviso, Pisa e Aquileia. Gli si attribuirono tra l’altro poteri quasi divini e taumaturgici (da considerare però è il fatto che l’Historia Ducum Venetorum si scrivesse proprio per duces, e che quindi abbia probabilmente attribuito a lui meriti di altri). Nonostante il grande carisma che poteva far emergere la figura del doge, la Repubblica era un’istituzione collegiale e i Consigli avevano molta più influenza. Nel 1201, quando riceve l’ambasciata di Villehardouin, il doge sposa da subito la causa dei crociati, ma afferma di non poter sottoporre la questione al Maggior Consiglio prima che passassero tre giorni. Dopo di che il Consiglio si prenderà altri otto giorni per deliberare e una volta presa la decisione verrà comunque annunciata in piazza San Marco per osservare la reazione del popolo veneziano. Ecco come una Repubblica di tipo oligarchico ha il bisogno di mascherare dietro a una figura imperiosa, un’immagine sicura e un nome che dà molto l’idea di coordinazione (“Serenissima”) le moltissime tensioni al vertice che la caratterizzano. Villehardouin tende ad esaltare la figura del doge-condottiero, da contrapporre al disfattismo dei soldati, ma è ovvio che questa presentazione ha dei limiti a livello storico data l’età e la cecità di Dandolo, al quale tra l’altro sono attribuiti molti meriti di guerra che invece sarebbero spettati ad altre figure veneziane. Robert de Clery, anch’egli estimatore della figura del doge, segnala anche il grande apporto di tutti i veneziani, e non di Dandolo come leader. In finale, dopo la presa di Costantinopoli e l’insediamento dei veneziani-crociati nei luoghi conquistati, Dandolo uscirà silenziosamente di scena; la morte del doge non sarà seguita da nessuna gloriosa funzione nella Laguna, e, ciò che più conta, il nuovo doge eletto sarà Pietro Ziani, l’acerrimo rivale di Dandolo. È evidente come la fiducia data dai ceti al potere a Venezia si sia sentita tradita da un tentativo di gloria personale e privata. Per questo nessuno a Venezia parlò gloriosamente della crociata, vedendola come una rottura di quella “serenità” equamente bilanciata, provocata da un personaggio e dalla sua voglia di mettersi in vista.

La presa di Zara

L’8 ottobre la flotta salpa alla volta di Zara. “mai prima d’allora s’era udita tanta gioia, né s’era vista un’armata più possente”. (Robert di Clery). Era composta da 370 navi (70 navi tonde + 120 arsilii + 127 galere per i crociati + 50 galere da guerra veneziane). Dopo aver sottomesso Trieste, l’armata arriva a Zara. I soldati approdano il 10 novembre, subito vengono inviate ambasciate zaratine per evitare l’attacco frontale, ma i crociati le respingono e in cinque giorni d’assedio prendono la città. Subito si manifestano dei dissidi interni, Simone di Montfort abbandona l’esercito (“non sono venuto a uccidere dei cristiani”), un sacerdote del suo contingente legge pubblicamente le lettere di Innocenzo nascoste da Capuano. Il pontefice si rende conto di aver perso totalmente il controllo della spedizione e scomunica tutti i partecipanti. Una legazione viene mandata a Innocenzo III con l’intenzione di suscitare comprensione e perdono. Ai crociati viene annullata la scomunica, mentre permane sui veneziani.

“Attenti, il vostro oro si è trasformato in vile metallo e il vostro argento è quasi completamente arrugginito poiché, allontanandovi dalla purezza della vostra impresa e lasciando il sentiero giusto per una strada impraticabile […] invece di affrettarvi verso la terra dove scorre latte e miele, avete deviato, perdendovi nella direzione del deserto”3

Fu importante in questo frangente la mediazione del legato Pietro Capuano, che riesce a passare sotto banco la cosa e non pubblica la bolla, intuendo che un’azione del genere avrebbe diviso l’esercito e

3 Innocenzo III, Contemporary Sources for the History of the Fourth Crusade, Leiden 2000

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compromesso la crociata. Tutti ormai sposavano la Realpolitik di Dandolo. Bonifacio giunse a Zara dopo il sacco: non sappiamo cosa l’avesse trattenuto.

“L’incapacità dei francesi di rispettare il contratto, unita alla minaccia dei veneziani di ritirare le loro navi, significava la vittoria del pragmatismo” (Jonathan Phillips)

Le due Venezie: per concludere, si può dire che tra il 1202 e il 1205 si è avuta la compresenza di “due Venezie”. La prima, fissa, immobile, ancorata a Rialto; la seconda, dinamica, gloriosa e concreta, in movimento verso una nuova sede. Il miraggio di questa nuova Venezia spinse anche a dimenticare quella da cui si era partiti. Tanto che alla morte di Enrico Dandolo i veneziani di Bisanzio proposero un proprio successore senza neanche consultare il Maggior Consiglio, e le figure di spicco della flotta tentarono di dare vita a domini privati sulla scia di questo fervente separatismo. Tant’è vero che nessuna territorialità fu assegnata al Comune, ma la quarta parte e mezzo del nuovo impero fu direttamente devoluta al doge e ai suoi, momentaneamente disinteressati alle politiche della Laguna (non dimentichiamo che Enrico Dandolo aveva probabilmente trascorso la maggior parte della sua vita a Costantinopoli). Dopo la morte di Dandolo, le sue spoglie furono collocate a S. Sofia (la chiesa dei veneziani a Bisanzio) – tutti portavano a casa bottini, ma nessuno riportò a Venezia i resti del vero protagonista della crociata. Forse proprio per queste tensioni interne l’autore dell’ Historia Ducum Venetorum si limita a lodarne la “maxima probitas”: era un doge in buona fede (non poteva condannarlo) mentre con i suoi andava alla conquista di un impero del quale non fu poi neanche imperatore.

Filippo Vaccaro

Dal saccheggio di Zara alla proposta del principe

Nonostante la brutalità profusa nell’assedio di Zara alla ricerca di bottino, i proventi derivanti dal saccheggio non furono sufficienti per ripagare in toto il debito crociato ai Veneziani. L’incapacità di risolvere tale problema, unita all’ostilità papale verso una spedizione che il pontefice faticava a controllare, al sopraggiungente inverno e alla lentezza della marcia verso la Terrasanta creava una pericolosa situazione di impasse, la quale metteva a serio rischio la buona riuscita della IV Crociata, per la seconda volta in pochi mesi. I capi crociati presero la decisione di trascorrere la stagione fredda dell’anno 1202 accampati fuori dalla città di Zara, riproponendosi di salpare per la Terrasanta in primavera, per evitare di incrociare pericolose tempeste nell’Adriatico e per guadagnare tempo utile all’acquisizione del denaro spettante ai Veneziani. Poco prima che l’anno finisse giunse all’accampamento crociato un’ambasceria del principe Alessio Angelo, legittimo erede (de jure, ma non de facto) al trono di Costantinopoli, il quale, venuto a conoscenza delle difficoltà in cui versavano i crociati, approfittò per formulare loro una proposta interessante, di cui siamo a conoscenza grazie a Goffredo di Villehardouin:

«Poiché avete lasciato la patria per la causa di Dio, del diritto e della giustizia, è vostro dovere, se siete in grado di farlo, restituire l’eredità a coloro che ne sono stati ingiustamente privati […]. Se Dio vi permetterà di restaurare Alessio sul trono che gli spetta per diritto ereditario, egli metterà tutto il suo impero di Bisanzio al servizio di Roma, da cui in passato è stato separato. Inoltre, sa bene che avete speso il vostro denaro e che ora siete poveri. Vi darà quindi 200.000 marchi d’argento e approvvigionamenti per tutto l’esercito, sia per i grandi uomini che per i sottoposti. Verrà con voi personalmente nella terra d’Egitto, accompagnato da 10.000 uomini (o li manderà a sue spese, se pensate che sia meglio). Vi fornirà questo servizio per un anno. E per tutta la sua vita manterrà a sue spese 500 cavalieri nella terra d’oltremare»4

4 Goffredo di Villehardouin, Histoire de la conquête de Constantinople, trad. it. a cura di E. Garavini, Torino 1962, poi Milano 1988

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Tale proposta si configura come appositamente preparata per compiacere i personaggi in grado di poter deviare la spedizione verso l’Impero Bizantino. In cambio della restituzione del trono di Bisanzio, Alessio offre: argento e approvvigionamenti utili per mantenere l’esercito crociato in terra straniera e, in più, 10000 uomini in supporto di esso, per convincere Bonifacio del Monferrato, di cui conosciamo le pretese dinastiche in Terrasanta; una guarnigione stabile di 500 cavalieri in Terrasanta, mantenuti da Costantinopoli e la riconciliazione tra le due Chiese per convincere papa Innocenzo III. Enrico Dandolo era attirato dalla prospettiva di avere sul trono di Bisanzio un imperatore che fosse “in debito” coi Veneziani, contando di poter da lui ottenere benefici per i veneziani residenti nel quartiere di Galata, nella città imperiale. Per giunta, Alessio Angelo prospettò la spedizione verso Costantinopoli come una semplice formalità, giacché, stando alle parole del principe, sarebbe bastata la sola vista del legittimo erede al trono (Alessio appunto) affinché i costantinopolitani cacciassero l’usurpatore.

I principali artefici della Crociata si convinsero ben presto ritrovando anche l’intesa tra di loro. Il papa impose la deviazione a Costantinopoli ordinando di procedere, in seguito, congiuntamente, verso Gerusalemme. Non tutti però accettarono di buon grado tale decisione. Un gruppo di crociati, guidato da Simone di Montfort, già contrario all’assedio della cristiana Zara, scelse di distaccarsi dal grosso dell’esercito e di raggiungere la Terrasanta direttamente. Innocenzo III ritirò la scomunica a tutti i crociati, tranne i Veneziani, che non si mostrarono pentiti della disubbidienza, e fece giurare a tutti di comportarsi correttamente in terra cristiana e di impegnarsi a non violare le proprietà dei cristiani a meno che non si fosse presentata una causa giusta o necessaria. Quest’ultima clausola fornì una scappatoia per giustificare ciò che accadde in seguito.

A Bisanzio: gli Angeli imperatori

Appare utile, a questo punto, cercare di delineare almeno i contorni della complicata situazione imperiale a Costantinopoli. Nel 1202 sedeva sul trono Alessio III Angelo, un uomo di cui le fonti ci dicono poco per quanto riguarda la sua vita prima dell’incontro/scontro coi crociati. Sappiamo che il capostipite della sua dinastia fu Costantino Angelo, ufficiale di marina di stanza a Filadelfia che riuscì a sposare la figlia dell’imperatore Alessio I Comneno, dando l’avvio ad una progressiva scalata sociale per sé e i suoi parenti, che toccherà l’acmè nel 1185, quando Isacco Angelo, approfittando di una rivolta popolare contro il basileus Andronico I Comneno, si appropriò del potere imperiale. La politica di Isacco II fu assai ambigua e contribuì a deteriorare ancor di più i rapporti coi sovrani cattolici. In più occasioni, difatti, egli si schierò, apertamente o non, col Saladino, cercando di sabotare le operazioni militari cristiane in Terrasanta (e la sua ostilità col Barbarossa né è la prova lampante), tanto che, poco prima della mobilitazione crociata del 1202, il giovane Alessio, che di Isacco era figlio ed erede, si sentì dire da Innocenzo III che, forse, l’imperatore col suo comportamento si era meritato la punizione esemplare che stava scontando. Nel 1195 infatti fu accecato (secondo le leggi bizantine un cieco non avrebbe potuto regnare), scalzato dal trono ed imprigionato ad opera del suo stesso fratello, che assunse il nome di Alessio III. Il giovane Alessio era riuscito a fuggire e a raggiungere l’Italia e la Germania, da dove si muoveva costantemente in cerca di un sostegno militare e politico per riprendersi la legittima eredità usurpata. Vi riuscirà, grazie all’appoggio dei crociati, nel 1203, ma il suo regno sarà brevissimo e, dopo il 1204, gli Angeli persero la corona, pur conservando una potenza militare non indifferente, come vedremo.

Le origini dell’odio antilatino

Dopo una breve tappa a Corfù, dove furono raggiunti dal principe Alessio, i crociati salparono nel maggio 1203 in direzione di Costantinopoli. Possiamo solamente immaginare le sensazioni di meraviglia e allo stesso tempo di sgomento di francesi e veneziani davanti ad una città che, al tempo, contava circa 350000 abitanti, 7 volte quanto le maggiori città “europee” (Parigi, Roma e le città mercantili italiane raggiungevano, forse, 50000 abitanti), ben fortificata attraverso le massicce mura teodosiane, con una doppia cinta muraria invalicabile sul lato terra e una sola cinta sui lati che si affacciano sul mare. La pessima

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accoglienza che i costantinopolitani riservarono al giovane Alessio (preso a sassate e insultato mentre sfilava innanzi alle mura) cancellarono ogni speranza di resa pacifica della città, con cui il principe aveva convinto i crociati. D’altra parte, il basileus de facto Alessio III faceva leva su un diffuso odio antilatino per far credere ai propri sudditi che Alessio il giovane, in combutta col papa, volesse privare i greci della propria libertà e sottometterli al pontefice. Si è molto discusso circa le origini di queste tensioni tra bizantini ortodossi e franchi cattolici, forse riconducibili ad un sempiterno sentimento di superiorità dei primi nei confronti dei secondi, avvertiti come barbaroi; forse all’incoronazione di Carlo Magno, con la quale viene fondato un altro impero, in contrapposizione con quello di Bisanzio, per giunta più cristiano e gradito al papa di esso; forse allo Scisma d’Oriente del 1054, che però potrebbe essere sia causa che conseguenza di tale ostilità. Ad ogni modo, sembra che già durante la prima crociata, un sentimento di diffidenza reciproca fosse largamente sviluppato tra le due parti. Ce ne dà testimonianza un passo dell’Alessiade di Anna Comnena, un’opera che l’autrice, figlia dell’imperatore Alessio I Comneno, scrisse dopo la morte del padre in forma biografica e che riflette una visione degli avvenimenti piuttosto faziosa, giacché ella era esponente di spicco del partito anti-occidentale:

«Alessio non ebbe neppure il tempo di riposarsi un poco che gli giunsero voci sull’avvicinamento di uno sterminato esercito franco. La notizia intimorì non poco l’imperatore, che conosceva l’impeto irrefrenabile di quella gente, la loro natura volubile, facilmente influenzabile, e tutte le altre caratteristiche dei Celti, con le relative, logiche conseguenze; un popolo che stava sempre a bocca aperta davanti alla ricchezza, e alla prima occasione infrangeva disinvoltamente i trattati. Un comportamento di cui aveva sempre sentito parlare e si era pienamente accertato. Ma non si lasciò scoraggiare e si accinse ai vari preparativi: così, se la situazione lo avesse richiesto, sarebbe stato pronto alla battaglia […]. In effetti, la gente più semplice era davvero spinta dal desiderio di visitare i Luoghi Santi, mentre gli individui peggiori celavano ben altri propositi nel loro intimo, e cioè di riuscire a impadronirsi, durante il passaggio, addirittura della città imperiale di Costantinopoli»5

Non sappiamo se ciò corrisponde davvero al pensiero di Alessio I, ma il passo (piuttosto profetico) ci testimonia l’esistenza di un nutrito partito ostile agli occidentali già all’epoca della I crociata, o qualche anno dopo. I bizantini, del resto, guardarono sempre con sospetto al fenomeno delle crociate, che certamente permisero all’impero di allungare la propria esistenza, ma allo stesso tempo ne misero in serio pericolo l’assetto politico in primis e religioso in secundis. Dopo la Prima, anche la Seconda e la Terza Crociata furono viste negativamente dai bizantini, che in alcuni casi giunsero a boicottarle e questo mancato aiuto (specialmente per quanto riguarda gli approvvigionamenti) che i cristiani orientali non prestarono ai correligionari fu alla base del fallimento complessivo del fenomeno delle crociate. Uno scontro frontale tra i due schieramenti era ormai nell’aria da alcuni anni, anche se pochi avrebbero potuto immaginare che si sarebbe svolto in circostanze così particolari e che avrebbe procurato così tanti danni ad una delle due parti.

Questi precedenti ci aiutano a comprendere il motivo per il quale la propaganda antilatina di Alessio III funzionò alla perfezione e costrinse i crociati ad un pericoloso attacco frontale, in una situazione di penuria di viveri e inferiorità numerica rispetto al massiccio esercito di Costantinopoli.

La prima presa della città (1203)

Dopo l’accoglienza fredda che i costantinopolitani riservarono al proprio principe, apparve subito chiaro che la città sarebbe stata assediata dalle truppe crociate, spaventate dalla grandezza delle mura, ma incitate dal proprio leader Enrico Dandolo, che, ultranovantenne e cieco, guidò personalmente l’attacco.

La prima presa di Costantinopoli si svolse fondamentalmente in due fasi distinte e per comprendere il motivo di tale scelta dobbiamo soffermarci sulla geografia della città. Bisanzio sorge sulle rive dello stretto

5 (Anna Comnena, Alessiade, X 5-6)

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del Bosforo divisa in due parti dal Corno d’Oro, un estuario preistorico invaso dal mare: l’antica Bisanzio a sud, la colonia genovese-veneziana di Pera-Galata a nord. Il lato debole di tale roccaforte era proprio il Corno d’Oro, meno fortificato ma, in casi di assedio come questo bloccato alla navigazione con una grossa catena. Il 4 Luglio 1203 i crociati attaccarono Pera-Galata dal Bosforo e, dopo aver conquistato la Torre di Galata, la principale struttura difensiva della zona, rimossero la catena per consentire alle proprie navi di accedere allo stretto e di sbaragliare facilmente la flotta bizantina. I soldati imperiali, forse mal comandati o seguendo ordini poco chiari, erano progressivamente arretrati invece di affrontare il nemico a viso aperto nel momento di sua maggior vulnerabilità, l’approdo. Ben presto però, indecisi sulla mossa successiva, i crociati si videro mancare i viveri per proseguire l’assedio e così, il 17 luglio, scagliarono un attacco disperato alla città, guidati, secondo Goffredo di Villehardouin da Enrico Dandolo, che combatté alla testa delle sue truppe contro la Guardia Variaga. Complice un incendio che si propagò nella città e una politica militare ambigua di Alessio III, che opponeva resistenze tardive agli attacchi, i crociati continuarono ad avanzare e, per paura di essere sopraffatto, Alessio III si ritirò coi suoi uomini. Un errore imperdonabile, come nota lo storico Jonathan Phillips, poiché sarebbe bastato riuscire a resistere per un altro paio di giorni prima che i crociati finissero definitivamente i viveri e fossero costretti ad abbandonare il campo. Invece la ritirata inferse un colpo durissimo al morale dei difensori, tanto che, nella notte tra il 17 e il 18 luglio 1203 Alessio III fuggì ad Adrianopoli, in Tracia, portando con sé l’intero tesoro imperiale. Niceta Coniate dice di Alessio III: “E’ come se avesse fatto di tutto per ridurre la città alle sue semplici spoglie, per portarla alla rovina a dispetto del suo destino ed accelerarne la distruzione”6.

La mattina del 18 luglio i dignitari bizantini, temendo saccheggi e stragi, liberarono il cieco Isacco II e lo restaurarono sul trono, affinché potesse intercedere col figlio e accordarsi su una pace non troppo gravosa.

Alessio fu eletto co-imperatore col nome di Alessio IV e i crociati, che dopo aver onorato la propria parte di accordo attendevano le ricompense promesse, si accamparono a Galata e visitarono la città come pellegrini scoprendo l’esatta posizione delle reliquie ma soprattutto dei tesori che la città celava.

Il mancato rispetto delle promesse

Isacco II accolse con molte perplessità la notizia dell’accordo stipulato a Zara dal figlio con i crociati, nella convinzione, da uomo esperto qual era, che rispettare tutte le clausole dell’accordo nell’immediato sarebbe stato impossibile per una serie di motivi collegati tra di loro. I crociati pretendevano anzitutto l’argento promesso, risorsa di cui i due imperatori non disponevano, a causa del furto di Alessio III, il quale, è bene ricordarlo, continuava a controllare tutto l’impero ad esclusione della capitale Costantinopoli. Si decise dunque di promuovere una spedizione contro la città di Adrianopoli, a cui presero parte lo stesso Alessio IV e alcuni capi crociati, per sconfiggere definitivamente l’usurpatore e poter estendere l’autorità dei due basileis per tutto il territorio imperiale (e quindi potervi imporre tasse). Nel frattempo a Bisanzio Isacco II aveva forzatamente cominciato a pagare gli alleati, prima con ciò che rimaneva del tesoro imperiale, poi con beni confiscati al Clero Ortodosso e fusi, comportamento che inasprì le tensioni. Sulla possibile riunificazione delle due Chiese Alessio IV fece un passo indietro affermando: “eserciteremo, con prudenza e con tutto il potere di cui disponiamo, la nostra influenza sulla Chiesa d’Oriente a tal fine”7, dichiarazione che lasciava trasparire una certa debolezza del nuovo imperatore. Riassumendo, possiamo parlare di quattro problematiche che i due imperatori dovettero affrontare e che impedirono di onorare le promesse fatte a Zara:

• La presenza «ingombrante» dei crociati a Costantinopoli, che impedivano agli imperatori diprendere decisioni in autonomia.

• La presenza di Alessio III all’interno del limes imperiale (Adrianopoli, Tracia).

6 Niceta Coniata, Chroniké Dieghesis 7 Lettera di Alessio IV a papa Innocenzo III, Contemporary sources cit., p.79

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• La necessità di ottenere denaro per ottemperare alle promesse di Zara.

• La debolezza interna dovuta alla scarsa popolarità del nuovo imperatore.

L’incapacità di risoluzione di tali problemi determinò l’esplosione di tensioni vecchie e nuove, che si tradussero in scontro aperto.

Nuove tensioni

L’evento che fece scoppiare la miccia tra le due fazioni fu alquanto singolare. Accadde infatti che i crociati, indispettiti dalla situazione di stallo che si stava profilando e venuti a sapere della presenza di una moschea nella cristiana Costantinopoli, sulla riva del Corno d’Oro, edificata per suggellare gli accordi tra Isacco II e Saladino, la assalirono cercando di darla alle fiamme. Alla minoranza musulmana di Costantinopoli venne in aiuto una buona parte della maggioranza ortodossa in nome di quell’odio antilatino di cui abbiamo fatto qualche accenno. Dai tafferugli sviluppatisi come conseguenza degli scontri divampò un pernicioso incendio che distrusse una parte considerevole della città. A questo punto, con Alessio IV ancora in Tracia e una situazione di guerra civile interna, Isacco II prese la decisione di tutelarsi contro possibili insurrezioni riallacciando l’alleanza col Clero Ortodosso con la promessa di sospendere le requisizioni ecclesiastiche e quindi i pagamenti ai crociati. Il ritorno di Alessio IV sconfitto, o meglio, incapace di sconfiggere il proprio avversario e di imporre la propria autorità nell’Impero, esacerbò le tensioni. I crociati pretendevano ciò che era stato pattuito a Zara ma Alessio IV s’illudeva di trovarsi in una posizione privilegiata giacché i crociati non sarebbero potuti salpare verso l’Egitto privi degli approvvigionamenti che solo il basileus di Bisanzio poteva concedere loro.

Goffredo di Villehardouin venne scelto, con altri diplomatici, per rappresentare i crociati innanzi ad Alessio IV e ad Isacco II. Di fronte alle pressanti richieste dei franchi e alle minacce reiterate di Alessio IV, il nobile francese ci riferisce di essere riuscito ad uscire a malapena dal Palazzo delle Blacherne. L’imperatore bizantino non poteva rimangiarsi la parola, ma neppure accettare di onorare un patto che avrebbe messo in ginocchio la propria gente (che non l’avrebbe ovviamente rispettato). Le fonti ci restituiscono addirittura un piccato e volgare scambio di battute tra Dandolo e Alessio IV, nel quale emerge l’impossibilità di trovare una soluzione pacifica alle ostilità reciproche delle due fazioni. Il primo gennaio 1204, durante la notte, i bizantini commisero una mossa alquanto spregiudicata e inspiegabile, non sappiamo se per iniziativa degli imperatori o di qualche dignitario, inviando diciassette navi, piene di materiale combustibile, a vele spiegate verso le navi veneziane, le quali furono salvate proprio all’ultimo momento dalla segnalazione di una sentinella. Dopo quest’ultimo fallimento la popolarità dei due imperatori scese sensibilmente e, sobillata da Murzuflo, il protovestiario di corte, la folla richiese che il senato e il clero eleggessero un nuovo sovrano. Tuttavia i candidati designati rifiutarono di assumere la guida dell’Impero in un momento così delicato e il 27 gennaio fu eletto contro la sua volontà Nicola Canabo, un giovinetto appartenente all’alta nobiltà. Poche ore più tardi Murzuflo assunse personalmente il potere facendosi incoronare imperatore col nome di Alessio V e fece poi uccidere subito Canabo e Isacco II.

Alessio V diede inoltre avvio ad una progressiva opera di fortificazione della cinta muraria e dichiarò che non avrebbe mai onorato i termini del Trattato di Zara. La sua politica militare diede energia alla Guardia Variaga ma l’imperatore fu sconsiderato e goffo nel tendere un malriuscito agguato ai crociati, a seguito del quale fu sconfitto e privato di un’icona della Vergine storica per il mondo bizantino, che Niceta Coniate descrisse come “l’altro generale”. Alessio V per giunta mentì ai propri concittadini affermando che la preziosa reliquia fosse al sicuro ma i crociati, venuti a conoscenza della menzogna, tentarono (con successo) di destabilizzare la situazione interna alla città issando la suddetta icona su una croce molto alta affinché tutti potessero vederla. Preoccupato di un’insurrezione interna Alessio V fece uccidere Alessio IV, mossa che diede ai crociati la possibilità di mettere in atto una “guerra giusta” contro un usurpatore. Chi uccide il

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proprio signore, secondo l’etica cavalleresca europea, non eredita nulla da lui, bensì è considerato un traditore. Ebbe così inizio il secondo assedio.

Il patto di marzo

Nel marzo 1204, nell’ambito dei preparativi per l’attacco, i capi crociati si incontrarono per accordarsi in merito al destino dell’Impero, qualora l’assedio fosse andato a buon fine. Gli “europei” avevano perso il proprio candidato al trono, Alessio IV, e, una volta rimosso Murzuflo, la scelta su chi dovesse prendere le redini dell’Impero sarebbe stata ardua e oscura per i crociati, che erano ovviamente esterni alle dinamiche di corte bizantine. Si decise perciò che a diventare imperatore sarebbe stato un latino, un cattolico, affiancato da un patriarca, i quali sarebbero stati eletti da un comitato composto da sei franchi e sei veneziani (o dieci franchi e dieci veneziani; le fonti, Villehardouin e Clari, divergono) con una clausola ben precisa la quale chiariva che, qualora l’imperatore fosse stato franco allora il patriarca sarebbe stato veneziano e viceversa. Il bottino della città sarebbe stato ripartito equamente, con i primi guadagni destinati a pagare i veneziani (che ancora attendevano il risarcimento promesso al momento del mandato per la costruzione delle navi da trasporto per i crociati). Si stabilì inoltre il divieto di praticare violenza su donne o religiosi, che venne largamente eluso. Nonostante la continuità istituzionale garantita dalla figura dell’imperatore, la carica di quest’ultimo sarebbe stata meramente formale, giacché si concordò una divisione dell’Impero regolata da un trattato. Enrico Dandolo ovviamente, conoscendo precisamente il territorio, si accaparrò le regioni e le isole più rilevanti dal punto di vista economico, città o basi portuali che per i crociati rappresentavano soltanto nomi ma che in verità erano importantissimi snodi commerciali come il Peloponneso (Morea), Nasso, Andro, Eubea (oggi Negroponte), Gallipoli, Adrianopoli e i porti della Tracia sul Mar di Marmara. Infine si decise di rimandare la spedizione in Terrasanta al 1205.

La seconda presa della città e il saccheggio (1204)

Se si osserva con attenzione il dipinto di Tintoretto “la presa di Costantinopoli” (1594), oggi conservato al Palazzo Ducale di Venezia si noterà una tecnica d’assedio piuttosto particolare effettivamente utilizzata nel corso dell’attacco a Costantinopoli e testimoniata da un passo del cronachista Roberto di Clari, che recita: «L’assalto fu così violento che la nave del vescovo di Soissons, sospinta dal mare, andò a cozzare contro una di queste torri per intervento miracoloso di Dio»8.

Dopo un primo assalto malriuscito il 9 aprile 1204, i crociati pensarono (12 aprile) di sfruttare il forte vento che soffiava quel giorno per lanciare letteralmente le proprie navi contro le fortificazioni bizantine sul Corno d’Oro e far balzare i soldati su di esse grazie a travi lignee montate sugli alberi delle imbarcazioni. L’audace strategia servì a creare una testa di ponte utile per combattere i bizantini, ancora superiori in numero e stavolta guidati da un abile generale come Murzuflo. Tuttavia i crociati riuscirono a prendere possesso dei quartieri immediatamente a sud del Corno d’Oro e nella notte tra 12 e 13 aprile Murzuflo fuggì in Tracia. Gli alti dignitari bizantini organizzarono processioni religiose per lenire gli animi dei crociati e invocare la pace ma stavolta i comandanti non riuscirono a tenere a bada i soldati che fecero scempio della città, come ci racconta, in un lungo ed interessantissimo brano, il cronista Niceta Coniate, testimone oculare degli eventi che narra:

«I Latini, vedendo che, contro ogni aspettativa, nessuno prendeva le armi per attaccare o per difendersi, compresero che la situazione del momento era per loro estremamente propizia: le iniziative, realizzabili; le strette straducole, accessibili; i trivi, sicuri; nessun rischio di scontri; non pochi vantaggi sui nemici. Ed ecco verificarsi, davvero a proposito, un’occasione che li favorì ulteriormente. Tutta la popolazione moveva verso di loro, portando le croci e le sante immagini di Cristo, com’è d’uso nelle feste religiose e nelle processioni. A quella vista, essi non mutarono il loro abituale stato d’animo; non atteggiarono le labbra a un pur lieve

8 Roberto di Clari, Li estoires, p.95

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sorriso: tale inattesa visione non valse a rasserenare i volti irati, ad addolcire gli sguardi biechi e minacciosi, a placare l’eccitazione. Ebbero invece il coraggio di assalire i fedeli e di depredarli senza pietà non solo di quanto possedevano, a cominciare dai carri, ma anche degli oggetti sacri. Tutti impugnavano le spade, e con le armi sguainate trattenevano a stento i loro cavalli eccitati dagli squilli di tromba. Quale delle tante nefandezze commesse in quell’occasione da quegli scellerati dovrò raccontare per prima? Quale dopo? Quale per ultima? Ahimè, che infamia abbattere le venerate immagini e profanare le reliquie di coloro che morirono per Cristo! La cosa più orribile, anche solo ad ascoltarsi, era la vista del Sangue Divino versato e del Corpo di Cristo gettato a terra. Impadronitisi dei preziosi vasi, in parte li ridussero in pezzi, nascondendo in petto le gemme che vi erano incastonate, in parte li asportarono per utilizzarli sulle loro mense come ciotole per i cibi e coppe per il vino, codesti precursori dell’Anticristo, antesignani e araldi delle atrocità che egli ha profetizzate. Da codesta genie Cristo venne spogliato e schernito ancora una volta, come già in tempi lontani: le sue vesti furono divise ed estratte a sorte; mancava solo che, colpito da lancia nel costato, facesse nuovamente scorrere a terra rivoli del suo sangue divino. Ma non vi è orecchio che possa facilmente prestare ascolto al racconto dei sacrilegi commessi nella cattedrale. L’altare maggiore, interamente ricoperto di metalli preziosi, fusi con il fuoco e intarsiati di una bellezza e una policromia straordinaria, veramente rara e degna dell’universale ammirazione, fu fatto a pezzi e spartito fra quei predoni; la stessa sorte subì tutto il tesoro della cattedrale, altrettanto ricco ed infinitamente prezioso. Quando si dovettero portar via, come avviene per ogni rapina, i vasi e gli oggetti destinati al culto, composti di materiali rari cesellati con incomparabile raffinatezza e maestria, come pure l’argento fino, tutto bordato d’oro che rivestiva il cancello della tribuna, lo stupendo pulpito e le porte, e che era stato fuso per creare parecchi altri fregi ornamentali, furono introdotti muli e asini già portati a basto fin nelle parti più interne della chiesa. Ma poiché alcuni animali scivolavano, non riuscendo a reggersi sulle zampe a causa della levigatezza dell’impiantito, erano pungolati con le spade, sì che il pavimento della chiesa si imbrattò tutto di sterco e di sangue. Intanto una donnaccia, gonfia di peccati […] si faceva beffe di Cristo seduta sul seggio patriarcale, cantava con voce roca e di tanto in tanto si lanciava volteggiando in una danza vorticosa.

I latini non commisero solo codeste nefandezze; non ne commisero alcune più gravi ed altre meno: ma tutte le peggiori atrocità e scelleraggini furono di comune accordo perpetrate da tutti. Avrebbero mai potuto trattare con rispetto le donne oneste, le fanciulle da marito o le giovinette che si erano consacrate a Dio e avevano scelto di rimanere vergini, codesti scellerati che tanto spudoratamente profanavano le cose sacre? Era oltremodo difficile, anzi impossibile, intenerire con suppliche o ammansire in qualche modo i barbari, che erano estremamente irritabili, che in genere montavano in collera anche per una parola pronunciata senza alcuna cattiva intenzione […]. Ognuno di noi aveva le sue pene. Nelle strette vie non si udivano che pianti, imprecazioni e lamenti; nei trivi, gemiti: nelle chiese, voci di dolore, grida di uomini, urla di donne. Si avevano arresti e rapimenti; si verificavano episodi di violenza carnale e forzate separazioni di persone fino ad allora vissute insieme. I nobili si aggiravano coperti appena; i vegliardi, piangenti; i ricchi, privi dei loro averi. Tutto questo avveniva nelle piazze, negli angoli delle strade, nei santuari, nei più reconditi asili: non vi era un solo luogo che potesse sfuggire ai nemici e che garantisse sicurezza ai derelitti. O Cristo Signore! Quali furono allora le angustie e le tribolazioni nostre!»9

Per quanto si possa accusare Niceta Coniate di non essere propriamente imparziale nel racconto dei fatti e di aver ignorato gli antefatti della crociata, l’imbarazzo dei cronisti occidentali (Villehardouin e Clari) nell’affrontare il resoconto del saccheggio ci induce a fugare i dubbi di volontaria esagerazione dei fatti raccontati da Coniate. Nel passo emerge, evidente, un’ostilità dicotomica tra bene (i romèi) e male (i crociati), tra giusto e sbagliato, tra virtù e vizi in una realtà dipinta a tinte escatologiche.

Vale la pena, a questo punto, riportare anche un passo relativo a questo drammatico evento scritto da uno dei più grandi bizantinisti del Novecento, Georg Alexandrovic Ostrogorsky durante i suoi studi:

9 Niceta Coniata, Chroniké Dieghesis, cit. in Albini, Maltese (2004, pp 666-668)

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«Così la città che dai tempi di Costantino il Grande era sempre rimasta inespugnata, che aveva resistito ai poderosi assalti dei Persiani e degli Arabi, degli Avari e dei Bulgari, era diventata la preda dei crociati e dei Veneziani. Per tre giorni il saccheggio e la strage regnarono in Costantinopoli. I tesori più preziosi del più grande centro di cultura del mondo di allora vennero distribuiti tra i conquistatori e in parte barbaramente distrutti. ‘Dalla Creazione del mondo non è mai stato fatto un tale bottino in una città’, dice lo storico dei crociati Villehardouin. ‘Perfino i musulmani sono umani e benevoli in confronto a questa gente che porta la Croce di Cristo sulle spalle’, annota il cronista bizantino Niceta Coniata»10

L’evento fu percepito, nella sua importanza e gravità, in tutta Europa ed in buona parte dell’Asia e rimase impresso nella memoria collettiva di molti popoli al pari della presa di Gerusalemme del 1099, tanto che, nel 1840 Eugene Delacroix lo scelse, non a caso, come tema per un dipinto che rappresentasse la gloria coloniale dei francesi nel momento della conquista dell’Algeria. Lo stesso Gustave Dorè eseguì una serie di incisioni sulla Quarta Crociata con un’interessante dovizia di particolari. Nel corso del XV-XVI secolo furono realizzate diverse miniature dell’evento. Del dipinto di Tintoretto abbiamo già parlato. Senza dubbio l’opera più cronologicamente vicina al saccheggio è un mosaico, proveniente proprio dall’Impero, databile 1216. I luoghi che manifestarono maggior interesse artistico e letterario per la Quarta Crociata, come si è evinto, furono Venezia, la Francia e Costantinopoli.

Il pontefice Innocenzo III dapprima manifestò entusiasmo per l’avvenuta conquista, ignorandone i particolari relativi al saccheggio brutale ed efferato. Quando, con il passare dei mesi e con l’arrivo di testimoni oculari della conquista della città a Roma, il papa si rese conto del comportamento dei crociati e del suo legato, Pietro Capuano, il quale aveva sciolto i milites dal voto di crociata dopo il saccheggio, andò su tutte le furie. Questo triste epilogo dimostrò una volta per tutte l’impossibilità di controllare una crociata a distanza ed Innocenzo III, dopo aver rivolto parole durissime ai comandanti crociati e dopo aver sospeso ed inviato in penitenza a Gerusalemme Pietro Capuano, piombò in uno stato di malinconia spirituale. La Quarta Crociata fu, per la Chiesa, un insuccesso totale, perché contribuì a rompere in maniera definitiva i rapporti tra ortodossi e cattolici.

Il bottino

Per gli storici sarebbe complicato stabilire con esattezza l’ammontare del bottino derivante da un saccheggio tanto caotico quanto vario (tra moneta contante, opere d’arte, oggetti preziosi, metalli fusi ecc.). Le fonti dell’epoca, Villehardouin in primis, ci parlano di una stima di circa 400000 marchi d’argento sottratti dai crociati alla città di Costantinopoli, di cui un ottavo (50000 marchi) spettanti direttamente al Doge, il resto diviso secondo il trattato di spartizione. Stando alle parole di Niceta, neppure i comandanti crociati riuscivano a placare i propri sottoposti, tanto che ognuno rubava o distruggeva ciò che desiderava rubare o distruggere. Questo comportamento incontrollabile trova riscontro nel cospicuo flusso di opere d’arte e reliquie traslate da Bisanzio all’Europa, specialmente alla Francia (capillarmente in tutto il territorio) e a Venezia. Sappiamo che Enrico Dandolo riuscì a procurarsi, tra le altre reliquie, una fiala contenente gocce del sangue di Cristo e che i veneziani portarono con loro nella città lagunare numerosissimi tesori (tra cui primeggiano i celeberrimi cavalli in rame del II secolo d.C. provenienti dall’Ippodromo di Costantinopoli e oggi conservati all’interno della Cattedrale di San Marco) confluiti nel Tesoro di San Marco.

Dopo la Crociata, la spartizione dell’Impero

Le conseguenze della Crociata furono strutturalmente e politicamente devastanti per l’Impero Bizantino, che, dopo la caduta della Capitale, si ritrovò privo di un leader carismatico sul quale fare perno per

10 Ostrogorsky (1968, p. 375)

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contrastare efficacemente gli invasori. Come da accordi, i crociati elessero un proprio imperatore, Baldovino I, conte di Fiandra e di Hainaut, che sconfisse Bonifacio del Monferrato, candidato principale al titolo poiché più potente militarmente e imparentato con gli Angeli e i Comneni, grazie al voto decisivo dei Veneziani e del loro Doge. Enrico Dandolo, difatti, preferiva un imperatore debole sul trono, incapace di risolvere i numerosi problemi che la nuova entità statuale doveva affrontare e quindi più propenso a concedere benefici ai Veneziani. Come detto, il titolo di Imperatore Latino di Costantinopoli rimaneva unicamente nominale giacché egli non poté imporre il proprio arbitrio sui territori che gli spettavano. Baldovino I controllava un quarto dell’Impero, un altro quarto era retto da Bonifacio del Monferrato, che si proclamò Re di Tessalonica, il terzo quarto fu spartito tra i principi e i baroni franchi che più si erano adoperati per la buona riuscita dell’operazione (Ducato di Atene, Principato di Acaia), mentre l’ultima parte, fu concessa ai Veneziani, che in seguito riuscirono ad acquisire anche altre basi e roccaforti, oppure intere isole, come Creta, a causa della debolezza economica dell’Imperatore Latino. Il nuovo Impero era gestito al modo “occidentale”, quindi vassallatico e cattolico. Secondo il bizantinista Warren Treadgold: “Molti bizantini avrebbero potuto accettare i conquistatori se i crociati e i Veneziani fossero stati meno miopi, ma i vincitori saccheggiarono e bruciarono la loro nuova capitale e si erano già accordati per dividersi il nuovo Impero in feudi pressoché indipendenti, lasciando soltanto la Tracia orientale e l’Anatolia nordoccidentale all’imperatore che si accingevano ad eleggere”11.

Il vecchio Impero Bizantino si frazionò in quattro entità statuali distinte: l’Impero Latino d’Oriente, l’Impero di Nicea, l’Impero di Trebisonda e il Despotato di Epiro.

L’impero Latino d’Oriente (1204-1261)

Considerate le difficoltà strutturali menzionate, la posizione geografica della nuova entità statuale (che comprendeva Grecia e Anatolia Occidentale), le rivalità e le dispute religiose interne (nonostante l’elezione del patriarca veneziano cattolico Tommaso Morosini, la maggioranza della popolazione manteneva la fede ortodossa), possiamo asserire che l’Impero Latino d’Oriente nacque e morì debolissimo. Grazie al carisma di Bonifacio del Monferrato i latini riuscirono a sconfiggere Alessio III e Alessio V, ritiratisi entrambi in Tracia, ma dovettero progressivamente soccombere agli attacchi provenienti da sud-ovest (Despotato di Epiro), nord (Regno di Bulgaria), est (Impero di Nicea). Le continue richieste dell’Imperatore Latino di proclamare una crociata per la difesa del territorio furono ignorate dai papi che si susseguirono sul soglio di Pietro e, dopo la conquista, nel 1224 del Regno di Tessalonica ad opera del Despota Teodoro I, Michele VIII Paleologo, Imperatore di Nicea, riconquistò la città imperiale di Costantinopoli (1261) con l’appoggio decisivo dei genovesi, rivali dei veneziani, anticipando gli Epiroti che si appropinquavano alla stessa da ovest. Per la sua debolezza, infatti, a partire dagli anni ’20-’30 del XIII secolo, l’Impero cominciò ad essere considerato dai suoi vicini terra di conquiste e declinò inesorabilmente fino a cadere nel 1261. Il titolo di Imperatore Latino, tuttavia, fu detenuto fino alla fine del XIV secolo con il suo ultimo proprietario Luigi I d’Angiò. I Latini rimasero presenti nel Ducato di Atene e nel Principato di Acaia sino al XV secolo, prima di essere cacciati dagli Ottomani.

Despotato di Epiro (1204-1337)

Dopo la seconda conquista di Costantinopoli i Latini si espansero progressivamente nel territorio precedentemente controllato dai bizantini, ma nelle regioni più periferiche incontrarono resistenze coriacee. Il governatore della provincia di Nicopoli, Michele I, cugino di Isacco II e di Alessio III, si oppose efficacemente ai crociati, riuscendo, in un primo tempo, ad allearsi col Re di Tessalonica, Bonifacio del Monferrato. Michele provò a farsi riconoscere dal Patriarca ortodosso di Costantinopoli imperatore ma senza successo, poiché gli venne preferito Teodoro I Lascaris, Imperatore di Nicea. Astutamente, Michele divenne cattolico e cominciò un’ambigua politica di alleanze e tradimenti nei confronti dei sovrani latini e

11 Warren Treadgold, Storia di Bisanzio, Il Mulino 2005, pag. 255

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dei veneziani, con la quale si rafforzò e conquistò la Tessaglia, sfruttando le rivalità interne all’Impero, ma per la sua crudeltà nel trattamento dei prigionieri venne scomunicato. Nel 1214 Michele I d’Epiro fu ucciso dal fratellastro Teodoro I, che gli subentrò come Despota. Il nuovo sovrano colse in un momento di difficoltà l’Impero per conquistare la Macedonia con il suo principale centro, Tessalonica ed impadronirsi della via Egnatia, che conduceva a Costantinopoli, grazie all’aiuto dei Bulgari, contro cui si scontrò nel 1230 a Klokotnitsa, subendo una decisiva sconfitta che lo portò ad abdicare in favore del nipote Michele II. Il Despotato cominciò a declinare e subì un duro colpo quando, nel 1261 l’Impero di Nicea conquistò Costantinopoli ereditando, di fatto, il vecchio Impero. Il Despotato riuscì a mantenersi formalmente indipendente fino al 1337, quando Andronico III lo riconquistò all’Impero Bizantino.

Impero di Trebisonda (1204-1461)

L’Impero di Trebisonda fu fondato nel 1204 dai fratelli Alessio I Comneno e Davide I Comneno. Essi si definivano legittimi detentori del trono bizantino, in quanto parenti più prossimi dell’imperatore Andronico I Comneno, l’imperatore spodestato da Isacco II nel 1185, e con l’aiuto della regina Tamara di Georgia acquisirono il Ponto e posero la propria capitale a Trebisonda. I sovrani di questo impero si definivano “Megas Comnenos” e adottarono il caratteristico titolo di "imperatore e autocrate dei Romani", mutato poi in "imperatore e autocrate dell'intero Oriente, l’Iberia e la Perateia". L’Impero fu perennemente in lotta col sultanato di Iconio, poi con gli Ottomani e con le Repubbliche marinare italiane ma riuscì a sopravvivere, pur essendo militarmente debole, grazie ad una accorta politica di alleanze con la quale raggiunse il risultato di porsi sempre sotto la protezione dell’entità statuale più forte (i Mongoli, per breve tempo) e di sconfiggere i propri nemici facendoli combattere l’uno contro l’altro. La distruzione di Baghdad del 1258 rese Trebisonda il capolinea occidentale della via della seta, consentendo alla città di arricchirsi e di divenire un polo economico e culturale di rilievo nel mondo sotto Alessio III (1349-1390). Con l’arrivo dei Turchi Ottomani cominciò un inevitabile declino dell’Impero di Trebisonda, che, a differenza delle altre entità statuali sorte dopo la IV Crociata, non verrà inglobata dall’Impero di Nicea ma rimase indipendente fino alla fine, che giunse addirittura dopo la caduta di Costantinopoli (1453), nel 1461. Trebisonda fu l’ultima grande roccaforte bizantina a cadere sotto i colpi di Maometto II.

Impero di Nicea (1204-1261)

L’Impero di Nicea fu fondato da colui che venne eletto imperatore dopo la fuga di Murzuflo, Costantino IX Lascaris, nipote dell’imperatore Alessio III Angelo. Costantino, resosi conto dell’impossibilità di difendere Costantinopoli, si ritirò a Nicea con la corte, per organizzare la resistenza ai latini ma morì pochi mesi dopo lasciando l’Impero al fratello Teodoro I Lascaris. I primi tentativi di riconquista da lui intrapresi fallirono per l’iniziale compattezza dell’Impero Latino, che però cominciò a vacillare qualche anno dopo. I Lascaris furono rovesciati dalla dinastia dei Paleologhi, che, col suo fondatore, Michele VIII, riuscì a conquistare Costantinopoli, ripristinando l’antico Impero Bizantino, seppur ridotto nelle dimensioni e nella potenza.

Una frattura definitiva?

L’esito della Quarta Crociata, imprevedibile e distruttivo, lasciò un segno indelebile nella mente dei popoli interessati, che, fino a tempi recentissimi, ha influenzato i rapporti tra le due istituzioni ancora in vita da allora, la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa, i cui rispettivi leader, il pontefice Paolo VI e il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Atenagora ritirarono le rispettive scomuniche solo nel 1964. Nel 2001, in occasione della visita di Papa Giovanni Paolo II in Grecia, l’Arcivescovo di Atene Cristodulo si espresse con tali parole:

“Comprensibilmente, una grande parte della Chiesa greca si oppone alla vostra [di Giovanni Paolo II] presenza qui […] chiediamo una condanna ufficiale delle ingiustizie commesse contro di essa dall’Occidente cristiano […]”

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Il riferimento è ovviamente al sacco di Costantinopoli del 1204, che, come possiamo notare, ha avuto conseguenze più deleterie dal punto di vista religioso che da quello politico. Alcuni ortodossi, specialmente l’ala più rigorista, lo considerano ancora oggi un tradimento e nonostante le scuse di Giovanni Paolo II, continuano a rifiutare un fecondo dialogo con la Chiesa Cattolica. Recentemente, i vertici della Chiesa Ortodossa hanno tuttavia ricucito parzialmente il rapporto col Pontefice romano, grazie anche all’impegno di quest’ultimo nella promozione di giornate interconfessionali di preghiera e di altre iniziative di fratellanza e solidarietà interreligiosa.

Andrea Raffaele Aquino

Bibliografia

• «Breve Storia di Bisanzio», Marco di Branco, Carocci editore, 2016

• «Storia di Bisanzio», Warren Treadgold, Il Mulino 2005, cap VI

• Niceta Coniata, «Chroniké Dieghesis»

• Goffredo di Villehardouin, «Histoire de la conquête de Constantinople», trad.it. a cura di E. Garavini, Torino 1962, poi Milano 1988

• “Patrizi, informatori, barbieri” Filippo de Vivo, Feltrinelli 2012

Per approfondire

• Sul bottino di guerra e le reliquie portate a Venezia da Costantinopoli, cf. D.M. Nicol, «Venezia e Bisanzio», pp. 240-244.

• Quarta crociata. Venezia - Bisanzio - Impero Latino. A cura di Gherardo Ortalli,Giorgio Ravegnani e Peter Schreiner (2006)

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Filippo Moroni

La crociata dei fanciulliLa crociata dei fanciulli fu un movimento popolare spontaneo, dunque non fomentato da chierici o nobili, che sorse nell'anno 1212, e portò, intorno al periodo pasquale, lunghe colonne di "pueri" a mettersi in cammino verso la Terra Santa. Sebbene nelle fonti dell'epoca a volte non risulti chiaramente, si trattò in realtà di due gruppi di "fanciulli", uno partito dalla Francia centrale e fermatosi presso l'abbazia di Saint-Denis, e un secondo partito dalla Renania e giunto fino in Italia.

Il contesto della crociata Il XII secolo era stato un periodo di crescita economica e demografica per l'Europa; ma anche un secolo di contese, e di profonde inquietudini mistiche e religiose. Deluse le aspettative di rinnovamento spirituale della Chiesa, si erano formati e radicati movimenti religiosi popolari, spesso in forte opposizione alla gerarchia ecclesiastica, come quello dei catari, o quello dei valdesi. La predicazione di Folco di Neuilly per la quarta crociata aveva contribuito a diffondere in Francia l'idea della elezione dei pauperi, contrapposti come nelle opere di Pietro di Blois ai ricchi e peccaminosi potentes. Elementi popolari, i cosiddetti "ribauds", si erano distinti nella lotta contro i catari, in particolare durante l'assedio di Bezièrs. Da tenere presente anche la situazione della lotta tra cristiani e musulmani; nel 1187 Gerusalemme era caduta per opera di Saladino, e la terza crociata lanciata e realizzata pochi anni dopo non aveva conseguito successi significativi; gli almohadi nella seconda metà del XII secolo avevano instaurato un dominio politicamente e militarmente più solido sulla Spagna musulmana di quanto non avessero fatto gli almoravidi, tanto che al-Mansur sconfisse gravemente nel 1195 ad Alarcos gli eserciti castigliani di Alfonso VIII. Nel 1210 era caduta in mano musulmana la strategicamente importante piazzaforte di Salvatierra; ma nonostante le speranze cristiane fossero assai indebolite, anche grazie al contributo organizzativo dato da Innocenzo III, che bandì una sorta di guerra santa contro la Spagna musulmana,

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portando molti cavalieri franco-meridionali a unirsi allo scontro, nel luglio del 1212 Alfonso VIII riuscì a trionfare nella battaglia di Las Navas de Tolosa, sancendo definitivamente il dominio cristiano su buona parte della penisola iberica.

Le fonti sulla crociata dei fanciulli Gli storici che si sono interessati della crociata dei fanciulli hanno generalmente suddiviso le fonti sull'argomento in 3 categorie; la prima comprende le fonti composte dal 1212 al 1220. Sono le fonti più significative e affidabili, fondamentali per comprendere lo svolgimento della vicenda; tra queste, il Chronicon Universale dell'Anonimo di Laon è la più importante per conoscere le peripezie dei "pueri" francesi. Per quanto riguarda invece la crociata tedesca, informazioni rilevanti le forniscono gli Annales Placentini, composti da Giovanni Codagnello, notaio della città di Piacenza. Il nome di Codagnello in forma latinizzata (Caputagni) compare in numerosi atti dell'epoca, sia come rogatario che come testimone; gli storici si sono molto interessati a questa figura, in quanto le viene attribuita la composizione di varie opere storiche e storico-favolistiche di cui ci resta traccia nel frammento pergamenaceo Lat. 4931 conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, tra cui una cronaca favolosa sulla spedizione di Carlo Magno in Spagna, una storia dei Franchi, una storia dei Longobardi, una narrazione del trasferimento da parte di Costantino della capitale imperiale da Roma a Costantinopoli, e infine gli Annales Placentini, i quali narrano le vicende dell'area intorno a Piacenza dal 1012 al 1235, e ci riferiscono appunto del passaggio dei "pueri" tedeschi.

La seconda categoria di fonti include quelle composte tra 1220 e 1250; sono quelle maggiormente problematiche, perchè riportano notizie interessanti, ma difficilmente verificabili, seppur verosimili. Tra queste abbiamo gli Annales Marbacenses, composti in Alsazia intorno al 1230, la cronaca di Alberico delle Tre Fontane, di cui si tratterà meglio più avanti, e la cronaca di Matthew Paris.

Infine abbiamo le fonti successive al 1250; sono meno problematiche delle seconde, in quanto spesso riportano narrazioni inverosimili e chiaramente fantasiose, come gli Annali di san Medardo di Soissons, che ci riferiscono come in praefiguratio della

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partenza dei fanciulli, pochi mesi prima della Pasqua del 1212 numerosi animali di tutte le specie si sarebbero mossi in direzione della Terra Santa.

La crociata francese Per quanto riguarda la crociata francese, l'unica fonte che ci indichi il nome del leader di questa è l'Anonimo di Laon; si sarebbe trattato di Stefano di Cloyes, villaggio vicino Vendòme. Egli avrebbe sostenuto di aver ricevuto una visione di Gesù Cristo in forma di pellegrino, che gli avrebbe consegnato delle lettere da dare al re di Francia Filippo II. Messosi in marcia, ben presto si unirono a lui numerosi fanciulli, circa trentamila secondo l'Anonimo di Laon (ma sono cifre esagerate). I fanciulli, in un clima festoso e miracoloso, senza smettere di cantare, si mossero verso l'abbazia di Saint-Denis, dove in quel periodo si trovava il re. Stefano riuscì a consegnare le lettere a Filippo II, che le rigirò alla facoltà di teologia dell'università di Parigi, dove risiedevano i più prestigiosi teologi del tempo. Questi avrebbero dichiarato l'origine non divina delle lettere, inducendo Filippo a ordinare la dispersione del movimento. L'Anonimo di Laon conclude qui la sua narrazione, ma è interessante la versione di Alberico delle Tre Fontane, monaco cistercense della diocesi di Chàlons, che si dedicò quasi tutta la vita alla composizione della sua opera storica. Il Chronicon di Alberico, alla sua morte, fu inviato all'abbazia di Neufmoutier, presso Huy, dove il monaco Maurizio aggiunse altre notizie, creando problemi circa la datazione e l'attribuzione dell'opera. La cronaca ha scarso valore storico, ma ha valore significativo per quanto riguarda lo studio di costumi e fatti regionali. Alberico ci riferisce come i fanciulli, pur subendo una delusione cocente da parte del re, si siano recati verso Marsiglia, credendo che le acque del Mediterraneo si sarebbero aperte di fronte a Stefano. Non sarebbe invece successo nulla di miracoloso, ma si sarebbero piuttosto presentati due personaggi, inizialmente visti come inviati della Provvidenza, Guglielmo Porco e Ugo Ferreo, il primo un mercante genovese, il secondo un armatore di Marsiglia. Questi si sarebbero offerti di trasportare gratuitamente i pellegrini in Terra Santa, caricandoli su sette grandi navi. Due di queste sarebbero affondate presso l'isola di San Pietro, al largo della Corsica, dove papa Gregorio IX avrebbe in seguito fatto erigere la chiesa dedicata ai Nuovi Innocenti. Le altre cinque sarebbero arrivate ad Alessandria, dove i due mercanti

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avrebbero venduto i pellegrini in parte al sultano d'Egitto, in parte a venditori di schiavi, che li avrebbero dispersi per il Medio Oriente. Porco e Ferreo sarebbero morti impiccati non molto tempo dopo, per aver fomentato una rivolta di musulmani in Sicilia contro Federico II. Da notare come la figura di Gugliemo Porco, mentre su Ugo Ferreo non si sa granchè, non sia inventata; Guglielmo era membro di una importante famiglia consolare genovese, e si interessa molto di lui il cronachista genovese Ogerio Pane, forse perchè suo parente. Si era distinto nel difendere gli interessi commerciali genovesi nel regno siciliano,tanto da diventarne ammiraglio nei primi anni del XIII secolo, dopo aver contribuito alla difesa di Siracusa, attaccata da una flotta pisana. Si rese protagonista di alcune azioni corsare, come la depredazione di una nave veneziana nei pressi di Medone nel Peloponneso, che lo portò a impossessarsi di numerose reliquie inviate da Baldovino I dell'impero latino a Innocenzo III; interessante come una lettera redatta dalla cancelleria pontificia ci riporti l'episodio, contenendo una esplicita richiesta di consegnare le reliquie sottratte da "Porcus" al papato. Fu vicino all'entourage di Federico II, e non era estraneo al mondo musulmano, tanto che probabilmente fu inviato come ambasciatore alla corte del sultano d'Egitto. Questo ci potrebbe spiegare il ruolo attribuitogli nella fantasiosa versione dei fatti di Alberico.

Tralasciando la narrazione di Alberico, è piuttosto plausibile che la vicenda dei "pueri" francesi si sia conclusa con l'ordine di dispersione di Filippo II. Egli regnava infatti con pugno di ferro in quel periodo, anche perchè si preparava uno scontro con l'Inghilterra, e il passaggio di gran masse di pellegrini non sarebbe sicuramente stato visto positivamente. Inoltre la dinastia capetingia e l'abbazia di Saint-Denis godevano di un'aura sacrale forte, di cui i giovani pellegrini avranno sicuramente percepito l'autorità. L'abbazia era infatti celebre in quanto luogo di sepoltura di San Dionigi, primo vescovo di Parigi, patrono di Francia e dei capetingi, inviato da Sisto II durante le persecuzioni di Decio a evangelizzare la Gallia. Era stata eretta da Dagoberto, intorno al 630 d.C., e l'abate era cancelliere e consigliere regio. Era luogo di sepoltura dei re francesi, e l'orifiamma dell'abbazia fu anche adottato da essi in certe occasioni, come quando Filippo II decise di partire per la terza crociata. Le tombe dei re formavano una particolare galleria di sculture monumentali, e dal XVI secolo cominciano a diventare imponenti e sfarzose. Luigi XIV soppresse il titolo di abate, e nel 1793 per ordine della Convenzione le ossa dei re furono disperse e la struttura distrutta. Ne decise la ricostruzione Napoleone III, basandosi sul modello elaborato nel XII secolo dall'abate

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Suger, che aveva effettuato una prima ricostruzione medievale; una seconda fu operata nel XIII secolo da Pietro di Montereau. La dinastia capetingia vantava inoltre numerosi antenati crociati, e lo stesso Filippo II aveva partecipato alla terza crociata, anche se in maniera poco impegnata, essendo tornato in Francia subito dopo l'assedio di Acri, in parte per i numerosi dissidi con re Riccardo ma mostrando comunque scarso interesse per le vicende dell'oltremare latino. Non sorprende dunque che di fronte a simili autorità i protagonisti del movimento dei fanciulli francese si sia dissolto, come suggerisce del resto la fonte più affidabile a riguardo, l'Anonimo di Laon.

La crociata tedesca Meno evanescente di Stefano di Cloyes, la figura di Nicola di Colonia, leader del movimento tedesco, compare in numerose fonti. Egli avrebbe ricevuto da un angelo l'incarico di recarsi in Terra Santa, una collana con un simbolo a forma di tau, e la garanzia che avrebbe attraversato insieme ai suoi compagni a piedi asciutti (siccis pedibus) il mar Mediterraneo, come fecero Mosè e gli Israeliti. Le fonti parlano non solo di pueri, di fanciulli, ma anche di giovani di entrambi i sessi che Nicola avrebbe dovuto unire castamente in matrimonio; e specificano che si trattò di un movimento "tantum de plebe", esclusivamente popolare. Da Colonia, la folla radunata da Nicola si sarebbe recata in Alsazia, quindi in Austria, per poi valicare le Alpi alla volta dell'Italia. Non essendosi preoccupati di cosa avrebbero mangiato, confidando nell'aura sacrale di Nicola, si sarebbero sfamati con le offerte degli abitanti delle campagne per cui passarono; ma molti morirono di sfinimento lungo il cammino. Avrebbero potuto attraversare la Svizzera, ma è improbabile, perchè negli annali e cronache della regione non vi sono accenni a passaggi di pellegrini; più probabile dunque che siano passati per il Brennero, e da lì per Cremona, dove attirarono l'attenzione del vescovo Sicardo, e per Piacenza, come ci narrano gli Annales Placentini. Da lì avrebbero rapidamente raggiunto Genova, inginocchiandosi sulla spiaggia nell'attesa che le acque si aprissero davanti al tau di Nicola. Ma, prima delusione, il miracolo non avviene, e i pellegrini vengono anzi derisi dagli abitanti della città, come ci raccontano Ogerio Pane e Jacopo da Varagine. Il governo cittadino avrebbe costretto la folla dei giovani ad abbandonare la città per motivi di varia natura; di ordine pubblico, igienico, ma anche politico;

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considerando che poco tempo prima era giunto Federico II, accolto da Andrea Doria, e i genovesi gli avevano garantito il loro appoggio, l'ingresso in città di una massa di tedeschi poteva sembrare sospetto. Da qui ad ogni modo diventa più difficile seguire i movimenti dei pueri; alcuni si sarebbero diretti verso Roma, cercando di incontrare Innocenzo III, ma senza successo. Avrebbero dunque richiesto al clero locale lo scioglimento del voto di crociata, avendo ormai compreso come difficilmente avrebbero potuto raggiungere Gerusalemme; ma il clero non lo avrebbe concesso, per sottolineare la solennità dell'impegno da loro assunto. Alcuni sarebbero rimasti nelle case degli italiani che li avevano accolti, lavorando per loro; altri si diressero a Brindisi, probabilmente guidati da Nicola, in cerca di un mezzo per raggiungere la Terra Santa. Ma avrebbero incontrato la dura opposizione del vescovo della città, e presto Nicola sarebbe, secondo alcune fonti, morto; secondo altre riuscì invece ad unirsi alla spedizione di Federico II. I pellegrini restanti, privi di una guida e incapaci di procurarsi di che vivere, sarebbero morti, riempiendo le piazze di cadaveri. Ma, elemento significativo, le fonti a disposizione, quasi tutte provenienti dagli ambienti ecclesiastici ufficiali, non mostrano affatto compassione, ma piuttosto un senso di resa di fronte all'ineluttabile sorte e alla "stultitia puerorum", l'ingenuità, la semplicità dei fanciulli; Il monaco Reinerio conclude seccamente sostenendo che il movimento non aveva ottenuto alcun risultato perchè "non era opera di Dio". Questo ci rivela come il movimento dei fanciulli fosse visto con una certa ostilità da parte delle gerarchie ecclesiastiche, che percepivano la minaccia di leader che sostenevano di avere un rapporto privilegiato con Dio, e in generale di quelle masse alimentate da speranze di rinnovamento morale del clero ampiamente disattese, andando a costituire la base sociale principale per quei movimenti ereticali nettamente opposti alla Chiesa ufficiale.

Valenze del termine "puer" Le fonti utilizzano quasi sempre l'espressione "pueri" per indicare i partecipanti a questo movimento. Eppure, mentre nel latino classico il termine indica i fanciulli fino al quattordicesimo anno di età, è probabile che le fonti non lo utilizzino nel suo senso principale. Come sottolineano gli studi di Philippe Ariès, infatti, le età della vita nel Medioevo, ma anche in seguito, non corrispodono solo a tappe biologiche, ma anche a

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funzioni sociali. Già nell'alto Medioevo il termine puer indicava persone libere di conidzione umile al servizio di un potente; in generale veniva usato per riferirsi a coloro che si trovavano in uno stato di dipendenza o servitù, come i figli più giovani esclusi nel mondo rurale dall'eredità paterna, almeno in alcune aree d'Europa, i quali finivano spesso per vivere ai margini della società. Ad ogni modo, non sarebbe corretto spostare, come fanno alcuni studiosi (come Peter Raedts), tutto il senso dell'espressione sul significato sociologico; è più plausibile che il termine fosse usato con un certo margine d'ambiguità, che le fonti percepissero quella carica di giovinezza e innocenza di cui il movimento doveva probabilmente essere dotato. Pueri erano spesso anche i pastori, che sia i Vangeli sia le reminiscenze della poesia classica accostano alla semplicità e alla purezza.

I Santi Innocenti e il tau di Nicola Per cercare di attribuire un senso più chiaro meglio alla vicenda della crociata dei fanciulli, di difficile comprensione per gli stessi coevi, possiamo ricordare la tesi di uno storico delle religioni francese, Alphandery, che si occupò della questione. Alphandery parlò di una "elezione dell'infanzia", partendo dallo studio delle "crociate monumentali", episodi devozionali verificatisi sopratutto in Normandia a partire dal Basso Medioevo che consistevano nel trasporto da parte dei devoti di materiali da costruzione per edificare o restaurare luoghi di culto, organizzati in processioni. Non vi erano barriere di casta o di età; inoltre in una lettera del 1145 l'abate Aimone di Saint-Pierre-sur-Dive ci riferisce come in queste processioni gruppi di bambini si flagellassero, invocando la pietà della Vergine per i malati. Una flagellazione con intento dunque taumaturgico, reso possibile dalla purezza di coloro che si flagellavano. Le radici di questi episodi affonderebbero nel culto dedicati ai Santi Innocenti, i fanciulli fatti uccidere secondo il Vangelo di Matteo da Erode al momento della nascita di Gesù. I bambini inoltre il 27 dicembre nella Francia settentrionale di questo periodo usavano eleggere uno di loro vescovo; costui il 28 dicembre, giorno dedicato appunto ai Santi Innocenti avrebbe officiato la messa. La crociata dei fanciulli per Alphandery si sarebbe ispirata al sacrificio dei Santi Innocenti, eletti dal Signore in quanto puri, volto alla salvezza della cristianità intera. E per questo i fanciulli sarebbero partiti durante il

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periodo pasquale. Eppure, come ha sottolineato Giovanni Miccoli, la componente infantile non era esclusiva nel movimento; egli sottolinea il ruolo delle speranze e attese di una vita migliore, largamente diffuse negli strati poveri della società del tempo. La crociata in questo senso potrebbe configurarsi come un nuovo Esodo, numerosi sono del resto gli elementi in comune, come la promessa dell'apertura del mare, o la presenza del simbolo del tau. Nella tradizione paleocristiana il tau era segno sostitutivo della croce, originariamente simbolo di infamia nel mondo romano-ellenistico. Il signum visto da Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio sarebbe stato probabilmente il Chrismon, non la croce; solo dopo l'editto teodosiano la croce divenne simbolo imperiale, ma una croce fortemente ingemmata e decorata, come a riscattarla dall'originale significato. Il tau avrebbe inoltre preso nel mondo ellenizzato il posto della lettera ebraica tav, che indica Dio in quanto fine di tutte le cose. Era il simbolo portato sulla fronte dagli esseni, secondo il libro di Ezechiele, e nell'Apocalisse coincide con il "sigillo dei servi di Dio". Il tau veniva dunque identificato come segno della croce in tutta la sua potenza taumaturgica e apotropaica, tanto che le stampelle degli invalidi avevano forma di tau; era segno di elezione e protezione, che avrebbe tenuto la morte lontana dagli eletti.

Pietro di Blois e il pauperismo Le prime spedizioni crociate non erano state accompagnate da rinuncia e disprezzo dei beni materiali. Non era la poverà l'elemento fondamentale del pellegrinaggio. In certi casi la spiritualità altomedievale rassivava anzi nella povertà un segno del castigo celeste. Urbano II a Clermont non diede risalto solo ai premi ultraterreni per i crociati vittoriosi, ma anche alle ricchezze di cui avrebbero potuto appropriarsi. Il cavaliere non doveva rinunciare ai suoi beni per partecipare, bensì alla propria volontà, doveva mettersi al servizio del volere divino. Tra i ceti popolari, questo tipo di sensibilità conosce dei cambiamenti durante il XII secolo, anche a causa della delusione delle aspettative circa il rinnovamento morale del clero. Il catarismo aveva suscitato ammirazione e rispetto tra i ceti subalterni; anche i valdesi si proclamavano autentici interpreti della parola e della povertà evangelica, in opposizione a un clero cattolico corrotto e indegno. Questo spiega l'ostilità e la diffidenza dei chierici verso ciò che fosse

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in odor di pauperismo, come la crociata dei fanciulli. Dobbiamo ricordare inoltre le vicende della terza e della quarta crociata, prive di elementi popolari; proprio il loro fallimento aveva rilanciato il tema dell'elezione dei pauperes, contrapposti a principi e potenti corrotti. Tema approfondito da un monaco, Pietro di Blois, interessante figura dell'epoca; nato a Blois verso il 1135, di nobile famiglia, si dedicò agli studi giuridici e teologici, e fu precettore del giovane Guglielmo II di Sicilia. Venne poi chiamato alla corte inglese di Enrico II, dove fu cancelliere per l'arcivescovo di Canterbury; divenne anche consigliere di Eleonora vedova di Enrico II. Scrisse un interessante epistolario e varie opere, tra cui il "De jerosolymitana peregrinatione acceleranda", in cui criticava aspramente i ricchi e i potenti per i fallimenti delle crociate, sostenendo che solo Dio può assegnare la vittoria, e non nell'opulenza bensì nell'umiltà e nella povertà. Il tema centrale è proprio l'elezione della povertà; il contenuto dell'opera fu diffuso anche a livello popolare da Folco di Neuilly, e lo stesso Innocenzo III contribuì alla diffusione di queste idee, nella convinzione che lo avrebbero aiutato a riprendere il controllo sulle spedizioni crociate su cui ormai aveva perso autorità, come segnalava il comportamento di Pietro Capuano alla quarta crociata.

Crociate popolari Seppur non paradigmatica della categoria concettuale cui appartiene, e pur differenziandosi dal modello per alcuni suoi tratti peculiari, la crociata dei fanciulli è senz'altro classificabile come crociata popolare. Caratteristica principale di queste non è tanto la presenza di poveri al suo interno, quanto la coscienza che la povertà e la non appartenenza all'èlite siano un segno di elezione; il riappropiarsi della Terra Promessa è visto come necessario per il raggiungimento della felicità e della giustizia. Di solito le guidano capi dotati di una forte aura carismatica. Poveri e inermi sono più adatti dei potenti a raggiungere ardui scopi, agli occhi dei partecipanti di questi movimenti. Frequenti sono i segni miracolosi, come le "lettere celesti", o le visioni, volti a legittimare il carisma dei leader, che spesso assecondano le forti tendenze millenaristiche espresse dagli oppressi e dai marginali che si uniscono a questi movimenti. Ricordiamo per esempio la figura di Pietro l'Eremita e del suo compagno Gualtieri senza averi; anche Pietro, come Stefano di Cloyes, aveva ricevuto delle

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"lettere celesti", e sosteneva di possedere doti taumaturgiche. Conseguenza della sua predicazione fu un'ondata di violenze e depredazioni nei confronti degli ebrei dell'area renana, violenze dettate forse non solo da motivazioni religiose ma anche dall'interesse di un ceto medio di produttori e imprenditori cittadini intenzionati a impossessarsi degli spazi economico-finanziari detenuti dagli ebrei. Emmerich, conte di Flonheim, affermava invece di avere impressa tra le scapole una croce, per opera di un messaggero di Cristo; anche la sua orda commise numerose violenze prima di essere messa in rotta dagli ungari. Emmerich cercò di accreditarsi come "imperatore degli ultimi giorni", sebbene la sua avventura si concludesse ben meno gloriosamente. Interessante poi il fenomeno dei tafuri, superstiti della crociata di Pietro l'Eremita che erano riusciti a raggiungere la Terra Santa, e si sentivano predestinati a conquistare la Città Santa in virtù della loro povertà. Rodolfo, monaco cistercense, operò in maniera simile a Pietro l'Eremita, nelle regioni del Reno, riuscendo a radunare una gran massa di poveri e ad accreditarsi come uomo di grande santità; ma venne fermato da un intervento di Bernardo di Chiaravalle, che gli impose di tornare in monastero. Altro episodio interessante fu l'apparizione a Tournai nel 1224 di un monaco che proclamava di essere l'imperatore latino d'oriente Baldovino redivivo; venne anche appoggiato dai nobili di Fiandra, che speravano servendosi di lui di guadagnare maggiore autonomia dal regno di Francia, e dal popolo fu visto come inviato di Dio; la sua avventura finì tragicamente, abbandonato dai potenti, ma il suo ricordo restò nella memoria popolare. Maggiormente significativa la "crociata dei pastorelli", un movimento popolare suscitato dalla cattura ad al-Mansura di Luigi IX nel 1250, contraddistinto dall'intenzione di recarsi in Egitto a liberare il re; il movimento era capeggiato da tre individui, tra cui Jacob, un ex monaco detto il "maestro d'Ungheria", che esibiva lettere celesti inviate dalla Vergine Maria. Alla massa radunata da Jacob si unirono assassini, prostitute, ladri, monaci rinnegati, e in generale individui fortemente ostili nei confronti dei membri del clero, che non si esitava ad uccidere. Risulta chiaro come le inquietudini religiose si saldassero con quelle sociali. Jacob e i suoi seguaci furono persino accolti a Parigi da Bianca di Castiglia, che forse rimase colpita dalla figura del maestro d'Ungheria, o forse pensava di servirsene per eliminare nemici politici; ad ogni modo la banda devastò e uccise per vari giorni, finchè Bianca non ne decretò l'espulsione dalla città. Jacob si diresse quindi a Orlèans e infine a Bourges, dove fu ucciso da una folla inferocita per le violenze sue e dei suoi proseliti. Del resto, mentre la crescita

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dell'economia cittadina, monetaria e mercantile incrementava disparità e ingiustizie, nel mondo urbano ricchi e poveri continuavano a vivere gomito a gomito. Intorno al 1320 si ebbe un'altra vicenda simile, la "crociata dei pastori", fomentata dalla proposta di una nuova crociata avanzata da Filippo V di Francia, poi da lui non mantenuta. Ci si convinse che i lebbrosi avessero avvelenato i pozzi per scatenare epidemie, istigati dagli ebrei a loro volta mercenari del re moro di Granada, e ne conseguirono gravi violenze. Il tema della crociata popolare rimbalza comunque nella storia moderna e contemporanea; possiamo pensare al movimento vandeano durante la rivoluzione francese, o alle armate della Santa Fede guidate dal cardinale Fabrizio Ruffo del 1799; alla Spagna delle guerre carliste, alla guerra civile spagnola. La crociata dei fanciulli, pur rientrando nello schema delle crociate popolari, se ne distanzia in quanto priva di suggestioni millenaristiche; i partecipanti hanno una sensibilità più vicina a quella dell'Esodo che a quella dell'Apocalisse. Aspetto centrale era la liberazione del Santo Sepolcro, ma ottenuta carismaticamente, senza combattere e uccidere; caratterizza infatti l'episodio la totale assenza di violenza, l'elezione della povertà è accompagnata dall'umiltà, che porta i pueri a non ergersi a giudici di nessuno. Sembrano più vicini a figure come Pietro di Blois o Francesco d'Assisi che ai protagonisti delle altre crociate popolari. L'elezione della povertà non diventa motivo di violenza, ma forza che spinge ad affrontare un compito impari alle forze a disposizione; il fascino dei pueri sta proprio nel loro abbandono ad una religiosità priva di miraggi di ricchezze o regni terreni.

Elaborazioni successive Per le elaborazioni letterarie, poetiche e musicali dei secoli successivi, principale fonte di ispirazione per la crociata dei fanciulli sarebbe stata la versione fornita dal monaco delle Tre Fontane Alberico. A conferma della complessità della vicenda, già non molti anni dopo gli avvenimenti, negli anni sessanta del XIII secolo, Vincenzo Bacone nel suo Opus Maius dà a questi avvenimenti una spiegazione alquanto fantasiosa, sostenendo che i pueri sarebbero stati condotti in oriente da due ecclesiastici, catturati dal Vecchio della Montagna, i quali per aver salva la vita avrebbero dovuto consegnargli numerosi bambini cristiani da convertire o schiavizzare. Nel 1895, Marcel Schwob, scrittore francese, si ispirò alla narrazione di Alberico per comporre "La croisade des enfants",

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un'opera in cui ripercorre la vicenda dal punto di vista di vari personaggi, come Guglielmo Porco, Stefano di Cloyes, Innocenzo III... Nel secondo decennio del XX secolo si ebbe inoltre una mancata collaborazione tra Gabriele D'Annunzio e Giacomo Puccini circa un'opera melodrammatica basata sul racconto di Alberico; dopo un apprezzamento iniziale, Puccini cambiò idea e rifiutò la collaborazione. Arcangelo Berra, giornalista italiano laureato in storia medievale, ha infine rielaborato recentemente la vicenda in maniera realistica, pur cercando di dare alle figure di Stefano di Cloyes e Nicola di Colonia quella umanità e consistenza che le cronache medievali non riescono del tutto a restituire.

Bibliografia Franco Caridini e Domenico del Nero, La Crociata dei fanciulli, Firenze, Giunti, 1999

Luchino Franciosa e Pierre Lavedan, Saint-Denis, Enciclopedia Italiana, 1936

Antonio Musarra, Porco Gugliemo, Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 85, 2016

Girolamo Arnaldi, Codagnello Giovanni, Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 26, 1982

Filippo Ermini, Alberico delle Tre Fontane, Enciclopedia Italiana, 1929

Salvatore Battaglia, Pietro di Blois, Enciclopedia Italiana, 1935

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ALEXA BIANCHINILA QUINTA CROCIATA E FRANCESCO D'ASSISI

La cronaca della quinta crociata

Nel 1611 Bongars pubblicò la Historia Hierosolimitana abbreviata di Giacomo da Vitry in tre libri: il primo era dedicato alla narrazione della storia della Terrasanta nel periodo delle crociate a partire dal 1099 fino alla terza crociata; il secondo comprendeva un paragone tra la storia dell’Oriente e la storia dell’Occidente cristiano; il terzo libro proponeva un trattato sulla dinastia araba degli Ayyubidi, una descrizione della Terrasanta e una cronaca della quinta crociata. Il Bongars decideva di premettere al terzo libro della Historia un altro testo che conteneva una storia della dinastia ayyubide rinvenuta in un manoscritto francese e attribuita ad un patriarca di Gerusalemme non identificato. Infine pubblicava anche una lettera di Oliviero da Colonia indirizzata a Engleberto, arcivescovo di Colonia (1216-1225). Bongars concludeva che la cronaca della quinta crociata dovesse essere attribuita a Giacomo da Vitry e che Oliviero avesse utilizzato il testo come sua fonte. L’edizione di Bongars si differenziava dalla precedente pubblicazione prodotta da Moschus nel 1597 che includeva nella Historia solo i primi due libri. Questa discrepanza testimonia una confusione nella tradizione manoscritta del testo. Uno studio del 1890 basato su 45 manoscritti pubblicato da Roricht indica che esistono infatti almeno due differenti tradizioni del testo: una numericamente più rilevante che comprende sotto il nome di Giacomo da Vitry i soli primi due libri, una seconda meno cospicua che tramanda tutti e tre i libri della Historia sotto il nome di Giacomo da Vitry. Come Giacomo da Vitry dichiara nel prologo, il lavoro prevedeva la divisione in tre libri. Pertanto, mentre non ci sono dubbi sull’attribuzione dei primi due libri della Historia a Giacomo da Vitry (Historia Occidentalis e Historia Orientalis) rimane incerta l’originalità del terzo libro che narra le vicende della quinta crociata, a cui lo stesso Giacomo da Vitry prese parte. Il terzo libro si apre con un trattato sulla dinastia ayyubide e una descrizione della Terrasanta, testi tramandati indipendentemente molti manoscritti. La cronaca della quinta crociata è invece tradita in alcuni manoscritti sotto il titolo di Historia Damiatina sotto il nome di Oliviero di Paderborn, scolastico della chiesa cattedrale di Colonia che predicò e prese parte alla quinta crociata e alla conquista di Damietta. Il problema è stato risolto con uno studio di Funk, autore di una biografia del vescovo di Acri. Egli ha dimostrato come il terzo libro della Historia Hierosolimitana abbreviata fosse stato erroneamente attribuito da Bongars a Giacomo da Vitry e che esso non sia altro che la lezione più breve della Historia Damiatina di Oliviero da Colonia. Concludeva che l’opera di Oliviero fosse debitrice in molte sue parti all’epistolario di Giacomo da Vitry, che venne probabilmente utilizzato dall’autore come fonte durante la redazione della sua

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La quinta crociata

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Historia. Di contro è stata poi proposta l’ipotesi secondo cui sarebbe Giacomo da Vitry ad essere debitore nei confronti di Oliviero, il quale era coinvolto nella predicazione della crociata già nel 1213, incaricato come legato per la predicazione nella provincia di Colonia nel 1214 e presente al IV concilio Lateranense. Del resto il contenuto della cronaca della quinta crociata sembra confermare questa ipotesi, in quanto esso presenta diversi riferimenti alla predicazione della crociata in Frisia e ricorda in alcuni punti le gesta e l’audacia dei crociati tedeschi. Questi elementi avvalorano l’ipotesi secondo cui Oliviero da colonna sarebbe l’autore della cronaca della quinta crociata nota come Historia Damiatina. Di contro, Giacomo da Vitry proveniva dalla Francia settentrionale, dove nel 1214 fu incaricato di predicare la nuova impresa in Lotaringia; quest’ultimo non aveva pertanto alcun motivo di lodare il valore e le imprese di tedeschi.

Oliviero da Colonia e la Historia Damiatina

La prima menzione di Oliviero nelle fonti è databile al 1196, quando compare tra i canonici della cattedrale di Paderborn in Westfalia, regione da cui probabilmente veniva. Nel 1201 era stato trasferito a Colonia, dove era diventato scolastico della cattedrale. Prese quasi sicuramente parte alla predicazione per la crociata contro gli albigesi tra il 1205 e il 1207-1208, periodo in cui probabilmente soggiornò presso l’Università di Parigi e stabilì contatti con vari personaggi tra cui Giacomo da Vitry. Gli anni successivi furono spesi da Oliviero a Colonia dove proseguì la sua attività da scolastico e predicatore per oltre vent’anni. La sua fama dovette raggiungere Innocenzo III, il quale nel 1213 decise di incaricare Oliviero e il decano di Ermanno di Bonn della predicazione della nuova crociata orientale nella provincia ecclesiastica di Colonia e nelle terre di Brabante, Fiandre e Frisia. Infine, nel novembre 1215 Oliviero accompagnò l’arcivescovo di Colonia a Roma per prendere parte al IV concilio lateranense. Successivamente prese la croce e si imbarcò per l’Oriente da Marsiglia insieme ai crociati tedeschi all’inizio del 1217, partecipando alla crociata in Egitto, dove rimase per cinque anni fino al 1222. Il 16 febbraio 1222 Oliviero era Colonia, dove riprese l’attività di predicatore. A partire dal maggio 1223 fu nuovamente in prima linea nella predicazione della crociata di Federico II, che venne più volte ritardata dall’imperatore fino ad essere scomunicato nel 1227 da papa Gregorio IX. Nel 1225 fu assunto al cardinalato con il titolo di cardinale vescovo di Santa Sabina che detenne fino alla morte, avvenuta a Colonia nel 1227. La crociata coincise con un periodo molto produttivo per Oliviero, il quale scrisse ben tre opere e almeno quattro lettere, anche se rimane un mistero come si sia potuto procurare una vasta collezione di fonti durante il viaggio, argomento che ancora oggi non è stato affrontato in modo esaustivo dalla storiografia sull’argomento (si tratta di una

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descrizione della Terrasanta, una Historia de Ortu Jerusalem, Historia regum Terre Sancte (1096-1215), tutte opere basate su altre dei suoi contemporanei o predecessori).

Preparativi

La bolla Quia maior annunciò la riunione di un nuovo concilio ecumenico per il 1215 che doveva provvedere a tutte le questioni della Chiesa, in particolare ai rapporti con la Chiesa greca e alla crociata. Il canone 71 riguardò la nuova crociata, che doveva partire il 1 giugno 1217 da Brindisi e Messina. Il canone comprendeva tutto il programma che Innocenzo III aveva pensato per evitare gli errori delle precedenti spedizioni, proprio negli stessi anni in cui organizzava la crociata contro gli albigesi e contro gli Almohadi in Spagna. Il canone prevedeva molte raccomandazioni al clero, il quale doveva pregare ed esortare alla spedizione, insegnare ai crociati con la parola e l’esempio il timore di Dio. Il papa diede disposizioni circa la predicazione della crociata in tutte le regioni della cristianità, a partire dalla Germania, estendendo la predicazione anche al Nord Europa, all’Inghilterra, alla Francia e alle Fiandre, dove furono incaricati come legati per la propaganda Giacomo da Vitry e il cardinale Roberto di Courçon. A tutti quelli che prendevano la croce erano concesse indulgenze plenarie, secondo la tradizione crociata. Si prescriveva che per quattro anni vi dovesse essere nella cristianità una pace di Dio che impedisse le guerre tra principi. Tutti i vescovi dovevano predicare la crociata e sorvegliare la predicazione nella loro diocesi; dovevano scomunicare coloro che facevano il voto ma che poi non sarebbero partiti. Tutti i re, principi, comunità avrebbero dovuto mettere a disposizione un certo numero di guerrieri in rapporto alla loro capacità finanziaria per tre anni a loro spese. Tutti gli ecclesiastici dovevano contribuire con un versamento in denaro alle spese della spedizione per tre anni sotto pena di scomunica; il papa e i cardinali dovevano versare il doppio e il pontefice si impegnava personalmente per 30.000 lire. I crociati sarebbero stati esentati da ogni tributo per la durata della spedizione, i loro beni e le loro persone sarebbero state sotto la protezione della Chiesa. Infine per tutta la durata della crociata erano proibiti i tornei, qualunque relazione navale con i musulmani per mettere tutto il naviglio a disposizione dell’organizzazione militare, era poi vietato in perpetuo ogni commercio di armi e materiale utile per la guerra con i musulmani, nonché servire su navi e su galee. Il punto più importante dei provvedimenti era quello che riguardava la raccolta del denaro: non si trattava più di una adunata di crociati che volontariamente si impegnavano nella spedizione, ma si trattava di mettere insieme un esercito formato da una massa di stipendiati. Per il regolamento finanziario il papa nominò il tesoriere e il ciambellano del Tempio di Parigi, il maresciallo degli Ospedalieri e i due Grandi Maestri dei due Ordini.

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La quinta crociata

Quindi con le lettere Vineam Domini Sabaoth e Quia Maior del 1213, papa Innocenzo III lanciò il progetto dell’organizzazione di una nuova crociata in Terrasanta e convocò contemporaneamente un concilio generale da tenere a Roma al fine di riformare i costumi della cristianità di organizzare l’impresa.

In seguito alla morte di Innocenzo nel marzo 1216, i piani per la crociata furono ripresi da Onorio III, il quale trovò molte difficoltà nel reclutare i capi della spedizione. Nel gennaio 1217 il cardinale Ugolino di Ostia, futuro Gregorio IX, predicò la crociata in Nord Italia, dove l’organizzazione dell’impresa era influenzata e rallentata dalle tensioni esistenti tra i comuni. Nel 1216 inoltre morì Giovanni d’Inghilterra, che in precedenza aveva preso la croce, e il pontefice si trovò a dover esercitare pressioni su Andrea II di Ungheria, impegnato così ad onorare il voto crociato originariamente preso dal padre defunto. Infine Federico II nel 1215 era impegnato ad Aquisgrana a realizzare la crociata, ma nell’anno successivo fu impossibilitato a partire a causa della lotta con il deposto Ottone IV di Brunswick.

In Oriente alla vigilia della quinta crociata l’impero ayyubide era saldamente nelle mani di al-Malik al-Adil (conosciuto anche come Safedino, sultano d’Egitto ayyubide dal 1200 al 1218), fratello di Saladino, che era riuscito a instaurare una solida alleanza con il principato di Aleppo nel 1212, grazie al matrimonio della figlia con il principe di Aleppo. Il figlio al-Kamil reggeva Damietta come viceré dal 1207 e un altro figlio, al-Muazzam, Damasco.

Campagna in Palestina

Nel maggio 1217 i crociati provenienti dalla Renania e dalla Frisia intrapresero il viaggio, fermandosi prima a Lisbona, dove presero parte all’assedio di Alcader do Sol e arrivarono ad Acri nell’aprile 1218. I primi a giungere in Terrasanta furono il re Andrea II di Ungheria e il duca Leopoldo d’Austria che radunarono i loro eserciti ad Acri. Nel settembre si accolsero ad Acri 2000 cavalieri, 1000 sergenti e una folla di fanti, nonché molti non combattenti, pellegrini e donne. Ad accogliere i crociati vi erano il re di Gerusalemme Giovanni di Brienne, il re di Cipro Ugo di Lusignano, il principe di Antiochia Boemondo IV (giunti per via della predicazione-esortazione di Giacomo da Vitry in Oriente), i Grandi Maestri dei tre Ordini (templari, ospedalieri, teutonici). Nella seconda parte del 1217 il sultano decise di muovere contro i crociati, ma fu costretto ad una ritirata strategica verso Damasco, poiché essi erano superiori in numero e forza all’esercito musulmano.

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Uno dei caratteri particolari di questa crociata sarebbe stato proprio l’arrivo scaglionato e non sempre costante di truppe, situazione che riuscì comunque a destabilizzare il sultano al-Adil, il quale sperava nella stanchezza di un esercito crociato compatto e numeroso ma capace di resistere per poche e forti offensive.

Quando fu chiaro ai partecipanti che Federico II non si sarebbe unito a loro, i responsabili militari nominarono a capo della spedizione Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme. Secondo l’esperto condottiero era necessario attaccare in forza verso l’Egitto per impedire al sultano di Damasco di accorrere in soccorso del padre al-Adil. Le prime discussioni vertevano proprio sulla meta dello scontro, poiché però la maggior parte di crociati occidentali volevano andare a Gerusalemme, sfiduciarono inizialmente le strategie del re di Gerusalemme.

I crociati si diressero quindi dapprima in Palestina e partirono da Acri, dove si trovava Giacomo da Vitry (che nel frattempo continuava a predicare, tramite interprete, la crociata). Il 3 novembre 1217 si marciò verso Beisan; il 10 novembre le truppe arrivarono al Giordano, dove i crociati riposarono e fecero grandi abluzioni il fiume sacro, poi caricarono gli ammalati e i poveri e tornarono ad Acri. Dopo un breve riposo ad Acri, i crociati ripresero la marcia verso la fortezza eretta sul Monte Tabor (la fortezza fu successivamente smantellata da al-Muazzam per evitare che in futuro i cristiani riuscissero a stanziarsi sul quel punto strategico); la fortezza resistette e il 7 dicembre 1217 i crociati tornarono ad Acri. Si tentò poi la presa del castello di Beaufort presso Sidone ma anche in questo caso l’assalto non riuscì. In questo periodo il re di Ungheria, di ritorno dal Giordano, si ammalò e decise di tornare nel suo regno, accompagnato dal re di Cipro e dal principe di Antiochia fino a Tripoli, nel gennaio 1218; il patriarca di Gerusalemme lanciò la scomunica su re Andrea incolpandolo di essere fuggito. Nel frattempo Giovanni di Brienne cercò di usare le truppe che rimanevano per rinforzare Cesarea, costruendo un nuovo castello lungo la costa, a sud di Acri (Castel Pellegrino, affidato ai Templari) e scongiurando così il pericolo costituito dal castello sul monte Tabor.

Campagna in Egitto

Dopo una prima fase svoltasi in Palestina, fase che non vide né vittorie importanti ma neanche sconfitte dure per l’esercito crociato, le operazioni militari si spostarono verso l’Egitto. La campagna del 1217/1218 aveva dato qualche frutto, poiché la fortezza sul Tabor non costituiva più una minaccia per Acri.

Nell’aprile 1218 arrivarono ad Acri molte navi cariche di pellegrini desiderosi di combattere che venivano dalle province settentrionali della Germania. Giovanni di

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Brienne e il duca d’Austria tentarono di pensare a quale strategia si potesse realizzare, scartando subito l’idea di marciare su Gerusalemme. Dunque si riprese il progetto dello sbarco in Egitto, tentando di penetrare abbastanza da occupare il Cairo, per creare nel delta del Nilo una base di operazione contro la Siria che fosse facilmente accessibile dall’Europa e di facile vettovagliamento. Si decise quindi di partire con l’occupazione di Damietta sul ramo più orientale del delta del fiume: era anche la città di Egitto che più si conosceva. La città era fortificata da ben tre strati di mura, inoltre controllava l’accesso al Nilo tramite la possente Torre delle Catene. Damietta era allora governata dal figlio del sultano, Malik al-Kamil; Al-Adil indirizzò le sue armate in Egitto e ottenne l’aiuto anche di al-Muazzam, signore di Damasco.

Come racconta Oliviero nella sua Historia, i crociati, appena giunti in Egitto, concentrarono i loro sforzi sulla conquista della torre costruita in mezzo al Nilo. Ci vollero ben tre mesi per prendere la torre sul Nilo, ma il 24 agosto 1218 la Torre della Catena venne presa. Furono impiegate numerose macchine d’assedio e torri su navi. Ad occuparsi in prima linea di queste attrezzature fu Oliviero da Colonia, il quale fece costruire una macchina che costava ben 2000 marchi: si trattava di una torre di legno galleggiante, montata su due grandi imbarcazioni, dalla quale gli assalitori riuscirono a lanciare delle passerelle per fiaccare le difese della Torre. Da parte araba la presa della Torre suscitò una grande impressione, tanto che si attribuì la morte del sultano al-Adil, avvenuta il 31 agosto, all’emozione provata per questa notizia. Da parte cristiana la presa della Torre fu festeggiata come una grande vittoria e molti ritornarono in patria, come lo stesso duca di Austria (non prima di farsi rilasciare dal patriarca di Gerusalemme un attestato di aver ben servito la causa per non incorrere nella scomunica). Molti partirono, ma altrettanti arrivarono dall’Italia, dall’Inghilterra e dalla Francia ed arrivò nel settembre con i crociati romani il nuovo legato pontificio Pelagio vescovo di Albano insieme all’altro legato Roberto di Courçon. Nell’ottobre Malik al-Kamil arrivò con nuove forze nell’area di scontro e cercò di costruire un ponte attraverso il fiume per poter manovrare la riconquista, ma Giovanni di Brienne lo respinse.

Il 29 novembre 1218 il fiume toccò le altezze massime inondando il campo crociato e l’inverno tra il 1218 e il 1219 fu per i crociati piuttosto duro: malattie infettive, penuria di viveri, mortalità assai alta. Morì il cardinale Roberto di Courçon, il vescovo di Parigi e altri prelati. Nel febbraio iniziò la vera e propria offensiva contro Damietta. Nella primavera del 1219 arrivarono altri rinforzi. Malik al-Kamil, divenuto sultano del Cairo, chiese con i suoi rappresentanti una tregua a Giovanni di Brienne: la proposta consisteva nella cessione del Regno di Gerusalemme esclusa la Transgiordania, purché i cristiani abbandonassero l’Egitto, in più avrebbe liberato i

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prigionieri cristiani pagando un indennizzo per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme e l’impiego di un tributo annuo. Giovanni di Brienne e i principali baroni erano propensi ad accettare la proposta del sultano, ma Pelagio si oppose e a lui aderirono anche i capi degli Ordini, nonché i rappresentanti delle repubbliche marinare italiane.

La guerra continuò. I saraceni attaccarono il campo cristiano ma i crociati riuscirono a resistere. Le donne collaboravano portando acqua, pietre, curando i combattenti, i sacerdoti pregavano, fasciavano le ferite dei colpiti, venivano i morti. Un’altra offensiva dei saraceni arrivò nel luglio, ma gli Ordini cavallereschi riuscirono a respingere l’attacco. Il 29 agosto 1219 tutte le forze cristiane attaccarono il campo nemico ma finirono in una rovinosa sconfitta. Il sultano riaprì i negoziati viste le condizioni della città assediata ormai da mesi. Nel settembre arrivarono al campo cristiano nuovi rinforzi dall’Europa che rialzarono il morale dei crociati. Nel novembre 1219, dopo un fallito tentativo di Malik al-Kamil di introdurre viveri nella città, i crociati tentarono un nuovo assalto e i difensori della città capitolarono perdendo Damietta (5 novembre).

Tutte le moschee di Damietta vennero trasformate in chiese. Ma Damietta non era un possedimento sicuro, i saraceni infatti avevano perso la città a causa della mancanza di viveri e di conseguenza i crociati non trovarono nulla. Si procedette con il saccheggio sistematico prendendo oro, argento, seta e tutto ciò che avesse valore (anche se molto del denaro rimasto era stato gettato o nascosto dai saraceni). La città venne divisa in quartieri che furono assegnati con le torri e le mura alle varie nazioni. Il grande problema però era stabilire chi dovesse essere il signore della città. Giovanni di Brienne la reclamava per il regno di Gerusalemme, mentre Pelagio rivendicava i diritti della Chiesa di Roma. Gli scontri interni portarono a una vera e propria guerra aperta: gli italiani sostenevano il legato papale e cacciarono dalla città Giovanni di Brienne e i suoi il 21 dicembre, ma presto il re, con gli Ordini, rientrò in città e riuscì a cacciare gli italiani il 6 gennaio. Si arrivò poi ad una pace ed una grande processione guidata da Pelagio e dal Patriarca per celebrare la riconciliazione. La guerra continuava ed era necessario difendere Damietta. L’esercito crociato era in piena dissoluzione, si occupava solo di mangiare, bere alcolici consumando le riserve, intrattenersi con meretrici e giocare. I vescovi non riuscivano ad avere autorità e le loro minacce di scomuniche non riuscivano a riportare l’ordine. Molti ritornarono nelle rispettive patrie come il re di Gerusalemme, il Gran Maestro del Tempio, i cavalieri francesi e quelli di Cipro. Nel frattempo i saraceni iniziavano a stringere la città. Si continuava ad attendere il grande esercito di Federico II, si attendeva il suo arrivo e ci si preparava. Pelagio decise di assumere con energia il riordinamento dell’esercito: espulse tutte le meretrici, proibì di frequentare le taverne

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e il gioco dei dadi. Incaricò una commissione di 12 consiglieri di perseguire impiccare ladri e assassini. Nel frattempo fece costruire torri e castelli per difendere la città e il porto.

Un ulteriore dissidio intercorse tra Pelagio e Giovanni di Brienne: il dissidio riguardava l’Armenia, poiché era morto il re Leone II, di cui Giovanni di Brienne aveva sposato anni prima una figlia. Gli armeni però avevano riconosciuto come regina l’altra figlia di Leone, Isabella, che avrebbe dovuto sposare un figlio del re di Ungheria, il quale però rifiutava il regno e il matrimonio. Giovanni di Brienne partì per l’Armenia nel marzo 1220 per difendere i diritti della moglie e Pelagio assunse allora le pretese di un nipote di Leone II, venuto da Antiochia a Damietta per cercare aiuto. Il legato si affrettò a inviare in Armenia il suo protetto accompagnato dal Gran Maestro degli Ospedalieri, ma fu catturato e imprigionato a Tarso dagli armeni. Isabella nel frattempo sposava Filippo figlio di Raimondo IV di Antiochia e Giovanni di Brienne perse la moglie e fu costretto a tornare a Damietta nel luglio 1221.

Federico II aveva preso la croce nel 1215 ad Aquisgrana in occasione della sua incoronazione come re di Germania per dimostrare la gratitudine per chi lo aveva innalzato. Onorio III non sollecitò Federico, sebbene già fosse in sviluppo l’azione crociata in Siria e poi in Egitto. Fu lo stesso imperatore che parlò della sua intenzione di partecipare alla spedizione quando si recò a Roma per la morte di Innocenzo III. Dopo la morte di Ottone IV, Federico aveva piena libertà di azione e rispose al papa che si sarebbe occupato della crociata nella dieta convocata per il marzo 1219. La dieta non si tenne e nel maggio 1219 Federico espresse il desiderio che prima di partire per la Terrasanta venisse incoronato il figlio Enrico, cosicché durante la sua assenza il governo del regno fosse stato sicuro. Nel settembre 1219 chiese un ulteriore rinvio per la crociata per il marzo 1220: il pontefice aderì, ma ricordò Federico che egli stesso aveva proposto la scomunica per chi mancasse al voto. Nel 1219 Federico II si adoperò molto per i preparativi per la partenza sia in Germania che in Italia: fece predicare per la spedizione, raccolse le navi nei porti italiani. Dovette fronteggiare l’indifferenza della nobiltà di Germania. Nell’aprile 1220 alla dieta di Francoforte venne eletto Enrico VII di Svezia re e si deliberò per l’incoronazione imperiale di Federico, il quale nuovamente non partì. Nel novembre 1220 fu incoronato con la consorte Costanza a San Pietro. Durante l’incoronazione l’imperatore prese nuovamente la croce e annunciò che sarebbe partito nell’agosto seguente, non prima di aver inviato dei soccorsi. Infatti nell’aprile 1221 partite il duca di Baviera Ludovico I e poco dopo fece partire anche la flotta del conte di Malta. In ogni caso i contingenti non erano numerosi e arrivarono troppo tardi.

Nel frattempo a Damietta la situazione era peggiorata in assenza di Giovanni di Brienne, Pelagio era rimasto da solo a governare la città e l’esercito attendendo con

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fiducia l’arrivo di Federico II. Il sultano continuava a raccogliere truppe nel suo accampamento presso Mansurah e fece appello a tutti i guerrieri ayyubidi, soprattutto ai fratelli viceré al-Muazzam e al-Aschraff. Nel maggio 1221 sbarcarono nella città alcune truppe con il Gran Maestro dei Teutonici e il duca di Baviera e a questo punto Pelagio decise di riprendere l’offensiva attaccando il Cairo. Sembra che proprio in questo frangente Pelagio fosse molto influenzato da alcuni libri apocrifi apocalittici che annunciavano la distruzione dell’Islam il trionfo della croce e i crociati credettero alle sue esortazioni. Quando Giovanni di Brienne ritornò a Damietta (6 luglio), trovò l’esercito pronto per un nuovo attacco; sconsigliò inutilmente la partenza e consigliò nuovamente di scendere a patti con i nemici, ma Pelagio si impose accusandolo di tradimento.

A metà luglio 1221 iniziò la marcia lungo la riva sinistra del Nilo; i crociati arrivarono presso Baramûn. Il 24 luglio le truppe crociate si scontrarono con lo schieramento dei tre sultani presso Sharamisch e per l’esercito cristiano fu impossibile sia avanzare che retrocedere, poiché l’esercito musulmano era riuscito anche ad aggirare alle spalle quello cristiano (nonché a tagliare fuori i Franchi da Damietta occupando un canale secondario e bloccando i rifornimenti). Nel frattempo il Nilo iniziò ad ingrossarsi e l’esercito cristiano si trovò circondato anche dall’acqua. Il 26 luglio 1221 Pelagio ordinò la ritirata su Baramûn e chiese al sultano di aprire trattative, ma questa volta non si poteva più trattare da vincitori. Malik al-Kamil dissuase i fratelli che volevano concludere l’attacco e decimare del tutto l’esercito cristiano (temendo anch’egli l’arrivo massiccio delle truppe imperiali di Federico); riuscì invece a riavere pacificamente la città e a chiudere il conflitto rovinoso. Giovanni di Brienne e Guglielmo Gibelletto si recarono al campo nemico per negoziare la tregua: secondo le trattative i crociati avrebbero liberato Damietta, il sultano avrebbe acconsentito ad una ritirata pacifica restituendo i prigionieri. In Siria si sarebbe ristabilito il regime delle tregue, protratto per otto anni. Il sultano inviò in ostaggio suo figlio, rifornì i cristiani di viveri a fine luglio, mentre al campo del sultano doveva rimanere come ostaggio re Giovanni sino a sgombro ultimato. Oliviero scrisse una lettera di ringraziamento al sultano e lo invitò a farsi cristiano, quasi come ultima speranza. Mentre si procedeva con la liberazione di Damietta, arrivarono le navi comandate da Enrico Pescatore conte di Malta e da Anselmo di Iustingen, maresciallo di Federico II. I nuovi arrivati protestarono contro la resa e dichiararono che avrebbero impedito agli infedeli di entrare a Damietta, trovando il consenso dei crociati italiani. Ma i capi degli Ordini si opposero argomentando che era stato concluso un trattato non lo si poteva violare. Per l’ennesima volta le discussioni diventarono lotta aperta e gli italiani (Genovesi, Pisani, Veneziani) si impadronirono delle case degli Ordini, ma i Grandi Maestri minacciarono di consegnare Acri al sultano se non avessero interrotto l’attacco. Così il tutto si

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concluse e il 7 settembre 1221 Damietta era liberata, Giovanni di Brienne e gli Ordini partirono per Acri, Pelagio ritornò a Roma.

Le cause del fallimento

La storiografia si è divisa circa la valutazione delle responsabilità da attribuire ai capi cristiani per il fallimento della quinta crociata. Sono tre gli aspetti considerati principalmente: il ruolo di Pelagio di Albano, legato papale; il modesto contributo dei capi militari della crociata e il mancato supporto all’impresa di Federico II. Infine furono importanti le decisioni strategiche dell’armata crociata, a partire dal progetto di dirigersi in Egitto e conquistare Damietta, piano elaborato nel 1218, fino alla decisione di non conquistare Il Cairo, ma di concentrare l’attacco sulla foce del Nilo, dove crociati furono poi sconfitti definitivamente nell’estate 1221.

René Grousset nel 1936 attribuì l’esito negativo della crociata al cardinale legato Pelagio, reo di aver agito senza seguire i consigli di Giovanni di Brienne, che al contrario, secondo lo storico francese, rappresentava la vincente tradizione delle istituzioni monarchiche franco-siriane in Palestina. Questo giudizio è stato più recentemente ripreso da Hans E. Mayer, il quale ha motivato l’insuccesso della crociata con l’imposizione di Pelagio e ha interpretato la spedizione in Egitto come un tentativo della Chiesa di prendere il controllo del movimento crociato.

Di contro, Steven Runciman ha ridimensionato la responsabilità di Pelagio e ha cercato le cause dell’esito negativo in diversi fattori: la quinta crociata era giunta molto vicino al successo e le cause del suo epilogo deludente devono essere individuate nel mancato appoggio di Federico II alla spedizione ed anche alla errata decisione di non attaccare Il Cairo, vero punto di partenza per la riconquista della Palestina, ed infine nell’atteggiamento arrogante di Pelagio e nella carenza di carisma da parte di Giovanni di Brienne. Insomma secondo lo studioso diverse concause furono all’origine dell’insuccesso della spedizione.

Una difesa dell’operato di Pelagio è stata proposta da Joseph Donovan, il quale ha suggerito che le cause del fallimento della crociata dovessero essere ricercate negli avvenimenti del 1220, quando l’imperatore Federico II decise di non partire per l’Egitto e Giovanni di Brienne ritornò in Palestina con i suoi uomini, lasciando i crociati a Damietta senza una strategia ben definita utile a concludere l’impresa. Altri studiosi sottolineano il mancato appoggio dei poteri laici, in primo luogo Federico II, i quali erano più interessati a consolidare la propria posizione politica che combattere per la Chiesa e per la liberazione della Terrasanta. Le divisioni all’interno dell’armata e le mancate strategie sono considerate come possibili spiegazioni per l’esito negativo

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anche da Jean Richard, il quale sottolinea come la conquista di Damietta fosse stata un duro colpo per i musulmani e avesse fatto sperare in un possibile successo dell’impresa.

L’opinione di Oliviero di Paderborn

La fonte principale per lo studio della quinta crociata è senza dubbio la Historia Damiatina di Oliviero da Colonia, che copre il periodo dal 1217, quando Andrea II d’Ungheria e Leopoldo d’Austria sbarcarono ad Acri, fino alla sconfitta e la pace siglata con al-Kamil nel 1221. Nella sua opera Oliviero mette in evidenza le divisioni dei capi della crociata e le defezioni dei crociati italiani, ungheresi e francesi, nonché l’atteggiamento di Giovanni di Brienne, colpevole di aver lasciato l’Egitto nel 1220 per perseguire i propri interessi in Palestina. L’autore sembra particolarmente critico verso il comportamento dell’esercito cristiano dopo il 1220, quando i crociati vengono segnalati per la loro inerzia, corruzione e cupidigia, abusando del favore di Dio nei loro confronti. Di contro, Oliviero esalta anche il valore e il coraggio in battaglia dei crociati tedeschi e frisoni e riporta meticolosamente le perdite subite nelle loro fila, sottolineando e descrivendo dettagliatamente la conquista della torre mezzo al Nilo, dove Oliviero enfatizza il coraggio di un giovane frisone che diede il via all’azione. Egli dedica anche un encomio alla sua città, Colonia, e ai suoi uomini, nel capitolo in cui celebra la presa di Damietta nel novembre 1219.

La critica nei confronti di Pelagio sembra essere moderata, viene descritto a più riprese come capo della spedizione, in particolare dopo la partenza di Giovanni di Brienne. Secondo Oliviero i problemi di Pelagio derivarono dal rifiuto dei crociati francesi e italiani di collaborare con le sue scelte strategiche per conseguire i propri interessi particolari. L’autore non rinuncia ad attribuire Pelagio la decisione di non siglare una tregua con i musulmani nell’estate 1221. Questa volta il legato è descritto come il portavoce delle ragioni del papa e di Federico II, che non avrebbero accettato una tregua con gli infedeli, anche se una simile decisione avrebbe potuto evitare la sconfitta dei crociati, come suggeriva invece Giovanni di Brienne.

Piuttosto estemporaneo è il ruolo di Federico II, che sembra aver illuso i crociati con la promessa di una sua partecipazione dopo l’incoronazione imperiale del 1220, e che invece si limitò ad inviare Ludovico I di Baviera con un contingente ridotto di truppe. Peraltro l’imperatore sembra aver fornito il solo supporto logistico ai crociati nel 1222, quando ordinò a quattro galere di raggiungere Acri. Dunque la sconfitta dei cristiani è attribuita da Oliviero alle circostanze e agli errori dei crociati. Le discutibili decisioni strategiche, l’innalzamento del livello del Nilo, che intrappola i cristiani nella morsa delle armate musulmane, e infine la forza dei saraceni sono

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elementi individuati da Oliviero come spiegazioni pratiche della sconfitta. In particolare, la narrazione degli eventi dell’estate 1221 preceduta da una lunga digressione in cui l’autore descrive in modo analitico l’Egitto e le popolazioni d’Oriente, quasi a giustificare il ventaglio di scelte strategiche che erano a disposizione dei cristiani. La tregua con Malik al-Kamil è descritta come un aiuto inviato da Dio in soccorso dei crociati, ed è giustificata in virtù della necessità. Non manca infine un tono moraleggiante nei riguardi dei comportamenti dei crociati, colpevoli di aver peccato di lussuria, cupidigia, ambizione e di aver mostrato in gratitudine verso il Signore per i suoi doni.

Un ampio spazio della narrazione di Oliviero è dedicato alle profezie e alle visioni, che accompagnarono i successi gli insuccessi dei crociati in Egitto. In particolare Oliviero illustra il contenuto di un libro scritto in arabo, che avrebbe profetizzato le vittorie di Saladino e la caduta di Gerusalemme nel 1187, insieme ai successi dei crociati a Damietta. Un altro libro scritto in arabo, citato da Oliviero come Il libro di Clemente, noto anche come Apocalisse di San Pietro, sembra che fosse posseduto dal legato papale Pelagio nel 1221; questo testo conteneva le rivelazioni fatte da Gesù a Pietro dopo la Resurrezione e prima dell’Ascensione e in quelle pagine si preannunciava la conquista di Damietta, Alessandria e Damasco da parte dei cristiani. Le profezie di questi due libri in arabo sono state inoltre citate da Giacomo da Vitry nella lettera VII scritta il 18 aprile 1221.

Oltre alla Historia Damiatina di Oliviero ci rimangono altre due importanti fonti che descrivono gli eventi della quinta crociata: il suo epistolario e in particolare le quattro lettere scritte al tempo in cui lo scolastico si trova in Egitto, e cinque delle sette lettere di Giacomo da Vitry. Tra le lettere III-VI di Oliviero, solo la lettera III ripercorre gli eventi della crociata, riprendendo il racconto fornito dalla Historia e copre il periodo tra il 1217 e l’agosto 1218. In questa lettera, indirizzata al clero di Colonia, Oliviero narra le prime fasi della crociata, dallo sbarco ad Acri alle spedizioni in Palestina, fino all’arrivo in Egitto e alla conquista della torre in mezzo al Nilo. Le altre lettere scritte da Oliviero hanno come tema la predicazione della crociata la conversione dei musulmani e rievocano l’attività di Oliviero come predicatore. Le lettere V-VI sono dirette a Malik al-Kamil e contengono l’apologia della fede cristiana, finalizzata alla conversione dei musulmani. Queste ultime furono scritte nel settembre 1221, dopo il fallimento della spedizione crociata, e possono essere interpretate come un tentativo di portare a termine almeno una parte dell’impresa, sperando in una possibile conversione del sultano.

Le lettere III-VII di Giacomo da Vitry, scritta durante la permanenza dello stesso in Egitto, narrano gli eventi della crociata a partire dall’autunno 1217 fino all’aprile 1221, seguendo l’ordine temporale presente nella Historia Damiatina. In esse si

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trovano due menzioni dello scolastico di Colonia, riguardanti il suo arrivo ad Acri al seguito dei crociati tedeschi nel 1217 e il suo contributo alla costruzione delle macchine da guerra, che furono fondamentali per i crociati nella conquista della torre sul Nilo. Inoltre, Giacomo da Vitry riecheggia nella lettera IV la descrizione dell’Egitto fornita nel primo libro della Historia Occidentalis. Infine la lettera VII di Giacomo da Vitry coincide con il racconto di Oliviero circa le due profezie contenute in testi arabi che erano a disposizione dei crociati dopo la presa di Damietta, aggiungendo inoltre il testo di una terza profezia concernente il Prete Gianni, o il re Davide d’India, il cui arrivo era auspicato e doveva ricorrere l’intervento di Federico II.

Sulla quinta crociata esiste anche un gruppo di opere minori, pubblicate da Röricht nel 1879. La relazione che intercorre tra questa produzione storica con la produzione epistolare di Oliviero da Colonia e quella di Giacomo da Vitry non è stata fino ad oggi studiata con attenzione. Di queste res gestae, due riguardano la crociata dei Frisoni e dei Renani tra il 1217 e il 1219. Altri tre testi, uno dei quali in vernacolo francese, si occupano della storia dell’assedio di Damietta e coprono gli anni 1218-1219.

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FRANCESCO D’ASSISI E L’ISLAM

Introduzione

La questione francescana, iniziata con Paul Sabatier, non si è mai davvero chiusa e, proprio per gli sforzi degli storici dall’inizio del Novecento ad oggi, è rimasta un cantiere di discussione aperto sull’uso delle fonti, sulla loro attendibilità o sulla loro possibilità di utilizzazione, sulla presenza e sul valore dei topoi agiografici, sull’impostazione ideologica e politica dei diversi autori, sullo stretto rapporto che ogni fonte ha con alcuni momenti della storia minoritica. Ci sono stati studiosi che hanno considerato le prime vite di Francesco come un assemblaggio di temi agiografici e quindi come materiali inutilizzabili per la ricostruzione della vita del santo, chi ha difeso gli autori ufficiali e chi ha cercato e trovato nuove fonti che apparivano critiche proprio verso quelle ufficiali. Per quanto riguarda il metodo storiografico rimane ancora valida l’impostazione metodologica di Paul Sabatier: tutte le fonti sono di parte, ma bisogna essere sospettosi più di quelli che nascondono la loro parzialità, rispetto a quelle la cui parzialità appare evidente per l’espresso tono polemico. Inoltre, nel caso di Francesco, lo studioso francese ritenne che ogni fonte dovesse comunque essere letta attraverso lo spettro degli scritti autentici del santo, usati come pietra di paragone. Altre metodologie si sono aggiunte nei decenni del Novecento, come l’estensione della Formgeschichte (critica delle forme) dagli studi biblici a quelli francescani e i tentativi di decodificare i vari racconti ed episodi alla luce delle tendenze e della formazione mentale e culturale dell’autore.

L’episodio dell’incontro di Francesco con l’Islam, la sua idea di crociata e di guerra in generale richiede un uso critico delle fonti, oltre ad essere un episodio cruciale che ha avuto profonde ripercussioni politiche nel nostro presente. Il tema del rapporto di Francesco d’Assisi con le crociate e con l’Islam è diventato oggetto di dibattito in ambito storiografico ma ha anche avuto ripercussioni in interventi politici. Alcuni storici hanno messo in discussione l’atteggiamento pacifico e dialogante di Francesco verso i musulmani ed il suo rifiuto di guerra santa; le argomentazioni provengono da studiosi anche illustri, tra i quali non ultimo è Franco Cardini (Le Crociate tra il mito e la storia e Nella presenza del soldan superba. Bernardo, Francesco, Bonaventura e il superamento spirituale dell’idea di crociata). Il revisionismo storico ha toccato anche questo tema e su quest’argomento si contano numerosi interventi, stimolati direttamente o indirettamente dagli scritti “anti-pacifisti”. Forse la reazione più netta è quella di Chiara Frugoni, la quale più volte ha preso posizione in favore di un Francesco sempre portatore di pace verso tutti; il suo studio ripercorre fonti e problemi da prendere in esame nell’argomento, estendendo lo studio verso la

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prospettiva iconografica, quindi alle immagini che pittori e miniaturisti cristiani offrono dell’incontro di Francesco con il sultano e con i crociati di dal XIII secolo fino al secolo XV, mostrando un progressivo allontanamento da quella che era la posizione del santo.

Due studiosi in particolare hanno affermato che quello di Francesco pacifista è un mito creato dagli storici del Novecento e che ogni epoca storica ha interpretato a suo modo l’atteggiamento del santo verso la guerra e i nemici della cristianità, proponendo una propria precisa interpretazione di Francesco quale non avversario della crociata.

Raimondo Michetti ha presentato un’analisi seria e non inficiata da spirito di parte, soffermandosi sulle debolezze delle interpretazioni contemporanee, secondo lui sbilanciate verso un Francesco contrario alla crociata e favorevole ad un contatto solo dialogante con i musulmani. Questo atteggiamento, secondo lo studioso, deriverebbe dal clima generale della seconda metà del XX sec di ricerca di dialogo, se non di pacifismo più o meno militante. Ripropone la concezione di un Francesco che non poteva essere contro la crociata, perché voluta dal papato, col quale il santo era in sintonia e perché radicata nella concezione del tempo. Il silenzio di Francesco verso la crociata per lo studioso significa il suo assenso ad essa. Per Michetti è difficile dubitare, sulla base di svariate fonti di diversa provenienza, che il santo avesse al centro della sua azione la pace e la pacificazione delle città, tra le città e tra le istituzioni come ricordano la penultima strofa del Cantico delle Creature sul perdono, il saluto Dominus det tibi pacem. La discussione verte su un altro punto, se tale attitudine si rivolgesse anche ai non cristiani con meno, se il santo, contrario alla guerra, fosse contrario anche alla crociata o meno. Forse l’enfasi posta sul dialogo di Francesco con l’Islam, l’estensione agli infedeli e alla crociata del suo atteggiamento di pacificatore è un’estensione della sua attitudine, sulla cui legittimità si può discutere, ma senza ridurla a mito acriticamente assunto in ossequio alle ideologie o alle mentalità del Novecento.

John Tolan imposta la sua polemica religiosa in chiave assolutamente attuale; la validità critica del suo libro è fortemente inficiata dalla credulità di uno storico che non ha ritenuto necessario verificare l’attendibilità della leggenda dei polli, nata in Francia e diffusa in Italia da uno scrittore anch’egli fortemente di parte ed impegnato nella lotta politico-religiosa. La polemica religiosa di Tolan è assolutamente in chiave attuale. Il suo libro sembra nato da uno stimolo politico contemporaneo, soprattutto se si considera che l’autore non era pratico di studi di ambito francescano, ma prevalentemente sul versante dell’Islam. La polemica dell’autore è stata ingenerosa non solo nei confronti di scrittori che hanno scritto di un Francesco campione della

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pace per fini pastorali, religiosi o ecumenici, ma anche nei riguardi degli storici di professione, i quali risultano in netta minoranza nella bibliografia di Tolan.

Le posizioni di questi due studiosi potrebbero essere ribaltate: la pace universale di Francesco è il punto di arrivo di una lunga ricerca storica e di un approfondimento dell’analisi delle fonti con il ritrovamento e l’uso di nuove testimonianze. Certamente gli storici del Novecento hanno risentito di tendenze del loro tempo e perciò hanno accentuato alcune conclusioni, ma probabilmente non hanno inventato nulla, tanto più che si muovevano da presupposti politici e religiosi differenziati. Raoul Manselli ha prodotto uno studio su Francesco e l’Islam dalle ampie prospettive, nel quale pone a confronto varie fonti bio-agiografiche, analizza il capitolo XVI della Regula non bullata, colloca il problema della missione in un collegamento tra Francesco e la storia successiva. Certamente lo studioso ha risentito di un’ampia atmosfera post-conciliare, ma la sua formazione viene da più lontano. Le conclusioni del suo articolo postumo, che sottolineano il messaggio di pace universale di Francesco e la sua contrarietà ad ogni guerra, sono significative perché non sembrano risentire di un ecumenismo irenico né acritico.

C’è poi da chiedersi se davvero solo il secolo XX ha presentato l’incontro di Francesco con il sultano in ottica di dialogo e di pace. Lo stesso Luca Wadding riferisce il racconto delle principali fonti francescane, senza accentuare atteggiamenti di Francesco a favore della crociata, ma sottolineando i rapporti benevoli tra Minori e musulmani. Egli riporta un brano della Historia Occidentalis di Giacomo da Vitry, in altro luogo racconta dell’incontro di Francesco con Innocenzo III nel 1212, durante il quale il santo espose la sua intenzione di missioni assolutamente pacifiche presso musulmani e tartari per diffondere il Vangelo. Leggendo le parole dell’annalista dei Minori nel secolo XVII si nota come egli sottolinei le intenzioni di missione pacifica presso gli infedeli e dei buoni rapporti tra musulmani e francescani. Un altro esempio più antico per questa immagine pacifica dei rapporti tra francescani e musulmani, collegata all’incontro di Francesco con il sultano è fornita da Angelo Clareno, che scrive verso il 1330 e sottolinea la forza della parola, della predicazione del santo di fronte a Malik al-Kamil.

Si possono vedere in maniera più approfondita i problemi che legano Francesco alla pace, alla guerra, alla crociata, alla missione. Il lavoro degli studiosi e della comunità scientifica che precedono questi studi aiutano ad avanzare, non è necessario gettare sugli storici e sulla scienza storica l’ombra di una parzialità incapace di ricercare la verità. Certamente Francesco ha elementi che lo discostano dalla nostra sensibilità, perché sono del suo tempo e perché sono suoi; bisogna però essere privi di preconcetti di ogni tipo, compresa la preoccupazione di poter trovare delle consonanze tra noi e il nostro oggetto di studio. Anche sulle fonti pesano concezioni

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per le quali ognuna di esse altro non è che testimonianza del suo autore, nella sua posizione, del suo tempo. Lo storico può usare le fonti per la ricostruzione di una porzione di realtà, per quanto piccola e imprecisa; se così non fosse si dovrebbero buttare tutti i libri di metodologia. D’altra parte le fonti non possono essere considerate tutte uguali e tutte sullo stesso piano: esse vanno decodificate.

Francesco e l’Islam

Dopo l’approvazione orale di Innocenzo III nel 1209, Francesco e i suoi compagni si danno alla predicazione nell’Italia centrale; probabilmente predicano il Vangelo, ma non nei suoi aspetti dottrinali. Essi sono laici e possono soltanto svolgere una predicazione penitenziale, cioè invitare alla conversione, a cambiare mentalità e ad affidarsi alla salvezza della croce. Gli storici sono concordi sulla centralità della predicazione di pace nel primo francescanesimo, ma questo accordo svanisce se si passa all’ambito dei rapporti tra Francesco e il mondo islamico. Francesco tentò più volte di andare nelle terre dell’Islam. Stando alla Vita prima di Tommaso da Celano, verso il 1211-12 si era imbarcato per la Siria, ma i venti contrari spinsero la nave in Dalmazia, da dove poi tornò ad Ancona. Tra il 1212 e il 1213 si era recato in Spagna per passare in Marocco, ma una malattia lo fermò e lo costrinse a tornare alla Porziuncola.

Perché voleva incontrare i musulmani? Tommaso da Celano giustifica il primo tentativo di Francesco come «sacri martyrii desiderio» e questa motivazione sarà ripresa da altre fonti francescane del XIII secolo, sino ad arrivare ai versi di Dante (Paradiso XI, 100-102). La data del martirio di cinque proto-martiri francescani uccisi in Marocco è posteriore di qualche mese al viaggio di Francesco in Egitto, si pone il 16 gennaio 1220. È significativo che subito dopo compaia nel 1221 il capitolo XVI della Regula non bullata sulla predicazione tra i musulmani e con consigli sull’atteggiamento in missione, molto prudente e tutt’altro che volto la ricerca del martirio. Frate Giordano da Giano scrivendo la sua Chronica intorno al 1262 ricorda brevemente i cinque frati coronati dal martirio, ma aggiunge subito dopo un commento di Francesco come se il santo non intendesse celebrare troppo quell’impresa Chronica cap. 8).

«Cum autem fratrum predictorum martirium, vita et legenda ad beatum Franciscum delata fuisset, audiens se in ea commendari et videns fratres de eorum passione gloriari, cum esset sui ipsius maximus contemptor et laudis et glorie aspernator, legendam respuit et eam legi prohibuit dicens: "Unusquisque de sua et non de aliena passione glorietur". Et ita tota illa prima missio, quia

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forte tempus mittendi adhuc non venerat, cum omnis rei tempus sit sub celo, ad nichilum est deducta.»

«Quando furono riferiti al beato Francesco il martirio, la vita e la leggenda dei suddetti frati, sentendo che in essa si facevano le lodi di lui, e, vedendo che i frati si gloriavano del martirio di quelli, poiché egli era il più grande disprezzatore di sé stesso e sdegnava la lode e la gloria degli uomini, rifiutò tale leggenda e ne proibì la lettura dicendo: "Ognuno si glori del suo proprio martirio e non di quello degli altri". E così tutta quella prima missione non approdò a nulla, forse perché non era ancora giunto il momento di mandarla poiché il tempo di ogni cosa è designato dal cielo (Qoelet 8,6)»

Nel 1219 Francesco riuscì finalmente ad andare in terra islamica, in un momento conflittuale nei rapporti tra cristiani musulmani, perché era in corso la quinta crociata che si svolse tra il 1217 e il 1221, con lo scopo di riprendere Gerusalemme riconquistata dal Saladino nel 1187. La Palestina apparteneva al sultano d’Egitto Malik al-Kamil, successore del padre, fratello del Saladino. Quindi le operazioni militari si diressero contro l’Egitto, concentrandosi attorno a Damietta. I capi cristiani erano il re titolare di Gerusalemme Giovanni di Brienne, il re di Ungheria Andrea II, il duca d’Austria Leopoldo VI di Babenberg, il legato papale il cardinale Pelagio Galvao (cardinale diacono di S. Lucia dal 1205, poi prete del titolo di S. Cecilia dal 1210, vescovo di Albano dal 1213, morì nel 1232). Nel giugno 1219 Francesco partì dal porto di Ancona e poco dopo arrivò Damietta. Il 29 agosto 1219 i crociati subirono una sconfitta, ma nel novembre conquistarono la città. Il sultano propose una tregua, ma il legato papale Pelagio rifiutò e volle lo scontro armato, urtandosi con Giovanni di Brienne e con il Gran Maestro del Tempio, Guillaume de Chartres. Questa decisione fu fatale perché il 21 agosto 1221 l’attacco portò alla disfatta dei crociati ed alla fine della crociata stessa.

In questo clima di guerra Francesco si reca dal sultano durante la tregua tra la sconfitta dei crociati del 29 agosto e la loro vittoria nel novembre. Si recò disarmato in territorio nemico con un lasciapassare papale, venne preso dalle parti del sultano e portato da lui su sua richiesta. Giacomo da Vitry, vescovo di San Giovanni d’Acri, in una lettera della primavera del 1220 a Papa Onorio III riferisce delle notizie sui Frati Minori, sulla loro diffusione, non nascondendo un lieve tono critico e dà notizia del passaggio di Francesco nel mezzo del conflitto:

«Magister vero illorum, qui ordinem illum instituit, cum venisset in exercitum nostrum, zelo fidei accensus ad exercitum hostium nostrorum pertransire non timuit et cum aliquot diebus Sarracenis verbum Dei predicasset, modicum

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profecit. Soldanus autem, rex Egypti, ab eo secreto petiit ut pro se Domino supplicaret quatinus religioni, que magis Deo placeret, divinitus inspiratus adhereret»

«Il maestro di questi frati cioè il fondatore di questo Ordine, venuto presso il nostro esercito, acceso dallo zelo della fede, non ebbe timore di portarsi in mezzo all'esercito dei nostri nemici e per molti giorni predicò ai Saraceni la parola di Dio, ma senza molto frutto. Ma il Sultano, re dell'Egitto, lo pregò, in segreto, di supplicare per lui il Signore perché potesse, dietro divina ispirazione, aderire a quella religione che più piacesse a Dio»

L’autore è colpito dall’episodio, ma senza intenti apologetici della persona. Non conosce Francesco, tanto che non sa neanche il nome, o almeno non lo cita. Oltre a lui vi è anche una fonte araba che conferma la presenza di un monaco cristiano (rahib) presso il sultano e la discussione che avvenne tra lui e un sapiente egiziano, direttore spirituale e consigliere del sultano: questo sapiente è Fakhr ad-din al Farisi e la fonte è la sua biografia o epitaffio:

«Costui ha una virtù riconosciuta da tutti. Celebre la sua avventura con Malik al-Kamil e quando gli capitò a causa di un monaco; tutto è assai conosciuto»

Il rahib non viene nominato, ma la fonte definisce l’incontro una celebre storia, anche se l’episodio non ha lasciato traccia in altre fonti arabe conosciute. Tolan fa notare che questa testimonianza potrebbe riferirsi anche ad episodi differenti (potrebbe trattarsi del patriarca copto di Alessandria che partecipò ad un dibattito con eruditi musulmani presieduto dal sultano nel 1221 oppure di un fedele copto giustiziato al Cairo nel 1209 per blasfemia).

Giacomo da Vitry tornò sull’incontro poco più tardi nella sua Historia Occidentalis, scritta forse già prima della fine del 1221:

«Non solum autem Christi fideles sed etiam sarraceni et obtenebrati homines, eorum humilitatem et perfectionem admirantes, quando causa predicationis ad ipsos intrepidi accedunt, grato animo necessaria providentes, libenter eos recipiunt. Vidimus primum huius ordinis fundatorem et magistrum, cui tamquam summo priori suo omnes alii obediunt, virum simplicem et illiteratum, dilectum Deo et hominibus, fratrem Francinum nominatum, ad tantum ebrietatis excessum et fervorem spiritus raptum fuisse, quod, cum ad exercitum christianorum ante Damiatam in terra Egypti devenisset, ad soldani Egypti castra intrepidus et fidei clypeo communitus accessit. Quem cum in via

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captum sarraceni tenuissent, «Ego» inquit «christianus sum. Ducite me ad dominum vestrum». Quem cum ante ipsum pertraxissent, videns eum bestia crudelis, in aspectu viri Dei in mansuetudinem conversa, per dies aliquot ipsum sibi et suis Christi fidem predicantem attentissime audivit. Tandem vero, metuens ne aliqui de exercitu suo, verborum eius efficacia ad Dominum conversi, ad christianorum exercitum pertransirent, cum omni reverentia et securitate ad nostrorum castra reduci precepit, dicens ei in fine: “Ora pro me, ut Deus legem illam et fidem que magis sibi placet mihi dignetur revelare”»

«E non soltanto i Cristiani, ma perfino i Saraceni e gli altri uomini avvolti ancora nelle tenebre dell'incredulità, quando essi compaiono per annunciare intrepidamente il Vangelo, si sentono pieni di ammirazione per la loro umiltà e perfezione e volentieri e con gioia li accolgono e li provvedono del necessario. Noi abbiamo potuto vedere colui che è il primo fondatore e il maestro di questo Ordine, al quale obbediscono tutti gli altri come a loro superiore generale: un uomo semplice e illetterato, ma caro a Dio e agli uomini, di nome frate Francino. Egli era ripieno di tale eccesso di amore e di fervore di spirito che, venuto nell'esercito cristiano, accampato davanti a Damiata, in terra d'Egitto, volle recarsi, intrepido e munito solo dello scudo della fede, nell'accampamento del Sultano d'Egitto. Ai Saraceni che l'avevano fatto prigioniero lungo il tragitto, egli ripeteva: “Sono cristiano, conducetemi davanti al vostro signore”. Quando gli fu portato davanti, osservando l'aspetto di quell'uomo di Dio, la bestia crudele si sentì mutata in uomo mansueto, e per parecchi giorni l’ascoltò con molta attenzione, mentre predicava Cristo davanti a lui e ai suoi. Poi, preso dal timore che qualcuno dei suoi si lasciasse convertire al Signore dall'efficacia delle sue parole, e passasse all'esercito cristiano, lo fece ricondurre, con onore e protezione nel nostro campo; e mentre lo congedava, gli raccomandò: “Prega per me, perché Dio si degni mostrarmi quale legge e fede gli è più gradita”»

Dell’incontro parlarono anche vari cronisti delle crociate, che ripresero l’uno dall’altro la notizia di Francesco dal sultano. Il primo, anche contemporaneo del santo, è Ernoul, che passò tutta la sua vita in Oriente e fu testimone oculare della quinta crociata. È da notare che anche lui non nomina Francesco:

Capitolo 37, 1-4 - «Due chierici si recano a predicare al Sultano»:

1. Ora vi dirò di due chierici che si trovavano nell’esercito a Damiata. Ungiorno si recarono dal cardinal (legato), e gli manifestarono la loro intenzione di andare a predicare al Sultano; ma volevano fare questo con il suo beneplacito. Il cardinale rispose che, per conto suo, non avrebbe mai dato né

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licenza né comando in tale senso, perché non voleva concedere licenza che si recassero là dove sarebbero stati senz'altro uccisi. Lo sapeva bene lui, che se ci andavano, non ne sarebbero tornati mai più. Ma essi risposero che, se ci andavano, lui non avrebbe avuto nessuna colpa, perché non era lui che li mandava, ma semplicemente permetteva che vi andassero. E tanto lo pregarono che il cardinale, costatando che avevano un proposito così fermo, disse loro: «Signori miei, io non conosco quello che voi avete in cuore e quali siano i vostri pensieri, se buoni o cattivi; ma se ci andate, guardate che i vostri cuori e i vostri pensieri siano sempre rivolti al Signore Iddio». Risposero che non volevano andare dal Sultano, se non per compiere un grande bene, che bramavano portare a compimento. Allora il cardinale disse che potevano pure andarci, se lo volevano, ma che non si pensasse da nessuno che era lui a inviarli.

2. Allora i due chierici attraversarono il campo cristiano, dirigendosi versoquello dei Saraceni. Quando le sentinelle del campo saraceno li scorsero che si avvicinavano, congetturarono che certo venivano o come portatori di qualche messaggio o perché avevano intenzione di rinnegare la loro fede. Si fecero incontro, li presero e li condussero dal Sultano. Introdotti alla presenza del Sultano, lo salutarono. Il Sultano rispose al saluto e poi domandò loro se intendevano farsi saraceni oppure portavano qualche messaggio. Essi risposero che giammai si sarebbero fatti musulmani, ma piuttosto erano venuti a lui portatori di un messaggio da parte del Signore Iddio, per la salvezza della sua anima. E proseguirono: «Se tu, sire, vorrai credere alle nostre parole, noi consegneremo la tua anima a Dio, perché ti diciamo in verità che se tu morrai in questa legge che ora professi, sarai perduto né mai Dio avrà la tua anima. Proprio per questo noi siamo venuti. Ma se ci darai ascolto e vorrai comprendere, noi ti mostreremo con argomenti irrefutabili, alla presenza dei più saggi dottori del regno, se li vorrai convocare, che la vostra legge è falsa». Il Sultano rispose che egli aveva dignitari maggiori e minori della sua legge e gli incaricati del culto e non poteva neppure ascoltare quello che essi volevano dire, se non alla loro presenza. «Molto bene, -risposero i due chierici-. Mandali a chiamare, e se noi non riusciremo a dimostrare con solidi argomenti che è vero quanto asseriamo, che cioè la vostra legge è falsa, sempre che vogliano ascoltare e comprendere, ci faccia pure mozzare la testa». Il Sultano allora convocò nella sua tenda i dignitari e sapienti. E così si trovarono insieme alcuni dei maggiori dignitari e dei più saggi del suo regno e i due chierici.

3. Quando furono radunati insieme, il Sultano espose il motivo per cui li avevaconvocati ed ora erano qui alla sua presenza, quello che i due chierici gli

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avevano proposto e la ragione della loro venuta alla sua corte. Ma essi gli risposero: «Sire, tu sei la spada della legge: a te il dovere di custodirla e di difenderla. Noi ti comandiamo, da parte di Dio e di Maometto, che ci ha dato questa legge, di far subito decapitare costoro. Quanto a noi non ascolteremo mai quello che essi dicono. Ma anche te mettiamo sull'avviso di non ascoltarli, perché la legge proibisce di prestar orecchio ai predicatori di altra religione. Se poi c'è qualcuno che voglia predicare o parlare contro la nostra legge, questa stessa stabilisce che gli sia mozzata la testa. Per questo ti comandiamo, da parte di Dio e della legge, che tu faccia subito tagliar loro la testa, come è prescritto».

4. Detto questo, presero congedo e se ne andarono senza più voler ascoltarenessuna parola. Rimasero soli il Sultano e i due chierici. Allora il Sultano disse loro: «Signori miei, mi hanno detto, da parte di Dio e della legge, che io devo farvi decapitare, perché così è prescritto. Ma io, per questa volta andrò contro la legge; non sia mai che io vi condanni a morte. Sarebbe una ricompensa malvagia fare morire voi, che avete voluto, coscientemente, affrontare la morte per salvare l'anima mia nelle mani del Signore Iddio». Poi il Sultano aggiunse che se essi volevano rimanere con lui, li avrebbe investiti di vaste terre e possedimenti. Ma essi risposero che non volevano punto rimanerci, dal momento che non li si voleva né sentire né ascoltare, e perciò sarebbero tornati nell'accampamento dei cristiani, se lui lo permetteva. Il Sultano rispose che volentieri li avrebbe fatti ricondurre sani e salvi nell'accampamento cristiano. Ma intanto fece portare oro, argento e drappi di seta in gran quantità, e li invitò a prenderne con libertà. Essi protestarono che non avrebbero preso nulla, dal momento che non potevano avere l'anima di lui per il Signore Iddio, poiché essi stimavano cosa assai più preziosa donare a Dio la sua anima, che il possesso di qualsiasi tesoro. Sarebbe bastato che desse loro qualcosa da mangiare, e poi se ne sarebbero andati, poiché qui non c'era più nulla da fare per loro. Il Sultano offri loro un abbondante pasto. Finito essi si congedarono da lui, che li fece scortare sani e salvi fino all'accampamento dei cristiani.

Le fonti di provenienza francescana sono successive e la più antica, databile al 1229, è contemporanea alla cronaca della crociata di Ernoul. Tommaso da Celano offre un racconto breve, inserendovi un elemento mancante nelle quattro fonti precedenti, ovvero le violenze su Francesco il compagno da parte delle guardie musulmani che li catturarono, contribuendo così a sottolineare il tema del martirio che Francesco avrebbe rischiato di subire:

«Nam tertiodecimo anno conversionis suae, ad partes Syriae pergens, cum quotidie bella inter christianos et paganos fortia et dura ingruerent, assumpto

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secum socio, conspectibus Soldani Saracenorum se non timuit praesentare. – Sed quis enarrare sufficiat, quanta coram eo mentis constantia consistebat, quanta illi virtute animi loqueba tur, quanta facundia et fiducia legi christianae insultantibus respondebat? Nam primo quam ad Soldanum accederet, captus a complicibus, contumeliis affectus, attritus verberibus non terretur, comminatis suppliciis non veretur, morte intentata non expavescit. Et quidem licet a multis satis hostili animo et mente aversa exprobatus fuisset, a Soldano tamen honorifice plurimum est susceptus. Honorabat eum prout poterat, et oblatis muneribus multis, ad divitias mundi animum eius inflectere conabatur: sed cum vidisset eum strenuissime omnia velut stercora contemnentem, admiratione maxima repletus est et quasi virum omnibus dissimilem intuebatur eum; permotus est valde verbis eius et eum libentissime audiebat»

«E nel tredicesimo anno dalla sua conversione, partì per la Siria, e mentre infuriavano aspre battaglie tra cristiani e pagani, preso con sé un compagno, non esitò a presentarsi al cospetto del Sultano. Chi potrebbe descrivere la sicurezza e il coraggio con cui gli stava davanti e gli parlava, e la decisione e l'eloquenza con cui rispondeva a quelli che ingiuriavano la legge cristiana? Prima di giungere al Sultano, i suoi sicari l'afferrarono, l'insultarono, lo sferzarono, ed egli non temette nulla: né minacce, né torture, né morte; e sebbene investito dall'odio brutale di molti, eccolo accolto dal Sultano con grande onore! Lo onorava come poteva e, offerti molti doni, si sforzava di piegare il suo animo alle ricchezze del mondo. Ma, poiché vide che lui disprezzava molto valorosamente tutti i doni come sterco, fu ripieno di grandissima ammirazione e guardava a lui come a uomo dissimile da tutti; fu molto colpito dalle sue parole e lo ascoltava con grande piacere»

Queste sono le testimonianze delle fonti più antiche sull’incontro di Francesco con il sultano, le fonti successive rielaborano in vario modo questo materiale. Sembra che queste notizie mostrino un reiterato desiderio di Francesco di andare dai musulmani per predicare il Vangelo, senza voler attribuire a questa volontà una esasperata ricerca di martirio, anzi non si deve dedurre sete di martirio dalle fonti agiografiche, tanto meno da quelle tarde e fortemente teologizzanti come quella di Bonaventura. In questo desiderio inoltre non si può escludere la ricerca di un incontro; la risposta dei musulmani sembra molto incoraggiante sul piano umano, probabilmente non si deve dare credito alle violenze delle guardie raccontate da Tommaso da Celano, le quali sono un’amplificazione agiografica e retorica, assenti nelle altre testimonianze che comunque, come nel caso di Giacomo da Vitry, non esitavano ad usare epiteti crudeli nei confronti del sultano e di musulmani. Invece il sultano sembra aver accolto

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benevolmente Francesco il suo compagno, visti come due monaci, due uomini di Dio. Egli li ascoltò e le lasciò andare offrendo loro molti doni. Non si può escludere che alcuni della corte del sultano avessero reagito negativamente alle parole evangelizzatrici di Francesco, anche se probabilmente il santo non attaccò direttamente Maometto. Il tardivo racconto di Bonaventura, dopo la cronaca di Giordano da Giano che non aggiunge nulla a quanto scritto da Tommaso da Celano, introdusse per primo la prova del fuoco alla quale avrebbero dovuto sottoporsi Francesco e i saggi musulmani che la rifiutarono. L’episodio in questo caso è da ritenere altamente improbabile. Gli Actus beati Francisci et sociorum eius riprendono la prova del fuoco e offrono un racconto ancora più leggendario ma tutto sommato positivo: una volta narrate le percosse iniziali delle guardie saracene a Francesco i suoi compagni, che peraltro sono diventati 12, il sultano viene mostrato ancor più amichevole che nelle fonti precedenti, arrivando, dopo la morte di Francesco, a ricevere in punto di morte il battesimo dalle mani di due frati Minori cui il santo era apparso in visione.

Ci si deve poi chiedere quale fu l’atteggiamento che Francesco ebbe nei confronti dei crociati e dell’impresa crociata. Appartiene al 1229-31 una delle continuazioni della Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro, ovvero l’anonima volgare Histoire de Eracles empereur et la conqueste de la terre d’outremer. L’Anonimo, che conosce Francesco e la sua vicenda e si ricorda che è stato canonizzato, non riferisce della sua visita al sultano, ma ci dà delle informazioni sull’atteggiamento del santo verso i crociati:

«Cil hom, qui comenca l’ordre des Freres Menors, si ot nom frereFranceis, qui puis saintefia et fu mis en auctorité, si que l’en l’apele saint Franceis, vint en l’ost de Damiate, et i fist moult de bien, et demora tant que la vile fu prise. Il vit le mal et le peché qui comenca a creistre entre les gens de l’ost, si li desplot, por quoi il s’en parti et fu une piece en Surie, et puis s’en rala en son pais. Mais puis que ele fu prise il sembla que il vosissent dire: «Nos n’avons plus besoing de l’aide de Deu», car il le boterent en sus d’eaus, ne puis ne vostrent entendre a lui servir ne a bien faire; ains comenca lues, en l’ost dehors la vile et dedens, roberie, larrecin, murtres, luxure, neis as Sarrasines de la vile»

«Quell’uomo, che diede principio all’Ordine dei Frati Minori – e il suo nome era frate Francesco, ma poi fu canonizzato ed elevato a dignità, così che lo si chiama ora San Francesco – venne all’esercito di Damiata e vi operò molto bene, e vi rimase fino a quando la città fu presa. Egli notò il male e il peccato che cominciavano a crescere tra la gente dell’esercito e gli dispiacque tanto che se ne andò via e si fermò per un pezzo in Siria; poi fece ritorno al suo paese. […] Ma dopo che la città di Damietta fu presa, sembrò che i crociati volessero

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dire: “Non abbiamo più bisogno dell’aiuto di Dio”, perché lo respinsero lontano da loro, e poi non vollero intendere di servirlo né di fare il bene; cominciarono allora, nell’esercito fuori e dentro la città, furti, ruberie, omicidi, lussuria, anche con le saracene della città»

L’Anonimo si sofferma a descrivere quale fosse il peccato nel campo crociato dopo la presa di Damietta, sino ad arrivare allo scontro tra il re Giovanni e il legato Pelagio, sicché per il loro peccato i cristiani persero la città conquistata. All’interno di una mentalità medievale, che sull’esempio biblico riporta ogni male al rifiuto dell’aiuto di Dio e all’orgoglio umano, l’Anonimo condanna aspramente i vizi e i comportamenti discutibili dei combattenti cristiani e condivide la decisione di Francesco di allontanarsi dal loro campo. La menzione di furti, latrocini e omicidi, nonché la lussuria con le donne saracene avvenuti dentro e fuori la città stigmatizza la violenza dei crociati non solo al loro interno, ma anche contro i nemici conquistati, estendendo la critica dai singoli al clima generale di guerra.

Nel 1247 Tommaso da Celano, su incarico del Ministro Generale dei Frati Minori, compose un’altra agiografica di Francesco, integrando e a volte correggendo quella precedente. Il viaggio di Francesco in Oriente non viene riproposto, ma l’autore narra un nuovo episodio sull’atteggiamento del santo verso l’esercito crociato. Tommaso racconta di come Francesco inviti i crociati a non attaccare battaglia in quel giorno, ma non viene ascoltato e l’esercito cristiano andò incontro ad una sanguinosa sconfitta (probabilmente quella del 29 agosto 1219). L’agiografo interpreta alla lettera questo racconto, cioè come un esempio di soprannaturale capacità profetica di Francesco; altri leggono in questo episodio un atteggiamento del santo favorevole alla crociata, perché Tommaso scrive che egli sconsigliò i cristiani di attaccare battaglia proprio perché profeticamente sapeva che sarebbero stati sconfitti e pianse molto sugli uccisi. Se però si tentasse di analizzare criticamente la fonte e di decodificarla si dovrebbe notare che Tommaso, per la sua formazione e per la sua posizione di agiografo ufficiale, non vuole e non può presentare una posizione contro la crociata di Francesco, oppure proprio non concepisce che il santo possa averla avuta, quindi racconta il suo intervento contrario all’attaccare battaglia come la volontà di evitare la sconfitta della sua parte. Si può tentare di incrociare il racconto di Tommaso con l’Histoire de Eracles empereur: i due racconti comparati sembrano far intendere che Francesco fosse contrario allo scontro armato. In un altro passo dello stesso racconto di Tommaso si legge chiaramente il timore di Francesco di invitare i crociati a scongiurare la battaglia attraverso un colloquio dettagliato con il suo compagno.

«Dixitque socio suo: “Si tali die congressus fiat, ostendit mihi Dominus non in prosperum cedere Christianis. Verum si hoc dixero, fatuus reputabor, si tacuero, conscientiam non evadam. Quid ergo tibi videtur?”. Respondit socius

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eius dicens: “Pater, pro minimo tibi sit, ut ab hominibus iudiceris, quia non modo incipis fatuus reputari. Exonera conscientiam tuam et Deum magis time quam homines”. Exsilit ergo sanctus et salutaribus monitis Christianos aggreditur, prohibens bellum, denuncians casum. Fit veritas in fabulam, induraverunt cor suum et noluerunt adverti»

«Disse al suo compagno: “Se nel tal giorno ci sarà scontro, il Signore mi ha mostrato che non sarà favorevole ai cristiani. Ma se lo dirò, sarò reputato stolto, se tacerò, non seguirò la coscienza. Che te ne pare?”. Rispose il suo compagno: “Padre, non preoccuparti affatto di essere giudicato dagli uomini, perché non da poco hai cominciato ad essere reputato stolto. Libera la tua coscienza e temi più Dio che gli uomini”. Salta fuori il santo e va verso i cristiani con ammonizioni er la loro salvezza, proibendo la guerra, annunciando la sconfitta. La verità è considerata una fandonia, indurirono il loro cuore e non vollero ascoltare»

Francesco teme di essere ritenuto pazzo perché riferisce una visione o perché chiama i guerrieri a non far guerra? Perché la volontà di Dio sarebbe stata contraria al combattimento proprio in quel giorno? La spiegazione moralistica di Tommaso convince poco se applicata questo episodio limitato, anche dal punto di vista della crociata, poiché i cristiani avrebbero conquistato Damietta nel novembre successivo.

«Noverint haec principes orbis terrae et sciant quia contra Deum pugnare non est facile, id est contra Domini voluntatem. Exitiali fine terminari solet protervia, quae dum suis viribus nititur, caeleste subsidium non meretur. Si enim ex alto sperari debet victoria, divino sunt spiritu proelia committenda»

«Imparino queste cose i prìncipi di tutta la terra e sappiano che non è facile combattere contro Dio, cioè contro la volontà del Signore. Solitamente termina con un fine rovinosa la protervia, che, se si basa sulle sue forze, non merita l’aiuto del cielo. Infatti se la vittoria si deve sperare dall’alto, le battaglie si devono attaccare secondo lo spirito divino»

Sta di fatto che Francesco va dal sultano proprio dopo questa sconfitta, che per lui non deve aver avuto solo un significato militare né esser stato solo un episodio. Forse lo stesso Bonaventura ritenne ambiguo questo racconto, tanto che lo omise nella sua opera. L’omissione potrebbe essere dovuta alla volontà di evitare interpretazioni del brano contraria alla crociata. I tre racconti incrociati con le loro ipotesi di lettura (Histoire de Eracles empereur, Memoriale, Legenda maior) non sembrano sorreggere adeguatamente l’idea di un Francesco devotamente scandalizzato dai crociati che

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bestemmiano e frequentano prostitute, e che, capace di leggere il futuro, è preoccupato di una sconfitta cristiana. Queste interpretazioni riporterebbero all’idea che le fonti parlano da sole.

Un’idea suggestiva è stata proposta da Gwénolé Jeusset (Recontre sur l’autre rive), secondo il quale Francesco a Damietta ebbe un ulteriore conversione: forse all’arrivo in Egitto non aveva una posizione chiaramente anti-crociata, ma l’esperienza avuta in Oriente lo portò a rifiutare totalmente la guerra anche per scopi religiosi.

Quali sono gli altri elementi che possono sostenere l’interpretazione di un Francesco non favorevole alla crociata? Se non ce ne fossero altri l’interpretazione rimarrebbe ancora debole. Ma ci sono altre fonti da analizzare, a partire soprattutto dagli scritti dello stesso santo, sia per quanto esprime sia per i silenzi. Va considerata per prima la Salutatio virtutum (16-18), scritto che esprime un atteggiamento generale verso gli uomini e le creature di sudditanza:

«Subditus et suppositus omnibus hominibus qui sunt in mundo, et non tantum solis hominibus, sed etiam omnibus bestiis et feris, ut possint facere de eo quicquid voluerint, quantum fuerit eis datum desuper a Domino»

«Suddito e sottomesso a tutti gli uomini che sono nel mondo, e non ai soli uomini, ma anche a tutte le bestie e fiere, perché possano fare di lui ciò che vorranno, per quanto sarà loro dato dall’alto dal Signore (cfr. Gv 19, 11)»

In secondo luogo vanno considerate le Laudes Dei altissimi, conservate autografe di Francesco sul lato carne di un foglio di pergamena che sul lato pelo contiene la nota di benedizione per frate Leone sempre di mano del santo; queste lodi sono una preghiera che, nella ripetizione di 30 lodi di Dio introdotte sempre da “Tu es”, è stata vista da alcuni come riecheggiante le lodi di Allah. Francesco sembrerebbe essere stato influenzato dalla pietà islamica, dato della preghiera è stata composta successivamente al suo viaggio, nella quaresima di San Michele del 1224, dopo la comparsa delle Stimmate (si tratta comunque solo di una suggestione).

Il testo di Francesco più chiaro per indicare il suo atteggiamento verso i musulmani è scritto immediatamente dopo il 1219-20 e potrebbe riflettere anche se l’esperienza egiziana. Si tratta del capitolo XVI 1-10, della Regula non bullata (1221), De euntibus inter saracenos et alios infideles:

«Dicit Dominus: “Ecce ego mitto vos sicut oves in medio luporum. Estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbe”. Unde quicumque fratrum divina inspiratione voluerit ire inter saracenos et alios infideles, vadant de licentia sui ministri et servi. Minister vero det eis licentiam et non contradicat,

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si viderit eos esse idoneos ad mittendum; nam tenebitur Domino reddere rationem si in hoc vel in aliis processerit indiscrete. Fratres vero qui vadunt, duobus modis inter eos possunt spiritualiter conversari. Unus modus est quod non faciant lites neque contentiones, sed sint subditi omni humane creature propter Deum 104 et confiteantur se esse christianos. Alius modus est quod, cum viderint placere Deo, annuntient verbum Dei, ut credant in Deum omnipotentem, Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, creatorem omnium, redemptorem et salvatorem Filium, et ut baptizentur et efficiantur christiani, quia nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, non potest intrare in regnum Dei»

«Dice il Signore: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe» (Mt 10, 16). Per cui chiunque dei frati per ispirazione divina vorrà andare tra i saraceni e gli altri infedeli, vadano con la licenza del proprio ministro e servo. Il ministro dia loro la licenza e non li contraddica, se vedrà che sono idonei ad essere mandati; infatti sarà tenuto a rendere ragione a Dio se in questa o in altre cosa avrà proceduto in maniera indiscreta. I frati che vanno possono comportarsi in due modi in mezzo a loro. Un modo è che non facciano liti né contese, ma siano sudditi di ogni creatura umana per Dio (1 Pt. 2,13) e confessino di essere cristiani. Un altro modo è che, quando vedranno che piace a Dio, annuncino la parola di Dio perché credano in Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati e diventino cristiani, perché se qualcuno non rinascerà dall'acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel regno di Dio. (Giov. 3, 5)»

Ciò che appare più evidente da questo brano è il rifiuto di ogni contesa, la prima testimonianza deve essere quella della vita. Solo quando si presenta l’opportunità, o meglio quando Dio lo riterrà opportuno, si passa alla predicazione diretta del Vangelo, la quale può comunque comportare il rischio del martirio. Sembra quindi evidente la trasposizione dell’esperienza egiziana anche come un ulteriore conversione di Francesco.

In ultima analisi vanno poi considerati i “silenzi” di Francesco. In tutti i suoi scritti egli non menziona mai armi, battaglie, nemici; è singolare anzi che nella Regula non bullata XVI, 1-4 c’è un singolare passaggio nell’interpretazione del testo evangelico da nemico ad amico, un salto interpretativo non solo lessicale. Forse il suo silenzio più significativo è quello dell’attributo miles Christi, usato per i martiri, pallidi monaci, poi dalla fine dell’XI secolo per i crociati e membri degli ordini monastico-

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cavallereschi. Nel latino classico indicava il soldato di Cristo, ma dal secolo XI indicava in modo specifico il Cavaliere. Questo attributo è usato spesso per Francesco nelle fonti francescane successivi alla sua morte, a cominciare dalla Vita prima di Tommaso da Celano. Solo Bonaventura denomina Francesco in questo modo quando si avvia verso il sultano, sempre per la ricerca del martirio come indifeso. Ma il santo non adopera mai questo attributo né per sé né per i suoi frati e questa scelta deve essere probabilmente ritenuta significativa, soprattutto di fronte ad una tradizione tanto antica e tanto diffusa.

Vi sono due affermazioni di Francesco sui Paladini e sui Cavalieri della Tavola Rotonda usati dagli storici per dimostrare che egli non fosse contrario alla guerra e che l’ideale cavalleresco, inteso come quello del cavaliere con la spada che difende la cristianità, fosse molto forte in lui. Si tratta di due brani della tradizione dei compagni presenti nella Legenda antica Perusina; ci troviamo però al di fuori degli scritti di Francesco, ma si può comunque dare fiducia ai testimoni dato che essi non usano queste parole per fini immediatamente polemici. Ancora una volta bisogna giudicare criticamente le fonti, accertandosi su che tipo di fonte si tratta e quali intenti abbia. Questi due brani si trovano entrambi nel capitolo 103 dell’edizione del Bigaroni. Il brano su Carlo e i Paladini costituisce la risposta di Francesco alle richieste continue di un novizio di possedere un Salterio (Compilatio Assisiensis 103, 23-25):

«Carolus imperator, Rolandus et Oliverius et omnes paladini et robusti viri, qui potentes fuerunt in prelio, persequentes infideles cum multo sudore et labore usque ad mortem abuerunt de illis gloriosam et memorialem victoriam et ad ultimum ipsi sancti martyres mortui sunt pro fide Christi in certamine; et multi sunt qui sola narratione eorum, que illi fecerunt, volunt recipere honorem et humanam laudem". Et propter hoc scripsit significationem horum verborum in suis Admonitionibus dicens: "Sancti fecerunt opera, et nos, recitando et predicando ea, volumus inde recipere honorem et gloriam»

«Carlo imperatore, Orlando e Oliviero, tutti i paladini e i prodi guerrieri che furono gagliardi nei combattimenti, incalzando gl'infedeli con molto sudore e fatica fino alla morte, riportarono su di essi una gloriosa memorabile vittoria, e all'ultimo questi santi martiri caddero in battaglia per la fede di Cristo. Ma ci sono ora molti che, con la sola narrazione delle loro gesta, vogliono ricevere onore e gloria dagli uomini»

In questo passo si parla di eroi combattenti per la fede contro gli infedeli, ritenuti martiri morti in guerra contro essi, ma forse vedere in queste parole l’espressione cosciente di un’ideologia bellica che allude alla crociata significa forzare

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l’interpretazione del passo. Si tratta di eroi che si collocano nel contesto della cultura cortese alla quale stato educato lo stesso Francesco prima della sua conversione. Allo stesso modo, anche ritenendo che il santo non fosse un sostenitore della crociata nel XIII secolo, non si può arrivare a sostenere che egli avesse un’ideologia politica pacifista secondo i parametri della nostra epoca, tale da escludere persino il ricordo di Carlo e dei Paladini. Il secondo brano non presenta invece alcun riferimento la guerra o al martirio, anzi l’immagine ideale Cavalieri della Tavola Rotonda viene ribaltata arappresentare i frati che si appartano per dedicarsi alla preghiera e alla contemplazione, conosciuti da Dio ma non dal mondo (Compilatio Assisiensis 103, 13):

«Isti sunt fratres mei milites tabule rotunde, qui latitant in desertis et in remotis locis, ut diligentius vacent orationi et meditationi, sua et aliorum peccata plorantes, quorum sanctitas a Deo cognoscitur, aliquando a fratribus et ab hominibus ignoratur»

«Questi frati sono i miei cavalieri della tavola rotonda, che si nascondono in luoghi appartati e disabitati, per impegnarsi con più fervore nella preghiera e nella meditazione, piangendo i peccati propri e altrui. La loro santità è nota a Dio, mentre talvolta rimane sconosciuta agli altri frati e alla gente»

Conclusioni

Franco Cardini aveva sostenuto che Francesco non era contro la crociata, anzi non poteva che essere favorevole sia per la tradizione cavalleresca che faceva parte della sua formazione, sia per l’adesione alla dottrina della Chiesa romana. Secondo l’autore Francesco doveva abbracciare la tradizionale dottrina della guerra giusta risalente a Sant’Agostino, di cui la crociata era la forma più alta ai suoi tempi. Questa posizione sul piano storiografico era piuttosto fondata e la sua interpretazione oggi è ripresa a vari livelli, non sempre con la stessa capacità critica. Questa posizione può essere però altrettanto ribaltata attraverso una lettura attenta delle fonti specifiche come fatto in precedenza. Il collegamento di un personaggio storico o di un’opera al suo contesto, il criterio storico del Sitz im Leben, non può trasformarsi in una gabbia interpretativa che escluda ogni minimo spazio per l’autonomia dell’uomo. C’è da aggiungere poiché Francesco non è l’unico del suo tempo ad invocare la pace, lo precede per molti aspetti il primo santo laico della storia riconosciuto dalla Chiesa, Omobono da Cremona, gli stessi Valdesi esprimevano un netto rifiuto delle armi della guerra e delle crociate.

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L’importanza storica di Francesco sta proprio nell’essere totalmente calato nelle problematiche della sua epoca, problematiche cui risponde con modalità vicine ai suoi contemporanei, ma non sempre seguendo la linea istituzionale. Non si può ritenere Francesco totalmente obbediente al papato e incapace di contrapporsi ad alcune posizioni istituzionali, anche relative alla sua fraternitas avviata a divenire un ordo, come allo stesso tempo non si può negare un forte rapporto tra Francesco e i movimenti del risveglio evangelico del secolo XII, pur senza ritenerlo un contestatore della Chiesa cattolica. Quindi, in linea teorica, Francesco avrebbe potuto rifiutare anche la crociata: cosa c’è negli scritti del santo che legittima la crociata? I silenzi hanno valore, come ha valore l’assenza del termine miles Christi, o la modificazione di parole negative quali eretico o nemico. Manca un testo specifico e, considerando il tenore dei suoi scritti, è difficile pretendere che Francesco sia a favore della crociata, non essendoci un’esplicita condanna. Per quanto riguarda le fonti narrative, non si trovano parole né gesti del santo a sostegno della crociata, anzi va sottolineato che un accenno al favore del santo per la crociata in Tommaso da Celano sarebbe risultato molto utile al papa, quindi un elemento non da tacere ma da enfatizzare, come ha sottolineato Chiara Frugoni appaiono dunque più forti gli argomenti e il silenzio portati a sostegno di una contrarietà del frate di Assisi all’impresa della crociata.

Francesco d’Assisi è noto come il santo che predica con la vita, con l’esempio con i gesti. Lo sostiene egli stesso più volte, dimostrando quanto per lui le parole siano secondarie, come dimostrano anche i suoi scritti occasionali e limitati. Per quale motivo poi non si dovrebbe sottolineare l’eloquenza del gesto di passare le linee nemiche e di andare disarmato a parlare con il sultano? Nel contesto del suo tempo, il suo gesto appare molto eloquente. Si pensi infine alla posizione di Francesco nei confronti delle donne: non vi è una posizione univoca, ma indubbiamente il santo si caratterizza in questo caso per un silenzio di grande significato; ogni volta che parla del peccato originale cita solo Adamo e mai Eva. Se fosse stato un ubbidiente figlio del suo tempo avrebbe dovuto accentuare il ruolo negativo di Eva. In questo Francesco rappresenta un caso quasi isolato, perché questa posizione non può essere possibile per la crociata? Perché Francesco dovrebbe avere una sensibilità particolare verso le donne e non potrebbe averla verso i musulmani?

Questi esempi ribadiscono che i ragionamenti aprioristici di carattere generale hanno poco valore, al contrario le fonti esaminate portano a concludere che, con grande probabilità, il santo abbia avuto un atteggiamento non favorevole alla guerra santa dei cristiani, la crociata, e favorevole invece di un dialogo con i musulmani. Che questo atteggiamento sia posteriore o anteriore al viaggio verso Damietta è secondario.

Infine, un’ultima suggestione: un altro grande gesto di Francesco è quello del Natale di Greccio del 1223, l’anno in cui il santo decise di organizzare la solenne

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rappresentazione della nascita di Gesù; Tommaso da Celano colloca l’episodio «tre anni prima del giorno della sua morte, presso il castro che si chiama Greccio, nel giorno del Natale del nostro Signore Gesù Cristo». Con l’aiuto di un nobile a lui caro, Giovanni, convocato 15 giorni prima, fece preparare il necessario presso l’eremo. Francesco seguendo i dati dei Vangeli apocrifi celebra il Natale di notte, tra fiaccole e ceri portati da uomini e donne del territorio. Sulla mangiatoia fu celebrata la messa e Francesco, chiamato esplicitamente diacono da Tommaso, canta il Vangelo. Nessuno impersonava Maria e Giuseppe, né tantomeno il bambino. Questo episodio si inserisce nella riscoperta dell’umanità di Gesù propria della spiritualità francescana, quindi non solo del Cristo sofferente nella passione, ma del Gesù bambino povero sin dalla nascita. Da quest’episodio si trae tradizionalmente la tradizione domestica del presente. Certamente l’episodio si inserisce nella particolare devozione di Francesco per il Natale, ma il Natale di Greccio dice una cosa più importante della visione teologica della Natività: in questo episodio vi è il superamento della crociata, cioè della necessità di avere la Terrasanta in mano cristiana. Betlemme è ovunque nasca Cristo nel cuore degli uomini, non è solo un fatto politico, ma una diversa dislocazione dei luoghi santi e un superamento della loro materialità geografica.

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Bibliografia

- Cognasso, Francesco, storia delle crociate, Firenze, Odoya, 1967. - I Cristiani e il favoloso Egitto. Una relazione dall’Oriente e la storia di

Damietta di Oliviero da Colonia, a cura di G. Andenna e B. Bombi, Torino, Marinetti, 2009.

- Marini, Alfonso, Francesco d’Assisi, il mercante del regno, Roma, Carocci, 2015.

- Id., Storia contestata: Francesco d’Assisi e l’Islam, in Franciscana 14 (2012), pp. 1-54.

- Richard, Jean, La grande storia delle crociate. Oltre due secoli di scontri tra Occidente e Oriente, Roma, Newton Compton, 2012.

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FEDERICO II DI HOHENSTAUFEN

Federico naque il 26 Dicembre 1194 nelle Marche. Era il primo figlio di Costanza d'Altavilla e

dell'imperatore del Sacro Romano Impero Enrico VI. Prima di partorire Costanza stava discendendo

l'Italia per raggiungere il marito in Sicilia, dove questi si fece incoronare re il 25 Dicembre dello

stesso anno, e nella citta di Jesi diede alla luce il bambino al quale diede il matronimico di Costantino.

Siccome Costanza aveva allora quarant'anni molti dubitavano che fosse in grado di partorire;

l'imperatrice allora fece innalzare un baldacchino nel mezzo della piazza della città e diede, alle donne

che avessero voluto farlo, il permesso di assistere al parto, fugando così tutti i sospetti.

Prima di ripartire alla volta della Sicilia Costanza affidò il figlio alle cure del duca Corrado di Spoleto

de di sua moglie che si occuparono del bambino a Foligno. Dopo aver ristabilito il potere imperiale

in Sicilia l'Imperatore e la sua consorte portarono il figlio nella Cattedrale di San Rufino ad Assisi e

lì lo fecero battezzare e lo rinominarono Federico Ruggero per indicarne la discendenza da Federico

I Barbarossa e da Ruggero il Normanno. Federico di Hohenstaufen nasceva già erede di molte corone

e possibile pretendente di altre, ad esempio: Fedrico avrebbe erditato la corona del Regno di Sicilia e

avrebbe potuto beneficiare di un articolato e ben strutturato apparato amministrativo atto a

salvaguardare la volontà del sovrano; allo stesso tempo il giovane Svevo era anche un possibile futuro

pretendente alla corona imperiale. Tuttavia, al contrario del titolo di Re di Sicilia, gli altri titoli che

poteva ottenere garantivano sì prestigio, ma non un potere effettivo; tali corone davano in pratica solo

il diritto di esercitare la propria forza per far valere la propria autorità sui principi e i vari nobili.

Il 28 Settembre 1197 Enrico VI morì e si aprì allora il problema del tutoraggio del piccolo Federico.

La madre Costanza si trovò a dover scegliere: da un lato c'erano i nobili tesdeschi discesi in Italia con

Enrico VI; dall'altro il papa Innocenzo III, fautore della superiorità della chiesa su ogni potere

secolare. Entrambe le parti erano molto interessate a poter crescere lo Svevo. Troppo lontana

culturalmente dai baroni tedeschi Costanza prima affidò Federico al conte della Marsica Pietro da

Celano, poi lo pose sotto la tutela del papa; Costanza d'Altavilla morì nel 1198 dopo aver lasciato al

papa un appannaggio di 30.000 talenti d'oro per l'educazione del figlio. Il papa Innocenzo ovviamente

non si occupava personalmente dell'educazione di Federico, il ragazzo risiedeva principalmente nel

Palazzo dei Normanni a Palermo seguito da Gualtiero di Palearia; dal fratello di Gualtiero, Gentile di

Manopello; e dal frate Guglielmo Francesco. Quest'ultimo rispondeva al vescovo Rinaldo di Capua

il quale si occupava di informare il papa. Negli anni Federico ebbe vari precettori, tra i quali figura

anche un imam; questo ci fa capire da cosa derivò il suo pensiero colto e aperto anche verso i popoli

musulmani.

Marco Fulignati178

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Nel 1199 Filippo di Svevia, ultimo dei cinque figli di Federico Barbarossa e zio di Federico Ruggero,

in aperto conflitto con il papato concesse a Marcovaldo di Annweiler, suo sostenitore in Italia, la

reggenza di Palermo e il tutoraggio del giovane Fedrico. Marcovaldo riuscì ad impadronirsi di

Palermo e si scontrò militarmente con Gualtieri di Brienne, paladino del papa in Sicilia. Gli scontri

terminarono quando una spedizione militare guidata da Gualtieri di Palearia e dal conte Diopoldo di

Acerra sconfisse il successore alla reggenza di Marcovaldo, morto di morte naturale, Guglielmo di

Capparone. Federico tornò quindi sotto la custodia di Gualtiero.

Questi scontri per ottenere la Sicilia terminarono nel 1206 con, come abbiamo detto, la vitttoria di

Gualtieri di Palearia e Diopoldo di Acerra. Nello stesso anno furono anche sedati definitivamente i

disordini causati dai feudatari che si contendevano una maggiore influenza politica sul regno. Nel

1209 Federico fu proclamato maggiorenne e si unì in matrimonio con Costanza d'Aragona. Costanza,

ormai venticinquenne, era già stata moglie del re di Ungheria Emerico e fu grazie alla mediazione di

Innocenzo III se, morto il suo primo marito, arrivò a sposarsi con Federico II. Come dote nuziale la

sposa portò allo Svevo ben cinquecento cavalieri pesanti. Un simile dono era più che gradito perché

permetteva di gestire agevolmente eventuali contese tra baroni o sollevazioni saracene delle comunità

nell'entroterra. Tuttavia le fonti riportano che questi soldati morirono quasi tutti a causa di una

pestilenza alla quale Federico e Costanza invece scamparono. Nel 1210 Federico compì sedici anni

e, conclusasi la tutela papale, prese le redini del Regno di Sicilia; un anno dopo nacque il primo e

unico figlio di Costanza e Federico, Enrico il futuro re di Germania.

IN GERMANIA

Già prima che il giovane Federico iniziasse a gestire autonomamente il suo regno nel sud Italia in

Germania erano in corso lotte per decidere chi avrebbe erditato il titolo di Imperatore del Sacro

Romano Impero, rimasto vacante dalla morte di Enrico nel 1197. due erano i contendenti principali:

Filippo di Svevia, fratello minore del defunto Enrico VI, opposto al papa poiché filo-ghibellino e

fautore dei disordini avvenuti in Sicilia tra il 1199 e il 1206; Ottone IV di Brunswick, figlio del duca

di Baviera e Sassonia Enrico XII e di schieramento guelfo.

Entrambi questi "aspiranti" imperatori erano sostenuti da diversi principi tedeschi ed erano stati eletti,

ognuno dal suo seguito, re di Germania. Ottone IV era sostenuto anche dal papa Innocenzo III il

quale non aveva intenzione di permettere ad un ghibellino di salire sul trono imperiale. Inoltre Ottone,

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essendo figlio di Matilda d'Inghilterra, era imparentato con Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza

Terra, entrambi sovrani di Inghilterra che lo sostennero costantemente nella sua lotta contro gli Svevi.

A causa della preponderanza numerica dei sostenitori di Filippo di Svevia rispetto ai suoi Ottone era

stato costretto nel 1207 a rifugiarsi in Inghilterra dallo zio Giovanni. Tuttavia nel 1208 Filippo venne

assassinato e Ottone IV riottenne la corona e poté tornare in germania.

Nel 1209 Ottone di Brunswick venne incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero a Roma nella

basilica di S. Pietro da papa Innocenzo III. Prima di incoronarlo il papa fece sottoscrivere all'ancora

re di Germania un accordo, il Trattato di Spira, nel quale questi doveva: rinunciare a tutte le pretese

possedimenti territoriali del Regno di Sicilia; rinunciare al potere di elezione dei prelati tedeschi;

accettare il diritto di appello senza limiti del papa nei confronti della chiesa di Germania. In queste

condizioni è ben visibile l'intento di Innocenzo di incrementare il potere e il prestigio dello Stato

Pontificio evitandone al contempo l'accerchiamento territoriale da parte del Sacro Romano Impero.

Tuttavia, non appena fu incoronato, Ottone IV si richiamò allo ius imperii rivendicando il possesso

sull'intera penisola Italiana. Innocenzo III non perse tempo e scomunicò immediatamente

l'Imperatore; la scomunica diede un pretesto ai nobili tedeschi fedeli agli Hohenstaufen per sollevarsi

contro Ottone. Questa ribellione venne fomentata anche dal re di Francia Filippo II Augusto e Ottone

IV fu costretto a tornare in Germania. I principi tedeschi ribelli nel 1211 nominarono re di Germania

proprio Federico II.

Nel 1212 Federico parte per raggiungere la Germania e lascia in Sicilia la moglie Costanza come

coreggente del regno. Lo stesso anno giunse a Roma e prestò giuramento vassallatico al papa

rassicurandolo del fatto che, se fosse diventato Imperatore, non avrebbe unito le corone di Germania

e di Sicilia. Durante il suo soggiorno nella Città Eterna Federico conobbe l'arcivesco Berardo di

Castagna che diventerà uno dei suoi più fidati consiglieri, anche durante il periodo di lotte con il

papato. (La nipote dell'arcivescovo, Manna, si ritiene abbia intrattenuto una relazione con Federico

tra il 1224 e il 1225; da questa relazione nacque Riccardo di Teate, riconosciuto dal padre e nominato

vicario generale della Marca e di Spoleto).

Imbarcatosi a Roma Federico giunse a Genova dove fu bene accolto, in special modo dalla potente

famiglia Doria. Da qui il viaggio attraverso il nord Italia si faceva pericoloso poiché attraversava

territori di città che parteggiavano per Federico, ma anche di altre che sostenevano Ottone. Sebbene

in un'occasione rischiò la cattura da parte di truppe fedeli all'Imperatore, Federico, forte del titolo di

Vassallo del papa e sostenuto dalla scomunica verso Ottone, venne riconosciuto come legittimo

imperatore da varie città, tra le quali Costanza, e anche dal duca di Lorena e dal re di Boemia.

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A novembre del 1212 Federico cominciò a prendere accordi con il re Filippo II Augusto, già

avversario sia degli inglesi che di Ottone di Brunswick. Nel 1213 Federico con la Bolla Aurea

riconfermò nuovamente la sua intenzione di non riunificare, una volta rivendicati, i territori Imperiali

con quelli del Regno di Sicilia.

La risoluzione della vicenda si ebbe con la battaglia di Bouvines, chiamata così dal nome del villaggio

francese presso cui si tenne, il 27 Luglio 1214 che vedeva contrapposti da una parte l'esecito di Ottone

rinforzato con reggimenti inglesi, e dall'altra l'esercito di Filippo II Augusto.

LA BATTAGLIA

Filippo II poteva disporre, grazie alla leva feudale che aveva messo in atto nella Francia centro-

settentrionale, di 7.000 soldati a cavallo e 15.000 fanti. Ottone aveva dalla sua la superiorità numerica

con 18.000 fanti e 6.000 cavalieri. Tuttavia questo vantaggio numerico non cancellava la rinomata

qualità della cavalleria pesante francese, nota come la più temibile di Europa. Inoltre Filippo fece

buon gioco assicurandosi di combattere sul terreno aperto vicino al fiume sgombro di ostacoli così da

poter manovrare al meglio la sua cavalleria.

Il re di Francia, attraversato il fiume, si mostrò smanioso di combattere e dispose il suo esercitosu tre

colonne divise a loro volta in tre linee: i balestrieri in prima linea; i fanti in seconda e i cavalieri nelle

retrovie. Il sovrano assunse il comando della colonna centrale; sul lato destro dello schieramento pose

a comando Guerino, un templare e vescovo di Senlis, il duca di Borgogna e il conte Gualtieri di Saint-

Pol; affidò il lato sinistro a Filippo di Beauvais e ad i conti di Dreux, Ponthieu e Auxerre.

Anche Ottone si dispose in battaglia in modo simile, ponendo la fanteria in prima linea. Riservò a se

stesso il comando sul centro dello schieramento; affidò il fianco destro a Guglielmo di Salisbury, che

comandava i reggimenti inglesi forniti da Giovanni Senza Terra, assente sul campo di battaglia, e a

Rinaldo di Boulogne; il lato sinistro fu invece assegnato a Ferrante di Fiandra, un ex vassallo di Flippo

II.

Fu Filippo a portare il primo attacco. 300 sergenti a cavallo del fianco destro guidati dal vescovo

Guerino attaccarono, arrivando a ridosso dei cavalieri fiamminghi di Ferrant, i quali reagirono in

ritardo e accusarono la carica nemica. Nel frattempo l'ala destra francese intervenne e il resto

dell'esercito di Flippo avanzò anch'esso. La mischia divenne serrata; sebbene Ottone avesse dato

ordine ai sui soldati di cucire sui mantelli e sui drappi delle croci per rendersi riconoscibili le fonti

riportano che furono in molti a cadere per mano di compagni d'arme. L'intervento del conte di Saint-

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Pol sull'ala destra permise ai francesi di sfondare la formazione dell'esercito imperiale e di attaccare

i fiamminghi alle spalle.

Tuttavia le altre due colonne francesi subivano la superiorità numerica degli avversari. Le dimensioni

del fronte tedesco causarono un schiacciamento del fianco sinistro francese e Filippo, rimasto isolato

dai suoi uomini, fu accerchiato dai fanti avversari e disarcionato. Ottone mirava infatti ad eliminare

il prima possibile il sovrano avversario così da far perdere coesione ai nemici; e per poco il progetto

non si avverò, senonchè Filippo riuscì a resistere abbastanza a lungò da farsi salvare dalla sua guardia.

A quanto pare il portastendardo che accompaganva il re di Francia era riuscito a segnalare le difficoltà

alla cavalleria più vicina che aveva poi liberato il sovrano dall'accerchiamento.

Trovata una nuova cavalcatura Filippo II guidò un carica contro i picchieri tedeschi che si erano spinti

così a fondo nella formazione da perdere qualsiasi coesione. I francesi, ripreso lo slancio, riuscirono

ad arrivare a minacciare Ottone IV. Anche lui, incalzato da vari cavalieri nemici, venne disarcionato

e potè fuggire solo grazie ad uno dei suoi vassalli che gli cedette il suo cavallo e rallentò i cavalieri

di Filippo II. Allora Ottone e alcuni dei suoi alleati, ancora inseguiti dai francesi, dovettero lasciare il

campo di battaglia. Dell'esercito imperiale erano rimasti solo i soldati guidati da Rinaldo di Boulognei

quali, resistevano ai continui attacchi avversari. I soldati si erano stretti in formazione circolare con

le picche in fuori e aprivano la formazione solo per per far passare la cavalleria tedesca che, dopo

veloci incursioni tra i soldati di Filippo II, si ritirava all'interno dello schieramento. Tuttavia mentre

le truppe di Rinaldo si assottigliavano Filippo poteva impegnare i soldati degli altri schieramenti che

oramai avevano messo in fuga il nemico; tuttavia il condottiero non voleva arrendersi. Infine, pur di

non farlo, si lanciò fuori dalla formazion con solo cinque cavalieri per cercare la morte in battaglia.

Nonostante questo, prima di venire ucciso dai fanti, il vescovo Guerino lo dichiarò prigioniero e,

sebbene Filippo non volle la sua esecuzione, venne condannato al carcere a vita.

La vittoria di Filippo II segnò l'equilibrio politico dell'europa del XIII e XIV secolo: mentre Filippo

II e Federco di Hohenstaufen consolidavano il loro potere acquisendo i loro avversari Ottone IV e

Giovanni Senaza Terra vedevano scomparire gran parte dei loro privilegi. Il re Giovanni di Inghilterra

si trovò a dover fronteggiare i suoi vassalli i quali, nel 1215, lo forzarono a accettare la Magna Charta

Libertatum e a diminiure drasticamente i suoi poteri. Ottone invece cercò di riguadagnare l'appaggio

del papa, ma inutilmente; si vide costretto, deposto e scomunicato, a ritirarsi nei suoi possedimenti in

Sassonia dove morirà tre anni dopo nel 1218.

Nel 1215 Federico II di Hohenstaufen venne incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero ad

Aquisgrana e, durante la cerimonia, stupì tutti i presenti prendendo la croce e facendo quindi voto di

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partire per la Terrasanta. La situazione in Terrasanta all'epoca era precaria poiché i soldati occidentali,

avendo perso da tempo i luoghi sacri, si concentravano nella costruzione di imponenti fortezze per

difendersi al meglio dalle possibili incursioni musulmane. Queste opere architettoniche, ne è un

esempio il gigantesco castello di Athlit, mostravano da un lato le capacità ingegneristiche degli

occidentali e dall'altro la scarsità di uomini che i crociati soffrivano in Levante.

Quando nel 1216 morì Innocenzo III gli successe papa Onorio III molto meno autoriotario del suo

predecessore. Onorio aveva intenzione di far partecipare Federico solo a crociata inoltrata, la quinta

crociata in effetti era già partita, perché temeva che il giovane imperatore potesse accumulare troppo

potere. Effettivamente, molti anni dopo, i successi che otterrà federico in Terrasanta contribuiranno

in modo decisivo ad esautorare la Sede Apostolica a favore delle potenze secolari per quanto riguarda

la gestione e organizzazione delle crociate.

Negli anni fino al 1220 Federico soggiornò in Germania, dove si fece raggiungere anche da suo figlio

Enrico, occupandosi di imporre la sua autorità sui vari vassalli. Infine, proprio nel 1220, durante la

dieta di Francoforte l'Imperatore fece nominare suo figlio re di Germania e poco dopo, il 22

Novembre, lui stesso fu incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero nella Basilica di San Pietro

da Onorio III. Lo stesso anno la moglie di Federico, Costanza, era deceduta e così lo svevo, avendo

lasciato suo figlio in Germania affidato ai nobili tedeschi perché lo educassero, tornò in Sicilia per

riprendere nelle sue mani il potere. Ritornato sull'isola Federico si occupò subito di reintegrare nelle

mani del sovrano qualunque diritto regio confiscato precedentemente dai feudatari. Questo causò

degli scontri tra la nobiltà e l'Imperatore, scontri che sfociarono nel conflitto armato quando Federico

ordinò la distruzione immediata di tutte le fortezze costruite in quegli anni senza il suo permesso e

che potevano essere una minaccia per il potere centrale. Entro il 1223 tutti i castelli dichiarati illeciti

furono distrutti. Negli stessi anni Federico fece trasferire tutti i membri delle comunità musulmane

dell'isola, che si erano rese partecipi di alcune sollevazioni, nell'Italia continentale. Vennero per loro

fondate varie colonie; con il tempo l'unica che resterà in piedi sarà quella di Lucera e che diventerà

un fiorente centro culturale musulmano. Da questa città saranno poi scelti dei soldati arabi che

Federico impiegherà nel suo esercito durante le lotte con i comuni e nella sua guardia personale.

Nel frattempo Federico si era impegnato anche nella riforma amministrativa del suo regno

riorganizzando i tribunali e creando nuove figure di funzionari; mantenne anche l'usanza normanna

di convocare delle asssemblee, alle quali partecipavano i nobili e i feudatari, donominate Assisae o

Curiae Generales. La prima si svolse a Capua, dove iniziò a riordinare la normativa del regno;

nell'Assise di Messina del 1221 venne emanato il primo corpo di norme a difesa della morale,

dell'ordine e dei buoni costumi. Infine nel 1224 Federico, conscio delle lamentele dei napoletani

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riguardo la sua concentrazione in sicilia, fondò a Napoli una delle prime università statali.

In tutti questi anni Federico era stato sollecitato da papa Onorio III a partire per la Guerra Santa, ma

egli aveva sempre temporeggiato e trovato scuse; va comunque detto che l'idea di partire per l'oriente

era sempre viva nell'Imperatore. Quando la quinta crociata fallì miseramente il 28 Agosto 1221 tra le

sabbie dell'Egitto due furono i capri espiatori presi di mira: Pelagio di Albano, il legato papale la cui

condotta sconsiderata e arrogante avevano causato la disfatta e Federico II il quale, se fosse

intervenuto con l'esercito, avrebbe potuto portare un contributo non indifferente di uomini e mezzi e

salvare la spedizione. Lo stesso papa inviò allo svevo una lettera carica di astionella quale lo incolpava

della sconfitta. Sebbene Federico continuasse a riafermare la sua volontà nel partire ci furono ulteriori

rinvii a causa dell'indifferenza della nobiltà tedesca.

La goccia che fece traboccare il vaso fu la controversia della chiesa di Sicilia quando l'imperatore

occupò cinque vescovati e ne confiscò i beni. La sede papale perse la pazienza e obbligò Federco II

a firmare nel 1225 il Trattato di San Germano il quale stabiliva che:

- Federico doveva partire il 15 Agosto 1227 e combattere il oriente almeno per due anni.

- in quei due anni l'Imperatore avrebbe dovuto mantenere 1.000 cavalieri, fornire 50 galere

equipaggiate e 100 navi da carico capaci di trasportare in totale 2.000 uomini armati con tre cavalli

ciascuno più il personale ausiliario.

- doveva inoltre versare in cinque rate ben 100.000 once d'oro al patriarca di Gerusalemme, al re di

Gerusalemme Giovanni di Brienne e al Gran Maestro dei cavalieri teutonici Ermanno da Salza. Tale

somma gli sarebbe stata riconsegnata ad Acri una volta liberata la Terra Santa, ma, se lui avesse

fallito, sarebbe stata usata per difendere l'oriente latino.

- infine Federico accettava il rischio di scomunica se non avesse rispettato le precedenti clausole.

Lo stesso anno si tenne il matrionio tra Federico e Isabella, figlia di Giovanni di Gerusalemme e

Maria di Mnferrato, erede al treono della città santa. In teoria Federico sarebbe diventato sovrano di

Gerusalemme una volta che fosse morto il padre di Isabella, ma l'imperatore non aspettò e si fregiò

del titolo non curandosi del fatto che l'attuale re avrebbe potuto regnare legittimamente vita natural

durante. Per risanare tale torto Giovanni di Gerusalemme cercò l'aiuto di Onorio III, ma questi non

poté fare molto altro oltre a condannare un simile comportamento. Il nuovo titolo ottenuto

dall'Hohenstaufen lo rendeva, aggiunto agli altri che già possedeva, il più potente tra i sovrani

dell'Occidente.

Il 30 luglio 1225 Federico convocò, per la Pasqua del 1226, una dieta che si sarebbe tenuta a Cremona

per discutere anche con i podestà lombardi la restaurazione dei diritti imperiali in Lombardia, la

repressione dell'eresia e la preparazione della crociata che di li a un anno sarebbe partita. Sebbene al

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giovane sovrano mancassero le risorse e il tempo per realizzare nel nord Italia una riorganizzazione

dei poteri le città lombarde, prima fra tutte Milano, temevano, in ricordo di Federico I Barbarossa,

una riduzione delle loro libertà comunali. Inoltre era ben presente l'esempio delle città siciliane ridotte

all'ubbidienza da Federico; fu così che si arrivò alla restaurazione della Lega Lombarda, un'alleanza

di carattere militare, politico ed economico, agli inizi di marzo del 1226. da qui inizierà il lungo

periodo di ostilità tra Federico II e i comuni settentrionali.

LA CROCIATA

In Europa erano in molti a prendere la croce in vista dell'imminente spedizione e, come stabilito dal

papa, nell'estate del 1227 i vari eserciti entrarono in Italia ed arrivarono a Brindisi. Al contrario di

come era avvenuto nelle precedenti spedizioni, durante le quali la carenza di uomini aveva sempre

richiesto l'invio di rinforzi, le dimensioni dell'armata radunata erano tali da far sorgere dei dubbi sul

fatto che le provviste accumulate sarebbero bastate. Ma con il caldo estivo scoppiò una pestilenza che

iniziò subito a mietere vittime. Immediatamente Federico II inviò un primo contingente navale per

evitare di essere completamente bloccato, ma poi anche lui e il suo seguito si ammalarono e non

poterono partire. Per guarire dalla malattina l'Imperatore si rifugiò a Pozzuoli ed inviò dei legati dal

nuovo papa, Gregorio IX, per esporgli la situazione e giustificarsi per non essere partito. Gregorio,

uomo forte e deciso, non volle sentire ragioni e senza perdere tempo lo scomunicò; gli inviò anche

una lettera nella quale lo accusava anche lui del fallimento della quinta crociata, di aver causato con

il suo tergiversare la recente epidemia e di essere un amico dei musulmani. Quest'ultimo punto in

effetti si basava sulla risaputa ammirazione di Federico II nei confronti degli arabi e della loro cultura

che l'aveva portato anche ad impararne la lingua e ad accoglierne alcuni nella sua corte.

A poco valse, per placare le ire del pontefice, il fatto che il contingente inviato in Fretta da Federico

prima del contagio fosse arrivato in Terrasanta, avesse assunto il controllo di Sidone, fortificato Giaffa

e Cesarea e aiutato a ristabilire il castello di Montfort come quartier generale dei cavalieri teutonici.

Ripresosi dalla malattia il sovrano era più che deciso a ristabilire il suo nome e a far valere i suoi

diritti su Gerusalemme. L'occasione per mettere in atto tali propositi gli si presentò quando fu

contattato dal sultano del Cairo al-Kamil, lo stesso sultano che aveva guidato le truppe arabe durante

la quinta crociata. Al-Kamil voleva chiedere aiuto a Federico per occuparsi del fratello al-Mu'azzam,

il governatore di Damasco, con il quale era entrato in conflitto. In cambio del suo aiuto militare il

sultano proponeva di restituire ai cristiani Gerusalemme, da tempo in mano agli arabi. Federico,

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contrariamente alla quasi totalità delle genti occidentali, era ben disposto ad accettare negoziati con i

musulmani piuttosto che scontrarsi con loro militarmente; di fatto, grazie alla sua conoscenza

dell'arabo, era in possesso dello strumento necessario a superare una delle più grandi barriere tra

occidentali e arabi, ossia la barriera linguistica. Prima di accettare le trattative l'Imperatore tentò anche

di mettersi in contatto con al-Mu'azzam, per verificare se fosse disposto a trattare termini più

vantaggiosi rispetto al fratello, ma quando il governatore negò ogni possibile collaborazione Federico

accettò di trattare con al -Kamil. Questi inviò in Sicilia il suo emiro Fakhr ad-Din per i negoziati. Le

trattative proseguirono con prospettive rosee tra scambi di doni e la nomina di Fakhr ad-Din a

cavaliere da parte di Federico II, fatto senza precedenti; tuttavia, inaspettatamente, al-Mu'azzam morì.

Con la morte del fratello al-Kamil non aveva più bisogno dell'intervento militare di Federico quindi

le trattative furono sospese.

Nel 1228 Isabella di Gerusalemme morì dando alla luce il figlio di Federico, Corrado. Allo stesso

tempo lo slancio verso la crociata del sovrano continuava ad aumentare e, sebbene colei che gli aveva

portato in dote il titolo di sovrano di gerusalemme era morta, il 28 giugno 1228 egli partì da Brindisi

alla volta della Terrasanta. Innanzitutto la flotta imperiale fece tappa a Cipro verso la fine di Luglio.

Qui Federico, che era effettivamente signore dell'isola, chiese di ottenere la tutela del sovrano di

quelle terre, suo vassallo e ancora minorenne, e durante un banchetto, una tradizione tipica degli

uomini occidentali o "franchi", assunse simbolicamente il potere. Durante tale banchetto chiese

inoltre al reggente Giovanni di Ibelin di tagliargli la carne prima di servirgliela, un chiaro atto di

sottomissione e umiliazione. La tensione aumentò quando, fatti entrare nella sala dei cavalieri armati,

Federico II avanzò la pretesa di riscuotere le rendite accumulate nei dieci anni di reggenza da parte

di Giovanni e di ottenere l'affidamento dei territori di Ibelin e Beirut. Il reggente si difese e disse che

il denaro non poteva essere consegnato poiché era stato speso per la difesa dell'isola; per quanto

riguardava la cessione di Ibelin e Beirut anch'essa non era possibile perché si trattava di una decisione

che poteva essere presa solo dall'Alta Corte di Gerusalemme chiamata anche Assise di Gerusalemme

ossia una serie di leggi che nell'oriente latino sancivano la supremazia del potere nobiliare rispetto

alla corona. Qui si nota bene come l'Imperatore Hohenstaufen avesse una considerazione esagerata

delle prerogative fornitegli dal suo nuovo titolo nell'Est latino facendo trasparire l'ignoranza, o forse

l'indifferenza, dello svevo verso le tradizioni legali di quei luoghi. In questa sua visita a Cipro quindi

il sovrano non fece molto per guadagnarsi l'appoggio dei locali.

All'inizio di Settembre 1228 Federico sbarcò a Tiro e fu accolto con entusiasmo sia dal clero che dagli

ospedalieri i quali, sebbene fosse stato scomunicato e non potessero in alcun modo riconoscere la sua

autorità o appoggiarla, vedevano in lui il più potente sovrano d'occidente , il signore eprotettore dei

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loro domini e, infine, presenza di uomini e armi in Terrasanta. Lo svevo riprovò a mandare dei legati

a papa Gregorio IX per convincerlo a revocare la scomunica, ma il pontefice rimase inamovibile.

Quando partì verso sud con il suo esercito Federico propose che chiunque non volessemettersi contro

la decisione del papa l'avrebbe potuto seguire a distanza senza porsi sotto il suo comando diretto,

questo rassicurò molto gli ordini monastico cavallereschi.

Vennero dunque riaperte le trattative con il sultano al-Kamil; sebbene questi non fosse più propenso

allo stringere un accordo con l'Imperatore del Sacro Romano Impero accettò lo stesso di intavolare

delle trattative poiché era intimorito dall'enorme esercito al seguito di Federico. Il mediatore tra i due

sovrani fu proprio Fakhr ad-Din e questo facilitò i rapporti tra due realtà differenti come quella

cristiana e quella musulmana; l'Imperatore fu il perfetto negoziatore che, grazie alla sua potenza e

alla sua non indifferente cultura, riuscì ad ottenere il rispetto e l'attenzione della controparte. Federico

stupì i suoi interlocutori con domende di architettura, di filosofia e problemi matematici, il tutto

parlando in arabo. I negoziati ebbero esito più che positivo. Il 24 Febbraio 1229 fu stipulata dai due

sovrani una tregua della durata di dieci anni, cinque mesi e quaranta giorni e fu concordato che

Gerusalemme sarebbe stata consegnata ai cristiani, ma a delle condizioni: le mura dovevano essere

demolite e così dovevano rimanere; nessuna area intorno alla città doveva appartenere agli

occidentali; la moschea di al-Aqsa e la Cupola della Roccia dovevano rimanere in mano ai

musulmani, ma volendo i cristiani le potevano comunque visitare. Insieme alla Città Santa i negoziati

di Federico riportarono sotto il controllo cristiano anche Nazareth e Betlemme; in questo modo gli

occidentali rientrarono in possesso dei loro tre più grandi luoghi sacri.

Questi accordi suscitarono polemiche pesanti sia nel mondo Europeo che in quello Islamico. Al-

Kamil si ritrovò a dover giustificare la cessione di Gerusalemme davanti ai suoi sudditi, indignati per

aver perso senza poterla difendere la città che era stata conquistata tempo addietro dal Saladino,

adducendo come scusa che avrebbero potuto riconquistarla una volta terminata la tregua.

Anche in Europa moltissimo condannarono il comportamento dell'imperatore che, non solo non aveva

combattuto gli infedeli, ma era addirittura venuto a patti con loro. In più era terribile agli occhi dei

cristiani che uno scomunicato fosse partito per la crociata e avesse preso la Città Santa. Nonostante

tutte queste critiche i personaggi del tempo erano consapevo dell'enorme successo che lo svevo aveva

avuto nella spedizione, accentuato dal fatto che non era stato versato sangue per ottenerlo.

Una volta ottenuta la città Federico partì immediatamente per visitarla e arrivò a destinazione nel

marzo del 1229. Venne celebrata, in occasione del ritorno della città ai crociati, una messa di

ringraziamento nella basilica del Santo Sepolcro, ma essendo Federico ancora scomunicato non

partecipò. In seguito, sempre nella basilica, egli cinse la corona del Regno di Gerusalemme. Ad

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inasprire ulteriormente i rapporti con il papa fu la convinzione da parte di Federico II di essere il

nuovo Davide che aveva come fine ultimo la salvezza del suo popolo; il concetto stesso di un nuovo

re-Davide, prescelto da Dio, metteva apertamente in discussione l'autorità del papa di Roma come

vicario di Cristo sulla terra.

Le fonti arabe riportano il comportamento di Federico a Gerusalemme nei giorni successivi; lo svevo

viene descritto come un crociato fuori dal comune, interessato alla cultura e ai luoghi di culto arabi e

non rozzo come voleva lo stereotipo "franco". Probabilmente l'indifferente freddezza verso i luoghi

santi cristiani era dovuta non tanto ad un suo mancato fervore religioso quanto dal conflitto ancora in

atto tra lui e il pontefice.

Proprio Gregorio IX, durante l'assenza di Federico II, bandì contro di lui la terra santa e un esercito

papale invase il Regno di Sicila. L'isola venne difesa dal vassallo federe a Federico, Rinaldo di

Urslingen, fino a quando lo stesso anno il sovrano ritornò in patria e mise in fuga le truppe del

pontefice, trovando tuttavia non poche città italiane che appoggiavano il papa. Grazie alla mediazione

del Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici e amico di Federico, Ermanno da Salza, si giunse ad una

riconciliazione delle due parti nel 1230 con la pace di San Germano con la quale Federico giurava di

riconoscere il vassallaggio della Sicilia verso la Chiesa e di restituire tutti i beni sottratti ad essa. Il

28 Agosto dello stesso anno la scomunica sarà ritirata.

In questo periodo era arrivata anche in Italia la contesa tra Guelfi e Ghibellini nata in Germania.

Questi contrasti tra città, o anche interni alle stesse città, si intrecciarono con i difficili rapporti che

c'erano fra l'Imperatore Federico II e i comuni italiani dell'Italia settentrionale, i quali non volevano

cedere allo svevo la loro indipendenza.

Nel 1231 Federico emanò in Sicilia, con l'aiuto del suo fedele collaboratore Pier delle Vigne, il Liber

Augustalis, noto anche come Costituzioni di Melfi. Con questo documento intendeva limitare i poteri

delle famiglie nobiliari e accentrarli nelle sue mani. Sempre in questo anno Federico fece coniare una

nuova moneta per il suo regno, l'Augustea che aveva impresso da un lato un falcone e dall'altra la sua

effige con ta testa contornata dall'allora della Roma imperiale. Risulta palese che Federico II stesse

sempre più cercando un potere assoluto presentandosi come erede della tradizione imperiale romana.

C'è anche da dire che l'Augustea fu la prima moneta aurea a circolare in europa dai tempi della riforma

monetaria di Carlo Magno.

Nel 1234 il figlio di Federico Enrico VII, re di Germania da quando il padre lo associò al trono nel

1220 e i principi tedeschi appoggiarono tale decisione, decise di ribellarsi all'autorità del padre.

Sebbene nelle fasi iniziali del suo regno Enrico fosse riuscito a mantenere buoni rapporti con i principi

e con gli ecclesiastici, anche grazie agli accordi che Federico prese a suo tempo con tali personalità,

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dopo alcuni anni cominciarono a manifestarsi delle mancanze nel suo governo. Arrivò persino a

creare tensioni con loro, atteggiamento che Federico II, il quale aveva sempre cercato un rapporto

collaborativo con i suoi vassalli germanici, disapprovò immediatamente. L'Imperatore cercò di

mettersi in contatto con il figlio convocandolo il novembre del 1231 alla dieta di Ravenna. Nonostante

il blocco messo in atto dalle città lombarde furono molti i principi che riuscirono a raggiungere

l'incontro; a quanto pare Enrico, invece, non mise in atto nessun preparativo per il viaggio ed evitò

l'incontro con il padre. Allora Federico inviò in germania il cancelliere imperiale Sigfrido da

Ratisbona per indurre il figlio a partire, e così avvenne. Enrico VII e Federico II si incontrarono ad

Aquileia nei primi giorni dell'Aprile del 1232. Durante quest'incontro l'Imperatore riconobbe

formalmente il potere del figlio, ma allo stesso tempo chiarì la preminenza della sua posizione

facendo giurare ad Enrico la sua fedeltà verso la corona imperiale in una forma quasi umiliante. Anche

i principi giurarono fedeltà e si proposero di appoggiare l'Imperarore nel caso il figlio avesse

contravvenuto alle disposizioni del padre. A incontro finito Enrico tornò in Germania dove dimostrò

tutta la sua umiliazione e la sua insicurezza anche infliggendo punizioni severe contro i cittadini che

resistevano alle sue disposizioni, appoggiando i principi ecclesiastici e, contraddittoriamente,

fomentando alcune città a ribellarsi ai loro vescovi. Federico allora ammonì nuovamente il figlio e fu

proprio questi, come atto di pentimento e buona fede, a proporre al papa di scomunicarlo senza indugi

se avesse infranto il proprio giuramento verso l'Imperatore.

Gli attriti si intensificarono con l'opposizione di Enrico ai metodi inquisitori di Gregorio IX in

Germania, appoggiati da Federico II per questioni politiche, e una campagna armata contro alcuni

principi tedeschi come Ottone duca di Baviera o Goffredo di Hohenloe. I nemici del re di Germania

si rivolsero all'Imperatore che già guardava con occhio critico i comportamenti del figlio e che

preannunciò per l'estate del 1235 il suo arrivo in Germania. Enrico inizialmente cercò di giustificarsi,

ma già non credeva di poter trovare un'intesa con il padre infatti poco dopo fece i primi passi verso

la ribellione. Erano pochi i nobili dalla sua parte, alcuni della nobiltà meridionale tra i quali Anselmo

di Justingen; questi trattò un patto difensivo tra Enrico e la Lega Lombarda, probabilmente sperando

che grazie ad essa a Federico sarebbe stato impedito l'ingresso in Germania. Federico vide

quest'alleanza come la prova inconfutabile del tradimento messo in atto dal figlio contro di lui. A

metà aprile, i conflitti in Germania tra il re ed i principi a lui ostili erano già iniziati, Federico II si

mise in viaggio. Mentre avanzava in direzione del Reno i principi accorsero dall'imperatore per offrire

il loro aiuto, convinti che Federico sarebbe uscito vittorioso dallo scontro così come ne era convinto

il pontefice. Ci è giunta solo una testimonianza scritta che menzionasse il variegato corteo

dell'Imperatore nel quale figuravano oltre ai saraceni anche dromedari, leopardi ed elefanti. Enrico,

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oramai scomunicatò, comprese di non poter vincere e chiese perdono al padre; questi tuttavia non

accettò e fece catturare il figlio che, infranto il voto, era stato deposto dai feudatari e fu portato

prigioniero presso Melfi nel castello di S. Fele. Al posto di Enrico VII venne eletto a dignità regia nel

1237 Corrado IV figlio di Federico e Isabella di Gerusalemme.

Mentre veniva trasferito in un'altra fortezza, nel febbraio del 1242, Enrico VII precipitò con il suo

cavallo in un dirupo, probabilmente per togliersi la vita. Il padre lo fece seppellire nel duomo di

Cosenza.

Nel 1237 alcuni tumulti filoghibellini a Roma costrinsero il papa a fuggire dalla città nella quale i

rivoltosi si diedero un governo autonomo. Federico, al quale faceva comodo un'occasione per ergersi

a difesa della Chiesa, accorse in armi e si unì alle milizie del pontefice. Tuttavia poco tempo dopo

aver condotto l'esercito lo svevo se ne andò lasciando il comando ad uno dei suoi vassalli. Sebbene

la città venne presto ridotta alla resa questo atteggiamento di indifferenza indebolì il già precario

rapporto che c'era tra il papa Gregorio IX e l'Imperatore.

Riprendendo la questione dei comuni Italiani del nord c'è da dire che quando la seconda Lega

Lombarda fu dichiarata nel 1226 in realtà essa non era mai stata sciolta dai tempi dei conflitti con

l'Imperatore Federico I e quindi in un certo senso simboleggiava la resistenza verso i soprusi imperiali

da parte di tante città autonome. Quest'alleanza funzionava, e funzionava in base, come è ricordato

nel reticolo di norme generali che queste cità si diedero, alla fedeltà. Le offese tra città collegate erano

proibite così come i patti con nemici della Lega e il tradimento. Tutte le città erano tenute ad

intervenire, come è ovvio, nel caso una di esse venisse attaccata. Per giustificare la propria esistenza

la Lega si appoggiò alla pace di Costanza del 1183, mentre per legittimare i propri atti di aggressione

fece ricorso al principio della legittima difesa. Al contrario, Federico, vedeva la pace come una

condizione revocabile e vedeva la Lega come colpevole di Crimen laesae maiestatis avendo rifiutato

di prestare fedeltà verso l'imperatore. Difatti lo svevo inizialmente non riconobbe tale alleanza

definendola societas infidelium. Quando nel 1226 la pace di Costanza fu revocata gli sforzi

diplomatici della Lega furono rivolti alla restaurazione della pace; questa gli verrà concessa da papa

Onorio III in cambio dell'appoggio della Lega nella lotta all'eresia e all'imminente crociata.

In questo periodo di ricercata intesa tra il 1226 e il 1237 si tennero cinque diete imperiali, due delle

quali fallite. La prima fu a Cremona nel 1226.

I negoziati con i comuni lombardi si riproposero dopo la pace di San Germano del 1230. Nel 1231 la

Lega, rinnovatasi, riuscì a ritardare la dieta che avrebbe dovuto riunirsi a Ravenna, provocando un

nuovo bando imperiale. Vennero affrontati dei negoziati, ma gli accordi si rivelarono impossibili.

Altre diete si tennero ad Aquileia nel 1232, a Magonza nel 1235 e a Piacenza nel 1236. Le richieste

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imperiali venivano costantemente rifiutate, perfino il giuramento di fedeltà. La Lega Lombarda si

ostinava nella sua alleanza militare di fronte guelfo.

Durante il breve conflitto che vide partecipi Federico II ed Enrico VII la Lega, nel novembre del

1235, riaffermò la sua volontà di resistere all'imperatore. Nonostante i tentativi di mediatore di

Gregorio IX, che cercava di ricordare a Federico l'imminente scadenza della tregua sui luoghi santi

stipulata con gli arabi, lo scontro iniziò. Federico, rientrato in Italia, saccheggiò subito Vicenza e si

fermò a Cremona. Gregorio IX cercò nuovamente di convincere i comuni a trattare convocandoli a

Brescia nel 1237 insieme ai suoi legati e ai rappresentanti dell'Imperatore Pier della Vigna ed

Ermanno di Salza, Gran Maestro dei cavalieri teutonici. Venne chiesto lo scioglimento della Lega e

il giuramento di non riformarla mai più, ma si concluse tutto con un nulla di fatto. Nel frattempo

arrivavano truppe dalla Germania e dall'Italia meridionale ad ingrossare l'esercito dell'Imperatore.

Bergamo e Mantova si arresero a Federico, già sostenuto da Parma, Mantova, Modena e Cremona, il

quale decise di muovere contro Brescia. I milanesi inviarono un contingente in soccorso della città,

ma l'imperatore, con un'abile strategia, riuscì a circondarli a Cortenuova. I milanesi, asserragliati

intorno al carroccio, resistettero fino al tramonto agli assalti delle truppe imperiali, ma durante la

notte, quando furono sospese le ostilità, si ritirarono abbandonando il carro simbolo della libertà

comunale impantanato in mezzo al campo. Il carroccio, recuperato dai soldati di Federico, fu fatto

sfilare per le vie di Cremona; fu una disfatta umiliante per Milano. In seguito il carro fregiato con i

colori del comune milanese venne donato a Roma ed esposto in Campidoglio, ma Federico pretese

che non venisse danneggiato in alcun modo. La vittoria di Cortenuova venne utilizzata dal fronte

imperiale come propaganda per dimostrare la superiorità del proprio potere; la Lega si sciolse e

Federico II raggiunse l'apice del suo potere in Italia.

Tuttavia il conflitto, celato e non, che oramai contraddistingueva il rapporto tra l'Imperatore e il papa

non poteva essere sanato. Quando nel 1239 il figlio Enzo si sposò Federico lo nominò sovrano di

Sardegna; l'indignazione del pontefice non tardò ad arrivare essendo il dominio sull'isola suo di

diritto. Davanti alle rimostranze del papa lo svevo rispose con polemiche infamanti che vennero

prontamente ricambiate;il 20 marzo 1239 Gregorio IX lo colpì nuovamente con la scomunica. Il

pontefice indisse anche un concilio a Roma per il 1241. nel frattempo Federico si accanì contro le

curie nei suoi domini e dovette fronteggiare anche una nuova ribellione dei comuni. Nel 1241 il

concilio era alle porte, ma l'imperatore riuscì ad impedirne lo svolgimento bloccando con il suo

esercito le strade che portavano a Roma e inviando suo figlio Enzo a capo della flotta per intercettare

le navi genovesi che trasportavano nel Lazio i prelati francesi. La flotta genovese fu dispersa nella

battaglia presso l'Isola del Giglio. Le truppe imperiali si spinsero fin sotto la Città Eterna, ma la morte

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di Gregorio IX, ormai quasi centenario, spinse Federico a ritirarsi. Egli sostenne che la sua lotta non

era contro la Chiesa, ma solo contro il pontefice. La seria minaccia di Federico II fece sì che, dopo la

morte del successore di Gregorio IX, Celestino IV, pochi mesi dopo la sua nomina, il seggio papale

rimase vacante fino al 1243.

Nel 1243 venne eletto papa Innocenzo IV, uomo dalla volontà forte e convinto della possibile pace

con l'Imperatore svevo. Effettivamente Innocenzo IV cercò un accordo con Federico e questi accettò

una tragua per discutere la cessata ostilità. Tuttavia, a causa della ribellione di Viterbo, questa pace

non fu mai ratificata. In questi anni le contine lotte tra Federico ed i papa avevano permesso la nascita

di una miriade di opere apocalittiche che avevano proprio l'Imperatore come protagonista. Era dipinto

come l'anticristo che avrebbe portato l'arrivo di satana sulla terra e gli venivano affibiati epiteti come

martello del mondo.

Con le ostilità ancora aperte nel 1245 Innocenzo IV si ritirò a Lione, sotto la protezione del re di

Francia Luigi IX, e qui convocò un concilio nel quale rinnovò la scomunica e pronunciò la

doposizione dell'Imperatore. Con la deposizione subita gli elettori tedeschi non riconobbero più

Federico e trovarono un nuovo re di Roma in Enrico Raspe nel 1246. enrico Raspe riuscì anche a

sconfiggere Corrado IV nella battaglia di Nidda, ma morì l'anno seguente.

Nel 1248 Federico subì una sconfitta cocente durante l'assedio che aveva posto a Parma. Tale assedio

durava da sei mesi e, sebbene la città non cedeva, l'imperatore si sentiva così fiducioso nella sua

potenza militare da lasciare il campo per andare a caccia con il falcone in compagnia di alcuni suoi

cavalieri. Durante la sua assenza i soldati di Parma portarono una sortita contro il campo imperiale,

distruggendolo. A questa sconfitta umiliante ne seguirono altre: nella battaglia della

Fossalta il figlio di Federico, Riccardo, morì e Enzo venne catturato dai bolognesi. Il re di Sardegna

rimase prigioniero dei bolognesi fino alla sua morte nel 1272.

In questa atmosfera di sconfitte e tragedie Federico cominciò a dubitare dei suoi vassalli e dei suoi

alleati; allontanò molti di questi e altri li fece imprigionare. Federico II arrivò anche a dubitare di Pier

della Vigna poiché lo sospettava di tradimento.

Oramai in conflitto con il papato, i comuni, i principi tedeschi che si erano ribellati a lui Federico,

colpito da un malanno, il 13 dicembre 1250 morì nel castello di Fiorentino di Puglia. A proposito

della sua morte veniva detto che essa fosse stata predetta a Federico II anni prima. Questa "profezia"

avrebbe detto che l'imperatore avrebbe trovato la morte "sotto il giglio" e quindi sarebbe per questo

che Federico cercò sempre di evitare Firenze, città che aveva appunto il giglio sullo stemma.

Durante la sua vita Federico raggiunse risultati impressionanti come la presa pacifica di Gerusalemme

e arrivò ad essere il più potente tra tutti i sovrani euopei. Fu lodato da molti come stupor mundi e da

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molti altri fu criticato e reso oggetto di polemiche. Venne chiamato amico degli arabi e addirittura

anticristo, ma ciò non cambia il fatto che portò alla cultura occidentale innovazioni culturali, maturate

nell'ambiente multietnico della sua corte, e architettoniche come la fortezza, progettata da lui, di

Castel del Monte e numerose basiliche.

Di federico ci è pervenuta anche un'opera scritta ossia L'ars venandi cum avibus. Quest'opera è

probabile che fu scritta proprio dall'Imperatore o che fu copiata sotto la sua supervisione. Si tratta

effettivamente di uno dei primi manoscritti medievali atto alla spiegazione dettagliata di una

determinata disciplina. In questo caso il testo spiega in modo preciso come allevare, addestrare e

curare gli uccelli da preda, quali sono le diverse specie e come utilizzarle al meglio e presenta una

raccolta di moltissime specie animali che potevano essere cacciate. Questa opera ha di speciale il fatto

che ogni singolo passaggio fosse spiegato accuratamente e anche riprodotto accanto in un disegno

per essere meglio illustrato; inoltre si tratta della prima opera a trattare di animali che non si basa su

superstizioni. In poche parole non si tratta di uno dei molti bestiari medievali dove accanto ai lupi ed

ai cervi figuravano anche fauni, ninfe ed altre creature folkloristiche. Nelle pagine dell'ars venandi

cum avibus sono descritti solo animali esistenti e questa descrizione fu fatta tramite un processo di

osservazione sistematica di tali animali allo stato brado; una ricerca che non era mai stata fatta prima.

Fulignati Marco

BIBLIOGRAFIA:

- Phillips Jonathan, Sacri guerrieri. La straordinaria storia delle crociate, Laterza, 2011

- Enciclopedia Treccani

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SAN LUIGI!!Luigi IX è una delle figure più carismatiche e rappresentative del XIII secolo, addirittura definito “il secolo di san Luigi”.!La sua nascita è circondata di incertezze. Luigi, secondo figlio conosciuto di Luigi VIII, figlio primogenito ed erede del re di Francia Filippo II Augusto e delle moglie e della moglie di Luigi, Bianca di Castiglia, nacque molto probabilmente nel 1214, il 25 aprile, a Poissy, dominio che suo padre aveva ricevuto da suo nonno nel 1209, anno nel quale questi - ventiduenne - era stato tardivamente armato cavaliere.!Luigi IX ebbe un fratello maggiore, di nome Filippo, deceduto giovanissimo facendo di Luigi il pretendente al trono diretto. !Alla fine del XII secolo si tendeva, nella famiglia reale capetingia, a dare al figlio primogenito il nome di battesimo del nonno e al secondogenito quello del padre . Così il fratello maggiore di san Luigi aveva ricevuto il nome di battesimo del nonno. Luigi nasce in una dinastia che sta consolidando un insieme di elementi di riconoscimento, in questo caso i (pre)nomi reali.!Non vi era interesse, invece, a conoscere la data di nascita esatta e completa dei figli, anche quando si trattava di figli di re, salvo eccezioni. Per esempio, si sa la data di nascita esatta di Filippo II Augusto, la notte tra il 21 e il 22 agosto 1165, perché la sua nascita- a lungo desiderata- sembrò un miracolo e fu registrata dai cronisti come un avvenimento. !Di Luigi fonti attendibili ci dicono che egli morì nel 1270 a cinquantasei anni o nel corso del suo cinquantaseiesimo anno di età, si può esitare tra il 1214 e il 1215. Si è pensato anche al 1213 o al 1216, ma l’ipotesi è inverosimile. Luigi nacque probabilmente tre mesi prima del grande evento della battaglia di Bouvines, il 27 luglio 1214.!La maggior parte die biografi di san Luigi registrò, invece, il giorno della sua nascita il 25 aprile. Anzitutto perché il cristianesimo credeva - al di fuori di ogni oroscopo sulla nascita di una persona (genere di testo che comincerà a diffondersi solo nel XIV secolo) - che il giorno della nascita avesse importanza essenziale, in quanto la festa o il santo patrono di quel giorno sembravano profetizzare il destino del neonato, o, quanto meno, garantirgli un intercessore privilegiato con Dio. Sul significato di questo giorno natale si sono espressi vari biografi di san L, tra i quali Jean di Joinvoille, amico del re, siniscalco della contea di Champagne e funzionario della corte regia. Questi ci riporta che Luigi nacque dopo la Pasqua il giorno d San Marco, in cui si portano croci in processione in molti luoghi, e in Francia sono chiamate croci nere. Per lui fu quasi una profezia della gran copia di persone che morirono in quelle due crociate, cioè in quella in Egitto e in nell’altra dove Luigi stesso morì a Cartagine. !Luigi IX salì al trono nel 1226 dopo che Luigi VIII, che regno per appena 3 anni dal 1223 al 1226, morì mentre era impegnato a combattere contro i catari e i baroni che li sostenevano. Il padre si era fatto crociato il 30 gennaio 1226 contro il conte di Tolosa, protettore degli eretici. Luigi riceveva da suo nonno e da suo padre un territorio francese molto esteso, infatti Filippo II era riuscito ad assoggettare e anche a riunire sotto il diretto controllo della corona francese vari feudi. Filippo lascia anche un’eredità morale fondata sullo sviluppo della “religione regia”, sui progressi dell’ordinamento giuridico del regno e sull’aureola patriottica della vittoria. !Luigi quindi ricevette il regno ad appena 12 anni di età. Un fatto simile non accadeva da più di un secolo e mezzo, e il sentimento da cui furono pervasi gli abitanti del regno - compresi anche coloro che pensavano di approfittare della situazione- fu l’inquietudine. Un delle funzioni essenziali del re è quella di mettere in rapporto con la divinità la società di cui egli è capo. Il re medievale - e ciò vale in modo particolare per il re di Francia- benché destinato a essere re per diritto di nascita, è l’eletto di Dio, e attraverso la cerimonia della consacrazione , l’unto del Signore. Anche se Dio è in collera con il popolo di un regno cristiano, il re è uno scudo che si interpone tra il suo polo e il male, e attraverso di lui

Nico Kevin Pisciarelli194

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passa la comunicazione con Dio. Ora un fanciullo, per quanto re legittimo e unto, è un fragile intermediario. La minore età di un re è una prova difficile. !E c’è da aggiungere che nel Medioevo si aveva una percezione dell’infanzia totalmente diversa dalla sensibilità moderna. Secondo Philippe Ariès e Jacques Le Goff l’infanzia è un non-valore. Non nel senso che i fanciulli non fossero amati. Ma, al di fuori della natura che spinge il padre e la madre ad amare il proprio figlio, in lui si amava l’uomo o la donna che sarebbe poi diventato. L’infanzia del’uomo modello del medioevo, il santo, viene negata. Un futuro santo manifesta la sua santità mostrandosi precocemente adulto. Nel medioevo il santo incarna in modo privilegiato un luogo comune proveniente dalla tarda antichità, quello del puer-senes, del fanciullo-vecchio.!A motivo dell’angoscia dei contemporanei per la minore età delle re Luigi vi sono racconti biblici sui re fanciulli o sui re la cui età è a metà strada tra la giovinezza e la vecchiaia. Il primo esempio è quello di Roboamo. Il figlio di Salomone, avendo disprezzato il parere degli anziani e seguito quello dei giovani perdette, per punizione divina, gran parte del suo regno. Regnò soltanto sulle tribù di Giuda (I Re, 12). Per spiegare il motivo di questa punizione divina si può ricorrere all’imprecazione dell’Ecclesiale (X, 16-17): << Guai a te, terra che hai per sovrano un fanciullo>>. E’ questo il contesto ideologico, fatto di cattivi esempi e di angoscia biblica, che regna fra gli ecclesiastici quando Luigi divebìnta re a dodici anni. Essi non possono prevedere la futura santità del re e applicargli il topos del fanciullo-vecchio; essi possono sperare che sua madre e il suo entourage continuino a impartirgli, e a rafforzare, quella buona educazione che può ‘lottare’ contro i rischi dell’infanzia del re. !Luigi VIII morente avrebbe affidato la tutela del giovane re a sua madre fino a quando avesse raggiunto <<l’età prevista dalla legge>> <<ad aetatem legitimam>>. Ma è rimasto vago su questo punto. Soltanto con Carlo V di Francia, nel 1374, sarà fissata, secondo il diritto, l’età legale di 14 anni per succedere al trono, e sempre nel XIV secolo saranno fissate delle norme per la reggenza in caso di re infante, non ancora adatto a regnare per l’età. !Colei che ebbe un ruolo egemone nelle custodia (non formalmente reggenza) del regno di Francia e nell’educazione del piccolo Luigi fu Bianca di Castiglia, moglie del defunto Luigi VIII. Egli fu una donna energica, volitiva, che riuscì a tenere le sorti del regno. Essa siattirò le invidie e le maldicenze degli oppositori politici, altri pretendenti al trono e di una parte del popolo. Infatti sono pervenute agli storici delle composizioni poetiche e piccoli racconti, nei quali si racconta con malizia della presunta relazione di Bianca di Castiglia con un ecclesiastico di alto rango, Romano di Sant’Angelo, legato pontificio in Francia e che Bianca fosse rimasta incinta di lui. Tra i due realmente ci fu uno stretto rapporto perché ella era una donna molto devota e per lei il legato pontificio fu un buon consigliere ma non si può certo parlare di una relazione. In alcune cronache viene assunta per vera la relazione dei due, che fa scandalo, sia perché il presunto amante è un ecclesiastico sia perché ella è vedova e regnante, e si riporta un episodio particolare. Bianca si sarebbe denudata dinanzi a un’assemblea di notabili laici ed ecclesiastici e al popolo per provare che non fosse incinta. Ma questo è un topos della letteratura agiografica, spesso la santa, quasi sempre una monaca, viene accusata di essere incinta, di aver infranto il voto di castità ed ella si denuda davanti al capitolo di religiosi per provare la propria castità.!Luigi fu affiancato dalla madre nella conduzione del regno fino alla sua maggiore età e oltre, infatti non si può stabilire con certezza una data nella quale il sovrano si è svincolato definitivamente dalla tutela della madre.!Il giovane sovrano dovette affrontare fin da subito una serie di difficoltà. Infatti Bianca e il suo entourage erano molto preoccupati la tenuta del regno perché Luigi era un re infante e ciò poteva dare adito alla presa di potere di altri pretendenti al trono, primo fra tutti lo zio Filippo l’Irsuto (Hurepel). Quest’ultimo per la Chiesa era considerato figlio illegittimo perché il papa non aveva riconosciuto la validità del terzo matrimonio di Filippo Augusto

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con Agnese di Merania, madre di Filippo Hurepel, e considerava il re sempresposato con Ingeburg di Danimarca, ripudiata la prima notte di nozze. Successivamente l’Hurepel fu legittimato da papa Innocenzo III poiché sua madre era stata accettata dall’aristocrazia francese, e tacitamente dai prelati francesi, come legittima regina consorte di Francia. Filippo Hurepel fu dotato generosamente di terre da suo padre e da suo fratello Luigi VIII. Ricevette questi possedimenti - tra i quali quelli di Rinaldo di Boulogne, uno dei traditori di Bouvines imprigionati nella torre del Louvre- a patto che fossero restituiti alla sua morte se non avesse avuto figli (nel 1236 Filippo morì senza lasciare eredi). !Fino alle soglie dell’estate del 1227 il giovane re sembrava saldo nel suo regno. Ma ben presto tutto barcolla. Joinville nella sua Histoire de saint Louis riporta l’angoscia del re. Il sovrano è un fanciullo, sua madre una <<donna straniera>> che <<non aveva né parenti né amici nel regno di Francoa>>. Un numero importante di baroni si riunisce a Corbeil e decide di impadronirsi del giovane re: non vogliono farlo prigioniero o maltrattarlo, e tanto meno detronizzarlo, ma vogliono separarlo da sua madre e dai suoi consiglieri, prenderlo in ostaggio per governare in suo nome e arrogarsi potere, terre e ricchezze. Per dare una parvenza di legittimità alla propria impresa si danno due capi prestigiosi: Pierre Mauclerc duca di Bretagna, il più potente e il meno fedeli dei gassali del re di Francia, e Filippo Hurepel conte di Boulogne e zio di Luigi, che si lascia facilmente manovrare dai baroni. Il giovane Luigi, che è andato con sua madre a Vendome per trattare con gli incerti baroni dell’ovest, rientra a Parigi passando per Orléans e poi per la via che va da questa città a Parigi. A Monthléry è bloccato in vicina delle truppe dei baroni raccolti a Corbeil. In questa <<difficile occorrenza - dice Joinville - il re ebbe l’aiuto di Dio>>. Il siniscalco riporta anche che da Monthléry a Parigi a strada era tutta piena di gente armata e non, che invocava Dio affinché concedesse al re buona e lunga vita e lo salvaguardasse dai suoi nemici. Era scattata la fedeltà popolare nei confronti del re. !Sin dai primi anni del suo regno Luigi fece emergere il suo carattere comportamento politico che, in seguito, furono legati all’immagine alla memoria di san Luigi. Ed è nei rapporti con l’Università di Parigi, con i vescovi, con l’imperatore e soprattutto nel campo dell devozione religiosa, che il futuro san Luigi cominciò ad affermarsi.!Nel 1229 per una controversia emersa tra dei borghesi e alcuni studenti dell’università emerse il suo carattere risoluto. Già Filippo Augusti intuì molto presto l’importanza, per la monarchia francese, di avere a Parigi- la sua quasi capitale- un focolaio di studi superiori che fosse in grado di apportare gloria, sapere e alti funzionari chierici e laici alla corona. Ma egli non avviò una “politica universitaria”. L’università era conosciuta e tenuta in gran considerazione per la sua facoltà di teologia. Nel 1219 con la bolla “Super speculam” papa Onorio III proibì l’insegnamento del diritto romano a Parigi, sia per venire incontro al re di Francia, desideroso di evitare l’insegnamento, nella sua capitale, di un diritto fondamentalmente imperiale, in un momento in cui egli aspira ad essere riconosciuto come indipendente dall’autorità dell’imperatore, sia per non offuscare con il fascino del diritto l’insegnamento della teologia. Si parla di traslati o studi da Atene a Roma, da Roma a Parigi. Il monopolio degli studi in teologia era della (quasi) capitale del regno di Francia e dava prestigio all’intero regno. !Nel 1229 una zuffa tra studenti in una bettola dipendente dalla chiesa di Saint-Marcel, nel sobborgo omonimo, degenera: i sergenti del re e i loro arcieri (una sorta di corpo di polizia), incaricati di ristabilire l’ordine lo fanno con brutalità, uccidendo e ferendo alcuni studenti: è l’origine di un acuto conflitto tra l’Università,i borghesi e il potere regio, esercitato da Bianca di Castiglia, che si mostra ferma nei confronti degli studenti ed è appoggiata dal legato pontificio. I corsi universitari si fermano: è il primo grande sciopero dell’occidente. Avviene anche una secessione, molti maestri e studenti partono per altre città. Ci vollero due anni per sanare il conflitto. La posta in gioco era alta: per l’università si trattava della sua indipendenza e dei suoi privilegi giuridici; per il potere regio, del suo diritto di far regnare l’ordine pubblico a Parigi. Alla pacificazione si arrivò anche grazie

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all’intervento di papa Gregorio IX, al quale premeva che la Chiesa potesse avere un grande centro teologico all’infuori dei territori direttamente soggetti all’imperatore. Il re pagò un’ammenda per le violenze che i sergenti avevano commesso, riconfermò i privilegi dell’università di Parigi, fece rispettare il calmiere dei prezzi delle stanze in affitto agli studenti e istituì una commissione di vigilanza. Il papa riconobbe agli insegnanti e agli studenti il diritto di astenersi dalle lezioni se, entro quindici giorni dall’uccisione di uno loro, i colpevoli non avessero fornito la debita riparazione per il delitto. !In un altro campo essenziale, quello dei rapporti fra il re di Francia e l’imperatore, vi èla presenza di un precoce intervento del giovane re. I Capetingi avevano cercato di sottrarre il loro regno a ogni rapporto di dipendenza nei confronti dell’imperatore. San Luigi continua questa tradizione, e con successo, ma cerca allo stesso tempo di rispettare la dignità imperiale. Egli si sentiva membro di un corpo, la Cristianità, che aveva due teste, il papa e l’imperatore. Il papa presiedeva alle cose spirituali, e l’imperatore, al di fuori del Sacro Impero germanico, aveva diritto a una reverenza speciale. Ma, per tutte le cose temporali, né la Chiesa, né l’imperatore avevano diritti o poteri giuridici da esercitare nel regno di Francia. Una certa simpatia, a distanza, sembra essere esistita tra Federico II e Luigi IX. Nel 1232 ci furono iniziative francesi in direzione di Federico II, che portarono il segno personale del giovane re francese, sintomo del fatto che anche su questo terreno egli stava prendendo le distanze da sua madre e dai suoi consiglieri. !In un’altra serie di problemi si vede emergere ancora più nettamente in primo piano il giovane re: i conflitti di giurisdizione con i vescovi. Questi, infatti, insieme al loro potere ecclesiastico e spirituale, disponevano (spesso confondendolo al primo) di un potere temporale, soprattutto giudiziario, che essi facevano dipendere da un titolo signorile o dalla loro stessa funzione vescovile. Tra il 1230 e il 1240 ci furono conflitti tra il potere regio e i vescovi. Il più grave e lungo fu quello col vescovo di Beauvais, Milone di Nanteuil, compagno di Filippo Augusto nella crociata. Fu un conflitto che vide contrapposti la borghesia comunale, il vescovo, che era anche conte, e il re. A Beauvais lo scenario era il seguente: i borghesi erano suddivisi in due classi, i populares, che rappresentavano ventun mestieri, e i maiores, di cui facevano parte unicamente i cambiavalute, numerosi e potenti, perché il vescovo aveva il diritto di battere moneta. Un’intesa tra Filippo Augusto e il comune aveva concesso l’elezione del podestà a un gruppo di dodici pari, sei popolares, sei maiores, ogni gruppo designava un candidato e il vescovo sceglieva fra essi il podestà. Nel 1232 questo accordo aveva cessato di funzionare e il re, avendo constato che i maiores dominavano la fitta commettendo una serie di ingiustizie, designò podestà un borghese di Senlis, un forestiero. Ciò causò la ribellione degli abitanti di Beauvais e la sommossa provocò un certo numero di morti. In colloquio tra l’arcivescovo Milone, il re e Biamìnca, l’alto prelato chiese al re di non occuparsi di un caso che, secondo lui, non riguardava la giustizia regia, ma quella vescovile, Il re disse che avrebbe regolato di persona la questione in città e stizzito e in modo autoritario rispose:<<vedrete quello che farò!>>. Fece arrestare un certo numero di eminenti cittadini, fece abbattere le case dei maiores più compromessi e riottosi. Infine, oltre al danno anche le beffa, fece pagare al vescovo e alla città le spese per il soggiorno suo e del suo entourage a Beauvais. Il vescovo, sorpreso, chiese una dilazione del pagamento e il re fece sequestrare i beni temporali del vescovo, cioè le fonti del suo reddito non destinate alla funzione religiosa. Addirittura fece sequestrare e vendere in piazza tutto il vino dell’alto prelato. L’astio tra la città e il re si protrasse per tutti gli anni ’30 del ‘200, il papa dovette addirittura mandare un mediatore. Il papa disse che l’offesa recata alla chiesa di Beauvais era un’offesa a tutta la Chiesa Gallicana e alla Chiesa universale. Si appianò il conflitto con l’elezione di un vescovo più conciliante e con il riconoscimento, da parte di quest’ultimo, della supremazia regia.!Il re in questo conflitto ebbe un atteggiamento risoluto e a tratti impietoso nei confronti del potere vescovile ma ciò non significa che non fosse un re devoto. Egli, per la sua fede

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tormentata e la sua vicinanza agli ordini mendicanti e ad alcune figure gioachimite, viene definito un re-monaco ed escatologico. Portò avanti una vera e propria politica religiosa, che si incentrò molto anche sulla costruzione di abbazie e conventi. Fu protettore dell’ordine cistercense, dei neonati ordini mendicanti, come l’Ordine dei frati minori e quello dei frati predicatori, e delle beghine. Nel 1229 Luigi e sua madre fondano l’abbazia di Royaumont con ospedale annesso. La struttura religiosa divenne anche il luogo di sepoltura di tutti i membri della famiglia regia che non erano saliti al trono, ossia figli e figlie cadetti, invece l’abbazia di saint-Denis divenne il luogo di sepoltura di tutti i sovrani francesi. Guglielmo di Bealieu -primo agiografo ufficiale di san Luigi, che scrisse una vita del re per il processo di canonizzazione - ci racconta che il re andasse spesso in questa abbazia per assistere spesso alla funzioni religiose e a visitare, e se possibile, prendersi di cura di qualche malato. Infatti viene riportato che il sovrano conobbe un monaco piagato da un triste male, lo andò a trovare varie volte, lo definiva il “suo malato”, lo aiutava a mangiare e curava le sue piaghe.!Un altro elemento devozionale di san Luigi è l’adorazione per le reliquie. Egli acquistò nel 1239 delle reliquie della Passione di Cristo, tra cui la corona di spine. Guglielmo di Nangis, monaco di saint Denis, nella sua Vie de saint Louis, testimonia l’attaccamento devozionale del sovrano alle sacre reliquie. Egli racconta che nel 1232 si perse il santo chiodo, reliquia preziosissima portata in Francia al tempo di Carlo il Calvo. Ciò provocò scoramento, tristezza e angoscia nel re, che arrivò a piangere disperato (san Luigi in molte occasioni mostrò la propria commozione, le proprie lacrime), arrivò anche a promettere una ricompensa a chi avesse notizie del santo chiodo. Questo fu ritrovato <<per virtù miracolosa>> il giorno di Venerdì Santo. !Luigi fece costruire anche un altro importante edificio religioso, la Sainte-Chapelle, un monumentale reliquiario e un santuario reale. Ivi fece riporre le reliquie della Passione. Il cronista inglese e monaco benedettino, Matteo Paris la definisce <<una cappella di meravigliosa bellezza, degna di quel tesoro reale>>. !San Luigi è stato definito anche un re escatologico, e questa sua visione si collega alla’ “Apocalissi Mongola”. Il re di Francia condivide l’angoscia della Cristianità allorché i Mongoli, dopo aver devastato la Russia e l’Ucraina, avanzano in Ungheria e nella Polonia meridionale e, nel 1241, arrivano a Cracovia e alle porte di Vienna. Un fatto definibile apocalittico, che rivela a Luigi, come in una visione, le prospettive ultime del suo destino, legato a quello della Cristianità e dell’umanità. San Luigo vive allora una nuova esperienza religiosa di grande intensità. Quelle orde sono forse i popoli di Gog e Magog, che hanno varcato le mura del loro confino nelle regioni dell’Estremo Oriente e portano in Occidente i massacri e le rovine annunciate dall’Apocalisse come preludio alla fine del mondo. Angosciato ma fermo, se è vero - come riferisce Matteo Paris- che fra le lacrime, che sempre gli sgorgano in momenti di intensa emozione, di gioia o timore, il re scrive a sua madre:<< Coraggio! Se arriveranno fino a noi li ricacceremo nelle loro dimore infernali che noi chiamiamo tartaree, oppure saranno loro che ci faranno salire al Cielo>>. !Nel 1244 il re si ammala gravemente, ormai era dato per prossimo alla morte tanto che nominò, per mettersi in regola con Dio, con la Chiesa e con la sua coscienza, due arbitri incaricati di regolare la sua vertenza col capitolo di Notre-Dame. In tutto il regno sono ordinate questue, preghiere e processioni solenni. Bianca di Castiglia fece portare a Pointoise, dove si trovava Luigi, le sacre reliquie per farle toccare a suo figlio. Un giorno lo si credette morto. Joinville colloca la scena a Parigi e racconta: <<Dopo queste cose accadde, siccome Dio volle, che una gran malattia colpì il re a Parigi, e in tal pericolo venne, che una signora che lo curava gli voleva alzare il lenzuolo sul viso, e diceva ch'era morto. E un'altra signora che stava all'altro lato del letto, non volle; anzi diceva che aveva ancora l'anima in corpo. E come udì la tenzone delle due dame, Nostro Signore operò in lui e gli mandò tosto salute, ché s'era fatto muto e non poteva parlare. E come fu in grado di parlare, il re chiese gli si portasse la croce. Quando la regina sua madre seppe che gli

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era ritornata la parola, ne ebbe grande allegrezza. E quando invece seppe che si era fatto crociato, si grandemente si dolse come se lo vedesse morto. Non appena egli si fu fatto crociato, fecero lo stesso Roberto conte d'Artois, Alfonso conte di Poitiers, Carlo conte d'Angiò, che fu poi re di Sicilia, tutt'e tre fratelli del re; e si fece crociato Ugo di Borgogna, Guglielmo conte di Fiandra, fratello del conte Guido di Fiandra da poco morto; il buon Ugo conte di Saint-Pol, messer Gualtiero suo nipote, che assai bene oltremare si portò, e molto avrebbe fatto se avesse vissuto. E inoltre il conte delle Marche e messer Ugo il Bruno suo figlio: il conte di Sarrebruck con messer Goberto d'Aspromonte suo fratello in compagnia del quale io, Giovanni signore di Joinville, traversai il mare, su una nave che insieme prendemmo a nolo, poiché eravamo cugini in tutto venti cavalieri di cui lui ed io eravamo i decimi.>>. All’annuncio di quel voto le reazioni furono diverse, a partire da sua madre. Luigi veniva da una famiglia di grandi crociati, come Filippo Augusto e Luigi VIII, che si dedicò a combattere gli eretici in Francia. !Il contesto internazionale alle soglie della partenza per la univa crociata era in subbuglio. L’arrivo dei Mongoli aveva modificato le condizioni in cui si sarebbe potuta svolgere una crociata nel Vicino Oriente: il crollo della potenza selgiuchide apriva il campo a speculazioni basate sulla vulnerabilità della Turchia di fronte allo sbarco di un’eventuale crociata. E, nel 1248, un principe armeno, inviato come ambasciatore in Mongolia a farvi atto di sottomissione, lasciava intendere ai suoi cugini, il conte di Giaffa e il re di Cipro, che si sarebbe potuto trovare un punto d’intesa con i Mongoli. Ma era ancora troppo presto perché i Franchi potessero raccogliere questo messaggio.!Al contrario dell’Europa orientale, che creava delle inquietudini, la penisola Iberica offriva ampie prospettive all’espansione cristiana. Dopo la vittoria di Las Navas de Tolosa (1212), la potenza Almohade era stata sconfitta e i re cristiani spagnoli acceleravano la reconquista. La caduta di Siviglia, che coincise con lo sbarco di san Luigi in Egitto, ebbe grande eco nel mondo islamico. Ma la Spagna non costituiva più un polo d’attrazione per i crociati provenienti dai paesi al di là dei Pirenei. Solo il re Enrico III d’Inghilterra avrebbe a un certo punto pensato di unirsi al suo parente Alfonso X di Castiglia, per condurre una spedizione in Africa.!Il grave problema che preoccupava allora l’Occidente cristiano era la lotta tra papato e impero, che faceva gravare una pesante ipoteca sulla crociata. Sono soprattutto i problemi in Italia ad opporre Federico II ai papi. Al suo ritorno dalla crociata, l’imperatore aveva regolato a proprio vantaggio la contese relative al regno di Sicilia, e Gregorio IX aveva ceduto. Ma, in Lombardia e nell’Italia centrale, il Patrimonium Sancti Petri era minacciato, e la tradizionale protezione concessa dal papa alla lega delle città lombarde veniva messa in difficoltà. Nel 1239, dopo che Federico aveva nominato uno dei suoi figli re di Sardegna, nonostante i diritti che il papato vantava sull’isola, Gregorio IX aveva finito con lo scomunicare l’imperatore per la seconda volta; l’eserciti imperiale aveva conquistato la maggior parte del Patrimonium e impeditoal papa di tenere il concilio che aveva voluto riunire nell’intento di procedere alla deposizione di Federico.!Nel frattempo, Gregorio IX moriva. Il successore, Celestino IV, fu papa per pochissimo tempo. Fu quindi eletto un cardinale che si riteneva favorevole all’imperatore, Sinibaldo Fieschi, che assunse il nome di Innocenzo IV. Il nuovo pontefice aveva compreso, tuttavia, che la lotta tra papato e impero era inevitabile, soprattutto perché l’imperatore mirava principalmente ad assicurarsi il potere sull’Italia. Lasciando Roma e l’Italia per cercare rifugio oltralpe, egli si metteva al sicuro da eventuali colpi di mano delle truppe imperiali. Poiché Luigi IX non lo aveva autorizzato a stabilirsi nel suo regno, si fermò a Lione, in territorio imperiale, ma nelle immediate vicinanze delle terre francesi, dove si sarebbe potuto all’occorrenza rifugiare. Il 3 gennaio 1245, convocava in questa città un concilio che Federico II non poté questa volta impedire, pur avendo proibito ai prelati di Italia e di Germania di parteciparvi. Nella riunione si sarebbe discusso dei pericoli che correva la cristianità per la perdita di Gerusalemme, della situazione di Costantinopoli e

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dell’invasione tartara, e del comportamento di Federico. Tra le accuse mossegli c’era il suo rapporto con gli infedeli. Il rappresentato dell’imperatore dichiarò che il suo signore desiderava ormai consacrarsi alla lotta contro i nemici della Chiesa, Tartari e Saraceni, ma non riuscì a impedire che il concilio confermasse la scomunica (17 luglio) e dichiarasse deposto Federico. Inutile fu l’intervento di mediazione del re di Francia. Bandito in tal modo dalla comunità dei cristiani, Federico II fu colpito da un proclama che concedeva l’indulgenza della crociata alle operazioni militari mirante a mettere in atto la sentenza del concilio, come era accaduto nel 1228 e nel 1239. L’elezione di un antiré in Germania (prima Enrico Raspe poi Guglielmo d’Olanda) aprì su quel fronte delle ostilità che sarebbero durate fin dopo la morte di Federico, sebbene suo foglio Corrado IV avesse guadagnato terreno: vi parteciparono anche dei crociai e il papa arrivò al punto di raccomandare segretamente al suo legato di incoraggiare i volontari a recarsi in Germania piuttosto che in Terrasanta, per tornare poi sulla decisione e vietare di convertire i voti presi dai Frisoni per la crociata d’Oriente in aiuti da portare a Guglielmo d’Olanda. !La lotta tra papato e impero comportava due conseguenze.!La prima consisteva nel dirottare su Italia e Germania gli sforzi del papa per raccogliere uomini e mezzi, altrimenti disponibili per l’Oriente; la propaganda di Federico, riecheggiava tra trovatori e poeti, insisteva su questo punto, senza che l’imperatore accennasse a muovere aiuto dei Franchi. La sceonda, nell’introdurre nel dibattito il problema dell’Oriente latino. Federico propose ( più o meno sinceramente) di abdicare e di trasmettere al figlio i propri poteri, andando a finire i suoi giorni in Terrasanta. Alla sua morte, avrebbe lasciato una somma considerevole di denaro da utilizzare per la Terrasanta, a cura di Corrado (quando morì, fu cucita sul suo mantello una croce per mostrare che egli rimaneva fedele al suo voto di crociato). Papa Alessandro IV suggerì che Corrado rinunciasse all’impero e al regno di Sicilia per dedicarsi al regno di Gerusalemme. Inoltre, nel 1247, Inncoenzo IV aveva messo fine ai diritti di sovranità dell’impero sul regno di Cipro, che incaricava della protezione quello di Gerusalemme. !Nel concilio di Lione ci si era preoccupati anche del futuro dell’impero latino di Costantinopoli. L’imperatore latino Baldovino II era stato uno dei più convinti fautori delle trattative per riconciliare il papa con Federico II, che gli aveva fatto concludere una tregua con l’imperatore di Nicea. Al concilio, aveva ottenuto l’elargizione di una parte dei redditi pontifici per la difesa del suo regno perché la sua situazione finanziaria era disastrosa ( ci si ricordi della vendita delle reliquie della Passione per rimpinguare le finanze dell’impero latino di Costantinopoli). Spirata la tregua Giovanni Vatatze aveva preso ai Latini due piazzeforti in Tracia, e aveva minacciato Costantinopoli. Ma Innocenzo IV, a cui importava l’unificazione delle due Chiese, aveva negoziato con Vatatze con lo scopo di mettere fine allo scisma greco-latino, visto che l’interlocutore lasciava intendere che sarebbe stato disposto a riconoscere la primazia papale. Nel 1254 Vatatze pensava anche a un concilio per sancire l’unificazione delle due Chiese ma in cambio il papa avrebbe dovuto concedere l’instaurazione di un patriarcato greco, non latino, a Costantinopoli. Innocenzo IV rispose che non aveva motivi validi per deporre Baldovino II, ma se Vatatze avesse conquistai Costinopoli, il papa avrebbe dato il suo avallo al ritorno di un patriarca greco in città. Alessandro IV avrebbe confermato queste prospettive a Teodoro II Lascaris nel 1256. Ma Baldovino non aveva nessuna intenzione di lasciare il suo trono, anzi chiedeva la restituzione di Salonicco. Ma alla fine Costantinipoli passò di nuovo in mano bizantina nel 1261.!Il fatto che Roma anteponesse gli interess spirituali della Cristianità alla conservazione di una dominazione latina, che poteva essere un ostacolo all’unificazione tra le due Chiese, rispondeva all’orientamento “missionario” di Innocenzo IV. Da anni la presenza franca a Costantinopoli aveva smesso di apparire utile per gli insediamenti latini in Terrasanta. La lotta per la sopravvivenza che si era scatenata tra papa e imperatore era di ben altra ampiezza, il pericolo mongolo incombeva alle porte dell’Occidente, non si profilava uno

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sforzo collettivo per la difesa della Terrasanta. E’ per questo motivo che Luigo IX fu indott ad assumere su questo piano un ruolo egemone. Alla metà del XIII secolo, il re di Francia si identifica con la crociata.!La convocazione del concilio di Lione, tre mesi dopo la disfatta di La Forbie e sei mesi mesi dopo la perdita di Gerusalemme (3 gennaio 1245) annunciava la ripresa della crociata. Una lettera del papa a Tebaldo di Navarra, il 15 gennaio, era ancora più precisa su questo punto. Ma il re di Francia aveva già preso l’iniziativa; da questo punto di vista egli si comportò come Luigi VII, che aveva deciso di partire per l’Oriente prima che Eugenio III avesse emanato l’appello alla crociata.!Come sappiamo Luigi IX si era gravemente ammalato, lo si riteneva in fin di fita, e, una volta guarito decise di prendere la croce, che gli fu data dal vescovo di Parigi. Alla fine di dicembre del 1244, corse voce che Luigi avesse avuto una visione che lo aveva indotto a pertire oltremare. E’ verosimile che il re non fosse ancora a conoscenza della disfatta di La Forbie, di cui Innocenzo IV sarebbe stato informato solo alla fine di dicembre, ma che avesse già avuto notizia del sacco di Gerusalemme. Joinville riferisce che Bianca di Castiglia fece il possibile per non far partire il figlio, che restituì la croce ma poi la riprese irrevocabilmente.!La decisone fu presa con stupore dagli ambienti vicini al re. Ma il suo interesse per la crociata non era una novità. egli fece elargizioni a beneficio dei crociati del 1239. Obbligò anche i baroni ribelli a recarsi a prestare servizio in Terrasanta e nel 1237 ai cittadini di Narbona colpevoli di aver molestato gli inquisitori. E nel solco del suo interesse per la crociata possono essere ricondotti l’acquisto della corona di spine nel 1239 e la costruzione della Sainte-Chapelle tra il 1241 e il 1248.!Il suo entourage era preoccupato per la sua salute e anche perché il regno sarebbe rimasto scoperto da eventuali attacchi di Enrico III d’Inghilterra, che reclamava la restituzione dei feudi di Anjou, Poitou, Normandia, confiscati a suo padre. Così il re di Francia concluse una tregua con Enrico III, che sarebbe terminata nel 1248. Infine, le relazioni tra il papa e l’imperatore non sembravano favorevoli alla preparazione della crociata. Ciò nonostante il re non rinunciò a partire. Il papa approvò il progetto di Luigi nominando, alla fine del concilio, un legato incaricati della predicazione della crociata: il cardinale Oddone di Chateauroux.!Il 9 ottobre Luigi IX riuinva a Parigi un’assemblea di baroni e prelati nel corso della quale molti presero la croce, tra questi gli arcivescovi di Reims e di Beauvais.I baroni, che avevano avuto contrasti con il re, come quelli recatisi in Terrasanta nel 1239, si arruolarono per la nuova crociata. ll re prese una serie di provvedimenti: una moratoria sugli interessi dei debiti contratti dai crociati, interdizione di tutte le guerre private per i tre anni successivi, fino al 3 giugno 1249, imposizione di un contributo alle città rurali. Il papa concesse al re un ventesimo delle rendite dei benefici ecclesiastici, da percepire non solo sul territorio del regno, ma anche nelle regioni della Lotaringia e della valle del Rodano, che dipendevano dall’Impero. Ma molto presto questa concessione fu di un decimo delle rendite ecclesiastiche. !Sembra che il reclutamento dei crociati si avvenuto senza che venissero opposte riserve , anche se alcune fonti riportano che, in occasione del Natale, re Luigi distribuì ai suoi cavalieri delle livree con una croce cucita, di modo che si trovassero ad aver preso la croce senza averlo chiesto. Si fece crociato anche il siniscalco Jean de Joinville.!san Luigi, che desiderava coinvolgere nella sua impresa il maggior numero possibile di sovrani europei, aveva informato Federico II che si era fatto crociati. L’imperatore se ne congratulò molto affettuosamente in una lettera; metteva a disposizione dei crociati le risorse e i porti del suo regno di Sicilia, autorizzava l’acquisto di cavalli, armi, navi e prometteva di concedere salvacondotti. Egli cercava in questo modo di approfittare della del desiderio del re di rafforzare la crociate per ottenetene l’appoggio nel conflitto con il pontefice.!

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Ma il dotto islamico Ibn Wasil riporta che un inviato di Federico, di nome Berto, travestito da mercante, era venuto da parte dell’imperatore, per informare il sultano d’Egitto dei progetti del re di Francia e invitarlo a fortificare il paese, a metterlo in assetto da difesa. Non è escluso che Federico abbia tentato di mantenere l’alleanza col sultano Ayyub, pur manifestando l’intenzione di aiutare il re crociato. Alcuni baroni tedeschi parteciparono alla crociata, ma il movimento non raccolse grande seguito, anche perché Innocenzo IV aveva limitato il campo d’azione del legato pontificio Oddone su quel fronte.!Luigi IX contava anche sul coinvolgimento del re Haakon IV di Norvegia, che sapeva crociato da molti anni; la flotta norvegese avrebbe potuto fornire prezioso aiuto. Ma il re norvegese accampò una ridicola scusa: l’incompatibilità di carattere tra gli eserciti e l’irrequietezza di quello norvegese. Fu mandato a convincerlo Matteo Paris, che non riuscì nell’intento.!Si contava anche sull’Inghilterra. Enrico III, memore della sconfitta del 1242 inflitta dai franchi, era mal disposto nei confronti della crociata del re di Francia e nel 1245 non concesse al vescovo di Beirut di predicare la crociata nel suo regno. Ma successivamente finì col cedere, concesse il diritto di predicazione ma rifiutò di accettare la tassazione dei benefici ecclesiastici inglesi per la crociata. L’Inghilterra in quel momento era molto ostile agli aspetti finanziari della politica papale. Il fratello di Enrcio, Riccardo di Cornovaglia, inviò mille lire tornesi in Terrasanta, il suo fratellastro Guglielmo di Lungaspada, Simone di Montfort-Leicester, e il vescovo di Worcester presero la croce. Ma nel 1247 Enrico chiese al papa che i crociati inglesi si mettessero in marcia solo dopo la partenza di quelli franchi, come infatti accadde. !La crociata, essenzialmente francese ma con una significativa presenza inglese, si mosse nel 1248, qualche contingente si attardò nel 1249. Era stato necessario raccogliere i fondi, le imbarcazioni e i viveri necessari per la partenza.!Nell’attesa Luigi IX prese un provvedimento di eccezionale portata. Per mettere in pace la propria coscienza prima di partire, ma certamente anche per lasciare in ordine il regno, fece condurre una grande inchiesta allo scopo di riparare ai torti che avesse eventualmente commesso nei confronti dei propri sudditi, o dei propri ufficiali, o ancora di riparare alle azioni arbitrarie compiute dai suoi predecessori e di rendere alle vittime i beni ingiustamente requisiti. Le inchieste furono affidati a religiosi, soprattutto domenicani e francescani, inizialmente, per collocare questa revisione del governo reale nella prospettiva morale propria di una crociata. Le inchieste di san Luigi ebbero fanno luce sulla preparazione morale della crociate ed ebbe una certa eco sui sudditi, infatti, come riporta lo stesso siniscalco, Joinville disse ai propri gassali di farsi avanti nel dire se lui avesse compiuto torto per poter rimediare. !La preparazione della crociata non fu solo spirituale ma anche materiale e fu molto accurata anche su questo piano. Il clero francese, riunitosi in assemblea, decise di assegnare non un ventesimo delle proprie rendite ma un decimo suscitando non poche proteste tra i religiosi stessi, soprattutto l’ordine di Cluny levò la propria protesta trincerandosi dietro la propria esenzione dalle imposte.!Le imposte per la crociata pesarono anche sulle città del dominio reale, che dovettero indebitarsi per corrispondere le somme pattuite. Fu raccolto un considerevole tesoro di guerra, che permise al re di assoldare i crociati che avevano esaurito le proprie risorse, tra i quali Joinville.!La crociata di san Luigi fu anche innovativa per il fatto che fece costruire una vera e propria base nelle retrovie, dove furono ammassate le granai e, il vino e le altre derrata alimentari per la spedizione.!Per quanto riguarda le navi, si era provveduto già dal 1246. Luigi si rivolse ai genovesi per avere delle imbarcazioni e una buona alla flotta, al cui allestimento e rifornimento sovrintesero due genovesi ammiragli di flotta. !

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Contemporaneamente alla preparazione materiale della crociata, continuava il lavoro di preparazione diplomatica. Si dovettero respingere le pretese di Enrico III d’Inghilterra, che reclamava la restituzione dell’eredità angioina e rifiutava di rinnovare la tregua. re Luigi dovette quindi affidare a sua madre Bianca, incaricata della custodia del regno, i mezzi per resistere a un eventuale attacco. Luigi, inoltre, cercò anche di far riconciliare il papa e l’imperatore ma non v riuscì, anzi, come riporta Matteo di Parigi, il re di Francia e Innocenzo IV si incontrano a Cluny nel novembre del 1245 e il re si irritò nel trovare così risoluto il papa nei confronti di Federico II.!Finalmente la flotta crociata salpò il 25 agosto 1248 da Aigues Mortes, porto fatto costruire da Luigi IX perché il regno di Francia si trovava sprovvisto di un porto direttamente soggetto alla corona francese.!Si arrivò a Cipro il 17 settembre 1248. Secondo alcuni, il re avrebbe voluto pasare direttamente all’attacco ma gli si fece notare la necessità di attendere il resto delle truppe. Inoltre sull’isola si verificarono delle malattie molti crociati morirono a causa di esse. Comunque l’esercito non fu indebolito perché nuovi distaccamenti giunsero dall’occidente e anche dall’oriente catino.!Sull’isola si pensò a quale strategia attuare per attaccare. Ma ne frattempo si era sparsa un’assurda voce, secondo quale gli Egiziani avessero avvelenato il pepe destinato all’Oriente, ma Matteo Paris riferisce che si srebbe trattato di voci messe in giro dai mercanti per smerciare più facilmente le scorte. In realtà, il sultano Ayyub, benché avesse preso le sue misure per la difesa dell’Egitto, era impegnato nella lotta contro suo cugino sultano di Aleppo, che gli contendeva il possesso di Homs, ed era partito per la Siria per riconquistare la piazzaforte.!Da parte del fronte crociato vi furbo contatti con ill ‘Vecchio della Montagna’, lo sceicco degli Ismaeliti della Siria settentrionale, del quale c’era già stata un’ambasceria nel 1238 in Francia e in Inghilterra. Anche il sultano selgiuchide aveva cercato di instaurarebrapporti con il re di Francia e Baldovino II di Costantinopoli aveva pensato di dare in sposa una sua parente al sultano per rafforzare la loro alleanza contro l’impero di Nicea. L’idea di utilizzare le forze franche a vantaggio delle dinastie orientali era molto diffusa in Oriente. I gran maestri degli ordini avevano preso contatti, chi con un emiro egiziano che tesseva intrighi contro il suo sultano, chi con le genti di Aleppo in lotta con quest’ultimo. Semmbra addirittura che si fosse pensato di sbarcare sulle coste della Turchia per approfittare della debolezza del suo sultano, vinto dai Mongoli.!San Luigi bloccò tutti questi progetti vietando di prendere contatto con i musulmani. Non è escluso che la condanna di Federico II, nella quale si erano prese a pretesto le sue relazioni col sultano e le sue simpatie per il mondo islamico per accusarlo di tradire la Cristianità, lo abbia dissuaso dallo spingersi in questa direzione. Ma può darsi anche perché non voleva che si profilassero alle sue spalle degli intrighi dei quali non poteva tenerne le fila. E il re rimaneva anche attaccato alla concezione, ormai classica, della quinta crociata: impadronirsi di u grande porto egiziano, come Damietta, e marciare sul Cairo. Sembra che i suoi consiglieri abbian tenuto in gran conto la piena del Nilo, che durante i mesi estivi non permetteva lo svolgersi di attività militari, per evitare che si ripetesse la catastrofe del 1221.!Nell’attesa si tenne un concilio per riformare la Chiesa latina di Cipro, prendere contatti con i greci dell’isola e il re riceveva legazioni, quella della madre dell’imperatore latino di Costantinopoli e quella del principe di Antiochia, Boemondo V, alle prese con invasioni di bande turcomanne. La prima operazione militare dei crociati fu l’invio di un contingente di cavalieri per portare aiuto al principe. !Il re ebbe anche difficoltà col suo esercito e le flotta. Durante l’inverno, mentre i marinai preparavano la flottiglia che avrebbe dovuto portare le truppe, i comandanti delle navi genovesi si erano recati ad Acri per iniziare una piccola guerra con i pisani. Il re dovette

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attendere la fine di questo conflitto per disporre delle sue navi. E alcuni baroni raggiunsero da soli la Terrasanta nonostante il re non volesse.!All’inizio di maggio tutto era pronto. L’armata puntò su Damietta dove cominciò a sbarcare sull’arenile, cioè la spiaggia nei pressi della città. Joinville ci riporta che i cavalieri si gettarono in acqua per raggiungere la terraferma quando le barche non poterono andare più oltre, e che si dovette trattenere il re. Ci fu uno scontro con la cavalleria egiziana, copista da truppe scelte. Il panico si impadronì degli egiziani, che in tutta fretta evacuarono la città. Il 6 giugno 1249 la città fu presa in un solo scontro, una piazzaforte che aveva resistito per più di un anno nel 1219-1220.!Certamente il re non si attendeva un tale successo. Era certo che bisognasse aspettare la fine dell’estate, cioè far passare la piena del Nilo, per poter muovere battaglia, che fu ciò che accadde. Correva voce- come scrive Matteo Paris- che il sultano, subito dopo la presa di Damietta, avesse offerto al re la cessione di Gerusalemme e la liberazione di tutti i cristiani prigionieri in cambio della restituzione della città egiziana. E lo storiografo inglese aggiunge della crociata avrebbe dovuto limitarsi al recupero della Terrasanta e per lui la causa del fallimento della crociata era stata aver voluto sostituire a questo legittimo obiettivo una conquista dell’Egitto del tutto ingiustificata. Gli storici musulmani del tempo riportano un scambio epistolare tra il re di Francia e il sultano Ayyub, nel quale Luigi IX ricordò al musulmano le vittorie riportate in Spagna sugli islamici e disse di volergli far fare la stessa sorte, anche se si fosse convertito al cristianesimo. L’offerta di Ayyub di volersi convertire al cristianesimo è riportata anche da altre fonti. Ma in realtà non vi è alcuna testimonianza dell’apertura di un negoziato tra i due. E non si può nemmeno avvalorare la tesi della proposta di conversione del sultano dal momento che egli fece punire crudelmente i responsabili della precipitosa evacuazione della città di Damietta e mettere in assetto da difesa il Cairo. !Luigi si diede da fare per organizzare la conquista. Fece riedificare la cattedrale di Damietta, fondata nel 1220 e nominò un arcivescovo, la dotò di un capitolo e di beni temporali. Tutto lasciava supporre che si pensasse a un insediamento definitivo, dal momento che furono portati anche strumenti per l’agricoltura. Di penava anche che il re volesse fare dell’Egitto un regno per suo fratello, Roberto d’Artois, considerato l’anima di questa crociata, ma la sua morte ad el-Mansurah fa pensare che egli abbia potuto servire da capro espiatorio per quanti cercavano un colpevole. Joinville accusava i peccati commessi dai crociati: la cattiva condotta di troppi di loro, l’avidità, l’eccessivo lusso. Il re, preoccupato del vettovagliamento dell’esercito, contrariamente alla consuetudine, vietò di fare bottino a Damietta causando sconcerto nel fronte crociato.!Roberto d’Artois ebbe davvero un ruolo determinante, nel consiglio, nel far proseguire la spedizione verso il Cairo e nel non far attaccare Alessandria, altro importante e strategico porto egiziano. Egli riteneva che per uccidere il serpente si dovesse schiacciarne la testa, cioè il centro politico dell’Egitto, il Cairo.!Il 20 novembre l’esercito si mosse verso sud, seguito da una flottiglia che lo accompagnava risalendo il Nilo, assicurandogli rifornimento di viveri. Il 24 moriva il sultano Ayyub e si dovette nascondere la notizia del decesso per non provocare scoramento nel campo egiziano e per dare all’erede Turan-Shah, al quale era stata celata la notizia, il tempo di arrivare dalla Gezira. Fakhr al-Din, comandante dell’esercito, lo stesso che condusse i negoziati con Federico II, oppose strenua resistenza all’avanzata dei Franchi., che marciavano verso la fortezza di al-Mansurah. Ma i crociati si trovavano dinanzi a un grande ostacolo: la traversata del braccio del Nilo che sfociava nel lago Menzaleh, il Bhar al-Seghir.!San Luigi disponeva di un buon corpo di maestranze, che costruì una diga per permettere il passaggio dell’esercito crociato ma gli ingegneri egiziani facevano scavare dall’altro lato per mantenere invariata la larghezza del corso d’acqua, mentre il fuoco greco pioveva sui castelli di legno costruiti dai crociati su barconi (gli chats-chateaux) come racconta

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Joinville. Infine, un abitante del luogo indicò ai Franchi un guado, piuttosto a valle rispetto alla zona degli scontri. Il re ordinò che l’esercito traversasse in buon ordine e che si formassero i ranghi appena arrivanti sull’altra sponda del braccio di fiume. Ma l’avanguardia partì, senza attendere, all’assalto del campo egiziano che conquistò, prendendolo di sorpresa; Fakhr al-Din ucciso prima che avesse il tempo di indossare l’armatura, e le sue truppe si diedero alla fuga. Roberto d’Artois volley approfittare di questo primo successo e con il suo schieramento si precipitò all'inseguimento dei fuggiaschi egiziani che si precipitarono alla fuga dentro le mura di el-Mansurah. Nelle strade della piazzaforte, lo scontro assunse un andamento diverso, i Mamelucchi dell’esercito egiziano si raggrupparono sotto il comando dell’emiro Baibars. I cavalli dei franchi erano stremati e l’avanguardia fu quasi totalmente massacrata, il conte d’Artois fu tra i caduti e un ospedalierie, sfuggito al massacro, diede la notizia a Luigi IX.!Una pronta ritirata su Damietta avrebbe potuto salvare l’esercito, Ma la battaglia di el-Mansurah si era conclusa con una vittoria dei crociati perché gli egiziani batterono in ritirata. Se avesse rinunciato a marciare sul Cairo, il re francese avrebbe potuto sperare di costituire ancora una minaccia per il fronte musulmano e patire negoziati con loro. Secondo Joinville, i negoziato, condotti da Filippo di Monfotrt, era a buon punto; il consiglio del re e quello del sultano avevano fissato la data delle trattative: i crociati avrebbero restituito Damietta al sultano e questi avrebbe restituito loro la Terrasanta. Il re aveva anche fatto inserire la clausola che le sue macchine da guerra e le sue provviste di derrate alimentari sarebbero rimaste a Damietta finché egli non avesse potuto provvedere al loro trasporto e i malati fossero guariti. Ma la pretesa avanzata dagli Egiziani di avere come ostaggio il re come ‘garanzia’ fece fallire il progetto. !Nel frattempo le condizioni di salute dell’esercito si aggravarono. Il collegamento fluviale dei crociati con Damietta era stato intercettato dalle galere egiziane e i cristiani si trovarono a corto di rifornimenti, furono costretti a cibarsi di carne salata e si manifestò lo scorbuto, come riporta Joinville. Il siniscalco attribuisce il ‘male dell’armata’ ai pesci del Nilo, cheti erano nutriti dei cadaveri dei soldati finiti nel fiume. L’esercito era molto provato e debilitato. Il 5 aprile, il re iniziò la ritirata verso Damietta. Gli Egiziani, che a seguito di una univa sconfitta, l’11 febbraio, avevano deciso di non rimanere a contatto con i crociai, si accorsero presto della partenza. Volevano raccogliere colo che rimanevano indietro. Tra questi vi fu Luigi IX, che fiaccato dalla malattia, fu lasciato in una casa sotto le cure di una donna, una borghese di Parigi. Il grosso dell’esercito era arrivato a Fariksur, a una giornata da Damietta. Filippo di Montfort era riuscito a ritrovare l’emiro, con il quel aveva negoziato, e gli proponeva di rendere Damietta a patto che il sultano permettesse all’esercito crociato di raggiungere la città per imbarcarsi. In quel momento, secondo fonti franche, un sergente franco gridò che il re ordinava di deporre le armi, e i combayyenti obbedirono (6 aprile 1249). I vincitori egiziani massacrarono sistematicamente gli ammalati, dopo che le galere del sultano avevano intercettato le navi crociate. Anche la nave in cui c’era Joinville fu presa, ed egli fu risparmiato perché fu scambiato o si fece passare per il cugino del re di Francia. A molti crociati fu imposto di scegliere tra l’apostasia e la morte. Luigi IX fu catturar a Munyat Abu uAbdallah e fu posto sotto la sorveglianza dell’emiro Husam al-Din, che rimase colpito dall’intelligenza del prigioniero. Invece Matteo Paris parla di un incontro tra il sultano d’Egitto e il re di Francia. L’Egiziano chiede al suo illustre prigioniero quale fosse il motivo della sua spedizione e questi risponde che il motivo era la conversione dell’anima del sultano e di tutti gli Egiziani. Il sultano rimase sorpreso dalle parole di Luigi IX perché egli era convinto che i crociati volessero portare avanti una mera spedizione di conquista. Il benedettino riporta anche che il re fu, a sua volta, sorpreso dal sultano perché nel luogo in cui si incontrarono i due vi era una grande quantità di testi religiosi, di commenti di dotti ed opere filosofiche, benché ritenute eretiche e pagane da Luigi. Questo diede l’impulso al re, al suo ritorno, di far copiare e conservare opere religiose nella sala del tesoro della Saint-Chapelle. Gli egiziani

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volevano, in cambio della liberazione del re e degli altri prigionieri, la cessione delle piazzeforti in Terrasanta ma esse appartenevano di diritto a Federico II e ai suoi vassalli, e agli ordini dei Templari e degli Ospitalieri, quindi non potevano essere ceduti dal re di Francia. L’oggetto del negoziato fu limitato al pagamento di una somma di denaro per il riscatto, 400.000 lire tornesi (800.000 bisanti d’oro). Per pagare la prima parte del riscatto i crociati dovettero ricorrere ai Templari, depositari del denaro per la crociata, ma essi di rifiutarono di cedere, Cedettero dopo un atto di violenza dimostrativo di Joinville, che prese un’ascia facendo il gesto di spezzare qualcosa.!Nel frattempo era stato assassinato Turan-Shah dai mammalucchi di suoi padre, e il potere passò nelle mani della vedova di Ayyub e del mamelucco Aybeg. Il 6 maggio, un mese dopo la sua cattura, il re fu liberato assieme ai suoi principali baroni. Durante la prigionia del re era nato suo figlio, chiamato Giovanni Tristano per l’infausta situazione dei crociati e la prigionia del padre. !La campagna d’Egitto del 1249-1250 si concludeva quindi con insuccesso. Molti crociati ritornarono nella propria patria ma il re Luigi, Joinville e altri baroni decisero di rimanere in Terrasanta perché rimaneva il problema della prigionia di molti crociati nelle carceri egiziane. In un’assemblea di notabili si decise il futuro della permanenza dei crociati in Oriente. Joinville espresse la volontà di rimanere in oriente a fianco del e e fu tacciato di essere avido e un ‘poulain’, cioè un ‘puledro’, un franco stabilitosi in oriente e assimilatosi ai costumi orientali. Il re si diede da fare per portare avanti la fortificazione di varie roccaforti in oriente, tra le quali Sidone e Cesarea. Inoltre Luigi IX voleva approfittare dei contrasti tra il sultano d’Egitto e il sultano di Aleppo, Al-Nasir. Egli intavolò, tramite suoi legati, delle trattative con entrambe i fronti musulmani. Si arrivò anche a rapporti più distesi con gli Egiziani, che temevano una possibile alleanza tra cristiani e siriani. Gli egiziani diedero in dono addirittura un elefante, come ci riportano i Chronica di Matteo Paris, in cui vi è una raffigurazione dell’animale fatta dallo stesso benedettino. Il re decise anche di lasciare in Oriente un distaccamento permanente di crociati franchi, comandati da Goffredo di Sergines, direttamente dipendenti dal re di Francia. Successivamente questo corpo crociato indipendente fu assorbito tra i quadri del regno di Gerusalemme. Infine si riuscì a ottenere la liberazione dei soldati imprigionati e ammalato grazie, soprattutto, alle trattative del balivo Giovanni d’Ibelin e dei gran maestri degku ordini monastco-cavallereschi. Si stipulò una tregua di 10 anni con gli Egiziani e si dovette escludere dal patto Giaffa, per lasciare la possibilità ai Mamelucchi di garantirsi contro nuovi attacchi crociati. A questo punto, nel 1254, si può ritenere conclusa la permanenza di Luigi in Oriente, anche perché era giunta notizia della morte della madre Bianca di Castiglia, che causò profonda afflizione in san Luigi.!Il re, al suo ritorno, fu bene accolto dal suo popolo ma si mostrò profondamente rattristato. Matteo Paris riporta che il re disse a un vescovo, che voleva consolarlo, che lui era profondamente triste perché i suoi peccati erano ricaduti sull’intera Cristianità. Come riporta anche Goffredo di Beaulieu, domenicano e confessore personale del re nei suoi ultimi venti anni di vita, nel re si manifestò, nel 1254, nel suo ritorno una vera e propria mutatio animi, Infatti egli portò avanti una serie di riforme tese alla moralizzazione del suo regno, promulgò leggi contro la bestemmia, la prostituzione, il prestito di denaro e l’usura condotti da ebrei ma anche da cristiani, la vita degli ebrei nel regno ma portò avanti anche una significativa opera di sistemazione del baliaggio e anche una politica monetaria, fu uno dei primi sovrani a reintrodurre in occidente una moneta aurea. Fu anche un re, che si prodigò molto per il rispetto della giustizia nel suo regno. Infatti, come riporta Gugliemo di Nangis nella sua Vita di san Luigi, il re fece marchiare a fuoco la bocca di un uomo che aveva bestemmiato e aggiunse che preferiva essere di gran lunga odiato dagli uomini in terra e lodato da Dio in cielo per il perseguimento della giustizia e della moralità. Ma il religioso racconta anche un altro episodio della giustizia del re, che fece punire un potente barone, che aveva impiccato tre nobili fanciulli stranieri che erano andati a caccia nella

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sua foresta, con una pesante ammenda in denaro, dal momento che non poteva farlo condannare a morte, e diede il denaro a dei monasteri e conventi per la cura dei poveri e degli ammalati. Tutte le leggi, che comprendevano ogni aspetto della vita nel regno, promulgate prima della sua partenza per la sua prima crociate, durante e fino il 1254, vennero riunite nella Grande Ordinanza. Per quanto riguarda gli ebrei il re di Francia creò di limitare fortemente il prestito di denaro fatto da loro e arrivò anche, nel 1269, a promulgare un editto con il quale si stabiliva che tutti gli ebrei portassero una roulle rossa per distinguersi dai cristiani del regno. !Tutto questo fervore religioso e la tristezza per il fallimento della sua prima crociata non potevano andare perduti. Il re si prodigò presto alla realizzazione di una nuova crociata. L’ottava crociata si trattò di un’operazione coordinata, nata dalla reazione della cristianità di fronte ai disastri subiti in Terrasanta, e basata sull'alleanza con i Mongoli, frutto delle illusioni degli occidentali. La partecipazione di san Luigi fece sì che la spedizione concepita da Urbano IV e Clemente IV, bandita nel 1266, avesse una portata più ampia. Si pensava a una crociata alla quale avrebbero partecipato anche il re di Armenia, i Bizantini e i Mongoli. Ma il re armeno Abaqa non poté offrire il suo aiuto perché era occupato a combattere Baraq, suo parente, che voleva usurpare il trono. I Bizantini non combatterono ma fornirono aiuti e rifornimenti. I Mongoli, in realtà, erano occupati nella conquista di nuovi territori e al consolidamento del proprio potentato, inoltre, vi erano anche contrast tra i vari khanati locali, e non avevano alcuna intenzione di allearsi con i crociati. Il 25 marzo 1267 Luigo, durante la celebrazione per la festa dell’Annunciazione, annunciò di prendere la croce. Joinville, invece, si rifiutò di prendere la croce adducendo la scusa di voler occuparsi del proprio siniscalcato. Ma c furono eccellenti adesioni, e la predicazione della crociata fu affidata a importanti prelati, come Simone di Brion, futuro papa Martino IV. Anche in Inghilterra vari personaggi presero la croce, tra i quali Edoardo, figlio di Enrico III. Si decise la partenza per il 1269 ma la si rimandò di un anno. Re Luigi contava anche sul sostegno di suo fratello Carlo d’Angiò, che nel 1266 era diventato re di Sicilia e nel 1268 aveva represso nel sangue la presa di potere di Corradino di Svevia. Questa ottava crociata fu particolare per vari aspetti. Per la prima volta il re di Francia non solo prese a temo determinato delle navi ma ne fece costruire altre per tenerle permanentemente a disposizione del regno di Francia. Si affidò di nuovo ai Genovesi, che avevano preposto il prezzo più conveniente e lasciavano carta bianca nella conduzione della navi al re. E per la prima volta il comando della flotta fu affidato a un francese, Fiorenzo di Varenne. E in questa crociata non crociata la Cristianità si trovò senza un pontefice perché Clemente IV era morto nel 1268 e il soglio pettino fu vacante dal 1268 fino al 1271, che vide l’elezione di papa Gregorio X. E tra il 1266 e il 1269, Baibars, che aveva preso precedentemente il potere in Egitto, inflisse duri colpi ai possedimenti franchi. !L’ottava crociata è ricordata come la ‘crociata di Tunisi’. Ci sono varie ipotesi sulla scelta della Tunisia per lo sbarco. Si pensava di sbarcare in Tunisia per instaurare un’alleanza con gli Hafsidi, dinastia tunisina regnante, che intratteneva rapporti pacifici con i regni cristiani. Secondo altri si pensava di poter convertire il sultano tunisino Abu Abdallah Muhammad ma ci notizie che egli volesse conquistare per se il Califfato di Baghdad (caduto sotto i Mongoli), la più alta carica religiosa e politica dell’Islam, e ciò farebbe sfumare ogni sua intenzione di conversione al cristianesimo. C’è anche chi ha pensato al coinvolgimento di Carlo d’Angiò nel far sbarcare i crociati a Tunisi dal momento che tra Tunisi e il regno di Sicilia c’erano rapporti commerciali e i mercanti tunisini erano costretti a pagare una sorta di tassa per il commercio, ed egli voleva rendere più stretto questo rapporto. Ma re Luigi era fortemente convinto di una possibile conversione del sultano Abdallah. Infatti nel 1269 è attestata la presenza di legati tunisini in una celebrazione del battesimo di un notabile ebreo convertitosi e i domenicani al seguito del re ventilavano l’ipotesi di una conversione dell’illustre islamico, essi avevano anche un convento a Tunisi dal 1250 e il sultano possedeva anche un corpo di guardia scelto composto da cavalieri

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cristiani. Il re di Francia aveva lasciato la custodia del regno a due grandi notabili, il sire di Nesle e l’abate di saint-Denis. Si decise di partire il 10 Maggio 1250 da Aigues Mortes e si era concordata la tappa di rifornimento in Sicilia ma il re fece fare scalo in Sardegna e comunicò ai suoi lo sbarco in Tunisia causando perplessità, si pensava che si sarebbe sbarcati in Egitto o a Cipro. Il sultano Abdallah non si fece cogliere impreparato, fece rafforzare la cinta muraria di Tunisi, fece accumulare risreve di grano e reclutò guerrieri in Marocco e chiese l’aiuto di Baibars, che organizzò un corpo di spedizione. Si arrivò in Tunisia il 18 luglio, il re impose una ferrea disciplina all’esercito e vietò ogni attacco perché si doveva aspettare suo fratello Carlo. Nel frattempo era scoppiata una malattia nell’accampamento che crociato che provocò la morte di Giovanni Tristano, che era nato in Oriente nel 1250 al tempo della settima crociata. Un mese dopo, il 25 Agosto 1270 morì Luigi IX. Arrivato l’Angiò, dopo attacchi musulmani e una lunga serie di morti crociati, Carlo assunse la direzione della crociata, riuscì a ottenere di raddoppiare il tributo pagato al re di Sicilia dai Tunisini e l’espulsione di banditi rifugiatisi a Tunisi. Ottenne anche l’indennità di 210.000 once d’oro. A novembre ci si imbarcò per andare via dalla Tunisia. Rimaneva il problema del corpo di san Luigi. Ci fu una vera e propria contesa per accaparrarsi le spoglie mortali del re in odor di santità. Ci fu un accordo: le viscere del sovrano sarebbero andate al re Carlo d’Angiò, che le fece riporre nella cattedrale di Monreale in Sicilia, e le ossa sarebbero andate ai figli di Luigi, che le tumularono a saint-Denis. Come racconta Goffredo di Beaulieu, il corpo di Luigi fu messo a bollire in una miscela di acqua e vino per portare asportare dalle ossa le carni, che andarono via molto facilmente lasciando le ossa candide, sintomo della santità del re. !La famiglia di Luigi IX si può considerare ‘in odor di santità’ perché fu considerato come un santo il pio Luigi VII, la cui moglie Eleonora d’Aquitania diceva di lui che fosse un re-monaco (cosa che si disse anche di Luigi IX), e alla morte di Filippo II Augusto ci fu un vero e proprio dossier di miracoli compiuti in vita e lo si voleva far santo, fatto che non avvenne mai. Nel 1281-82 iniziò il processo di canonizzazione del re Luigi, sotto la spinta di Martino IV, quel Simone de Brion, predicatore dell’ottava crociata. Il pontefice incaricò di redigere per la prima volta un’agiografia di san Luigi per provarne la santità a Guglielmo di Beaulieu, confessore di Luigi. Nella vita del re si parlò a profusione della sua carità, del suo senso di giustizia, del suo amore e venerazione per Dio e della mortificazione del proprio corpo. Infatti il domenicano ci racconta che il re usava flagellarsi in occasione di festività religiose, indossava spesso il cilicio e molto spesso digiunava e pregava assiduamente. Luigi era un laico ma ci fu un altro celebre santo laico, Omobono mercante da Cremona, che condusse una vita pia nonostante la sua professione. Luigi IX fu fatto santo da papa Bonifacio VIII nel 1297 per ottenere le simpatie del re di Francia Filippo il Bello (intento che non gli riuscì) e si celebrò una solenne cerimonia di canonizzazione nell’abbazia di saint-Denis nel 1298. !!!!!Bibliografia:!-per la vita di Luigi IX: Jacques Le Goff, San Luigi, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 1999.!- per le due crociate di san Luigi: Jean Richard, La grande storia delle crociate vol. 2,

Roma, Newton & Compton Editori s.r.l per il Giornale- Biblioteca storica, 1999.!- parte relativa ai santi laici e Luigi IX: André Vauchez, La santità nel Medioevo, Bologna,

Società editrice il Mulino, 2009. !!!!

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