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GIOTTO II. Il coordinamento spaziale degli affre- schi Bardi rappresenta per Giotto l'armo- nioso comporsi in una sintesi originale di tutte le esperienze figurative precedenti. Pure è da chiedersi se Giotto, nel giun- gere a tale altissima conclusione, non si sia valso di qualche suggerimento venu- togli dall'opera di Ambrogio Lorenzetti. Si è cercato bensÌ di negarlo,16) ma se ogni tentativo di opposizione cronologica è fit- tizio, perchè la datazione della Cappella Bardi non si ricava da nessun documento estrinseco, la Madonna di Vico l'Abate deve ritenersi senz'altro la prima opera di Ambrogio; la negazione del rapporto Lorenzetti-Giotto sembra in definitiva fondarsi su una specie di ribellione senti- mentale, per cui, ammettendolo, si deter- minerebbe una diminuizione della gran- dezza, della originalità giottesca. Ciò che è comunque assurdo, perchè Giotto nella Cappella Bardi ancor più, se possibile, si intensifica e si addensa: mai è parso più essenziale, diretto, purificato. La rielabo- razione che ha compiuto di tutte le sue esperienze precedenti, da Assisi, a Pado- va, da Ognissanti alla Cappella Peruzzi, è definitiva: l'eliminazione e la scelta è stata condotta con una chiarezza di auto- critica stupefacente. In questo travaglio creativo, quel che Giotto potè avvertire in Ambrogio, fu l'esempio di una costru- zione formale ottenuta attraverso un netto, rigido, sovrapporsi di piani paralleli: la progressiva eliminazione plastica di Am- brogio dovè eccitare il suo plasticismo a liberal'si d'ogni altro residuo. Il senese si riferiva costantemente ad un piano di po- 16) Un generico influsso senese non fu negato dal Toesca (La Pittura fiorentina del Trecento, Firenze 1929, p. 40) ma vi si è opposto il Cecchi (Giotto, Milano 1937, p. 108.109) il quale afferma con troppa decisione, visto sa, arrivando a costruire per zone di co- lore puro, senza modulazioni plastiche; e proprio nelle poderose figure giottesche aveva operato le sue sottilissime sezioni, guidato dal filo tagliente della linea di Duccio e di Simone. Ma Ambrogio nella costruzione spaziale va dall'esterno al- l'interno: Giotto risaliva dall'interno al- l'esterno. In Giotto non vi è piano di posa: il riferimento costante, ma senza valico, è al piano della parete. Questo è già perfettamente controllabile, come si è detto, all'Arena. Ma la risoluzione piana di Ambrogio avveniva attraverso la linea, ed è impossibile la linea, che non sia sem- plice stadio tecnico, se non riferita ad un piano. Restava tuttavia l'esempio di una costruzione luminosa che quasi aboliva il modellato, faceva a meno del chiaroscuro. E allora che un violento colpo di luce finisce per distendere i volumi giotteschi, e che tutti vengono richiamati alla ribalta di una frontalità assoluta, proiettati sulla superficie egualmente luminosa della pa- rete. In Ambrogio era la linea, estrema- mente sensibile, che nella sfoglia sottile del colore piatto risollevava il volume, e per conduzioni quasi capillari collegava i piani. In Giotto l'espressione plastica ri- mane diretta, ma attraverso una rigorosa identificazione dei piani impostati paral- lelamente alla superficie della parete. Non si può certo parlare di imitazione; piutto- sto di una definitiva precipitazione di ogni elemento, in germe naturalistico, di rilievo e di tutto tondo; ed a questa le decan- tazioni lineari di Ambrogio, permettendo l'asindeto audace di luminose zone di co- lore sovrapposte a piatto, determinarono condizioni sottilmente propizie. l'assoluto silenzio documentario, che" la Cappella fu dipinta circa il 1317-18». Per lo stile di Amb1'?IPO Lorellzetti può poi vedersi il mio saggio in d'Arte 1935, p. 61 e sg. ©Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo -Bollettino d'Arte

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GIOTTO

II.

Il coordinamento spaziale degli affre­schi Bardi rappresenta per Giotto l'armo­nioso comporsi in una sintesi originale di tutte le esperienze figurative precedenti. Pure è da chiedersi se Giotto, nel giun­gere a tale altissima conclusione, non si sia valso di qualche suggerimento venu­togli dall'opera di Ambrogio Lorenzetti. Si è cercato bensÌ di negarlo,16) ma se ogni tentativo di opposizione cronologica è fit­tizio, perchè la datazione della Cappella Bardi non si ricava da nessun documento estrinseco, nè la Madonna di Vico l'Abate deve ritenersi senz'altro la prima opera di Ambrogio; la negazione del rapporto Lorenzetti-Giotto sembra in definitiva fondarsi su una specie di ribellione senti­mentale, per cui, ammettendolo, si deter­minerebbe una diminuizione della gran­dezza, della originalità giottesca. Ciò che è comunque assurdo, perchè Giotto nella Cappella Bardi ancor più, se possibile, si intensifica e si addensa: mai è parso più essenziale, diretto, purificato. La rielabo­razione che ha compiuto di tutte le sue esperienze precedenti, da Assisi, a Pado­va, da Ognissanti alla Cappella Peruzzi, è definitiva: l'eliminazione e la scelta è stata condotta con una chiarezza di auto­critica stupefacente. In questo travaglio creativo, quel che Giotto potè avvertire in Ambrogio, fu l'esempio di una costru­zione formale ottenuta attraverso un netto, rigido, sovrapporsi di piani paralleli: la progressiva eliminazione plastica di Am­brogio dovè eccitare il suo plasticismo a liberal'si d'ogni altro residuo. Il senese si riferiva costantemente ad un piano di po-

16) Un generico influsso senese non fu negato dal Toesca (La Pittura fiorentina del Trecento, Firenze 1929, p. 40) ma vi si è opposto il Cecchi (Giotto, Milano 1937, p. 108.109) il quale afferma con troppa decisione, visto

sa, arrivando a costruire per zone di co­lore puro, senza modulazioni plastiche; e proprio nelle poderose figure giottesche aveva operato le sue sottilissime sezioni, guidato dal filo tagliente della linea di Duccio e di Simone. Ma Ambrogio nella costruzione spaziale va dall'esterno al­l'interno: Giotto risaliva dall'interno al­l'esterno. In Giotto non vi è piano di posa: il riferimento costante, ma senza valico, è al piano della parete. Questo è già perfettamente controllabile, come si è detto, all'Arena. Ma la risoluzione piana di Ambrogio avveniva attraverso la linea, ed è impossibile la linea, che non sia sem­plice stadio tecnico, se non riferita ad un piano. Restava tuttavia l'esempio di una costruzione luminosa che quasi aboliva il modellato, faceva a meno del chiaroscuro. E allora che un violento colpo di luce finisce per distendere i volumi giotteschi, e che tutti vengono richiamati alla ribalta di una frontalità assoluta, proiettati sulla superficie egualmente luminosa della pa­rete. In Ambrogio era la linea, estrema­mente sensibile, che nella sfoglia sottile del colore piatto risollevava il volume, e per conduzioni quasi capillari collegava i piani. In Giotto l'espressione plastica ri­mane diretta, ma attraverso una rigorosa identificazione dei piani impostati paral­lelamente alla superficie della parete. Non si può certo parlare di imitazione; piutto­sto di una definitiva precipitazione di ogni elemento, in germe naturalistico, di rilievo e di tutto tondo; ed a questa le decan­tazioni lineari di Ambrogio, permettendo l'asindeto audace di luminose zone di co­lore sovrapposte a piatto, determinarono condizioni sottilmente propizie.

l'assoluto silenzio documentario, che" la Cappella Bar~i fu dipinta circa il 1317-18». Per lo stile di Amb1'?IPO Lorellzetti può poi vedersi il mio saggio in C,.,~a d'Arte 1935, p. 61 e sg.

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Che poi questo sia il momento finale e irreversihile dell'arte di Giotto potrebbe perfino indursi dal riflesso che ebbe presso i seguaci e i coetanei. Se l'esempio di Ambrogio poteva accendel'si in Giotto, per quei pittori che non avevano il suo genio, era un invito alla decalcomania. Venne allora travisato Ambrogio, ma non fu meno impasticciato Giotto. L'ultima fase giottesca si ripercosse con tanto maggior ritardo, quanto più lenta era la reazione opposta alle forme del Maestro, che ognu­no era portato a ripetere secondo il primo apprendimento. Nel 1338 nè Taddeo Gaddi accenna ad appiattimenti, nè Bernardo Daddi: ma già pochi anni dopo, nel 1346, nella Madonna di Orsanmichele il Daddi segue la corrente e si adegua alla super­ficie.

* '" '" Dopo quanto SI e detto del rapporto

Ambrogio-Giotto, occorre per un momento ritornare su quel che già si accennava in principio circa le relazioni fra Giotto e la scultura del tempo. Il rapporto più ge­neralmente ammesso con Giovanni Pisano, documentato nella stessa cappella dell'Are­na, adorna delle statue del grande sculto­re, non sembra essere stato il più fecondo, non fosse che per la sostanziale divergenza di temperamento dei due artisti, Giotto si allontanò sempre più dalla direzione di Giovanni Pisano: lo spazio omogeneo, in cui si snoda la plastica degli affreschi Bardi, non serba ormai alcun collega­mento con la spazialità di Giovanni. Piut­tosto Giotto, dopo la prima esperienza arnolfiana, potè ricevere suggerimenti per quella sua formulazione plastica, che du­rante tutta la vita doveva sempre più c.ondensare, da alcuni esempi di bassori­hevo schiacciato, esempi favoriti, ma in lllodo alquanto rozzo, dalla scultura roma­nica, Come, in forme di preziosità aulica, da avori bizantini, e in poderose e, per lui,

contemporanee realizzazioni, dalle fOI'mel­le della fonte di Perugia. Ma, in realtà, quello speciale modo schiacciato del bas­sorilievo non fu proprio nè dei romanici, nè di Nicola, nè di Giovanni Pisano: in tutti risultò una surrogazione bizantina. Da formelle di cofani eburnei bizantini discende, infatti, il gusto delle specchia­ture della fonte di Perugia. Nel rilievo bassissimo la formulazione cromatica bi­zantina si giustificava attuando nella pla­stica la stesura di superfici poco o punto graduate di rilievi, che formavano Wl nuovo piano cromatico contro quello di fondo: allora il breve raccordo dei mar­gini stondati assimilava facilmente il va­lorecromatico delle superfici piane, come nei mosaici il chiaroscuro restava un raf­forzamento del colore. Per questa sua cointeressenza alla visione cromatica bi­zantina, il bassorilievo schiacciato non ebbe forse troppa fortuna. Ma se per i bizantini il cammino era stato dalla scul­tura alla pittura, Giotto, qualunque fosse lo spunto presente al suo spirito, in quel genere di bassorilievo, che finiva per es­sere una trasposizione della pittura, indi­viduò e separò nettamente il principio plastico, trascurando i sottili rapporti cromatici da colore a sopraccolore che avevano imbastiti i bizantini. Come si è già osservato, il colore potè invece ser­vire a Giotto per rapprendere maggior­mente le sue masse contratte, e quindi perdè senso vero e proprio di colore: in lui perfino i cangianti hanno sensò di trasposizione chiaroscurale. Si ricordi del resto che, per quanto a sproposito, ci è stato anche chi ha parlato di stonature per il colore dell'Arena. Solo nella Cap­pella Bardi, con l'accentuazione della gran­de falda luminosa, Giotto ottiene anche al colore quella omogeneità di stesura e di timbro, che non è già monocroInia, ma armonica e simmetrica rispondenza alla raggiunta omogeneità spaziale, alla con­tinuità plastica.

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Resta tuttavia il fatto che la traspo­sizione pittorica dei modi plastici fu cosÌ coerente in Giotto, che quando nel ba­samento dei tabel'nacoli dell'Ingiustizia e della Giustizia figurò dei bassorilievi in monocromato, non ebbe bisogno, per con­traffare il bassorilievo, di usare procedi­mento stilistico diverso da quello delle storie superiori; e non gli restò che da abolire del tutto i colori locali.

La scultura finÌ allora per dovere a Giotto più di quanto Giotto non le dovesse: a parte il fatto, se a lui possa riferirsi l'ese­cuzione effettiva di alcuni degli esagoni del Campanile, è certo che questi riman­gono la traduzione plastica, a dire il vero un po' immiserita, dei modi pittorici di Giotto. Pertanto il . bassorilievo lasciò il luminismo di Giovanni e sia col primo Tino di Camaino,. sia con Andrea Pisano, con l'Orcagna, con l'Arnoldi, serbò chiare tracce del plasticismo giottesco.

* * * L'identità del soggetto degli affreschi

Bardi con quelli della Chiesa superiore di Assisi ha stimolato quasi sempre un raf­fronto di convenienza; raffronto che finiva per neutralizzarsi subito, perchè l'identità del contenuto narrativo è irrilevante di fronte alla disparità figurativa. Se il raf­fronto può servire, ai fini di una maggio­re intelligenza dello sviluppo stilistico di Giotto, è per l'affresco con le Stigmate, in cui non solo l'assunto era identico, ma anche la presentazione figurativa è elaborata su uno schema ritmico estre­mamente siInile ed obbligato. Nell'affre­sco di Assisi la figura del Santo è piazzata come un hlocco, come una scultura intorno a cui si potrebbe girare. Naturalmente non va inteso, questo, come ricerca illu­sionistica di tutto tondo, ma per altro l'intento scultoreo e lo sforzo di dare cor­poreità all'aggetto e un'oggettività terre­na,~ stabile, alla posa ispirata, ammortizza

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l'immediata evidenza plastica, che, impo­stata nel contorno chiuso, serrato, del fianco sinistro, si perde poi fin dal primo momento nella discesa troppo verticale delle pieghe sul ginocchio a terra: venta­glio di pieghe che frantuma l'unità pla­stica della massa, senza riuscu'e, pur con i forti solchi d'ombra, a disporsi in pro­fondità e a creare effettive emergenze. Se la difficoltà di mostrare tutte e due le mani e i piedi della figura inginocchiata, senza frantumarne la massa, è perfetta­mente risolta, la testa inclinata sul fianco devia in modo brusco i piani del diedro ideale, in cui giacciono la parte sinistra e la parte destra della figura: la presenta­zione di profilo della testa, rispetto al corpo di tre quarti, che doveva aiutare la rotazione del corpo e stimolare l'aggetto scultoreo, arresta improvvisamente l'ef­fetto voluto, poichè in definitiva il profilo si inscrive, schiacciandosi, entro l'aureola: la concatenazione plastica risulta contrad­dittoria.

Nell'affresco Bardi Giotto riprende il problema al punto in cui l'aveva !lIsciato ad Assisi: nel frattempo il suo interesse si è definitivamente polarizzato nella resa plastica unitaria, e, senza perciò la pre­occupazione di raggiungere evidenza scul­torea, riesce a sviluppare completamente lo schema impostato ad Assisi. Alla prima impressione la figura, che appare girata di un quarto di cerchio, non si distacca dal fondo con l'opposizione netta di chiaro a scuro come nella Chiesa superiore: ma se il fianco destro di S. Francesco è opposto al punto più luminoso e sporgente della roccia, è proprio perchè la parte in : luce emerge, affiora rispetto al piano della pare­te, e colma, quindi, con l'accentuazione del contrasto cromatico piuttosto che con l'ag­getto. TI ginocchio che non posa a terra, sebbene con un effetto di schiacciato ap­paia rientrante (come nella Madonna di . Ognissanti) non si appiattisce, perchè la zona d'ombra sotto l'articolazione man-

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Fig. 19. GIOITO: Stigmate di S. Francesco. - Assisi, S. Francesco. F ig. 20. GIOITO: Stigmate di S. Francesco. - Firenze, Santa Croce.

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Fi<;. 21. GIOTTO: Stigmate di S. Francesco (particolare dcllu figura 20). Fig. 22. Seguace di GIOTTO: Stigmate di S. Fruocesco. - Parigi, Louvre.

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tiene viva l'incidenza dell'asse obliqua della gamba sul piano della parete. Con una rigorosa gradualità diminuisce il ri­lievo dal ginocchio alla gamba portata :indietro, attraverso tre gruppi di piegoni della tonaca, fino al piede sinistro, che stampa l'orma parallela al piano della pa­rete. TI raccordo col sasso spicco è cercato nell'inclinazione del busto e il collega­mento non è un puro riscontro di profili, ma si risolve in una modulazione plastica: l'inclinazione della figura è ottenuta, del resto, senza oscillazi.oni statiche, con un rigore geometrico tale che, lontana da sug­gerire instabili duttilità gotiche, verrebbe quasi fatto di giustificarla fisicamente, in­dicando il baricentro contenuto entro la base. Quest'imposto solido permette d'al­tronde quell'ampio esorbitare delle brac­cia, d'una grandiosità passionale incom­parabile, che spalanca, distende tutta la figura sul piano: la mano destra si applica aperta sul muro come contro un vetro.

L'audacia di questo imposto è nasco­sta dalla sua stessa perfetta realizzazione. Lo schema di Assisi - la figura imperniata su un'asse e distribuita sui due piani im­maginari di un diedro, per evitare l'irre­soluzione plastica del profilo - nell'affre­sco Bardi è sapientemente complicato. Giotto ottiene non già una rigida fronta­lità geometrica, ma una dinamica fronta­lità plastica, con una rotazione di piani a ventaglio sull'asse, che cade a piombo dalla spalla destra del Santo: quattro se ne distinguono chiaramente, che, dal pri­mo - normale alla parete - via via allar­gano l'apertura angolare, finchè con l'ul­timo, che contiene il volto, le braccia, il piede sinistro del Santo, la figura è ricon-

17) Le opinioni sono state sempre molto divise a pro­posito delle Stigmate del Louvre, che, ammesse nella cerchia strettamente giottesca dal Rintelen, furono ne­gate a Giotto anche dal Berenson: ma nessuna nuova luce ha portato, comunque, la pubblicazione fatta dal Mather Jr. (in Art Stlldies, 1931, voI. II, pp. 49 e sg.) delle Stigmate, da lui attribuite a Giotto e conservate nel Fogg Art Museum di Cambridge. L'attribuzione a Giotto è per queste ancora più insostenibile che per le Stigmate del I.ou-

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dotta di fronte. I piani si aprono un po' come gradini di una scala a chiocciola: determinano nella figura un senso di inin­terrotto svolgimento, una dinamica inter­na che non ha nulla a che fare con la trascrizione meccanica di un movimento, così come la plastica, che ne risulta, non s'apparenta ad alcun effetto d'aggetto fisico o statuario: tale è la frontalità pla­stica, punto di arrivo della consecutio for­male giottesca.

Ma se dalle Stigmate di Assisi alle Stigmate Bardi si riconosce l'elaborazione di uno stesso assunto, attraverso fasi che non sarebbero reversibili, nel dipinto delle Stigmate del Louvre, di cui si è già par­lato per le scene della Vita del Santo, si misconosce l'essenziale problema plastico che sta alla base delle due prime raffigu­raZIOnI.

Il pittore, che firmò quella pala col nome di Giotto, e che doveva e3sere della forza di un Francesco da Rimini, non comprese la bellezza della raccolta massa di Assisi, dove non c'era schematizzazione ma concentrazione. Il contorno risulta si­nuoso, pieno di angoli morti, che rita­gliano la figura riducendola ad una sago­ma: l'imposto diviene traballante, e per quanto le pieghe e le ombre sovraccari­cate, approfondite, pleonastiche, cerchino di dare spessore e consistenza di massa alla figura, riescono solo ad offrirne una stentata giustificazione descrittiva. Il pro­blema dello snodamento, dell'articolazione dei piani dalla superficie in profondità non è stato neppure avvertito. 17)

Ma certamente nelle Stigmate Bardi si ha quasi il testamento pittorico di Giotto: e non è senza interesse che l'assunto pIa-

vre: gli oziosi ricami di erbe sulla roccia dicono il fraziona­mento giottesco, le pieghe, falcate come scimitane, le attinenze gotiche, il Cristo patetico ed e.~pressivo, con le gambe sottili e divise, quasi come in un Cristo riminese, soffuso poi di un minuzioso chiaroscuro, si stacca da qualsiasi precedente giottesco. Nè poteva avvalorare la nuova ascrizione il riferimento alle Stigmate, non certo di Giotto, della Aula Capitolare di S. Antonio a Padova. Si noti infine che le osservazioni fatte dal M. sull'archi-

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stico, che rivelano nella sua pm precisa formulazione, preluda al problema plasti­co fondamentale di Michelangelo, la rota­zione dei piani. In Michelangelo, per altro, con l'affinamento della elaborazione linea­re quattrocentesca, si risolve in uno sno­damento lineare, serpentinato, quale non si determina mai in Giotto. E anzi ora il momento di vedere il significato del greve, marcato segno di contorno che rac­chiude le figure giottesche, tanto ad As­sisi che a Padova, ma soprattutto negli affreschi Bardi. Tale segno non è da con­fondersi con un momento preparatorio, di prima delineazione, dell'affresco: non rap­presenta un iniziale stadio tecnico, come la incisione a tratto sulla calce viva. D'al­tronde, se questo contorno assumesse spe­cifico valore lineare, dOVI'ebbe necessaria­mente riferirsi al piano, c poichè il piano ideale, a cui sono riferite le figure di Giotto, non è il piano di fondo ma il piano della parete, determinerebbe una proiezione in superficie verso chi guarda, ciò che di­struggerebbe ogni continuità plastica, of­frendo per cosÌ dire il rovescio del rilievo, come fosse uno stampo, o altrimenti for­mulando sul piano risoluzioni chiuse e locali di superfici determinate. Ma nè l'uno nè l'altro effetto si produce, poichè que­sti contorni grevi, listati, d'uno spessore costante, seguono un tracciato quasi sche­matico e geometrico, che non ha senso di arabesco, non assume mai valore me­lodico autonomo: sono contorno, non linea. Per comprenderne il valore occorre pen­sare comc in molti casi, negli smalti, nelle vetrate, nelle ceramiche, nelle oreficerie, nei tappeti, e dove in genere il fondamen­tale modo figurativo è cromatico, le par­celle dei colori vengono staccate, delimi­tate da contorni monocromi, che eleggono intorno al nucleo d'ogni colore una specie

tettura delle cappellette nei dipinti delle Stigmate attri­buite a Giotto, non hanno alcun valore riguardo alle induzioni cronologiche, che si vorrebbero ricavare dal maggiore o minore formalismo gotico degli elementi ar­l'hitcttonil'i, Nelle Stigmate Bardi, la rosa , la bifora,

di anello neutro isolante: il colore si inca­stona come una pietra preziosa. Ma ap­punto, anche in questi casi, il contorno isolante, più che aver potere cromatico in sè, determina una pausa: interrompe le vibrazioni. Perciò se ne ricava un va­lore di contorno che si sovrappone, ma non si confonde, al valore della linea, in­tesa come arabesco o come soluzione pro­spettica della profondità sul piano. Ora in Giotto, in cui il modo figurativo è plastico, non cromatico, un tale serrato periplo, che salda il circuito di ogni figura, non ha certo senso, neanche indiretto, di colore, ma conserva valore di pausa: prolunga la durata della figura, come con un maggiore distacco di tempo si accresce il valore di una nota. Questo valore temporale si ri­collega al valore di tempo, insito nella continuità plastica giottesca. La continui­tà plastica, infatti, non si può riferire semplicemente allo spazio; in quanto con­tinuità implica svolgimento e lo svolgi­mento è nel tempo. Ciò risultava già im­plicito in quel che si è detto della fron­talità plastica, a proposito nelle Stigmate Bardi.

Ogni composizione si svolge cosÌ con una sua ritmica speciale, che non può pensarsi isocrona, come la battuta di un metronomo, ma piuttosto articolata, esten­sibile come il piede di un verso. Gli spazi assumono allora una quantità: e come una lung può in certi casi sostituirsi a due brevi, senza che si deformi la stesura rit­mica del verso, cosÌ possono darsi · delle contrazioni spaziali repentine, che servo­no anzi a cementare maggiormente l'unità plastica della composizione. A questo mo­do si intendono in Giotto certi scorci vio­lenti, certo sfuggire dei contorni delle S'ue figure, che repentinamente scantonano contro il piano con una cesura netta:

l'arco lobato sulla porta, sono semplicemente term~ni correnti nell' architettura del tempo; quel che conta , m­vece è la presentazione liscia, impietrita, della faCCiata e dei contrafforti, rivelati in uno scarto di luce e d'om­bra, a segnare neltamente la successione dci piani.

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cesura, che ha valore misurato di pausa, non di frattura.

Una volta desunto il processo tempo­rale della continuità plastica giottesca, si comprenderà come possa venire integrato dal valore di tempo riconosciuto nel con­torno lineare; allo stesso modo l'unità di una lirica non viene infranta dalle pause, sospensioni ritmiche, fra verso e verso. La continuità plastica ne risulta anzi raffor­zata e più fortemente ritmata, perchè le figure isolate nello spazio si ricollegano nel tempo, con una stessa cadenza, che misura l'apparente uniformità e identità del tratto di contorno. Donde si potrebbe giungere alla particolare gravità dei tempi giotteschi.

Ma con ciò si è obbligati ad accusare l'assoluta inanità d'ogni tentativo di ri­condurre il contorno giottesco ad un va­lore, meramente spaziale, di linea; e nep­pure si può accogliere l'interpretazione di Lionello Venturi, che nel chiaroscuro di Giotto vedeva un'estensione della linea: 18) usati, con funzioni diverse, l'uno spaziale, l'altra temporale, non possono procedere l'uno dall'altro. E d'alt;ronde era una sug­gestione di tecnica pittorica più che un'in­terpretazione critica.

* * * Dagli affreschi della Cappella Bardi

apparirà ora inscindibile la concezione del Campanile di Santa Maria del Fiore: e, come per le notizie storiche questo rap­presenta l'ultima opera, ed incompiuta, di Giotto, la serie documentaria torna a com­baciare naturalmente con i risultati del­l'analisi stilitica.

Se, allo stato attuale, non è possibile arguire con precisione quanto Giotto potè ispirarsi alla facciata arnolfiana di Santa

18) Cfr. in L'Arte, 1919, p. 52, dove l'A. asserisce C!lC in Giotto v'è « piano plastico» e « non plastica pura»; CiÒ chc non risulta hen chiaro per l'antinomia fra i due termini piano e plastico.

Maria del Fiore, è certo che un principio di intonazione ambientale fu seguito, tan­to per la distribuzione delle zone croma­tiche che per le riquadrature degli specchi marmorei. 19)

N el Campanile la pianta quadrata si articola agli angoli di contrafforti scanto­nati. Il motivo può intendersi d'agnazione gotica, e fu quello che, probabilmente, suggerÌ in seguito ad Antonio di Vincenzo le polistili testate del S. Petronio: tutta­via, e non bisogna lasciarsi ingannare dal tracciato a linee rette, nel Campanile quei ringrossamenti agli spigoli hanno chial'o significato plastico, e la formella­tura, che, nel paramento, dalle pareti pro­gredisce sulle facce dei contrafforti, tra­sforma la successione degli specchi in un articolato sllodamento.

Gli aggetti delle cornici sono depressi sul piano: ma, a non lasciare loro assu­mere aspetto puramente lineare, interviene la policromia che rassoda le lievi, sfumate

>ombre delle modanature, le rende omo­genee, le stende, trasponendole in super­ficie; le fasce cromatiche fanno nimbo, alone intorno alle specchiature. Se allora stiamo ai primi intagli - e parlando di quel che spetta a Giotto occorre fermarsi lì _- da tutte quelle riquadrature non po­tremo mai sentire uno slancio verticale, l'infinito elastico protendersi di linee di forza, per usare la concisa terminologia di Argan. Non si rIesce perciò a desumere nulla di gotico in questo basamento in cui lo sguardo, piuttosto che invogliato a sa­lire, viene insistentemente riportato come su un orizzonte fisso e immutabile dai preziosi esagoni, ove la pittura di Giotto lascia la calce viva per la pietra. Assai più del marcapiano, del basso ceppo da pié, gli esagoni concludono dall'interno, nel loro serrato perimetro, le strette spec-

19) Sulla facciata arnolfiana di Santa Maria del Fiore si confronti il recentissimo studio di PETER METz, Dieflo­rentiner Domfassade des Arno/fa di Cambio, in Jahrbuch der PreuszischenKunstsammlungen, 1938, III Heft, pp. 121-160.

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chiature: le riconducono al centro e ne troncano lo slancio. La critica ingiusta degli antichi, di cui Giotto sarebbe morto di crepacuore, non avere il Campanile un basamento, uno zoccolo adeguato, si fon­dava intuitivamente su un'arbitraria ana­logia istituita fra quello e le costruzioni gotiche -del tempo: poichè, solo se il Campanile fosse stato pensato come libero slanciarsi di- un fascio di verticali nello spazio infinito, avrebbe potuto compren­dersi l'opportunità di un basamento, che, col contrasto della sua massa inerte, ac­centuasse lo slancio e l'assottigliamento dell'altissima massa. Ma invece, perfino alcuni particolari di iconografia architet­tonica gotica sono usati, nel Campanile, in senso figurato: lo dice quel modo di in­terrompere nettamente l'ascesa delle ver­ticali, sia con le ripetute riquadrature che con gli esagoni scultorei. E questi, o sug­geriti dai rombi del romanico pisano, o dalle formelle smaltate dei reliquiari, trat- ­tengono, da tale probabile e duplice ori­gine, un senso di geometrièa risoluzione del circolo, e, per la concentrata realizza­zione scultorea, dichiarano in uno spe­cifico punto di applicazione la continuità plastica delle pareti, che le cornici e le fasce cromatiche ritmano di pause rego­lari, con funzione analoga al contorno del­le figure degli affreschi di Padova e di Firenze.

Dove i contrafforti si saldano con i lati del Campanile, la formella è più pic­cola delle altre: ma ciò non deriva da un inerte inserirsi del parallelepipedo cen­trale nei quattro poliedri angolari. Anche quella faccia del contrafforte deve figu­rare delle stesse proporzioni delle altre: solo che è data in iscorcio. Si deve rav­visare qui un esatto parallelo degli effetti di schiacciato, notati già nei dipinti: un mezzo diretto a non interrompere la con­tinuità plastica e ad ottenere, perciò, il massimo ravvicinamento del piano di fon­do al piano limite, che qui non è costi-

tuito dalla superficie della parete, ma dal piano ideale tangente al punto di mas­simo aggetto dei contrafforti.

Ove ora si pensi all'impalcatura ar­chitettonica delle Esequ.ie di S. Francesco della cappella Bardi, non potrà sfuggire l'analogia, che si persegue fin nell'ordi­nanza regolare e geometrica delle spec­chiature. CosÌ le quinte laterali, che nel­l'Esequ.ie contengono le due porte, corri­spondono alle facce in scorcio dei COll­

trafforti. N ella concczione figurativa dei lati del

Campanile Giotto riesce dunque a co­struire come dipinge: insensibile alla ten­tazione degli sp.azi illimitati, che gli veni­va dall'architettura del tempo, trasferisce a cielo scoperto, all'aria libera, la stessa bloccata contratta spazialità, in cui si concretavano per la pittura lc sue su­blimi e umane fantasie.

Questa conclusa unità di concezione della Cappella Bardi e del Campanile offre allora un controllo limpidissimo del­la interdipendenza che corre, dal punto di vista dello sviluppo e del trapasso in­teriore, fra le opere di Giotto; e che que­ste siano pervenute a noi, separate talora da ampi intervalli, non può dare adito a supporre sviluppi divergenti nel percorso, che chiaramente se ne desume. Le opere superstiti appartengono a tempi diversi e di certo non son pervenute sino a noi secondo una scelta intenzionale o pro­grammatica: perciò le lacune appaiono dimostrative, al pari delle opere rimaste, di uno svolgimento ininterrotto nella di­rezione costante che queste, saggiate pro­prio ad intervalli saltuari, vengono a do­cumentare. Nè tale svolgimento è stato ricavato da una semeiotica superficiale e meccanica, che postuli l'esatta permanen­za di un formalismo esteriore. Anzi, ciò escluso, non bisogna dimenticare che di Giotto avanza a noi come i frammenti di una iscrizione, di cui si ricupera il senso e non il testo completo: per integrarlo

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TAv. XLVIII.

Fig. 24. Seguace di GIOTTO; DormiLio Virginis. - Berlino, Musco lèeÙerigo.

l"ig. 23. GIOTTO; Parte inferiore dci Campanile di SanI a Maria del Fiore. - Firenze.

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F'ig. 25. Seguace di GIOTTO: S. Muria Maddalena

c T"baldo Pontano. - Assisi, Chiesa inferiore. Fig. 26. S('guaet> di GIOTTO: Resurrezione di L~zaro. - As.i. i, Chiesa inferiore.

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Fig. 27. Seb'"Uace di GIOITO: Adorazione dei Magi. Fig. 28. Seguace di GIOTTO: Deposizione nel sepolcro.

Ne\\' York, l\letropolitan Museum. Firenze, Collezione Berensoll. t-3 ;,. <

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Fig. 27. Seguace di GIOTTO: Adornzionc dei Magi.

Ne\\' York, Metropnlilun Museum.

Fig. 28. Seguace di GIOTTO: Depo.izione nel sepolcro.

Firenze, Collezione Derenson. t-3 ~ -<

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Fig. 29. Seguace di GIOTTO: S. Stefano. Fig. 30. MAso: Incorolla,ione della Vergine.

Firenze, Museo Horne. Londra, Collez. Rothermerr. t-3 > < t-t -

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LE ARTI

occon-e che i successivi frammenti con­vengano non con uno solo, ma con tutti quelli recuperati. Per quanto possa pa­rere limitata al caso singolo, un'attribu­zione non si localizza al solo dipinto at­tribuito, costituisce un restauro critico e integrativo di tutta la personalità del­l'artista. Precisamente in Giotto la perso­nalità si afferma nella continuità, nella tenacia, nella irrevocabilità dell'interiore cammino, e come il suo tono rimane sempre altissimo e sorretto, epico per la sovrana contemplazione a cui s' elev'a, filtrato d'ogni residuo passionale; il pro­cesso di coordinazione interna appare di selezione e di concentramento, non tanto su dispersivi e occasionali dati sensorii, quanto ed essenzialmente sui resultati con­creti, che dal suo stesso fare ogni volta deriva. E da questa continua rielabora­zione, che il motivo interiore si l'igenera: Giotto non si ripete mai, e tuttavia per­mane.

Chè, se tale perseveranza non sbocca nell'enfasi, se il disJacco non diviene in­differenza, se la decantazione non si dis­secca in astrazione, ciò si deve al fatto che quel miracoloso equilibrio non sorge dall'esaudito acquetamento in una con­quista fatta una volta per sempre, di cui l'artista può viver di rendita, ma appare la composizione sempre riproposta di l1ll

sistema di forze interiori: immanente cau­salità, che nello stesso tempo è Causa ed effetto, antecedente e susseguente. La il-

20) Nelle analisi che seguono non si è tenuto conto deliberatamente di opere che pure sono state attribuite e si attribuiscono a Giotto, ma che troppo chiaramente non possono rientrare nell'opera di Giotto, cosÌ come si è andata configurando. Alcune di queste opere, come il Polittico Stefaneschi e le vele di Assisi costituiscono problemi a sè stanti nella storia della pittura del Tre· "ento; altre, come l'Assurnione Tosinghi in Santa Croce, il Polittico Baroncelli (firmato ma restittùto ormai a Taddeo Gaddi), il Polittico di Bologna, anch'esso firma­to, per quanto variamente documentate o autenticate non possono rientrare, se non come opere di contorno, nell'esame del decorso giottesco. Altre infine, come il Polittico del Museo di Santa Croce a Firenze, assegnato a Giotto stesso dal Beenken (in Bttrlington Magazine, 1934, LXV, pp. 99 e sg.) o il Santo francescano dclla Collezione Beren80n, presentano con Giotto generica con-

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lusOl'ia immobilità si sostiene d'un con­tinuo apporto.

Perciò, nell'esamc che segue, riguardo ad operc attribuite alternativamente a Giotto, si mira soltanto alla convenienza totale, nè si vuolc disconoscere l'acutez­za del riferimento singolo, la giustezza del giudizio qualitativo, che nel nome di Giotto era, se non altro, altissimo rico­noscimento di valore. 20)

* * * La Dormitio Virginis,21) ora a Berlino,

se prima stava, come non è sicuro, ad Ognissanti, ove già il Ghiberti sotto il nome di Giotto ricordò una pittura del medesimo soggetto, si sal"ebbe trovata dunque sotto lo stesso tetto della grande Madonna degli Uffizi: ma, con questa, non rivela altra connessione, perchè co­munque dovrebbe datarsi in un periodo assai più tardo. Al giudizio intrinseco, più che la coincidenza del sito, importa­no invece gli screanzati restauri, che con­feriscono al dipinto una stuccosa liscia­tura ceramica.

La composizione è assimilata sulla Ri­nuncia agli averi della Cappella Bardi: gli spioventi del timpano raccolgono la folla digradante come nella Rinuncia fa­ceva la cornice del marcapiano. Ma nella Dormitio ciò non serve a determinare pia­sticamente una conversione di fronte: anzi il seguito degli Angeli, dietro al Cristo,

sonanza linguistica c si dispongono in modo periferico rispetto al nucleo rappresentato dalle opere del Maestro.

21) L'identificazione della tavola di Berlino con la Dormitio citata dal Ghiberti come di Giotto fu fatta, sulle tracce del Waagen e del Cavalcaselle, che riferirono il dipinto a Giotto, dal Perkins (in Rassegna d'ArIe, 1914, pp. 193 e sg.), che non vide o non volle vedere i danni del dipinto, già però notati dal Cavalcaselle. All'iden­tificazione si oppose il Berenson, a cui cercò contro­battere il Pcrkins (in Rassegna d'ArIe, 1914, pp. 243 e sg.), mentre un nuovo argomento contrario tentava portare il Gentili (in Rassegna d'Arte, 1915, pp. 187 e sg.), pub­blicando un disegno del Lasinio, derivato da quella che avrebbe dovuto essere la tavola vista in Ognissanti dal Ghiberti. Il Rintelen poi negò nettamente l'attribuzione n Giotto accennando addirittura alla trivialilà del di­pinto (op . ciI., ed. 1923, p. 224).

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s'innalza fino al colmo della tavola, tra­ducendo verticalmente i valori di profon­dità, e le teste degli Angeli, salite troppo in alto e troppo fitte, distruggono, con l'intersecarsi continuo delle aureole, ogni netta successione di piani, determinando una fiacca stesura in superficie, ehe è molto diversa dalla frontalità plastica di Giotto. Nella Madonna di Ognissanti el'a risolto con ben altro senso ritmico, con una sillabazione spaziale troppo più scandita e precisa, il roteare simmetrico delle aureole. Perfino in una delle parti meno autografe dell'Arena, nel Giudizio, le squadre aeree degli Angeli, con quel­l'imposto in tralice, riescono a togliere alle file di aureole il senso di meccanica stampigliatura sul piano.

L'effetto ottenuto nella Donnitio si ap­parenta invece, pur con meno secca car­penteria, al Polittico Baroncelli: un'opera a cui ormai, come al Polittico «firmato» di Bologna, si è l'iconosciuto nel nome il passaporto falso, Inoltre è significativo che le condensazioni volumetriche di Giot­to, nella Dormitio, siano fraintese e perda­no il puro significato plastico per un com­promesso descrittivo, ridiscendendo dal cielo in terra sotto forma di robuste figure tracagnotte. Nei volti si accentua la squa­dratura delle mascelle: se ne sottolinea ad arte il carattere giottesco, quando poi, come nell'angelo dietro a quello famoso che soffia nel turribolo, non si tradisce una strana e giovanile parentela carnale con Ambrogio Lorenzetti. Ciò che non deve confondersi con la risolutiva spinta, che la spazialità di Ambrogio potè dare al plasticismo unitario di Giotto. Tutta la composizione, che ha particolari stu­pendi, è assiepata e manca di ritmo de­ciso, pur essendo impostata su un canone

22) L'attribuzione a Giotto degli affreschi della Cap­pella della Maddalena è rimasta sempre contrastata: la datazione più corrente è stata quella rifCl-ita agli anni 1314-1329, durante i quali Tebaldo Pontano da Todi fu Vescovo di Assisi. A seguaci di Giotto pensarono fra gli altri il Cavalcaselle (A History, voI. II, LOlldon, 1903,

L E A Il T I ------

tradizionale, a cui la distribuzione delle cerimonie funebri religiose offriva ormai una intelaiatura infallibile: in tanto fitto riescono ad aprirsi dei vuoti, manca l'emer­genza alla superficie del dipinto, perchè le figure restano prese contro il fondo: ri­mane sul davanti una ribalta inutilizzata, una pedana d'invito, che veramente con­ferma una spazialità non cosÌ coerente, unitaria, contratta come quella di Giotto. E vi corrisponde lilla minor tensione di sentimento, un che di profano, uno sbri­ciolarsi in episodi di gruppo, un'indiffe­renza da cerimoniale, fino al chiaccheric­cio angelico: tutto ciò incrina l'unità di un'opera, apparentemente non interna­mente, tanto compatta.

Si ha l'impressione d'una «ripresa» quanto mai abile e sensibile dello stile di Giotto, ma «ripresa» dall'esterno, con altri interessi, con dispersività episodica: cosicchè se in Giotto era il nucleo inte­riore, il sentimento, che condizionava la forma, nella Dormitio dovrebbe proce­derne. Ora questo è difficilmente concilia­bile con Giotto stesso: molto più che la qualità pittorica dell'opera è alta, e non si può ricorrere alla scappatoia della bot­tega o della scuola, quando l'esecuzione è sorvegliatissima e in tutto degna di un maestro.

'" ... ...

In alcuni degli affreschi della Cappella della Maddalena, nella Chiesa inferiore di Assisi, a diverse riprese si è voluto vedere Giotto,22) La datazione proposta intorno al 1306 semplifica il prohlema, valoriz­zando in modo speditivo le assonanze padovane, ma per i tre affreschi fon­damentali, la Resurrezione di Lazzaro, il

pp. 14,7 e 163) c il Rintelen (Giotto, Basel, 1923, pp. 210 e sg.): l'attribuzione a Giotto stesso per alcune delle scene, soprattutto per la Resurrezione di Lazaro e la Cena in casa del Fariseo, fu invece ripresa e mantenuta anche da A_ Venturi e dal Berenson (che sostiene la da­tazione circa al 1306).

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LE ARTI

Convito del Fariseo, la Maddalena col Pontano, una simile data invita a chiu­dere gli occhi su elementi discordi, incon­ciliabili con l'arte di Giotto in quel tempo. Nel Convito ritmi lincari gotici tentano continuamente i lembi dei panni: il tornito aderire dei mantelli e delle vesti alle spal­le evoca effetti di una statuaria posteriore a Giovanni Pisano, fra Andrea e Nino; la quadrellatura del fondo ricorda l'Ap­provazione della Regola della Cappella Bardi, con le teste prese d'infilata nella sbarra orizzontale, ma le figure si dispon­gono con elementare simmetria, con stan­che corrispondenze. Il tentativo di riso­luzione lineare è sempre latente e dissi­dente con una plastica ancora decisa; ne consegue una incerta realizzazione spa­ziale, che si controlla anche in quelle au­reole, in scorcio come a Padova, ma non senza timidezza, sicchè sembrano piutto­sto ovoidali e non riescono a fendere obli­quamente il piano. L'imbarazzata spazia­lità non si decide per l'imposto frontale, tenta espedienti lineari per collegare le masse, e, sebbene esteriormente si appros­simi al momento della Cappella Bardi, non ne concreta poi la severa concatena­zione plastica. N ella Resurrezione di La­zaro, Marta e Maria, quasi una stessa figura duplicata per spostamento d'imma­gine, non riescono a individuare due pia­ni diversi, le linee del dorso divergono, ma non si susseguono: si aprono come le stecche di un ventaglio. Dove, nella figura di S. Tommaso (dietro il Cristo) o nel pannello con la Maddalena e il Pon­tano, l'artista riesce a distaccare una figu­ra singola, la risoluzione spaziale, circo­scritta a quella figura, giunge a fondere armonicamente il dato plastico con un

23) Roberto Longhi (in Dedalo, 1930, p. 285) l'i col­legò aUa Ma([onna già Goldmann ora Kress, e al S. Ste­fano della Coli. Horne (Firenze) già attribuito a Giotto dal Perkins (in Rasseglla d'Arte, 1918, p. 39), i due Sani i Giovanni Ev. e Lorenzo appartenenti (e del tutto igno­rnti dalla critica) al Museo J acquernart-André di Chlìlis.

21) Queste scene rinnit" dal Sirén (Giotto, Cambridge,

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sottile commento lineare: ma nella Mad­dalena è chiaro il senso di proiezione sul fondo, che la linearità delle cornici in­quadra in un campo rigidamente defini­to: a questo si sovrappone la figura della Santa col Pontano, come se passasse su uno schermo.

* * *

Vi è poi il Polittico, ricostruito genial­mente da Roberto Longhi,23) e le scene evangeliche divise fra Monaco, N ew Y ork, Boston e la ColI. Berenson. 24

)

Si tratta di opere nobili per le quali il nome di Giotto non costituisce davvero lma valutazione esagerata. Per nessun'al­tra pittura, che si sia voluto attribuire all'ultimo periodo di Giotto, possono pre­tendersi confronti più calzanti di quello del S. Stefano con le figure che, nelle Esequie di S. Francesco della Cappella Bardi, stanno dietro al gruppo dei can­tori. Nè sono gli ornati, che potrebbero senz'altro negarsi a Giotto. E piuttosto il colore, che non trova riscontro nella Cappella Bardi, a cui pure non può non avvicinarsi il Polittico ricostituito. Gli or­nati del S. Stefano non sono affatto pleo­nastici, ma ricuperano un senso cosÌ pre­ciso di preziosa oreficeria, di complicato niello persiano, che non possono conside­rarsi come un momento grafico trascura­bile: Sono colore. Colore che può ritenersi tipicamente fiorentino, realizzato cioè non come nei riminesi, attraverso una pro­gressiva decantazione, o come nei senesi per mediati accOl'di, ma con una netta opposizione di zone cromatiche, come sug­geriva il retaggio romanico dell'intarsio in marmo. Appunto per questo risulta

1917, p. 79), e riavvicinate al Polittico, di cui alla nota precedente, dal Longhi, sono le seguenti: Adorazione dei Magi (New York, Metropolitan Museum); Ultima Cena, Crocifissione, Discesa al Limbo (Monaco, Alte Pinacothek); Deposizione nel sepolcro (Firenze, Coli. Be­l'enson); Presentazione al Tempio (Boston, Gardner Mllscnrn).

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contrario all'indirizzo giottesco, che per­fino nel Campanile si scrviva delle strisce policrome per sottolineare la compressa, concentrata plasticità delle modanature. Nel S. Stefano il colme, non che sotto­lineare l'imposto saldamente plastico, esi­ge un incupimento del chiaroscuro, ad evitare che il colore denso si incolli come un'incrostazione sul fondo. D'altronde il chiaroscuro, d'un cosÌ fitto impasto, fa­vorisce un netto contrasto coloristico, si oppone da colore a colore, cosÌ com' è raccordato con sottile e sfuggente passag­gio. Ora ciò contrasta con quell'attrazione luminosa che riassorbe i toni locali, ri­chiama alla superficie e monda dal chia­roscuro le robuste masse della Cappella Bardi.

Nella Madonna (già della ColI. Gold­mann ed ora nella ColI. Kress, N ew Y ork) il mantello si ondula e si avvolge con peri- . frasi falcate, che hanno innegabile accento lineare gotico, accento sempre estraneo a Giotto. Il gruppo arieggia all' imposto oscillante di gruppi statuari pisani, e ri­corda, in questo, anche gli affreschi della Maddalena. Nè la Madonna sta all'altezza del S. Stefano. Un riscontro analogo può farsi nelle sei scene della Vita di Cristo: nei Magi, il bordo dietro il mantello del Re .adorante serpeggia come potrebbe fare in Simone Martini: il profilo degli angeli e dei pastori sul fondo d'oro presenta un frastagliamento sottilizzato nelle ali, nelle dita perfino, e che si ritrova negli alberi scarmigliati, negli angeli della Deposizione nel Sepolcro, dove l'oro si stende trapunto, adorno come un velo omerale. I continui profilamenti ottenuti, quando non poteva­no risultare per il diretto contrasto di due zone cromatiche diverse (come nei due Re Magi in piedi), con le frange e i bordi d'oro, appaiono una riduzione grafica, lineare, della frontalità plastica giottesca, riduzione che se non giunge a dissociare completamente i volumi, age­vola però le fratture, le ineguaglianze della

modulazione plastica, togliendo l'omoge­neità della resa spaziale.

Le sei storie non sembrano neppure documental·e il medesimo momento di ri­flessione dell'arte giottesca, trovandosi, più degli scomparti del Polittico, distan­ziate dalle Cappelle Bardi e Peruzzi, ma tanto più, d'altronde, da Ognissanti e dall'Arena. Del resto, la progressiva con­quista che dell'ambiente fiorentino faceva la Pittura senese, agevolò la comprensione - e lo sviamento - della fase stilistica di Giotto che culminava nella Cappella Bardi.

Ma a dimostrare come il senso, tutto fiorentino, deII' opus sectile non avesse risorgimento latente nel solo Polittico Horne-Chalis-Kress, SOVYIene uno stu­pendo scomparto di predella, l'Incorona­zione Rothermere: un' altra delle poche opere per le quali il nome di Giotto, oltre che come animistica designazione d'ambiente, costituisce apprezzamento, sia pur generoso, di altissime qualità pittoriche.

Si controlla qui con estrema lucidità come il Giotto della Cappella Bardi si prestasse ad interpolazioni coloristiche, e come queste, in un fiorentino, si rivolges­sero spontaneamente ad un'investitura in pietre dure. E curioso come questa raffi­natissima opus sectile si apparenti, in quelle nette specchiature dei gradini e del trono, alle riminesi Storie della Madonna (laterali al dipinto Galitzine) e agli interni di quella faentina S. Umiltà, che d'altron­de può anche essere stata dipinta a Faen­za piuttosto che a Siena, e certo non da Pietro Lorenzetti. Ma dove nel riminese e nella S. Umiltà si vedeva un irrigidi­mento della sensibile e poetica spazia­lità di Pietro, nel quadro fiorentino gli sbattimenti di ombre, sciolti da qualsiasi soggezione di una definita sorgente lumi­nosa (si pensi invece alle ombre portate della Cappella Bardi) si .alternano come gli scacchi bianchi e neri di un pavimento, colore e non più luce cd ombra. Prece-

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deva, ma non alla Mostra giottesca, que­sta stupenda Incoronazione la Dormitio Virginis di Chantilly, che è quadro senza troppa stampa: ambedue poi trovano un convincente attacco con l'Assunzione di Berlino, data a Maso. 25

)

* * *

Un Crocifisso, quello di Santa Maria Novella, cui non concordemente viene ri­ferito un documento del 1312,26) raccolse alla Mostra giottesca messe di entusiasmi tardivi. Poichè il riferimento storico, a causa della dibattuta identificazione, è precario, non potendo comunque sovve­nire alla qualità, non si capisce, questa, come possa sorreggersi su asseriti ma sfuggenti riscontri con le Storie del Nuovo Testamento di Assisi, successive a quelle d'I sacco. Inammissibile la contemporanei-

26) Il riferimento della Incoronazione Rothermere con l'Assunzione del Kaiser Friedrich Museum di Ber­lino (n.o 1141 b) è stato proposto anche dal Coletti (in Boll. d'Arte, 1937, p. 67): d'altra parte già nel 1914 il Perkins (in Rassegna d'Arte, 1914, p. 196 n.), suggerendo di rav­visare nella Dormitio di Chantilly, il quadretto citato dal Cavalcaselle come di proprietà Reiset a Parigi (Hi­story of Painting, London, 1903, voI. II, p. III in nota), riferiva alla Dormitio stessa, in cui il Venturi aveva vo­luto tentare la identificazione con quella di Ognissanti (Storia dell'Arte italiana, V, p. 415), l'attribuzione che per il quadro Reiset aveva fatto il Cavalcaselle, ossia a Giottino. Poichè certamente l'Incoronazione Rother­mere faceva parte dello stesso complesso, il felice rife­rimento del Cavalcaselle viene di conseguenza ad esten­dersi anche, nella più moderna dizione di Maso di Banco, al dipinto Rothermere; questo fu pubblicato come opera di Giotto dal Borenius (Apollo, XX [1934], p. ll9) ed esposto a Firenze alla Mostra giottesca del 1937. Recen­temente la Vavalà (in Burlington Magazinc, ottobre 1938, p. 152) ha ricollegato la Dormitio di Chantilly, la Inco­ronazione Rothermere e l'Assunta di Berlino con il Trittico del Museo di Brooklyn (già data al Gaddi dal Sirén, Giotto, Cambridge, 1917, p. 149) c, dubitativamente, con gli affreschi del coro di S. Francesco a Pistoia, prefe­rendo attenersi alla designazione di un anonimo maestro che chiama Chantilly-Master: ma la riunione del Polit­tico di Brooklyn è molto più · convincente del riferimento agli affreschi di Pistoia. . 26) Il Crocifisso di Santa Maria Novella si è voluto ldentificare anche di recente (COLETTI, in Boll. d'Arte, 1937, VIII, pp. 357 e 1937, II, p. 58 e successivo GAMBA e SALMI, in Riv. d'Arte, luglio-dicembre 1937, n.O 3-4, PP: 271 e 193 [fasc, apparso nel 1938]) col Crocifisso di cUl parla il Vasari e il testamento di Ricuccio di Puccio d~1 1312. Contro questa identificazione sta la testimo­~anza del Cavalcaselle (Storia della Pittura in Italia, Firenze, 1886, voI. I, p. 478-9) che afferma che il Cro-

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tà con quegli affreschi dugenteschi, per i quali non è certo pacifico il nome di Giotto: qui poi il nudo, faticosamente approssimato ad una anatomia assai più realistica di quanto mai facesse Giotto ad Assisi o a Padova, e proprio in un momento in cui avrebbe dovuto essere ancora impastoiato nei bizantinismi, pen­de ventruto e obeso, sicchè torna arduo vedervi altra relazione che nel soggetto con il Crocifisso figurato da Giotto sul­l'iconostasi dell'affresco con Girolamo di Assisi che s'accerta delle Stigmate. La corpulenza vi è in funzione di plasticità: nella quale non si è investita, riguardo al fondamentale modo espressivo di Giot­to, la visione unitaria dell'artista, tanto è vero che la testa, il busto, la parte in­feriore del corpo corrispondono a tre punti di vista diversi: si giustappongono in tre fasi staccate, non fuse, e ne discende di-

cifisso in questione fu « da pochi anni tolto dalla cappella laterale della Crociera e collocato dopo il restauro della chiesa 11Wlto alto nella parete sopra la porta maggiore » mentre il Vasari ricOl'dava il Crocifisso sulla porta mag­giore della chiesa sopra la sepoltura de' Gaddi. Il Co­letti arguisce dal confronto con le guide antiche di Fi­renze, che ricordano il Crocifisso nel luogo visto dal Va­sari, che la notizia del Cavalcaselle è infondata. Ciò che difficilmente può ammettersi; nella edizione tedesca del 1869 (Leipzig, tomo I, p. 234) il Cavalcaselle cita il Cro­cifisso, sempre negando che sia quello di Giotto e in­clinando piuttosto a riconoscervi un allievo, che, se­guendo il Vasari, identifica in Puccio Capanna. Nel­l'edizione italiana aggirmge la notizia riportata preci­sando che «da pochi anni » il Crocifisso era stato tolto dalla Cappella e posto sulla porta d'entrata. Il Coletti cita anche la testimonianza (contraria al Cavalcaselle) del Baldinucci, ma in rcaltà il Baldinucci non dice af­fatto d'aver visto il Crocifisso sulla porta d'ingresso, e solamente; « Poi venuto di nuovo a Firenze [Giotto] per la chiesa di San Marco dipinse il gran Crocifisso in campo d'oro sopra 'I legno, e l'altro simile pe~ la Chiesa di Santa Maria Novella, per la quale fece ancor~ altri lavori» (BAL­DINUCCI, Notizie ecc., Firenze, 1767, tomo I, pp. 123-124). D'altra parte dal documento del 1312 non si rileva dove fosse collocato allora il Crocifisso di Giotto, e che quello attuale potesse stare sul tramezzo del coro non pare possibile (secondo che si è anche supposto) date le enormi proporzioni, e se fin d'allora stava sulla porta di chiesa era difficile accenderci davanti una lampada. Restano per altro due identificazioni assai dubbie e concatenate; che il Crocifisso visto dal Vasari fosse quello del documento del 1312; che il Crocifisso in questione sia quello visto dal Vasari. Nè costituirebbe prova bastevole il fatto che, anche quando il documento del 1312 era ignorato, il Crocifisso venisse tradizionalmente ascritto a Giotto; d'altronde in questo caso non vi era neppure tradizione concorde, perchè dal Vasari vien detto che nel Crocifisso

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sarmonia e impaccio. Un particolare come il filo di sangue che ritaglia, per cosÌ dire, il profilo adiposo del corpo, è un espe­diente puerile per assottigliare la massa idropica, non plasticamente intesa. La striscia nera che scende luugo i lati della croce, e che in genere ha significato pura­mente cromatico, quando, nell'ansa dello scostamento accentuato del corpo, riaffio­ra, fa curiosamente da puutello fra il petto e il femore, uu po' come in que' marmi nei quali venivano lasciate, per evitare facili fratture, delle congiunzioni solide fra parti deboli o delicate. Quel che può sentirsi ancora come pregio dell'opera, la sorda imminenza sullo spettatore, il senso di tenebroso sconforto, è ancora quanto di più lontano ci può essere da Giotto, sia come linguaggio plastico non unificato, sia come proiezione diretta di uu confuso e oppresso stato di sentimento. Senza dire delle figure laterali, nelle quali ora ha fatto comodo di vedere, .per i sospet­tati e imprecisati contatti con Assisi, i momenti più alti del dipinto, ora, quando non si poteva fare a meno di notarne la discontinuità formale col Crocifisso, due esercitazioni di bottega.

Segue poi la serie degli altri Crocifissi. Questi non hanno mai convinto nessuno, e per quanto si veda di scaglionarli nel tempo, cercando almeno di cavarne fuori, per autodecisione, qualche perduto pro­totipo di Giotto, restano sempre nella po­sizione di satelliti, sia quelli di S. Felice, di S. Marco, di Ognissanti: e la Mostra giottesca doveva almeno far convenire in questo. Ma, a. parte il Malatestiano, lo stesso Crocifisso di Padova, d'una presa d'immagine cosÌ nebulosa, accanto ai de­finitissimi affreschi, gentile e stanco, ela­borato su quello della vicina Crocifissione, ha lasciato variamente perplessa la criti-

di Santa Maria Novella aveva lavorato anche Puccio Capanna (cfr. VAsARI-MILANEsl, Firenze, 1878, tomo I, p. 394, n. 4).

27) Il Crocifisso Malatestiano è stato ripubblicato come di Giotto, dopo che fu esposto alla Mostra della

ca. Nè, a datarlo allo stesso tempo degli affreschi della Cappella si spiegherebbe tale divario stilistico, nè, a volere spie­gare questo con la diversità del tempo, una tale modesta, accurata ripetizione. La gentilezza stessa dell' opera contraddice alla robusta pienezza degli affreschi.

* * * Si giunge cosÌ al Crocifisso Malatestia­

no che, nel fervore della rivelazione, è sembrata un'opera da aggiungere senz'al­tro al magro catalogo delle tavole di Giotto. 27

) Finchè tuttavia queste rivendi­cazioni saranno fatte confondendo critica­mente, luce, luminismo e colore, e fa­cendo appello alle opere non compiute, ma solamente sognate (sic), il puuto del cammino giottesco, nel quale inserire il Crocifisso riminese, resta ancora un pun­to futuro. 28

) E quando poi l'attribuzione si puntella con i Crocifissi di S. Felice, di S. Marco, di Ognissanti, di Santa Maria Novella e dell'Arena, tutte opere indi­scusse a quel che pare, vien da pensare veramente alla Parabola dei ciechi. In realtà, e già lo notai, la sola altezza qua­litativa giustifica per un momento di pensare a Giotto. Ma da Assisi al Cam­panile di Santa Maria del Fiore, Giotto si svolge con una coerenza interna inop­pugnabile, in cui un improvviso orienta­mento coloristico rimane ipotesi arbi­traria.

Certamente l'autore del Crocifisso Ma­latestiano ha avuto la folgorante rivela­zione dell'arte giottesca, e l' ha accolta non con soggezione supina, ma traendone sviluppi suoi, rivivendola con esperienza e contenuto umano diverso, investendola d'un profondo sentimento. La sensibilità accorta del mezzo atmosferico lo stacca

Pittura Riminesc, dal Coletti (in Boli. d'Arte, 1937, VIII, p. 350 e sg.) e dal Gamba (in Riv. d'arte, fasc. cit., p. 272).

2S) Cfr. per il passo, a cui si fa riferimento, l'art. cito del Coletti in Boli. d'Arte, VIII (1937), p. 353, righe 15-17.

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da Giotto, aprendogli il varco per giun­gere ad una trasposizione cromatica del plasticismo giottesco. Nessuna ricerca di frontalità in questo corpo luminoso, la cui essenza cromatica non è sentita come differenziazione di masse, ma come unica condizione al suo concretarsi.

Traspare il Cristo da un fluido terso, in cui è irraggiungibile ed imponderabile come una cosa vista in fondo all'acqua: e tale è la precisione con la quale l'artista intende dare qualità di colore alla sua atmosfera, che esige la visione a distanza, in quei segni bianchi, a destra del bacino, dove si rovescia il perizoma, segni non sfumati, ma non già luministici, che la distanza stempererà con l'ombra, renderà graduali. CosÌ la distanza devc fondere i tratti dei capelli, segnati in luce e inter­rotti nelle ombre delle ondulature (con un residuo di compendiarietà bizantina), le occhiaie incavate dove le palpebre chiu­se sono appena due tagli neri, gli zigomi che la luce chiazza sulle infossature delle guance. Questo realizzarsi a distanza svela un conscio assegnamento nello spessore d'aria interposto, che viene attratto nel­l'alone di una chiarore verdognolo e dif­fuso, e per questo qualificato coloristica­mente, come permeato da una emana­zione costante, in cui il corpo del Cristo resta isolato, in sospensione. Non c'è dun­que la netta individuazione plastica giot­tesca, che comprime . i volumi e abbassa, impone, il limite del piano del dipinto, in una concezione spaziale contratta, singo­larmente abbreviata, che tende a ripor­tare ogni volume nel senso di una fron­talità assoluta. Se nel Cristo Malatestiano non può esservi certo una ricerca di tutto tondo nè altro spunto illusionistico, vi traspare invece il senso di uno spazio in­definito e avvolgente, che non è lo stesso in cui si muove chi riguarda, ma in cui viene attratto, come se passasse dall'oscu­rità nell'alone diffuso di una lampada. Il legno Scuro della croce, senza il mini-

mo spessore, in.alzato lontanissimo, contro una luce abbagliante, si ritaglia sull' oro, il cui bagliore è ancora più che arretrato, tenuto indietro, . dalle due. grevi strisce nere che fiancheggiano la croce, senz' altro valore che di smorzare il riflesso troppo vivo dell'oro, intensificando nella lucen­tezza il colore. E si veda allora come que­sto motivo, già ricorrente nei Crocifissi del Dugento, e cosÌ frainteso nel Crocifisso di Santa Maria Novella, acquisti un signi­ficato nuovo nel Malatestiano, per quel­l'aver lasciato l'oro affiorare direttamente sotto le braccia del Cristo: ciò che isola di netto la figura, come con la continua­zione di un sottile spiraglio luminoso.

N egli altri Crocifissi più informati a Giotto, dove il ricordo della continuità plastica giottesca si trasmette, quasi si di­rebbe all'insaputa, come un carattere ere­ditario, il tabellone si attacca alla croce, senza l'interruzione, che sarebbe incom­prensibile in Giotto, ma cosi significativa nel Crocifisso Malatestiano. Quel perimetro luminoso finisce per tagliare fuori ogni pos­sibile relazione plastica col piano, su cui il Cristo è dipinto, e ne sottolinea il com­pleto isolamento, la sospensione nell'inde­finita atmosfera cromatica. Chi non vede come anche quell'aureola, cosÌ volutamente eccentrica, e non certo per ragioni prospet­tiche, si distacchi, non coincida con la testa del Cristo, impedisca ogni riferimen­to lineare, ogni mediazione plastica dal piano al convesso? Tra la testa e l'au­reola s'interpone ancora lo spazio che separa il perizoma dal legno della Croce, quandò, con quello stupendo partito cro­matico, la croce e l'oro in trasparenza cambian di colore: che è quanto si ricer­cherebbe invano non solo in tutta la serie dei Crocifissi adottivi, ma nello stesso autografo di Giotto, affrescato all' Arena. Da quella trasparenza almeno si dovreb­be avere la rivelazione di una spazialità dilatata, permeante, diffusa a onda, e che dalla contrazione giottesca sembra

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a poco a poco rinvenuta come la rosa di Gerico.

Nè si è tenuto conto del frammento, sia pur breve, del S. Giovanni, nel com­passo destro della croce. Il contorno ha un andamento sinuoso, assolutamente in­conciliabile con i circuiti saldati, con­centrati di Giotto: la figura presentava connessioni atmosferiche, sollecitava, nel­l'ondulato contorno, lo stemperarsi a di­stanza del colore nella fluida luminosità dell'oro: e il colore, che non ha la vio­lenza d'un azzurro puro, smorza il lapi­slazzulo d'una trasparenza d'alga, prezioso e marino.

Una talc squisita sensibilità del colore, come già osservavo, restituisce significato cromatico alle ombre verdi, similmente che nei mosaici di S. Luca in Focide: queste infatti non si limitano a suggerire il rilievo, ma graduano la distanza attra­verso la quale, in trasparenza, si realiz­zano cromaticamente. Se nel colore si ri­conosce allora un resultato vivo del co­lore, inteso nel puro senso bizantino e assorbito dal nuovo plasticismo giottesco, la spazialità che induce valori di atmo­sfera e di trasparenza è lontana da Giotto come dai bizantini, esprime un momento originale, dà il tono inconfondibile del­l'opera. La luce che avvolge il corpo del Cristo non si traduce in luminismo, ma se ne diffonde piuttosto come in una fluo­rescenza, è l'emanazione stessa di questa spazialità: donde la preziosa materia del colore, che non è mai un'incrostazione, nè una campi tura, ma investe lo spessore come in una sostanza opalescente. Dove trovare nelle opere sicure di Giotto un solo spunto di questa atmosfera croma­tica, cosÌ agli antipodi della sua contratt.a spazialità? Evidentemente sta alla base, alla scaturigine interna una profonda di­versità di sentimento. Il Cristo non è eroicizzato: la sua sofferta umanità è mostrata in un lento trapasso, che chiede confluenza, pietà di sentimento: ma non

vi è dramma o ribellione: la morte è accolta con la rassegnata compostezza del sacrificio inevitabile sofferto fino al limite estremo: senza superamento eroico. Con delicatezza, con squisitezza elegiaca muo­ve il racconto. L'atmosfera in cui adduce è di una macerata melanconia, che di se stessa oscuramente si appaga: un senso di indefinibile, stazionario coma agonico, che prende e non lascia, e che la sublime elezione della forma rende ancor più sa­turo di pena. Ma vi è un germe di com­piacimento edonistico, la tendenza ad agi­re più sulla sensibilità che sul sentimento e il pericolo di una disgregazione degli ele­menti formali, che tendono a dissociarsi, a emergere singolarmente. Per quanto stu­pendi, i particolari della clavicola, del pe­rizoma, dell'avambraccio destro, denotano una insistenza locale, si isolano dall'insie­me: ciò che fa pensare ad intermittenze, ad improvvise illuminazioni, ad un liri­smo alterno che non corrisponde al tono di ininterrotta epicità di Giotto.

* * * La cui grandezza ci giunge spoglia

d'ogni contingenza dei tempi, aperta al nostro spirito senza mediazioni erudite, incomparabile, come l'areolite che si di­stingue da tutte le pietre, anche le più preziose, della terra. I primi suoi critici, i pittori che lo studiavano o lo contraffa­cevano, si affacciarono sul suo mondo si­curi di impadronirsi facilmente di forme cosÌ semplici e scoperte: ognuno n'ebbe una visione parzialissima, ma il contatto fu egualmente fecondo.

Quel che non poteva trasmettersi, co­me diretta adozione di linguaggio, e sfuggÌ a tutte le riduzioni e ai rifacimenti, era, nel chiuso involucro delle forme, il domi­nio di un mondo morale, che s'imponeva con serena, epica fermezza alla contesta­zione episodica della vita quotidiana. In Giotto tutto volge in affermazione totale

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TAV. LII.

Fig. 31. Seguace di GIOTTO: Crocifisso. - Firenze, Santa Maria Novella.

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TAV. LUI.

Fig. 32. IGNOTO RUIINESE: Crocifisso. - Rimini , Tempio Malatestiano.

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e induhitahile: e la sua humanitas non è nostalgica voltura del passato in idea­le, ma nel presente colpisce il valore del­l'uomo perenne. CosÌ gli eroi di Giotto non divengono Dei, sono, nell' Incarna­zione, Dei divenuti uomml. Donde la concretezza umana del suo superamento, l'estrema dignità del suo fare, la profon­dità di un sentire originale e inestingui­bile, che si sviluppa dal contesto interiore

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in una ininterrotta sublimazione, per toc­care gli strati rarefatti dove solo lo spi­rito giunge e senza velo di terra.

CESARE BRANDI.

ERRATA-CORRIGE

Per un errore di impaginazione nella prima parte di questo saggio avvenne uno spostamento delle note, dalla nota 7 in poi: conseguentemente la nota 7 an­dava al posto della nota 8 e la nota 16 si riferiva alla prima pagina di questa seconda parte dell'articolo, dove è stata riportata.

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