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La Contrada del Poeta n°8-9 Lecce, luglio 2014 fogli volanti di poesia spersa «» Per il 50° anniversario della fondazione dell’Odin Teatret Contributi, letture e poesie

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Aspettando Eugenio Barba e l'Odin Teatret nel Salento per celebrare il cinquantenario della nascita del gruppo e il quarantennale della venuta a Carpignano Salentino, Maurizio Nocera dedica la Contrada del Poeta ad un'analisi bibliografica dell'opera del regista gallipolino... Buona lettura! Un numero dei "fogli volanti di poesia spersa" da stampare e conservare!

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La Contrada del Poetan°8-9 Lecce, luglio 2014fogli volanti di poesia spersa

«»

Per il 50° anniversario della fondazione dell’Odin Teatret

Contributi, letture e poesie

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La Contrada del Poetafogli volanti di poesia spersa

n°8-9 Luglio 2014 Fogli volanti di poesia spersa,graficamente composti da Mauro Marino nella sede del Fondo Verri di Lecce

Direttore: Maurizio NoceraI fogli sono pubblicati su Spagine (issuu.com/spagine) e stampati in fotocopiatrice a tiratura limitata

Il Fondo Verriè in via Santa Maria del Paradiso 8.aa Lecce (cap 73100)telefono [email protected]

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«L’Odin è una leggenda di cui ognuno può fare quello che vuole, appropriarsene,trasformarla. Ma io non credo che ci siano eredi»

Eugenio Barba

[da un’intervista (19 febbraio 2013) di Francesca De Sanctis a E. B.: «Cosa resterà dell’Odin? Ci sono degli eredi?»]

Il logo-simbolo dell’Odin Teatret

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Eugenio Barba

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Gallipoli e il Salento nei libri di Eugenio Barba

Iprofili biografici del regista dell’Odin Teatret(Oslo, 1 ottobre 1964), di Eugenio Barba ri-portano come luogo di nascita Brindisi, edeffettivamente così è, ma tutti sanno che egliè gallipolino puro sangue. Eugenio (29 otto-bre 1936), come pure suo fratello Ernesto

(Brindisi, 27 aprile 1934 - Livorno, 27 aprile 1994),sono nati nella città adriatica semplicemente perchéil padre, Emanuele (Neli) Barba, ufficiale delle miliziedel regime, venne nominato comandante la piazza diBrindisi, a quell’epoca porto importante per le opera-zioni militari.Questa precisazione è utile per capire poi il perchénegli scritti del regista siano tanti i riferimenti a Gal-lipoli e al Salento, per lo più rivolti a quella parte dellasub regione ideale (così la definì Ennio Bonea) che staal di sotto del capoluogo Lecce. Non mancano peròanche i riferimenti a Brindisi, dove egli ha amici divecchia data, come, ad esempio, Tony D’Urso e Ema-nuele Amoroso.È sufficientemente conosciuta la sterminata biblio-grafia degli scritti del regista dell’Odin, peraltro almomento difficile da consultare per intero, salvo chefarlo presso il suo editore di opere teatrali, oppurepresso il suo stesso studio a Holstebro (è in questa cit-tadina del Nord-Ovest della Danimarca che l’OdinTeatret si trasferì e stabilì a partire dal 1966). Per cui,non avendola io a disposizione interamente, intendo

circoscrivere il mio sguardo di lettore solo a quei libriche sono presso di me, ovviamente tutti letti, qual-cuno pure recensito.

***Ciò che mi affascina del mondo letteral-teatrale di E.B. è soprattutto la sua scrittura, quel suo tipico mododi mettere nero su bianco, e quello, altrettanto tipico,di far emergere le sue intime emozioni dalle relazioniinterpersonali come quelle, ad esempio, vissute conl’altro grande mostro del teatro, Jerzy Grotowski, delquale Eugenio fu amico e, a suo scrivere, anche allievoad Opole (Polonia) presso il Teatr 13 Rzedow (Teatrodelle Tredici File). Ma non solo questo, perché mi affascina anche quellatipica scrittura indirizzata agli aspetti tecnici delmondo del teatro perché, occorre ribadirlo, E. B., inquesto campo, è stato un rivoluzionario, che nel tea-tro, tipico luogo della rappresentatività della favolaumana, ha modificato gli spazi fisici, i ruoli dei sog-getti coinvolti, le trame che stanno all’origine del fareteatro. Non a torto, in tutto il mondo egli è conside-rato come uno dei grandi Maestri di tutti i tempi alpari dello stesso Jerzy Grotowski, e di Kostantin Ser-geevic Stanislavskij, Vsevolod Èmil'evic Mejerchol'd,Antonine Artaud, Bertolt Brecht, Jacques Copeau,Peter Brook, Giorgio Strehler, Julian Beck, e i nostrigrandi Eduardo De Filippo e Dario Fo. Forse ho di-menticato qualcuno, forse ho dimenticato il superla-

di Maurizio Nocera

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tivo Samuel Beckett, ma non fa niente, si tratta solodi citare quelli che ho citato per dare l’idea del livelloa cui è giunto E. B.Ma scrivevo poco sopra che a me, oltre al teatro veroe proprio, ciò che mi affascina di E. B. è la sua scrit-tura, quei suoi tipici scritti gonfi di nostos e algos (no-stalgia), che gli storcono lievemente la testaall’indietro per fargli rivedere sotto una luce del tuttoparticolare gli eventi del passato, soprattutto quellilegati alla sua famiglia, a quella straordinaria geniadei Barba gallipolini, il cui capostipite (EmanueleBarba, 1818-1887) fu un campione di storia della no-stra città. E. B. non ha mai dimenticato questo, ed ecco perchéegli, in quasi tutti i suoi libri non si è mai dimenticatodi fare riferimento a Gallipoli, a Brindisi e al Salentoin generale. E questo perché è accaduto e accade? Per-ché proprio questa sub regione e questi luoghi così pe-riferici dal resto del mondo interessano al registadell’Odin Teatret? Semplicemente perché, a mio parere, egli ritiene que-sti nostri luoghi elettivi della sua vita, mi riferisco ov-viamente a quella del mondo del teatro. Basti pensareche è qui, in Salento, a Carpignano Salentino per laprecisione, che nel 1974 egli, assieme all'Odin Teatret,sperimenta la pratica del teatro come “baratto cultu-rale”, uno scambio di doni immateriali: io do a te, re-altà comunitaria, una perfomance teatrale, e tu dai ame quel che hai, soprattutto sul piano delle tue tradi-zioni culturali. Ed è ancora qui, in Salento che, neglianni ‘70, ad E. B., coadiuvato dall’amico Nicola Sa-varese, nasce l’idea di fondare l’Ista (Scuola Interna-zionale di Teatro Antropologico), anche se poi lafondazione vera e propria avverrà a Bonn nel 1979,mentre solo nel 1987 terrà la sua prima sessione in Sa-lento. Ma è anche qui che gli viene in mente l’idea delTerzo Teatro. Ovviamente queste sue grandi idee, chehanno rivoluzionato il teatro della seconda metà delNovecento, E. B. le ha sperimentate anche e soprat-tutto in altre regioni del pianeta (penso, ad esempio,al suo grande amore per i popoli emarginati e sfrut-tati, agli indios dell’America Latina, agli altri popolidell’Est, ecc.), ma, nel fare la cronologia della sua at-

tività di regista, sembra che nel Salento egli ha speri-mentato molto. Ovviamente non va dimenticata laculla dell’Odin Teatret, Holstebro (Danimarca). Ed ecco ora i libri di E. B. che ho nella mia bibliotecae che ho letto – sia chiaro – non come teatrologo, per-ché non lo sono, e mi guardo bene dall’esserlo inquanto non ho le competenze specifiche, ma come gal-lipolino e salentino, il cui interesse al regista dell’Odinè rivolto unicamente per scoprire nei suoi testi lette-ral-teatrali i riferimenti ai luoghi da lui stesso ritenutioriginari. Delle citazioni riporterò soltanto le paginee non gli ambiti o sezioni differentemente intitolate.

Il libro dell’Odin. Il teatro-lboratorio di EugenioBarba (a cura di Ferdinando Taviani, Feltrinelli, se-conda ediz. 1978). In questo libro ci sono alcune fotoche riportano immagini di spettacoli (Parate e im-provvisazioni) dell’Odin a Carpignano Salentino (doverimase dal 20 maggio al 15 ottobre 1974) e nelle«piazze, scuole, campagne di Pisignano, Sogliano, Ga-latone, Soleto, Serrano, Cutrofiano e Martano. AlleFeste dell’Unità di Castrignano dei Greci, San Cesario,Calimera e Copertino». Chi qui scrive, ovviamente, haassistito in questi paesi a diversi spettacoli dell’Odin.All’epoca non conoscevo ancora direttamente E. B.(sua madre sì), perché di lui mi parlava suo zio Aldino(‘Ndino) Barba, padre di mio cognato. Con suo fratelloErnesto invece avevo cominciato già a corrispondere.

Nel cap. quinto (La linea d’ombra), E. B. scrive: «Ilmio interesse per il fenomeno religioso. Non è la reli-gione come catechismo che mi interessa, ma soprat-tutto il comportamento di certe persone che, vivendol’esperienza religiosa, in realtà sono state dei grandirivoluzionari: si sono cambiate, e quindi, con la loroazione, hanno cambiato tutta una società, tuttaun’epoca. Questo è un problema affascinante, direi,per chi si interessa di politica: come – pur non impie-gando i mezzi ortodossi, quelli che si considerano imezzi ortodossi della politica – si può arrivare a risul-tati essenziali, cioè ad un cambiamento./ L’inizio: aGallipoli, una cittadina del Sud dell’Italia, dove hopassato gli anni fra il 1945 e il 1951, ho vissuto in un

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tipico ambiente religioso, cattolico, un cattolicesimobarocco, un po’ lugubre, ma molto pittoresco. Nonposso dire di aver subìto pressioni per ciò che riguardala religione. Mia madre [Vera Gaeta Barba] pur es-sendo cattolica, mi ha lasciato la massima libertà./Quando ero bambino seguivo affascinato le proces-sioni di Pasqua. C’era, per esempio, una processionecon il Cristo: gli uomini vestivano sai e cappucci similia quelli del Ku Klux Klan, ma tutti neri [qui, forse,Eugenio ha dimenticato, perché i cappucci delle con-fraternite gallipoline sono rossi]. Non restava nulladella loro figura umana. Li chiamavano i Mau. Eramolto lugubre. E le donne, in un altro corteo, porta-vano la statua della Madonna Addolorata, gridavanoin coro. Era il grido della madre di Cristo che chia-mava il figlio./ O ancora, a Natale: bande di giovanisuonavano e cantavano di notte dolcemente sullastrada per annunciare che Cristo sarebbe presto ve-nuto./ Gallipoli era una città di pescatori. A quel-l’epoca remavano al largo dell’isola con le loro barche.Accadeva, a volte, che ci fossero nebbie e tempeste. Ledonne andavano sui bastioni dell’isola – era una cittàfortificata, un’antica roccaforte veneziana – coi lorobambini; erano sempre vestite di nero, e facevano gri-dare i bambini affinché le loro voci argentine indicas-sero a chi era in mare la direzione per l’isola. Loricordo bene: dalle finestre di casa mia potevo guar-dare giù in basso le donne nere e quei bambini magri,senza scarpe, che cantavano perché rientrassero inporto i padri» (pp. 211-212).«Un corpo estraneo: è l’espressione che meglio copre lanostra presenza in questo paese dell’Italia del Sud. Gliattori dell’Odin e la popolazione di Carpignano….».Da questo punto in poi, il testo di E. B. si riproducenel libro:Aldilà delle isole galleggianti (Ubilibri, Milano1985). E. B. scrive: «Quando siamo andati a Carpi-gnano [Salentino], abbiamo continuato a lavorare construmenti musicali, cercando di superare quello cheera il nostro limite: non saper suonare correttamente.Ci siamo concentrati su ciò che per noi era più facile:il ritmo. In quel periodo il nostro training era affian-cato dal ritmo di strumenti a percussione. Cosa ci in-

teressava in lavoro sul ritmo? Sviluppare ancora di piùla possibilità di trasformare lo strumento musicale inun accessorio scenico, teatralizzato, renderlo unaparte integrante dell’azione drammatica dell’attore.Un esempio è il tamburo di Iben nel Libro delle Danze(1974), spettacolo che fa trapelare chiaramente tuttele tracce di questa nostra ricerca» (p. 88). Da questo punto in poi, e fino all’indicazione delle pa-gine, si tratta dell’intervista che Stig Krabbe Barfoedfece a E. B. nella primavera 1974 a Carpignano Salen-tino. Ho omesso di riportare le domande dell’intervi-statore; ciò che mi interessa sono le risposte del registasulla situazione di fatto. «I motivi dell’Odin Teatret per lavorare a Carpignanosono egoistici: siamo qui perché il nostro compito cistimola, perché ci dà la possibilità di affrontare un la-voro nuovo, di metterci in una situazione di sfida./Puoi definire i nostri motivi come egoistici ma è alleconseguenze, ai risultati che tu devi rivolgere la tuaattenzione. Come percepisce la popolazione di Carpi-gnano la nostra presenza nel loro paese? Siamo unostimolo, un impulso così forte da mettere in moto deiprocessi che permettono loro di ritrovare un legameculturale comune che li caratterizza e li definisce inrapporto a noi? Se la popolazione risponde alle inizia-tive dell’Odin Teatret con una serie di azioni chehanno un senso culturale – danze, canzoni, teatro im-provvisato, scene grottesche e parodiche – allora i no-stri motivi apparentemente egoistici divengono unforte catalizzatore di un avvenimento sociale. […]L’espressione corpo estraneo è quella che meglio defi-nisce la nostra presenza in questo paese dell’Italia delSud. Gli attori dell’Odin e la popolazione di Carpi-gnano sono veramente poli opposti. I giovani del-l’Odin con i loro capelli lunghi, la loro culturascandinava, il loro modello di comportamento, il loromodo di pensare, il pregiudizio della loro apparentemancanza di pregiudizi, sono totalmente differenti daquesta società contadina saldata da profonde norme.Ma appunto questo “essere diversi” è stato il punto dipartenza per la nostra attività./ Non siamo venuti quiper insegnare qualcosa alla popolazione, per illumi-narli sulla loro situazione umana e sociale; non vole-

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vamo dar loro coscienza di qualcosa che noi crede-vamo di avere. Né volevamo diventare il loro passa-tempo. D’altra parte non volevamo rinunciare allenostre esperienze, a vivere in un nostro modo, alla no-stra libertà emotiva, cioè capitolare di fronte allenorme del paese. Si tratta di rispettare le norme capi-tali di una società del genere: cioè le norme sessuali ereligiose. Ma aldilà di queste abbiamo costruito il no-stro soggiorno dall’esperienza del baratto./ Immagi-nati due tribù che sono molto diverse e che siincontrano sulle rive opposte di un fiume: ogni tribùpuò vivere per se stessa, può parlare dell’altra tribù,forse dirne male o elogiarla. Ma ogni volta che unorema da un riva all’altra scambia qualcosa. Uno nonpassa il fiume per fare ricerche etnografiche, per ve-dere come gli altri vivono, ma per dare qualcosa e ri-cevere qualcosa in cambio: un pugno di sale per unbraccio di stoffa, una manciata di perline per un arcoe due frecce. Ma un patrimonio culturale si può barat-tare?/ Siamo partiti da situazioni molto semplici incui gli attori dell’Odin cantavano canzoni scandinavee dove era organico e naturale che i presenti rispon-dessero con le loro canzoni. Dopo abbiamo allargatoqueste situazioni inserendovi alcune “danze” – esercizidel nostro training – a cui la popolazione ha rispostocon proprie danze. Quindi apparvero brevi scene esketches improvvisati. La situazione comincia a ras-somigliare a una festa collettiva a cui tutti parteci-pano. C’è sempre qualcuno in ognuno di questi paesiche ha capacità spiccate come entertainer. Abbiamoproceduto in questo modo non solo a Carpignano maanche in altri paesi: la gente veniva e ci domandava dipresentare le nostre canzoni, le nostre danze, oppureun piccolo spettacolo di clown che avevamo preparato.“cosa ci date in cambio?” domandavamo noi. Dove-vamo allora radunare persone disposte a “barattare”canzoni e danze. Nessun professionista, ma contadinie artigiani partecipavano a questo baratto. Allora ilnostro arrivo e il nostro “spettacolo” erano soltantoun pretesto, un impulso concreto per radunare per-sone e lasciar loro rilevare la situazione, partendo dallepremesse di una cultura popolare: creare situazioniche saldano e non che dividono. Alle proprie canzoni,

alle proprie danze, tutti possono partecipare. Non esi-ste un momento di estetizzazione dello spettacolo: cioèi professionisti che cantano, danzano e recitano e glialtri che passivi li osservano e li considerano specialistidel canto, della danza e della recitazione./ Questo è ilnostro “baratto”. Noi non abbiamo rinunciato aquello che era nostro, loro non hanno rinunciato aquello che era loro. Ci siamo definiti reciprocamenteattraverso il nostro patrimonio culturale. […] Ma nonpotevamo trapiantare una simile attività [quelladell’Odin a Holstebro] in un piccolo paese dell’Italiadel Sud dove gli abitanti non hanno mai visto unospettacolo di teatro. Per questo non potevamo piùpensare in categorie di mestiere./ Ci siamo dovuti do-mandare che cosa vogliamo qui. Non volevamo im-boccare queste persone col “teatro”, un fenomenoculturale di cui hanno fatto benissimo a meno per se-coli. Volevamo che ci rispondessero con la loro voce,con la loro lingua, con i loro legami, con quello che lilega assieme, quello che li fa forti, quello che si vuolspezzare in loro: la loro cultura, una cultura popolareche – ed è l’essenziale – non divide ma accomuna» (pp.173-175).[…] Una sera, dopo circa un mese del nostro soggiornoa Carpignano Salentino (fino ad allora eravamo vissutiin quasi totale isolamento, concentrandoci solo sul no-stro lavoro) abbiamo deciso di andare a trovare alcuniamici dell’università di Lecce, che erano venuti ad abi-tare in paese. Abbiamo preso i nostri strumenti musi-cali e siamo usciti dalla nostra abitazione. Era laprima volta che – in gruppo compatto – apparivamoin paese, e per di più con gli strumenti musicali e congli abiti variopinti che usiamo per il training. Eraanche la prima volta, in tanti anni di lavoro teatrale,che ci trovavamo per le strade davanti a tutti, noi cheinvece eravamo soliti essere ritirati nel chiuso delle no-stre sale di lavoro, o nel chiuso dei seminari, fra pochepersone attente e interessate. Subito cominciarono aseguirci moltissime persone che ci chiedevano di suo-nare./ Arrivammo alla casa dei nostri amici e non litrovammo. Restammo, così, senza volerlo, all’aperto,in piazza, circondati da molta gente che si aspettavache noi facessimo qualcosa. Eravamo con le spalle al

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muro, e allora cominciammo a suonare: canzoni po-polari scandinave oppure improvvisazioni vocali,come di solito fanno i nostri attori nel training. Percirca un’ora cantammo e suonammo. E quello che cisorprese di più, alla fine, non fu il lungo applauso delpubblico (“cosa eravamo diventati, noi dell’Odin, unfacile gruppo di musicanti?”) ma il fatto che alcunepersone ci dissero: “Adesso vi faremo sentire noi le no-stre canzoni”. Cominciarono loro a cantare, le personeche ci circondavano, canzoni di lavoro, canzoni checon il loro ritmo particolare accompagnavano il gestodel raccolto del tabacco e delle olive, e poi canti diamore infelice e di morte. Da questa situazione impre-vista nacque la nostra idea di “baratto”./ Quello cheaccadeva ora a Carpignano ci ricordava un’altra si-mile, nelle montagne della Sardegna, dove circa cin-que mesi prima avevamo portato il nostro ultimospettacolo, Min Fars Hus./ […] A Carpignano con inostri canti e le canzoni in risposta, era dunque acca-duto di nuovo quel che era accaduto in Sardegna dopoMin Fars Hus./ Quando anche in altri paesi vicini aCarpignano si sparse la voce della presenza di ungruppo teatrale straniero, allora dei giovani venneroa chiederci di andare da loro. Noi rispondemmo fran-camente che non eravamo filantropi, che a nessunopiace lavorare per niente, che volevamo un compenso,ma non lo volevamo in denaro. Volevamo che loro sipresentassero a noi nello stesso modo in cui noi ci pre-sentavamo a loro, coi loro canti e le loro danze. Spessoquesti giovani rispondevano che non sapevano suo-nare né conoscevano i canti del posto. A volte dice-vano che nel loro paese non esistevano tradizioni./ Noiallora chiedevamo loro di andare a cercare i vecchi,proponevamo che andassero nelle botteghe di vino afarsi insegnare dai vecchi le canzoni, oppure invitas-sero i vecchi stessi a venire in piazza a cantare» (pp.194-196).[…] L’Odin Teatret è stato spesso in Italia con i suoispettacoli. Qui abbiamo rappresentato 60 volte MinFars Hus […] Abbiamo allora deciso di andare a vi-vere per alcuni mesi in Italia, e di farlo in un periodoin cui non avevamo più il vecchio spettacolo (MinFars Hus) e non avevamo ancora il nuovo. Un periodo,

cioè, in cui eravamo soltanto un gruppo di persone,non un gruppo teatrale in tournée con il suo spetta-colo. E di andare in un posto dove il teatro non eramai esistito, e dove non aveva neanche senso./ Il paesein cui andare a vivere, Carpignano, è stato scelto inuna zona del Sud dell’Italia, dove in ogni famiglia c’èun padre, un figlio, un fratello emigrato in Svizzera oin Germania. Un paese piccolo e isolato./ I miei com-pagni e io ci siamo sempre sentiti a disagio vedendoqualcuno che è diverso e che cerca di familiarizzarecon gli altri, quando un adulto si infantilizza con ibambini, o quando uno studente vuole farsi crederesimile agli operai o ai contadini./ Ci sentivamo diversi,e ci mancava inoltre la vocazione di missionari per fareaccettare agli altri la nostra verità. Ma questa nostraverità poteva definirsi solamente confrontandoci conle verità degli altri. Da questo incontro con il diversonoi siamo stati costretti a rivelare, attraverso tuttauna serie di reazioni che ignoravamo prima, qual è ildislivello fra le nostre intenzioni e quel che siamo ingrado di realizzare./ Arrivati in questo paesino delSud, non ci siamo mischiati subito alla popolazione.Siamo vissuti per tre settimane in un totale isola-mento al centro del paese, appoggiandoci a quel cheera il nostro punto più sicuro: il nostro lavoro. Ci al-zavamo alle 5 di mattina, alla stessa ora in cui i con-tadini vanno in campagna a lavorare. Le nostre ore ditraining si tenevano in campi lontani dal paese, de-serti, ma dove eravamo allo scoperto e potevamo es-sere visti. Scorgevamo a volte i visi abbronzati eimpassibili di uomini e donne che osservavano il no-stro lavoro, training fisico e vocale. Ma nonostantetutti gli interrogativi che il nostro sconcertante com-portamento presentava, la popolazione sentiva in essouna logica, una necessità e una disciplina il cui sensole sfuggiva, ma che era consistente, nella sua realtà dilavoro. […] Il nostro soggiorno nel Sud dell’Italia vo-leva essere per noi la dimostrazione che non è lo spet-tacolo – risultato ultimo e limitato nel tempo – cheincide, ma è il gruppo, con il suo comportamento, conla sua visione realizzata in un lavoro che si estende nel-l’intera giornata./ Durante i cinque mesi del nostrosoggiorno a Carpignano il “baratto” ha animato l’in-

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tera regione, e se noi portavamo le nostre canzoni, lenostre danze, le nostre scene grottesche, le nostre pa-rate in un paese, potevamo ricevere in cambio, nellostesso paese, qualcosa del genere; oppure un gruppodi loro poteva venire da noi a Carpignano, o potevaandare in un altro posto, dove un altro gruppo dovevaricambiare, o recarsi a sua volta altrove. Gli ultimi tremesi furono un vivace “baratto” fra contadini, operaie studenti che andavano reciprocamente a presentarsicon quella che era la loro stessa cultura./ Non esistevateatro professionistico. Eppure la situazione teatraleesisteva: un momento che permetteva di aggregarsi,l’accadere di situazioni con persone nuove che colpi-vano e raccoglievano gente intorno a sé./ Un piccologruppo di attori stranieri, apparentemente non afondo in tutti i problemi politici e sociali del posto, di-menticando ogni bel programma di teatro, aveva por-tato alla luce il minerale nascosto nella miniera.// Masi può andare più avanti? Si può trasformare il “ba-ratto” da fenomeno culturale in qualcosa che lascia latraccia nella situazione politica e sociale del posto?/Dopo molte esperienze il “baratto” mi ricordava ilcorpo di un polipo senza tentacoli, un sacchetto chefluttua, che emette materia che colora, che cambia ilcolore delle acque, ma che poi scompare, apparente-mente senza tracce./ Come far nascere tentacoli a que-sto sacchetto, tentacoli capaci di avvicinarsi a unpiccolo pezzo di roccia e staccarlo?/ Fu così che l’annoseguente, nel ’75, ritornando a Carpignano e più tardisulle montagne della Sardegna, tentammo di far cre-scere dei tentacoli che facessero presa e rimanesseroanche dopo la nostra partenza. Non solo chiedevamoil “baratto”, ma chiedevamo al gruppo che ci avevainvitato quale era per loro il problema che, nel paese,avrebbero più voluto risolvere. Le proposte erano mol-teplici e differenti./ Allora, come condizione della no-stra presenza, esigevamo una mobilizzazione non soloper trovare suonatori o gente che cantasse» (pp. 199-201). […] Nell’Italia del Sud, a contatto con le popolazionidel Salento e della Barbagia, potevamo sentire, nelloro quotidiano sopravvivere, i resti di una cultura, diuna tradizione, di una eredità che si sbriciolava lenta-

mente, contagiata dai valori del tempo nuovo» (p.210).

Ista (International School of Theatre Anthropology).Salento 1987. Tradizione dell’attore e identitàdello spettatore. Dialoghi Teatrali (1-14 settembre1987). Si tratta di un Numero Speciale di «Terrad’Otranto» (Rivista Trimestrale della Camera di Com-mercio Industria Artigianato e Agricoltura di Lecce).Nell’editoriale E. B. scrive: «È la seconda volta cheuna sessione pubblica dell’Ista si svolge in Italia. AVolterra, dall’agosto all’ottobre 1981, fu un lavoroquasi monastico, chiuso verso l’esterno. Nel Salento,nel settembre dell’87, sarà un’Ista per le strade e perle piazze. […] L’Ista Salento si propone di vedere davicino cosa accada in tali casi [si riferisce alle situa-zioni del baratto interculturale]. Si tratta di osservarecome il senso dello spettacolo si trasformi nel passag-gio dalla tradizione dell’attore alla “traduzione” per-sonale che ne fa lo spettatore distante da questatradizione» (pp. 17-19).

La canoa di carta (Il Mulino, Bologna 1993). Giànelle prime pagine, E. B. ricorda di quand’era un cre-dente. Scrive: «vi è un bambino in un luogo caldo,pieno di persone che cantano, di odori fragranti, di co-lori vividi. È di fronte ad una statua posta in alto,tutta avvolta in una stoffa violetta. Di colpo, mentrele campane suonano, l’odore d’incenso diventa piùpungente e i canti montano, la stoffa viene tirata giùe appare Cristo risuscitato./ Così si celebrava la Pa-squa a Gallipoli, il paese dell’Italia del Sud dove hotrascorso la mia infanzia […] Credevo di applicare unprocedimento giapponese. Solo ora ho capito questodétour e questo ritorno: è il momento della Vita,quando a Gallipoli cadeva il drappo viola e io vedevo,in una statua, il Cristo risorto» (pp. 11-12 e p. 21).

Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta (Note e mon-taggio fotografico di Lluís Masgrau; Ubulibri, 1996).Nel libro vi sono alcune immagini che mostrano alcunispettacoli dell’Odin Teatret nel Salento. Di E. B.,però, isolo questi testi: «Il secondo periodo è iniziato

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nel 1974, con un lungo soggiorno in un villaggio del-l’Italia del Sud. Ci sembrò normale trasportare il no-stro abituale atteggiamento: lavoro “segreto” ditraining e di preparazione di un nuovo spettacolo, at-tività non orientate verso l’esterno. Ma in quella si-tuazione, in quel villaggio del Sud, il “segreto”generava curiosità. E la curiosità che ci circondava cispinse a chiederci se davvero il segreto era ancora ne-cessario. Scoprimmo che non lo era più» (p. 46).Alla pp. 109-111 e alle pp. 113-121 del libro viene ri-pubblicata l’esperienza del baratto già descritta nellibro Aldilà delle isole galleggianti.«[…] Nell’Italia del Sud, a contatto con le popolazionidel Salento e della Barbagia, potevamo sentire, nelloro quotidiano sopravvivere, i resti di una cultura, diuna tradizione, di una eredità che si sbriciolava lenta-mente, contagiata dai valori del tempo nuovo./ […]Perché pensavo a una Riserva, quando vedevo i vecchiseduti immobili all’ombra, le donne vestite di scuroche passavano cariche e indaffarate, certi giovani congli abiti dai colori vivaci che passeggiavano incessan-temente su e giù per la strada del paese, come animaliin gabbia? […] Una Riserva, così come il governoamericano l’aveva originariamente pensata, era ungrande territorio di esclusiva proprietà degli indiani,da loro amministrato, senza alcuna intromissione daparte dei bianchi. La fame di terra fece rompere tuttii trattati, fino a che il terriotorio indiano si ridusse alimiti così ristretti che “Riserva” divenne sinonimo di“reclusione”, il tentativo subdolo di assimilazione for-zata, di rendere il rosso simile al bianco» (p. 129).«L’esperienza di Carpignano ci ha spiazzato tra mon-tagne di sabbia, domande nuove, situazioni imprevi-ste. Un’altra esperienza è sopravvenuta subito dopo:la prima tornée dell’Odin in Sud America, al festivaldi Caracas» (p. 170).«Il poeta è malato; viene sbarcato a Brindisi e lo por-tano in una lettiga attraverso i monti Appenini fino aNapoli, dove morirà (sto parlando del romanzo diHermann Broch, La morte di Virgilio). Appena scesodalla nave, nel porto di Brindisi, scorge un fanciullodalla pelle scura, con gli occhi luminosi e impertinenti.Gli sembra di riconoscerlo. Poi si rende conto di non

averlo mai visto prima di allora. Eppure è come se loconoscesse intimamente» (p. 252).«Ho spesso parlato del teatro come un corpo emofi-liaco che perde sangue scontrandosi con la realtà; delteatro come un ghetto di libertà, un’isola galleggiante,una fortezza piena di ossigeno; del teatro come unacanoa che rema contro la corrente rimanendo allostesso posto come la terza sponda del fiume; del teatrocome una casa con due porte, una per entrare e un’al-tra per prendere il volo; del teatro come il popolo diun rituale vuoto; del teatro come un vascello di pietracapace di farci viaggiare attraverso l’esperienza del-l’individuo e della storia; del teatro come un muro checi spinge a metterci in punta di piedi per vedere cosac’è aldilà; del teatro come baratto, come potlatch,come spreco, come emigrazione./ Sono delle metaforeche vogliono accennare a un teatro che vale solo se sitrascende, un teatro che cerca il suo valore provandoa liberarsi della sua funzione di teatro./ Ho tentato dispiegare tutto questo parlando di terzo teatro, di unteatro asociale, della via del rifiuto, dell’eredità di noia noi stessi e della necessità di evadere dallo spirito deitempi./ Credo che il senso e il sottotesto di tutti i mieidiscorsi si distilli chiaramente nella storia del conta-dino che seminava leoni e raccoglieva coniglie./ Comemi pongo in relazione col mio tempo? Ho resistito piùdi trent’anni alla sua seduzione mangiando conigli./Soprattutto cucinati arrosto o in umido, con olive eaglio, come si usa al mio paese» (p. 279).Quest’ultima citazione viene riportata qui, perché ri-tengo che, con quel «mio paese», E. B. si riferisca aGallipoli e al Salento, dove effettivamente la carne diconiglio o di lepre viene mangiata in tal modo.

Il prossimo spettacolo (Textus, L’Aquila, 1999. Acura di Mirella Schino). Su questo libro, non più repe-ribile in libreria, mi sono rivolto al prof. FerdinandoTaviani, che me l’ha riprodotto in una forma assolu-tamente unica e di gran pregio, con allegata questalettera: «L’Aquila, 19.11.2011// Caro Maurizio/ Ci homesso un po’ a mandarti la copia del libro, perché vo-levo che riproducesse nella forma e nei colori l’origi-nale: così puoi avere un libro ricostruito dopo essere

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perito sotto il terremoto [6 aprile 2009, ore 3.32, ma-gnitudo 6.3, vittime 309, feriti 1500]. Non una rarità,come sarebbe stato giusto per un bibliofilo, ma – cheforse è meglio – un desiderio, un “vorrei ma nonposso”, l’ipotiposi di un libro che è come se non ci fossepiù. Fra i nomi degli studenti, che han lavorato a que-sto libro ce n’è uno d’una ragazza morta senza sve-gliarsi (pare o si spera) nel crollo della sua casa la nottedel terremoto. Avevo detto a quelli della copisteria dimettere una pagina bianca davanti al frontespizio contutte quelle firme che impudicamente mi chiamano“maestro”. Se ne sono dimenticati. Ma in fondo mi fapiacere, perché fra i nomi degli altri si nasconde quellodella morta. E poi alla scemenza del “maestro” nonfaccio più caso. Sono un professore – di timpano ograncassa – e “maestro” per niente. È un bel libro.Forse il migliore su-con Eugenio e sull’Odin. Allalunga il migliore. Il meno noto. E va bene così. Il saccodi libri che mi hai dato e che non mi è pesato, in realtàmi ha irretito e forse ossessionato nel viaggio in treno,e poi nei giorni scorsi. I salentini selvaggi sei – siete –riusciti a tenerli in vita conservandone le scintille, l’in-comprensibilità e la paura. Pensavo: hanno partoritoCarmelo Bene, che ha aperto la tenda, è usato fuori,s’è presentato all’esterno, a noi – dall’altra parte –sembrava folle e bizzarro. E forse, agli occhi di chil’aveva spiritualmente partorito pareva un geniale ra-gazzo capace di mettere la testa a posto. O meglio ditenerla a posto attraverso le sregolatezze, zavorratadalla saggezza del commercio. I salentini selvaggi sonopropriamente quelli che hanno abbandonato gli or-meggi del commercio? L’arte senza commercio è dun-que follia? Ovvio! Grazie per tutti i libri. Un bacio. Eun abbraccio ad Ada.// Nando».Adesso, però, torniamo ai contenuti del libro vero eproprio e, a proposito dei riferimenti di E. B. a Galli-poli e al Salento, leggo: «Il mio viaggio non è avvenuto all’interno di una solacultura, ma ne ha attraversate almeno tre. Di esse vo-glio parlarvi oggi, e per far questo ho cercato di dareun nome ad ognuna di loro./ La prima è la culturadella fede: un bambino in un luogo caldo, pieno di per-sone che cantano, di odori pungenti, di colori accesi.

C’era un momento, poi, più straordinario di tutti: difronte ai fedeli sta qualcosa, probabilmente è una sta-tua, è tutta avvolta da una stoffa violetta. E a uncerto punto – mentre le campane suonano, l’odored’incenso diventa più intenso, i canti aumentano – lastoffa viene tirata giù e appare Cristo risuscitato./ Cosìa Gallipoli, dove ho trascorso la mia infanzia, si cele-brava la Pasqua. Mi sentivo molto religioso, e uno deimiei grandi piaceri era stare in chiesa, immerso inun’atmosfera piena di canti, di incenso, di donne. Noncapivo bene cosa si stesse celebrando. Non mi interes-sava molto la fede in sé per sé. Mi affascinava, invece,l’attesa di un momento particolare. Come era il mo-mento in cui la statua veniva finalmente svelata. E mipiaceva lo stare insieme, sentirsi uniti, stretti, condi-videndo qualcosa. Ancora posso ritrovare quella sen-sazione di calore nel mio corpo./ Proprio come possoancora risentire nelle ginocchia il dolore che provaiquel giorno che vidi la madre di un mio amico seguireginocchioni la processione di Pasqua. Nella proces-sione del Venerdì santo, la statua del Cristo, con lacroce sulle spalle, si muove a mezzo chilometro di di-stanza da quella dell’Addolorata, che lo chiama dalontano. C’è un effetto straordinario in questa di-stanza, struggente, è separazione e insieme è contattoattraverso il suono, il “lamento” con cui la Madre e ledonne che seguono la sua processione chiamano Cri-sto. L’ho anche usato in uno dei miei spettacoli distrada questo canto, in Anabasi. Le donne che ave-vano avuto una grazia particolare dalla Madonna se-guivano la sua statua ginocchioni./ Così vidi, tra diesse, la madre di un mio amico. Dapprima provai quelsenso d’imbarazzo dei bambini che si trovano di frontea degli adulti che stanno facendo qualcosa che non ènormale, qualcosa di eccessivo. Ma poi ricordo il sensodi dolore, lancinante, che sentii alle ginocchia: la sen-sazione del dolore che si deve provare a camminaresulle ginocchia per centinaia e centinaia di metri./ Perqualche anno ho convissuto con una donna anziana,doveva avere settant’anni circa. Ai miei occhi di bam-bino era vecchissima. Dormivo insieme a lei. Era mianonna. Ogni mattina, alle cinque, mia nonna si alzavae si faceva un caffè fortissimo, lì, nella sua stanza. Mi

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svegliava e me ne dava da bere qualche goccia, Io ri-manevo a letto, e sentivo quanto facesse freddo inquella stanza di un paese del Sud [Gallipoli], doved’inverno non c’era riscaldamento. Ma io ero al caldo,ero con la nonna, in quella stanza un po’ fredda, e lanonna indossava una lunga camicia da notte bianca,ricamata, come una bambina. Andava allo specchio,si scioglieva i capelli e cominciava a pettinarli. Avevacapelli lunghissimi./ Io la guardavo da dietro. Sem-brava una vecchia e sembrava una ragazza. Vedevotutte e due, il corpo da vecchia, secco, avvolto nellacamicia da notte, e il corpo sottile di una bambina ve-stita da prima comunione, di una giovane vestita dasposa. E sopra il bianco c’erano i capelli, lunghissimi,belli, però grigi./ Tutte queste immagini, e le altre chericordo della cultura della fede hanno qualcosa in co-mune. In primo luogo la complementarità e le con-traddizioni. La più chiara è l’immagine della vecchiache ai miei occhi è donna e bambina, i cui capelli sonosensualmente sciolti anche se bianchi. Un’immaginedi civetteria. Eppure bastava guardare un po’ disbieco e lo specchio mi restituiva un volto di donna se-gnato dagli anni./ L’altra cosa che le accomuna è lamemoria fisica: il dolore alle ginocchia vedendo lamadre del mio amico, la sensazione del tepore del lettodal quale spiavo mia nonna pettinarsi./ Il viaggio inquesta cultura è stato bello, punteggiato da doloriprofondi. Vi ho vissuto un’esperienza estrema: hovisto morire una persona, una persona estremamentecara, mio padre. Ho assistito alla sua lenta agonia, chesi protraeva nella notte, e la stanchezza mi ha fattopassare dal dolore e dal terrore alla insofferenza, alsenso di scomodità. Alla fine la stanchezza era tale chelì, in piedi, vicino al capezzale, mi sono messo a pre-gare perché morisse presto, ed io potessi riposare. Dinuovo gli opposti si congiungevano. Stava per scom-parire una delle persone cui ero più legato, lo sapevo,me ne ero reso conto dal viso e dal comportamentodegli adulti, anche se non mi avevano detto niente, os-servavo il passaggio da una realtà ad un’altra, contutta la sua irrevocabilità. E in me scoprivo impulsi ereazioni che non mi sarei mai immaginato. Ecco: il de-siderio di veder morire al più presto il proprio padre

(pp. 52-53). […] In tutti i miei spettacoli c’è un attore che ad uncerto punto abbandona le sue vesti e appare sottoaltre spoglie. Avevo sempre creduto che fosse un colpodi scena ripreso dal teatro giapponese. Nel Kabuki ilmomento in cui un attore, aiutato da due inservienti“invisibili”, si spoglia per apparire con un altro co-stume ha un nome preciso: hikinuki. In tutti i mieispettacoli c’è un momento simile a questo. Ora ho ca-pito da dove mi veniva: era il momento della resurre-zione, quando a Gallipoli vedevo cadere il manto violae compariva la statua del Cristo risorto» (p. 56).

Viaggi con Odin Teatret (Ubulibri, 2000). Questo èun libro di fotografie di Toni D’Urso e testi di E. B. Sitratta di immagini relative agli spettacoli dell’Odinche vanno da Min Fars Hus (1972) a Mithos (1998).Non ci sono riferimenti di E. B. a Gallipoli e al Sa-lento, salvo alcune foto che si riferiscono agli spetta-coli dell’Odin a Carpignano Salentino.

La terra di cenere e diamanti. Il mio apprendi-stato in Polonia, seguito da 26 lettere di JerzyGrotowski a Eugenio Barba (Ubulibri, 2004):«“Lutto” è il termine che associo agli attori di Gro-towski. Penso a mia madre che ha perso il marito a 33anni; poteva ridere, divertirsi, parlare o flirtare conaltri uomini. Ma nella zona più oscura del cuore, si an-nidava la consapevolezza di una perdita insostituibile,il ricordo di un fulmine che ti ha colpito facendoti so-pravvivere, ma trasformando in cenere la casa in cuisei cresciuto» (p. 33).

***Ecco. Questi sono i libri che finora ho letto di E. B.Certo non mi sono soffermato solo a leggere quantoegli ha scritto della sua esperienza relativamente aGallipoli (mia adorata città adottiva) e al Salento, per-ché, com’è ovvio, ho letto anche tutto il resto, neces-sariamente utile alla mia formazione teatrologica. Mail suo richiamo alla terra natia, quella sua “sofferta”nostalgia, francamente mi ha fatto pensare molto.Tuttora continuo a pensare. Ecco allora il perché delmiracolo che mi accade ogni qual volta egli torna nella

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sua e nostra terra, che tutti ci ha visti nascere. Il mira-colo sta nella lettura dei giornali, attraverso i qualivengo a sapere che egli si trova in Salento assieme al-l’Odin Teatret per proporre un nuovo spettacolo. Alloracorro subito a comprare due biglietti (per me e per miamoglie Ada) di accesso ai Cantieri Teatrali Koreja. Solouna volta non ho acquistato il biglietto: quella in cui ilregista dell’Odin mi invitava a vedere, sempre nei Can-tieri Koreja, il suo spettacolo Ave Maria. La Morte sisente sola. Cerimonia per l’attrice Maria Cánepa,. Era il13 novembre 2011, domenica mattina (h. 11.00). Pensaisi trattasse di una visione per diversi addetti ai lavori,ai quali E. B. voleva che ci fossi anch’io per un motivoche tuttora mi resta ignoto. Invece, seduti, uno accantoall’altro, c’erano solo cinque attori dell’Odin, io e, ac-canto a me, il prof. Ferdinando Taviani. Interprete delleTre Marie: Julia Varley. Di questo spettacolo E. B. ha scritto: «María Cánepa èstata la più grande attrice cilena di teatro tradizionaletra il 1950 e il 2005. Fu maestra di molti attori e registi,amica di Pablo Neruda e Salvador Allende. Durante ladittatura di Pinochet insegnava dizione nei quartieripopolari della periferia alle donne i cui mariti erano inprigione. Le voleva preparare a prendere la parola efare discorsi nelle assemblee. Ospitò l’attrice Julia Var-ley nella sua casa quando l’Odin visitò il Cile nel 1988con uno spettacolo che fu presentato nelle chiese,l’unico luogo dove gli sbirri della dittatura non osavanoentrare. Molte volte Maria e Julia si sono rincontrate ehanno anche lavorato insieme. Alla sua morte Julia havoluto ricordare la luminosa personalità della suaamica cilena».Oggi è per me impossibile dimenticare la visione di que-sto spettacolo. Il dramma vissuto quella domenica mat-tina è incancellabile. In esso, inconsapevolmente alleintenzioni del regista, c’era anche il racconto di miamadre, una povera donna contadina, che del mondo co-nosceva solo la sua casa, la strada dove essa era ubicatae il campo dove lei raccoglieva capperi.

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Eugenio Barba e un gruppo di allievi attori a Siviglia nel 2004

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Iben Nagel Rasmussen ed Eugenio Barba nel 1974 a Carpignano Salentino in una fotografia di Tony D'Urso

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Il baratto culturaledell’Odin Teatret

Nel 1973 Ferdinando Taviani, giovanedocente di storia del teatro all'Univer-sità di Lecce, invita Eugenio Barba,un regista di origini salentine che si vaimponendo all'attenzione internazio-nale, a tenere dei seminari ai suoi stu-

denti sullo spettacolo Min far hus (La casa del padre).Barba, che era lontano dal Salento da molto tempo,rimane colpito da una terra che, pur essendo senzateatro, ha una straordinaria, implicita energia rappre-sentativa della propria identità. Suggestionato dal-l'impatto avuto si ripropone di individuare un postosufficientemente remoto, ma anche tramato di segnirivenienti da molteplici stratificazioni temporali. Lascelta cade su Carpignano Salentino, un paese perlo-più agricolo, circa duemila abitanti, caratterizzato dauna forte emigrazione, con un centro storico bellis-simo e la campagna coltivata a viti, olivi e tabacco.Tornato tra gli attori della sua compagnia, decide diproporre loro una permanenza di alcuni mesi, in unposto lontano, al sud, dove avere la tranquillità di pre-parare il nuovo spettacolo.L'Odin Teatret arriva a Carpignano nel maggio del1974 e comincia il suo lavoro. Ma non può non notareche per la comunità è abbastanza difficile compren-dere cosa facciano queste persone venute da chissàdove, più che diffidente è ansiosa di capire. Come puòrapportarsi al teatro questa comunità che ha potutofare a meno per secoli del teatro, almeno quello uffi-ciale? Poiché, a guardar bene, nella sua vita, di tea-tralità diffusa ve n'è tanta, nei gesti, negli scambidialogici, nelle occasioni festive… Bisogna creare uncortocircuito fra il teatro dei professionisti e quello, ingran parte inconsapevole, degli abitanti del luogo. Eil cortocircuito è costituito da un evento, che vien

fuori dalla mente di Jan Torp, il quale pensa bene diproporre agli abitanti uno spettacolo di clown.Uno dei principi della professionalità è che chi fruiscedei servizi del professionista li debba pagare. È unprincipio al quale l'Odin non intende rinunciare, purcomprendendo che non è affatto facile chiedere e ot-tenere del denaro dai contadini che duramente, lavo-rando nei campi, guadagnano il necessario per vivere.E allora Barba pensa bene di proporre un baratto: ilteatro dei professionisti verso la performatività degliabitanti del luogo. È così che nasce una delle intui-zioni più feconde dell'Odin Teatret, il “baratto cultu-rale”, che da quel momento in poi darà una curvaturasociale alle sue azioni teatrali.Questo scambio non si limita alla serata dello spetta-colo di clown, continua nei giorni successivi e si arric-chisce. La popolazione potrà assistere a momenti ditraining spettacolarizzato (l'Odin Teatret fino a quelmomento è stato estremamente riservato rispetto allefasi preparatorie dello spettacolo), gli attori sono in-vitati a prendere parte a momenti conviviali, general-mente caratterizzati da abbondanti libagioni. Unasera a qualcuno viene l'idea di metter su una festa inonore degli ospiti. Da quel germe, nutrito da altrispunti e suggestioni (le idee funzionano così, si richia-mano vicendevolmente) nascerà la Festa te lu mieru,un recupero inconsapevole di antichi omaggi bacchici.Dirà Iben Nagel Rasmussen, in un suo libro (ci rife-riamo a Il cavallo cieco, edito da Bulzoni): «Il sog-giorno in Italia, che doveva essere dedicato allapreparazione di un nuovo spettacolo ci porta a espe-rienze che assorbiremo nel più profondo di noi, dellequali ci serviremo negli anni a venire…».L'idea della Summer School di Arti performative eCommunity Care nasce dall'iniziativa di un gruppo di

di Salvatore Colazzo

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L’Odin a Carpignano Salentino nel 1974 in una fotografia di Tony D'UrsoSotto un antica mappa di Carpignano

giovani, associatisi in Officine Culturali, i quali hannodeciso di conoscere meglio la storia della presenza del-l'Odin Teatret nel 1974 a Carpignano Salentino, ma so-prattutto di far diventare il principio del barattoculturale generativo di attivazione sociale, opportunitàdi empowerment comunitario.Per tale ragione essi hanno deciso di affidare all'Uni-versità del Salento la loro idea, affinché possa contri-buire a metterla in movimento, facendo di CarpignanoSalentino la memoria attiva del baratto culturale, por-tando nuovamente, ogni anno a rendere possibile l'in-contro tra le arti performative e il desiderio di unacomunità di trascendere i propri limiti.

(Aprile 2012)

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L’Ave Mariadella morte

Silenzio.Squillo di tromba.Silenzio.Entra la Morte.

Il grande libro dei sognis’è aperto sulla linea della vita:vede la Signora in neroentrare dalla porta del teatro:elegantissimaalta ieraticaun lungo frak nero il passo felpatol’andatura coreutica:lo spettro striscia sulle pareti della salai piedi levitano da un pavimento nero d’asfaltoil teschio s’illumina di un bagliore borealee le mani danzano il rito della possessione.

La Dama in nero ha in mano una grande sporta:lentamentes’avvicina al tavolo parato a festacon la musica che l’accompagna quando lestamente apre il bagaglio dell’aldilàe tira fuoriuna piccola bara.

Al filo della vita ha già stesoi nostri poveri cenci di spettatori inertie

- incredulila vediamo scoperchiare la crosta della terra:tirare fuori un Bambinellocullarlo tra le bracciapoi su un’amaca del cielocantargli una nenia ancestrale.

Danza la Morte danzastirando i panni della scena di uno spettacolo mai visto finora: evoca l’attrice delle Ande cilene: Mariainterprete eroica di una Grande Storiache non ha bisogno di essere rappresentatané raccontataperché è quella delle Marie d’ogni tempoe di tutte le Madri di ogni cosa.

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Poi- ninfa cristallina

come per incantola Signora in nero si trasforma in Dama in rossocol volto velato color amarantoe danza al ritmo di una musica d’oltreoceano, musica di poeti, attrici, cantanti, eroi e antieroi, navigantieppure teatranti.

L’anima dello spettatoresgomentarapita nella trappola del ragnoche tesse la tela della vita:sa di essere messo alla prova

- durissimadel giudizio diversale:il regista delle Marie di ogni tempo

- figlio dolorante di un Padre non vissuto

rievoca il Principio e la Fine della storiaconsegnando allo scheletro delle mani della Dama una mini pistola femminile:

La Morte domina la scena.La Madre vince la Morte.

La Signora in rossogià Dama in nerocontinua a danzare su ritmi ancora più incessantiascolta dall’aldilà la voce di Maria soave lettrice dei versi amorosi di Nerudaquando

- incredibilmente nella solennità di una marcia funebrerimbomba un silenzio di tombaanchilosando la nostra desolante infanzia salentinacosì avviandosi

- novella crisalide danese a trasformarsi nello spettro che era sempre stato.

Ora il teschio è sempre quello

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quello della Mortema l’abitonon è più l’elegantissimo frak neroneppure quello rosso gitano della festa:la nuova ninfas’è trasformata in Dama bianchissimafantasma evanescente della Maria col Bambinello avvolta dal motivo dell’Ave Maria

- intanto cheil silenzio domina la scena accecantecoi nostri poveri occhi rigati ormai a nuvole temporaleschementre il filo della vita si srotola inesorabilmente.

Maria la Madonnava aldilà delle quintein una mano tiene il legno del Bambinello snodabile

- nell’altraun balocco variopintodi un cavallino burattino.

Silenzio.Questa volta squillo di tromba.Esce la Vita.

Maurizio NoceraLecce, 13 novembre 2011, h. 17.

[Dopo aver visto (h. 11) ai Cantieri Teatrali Koreja lo spettacolo dell’Odin Teatret, Ave Maria. La Morte si sentesola. Cerimonia per l’attrice Maria Cánepa, alla presenza del regista Eugenio Barba, dei suoi cinque attori e delcritico teatrale Nando Taviani. Interprete delle Tre Marie: Julia Varley. Alla prima italiana dello spettacolo a Bo-logna, il giornalista Massimo Marino, nell’ambito di una più corposa intervista, chiese a E. B.: «Chi era MaríaCánepa, l’attrice cui è dedicato questo lavoro?».Risposta del regista: «La più grande attrice cilena di teatro tradizionale tra il 1950 e il 2005. Fu maestra di moltiattori e registi, amica di Pablo Neruda e Salvador Allende. Durante la dittatura di Pinochet insegnava dizione neiquartieri popolari della periferia alle donne i cui mariti erano in prigione. Le voleva preparare a prendere la parolae fare discorsi nelle assemblee. Ospitò l’attrice Julia Varley nella sua casa quando l’Odin visitò il Cile nel 1988 conuno spettacolo che fu presentato nelle chiese, l’unico luogo dove gli sbirri della dittatura non osavano entrare. Moltevolte Maria e Julia si sono rincontrate e hanno anche lavorato insieme. Alla sua morte Julia ha voluto ricordare laluminosa personalità della sua amica cilena»].

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Jerzy Grotowski e Eugenio Barba nel 1971 a Holstebro in una fotografia di Roald Pay

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Come accaddeche un capello bianco finì tra le pagine d’un libro scritto dal regista dell’Odin teatret*

Avolte accadono eventi imprevisti; e laloro extra-ordinarietà ci fa amare an-cora di più la vita. Qualche settimanafa, mi giunge dalla Danimarca un plico,che ovviamente scarto subito, perchéimmediatamente riconosco la mano del

suo mittente: Eugenio Barba. Nel plico c’è infilato un altro plico ben confezionato eaffrancato, ma con evidenziate le barrette postali di«sconosciuto». L’indirizzo al quale era stato spedito eraquello di qualche anno fa, ormai non più in uso. Ri-scarto anche il secondo plico e trovo il dono più bello diquesta prima parte del 2010: l’ultimo libro di EugenioBarba, Bruciare la casa. (Origini di un regista) (Ubuli-bri, Rozzano 2009). Il volume è stato pubblicato nella prima metà del 2009(maggio) ed io, come sempre faccio con i libri di Euge-nio, non appena pubblicati, me li vado a comprare su-bito. Mi interessa seguire e capire il suo percorso diautore di teatro. E poi egli è fratello di Ernesto (Brin-disi, 27 aprile 1934 – 27 aprile 1994), il poeta inquietoe caro che tuttora riempie buona parte dei pensieri dellamia giornata. La mattina che avevo deciso di recarmi in libreria perordinare Bruciare la casa, mi era giunta una mail daHolstebro, con l’annuncio che questa volta non dovevoacquistare il libro, perché il regista me l’avrebbe speditolui. Capivo il perché della differenza: fra noi c’era statoun discorrere epistolare su un suo testo a me moltocaro, che tengo sempre a portata di mano per una let-

tura d’emergenza. Si tratta de La casa del padre, cheEugenio allestì come quarto spettacolo nel 1972. InBruciare la casa, il regista scrive abbondantemente diquella sua memoria nel capitolo Non testo ma contesto(pp. 148-156).

I libri di Eugenio Barba, eccetto qualcuno (avrò mododi parlarne in altra occasione), hanno una veste abba-stanza sobria, senza alcuna pretensione, risultato que-sto ottenuto non solo dall’editore ma anche colcontributo dello stesso autore. Osservando la veste ti-pografica, potremmo dire «libri come tanti altri». Bru-ciare la casa, formato in-8°, ha la copertina colormagenta con sullo sfondo alcune impronte di mani ca-vernicole (quelle ottenute con il soffio della calce sul-l’arto, tipiche delle grotte e degli anfratti sottorocciadell’Australia aborigena o della Patagonia neolitica).Nella prima di copertina, c’è l’immagine, anch’essa inmagenta, del regista con il suo tipico atteggiamento:braccia allargate e mani sui fianchi, il viso volto al sor-riso. Nella quarta, invece, le ragioni del testo, utili daconoscere: «Quasi mezzo secolo dopo aver fondato l’Odin Teatret,lasciandosi alle spalle, con un modo diverso di fare tea-tro, una serie di spettacoli leggendari, l’ansia di un ab-braccio fra tradizioni sceniche di più continenti, maanche una preziosa quantità di scritti teorici, EugenioBarba fa il punto della sua vita di creatore in un’operaesemplare di grande importanza storica. In Bruciare lacasa (Origini di un regista) il Maestro distilla la sua

Eugenio Barba, Bruciare la casa. Origini di un regista Ubu Libri

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Eugenio Barba con Julia Varley a Holstebro nel 2009

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lunga esperienza operativa cominciando dai balbettiidegli inizi per consegnarla a chi cerca un proprio teatroda fare, da immaginare, da sognare forse, teso a supe-rare lo scontento nei riguardi dello spirito del tempo, elo fa senza mai allontanarsi dalla concretezza dell’arti-gianato, quello di una drammaturgia che coinvolge l’in-treccio delle azioni e dell’organizzazione fondendosi conla regia per arrivare a parlare in modo diretto e perso-nale a ogni spettatore, in modo che ciascuno di loro rie-sca a vivere un suo spettacolo diverso. Dialogando coni grandi maestri scomparsi, parlando a volte al passatodi sé come regista, l’autore appare deciso a non nascon-dere nessuno dei suoi tormenti al lettore, al quale con-segna la propria esperienza senza veli, in modo chequesta sua opera sconfini agilmente dal trattato scien-tifico al romanzo autobiografico, dalla morte del padreal suo ingresso alla scuola militare negli anni ’40, dal-l’arrivo in Svezia in autostop all’esperienza di marinaio,dall’infanzia a Gallipoli all’incontro con Grotowscki,partendo dal ricordo di quando da piccolo sognava “lospettacolo che finisce con l’incendio”».

Bruciare la casa si apre con l’incanto della dedica del re-gista, scritta nel febbraio 2010, cioè in quel tempo incui egli ha pensato al libro come un dono e chi qui scriveinvece, lo riceve solo qualche settimana fa. Nel prologo,spiega la storia dell’incendio: «Per anni ho immaginato “lo spettacolo che finisce conl’incendio. Conoscevo a menadito le diverse scene, nemodificavo mentalmente l’ordine, limavo i dettagli. Emi rallegravo immaginando l’immancabile gran fuocofinale./ L’incendio però non poteva essere un artificioscenografico. Doveva essere un fuoco vero, e un realespavento. Per questo lo spettacolo era irrealizzabile:non potevo correre il rischio di bruciare il teatro e lepersone che ci stavano dentro. Ma il progetto mi si eraormai conficcato in mente» (p. 9).Com’è ovvio si tratta di uno spettacolo impossibile arealizzarsi. Come si fa a bruciare tutto? Eppure è que-sta l’idea che il regista dell’Odin ha nella mente. Bru-ciare. Mettere a fuoco una casa o la Casa. Ma quale?Non certo quella nella quale, da 50 anni vive a Holste-bro. Infatti scrive: «So che non brucerei mai, neppure metaforicamente,la casa mia e dei miei compagni, l’Odin Teatret» (p. 10). E dunque, quale casa? Mi viene un sospetto, ma devoverificare. Conosco il regista, ovviamente solo episodi-

camente e per via di un evento di una parentela acqui-sita (Gallipoli e la famiglia Barba) agli inizi degli anni’70. Le nostre strade si erano incontrate allora ancheper via della mia frequentazione a Roma della signoraVera Gaeta Barba – sua madre, che mi aveva aiutatoin una ricerca sul Risorgimento italiano con delle cartedell’Ottocento riguardanti Garibaldi e il patriota galli-polino Emanuele Barba, suo bisnonno – e l’amiciziacon suo fratello Ernesto; poi le nostre strade si eranoseparate a Copertino, quella volta che Eugenio venneper un suo evento e che, inspiegabilmente, si dimostròmolto duro nei miei confronti tanto da neanche salu-tarmi. Avevo torto io? Forse che sì! Con suo fratello, in-vece, l’empatia non s’interruppe mai, neanche per unsolo momento: Ernesto era il mio grande amico vaga-bondo, la cui vita è stata per me riferimento poetico,per decenni corrispondente versatile dai più disparatiangoli del pianeta. A lui, contro il parere di tutti, perchéteneva tatuata sul braccio sinistro una rosa con al cen-tro una svastica, ho dedicato uno dei libri a me più cari(Ernesto, figlio del Sole; Gallipoli 2007).Non dico una stramberia se, prima di sapere dell’esi-stenza del regista dell’Odin, di teatro io sapevo solo quelche tutti i comuni spettatori di palcoscenici sanno, equesto nonostante studiassi già i libri e il teatro diEduardo De Filippo, Dario Fo e Carmelo Bene. Per cui,ascoltando spesso nella casa dei Barba di Gallipoli dellasua mitica vita dedicata tutta al mondo del teatro, misono messo un po’ a studiare e a capire i suoi movi-menti, senza nessuna pretesa e senza nessun tentativodi avvicinarlo. La mia esigenza era solo inchiodata allavoglia di sapere di più della scrittura e del teatro delgallipolino emigrato nei paesi del Nord Europa. Ecco,su questo si basava la mia prima curiosità. Per cui, cosìcome mi accadeva di interessarmi dei testi poetici di suofratello Ernesto, ho cominciato a leggere anche i suoilibri e i suoi testi sul teatro. Ed ora, eccomi qui, con tra le mani e sotto gli occhi illibro Bruciare la casa appunto.Leggendo le prime pagine, mi sono chiesto che cosafrullasse nella mente del regista, che immaginavoaperta come un fiore sbocciato a primavera, quindi li-bera da condizionamenti. Conoscendo la storia deiBarba di Gallipoli, in particolare quella dell’illustreEmanuele (1818-1887), umanista e patriota del XIXsecolo, mi sono chiesto: Ma il regista dell’Odin qualecasa vuole bruciare? Forse la casa della memoria? La

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Eugenio Barba in una fotografia di Fiora Bemporad a Bologna nel 1990 per Theatrum Mundi con lui Torgeir Wethal

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casa in cui è conservato un particolare passato, quelloche magari egli vorrebbe dimenticare, e tuttavia nonriuscito a rimuovere? Leggo un’altra pagina e scopro che per lui «il passato vive nel presente e, ormai adulto e saggio,posso ancora essere il bambino che fantasticava ai piedidi una tomba. Mi nutro ancora di quelle zone di silenzioche l’abbandono della mia cultura ha schiuso in me.Agisco, parlo e scrivo senza sosta, ancorato all’imme-diatezza dell’artigianato teatrale. Aspetto. L’attesa è ilpresente del futuro. In questo paesaggio a venire, il tea-tro è il cammino che mi rende degno di tornare all’in-fanzia e di inoltrarmi nel tempo con l’illusione di sparirenella leggenda» (p. 147).Parole gonfie di malinconia, di nostalgia anche: «il bambino che fantastica ai piedi di una tomba» è il fanciullo Eugenio che corre nella notte alla ricercadi un medico per il padre morente; e la tomba è quelladei suoi avi, in particolare quella di suo padre, Ema-nuele (Neli) Barba, collocata in uno spazio monumen-tale a destra di come si entra nel cimitero della cittàionica.Constato, ma è anche abbastanza ovvio (in fondo loscrive egli stesso), che il regista dell’Odin non intendebruciare nulla di quanto fatto da lui e dagli attori del-l’Odin in 50 anni di teatro, tuttavia precisa che egli nonha scritto Bruciare la casa per trasmettere un qualcosa,che non ha alcuna intenzione di convincere nessuno conle parole e che non vuole insegnare alcunché; semplice-mente scrive per restituire, perché egli, nella vita delteatro, ha ricevuto molto. Ha ricevuto, soprattutto daveri maestri, «la maggior parte [dei quali] era già morta» quando egli venne al mondo. Il regista, in particolarequesto regista di nome Eugenio Barba, silenzioso sullascena come una sfinge e rigoroso con se stesso più checon gli altri (per tutta la vita da adulto si è imposto dicalzare dei semplici sandali, lasciando scoperti i piedial freddo, come nel Duecento se l’era imposto ancheFrancesco d’Assisi), scrive di sentire il libro Bruciare lacasa («innegabilmente soggettivo») come un dovere,perché lui è «semplicemente in debito. E non [vuole] andar[s]enelasciando[s]i dietro dei debiti» (p. 11). Sa di dolore questa sua affermazione, questo suo nonvolere andare via da questo mondo lasciandosi dietrodei debiti. Io so però che egli non ha debiti morali con

nessuno. Lo so per via della mia lunga frequentazionecon la signora Vera Gaeta Barba (sua madre). Non ècolpa sua né di nessun altro al mondo se le storie di vitadi ognuno di noi vanno per il loro verso, che è quello“naturale” alla specie. Tuttavia la sua è un’affermazione lapidaria, che lasciail segno, incidendola nell’inconscio di chi lo conosce.Solo nei temerari (da adolescente, il regista praticavalo scoutismo nella pineta di Gallipoli) riconosco la forzadi chiamare il pane pane e il vino vino. Egli quindi nonha paura di scrivere quello che gli rode dentro e di farlosapere ai quattro angoli del pianeta. Non ha paura! Ecome potrebbe? Non per niente è stato pure mozzo dinave nella tempesta. Dei suoi silenzi, della sua perseve-ranza a tacere quando è tempo di tacere, ne sanno qual-cosa chi lo conosce e lo frequenta. Ovviamente, la colpanon è mai di chi naviga per oceani di acque e di nevi,ma di chi è rimasto aggrappato allo scoglio della ton-nara. Fondamentalmente Bruciare la casa è un libro di teoria(il termine al regista non pare adatto) del teatro ma,allo stesso tempo, è autobiografico, perfino nello stessocoinvolgimento degli attori dell’Odin. In esso sono leg-gibili spaccati di vita non casuali, anche se, beninteso,non cercati a tutti i costi; è leggibile un rapporto con lecose e le vicende umane che, quasi sempre, stupisce illettore, che scrive: «Sono sicuro che ci saranno sempre spettatori che cer-cheranno nel teatro l’esposizione indiretta di ferite si-mili a quelle da cui loro stessi si sentono lacerati, o chesono solo apparentemente rimarginate, ma oscura-mente bisognose di riaprirsi./ Immagino che costorosentiranno, in queste pagine, un’aria di casa. Un odoredi bruciaticcio. Come lo sentii io in Polonia, quando eropoco più di un ragazzo dall’ambizione di diventare re-gista. Volevo cambiare la società attraverso il teatro. Inrealtà ero guidato da esplosive insofferenze, da vogliadi gioia e volontà di impormi, dal bisogno irrefrenabilee potenzialmente autodistruttivo di sfuggire dal miopassato» (p. 13).Ecco, che si ripresenta la fatidica parola: il passato. Ilregista scrive: «Il mio passato». Ma per lui cos’è il passato? E forse anch’esso una casa?Magari la Casa della memoria? Ed è forse questa casadel passato o della memoria che il regista vuole bru-ciare?

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Bruciare la casa non è un solo libro, ma più libri. E si-curamente, di primo acchito, chi vuole leggerlo conl’idea di conoscere il regista, individua immediatamentedifferenti registri. In indice c’è un prologo, un’introdu-zione, quattro intermezzi [primo (pp. 41-90); secondo(pp. 93-185); terzo (pp. 189-231), quarto (pp. 235-244)];due altri capitoli, un epilogo ed una chiusa a mo’ di rin-vio. L’autore, per rimarcare la differenza, ha costruitoi testi in due tempi: il primo, propriamente autobiogra-fico, è scritto in corsivo; il secondo, quello che si riferiscealla teoria e alla pratica teatrale, è scritto con caratteretondo normale. Raramente, qua e là, e di tanto intanto, si può incorrere anche nella lettura di qualchepagina, dove le parti si mescolano in un intreccio co-munque sempre armonico. Come quando, ad esempio,descrive il rapporto avuto o che continua ad avere colsuo lavoro, laddove a scrivere le pagine del diario sonogli attori e le attrici dell’Odin. Scrive: «Ancora oggi, dopo quasi cinquant’anni, sono affasci-nato dal mio lavoro, dal silenzio e dalla concentrazionedelle prove, dalla meticolosità del processo e dalle mi-nuscole scintille che ne scaturiscono. Eppure, all’ideadi varare un nuovo spettacolo, provo insofferenza, quasiripugnanza. È come se avessi perso il senso della vettae noto solo la presenza del vuoto, di un buco nero senzafondo./ Ho sempre pensato a questa mia reazione di fa-scino e ripugnanza in termini femminili. Mi sento comeuna donna che desidera un bambino, ma si oppone allagravidanza, alla deformazione del corpo, alla lunga at-tesa, alla nausea./ Le prime ore, i primi giorni, le primesettimane di prove sono insopportabili. Le tante tramee storie che sogno di materializzare lampeggiano nelcervello; immagini, testi o semplici parole sono solosegni sulla carta, idee suggestive, pensieri astratti. Mitormento sui modi di trasformarli in carne e sangue, inun corpo vivente con un sistema nervoso, uno scheletro,un’epidermide, delle reazioni di riso, compassione e spa-vento. Mi affanno a estrarre dalla storia le sue dirama-zioni nascoste, me le rivolto nella testa, mi chiedoangustiato come trasformare situazioni generalizzatein grappoli di azioni e reazioni particolareggiate./ Lacarne è tenera, si sfalda. Nel nostro mestiere, l’aggre-gazione delle cellule non è una legge naturale. In teatronon vige la forza della coesione, ma una spossatezzacentrifuga che polverizza le nostre energie» (p. 106).

Ora, finalmente, mi è chiaro cosa per il regista è il la-

voro, il teatro, la costruzione di uno spettacolo, saperfare il proprio mestiere: «Essere padrone del mio mestiere significava innanzi-tutto saper preparare la tempesta che mi avrebbe sgo-mentato» (p. 116). L’importanza del lavoro per il regista, la capiamo tut-t’intera leggendo la testimonianza dell’attrice (a suavolta, divenuta poi anche regista) dell’Odin, Julia Var-ley, che scrive: «Come attrice, riconosco in Eugenio tre capacità fon-damentali: è un regista “animale”; si porta dietro unvastissimo bagaglio di letture e conoscenze; è in gradodi identificare spunti e tematiche che emergono dallenecessità personali e da quelle del gruppo. […] La bi-blioteca incorporata – credo – sia un regalo della suacuriosità, velocità di lettura e memoria» (p. 109).L’importanza della regia teatrale è per Eugenio Barbaun motivo di attenzione permanente. Lo conferma eglistesso nell’introduzione al libro, quando dà la sua defi-nizione di regista: «In alcuni contesti il regista è la persona che cura larappresentazione critico-estetica di un testo, in altricolui che ìdea e compone uno spettacolo da niente. Inalcuni casi è un artista che insegue una propria imma-gine di teatro, realizzandola in diversi spettacoli concollaboratori che variano; in altri è un buon professio-nista in grado di armonizzare gli eterogenei elementidello spettacolo. Vi sono ambienti dove il regista è unartista errante, in cerca di compagnie da governareprovvisoriamente; ve ne sono altri in cui lavora stabil-mente ed esclusivamente in un gruppo di cui spesso è illeader e anche responsabile per la formazione degli at-tori. Molti considerano il regista un esperto coordina-tore. Altri lo identificano con il vero autore dellospettacolo, il primo spettatore che ha anche l’ultimaparola in ogni decisione./ Oggi, per me, il regista è piut-tosto il conoscitore della realtà subatomica del teatro,un uomo o una donna che sperimenta i modi di “sov-vertire” i legami ovvi tra le diverse componenti di unaspettacolo» (p. 18).C’è poco da aggiungere a questa sua definizione, e poi,chi oggi, conosciuta l’esperienza teatrale di EugenioBarba, può aggiungere altro? Sarà opportuno aspettarealtri tempi, altri luoghi per saperne di più. Anche sullafunzione del teatro nella società che viviamo, il registadimostra di avere idee che ha a lungo riflettuto: «il teatro […] non possiede più una voce capace di rag-

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giungere le orecchie d’una intera città. Non spaventapiù nessuno, come possibile nemico del potere e dellamoralità pubblica. E nessuno può più ragionevolmentesperare nella sua efficacia come lievito per un muta-mento della mentalità» (p. 19). Anche in questo caso, ci vuole un bel po’ di coraggioper affermare ciò. A leggere così com’è tale afferma-zione viene da pensare che fare teatro oggi può signifi-care fare solo metateatro, un teatro cioè che si fa al dilà delle scene e che quindi parla solo a se stesso. Recen-temente Giorgio Albertazzi, per altri versanti e per unaltro tipo di teatro, l’ha definito “teatro masturbation”,cioè un tipo di teatro utile solo a chi lo fa. Lontano millemiglia da quel tipo di teatro è quello del regista del-l’Odin, per il quale le spettacolarizzazioni sperimentatefinora, almeno quelle alle quali ho assistito io, sono talida inchiodarti alla sedia per un’intera serata, e poi,quando le luci della scena si sono spente, e tu te torni acasa, senti dentro che quanto hai appena visto ti ha la-sciato un qualcosa che, nell’immediato, non riesci a ca-pire ma, al contempo, quel qualcosa ha generato nellatua mente una rivoluzione, un appiccare “fuoco allaprateria”, che brucia tutto quel che ha davanti la-sciando solo un profondo solco nella memoria di chi èstato testimone. Bruciare la casa vuole dire bruciare lamemoria? Bruciare forse la memoria che si ha di unadeterminata Casa?Quando questo tipo di fenomeno psichico accade, signi-fica allora che quello spettacolo, visto in quel partico-lare teatro, ha segnato una traccia, all’inizioapparentemente impercettibile, come d’altronde sonosempre le tracce alla loro origine, ma poi, come accadeal lento scorrere di una linea d’acqua di superficie, latraccia comincia a scavare il terreno, e con il continuoscavare forma il grande letto di quello che poi diverràil fiume. Questo è quanto accade pure con il teatro diBarba, con la lettura per testi e immagini del raccontodella sua vita, segnata dalla forte volontà di procederesul tracciato di una strada difficile, a volte tempestosa,altre tranquilla, ma sempre spettacolarizzata con in-tima onestà intellettuale sulla pedana che sta al centrodel suo teatro, dove attori e attrici entrano in scena nonper mettersi in mostra, ma per faticare duramente perriuscire a rappresentare al meglio la dimensione deltesto della memoria raccontata o scritta. Al primo im-patto, gli spettacoli dell’Odin non sempre si lasciano fa-cilmente comprendere, soprattutto quando lo

spettatore non ha ancora letto il testo base. Spesso egli,davanti alle incredibili scene create da Barba, si sentecome uno straniero in terra sconosciuta e pensa chequesta sua condizione di spaesato sia la conseguenzadel fare del regista, che così viene pensato come un in-compreso. Nella storia del teatro del Novecento nonsono pochi i registi incompresi, soprattutto quando laloro proposta teatrale si è rivelata essere rivoluzionaria.Così è stato per Eduardo De Filippo, Bertolt Brecht,Antonin Artaut, Dario Fo, Carmelo Bene, altri ancora,i quali hanno sperimentato sulla propria pelle l’atroceindifferenza del perbenista che guarda la scena dal bucodella serratura. Sulla pedana del teatro, rovesciando la situazione pre-cedente, anche il regista rischia sempre di vivere dastraniero, e questo Barba lo ha spesso verificato di per-sona. Scrive: «amo il teatro perché, per sua natura, è straniero chelo voglia o no, che lo sappia o rifiuti di saperlo. È la sto-ria a raccontarmelo. Chi praticava il teatro per me-stiere, in Europa come in Asia, ha sempre vissuto inuna condizione straniera, come se fosse di passaggio.[…] Il teatro era straniero nel mondo in cui viveva, fragli spettatori che gli davano da vivere, innanzitutto per-ché contraddiceva i confini e le gerarchie che mettevanoordine nella società circostante» (p. 146).È questa l’idea di teatro che il regista dell’Odin ha, unteatro dalla grande efficacia, dovuta all’intervento delleenergie sottili, quelle particolare energie che gli scia-mani andini indicano come risorse vitali: «Queste energie sottili – scrive Barba – provengono daesseri umani, da attori e attrici che non si rivolgono atutti nello stesso modo, ma che sanno mettere in moto,nei singoli spettatori, emozioni, associazioni di idee,sogni a occhi aperti, amori nascosti e piaghe quasi di-menticate, nostalgie dormienti e paure rimosse. […] Unteatro capace di parlare a ogni singolo spettatore conuna lingua diversa non è un’idea fantastica né un’uto-pia. È ciò a cui molti di noi, registi o leader di gruppi ciaddestrammo a lungo, prima senza saperlo, credendodi indagare le segrete fonti dell’arte; poi cosciente-mente, sapendo di esplorare le catacombe d’una non-violenta ribellione» (p. 19). Così è, perché chi ha sperimentato il rapporto del-l’uomo con le energie sottili – ne sa qualcosa lo scia-mano-antropologo peruviano d. Juan Nunez del Prado– sa che esse, per funzionare bene, così come indicato

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dal regista dell’Odin, debbono confluire sotto forma difluido energetico dall’alto del proprio corpo nello stessomomento in cui altre parti dello stesso elaborano l’ab-bandono delle energie pesanti, quelle tossine che queltale corpo ha accumulato nel suo inevitabile vivere quo-tidiano, vita intrisa di memoria. Le energie pesanti, puressendo spesso spregevoli indifferenze di chi non com-prende il mondo del teatro, non vengono tuttaviaespulse quasi fossero solo delle tossine ma, a volte,anche quando lo sono, vengono date in forma di donoalla Terra (la Grande Madre) che, grata, le ingoia e lepurifica. A chi qui scrive è accaduto spesso, dopo avervisto uno spettacolo di Eugenio Barba, di sentire ilcorpo e la mente liberati da corpi estranei, da tossinedi desideri insoddisfatti a causa di una pesante memorianon sufficientemente rimossa. Bruciare la casa. Nel capitolo Parole-ponte, c’è una pa-rola che mi ha fatto molto riflettere: «ferita». Mi chiedo:il regista a cosa si riferisce? A quale memoria? A qualetormento che taglia la psiche? È escluso quindi quellofisico, perché il proprio corpo, prima o poi, ognuno puòportarlo in un determinato luogo. Invece è il luogo delnostro vissuto che non riusciamo più a raggiungere chefa male. È questa la nostalgia, il dolore per l’impossi-bilità di tornare nella condizione vissuta, quale quella,ad esempio, di bambino. Ognuno di noi è condannatoa soffrire di nostalgia. È forse questa la condizione chedenuncia di vivere o di aver vissuto il regista dell’Odin?Scrive: «lavoro teatrale, la zona torrida era la zona della “fe-rita”./ Le “ferite”, se sono veramente tali, sono storieche non vogliono essere narrate. Ogni volta che pro-viamo, ci girano le spalle e si allontanano da noi. Intra-vediamo la loro schiena ricurva, come una gobba lividao radiosa: la nostra sacca di viaggio. Le nostre “ferite”rifiutano di essere danzate o mimate. Forse perchésanno che il loro destino, a teatro, è un altro, quello diriversarsi in un’altra storia, la cortina fumogena chepermette di evocarle e celarle allo stesso tempo» (p.212). In questo modo e con queste parole il regista sente sudi sé una ferita ancora più profonda, una «“ferita-necessità” [che] ha agito come un impulso afarmi rimanere accanto al ragazzo che fui, e dal qualeil tempo mi ha allontanato spingendomi in un mondoche cambiava» (p. 23). Ancora il passato, cioè un pezzo di vita vissuta da ado-

lescente e, nella penombra psichica, ancora quella casache lo contiene. Il dolore del non ritorno (la nostalgia del tempo pas-sato) non fu di Odisseo, che se la spassò per i molti maridel Mediterraneo, ma fu di sua moglie Penelope, che ri-mase attaccata come una cozza patella alla roccia diItaca in quella parte di mare simile al porto dei pesche-recci di Gallipoli, là dove si specchia la Casa nella qualeil regista dell’Odin visse la sua adolescenza. È forse questa la «ferita» di cui egli scrive? È la memo-ria di quel ragazzo che fu Eugenio, in un tempo dive-nuto ormai solo ricordo di una casa che ora, percancellarla dalla mente, sarebbe meglio bruciare? Lacasa è quella del già vissuto, «quella della memoria de-positata» ha scritto Jung, la casa del tempo perduto de-finitivamente e mai più riproducibile, quella stessa casa[della memoria e nella memoria] in cui il regista ha vis-suto una vita al limite della sopportabilità. Sul terreno alquanto accidentato della memoria, il re-gista ha scritto pagine di un fascino allucinatorio, pa-gine la cui lettura ti lascia un agrodolce sulle pieghedella mente, con il pensiero che corre proprio verso quelragazzo che il regista fu e che desiderava a tutti i costifare teatro. Scrive: «Ho cominciato a fare teatro tentando di conoscere inmodo fisico, tecnico ed emotivo in cosa consistesse “fareteatro”. Comporre spettacoli mi ha insegnato, “da au-todidatta”, a pormi domande sulla storia del teatro cosìcome la si scrive di solito, a interrogare fatti noti o in-significanti, a soppesare e tradurmi i termini professio-nali che ascoltavo e leggevo, a camuffare nel mio lavorouno spettacolo che mi aveva affascinato o che rico-struivo con la fantasia. L’insicurezza e i limiti della miaconoscenza mi incitavano a frugare e rifrugare tra i pro-cedimenti del “come fare”» (p. 24).Parole semplici ma incisive come lo scalpello infissonella pietra leccese, parole che solo un vero innovatoredel teatro, un rivoluzionario del mondo e della vita delteatro, come lo furono Bertolt Brecht e Jerzy Grotow-ski, poteva scrivere. Parole umili e semplici e, proprioper ciò, profonde come le radici di una quercia. Sonoqueste le parole scritte da Barba in Bruciare la casa,una sorta di “parole-ponte”, che spiegano la moltepli-cità dei significati e «altre [che] erano parole tecniche che si riferivano aproblemi o componenti dell’artigianato teatrale che miavevano sempre affascinato: sats (impulso), kraft

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(forza), organicità, energia, ritmo, flusso, drammatur-gia, danza» (p. 25). Sono le parole-ponte che danno al regista la metodolo-gia: «il mio metodo – scrive – è stato una pratica artigia-nale, intrisa di rigorose “superstizioni” tenute in vitada un ambiente di lavoro, l’Odin Teatret» (p. 85).

E adesso, arrivati a questo punto, come si fa ora a con-tinuare a leggere Bruciare la casa evitando il desideriodi rileggere il capitolo Da dove vengo?. Anch’io mi chiedo: da dove viene Eugenio Barba? Al-lora leggo:«Vengo da un mondo che cadeva a pezzi […] 1940-1945, tempo di guerra». Anche se si tratta solo di due versi in forma di prosa, èsempre poesia. Ma tutto Bruciare la casa è poesia, cheil regista ha ripreso persino negli eserghi: con i versi diAlda Merini a p. 118, di Kenneth White a p. 128, di Ro-bert Frost a p. 143, di Henrik Nordbrabdt a p. 162 e ap. 184, di Attila Jòzsef a p. 168, di Billy Collins a p.208, di Elsa Laser-Schuler a p. 219, di Sophie de MelloBreynen Andersen a p. 236, di Kobayashi Issa a p. 241,di Gyorgy Petri a p. 242, di Ana Blandiana a p. 243, diFleur Adcock a p. 246, e poi quartine cinesi, e infinel’ultimo verso, che non è una citazione da un altropoeta, ma è lo stesso autore che lo scrive:«Lo schiaffo di una pietra sull’acqua» (p. 261). Bruciare la casa è la storia di un bambino che, dalla vivavoce degli adulti, ascolta storie di tragedie, di case crol-late, di morti sotto le macerie, di sofferenza: «Per il bambino che ascoltava, erano storie come quelledelle fate e degli eroi imprigionati negli alberi. Come lefavole, anche le storie delle macerie si trasformavano,di notte, in sogni e paure» (p. 26). Il ricordo che il regista conserva della madre è sempresobrio, rispettoso, quasi di distanza parenterale. Ed èanche un ricordo che fa rabbrividire la pelle. Scrive: «Certi giorni, mia madre e io facevamo insieme un giocosegreto. Mi chiamava da parte, mi pettinava, badavache fossi pulito e vestito bene, mi abbracciava e mimandava a fare un giro nelle vie attorno a casa, sul lun-gomare. Il gioco era questo: dovevo tendere la mano echiedere l’elemosina. Mendicavo. Ma mia madre e io di-cevamo: andare alla ventura. Erano i giorni in cui incasa mancavano persino gli spiccioli per il cibo o unamedicina. Vengo da quelle passeggiate solitarie alla ven-

tura» (pp. 26-27).Ricordo tremendo, da rimanere annichiliti, soprattuttoquando conosci la vera storia della vita del regista e disua madre, il cui passato era stato importante. Sotto ilfascismo il padre, Emanuele (Neli) Barba era stato unufficiale della milizia di Mussolini a Brindisi e la stessamadre era figlia di un ammiraglio. A pensarle tali veritàverrebbe subito da nasconderle, mascherarle dietrofronzoli e belle metafore. Così però non fa il regista, ilquale coraggiosamente le scrive senza alcun infingi-mento. E qua sta anche la straordinarietà di questa suamemoria. Non è di tutti avere il coraggio di dire la ve-rità sul proprio passato, bello o brutto che sia stato, edirlo con la dolcezza del bambino che Eugenio fu e delcuore di bambino che ancora oggi ha. Solo i bambininon sanno mentire e solo i bambini hanno la forza ci-clopica di dire le verità: su ogni cosa, su ogni dettaglio: «I bambini non possono essere sedotti da metafore, in-terpretazioni originali, immagini simboliche, citazioniconosciute, astrazioni e testi di autori famosi. Prendononota, letteralmente, di ciò che si presenta davanti aloro, non di ciò che questo vuole rappresentare. Ai loroocchi, due vagabondi che aspettano un certo signorGodot, non raffigurano la condizione esistenziale, madue adulti che chiacchierano per due lunghe ore. An-cora oggi, gli alunni delle scuole sono i miei primi spet-tatori. Le loro reazioni sono preziose per me; misegnalano se il mio lavoro sui diversi livelli della dram-maturgia ha rafforzato o assopito il Leviatan» (p. 151).Ancora una nota autobiografica: «Vengo dalla paura di intrappolare l’animale sacro nelbuio del pozzo» e, a seguire, il ricordo di quand’era bambino in quellache lui continua a percepire come la sua città ideale: «la mia [casa] era quella dove ero cresciuto a Gallipoli»(p. 67). Ecco una verità vera. Nella mente del regista:«Gallipoli era un’isoletta, collegata alla terraferma e ainuovi quartieri da un lungo ponte ventoso: dovunquemi giravo, mi scontravo con un mare diverso. La nostracasa era nella città vecchia, assediata dall’umidità edalla tramontana quando d’inverno passavamo le seretappati in casa con gli scaldini e le mani rovinate daigeloni. D’estate ci proteggevamo dal sole nella penom-bra delle persiane abbassate e aprivamo le finestre sulcielo solo dopo il tramonto. Non mi annoiavo. Giocavocon i bottoni custoditi in una scatola di cartone in cui

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mia madre teneva l’occorrente per cucire. Per pome-riggi interi schieravo i bottoni sul pavimento, diventa-vano flotte di pirati, squadriglie di aerei, legioniromane, carovane di pionieri./ Vengo da quella scatoladi bottoni» (p. 27).In questo ricordo, il regista dell’Odin sa di descrivereun po’ la fanciullezza di ognuno di noi perché, come intutti i fanciulli, gli oggetti a cui affezionarsi e giocaresono proprio quelli o altri simili: i bottoni, le scatole dicartone, i giocattoli di pezza, il cavallino a dondolo, ilpinocchio di legno. Bruciare la casa è tutto questo, ma è anche un libro cheparla dei suoi compagni di lavoro, gli attori e le attricidell’Odin i quali, non conoscendo direttamente i luoghidescritti, in particolare Gallipoli e il Salento, possonosolo immaginarli. E qui, il regista compie un altro mi-racolo di memoria inventandosi una scena di un imma-ginario spettacolo di bambini che giocano a nascondinosotto le grandi mura della città a precipizio sul mare.Poi altri ricordi ancora, gli studi in un collegio militare(la Nunziatella a Napoli, assieme a suo fratello Ernestoe all’amico Rosario Amodeo), l’esperienza di una notteparticolare che per lui «dura [ancora] tutta la vita», perché è la memoria che dura quando è dura a morire. La vita del regista ha un percorso sinuoso, soprattutto,quando ancora giovane, tenta l’avventura: «Ero uno sconosciuto, un estraneo, una persona senzaconnotati, storia, legami. Qui [si riferisce alle primeesperienze scandinave] non mi era d’aiuto l’amore dimia madre o i buoni risultati in greco e in latino del col-legio militare. Con pochissimi soldi, dormendo all’ad-diaccio, con un enorme zaino militare che mio fratelloaveva ricevuto dai boy-scouts americani scrivendo loroche era tubercolotico, mi proteggevo dietro un’espres-sione innocente, facendo l’autostop verso la mitica Sve-zia, il paradiso dell’amore libero. Era il giugno del 1953,avevo 16 anni» (p. 126).

Di Bruciare la casa leggo e rileggo un passo, che com-muove. Questo: «Sognavo di strapparmi fuori dalle acque stagnanti chem’avevano visto crescere. Dei due figli di mia madre,uno coltivò lungo tutta la sua vita errabonda, in Eu-ropa, America e Asia, il culto e la nostalgia per le sueradici meridionali, borboniche, gallipoline, e per lascuola militare napoletana in cui fummo educati. L’al-

tro, invece, praticò distacco e oblio. In realtà: rimozionee reticenza. Questo secondo figlio sono io. Vengo da quelcordone ombelicale reciso dalle mie stesse mani. Vuoldire, anche questo, bruciare la casa?» (p. 28).Quei due figli di Neli Barba e Vera Gaeta, Ernesto edEugenio, hanno avuto la ventura di errare per il mondo,lontano dai loro affetti originali. E proprio quegli affettimancati e quella lontananza li ha ridotti a brandelli dimemoria, che il regista si chiede ora se vale la pena bru-ciarli assieme all’intera casa della memoria, nella spe-ranza che quell’incendio rimuova definitivamente ilproprio passato. Non credo che tale operazione di rimo-zione sia facile a farsi. Piuttosto quell’incendio annien-terà le energie pesanti, e farà in modo che la difficileesperienza della vita venga poi compresa (interioriz-zata) e, nell’umana comprensione, trovare il modo diabbracciarla teneramente, stringerla forte al petto esentirsi ripagato per una vita vissuta in coscienza. Ovviamente il regista non pone tale domanda solo a sestesso, ma un po’ anche a tutti noi lettori e, nella suapossibile risposta, il regista sperimenta un’immaginariascena di un suo tremendo ricordo: la morte del padre,miliziano fascista di primo ordine, ma ugualmenteuomo come tutti noi, con i suoi sensi di colpa, le soffe-renze di ogni giorno, i continui divieti della vita, quellavissuta con i margini imposti dalle condizioni di una so-cietà totalitaria. Bruciare la casa, per il regista, è forse mettere fuoco aquella casa in cui sua madre, con in grembo la pistoladel marito, non riesce a decidersi a spegnere una vitache si va perdendo in rantoli di vento “refolo” e chegiungono alle orecchie del fanciullo quasi fossero colpidi frusta sulla pelle. Bruciare la casa è anche la pena di quell’adolescenteche, a differenza del fratello più grande, non sa pian-gere. Per questo, egli tenta di annientare il tempo dellamemoria, quello in cui la scena si mostra con lui davantial padre morente e alla madre in pena: «Guardavo il viso di quell’uomo che fino a poche oreprima rassomigliava a mio padre. Ora si disfaceva inrantoli. La realtà dissolveva la sua carica drammaticasostituendola con un’immane fatica e mal di schiena.Mi auguravo che la fine arrivasse presto. Il silenzio su-bentrò solo alle tre di notte. Mia madre smise di asciu-gare il sudore dal viso del marito e aprì la finestraperché l’anima volasse via. Avevo dieci anni» (p. 65).Si tratta di quella notte tremenda in cui il regista sente

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la devastazione dell’essere, con annessa la memoria chesolca la psiche: «la pena per la solitudine [… della] madre, una co-stante sensazione di assenza: le mille smorfie della sof-ferenza interiore».

Bruciare la casa. La casa è quella di Gallipoli, prospi-ciente il mare delimitato dal castello angioino e dalporto dei pescatori. È questa la casa che il regista vuolebruciare? È questa la casa della sua memoria “ferita”?La casa in cui, in quella tremenda e oscura notte, videe sentì sua madre che, nel dargli la Benedizione con unbacio, in un orecchio gli sussurrò: «che Disordine oggi» (p. 69).Da qui, da questo “Disordine” ordinato, nell’occasionedel lutto, tipico delle case di quel Sud che sta al Sud diogni altro Sud, nasce la ricerca del regista nel costruirelo spettacolo La casa del padre (322 volte rappresentatoin una ventina di paesi), ma sta anche nella costruzionedi tutti gli altri suoi spettacoli, in alcuni dei quali que-sto suo tratto caratterizzante appare di più, in altrimeno. Non può essere altrimenti, pena il sovvertimentodel “Disordine” ordinato della memoria, o meglio della“casa della memoria”, quella che dovrebbe essere poiincendiata. Quando il regista si confessa non ha pelisulla lingua. Lo fa spogliandosi di tutto, spogliandosisoprattutto di quelle energie pesanti di cui il corpo e lamente si sono ormai incrostati. Scrive: «Ho spesso detto, accennando alle forze oscure ed elu-sive che hanno guidato i miei passi, di sentirmi un ca-valiere portato da un cavallo cieco che galoppavasull’orlo ghiacciato di un precipizio./ Era cieco anche ilcavallo della miniera di cui parlava Zola. Ed erano cie-chi i cavalli che facevano chilometri e chilometri gi-rando sempre intorno alla stessa aia o allo stesso pozzo.Sono immagini che evocano un agire inane. Per me raf-figuravano la strada creativa: calcare e ricalcare le mieorme, fino a quando non le riconoscevo più. In esse, sco-privo la traccia d’altri passaggi, di piedi che non eranopiù i miei» (p. 185).Sconvolgente ed attualissimo questo moderno“essere/non essere” del regista, che scopre il bordo del-l’esistenza cieca al mistero della vita. In fondo cos’è lavita se non un teatro entro cui lo spettacolo si fa e rifàquotidianamente? Cieca è la vita, cieco è il percorso,ciechi sono gli orizzonti. Resta solo l’ebbrezza della con-sapevolezza che si vive. E il regista ce lo spiega col fare

teatro: «Una delle ragioni per cui per me fare teatro possiedeancora attrazione sta nell’ebbrezza del momento in cuilo spettacolo ‘decolla’. Lo sento traballare, sospeso nelvuoto, spinto da forze sue, e mi interpella in una linguache non mi sembra mia o dei miei attori, e che ognivolta devo sforzarmi di decifrare» (p. 197).

Siamo ormai alla fine di questa lunga riflessione informa di recensione, ma forse non di recensione si è trat-tato, come pure, forse, lo svolgimento del credere che illibro Bruciare la casa mi ha fatto uscire fuori tema,visto che poi, forse, non propriamente di bruciare unacasa si è trattato, forse non si è trattato neanche dellaCasa della memoria, del passato vissuto, di ogni vissuto.Tuttavia, seguo il mio percorso. Leggo ancora altri ca-pitoli che ti prendono l’anima. Cavalieri che corrononella notte sulle rotte del cielo. Ombre come radici e Ventiche bruciano. E la casa è lì, esposta a questi venti. Eugenio Barba scrive e racconta la sua storia, quelladell’Odin Teatret, quella di sua madre, di suo padre (chenon perde mai di vista), quella di Gallipoli e del Salento,che ci fa capire di amare molto, e non solo per quel tri-ste rituale che anche lui, quasi ogni anno, fa e che io hovisto fare a suo fratello Ernesto per circa vent’anni,uscendo da Gallipoli e andando presso i Cappuccinisulla strada che porta a Taviano. Lì dove spira sempreil vento refolo, l’odore dei fiori che marciscono e quellodel nido dell’upupa. Eugenio Barba ci dice che «la storia sotterranea del teatro è stata la [sua] casa.[Egli si è] aggirato nelle sue stanze alla scoperta della[sua] identità professionale. In angoli scuri [ha] scovatol’eredità che i [suoi] antenati [gli] hanno affidato: le[sue] radici e le [sue] ali».«Quando cominciai mi sentivo un orfano. In Europanon esisteva più un’unica tradizione teatrale. LaGrande Riforma del Novecento, il “big-bang” del teatroaveva generato tante piccole tradizioni nomadi. Essenon appartenevano a una cultura o a una nazione. Al-l’origine di ognuna di esse vi era un totem, un attore oun regista che, trascinato da una necessità, aveva in-ventato superstizioni e tecniche per darle vita. Questetecniche e superstizioni erano incarnate in individui.Viaggiavano, contagiavano, spargevano la peste, incu-ranti delle frontiere, delle mode e delle coercizioni dellaStoria./ Per i totem, il teatro è sempre stato un ‘en-

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clave’: un pugno di uomini e donne uniti a coltivarecon rigore artigianale quello che agli occhi degli altrisembrava un giardino esotico o un’utopia. In realtàtutti, da Stanislavskij a Grotowski, hanno eretto unafortezza dalle mura di vento, al tempo stesso isola di li-bertà e rifugio dallo spirito del tempo./ La forza d’esem-pio dei miei antenati teatrali proveniva dallemotivazioni che li spinsero a separarsi dalle valutazionie dalle pratiche del teatro della loro epoca. […] Sonostato solamente un epigono che ha abitato la vecchiacasa degli antenati. Mi sono accanito sui loro segreti edeccessi. Il mio zelo ha appiccato fuoco alle loro pratichee visioni. Nel fumo dell’incendio ho intravisto un sensoche era solo mio./ Mi sono risposto: io sono la tradi-zione-in-vita. Essa materializza e va oltre le mie espe-rienze e quelle degli antenati che ho incenerito.Condensa gli incontri, i fraintendimenti, le ombre, le fe-rite e i cammini sui quali non smetto di perdermi e ri-trovarmi. Quando sparirò, questa tradizione-in-vita siestinguerà./ Forse un giorno un giovane, spinto dallesue forze oscure, esumerà la mia eredità e se ne appro-prierà, bruciandola con la temperatura delle sue azioni.Così, con un atto di passione, volontà e rivolta, l’invo-lontario erede intuirà il mio segreto nel momento stessoin cui realizzerà il senso della sua eretica tradizione» (p.248).

Qui, nel teatro della vita, dove le Belle Città, gli Uominie le Donne, i Registi e gli Attori, gli Scrittori e i Lettorimuoiono e risorgono, le Case sono diventate di vetro.Difficile bruciarle. Ci è permesso solo di rimuoverle.

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Due note a margineLa lingua usata da E. B. in questo testo è fascinosa. Suciò sarà d’accordo anche l’Accademia della Crusca, laquale accetterà l’uso di una terminologia italiana dellaprima seconda metà del secolo scorso, infarcita di neo-logismi provenienti da più ambiti linguistici dovuti alleesperienze dell’autore, che usa, a volte con un amabileazzardo, verbi e frasi incidentali, e modalità specifichedi punteggiatura con garbo e cautela. L’autore scrive:«chi scrive deve sforzarsi d’esser chiaro», ma Bruciarela casa non solo è chiaro, è pure leggibilissimo.

Perché: “Come un capello bianco finì tra le pagine d’un libro”?

È noto a tutti che Eugenio Barba da un po’ di anni sene va in giro per il mondo con una zazzera di capellibianchi. Io non l’ho mai visto leggere nella sua intimità,ma me lo immagino come immerso nella lettura a voltecon la mano che si riavvia i capelli, come per farli stareal loro posto. A volte accade che quando si fa questaoperazione qualche capello resti nell’infradito. La manocol capello intrappolato si piega poi sulla pagina dellibro per voltarla. E in questa nuova operazione il ca-pello scivola via dall’infradito e si adagia sulla paginache, rivoltata, conserva, come dono involontario, il ca-pello sfuggito alla bianca chioma. Io ho speso quasitutta la vita a studiare come sono fatti i libri, ed oggi,forse per qualche modesta competenza acquisita, mi az-zardo a cercare di capire come è fatta la loro veste tipo-grafica (la mia ispirazione è rivolta sempre a quelgrande stampatore/editore di Alpignano, Alberto Tal-lone che, amando tanto i suoi libri, era arrivato al puntodi chiamarli «figli di carta»). Bruciare la casa, di Eugenio Barba, l’ho letto quasitutto d’un fiato una prima volta ma con un sospetto:la percezione di avere tra le mani un libro che qualcunoprima di me l’avesse già letto. Chi tipograficamente co-nosce i libri non impiega molto a capire se il volume chesta leggendo è intonso. Il mio Bruciare la casa, giuntomia Lecce con una spedizione postale da Holstebro, nonlo era. È stato nel leggere le ultime pagine che mi sonoaccorto del sottilissimo capello bianco adagiato sulbordo interno della pagina. In un libro intonso ciò è im-possibile che accada. Ho riguardato il dorso del volumee i segni mi hanno rivelato la verità, almeno quella cheio sospettavo: il libro era stato già letto. Mi piace pensare letto dal Maestro. E questo è il motivoper cui all’inizio parlavo del dono più prezioso e caro diquesta prima parte dell’anno 2010. Oggi, Bruciare lacasa, di Eugenio Barba, è un libro-dono ben serbato nelcuore.

* Scritto in una notte della seconda settimana dell’aprile 2010

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«Il teatro è una scienza: però una scienza acro-batica. Un po’ come quelle corse al circodell’an-tica Roma, nelle quali il cavaliere correva con duecavalli, e doveva saltare dall’uno all’altro. Così ènel teatro: c’è il lavoro sulle cellule, sulle singoleazioni, sulla qualità della presenza, del dinami-smo, del ritmo, ed è necessario che lo governi solola coerenza interna. E c’è il momento del metterein realzione, del montaggio, nel quale si lavora atutt’altro livello, quello dei significati e dei cam-biamenti di significato. Bisogna continuamentesaltare dall’uno all’altro. Non è che il teatro nonsia una scienza esatta. Solo che contiene piùd’una esattezza: e bisogna saltare dall’una all’al-tra».

da Eugenio Barba, Il prossimo spettacolo ( a cura di M. Schino),

L’Aquila, Textus, 1999, p. 39

«»

Una parata di strada dell’Odin Teatret

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La Redazione de «La Contrada del Poeta» e gli abstract di:

Iben Nagel RASMUSSEN, Roberta CARRERI, Julia VAR-LEY, Kai BREDHOLT, Sofia MONSALVE, Nando TA-

VIANI, Thomas BREDSDORFF, Eugenio BARBA

Un novembre meraviglioso è stato quello2011. Per me, poi, lo è stato in modoparticolare perché, me lo aspettavo, inquanto già sapevo che nel programmaleccese degli eventi messi in opera daiCantieri Teatrali Koreja, ci sarebbe

stato Eugenio Barba, uno dei grandi inventori delteatro contemporaneo.Ma di Barba e della sua capacità di incantare gli at-tori e gli spettatori, ci sarà un altro luogo per par-larne. Qui mi interressa riflettere sul suo ultimospettacolo, La vita cronica [una produzione Nor-disk Teaterlaboratorium (Holstebro), Teatro de LaAbadia (Madrid), The Grotowski Institute (Wro-claw)], presentato appunto al teatro stabile di Leccenei giorni 9-18 di novembre e che io ho avuto la for-tuna di vedere per ben tre volte, il 9, il 12 e il 17. Avreidesiderato vederlo ancora un’altra volta, ma l’OdinTeatret il 18 finiva le rappresentazioni. E dunque.Da una cartolina pubblicitaria, stampata dallo stessoOdin Teatret, leggo: «La vita cronica// Dedicato a Anna Politkovskaya eNatalia Estemirova/ scrittrici russe in difesa dei di-ritti umani, assassinate da sicari nel 2006 e 2009 perla loro opposizione al conflitto ceceno.// Personaggi:una Madonna nera, la vedova di un combattentebasco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena,un avvocato danese, un musicista rock delle isoleFaroe, un ragazzo colombiano che cerca suo padrescomparso in Europa, una violinista di strada ita-liana, due mercenari.// La vita cronica si svolge con-temporaneamente in Danimarca e in altri paesid’Europa nel 2031, dopo la terza guerra civile. Indi-vidui e gruppi con retroterra diversi si ritrovano in-sieme e si scontrano pressati da guerre,disoccupazione, emigrazione. Un ragazzo approdadall’America Latina in cerca di suo padre scomparso.“Smettila di cercare tuo padre”, gli sussurra la gentementre lo accompagnano di porta in porta. Non èl’innocenza né la conoscenza a salvare il ragazzo. Saràl’ignoranza a fargli scoprire la sua porta. Tra lo scon-certo di noi tutti che non crediamo all’incredibile: cheuna vittima valga, da sola, più di ogni valore. Più diDio».

Questa, fondamentalmente, la trama dello spetta-colo, basato sui testi di Ursula Andkjær Olsen e dellostesso Odin Teatret. Gli attori: Kai Bredholt, RobertaCarreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, TageLarsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fau-sto Pro, Julia Varley. Drammaturgia di Thomas Bred-sdorff. Consulente letterario: Nando Taviani.Disegnatore luci e consulente: Odin Teatret e JesperKongshaug. Spazio scenico e suoi consulenti: OdinTeatret, Jan de Neergaard e Antonella Diana. Mu-sica: melodie tradizionali e moderne. Costumi: OdinTeatret e Jan de Neergaard. Disegni della brochure:Giulia Capodieci. Copetina della brochure: Peter By-sted. Direttore tecnico: Fausto Pro. Assistenti allaregia: Raúl Laiza, Pierangelo Pompa, Ana Woolf.Regia e drammaturgia: Eugenio Barba.

Ho riportato il lungo elenco degli artisti in opera(spesso, i critici d’arte si dimenticano di farlo), perchési tratta di attori, attrici e personale tutto che man-tiene in vita l’intera struttura della più geniale inven-zione di Eugenio Barba. Si tratta di un teatro che“cammina” (ovviamente oggi su gomma; infattil’Odin si muove con un tir lungo quanto un fiume),come accadeva un tempo per le compagnie del teatrodell’arte. Di solito, lo spettacolo viene pensato emesso in opera dal regista negli spazi pubblici messi-gli a disposizione dalle istituzioni danesi in quel diHolstebro, dove c’è il suo laboratorio vivente, quindiviene prima presentato nel paese in cui lo spettacoloviene creato, in questo caso la Danimarca, poi siavvia a “camminare” laddove la richiesta lo porta. Eugenio Barba e i suoi attori portano in giro per ilmondo il loro teatro trainandosi dietro l’intera strut-tura che, per chi non l’avesse mai vista, in questocaso specifico della Vita cronica, consiste in unagrande pedana rettangolare – la “zattera” l’ha defi-nita il regista – al centro dello spazio teatro affian-cata da due gradinate, che solitamente possonocontenere più o meno 110 (spesso qualcuno in più)spettatori; i due lati minori del rettangolo teatralesono occupati dallo spazio scenico con una particola-rità che vede gli artisti “agire” ora su di un lato orasull’altro oppure, e questo succede spesso, in contem-poranea, muovendosi all’unisono su entrambi glispazi scenici. È facile intuire la situazione: lo spetta-tore, per vedere l’azione o le azioni rappresentata/e,è costretto a guardare contemporaneamente sui duelati scenici, cosa impossibile, oppure deve guardareprima da un lato, poi dall’altro. È evidente che que-sta non è cosa facile da mettere in pratica, perché lospettatore non possiede il dono della vista a 360gradi, per cui è costretto a scegliersi la scena voltaper volta. Questa costrizione del “dove guardare” è proprioquello che vuole che si verifichi il regista che, così fa-

“La vita cronica”

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cendo, lascia libero lo spettatore di scegliersi la scena.È ovvio che mai si riesce a vedere tutto, perché qual-che scena sfugge, in quanto, quando lo spettatore staguardando da un lato, in quello stesso momento, sullato opposto si sta rappresentando un’altra azione.Per poter avere una visone più o meno (è impossibilela totalità) completa, occorre vedere lo spettacolo piùdi una volta. Ed è quanto, a differenza di altri spet-tacoli dell’Odin Teatret da me visti, mi è accadutoquesta volta con la visione della Vita cronica, ecce-zionalmente goduta per tre volte. Lo spettacolo è accompagnato da una brochure (editada Odin Teatret, Nordisk Teaterlaboraturium, set-tembre 2011) con gli interventi di: Eugenio Barba (ilregista che scrive due pezzi: Incomprensibilità e spe-ranza; Il primo giorno); Thomas Bredsdorff (il dram-maturgo che scrive: Il teatro cronico); Nando Taviani(traduttore in italiano dei testi scritti per lo spetta-colo e professore di Storia del teatro che per 12 anniha insegnato all’università del Salento e che oggi con-tinua il suo magistero all’università de L’Aquila), chescrive: Le Indie nere dell’Odin Teatret; Sofia Monsalve(l’attrice che interpreta il ragazzo colombiano checerca il padre), che scrive: Quel che mio padre mi halasciato; Kai Bredholt (l’attore che interpreta la ve-dova di un combattente basco), che scrive: DonnaVera; Julia Varley (l’attrice che interpreta la rifugiatacecena), che scrive: La nascita di Nikita: protesta espreco; Roberta Carreri (l’attrice che interpreta la ca-salinga rumena), che scrive: La nostra vita cronica;Iben Nagel Rsmussen (l’attrice che interpreta la Ma-donna nera), che scrive: Il senso della follia, con untesto poetico e gli altri in prosa.Si tratta di testi bellissimi di autori/artisti che nel pa-norama mondiale hanno fatto un’esperienza più cheunica e che qui, in questa sede, sarebbe veramente unpeccato non darne conto.

La Rasmussen introduce il suo testo con la poesia Lasala blu (febbraio 2008): «[…] Vennero gli attori, stanchi/ da anni di viaggi eimprese,/ e il regista/ a sorpresa vestito da monacogiapponese,/ o forse cinese,/ color verde appassito/ se-guito dagli assistenti e dal consigliere letterario» (p.71); seguono due testi in prosa: La sala della solitudine(maggio 2009) e La sala nera (febbraio 2010): «[…]Un giorno Eugenio mi mostra la figurina di un Bam-bino Gesù che è appesa nel suo ufficio: indossa unatunica bruna e, come aureola, tre manine spuntanoda dietro la sua testa. “Provale per la tua Madonna”suggerisce. Nel Vangelo di Oxyrhincus, in Kaosmos ein Mythos abbiamo adoperato mani di legno, opera diuno scultore balinese. […] Anche per Eugenio, che haseguito lo sviluppo delle prove insieme al piccologruppo di assistenti, ci deve essere spazio – un’areadi libertà e ispirazione. Ad ogni modo gli vengono

molte idee. Un giorno mi dice: “Forse la tua Madonnadovrebbe essere nera. E parlare latino”. Poi aggiunge:“Forse Lolito potrebbe trasformarsi in soldato. Gliprocuro subito un’uniforme”» (p. 76); segue un altrotesto in prosa, La sala bianca: «Dopo le due ore delvæksthus, la mattina, continuiamo a elaborare lastruttura dello spettacolo nella sala bianca. Dal mo-mento in cui vi entriamo, è Eugenio che ha tutti i filiin mano. È la fase in cui noi attori dobbiamo mobili-tare una pazienza quasi sovrumana. Veniamo spo-stati senza cessare a sinistra e a destra in un fiottocontinuo di informazioni contraddittorie, con diffi-coltà a comprendere in quale direzione andare.Niente di strano, dato che anche il regista non è ingrado di raccapezzarsi riguardo alla direzione del pro-cesso e che per di più considera una virtù il fatto dibuttar via la bussola» (p. 77); segue l’ultimo testo, Lasala rossa (Ottobre/novembre 2010 – Febbraio/marzo2011): «Un’era è finita. Torgeir [uno dei primi attoridi Barba] è morto di tumore in un’alba del giugno2010. Ci siamo stretti l’uno all’altro, come globulirossi in un corpo ferito./ La vita cronica sarà il primospettacolo di gruppo dell’Odin Teatret senza Torgeir.[…] Glaaang… - e un compagno di vita scomparso.[…] La mia esangue figura femminile ha mostrato dicontenere sia una Madonna nera che una terrificantedivinità induista, le cui caratteristiche riconosco solovagamente, e nel profondo di me. La vita cronica havagato attraverso tutte le sale di lavoro del nostroteatro. I muri sono stati i testimoni silenziosi delle no-stre battaglie […] delle nostre crisi e dei disperati at-tacchi di rabbia di Eugenio quando i suoi attori, unavolta dopo l’altro, non comprendevano le più sempliciindicazioni. Ci hanno visto barcollare in costumi in-zuppati di sudore, con lividi sul corpo e nell’anima,in un buio a volte assurdo» (pp. 71-78).

Iben Nagen Rasmussen

Roberta Carreri ha scritto il testo La nostra vita cro-nica, periodizzandolo, per cui, attraverso la sua let-tura, è possibile capire il percorso della spettacolodalla sua prima ideazione fino alla rappresentazionesulla scena. Scrive: «L’inizio di un nuovo spettacolo è stato più volte pa-ragonato all’inizio di una nuova vita. Il concepimentodei nostri spettacoli è sempre avvenuto alla sola pre-senza degli attori e del regista, in un’atmosfera pienadi trepidazione e intimità. Per Il sogno di AndersenEugenio ha inseminato la nostra fantasia, nei luoghipiù diversi: […] Le sue “improvvisazioni verbali”hanno il dono di essere tanto precise e tanto vaste dariuscire a stimolare l’immaginazione e risvegliare l’in-teresse in ogni attore. Siamo persone tanto diverse,con alle spalle una lunga esperienza e sulle spalle unacerta stanchezza. Continuiamo perché non possiamofarne a meno. Vocazione? A volte un colpo di coda

Uno spettacolo dedicatoa Anna Politkovskaya e Natalia Estemirovascrittrici russe impegnate nella difesa dei diritti umaniassassinate da sicari nel 2006 e 2009per la loro opposizione al conflitto ceceno

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violento, come quello di un pesce preso all’amo checerca di liberarsi, smuove le acque. Sbotti di ira. Con-tro il proprio destino?// 9 aprile 2011: Il sogno di An-dersen finisce di sorpresa a Bogotà con unadichiarazione di Eugenio, che irrompe nello spetta-colo all’ultimo minuto dell’ultima scena e si rivolgedirettamente agli spettatori: “Avete assistito all’ul-tima rappresentazione in assoluto di questo spetta-colo”. Per la prima volta nella storia dell’OdinTeatret, uno spettacolo viene chiuso a scena aperta.Un colpo d’accetta. Un grande albero viene abbat-tuto, per dare luce al giovane albero che due setti-mane prima aveva mostrato di aver attecchito./2008// Eugenio riserva il mese di febbraio per iniziareil lavoro sul nuovo spettacolo il cui titolo provvisorioè XL (Extra Large). […] È la prima volta che Eugenioci descrive il tema del nuovo spettacolo alla presenzadi altre persone. Ogni momento della creazione diquesto spettacolo avverrà sotto gli occhi di testimoni.Per aiutare Eugenio? Per aiutare noi attori? […] Miaspetto un nuovo inizio e invece quando Eugenio aprebocca ci obbliga a confrontarci ancora una volta conun funerale. Questa volta non è quello di una can-zone, non è quello di un’idea: è il suo./ Eugenio dice:“Un giorno arrivate al teatro e vi annunciano chesono morto. In una lettera vi prego di organizzare ilmio funerale con ciò che sapete che amo. Avete la pos-sibilità di dialogare con me, di dirmi quello che nonmi avete mai detto. Per tanti anni avete lottato pernon farvi schiacciare dall’Angelo. Raccontate unastoria piena di orrore e humor su di me a cui dovreterivolgervi dicendo ‘lui’, mai ‘tu’. Ognuno di voi devepreparare la sua cerimonia. Decidete voi come. Inpochi minuti. Dovrete dirigere i colleghi. Sofia [Mon-salve] ha, invece, un’altra storia. È venuta per cercaresuo padre. Questa vicenda è l’asse attorno al quale siaggroviglieranno le nostre storie. La nostra stella po-lare è il tema dell’integrazione”. Come sempre il temadi uno spettacolo di Eugenio è attuale, bruciante. […] 12 febbraio 2008./ Nel centro dello spazio ci accoglieun grande oggetto rettangolare coperto da un telo.Eugenio dice: “Qui sotto ci sono due idee: una mia euna di Luca Ruzza”. Il telo viene tolto e appare unabara trasparente, come quella di Biancaneve. È pienad’acqua, dentro nuota un’anguilla. Eugenio chiede aSofia di entrare nella bara. Il suo corpo si cala dolce-mente. I capelli fluttuano mentre l’anguilla scivolalungo le sue gambe. Sembra nel suo elemento.Quando Eugenio chiede a Sofia di uscire dall’acqua,lei ne riemerge tremante dal freddo e dallo schifo./ Lospazio che Eugenio vuole utilizzare è di 5m x 3m. Pic-colo piccolo. Ogni nostra minima azione è assordante.[…] Tutti i giorni ripetiamo le proposte di ogni attorenell’ordine di presentazione, più quella di Nando.Ogni giorno Eugenio suggerisce qualcosa di nuovo,modificandole. Durante la sua scena, Tage [Larsen]

ci chiede di dire le frasi che abbiamo sentito ripetereda Eugenio fino alla nausea nel corso degli anni. Ame viene in mente: “Questo spettacolo deve stare inuna valigia”./ Dopo tre settimane di clausura, la fi-lata dello spettacolo dura 80 minuti. Nel “magaz-zino” sono accatastati frammenti di vecchi spettacolie nuove idee. Li riponiamo nella “bara di cristallo”.Interrompiamo le prove per andare in tournée con ilnostro repertorio. Quando riprenderemo il lavoro suXL, ancora non si sa. Probabilmente fra un anno. Nelfrattempo ognuno di noi dovrà creare il proprio per-sonaggio e almeno mezz’ora di “tessuto musicale”. Ionon ho idee, ho solo bisogno di fuggire da me stessa.[…] 4 maggio 2009./ Riprendiamo il lavoro su XL. Civiene comunicato che il titolo del nuovo spettacolosarà La vita cronica. Un altro degli ossimori di Euge-nio, penso quando lo sento per la prima volta. Nonevoca in me alcuna risonanza. Forse è semplicementeispirato alla sorte di sua madre nonagenaria, inchio-data ad un letto, senza memoria, senza neanche il pia-cere di riconoscere suo figlio./ Abbiamo avuto più diun anno per creare i nostri personaggi: […] nella salablu, ci accoglie la nuova scenografia: un pavimentodi assi di pino intercalate da fessure luminose. Conuna bottiglia di vodka polacca, Eugenio la battezza“Zattera della Medusa” e dice che in questo spetta-colo non vuole proiettori. Vuole solo candele, bastoniluminosi, torce ecologiche. […] L’illuminazione deveessere fantasiosa e povera. Eugenio ci comunica chela danza, come la musica, è uno dei temi centrali dellospettacolo, che si ripresenterà costantemente, comeuna forma di basso continuo. Un altro elemento cen-trale sarà la zoppia. Dobbiamo esercitarci ad esserezoppi. Questa piccola limitazione ci aiuterà a vincerei nostri cliché, e ci darà nuove possibilità ritmiche,dice Eugenio. […] Il lavoro inizia ogni mattina alleotto in sala nera, con due ore di “vivaio”. Qui ab-biamo la possibilità di far crescere i personaggi cheabbiamo creato. […] Per dare corpo alla maratona didanza, nel “vivaio” ci alterniamo nelle braccia di AnaWoolf per imparare passi di tango e milonga./ Il miopersonaggio comincia ad uscire dalla sua “bolla” e adinteragire con gli altri personaggi. […] Come came-riera Eugenio mi suggerisce di introdurre del cibo daoffrire ai compagni. […] Sugar [è il primo tentativodi personaggio interpretato dalla Carreri] camminaimpettita e determinata, con passetti veloci. Le sueimprovvisazioni hanno il carattere dei sogni dove sipropone un passato di violenze e soprusi. Ma nellasua realtà c’è posto solo per il lavoro e il canto./ 13maggio 2009. Lo spazio dello spettacolo si è trasfor-mato drasticamente: i ganci da macellaio sono ap-parsi nel “magazzino”. […] Al termine di questoperiodo di prove ho la netta sensazione che il mio per-sonaggio non sia necessario in questo spettacolo. L’hocreato per sfuggire ai miei stilemi e aiutare Eugenio

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a rompere i suoi, ma la verità è che Eugenio non sem-bra interessato a rompere i suoi cliché, anzi li riaf-ferma e li rinforza. Per questo il mio personaggio cheè così “diverso” non funziona, nel senso che non hauna funzione nella sua drammaturgia. Ma nel suo di-scorso di chiusura, Eugenio mi sorprende quando tirale conclusioni di questa seconda tappa della Vita cro-nica dicendo: “Ora abbiamo lo spazio, i personaggi.La storia è chiara: come si integra una persona? Ab-biamo il personaggio di Julia che si lascia integrare equello di Sofia che non si lascia integrare. Siamo li-beri, eppure ci sembra che non sia una via d’uscitaperché non riusciamo a trovare la chiave per aprire laporta. Le monete che tintinnano sono parte della sin-fonia sonora che accompagna lo spettacolo. Il cibo èl’altro elemento: in questa società mangiamo quandonon abbiamo fame e beviamo quando non abbiamosete”. Eccomi servita: le chiavi e il cibo di Sugar sonofunzionali. Eugenio ci lascia con una serie di compitiindividuali da risolvere prima del prossimo incontroa ottobre. || La terza tappa inizia il 5 ottobre 2009./Ci siamo spostati in sala bianca per dare spazio allacostruzione della struttura per gli spettatori. […] Eu-genio riassume i temi dello spettacolo e chiede a Juliadi cambiare il costume: il suo personaggio non deveessere un uomo ma una donna. […] Eugenio michiede di sviluppare il tema della porta/chiave e michiede di scrivere dei testi su questo tema. A metà ot-tobre Eugenio comincia a lavorare sulla tribuna deglispettatori rendendola parte integrante della sceno-grafia. […] || 2010. Eugenio decide di non usare,come era previsto, il mese di febbraio 2010 per leprove della Vita cronica, ma per rielaborare tutti glispettacoli di ensemble dell’Odin Teatret, cancellandola presenza di Torgeir [Wethal, ammalatosi di un can-cro maligno che, dopo alcuni mesi, lo porterà allamorte]. Eugenio vuole che Torgeir si concentri com-pletamente sulle cure e non partecipi alle tournée coni vecchi spettacoli. […] Posticipiamo il prossimo pe-riodo di lavoro sulla Vita cronica a maggio. Dal 10 al26 maggio lavoriamo in sala bianca. […] Eugeniocrea nuove scene e fa continuamente cambiamenti ra-dicali. Decide che Sugar deve parlare rumeno. I mieitesti vengono tradotti. Eugenio mi chiede di cantareuna canzone mentre poso i fiori sulla bara. […] Eu-genio assegna anche ad altri compagni alcuni deicompiti di Torgeir. […] La quinta tappa della Vitacronica si svolge nell’autunno del 2010. […] Quandoriprendiamo il lavoro il 29 settembre, troviamo la sce-nografia montata in sala rossa. […] Eugenio continuaa fare sperimenti con l’organizzazione dello spazio,mettendo gli attori sulle scale, fra gli spettatori. AWroclaw Eugenio lavora sullo spettacolo alla pre-senza di 40 corsisti. || 2011./ I mesi di febbraio e dimarzo sono la cornice della sesta tappa della Vita cro-

nica. È qui che Eugenio chiama Jesper Kongshaug acorreggere il disegno luci dello spettacolo. Lo spetta-colo ne ha bisogno per librarsi su un altro piano. […] La fine dello spettacolo cambia diverse volte. […]La pazienza di Eugenio a volte mi pare sovrumana.Aspetta per anni dei risultati che non ha nessuna ga-ranzia di avere. Lo fa perché non può farne a meno.Sulla sua intelligenza non ci sono dubbi, ma c’è ancheun’altra forma di intelligenza che lo guida. […] 3 lu-glio 2011./ Un anno fa [27 giugno 2010] celebravamoil funerale di Torgeir. La nascita della Vita cronicacorre parallela alla sua malattia e alla sua morte. […] Torgeir ha iniziato con Eugenio l’Odin Teatret nel1964 e nel maggio 2011 ha inaugurato la tomba di fa-miglia dell’Odin Teatret» (pp. 56-69).

Roberta Carreri

Il testo di Julia Varley è intitolato La nascita di Ni-kita: protesta e spreco, che si apre con questo incipit: «La vita cronica è per me uno spettacolo il cui pro-cesso è segnato dalla morte. Ora che è quasi finito,comincio a intravederci una protesta contro l’inevi-tabilità della morte e un’asserzione della necessità dicontinuare, nonostante tutto. […] Quando dico cheil processo della Vita cronica è segnato dalla mortemi riferisco alle persone care che ho e abbiamo personegli anni in cui con intermittenza abbiamo provatoquesto nuovo spettacolo. Prima è morta Maria Cá-nepa, una cara amica attrice cilena; poi Silvia Masca-rone, la moglie di Claudio Coloberti, il compagno concui facevo teatro a Milano nella mia gioventù e cheora lavora per gli archivi dell’Odin Teatret; poi MarcoPotena, l’uomo con cui mia madre ha convissuto tredecadi, […] poi Tony D’Urso, il fotografo che ha se-guito molte delle nostre tournée più avventurose e lecui fotografie sono diventate delle icone del teatro;poi ci lasciò Torgeir Wethal, uno dei fondatori del-l’Odin Teatret, la prima persona del gruppo con cuiho avuto contatto. Torgeir ha partecipato alle provefino a tre settimane prima della sua fine. Ci sono stateanche sparizioni meno dolorose, ma egualmente si-gnificative: Frans Winther, il musicista che è all’Odindal 1987, ha lasciato lo spettacolo, e ad un certopunto il regista [Eugenio Barba] ha ‘ucciso’ il perso-naggio che avevo creato, in modo da farne nascere unaltro. […] Ero in un bar di Scilla in Calabria a pren-dere un caffè e cornetto per la prima colazionequando Eugenio ha ricevuto la telefonata di RobertaCarreri che annunciava la morte di Torgeir. È spiratoqualche minuto fa, mi ha detto. Non dimenticheròmai quel bar, il giornale aperto sul tavolo accanto allatazzina di caffè, Eugenio in piedi vicino al banco perpagare, il silenzio improvviso che mi sommergeva, lemani che sostenevano il viso, lo sguardo perso nelnulla. Roberta e Iben Nagel Rasmussen, Alice Carreri

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Pardeilhan e suo marito Erik, erano con lui: “menomale”, ho pensato in un angolo della mia mente. […] Tutto cambia in un secondo: avere e non avere, ci ri-pete sempre Eugenio. È giusto commemorare chi ciha lasciato, ma è necessario celebrare la vita. Dob-biamo continuare./ L’obbligo del lavoro ci ha sempreaiutato nei momenti più difficili: ritornare a fare trai-ning quando Eugenio ha abbandonato le prove di Ce-neri di Brecht; produrre lo spettacolo TheatrumMundi per l’Ista del Portogallo già in programmaquando è morta Sanjukta Panigrahi; fare le provequando le coppie del gruppo divorziavano e i figli esi-gevano scelte chiare. Anche questa volta, finire lospettacolo è stato un obbligo sentito da ognuno di noi,che ci ha aiutato a non lasciarci abbattere dall’inac-cettabile. La presenza di Torgeir si prolunga nellaVita cronica, anche se non tutti gli spettatori sa-pranno vederla. Ho sempre avuto difficoltà a tolle-rare la tendenza a dirigere morbosamentel’attenzione verso se stessi. Il primo tema propostodal regista [Eugenio Barba] aveva per me questo sa-pore. Ho reagito malissimo. Volevo scappare dallasala di lavoro. Cercavo di sentire e farmi notare ilmeno possibile. Allo stesso tempo non potevo rinun-ciare a essere parte dello spettacolo e quindi delgruppo. In fondo l’Odin è la mia vita. Come potreicontinuare ad esistere fuori e da sola? […] Per la mia“cerimonia funeraria” predisposi una scena di pulizia– come fa Eugenio per le ricorrenze importanti delnostro teatro – inframmezzata da aneddoti tratti datournée e spettacoli passati. […] Alla fine della se-conda settimana di prove il mio tormento arrivò al li-mite. Venerdì notte non riuscivo a dormire. Dovevoassolutamente trovare una via d’uscita. Non potevocontinuare a rifugiarmi in un angolo della sala, chiusanella mia pesante tristezza causatami dal tema datocida Eugenio nel suo tentativo di rompere tabù e auto-matismi. La sua provocazione per scuotere il gruppomi paralizzava. Rifiutavo il ricatto sottinteso nellafrase “se non riusciamo a lavorare assieme non hasenso lo sforzo immane per mantenere il gruppo”.Ero imbarazzata […] Ero stanca di sentirmi dire chenon bisogna parlare in sala mentre al tempo stessoogni decisione del regista [Eugenio Barba] era spie-gata e giustificata con lunghi discorsi che insistevanosu una scelta che cambiava il giorno successivo. […]Nando Taviani, l’amico consigliere letterario che ac-compagna l’Odin da quarant’anni, parlò della zop-paggine. Trasparivano nel suo discorso le lungheconversazioni fra lui ed Eugenio alla ricerca del cam-mino da seguire. Dopo aver introdotto la storia diGiacobbe del Vecchio Testamento, Eugenio ci chiese dipreparare una scena dal titolo “la lotta con l’angelo”.A differenza di Eugenio che ha vissuto la sua infanzianel sud Italia permeato da riti cattolici, da bambinaho avuto poco contatto con il mondo religioso. […]

Volevo invece parlare di Maria Cánepa, l’attrice cilenaappena scomparsa. Volevo darle voce e tenerla in vitaattraverso il teatro. Nella mia scelta della lotta conl’angelo, Maria diventò un angelo custode che mi pro-teggeva e incitava./ Passò molto tempo prima di averel’occasione di mostrare la scena che avevo preparato.[…] Presentai la scena una sera, dopo l’orario di la-voro. Solo Eugenio e gli assistenti alla regia erano lì.Mi chiedo come mai sento ancora emozione e paura,dopo anni e anni di esperienza, quando devo mostrarequalcosa di nuovo. […] Alla fine del primo periodo diprove, Eugenio ha chiesto a tutti di preparare per lasuccessiva fase di lavoro la storia del proprio perso-naggio, dandogli anche un nome. […] A me in parti-colare Eugenio disse: “Se vuoi raccontare la storia diMaria, devi creare un personaggio cantastorie moltodiverso da lei. Non puoi essere tu, e tu non puoi esserelei”. […] Maria – la mia motivazione iniziale – usciràdalla Vita cronica per entrare in un altro spettacolodal titolo Ave Maria./ Ci lamentiamo sempre che nonabbiamo tempo: il regista [Eugenio Barba] per leg-gere, gli attori per creare materiali, i musicisti perprovare le musiche. Prendendo a cuore le critiche chegli abbiamo fatto in passato per i suoi comportamentibruschi e impazienti, Eugenio ha promesso che du-rante il processo per questo spettacolo si controlleràe mostrerà il lato affabile del suo temperamento. Cre-iamo, così, un tempo di circa due ore ogni mattino,un væksthus (il vivaio) in cui lavoriamo liberamentein sala nera. Eugenio guarda, annota, legge, sussurracommenti individuali agli attori. […] Ricordavo larabbia sentita da chi ha perso un amore. Mi era chia-rissima l’immagine di qualcuno che piange la man-canza di una persona cara, ma vedevo che nonrisvegliavo associazioni nel regista. Ripetevo la se-quenza aspettando il momento in cui quello che erachiaro per me lo diventasse anche per chi guardava[cioè il regista (Eugenio Barba)]./ Ancora una voltail burka! Non è possibile! È una persecuzione! A ognispettacolo Eugenio vuole nascondermi il viso e co-prirmi dalla testa ai piedi di nero. Capisco la dispera-zione del regista [Eugenio Barba] che cerca modi percambiare i propri attori, ma perché la soluzione perme è sempre il burka? Non ne posso più! Però capiscoche su un punto Eugenio non transigerà nonostantetutte le mie proteste: dovrò ritornare ad essere donna.[…] Faccio chiamare Eugenio e gli presento questonuovo personaggio variopinto. Mi muovo veloce-mente in tutta la sala con gli stessi passi, gli stessi mo-vimenti delle braccia e della testa del mio ziod’America. Eugenio è contento. “Funziona - mi dice– Nikita mi piace”. Ha battezzato subito questo per-sonaggio. […] Eugenio lavora con l’idea che sono lamoglie di un uomo morto in guerra e mi corregge diconseguenza. […] Quando dopo alcuni mesi di tour-née e altre attività riprendiamo le prove, Eugenio ci

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comunica che lo spettacolo non si chiama più ExtraLargema La vita cronica. […] Per ogni nuovo spetta-colo ci poniamo il problema della lingua. Dopo l’espe-rienza del Sogno di Andersen e della difficiletraduzione dei testi danesi nella lingua dei diversiposti dove lo spettacolo veniva rappresentato, Euge-nio vorrebbe uno spettacolo senza questo problema.Pensa a un testo che non debba essere capito, che po-trebbe essere anche in una lingua inventata. Imma-gina uno spettacolo in cui la drammaturgia non ènecessariamente retta dal testo. […] Anche se Euge-nio insiste che tutti dobbiamo imparare i nostri testiin una lingua inventata, qualcosa mi dice che alla finedel processo rimarranno delle parole comprensibili»(pp. 37-53).

Julia Varley

Il ruolo dell’attore Kai Bredholt, nelle vesti di unavedova di guerra, è ben narrato nel testo Donna Vera,nel quale è possibile leggere: «Nello spettacolo faccio la parte di una donna, la ve-dova di un combattente basco. Ma la figura era origi-nariamente ispirata a Donna Vera, la mamma diEugenio Barba. L’idea di creare una figura femminileparte da una catena di pensieri messa in moto da Eu-genio stesso. Dopo una delle prime prove dello spet-tacolo nella sala blu, lui [Eugenio Barba] mi haproposto di utilizzare come ispirazione per il mio la-voro una persona che io conoscessi direttamente. […] Pensavo che lo spettacolo avrebbe potuto parlare diEugenio, e che quindi quella donna doveva essere suamadre, Donna Vera. Per questo ho chiesto ad Euge-nio di fargli un’intervista su di lei e sul tempo in cuilui era bambino. Ho anche preso in prestito da luidelle fotografie: foto di quando Vera era una giovaneragazza, di quando era una giovane vedova con duefigli piccoli e di quando era una donna matura affian-cata da due figli grandi con i vestiti militari. Questofu il punto di partenza per creare la figura. […] Horaccolto alcuni frammenti di testo dall’intervista conEugenio e con Pierangelo Pompa, che è assistente allaregia, li ho montati per comporre un testo lungo incui era Vera stessa a raccontare la sua vita. Comenell’intervista di Eugenio, tutto il resto era in ita-liano. Questo mi ha aiutato a trovare la voce di Vera.Mi riusciva facile parlare e raccontare in italiano. Eracome un canto morbido. […] I testi che avevo sceltohanno dato vita a tre scene, in cui Vera racconta lasua vita. Una di queste si svolge nella sala da pranzodella casa di Vera ed Eugenio. Lei racconta dell’in-contro con suo marito, e della sera di pochi anni dopoin cui morì. […] Eugenio mi aveva descritto minuzio-samente quella notte e di come Vera lo avesse man-dato a comprare del ghiaccio per il padre agonizzante[…] Mi sembrava un’immagine fantastica, e mi sa-rebbe piaciuto usarla. Per tanto tempo non ho capito

a che cosa servisse quel ghiaccio. Più tardi ho com-preso che serviva per far abbassare la febbre delpadre./ Nel momento in cui nella scena era Sofia enon più il pupazzo a rappresentare Eugenio bambino,potevo mandarla a prendere un blocco di ghiaccio efarla correre per lo spazio, come aveva corso Eugenioquella notte per i vicoli del suo paese. Mentre Verascatenava il suo caos, spezzando il suo canto in fal-setto con l’altra sua voce, molto più potente e pro-fonda./ In questa scena eseguivo tante piccole azioniconcrete: apparecchiare la tavola, piegare un fazzo-letto, lavare il cadavere, coprirlo con un lenzuolo.Queste semplici azioni mi piacevano, ma anch’essesono col tempo diventate una routine, che doveva es-sere rotta con l’aiuto del regista [Eugenio Barba]. […] Corri a comprare un pezzo di ghiaccio// Donna Vera:“Vengo da una famiglia aristocratica. Ero molto gio-vane quando mio marito Emanuele è morto e sono ri-masta vedova. Abitavamo a Gallipoli, una cittadinadi pescatori. Avevamo due figli, Ernesto ed Eugenio./La morte non mi ha spaventato, ma per molti anniho dormito con una pistola sotto il cuscino, perchéavevo paura che venissero a giustiziare mio marito.Aveva combattuto dalla parte sbagliata durante laguerra. L’ho conservata come ricordo. Non mi sonomai sentita a casa in Puglia, non era il mio mondo./Adesso che sono vecchia, chi mi sta più vicino è unafamiglia povera di peruviani, che vive a casa mia e siprende cura di me”./ Scegliendo Donna Vera avevosperato che lo spettacolo trattasse di Eugenio; che po-tessimo trattare la storia di un ragazzo di Gallipoli.Non per trovare risposte alla biografia di quel ra-gazzo, ma per sfidare la nostra abitudine a raccontaresempre storie molto aperte e ambivalenti. Per dareun’identità alle tante persone che nei nostri spettacolisubiscono delle offese oppure muoiono, o che cantanoe raccontano./ Ma lo spettacolo non ha trattato diEugenio e della sua vita. È un tema forse troppo vi-cino. “Non è interessante”, direbbe Eugenio. Forseperché lui corre ancora nelle strade di Gallipoli colsuo pezzo di ghiaccio col terrore di non arrivare intempo e vedere la morte negli occhi./ Eppure lo spet-tacolo tratta anche di Eugenio./ Una sera, a Città delMessico, gli chiesi se poteva parlarmi di sua madre.Il giorno dopo, e quello dopo ancora, ci siamo sedutiuno di fronte all’altro e per cinque ore di seguito haparlato di sua madre e di se stesso./ Del pezzo dighiaccio nella notte in cui suo padre morì. Dell’an-guilla nel pozzo di casa che bisognava stare attenti anon pescare, perché l’acqua avrebbe rischiato di av-velenarsi e l’intera famiglia Barba di morire. Ha rac-contato degli zii ossessionati dall’idea del suicidio edi come tre di loro, dopo vari tentativi, lo commiserodavvero. Di se stesso, l’unico della famiglia che an-dava in chiesa ogni giorno per pentirsi dei suoi peccatianche quando non c’era niente di cui pentirsi./ Ha

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raccontato di Vera che, in quanto donna, non poté se-guire il feretro del marito al cimitero e che da vedovanon poté più mostrarsi per strada dopo l’imbruniresenza essere accompagnata da uno degli uomini dellafamiglia. Vera, una donna forte dall’umorismo biz-zarro, che si piegava al suo destino senza perdere maila sua dignità, che non si risposò e da sola educò i suoidue figli a frequentare questo mondo./ Ci sono anchetutte queste storie nella Vita cronica. Nascoste sottomolti strati, ma ci sono: angoscia, felicità, dolore,colpa, morte, odio, umorismo, sorriso, suicidio, canti,musica e solitudine./ Donna Vera: “Ricordi la nottein cui è morto tuo padre? Tuo padre ed io eravamostati invitati a casa di amici. ‘Ritorneremo alle nove’,vi abbiamo detto. Erano le dieci e non eravamo an-cora tornati. Tu e tuo fratello avete sentito lo scalpi-tio di un cavallo, lo stridore di una carrozza, vocialterate. Uomini sconosciuti hanno adagiato tuopadre sul letto. Sono venuta verso te ed Ernesto e hodetto: ‘Non abbiate paura’. A te ho detto: ‘Corri acomprare un pezzo di ghiaccio, poi vai dal dottore edigli che tuo padre sta male. Dopo corri dal prete epregalo di venire con l’estrema unzione. Fa presto’.”./Eugenio aveva dieci anni la notte in cui morì suopadre. Oggi ne ha 74 e il pezzo di ghiaccio non si è an-cora sciolto» (pp. 29-34).

Kai Bredholt

La giovanissima attrice Sofia Monsalve scrive il testoQuel che mio padre m’ha lasciato, nel quale rilevo l’im-portanza di questi passi: «Tutto è cominciato il 5 febbraio del 2008. EugenioBarba aveva riunito i suoi collaboratori per iniziareun nuovo spettacolo dell’Odin Teatret. Ci siamo riu-niti nella piccola sala blu del teatro alle 7 di mattinanel buio dell’inverno danese. Eugenio sembrava il lea-der di un gruppo clandestino in una città sperdutadella Danimarca, uno che stava organizzando unnuovo complotto, un patto di sangue, una nuova av-ventura./ Era l’alba. Lui prese a parlarci delle super-stizioni: quegli scongiuri, parole, frasi o atti, che ciguidano nel momento di affrontare il destino: il grido“Jeronimo” che i soldati paracadutisti americani ur-lavano prima di lanciarsi nel vuoto. Con questaspinta superstiziosa doveva iniziare lo spettacolo che,per Eugenio, doveva essere una bestemmia rispettoalle nostre certezze. Poco dopo, ci ha presentato i per-corsi sui quali si sarebbe basato lo spettacolo. Fece ilmio nome e mi dettò quella frase che da quel mo-mento non mi avrebbe più lasciato, accompagnan-domi come un presagio, un mantra, un grido dibattaglia e di supplica, il mio “Jeronimo!”: “Sono ve-nuta perché mi hanno detto che qui c’è mio padre”.[… Dunque è] il 5 di febbraio del 2008, [… sono] se-duta accanto agli attori dell’Odin Teatret e di frontea un regista che ci invitava al complotto. Tremando

per l’emozione firmai il mio patto di sangue. Ero di-sposta ad abbandonare ogni certezza, la mia lingua,la mia famiglia e le abilità che credevo d’avere./ […]“In un villaggio deserto” fu il tema che Eugenio midiede per la mia prima improvvisazione. […] Dopoalcuni mesi di lavoro Eugenio decise che la scena sa-rebbe stata un dialogo con il personaggio di IbenNagel Rasmussen. […] Durante i primi mesi di proveil mio lavoro era condizionato dagli altri attori, erocome una marionetta nelle loro mani. […] Dal mioquaderno di lavoro: “Oggi Eugenio, giusto primadella mia entrata in scena, è venuto da me con unabenda dorata per coprirmi gli occhi. Mi ha bendatain maniera tale che non potevo veder nulla, neancheun’ombra. Mi ha detto: ‘Ora entra in scena e fai tuttoquello che hai fatto fino ad ora’.”. Si è aperto unnuovo spettacolo davanti ai miei occhi bendati. […]Quando Eugenio aveva concluso il suo discorso,quella mattina del 5 febbraio del 2008, il sole era giàuscito. Con la luce erano arrivate le prime scene, e conle scene esplose il caos. E il caos ci ha accompagnatoper questi quattro anni, un caos fluttuante che as-sume e perde forma; che si amalgama e poi si suddi-vide» (pp. 24-27).

Sofia Monsalve

Di Nando Taviani cosa si può dire oltre quello cheormai tutti noi sappiamo. Da più di quarant’annisegue e sta accanto all’Odin come un buon padre, uncaro fratello, un devoto figlio. A lui dobbiamo tanto,soprattutto deve chi qui scrive, il quale non avrebbepotuto mai conoscere così come conosce oggi (almenocredo) l’Odin Teatret di Eugenio Barba, senza le let-ture fatte sui testi di Taviani, il quale, per questo ul-timo stupendo spettacolo dell’Odin, scrive il testo LeIndie nere dell’Odin Teatret. Scritti degli attori: Le «”Indie nere” sono anche le miniere del nostro tea-tro di Holstebro: etiche artigianali, esperienze, im-maginazioni, motivazioni e necessità personali, quasimai visibili, ma capaci di mettere in moto e nutrire illavoro visibile. […] Il lavoro per La vita cronica è ini-ziato nel febbraio del 2008 e si è concluso nell’au-tunno del 2011. In un arco di quasi quattro anni,Eugenio Barba e gli attori hanno ritagliato alcunepiccole oasi di tempo liberato da ogni altro impegnoin cui dedicarsi esclusivamente ad un’opera nuova.[…] Il tempo in cui l’intero ensemble dell’Odin si èdedicato all’invenzione della Vita cronica corri-sponde, tutto sommato, a circa otto mesi di lavoro:febbraio 2008, maggio 2009, febbraio 2010, ottobre-novembre 2010, febbraio-marzo 2011, settembre2011. […] A orientare le prospettive per l’elabora-zione del nuovo spettacolo c’erano all’inizio soltantodue titoli. Prima XL (Extra Large), dall’apparenzatalmente dozzinale da far ridere o pensare. Poi La vitacronica, semplicemente enigmatico. […] Ancora viva,

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ma sempre più lontana, c’era la sorpresa del primogiorno di lavoro, la fantasiosa infrazione delle regole,quando Eugenio Barba, con un dribbling beffarda-mente autobiografico, aveva spinto l’ensemble in unasorta di carnevale arcaico: la celebrazione del suo fu-nerale. […] Fra una tappa e l’altra, mentre l’operarestava in letargo, Barba immaginava scene e mon-taggi, e nell’immaginazione li distruggeva. Immagi-nare e distruggere sono azioni complementari per unregista a cui l’esperienza ha insegnato che un modoper riuscire è quello di sbagliare volontariamentestrada, e che la soluzione giusta è quella imprevista,che sorge da sé, con la forza convincente della seren-dipità. […] Nessuno, né gli attori né il loro regista-drammaturgo, aveva in mano un “piano diproduzione” che delineasse la trama, i testi e la sce-neggiatura dello spettacolo a venire. Negli ultimi ven-t’anni lavorare in questo modo è diventato normalenell’enclave dell’Odin. […] È un modo di lavorare ba-sato su un paradosso: per essere libero, Barba develasciar mano libera agli attori. E viceversa gli attoriconquistano una nuova libertà di scelta lasciandomano libera a Barba e agevolando l’indipendenza deisuoi interventi. […] Le cose, insomma, vanno alla ro-vescia: non dal progetto alla sua realizzazione, madalla scoperta alla sua comprensione; non dal sog-getto al modo di interpretarlo, ma dall’emergenzainattesa al modo di giustificarla. […] Far camminarele cose a rovescio è una strategia cosciente, sperimen-tata, cresciuta da una storia precisa, difficile da imi-tare. Caratterizza il comportamento dell’Odin anchealdilà della sua pratica artistica. […] Gli scritti quipresentati sono stati composti nell’estate 2011,quando lo spettacolo non ha ancora assunto la suaforma definitiva. “Forma definitiva”, nel nostro caso,vuol dire l’opposto di “forma prevista”. In questomomento, tutti sappiamo che La vita cronica, benchéconsista già di scene, relazioni e azioni ben definite efissate, potrà in pochi giorni di prove, mutare radi-calmente aspetto, e sigillare il proprio viaggio in ma-niera diversa dalle innumerevoli ipotesi di volta involta formulate dal suo regista-drammaturgo, o au-spicate dall’uno o dall’altro di coloro che hanno par-tecipato al lungo processo. […] Protagonista èpotenzialmente ogni attore. Per rendersene conto, ba-sterà che uno spettatore riveda più volte lo spettacolopedinando con lo sguardo e l’attenzione ogni voltauna figura diversa. La drammaturgia qui è fatta ap-posta per permettere a ogni attore d’essere facoltati-vamente considerato come centro dell’azionecomplessiva, e per liberare ogni singolo spettatoredalla comoda ma usuale situazione di spettatore te-leguidato (letteralmente: guidato da lontano)./ Que-sto tipo di drammaturgia, fatta per liberare sia gliattori che gli spettatori dalle tradizionali gerarchie

drammaturgiche (primo attore, personaggi secondari,ecc.) ritorna in tutti gli spettacoli dell’Odin Teatret,in maniera particolarmente cosciente e raffinata daMin fars hus in poi./ Min fars hus è del 1972. Fu rap-presentato per l’ultima volta nel gennaio del ’74. Duedei “protagonisti” di Min fars hus sono presenti nellaVita cronica. Un terzo [Torgeir Wethal], era presentefino a poco tempo fa, quando la malattia e la mortel’hanno costretto per la prima volta ad assentarsi dauno spettacolo del teatro ch’egli aveva contribuito afondare. Gli attori, Eugenio Barba, alcuni degli spet-tatori che da più tempo aderiscono al nostro teatro,continuano a vederlo baluginare qua e là nello spet-tacolo. Nella Vita cronica c’è una quarta personastrettamente legata a Min fars hus, benché non ne fa-cesse parte: l’aveva visto, e poi aveva chiesto di en-trare nell’Odin. E inopinatamente vi entrò. […]L’Odin Teatret è in vita dal 1964, molte volte si è in-sistito sul record di longevità che detiene nel contestodel teatro contemporaneo. Eugenio Barba ama ripe-tere che tale record equivale a “una mostruosità, unaffronto alla natura del teatro”. Immagino che così,esagerando un poco, riesca a controllare gli effetti diquello strano cocktail che in genere dà alla testa perla sua mistura di fierezza per il passato, presenza si-cura di sé, più il dovuto turbamento nei confronti delfuturo. […] Ricordo il primo giorno di lavoro per lospettacolo che doveva chiamarsi XL e che poi s’è gua-dagnato il titolo di Vita cronica. Lo ricordo come unimprinting o forse un’alba irripetibile. Era il mattinodel 5 febbraio 2008. Nei calendari tradizionali quelgiorno era segnato come Martedì Grasso: uno di que-gli ultimi giorni di carnevale dei quali solo vecchis-simi libri conservano la memoria essenziale. […] Lapiccola stanza blu, quel martedì del febbraio 2008, siriempiva di accessori e fantasmi teatrali. In quell’in-gombro mascherato cadevano tutto il tempo le ma-schere e le cortine. Da dietro una di quelle cortinecomparivano – realtà o immaginazione? – due sorellegemelle. Snudavano le armi e duellavano: Verità una,l’altra Speranza. Non erano allegorie, erano sorelle.E non era possibile indovinare se quel duello fosse unassassinio o una “lotta fiorita”, come in certe esotichecontrade viene chiamato l’amore» (pp. 16-23).Nando Taviani

Nella Vita cronica l’attore Thomas Bredsdorff inter-preta la parte dell’avvocato, la cui zoppia è quella piùvistosa. Scrive il testo Il teatro cronico: «Il canto dell’Odin Teatret sarà tra poco alle sue ul-time note. Al prossimo anniversario rotondo compirà50 anni e il suo direttore ha da tempo raggiuntoun’età più che venerabile. L’energia non impone an-cora limiti, ma la biologia lo farà presto. Ineluttabil-mente, a una data che si approssima ogni giorno di

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più./ Di regola, il nostro pensiero rimanda a domanila consapevolezza della fine imminente. Parliamo vo-lentieri della morte, ma non della nostra. L’Odin Tea-tret ha scelto un’altra strategia: guardare negli occhila fine che si avvicina. Cosa succede a un collettivoche fissa lo sguardo sulla propria fine? Questo era ilpunto di partenza della Vita cronica./ Vi sono diversepossibilità. Si può commettere suicidio insieme, comeha fatto il collettivo religioso riunito intorno al suoforte leader a Jonestown nella giungla della Guyana.Si possono anche evidenziare i segnali di morte nellacultura in cui si vive e consolarsi constatando che nonsi è gli unici ad aver raggiunto un’età venerabile, con-dividendo il declino dell’Occidente, secondo le paroledel filosofo Spengler. O si può sperare che qualcosad’inatteso salti fuori. È quello che, ai miei occhi, èsuccesso nel processo che si è concluso con La vita cro-nica. […] La lingua – non il linguaggio scenico con lesue sfaccettature di luci, suoni e movimenti, ma la lin-gua che esce dalla bocca sotto forma di parole – hasempre costituito un problema per l’Odin Teatret, icui attori parlano lingue diverse e il cui pubblicosparso nel mondo spesso comprende una lingua chenessuno degli attori parla. Il fatto che per tanti annisia riuscito a comunicare con spettatori di diversi con-tinenti la dice lunga sulle particolari capacità di que-sto teatro» (pp. 11-13).

Thomas Bredsdorff

Nella brochure dello spettacolo, Eugenio Barba scrivedue testi (Incomprensibilità e speranza; Il primogiorno), dei quali riporterò qui i passi fondamentali.Ma prima è necessario che io dica che per 40 anni hoinseguito il regista dell’Odin Teatret che, finalmentee sodalmente, ho incontrato questo indimenticabilenovembre 2011. Alla fine degli anni ’70 non sapevoneanche chi fosse Eugenio Barba, o meglio, per via diincroci parenterali acquisiti, sapevo chi fosse, ma nonne conoscevo a fondo l’attività. Poi il tempo, pianopiano e, soprattutto, l’incontro a Roma con suamadre – Donna Vera Gaeta Barba –, che mi aiutòmolto mettendomi a disposizione i materiali per unostudio su un importante personaggio dell’800, avo delregista - Emanuele Barba (Gallipoli 1818-1887) -, miaiutarono a cominciare a capire il personaggio attra-verso un primo contatto epistolare. Intanto, nell’im-mediato, ed anche per via di una certa assonanzad’interessi (viaggi, poesia) ho conosciuto più da vi-cino il fratello del regista – Ernesto Barba – un poetae un giramondo che, pur di idee e ideologie total-mente lontane e differenti delle mie, ha affascinato ilmio percorso. Eugenio, invece, si è sempre tenuto lon-tano da me, nonostante la parentesi epistolare. Nonho mai capito il perché, nonostante che il suo teatro,non appena l’Odin arrivò in Salento, cominciò ad ap-

passionarmi moltissimo. Praticamente, ho visto tuttigli spettacoli dell’Odin Teatret rappresentati a Leccee a Gallipoli, e tuttavia, la presenza qui di Eugenio(anche quella estiva di Carpignano Salentino) l’hopercepita sempre contraddistinta da una certa suadiffidenza nei miei confronti. Mai un incontro che sipotesse dire essere tale. Tuttavia, e nonostante ciò,ho sempre amato il regista, il suo modo di fare teatro,unico al mondo, e soprattutto amo i suoi testi dram-maturgici, degni di un premio Nobel. Questo fino alnovembre scorso, quando, finalmente, senza che io miaccorgessi di nulla, e dopo 40 anni di attesa, Eugeniomi ha teso le braccia e mi ha abbracciato.

Nel primo testo scritto, Eugenio Barba scrive:«Mi è stato detto spesso che i miei spettacoli non sonomolto comprensibili. Penso allora a una riflessione diNiels Bohr: il contrario della verità non è la menzo-gna, ma la chiarezza. La verità è che a me in generepiace la chiarezza. Nei libri apprezzo la complessità,ma se sono irreparabilmente oscuri la noia si insinua./A teatro è diverso. Mi capita di guardare uno spetta-colo comprensibile e di pensare a un panorama pie-trificato: una distesa di ghiaccio. Vivo questasensazione: un panorama immobile è un panoramadisperato./ Non c’è speranza quando si è convinti chenon ci sia niente da fare. La disperazione, prima d’es-sere uno stato d’animo, è l’accettazione più o menodolorosa dello status quo, l’ammissione delle forze incampo, di tutto quel che è evidente, giudizioso e alquale, in fin dei conti, ci sottomettiamo. La dispera-zione è l’inazione che deriva dall’intendere non solobene, ma fin troppo bene quel che ci circonda, quelche sta dietro gli avvenimenti e quello che si pro-spetta davanti, nel futuro./ Un misterioso legame legala speranza all’incomprensibilità, mi dico. Forse nonè un mistero, la speranza è solo un modo di conser-vare la possibilità di illudersi. A me sembra qualcosadi più: un’indecifrabile forza oscura che mi aiuta a ve-dere in dettaglio quello che voglio rifiutare, senza ri-fugiarmi nella condanna generica e nellarassegnazione. E senza illudermi d’aver trovato lachiave che rende chiaro ciò che invece sperimentocome complessità che confonde./ Mi piacerebbe che imiei spettacoli fossero come correnti di mare, noncome panorami immobili./ Ho appena terminato unaltro spettacolo. Lo guardo, mi sembra diverso daglialtri. Una domanda mi angoscia: non sarà immobile?[…] Se mi domando: “Che cosa è il teatro?”, possotrovare molte risposte brillanti. Ma nessuna mi pareconcretamente utile per agire nel mondo che mi cir-conda e per tentare di cambiare almeno un piccoloangolo. Se invece mi domando in quale recinto para-dossale dello spazio e del tempo si possano far affio-rare le forze oscure che spadroneggiano nella Storia e

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nell’interiorità dell’individuo, e come renderle percet-tibili nella loro fisicità senza produrre violenza, di-struzione e autodistruzione, la risposta mi appareevidente: è il recinto chiamato teatro./ Ho fatto, finoad ora, spettacoli che si riferivano ad avvenimenti edesperienze del passato o del presente. Per la primavolta, La vita cronica è immaginata in un futuro pros-simo, simulato, simultaneo. La scena è la Danimarcae l’Europa: diversi paesi allo stesso tempo. La storiaè quella dei primi mesi dopo una guerra civile. Non èun’ambientazione credibile (anche se non tanto incre-dibile da essere consolante). Non è un insieme com-prensibile. […] Non credo che il mio compito nelteatro consista nel fornire un’interpretazione atten-dibile degli avvenimenti che altri hanno narrato. Noncredo neppure che consista nel mostrare delle vied’uscita dalla morsa in cui ci sentiamo intrappolati.Anche se volessi farlo, non ne sarei capace. Credo al-l’impegno verso un altro compito: dare forma e cre-dibilità all’incomprensibile e agli impulsi che sono unmistero anche per me, trasformandoli in una matassadi azioni-in-vita da offrire alla contemplazione, al fa-stidio, alla ripugnanza e alla misericordia degli spet-tatori. Questo è l’impegno che mi costringe ancora almestiere del teatro. Vorrei che questa matassa diazioni-in-vita infettasse la zona dove, in ciascuno dinoi, la miscredenza si intreccia all’ingenuità./ Si credeche uno spettacolo teatrale abbia innanzi tutto ilcompito di comunicare. È vero fino ad un certopunto. Per me il suo compito primario consiste nelcreare relazioni e condizioni di vita potenziata. Perchi? Per lo spettatore, per l’attore?/ Tra le tante ri-percussioni che amo del teatro, vi è il momento in cuifa capolino una domanda bizzarra: che cosa si na-sconde in quel che sembra totalmente chiaro? Lachiarezza è una forma di cecità, manipolazione o cen-sura? Ancora uno spettacolo incomprensibile? Vorreiche La vita cronica aprisse uno spiraglio nel magmabuio e incandescente dell’individuo, e sul suo labo-rioso e vitale zigzag per liberarsi da un abbraccio ge-lato: quello implacabile e indifferente della GranMadre degli Aborti e dei Naufragi, Nostra Signora laStoria» (pp. 4-8).

Eugenio Barba

Dell’altro testo del regista – Il primo giorno – tutto èda citare:«(Dal mio diario) 16 settembre 2007: preso due deci-sioni. La prima l’ho chiamata L’interferenza del teatro.[…] La seconda decisione è più temeraria: un nuovospettacolo con tutti gli attori. Sapremo ancora creareuno spettacolo insieme dopo tanti anni? Ho già il ti-tolo: La vita cronica, il verso di una poesia di PauloLeminski che Aderbal [Freire Filho] mi fece scopriresorseggiando un bicchiere di Tanat uruguayano. Per

ora il titolo di lavoro sarà XL, Extra Large./ Ho tele-fonato subito a Nando [Taviani] e raccontato laprima immagine: una bara di cristallo piena d’acquanella quale nuota un’anguilla e una giovane anne-gata. Poi altre idee, Antigone circondata da vene-randi dottori, Sant’Agostino, San Gerolamo, Origene,il bambino dell’ultima scena di Aliosha nei FratelliKaramazov, la prima frase di Pedro Pàramo di JuanRulfo: “Sono venuto a Comala perché mi hanno dettoche qui abita mio padre, un certo Pedro Pàramo”.Qual è il tempo della primavera, delle energie vergini,ignorate eppure accanto a te, dentro di te? La rispo-sta è evidente: la fine di una guerra, tra lutti e mace-rie. Incomprensibilità che si tinge di speranza. Gliattori si allontanano dal dolore e dalla disperazionescossi da un filo invisibile, ma udibile: la musica./ In-comprensibilità come compassione, intuizione dellasofferenza e della gioia dell’altro. E la speranza? Ilpiacere infantile di raccontare segreti, porre do-mande, amare, inoculare dubbi, attraversare paesi,libri, teatri./ Mi sento già stanco all’idea che debbofare il meglio che posso. Spero di avere fortuna e, coni miei attori, far meglio del meglio che posso./ L’in-telligenza, a teatro, non fa piangere. Sarò capace difar versare una lacrima ad almeno uno spettatore?John Keats: il poetico è esperienza senza pensiero.Non dimenticare Laurence Sterne: I progress as I di-gress./ L’impietosa scalata del calvario insieme ai mieiattori: le tensioni e incomprensioni per realizzare in-sieme la tradizione della rottura, per lottare giornodopo giorno contro i cliché che ci allontanano dallenostre fonti vitali./ la vita sotterranea del teatro» (p.9).

Eugenio Barba

Dopo aver visto per la terza volta il 12 novembre Lavita cronica, dentro il cuore mi piangeva a diluvio, cosìcom’è continuato a piangere anche domenica 13 no-vembre, alle 11 di mattina dentro una sconosciutasala dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce. Lì ho assi-stito alle prove dell’Ave Maria, l’ultimo spettacolo inallestimento di Eugenio, che l’Odin Teatret porteràin giro per il mondo nel 2012. Parlare dell’Ave Maria,interpretato da Julia Varlej con la regia di EugenioBarba, è per me impossibile. Oggi, che scrivo questenote per la rivista di Gallipoli, sento il cuore ancoratremarmi.

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Eugenio Barba in una fotografia di Fiora Bemporad a Holstebro nel 1999

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«Rimangono indelebili nel mio midollo e nel miocervello La Madre di Gorkij-Brecht al BerlinerEnsemble, uno spettacolo Kathakali nell’umidanotte indiana, Il principe costante di Grotowski.In maniera altrettanto imprevista e non volutaho sperimentato e continuo a sperimentare il Di-sordine nel lavoro con i miei attori. Fin dai primianni, certi disegni delle loro azioni fisiche o vo-cali, a forza di essere ripetuti e raffinati, salta-vano verso un’altra natura o realtà d’essere./ L’hoconstatato personalmente: da un altrove che nonso dove sia e che cosa sia, nella mia arena di gallipiomba o emerge un copro più denso, incande-scente e luminoso dei corpi che possediamo. Que-sto corpo-in-vita vi fa irruzione, incurante delbuono o del cattivo gusto, per l’imprevisto d’unalaboriosa previsione o per la congiunzione delcaso e del mestiere./ Il teatro ha costituito – oggime ne rendo conto con chiarezza – uno stru-mento prezioso per fare incursioni in zone delmondo che sembravano fuori incursioni nelleterre incognite che caratterizzano la realtà ver-ticale, o spirituale, dell’essere umano. E incur-sioni nello spazio orizzontale delle relazioniumane, degli ambiti sociali, dei rapporti di poteree della politica, nella vischiosa realtà quotidianadi questo mondo che abito ma a cui non voglioappartenere. […] Il teatro è il mestiere dell’in-cursione, un’isola galleggiante di dissidenza, unaradura nel cuore del mondo civilizzato. Rare, pri-vilegiate a volte, è la turbolenza del Disordineche scuote il mio modo familiare di convivere conlo spazio ed il tempo attorno a me e, creandoscompiglio, mi costringe ad affrontare l’altraparte di me».

da Eugenio Barba, Figli del Silenzio. Riflessioni per i quarant’anni dell’Odin

Teatret/ al popolo segreto – gli amici dell’Odin, in Il sogno di Andersen,

Odin Teatret, Holstebro, settembre 2004, pp. 60-61

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Eugenio Barba con Jerzy Grotowski

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«Le ossa fanno male, la vista si è affie-volita e costa più fatica lavorare dodiciore al giorno. Eppure è come se unaforza poco sensata tenesse viva la mianecessità di fare teatro. Sono molti imotivi per cui continuo. Posso sintetiz-zarli con una frase: la professione tea-trale è la mia sola patria, e Holstebrola sua casa./ Ed eccomi qui a festeg-giare i quarant’anni del mio teatro pre-parando uno spettacolo su H. C.Andersen e le sue fiabe. Ho quasi set-tant’anni e mi diranno che sto diven-tando infantile./ Vorrei scriverlaanch’io una fiaba. Racconterebbe didue fratelli, figli del Silenzio, che gi-rano il mondo l’uno come l’ombradell’altro. Hanno l’aspetto di teppistie si chiamano Disordine ed Errore».

da Eugenio Barba, Figli del Silenzio. Riflessioni

per i quarant’anni dell’Odin Teatret/ al popolo segreto – gli amici dell’Odin,

in Il sogno di Andersen, Odin Teatret, Holstebro, settembre 2004, p. 50 «»

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