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L’AVVENTO DEI REGIMI TOTALITARI E LA SECONDA GUERRA MONDIALE

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L’AVVENTO DEI

REGIMI TOTALITARI

E

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

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Il TOTALITARISMO

Il termine totalitarismo fu inventato a quanto sembra dagli antifascisti italiani già nella prima metà degli anni ’20. Successivamente, furono gli stessi fascisti, a cominciare da Mussolini, ad usarlo “in positivo” per definire la loro aspirazione, peraltro mai pienamente realizzata, ad una identificazione totale fra Stato e società.

Per totalitarismo si intende la dottrina o la prassi dello Stato che pretende identificarsi con l’intera vita dei suoi cittadini.

Questa forma di governo presenta congiuntamente le seguenti caratteristiche:

1. Una ideologia ufficiale improntata da una filosofia assolutistica, la quale vuol trasformare radicalmente la società esistente e la stessa natura umana

- identifica a tal fine la SOCIETA’ con lo STATO;- subordina l’individuo a questo in tutti gli aspetti della vita;- definisce qual è l’INTERESSE reale che il popolo deve perseguire;- legittima l’intolleranza nei confronti di qualsiasi opposizione, anche se

maggioritaria, in nome della nuova società che nascerà dalla RIVOLUZIONE.

2. Un sistema politico atto a sfruttare e a sviluppare i caratteri della SOCIETA’ DI MASSA, dominato da un partito unico. Il partito comprende solo una frazione esigua della popolazione ed entro il partito una frazione minima dei membri (alcune migliaia) detiene per intero il potere.

3. Un sistema economico dove produzione e distribuzione dei generi essenziali di beni materiali e di servizi sono controllati dal centro, tramite un’apposita BUROCRAZIA che elabora e applica forme più o meno rigide di pianificazione.

4. L’organizzazione capillare delle forze di polizia a fini di controllo della vita privata dei cittadini e di repressione del dissenso in ogni sua forma;

- un’ampia discrezionalità di tali forze nel fermare, imprigionare, interrogare – usando al caso mezzi di coercizione fisica – qualsiasi cittadino da esse ritenuto sospetto di devianza politica;

- una collusione palese tra polizia e magistratura nel trattamento giuridico e penitenziario di esponenti veri o presunti dell’opposizione;

- la frequente assegnazione di questi ultimi a campi di lavoro e di “rieducazione” ideologica

5. Un controllo rigoroso della circolazione di ogni tipo di informazione, attraverso uno strettissimo monopolio statale dei mezzi di COMUNICAZIONE DI MASSA; la censura su teatro, cinema, libri, riviste; la selezione di un ristretto numero di studiosi graditi al partito, ai quali è concesso il privilegio di accedere alle biblioteche di Stato dove essi possono consultare e studiare i testi letterari, filosofici, storici, scientifici, d’ogni Paese e d’ogni tempo, vietati al resto della popolazione.

6. La designazione permanente e periodica, a seconda della situazione politica, economica e militare, interna ed esterna, di un NEMICO ASSOLUTO, che occorre combattere ed eliminare a qualsiasi costo, sotto la veste di una minoranza interna abbastanza ampia da essere socialmente visibile, ma non tanto da rischiare di apparire

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superiore come nemico. I nemici più comunemente designati dal totalitarismo moderno e contemporaneo sono stati gli ebrei, la borghesia, i partiti dell’estrema sinistra (sotto i regimi fascisti).

Tale termine è talora anche usato a indicare ogni dottrina assolutistica, in qualsiasi campo si riferisca. Spesso per estensione si intende per totalitarismo ogni forma di assolutismo dottrinale o politico.

I principali esempi di regimi totalitari sono quelli relativi alla Germania nazista e all’Italia fascista (totalitarismi di destra) e l’Unione Sovietica stalinista (totalitarismo di sinistra).

Le differenze tra i regimi totalitari di destra e di sinistra si identificano per: le ideologie

- internazionalista quella sovietica- nazionalista quella nazista o fascista,

gli obiettivi

- trasformazione profonda della società (sovietica)- enfasi su ruolo del leader e dell’élite con accentuazione del razzismo (nazifascista)

FASCISMO E AUTORITARISMO NEL MONDO

Gli anni venti e trenta del XX secolo furono caratterizzati da una profonda crisi della democrazia e dal dilagare in Europa e in America Latina di regimi dittatoriali e di governi reazionari che trassero dal fascismo italiano numerosi motivi di ispirazione: innanzitutto l’antisocialismo e l’antibolscevismo; ma anche il disprezzo per la democrazia parlamentare e per lo stato liberale, accompagnato dal rifiuto del pluralismo politico e sociale. Quest’ultimo cedette il passo all’autoritarismo, al culto del capo, al partito unico e al ferreo controllo delle masse.

Un altro denominatore comune fu il ricorso a forme di discriminazione sociale e politica nei confronti degli ebrei e degli oppositori, primi fra tutti i comunisti. Sotto la dittatura, i popoli persero ogni possibilità di difendere i loro diritti e di esprimere liberamente le proprie aspirazioni.

Il regime totalitario fascista, nel senso proprio del termine, fu applicato solo in alcuni stati dell’Europa occidentale (Italia, Germania, Austria, Portogallo, Spagna), e in Giappone. Qui la casta dei militari, appoggiata dai maggiori gruppi economici, instaurò negli anni trenta un ferreo regime totalitario, al cui vertice si trovava l’imperatore e il cui scopo era l’espansione territoriale in Asia:

Dittature e governi autoritari, retti prevalentemente da militari e appoggiati dai proprietari terrieri e dalle chiese locali, nacquero invece nell’Europa centro-occidentale (Ungheria e Polonia), negli stati balcanici (Grecia, Romania, Bulgaria, Iugoslavia, Albania) e nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania).Regimi analoghi si affermarono

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in molti stati dell’America Centrale e Meridionale, rovinati dalla crisi del ’29 a causa dei loro stretti legami con l’economia statunitense.LA RUSSIA SOVIETICA

La Russia sovietica uscì semidistrutta dalla guerra civile che aveva opposto i “rossi” ai “bianchi”. Essa portò le devastazioni e l’odio spietato che accompagna sempre le lotte fratricide, ma a questo disastro si aggiunse la mancanza di ogni prodotto di importazione, a causa delle sanzioni economiche con cui l’Europa tentò di indebolire il governo rivoluzionario e di bloccarne la resistenza.

Nel 1921 gli ultimi capisaldi della resistenza “bianca” erano stati espugnati, però la vittoria fu ottenuta imponendo ai russi condizioni di vita durissime, non solo sul piano materiale ma anche su quello delle libertà politiche.

L’obiettivo originario di Lenin era stato quello di sostituire al potere borghese (instaurato da Kerenskij dopo la caduta dello zar) la dittatura del proletariato. Invece, al termine della guerra civile, fu instaurata una dittatura ben diversa: non quella di una classe sociale, ma quella di un partito, la dittatura del partito comunista. Le sue principali caratteristiche furono:

• Provvedimenti economici di emergenza, applicati in maniera rigidissima, all’occorrenza violenta, noti come “comunismo di guerra”. Essi si basavano: a) sulla requisizione dei raccolti; b) sul divieto del commercio privato; c) sulla nazionalizzazione delle poche industrie private sopravvissute alla guerra.

• Creazione di una polizia politica chiamata Ceka. Le quattro lettere di Ceka sono, in russo, le iniziali di parole che significano “Commissione straordinaria russa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio”; sciolta nel 1922 fu sostituita dalla Gpu che significa “Amministrazione politica governativa”. Inizialmente la Ceka aveva il compito di reprimere gli oppositori del regime (cioè i “bianchi”), ma ben presto cominciò a perseguitare anche i membri del Partito che non condividevano la linea del gruppo dirigente. La Gpu divenne a sua volta potentissima e instaurò un regime di polizia, cioè un sistema di controllo capillare della vita privata dei cittadini, in netta contraddizione con i principi di libertà proclamata dal socialismo e dal comunismo.

Con questi provvedimenti Lenin riuscì a fronteggiare i problemi più urgenti e a sfamare le città e l’esercito, ma non a evitare il disastro economico: rispetto al 1913 la produzione agricola risultò più che dimezzata e quella industriale sette volte più bassa.

LA NEP E LA NASCITA DELL’URSS

Il gravissimo dissesto economico portò con sé nuove tensioni sociali che sfociarono in aperte sommosse contro le privazioni imposte dal governo. La più grave ebbe luogo nel 1921 e fu la ribellione dei marinai di Kronstadt, una base navale sul Mar Baltico, che l’Armata rossa represse nel sangue.

Nel 1921 tuttavia Lenin stava già abbandonando il comunismo di guerra per varare una nuova politica economica (Nep) il cui obiettivo immediato era il risanamento dell’agricoltura. Fu abbandonato il sistema delle requisizioni di grano e verdura e fu restituito ai contadini il diritto di vendere liberamente i loro prodotti dopo averne

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consegnato una parte allo Stato. La stessa libertà fu riconosciuta a tutti i settori del commercio interno e della piccola industria. Viceversa la grande industria, i trasporti, le banche e il commercio estero restarono nazionalizzati e quindi sotto il rigido controllo dello Stato.

In sostanza si cercò di trovare un punto di equilibrio tra:

ECONOMIA SOCIALISTA

• Fondata sulla collettivizzazione dei beni

ECONOMIA CAPITALISTA

• Fondata sull’iniziativa privata e il libero mercato

A questa parziale liberalizzazione dell’economia – che permise una positiva ripresa sia della produzione agricola, si di quella industriale – seguì una serie di riforme politiche e sociali:

• Furono abbattuti i privilegi di origine feudale;• Fu proclamata la parità di diritti fra tutte le nazioni e le lingue che facevano parte

dello stato sovietico;• Fu riaffermata l’uguaglianza di tutti i cittadini;• Fu riconosciuta l’uguaglianza tra i sessi, istituiti il matrimonio civile e il divorzio,

stabilita l’uguaglianza tra i coniugi, l’equiparazione dei figli illegittimi, l’assistenza statale a maternità e infanzia;

• Tra i diritti costituzionali furono inseriti il diritto all’istruzione, al lavoro, all’assistenza sociale.

Contemporaneamente fu intrapresa una lotta contro la chiesa ortodossa che portò alla confisca di tutti i suoi beni e alla totale scristianizzazione dello Stato.

Infine la Nep spinse il governo sovietico ad abbandonare il progetto della rivoluzione mondiale e a rientrare nella vita politica ed economica internazionale.Il riconoscimento del principio di autodeterminazione dei popoli fruttò alla Russia il riavvicinamento dell’Ucraina, della Bielorussia e della Russia asiatica che, durante la rivoluzione, se ne erano separate. Si giunse così nel 1922, alla fondazione dell’Urss, cioè dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, una federazione di 26 repubbliche con capitale Mosca.

Lenin non poté seguire gli sviluppi della Nep. Ammalatosi gravemente, morì agli inizi del 1924.

LA DITTATURA DI STALIN

La morte di Lenin aprì il problema della successione alla guida dell’Unione Sovietica. I due candidati più prestigiosi erano Leone Trockij – il popolarissimo capo dell’Armata rossa – e Giuseppe Stalin, il potente segretario del partito comunista.

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I due uomini erano diversi sia dal punto di vista umano sia da quello politico: quanto il primo era favorevole a un dibattito politico aperto al confronto e alla discussione, tanto il secondo era convinto che il partito andasse guidato con un pugno di ferro, eliminando ogni opposizione. Ma il punto di maggior dissenso tra i due leader riguardava il futuro del socialismo.

Per Trockij, il nuovo ordine avrebbe potuto trionfare in Russia solo se tutto il mondo avesse imboccato la strada della rivoluzione, una linea che egli sintetizzava nello slogan “rivoluzione permanente”. Viceversa, secondo Stalin, era sufficiente costruire e consolidare il socialismo in un solo paese, cioè in Russia, per riuscire a influenzare tutti gli altri. La condizione indispensabile per il raggiungimento di questo obiettivo era innanzitutto la trasformazione dell’Unione Sovietica in una grande potenza industriale.

Dopo quasi tre anni di durissima lotta politica, nel 1927 prevalse la linea di Stalin e Trockij venne prima espulso dal partito, in seguito addirittura dall’Urss. Il primo paese socialista del mondo entrò così nel lungo tunnel della dittatura staliniana. Nel linguaggio politico attuale il termine dittatura designa i governi autoritari, antidemocratici o anticostituzionali nei quali tutto il potere è nelle mani di una persona sola, il dittatore, che in Russia fu Stalin, il quale governò per trent’anni.

LA COLLETTIVIZZAZIONE DELLE CAMPAGNE

Nel 1928- 29 Stalin pose fine alla Nep inaugurata da Lenin per suscitare il consenso dei contadini.

- La proprietà privata della terra fu abolita. Tutti i contadini furono costretti a entrare in aziende agricole fondate sulla proprietà collettiva della terra, i kolkhoz (da coltivazione collettiva) in cui venivano messi in comune le terre, le case, i magazzini, le attrezzature, le sementi.

- Furono create anche aziende agricole modello, i sovkhoz di proprietà dello Stato (da coltivazione Sovietica) e dirette da funzionari del partito.

Questa decisione incontrò violente resistenze da parte dei Kulaki, i contadini ricchi, ai quali la Nep aveva consentito di costruire aziende agricole di notevoli dimensioni , con buoni margini di guadagno.

Pur di non consegnare raccolti e bestiame allo Stato, che li pagava molto meno del prezzo che avrebbero avuto sul libero mercato, essi distrussero gran parte dei loro prodotti agricoli.

Stalin reagì con estrema durezza e scatenò contro di loro la prima grande repressione di massa, sterminandone 5 milioni che furono uccisi nei loro villaggi o deportati in Siberia dove morirono di freddo e di fame.

Dopo aver collettivizzato le campagne, Stalin lasciò ai contadini una parte minima dei raccolti e ottenne così di costituire un capitale proveniente dall’agricoltura per finanziare l’industria.

LA POTENZA INDUSTRIALE

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Anche nel settore dell’industria la proprietà privata sparì. Un organismo dello stato, il Gosplan, ebbe il compito di elaborare piani quinquennali con obiettivi imperativi. Sin dal primo di essi, varato nel 1928, fu data la priorità all’industria pesante.

Fecero progressi notevolissimi la siderurgia e gli armamenti, mentre la diga e la gigantesca centrale sul Dnepr producevano l’energia elettrica necessaria.

A oriente furono valorizzate le regioni ricche di carbone e di ferro e furono potenziate la ferrovie e le altre vie di comunicazione.

Gli obbiettivi dei piani dovevano essere raggiunti ad ogni costo. I dirigenti che non ci riuscivano venivano sostituiti.

Gli operai erano sottoposti a ritmi di lavoro massacranti ed erano, però, moralmente compensati da una propaganda che li additava alla popolazione come i protagonisti di una sfida gigantesca in nome del bene della patria.

I lavoratori che producevano di più non solo guadagnavano un po’ più degli altri, ma diventavano eroi nazionali del lavoro e modelli da imitare, come accadde ad Aleksej Stachanov perché nel 1935 riuscì ad estrarre in meno di 6 ore 102 tonnellate di carbone.

Con questa impresa egli diede il suo nome al fenomeno dello stachanovismo che indica un sistema di lavoro basato sull’emulazione reciproca degli operai, spinti a dare il massimo di se stessi per contribuire alla grandezza della nazione e del socialismo.

L’esempio di Stachanov fu propagandato non solo in Unione Sovietica, ma presso i partiti comunisti di tutto il mondo.

Uno sforzo senza precedenti fu fatto anche nel campo dell’istruzione, dell’assistenza medica e sanitaria, della legislazione sociale.

Al contrario, fu sacrificata la produzione di beni di consumo e la popolazione cominciò a mancare di vestiario, prodotti alimentari, abitazioni e a pagare un prezzo altissimo alla “modernizzazione”.

LE PURGHE

Stalin aveva ottimi motivi per assaporare il suo successo, ma era anche consapevole che, per proseguire in questo sforzo, doveva tenere il Paese sotto una tensione che lo portasse a mobilitare tutte le sue forze.

Questa tensione fu ottenuta innanzitutto colpendo la massima organizzazione del paese: il partito comunista. A tale motivazione politica si aggiunsero il suo carattere maniacalmente sospettoso e le reali tensioni che serpeggiavano tra alcuni dirigenti a causa delle scelte economiche.

L’occasione si creò nel 1934 quando un terrorista ammazzò Kirov, il segretario dell’amministrazione comunista di Leningrado, amatissimo in quelle città e popolarissimo in tutto il paese. Anche se non ci sono le prove concrete, esiste il fondato sospetto che il mandante dell’assassinio fosse lo stesso Stalin. In ogni caso egli sfruttò la profonda impressione suscitata da quel crimine per arrestare un gran numero di dirigenti comunisti.

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Essi furono tutti accusati di tradimento, umiliati, percossi, torturati e indotti a confessare colpe che non avevano commesso. A volte la tortura non era neppure necessaria; molti vecchi dirigenti rivoluzionari, infatti, andarono al patibolo realmente convinti di avere involontariamente tradito il partito e la causa del marxismo-leninismo. A queste epurazioni fu dato il nome di “purghe”.

Fra il 1934 e il 1938, furono eliminati dalla patria del socialismo due milioni di comunisti; delle 130 persone che occupavano i massimi ruoli dirigenti ne sopravvissero 41.

Stalin sostituì i comunisti che avevano fatto la rivoluzione con una strabocchevole burocrazia formata dalle parti più povere della popolazione, ben pagata e lusingata con ogni genere di favoritismi. Essa divenne la più solida base di sostegno del regime.

IL TERRORE STALINIANO

Mentre, attraverso le “purghe”, eliminava tutti i quadri rivoluzionari del partito, Stalin prese anche provvedimenti per instaurare una politica del Terrore contro i cittadini comuni.

Invocando il pericolo di un “complotto internazionale” contro l’Unione Sovietica, con un decreto egli stabilì la pena di morte sia per i “traditori” sia per chi ometteva di smascherare un sospetto traditore. Poiché nessuno sapeva in che cosa consistessero le prove di un tradimento, molti si trasformarono in delatori e denunciarono amici e parenti per paura di essere denunciati a loro volta.

La Gpu era stata intanto sostituita da una nuova polizia segreta: il Kgb, i cui agenti suonavano il campanello delle abitazioni in piena notte e prelevavano i cittadini che nulla sapevano di “complotti”, ma che qualcuno aveva accusato di crimini come: tenere molti libri in casa, essere stati uditi mormorare, forse pregare, attraverso le pareti o avere parlato con un estraneo per strada.

Chi veniva prelevato dal Kgb scompariva senza che nessuno ne sapesse più nulla. Se era sposato, la moglie chiedeva immediatamente il divorzio per salvare il resto della famiglia, ma molti ragazzi, indottrinati dal regime e completamente in preda al culto della personalità di Stalin, arrivarono al punto di denunciare anche la propria madre.Il numero delle persone che subirono l’orrore delle torture, delle deportazioni, delle condanne a morte è invalutabile, perché molti archivi del Kgb sono ancora oggi chiusi agli studiosi.

Si sa, però, che i deportati che trovarono la morte in Siberia non furono meno di otto milioni; nel 1997 il segretario del partito comunista francese ha parlato addirittura di sedici milioni. Questa cifra è credibile, perché è provato che dal 1930 fino a qualche anno dopo la morte di Stalin, avvenuta nel 1953, la cifra degli internati nei gulag, i campi di concentramento della Siberia, non scese mai sotto i dieci milioni l’anno.

Grazie al lavoro forzato dei deportati, Stalin riuscì a sfruttare le sterminate regioni della Siberia e a costruire opere grandiose come la diga sul fiume Dnieper e il canale tra il Mar Baltico e il Mar Bianco.

Contemporaneamente le nazionalità delle diverse repubbliche sovietiche furono schiacciate e il russo divenne ovunque la lingua obbligatoria.

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PROPAGANDA, INTELLETTUALI E CULTO DELLA PERSONALITA’

Intanto la propaganda si faceva sempre più martellante. Nelle scuole, nelle fabbriche, nelle manifestazioni si celebrava la gloria del “piccolo padre del popolo”, Stalin, e si gettavano le basi del culto delle sua personalità e scrittori e artisti furono obbligati a esaltare con le loro opere la costruzione del “socialismo”. Chi rifiutava era costretto al silenzio oppure indotto al suicidio come il poeta Majakovskij.

Un altro scrittore, Alessandro Solzenicyn, premiato con il Nobel nel 1970, riuscì a far circolare in Occidente nel 1973 la prima stesura di un libro sconvolgente, intitolato Arcipelago Gulag: una colossale raccolta di dati e di episodi vissuti alla quale l’autore aveva lavorato negli undici anni di prigionia nei campi siberiani con l’aiuto dei suoi compagni di sventura.IL TOTALITARISMO DI STALIN

Con la dittatura di Stalin, il Paese che aveva rovesciato l’assolutismo dello zar in nome della libertà e del socialismo, divenne una nazione totalitaria come l’Italia fascista e la Germania nazista.

Le ragioni per le quali il primo paese socialista del mondo instaurò un regime totalitario furono numerose e complesse. Alcune di esse, però, ebbero origine da quegli stessi principi leninisti che, nel 1917, avevano guidato la Rivoluzione d’ottobre.

Il sistema democratico borghese aveva come base una società divisa in classi (ognuna delle classi, almeno teoricamente, era rappresentata da un partito); un sistema economico capitalistico, fondato sulla proprietà privata. Il sistema sovietico, al contrario, si fondava sulla speranza di costruire una società senza classi, fondata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, secondo le teorie di Marx e di Lenin

SISTEMA SOVIETICO

Società Mezzi di produzionesenza classi di proprietà collettiva

SISTEMA BORGHESE

Società Mezzi di produzionedivisa in classi di proprietà privata

Se si voleva costruire una società senza classi, bisognava quindi sostituire il pluralismo dei partiti con il partito unico, il Partito comunista. Esso bastava da solo a rappresentare l’intera società, perché essa sarebbe stata costituita unicamente da lavoratori. Ormai liberata dalle differenze tra classi diverse, essa sarebbe stata liberata anche dalla lotta politica fra partiti sostenitori di interessi contrastanti.

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Queste idee furono portate alle estreme conseguenze dopo la vittoria di Stalin su Trockij. Mentre infatti quest’ultimo sosteneva che all’interno del “partito unico” potessero manifestarsi liberamente tendenze anche opposte, Stalin affermava invece che esso dovesse essere “un’organizzazione monolitica, scolpita in un solo blocco, mossa da un’unica volontà”.

Sin dal 1927, costretto il rivale all’esilio, Stalin ebbe mano libera per costringere il Pcus, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, a obbedirgli ciecamente. Il regime instaurato da Stalin ebbe così tutte le caratteristiche di un regime totalitario:

• L’illimitato potere del Capo, che sfociò poi in un vero e proprio culto della personalità, simile a quello che circondò Hitler e Mussolini;

• La dittatura del Partito, in nome degli interessi del proletariato;• Il controllo ideologico delle attività culturali e sociali, che dovevano tutte concorrere

alla costruzione della società socialista;• La repressione prima degli oppositori, poi quella indiscriminata, al solo fine di

riaffermare continuamente il potere del regime.

ITALIA: IL CROLLO DELLO STATO LIBERALE E L’AVVENTO DEL FASCISMO

L’Italia liberale era stata retta fino all’avvento del fascismo dallo Statuto concesso al regno di Sardegna da Carlo Alberto nel 1848 e divenuto poi la costituzione del regno d’Italia sotto il segno della continuità della monarchia sabauda.

Lo Statuto aveva introdotto un regime parlamentare, in base al quale, nonostante formalmente il governo dipendesse dalla fiducia del re, era divenuta prassi consolidata che il potere esecutivo venisse nominato nell’ambito della maggioranza parlamentare e restasse in carica fino a che esso avesse il consenso del Parlamento.

Dopo la sua espulsione dal partito socialista e la battaglia a favore dell’intervento, Mussolini aveva continuato la sua opera di agitazione politica dalle colonne del “Popolo d’Italia”, il quotidiano di cui era fondatore e proprietario e che si sosteneva grazie ai finanziamenti di alcuni industriali siderurgici.

Il programma iniziale dei fasci era decisamente repubblicano e anticlericale, presentava richieste di democrazia politica (come l’estensione del suffragio alle donne e l’abolizione del senato di nomina regia) e di democrazia sociale (abbassamento dell’età pensionabile, giornata lavorativa di otto ore); proponeva addirittura la tassazione straordinaria del capitale e il sequestro dell’85% dei sovrapprofitti di guerra.

Si trattava in realtà di un programma intriso di demagogia, che nascondeva sotto una fraseologia estremista e rivoluzionaria il carattere antidemocratico e antisocialista del movimento mussoliniano. Non a caso la prima azione pubblica in cui Mussolini lanciò i fasci fu l’incendio della sede milanese dell’”Avanti!”, condotto con alcuni futuristi e arditi (le truppe scelte che durante la guerra venivano impiegate al fronte in azioni di particolare importanza e difficoltà).Il movimento fascista occupò per alcuni mesi una posizione marginale nella vita politica italiana, con una presenza limitata ad alcune città, in particolare Milano.

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Fu verso l’autunno del 1920 che esso assunse un carattere sempre più di massa e sempre più aggressivo: incominciarono in questi mesi le spedizioni delle squadre d’azione fasciste contro esponenti e sedi del movimento socialista.

Questo passaggio decisivo non avvenne però nelle città, ma nelle campagne e precisamente in Emilia, Lombardia, Piemonte , Veneto, successivamente in Toscana e Umbria, infine in Puglia.

Furono i proprietari terrieri, gli agrari, a utilizzare le “camicie nere” per stroncare il movimento contadino, prima “rosso” e poi in seguito “bianco”, finanziandole, appoggiandole politicamente, talvolta dirigendone di persona le azioni.

Questa reazione degli agrari fu innescata dalle conquiste ottenute dai braccianti mezzadri e dal successo ottenuto dal PSI alle elezioni amministrative dell’autunno 1920, quando molti comuni (la maggioranza in Emilia e Toscana) si diedero amministrazioni socialiste.

Essa trovò però consenso anche presso quei piccoli e medi coltivatori che, indebitandosi, erano riusciti da poco a costruirsi una proprietà: “desiderosi di pace sociale, costoro vedevano con ansia le lotte contadine; i loro interessi entrarono in collisione con quelli dei braccianti, aprendo ampie fratture nel tessuto della società rurale. In questa lacerazione si inserì il movimento fascista.” (A. De Bernardi).

Le squadre fasciste erano composte soprattutto da giovani: ex combattenti, ufficiali appena congedati, arditi, studenti e anche disoccupati al soldo degli agrari. Si muovevano rapidamente da un borgo all’altro su camion, preferibilmente di notte; distruggevano case del popolo, circoli, cooperative, tipografie, sedi di leghe; prelevavano dalle loro case i militanti sindacali e politici, uccidendoli o bastonandoli, terrorizzando i loro familiari.

Questa violenza aveva un forte contenuto simbolico: prima ancora che a eliminare fisicamente l’avversario politico, essa mirava a intimidirlo, deriderlo, svergognarlo, per esempio costringendolo dopo la bastonatura, a “purgarsi” con l’olio di ricino.

Era una violenza finalizzata a spaventare i militanti socialisti e cattolici, che doveva servire da “esempio” per tutti gli altri. Nello stesso tempo, essa mirava anche ad attrarre, a fare nuovi proseliti: “la violenza fascista – scrive lo storico Marco Palla – esercitava un’attrazione e un vero e proprio fascino per una parte di giovani che si erano esaltati per una guerra che non avevano potuto combattere, per quelli studenti imbevuti di retorica nazionalista che, autorizzati dalla famiglia, partivano per le “spedizioni punitive” come per un’eroica avventura o per una crociata a difesa della patria.

Le violenze squadriste crebbero di intensità nel corso del 1921 e del 1922, arrivando sino all’occupazione in armi di intere città, anche grandi (come Bologna).

L’atteggiamento delle forze dell’ordine e della magistratura, nel reprimere e punire queste azioni, fu poco deciso.

Non si può dire che esistessero precise disposizioni da parte delle autorità centrali dello Stato per garantire l’impunità delle violenze fasciste, ma certamente il movimento non fu represso con l’energia che sarebbe stata possibile e necessaria, e trovò spesso la

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tolleranza, se non la complicità delle autorità locali, civili e militari, imbevute di spirito antisocialista.

I principali fattori che determinarono l’ascesa al potere del fascismo furono:

• L’appoggio che a esso venne dato dalla borghesia agraria e da alcuni settori di quella industriale: questi ceti videro nel fascismo la forza che avrebbe potuto stroncare il movimento socialista, allontanando lo spettro di una rivoluzione proletaria;

• La crisi del sistema politico liberale di fronte alla nuova realtà rappresentata da movimenti e partiti di massa;

• Il disegno, coltivato dal ceto dirigente liberale (in primo luogo da Giolitti) e dalla monarchia, di utilizzare il fascismo per contenere e ridimensionare la sinistra, con l’idea di poterlo poi neutralizzare riassorbendolo dentro le strutture dello stato liberale;

• Il successo che il fascismo, con le sue parole d’ordine antisocialiste e nazionaliste, venne incontrando presso i ceti medi urbani e rurali.

• Infine, la debolezza e le divisioni all’interno del movimento socialista.

L’intreccio fra questi elementi verrà in luce esaminando le vicende politiche che condussero alla presa del potere da parte di Mussolini.

Dalla fine della guerra al primo governo Mussolini, cioè dal novembre 1918 all’ottobre 1922, si susseguirono sei diversi governi: Orlando, Nitti, Giolitti, Bonomi (due volte), Facta. Questa instabilità politica era il simbolo di una grave crisi della vecchia classe dirigente liberale, che non riusciva più a governare con maggioranze stabili, e dell’intero sistema politico italiano.

Le elezioni politiche del 1919 avevano rappresentato un’importante svolta: il Partito socialista e il Partito popolare, sommati insieme avevano conquistato la maggioranza in parlamento.

Queste due forze, tuttavia, erano troppo distanti ideologicamente per potersi alleare proponendosi unitamente alla guida del paese.

Prelevando all’interno del Partito socialista la linea massimalista, risultò preclusa la via di accordi tra socialisti e popolari e tra socialisti e liberaldemocratici, mentre sempre più precarie risultavano le alleanze fra liberali, democratici e popolari. In questa situazione, nella classe dirigente liberale guadagnò terreno l’ipotesi di un’alleanza elettorale che comprendesse i nazionalisti e anche i fascisti.

Ciò avvenne sia in occasione delle elezioni amministrative dell’autunno 1920, sia di quelle politiche di maggio 1921: i fascisti si presentarono all’interno di blocchi nazionali, cioè in liste comuni con i liberali e altri gruppi di centro, ottenendo 35 seggi (è da ricordare che, salvo nel 1919, i fascisti non si presentarono mai alle elezioni con liste proprie). Dopo queste elezioni, si aprì una fase di grande instabilità, perché il Parlamento risultò ancora più frazionato e privo di maggioranze stabili: ciò aumentò il peso politico dei fascisti che nel frattempo, non dimentichiamolo, erano di fatto padroni delle piazze, grazie all’azione violenta delle squadre.

Mussolini si inserì abilmente in questa situazione, forte del consenso che gli veniva dagli agrari, da sempre più ampi strati del ceto medio e da alcuni settori imprenditoriali. Il

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suo problema, a questo punto, era quello di trasformare il movimento fascista in una forza politica, sia per accreditarsi come interlocutore presso le classi dirigenti tradizionali, sia per tenere sotto controllo il fascismo “intransigente” dei capi squadristi locali, i ras.

Al congresso dei fasci del novembre 1921 Mussolini riuscì a trasformare il vecchio movimento dei fasci nel Partito nazionale fascista, che gli fornì un più solido strumento di azione: mentre gli squadristi spadroneggiavano nel paese, Mussolini utilizzava il partito per operare sul piano della legalità politica.

Il programma del partito fascista era molto lontano da quello del 1919:

Prevedeva:- uno stato forte e la limitazione dei poteri del parlamento;- esaltava la nazione e la competizione fra le nazioni;- proponeva la restituzione all’industria privata di servizi essenziali gestiti

dallo stato, come le ferrovie e i telefoni;- invocava il divieto di sciopero nei servizi pubblici.

Era un programma di impronta nettamente conservatrice e nazionalista, che rassicurava nello stesso tempo la borghesia agraria, industriale e commerciale. Inoltre Mussolini, per accrescere la propria credibilità presso il sovrano e gli ambienti legati alla monarchia, dichiarò di abbandonare la “tendenzialità repubblicana”, che vuol dire semplicemente che non poneva più l’instaurazione della repubblica tra gli obbiettivi del partito.

Nella tarda estate 1922 Mussolini giudicò maturi i tempi per un’azione di forza. Mentre da un lato trattava con gli esponenti liberali, tra i quali Giolitti e Salandra, la formazione di un nuovo governo che sostituisse il debole ministero del giolittiano Luigi Facta e che comprendesse anche ministri fascisti, dall’altro preparava una concentrazione di squadristi armati nella capitale. La cosiddetta Marcia su Roma ebbe inizio negli ultimi giorni d’ottobre con l’occupazione di edifici pubblici in varie città dell’Italia centro-settentrionale e il 28 ottobre colonne fasciste iniziarono a muovere verso la capitale.

Dal punto di vista militare i fascisti non avrebbero potuto fronteggiare con speranza di successo una reazione dell’esercito italiano: “nemmeno i più ingenui fra gli squadristi potevano pensare di espugnare palazzi del potere romano come un qualsiasi Municipio della Bassa padana, sotto l’occhio benevolo delle autorità di pubblica sicurezza” (G. Sabbatucci). Ma tale reazione non vi fu, perché il re Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare lo stato d’assedio per difendere Roma, atto che pure gli veniva sollecitato dal governo (che si dimise il giorno 27).

Il sovrano si piegò dinanzi alla minaccia dei fascisti, e il 30 ottobre convocò a Roma Mussolini, che da Milano seguiva l’evolvere della vicenda, affidandogli l’incarico di formare un nuovo ministero. Il primo governo di Mussolini comprendeva cinque esponenti fascisti e altri esponenti liberali, popolari, indipendenti filofascisti e nazionalisti. Nello stesso giorno le squadre fasciste entravano nella capitale, senza incontrare resistenza da parte delle forze dell’ordine o dell’esercito.

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Il 16 novembre Mussolini presentò il suo governo al parlamento, con un discorso rimasto tristemente famoso. Al voto, 306 furono i favorevoli, 116 i contrari (i socialisti, i comunisti e pochi altri),

La marcia su Roma e la formazione del primo governo Mussolini segnano il crollo delle istituzioni liberali e democratiche: per la prima volta nella storia d’Italia un uomo politico si era fatto assegnare il mandato governativo con la minaccia delle armi. Il re, supremo garante delle istituzioni, aveva consegnato lo stato a Mussolini. I partiti non fascisti, votando a favore, avevano avallato la fine dello stato liberale.

Nel giro di pochi anni il fascismo avrebbe cancellato ogni forma di legalità democratica e di libertà politica e sindacale.

Il periodo dall’ottobre 1922 al gennaio 1925 è stato individuato dagli storici come una fase di transizione verso il vero e proprio regime fascista. Alla testa di un governo di coalizione che comprendeva anche molti esponenti non fascisti, Mussolini condusse una vita politica relativamente moderata, preparando al tempo stesso la trasformazione dello stato in senso autoritario.

In questa fase, Mussolini si sforzò di presentare il partito fascista come centro di aggregazione di una maggioranza diversa da quelle tradizionali di tipo giolittiano e di rassicurare i ceti sociali, le forze politiche e quella parte dell’opinione pubblica che avevano visto nel fascismo un mezzo per garantire l’ordine e la pace sociale. Con lo stesso volto di moderazione il governo fascista cercò, con successo, di legittimarsi sul piano internazionale, ottenendo presso le principali potenze democratiche un credito che avrebbe perso solo nella seconda metà degli anni trenta.

Come all’interno dell’Italia, così sul piano internazionale il fascismo veniva visto da molti come nient’altro che una forza conservatrice capace di opporsi con successo al pericolo di una affermazione socialista. Questo orientamento rispondeva a una precisa logica politica – poiché negli anni venti in tutta Europa il socialismo era percepito dalle classi dirigenti come il “nemico da battere” – ma non coglieva il carattere profondo del fascismo (e poi del nazismo), quello cioè di essere una forma politica dittatoriale e tendenzialmente totalitaria, del tutto diversa dai regimi politici lileraldemocratici affermatisi da tempo in Occidente.

Il fascismo del 1922-25 non era ancora una dittatura. Questo, però non significa che abbandonasse il terreno della violenza, sul quale era nato, né che si limitasse a governare in senso conservatore, senza introdurre già in questa fase importanti elementi di cambiamento nel sistema politico italiano.

La violenza squadrista continuava impunita (il ministero dell’interno era tenuto da Mussolini stesso): la bastonatura del liberale antifascista Giovanni Amendola e l’uccisione del sacerdote don Minzoni a opera di squadre fasciste, nel 1924, non furono che gli episodi più clamorosi del perdurante clima di intimidazione. Il settore più intransigente del partito spingeva perché Mussolini lanciasse un “seconda ondata” della cosiddetta “rivoluzione fascista”, che spazzasse via definitivamente ogni residua opposizione.

Mussolini invece “continuava a giocare abilmente su due tavoli, quello della manovra politica nell’ambito delle forze tradizionali e quello della violenza legale.” (Candeloro). Esemplare, in questo senso, è la costituzione della Milizia

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volontaria per la sicurezza nazionale (1923), una sorta di “esercito parallelo” agli ordini del capo del governo, che inquadrava le squadre d’azione fasciste.

La Milizia fu uno strumento per incanalare e disciplinare il fascismo più bellicoso, accreditando presso l’opinione pubblica l’idea che Mussolini volesse davvero “normalizzare” il paese, compresi i suoi fascisti; al tempo stesso, era una minaccia perenne che Mussolini poteva far pesare nel gioco politico, di cui si poneva, in definitiva, come l’arbitro sempre più incontrastato.

Altri provvedimenti furono presi da Mussolini in questa fase di transizione per accentuare il carattere autoritario dello stato e per consolidare il suo potere, pur rimanendo sempre formalmente entro i limiti costituzionali dello Statuto.

Per esempio, egli

- fece approvare una legge che consentiva al governo di legiferare attraverso decreti, sottraendo - quindi - autorità al parlamento;

- fece approvare pesanti limitazioni alla libertà di stampa, dando ai prefetti ampi poteri di censura;

- collocò funzionari fascisti in molti posti-chiave dell’amministrazione pubblica.

Al tempo stesso, per accrescere il proprio consenso verso la borghesia,

- attuò una politica economica e sindacale nettamente favorevole all’industria privata e ai possessori di grossi patrimoni.

La stabilità del governo di Mussolini era tuttavia sempre minacciata, oltre che dalle opposizioni socialista e comunista, dal fatto che ne facevano parte forze sicuramente non fasciste, quali i liberali e i liberaldemocratici.

Al fine di rinsaldare la maggioranza di governo e di togliere spazio alle opposizioni, Mussolini riuscì a fare approvare nel 1923 una nuova legge elettorale, basata sul principio maggioritario: alla lista (o al gruppo di liste allegate) che avesse ottenuto la maggioranza dei voti (purché superiore al 25%) sarebbero stati assegnati i due terzi dei seggi.

Con questa legge si andò alle elezioni dell’aprile 1924, che costituirono un momento di svolta cruciale nel passaggio alla dittatura fascista.

Il partito fascista si presentò alle elezioni non da solo, ma all’interno di una lista nazionale (il cosiddetto “listone”), composta di 356 candidati (tanti erano i seggi da segnare alla lista vincitrice) di cui facevano parte fascisti, nazionalisti, esponenti liberali (come Salandra e Orlando, ma non Giolitti), cattolici della componente clerico-moderata.

Gli antifascisti si presentarono in ordine sparso: due liste di socialisti, i comunisti, i popolari, liste parallele di liberali giolittaini e altri.

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Il listone ottenne un grande successo con il 65% dei voti. Mussolini disponeva ora di una maggioranza di 374 deputati su 535: ma soprattutto, grazie agli accordi elettorali stretti con gli alleati, era riuscito a portare in parlamento ben 275 deputati fascisti.

Brogli e intimidazioni di ogni tipo, operati dai fascisti accompagnarono le votazioni, a coronare un triennio di violenze. Ma il successo di Mussolini, oltre che dal terrorismo contro gli oppositori e dalle divisioni fra questi ultimi, nasceva indubbiamente dal fatto che il fascismo stesso era riuscito a proporsi dei fronte alla borghesia, alla classe dirigente conservatrice e ai ceti medi come forza politica in grado di garantire la stabilità politica e l’ordine sociale.

Il 10 giugno 1924 Matteotti, che con un forte discorso alla nuova camera aveva denunciato i brogli e le violenze elettorali, fu rapito da una squadra fascista. Il suo cadavere venne ritrovato, semi sepolto, solamente al successivo 16 agosto.

Il delitto Matteotti scosse profondamente l’opinione pubblica, aprendo una grave crisi politica: per la prima volta il potere di Mussolini sembrò vacillare sotto il peso di una condanna generale e anche alcuni ambienti liberali e imprenditoriali, sino a quel punto suoi fiancheggiatori, presero le distanze dal fascismo. Le opposizioni parlamentari decisero per protesta di non partecipare più ai lavori delle camere, significando con questo che non riconoscevano legittimità morale e politica a un parlamento dominato dai fascisti ( fu la cosiddetta secessione dell’Aventino, in ricordo dell’episodio che, secondo la tradizione, vide la plebe romana ritirarsi sul colle Aventino per protesta contro i soprusi dei patrizi).

Fu una scelta di alto significato morale, ma debole politicamente, perché di fatto si esauriva in una condanna del fascismo di fronte all’opinione pubblica senza costituire alcuna alternativa politica.

Con il passare dei mesi, l’opposizione aventiniana si rivelò sempre più sterile e Mussolini poté riprendere in pugno la situazione, utilizzando come al solito, lo spauracchio di una guerra civile scatenata dalle milizie fasciste.

Sinché, in un famoso discorso al parlamento del 3 gennaio 1925, Mussolini ammise pubblicamente di essere responsabile, sul piano politico per l’eliminazione di un deputato dell’opposizione: con questo discorso, il parlamento veniva di fatto esautorato, e la legalità costituzionale sospesa.

Il REGIME FASCISTA

Dal punto di vista istituzionale furono presi provvedimenti che trasformarono profondamente lo stato italiano costituzionale, parlamentare e liberale.

Punto di partenza di tale trasformazione furono le leggi “fascistissime” del 1925/26, ispirate dal giurista Alfredo Rocco, uno dei maggiori intellettuali del regime: il capo del governo responsabile solo di fronte al re, non più di fronte al parlamento; il parlamento

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stesso non poteva discutere alcuna legge senza il preventivo consenso del governo; quest’ultimo fu trasformato di fatto in un organo di collaborazione del presidente del consiglio, che decideva e attuava la linea politica.

Negli anni successivi fu:• soppressa la libertà di associazione• messi fuori legge tutti i partiti politici a eccezione di quello fascista• tutta la legislazione riguardante l’amministrazione dello stato venne sottratta al

parlamento• furono soppresse le autonomie locali, sostituiti i sindaci elettivi con podestà nominati

dal sovrano• furono chiusi i giornali antifascisti e tutta stampa fu sottoposta ad un severo controllo• fu istituito il tribunale speciale per la difesa dello stato, formato da ufficiali della

milizia e delle forze armate, contro le cui deliberazioni non era ammesso ricorso.

Questi provvedimenti abolirono di fatto la libertà democratica e la dialettica politica, impedendo e reprimendo ogni manifestazione di dissenso. Il potere legislativo risultò totalmente subordinato all’esecutivo, o meglio al suo capo, e il parlamento finì per assumere una funzione puramente decorativa, ulteriormente accentuata dalla legge elettorale del 1928. Questa legge, infatti, prevedeva che l’elettore potesse solamente dire “sì” o “no” a una lista di 400 candidati designata dagli organi supremi del fascismo.

Contestualmente, Mussolini provvedeva a “normalizzare” il partito fascista, sia per poter presentare l’Italia nel contesto internazionale come paese realmente pacificato, sia per impedire qualsiasi dissidenza rispetto alla linea del regime, anche proveniente dall’interno del fascismo stesso e dai suoi organismi locali. La violenza squadrista, che era proseguita ancora nel 1925 (le bastonature fasciste ridussero in fin di vita, fra gli altri, i liberali Giovanni Amendola e Piero Gobetti) non era più necessaria nel momento in cui il regime aveva perfezionato i suoi strumenti repressivi, grazie al tribunale speciale, alla milizia, all’efficientissima polizia segreta (ovra) e al pieno controllo delle forze dell’ordine.

Organo supremo del partito era il Gran consiglio del fascismo, presieduto da Mussolini e composto da vari notabili del regime: aveva compiti di rilevanza come la nomina dei candidati elettorali e il suo parere era obbligatorio nella designazione del capo del governo e nella successione al trono. Il Gran consiglio rimase l’unico organo entro il quale fosse possibile una dialettica politica.

I sindacati fascisti avevano difficoltà ad essere accettati da lavoratori e datori di lavoro, mentre nelle rappresentanze dei lavoratori di ogni fabbrica cresceva il numero dei comunisti e dei socialisti.

Nel 1925 si giunse ad un accordo tra i sindacati fascisti e la Confindustria: questo accordo dava efficacia giuridica solo ai contratti di lavoro stipulati dai sindacati fascisti. Vennero abolite le commissioni interne, lo sciopero e la serrata furono proibiti per legge.

Questi provvedimenti ebbero un duplice significato: da un lato eliminavano ogni libera iniziativa ai sindacati, compresi quelli fascisti, dall’altro assorbivano l’attività sindacale all’interno dello stato, subordinandola alle decisioni politiche del governo.

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L’ORGANIZZAZIONE DEL CONSENSO

Alla repressione del dissenso e alla legislazione liberticida, il fascismo affiancò un’intensa opera di organizzazione del consenso, utilizzando su vasta scala strumenti propagandistici e tentando di ordinare e irregimentare i modi di pensare, la mentalità, le stesse attività quotidiane delle grandi masse.

Fu realizzato in primo luogo un pieno controllo dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa. Vietata la stampa antifascista, anche i grandi quotidiani di informazione – come il Corriere della sera e La Stampa – ebbero proprietà e direttori favorevoli al regime o almeno non ostili ad esso. Venne fondato un ente radiofonico, l’Eiar, che gestiva e controllava le trasmissioni di questo nuovo e potentissimo mezzo di comunicazione: dal 1933 i discorsi di Mussolini vennero trasmessi con altoparlanti nelle piazze.

L’istituto Luce produsse i cinegiornali di propaganda che ogni gestore di sala cinematografica era obbligato a proiettare. Attraverso il Ministero della cultura popolare si posero sotto controllo tutti gli aspetti della vita culturale che interessavano grandi masse di persone.

Lo scopo del partito non era più quello di sovrapporsi alle funzioni dello stato, ma quello di ottenere consenso e quindi di “fascistizzare” la società civile. L’iscrizione al partito divenne obbligatoria per i dipendenti

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pubblici ed era comunque un requisito per ottenere impieghi e promozioni (tanto che la tessera del partito venne chiamata “tessera del pane”). Il partito controllava poi diverse organizzazioni di massa istituite dal regime per educare la gioventù ai valori fascisti: l’Opera nazionale Balilla, i Giovani fascisti, i Gruppi universitari fascisti. Queste organizzazioni svolgevano attività ricreative, ginniche, assistenziali: nel 1937 confluirono tutte in un’unica organizzazione, la Gioventù del Littorio. Notevole diffusione ebbe poi l’Opera nazionale dopolavoro, che organizzava il tempo libero dei lavoratori con gite, gare sportive, spettacoli, scontri.

I PATTI LATERANENSI

La ricerca del massimo consenso e della stabilità politica per il regime fu anche alla base dello sforzo compiuto da Mussolini per arrivare a una condizione fra stato e chiesa, che sanasse definitivamente la ferita aperta nel 1870.

L’11 febbraio 1929 Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri, segretario di stato, firmarono i cosiddetti patti lateranensi, composti di tre documenti: un trattato, con il quale la Santa Sede riconosceva la sovranità dello stato italiano con, Roma capitale, e lo stato riconosceva la sovranità pontificia sulla Città del Vaticano; la convenzione finanziaria, con cui lo stato versava al Vaticano una somma a titolo di indennità; il concordato, destinato a regolare i rapporti tra stato e Chiesa. Il concordato limitava l’autorità della legislazione civile su punti importanti: per esempio, conferiva effetti civili al matrimonio religioso e proclamava al dottrina cattolica “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”, estendendone l’insegnamento anche nelle scuole secondarie; i preti spretati o colpiti da censura non potevano conservare od ottenere impieghi pubblici.

Inoltre il fascismo ottenne con i patti lateranensi un risultato di grande importanza politica, cioè una sorta di riconoscimento di fatto da parte della chiesa. Mussolini poteva ora presentarsi all’opinione pubblica cattolica con le “carte in regola”, come l’uomo che aveva posto fine al decennale dissidio fra stato e chiesa.

LA POLITICA ECONOMICA

La politica economica del fascismo conobbe due fasi nettamente distinte: nella prima essa fu liberista; nella seconda fu protezionista.

Nel periodo liberista (1922-25) l’Italia registrò una notevole ripresa produttiva perché il fascismo favorì l’iniziativa privata e gli investimenti facilitando le esportazioni.

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Contemporaneamente riordinò la politica fiscale e riformò sia la burocrazia sia i sistemi di amministrazione, riuscendo a chiudere in attivo il bilancio dello stato.

Il periodo protezionista ebbe inizio nel 1925 e durò fino alla caduta del regime. In quell’anno cominciava a profilarsi una crisi monetaria internazionale che indusse il fascismo a “proteggere” la produzione industriale italiana in modo sempre più accentuato.

Costretto a ridurre le importazioni, divenute troppo costose, e a potenziare quindi al massimo la produzione interna, Mussolini decise di:

• rivalutare la lira ad ogni costo;• bonificare le terre paludose rendendole produttive;• incrementare la produzione agricola, in particolare quella del grano (“battaglia del

grano”), per ridurre al minimo le importazioni.

Sul momento questi provvedimenti permisero di fronteggiare la crisi, anche con risultati notevoli, e contemporaneamente servirono a consolidare il prestigio nazionale e internazionale del fascismo. Ma col tempo essi provocarono conseguenze gravissime:

• il crollo delle esportazioni, dato che a causa dell’alto valore della lira i prodotti italiani all’estero risultavano troppo cari;

• il rallentamento della produzione, conseguente al crollo delle esportazioni, che provocò il fallimento di molte piccole industrie;

• la crescita della disoccupazione, derivata dai punti precedenti e aggravata anche dal crollo dell’emigrazione verso gli Stati Uniti, alla quale il presidente Harding aveva posto rigide limitazioni sin dal 1921;

• nel campo agricolo, inoltre, i successi conseguiti con la “battaglia del grano” furono ottenuti a scapito di altri settori dell’agricoltura che risultarono fortemente danneggiati.

IL COLONIALISMO FASCISTA E LA GUERRA D’ETIOPIA

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In campo coloniale la politica del regime fascista fu inizialmente rivolta a consolidare i possedimenti italiani in Africa: si trattava della Libia, dell’Eritrea, e di parte della Somalia.

Si trattava, innanzitutto di riconquistare gran parte della Libia, di cui l’Italia, durante la Guerra, aveva perso il controllo, salvo per alcune importanti località costiere.

La resistenza dei ribelli arabi fu vinta con le armi, in una lotta che, soprattutto nella Cirenaica, fu condotta con metodi molto violenti: rappresaglie, deportazioni di popolazioni, esecuzioni sommarie, provocando diverse decine di migliaia di vittime. Vennero quindi confiscati e consegnati ai contadini italiani 65.000 ettari di terre incolte o scarsamente coltivate.

La decisione di procedere alla conquista militare dell’Etiopia maturò fra il 1932 e il 1934. L’Abissinia costituiva, infatti, un tradizionale obbiettivo coloniale italiano, peraltro non raggiunto. In seguito il governo italiano aveva tentato di penetrare gradualmente nel paese, ora con accordi federali con il negus (imperatore), ora sobillando i capi feudali delle popolazioni di confine con la Somalia e l’Eritrea.

Tuttavia, nel 1930 era salito al potere in Etiopia il negus Hailè Selaissè, che aveva iniziato un’opera di modernizzazione e di rafforzamento militare del paese. Ciò indusse Mussolini ad accelerare i tempi. I motivi furono:

• Prestigio internazionale, legati alla volontà di fare dell’Italia una potenza di primo piano, affermandone il ruolo sia di fronte alle democrazie occidentali, sia alla Germania nazista;

• Motivi di carattere economico: stimolare la produzione industriale, che faticava a riprendersi dopo la crisi dei primi anni trenta, e ridurre la disoccupazione dovuta alla crisi

• Politica interna.

Il re e parte delle gerarchie militari e politiche del regime erano contrari all’impresa, temendo che essa portasse a un conflitto con la Francia e Gran Bretagna.

In realtà la Francia, molto interessata a mantenere un buon accordo con l’Italia per timore di un accordo Hitler-Mussolini, aveva dato, anche se non direttamente, via libera all’impresa.

Più complessa era la posizione della Gran Bretagna, che da un lato aveva le stesse preoccupazioni della Francia, dall’altro, però, non desiderava un rafforzamento italiano nel Corno d’Africa e si sentiva impegnata a far sì che l’autorità della Società delle nazioni, di cui era rappresentante di primo piano, non venisse completamente vanificata dall’aggressione di uno dei suoi membri (l’Etiopia), da parte di un altro (l’Italia). Il governo di Londra cercò di mantenere una posizione di mediazione e di equilibrio, ma quando le intenzioni aggressive di Mussolini divennero manifeste, assunse un atteggiamento più deciso.

Tuttavia, la Gran Bretagna non era certo disposta ad un conflitto armato con l’Italia: Mussolini aveva dunque ragione di pensare che avrebbe potuto prendere l’Etiopia senza provocare una crisi internazionale.

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Il 3 ottobre 1935 le truppe italiane iniziarono l’invasione dell’Etiopia. Dopo una campagna militare condotta con un’abbondanza di uomini e di mezzi e con l’impiego terroristico di gas tossici, il 6 maggio 1936 l’invasione si concluse con la presa di Addis Abeba e la fuga del negus.

Incominciava al tempo stesso una guerriglia che gli italiani non riusciranno mai a stroncare completamente, nonostante la dura repressione e il regime di segregazione razziale instaurato nella colonia. Mussolini, in un famoso discorso annunciò la fondazione dell’impero dell’Africa orientale italiana. Vittorio Emanuele III aggiunse al titolo di re d’Italia quello di imperatore d’Etiopia.

Di fronte all’aggressione italiana, la reazione dell’opinione pubblica internazionale, presso la quale il colonialismo godeva di sempre minori consensi, fu unanime nella condanna. La Società delle nazioni dichiarò l’Italia paese aggressore e applicò ai suoi danni sanzioni economiche: divieto di esportare in Italia armi, munizioni e merci per l’industria di guerra, divieto di importare merci italiane; le sanzioni escludevano, però, merci di grande importanza strategica, quali il ferro, l’acciaio, lo zinco e, soprattutto, il petrolio, e vennero applicate parzialmente e abolite dopo la vittoria italiana.

L’obbiettivo di guadagnare consenso al regime grazie alla guerra d’Etiopia venne pienamente raggiunto da Mussolini, anche se in modo effimero. Straordinarie manifestazioni di entusiasmo accolsero l’impresa e la sua vittoriosa conclusione. La propaganda del regime batté ossessivamente sul tasto della nazione “proletaria”, l’Italia, strangolata economicamente dalle nazioni “plutocratiche”, cioè ricche, che dopo avere spadroneggiato nel mondo, ora volevano impedirle di conquistarsi il suo impero. Durante il periodo delle sanzioni, milioni e milioni di italiani e italiane donarono l’”oro alla patria”, cioè consegnarono allo stato le fedi nuziali e altri preziosi. Ogni pur timida voce di dissenso sembrò sopita.

In realtà le conseguenze dell’impresa d’Etiopia furono gravi, sia sul piano internazionale sia su quello interno. In primo luogo divenne manifesta l’impotenza della Società delle nazioni; inoltre l’Italia ruppe il legame esistente con le potenze democratiche occidentali, nei confronti delle quali si era accreditata con successo nel decennio precedente, e si andò orientando sempre più decisamente verso l’alleanza con la Germania. In campo economico, si verificò un’accelerazione della tendenza all’autarchia già insita nella politica economica del regime; anche per questa via si intensificò il rapporto privilegiato con la Germania.

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LA REPUBBLICA DI WEIMAR

Nonostante i drammatici travagli che ne avevano segnato gli inizi, la repubblica nata dalla costituente di Weimar rappresentò nell’Europa degli anni ’20 un modello di democrazia parlamentare aperta e avanzata, anche se molti fattori contribuivano a insidiare la vita democratica e a indebolire il sistema repubblicano. Il più evidente motivo di debolezza stava nella accentuata frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi, e nell’assenza di una forza egemone, capace di guidare il paese nella difficile crisi di trasformazione che stava attraversando.

L’unica forza in grado di aspirare a questo ruolo era la socialdemocrazia. Grazie al sostegno accordatole dalla maggioranza di una classe operaia numerosa e ben organizzata, la Spd rimase per un decennio il partito più forte e fece sempre sentire il suo peso, dal governo o dall’opposizione, nella vita politica tedesca.

Le classi medie, che ormai occupavano uno spazio consistente nella società, si riconoscevano in parte nel Centro cattolico, in parte nelle formazioni della destra conservatrice e moderata.

Ulteriore elemento di debolezza era la diffidenza nei confronti del sistema

democratico che coinvolgeva non solo i gruppetti dell’estrema destra sovversiva, non solo gli esponenti della vecchia classe dirigente, ma anche buona parte della media e della piccola borghesia, ai cui occhi la Repubblica era indissolubilmente associata alla sconfitta, all’umiliazione di Versailles e a quella autentica tragedia nazionale che fu costituita dal problema delle riparazioni.

Nella primavera del 1921, una commissione interalleata stabilì l’ammontare delle riparazioni nella cifra, spaventosa per quei tempi, di 132 miliardi di marchi-oro da pagare in 42 rate annuali. L’annuncio dell’entità delle riparazioni suscitò in tutta la Germania ondate di proteste. I gruppi dell’estrema destra nazionalista – fra i quali si stava mettendo in luce il piccolo Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler – scatenarono una vera e propria offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata alle imposizioni dei vincitori.

I governi di coalizione che si succedettero fra il ’21 e il ’23 si impegnarono comunque a pagare la prime rate delle riparazioni, ma per non rendersi ulteriormente impopolari, evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica: quindi furono costretti ad aumentare la stampa di carta-moneta. Il risultato fu che in pochi mesi il valore del marco precipitò, mettendo in moto un rapidissimo processo inflazionistico.

Nel gennaio 1923, la Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata corresponsione di alcune riparazioni in natura, inviarono truppe nel bacino della Ruhr. Impossibilitato a reagire militarmente, il governo tedesco incoraggiò la resistenza passiva della popolazione: imprenditori e operai della Ruhr abbandonarono le fabbriche, rifiutando ogni collaborazione con gli occupanti.

Per le già dissestate finanze tedesche l’occupazione della Ruhr rappresentò il definitivo tracollo, in quanto privava il paese di una parte delle sue risorse produttive e contemporaneamente costringeva il governo a nuove ingenti spese per finanziare la

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resistenza passiva della Ruhr con sussidi alle imprese e ai lavoratori disoccupati. Il marco, abbandonato al suo destino, precipitò a livelli impensabili e il suo potere d’acquisto fu praticamente annullato: un chilo di pane giunse a costare 400 miliardi, un chilo di burro 5000.

Le conseguenze di questa polverizzazione della moneta furono sconvolgenti. Lo Stato stampava banconote in quantità sempre maggiore e con valore nominale sempre più alto (un milione, un miliardo, cento miliardi e così via).

Ma chi riceveva in pagamento denaro svalutato si affrettava a liberarsene in cambio di qualsiasi cosa, aumentando così la velocità di circolazione della moneta e alimentando ulteriormente l’inflazione. Chi possedeva risparmi in denaro o in titoli di Stato perse tutto.

Chi viveva del proprio stipendio dovette affrontare grossi sacrifici: le retribuzioni venivano infatti continuamente adeguate (si giunse a pagarle giornalmente), ma mai abbastanza da poter tener dietro al ritmo dell’inflazione.

Furono invece avvantaggiati i possessori di beni reali (agricoltori, industriali, commercianti) e tutti coloro che avevano contratto debiti.

Nel momento più drammatico della crisi, la classe dirigente trovò però la forza di reagire. Nell’agosto 1923 si formò un governo di “grande coalizione” comprendente tutti i gruppi “costituzionali” e presieduto da Gustav Stresemann, leader del Partito tedesco-popolare.

Convinto che la rinascita della Germania sarebbe stata possibile solo tramite accordi con le potenze vincitrici, Stresemann ordinò la fine della resistenza passiva della Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia.

Subito dopo decretò lo stato di emergenza e se ne servì per reprimere un’insurrezione comunista ad Amburgo, ma anche per fronteggiare la ribellione della destra nazionalista che aveva il suo centro in Baviera. A Monaco, nella notte fra l’8 e il 9 novembre 1923, alcune migliaia di aderenti al Partito nazionalsocialista cercarono di organizzare un’insurrezione contro il governo centrale.

Ma il complotto capeggiato da Hitler non ottenne lo sperato appoggio dei militari e fu rapidamente represso. Hitler fu condannato a cinque anni di carcere (poi in buona parte condonati) e la sua carriera politica parve precocemente conclusa.

Ristabilita l’autorità dello Stato, il governo cercò di porre rimedio al caos economico. Nell’ottobre ’23 fu emesso un nuovo marco il cui valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale della Germania: lo Stato tedesco si comportava cioè come un privato che impegni tutti i suoi averi per garantirsi un credito. Nel contempo fu avviata una politica rigorosa e deflazionistica (basata cioè sulla limitazione del credito e della spesa pubblica e sull’aumento delle imposte) che costò ai tedeschi ulteriori sacrifici, ma consentì un graduale ritorno alla normalità monetaria.

Una vera e propria stabilizzazione fu resa possibile dall’accordo sulle riparazioni raggiunto, all’inizio del 1924, sulla base di un piano elaborato dal finanziere statunitense Charles G. Dawes.Il piano si basava sul principio che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo se fosse stata messa in grado di far funzionare al meglio la sua

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macchina produttiva; e prevedeva che la finanza internazionale, in particolare quella statunitense, sovvenzionasse lo Stato tedesco con una serie di prestiti a lunga scadenza.

La Germania rientrava così in possesso della Ruhr, vedeva temporaneamente alleviato l’onere dei suoi debiti e soprattutto otteneva un massiccio aiuto per la sua ripresa economica, che fu in effetti pronta e consistente.

Negli anni successivi anche la situazione politica si andò stabilizzando. I partiti di centro e di centro-destra mantennero il potere fino al 1928, quando i socialdemocratici ottennero un buona affermazione elettorale e riassunsero la guida del governo. Stresemann conservò ininterrottamente fino alla sua morte (luglio 1929) la carica di ministro degli Esteri, assicurando così la continuità di quella linea di collaborazione con le potenze vincitrici che costituì il cardine principale dell’equilibrio europeo nella seconda metà degli anni ’20.

LA CRISI DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR E L’AVVENTO DEL NAZISMO

Nel novembre 1923, quando finì in prigione per aver tentato di organizzare un colpo di stato a Monaco di Baviera, Adolf Hitler era un personaggio semisconosciuto, capo di una minuscola formazione politica – il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi – dal programma accesamente nazionalista e confusamente demagogico.Di lui si sapeva che era di origine austriaca, che aveva servito durante la guerra l’esercito tedesco col grado di caporale guadagnandosi alcune decorazioni al valore, che aveva tentato senza successo di fare il pittore.

Meno di dieci anni dopo, nel gennaio 1933, Hitler, leader di un partito che ormai rappresentava circa un terzo dell’elettorato tedesco, riceveva l’incarico di formare il governo. Per capire i motivi di questa irresistibile ascesa è necessario rifarsi alla grande crisi e ai suoi effetti sulla società tedesca.

Fino al ’29, infatti, il partito nazionalsocialista – o nazista, come veniva comunemente chiamato – rimase un gruppo minoritario e marginale, che si collocava al di fuori della legalità repubblicana, si serviva sistematicamente della violenza contro gli avversari politici e fondava la sua forza soprattutto su una robusta organizzazione armata: le SA (sigla di Sturm-Abteilungen, cioè “reparti d’assalto).

Dopo il fallimentare tentativo di Monaco, Hitler aveva cercato, sull’esempio di quanto aveva fatto Mussolini in Italia, di dare al partito un volto più “rispettabile”.

Aveva messo da parte le rivendicazioni di stampo anticapitalistico (riforma agraria, nazionalizzazione dei grandi trust) che figuravano nell’originario programma nazista, riuscendo così ad assicurarsi un certo sostegno finanziario da parte di alcuni ambienti della grande industria. Ma non aveva affatto rinunciato al nucleo centrale di quel programma, che prevedeva la denuncia del trattato di Versailles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova “grande Germania”, l’adozione di misure discriminatorie contro gli ebrei, la fine del “parlamento corruttore”.

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Hitler espose con molta chiarezza i suoi progetti a lungo termine in un libro dal titolo Mein Kampf (la mia battaglia) scritto nei mesi di carcere e destinato a diventare una sorta di testo sacro del nazismo. Cinque i punti fondamentali del testo:

- il concetto di “razza” (i tedeschi avevano il diritto di affermare la superiorità della “razza germanica” perché era discendente dalla “razza ariana” ritenuta più pura. Per la loro superiorità i Tedeschi avevano il diritto di ritenersi di “razza padrona “ e di dominare il mondo rendendo schiave le “razze inferiori” come gli ebrei e gli slavi);

- la difesa della “razza” (per far questo i Tedeschi dovevano sposarsi solo tra loro e per “sradicare le malattie” bisognava eliminare tutti coloro che avevano una costituzione debole o difetti fisici e mentali);

- la “comunità razziale” (lo Stato nazista avrebbe dovuto abbracciare tutti i Tedeschi e quindi estendere i suoi confini per formare una “comunità” legata alla stessa terra);

- il “principio del capo” (la “razza padrona” doveva a sua volta obbedire alla dittatura assoluta di un Capo, incarnazione di tutte le virtù tedesche);

- lo spazio vitale (i Tedeschi avevano diritto di espandersi in Europa per conquistarsi uno “spazio vitale” che si sarebbe esteso ad est fino alla Polonia, alla Cecoslovacchia e alla Russia sovietica e a ovest fino alla Francia).

Tali teorie non erano originali, ma la tragica novità fu che Hitler riuscì ad applicarle tutte.

Un programma estremista e guerrafondaio come quello delineato nel Mein Kampf trovò scarsi consensi nella Germania dell’età di Stresemann. Nelle elezioni del dicembre ’24 i nazisti ottennero circa il 3% dei voti; in quelle del maggio ’28 appena il 2,5%. Ma con lo scoppio della grande crisi lo scenario cambiò radicalmente.

La maggioranza dei tedeschi, immiseriti o addirittura ridotti alla fame per la terza volta i poco più di dieci anni, perse ogni fiducia nella Repubblica e nei partiti che in essa si identificavano. In questa situazione i nazisti poterono uscire dal loro isolamento e far leva sulla paura della grande borghesia, sulla frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati.

Ai suoi concittadini provati dalla crisi Hitler non solo offriva la prospettiva esaltante della riconquista di un primato della nazione tedesca, non solo l’indicazione rassicurante di una serie di capri espiatori cui addossare la responsabilità delle disgrazie del paese, ma anche l’immagine tangibile di una forza politica in grado di ristabilire l’ordine contro i “traditori” e i “nemici interni”.

L’agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930, quando vennero convocate nuove elezioni.

Accadde che i nazisti ebbero uno spettacolare incremento (dal 2,5al 18,3% dei voti), a spese soprattutto della destra tradizionale e i comunisti guadagnarono posizioni ai danni dei socialdemocratici.

L’aspetto più grave dei risultati stava nel fatto che, mentre le forze antisistema si ingrossavano, i partiti fedeli alla Repubblica non disponevano più della maggioranza. Il

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ministero Büning continuò a governare per altri due anni grazie al sostegno del vecchio presidente Hindenburg che si valse sistematicamente dei poteri straordinari previsti dalla costituzione nei casi di emergenza.

Ma in quei due anni le istituzioni parlamentari si indebolirono ulteriormente, mentre la situazione economica andò continuamente precipitando.

Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice. La produzione industriale calò del 50% rispetto al ‘28 e i senza lavoro raggiunsero i sei milioni (ciò significava che la disoccupazione toccava la metà delle famiglie tedesche).

Frattanto i nazisti ingrossavano le loro file in modo impressionante (un milione e mezzo di iscritti) e riempivano le piazze con comizi e cortei. Le città divennero teatro di scontri sanguinosi tra nazisti e comunisti, di agguati, di spedizioni punitive: nei soli mesi di luglio e agosto si registrarono più di 150 morti.

Il dissesto economico e l’esplodere della violenza andarono di pari passo con il collasso del sistema politico.

Due crisi di governo e tre drammatiche consultazioni elettorali tenute a pochi mesi di distanza l’una dall’altra non fecero che confermare la crescita delle forze eversive e l’impossibilità di formare una qualsiasi maggioranza “costituzionale”.

Si cominciò nel marzo 1932, con le elezioni per la presidenza della Repubblica. Per sbarrare la strada a Hitler, i partiti democratici non trovarono di meglio che appoggiare la rielezione dell’ottantacinquenne maresciallo Hindenburg. Hindenburg fu eletto con un margine abbastanza netto su Hitler (che ottenne comunque ben 13 milioni di voti, pari al 37%).

Ma, Hindenburg, una volta confermato nella carica, cedette alle pressioni dei militari e della grande industria, congedò il primo ministro Brüning e cercò una via di uscita dalla crisi prendendo atto dello spostamento a destra dell’asse politico. Entrambi i tentativi si rivelarono un fallimento. Nelle due successive elezioni politiche i nazisti si affermarono come il primo partito tedesco. I gruppi conservatori, l’esercito, lo stesso Hindenburg finirono col convincersi che senza di loro era impossibile governare.

Il 30 gennaio 1933, Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e accettò di capeggiare un governo in cui i nazisti avevano solo tre ministeri su undici e in cui erano rappresentate tutte le più importanti componenti della destra. gli esponenti conservatori credettero di aver ingabbiato Hitler (così come, dieci anni prima i liberali italiani si erano illusi di aver neutralizzato Mussolini) e di poter utilizzare il nazismo per un’operazione di pura marca conservatrice. Si sarebbero presto resi conto di aver sbagliato grossolanamente i loro calcoli.

IL TERZO REICH

Per trasformare lo stato liberale italiano in una dittatura monopartitica, Mussolini aveva impiegato circa quattro anni. A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un potere molto più totalitario di quello che Mussolini aveva e avrebbe mai esercitato in Italia. L’occasione per una prima stretta repressiva fu offerta da un episodio drammatico quanto

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oscuro: l’incendio appiccato al Reichstag, il parlamento nazionale, nella notte del 27 febbraio 1933, una settimana prima della data fissata per una nuova consultazione elettorale.

L’arresto di un comunista olandese, semisquilibrato mentale, indicato come l’autore materiale dell’incendio, fornì al governo il pretesto per un’imponente operazione di polizia contro i comunisti e per una serie di misure eccezionali che limitavano o annullavano la libertà di stampa e di riunione. Nelle successive elezioni i nazisti ottennero un numero di voti che, uniti a quelli dei gruppi, di destra, sarebbero bastati ad assicurare al governo un’ampia base parlamentare.

Ma Hitler mirava ormai all’abolizione del parlamento e il Reichstag appena eletto lo assecondò approvando una legge suicida che conferiva al governo i pieni poteri compreso quello di legiferare e di modificare la costituzione. In luglio Hitler varò una legge in cui si proclamava che il Partito nazionalsocialista era l’unico consentito in Germania. Infine, in novembre una nuova consultazione elettorale, questa volta di tipo “plebiscitario”, su lista unica, faceva registrare un 92% di voti favorevoli.

Hitler aveva così realizzato la prima parte del suo programma di politica interna. Doveva ora disfarsi sia dell’ala estremista del nazismo, sia della vecchia destra, impersonata da Hindenburg e dai capi dell’esercito. Nella notte del 30 giugno 1934, la “notte dei lunghi coltelli”, reparti delle SS (sigla di Schutz-Staffeln, squadre di difesa, una milizia personale di Hitler) assassinarono tutto lo stato maggiore delle SA.

La contropartita chiesta e ottenuta da Hitler fu l’assenso delle forze armate alla sua candidatura alla successione di Hindenburg. Quando il vecchio maresciallo morì, nell’agosto ’34, Hitler si trovò così, in virtù di una legge emanata dal suo stesso governo, a cumulare le cariche di cancelliere e capo dello stato. Ciò significava, tra l’altro, l’obbligo per gli ufficiali di prestare giuramento di fedeltà a Hitler (quindi al nazismo): in prospettiva, la fine di quell’autonomia di potere politico di cui i generali tedeschi si erano mostrati così gelosi.

Le conseguenze sarebbero apparse qualche anno dopo, nel 1938, quando Hitler decise di assumere personalmente il comando delle forze armate.

Con l’assunzione della presidenza da parte di Hitler scomparivano anche le ultime tracce del sistema repubblicano. Nasceva il Terzo Reich, il terzo impero (dopo il sacro romano impero medievale e quello nato nel 1871).

Nel nuovo regime si realizzava pienamente quel “principio del capo” (Führerprinzip) che costituiva un punto cardine della dottrina nazista. Il capo (Führer è l’equivalente tedesco di “Duce”) non era soltanto colui al quale spettavano le decisioni più importanti, ma anche la fonte suprema del diritto; non era solo la guida del popolo, ma anche colui che sapeva esprimerne le autentiche aspirazioni.

L’unico tramite con le masse era costituito dal partito unico e da tutti gli organismi ad esso collegati: come il Fronte del lavoro, che sostituiva i disciolti sindacati, o come le organizzazioni giovanili che facevano a capo nelle Hitlerjugend (gioventù hitleriana).

Compito di queste organizzazioni era di trasformare l’insieme dei cittadini in una comunità di popolo compatta e disciplinata. Dalla comunità di popolo erano esclusi per

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definizione gli elementi antinazionali , i cittadini di origine straniera o di discendenza non ariana e soprattutto gli ebrei, investiti del ruolo di popolo negativo, di capro espiatorio, di obbiettivo predeterminato del malcontento popolare.

Gli ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza: circa 500.000 su una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti. Ma, diversamente da quanto accadeva nei paesi dell’Europa orientale, erano concentrati prevalentemente nelle grandi città e pur non facendo parte della classe dirigente tradizionale, occupavano le zone medio-alte della scala sociale: erano per lo più commercianti, liberi professionisti, intellettuali e artisti; parecchi avevano posizioni di prestigio nell’industria e nell’alta finanza. Nei confronti di questa minoranza attivamente inserita nella comunità nazionale, la propaganda nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità – contro la diversità etnica e religiosa e contro il presunto privilegio economico – che erano largamente diffusi, soprattutto fra le classi popolari, in tutta l’Europa centro-orientale.

La discriminazione fu ufficialmente sancita, nel 1935, dalle cosiddette leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei la parità di diritti con gli altri cittadini e proibirono i matrimoni tra ebrei e non ebrei. (largamente diffusi nella Germania nazista). La persecuzione antisemita subì un’ulteriore accelerazione dal 1938, quando, traendo pretesto dall’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta la Germania (la notte dei cristalli, per via delle numerose vetrine di negozi appartenenti a ebrei rotte dalla furia dei dimostranti. Da allora in poi per gli ebrei rimasti in Germania la vita divenne pressoché impossibile: taglieggiati nei loro beni, privati del lavoro, accusati di cospirare contro il Reich e dunque minacciati di nuove violenze e di nuove misure repressive. Finché, a guerra mondiale già iniziata, Hitler non concepì il progetto mostruoso di una soluzione finale del problema: soluzione che prevedeva la deportazione in massa e il progressivo sterminio del popolo ebraico.

La persecuzione antiebraica non fu l’unica manifestazione della politica razziale nazista. Essa si inquadrava in un più vasto programma di difesa della razza che prevedeva, tra l’altro la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie ereditarie e la soppressione degli infermi di mente classificati come incurabili. Pratiche che erano sconosciute alla civiltà occidentale, anche perché incompatibili con i fondamenti dell’etica cristiana, ma che il nazismo considerava essenziali per mantenere la sanità e l’integrità del popolo eletto. Il mito della razza occupò un posto centrale nella teoria e nella prassi del nazismo: l’aspetto demoniaco dell’esperienza nazista sta nell’avere inseguito questo mito con brutale coerenza.

Fino a quando non fu definitivamente distrutta dalla sconfitta in guerra, la macchina del regime nazista poté funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo e senza suscitare nel paese resistenze efficaci ed estese. L’opposizione comunista, quasi annientata dopo l’incendio del Reichstag, riuscì a mantenere in piedi solo pochi e isolati nuclei clandestini.

La socialdemocrazia, per nulla preparata alla lotta illegale, fece sentire la propria voce solo attraverso gli esuli. I cattolici, dopo lo scioglimento del centro, finirono con l’adattarsi al regime, incoraggiati anche dall’atteggiamento della Chiesa di Roma che, nel 1933, stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non interferenza dello Stato negli affari interni del clero. Solo nel 1937, di fronte agli eccessi della politica razziale nazista, il papa Pio XI intervenne con un’enciclica in lingua tedesca per condannare dottrine e pratiche che sempre più rivelavano il loro carattere “pagano”.

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Ma non vi fu, né allora né inseguito, una denuncia del concordato o una scomunica ufficiale del nazismo. Se pochi furono i problemi creati al regime dalla minoranza cattolica, deboli furono anche le resistenze offerte dalla maggioranza protestante. Le chiese luterane, per lo più orientate in senso conservatore e tradizionalmente ossequienti al potere, si piegarono alle imposizioni del regime, compreso il giuramento di fedeltà dei pastori al Führer. Solo una minoranza di ministri del culto si oppose attivamente alla nazificazione e fu per ciò duramente perseguitata.

Come spiegare la debolezza dell’opposizione al nazismo in un paese che aveva un fortissimo proletariato industriale e che, fin quando aveva potuto esprimersi liberamente, aveva dato una parte rilevante dei suoi consensi alla sinistra? È necessario mettere in conto, in primo luogo, la vastità e l’efficienza dell’apparato repressivo e terroristico: le molte polizie (da quella ufficiale a quella segreta, la Gestapo, all’onnipresente servizio di sicurezza delle SS) che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e privata dei cittadini i campi di concentramento (Lager) dove gli oppositori venivano rinchiusi a centinaia di migliaia e sottoposti, sotto la regia di speciali reparti delle SS, a un lento annientamento.

La repressione poliziesca e i Lager possono spiegare la limitatezza del dissenso (almeno di quello esplicito), ma non ci aiutano a capire le dimensioni del consenso al regime, che furono forse superiori a quelle mai ottenute da qualsiasi altro sistema totalitario. Una prima spiegazione sta nei successi di Hitler in politica:

• Economica – nel 1933 Hitler ottenne la moratoria, cioè la sospensione del pagamento dei danni di guerra, che aveva promesso durante la propaganda elettorale. Questa sua prima vittoria fu ottenuta grazie al più sereno clima economico internazionale, ma anche grazie all’abilità con cui egli presentò alle banche estere che avevano concesso i crediti, la “nuova Germania” della legge e dell’ordine, dove gli operai non scioperavano più e socialisti e comunisti erano misteriosamente scomparsi. I banchieri americani, inglesi e persino francesi ne rimasero affascinati e riversarono sul Terzo Reich fiumi di denaro.Questa fiducia permise a Hitler di concentrare notevoli capitali sulla produzione industriale e di varare un’imponente programma di lavori pubblici (autostrade, edifici statali, stadi, palestre, monumenti) i quali avevano il duplice scopo di battere la disoccupazione impiegando grandi masse di lavoratori e di dare alle città tedesche quell’aspetto solenne che si addiceva alla presunta “superiorità germanica”.Una simile politica ottenne effetti rapidissimi: in cinque anni la Germania tornò ad essere la più forte potenza industriale dell’Europa continentale e nel 1939 raggiunse la piena occupazione

• Estera – Nella prima fase della sua politica Hitler tenne segrete le sue reali intenzioni. Egli propagandava l’immagine di un buon capo di stato dal polso fermo, paladino della pace nel mondo, mentre già la fabbriche tedesche producevano a ritmo serrato cannoni, aerei e sommergibili per sostenere il rapido riarmo della Germania.Tuttavia, appena la ripresa economica fu assicurata, Hitler mise in atto in modo sempre più sfacciato e aggressivo una serie di violazioni al trattato di Versailles: ripristinò il servizio militare obbligatorio; riportò le sue truppe nella zona smilitarizzata della Renania, ai confini con la Francia; impegnò parti sempre più cospicue delle finanze

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dello stato nell’industria bellica. Nonostante questo aperto atteggiamento di sfida, le altre potenze europee continuarono a credere che il Führer non volesse realmente la guerra e non misero in opera alcun serio tentativo per fermarlo.

• Interna – In Germania, intanto, la sua persona era ormai oggetto di un’adorazione fanatica. Tutto ciò che aveva promesso era stato realizzato in tempi incredibilmente brevi. Nessuna meta, per quanto ambiziosa, feroce o dissennata, sembrava ormai irraggiungibile agli occhi dei Tedeschi, se era Hitler a indicarla.

La caratteristica peculiare della politica culturale nazista stava nel fatto che per diffondere un’utopia antimoderna il regime si serviva di mezzi moderni e modernissimi.

Quello nazista fu il primo governo ad istituire in tempo di pace un ministero per la Propaganda che divenne uno dei principali centri di potere del regime. La stampa fu sottoposta a strettissimo controllo e inglobata in un unico apparato alle dipendenze del ministero.

Gli intellettuali furono inquadrati in un’organizzazione nazionale (la camera di cultura del Reich) e dovettero fare atto di adesione al regime: quelli che non vollero piegarsi furono costretti al silenzio o a lasciare il paese. Ma, soprattutto furono largamente sfruttati i nuovi mezzi si comunicazione di massa e furono utilizzate in misura mai vista prima le tecniche dello spettacolo: tutti i momenti più significativi della vita del regime furono infatti scanditi da feste e cerimonie pubbliche.

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VERSO LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Alla fine della grande guerra l’America si volse alla ripresa degli affari e al ritorno dell’isolazionismo. Dal 1920, e per un decennio, il partito repubblicano attuò un totale liberismo economico. Vi fu una straordinaria prosperità simboleggiata dalla diffusione dell’automobile, grazie alla produzione in serie e alla vendita rateale. Crebbe l’uso degli elettrodomestici e della radio, che diffuse i valori dell’American way of life, il “modo di vita americano”: felicità uguale denaro e successo. Però molte medie e piccole industrie fallirono ed aumentò la disoccupazione creata dall’innovazione tecnologica che riduceva la manodopera. Crebbe l’emarginazione delle categorie escluse dal lavoro e anche quelle degli immigrati più recenti. Nel 1919 un’imponente ondata di scioperi fu accompagnata da attentati dinamitardi.

Crebbe la criminalità organizzata che corrompeva magistrati, poliziotti, uomini politici. Verso i poveri e i ribelli (anarchici, organizzazioni di sinistra, comunisti, nuovi immigrati, neri) il governo repubblicano propugnò il conservatorismo sociale ossia dura repressione, intolleranza, persecuzione: ne fu simbolo l’immotivata condanna a morte di due anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.

Fare par te di un’organizzazione sindacale divenne un rea to .Furono introdotte anche rigide restrizioni all’immigrazione e crebbe l’intolleranza

reli giosa .Il Ku-Klux-Klan, feroce setta razzista si mobilitò per difendere i valori della civiltà

«bianca» contro quella dei neri.Infine il gover no emanò una legge sul divieto di produzione di bevande alcoliche

(proibizionismo 1919-1933), e questo favorì il commercio clandestino della mafia.

Tra il 1929 e il 1932 gli Stati Uniti furono sconvolti dalla "Grande depressione".

Nel 1932 Franklin Delano Roosevelt, del Partito democratico, vinse le elezioni presidenziali ed impose una svolta politica nota come New Deal (“Nuovo Corso”), con questa passò dall’economia liberista a un capitalismo diretto dallo Stato, che limitava l’iniziativa privata pur

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mantenendo il principio del profitto. Tra i provvedimenti urgenti facilitò l’esportazione svalutando il dollaro, favorì la ripresa del lavoro e varò una legge sulla sicurezza sociale (diritti sindacali, pensione di vecchiaia, sussidio di disoccupazio ne) che ridiede fiducia ai ceti poveri.

Negli anni Trenta, Francia e Gran Bretagna furono le uniche potenze europee a mantenere le Costituzioni democratiche e offrirono rifugio a tutti i perseguitati politici, etnici, religiosi. Anche in questi Paesi però i conservatori e le destre antiparlamentari attuarono una politica antidemocratica.

In Francia i fascisti tentarono un colpo di Stato nel 1934 ma il governo bloccò la loro «marcia sul Parlamento». Il Fronte popolare, una coalizione di sinistra capeggiata da Léon Blum, vinse le elezioni nel 1936; presto però fu sostituita da un governo democratico, ma conservatore.

Anche in Gran Bretagna i fascisti furono sconfitti da un governo conservatore presieduto da Neville Chamberlain che risanò l’economia. La politica interna dei conservatori salvò la democrazia in Francia e in Inghilterra.

In politica estera Francia e Inghilterra ebbero gravi responsabilità: esse credettero all’esistenza di uno spirito di pace, mentre già nel 1931 il Giappone aveva invaso la Manciuria cinese e ne 1936 l’Italia occupò l’Etiopia.

Anche in Spagna dopo una sanguinosa guerra civile durata dal 1936 al 1939, si era instaurato il regime fascista di Francisco Franco.

Già dal 1931 gli spagnoli avevano proclamata la repubblica e il governo repubblicano aveva concesso la giornata lavorativa di otto ore e fissato un salario minimo.

Questi provvedimenti scatenarono la reazione delle forze conservatrici anche per la violenza anticattolica di alcuni gruppi monarchici.

La destra spagnola organizzò un movimento paramilitare di tipo fascista chiamato Falange.

Quando, nel 1936, il fronte popolare vinse le elezioni, le forze conservatrici risposero con un colpo di Stato militare guidato dal generale Franco che, a capo dei falangisti, scatenò una guerra civile.Volontari antifascisti, riuniti nelle Brigate Internazionali, affluirono da tutta Europa e anche dagli Stati Uniti per aiutare i repubblicani, ma Franco ebbe l’aiuto Militare di Mussolini e di Hitler, il quale fece radere al suolo con un bombardamento l’antica città di Guernica.

Il grande pittore spagnolo Pablo Picasso immortalò la tragedia della città bombardata dai tedeschi in un quadro famoso conservato a Madrid.Lo eseguì usando la tecnica del cubismo e rappresentò l’urlo di uomini e animali devastati dalla bomba, che nel quadro è la lampada in alto al centro.

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La feroce guerra terminò nel 1939 con la vittoria di Franco che si proclamò Caudillo, ossia Duce.

La guerra di Spagna costituì la prova generale per l’alleanza militare Italo-Tedesca (asse Roma-Berlino), che esisteva dal 1936, e inoltre vide fronteggiarsi per la prima volta fascisti e antifascisti. Sancì anche il completo fallimento della Società delle Nazioni nel suo scopo di garantire la pace definitiva.

Nel 1938 Hitler iniziò il suo progetto per la conquista dello “spazio vitale” e invase l’Austria che con un plebiscito fu annessa alla Germania (Anschluss).

Con la mediazione di Mussolini nella conferenza di Monaco del 1938 riuscì ad annettersi la regione dei Sudeti, in Cecoslovacchia.

Nel marzo 1939 occupò anche la Boemia e la Moravia.Infine nel marzo 1939 per completare il grande Reich Hitler rivendicò il diritto al

possesso del territorio assegnato dal trattato di Versailles alla Polonia e noto come corridoio di Danzica.

Questo allarmò Francia, Inghilterra, Belgio e Olanda.

Nel 1939 Stalin stipulò con Hitler un patto di non aggressione (patto Molotov-Von Ribbentrop), con la clausola segreta di poter occupare la Polonia orientale; il patto che indignò i paesi democratici e i comunisti per la sua spregiudicatezza, poté solo ritardare lo scontro tra Germania e URSS.

LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Il 1° settembre 1939 Hitler invase la Polonia e il 3 Gran Bretagna e Francia dichia-rarono guerra alla Germania, dando l’avvio alla Seconda guerra mondiale.

All’inizio Hitler vinse con la strategia della “guerra lampo” basata sull’impiego di aviazione e forze corazzate appoggiate dalla fanteria.

Le truppe tedesche occuparono la Polonia occidentale e nell’aprile del 1940 la Danimarca e la Norvegia. L’Unione Sovietica occupò la Polonia orientale e aggredì la Finlandia.

La Francia attestò le proprie truppe lungo la linea Maginot di fronte alla tedesca linea Sigfrido.

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Il 10 maggio 1940 Hitler, violandone la neutralità, occupò Belgio, Olanda e Lussemburgo e aggirò da nord la linea Maginot. L’esercito francese fu travolto e quello britannico, accerchiato a Dunkerque, si salvò a fatica.

Il 14 giugno 1940 i tedeschi entrarono a Parigi; il 22 il maresciallo Pétain firmò l’armistizio e formò a Vichy un governo «collaborazionista» con i Tedeschi.

Il governo inglese, guidato da Winston Churchill, respinse la trattativa di pace separata; Hitler decise allora l’invasione dell’Inghilterra puntando sul primato dell’aviazio-ne, la Luftwaffe, a cui era opposta l’inglese Raf (Royal air force).

Nell’estate 1940 si svolse la «battaglia d’Inghilterra», la prima grande bat taglia aerea della storia, completata da bombardamenti sulle città inglesi e tedesche. Alla fine la Raf bloccò la Luftwaffe: era fallita la "guerra-lampo" di Hitler.

Nel settembre 1939 Mussolini dichiarò la «non belligeranza» dell’Italia, poi cambiò parere e il 10 giugno 1940 dichiarò la guerra a Francia e Gran Bretagna.

I Francesi, sebbene vinti dai Tedeschi, respinsero l’esercito italiano sulle Alpi Marittime.

Mussolini attaccò inizialmente con successo i possedimenti inglesi in Africa, men-tre nel mare Mediterraneo vincevano gli Inglesi già dotati di radar. Il Duce intanto firmava con la Germania e il Giappone il «Patto tripartito» che prevedeva la spartizione del mondo tra le potenze dell’Asse.

L’Italia attaccò la Grecia trovando una forte resistenza. L’aiuto dei tedeschi evitò una cocente sconfitta italiana, ma l’infelice impresa procurò al Duce e al fascismo una diffusa impopolarità in Italia.

Anche in Africa la guerra fascista volgeva al peggio. Gli inglesi occuparono i possedimenti italiani nella Cirenaica, in Etio pia , in Somalia e in Eritrea.

La Germania, nel marzo 1941, mandò in Nordafrica rinforzi comandati da Erwin Rommel e la guerra si protrasse fino al 1942. Hitler iniziava intanto l’aggressione all’Unione Sovietica.

Il 22 giugno 1941 Hitler invase l’Unione Sovietica fiancheggiato dagli Italiani dell’Armir.

Colto impreparato, Stalin effettuò una lenta ritirata dell’esercito disturbando gli invasori solo con azioni di guerriglia nell’attesa del “generale inverno”.

Mentre il generale Zukov rinforzava l’Armata rossa, Stalin strinse un’alleanza con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.

Le truppe tedesche avanzavano: l’ordine ricevuto era “Sterminio”, e sterminio fu anche di civili in città e villaggi.

I Tedeschi si impadronirono delle fabbriche e delle riserve di petrolio nei Paesi Baltici, in Ucraina e in Cri mea . Posero l’assedio a Leningrado, che resistette 900 giorni; la «guerra lampo» sbandierata da Hitler divenne guerra di posizione. Nel terribile inverno russo neve, fame e imboscate dei partigiani decimarono l’esercito tedesco e l’Armata italiana.

Nell’Europa occupata le SS erano impegnate a imporre il «Nuovo ordine» di Hitler, fondato sullo sfruttamento delle risorse e delle popolazioni europee a beneficio della “razza superiore” tedesca. Tutti i popoli dovevano essere assoggettati; ebrei e Slavi dovevano essere sterminati.

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Italia, Spagna e Portogallo restavano indipendenti con il rango di Stati satelliti della Germania nazista. I nazisti erano aiutati dai «collaborazionisti» nella repressione dei movimenti di liberazione clandestini che sorgevano in Europa.

Tramite i gerarchi Goering, Himmler e Heydrich, Hitler iniziò Io sterminio sistematico degli ebrei: la «soluzione Finale».Nelle camere a gas furono eliminati 6 milioni di ebrei i cui corpi furono bruciati nei forni crematori di Auschwitz, Buchenwald, Dachau Mauthausen e altri campi di sterminio. Prigionieri politici, uomini, donne e bambini di altre nazionalità e categorie subirono la stessa sorte.

Alla fine del 1941 il Giappone decise di colpire di sorpresa le forze navali americane e inglesi nel Pacifico. Il 7 dicembre 1941. A guerra non dichiarata, i Giapponesi con un fulmineo attacco aereo distrussero la flotta americana a Pearl Harbor. Ugualmente fecero in Siam contro la flotta britannica.

Questa azione convinse gli Stati Uniti a entrare in guerra contro le potenze dell’Asse.

Fino alla primavera del 1942 però grazie all’abilità dell’ammiraglio Yamamoto, il Giappone conquistò il controllo del Sud-Est asiatico, dell’Indonesia, delle Filippine, di gran parte dell’Oceania e minacciò Australia e India.

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Le vittorie dell’Asse finirono da metà del 1942.

FRONTE RUSSO. Dal luglio 1942 al febbraio 1943 si svolse a Stalingrado una strenua battaglia che si concluse con la sconfitta delle forze tedesche. Iniziò così la tragica ritirata di Russia che terminò nella primavera del 1944 con la morte 80 per cento dei Tedeschi e degli Italiani.

FRONTE DEL PACIFICO. Nella primavera del 1942 gli Americani ottennero grandi vittorie, soprattutto a Midway, e dal 1943 le azioni dei marines ottennero il controllo dell’Oceano.

FRONTE AFRICANO. Vinta la battaglia di El Alamein, gli Anglo-Americani del generale Eisenhower nel 1943 cacciarono gli Italo-Tedeschi dall’Africa.

Tre furono le ragioni della vittoria degli Alleati:

- cooperazione economica, grazie alla legge «Affitti e prestiti» varata da Roosevelt, per cui gli Stati Uniti divennero l’”arsenale comune degli Alleati”;

- solidarietà politica degli Alleati attraverso la «Carta Atlantica», che proclamava necessaria una guerra antifascista;

- strategia militare comune degli Alleati che decisero di affrontare e sconfig-gere separatamente le potenze dell’Asse.

Un Alto comando interalleato, con a capo il generale Eisenhower, ebbe la direzione

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strategica della guerra in collegamento con la Resistenza europea impegnata in azioni di sabotaggio e guerriglia.

Il 10 luglio 1943 si ebbe lo sbarco alleato in Sicilia, prima sconfitta del fascismo sul «Fronte interno» aggravata dalle distruzioni dei bombardamenti sulle città, specie su Milano.

La popolazione mancava di tutto e si sviluppava il mercato nero. Un esercito di sfollati cercava rifugio nelle campagne. Nel marzo del 1943 la classe operaia si ribellò con scioperi che si diffusero in tutto il Nord.

La grande industria nutrì il timore di una rivoluzione e indusse il re a ordire un colpo di stato.

Il 25 luglio, il Gran Consiglio del Fa scismo votò una mozione di sfiducia nei con fronti del Duce. Il re affidò il governo al genera le Badoglio, fece arrestare Mussolini e lo esiliò sul Gran Sasso: era la caduta del fascismo.

Badoglio negoziò l’armistizio con gli alleati e lo rese noto l’8 settembre 1943 mentre il re fuggiva a Brindisi lasciando il Paese nel caos.

A Roma le SS si scontrarono con soldati italiani e si ebbe così il primo episodio della resistenza Italiana.

A Cefalonia (Corfù) la divisione Acqui fu sterminata dalle truppe naziste.A Napoli il 1°ottobre 1943 l’intera città si sollevò liberandosi dai nazisti in quattro

giorni (“Quattro giornate di Napoli”).Mussolini, liberato da Hitler, fondò a Salò sul Garda la Repubblica Sociale Italiana,

o Repubblica di Salò.

L’Italia restò divisa in due:Centro-Nord occupato dai Tedeschi e governato da Mussolini con la sua

Repubblica;il Meridione ,occupato dagli Alleati e chiamato Regno del Sud perché governato dal

re Vittorio Emanuele III.

Nella Repubblica di Salò si raccolsero quanti erano ancora fascisti. I cinque gerar-chi che avevano votato la sfiducia a Mussolini furono giudicati nel processo di Verona e Fucilati nel 1944. Emersero anche le atrocità commesse da alcuni gruppi estremisti di Salò.

Alla lotta contro i tedeschi aderirono molti giovani e i militanti antifascisti esuli ritor-nati in Italia. Già nel 1943 si era costituito a Roma il Comitato di liberazione nazionale (Cln) che organizzò la Resistenza italiana coordinando i nuclei partigiani formati da volontari: ad essi la gente comune offrì la propria solidarietà. Le azioni, dirette nelle città contro i nazisti, altrove (Prealpi, Pianura padana e Appennino toscoemiliano) colpirono anche i fascisti.

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Questo periodo di guerra civile costò 70.000 morti. Le SS naziste eseguirono gli eccidi delle Fosse Ardeatine a Roma, di Sant’Anna di Stazzema (Lucca) e di Marzabotto (Bologna).

Gli Alleati, sbarcati ad Anzio all’inizio del 1944, raggiunsero Roma il 4 giugno.I Tedeschi si attestarono sulla “Linea gotica" mentre i partigiani liberavano Firenze

l’11 agosto.Ripresa l’offensiva l’anno dopo, gli Angloamericani oltrepassarono il Po e il 25 aprile

1945 il Cln proclamò l’insurrezione generale del norditalia.Le truppe tedesche si arresero, cadde la Repubblica di Salò e Mussolini, catturato

dai partigiani mentre fuggiva, fu fucilato il 28 aprile.

Il 6 giugno 1944 il generale Eisenhower sbarcò in Normandia.In agosto entrò trionfalmente a Parigi il generale Charles De Gaulle, capo della

Resistenza francese.Le forze americane da occidente e quelle sovietiche da oriente entrarono in

territorio tedesco.I partigiani del maresciallo Tito liberarono la Iugoslavia. Hitler, trasferitosi in un

bunker, ordinò la leva dei ragazzi di 14 anni.Il 30 aprile 1945 i Sovietici entrarono a Berlino e Hitler si suicidò. Il 7 maggio 1945 la Germania firmò la resa. La guerra in Europa era finita.

La guerra nel Pacifico volgeva al peggio per il Giappone.Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, decise di usare la bomba

atomica appena sperimentata.

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Il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica esplose su Hiroshima e tre giorni dopo una seconda a Nagasaki, distrug-gendo le città e procurando all’istante migliaia di morti.

Il 2 settembre 1945 l’imperatore del Giappone firmò la resa, mentre i capi di Stato Maggiore si suicidavano.

La Seconda guerra mondiale era finita:era costata 55 milioni di morti.

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