L’AUTOIMPRENDITORIALITÀ: FONDAMENTI E SOSTENIBILITÀ · difficilissima ricollocazione sul...
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Corso di Laurea in Scienze del Lavoro
Classe LM/62
L’AUTOIMPRENDITORIALITÀ:
FONDAMENTI E SOSTENIBILITÀ
Relatrice:
Chiar.ma Prof.ssa Ilaria Madama
Correlatrice:
Chiar.ma Prof.ssa Franca Maino
Tesi di laurea di:
Davide Lagravinese
Matr. 826706
Anno Accademico 2015 – 2016
Ai miei genitori che mi hanno sostenuto e aiutato in questi mesi.
E a Sara, che senza il suo amore e il suo supporto sarebbe stato molto più
difficile compiere questo lavoro.
Indice
Ringraziamenti 1
Introduzione 2
CAPITOLO I. Come cambia il sistema lavorativo: dal fordismo alla
flessibilità del lavoro
Introduzione 5
1.1 Dal fordismo al post-fordismo 6
1.2 Divisione e struttura del lavoro: modelli a confronto 12
1.3 Nuovi bisogni occupazionali italiani: la flessibilità del lavoro
senza rinunciare alla sicurezza 17
1.4 Lavoro autonomo e autoimprenditorialità: cenni e primo
inquadramento 27
Riflessioni conclusive 34
CAPITOLO II. L’autoimprenditorialità: la figura
dell’imprenditore, l’attività d’impresa e le misure di sostegno
Introduzione 36
2.1 “Essere” imprenditore: la figura, la vocazione, la formazione 37
2.2 L’inizio: il Business Plan 44
2.3 Le start up innovative in Italia e il sostegno della Camera di
Commercio 48
2.4 Le micro e le piccole imprese: il sostegno dell’Unione Europea,
la creazione di reti come possibile forma di sviluppo e
l’innovazione 56
2.5 L’idea di autoimpiego e di autoimprenditorialità 62
Riflessioni conclusive 69
CAPITOLO III. Il sostegno pubblico all’autoimprenditorialità:
dalle politiche attive del lavoro a Garanzia Giovani in Lombardia
Introduzione 71
3.1 Dal Fondo Sociale Europeo alle politiche attive di ANPAL:
una possibile ripartenza 72
3.2 Gli incentivi e il finanziamento pubblico all’autoimprenditorialità 77
3.3 La storia di Garanzia Giovani a livello nazionale e l’efficacia
del Programma 86
3.4 Garanzia Giovani in Lombardia e il finanziamento
regionale all’autoimprenditorialità 96
Riflessioni conclusive 105
CAPITOLO IV Fondazione Welfare Ambrosiano: Fondazione
Welfare Ambrosiano: nuove forme di sostegno ai soggetti
vulnerabili e all’autoimprenditorialità
Introduzione 107
4.1 Il contesto milanese 110
4.2 Gli interventi nel sociale della Fondazione 115
4.3 Attività e progetti della Fondazione 119
4.4 Il microcredito 125
Riflessioni conclusive 135
Riflessioni finali 137
Bibliografia 140
1
Ringraziamenti
Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato nella
realizzazione della mia tesi. Innanzitutto, ringrazio la Professoressa
Madama e la Professoressa Maino per l’aiuto nella stesura di tutti i capitoli
del lavoro e i relativi suggerimenti su come strutturarlo e migliorarlo.
Romano Guerinoni, direttore della Fondazione Welfare Ambrosiano, per le
indicazioni su come impostare la tesi, per il materiale fornitomi riguardante
la Fondazione e per aver supportato la mia idea. Silvia Degl’Innocenti,
direttrice del portale Vivace Cisl, per avermi fornito la documentazione sul
lavoro autonomo. L’amico e professore Edoardo Bressan, per i suoi preziosi
consigli riguardo allo stile della tesi e al messaggio trasmesso al lettore.
L’associazione Bibliolavoro, per avermi dotato del materiale necessario per
scrivere dei cambiamenti del mondo del lavoro. Il centro di formazione
professionale Galdus, che mi ha dato l’ispirazione per scrivere le diverse
parti dell’elaborato riguardante l’autoimprenditorialità. E infine, un
ringraziamento alla FELSA CISL per tutti gli anni di profonda
collaborazione che mi hanno dotato dell’esperienza necessaria per poter
scrivere questa tesi.
2
Introduzione
Quattro anni fa, ho cominciato il mio primo percorso lavorativo
all’interno dell’organizzazione sindacale CISL, nella sua categoria chiamata
FELSA, che tutela i lavoratori precari italiani. Il mio compito è quello di
formare e informare le persone attualmente disoccupate riguardo ai diritti e
doveri dei lavoratori, raccontandogli dello stato del mercato del lavoro
italiano, i suoi cambiamenti, le sue leggi e i modi per essere pronti a farne
fronte. Questa esperienza mi ha portato a incontrare un numero elevatissimo
di persone: disoccupati molto giovani fino ad arrivare ad individui quasi al
tramonto della loro vita lavorativa, senza alcuna distinzione di etnia o
genere.
Contemporaneamente al mio cammino all’interno del sindacato, ho
cominciato a conoscere diversi enti vicini al mondo sindacale e quello che
mi ha colpito di più è la Fondazione Welfare Ambrosiano presente nella
mia città, Milano. Nelle sue tante attività (che verranno illustrate nel quarto
capitolo) ciò che ha suscitato maggiormente il mio interesse è quello che fa
la Fondazione per sostenere l’autoimprenditorialità. Mi sono quindi posto
una domanda: compreso il caso milanese, quali possono essere gli incentivi
promossi dai vari enti, pubblici e privati, per valorizzare il sistema della
nuova imprenditoria in Italia? E mi sono posto questa domanda per un
motivo: vedendo così tanti disoccupati negli ultimi quattro anni, potrebbe
esistere potenzialmente un modo per uscire da questa crisi, lavorativa ed
economica, costantemente presente nel nostro Paese?
L’unico modo per creare occupazione è creare impresa, almeno dal
punto di vista del settore privato. Senza produzione di beni e servizi non
può esistere il lavoro. Appunto, il caso italiano presenta gravi peculiarità a
riguardo. Si sta affrontando una crisi enorme su tutto il settore industriale e
manifatturiero: moltissime aziende storiche, piccole, medie o grandi che
3
siano, vengono chiuse per fallimento o per la poca produzione oppure
vengono spostate all’estero, dove la manodopera costa meno. Alcuni lavori
non vengono proprio più svolti: molte posizioni lavorative sono ormai
obsolete sul mercato del lavoro, quindi una persona che per decenni ha
occupato quel ruolo si ritrova quasi da un momento all’altro a non poter più
spendere ciò che ha imparato nel corso degli anni. Con conseguente
difficilissima ricollocazione sul mercato del lavoro.
Dunque, per ripartire, per ricominciare a creare lavoro, servono
nuove idee, elementi innovativi che diano una “spinta” al mercato.
L’autoimprenditorialità prova a offrire una via d’uscita: il disoccupato di
qualunque età o genere ha difficoltà a reintegrarsi nel mercato del lavoro,
perché dunque non provare a reinventarsi? Attenzione però: non è così
scontato che tutti ci riescano. Servono idee concrete da poter portare a
compimento, altrimenti una possibile attività è un fallimento già all’inizio.
Oltretutto, è necessaria anche una base economica di partenza e non tutti in
genere possono averla. L’imprenditorialità inoltre, non va soltanto a far
fronte a un problema di ricollocazione lavorativa, ma anche per una
collocazione occupazionale vera e propria. E da questo punto di vista i
giovani sono nettamente i protagonisti: molti ragazzi si trovano di fronte a
pochissime e limitate possibilità lavorative, magari nemmeno attinenti al
proprio percorso di studi. Quindi, potrebbero utilizzare il loro percorso
accademico e le loro passioni come occasione di inventare qualcosa di
nuovo. Per realizzare tutto questo, ovviamente, servono gli strumenti: essi
non possono non arrivare che dall’ente pubblico, in larga parte, attraverso le
normative promosse dall’Unione Europea e di conseguenza dalla
legislazione ordinaria statale con le sue politiche attive.
Ma anche gli enti privati sono chiamati a fare la loro parte: cercare di
innovare la concessione del credito per rendere più facile l’investimento e
proporre innovativi percorsi di accompagnamento alla persona. Senza
questi sostegni potrebbe risultare difficile che una persona possa far sì che
un suo progetto, pur valido quanto possa essere, sia realizzabile nella realtà.
4
La mia tesi, dunque, proverà a dare qualche spunto di analisi su
questi aspetti: partendo dai cambiamenti del mercato del lavoro in linea
generale, dalle dinamiche fordiste fino all’odierna flessibilità del lavoro, si
arriverà ad analizzare la figura dell’imprenditore, come si avvia un’attività
imprenditoriale e i particolari casi, molto attuali, delle start up, delle micro e
piccole imprese, ma anche da qualche esempio concreto di
autoimprenditorialità. Provare a capire quali siano gli strumenti di
finanziamento messi in campo dai vari enti pubblici, partendo dall’Unione
Europea fino ad arrivare al caso italiano, come vengono gestite le finanze e
a chi sono dedicate tutte le politiche attive del lavoro, concentrandoci nello
specifico sull’imprenditorialità. Infine, cercherò di trasmettere al lettore ciò
che mi ha ispirato di più nel compiere questa tesi: analizzare cosa fa la
Fondazione Welfare Ambrosiano sul territorio milanese e come questa
agisca per dare un aiuto concreto alle persone in momentanea difficoltà o a
coloro che desiderano mettersi in gioco sul mercato, accompagnandole in
tutto il percorso di valorizzazione della persona.
“C’è del buono in questo mondo […]. È giusto combattere per questo.”
(Dal film: Il Signore degli Anelli – Le due Torri)
5
CAPITOLO I
Come cambia il sistema lavorativo: dal fordismo alla
flessibilità del lavoro
Introduzione
Prima di affrontare nello specifico il discorso
sull’autoimprenditorialità, è opportuno fare una premessa riguardo ai
cambiamenti del mondo del lavoro avvenuti negli ultimi anni. Il Novecento
è stato un secolo ricco di avvenimenti: a partire dalle due guerre mondiali si
è visto un totale cambiamento sociale, economico, lavorativo e politico-
istituzionale nella gran parte dei Paesi del mondo. I nuovi modelli
economici di sviluppo industriale di massa hanno portato a un sempre
maggiore consumismo anche da parte delle fasce di popolazione più povere.
Le democrazie, negli anni, hanno garantito maggior sicurezza sul lavoro, sia
nel vero senso della parola, sia in senso lato, ovvero con leggi a garanzia di
quasi tutti i lavoratori. E non solo: il welfare pubblico ha garantito negli
anni un costante benessere a tutti i cittadini, dalla sanità, alla scuola
dell’obbligo, dalle case popolari, fino ad arrivare alle pensioni sociali, di
invalidità e di inabilità al lavoro. Il tutto accompagnato da un vero e proprio
boom economico che ha facilitato il benessere collettivo. Insomma, nel
corso del Novecento si è visto un nuovo modello di sviluppo sociale che
mai si era visto prima nella storia dell’umanità. Sul finire del secolo però,
questa evoluzione ha cominciato a “scricchiolare”. A causa del costante
aumento del debito pubblico, il welfare pubblico è stato rivisto:
innalzamento dell’età pensionabile, partecipazione e contribuzione del
cittadino alla sanità e alla scuola e via dicendo. I modelli di consumo di
massa messi in campo dalle aziende sono stati rivoluzionati, a causa del
6
fatto che non erano più sostenibili. Questo ha portato a nuove forme
alternative di produzione che hanno creato sempre maggiore flessibilità e
precarietà al lavoro, con conseguente e sempre più presente disoccupazione.
Esattamente di questo ci si vuole occupare nel primo capitolo: come si è
passati da un modello fordista a un modello post-fordista e perché; le
diverse strutture del lavoro passate e presenti; contraddittoriamente cosa
porta la flessibilità al mercato del lavoro e fin dove è possibile garantire
tutele (se è possibile garantire una tutela) e una sicurezza (nella sua insita
insicurezza); quindi nella parte finale proporre alcune indicazioni su come
tutto questi si leghi al tema dell’autoimprenditorialità.
1.1 Dal fordismo al post-fordismo
Per quasi ottant’anni il Novecento è stato il secolo, per così dire, del
fordismo, una rivoluzione che si è delineata alla vigilia della prima guerra
mondiale, con la comparsa dei precetti affermati dall’ingegnere americano
Frederick Taylor e portati a compimento da Henry Ford, con l’esordio a
Detroit nella sua fabbrica di automobili della prima catena di montaggio1.
Brevemente il modello si può riassumere così: Ford seppe combinare il
lavoro di una massa di operai senza particolari qualifiche con dei buoni
salari e incentivi al lavoro (aumento del salario minimo previsto in quegli
anni e riduzione dell’orario di lavoro). Utilizzando quindi il metodo
Taylorista, tutti i compiti richiesti per produrre un’automobile vennero
semplificati e frammentati, in modo da aumentare la velocità di produzione.
Questo diede vita a un nuovo modello di organizzazione del lavoro, la linea
di produzione, sotto il controllo dei tecnici e dei capi reparto. Prendendo
quindi spunto da questa struttura, le fabbriche americane e successivamente
1 L. Ferrari Bravo, Dal Fordismo alla globalizzazione, cristalli di tempo politico, Manifesto Libri,
Roma (2001).
7
quelle europee si adeguarono a questo sistema. Si passò, in pratica, da una
produzione artigianale di beni su scala ridotta, a una produzione di beni
industriali su vasta scala. Nacque così il modello della società di consumo,
spinta dal concetto che è il mercato che crea la società, non il contrario.
L'approccio fordista riuscì ad abbinare la produzione in serie o di massa,
resa possibile dal progresso tecnico, con il consumo di massa, in quanto
iniziò a considerare i lavoratori non soltanto come un fattore di produzione,
ma anche come consumatori dei prodotti finali. L'età dell'oro del
capitalismo, dal dopoguerra alla metà degli anni Settanta, fu infatti
caratterizzata dalla piena occupazione, da considerevoli investimenti di
capitale, dalla piena utilizzazione della capacità produttiva degli impianti e
da elevati livelli di redditività delle imprese.
Dopo avere portato la produttività del lavoro e la produzione di
massa a livelli tali da elevare nettamente i redditi e da inondare il mondo di
beni e di servizi, il modello di produzione e di consumo taylor-fordista è
entrato in crisi con gli anni Settanta e da allora evolve verso un modello
chiamato convenzionalmente post-fordista. Il cuore del cambiamento di
questo passaggio storico è quello che parte dal concetto di industria classica
di produzione di beni fino ad arrivare alla produzione dei servizi e dalla
società industriale alla società post-industriale, tant’è vero che novità quali,
per esempio, la produzione just-in-time, il telelavoro, l’outsourcing, i call-
center, la somministrazione di lavoro data dalle agenzie del lavoro
provengono da una serie di modelli sui quali oggi si impernia oggi
l’industria. Rispetto al fordismo, il post-fordismo è qualcosa che va “oltre”
anziché “qualcosa d’altro”2: infatti il passaggio in atto si deve sia al
successo sia alla crisi del modello fordista. Questo passaggio sta sostituendo
un mondo del lavoro piuttosto uniforme com’era quello del Novecento con
un universo di lavori assai diversificati che si diffondono in senso spaziale
ma che purtroppo si disperdono molto in senso temporale, e che sono svolti
da soggetti i quali operano alle dipendenze e sotto la direzione del classico
2 Documenti CNEL, Rapporto Post-Fordismo e nuova composizione sociale, Paper, Roma (2000).
8
datore di lavoro oppure in modo autonomo o con posizioni miste, come il
lavoro parasubordinato. Cresce inoltre il numero delle micro-aziende e cala
quindi la dimensione dei luoghi dove si lavora, per cui si trovano ovunque
prestazioni di lavoro e prestatori che lavorano. Ormai dunque è sempre più
raro trovare giganteschi conglomerati aziendali o industriali; crescono
inoltre i tipi di orario, come l’uso sempre più frequente del notturno o
dell’orario spezzato, del doppio turno e calano le sincronie fra gli orari, per
cui si trovano sempre più persone che lavorano in orari diversi da un
modello convenzionale aziendale e con calendari complicati, anche nella
stessa sede3. Tutto ciò comporta effetti positivi come la de-massificazione
del lavoro, quindi creare anche una maggior professionalità delle
competenze, ma può anche comportare conseguenze che preoccupano i
sindacati, come la de-solidarizzazione dei lavoratori e la difficoltà a creare
rappresentanze o un contratto collettivo aziendale. La conseguenza che si
prospetta è quella di una "Società dei lavori", parecchi dei quali cangianti,
sfuggenti, occasionali, precari, sin troppo flessibili, anziché di una "Società
del Lavoro" centrata su un’idea e su un profilo di pienezza e di stabilità
quale l’Occidente capitalistico aveva avuto nel secolo scorso4. Il pericolo
più alto è, sostanzialmente, una forbice sempre più ampia tra gli insiders
(lavoratori stabili) e gli outsiders (lavoratori temporanei). È una transizione
lunga che, inizialmente sembrava passare quasi inavvertitamente perché
non mostrava cambiamenti così netti sulla struttura ”reale”5 del lavoro ma
che poi, con lo scoppiare della crisi del 2008, è arrivata di getto addosso
con una potenza inaudita e inaspettata. I suoi sviluppi, resi necessari dalle
trasformazioni dell’impresa e resi possibili dalle innovazioni della
tecnologia, erano del resto all’interno del medesimo meccanismo di
creazione e di soddisfazione dei bisogni, ovvero il fatto che il consumatore
diventa sempre più particolare ed esigente.
3 R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014).
4 A. Accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Il Mulino,
Bologna (2013). 5 L. Ferrari Bravo, Dal Fordismo alla globalizzazione, cristalli di tempo politico, Manifesto Libri,
Roma (2001).
9
Si può dire che questo scenario è una transizione riconducibile
soprattutto alla volatilità dei mercati, in quanto le imprese stesse ormai si
basano sin troppo sulle mode e quindi sul breve periodo. E quindi, l’aspetto
nuovo è l’integrazione globale tra mercati, dimensioni e tecnologie che
accrescono la reattività delle imprese6. Inoltre, la “sfidante” concorrenza
internazionale dei nuovi Paesi industrializzati (come i Paesi asiatici), che
offrivano la stessa tipologia di prodotto a un prezzo inferiore e che
addirittura sommandolo al prezzo di importazione era sempre più
concorrenziale rispetto al costo di produzione del prodotto stesso fatto “in
loco”, ha ulteriormente messo in crisi il sistema fordista7.
Qual è stata quindi la via d’uscita al fordismo che ha portato poi
all’avvento della neo-industrializzazione? Innanzitutto cambiando il
paradigma sopracitato: non è più il mercato che decide la società ma è la
società che decide il mercato. Dopo avere trasformato il modus operandi del
Fordismo e abbandonato la logica della produzione di massa per reagire alle
difficoltà e alle turbolenze, le imprese chiedevano la massima flessibilità
del lavoro e la massima deregolazione del mercato del lavoro8. In tal modo
reagirono anche alle rigidità che la relazione funzionale fra modello taylor-
fordista e “città industriale” aveva introdotto nel lavoro e nei mercati,
quando li aveva uniformati alla produzione di massa. E questo si
determinava grazie al modello della “produzione snella” giapponese (lean
production) che puntava a una razionalizzazione della produzione “just-in-
time”.
Nel post-fordismo, come si accennava prima, ha acquistato molta
importanza il fattore qualità perché ci si rivolge al cliente con un messaggio
più personalizzato. Questa è stata una delle novità entrate nelle fabbriche
dell’Occidente e “somiglianti” con il “modello giapponese”, che non
consisteva in una tecnica ma piuttosto in un approccio. L’apporto dato dal
Giappone al modo di produrre stava nella filosofia della Toyota: prodotto e
6 Documenti CNEL, Rapporto Post-Fordismo e nuova composizione sociale, Paper, Roma (2000).
7 R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014).
8 A. Accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Il Mulino,
Bologna (2013).
10
servizi di qualità assoluta a un prezzo altamente competitivo. Diversificare
a tal punto i singoli esemplari e costruirli con "zero difetti" richiedeva uno
snellimento e un affinamento dell’organizzazione produttiva così drastico
da contrapporsi alla produzione di massa occidentale. La chiave stava nel
“just-in-time”, che ha rivoluzionato non soltanto i rapporti con il mercato
ma la filosofia stessa della produzione. Abolire le scorte di beni
semilavorati e finiti per mettere in fabbricazione soltanto quello che è già
stato ordinato dai clienti richiedeva infatti di affrontare le situazioni e di
risolvere gli eventuali problemi nel momento stesso in cui si presentano.
Questo eliminava scappatoie e rinvii, assicurando la continuità dei flussi
produttivi e soprattutto il miglioramento continuo dell’organizzazione,
grazie ad una costante flessibilità produttiva. Perciò impegnava moltissimo
il management e soprattutto i lavoratori, i quali per la prima volta venivano
coinvolti nei processi decisionali su come realizzare oppure migliorare un
prodotto.
Il coinvolgimento diretto degli addetti è stata una cosa che prima di
allora non si era mai vista in nessuna azienda ed è stata in assoluto una
rivoluzione di concetto. Tale modo di procedere induceva a perseguire
l’aumento della produttività mediante una sequenza costante di piccole
modifiche oppure di piccole innovazioni, senza grosse novità o macchinari
costosi; questa tecnologia "economica" che eliminava gli sprechi
introduceva dunque un’altra differenza sostanziale della produzione snella
rispetto a quella di massa. Inoltre ogni singolo comparto dell’apparato
produttivo diventava autonomo per integrarsi con gli altri orizzontalmente,
in modo da accrescere l’elasticità del tutto. I modelli di capitalismo
occidentale presero coscienza del nuovo formidabile competitore dopo
molti anni durante i quali sembravano soltanto copiare le tecnologie e i
prodotti. Dopo lo stupore dei primi anni Ottanta, l’industria di tutto il
mondo ha cominciato a prendere spunto dal modello giapponese,
importandone e soprattutto "ibridandone" taluni aspetti organizzativi e
molti meccanismi produttivi.
11
Tab. 1.1: Fordismo e post-fordismo a confronto.
Fordismo Post-fordismo
Sistema di fabbrica: produzione di massa Lean production: produzione snella e più veloce
Catena di montaggio: parcellizazione dei compiti Flessibilità produttiva: operai più specializzati
Razionalizzazione produttiva: netta separazione dei compiti tra ingegneri e operai
Produzione "partecipata": l'operaio può determinare le decisioni
Consumismo di massa: prodotti standard Consumismo più esigente: prodotti sofisiticati
Il mercato crea la società La società crea il mercato
Fabbriche grandi: magazzino Fabbriche piccole: produzione "just in time"
Fonte: A. Accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e
dell’industria, Il Mulino, Bologna (2013).
Fordismo e post-fordismo, dunque, hanno cambiato completamente
il modo di produrre di tutte le aziende nel corso del Novecento. Si può
dedurre che il post-fordismo e il suo modello “just-in-time” è stato una
conseguenza inevitabile al fordismo9, per il fatto che il modello fordista di
produzione di massa non poteva essere più applicato nella stragrande
maggioranza delle aziende, in quanto il consumatore si diversifica e la
concorrenza (soprattutto data dai Paesi emergenti come Cina, Taiwan,
Bangladesh) è aumentata sempre di più. Quindi, prendendo spunto da ciò
che si è analizzato sul modo di produrre, entrando più nello specifico, come
si è diviso il lavoro nel corso del tempo e questo che cosa ha portato?
9 R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014).
12
1.2 Divisione e struttura del lavoro: modelli a confronto
Si può dire che, in generale, per divisione del lavoro s’intende la
tendenza dei sistemi economici verso la specializzazione del lavoro. Questo
fenomeno viene osservato per la prima volta da Adam Smith il quale, nella
sua opera La ricchezza delle Nazioni, pubblicato nel XVIII secolo, osserva
che tendenzialmente i sistemi produttivi assegnano funzioni specializzate ai
lavoratori per aumentarne la produttività. Detta in altri termini, quando un
lavoratore deve compiere soltanto alcune operazioni si specializza solo su
queste ultime, maturando un’esperienza maggiore e una praticità superiore
rispetto a quelle di un lavoratore generico. Tutto questo comporta quindi
l’aumento della produzione e soprattutto la riduzione del costo unitario
della stessa.
Nel mondo dell’impresa, tali principi vengono applicati alla lettera
nel modello fordista10. Nel paragrafo precedente, inoltre, si è anche
illustrata l’idea geniale di Henry Ford: pagare di più gli operai e farli
lavorare di meno. Partendo da tali presupposti, la società nel corso del
Novecento è cambiata radicalmente. Ma non è cambiata soltanto perché il
lavoro si suddivide e si struttura in maniera diversa rispetto al passato, è
cambiata soprattutto grazie a una nuova mobilità sociale: la spinta stessa del
fordismo verso “l’avere di più” (produzione di massa) e soprattutto il
“poterselo permettere” (salari più alti) ha portato la società a vivere in
maniera diversa11.
A partire dagli anni Settanta del Novecento si è verificato un grande
cambiamento strutturale nel mondo del lavoro. A causa di tale modello, il
fordismo aveva portato una grande divisione del lavoro come la
parcellizzazione delle competenze, la dequalificazione del lavoratore,
l’alienazione del lavoro, ma nonostante questo si era visto un generale e
10
L. Ferrari Bravo, Dal Fordismo alla globalizzazione, cristalli di tempo politico, Manifesto Libri, Roma (2001). 11
A. Accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Il Mulino, Bologna (2013).
13
nuovo benessere collettivo soprattutto a beneficio di quella parte di
popolazione più povera, ovvero la classe operaia. Il post-fordismo aveva
un’altra “concezione”: la valorizzazione del settore terziario dei servizi12
(che già comunque aveva preso forma prima degli anni Settanta), fino
quindi ad arrivare a creare un mercato del lavoro con competenze più alte.
Emblematico è il passaggio dal declino del lavoro manuale di stampo
industriale alla valorizzazione del lavoro intellettuale. Si comincia a parlare
infatti di “information society”: una società neo-industriale che, grazie
anche all’automazione della produzione dei beni di consumo o di una
produzione “just-in-time”, diffonde il modello organizzativo dell’industria
dei servizi.
Lo stesso mercato del lavoro in sé subisce una modifica sostanziale:
vengono sempre più richieste competenze come quelle attività legate alla
diffusione e al trattamento delle informazioni, i giovani sono “obbligati” a
una sempre maggior crescita di livello del titolo di studio e soprattutto
emerge a partire dagli anni Novanta un settore terziario avanzato, che
dedica servizi sempre più sofisticati alle imprese e alla persona. Appunto
per questo discorso, sul versante dei nuovi lavori qualificati c’è
un’importante novità: per effetto di una rapida evoluzione tecnologica non
si sono affermati solo lavori dati dal settore terziario avanzato ma anche
nuove aree professionali, le quali sono trasversali ai settori13. Si possono
citare occupazioni come il web design, il web marketing, il social media
marketing (i quali portano a un livello superiore la consulenza informatica).
Comunque si afferma un’idea14: che il lavoro scarsamente qualificato non è
destinato all’estinzione. Anzi, sono comparsi sulla scena, favoriti in gran
parte dall’immigrazione, lavoratori dequalificati che si occupano dei servizi
alla persona e alla collettività (come le badanti e le colf) o lavori che
richiedono mansioni ripetitive, come ad esempio servizi di pulizia, operai
12
E. Zucchetti, La disoccupazione, letture, percorsi, politiche, Vita e Pensiero, Milano, pp. 93-128 (2005). 13
R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014). 14
P. Vesan, Le politiche del lavoro nei Paesi sud europei ai tempi dell'austerità estrema, Paper della Società Italiana di Scienza Politica (2015).
14
non specializzati, lavoratori in nero nel settore agricolo15. Ulteriormente, sul
versante delle imprese, la manodopera dequalificata viene spostata in paesi
emergenti per il semplice fatto che il costo della stessa è inferiore.
Inoltre, la specificità della terziarizzazione ha interessato non solo la
domanda e l’offerta del mercato del lavoro, ma anche la sua dimensione
istituzionale16. Le evidenze relative all’evoluzione della struttura
occupazionale dei Paesi ad elevato reddito pro-capite e l’eterogeneità stessa
del terziario, in cui sono presenti diverse tipologie del settore (dai servizi
tradizionali a quelli commerciali, dai servizi base a quelli avanzati) e
organizzazione produttive sia pubbliche che private, hanno permesso di
identificare diversi modelli di transizione e slittamento dal settore
manifatturiero a quello dei servizi. Giusto per fare un esempio concreto a
riguardo: la nuova economia digitale della “conoscenza” ha specifiche
caratteristiche che comportano una discontinuità radicale rispetto
all’economia manifatturiera e riguardano non solo le tecnologie, ma anche e
soprattutto l’organizzazione della produzione e anche i modelli di consumo.
Dal lato della domanda in primo luogo si vede con chiarezza che il
consumo di beni durevoli, tipici prodotti dell’economia manifatturiera, è in
via di contrazione, mentre aumentano significativamente le quote di reddito
destinate ai consumi di servizi. La domanda dei consumatori si concentra
sui servizi sanitari, sull’istruzione, sui servizi della comunicazione,
dell’intrattenimento e del trasporto. La domanda di beni tangibili è ormai da
anni in diminuzione non solo relativa, ma addirittura in termini assoluti. Dal
lato dell’offerta, le aziende stesse si devono adeguare per cercare di
rimanere competitive e magari cambiando il loro modo di produrre.
A livello teorico, ma anche applicato nella pratica, una delle più note
tipologie di modello di passaggio tra il settore secondario e quello terziario
viene definita da Esping-Andersen17, il quale identifica almeno tre
15
A. Accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Il Mulino, Bologna (2013). 16
P. Barbieri, G. Fullin, Lavoro, istituzioni, diseguaglianze, Il Mulino, Bologna (2014). 17
G. Esping-Andersen, The three worlds of welfare capitalism (1990), I fondamenti sociali delle economie post-industriali, Princeton University Press, Princeton (1999).
15
traiettorie occupazionali post-fordiste, collegate anche a tre diversi assetti di
sistema del welfare: liberale, universalistico, corporativo. Oltre alle diverse
modalità occupazionali, i tre modelli promuoverebbero una diversa struttura
dell’occupazione, esito della prevalenza di differenti componenti del
terziario. Il primo modello è centrato sulla domanda del mercato di stampo
anglosassone e perciò sul notevole sviluppo dei servizi privati: in buona
parte si tratta di servizi finali, dei servizi al consumo, servizi professionali
alle imprese, con un elevato valore aggiunto. Il secondo modello è quello
svedese basato sui servizi sociali pubblici e guidato dall’intervento statale.
Questi due modelli hanno in comune il fatto che sviluppano entrambi il
terziario, il quale sostiene i livelli occupazionali complessivi. Il terzo
modello è quello dell’Europa continentale, soprattutto quello tedesco, dove
il terziario è relativamente meno esteso, soprattutto se si parla di servizi
sociali pubblici e personali privati. In questo terzo modello l’industria
rimane centrale e i servizi alle imprese sono meno sviluppati.
Il Sud Europa è un caso a parte: lo sviluppo dei servizi sociali alla
persona è stato frenato in quanto esiste ancora un ruolo centrale della
famiglia, la quale soddisfa ancora gran parte delle funzioni di riproduzione
sociale escludendole dal mercato. Per questo motivo, si può dare un piccolo
spunto sul nostro Paese che presenta alcune specifiche debolezze. Per prima
cosa, l’Italia ha la particolarità di avere un ritardo nello sviluppo del
terziario avanzato, ma una elevata quota di persone che lavora nei servizi
finali (ad esempio: il commercio, la ristorazione, il settore alberghiero, il
lavoro domestico). In secondo luogo, la terziarizzazione italiana si è
realizzata in una distinzione territoriale non indifferente, che ha portato a
due differenti modelli, il modello del nord e il modello del sud18. Il primo
modello è basato sul mercato: un maggior sviluppo della ricchezza
territoriale, correlato alla presenza di una fortissima base industriale, ha
sostenuto lo sviluppo dei servizi intermedi dati da aziende private. Il
secondo modello si è realizzato sulle politiche redistributive pubbliche, nel
18
V. Daniele, P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (2011).
16
versante delle aree a più basso reddito e più elevata disoccupazione, in cui è
cresciuto il terziario pubblico. Terza cosa, vi è un eccezionale peso
dell’occupazione indipendente (self-employed) che non stato intaccato né
dallo sviluppo industriale, né dalla terziarizzazione. Al contrario, negli altri
Paesi europei la presenza del lavoro autonomo si è ridotta notevolmente nel
periodo fordista, a causa della “tentazione” non indifferente che le aziende
offrivano: la sicurezza di un lavoro salariato.
Dal punto di vista istituzionale, accanto all’evolversi e al
diversificarsi dei regimi di welfare e di produzione19, contano anche le
dimensioni e l’organizzazione delle imprese, il ruolo dei sindacati e della
relativa contrattazione collettiva, la formazione dei lavoratori pre e post
assunzione. Esse influiscono notevolmente riguardo alla struttura e la
trasformazione dell’occupazione, in particolar modo se si tratta
dell’evolversi delle competenze fornite sul mercato del lavoro. Nel primo
caso, le imprese possono organizzare il lavoro in maniera differente e
compiere un passo in avanti verso la terziarizzazione. I sindacati,
rappresentando i lavoratori, possono stipulare accordi che facilitino questo
passaggio. E in alto, i governi possono modernizzare e cambiare le leggi
sull’istruzione per creare nuove competenze.
Negli ultimi decenni, dunque, si è visto un notevole passaggio: il
declino del lavoro manifatturiero, dato in particolar modo dall’automazione
produttiva e dalla delocalizzazione della produzione in altri Paesi, verso un
diverso modo di lavorare, ovvero la sempre maggior presenza del settore
terziario in tutti gli ambiti. Quindi, concentrando l’analisi nello specifico
nel caso italiano, in che modo le politiche del lavoro hanno influenzato il
passaggio? Inoltre, dato questo cambiamento post-fordista che genera
inevitabilmente un cambio di regolamentazione stessa del lavoro nonché
nuovi modi di lavorare, come viene utilizzato e tutelato il concetto di
flessibilità del lavoro?
19
E. Gualmini, R. Rizza, Le Politiche del Lavoro, Il Mulino, Bologna (2013).
17
1.3 Nuovi bisogni occupazionali italiani: la flessibilità del
lavoro senza rinunciare alla sicurezza
Il concetto di “posto fisso” sta lentamente scomparendo, quantomeno
in Italia. Questa evoluzione concettuale ha cominciato a prendere forma,
diciamo in maniera “embrionale”, a partire dagli anni Ottanta del
Novecento fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui si realizza pienamente,
con la sempre più presente stipula dei contratti a tempo determinato o forme
di lavoro atipico20. Prima di allora, erano due le uniche circostanze
lavorative a cui si ricorreva, nella gran parte dei casi: o si era assunti a
tempo indeterminato nel settore privato e, grazie anche alla rigidità data
dallo Statuto dei Lavoratori del 197021, il posto poteva essere mantenuto per
lunghissimo tempo, o a volte per tutta la vita; oppure si era assunti nel
settore pubblico, tramite concorso, in cui la rigidità e la difficoltà nel
licenziare era anche a un livello superiore rispetto al settore privato (questa
dinamica è ancora presente).
Nel primo paragrafo si è enunciato un concetto: nel modello post-
fordista nascono nuove esigenze dal punto di vista produttivo, in quanto il
consumatore diviene più sofisticato rispetto al passato e la concorrenza
comincia ad essere molto forte, soprattutto a livello internazionale. Le
imprese stesse quindi cominciano a chiedere maggiore elasticità, sia dal
punto di vista produttivo, ma anche e soprattutto dal punto di vista
lavorativo22. Quindi, questo sostanziale cambiamento ha avuto una
fortissima ripercussione sul mercato del lavoro e sul rapporto tra datore di
lavoro e lavoratore. Le aziende, dunque, si trovano nella favorevole
situazione (o costrizione?) di ricorrere sempre più spesso a lavori atipici e
forme contrattuali ad essi connessi, oppure a ricorrere ad esternalizzazione
20
E. Zucchetti, La disoccupazione, letture, percorsi, politiche, Vita e Pensiero, Milano, pagine 93-128 (2005). 21
Legge n. 300/1970. 22
V. Borghi, R. Rizza, L’organizzazione sociale del lavoro, lo statuto del lavoro e le sue trasformazioni, Bruno Mondadori, Torino (2006).
18
di alcune tipiche funzioni aziendali. Si comincia a vedere anche un modello
molto particolare: nella stessa azienda vengono creati due mercati del
lavoro distinti23. Uno in cui il lavoratore è un insider, col suo contratto a
tempo indeterminato. L’altro in cui il prestatore è un outsider, con contratto
atipico. Facendo questo le aziende si garantiscono sia flessibilità, sia fedeltà
allo stesso tempo24.
La tendenza aziendale dunque è quella di ridurre sempre di più
l’impiego fisso, senza scadenza e garantito, fino ad arrivare costantemente
all’atipicità del rapporto di lavoro, a cui bisogna far fronte a una scadenza.
Anche dal punto di vista puramente sociale c’è una grossa spaccatura
rispetto al passato: il giovane che cerca e finalmente trova un lavoro lo avrà
(almeno inizialmente) quasi sicuramente temporaneo senza sapere se quel
rapporto avrà un seguito e se non lo avrà sarà da punto e a capo. Il genitore,
o i genitori, si stupiscono di questo fatto, perché quando erano loro alla
ricerca del primo impiego, la tendenza era quella illustrata nelle prime righe
del paragrafo. Si può quindi affermare che questo sia un esito fortemente
inaspettato che riguarda il post-fordismo25. È vero, sicuramente ci si poteva
attendere una polivalenza professionale, una personalizzazione del lavoro o
anche l’iniziativa individuale. Ma certamente non a scapito di una riduzione
della sicurezza lavorativa. Il giovane italiano del recentissimo passato e di
oggi avverte come percezione che la sua vita lavorativa sarà segnata
dall’insicurezza. E questo porta inoltre a conseguenze spiacevoli: lavori
sempre più casuali ed estemporanei, la volatilità stessa del posto, l’incubo
del termine di un contratto che demotiva di gran lunga un lavoratore. A
spese di altrettanti fattori: la professionalità messa in discussione, il
conseguente dubbio che i propri studi effettuati abbiano avuto un senso e
quindi uno scarso impegno nel lavoro. Passa il messaggio che un impiego
atipico rende “atipica” la vita stessa. Quindi con un “dopo” imprevedibile
non si parla più di carriera lavorativa. Finché il rischio diventa la regola, la
23
R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014). 24
P. Barbieri, G. Fullin, Lavoro, istituzioni, diseguaglianze, Il Mulino, Bologna (2014). 25
F. Berton, M. Richiardi, S. Sacchi, P. Vesan, Flex-insecurity, perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Il Mulino, Bologna (2009).
19
mobilità sociale e una normale evoluzione di vita non possono convivere ed
esistere. Addirittura potrebbero esserci sempre di più pochi fortunati che
possano vivere una continuità lavorativa, magari anche intrinsecamente
discontinua, ma tantissimi altri spostati da un’esperienza all’altra,
assolutamente ognuna slegata da quella precedente. Inevitabilmente il post-
fordismo ha portato e sta portando a questo. Sotto il “dogma” della
flessibilità e il costante assillo della competizione, gli imprenditori vogliono
avere sempre più personale ad hoc e sempre più nel breve periodo, anziché
personale sperimentato con programmi di produzione durevoli26. Sembra
inoltre che il Lavoro stia diventando sempre di più una pura merce di
scambio.
Dunque il lavoratore avverte sempre di più che il concetto “umano”
dello scambio sta sempre di più lasciando piede al concetto di “numero”
all’interno della prestazione lavorativa. Questa idea, riflettendoci sopra, è
davvero un’aspettativa pressante. Significa che il prestatore si reca a
lavorare con la consapevolezza di servire all’interno dell’organigramma
sino a un certo momento, con la quasi certezza che una volta scaduto il
contratto l’azienda prenderà un altro al suo posto con la medesima
mansione, senza minimamente interessarsi del futuro immediato che avrà
quella persona che aveva di fronte fino a poco prima. Un “numero”,
appunto, non più un “essere umano”. In Italia poi vi è un record che dà da
pensare27: ci sono all’incirca quarantasei tipologie di rapporti differenti, la
maggior parte articolate in forme atipiche tra lavoro subordinato a tempo
determinato, lavoro parasubordinato a progetto e non, lavoro autonomo e
occasionale, rapporti speciali come i voucher, soprattutto stipulati
all’interno del settore dei servizi. Essi condizionano notevolmente il modo
tutto italiano di intendere il lavoro. Inoltre, altro dato che induce una
riflessione, la crescita dei lavori “temporanei” avviene a spesa dei lavori
durevoli, perché in circa un decennio si è passati (anche purtroppo dovuto
26
R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014). 27
A. Accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Il Mulino, Bologna (2013).
20
alla crisi finanziaria) da circa un quinto a circa un quarto di assunzioni con
contratti a termine28.
Fin dove arriva allora questa “nuova” flessibilità al lavoro? E fino a
che punto si smette di parlarne per poi arrivare ad un altro termine, la
precarietà? E com’è possibile una soluzione per tentare di regolamentare un
mercato del lavoro che cambia sempre più repentinamente, tutelando coloro
che normalmente non sono o potrebbero non essere tutelati? Attenzione
innanzitutto a non fare confusione: flessibilità e precarietà non sono
sinonimi. Per prima cosa, la flessibilità riguarda il rapporto di lavoro.
Parzialmente può essere definita come ciò che deregolamenta le norme a
protezione dell’impiego. Di conseguenza, ciò che deregolamenta il mercato
del lavoro. In maniera più completa, la flessibilità può essere intesa come la
capacità di adattare vari aspetti del rapporto lavorativo alle esigenze
espresse dal datore di lavoro e dai lavoratori29. La precarietà, che comunque
può essere conseguenza della flessibilità ma non necessariamente, è quel
rischio che il lavoratore o il disoccupato affronta nel momento in cui non
riesce a provvedere al proprio sostentamento attraverso il mercato del
lavoro o la possibilità di accedere a schemi di protezione sociale.
Quindi la precarietà riguarda il rapporto di lavoro in genere30.
Definendo in questo senso i due concetti, si capisce bene che la flessibilità
potrebbe anche essere positiva. Ma perché lo sia devono sussistere
determinate condizioni, sia riguardo alla forma della stessa, sia riguardo alla
sicurezza percepita dal lavoratore o dal disoccupato, anche attraverso un
cambiamento di concezione della “certezza” lavorativa. Altrimenti avviene
il passaggio rapido verso precarietà31. Si può partire col distinguere sei
forme diverse di flessibilità che coabitano insieme, tutte o in parte, proposte
28
Eurostat (2015). 29
V. Borghi, R. Rizza, L’organizzazione sociale del lavoro, lo statuto del lavoro e le sue trasformazioni, Bruno Mondadori, Torino (2006). 30
F. Berton, M. Richiardi, S. Sacchi, P. Vesan, Flex-insecurity, perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Il Mulino, Bologna (2009). 31
A. Accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Il Mulino, Bologna (2013).
21
dalle aziende32: la flessibilità numerica, ovvero la possibilità di variare più o
meno liberamente i dipendenti all’interno dell’organizzazione, attraverso il
ricorso di rapporti di lavoro di lunghezza prefissata; la flessibilità
temporale, concerne la possibilità di variare l’orario di lavoro, con
strumenti come lo straordinario, il part-time, il supplementare al di sopra
del part-time; la flessibilità retributiva, la quale si riferisce a una possibile
componente variabile della retribuzione, dai premi produttività, gli utili, i
benefit; la flessibilità organizzativa, riguarda la variazione del contenuto
delle mansioni dell’organico, la quale può favorire una mobilità interna; la
flessibilità spaziale, inerente alla possibilità di cambiare la sede lavorativa
volta per volta; la flessibilità relativa all’avviamento al lavoro, cioè la
possibilità di semplificare a livello amministrativo il collocamento e le
procedure di assunzione. Ciascuna di esse si può regolamentare attraverso
la legge o tramite la contrattazione collettiva tra la parte sindacale e la parte
datoriale.
Quindi, per quanto concerne i lavoratori, il ricorso ad alcuni
strumenti di flessibilità può garantire una condizione di maggiore sicurezza.
In che modo? Innanzitutto cambiando il paradigma riguardo a quello che si
è sempre pensato in ambito di sicurezza lavorativa: se negli anni Settanta
l’obiettivo era quello della difesa del posto di lavoro nella stessa azienda e
con la stessa mansione, se negli anni Ottanta l’obiettivo era rimanere nella
stessa azienda ma magari con una variabilità di mansioni (modello
giapponese), negli anni più recenti si vuole raggiungere un altro principio,
ovvero la sicurezza di rimanere occupato in generale. Magari tra diverse
aziende, è vero, ma l’idea è quella di passare dalla “tutela del posto” alla
tutela del lavoratore data dal mercato.
La nuova concezione di sicurezza del lavoratore può essere quindi
definita in questo senso: il lavoratore ha un senso di certezza quando sa che
la sua condizione attuale e prevedibile all’interno del mercato del lavoro
non comporta rischi significativi. In altri termini: che non abbia un rischio
32
F. Berton, M. Richiardi, S. Sacchi, P. Vesan, Flex-insecurity, perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Il Mulino, Bologna (2009).
22
economico, ovvero che la perdita del posto non generi anche un disagio e
un drastico cambiamento a livello di reddito; che non metta a repentaglio la
sua salute, fisica e psichica; che non crei difficoltà per quanto riguarda i
propri legami, durevoli o meno, in fatto di famiglia, amicizie e sentimenti.
La sicurezza di tutti questi fattori si deve necessariamente generare dal
mercato del lavoro ed è influenzata pesantemente dal suo funzionamento33.
Ad esempio, si potrebbe generare una garanzia, quantomeno “solida”, di
continuità occupazionale, sia nello stesso o posto, o comunque in posti
diversi ma intervallati da breve o brevissimo tempo l’uno dall’altro. Che la
persona possa avere una percezione di un reddito da lavoro adeguato, cioè
che i bisogni del lavoratore vengano soddisfatti e condurre una vita libera,
dignitosa e adeguata al proprio contesto. In caso di bisogno, l’accesso ad un
adeguato livello di protezione sociale, ovvero la consapevolezza che se il
lavoratore dovesse perdere il lavoro, anche con lavori atipici, lo Stato
intervenga subito per tutelarlo. È necessaria anche una garanzia di buone
condizioni di lavoro, che prevengano vari rischi quali malattie professionali
o infortuni. Inoltre il lavoratore, soprattutto quello giovane, necessita di un
riconoscimento delle competenze acquisite, citato qualche riga sopra, cioè
avere una cognizione che i propri studi e la propria esperienza lavorativa
non siano inutili all’interno del mercato del lavoro in cui vive. Inoltre, poter
far si che la rappresentanza dei propri interessi e la tutela dei propri diritti,
quindi la presenza o “l’accorgersi” di un sindacato, possa aiutare il
lavoratore in caso di difficoltà o di controversie. Per concludere:
l’opportunità di conciliare la propria vita lavorativa con la vita privata,
quindi non essere costretti a dover lavorare troppe ore al giorno per poter
portare a casa quello stipendio che ti consenta soltanto di sopravvivere e
non “goderti” anche altre situazioni della propria vita. Questi fattori
influiscono sulla sicurezza del lavoratore nel mercato del lavoro. L’assenza
di uno solo di questi elementi può creare situazioni molto dannose, a
seconda del profilo del lavoratore e di come reagisce all’evento
33
R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014).
23
“inaspettato”. Da qui, si può passare come niente dall’essere flessibile
all’essere precario. Si crea in sostanza un rapporto poco virtuoso tra
flessibilità e conseguente erosione della sicurezza del lavoratore, la quale
può portare a non avere più un benessere economico, dato da retribuzioni
basse, carriera lavorativa discontinua che porta a poca protezione sociale e
la conseguente difficoltà a creare progetti a medio/lungo termine.
Quindi la tutela come deve agire? La tutela deve arrivare
necessariamente dalla legge perché si concretizzi la flessibilità pura e non il
precariato. Una soluzione proposta negli ultimi anni è stata la “flexicurity”:
la strategia volta a promuovere contemporaneamente flessibilità e sicurezza
nel mercato del lavoro34. Una dinamica del genere è molto presente nel
Nord Europa, in Paesi come la Danimarca, la Svezia e la Norvegia. Questo
principio vuole cercare di: modernizzare il diritto del lavoro e le politiche
sociali modificando le leggi che possano consentire alla realizzazione dei
paletti sopra esposti; portare le politiche attive a un livello superiore, quindi
non solo mettere in condizioni favorevoli le imprese ad assumere (come ad
esempio, l’utilizzo di sgravi fiscali) ma anche far partecipare lo Stato, gli
enti pubblici in generale, gli enti privati a favorire una formazione
permanente utile alla “sopravvivenza” su un mercato del lavoro
completamente diverso da tanti anni fa. Tutto ciò può essere favorito da un
raccordo tra governi e parti sociali, suddividendone i compiti. Si può
mettere sul campo una strategia comprensiva in grado di bilanciare le
esigenze di sicurezza dei lavoratori e flessibilità delle imprese.
Il Jobs Act italiano35 si pone in questa dinamica, prendendo spunto
quindi dalla flexicurity nord-europea. A partire dal 2014 sono partite una
serie di riforme che hanno voluto sostanzialmente “riordinare” i contratti di
lavoro rendendoli più flessibili, modificando di conseguenza la lunghezza
erogabile dell’indennità di disoccupazione semplificandone l’accesso e
rendendo chiara e netta la distinzione tra ciò che è lavoro subordinato e ciò
34
Commissione Europea (2007). 35
S’intende una riforma complessiva del diritto del lavoro italiano, attuata dalla XVII Legislatura (Governo Renzi).
24
che è lavoro autonomo36. In primo luogo quindi, si sono modificati i due
principali e “nobili” metodi di assunzione: il contratto a tempo determinato
e il contratto a tempo indeterminato.
Nel primo caso, l’intervento essenziale è stato quello di togliere
totalmente nella stipula la clausola giustificativa all’interno del contratto di
lavoro. In altri termini: prima del 2014 il contratto a tempo determinato
doveva avere uno “scopo” preciso, l’azienda poteva assumere soltanto se
aveva all’interno del suo organigramma una necessità oggettiva. Ad
esempio: la sostituzione dei lavoratori in maternità, in malattia, in ferie, in
infortunio; oppure il lancio di una nuova attività produttiva; aver bisogno di
riorganizzare l’attività produttiva; la stagionalità; i picchi di lavoro. Queste
potevano essere tutte cause e concause per poter giustificare l’utilizzo del
contratto a termine. Se l’azienda non avesse trovato “l’escamotage” per
assumere a tempo determinato (e ovviamente se avesse fatto le cose
regolarmente), avrebbe avuto soltanto due alternative: o avrebbe assunto
con contratto di apprendistato (ma in Italia si può stipulare fino a un
massimo di ventinove anni di età compiuti), oppure con contratto a tempo
indeterminato. Escludendo completamente la causa giustificativa nella
stipula del contratto, il Governo italiano ha dato un fortissimo incentivo ad
utilizzare il contratto a termine: infatti, ora questa modalità di assunzione
può essere anche utilizzata liberamente come inserimento aziendale di una
risorsa. Non solo: a questa stregua le imprese diventano inevitabilmente più
flessibili, perché sono portate a un maggior turnover all’interno
dell’organico.
Il tempo indeterminato allo stesso modo ha subito una modifica
ancora più sostanziale: non presentando particolari vincoli (il contratto a
tempo indeterminato può anche essere stipulato verbalmente), il Governo è
andato a “toccare” l’unica cosa possibile che avrebbe potuto favorire una
maggior flessibilità, ovvero “elasticizzare” la tutela contro il licenziamento.
36
Legge 10 dicembre 2014, n. 183; Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22; Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23; Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80; Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81; Decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 148; Decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 149; Decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150; Decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151.
25
Col nuovo contratto “a tutele crescenti” non viene più applicato parte
dell’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori del 1970, ovvero la “tutela
reale” contro il licenziamento. In pratica, se il lavoratore fosse stato
licenziato in maniera illegittima da parte di un’azienda con più di quindici
dipendenti in un’unità produttiva, o più di sessanta nella sua globalità,
giustificandone o meno il motivo, sarebbe stato risarcito del danno o
reintegrato dal giudice nel suo vecchio posto di lavoro. Ora, a partire dal
marzo 2015 vengono applicate, appunto, “le tutele crescenti”: in caso di
licenziamento giustificato illegittimo, il lavoratore non può più essere
reintegrato nel suo vecchio posto di lavoro, ma può soltanto ottenere in via
giudiziale come indennizzo due mensilità lorde all’anno per ogni anno
lavorato all’interno dell’azienda. La dinamica del potenziale reintegro si
applica ancora soltanto sul licenziamento verbale e il licenziamento che ha
avuto una discriminazione alla base.
Ci si può chiedere a questo punto se questi due interventi possano
favorire o meno il precariato, anziché la flessibilità. Un possibile “pregio”
sul secondo versante è la nuova struttura della Naspi (Nuova assicurazione
sociale per l’impiego), la quale tutela il disoccupato nel momento in cui
perde involontariamente il proprio lavoro, che effettivamente potrebbe
favorire una dinamica di continuo cambio occupazionale da parte del
lavoratore. Innanzitutto, a differenza della vecchia indennità (Aspi), non vi
è più la “discriminante” dell’età: venivano conteggiati soltanto gli ultimi
due anni di vita del lavoratore e se quest’ultimo aveva almeno contribuito
da prestatore subordinato almeno un anno, veniva percepita per otto mesi
sotto i cinquant’anni di età e per dodici mesi sopra i cinquant’anni di età.
Addirittura con la “requisiti ridotti” (Mini-Aspi) veniva conteggiato
soltanto l’ultimo anno con un requisito minimo di tredici settimane di
contribuzione perché ti venisse erogata per la metà del tempo. Con la Naspi,
vengono conteggiati gli ultimi quattro anni di vita del lavoratore, per
almeno tredici settimane di contribuzione, erogata poi per la metà del tempo
per cui si aveva contribuito fino al giorno della disoccupazione, per un
26
massimo di due anni. Inoltre, vi è la possibilità di poterla “congelare” o
bloccare per poi richiederla senza perdere i vecchi contributi ogni volta che
si ha di nuovo uno stato di disoccupazione involontaria. Certamente con
questa particolare struttura, un lavoratore, per almeno un certo periodo, può
alternare discontinuità lavorativa con sussidio dello Stato che gli fa,
diciamo, da “paravento”. Inoltre la lunghezza massima è stata di gran lunga
aumentata rispetto a prima, quindi anche i più “fortunati” che hanno perso il
lavoro dopo tanti anni, possono avere anche più tempo di cercarne un altro
senza subire un disagio economico enorme.
Sul lavoro autonomo si sono fatti dei passi avanti: sono state abolite
le collaborazioni a progetto, le quali favorivano un enorme precariato,
soprattutto nel versante giovani. Di conseguenza, è stato limitato l’utilizzo
delle collaborazioni coordinate e continuative, che ora possono essere
stipulate soltanto in particolari circostanze (non deve essere presente nessun
“indice di subordinazione”). Sono state limitate le collaborazioni
occasionali, che ora sono puramente autonome ed estemporanee e non più
sequenziali in trenta giorni. È stata incentivata l’apertura della Partita IVA,
con sgravi sulle tasse abbastanza favorevoli a un limite annuo di
fatturazione. Nella tabella 1.2 si possono trovare riassunti tutti i
cambiamenti elencati.
Tab 1.2: Le principali novità del Jobs Act.
Contratto a tempo determinato “Acausalità” nei 36 mesi di stipula del contratto Contratto a tempo indeterminato
Non viene più applicata la "tutela reale" contro il licenziamento
Indennità di disoccupazione "Naspi"
Conteggio dei contributi da lavoro dipendente nei quattro anni precedenti
Collaborazioni autonome e occasionali Forti restrizioni a poterle stipulare Partita IVA Incentivi all'apertura
Fonte: Ministero del Lavoro.
Insomma, per concludere, la legge italiana ha dovuto adattarsi agli
“scossoni” dati da un mercato del lavoro sempre più instabile, incentivando
27
la flessibilità, cercando di tutelare il precariato. Resta comunque valido ciò
che si è detto all’inizio del paragrafo: questi interventi, per ora, non paiono
sufficienti a tutelare le situazioni di disagio enunciate nelle righe precedenti.
C’è ancora molto lavoro da fare e le stesse imprese devono mettersi
nell’ottica di adattarsi alle nuove situazioni date sia dal mercato, sia dalla
legge senza che il lavoratore ci vada di mezzo37. Nonostante si speri in un
mondo in cui le imprese cominceranno a fare “le cose regolarmente”, è
indubbio pensare che in futuro tutti i potenziali lavoratori subordinati
potranno parteciparvi, a causa del mercato comunque limitato. Per questo
motivo, alcune persone scelgono di “reinventarsi”, di “mettersi” o
“rimettersi in gioco: scelgono di portare a compimento un’idea e ci provano
con l’autoimprenditorialità.
1.4 Lavoro autonomo e autoimprenditorialità: cenni e primo
inquadramento
Si definisca innanzitutto cosa s’intende quando si parla
d’imprenditore e quando parliamo di lavoratore autonomo. Dal punto di
vista giuridico, ai sensi dell’articolo 2082 del Codice Civile italiano38 è
imprenditore “colui che esercita professionalmente un’attività economica
organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi”. La
definizione di lavoratore autonomo la si evince nell’articolo 2222 sempre
dal Codice Civile: è “quando una persona si obbliga a compiere verso un
corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e
senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”. La
particolarità italiana è che, se si guarda attentamente la realtà, si trova che
37
G. Rodano, Il mercato del lavoro italiano prima e dopo il Jobs Act, Università “Sapienza”, Roma (2015). 38
R.D. 16 marzo 1942, n. 262 e successive modifiche
28
queste due definizioni possono tranquillamente coincidere. Infatti si trovano
piccoli lavoratori autonomi artigiani e manuali che sono allo stesso modo
piccoli imprenditori, i quali si danno un assetto produttivo e istituiscono una
società o una ditta, e magari hanno dipendenti che lavorano per loro (ad
esempio: i falegnami, gli idraulici, gli elettricisti, i coltivatori diretti, i
trasportatori su ruota). Oppure chi invece svolge una professione
intellettuale e si associa con altri soggetti per fondare uno “studio”
(avvocati, consulenti, commercialisti, ingegneri, architetti).
Si può partire col dire, quindi, che a livello italiano i settori in cui si è
concentrato il maggior numero di lavoratori autonomi sono stati
storicamente: l’agricoltura, il commercio al dettaglio, i trasporti, le attività
artistiche, le attività artigianali, le professioni intellettuali39. Quindi una
grossa fetta di “mercato” in generale. Questi tipi di lavori sono stati per anni
(e per fortuna lo sono ancora) delle eccellenze tipiche italiane, soprattutto se
si va a guardare il settore artigiano, il settore delle arti e il settore agricolo,
con quest’ultimo ancora grande esportatore all’estero di prodotti tipici
“made in Italy”. Con l’evoluzione delle società capitalistiche, dopo aver
visto col fordismo una fortissima espansione del lavoro manuale, nel post-
fordismo vi è, come si è detto, un avvento di nuovi stili di vita e di
consumo, quindi il lavoro autonomo si è concentrato e si sta concentrando
sempre di più nelle attività immateriali che richiedono competenze tecnico-
scientifiche o capacità di comunicazione e di relazione. Si può quindi
definire questo fondamentale passaggio da “lavoro autonomo di prima
generazione” a “lavoro autonomo di seconda generazione”. Si sta inoltre
notando anche un secondo passaggio: un mercato sempre più “folto” di
lavoratori autonomi molto “vivo”, a causa delle esternalizzazioni produttive
delle imprese che consentono di risparmiare sul costo del lavoro, fino ad
arrivare alle commesse o progetti messi in piedi dalla Pubblica
Amministrazione, la quale si avvale sempre di più di professionisti40.
39
R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014). 40
E. Gualmini, R. Rizza, Le Politiche del Lavoro, Il Mulino, Bologna (2013)
29
Paragonando l’Italia agli altri Paesi dell’Unione Europea si nota che
il nostro Paese è secondo solo alla Grecia come numero di lavoratori
autonomi, ben il 23,2% sul totale degli occupati, come si evince dalla
mappa riportata nella figura 1.1.
Fig. 1.1: I lavoratori autonomi in Europa.
Fonte: Eurostat (2014).
Una posizione specifica, occupano poi le professioni riconosciute
dallo Stato organizzate in Ordini o Albi professionali. Questo dato è
influenzato principalmente da due fattori, uno positivo e l’altro negativo: il
dato positivo è che negli ultimi anni i vari Governi che si sono succeduti
hanno messo in campo politiche di incentivazione all’apertura della partita
IVA41, come ad esempio l’apertura della stessa gratuitamente, una
tassazione molto agevolata forfettaria che riduce di gran lunga la
41
Legge 6/7/2011, n. 98 Legge 28 dicembre 2015, n. 208
30
percentuale di IRPEF, IRES, IRAP e addizionali comunali e regionali da
versare allo Stato (dal 5% fino ad arrivare al 15% a seconda dei requisiti
anziché lo scaglione pieno dell’imposta sul reddito conseguito nell’anno in
maniera progressiva), le scritture contabili semplificate; l’aspetto negativo è
che si è visto un forte abuso da parte delle aziende, conseguente anche alla
facilità di apertura, di utilizzo delle “false Partite IVA”, ovvero quel
meccanismo per far figurare un lavoratore in realtà subordinato in
lavoratore autonomo, per una pura e semplice questione di risparmio (non
pagargli i contributi previdenziali, da quelli pensionistici a quelli per
finanziare la propria potenziale indennità di disoccupazione, l’assicurazione
sanitaria contro la malattia e gli infortuni e le varie tasse da versare allo
Stato).
Per questa serie di motivi e dati è giusto far capire nell’analisi come
si qualificano le professioni e quando avviene una tutela, legale o sociale,
all’interno della stessa. Innanzitutto, le professioni per essere tali devono
possedere determinati requisiti: il possesso di competenze specialistiche, di
capacità tecniche che creino effettive prestazioni lavorative; il
professionista deve essere dotato di un’etica professionale, che possa far sì
che abbia “rispetto” e stia sotto determinati “dogmi” e regole che
garantiscano il regolare svolgimento della sua opera; la costruzione di
“mercati chiusi”, ovvero mercati “protetti” in cui si possa accedere a quelle
prestazioni soltanto dopo aver superato determinati esami che testino le
competenze (gli Albi e gli Ordini professionali) o strategie informali di
“chiusura” (comunità professionali informali); l’effettiva prestazione
d’opera che venga compiuta verso un committente rispettando “in toto” i
dettami enunciati nell’articolo 2222 del Codice Civile (non le “false partite
IVA” appunto, le quali subdolamente fanno diventare il lavoro autonomo
lavoro subordinato). La professione quindi può essere interpretata come un
meccanismo di specializzazione produttiva e un insieme di “chiusura
sociale” attraverso i meccanismi sopra citati42.
42
R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014).
31
Tuttavia, negli anni recenti, sta emergendo una nuova problematica
regolativa legata all’interazione tra le professioni tradizionalmente tutelate
dagli ordini professionali e le nuove professioni non organizzate in suddetti
ordini. La forma di lavoro autonomo di “seconda generazione”, quindi, sta
avendo una fortissima difficoltà a trovare una tutela dal punto di vista
sociale, giuridico e pubblico. La professionalità offerta a livello autonomo,
di creatività e di imprenditorialità, le quali rispecchiano le esigenze di auto-
realizzazione e di indipendenza, spesso vanno in contrasto con la
burocrazia, le leggi poco tutelanti e la stessa organizzazione d’impresa.
Quindi, per le attività di recente professionalizzazione ciò si traduce in una
ridotta tutela/protezione sociale (non avendo casse professionali istituite
negli Albi, si può usufruire soltanto di un ridotto welfare pubblico previsto
per i lavoratori autonomi di nuova generazione) e di mercato (una totale
“esposizione” settoriale). Dal punto di vista giuridico recentemente in Italia
si è fatto qualche passo avanti. Dato appunto un aumento esponenziale di
nuovi lavori e lavoratori autonomi, nella Legge di Stabilità del 2016 ha
preso vita il cosiddetto “Jobs Act autonomi”43. Sono state messe in campo
diverse nuove tutele (prendendo come spunto ciò che esiste già col lavoro
subordinato) in materia di malattia e gravidanza, sui ritardi nel pagamento
delle fatture e sulle spese deducibili. In merito al welfare sanitario, della
maternità e dell’infortunio sul lavoro ci si può astenere dal luogo di lavoro
fino a un massimo di centocinquanta giorni all’anno purché si tratti di
prestazioni d’opera continuative. Inoltre, una professionista può ricevere
l’intero trattamento di maternità previsto dal decreto anche se non ci si
astiene effettivamente dal lavoro. Per quanto riguarda i ritardi sui pagamenti
delle fatture la novità è molto significativa: nella realtà (soprattutto negli
ultimi anni, anche dovuto alla crisi) molti committenti “facevano fatica” a
pagare per tempo i compensi ai prestatori oppure sfruttavano la “poca
chiarezza” data dei termini scritti sul contratto dai professionisti. Col nuovo
decreto vi è una nuova tutela: Qualunque pagamento che avviene dopo
43
Legge 28 dicembre 2015, n. 208
32
sessanta giorni dall’emissione della fattura o dalla sua richiesta, verrà
considerato abusivo. Ultima tutela, ma non meno importante: Se un libero
professionista dovrà partecipare a corsi di formazione, seminari o congressi
potrà detrarre per intero le spese per un limite annuale di diecimila Euro.
Stessa deducibilità totale per spese di orientamento, ricerca e sostegno fino
ad un massimo di cinquemila euro annuali, nonché per quelle sostenute in
caso di pagamento tardivo delle fatture.
Dal punto di vista sociale c’è stato, recentemente, un ulteriore e
potenziale passo in avanti. La CISL (Confederazione Italiana Sindacati
Lavoratori) ha creato un social network che cerca di riunire tutti i lavoratori
autonomi, professionisti e non, in un solo portale: la community
“vIVAce”44. Grazie all’iscrizione gratuita è possibile discutere della propria
professione, le difficoltà o i pregi che avvengono quotidianamente per
portare a compimento le varie prestazioni, segnalare un possibile abuso dei
committenti e attraverso il monitoraggio del sindacato, la possibilità di
intervenire a favore dei lavoratori autonomi, stipulando accordi di vario
genere per cercare di regolamentare un determinato settore. Così facendo
l’obiettivo è quello che i professionisti, di vecchio stampo e nuovo, possano
acquisire nuovi diritti altrimenti negati da una legge che comunque
arriverebbe solo fino a un certo punto. Inoltre, in base ai vari argomenti
dibattuti sul sito, la possibilità che la CISL possa chiedere alla parte
pubblica di legiferare in materia di fisco, previdenza e welfare in generale.
Finalmente, si intravede una prospettiva di cambiamento nel nostro
Paese. A partire dalla metà del secolo scorso, i vari Governi hanno sempre
tentato di tutelare “di più” il lavoro subordinato anziché il lavoro autonomo,
partendo dal presupposto che chi sceglie di essere autonomo, scelga anche
di assumersi totalmente e pienamente il rischio imprenditoriale. Finché
l’economia, il mercato del lavoro hanno consentito questo principio, in cui
tutte le persone “stavano bene” e facilmente potevano trovare in maniera
armonica un lavoro, nessuno legislatore si è mai occupato di tutelare
44
http://www.vivaceonline.it/ (consultazione effettuata il 18 novembre 2016)
33
pienamente il lavoro autonomo. Allo stesso tempo, nemmeno i sindacati
hanno prestato grande attenzione a questo discorso, preferendo di gran
lunga tutelare quelle situazioni facilmente raggiungibili che risultavano
anche abbastanza semplici (e certamente più convenienti) da proteggere. Al
giorno d’oggi, gli ultimi Governi sono stati quasi “costretti” a legiferare in
favore di questa categoria, a causa del “boom” di prestazioni in autonomia
che c’è stato in questi ultimi anni. Si è dell’idea però che questi interventi
pubblici andavano fatti molti anni fa, perché questo fenomeno non è poi
così recente. Di conseguenza, i sindacati non hanno saputo affrontare il
cambiamento ancora in atto del mercato del lavoro. Solo oggi comincia a
vedersi qualcosa, come l’esempio sopra riportato di “vIVAce”. E tra l’altro
solo, per ora, dalla CISL. Si può affermare il classico luogo comune del
“meglio tardi che mai”. Affermando questo però si da adito al fatto che
tante, troppe persone ci sono andate di mezzo perdendo un’occasione di
tutela in questo ultimo ventennio. E non sarebbe giusto.
Insomma, arrivati a questo punto, bisogna capire da dove partire per
far sì che un lavoratore sia incentivato a diventare o autonomo o piccolo (e
in futuro si spera “grande”) imprenditore. Ma non solo: come un giovane o
un disoccupato alla ricerca di un impiego, possano usufruire di diversi
“canali” per mettersi in gioco sul mondo del lavoro, sfruttare una propria
idea o un progetto vincente di business ma non più come lavoratore
dipendente: ma come persona intraprendente. Quanto enunciato finora ci
farà capire perché potrebbe esserci un bisogno di autoimprenditorialità.
34
Riflessioni conclusive
Nell’analisi presentata fino ad ora, si è cercato di evidenziare come il
mondo industriale e di conseguenza il mondo del lavoro stiano cambiando
notevolmente rispetto al passato. Si sono viste trasformazioni su tutti gli
aspetti di sviluppo, come ad esempio quelli inerenti le strategie e le
politiche aziendali (favoriti anche da una legge italiana più benevola alle
imprese rispetto che al lavoratore), una cultura organizzativa differente data
dal post-fordismo, i progressi tecnologici che hanno ampliato i confini del
mercato (che ha portato una maggiore concorrenza internazionale data dalla
globalizzazione), determinando quindi uno scenario altamente mutevole.
Dato questo contesto che si è esaminato, oggi l’offerta di
autoimprenditorialità, ossia l’insieme di capacità umane, tecniche
disponibili ad assumersi un certo grado di rischio, va sempre più
aumentando, parallelamente anche ad un crescente interesse politico verso
le politiche attive del lavoro e la ricerca di forme alternative di impiego.
Non si tratta di una semplice dichiarazione di propositi; incoraggiati infatti
dalle diverse leggi di finanziamento agevolato o da canali alternativi di
sovvenzione proposti da enti privati di solidarietà (ad esempio: Start,
Invitalia, Garanzia Giovani per l’ente pubblico e Fondazione Welfare
Ambrosiano come ente privato, i quali saranno affrontati nei capitoli
successivi), molte persone si sono orientate verso l’autoimprenditorialità
concependo e realizzando numerosi progetti. L’autoimprenditorialità non è
direttamente destinata a risolvere i problemi occupazionali, ma è
sicuramente un valido strumento che consente di creare posti di lavoro.
Essa, infatti, dovrebbe essere presentata e divulgata come una nuova
opportunità, come una tra le possibili scelte di inserimento dei giovani o del
reinserimento dei meno giovani nel mercato del lavoro. Tutto ciò deve però
necessariamente fondarsi su un coinvolgimento attivo degli enti locali,
istituzioni economiche, scuola e università, puntando in modo particolare
sulla formazione. Oggi può ritenersi superato il vecchio detto secondo il
35
quale “imprenditore si nasce e non si diventa”. L’imprenditorialità, si può,
infatti, insegnare e migliorare; educare all’imprenditorialità è possibile, anzi
necessario. Nei prossimi capitoli si affronterà ogni singolo aspetto
enunciato e vedremo quali sono quelli positivi da poter sfruttare in questo
mercato sempre più difficile da prevedere e da concepire.
36
CAPITOLO II
L’autoimprenditorialità: la figura dell’imprenditore, l’attività d’impresa e le misure di sostegno
Introduzione
Lo studio della genesi dell’imprenditorialità è di particolare interesse, in
quanto è opinione diffusa che essa contribuisca a creare lavoro e sviluppo
economico1. Lo studio dell’imprenditorialità non è affatto nuovo, in quanto si è
sviluppato parallelamente all’industrializzazione. Esso è stato al centro della
costruzione teorica di molti autori classici della sociologia: basti pensare al ruolo
riservato agli imprenditori nell’opera di Marx2 (col suo “imprenditore
capitalista”), Weber3 (col suo “imprenditore culturale”) e Schumpeter4 (con il suo
“imprenditore innovativo”). Quindi, quello dell’imprenditorialità è un tema che
per sua natura è stato affrontato da diversi punti di vista. Infatti, la letteratura
scientifica di riferimento trae spunto da discipline economiche, sociologiche,
antropologiche e psicologiche. La formazione e l’educazione imprenditoriale in
questo contesto giocano un ruolo importante. A tal proposito ci si chiede se è
possibile insegnare a qualcuno ad essere un imprenditore. In questo quadro,
l’obiettivo di questo capitolo è quello di indagare quali sono i fattori decisivi per
chi desidera aprire una nuova impresa. Il riferimento specifico non è tanto agli
elementi di carattere economico, quanto, invece, al ruolo giocato dai fattori
1 Commissione delle Comunità Europee 2003, Commissione Europea 2013.
2 K. Marx, Il Capitale, E-Newton Classici, Roma (2013).
3 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano (1997).
4 J. A. Schumpeter, L'imprenditore e la storia dell'impresa. (Scritti 1929-1949), Boringhieri, Torino,
(1993).
37
individuali e sociali. Tra i primi alcune caratteristiche che emergono sono la
propensione al rischio, lo spirito di iniziativa, l’ambizione, la responsabilità,
l’indipendenza, la tolleranza dell’ambiguità, l’innovazione e il desiderio di
autorealizzazione. Altri elementi sono legati ai diversi modelli di socializzazione
al lavoro che orientano i valori, le credenze e le opinioni dei soggetti rispetto alla
carriera professionale, alle esperienze lavorative, alle reti sociali in cui è inserito
l’imprenditore. Oppure come una necessità impellente, come l’oggettiva
mancanza di lavoro, possa costringere un individuo, magari nemmeno destinato
ad essere un imprenditore, in qualche modo a diventarlo.
A partire da questa premessa, ci si chiede: chi è davvero “l’imprenditore”?
Quali possono essere i fattori e gli strumenti che possono facilitare percorsi
imprenditoriali di successo? Quando si crea una reale necessità di
autoimprenditorialità o di autoimpiego? E soprattutto, in che modo, una volta
fatta questa scelta “drastica”, può esistere un supporto delle varie istituzioni,
pubbliche e private?
2.1 “Essere” imprenditore: la figura, la vocazione, la formazione
Chi è dunque l’imprenditore? Una definizione può essere la seguente5:
l'imprenditore è il capo dell'impresa, titolare esclusivo del diritto di svolgere
l'attività economica per la produzione di beni e servizi per il mercato.
L'imprenditore innova i metodi, i processi, i prodotti, creando opportunità di
crescita economica e di sviluppo dei consumi. Egli coordina e controlla i fattori
della produzione (lavoro salariato, capitale, tecnologia), che non sono
necessariamente di sua proprietà esclusiva o anche solo prevalente, e si assume i
5 A. Martinelli, Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani, Roma (1994).
38
rischi economici e giuridici inerenti all'esercizio di tali funzioni. Partendo quindi
da questa definizione, possono essere definiti quattro soggetti presenti in un
mercato. In uno schema piramidale6, sulla punta si ha il capitalista, cioè colui che
si limita ad offrire il capitale da investire in qualcosa per ricevere una rendita.
Subito sotto si trova l’imprenditore, cioè il vero attivatore del sistema
economico: colui che “crea” un’attività e la sua relativa ricchezza, con il suo
denaro o coi soldi del “suo capitalista”. Esso ha la funzione intermediatrice tra
chi offre capitale e lavoro e chi domanda beni e servizi. Egli trasforma, o cambia,
i fattori della produzione (capitale e lavoro) in un prodotto idoneo a soddisfare i
bisogni dei consumatori. Al terzo posto troviamo i lavoratori, coloro che prestano
la propria opera per portare a compimento la volontà dell’imprenditore in cambio
di un salario. Infine, in basso alla piramide, troviamo i consumatori, coloro che
determinano realmente i vari mercati dei beni e dei servizi a seconda delle loro
esigenze e bisogni.
Fig. 2.1 La piramide del mercato
Fonte: M. Baldini, Il nuovo imprenditore, Rubbettino, Soveria Mannelli (2002).
6 M. Baldini, Il nuovo imprenditore, Rubbettino, Soveria Mannelli (2002).
Capitalista testo
Imprenditore
Lavoratore
Consumatore
39
Dunque, secondo lo schema preposto, l’imprenditore è colui che “inventa”
qualcosa e gestisce la sua invenzione. Tutti gli altri tre soggetti “roteano” intorno
a lui: il capitalista investe su un’idea; il lavoratore produce questa idea; il
consumatore compra l’idea e fa funzionare l’intero mercato. Per questo motivo
calza molto bene la definizione di imprenditore data da Schumpeter nel 19467:
“La caratteristica che definisce l'imprenditore è semplicemente il fare cose
nuove o fare cose che si stanno già facendo in un modo nuovo”. Non
necessariamente quindi “l’invenzione del secolo”: la “cosa nuova” non deve
essere “spettacolare” o di importanza storica. L’importante è che sia,
semplicemente, un’idea. Un’idea che, ovviamente, abbia una valenza economica
e che possa dare luogo a un business redditizio. In altri termini: l’imprenditore è
colui che porta un’innovazione economicamente rilevante.
Quest’ultima definizione, però, implica una serie di precisazioni, per poi
quindi proporre una definizione “più ristretta” per definire chi realmente è
imprenditore e chi non lo è, soprattutto dal punto di vista sostanziale più che
formale. La prima è che “fare soldi” (per se stesso) non è sinonimo di “creare
ricchezza”. Per esempio, anche i rapinatori accumulano denaro, ma non si
possono definire imprenditori che creano ricchezza. Essi creano un gioco “a
somma zero”8, in cui sono solo loro i vincitori, mentre la controparte subisce
soltanto un danno. Un imprenditore invece crea un gioco “a somma positiva”:
egli produce, il consumatore compra e questo soddisfa entrambi. Addirittura, chi
fa un gioco “a somma negativa” è “l’imprenditore” mafioso9: non solo non crea
ricchezza, ma scoraggia l’imprenditorialità sul territorio.
Un secondo aspetto è la distinzione tra profitto e valore. Il “valore
aggiunto”10 di un’azienda non comprende non solo il profitto, ma anche le
retribuzioni dei lavoratori, nonché gli interessi pagati alle banche e le tasse
7 J. A. Schumpeter, L'imprenditore e la storia dell'impresa. (Scritti 1929-1949), Boringhieri, Torino,
(1993). 8 M. Baldini, Il nuovo imprenditore, Rubbettino, Soveria Mannelli (2002).
9 N. Dalla Chiesa, L'impresa mafiosa: tra capitalismo violento e controllo sociale, Cavallotti University
Press, Milano (2012). 10
F. De Novellis, Dizionario di economia e finanza, Treccani, Roma (2012).
40
versate allo stato: in totale, la differenza tra quello che entra in azienda - l'input,
cioè le materie prime, i macchinari, il capitale e tutti i fattori produttivi - e quello
che ne esce - l'output, il prodotto -. È questo, insieme alla soddisfazione del
cliente e degli altri interessati alle sorti dell'azienda, il valore prodotto da
un'azienda. Il profitto, che è parte di esso, resta determinante per la
conservazione e lo sviluppo dell'azienda stessa. Una terza accezione: chi usa
l'azienda per operazioni speculative, cioè per trarne profitto a breve termine, a
danno degli altri interessati - collaboratori, finanziatori, risparmiatori, clienti,
comunità locali - e alla fine della stessa azienda, più che imprenditore dovrebbe
essere definito, nel migliore dei casi, con il termine di “affarista”11.
Quarto e ultimo aspetto, un po’ più negativo rispetto agli altri è il fatto che
se un imprenditore opera in condizioni di monopolio, ha la possibilità di
avvantaggiare sé stesso ed eventualmente una parte degli interessati all'azienda a
danno di altri. La capacità di competere, che è uno degli attributi
dell'imprenditore, viene meno e il profitto si trasforma almeno in parte in rendita
di monopolio. Ma, considerato che l'imprenditore è per definizione colui che fa
innovazione, e che l'innovazione potrebbe avere in sé i “semi” del monopolio, è
difficile stabilire confini che escludano drasticamente il monopolista dalla
qualifica di imprenditore12. Analogamente, se un imprenditore produce beni che
favoriscono la criminalità (delle armi oppure la droga) la sua “produzione di
valore” può essere messa nettamente in discussione. In questi casi, dunque, la
definizione di imprenditore come produttore di valore non risponde più a criteri
oggettivi. Essa può essere determinata convenzionalmente da leggi dirette a
contrastare le posizioni di monopolio e a controllare e limitare la produzione e
commercio di certi prodotti.
In base a tutti questi criteri, così come si cerca di capire se un medico, o
un avvocato è buono o cattivo, si potrebbe tentare di valutare se quello con cui si
ha a che fare sia un vero, o buon imprenditore, o piuttosto uno che “usurpa” tale
11
M. Baldini, Il nuovo imprenditore, Rubbettino, Soveria Mannelli (2002). 12
A. Gambardella, Innovazione e sviluppo, Egea, Milano (2013).
41
nome. Dunque, dopo aver precisato tutti questi elementi, si può dire che un vero
imprenditore è colui che porta innovazione economicamente rilevante, purché sia
un’attività legale, che competa con altri imprenditori e che non utilizzi l’azienda
solo per fini puramente speculativi.
Come si diventa imprenditore? O meglio, è possibile diventarlo oppure si
ha un’abilità innata che ti consente di esserlo sin dall’inizio della tua vita?
Riprendendo quanto detto sul finale del capitolo precedente, si potrebbe
concettualizzare la figura d’imprenditore con un principio: in maniera classica
“imprenditore si nasce, non si diventa”. Questo enunciato può essere vero solo in
parte: è vero, se una persona nasce in una “famiglia imprenditoriale”, anch’egli
respirerà “aria imprenditoriale”13. Potrebbe essere, dunque, più facile la strada
che porta al mettersi in proprio (nonché, non meno importante, poter avere una
buona base economica su cui far leva, su cui investire, su cui cominciare a
costruire). Oppure, l’individuo, in maniera innata, ha nel suo DNA una
“capacità” imprenditoriale: è un leader nato, sforna sempre nuove idee innovative
e creative.
Detto questo però, data una buona dose di abilità o situazioni “ereditarie”,
imprenditore si può anche diventare, ma è necessario ricevere la giusta
formazione e la giusta “spinta” per poterlo essere. L’autoimprenditorialità può
portare a questo: la consapevolezza e il “training” di “saper essere”
imprenditori14. Si può realizzare un progetto che si è sempre sognato di compiere.
Si può avere “il destino nelle proprie mani”. Avere l’appagante soddisfazione di
essere al vertice di un’impresa importante. Godere di un livello di reddito che il
lavoro dipendente non potrà mai assicurare. La sensazione di non dipendere da
nessuno e da alcuna scelta di un datore di lavoro al di sopra di te, ma dipendere
solo e soltanto dalle proprie scelte. Ci vuole la mentalità e un atteggiamento che
vanno coltivati, con la consapevolezza che non è un lavoro normale che occupa
13
G. Favretto, R. Sartori, Le età dell’impresa: giovani imprenditori e lavoratori esperti, Franco Angeli, Milano (2007). 14
P. Gubitta, La formazione manageriale e imprenditoriale nelle PMI: processi evolutivi e nuove sfide dell’executive education, Franco Angeli, Milano (2015).
42
le classiche otto ore di lavoro, e quindi sapere di avere a disposizione poco tempo
libero da dedicare al resto. Essere imprenditori vuol dire imparare a gestire lo
stress, situazioni di problem solving, farsi carico di responsabilità importanti
nonché accettare un certo grado di rischio, come per esempio: rinunciare alla
possibilità di un lavoro “sicuro” contrattualizzato e quindi accogliere il fatto che
all’inizio il proprio reddito percepito dall’attività sarà inferiore a quanto garantito
dall’impiego dipendente; rischiare di perdere i propri risparmi o non sapere come
restituire un prestito; rischiare quotidianamente che una “causa” esterna possa
distruggere o danneggiare quanto realizzato, come scossoni di mercato,
competitor esterni, concorrenza sleale.
È fondamentale anche apprendere come si organizza il lavoro, a livello di
organigramma e a livello legale. Bisogna imparare come si definisce una
strategia, cioè quel procedimento in cui chi gestisce l’azienda pianifica le scelte
di tipo commerciale, operative e finanziarie, tenendo conto sia dell’ambiente di
riferimento, sia delle risorse messe in campo, per il raggiungimento di vari
obiettivi, i più “stabili” possibili. In altre parole: è la direzione e l'obiettivo di una
organizzazione a lungo termine che permette di raggiungere un certo tipo di
vantaggio per l'organizzazione attraverso la configurazione delle risorse
“nell'ecosistema” di riferimento al fine di soddisfare le esigenze dei mercati e per
soddisfare le aspettative dell'azionista o su chi decide di investire sull’impresa15.
Inoltre, una volta che hai cominciato, ovvero nel momento in cui hai aperto la tua
Partita IVA personale o della società, l’imprenditore deve essere consapevole di
ogni aspetto: il rapporto saldo coi clienti, coi fornitori, coi partner commerciali,
con le banche, col commercialista o il consulente del lavoro. Saper “essere”
imprenditori, quindi, è fondamentale.
A questo punto sorge un interrogativo: come si fa a saper “essere”
imprenditore? Esiste un modo valido? Una buona offerta formativa viene data
dall’ente Formaper16: è un ente speciale della Camera di Commercio (l’ente che
15
G. Johnson, R. Whittington, K. Scholes, A. Paci, Strategia aziendale, Pearson, Torino (2014). 16
http://www.formaper.it/ (Consultazione effettuata il 19/01/2017).
43
associa le imprese in Italia per tutelare gli interessi collettivi), nato nel 1987, con
lo scopo di contribuire allo sviluppo dell’imprenditorialità. L’organizzazione
offre programmi formativi per aspiranti imprenditori o lavoratori autonomi,
esperti imprenditori, figli di imprenditori, professionisti, manager e collaboratori
di piccola impresa con l’obiettivo di sostenere le imprese nelle fasi cruciali:
nascita, sviluppo, consolidamento, innovazione. L’elemento particolare dell’ente
è la sua spiccata vocazione alla piccola e nuova impresa: quindi i seminari e i
workshop proposti sono ottimi per coloro che vogliono approcciarsi a questo
mondo. I temi proposti sono molti: Formaper ha l'obiettivo di fornire le prime
informazioni sulle opportunità e sulle problematiche relative alla creazione di
una nuova impresa o di lavoro autonomo, diffondere la cultura imprenditoriale,
offrire all’aspirante imprenditore/imprenditrice una prima valutazione delle
propensioni personali all'attività che vuole intraprendere. Inoltre si propone di
sostenere la cultura imprenditoriale con interventi integrati di sistema e di
favorire atteggiamenti imprenditoriali nel mondo dell'educazione. Inoltre,
attraverso il programma “Garanzia Giovani” (il programma Europeo utilizzato
per combattere la disoccupazione giovanile, che verrà approfondito nel capitolo
seguente), un giovane disoccupato sotto i trent’anni di età può chiedere
assistenza e formazione gratuita per la creazione di una propria attività, di
lavorare autonomamente e la realizzazione del business plan.
Gli strumenti, dunque, per “essere” imprenditori esistono, la formazione
imprenditoriale può essere eseguita. Da che punto partire però? Ovviamente dalla
scrittura del business plan.
44
2.2 L’inizio: il Business Plan
Innanzitutto, aprire un’attività imprenditoriale vuol dire esercitare
un’attività economica che generi un reddito. Quindi, semplicemente, un’attività
basata su uno scambio di beni o servizi che porti successivamente a un
guadagno17. Però, il successo di una iniziativa imprenditoriale dipende da molti
fattori. Il fattore più importante è senza dubbio la validità tecnica e commerciale
della propria idea. Ma l’idea da sola, anche se buona, non basta, se non è seguita
da una lucida motivazione nel portarla a compimento. Come appunto diceva il
grande e rivoluzionario imprenditore Thomas Alva Edison: “il valore di un’idea
sta nel metterla in pratica”. Si provi a partire da questo interrogativo: come
nasce l’idea imprenditoriale? Innanzitutto da qualcosa che si fa normalmente tutti
i giorni: osservare la realtà che ci circonda. Da lì, percepire un potenziale spazio
di mercato che può essere occupato, osservandolo e portando innovazione nello
stesso. Oppure, migliorare delle idee già proposte da altri. Altrimenti, sfruttare le
esperienze maturate come lavoratori dipendenti che possono essere utili quando
si decide di mettersi in proprio.
Inoltre, l’idea di imprenditorialità non può essere improvvisata: deve
partire da un progetto di produzione in funzione delle esigenze del consumatore.
Perciò non può produrre senza tener conto dei bisogni del suo potenziale cliente.
Come secondo step quindi, è necessario condurre una ricerca approfondita di
mercato: ad esempio, Google in questo senso dà la possibilità di poter usufruire
gratuitamente del servizio “Google Forms”18, in cui si possono redigere
questionari compilabili online da poter girare a un campione di persone,
semplicemente trasmettendo il link del sondaggio stesso. Questo strumento è
ottimo per chi si approccia con un’attività imprenditoriale sperimentale: il
limitato budget magari non può permettere di condurre le tradizionali interviste
17
In riferimento all’art. 2082 Codice Civile. 18
https://www.google.com/forms/about/ (consultazione effettuata il 19/01/2017).
45
telefoniche o fare promozione attiva sul territorio del proprio prodotto. Il servizio
di Google quindi è eccellente per azzerare i costi correlati a questi due elementi.
Terzo aspetto, l’idea deve essere redatta in forma scritta, per capire come
può essere attuata: il Business Plan è lo strumento che permette di poter fare
agevolmente un piano di sviluppo economico che riguarda l’attività prescelta19.
Un modo, cioè, di mettere giù un’idea. Per realizzare un progetto d’impresa che
possa sperare di avere successo è indispensabile mettere a punto la “formula
imprenditoriale” che sappia mettere insieme con coerenza: quello che s’intende
offrire, cioè il sistema di prodotto o del servizio, a chi lo si vuole offrire, quindi
il mercato prescelto e le modalità per offrirlo, la cosiddetta struttura aziendale.
Da tenere in considerazione è anche la concorrenza: essa è molto mutevole in
qualsiasi mercato si operi e può modificare “le sorti” dell’attività imprenditoriale
in qualsiasi momento. È necessario dunque analizzare non solo l’aspetto
produttivo dal punto di vista del consumatore, ma capire se nella fetta di mercato
prescelta ci sono già altri competitors che possano influenzare in maniera
negativa la propria attività. Di contro, la concorrenza però può essere anche un
elemento benevolo per un’impresa: come accennato all’inizio del paragrafo,
scegliendo di far parte di un mercato concorrenziale, l’imprenditore può portare
innovazione o prezzi più bassi nel mercato stesso e quindi attirare nuovi clienti o
semplicemente “spostarli” in suo favore. Nella figura 2.2 viene riassunta la
“formula imprenditoriale” che dovrebbe essere utilizzata per l’avvio di
un’attività.
19
R. Stutely, Il business plan, Pearson Education Italia, Milano (2005).
46
Fig. 2.2: Gli elementi della formula imprenditoriale.
Fonte: R. Stutely, Il business plan, Pearson Education Italia, Milano (2005).
Per quanto riguarda l’autoimprenditorialità e l’autoimpiego è necessario
partire con un’idea a livello “micro”: il business plan prescelto riguarderà
(almeno all’inizio) dei microprogetti, in quanto non si ha la certezza che la
propria attività possa essere redditizia. Si può dire, una sorta di “esperimento”.
Quindi, partendo da questo principio e ampliando quanto detto sugli elementi
della formula imprenditoriale, bisogna necessariamente porsi delle domande: a
“chi” rivolgo il mio “esperimento”? Ad esempio: a quale target di persone, a
quale target geografico, se indirettamente si vanno a coinvolgere altre persone e
quindi un altro target. Bisogna capire il “che cosa” fare: se un manufatto o un
servizio, oppure se il manufatto è correlato al servizio e viceversa (come per
esempio: tempi di consegna del prodotto, assistenza pre e post consegna/acquisto
del servizio, tempi e modalità di pagamento). Il “come”: con quale tecnica viene
fatto ciò che viene proposto (in cui servono competenze e conoscenze, materiali
specifici, software) se lo si fa da soli o con qualcuno (creare legami con un
partner commerciale) e poi alla fine, “come” lo offro sul mercato (in che modo
sia raggiungibile, attraverso quali canali). Correlato a questo, capire il “dove”
viene proposto il servizio richiesto o il prodotto fabbricato. “Quando” si può
47
proporre la propria idea: non è necessario realizzare immediatamente qualcosa,
occorre anche un po’ di tempo per organizzare bene il proprio progetto. Inoltre, è
assolutamente fondamentale il “perché”: esso è fortemente motivazionale, ciò
che ti spinge a “rischiare” per far si che la tua idea “micro” possa avere un
riscontro positivo e magari che presto o tardi possa diventare “macro”. In questo
influisce la propria formazione che si è ricevuta nel corso degli anni. Non solo
quella puramente accademica ma anche quella data dall’esperienza.
Tab. 2.1: Le domande che bisogna porsi nel redigere un Business Plan.
Chi? Target personale o geografico
Cosa? Prodotto o servizio offerti
Come? Tecnica, partnership e collocazione sul mercato
Dove? Dove lo trovo
Quando? Tempo di organizzazione o produzione
Perche'? Aspetto motivazionale e competenza acquisita
Fonte: R. Stutely, Il business plan, Pearson Education Italia, Milano (2005).
Dopo essersi posti queste domande, emerge la “domanda fondamentale”: a
quanto vendo il mio prodotto? Qual è il suo equo prezzo? Ovviamente la prima
cosa essenziale è rientrare nei propri costi, sottraendo il prezzo pagato per
eventuali materie prime, il costo fiscale (l’IVA applicata) e quanto si è speso per
promuoverlo (dalla ricerca di mercato al costo della “pubblicità”). E in secondo
luogo, quanto tempo si è dedicato per far sì che il progetto nascesse. In altre
parole, il “costo psicologico” e il “tempo speso” per portarlo a termine. Partendo
da questi due elementi, ci possono essere vari metodi per valutare come
“rincarare” il proprio prodotto e venderlo al pubblico: si può fare un confronto
con i prezzi di mercato o di micromercato; che tipologia di clientela si ha
davanti; un “ideale” ciclo di vita del prodotto, dalla novità, alla larga diffusione
sino al declino; oppure in che periodo dell’anno posso vendere quel prodotto e
48
quindi farlo pagare una determinata cifra. In altri termini, quanto maggiore è la
capacità di interpretare la dinamica dei prezzi e delle prestazioni di ciò che
propongono i concorrenti sul mercato, tanto migliore è la capacità di attribuire il
giusto prezzo a ciò che si vende ai propri clienti.
Dopo aver “costruito” un Business Plan bisogna tener conto anche di un
altro fattore: ovvero la possibilità che il progetto possa portare al “fallimento”.
Esso però non deve spaventare, soprattutto bisogna capire che il proprio progetto
era basato su un’idea che poteva essere sia buona sia meno buona. Il “fallimento”
quindi deve essere necessariamente contemplato nel Business Plan: prevedere
quindi, nel caso il progetto vada male, di rientrare nei propri costi senza subire
una perdita eccessiva.
Assolutamente fondamentale, dunque, è mettere nero su bianco la propria
idea. Senza una progettazione definita nei dettagli, non è possibile avviare un
business duraturo ed efficace. Dunque, una volta eseguito il Business Plan, come
è possibile cominciare? Nei paragrafi seguenti verranno esposti due casi ad
esempio: il funzionamento delle start up e delle micro imprese e il relativo
supporto della Camera di Commercio e dell’Unione Europea.
2.3 Le start up innovative in Italia e il sostegno della Camera di
Commercio
Quando si parla di start up, ci si riferisce a una nuova azienda configurata
su un modello temporaneo o comunque come una società di capitali alla ricerca
di un “business model” ripetibile e scalabile. La scalabilità è la caratteristica
fondamentale per questo tipo di azienda: per start up si intende l'avvio di
un'attività legata a un nuovo tipo di business. In altre parole, non viene
49
considerata start up un’azienda che apre all’interno di un mercato tradizionale
(un esempio pratico: aprire un nuovo ristorante non porta un “cambiamento” nel
mercato, lo porta solo se offre un tipo di ristorazione innovativa)20. L’apertura di
una start up, dunque, si lega molto bene al discorso del secondo paragrafo: un
bisogno, una necessità che il lavoro dipendente non garantisce. Magari portando
le proprie conoscenze, oppure le proprie passioni all’interno di un’innovativa
attività di impresa. Giusto per fare qualche esempio riguardante il mercato hi-
tech, settore in cui si sono visti i maggiori cambiamenti: negli ultimi dieci anni, si
è vista un’incredibile espansione degli smartphone, i telefoni intelligenti in cui il
principio della classica “telefonata” viene messo in secondo luogo. Dietro a
questa evoluzione telefonica, si è aperto un fiorente mercato delle cosiddette
“app”: sono dei moderni programmi installati sul proprio telefono che
consentono all’utente di “facilitarti la vita” in diverse situazioni.
E da questo “terreno fertile” sono nate tantissime start up che hanno
portato innovazione nei modi di fare e di vivere degli utenti: basti pensare ai
nuovi metodi di pagamento innovativo sull’esempio della torinese Satispay21
(che ti consente di inviare denaro facilmente tramite un messaggio dal telefono).
Oppure alle nuova modalità di pubblicità “mirata” verso un singolo utente, sulla
base di raccolta di informazioni contenute all’interno del proprio smartphone per
quanto riguarda le ricerche compiute maggiormente su internet o gli argomenti
discussi all’interno dei social network, che vengono poi rielaborate e fornite alle
maxi aziende come Google da una piccola start up bolognese chiamata
Mapendo22. O anche un metodo innovativo di archiviazione dei documenti
proposto dall’udinese Quokky23: tramite una foto eseguita dall’app, il programma
archivia in maniera automatica i documenti in varie cartelle decise dall’utente
(bollette, fatture, lettere, impegnative mediche). E non solo: nelle bollette la
20
A. Baldissora, B. Bonaventura, Start up marketing: trasformare le idee in opportunità, Franco Angeli, Milano (2013). 21
https://www.satispay.com/it/ (consultazione effettuata il 19/01/2017). 22
http://mapendo.co/ (consultazione effettuata il 19/01/2017). 23
http://www.quokky.com/it/ (consultazione effettuata il 19/01/2017).
50
fotocamera riconosce immediatamente la data di scadenza della stessa e l’app
manda una notifica per avvisare l’utente che, in prossimità della suddetta data, gli
ricorderà di procedere al pagamento. Questi sono solo tre esempi riguardanti, tra
l’altro, solo il settore informatico.
All’interno del mercato italiano, però, si stanno verificando sempre più
nuove aperture di start up innovative: nel 2017 sono attualmente attive 602 start
up che propongono innovazione nei mercati sul suolo nazionale24. Questo è
certamente un dato da valutare positivamente, in quanto le espansioni di queste
nuove aziende possano creare sempre più nuove opportunità lavorative e una
crescita economica del nostro Paese. Attenzione però a un altro dato: di queste
nuove aperture, molte di loro, circa una su dieci, ha chiuso i battenti25. E non solo
per il fallimento della propria azienda, anzi: molte volte a causa delle condizioni
avverse del mercato di riferimento.
Per questi motivi, in questi ultimi anni, gli ultimi due Governi che si sono
succeduti (Governo Monti e Governo Renzi) hanno messo in campo una serie
d’interventi urgenti per favorire la crescita economica nel nostro Paese26. Tra
questi, la Legge 17 dicembre 2012 numero 221 ha introdotto una serie di misure
strutturali per promuovere e sostenere le start up nel nostro Paese. Sulla base del
Rapporto “Restart Italia”27, elaborato da una task force istituita dal Ministero
dello Sviluppo Economico e composta da imprenditori, professori, e
professionisti esperti nell’innovazione, la legge ha stabilito dinamiche a sostegno
delle start up a lungo termine. L’obiettivo primario è favorire gli investimenti in 24
http://startup.indigenidigitali.com/elenco (consultazione effettuata il 19/01/2017). 25
Camere di commercio d’Italia, Report start up innovative, Roma (2015). 26
Legge 17 dicembre 2012, n. 221 (DL Crescita 2.0- artt. 25-32) Decreto 22 febbraio 2013 - Autocertificazione incubatori. Decreto 26 aprile 2013 - Accesso gratuito al Fondo di Garanzia. Decreto 23 ottobre 2013 - Credito d'imposta per assunzione personale altamente qualificato. Decreto 30 gennaio 2014 - Incentivi fiscali all'investimento in startup innovative. Decreto 27 maggio 2015 - Comitato tecnico monitoraggio e valutazione policy startup e PMI innovative Decreto 17 febbraio 2016 - Modalità di redazione degli atti costitutivi di società a responsabilità limitata startup innovative Delibera Consob 24 febbraio 2016 - Regolamento sull’equity crowdfunding Decreto interministeriale 25 febbraio 2016 - Incentivi fiscali all'investimento in startup innovative. Modalità di attuazione 27
Ministero dello Sviluppo Economico, Rapporto “Restart Italia”, Roma (2012).
51
innovazione ad alto valore aggiunto e l’iniziativa imprenditoriale, attraverso la
semplificazione amministrativa e la riduzione degli oneri fiscali. Viene pertanto
definito un regime speciale per le start up che prevede agevolazioni fiscali,
deroghe al diritto societario, disposizioni specifiche in materia di lavoro
subordinato, di raccolta di capitali e gestione della crisi.
Come accennato nel primo paragrafo, l’iniziativa imprenditoriale è il
motore per la crescita economica. Purtroppo però, a volte le start up si scontrano
con condizioni di mercato sfavorevoli, che rischiano di ostacolarne lo sviluppo e
comprometterne il potenziale innovativo. Per questi motivi, il Rapporto si occupa
di favorire due obiettivi: innanzitutto contribuire a rilanciare la competitività nel
mercato. In secondo luogo, tentare di promuovere l’imprenditorialità anche come
strumento di politica attiva del lavoro, in particolare presso il target giovanile, e
cercando di orientarla verso progettualità innovative, in linea con la normativa
nazionale e dell’Unione Europea.
Le start up di cui ci si riferisce sono quelle con meno di quattro anni di
vita. Partendo da questo bacino di riferimento, in un contesto in cui le risorse
sono limitate, il Rapporto si occupa di focalizzare l’attenzione sui progetti
imprenditoriali con potenzialità di sviluppo e sostenibili nel tempo, cercando di
identificare efficacemente dei canali di selezione delle start up e proponendo
misure di sostegno progressive, che seguano le aspiranti imprese nei diversi
passaggi: dalla creazione o all’ottimizzazione del business plan, a come verranno
finanziate (canali pubblici o privati), dalla formazione imprenditoriale al
“mentoring” dei dipendenti.
Come possono essere realizzati tutti questi passaggi? A partire dal 2012, le
Camere di Commercio sparse sul territorio nazionale, con la loro azione, sono
diventate un punto di riferimento per le start up e gli aspiranti imprenditori. Sono
un punto di accesso, fisico e virtuale (tramite l’iscrizione gratuita al sito internet),
attraverso cui gli utenti possano entrare in contatto con le varie opportunità di
sostegno. Tali enti sono dei luoghi capaci di fornire informazioni sulle varie
offerte del territorio in cui agiscono, per quanto riguarda servizi e strumenti
52
d’impresa. Inoltre, permettono un contatto diretto tra gli utenti attraverso uffici
preposti e grazie ad una piattaforma informatica centralizzata. A tale scopo,
appunto, è stata delineata una “mappatura” particolare: essa riguarda le attività e i
servizi di base e avanzati offerti dal settore pubblico (bandi regionali e nazionali)
e dal settore privato (centri di formazione convenzionati, accesso al credito e al
Microcredito per ottenere finanziamenti o prestiti a bassi tassi d’interesse), con
l’obiettivo quindi di facilitare l’accesso ai vari strumenti integrati nell’offerta
delle Camere di Commercio.
Tutto ciò ha portato ad un risultato che oggi appare molto positivo: si è
ottenuto un “network” qualificato di operatori pubblici e privati che,
condividendo l’idea congiunta delle Camere, sostengono attivamente le politiche
di diffusione e sostegno all’autoimprenditorialità. Un progetto molto importante
è stato realizzato e favorito da Unioncamere (Camere di Commercio d’Italia)
nelle varie città italiane (Torino, Milano, Mantova, Como, Ravenna, Ancona,
Roma e Napoli), per quanto riguarda la promozione dell’imprenditoria
femminile28: può rappresentare un ottimo motore nel sistema produttivo italiano,
una componente di costante crescita e favorire l’ingresso delle donne non solo
nel mercato del lavoro, ma anche all’interno dell’iniziativa imprenditoriale. Per
questo motivo, è di recente approvazione un decreto29 del Ministero dello
Sviluppo Economico che prevede mutui a tasso zero per le donne che vogliono
creare nuove imprese (tema questo che verrà approfondito nel prossimo
capitolo).
Per quanto riguarda la reale strategia d’intervento per favorire o aiutare
l’imprenditorialità, il Rapporto guarda nello specifico tre dimensioni: la tipologia
d’impresa, quindi quali prodotti o opere offre; successivamente il livello di
servizi proposti nello specifico di ciascun caso; infine, la fase di vita della start
up, suddivisa in quattro anni. In queste fattispecie, le varie Camere di Commercio
si operano come promotori di servizi base e avanzati sia della Camera stessa, sia 28
http://www.unioncamere.gov.it/P42A0C2709S2689/imprenditoria-femminile.htm (consultazione effettuata il 19/01/2017). 29
Decreto MISE e MEF dell'8 luglio 2015 n. 140.
53
sul territorio di competenza con i vari partner, interessandosi di tutti i passaggi
cruciali del ciclo di vita delle start up, dal lancio, alla crescita, fino alla maturità.
Entrando più nello specifico, la prima fase della vita di una start up è,
ovviamente, l’avvio di una nuova attività, imprenditoriale o professionale, che, di
solito, coincide col primo anno di vita della stessa30. È un processo complesso e
delicato, poiché dal concepimento dell’idea di business all’esordio dell’impresa
sul mercato occorre mettere in atto una serie di attività operative e decisioni
importanti, come già accennato nell’esposizione sul business plan. In questo
senso, la Camera di Commercio, offre un supporto e sostegno rivolto a
imprenditori e professionisti, attraverso servizi ad alto valore aggiunto volto a
velocizzare la realizzazione del business plan, “coaching” e “mentoring” sul
“know how” dati da professionisti di imprese già affermate, network per
facilitare il collegamento fra i vari soggetti, conoscenza del luogo in cui si
trovano degli spazi condivisi (i cosiddetti “coworking”) per risparmiare sui costi
fisici di affitto della propria sede operativa e quindi favorire il confronto e la
collaborazione tra i vari “startupper” presenti nel medesimo spazio31.
Nel secondo anno di vita avviene la fase di sviluppo: la start up a questo
punto deve consolidarsi sul mercato. Quindi l’obiettivo non è più sopravvivere,
ma crescere. Per crescita s’intende non solo il livello economico, ma anche
cercare nuovi investitori, nuovi fornitori magari per ridurre i costi e nuove
sinergie e partnership commerciali per ampliare gli sbocchi in cui vendere i
propri prodotti, non solo su scala internazionale, ma andare anche oltre il
confine32. Spesso, però, i nuovi imprenditori devono affrontare una carenza di
risorse finanziarie e di competenze manageriali specializzate che può frenare, se
non bloccare, lo sviluppo della nuova impresa. In primo luogo, quindi, l’accesso
ai tradizionali canali di capitale, sia di debito, sia di rischio, al giorno d’oggi
30
E. Abirascid, L’innovazione che non ti aspetti: contesti e visioni per l’impresa, Franco Angeli, Milano (2015). 31
Registro imprese, La start up innovativa, Roma (2015). 32
E. Abirascid, L’innovazione che non ti aspetti: contesti e visioni per l’impresa, Franco Angeli, Milano (2015).
54
rappresentano l’aspetto più difficile nel creare o sostenere una nuova impresa.
Sempre meno banche “rischiano” nel concedere mutui o finanziamenti, e se lo
fanno chiedono sempre più garanzie che a volte molte imprenditori non
posseggono. Esiste inoltre un altro fattore: molte start up, portando una novità sul
mercato e quindi realizzano cose che prima del loro arrivo non esistevano, non
godono di un “track record” (ovvero l’insieme dei risultati ottenuti nel passato
che consentono di valutare la professionalità di un operatore o la solidità
creditizia di un’impresa) su cui fare riferimento. Oppure non hanno una
sufficiente dotazione patrimoniale per garantire l’ottenimento di un alto livello di
quotazione, fondamentale per accedere alle comuni risorse bancarie. La Camera
di Commercio favorisce l’accesso al credito alle nuove imprese in fase di
sviluppo attraverso l’adesione al “Fondo Fei-Cip”33, che permette di rilasciare
alle banche garanzie fino all’80% del finanziamento. Anch’esso verrà trattato in
maniera più specifica nel capitolo successivo.
Per quanto riguarda invece l’acquisizione di nuove competenze,
conoscenze e per espandere il proprio mercato all’estero, la Camera di
Commercio offre servizi di accompagnamento personalizzati, favorendo
l’incontro e l’inserimento in azienda di un management qualificato ricorrendo a
consulenze specializzate per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi, per la
brevettazione o per la protezione della proprietà intellettuale34. Per facilitare
l’espansione nei mercati esteri, esiste un servizio di assistenza e
accompagnamento, il quale si occupa di ricercare potenziali partner commerciali
e di mercato, assistenza agli investimenti esteri e un ampio supporto tecnico-
commerciale per gestire gli aspetti operativi del business all’estero35.
Una volta raggiunta la fase di maturità, le start up devono riuscire a
mantenere e consolidare la propria posizione sul mercato, all’incirca nel terzo o
33
Ufficio Europa Online, CIP e FEI: Strumenti finanziari a favore delle imprese. 34
http://www.unioncamere.gov.it/P42A2720C189S123/Identikit-startup--giovani--orientate-all-estero-e-pronte-a-investire-su-lavoro-e-innovazione.htm (consultazione effettuata il 19/01/2017). 35
http://www.unioncamere.gov.it/P42A0C424S145/promozione.htm (consultazione effettuata il 19/01/2017).
55
quarto anno di vita, sfruttando le sinergie col territorio per affrontare la sfida
imprenditoriale. Anche in questo caso la Camera di Commercio dà un sostegno
in quest’ultima fase, assistendole mediante attività di consulenza e formazione
per la definizione di una strategia di crescita nel lungo periodo, aiutandole a
consolidarsi sul territorio e accompagnandole nell’evoluzione eventuale verso
una nuova forma d’impresa, più orientata al “macro” anziché al “micro”. Per
questo motivo per le imprese è fondamentale una costante crescita nel campo
dell’innovazione e delle partnership commerciali: la Camera di Commercio
promuove tutto ciò, favorendo incontri tra le varie aziende, start up e medie
imprese36.
Le start up innovative, dunque, sono e saranno sempre di più una realtà
fondamentale all’interno del nostro Paese. L’unico modo per far ripartire
seriamente l’economia è spostarsi da un modello tradizionale di produzione verso
l’innovazione sempre più costante. Occorre dunque sempre più un maggior
supporto di vari enti, sia dal finanziamento (e lo vedremo nei prossimi capitoli),
sia dal sostegno e dall’incentivazione. Le Camere di Commercio sparse in Italia
vogliono ottenere questo, occorre però una ancora maggior presenza dall’ente
pubblico, attraverso un maggior supporto. Un buon caso di sostegno che proviene
dall’ente pubblico, ovvero dall’Unione Europea, è il sostegno per le micro e
piccole imprese, che verrà trattato nel prossimo paragrafo.
36
http://www.filo.unioncamere.it/P52A0C0S5446/Sportello-per-l-imprenditorialita-giovanile-della-Camere-di-commercio.htm (consultazione effettuata il 19/01/2017).
56
2.4 Le micro e le piccole imprese: il sostegno dell’Unione
Europea, la creazione di reti come possibile forma di sviluppo e
l’innovazione
A seguito di quanto scritto sulle start up, una possibile conseguenza nel
breve periodo è la trasformazione dalla realtà imprenditoriale innovativa in una
impresa consolidata ma di ridotte dimensioni. Ciò non toglie che nel corso del
tempo questa realtà possa svilupparsi e diventare un punto di riferimento
industriale e di servizi nei Paesi, dove queste operano, a livello “macro”. Tuttavia
il passaggio da start up a micro impresa potrebbe essere obbligatorio. Infatti un
caso davvero molto interessante che può essere analizzato nello specifico è
l’importante tessuto imprenditoriale creatosi negli anni: si tratta di un notevole
sviluppo di realtà aziendali di dimensioni ridotte o ridottissime che in tutta
Europa ha visto prendere piede.
L’Unione Europa dà la seguente definizione: per micro e piccola impresa
s’intende quella tipologia d’impresa che opera nel mercato attraverso l’utilizzo di
un numero limitato di dipendenti (dai dieci ai cinquanta al massimo) e con un
fatturato annuo anch’esso limitato (dai due ai dieci milioni di Euro al massimo)37.
Le piccole, medie e microimprese (PMI) costituiscono il 99% delle imprese
europee. Forniscono due terzi dei posti di lavoro nel settore privato e
contribuiscono a più della metà del valore aggiunto totale creato dalle imprese
dell'Unione Europea. Nove PMI su dieci sono, di fatto, microimprese con meno
di 10 dipendenti38. È una percentuale davvero elevatissima. Quindi, l’Italia non è
da meno: il sistema economico italiano è composto principalmente da micro e
piccole imprese. La loro numerosità è un tratto comune di tutte le economie
occidentali, ma il tessuto produttivo italiano si differenzia perché le imprese che
lo compongono hanno in media dimensioni più ridotte: in Italia il valore aggiunto
37
Raccomandazione 2003/361/CE 38
Parlamento Europeo
57
delle micro e piccole imprese sul totale del tessuto aziendale è del 42%, contro
una media europea del 22%39. Negli ultimi decenni questo fatto è stato
fondamentale per l’Italia: a partire dagli Settanta le imprese di dimensioni ridotte
rappresentarono una risposta efficace nella crisi della grande industria incapace,
all’epoca, di gestire le nuove dinamiche di mercato a causa di strutture
organizzative e produttive troppo rigide40. Oggi, però, di fronte all’innovazione
tecnologica, alla globalizzazione, ai cambiamenti dei mercati e alla grandissima
concorrenza che ne derivano41, le micro e piccole imprese si trovano spesso in
difficoltà. La loro generale scarsa capitalizzazione e le barriere d’accesso al
credito comportano una struttura finanziaria debole che ne limita le capacità di
investimento ed espansione. Inoltre, soprattutto per quanto riguarda le imprese a
conduzione familiare, l’apertura ridotta a personale esterno al contesto
“casalingo”, oppure alla mancanza di intenzione a espandersi in altri mercati,
implica una limitata presenza di competenze organizzative e gestionali,
necessarie oggi per competere con successo sul mercato globale42.
Con un apparato produttivo così frammentato e per molti versi “statico”,
l’Italia corre il rischio di essere sempre più marginale nelle “sfide” del mondo
post-crisi. Inoltre, moltissime imprese sul territorio nazionale, stanno
affrontando, o nel breve periodo dovranno affrontare, il problema della continuità
generazionale43, ovvero quella “transizione” da una generazione all’altra e ai
problemi ad essa connessa, come per esempio il disinteresse che possono avere i
figli sull’attività dei genitori o l’idea dei figli di voler “fare altro” nella propria
vita. Posti questi possibili rischi, occorre però sottolineare che le piccole
dimensioni delle imprese non rappresentano sempre e soltanto un limite; al
39
A. Renda, G. Lucchetta, Dipartimento Politiche Europee, L’Europa e le piccole e medie imprese: Come rilanciare la sfida della competitività, Roma, (2014). 40
A. Accornero, Il mondo della produzione. Sociologia del lavoro e dell’industria, Il Mulino, Bologna (2013). 41
R. Semenza, Il mondo del lavoro. Le prospettive della sociologia, Utet, Novara (2014). 42
A. Renda, G. Lucchetta, Dipartimento Politiche Europee, L’Europa e le piccole e medie imprese: Come rilanciare la sfida della competitività, Roma, (2014). 43
G. Trentini, M. Togni, Continuità generazionale d'impresa. Dimensioni psicologiche e relazionali, Franco Angeli, Milano (2008).
58
contrario in alcuni casi sono un fattore strategico di successo. Per questo motivo,
l’Unione Europea44 svolge un’azione di supporto a queste realtà, concentrandosi
sia sulle micro e piccole imprese ad alto potenziale di crescita, sia sulle imprese
“strategicamente piccole”, differenziando le proprie modalità d’intervento. Le
prime sono accompagnate verso delle strategie di crescita mirate e consapevoli:
attraverso il superamento dei loro limiti strutturali e “culturali”, i quali
impediscono il raggiungimento della dimensione ottimale, si cerca di agevolare
gli investimenti per una miglior dotazione di risorse umane e finanziarie,
necessaria per acquisire una struttura organizzativa e produttiva adeguata. Invece,
per le imprese cosiddette “strategicamente piccole”, le loro ridottissime
dimensioni possono rappresentare una potenzialità, una caratteristica fisiologica,
riconducibile a una precisa strategia organizzativa: in alcuni settori , la piccola
impresa può mantenere ed espandere la propria posizione nel mercato globale
grazie a una strategia di “focalizzazione produttiva” e operando in rete, volendo,
con altre imprese. L’Unione, quindi, punta a cercare di agevolare e diffondere dei
meccanismi di aggregazione tra le varie aziende allo stesso tempo promuovere
l’internazionalizzazione delle stesse.
Riprendendo ciò che si è accennato nel paragrafo precedente, particolare
attenzione merita il fenomeno della diffusione dell’”Information and
Communications Technology” (ICT), ovvero le tecnologie dell’informazione e
della comunicazione, delle relative innovazioni e degli impatti sul sistema
imprenditoriale che ne conseguono. A seguito della “Rivoluzione Digitale”45,
infatti, si stanno configurando nuovi sistemi produttivi, polarizzati tra due
estremi: da un lato, piattaforme standard sviluppate tipicamente da grandi attori
multinazionali (i vari Microsoft, Google, Apple con la produzione dei classici
personal computer, notebook e smartphone); dall’altro lato, una moltitudine di
micro e piccoli attori (anche soltanto singoli individui) che sviluppano servizi e
44
A. Renda, G. Lucchetta, Dipartimento Politiche Europee, L’Europa e le piccole e medie imprese: Come rilanciare la sfida della competitività, Roma, (2014). 45
F. Caio, M. Sideri, Banda stretta: il futuro dell’Italia di fronte alla rivoluzione digitale. Come coglierne le opportunità e non perdere la sfida, Rizzoli, Milano (2011).
59
prodotti innovativi (le start up digitali sopracitate), spesso realizzando solo
attività ad altissimo valore aggiunto (strategia, progettazione, creazione del
marchio e servizio al cliente finale) e facendo leva su piattaforme esterne per lo
svolgimento di tali attività (app, prodotti integrabili coi propri oggetti
tecnologici). Questa seconda categoria d’imprese, che si definiscono “micro
imprese creative dell’ICT”46, rappresenta un segmento particolarmente dinamico
e importante a causa dell’alto potenziale di sviluppo e dell’impatto sull’intero
sistema economico (tutti i settori, soprattutto negli ultimi anni, sono stati
influenzati e permeati dall’ICT); tali imprese si connotano inoltre per le seguenti
e importantissime caratteristiche: innanzitutto generalmente riescono ad essere
profittevoli con limitati investimenti e senza una crescita dimensionale47; in
secondo luogo fanno riemergere la “fattibilità sociale” di forme d’impresa tipiche
dell’artigianato e quindi rappresentano una possibilità di autoimpiego (come già
spiegato nel secondo paragrafo); infine, sono attive su un mercato globale e
caratterizzate da una fortissima mobilità48. Dunque, ciò comporta che l’Unione
Europea cerchi di attivare politiche di attrazione per creare condizioni favorevoli
al loro sviluppo in generale, sia territorialmente sia a livello internazionale.
Un possibile modo di accrescimento delle piccole imprese è la creazione
di reti49: essere possono costituire un’opportunità chiave per lanciare o rilanciare
la competitività delle imprese50. Il meccanismo di rete, infatti, potenzialmente
permette alle micro e piccole imprese di superare gli ostacoli derivanti dai limiti
dimensionali e di sfruttare le sinergie con altre imprese, pur mantenendo la
propria individualità. Inoltre, i meccanismi di condivisione dei “saperi” rendono
più creative e dinamiche le imprese che lavorano in rete. La diffusione delle reti
rappresenta innanzitutto una sfida “culturale” simile a quella vissuta, negli anni
46
http://www.pmi.it/tecnologia/prodotti-e-servizi-ict/approfondimenti/136057/ict-business-nuova-frontiera.html (consultazione effettuata il 19/01/2017). 47
Istat, Struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi, Report, Roma (2013). 48
Istat, Cittadini, imprese e ICT, Report, Roma (2016). 49
Camera di Commercio di Milano, Le reti di Impresa, Milano (2017). 50
Consiglio dell’Unione Europea, Small Business Act per le PMI europee (2016).
60
Sessanta e Settanta, per i distretti51 che, prima di diventare un modello vincente
di sviluppo, incontrarono lo scetticismo di molti imprenditori diffidenti e poco
inclini a collaborare con soggetti esterni alla propria realtà aziendale. Rispetto
agli anni dei distretti, però, il contesto è cambiato e, nonostante ancora oggi in
Italia sopravvivano comparti produttivi e distretti industriali radicati e rinomati
(come per esempio l’occhialeria di Belluno, il prosecco di Valdobbiadene o il
marmo di Carrara)52, oggi con la diffusione delle reti “lunghe”, spesso virtuali, è
la “fiducia collaborativa”, più della contiguità territoriale, a innescare la
collaborazione, soprattutto in mercati globali.
Oramai da qualche anno la nostra economia si basa sul modello
organizzativo della “filiera internazionale”53. I distretti si sono trasformati in di
filiere multi-focalizzate, con reti che si propagano su scala internazionale verso
“monte” (tecnologia, approvvigionamenti, lavorazioni conto terzi) e verso
“valle” (distribuzione, servizi al cliente). L’estensione e l’efficacia delle reti che
collegano i diversi servizi specialisti delle filiere produttive sono quindi elementi
fondamentali per conseguire un vantaggio competitivo. Infatti, da un lato, più
ampia e ramificata è la rete della fornitura e maggiori sono le economie di
specializzazione e di scala che ciascun utilizzatore può trarre dall’uso di
materiali, componenti, macchine, lavorazioni con terzi, competenze, servizi
provenienti da tele bacino. Dall’altro lato, più estesa è la rete della distribuzione e
vendita e maggiori sono le quantità e la qualità dei clienti a cui si possono offrire
le proprie competenze, i propri prodotti, i propri servizi. Le reti, dunque,
rappresentano uno strumento importante, che potrebbe essere imprescindibile per
le micro e piccole imprese, per poter costruire concrete e reali prospettive di
sviluppo su scala globale. In questo quadro l’elemento cruciale, quindi, è la
capacità di spostare l’asse del processo di internazionalizzazione dal livello della
singola impresa al livello della rete o delle filiere multi-localizzate.
51
E. Salsano, Lineamenti di sviluppo locale: i distretti industriali, Liguori Editore, Napoli (2002). 52
Intesa Sanpaolo, Economia e finanza dei distretti industriali, Rapporto annuale n. 8, Torino (2015). 53
G. Corò, S. Micelli, I nuovi distretti produttivi: innovazione, internazionalizzazione e competitività dei territori, Marsilio Editori, Padova (2006).
61
Una piccola parentesi riguardo all’innovazione costante che le micro
imprese devono avere per rimanere competitive sul loro mercato: esso è uno dei
fattori più importanti nella strategia aziendale. Si stratta di un processo volto a
un’evoluzione della conoscenza che può avere ricadute, in termini economici, su
tutte le diverse dimensioni del modo e di come produrre: in maniera quindi
tecnologica, organizzativa, commerciale e finanziaria54. Spesso si parla di
innovazione facendo riferimento alla cosiddetta “conoscenza codificata”, cioè
quel tipo innovazione “standardizzata” che viene applicata tramite conoscenze
pregresse o modi di innovare presenti in manuali o “copiando” modelli da altre
imprese, attraverso il lavoro svolto all’interno del dipartimento “ricerca e
sviluppo”55. Di solito, tutto ciò viene fatto nelle realtà medio-grandi. Ma anche la
cosiddetta “innovazione informale”56 ha importanti ripercussioni sulla
competitività delle imprese, soprattutto per le micro e piccole: un concetto che si
riferisce a tutto l’insieme delle innovazioni con declinazioni funzionali,
incrementali e applicative, che spesso hanno luogo spontaneamente e
implicitamente nel corso della normale attività operativa aziendale. Questo tipo
di innovazioni nasce dall’esperienza lavorativa e si collega alle capacità e
competenze assimilate: guardare, ascoltare e applicare al proprio contesto sono le
tappe di ogni processo di apprendimento che conduce all’innovazione. Detto
questo, bisogna considerare anche un altro fattore: che in molti casi è più facile
che le micro imprese innovino perché trascinate nei processi innescati da altri
attori, grazie ai rapporti di collaborazione all’interno delle proprie filiere di
riferimento. L’esempio calza sempre bene sull’hi tech: le filiere produttive di
dispositivi tecnologici continuano a rinnovare i propri prodotti a cadenza annuale
o addirittura semestrale, facendo quindi “bene” alle piccole imprese produttrici di
prodotti o servizi correlati che sono quasi “costrette” ad innovarsi per mantenere
54
P. Gubitta, Innovare nel piccolo, Microimpresa, rivista n. 27, Mestre (2011). 55
A. F. de Toni, A. Fornasier, Guida del Sole 24 Ore al “Knowledge Management”, Gruppo 24 Ore, Milano (2012). 56
D. Binci, Innovazione e cambiamento. Struttura, tecnologia, competenze e leadership tra innovazione tradizionale ed innovazione aperta, Franco Angeli, Milano (2016).
62
“il passo”. Allo stesso modo, esistono anche le piccole imprese che trainano nello
sviluppo altrettante piccole imprese, a causa della loro forte flessibilità grazie a
una spiccata capacità innovativa dovuta all’altra propensione al rischio
imprenditoriale. Si tratta, oltre all’esempio delle imprese digitali, anche degli
artigiani contemporanei e delle imprese creative57.
L’importanza delle realtà molto piccole, dunque, è fondamentale.
Componendo una buona parte del tessuto economico europeo occorre valorizzare
la loro esistenza, attraverso il costante monitoraggio dell’Unione Europea.
Quindi, incentivando l’innovazione, dare sempre una possibilità che queste
aziende non vengano schiacciate dal peso di competitors più grandi. Si può dire
che sulla carta sono assolutamente ottimi interventi, resta da vedere se nella
realtà verranno applicati nei prossimi anni. Forse, addirittura, gli enti pubblici
europei e nazionali, saranno costretti a dover incentivare la “sopravvivenza” di
queste piccole realtà, perché se un giorno dovessero scomparire, il lavoro per
come lo conosciamo, probabilmente, non sarà più lo stesso. Per questa serie di
motivi si analizzerà nello specifico la necessità di autoimpiego che può esistere
per creare nuove realtà o rinnovarne altre.
2.5 L’idea di autoimpiego e di autoimprenditorialità
Si definisce autoimpiego un’attività lavorativa ideata e realizzata in modo
autonomo. In più, per completare questa definizione, l’autoimprenditorialità si
può definire come la creazione di nuove società o l’ampliamento di società già
esistenti. Quindi, l’autoimprenditorialità potrebbe essere un “completamento”
della prima definizione. Infatti, in altri termini: la persona sceglie di mettersi in
57
P. L. Sacco, Le industrie culturali e creative e l’Italia: una potenzialità inespressa su cui Scommettere, Il Sole 24 Ore, Milano (2014).
63
proprio e può provare a far si che la sua idea sia attuabile e vincente nella
realtà58, attraverso la creazione o di un’attività individuale, oppure di un’azienda.
La definizione però, non è sufficiente per cogliere l’essenza di questa tipologia di
lavoro. Questa forma di impiego ha sia i suoi pregi ma anche i suoi difetti, la sua
certezza di guadagno ma anche il suo rischio che qualcosa possa andar male. In
maniera similare si può riprendere ciò che si è detto definendo la figura di
imprenditore59. Innanzitutto, un lavoratore autonomo ha la possibilità di decidere
il proprio profitto. Il classico contratto di lavoro subordinato questa eventualità
non la consente: la legge e i vari contratti collettivi nazionali impediscono la
contrattazione del salario in maniera individuale. Comunque, anche se si potesse
negoziare, il datore di lavoro avrebbe troppo “potere contrattuale” e il prestatore
si troverebbe nella condizione di accettare in ogni caso ciò che gli viene proposto
(a meno che il prestatore subordinato non abbia una professionalità tale da
stabilire lui “le regole del gioco”, ma è un’eventualità molto rara nella realtà).
Quindi, un lavoratore autonomo detiene un “potere contrattuale” non
indifferente. Questo fattore può generare guadagni potenzialmente più alti
rispetto che al lavoro salariato: l’abilità prestata in maniera autonoma è ripagata
in maniera più alta. L’autonomo, però, deve anche farsi carico di un rischio: non
avendo una certezza di uno stipendio, ipotizzando che sia mensile, non sempre e
costantemente potrà guadagnare. Può succedere che in un mese si “profitti”
molto, in altri mesi meno oppure niente. L’individuo quindi deve essere bravo a
gestire le sue finanze, in modo tale che nei “periodi di magra” possa riuscire
comunque ad avere un reddito per i suoi bisogni primari. Inoltre, la definizione
del compenso non è così semplice rispetto a quanto si possa pensare: i lavoratori
autonomi che sono nuovi all’interno del mercato di competenza, non possono
stabilire compensi alti o immediatamente in linea col proprio settore, altrimenti
verrebbero schiacciati dalla “concorrenza”. Quindi, almeno in partenza, il
lavoratore autonomo per “farsi conoscere”, dovrà proporre compensi più bassi. 58
Invitalia, Mettersi in proprio con le idee vincenti, Report, Roma (2016). 59
P. Gubitta, La formazione manageriale e imprenditoriale nelle PMI: processi evolutivi e nuove sfide dell’executive education, Franco Angeli, Milano (2015).
64
Dunque la conseguenza è che inizialmente non potrà avere un ritorno economico
che gli consentirà di avere un guadagno.
In secondo luogo, l’autonomo “sceglie” quando, dove, in che modo
lavorare e soprattutto quali obiettivi conseguire, a sua libera scelta. Nel lavoro
subordinato il lavoratore ha un obbligo formale di recarsi nella stessa sede, ogni
giorno per qualche ora del suo tempo, per prestare la sua attività. Di solito poi,
ogni giorno il prestatore subordinato si reca al lavoro per fare sempre la stessa
identica mansione, Nel tempo questo fattore può diventare alienante. Può
delegare una sua persona di fiducia, o un allievo, per prestare l’attività quel
giorno in cui è indisposto. Banalmente inoltre, un autonomo non ha “bisogno” di
dover chiedere le ferie o comunicare la malattia al suo capo: può astenersi
liberamente dal non lavorare in determinati giorni a sua scelta. Allo stesso modo,
però, l’autonomo non ha la tutela data dalla busta paga delle ferie pagate o dalla
malattia: se rinuncia a lavorare (a meno che non faccia parte di una cassa
previdenziale) non guadagna. Inoltre, deve stare molto attento a chi affidare
momentaneamente la sua attività: l’allievo può essere inesperto e commettere
errori e chi risponde è direttamente il delegante.
Terzo fattore, forse il più importante di tutti almeno a livello psicologico:
il lavoratore autonomo sceglie di essere tale per rispondere soltanto a lui stesso.
Non avendo un “boss” al di sopra, non deve rendere conto a nessuno delle sue
scelte. La responsabilità è pienamente sua. E questo porta a un’altra grande
incombenza: resistere alla “pressione” che tale ruolo dà, e non tutte le persone
sono portate a farlo. Basti pensare al rapporto che l’autonomo deve avere con dei
suoi collaboratori, se li vuole avere. Deve stipendiarli e quindi rispettare le
scadenze a livello legale, deve motivarli per farli rendere sempre al meglio,
rimproverarli quando serve.
65
Tab. 2.2: Vantaggi e criticità dell’autoimpiego
Vantaggi Criticità Decidere il compenso per le proprie attività Rischio del "non guadagno" in certi periodi Scelta di come e quando lavorare
Meno tutela che dà tipicamente il lavoro autonomo (ferie e malattia non pagate)
Essere il capo di se stesso Pressione molto alta nel rendere conto ai propri collaboratori
Fonte: A. Muscinelli, L. Tentolini, Da dipendente a professionista, dalla Decisione alle
Dimissioni: tutti i Passi verso il Lavoro Autonomo, Bruno Editore, Roma (2014).
Dopo aver esposto questi elementi, l’analisi porta a fare qualche
considerazione. Innanzitutto, lavorare in maniera autonoma può essere molto
stimolante: avendo piena e personale gestione “nel fare” il lavoratore autonomo
può far si che il suo lavoro non sia più soltanto un obbligo per dover guadagnare,
ma può anche essere una “passione” da poter usare. Questo aspetto è molto
importante: significa che il lavoro può diventare molto meno stressante60. Una
seconda considerazione molto interessante è che chi sceglie di essere autonomo
potrebbe utilizzare a pieno la sua professionalità acquisita, sia dal punto di vista
accademico, sia dal punto di vista di un apprendimento dato dalle esperienze di
vita conseguite sino a quel momento: il lavoro dipendente non dà questa certezza,
per il semplice fatto che non è il lavoratore che decide l’attività dell’impresa
stessa e bisogna adattarsi, almeno il più delle volte, alla situazione che ci si trova
di fronte. Inoltre, può darsi che quell’attività prescelta sia possibile da realizzare
soltanto se si consegue un titolo di studio adeguato: ad esempio, una persona
studia per diventare dottore commercialista o avvocato, già sa in principio (o
quantomeno ipotizza) che la sua attività sarà prettamente autonoma, che nessun
datore di lavoro nella realtà assume come dipendente una di queste figure.
Dunque, l’idea di partenza di autoimpiego può nascere da ciò che una
persona ha investito in formazione o nella propria passione oppure, come negli
60
A. Muscinelli, L. Tentolini, Da dipendente a professionista, dalla Decisione alle Dimissioni: tutti i Passi verso il Lavoro Autonomo, Bruno Editore, Roma (2014).
66
ultimi anni si sta osservando in Italia, da un’esigenza: la voglia di metterti o di
rimetterti in gioco non trova riscontro nel lavoro dipendente o nelle
collaborazioni. Un esempio emblematico è il ritorno all’agricoltura,
all’allevamento di bestiame e alla pesca61. In questo ultimo ventennio si è tornati
alla riappropriazione delle campagne62 .
Fig. 2.3 L’attività nell’agricoltura
Fonte: Istat (2015)
Questo fattore è stato favorito dal ricambio generazionale che c’è stato,
una nuova forza lavoro con tanta voglia di investire che ha portato una moderna
forma sia di autoimpiego (piccoli lavoratori autonomi con possedimenti terrieri),
sia di autoimprenditorialità, ampliando e riqualificando aziende già esistenti o
creandone di nuove63, come la coltivazione di piante aromatiche64 o
l’allevamento del baco da seta65. Si sta assistendo, dunque, a uno scenario di forte
61
Istat, Rapporto sull’agricoltura, Roma (2016). 62
Istat, L’andamento dell’economia agricola, Roma (2015). 63
http://giovanimpresa.coldiretti.it/storie/ (consultazione effettuata il 19/01/2017). 64
http://giovanimpresa.coldiretti.it/storie/arezzo/storia/piante-officinali-e-aromatiche-la-storia-di-raffaella-e-kaly/ (consultazione effettuata il 19/01/2017). 65
http://giovanimpresa.coldiretti.it/storie/calabria/storia/allevamento-baco-da-seta-la-storia-di-tre-giovani-calabresi/ (consultazione effettuata il 19/01/2017).
67
sviluppo produttivo e allo stesso tempo un consolidamento nei settori di
produzione agricola: dalla trasformazione e commercializzazione di prodotti
della terra, dell’allevamento e dell’itticoltura. Inoltre, un investimento che sta
dando luogo a un buon mercato è quello fatto nel “biologico”66: il mercato dello
“star bene” e del consumare prodotti coltivati “all’antica”, quindi senza additivi
chimici e non geneticamente modificati, si sta sempre più espandendo anche
grazie al sempre maggior consumo di tali prodotti67. Tutti questi fattori hanno
favorito un incentivo ai piccoli e giovani imprenditori di creare start up
innovative68 e così facendo hanno potuto accedere ai finanziamenti pubblici
provenienti dall’Ismea69, l’ente che si occupa di finanziare e promuovere le
attività agricole in Italia70, oltre che dalla legge71 che incentiva delle misure in
favore dell’autoimprenditorialità in agricoltura e del ricambio generazionale.
Anche il settore della ristorazione ha visto un cambiamento: è sempre più
utilizzata in Italia la “ristorazione innovativa”, sia dal punto di vista
dell’evoluzione del concetto di “fast food” in “street food”, come nell’esempio
della start up “Foodation”, la quale offre un modello scalabile di apertura di una
catena di successo (ispirandosi al modello americano del “cibo da strada”)72, sia
su ristoranti classici ma con una modernità intrinseca. Questo modello è stato
realizzato soprattutto da giovani appena usciti dalle scuole alberghiere e con una
buona base economica di partenza, questi ragazzi tentano di aprire nuove attività
moderne o rinnovare attività già presenti nel luogo proponendo qualcosa di
diverso ma sempre nel rispetto della tradizione territoriale. L’obiettivo è quello di
offrire una buona cucina e un buon bere per una clientela che diventa sempre più
pretenziosa ed esperta. Inoltre, è di recente stata costituita la community europea
66
V. Fiorillo, Il futuro del biologico, Egea, Milano (2015). 67
Ismea, Bio-Retail: indagine sul mercato al consumo dei prodotti biologici in Italia, Roma (2014). 68
http://giovanimpresa.coldiretti.it/pubblicazioni/fare-impresa/pub/agricoltura-ai-giovani-arriva-un-concorso-per-start-up/ (consultazione effettuata il 19/01/2017). 69
Ismea, Bando per l’insediamento di giovani in agricoltura, Roma (2016). 70
http://www.ismea.it/istituto-di-servizi-per-il-mercato-agricolo-alimentare (consultazione effettuata il 19/01/2017). 71
Decreto Ministeriale 18 gennaio 2016 72
http://www.foodation.it/ (consultazione effettuata il 19/01/2017).
68
dei “Giovani Ristoratori”73, in cui i giovani chef possono condividere e rimanere
aggiornati sul mondo della ristorazione proponendo sempre idee nuove e formule
innovative di accoglienza alla clientela e cucina sempre diversa e accattivante.
Correlato alla ristorazione ci sono il turismo e la valorizzazione del
territorio, due ambiti strategici per il nostro Paese. Ad esempio, la community
“Start Up Turismo”74 raduna ben 10975 start up che si occupano di offrire
prodotti e servizi digitali nei settori del turismo e della cultura. Per citare alcuni
esempi: prenotazione e affitto degli alloggi, viaggi organizzati, esplorazione di
zone poco conosciute, spostamenti in bicicletta nel luogo destinato con tappe
gastronomiche, guide turistiche interattive con l’utilizzo dei propri smartphone76.
C’è anche un interessante ritorno all’artigianato77: i giovani e i meno
giovani che vogliono fare della loro abilità e della loro passione una forma di
sostentamento e di guadagno per far si che le entrate che percepiscono possano
essere la loro prima fonte di reddito. Si possono proporre numerosi esempi:
l’intaglio del vetro o del legno; il riciclo e il riutilizzo di materiali che altrimenti
sarebbero destinati nei rifiuti, come per esempio la plastica, la gomma e i tessuti
generati da vecchi vestiti; la creazione di gioielli con materiali ipoallergenici;
bambole di pezza e giocattoli in legno per bambini. Interessante anche il modo in
cui reperire tutti questi articoli: oltre le classiche fiere organizzate nei vari
territori italiani, è nata nel 2005 la community statunitense Etsy78, in cui avviene
una compravendita di prodotti artigianali semplicemente iscrivendosi
gratuitamente al sito internet. Certamente, visto i costi di pubblicità e di
promozione del proprio prodotto pari a zero, per chi vuole iniziare a vendere
questo sistema può essere molto efficace e, alla lunga, molto redditizio.
Infine, l’autoimpiego viene spesso utilizzato per i giovani ragazzi e
ragazze laureate in discipline psicopedagogiche che non riescono a trovare
73
www.jre.it (consultazione effettuata il 19/01/2017). 74
http://www.startup-turismo.it/ (consultazione effettuata il 19/01/2017). 75
Ultima consultazione 19/01/2017. 76
http://www.startup-turismo.it/startup-associate/ (consultazione effettuata il 19/01/2017). 77
S. Micelli, Futuro artigiano: l’innovazione nelle mani degli italiani, Marsilio Editori, Venezia (2011). 78
https://www.etsy.com/it/ (consultazione effettuata il 19/01/2017).
69
collocazione nel mondo dell’insegnamento prescolastico di primissima infanzia.
Le ragioni sono essenzialmente due: nel settore pubblico vengono banditi sempre
meno concorsi e gli asili nido sono pochissimi; nel settore privato ci sono
comunque pochi asili, e quei pochi assumono molto poco. Dunque, molti giovani
decidono di aprire la Partita IVA per cominciare un’attività in proprio, i
cosiddetti “micronidi”79: nella propria abitazione o in uno spazio dedicato,
accudiscono i bambini di famiglie più o meno svantaggiate (a causa dell’alto
costo dei nidi privati oppure dell’impossibilità di accedere alla graduatoria dei
pubblici e del relativo altissimo tempo di attesa per l’accesso), proponendo prezzi
altamente competitivi.
Riflessioni conclusive
In questo capitolo si è provato a dare diversi spunti: innanzitutto chi è
l’imprenditore e se è possibile essere formati per poterlo diventare; come poter
provare ad aprire una propria attività, sia in generale, sia a livello autonomo, sia a
livello micro e con una start up innovativa; in tutto questo, il supporto che vari
enti come la Camera di Commercio e l’Unione Europea tentano di dare a queste
realtà. Il discorso sull’autoimprenditorialità però non può limitarsi a solo e
soltanto alle leggi o agli interventi promossi dagli enti. Occorre che l’argomento
venga esteso a ciò che riguarda il finanziamento di tutto questo sistema. E il
finanziamento stesso deve partire da due punti fondamentali: da una legge che
riguarda uno stanziamento in denaro che viene applicata dall’ente pubblico;
oppure di poter usufruire di un canale diverso dal pubblico, a causa del fatto che
a volte non si posseggono i requisiti adatti scritti su una legge. Quindi, la
79
http://www.asilinido.biz/micronido/pagine-di-contenuto/micronido (consultazione effettuata il 19/01/2017).
70
possibilità di rivolgersi a degli enti privati, delle associazioni che, attraverso la
concessione di credito, possano agevolare l’ingresso nel mercato di nuove realtà
aziendali. Tutti questi argomenti verranno trattati nei prossimi due capitoli.
71
CAPITOLO III
Il sostegno pubblico all’autoimprenditorialità: dalle politiche attive del lavoro a Garanzia Giovani in
Lombardia
Introduzione
Dopo aver discusso dei cambiamenti del lavoro e come potrebbe avviarsi
una attività d’impresa nei precedenti capitoli, ora si concentrerà l’analisi su come
viene legiferata, finanziata, promossa e sostenuta l’autoimprenditorialità nel
nostro Paese. Fare un quadro generale però non è semplice e soprattutto intuitivo.
Come si vedrà più avanti, inoltre, tutti gli interventi sono molto recenti: solo a
partire dal 2013 si è iniziato davvero a lavorare sul fronte del “fare impresa”. Ma
non solo, anche le stesse politiche attive del lavoro sono un elemento molto
recente: si pensi che la prima agenzia esistente nella storia italiana coordinatrice
di tutte le politiche attive presenti sul suolo Nazionale ed Europeo è l’ANPAL, la
quale è stata istituita nel 2015. E molte delle misure proposte dall’ANPAL sono
ancora in via del tutto sperimentale. Il fattore determinante di questa “mancanza”
italiana è abbastanza risaputo: i nostri vari Governi che si sono succeduti nel
corso della nostra breve storia Repubblicana hanno sempre valorizzato di gran
lunga le politiche passive anziché quelle attive1. Probabilmente perché era
considerata la strada più “facile” da intraprendere, anche per una questione
puramente politica e di conteggio finale dei voti nelle elezioni parlamentari2. Sul
finire degli anni Duemila è stato necessario un cambio di rotta: la persona deve
anche essere aiutata attivamente e dunque sono nate le prime forme nazionali 1 M. Ferrera, Le politiche sociali. L'Italia in prospettiva comparata. Il Mulino, Bologna (2012).
2 D. Cavalieri, Teoria Economica: un ‘introduzione critica, Giuffrè Editore, Milano (2009).
72
(perché in alcuni casi politiche regionali esistevano già) di sostegno al lavoro e
all’impresa. Quindi, il terzo capitolo si concentrerà su come vengono finanziati e
gestiti i programmi per favorire il collocamento e la nascita d’impresa in Italia,
concentrando poi l’analisi nello specifico sul Programma Garanzia Giovani e ciò
che ne concerne, in Italia e successivamente in Lombardia.
3.1 Dal Fondo Sociale Europeo alle politiche attive di ANPAL:
una possibile ripartenza
Prima di parlare di meccanismi di finanziamento all’autoimprenditorialità,
molto frammentati ed eterogenei nel nostro Paese, occorre fare un passo
all’indietro per capire cosa avviene prima di ottenere un sussidio pubblico per
fare impresa. Si può affermare che l’Italia sia stato uno dei Paesi che più è stato
colpito dalla crisi del 2008, sia dal punto di vista produttivo e di conseguenza
anche dal punto di vista lavorativo3. I tassi di disoccupazione a due cifre sono
una dinamica ormai presente da troppo tempo nel nostro Paese4. I giovani
faticano notevolmente ad entrare nel mercato del lavoro, anche con titoli di
studio elevati. Coloro che hanno già una buona esperienza lavorativa potrebbero
essere comunque poco spendibili, visto che in generale le aziende hanno paura di
assumere o di investire. Gli anziani, allo stesso modo, se dovessero perdere il
loro posto di lavoro, farebbero fatica a ricollocarsi, a causa dell’età avanzata ,
dall’elevato costo dello stipendio che un datore di lavoro dovrebbe offrirgli e
dalla poca volontà a formarsi. Il tutto correlato alla poca propensione al consumo
dell’italiano medio negli ultimi anni. Occorre quindi un programma serio per
ripartire, per dare maggiori possibilità a chi è disoccupato o inoccupato di essere
3 S. Gambino, Diritti sociali e crisi economica, problemi e prospettive, Giappichelli Editore, Torino (2015).
4 Istat 2008-2017.
73
assunto. E allo stesso modo, favorire l’iniziativa imprenditoriale per creare nuova
occupazione attraverso buone idee per produrre qualcosa, che siano prodotti veri
e propri, che siano servizi, i quali possano interessare davvero al consumatore
moderno, come già si è affrontato nel corso del primo e del secondo capitolo.
La programmazione nasce innanzitutto dall’Unione Europea, attraverso
l’ambiziosa strategia “Europa 2020”5. Essa è la strategia decennale (partita nel
2010) per la crescita e l’occupazione in tutto il territorio dell’Unione. L’obiettivo
da realizzare è quello di “lasciarsi alle spalle” tutti gli strascichi lasciati dalla crisi
economica, attraverso un programma sostenibile (proporre un investimento sulle
riduzione delle emissioni che provocano inquinamento), intelligente
(investimenti nella ricerca, nell’istruzione e nell’innovazione) e solidale
(combattere più efficacemente la povertà). Lo strumento primario di utilizzo per
la ripartenza economica è il Fondo Sociale Europeo6: esso è lo strumento
finanziario attraverso cui l’Unione Europea sostiene e promuove le opportunità
di occupazione e la mobilità geografica e professionale dei lavoratori e favorisce
l’adeguamento alle trasformazioni industriali. Nasce col trattato di Roma nel
1957, quindi ormai molto tempo fa. I “costituenti” dell’Unione Europea avevano,
dunque, già previsto una possibilità di crisi, che l’Unione Europea avrebbe potuto
affrontare nel corso degli anni. Allo stato attuale delle cose, il Fondo consente
agli Stati membri di attuare politiche attive del mercato del lavoro a vantaggio di
ogni ceto sociale. Quindi, il Fondo sostiene i lavoratori attraverso i finanziamenti
di azioni volte a rispondere alle esigenze di flessibilità che garantiscano,
attraverso le strategie applicate alla formazione continua, alla mobilità e
all'adattamento delle trasformazioni del mercato del lavoro, anche la sicurezza
dell'occupazione e del reddito. Sostiene, inoltre, le fasce più deboli della società,
effettivamente o potenzialmente escluse socialmente come le donne, i giovani, le
persone al di sopra dei cinquant’anni di età, gli immigrati ed i disabili. La grave
situazione venutasi a creare in merito alla disoccupazione, alla disoccupazione 5 M. Decaro, Dalla Strategia di Lisbona a Europa 2020, Fondazione Adriano Olivetti, Roma (2011).
6 http://europalavoro.lavoro.gov.it/EuropaLavoro/Varie/Che-cos-il-Fondo-Sociale-Europeo
(Consultazione effettuata 25/02/2017).
74
giovanile e al fortissimo e sempre più presente rischio povertà, indirizza gli
obiettivi europei alla soluzione dei problemi che ne sono alla base: scarsità di
competenza, ridotta mobilità dei lavoratori, inadeguatezza dei sistemi scolastici e
del mercato del lavoro. Dunque, il Fondo Sociale Europeo rappresenta il
principale strumento finanziario per investire nelle risorse umane. L’Italia sta
utilizzando il Fondo proprio per gli obiettivi appena proposti, attraverso politiche
gestite a livello nazionale a da ogni singola Regione7. Nella specifico: utilizzo di
strumenti per combattere la disoccupazione giovanile, promuovere un
invecchiamento attivo, supportare i gruppi svantaggiati ed emarginati;
valorizzazione dell’innovazione sociale attraverso la sperimentazione e la
diffusione di soluzioni innovative che rispondano ai fabbisogni sociali;
promozione di strategie locali di sviluppo; utilizzo del Fondo per coprire
eventuali prestiti concessi alle Regioni per finanziare determinate misure o
determinati investimenti.
Il coordinamento di tutte le politiche regionali sopracitate è gestito a
livello nazionale dall’ANPAL8, l’Agenzia Nazionale per le Politiche del Lavoro,
istituita dal Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 150, uno dei tanti
interventi del Jobs Act. L’ANPAL coordina la Rete nazionale formata dalle
strutture regionali per le politiche attive del lavoro, dall’Inps, dall’Inail, dalle
agenzie per il lavoro e dagli altri soggetti autorizzati all’attività di
intermediazione, dagli enti di formazione, da Italia Lavoro, dall’Inapp9 (l’Ente
pubblico che si occupa della ricerca sui temi della formazione, delle politiche
sociali e del lavoro) e dal sistema delle Camere di commercio, industria,
artigianato e agricoltura, dalle università e dagli altri istituti di scuola secondaria
di secondo grado. Ma soprattutto gestisce attivamente due programmi
attualmente molto importanti nel nostro Paese: il programma “Pon Spao”10,
7 ANPAL, Fondo sociale europeo 2014-2020.
8 http://www.anpal.gov.it/ (Consultazione effettuata il 04/02/2017)
9 Dal 2016 l’Isfol è diventato Inapp: Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche.
10 http://europalavoro.lavoro.gov.it/europalavoro/notizie/1903-pon-spao (Consultazione effettuata il
04/02/2017).
75
ovvero il “Programma operativo nazionale Sistemi di politiche attive per
l'occupazione” e il “Programma Garanzia Giovani”11.
Il primo mira in generale ad aumentare la partecipazione al mercato del
lavoro, attraverso interventi per favorire l’ingresso di giovani nel mercato del
lavoro, delle donne e dei soggetti a rischio, come anziani e immigrati. Inoltre,
questo programma si occupa di tentare di favorire il ricollocamento dei
lavoratori in stato di disoccupazione, fruitori di indennità NASPI, attraverso un
patto di servizio personalizzato stipulato a scelta dall’utente con un ente
accreditato. L’ente si occuperà poi di attivare un piano di formazione e un
programma di reinserimento nel mercato del lavoro con i fondi garantiti
dall’Agenzia, regione per regione. Ulteriormente, è di nuova iniziativa
sperimentale, nel 2017, la gestione dell’”assegno di ricollocazione”, il quale darà
al disoccupato percettore di NASPI da almeno quattro mesi la possibilità di
aderire a questo specifico programma, attraverso un servizio personalizzato
eseguito da un ente accreditato, privato o pubblico, per la ricerca di nuova
occupazione al reinserimento lavorativo in tempi brevi. Lo scopo è quello di
incentivare l’ente a collocare la persona con un contratto di lavoro subordinato e
se riesce nell’intento, l’Agenzia erogherà l’Assegno all’ente, da un minimo di
250 Euro fino a un massimo di 5mila Euro.
Il secondo si concentra nello specifico sui giovani fino ai ventinove anni
di età compiuti. Infatti, si tratta del piano promosso dall’Unione per far fronte
alla lotta contro la disoccupazione giovanile, attraverso misure mirate in:
accoglienza, orientamento, formazione, accompagnamento al lavoro,
apprendistato, tirocini, servizio civile, sostegno all'autoimprenditorialità, mobilità
professionale all'interno del territorio nazionale o in Paesi dell'Unione europea,
bonus occupazionali per le imprese, formazione a distanza attraverso
l’accreditamento e la “presa in carico” dell’utente da parte di un ente pubblico
(Centro per l’Impiego) o privato (Agenzia per il Lavoro, Ente di formazione
professionale).
11
Raccomandazione 2013/C 120/01 del 22 aprile 2013.
76
Da questi capisaldi derivano poi programmi mirati che in ogni regione di
residenza possono essere attivati a seconda delle richieste dell’utente. Nei
prossimi paragrafi ci si interesserà di quelli previsti per l’autoimprenditorialità e
l’autoimpiego, partendo da ciò che si fa a livello nazionale per ogni tipologia di
richiedente e cosa propone il Programma Garanzia Giovani in generale,
concentrando poi l’analisi nel contesto Lombardo.
Un piccolo spunto però su cui riflettere: come si è accennato
nell’introduzione al capitolo, l’Italia è sempre stato un Paese dalla fortissima
prevalenza di politiche passive, anziché di quelle attive. Gli interventi legislativi
passati tentavano di tutelare soprattutto coloro che avevano bisogno
momentaneamente di un sussidio che dava un reddito (dall’indennità di
disoccupazione ASPI, alla Mini-ASPI, fino ad arrivare all’indennità di mobilità),
ma la legge a quel punto si fermava, concedendo magari soltanto sgravi fiscali
per le nuove assunzioni. Se il disoccupato voleva cercare un nuovo posto di
lavoro era costretto dalle circostanze a doversela cavare da solo. Dal 2015 si sta
proponendo invece un’altra via. Una via di sostegno sia del reddito (come la
NASPI prima citata), ma subordinato a un programma di ricollocazione attiva
all’interno del mercato del lavoro. È questo ciò che può servire al nostro Paese
per ripartire, un investimento serio sull’incentivazione al lavoro e alla
produzione, sostenendo comunque economicamente il lavoratore in un momento
di difficoltà. Il meccanismo prende spunto da ciò che si era detto nel primo
capitolo, la “Flexycurity” sul modello nord-europeo: sussidio dello Stato con alta
flessibilità al lavoro ma accompagnando il disoccupato verso un nuovo orizzonte.
77
3.2 Gli incentivi e il finanziamento pubblico
all’autoimprenditorialità
A livello nazionale, il finanziamento pubblico all’autoimprenditorialità,
come si è accennato all’inizio del paragrafo precedente, è molto eterogeneo e
soprattutto destinato a uno stanziamento monetario momentaneo che si esaurisce
in base a quanto mette “sul piatto” il Governo italiano o direttamente dall’Unione
Europea12. Ci sono tanti interventi, alcune volte efficaci, altri interventi meno
efficaci coordinati sia a livello nazionale ma anche a livello regionale e
dall’Unione Europea, dedicati ai più giovani nella maggior parte dei casi (il
discorso si riprenderà nel prossimo paragrafo con l’analisi di Garanzia Giovani)
ma anche riservati ai meno giovani. Questo fa capire che non c’è un chiaro, netto
e “globale” (che riguarda tutte le possibili categorie di persone in base all’età e al
sesso) piano nazionale o “europeo” d’investimento nel “fare impresa”. Al
contempo, la mancanza di coerenza e la severità (a volte necessaria) nella
programmazione potrebbe rappresentare un problema, soprattutto riguardo al
raggiungere l’utenza per la promozione di tali programmi. Ciò non toglie che,
come suggerito nel primo paragrafo, la differenza sostanziale rispetto al passato è
che l’esistenza stessa di questi programmi già rappresenta un enorme passo
avanti rispetto al passato. Questo paragrafo si occuperà di analizzare quelli più
importanti e rilevanti.
Il punto di partenza potrebbe essere, legando l’analisi al primo paragrafo,
quando il disoccupato percettore di sostegno al reddito ha la possibilità di
utilizzare il sussidio per aprire una propria attività in proprio, sotto forma di:
lavoro autonomo, impresa individuale, società di capitali o una cooperativa13.
Aprendo dunque una partita IVA e mantenendola attiva per almeno due anni, il
disoccupato può riscattare la sua NASPI per il totale dell’importo non ancora
percepito. Certamente è un ottimo incentivo: come spiegato nel primo capitolo, la
12
A. Bonifazi, A. Giannetti, Finanziare l’impresa con i fondi europei, Ipsoa, Milano (2014). 13
Inps, Indennità di disoccupazione NASPI, informazioni.
78
NASPI ha una durata molto elevata che è pari a due anni, dedicata a coloro che
hanno lavorato per almeno quattro anni continuativamente. Il reddito percepito in
questi due anni ha un importo molto importante e poterlo riscattare per aprire
un’attività autonoma potrebbe essere la nascita concreta di autoimprenditorialità.
Da questo punto possono partire diversi scenari.
Uno di questi, e in tal caso l’opportunità è data dal legislatore che ha
cambiato notevolmente un “paradigma” del diritto societario, è la possibilità di
aprire una Società a Responsabilità Limitata con regime semplificato, la
cosiddetta “SRL a un Euro”14. L’idea è stata introdotta dal Decreto Lavoro del
2013 che, senza prevedere alcun limite di età, agevola l’apertura di questa forma
semplificata di società, azzerandone i costi di apertura e soprattutto riducendo di
gran lunga l’immissione iniziale di capitale: con una SRL normale il minimo per
iniziare è, per legge, di diecimila Euro. Con questa particolare forma d’impresa si
versa un capitale da un minimo di un Euro fino a un massimo di diecimila Euro.
Gli obblighi formali sono quelli identici alla costituzione di una classica SRL:
nell’atto costitutivo pubblico devono essere resi noti i nomi di tutti i soci, la
denominazione sociale che ovviamente deve essere SRL, la quota di capitale
sociale versato al momento della data di costituzione di cui sopra e il nome degli
amministratori che non devono essere necessariamente soci. Inoltre, non sono
previsti i pagamenti dell’atto costitutivo presso il notaio, le imposte di bollo e i
diritti di segreteria (di solito molto costosi nella procedura di avvio d’impresa).
Gli adempimenti sostanziali sono come quelli di un’azienda tradizionale: la
tenuta della contabilità ordinaria, presentazione del bilancio di esercizio presso il
Registro delle Imprese e tenuta dei libri sociali.
Questo meccanismo può essere utilizzato anche come apertura di una start
up innovativa. Bisogna tenere conto però di alcuni aspetti essenziali: innanzitutto
non deve essere forviato il concetto di un capitale sociale a ridotta capacità. Ogni
azienda ha sempre e comunque dei costi da sostenere, che siano il
commercialista, i dipendenti o in generale in fattori di produzione, ma è
14
C. De Stefanis, C. Cicala, SRL semplificata e a capitale ridotto, Maggioli Editore, Rimini (2013).
79
innegabile che questi fattori esistano a prescindere. Quindi, chi vuole aprire una
società di questo tipo, non deve lasciarsi “tentare” dalla capitalizzazione ridotta,
ma comunque programmare molto attentamente l’attività d’impresa. In secondo
luogo, bisogna stare molto attenti alle perdite: se esse “erodono” il capitale
sociale in maniera irreparabile, la società deve essere messa in liquidazione.
Quindi, nel caso, ci deve essere sempre una costante ricapitalizzazione per far si
che nell’esercizio il bilancio non sia in una perdita tale da portare a questa
conseguenza. Quest’obbligo è sospeso dalla legge nella fase di start up, in cui è
possibile ricapitalizzare fino alla fine dell’esercizio successivo a quello in corso.
Un terzo aspetto da tenere in considerazione è che, nonostante questo tipo
d’impresa è certamente un’innovazione, nel sistema societario italiano dovrà
passare un po’ di tempo prima che venga “digerita” questa riforma. Un esempio a
riguardo è la concessione del credito: gli istituti dovranno “abituarsi” a erogarlo a
imprese che non possono o non riescono a dare particolari e restrittive garanzie.
Una seconda strada è offerta dal Decreto Ministeriale dell’8 luglio 2015,
numero 140 attuato dal Ministero dello Sviluppo Economico ed entrato in vigore
dal 20 settembre dello stesso anno, in cui viene legiferato il sostegno alle nuove
imprese di stampo giovanile. Tutti i finanziamenti sono gestiti da Invitalia15,
l’Agenzia nazionale di proprietà del Ministero dell’Economia, per l’attrazione
degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, con le imprese “a tasso zero”16: esso è
l’incentivo dedicato alle persone dai diciotto ai trentacinque anni di età e per le
donne di qualsiasi età. È un finanziamento per far si che questi specifici soggetti
possano aprire una micro o piccola impresa, con le peculiarità e le caratteristiche
raccontate all’interno del secondo capitolo. Innanzitutto, è ammissibile il
finanziamento per progetti che non superino una spesa massima di 1,5 milioni di
Euro. Le agevolazioni consistono nel riconoscimento di progetti validi in tutta
Italia e finanziano progetti attraverso un finanziamento agevolato senza interessi
(e quindi a tasso zero) della durata massima di otto anni, che può coprire fino al 15
www.invitalia.it (Consultazione effettuata il 04/02/2017). 16
Invitalia, Nuove imprese a tasso zero: Promuovere e sostenere nuova imprenditorialità giovanile e femminile, Roma, (2015).
80
75% delle spese totali. Le imprese devono garantire la restante copertura
finanziaria e realizzare gli investimenti entro ventiquattro mesi dalla firma del
contratto di finanziamento. "Nuove imprese a tasso zero" è la versione
"rinnovata" della misura di Autoimprenditorialità proposta all’interno del decreto
legislativo 185/2000, Titolo I (il primo intervento italiano in assoluto che
incentivava le nuove realtà d’impresa e l’autoimpiego). Le imprese devono
essere costituite in forma di società da non più di dodici mesi rispetto alla data di
presentazione della domanda.
C’è da segnalare però che non tutte le iniziative sono finanziabili. Invitalia
specifica che lo sono per quanto riguarda: la produzione di beni nei settori
industria; artigianato e trasformazione dei prodotti agricoli; fornitura di servizi
alle imprese e alle persone; commercio di beni e servizi e i servizi turistici.
Inoltre, in maniera correlata e anche per il fatto che l’Agenzia li considera
particolarmente rilevanti per lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile, possono
essere anche finanziati: aziende aperte nel settore turistico-culturale per
valorizzare il nostro patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico, nonché per
il miglioramento di ricettività e accoglienza (infatti, come accennato nel secondo
capitolo quando si parlava della valorizzazione del turismo, molti di questi fondi
sono stati utilizzati per aprire start up innovative, come viene elencato nel portale
“Start up turismo”17); e aziende che valorizzano “l’innovazione sociale”18, cioè
quelle imprese che producono beni e servizi e che creano nuovi bisogni sociali o
che soddisfino questi bisogni (come le onlus o le associazioni intermedie).
Invitalia si è preoccupata sino al 2015 anche di agevolare l’autoimpiego
sotto tre aspetti, ma soltanto nelle regioni più “svantaggiate” del nostro Paese, in
cui si trova poco lavoro dipendente e c’era un bisogno di innovazione anche
micro, ovvero: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia,
Sardegna e Sicilia per quanto riguarda finanziamenti per un tipico lavoro
17
http://www.startup-turismo.it/ (consultazione effettuata il 04 /02/2017). 18
P. Venturi, F. Zandonai, Innovazione sociale e imprese sociali, Aiccon, Forlì (2013).
81
autonomo, micro impresa e i franchising19. I finanziamenti e i contributi a fondo
perso erano molto sostanziosi: per il lavoro autonomo era fino venticinquemila
Euro, per la micro impresa era fino a centotrentamila Euro e addirittura per
affiliarsi a un franchising non c’era nemmeno un tetto. Effettivamente risultati
buoni si sono ottenuti, come si evince dalla figura 3.1che riguarda il
finanziamento complessivo tra autoimprenditorialità e autoimpiego di Invitalia.
Nel 2015 i finanziamenti per l’autoimpiego da parte dell’Agenzia si sono fermati.
Nel 2016 però, il CIPE, ovvero il Comitato Interministeriale per la
Programmazione Economica, ha riassegnato quaranta milioni di euro a Invitalia
per gestire il rifinanziamento dell’Autoimpiego nelle regioni del Mezzogiorno20.
Questo stanziamento sarà utilizzato per la valutazione di quelle domande che
erano rimaste in sospeso (circa tremila). Certamente è un buon modo di
“tamponare” momentaneamente la situazione. Resta il fatto che però queste
regioni, forse più di tutte, hanno bisogno di essere costantemente valorizzate e si
spera che l’ente pubblico possa, in maniera continuativa, cercare di programmare
e finanziare progetti validi.
19
Invitalia, Misure per l’autoimpiego, Roma (2013). 20
http://www.invitalia.it/site/new/home/cosa-facciamo/creiamo-nuove-aziende/autoimpiego/40-milioni-autoimpiego-cipe.html (consultazione effettuata il 04 /02/2017).
82
Fig. 3.1: Investimenti e agevolazioni di Invitalia
Fonte: Invitalia (2015).
Una possibile terza strada è il meccanismo del cosiddetto “incubatore
d’impresa”21: in pratica, esso è un luogo in cui un’idea imprenditoriale viene
supportata concretamente per essere indirizzata in tempi ristretti a un mercato di
potenziali finanziatori. Un meccanismo che si spera possa essere virtuoso che
permette ad un’idea ancora in fase embrionale di trasformarsi velocemente in
impresa grazie all’immediata disponibilità di risorse finanziarie e la consulenza
di esperti. Dopo una prima fase di incubazione, grazie al reperimento e alla
selezione di investitori, la start up si affaccia sul mercato ed è in grado di
produrre servizi e prodotti. Un meccanismo che non solo genera lavoro per chi
avvia la start up, ma moltiplica i posti di lavoro: la piccola attività, infatti, grazie
al sostegno finanziario, si affermerà sul mercato, ingrandendosi nel tempo e
assorbendo nuova forza lavoro. Negli incubatori di impresa lavorano formatori,
tutor e manager, con competenze in strategia aziendale, marketing e finanza, che
analizzano l’idea, ne valutano le possibilità economiche e finanziarie,
21
M. Auricchio, Gli incubatori d'impresa in Italia, Banca d’Italia, Roma (2014).
83
quantificano e allocano le risorse necessarie per dare vita al progetto, assistono i
futuri imprenditori nella gestione dell’attività e del business (formulazione del
business plan, strategia di marketing, etc.), selezionano i potenziali finanziatori.
In molti casi sono proprio gli investitori a rivolgersi agli incubatori e a valutare le
probabilità di successo sul mercato.
L’incubatore d'impresa, quindi, diventa essenziale nel momento in cui
un'impresa vuole avvicinarsi ai finanziatori e viceversa, e il suo ruolo risiede nel
raffinare l’idea e renderla appetibile per gli investitori. L’incubatore d’impresa è
utile nello sviluppo dell’idea imprenditoriale: il cosiddetto “Business Angel”
fornisce i mezzi finanziari necessari all’avvio dell’iniziativa e il “Venture
Capitalist” contribuisce al capitale di rischio per consolidare la start-up. Nello
specifico: i “Venture Capitalist” sono i soggetti che accettano di investire nel
capitale di rischio di una start up poiché si aspettano un aumento del valore di
quel capitale nel tempo. Le operazioni di investimento vengono effettuate
attraverso aumenti di capitale e partecipazione attiva al business. I soggetti che
erogano capitale sono investitori istituzionali (come per esempio i fondi pensione
o le istituzioni bancarie) che non potrebbero svolgere direttamente tale attività,
ma al tempo stesso sono interessati ai ritorni ottenibili anche nel lungo periodo.
Invece, i “Business Angel” sono investitori, per lo più singoli individui, nella
maggior parte dei casi professionisti con attività non direttamente legate a questo
genere di investimenti, ma che dispongono di un cospicuo patrimonio e di una
spiccata inclinazione all'imprenditorialità per investire nel capitale di rischio di
piccole start-up o piccole iniziative alle prime fasi di sviluppo. Spesso il loro
investimento deriva da una personale e diretta relazione con il neo-imprenditore.
Si noti che questo sistema è finanziato da investitori privati, ma viene promosso
attivamente dal Ministero dello Sviluppo Economico22 attraverso la sinergia con
22
Decreto Ministeriale 22 febbraio 2013 n. 91.
84
le Camere di Commercio italiane23 le quali programmano ogni modello possibile
di incubatore d’impresa, regione per regione.
Una quarta via molto interessante, dedicata a coloro che hanno già una
partita IVA o sono già titolari d’impresa, arriva direttamente dall’Unione
Europea attraverso il Fondo Europeo per gli Investimenti, il cosiddetto “FEI”24.
Esso è una delle principali istituzioni europee, nato nel 1993 con sede in
Lussemburgo ha l'obiettivo di sostenere la creazione, la crescita e lo sviluppo
delle piccole e medie imprese. A partire da marzo 2016 sono erogati fondi pari a
un miliardo di Euro per sostenere e poter creare nuove PMI italiane. I fondi
vengono gestiti dal Fondo di Garanzia del Ministero dello Sviluppo Economico
che a sua volta sostiene le piccole medie imprese attraverso i “confidi”, ovvero
società di mutua garanzia che forniscono garanzie economiche alle PMI (si
possono citare esempi come: l’organizzazione Confidi Systema25, oppure
Fidicomet26). In altri termini: con il Fondo di garanzia per le piccole e medie
imprese, l’Unione europea e l’Italia affiancano le imprese e i professionisti che
hanno difficoltà ad accedere al credito bancario perché non dispongono di
sufficienti garanzie. La garanzia pubblica, in pratica, sostituisce le costose
garanzie normalmente richieste per ottenere un finanziamento.
La garanzia del Fondo è un’agevolazione del Ministero dello sviluppo
economico, finanziata anche con le risorse europee che può essere attivata solo a
fronte di finanziamenti concessi da banche, società di leasing e altri intermediari
finanziari a favore di imprese e professionisti. Il Fondo non interviene
direttamente nel rapporto tra banca e cliente. La contrattazione dei tassi di
interesse oppure le condizioni di rimborso ed altri elementi, sono lasciati alla
discussione tra le parti. Possono essere garantite le imprese di micro, piccole o
medie dimensioni iscritte al Registro delle Imprese e i professionisti iscritti agli
23
http://www.filo.unioncamere.it/P43K115O0/incubatore-d-impresa.htm (consultazione effettuata il 04/02/2017). 24
A. Bonifazi, A. Giannetti, Finanziare l’impresa con i fondi europei, Ipsoa, Milano (2014). 25
http://www.confidisystema.com/ (consultazione effettuata il 04 /02/2017). 26
http://www.fidicomet.com/ (consultazione effettuata il 04 /02/2017).
85
ordini professionali o aderenti ad associazioni professionali iscritte all’elenco del
Ministero dello Sviluppo Economico. L’impresa e il professionista sono poi
valutati per capire se saranno in grado di rimborsare il finanziamento garantito.
Devono perciò essere considerati economicamente e finanziariamente sani sulla
base di appositi modelli di valutazione che utilizzano i dati di bilancio (o delle
dichiarazioni fiscali) degli ultimi due esercizi. Le start up sono invece valutate
sulla base di piani previsionali. L’intervento è concesso, fino ad un massimo
dell’80% del finanziamento, su tutti i tipi di operazioni sia a breve sia a medio-
lungo termine, tanto per liquidità che per investimenti. Il Fondo garantisce a
ciascuna impresa o professionista un importo massimo di 2,5 milioni di euro, un
“plafond” che può essere utilizzato attraverso una o più operazioni, fino a
concorrenza del tetto stabilito, senza un limite al numero di operazioni
effettuabili. Il limite si riferisce all’importo garantito, mentre per il finanziamento
nel suo complesso non è previsto un tetto massimo. L’aspetto ancor più
interessante è che possono essere garantiti i soggetti appartenenti a qualsiasi
settore con l’eccezione delle attività finanziarie.
In conclusione, questi sono i principali interventi pubblici garantiti alla
stragrande maggioranza dei richiedenti, senza distinguere l’età e il sesso. Si può
affermare che le opportunità sono molte a livello nazionale. Ma quanto a lungo
dureranno? E, nel caso servisse, verranno rifinanziati? Rispetto alla prima
domanda vi è una relativa certezza: sicuramente fino al termine della Strategia
Europea, ovvero nel 2020. Ma alla seconda domanda non è possibile dare una
risposta, anzi si può rispondere con una domanda: se nel 2020 questi interventi
non saranno considerati efficaci, sarà necessario modificarne il loro intervento? Il
problema è che in assenza di monitoraggio e valutazione potrebbe risultare
difficile sapere se sono efficaci o meno. Di conseguenza, se dovesse esistere un
monitoraggio efficace e una valutazione concreta, in quel caso si potrebbe
decidere se rifinanziarli. Solo col tempo si potrà scoprirlo, nel frattempo è
compito delle istituzioni pubbliche continuare a lavorare perché gli obiettivi e le
scadenze vengano rispettate. Alterne fortune sta avendo Garanzia Giovani in
86
Italia e nel prossimo paragrafo si spiegherà il funzionamento e come un giovane
può essere incentivato ad affacciarsi sul mondo del lavoro e dell’imprenditoria.
3.3 La storia di Garanzia Giovani a livello nazionale e l’efficacia
del Programma
Garanzia Giovani nasce formalmente il 22 aprile 2013 tramite una
Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea27. L’obiettivo che devono
perseguire gli Stati membri è quello di dare ai giovani al di sotto dei ventinove
anni di età un’offerta di lavoro complessiva qualitativamente valida, di
proseguimento agli studi in maniera agevolata, di apprendistato, di tirocinio o
altra misura di formazione entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o
dall’uscita del sistema d’istruzione formale. La natura dell’iniziativa è
essenzialmente preventiva: l’obiettivo è quello di offrire prioritariamente
una risposta ai giovani che ogni anno si affacciano al mercato del lavoro dopo la
conclusione degli studi, ma nello specifico contesto italiano tale iniziativa deve
prevedere anche azioni mirate ai giovani disoccupati e scoraggiati, che hanno
necessità di ricevere un’adeguata attenzione da parte delle strutture preposte alle
politiche attive del lavoro, pubbliche e private. Il programma è finanziato da
risorse nazionali e dall’Europa in due versanti: dal “Youth Employment
Initiative”28 e dal Fondo Sociale Europeo. Successivamente la Garanzia viene
resa operativa grazie a un Piano di attuazione elaborato dagli Stati membri. La
Raccomandazione in materia di Garanzia Giovani rappresenta un’innovazione
importante nelle iniziative europee di sostegno alle politiche giovanili e l’Italia
sta cercando di darne applicazione.
27
Raccomandazione 2013/C 120/01 del 22 aprile 2013. 28
Commissione Europea, Youth Employment Initiative (YEI) (2013).
87
Il contesto economico in cui è stato applicato questo programma fa molto
riflettere: in conseguenza della crisi economica iniziata nel 2008, il mercato del
lavoro italiano ha attraversato negli ultimi anni una fase di profonda crisi. Tra il
2008 e il 2016 la quota di occupati si è contratta di quasi 2 punti percentuali, per
poi risalire leggermente negli ultimi due anni; l’unica componente della
popolazione che ha visto incrementato il relativo tasso di occupazione è stata
quella dei 55-64enni29, con un aumento di oltre 6 punti percentuali.
Parallelamente, la quota di forza lavoro disoccupata è cresciuta di 4,6 punti
percentuali, il che si traduce in 2 milioni e 744 mila persone in cerca di lavoro,
vale a dire 1,2 milioni di disoccupati in più rispetto al 2008 e anche questo dato si
è abbassato soltanto leggermente negli ultimi anni. Le crescenti difficoltà
nell’accesso all’occupazione hanno generato anche un aumento generalizzato dei
tempi di ricerca di lavoro praticamente per tutte le categorie della popolazione.
Nel 2015 la percentuale di disoccupati da almeno 12 mesi superava il 58,1%,
contro il 56,3% del 2014 e il 54,8% del 201330. Rimangono significativamente
più bassi della media i tassi di occupazione delle persone con bassi livelli di
istruzione: dall’inizio della crisi economica il tasso di occupazione è diminuito di
3 punti percentuali per coloro che sono in possesso della sola licenza elementare
e di 5,4 per le persone in possesso della sola licenza media31. I giovani sono
sicuramente la fascia di età maggiormente colpita dalla crisi occupazionale in
atto: nel 2013 il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) è stato pari al
40% e i primi tre trimestri del 2014 hanno registrato un ulteriore rialzo, con un
profilo sostanzialmente analogo tra maschi e femmine (per le quali si registra
tuttavia un minor tasso di partecipazione al mercato del lavoro). Particolarmente
grave è la situazione del Mezzogiorno, in cui il tasso di disoccupazione giovanile
rasenta il 47% e in cui il tasso di occupazione è bloccato al 13,2% (a fronte del
18,6% nazionale e del 32,8% della media europea). Preoccupa, in particolare, il
fenomeno dei giovani 15-24enni non impegnati in un’attività lavorativa, né 29
Istat, Tassi di occupazione 2005-2016. 30
Istat, Rapporto del mercato del lavoro n. 8 (2015). 31
Istat, Tassi di disoccupazione 2005-2016.
88
inseriti in un percorso scolastico o formativo (NEET), stimabili in circa 1,27
milioni (di cui 181 mila stranieri), il 21% della popolazione di questa fascia di
età, percentuale che supera il 30% in alcune delle più importanti regioni del
Mezzogiorno (Campania, Calabria, Sicilia)32.
Fig. 3.2: Andamento dell’occupazione 2008-2016.
32
Istat, NEET (giovani non occupati e non in istruzione e formazione) 2004-2017.
90
Fig. 3.5: Tasso di disoccupazione 2008-2016.
Fig. 3.6 Tasso di disoccupazione giovanile nel 2014.
Fonti: Istat (2015).
91
Analizzando i dati delle figure 3.3, 3.4, 3.5, 3.6 si evince che l’Italia ha
bisogno di essere sostenuta attivamente, soprattutto in termini di un sostegno
concreto verso i giovani. Infatti, già il decreto legislativo 21 aprile 2000 n. 181,
prevedeva, nei confronti dei giovani (fino a venticinque anni compiuti o, se in
possesso di un diploma universitario di laurea, fino a ventinove anni compiuti),
una garanzia di offerta, entro quattro mesi dall’inizio dello stato di
disoccupazione, di “una proposta di adesione ad iniziative di inserimento
lavorativo o di formazione o di riqualificazione professionale od altra misura che
favorisca l’integrazione professionale”. La “Garanzia per i giovani”, quanto
meno con riferimento a coloro che si registravano presso i Servizi competenti (ai
sensi del Decreto Legislativo n. 181), era quindi già parte della legislazione
nazionale sin dal 2002 (anno di introduzione di tale disposizione). Non è invece
stata legiferata la componente di garanzia destinata ai giovani, in uscita dal
sistema d’istruzione formale, che non si iscrivano ai servizi per l’impiego.
Nonostante la legislazione abbia per lo più fissato i livelli essenziali delle
prestazioni, quanto meno per alcune categorie di beneficiari, mancava ancora la
piena effettività di tale legislazione e mancava, inoltre, un sistema omogeneo ed
organico in grado di monitorare i servizi erogati e consentire la valutazione
dell’efficacia degli stessi. Sul fronte del coinvolgimento dei giovani in uscita dal
sistema d’istruzione formale andava poi valorizzato il contributo del sistema
scolastico come “punto di partenza” informativo e di primo orientamento. Per i
motivi sopra descritti, l’attuazione della Garanzia costituisce al contempo una
sfida per l’Italia ed una grande opportunità per la sperimentazione di un più
efficace sistema di “presa in carico”33 dell’utente, analisi dei fabbisogni
individuali, attivazione basata sulla obbligazione reciproca (“mutual
obbligation”) in cui l’ente accreditato e il giovane che richiede il supporto
rispettino i doveri previsti dal programma: nel primo versante la “presa in carico”
deve essere realizzata concretamente, ovvero che l’ente possa offrire un percorso
spendibile, formativo e utile (per esempio, stage con scopo di assunzione o con
33
P. Stern, Jobs Act: I nuovi ammortizzatori sociali, Maggioli Editore, Rimini (2015).
92
formazione utile da segnalare nel proprio curriculum). Nell’altro versante, se il
percorso offerto è efficace, il giovane deve partecipare attivamente per portarlo a
termine: non può e non deve rifiutarsi di fare qualcosa che sia congruo al suo
percorso di studi o alla sua esperienza lavorativa.
Garanzia Giovani, brevemente, offre i seguenti servizi34: in una prima
fase, presso lo sportello di un ente pubblico oppure privato che viene indicato
dalla Regione in cui si è residenti, si viene informati sui contenuti e sui servizi
previsti dal Programma in ambito regionale. L’operatore, poi, ha il compito di
fornire tutte le informazioni nel modo più chiaro possibile per facilitare
l’orientamento rispetto ai servizi disponibili. Con l’aiuto dell’operatore, l’utente
può registrarsi al programma, conoscere tutti gli enti coinvolti, scoprire tutte le
opportunità formative e lavorative e conoscere le modalità di accedervi. Dopo
una prima fase informativa di accoglienza, inizia l'orientamento vero e proprio.
Presso il servizio competente che è stato assegnato dalla Regione, si svolge un
colloquio individuale con un operatore, il quale dovrebbe essere in grado di
capire le esigenze, i bisogni e necessità che il giovane può avere. Al termine del
colloquio, l'operatore individuerà un percorso di inserimento personalizzato che
dovrà essere coerente con le caratteristiche personali, formative e professionali (il
cosiddetto meccanismo di “profiling”). Verrà consigliato, quindi, il percorso più
adatto che può consistere nel proseguimento degli studi, nello svolgimento di un
tirocinio, in una esperienza lavorativa o nell'avvio di un'attività in proprio. Segue
poi una fase di formazione immediatamente spendibile all’interno del mercato
del lavoro. Per competere in un ambiente contraddistinto da cambiamenti
sostanziali e continui, è fondamentale acquisire un bagaglio culturale e personale
che aiuti ad entrare in maniera qualificata e qualificante nel mondo del lavoro. Il
Programma prevede dunque di poter dare la possibilità all’utente di fare un
percorso di formazione orientato all’inserimento lavorativo, al reinserimento nei
percorsi di formazione per i più giovani e servizi in grado di sostenere lo
34
Piano di attuazione italiano della Garanzia per i Giovani (2013).
93
sviluppo e il perfezionamento delle attitudini imprenditoriali, per sostenere
l'avvio di attività di lavoro autonomo o di impresa.
Concentrandosi su quest’ultimo versante, Garanzia Giovani promuove
attivamente l’autoimprenditorialità. Sono previsti servizi in grado di sostenere lo
sviluppo e il perfezionamento delle attitudini imprenditoriali, per sostenere
l'avvio di attività di lavoro autonomo o di impresa. L'accompagnamento dalla
fase di start-up alla realizzazione dell'idea imprenditoriale, anche grazie agli
incentivi per la creazione di impresa, è reso disponibile a livello nazionale e
regionale. Gli operatori qualificati propongono un percorso di formazione mirata
e assistenza personalizzata nelle varie fasi di sviluppo del progetto
imprenditoriale: percorsi di formazione specialistici fino alla stesura del business
plan, supporto alla fase di startup, mediante l'accesso agli strumenti di credito,
per le iniziative meritevoli. Assolutamente rilevante, in questo aspetto, il
sostegno che viene dato ai “Neet” attraverso il fondo “SELFIEemployment”35:
gestito da Invitalia, il Fondo finanzia le iniziative imprenditoriali promosse,
appunto, da questi soggetti più svantaggiati sul mercato del lavoro, attraverso la
concessione di prestiti a tasso zero, a partire da cinquemila Euro fino ad arrivare
a cinquantamila Euro. La modalità di partecipazione è attraverso la realizzazione
di un proprio e valido business plan, valutato poi da una commissione. Come si
accennava prima, esso può essere redatto all’interno del programma Garanzia
Giovani.
L’evoluzione di Garanzia Giovani potrebbe essere, dunque, molto
promettente, incentivando il “creare impresa”. Il lavoro da fare però è ancora
molto, perché l’intervento non è stato completamente efficace in tutte le regioni
d’Italia, soprattutto per quanto riguarda l’attrazione del programma verso i
“Neet”. Nella figura 3.7 si può notare il confronto tra il numero dei registrati al
Programma sul totale dei giovani e il bacino potenziale dei “Neet” sul totale
regione per regione. Analizzando attentamente si nota che il tasso di adesione è
stato abbastanza elevato soprattutto nel sud, con una buona percentuale in
35
Invitalia, Fondo rotativo nazionale Selfiemployment, Roma (2016).
94
Campania e in Sicilia. Questi dati sono fortemente influenzati dal fatto che nel
sud dell’Italia si concentra maggiormente la quota di “Neet”.
L’intervento più efficace è stato, senza dubbio, l’autoimprenditorialità
giovanile soprattutto nel settore agricolo, come si accennava nel secondo
capitolo. Nelle altre regioni coinvolte nel sud Italia deve comunque esserci
necessariamente un futuro miglioramento, le percentuali sono basse rispetto al
numero totale dei giovani. Stesso ragionamento per quanto riguarda il nord e il
centro Italia: il tasso di risposta al Programma è basso in quasi tutte le regioni,
con eccezioni in Lombardia e nel Lazio, in cui la percentuale si alza lievemente.
Una buona percentuale sui “Neet” è stata raggiunta in Lombardia, ma è ancora
insufficiente per affermare che sia efficace. Basti pensare che sul totale degli
iscritti al programma, soltanto a circa duecentomila giovani è stata erogata una
prestazione concreta, come quelle di cui si discuteva qualche riga sopra. E
soltanto circa trentamila poi sono stati ricollocati36. Occorre dunque che il
Programma non rimanga un’iniziativa isolata, ovvero scarsamente sinergica al
mondo del lavoro e la relativa strategia occupazionale37. Non potrà fare molto se
dovesse rimanere tale in futuro. Il Programma deve sempre attrarre di più nuovi
giovani, attraverso la promozione del programma stesso, su internet, sui social
network, in televisione e in ogni ente, dagli enti intermedi (organizzazioni
sindacali e tutti gli enti intermedi, pubblici e privati) fino ad arrivare alle scuole
per favorire l’alternanza scuola-lavoro. E promuovere anche e soprattutto
l’iniziativa imprenditoriale, vero motore per una possibile ripartenza del nostro
Paese. La regione Lombardia sta investendo parecchio su questo fattore e nel
prossimo paragrafo si analizzeranno gli interventi di finanziamento che l’ente
pubblico regionale può proporre al soggetto richiedente.
36
F. Seghezzi, Garanzia Giovani, oltre il milione di iscritti niente, Secondo Welfare (2016). 37
P. Vesan, R. Lizzi, La Garanzia giovani in Italia e l'approccio del new policy design: tra aspettative, speranze e delusioni, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 11(1), 57-86 (2016).
95
Fig. 3.7: tasso di registrazione a Garanzia Giovani e bacino potenziale di “Neet”.
Fonte: Elaborazione Isfol su dati stat-RCFL e Mlps-BDPAPL (dati al 31/03/2016).
96
3.4 Garanzia Giovani in Lombardia e il finanziamento regionale
all’autoimprenditorialità
Il programma Garanzia Giovani in Lombardia ha avuto buoni riscontri,
anche a causa della presenza di forme di politiche attive già pre esistenti38.
Secondo l’ultimo Rapporto datato gennaio 201739 circa 135mila giovani hanno
scelto la Lombardia come regione di attuazione del Programma, ovvero aderendo
ai programmi specifici proposti. Circa 95mila si sono iscritti sul sito regionale, la
restante parte dal sito nazionale.
Fig. 3.8: Confronto fra Lombardia e il resto dell’Italia.
Fonte: Regione Lombardia (2017).
38
F. Pastore, Fuori dal tunnel: le difficili transizioni dalla scuola al lavoro in Italia e nel mondo, Giappichelli Editore, Torino (2016). 39
Garanzia Giovani, Rapporto Regione Lombardia dalla data di avvio fino al 16 gennaio 2017, Milano, (2017)
97
Dall’iscrizione al programma fino all’effettiva presa in carico dell’ente,
però, c’è ancora del lavoro da fare: dei circa 110mila giovani che hanno
completato l’adesione, soltanto circa 85mila sono poi stati presi in carico
dall’ente accreditato, pubblico e privato. Certamente si può affermare che non sia
un dato totalmente negativo, anzi, è certamente positivo. Il problema però nasce
dalla serietà di alcuni enti che non lavorano affatto e che si rifiutano o che non
vogliono prendere in carico i giovani: c’è una forte possibilità di “sbagliare” la
scelta dell’ente senza che l’utente ne sia consapevole. Oppure il giovane sceglie
l’ente, esso gli attiva il programma e poi non viene seguito. Oppure ancora, l’ente
propone un tirocinio soltanto per accaparrarsi i soldi della Regione. Una
soluzione potrebbe essere un maggior monitoraggio da parte del Ministero del
Lavoro, per andare a sanzionare quegli enti che non svolgono correttamente la
loro funzione. Infatti, dopo che il programma è stato attivato, soltanto circa
76mila giovani sono poi stato collocati sul mondo del lavoro. Non è un dato
negativo, ma se aumentasse la presa in carico e un maggior coordinamento con le
aziende, certamente aumenterebbe anche la probabilità di essere collocati e
quindi un maggior numero di giovani attivi sul mercato del lavoro.
Fig. 3.9: Il percorso di Garanzia Giovani.
98
Un buon risultato, comunque, è stata l’evoluzione delle prese in carico
rispetto al 2015. Si pensi che nel marzo 2015 erano soltanto circa 14mila, mentre
nel 2017 si è arrivati a una presa in carico complessiva del dato sopracitato.
Occorre precisare inoltre un altro elemento: dei circa 86mila presi in carico, il
47% sono nella “fascia alta di aiuto”, ovvero coloro che mediamente sono più
difficilmente ricollocabili sul mercato del lavoro, sia per esperienza, sia per titolo
di studio. Il 28% nella “fascia bassa”, il 14% nella “fascia media” e l’11% nella
“fascia molto alta”. Su questo ultimo dato c’è una riflessione da compiere: tra
tutti i giovani, coloro che indubbiamente hanno bisogno di aiuto sono questi
ultimi. Eppure, è la percentuale più bassa di presa in carico da parte degli enti.
Occorre quindi monitorare più efficacemente e scoprire il perché ne vengano
presi in carico così pochi. Dunque, tentare di dare una maggior tutela a questi
soggetti, attraverso l’incentivazione a riprendere gli studi, sia tecnici sia
professionali e quindi segnalare le aziende questi giovani che possono svolgere
una professione appresa.
Fig. 3.10: Andamento delle “prese in carico”.
Fonte: Regione Lombardia (2017).
99
Fig. 3.11: La percentuale dei “presi in carico”.
Fonte: Regione Lombardia (2017).
Si diceva qualche riga sopra che l’inserimento effettivo all’interno del
mercato del lavoro è stato di circa 76mila giovani. Bisogna però capire in che
modo sono stati assunti i giovani: i dati ci dicono che circa 36mila sono tirocini
di formazione, i cosiddetti “stage extracurricolari” e circa 39mila assunzione vere
e proprie con contratto di lavoro subordinato. Il primo dato dà qualche pensiero:
gli “stage” attivati hanno garantito un futuro ai giovani? In molti casi la risposta è
no. E il problema è che nemmeno la formazione è stata correttamente effettuata
all’interno dell’azienda: gli stagisti sono stati presi solo per avere qualche
lavoratore quasi “gratis” in più, per una durata semestrale. Occorre anche in
questo caso monitorare. Attenzione, non monitorare sulle assunzioni: se lo stage
è realizzato in maniera dignitosa sul curriculum del ragazzo ha una sua rilevanza,
anche se poi non è avvenuto alcun futuro contrattuale con quell’azienda. Il
monitoraggio deve essere compiuto sull’effettiva formazione, da parte dell’ente
pubblico, come la Direzione Territoriale del Lavoro e una tutela da parte dei
sindacati. Sui restanti assunti il dato è abbastanza incoraggiante, ma la maggior
parte di loro è stata assunta a tempo determinato e nemmeno per lungo tempo,
100
come si evince dalla figura 3.12. Anche in questo caso vale l’interrogativo di
prima: il contratto a tempo determinato ha garantito un futuro nell’azienda?
Anche in questo caso la risposta è: in molti casi no, vista la brevità del tempo
lavorato in azienda. Però c’è da dire che un’esperienza di lavoro potrebbe essere
più spendibile in altre aziende rispetto che a un’esperienza di stage. Poco
valorizzati, inoltre, sono i contratti di apprendistato e i contratti a tempo
indeterminato. Questo dato però è fortemente influenzato dalle condizioni
avverse del nostro attuale mercato, in cui le aziende fanno sempre più fatica a
prendersi “impegni a lungo termine” e meno incentivate a pagare la formazione.
Ulteriormente, la maggior parte dei contratti a tempo indeterminato sono stati
attivati anche grazie agli incentivi dati dal Jobs Act, in cui per i primi tre anni alle
aziende viene garantito il rimborso delle tasse e dei contributi versati. Quindi,
anche grazie agli sgravi fiscali esiste qualche contratto a tempo indeterminato in
più.
Fig. 3.12: Modalità di assunzione.
Fonte: Regione Lombardia (2017).
Ultimo aspetto che si vuole analizzare è quello territoriale. C’è un divario
netto di attivazione su Milano rispetto a tutte le altre province lombarde. Questo
101
dato è influenzato notevolmente per un fattore rilevante : la maggior parte degli
enti di accreditamento, soprattutto quelli privati, sono concentrati intorno al
capoluogo. Questo può risultare certamente un aspetto positivo per chi abita in
zona, ma anche negativo per chi abita lontano dalla metropoli. Occorre anche in
questo caso una maggiore incentivazione di accreditamento agli enti nelle zone
lombarde, cosicché sempre più giovani possano accedere al Programma.
Fig. 3.13
Fonte: Regione Lombardia (2017).
Tra tutti gli altri servizi, il Programma Garanzia Giovani in Lombardia
valorizza anche l’autoimprenditorialità e lo fa attraverso un servizio specifico
basato su corsi di formazione professionale. Nello specifico, a partire dal gennaio
2016 e fino a marzo 2018 la Regione ha messo a disposizione cinque milioni di
Euro. La misura è stata attivata dalla Direzione Generale Sviluppo Economico
della Regione stessa e rientra tra gli impegni assunti nell’Accordo di programma
per lo Sviluppo Economico e la Competitività del Sistema Lombardo sottoscritto
102
da Regione Lombardia e dal Sistema delle varie Camere di Commercio
lombarde40. I destinatari sono gli stessi di cui si accennava nel paragrafo
precedente: tutti i giovani dai diciotto ai ventinove anni di età compiuti, a patto
che siano disoccupati o inoccupati (cioè che stanno cercando attivamente lavoro
oppure no), che non stiano già frequentando un percorso di studi e che non
abbiano già un percorso di “stage” attivato.
Come sempre, I giovani, dopo aver usufruito di primi servizi di
accoglienza, definizione del percorso, bilancio competenze, colloquio
specialistico possono accedere a questi corsi gratuiti: innanzitutto una parte
formativa su come redigere il business plan, sul modello citato nel secondo
capitolo; successivamente si può usufruire di un’assistenza personalizzata per la
progettazione dell’attività imprenditoriale o di lavoro autonomo; una volta
istituita la propria impresa, si garantisce un servizio di “mentoring” e
affiancamento nel “post” costituzione della propria attività. Chi può svolgere
queste funzioni? Sono abilitate le varie Camere di Commercio le quali, una volta
scelta quella più vicina all’utente, convoca l’interessato e gli propone un Piano di
Intervento Personalizzato.
Parallelamente all’intervento organizzato da Garanzia Giovani, c’è un
intervento formativo alternativo. Può capitare che, come si è detto qualche riga
sopra, che l’utente, nonostante sia iscritto al Programma, non stia ricevendo
alcun intervento formativo. Per questo motivo, in via sperimentale fino a tutto il
2017 è nata l’iniziativa “Crescere Imprenditori”41: è dedicata a tutti i giovani,
soprattutto “neet”, che hanno in mente un’idea imprenditoriale e che non stanno
ricevendo nessuna politica attiva. Il Programma è subordinato al superamento di
un test online sul sito del Governo di “ClicLavoro”. Una volta superato il test, il
nominativo dell’utente sarà inoltrato alle Camere di commercio delle province
d’interesse, ovvero dove la persona preferisce frequentare il percorso di
formazione e accompagnamento alla creazione d'impresa che gli verrà proposto. 40
Accordo di programma per lo sviluppo economico e la competitività del sistema Lombardo, Asse 1-2-3 (2016). 41
Filo Unioncamere, Crescere Imprenditori (2016).
103
Il corso si orienterà indicativamente in due fasi: la prima attività svolta in gruppo
e la seconda più specializzata e di assistenza tecnica a livello personalizzato.
Terminata questa fase di formazione i giovani che porteranno a termine il
percorso - e avranno quindi redatto il piano d'impresa - potranno presentare
domanda per accedere ai finanziamenti del “Fondo SELFIEmployment”, il fondo
gestito da Invitalia, esposto nel terzo paragrafo.
Inoltre, successivamente all’accompagnamento all’impresa offerto da
Garanzia Giovani e da “Crescere Imprenditori” è interessante ciò che offre la
Regione: un’ulteriore erogazione di fondi al fine di finanziare una propria idea di
business. Dal 2014 e fino al 2020 sta avendo luogo il bando “Intraprendo”42, cioè
la possibilità che l’ente pubblico possa garantire al richiedente una parte dei
fondi necessari per l’apertura di una nuova attività imprenditoriale. Sulla base
della presentazione di un business plan strutturato come spiegato nel capitolo
precedente, una commissione analizza l’idea e se il progetto è “credibile” a
livello economico la regione lo finanzia e dà tempo novanta giorni per aprire
l’attività che si è proposta. Si possono scegliere tre modalità di inizio attività
diverse: o con partita IVA e quindi un’attività di lavoro autonomo, o una start up
innovativa, oppure una classica azienda. Inoltre, questa possibilità la si concede
non solo ai disoccupati, ma anche chi ha attualmente un contratto di lavoro
oppure una partita IVA da meno di due anni, purché il professionista non sia
socio con nessuna azienda.
La Regione eroga fino al 60% di quanto si spende, fino a un massimo di
sessantamila Euro erogabili, di cui seimila a fondo perso e 54mila con un prestito
a tasso zero, da restituire entro massimo sette anni. La convenienza ulteriore è
che la restituzione del prestito parte dal diciottesimo mese di attività. C’è però
una condizione da tenere d’occhio: per accedere a questo canale, chi vuole fare
impresa deve necessariamente spendere almeno 42mila Euro, necessari per poter
chiedere il prestito minimo di 25mila Euro. Questo incentivo ha importi superiori
a quelli proposti da “SELFIEmployment” e quindi la base di partenza finanziaria
42
Regione Lombardia, Linea INTRAPRENDO (2014).
104
personale deve anche essere relativamente elevata (se si fa un calcolo, almeno
17mila Euro bisogna averli). È certamente interessante il bando Intraprendo, ma
è dedicato soltanto ad alcune ristrette categorie di persone. È vero anche che chi
ha una buona base finanziaria e una voglia di investire, certamente questo
intervento è ben strutturato.
Infine, una dinamica potenziale da poter utilizzare per le imprese già
costituite è il finanziamento di “Credito Adesso”43. Essa è un’iniziativa per
finanziare il fabbisogno di capitale circolante connesso all’espansione
commerciale delle imprese operanti in Lombardia e con organico fino a 3.000
dipendenti mediante la concessione di finanziamenti senza dover dare alcuna
garanzia. A partire dal 2016 sono a disposizione 500 milioni di Euro da poter
richiedere per finanziare il fabbisogno di capitale connesso all’espansione
commerciale dell’impresa, ovvero all’acquisto di beni o servizi. Questo
stanziamento sta avendo un buon successo, con oltre 1500 imprese finanziate su
tutto il territorio lombardo44.
In conclusione, la Regione Lombardia, col supporto dei vari Ministeri, sta
mettendo in campo politiche certamente ottime dal punto di vista dell’idea, ma
ancora da potenziare nella realtà. Nel breve periodo i risultati sono quelli esposti,
si spera che nel lungo periodo possa esserci un notevole miglioramento dal punto
di vista del supporto di ogni utente che si rivolge a tutti i programmi previsti, ma
soprattutto una stimolazione nel “fare impresa” attraverso la promozione attiva
(che non è ancora del tutto presente) di tutti i bandi. Occorre quindi che gli enti
intermedi, dalle Camere di Commercio alle organizzazioni sindacali, riescano a
raggiungere l’utenza, informandoli sempre di più sulle varie iniziative, attraverso
i social network, docenze dedicate nei corsi di formazione, newsletter via mail e
ogni mezzo possibile da poter sperimentare.
43
Finlombardia, Regione Lombardia, Credito Adesso: ricarica la tua impresa, Milano (2016). 44
http://www.vendorsrl.it/risultati-credito-adesso-finanziate-oltre-1500-imprese/ (Consultazione effettuata il 04/02/2017).
105
Riflessioni conclusive
In questo capitolo si è tentato di fare un quadro generale riguardo agli
interventi italiani per sostenere economicamente il lavoro e l’impresa. Si è però
notato come il lavoro da fare sia ancora molto: i risultati non sono così negativi,
soprattutto come si è visto in Lombardia. Ma ancora oggi, nel 2017, la situazione
italiana sulla disoccupazione, soprattutto quella giovanile, è sin troppo elevata,
con tassi ampiamente a due cifre. I posti di lavoro si possono creare soltanto se
c’è un investimento da parte dalle imprese, almeno per quanto riguarda il settore
privato. È dunque fondamentale cercare sempre di più di accompagnare e
incentivare la creazione di nuovi luoghi di lavoro. Per questo motivo serve un
sempre più maggior monitoraggio da parte dell’ente pubblico per capire quali
enti gestori dei vari Programmi sopra elencati stiano svolgendo correttamente il
loro lavoro di supporto e chi invece non lo fa in maniera adeguata. Dunque, si
può affermare che se “l’immagine” dei vari programmi verrà potenziata e
migliorata, una maggior utenza sarà invogliata a parteciparvi45. Le sensazioni che
purtroppo danno questi programmi a tutti i potenziali coinvolti è che siano un
costante “inganno” e che il lavoro da parte degli enti non venga fatto
adeguatamente46. Se in futuro il sistema diventerà virtuoso e le varie istituzioni
collaboreranno tra di loro senza creare “muri” invalicabili, sarà possibile
incentivare una crescita del nostro Paese. Inoltre le politiche attive non possono e
non devono fermarsi qui. Anche se in futuro i problemi lavorativi italiani saranno
più contenuti rispetto all’attuale periodo storico, ci saranno sempre persone da
dover sostenere attivamente, dai disoccupati agli imprenditori, soprattutto le
fasce più deboli, dalle donne, agli stranieri, ai giovani fino ad arrivare ai più
anziani. Per questo motivo si analizzerà nel prossimo capitolo come funziona
Fondazione Welfare Ambrosiano nella realtà di Milano: una fondazione privata
sostenuta anche dall’ente pubblico (il Comune di Milano) che aiuta le persone
45
P. Vesan, Garanzia Giovani, è arrivata l’estate?, Secondo Welfare (2016). 46
E. Di Nicola, Garanzia Giovani, la voce dei ragazzi delusi, Rassegna Sindacale (2016).
106
vulnerabili più direttamente colpite dagli effetti della crisi e che ha sviluppato
anche progetti volti a sostenere l’autoimprenditorialità.
107
CAPITOLO IV
Fondazione Welfare Ambrosiano: nuove forme di
sostegno ai soggetti vulnerabili e all’autoimprenditorialità
Introduzione
La Fondazione Welfare Ambrosiano sul territorio milanese, unica in Italia,
rappresenta un caso molto interessante da analizzare, sia sul tema del sociale, sia
sul tema del “fare impresa”. Tale fondazione è stata istituita nel settembre del
2009 diventando poi operativa a partire dal 20111. I suoi Soci Fondatori sono sia
enti pubblici, sia enti privati: il Comune e la Città Metropolitana di Milano, la
Camera di Commercio Industria, Artigianato e Agricoltura di Milano, la Camera
del Lavoro (CGIL) di Milano, CISL Unione Sindacale Territoriale di Milano
Metropoli e la UIL Milano e Lombardia2. Gli Enti Pubblici e Sindacati
Confederali Milanesi hanno voluto fondare questa realtà impegnandosi
fortemente nella sua ideazione e realizzazione (anche con mezzi economici
consistenti e mettendo a disposizione personale volontario) nell’intento di aiutare
attraverso uno strumento innovativo e particolare, i lavoratori e i cittadini in
difficoltà occupazionale ed economica.
La Fondazione opera su quelle “zone grigie”3 che possono essere motivo
del sorgere di particolari casi di esclusione sociale; i Soci Fondatori si sono
mossi nella ideazione di uno strumento opportuno riguardante la materia del
welfare, il cui impiego è finalizzato a rispondere sul territorio alle necessità
dell’individuo svantaggiato o del suo nucleo familiare. 1 Fondazione Welfare Ambrosiano, Report dicembre 2014, Milano (2014).
2 Fondazione Welfare Ambrosiano, Soci fondatori, Organi statuari, Organigramma
https://www.fwamilano.org/index.phtml?Id_VMenu=1008 (Consultazione effettuata il 17/02/2017). 3 Fondazione Welfare Ambrosiano, Mission.
108
Senza prendere il posto del pubblico e del privato nell’impegno sociale, la
Fondazione (le cui mosse hanno carattere sussidiario e non assistenziale) sostiene
e promuove l’intervento dei principali enti nel luogo dove operano, avviando un
sistema condiviso con tutti gli attori in gioco: la sfida di associare crescita
economica e organicità sociale, per fare fronte alle varie stadi di problematicità, il
declino demografico e le nuove povertà. Le risoluzioni proposte, inoltre, vanno a
“integrare” e non a “sostituire”: è un “di più” che la Fondazione offre per
soddisfare i bisogni delle persone. Per i tanti fattori in gioco si può dire che come
punto di partenza la Fondazione persegue (e continuerà a farlo) come sprone “la
Via del Welfare”4.
Tab. 4.1: l’ultimo bilancio della Fondazione
Bilancio al 31/12/2015
€ /00 €/00
STATO PATRIMONIALE 31/12/2015 31/12/2014
Totale altri crediti 167.003 165.390
Attività finanziarie che non costituiscono immobilizzazioni 5.948.000 5.988.000
Disponibilità liquide 2.643.902 528.658
Totale attivo circolante 8.758.905 6.692.048
CONTO ECONOMICO
Totale dei ricavi operativi 707.068 510.632
Totale dei costi operativi
(costi di gestione-personale escluso gli accantonamenti) - 720.243 - 429.177
Perdita d’esercizio - 13.243 81.455
Fonte: Fondazione Welfare Ambrosiano, Bilancio d’esercizio al 31/12/2015.
Analizzando la tabella con 4.1 che espone alcuni dati dell’ultimo bilancio
pubblicato nel 2015 e comparato all’anno precedente, si può notare quanto segue:
4 Fondazione Welfare Ambrosiano, Convegno 1 febbraio 2017, Camera di Commercio di Milano (2017).
109
1. Da queste poste di bilancio di può notare come nell’Esercizio 2015 sia
avvenuta una conferma sostanziale della tenuta dell’attività finanziaria e
delle disponibilità liquide, anzi quest’ultime hanno avuto un incremento
di quasi 2.5 milioni rispetto all’anno 2014, segno di una eccelsa mobilità
gestionale e di una stabilità economica dell’impresa non di poco conto.
2. In più il fatto della forte liquidità, cioè del denaro a disposizione, è un
indice che può dire che ci sono pochissimi e potenziali crediti inesigibili
o “teorici”: e quindi l’attività finanziaria rimane salda e investibile in
qualsiasi momento.
3. I ricavi di gestione non sono andati oltre i duecentomila Euro in
comparazione dell’Esercizio precedente. Tuttavia si ribaltano alla pari
anche nei costi, a dimostrazione del fatto che sicuramente la Fondazione
ha comunque incrementato i ricavi rispetto al 2014 in quanto sono
aumentati i costi del personale dovuti a nuove necessarie assunzioni per
ampliare l’attività sul territorio. Infatti l’esercizio è in perdita, ma è
dovuto essenzialmente a questo motivo.
4. Il crescente sviluppo, soprattutto di questi ultimi due anni, dimostra che
proseguendo in questa direzione la Fondazione può affrontare a livello di
autosostentamento economico sempre maggiori impegni, attivando nel
lungo periodo, ulteriori prestazioni di supporto sociale.
Dopo aver dato questo primo spunto, analizzando anche l’ultimo bilancio
d’esercizio, nella trattazione verranno analizzate le tematiche più importanti
riguardanti della Fondazione, partendo da uno spunto sul contesto milanese
lavorativo degli ultimi anni, la storia del consorzio fino ad arrivare alle
prestazioni erogate e promosse con un approfondimento riguardo al
Microcredito, che si lega all’analisi condotta finora sull’autoimprenditorialità.
110
4.1 Il contesto milanese
Per parlare della Fondazione non si può non comprendere in quale
contesto l’analisi vuole concentrarsi. Ovviamente si parla di Milano, una città che
negli ultimissimi anni ha visto dei grandissimi cambiamenti, soprattutto dovuti
all’esposizione internazionale EXPO nel 2015. Il capoluogo lombardo ha
letteralmente cambiato identità, trasformandosi in una città moderna sullo stile
delle maggiori capitali mondiali. Si sono costruite nuove zone con condomini che
rispettano l’ambiente come il Giardino Verticale, rivalutate altre attraverso la
costruzione di palazzi moderni come il grattacielo della Regione, l’edificio
Unicredit o le Tre Torri5. Sono stati promossi e finanziati meccanismi nuovi ed
ecologici come il “Bike Sharing” (con anche la costruzione di nuove piste
ciclabili) o il “Car Sharing”6. È stata costruita una nuova linea metropolitana,
avviato il progetto di un’altra e ampliate le tre che già esistevano da anni. È stato
riaperto e bonificato il naviglio grande, la storica “Darsena”, valorizzando la
zona dei Navigli come mai prima di allora7. Inoltre i dati parlano chiaro: Milano
negli ultimi tempi è diventata la città più visitata d’Italia dagli stranieri, sia dal
punto di vista “affaristico”, sia dal punto di vista turistico. Insomma, in poche
parole la metropoli si può riassumere così: attrattiva, internazionale, accogliente8.
Tutto ciò però non è bastato a fermare la crisi economica e lavorativa che
globalmente ha colpito il nostro Paese. Milano per fortuna ne ha risentito in parte
(il tasso di disoccupazione al 2016 era circa il 7%, contro una media nazionale di
circa l’11%9), i dati sono più bassi rispetto ad altre realtà italiane, ma comunque
sono dati rilevanti che fanno riflettere.
5 D. Di Vico, Cultura, grattacieli, cambiamenti. Grigia? No, ora Milano è frizzante, Il Corriere della Sera,
Milano (2015). 6 B. Gherner, Milano low cost, Rizzoli, Milano (2014).
7 S. Brenna, La strada lombarda. Progetti per una Milano città madre della propria cultura insediativa,
Gangemi Editore, Roma (2010). 8 G. Schiavi, Milano, l’orgoglio e il cambiamento, Il Corriere della Sera, Milano (2016).
9 Istat, Tassi di disoccupazione 2004-2016.
111
Fig. 4.1: Il tasso di disoccupazione a Milano.
Fonte: Comune di Milano, Andamento disoccupazione 2008-2015.
Nella figura 4.1 viene definito l’andamento della disoccupazione a Milano
per classi d’età, suddiviso in migliaia di persone. Si noti come il trend più alto e,
in questo caso, il più negativo, sia quello relativo alla disoccupazione giovanile:
la fascia d’età tra i quindici e i ventinove anni è quella più colpita, con un divario
enorme rispetto alla fascia intermedia e quella più avanzata. Un dato che dà da
pensare, come già si è fatto all’interno del terzo capitolo, in cui si è visto come il
Programma Garanzia Giovani vuole raggiungere e limitare la disoccupazione
giovanile. L’elemento positivo però è che dal 2014 al 2015 il trend della
disoccupazione giovanile milanese è sceso di qualche punto percentuale,
contestualmente a una lieve diminuzione delle altre due fasce. Può essere uno
spunto positivo per un’inversione di rotta.
Fig. 4.2: Il lavoro part-time a Milano.
112
Fonte: Comune di Milano, Andamento contratti part-time 2008-2015.
Negli anni è inoltre cresciuto leggermente l’utilizzo dei contratti part-time:
molte aziende sul territorio milanese chiedono maggior flessibilità al lavoratore,
soprattutto ai giovani, i quali sono anche ben disposti a lavorare in questo modo.
Certamente i contratti part time potrebbero essere una via d’uscita alla crisi,
offrendo più posti di lavoro attraverso poche ore giornaliere gestite in diversi
turni. Molte imprese hanno avviato questa nuova modalità di impiego
dipendente, come le catene dei ristoranti, dei fast food10 o nelle realtà come i
magazzini di Amazon, azienda specializzata nel “retail” su internet, in cui i
propri magazzinieri lavorano con turni spezzati part time sulle ventiquattro ore
(con esiti, peraltro, molto “massacranti”11). Il lato negativo del contratto part
time, però, è appunto l’orario ridotto di lavoro: è vero, si potrebbero aumentare
anche i posti di lavoro, ma gli stipendi potrebbero essere insufficienti a garantire
un tenore di vita accettabile per le persone. Inoltre, risulta anche difficile in
alcune circostanze conciliare più contratti nello stesso giorno, magari proprio per
l’impossibilità di organizzarli nelle classiche otto ore dedicate al lavoro.
10
Provincia di Milano, Lungo il tunnel: economia e mercato del lavoro in provincia di Milano, Franco Angeli, Milano (2012). 11
M. Famularo, In Amazon si lavora male?, Il Fatto Quotidiano, Roma (2015).
113
Fig. 4.3: Il lavoro a tempo indeterminato a Milano.
Fonte: Comune di Milano, Andamento del tempo indeterminato 2008-2015.
Per quanto riguarda i contratti a tempo indeterminato, gli ultimi dati
disponibili sino al 2015 nella figura 4.3 fanno risultare Milano una città con una
certa stabilità, in cui i maggiori beneficiari sono le persone di mezza età e i più
anziani, a cui è garantita una buona certezza contrattuale. I giovani da questo
punto di vista ne risentono ampiamente: ovviamente il dato è influenzato da chi
ancora studia nella scuola dell’obbligo e parzialmente chi sta avendo un percorso
universitario. Resta il fatto che esiste un discreto divario tra questa fascia e le
altre due, in cui anche una persona ormai di ventinove anni (quindi nemmeno più
tanto giovane) può fare fatica ad avere un contratto stabile. Inoltre, bisogna fare
attenzione alla stabilità dei dati, perché potrebbe anche non essere un dato così
positivo: negli anni non sono né aumentati, né diminuiti. Questo può significare
che molte aziende fanno molta fatica a offrire nuovi contratti stabili, preferendo
utilizzare forme atipiche e temporanee di lavoro (un po’ come si è detto
all’interno del primo capitolo). Ulteriormente, bisogna tenere in considerazione
anche di un altro aspetto: molti lavoratori milanesi sono stati coinvolti negli
114
ultimi anni dentro i meccanismi della Cassa Integrazione Guadagni, mantenendo
così il proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, astenendosi però dal lavoro
fintanto che è durato il periodo di crisi aziendale. Tanti lavoratori sono rientrati
poi al lavoro, ma molti di loro sono stati licenziati poiché la crisi aziendale non è
rientrata e l’azienda successivamente ha chiuso12.
Fig. 4.4: Il lavoro autonomo a Milano.
Fonte: Comune di Milano, Andamento del lavoro autonomo 2008-2015.
Infine, un ultimo spunto sul lavoro autonomo, come emerge nella figura
4.4 in questo caso l’andamento occupazionale è abbastanza stabile con un lieve
calo per la fascia di mezza età e più anziani, mentre per i giovani ha un
andamento più irregolare. Da notare, infatti, un picco di lavoro autonomo nel
2013 per i più giovani, un conseguente calo nel 2014 e un lieve rialzo nel 2015.
Anche i lavoratori autonomi, dunque, hanno risentito della crisi: molte attività,
soprattutto nel settore artigiano. negli ultimi anni hanno chiuso, specialmente
dovuto alla creazione di luoghi di concentrazione delle attività economiche
12
Fim Cisl Lombardia, 42° Rapporto Congiunturale, Milano (2017).
115
(come i centri commerciali, sempre più presenti sul territorio milanese), che
vanno a scapito dei piccoli artigiani e dei classici “negozi sotto casa”13.
Milano dunque, è una città che “respira” modernità, ma con ancora diversi
aspetti da migliorare per i propri cittadini, soprattutto dal punto di vista
lavorativo e della valorizzazione imprenditoriale. È per questa serie di motivi che
è interessante capire cosa fa nello specifico Fondazione Welfare Ambrosiano per
tutelare coloro che hanno bisogno di essere supportati. Nei prossimi paragrafi,
l’analisi scenderà nello specifico sulla sua attività.
4.2 Gli interventi nel sociale della Fondazione
Entrando ora nello specifico su quello che fa la Fondazione, il suo
principale obiettivo è fornire un aiuto concreto alle persone e lo fa in maniera
diversa rispetto al modo in cui agiscono gli enti pubblici e qualche ente privato.
Ad esempio, per diversi anni gli italiani si sono abituati al fatto che lo Stato
potesse fornire prestazioni di assistenza a credito praticamente illimitato. E per
anni in effetti è stato davvero così: basti pensare alla sanità pubblica, il cui
accesso negli anni passati era quasi completamente gratuito14. Oppure la facilità
ad ottenere prestazioni pensionistiche, il sostegno al reddito pre e post
disoccupazione e l’abbondanza monetaria di esse15. Dal punto di vista degli enti
privati, le banche concedevano con molta più facilità il credito: bastava avere una
busta paga con un contratto stabile per ottenere un prestito, un finanziamento, un
mutuo. L’imprenditore otteneva un finanziamento per aprire una sua attività
molto velocemente, semplicemente perché venivano chieste meno garanzie e
13
Cgia, Rapporto lavoro artigiano, Mestre (2015). 14
R. Giorgetti, Legislazione e organizzazione del servizio sanitario, Maggioli Editore, Rimini (2016). 15
M. Ferrera, Le politiche sociali. L'Italia in prospettiva comparata, Il Mulino, Bologna (2012).
116
c’era più fiducia nell’investimento16. Da qualche anno a questa parte non è più
così, per vari e semplici motivi: innanzitutto, il welfare pubblico italiano non è
più sostenibile e probabilmente sarà ancora peggio negli anni a venire17. Già oggi
per accedere agli enti ospedalieri pubblici si chiede sempre un aiuto maggiore da
parte dell’utente, attraverso il rincaro dei ticket. Nella richiesta delle varie
tipologie di pensione e di sostegno lo Stato è diventato molto più severo (sia dal
punto di vista assistenziale, sia dal punto di vista previdenziale), con un’attesa
più lunga rispetto all’effettiva erogazione, aumentando i requisiti contributivi o le
fasce di reddito, oltretutto erogando con molti meno soldi. Le banche sono molto
più restie a concedere finanziamenti di ogni tipo e se lo dovessero fare alla
persona verrebbero chieste garanzie che molte volte non ha. Tutto ciò è anche
dovuto ad una costante instabilità lavorativa, la crisi economica persistente e
conseguente sfiducia nell’investimento.
Il modello della Fondazione opera nel mezzo: arrivare a dare un aiuto
concreto dove non arriva l’ente pubblico e dove si ha difficoltà ad accedere ad un
ente privato. La Fondazione Welfare Ambrosiano, partendo con la proposta
concreta del Microcredito e arrivando a proporre negli anni sempre maggiori
prestazioni, ha rivolto ai cittadini milanesi in temporanea difficoltà economica e
sociale un sostegno attivo. Ha dato un accesso al credito sociale e d’impresa a
soggetti dalla debole bancabilità attraverso un percorso di accompagnamento che
prefigura sia la reale valutazione del bisogno, che la sostenibilità
all’indebitamento. Inoltre, come obiettivo durante il percorso della restituzione
del prestito, vi è anche la consapevolezza di una riconquista della capacità di
reddito.
La Fondazione è un “Confidi Sociale”18, cioè un consorzio di garanzia
collettiva di fidi, che offre fideiussioni a favore della persona e delle imprese al
fine di agevolarne l’accesso al credito. Allo stesso tempo, la Fondazione è andata
16
F. Barca, Storia del capitalismo italiano, Donzelli Editore, Roma (2010). 17
M. Bertani, Famiglie e politiche familiari in Italia: conseguenze della crisi e nuovi rischi sociali, Franco Angeli, Milano (2015). 18
Fondazione Welfare Ambrosiano, Mission.
117
ad agire concretamente sul territorio: sta cercando di valorizzare quello che già
c’era e che può aiutare, creando una Rete, valorizzando le realtà presenti sul
territorio. Un rapporto fondamentale è con il sistema bancario, in quanto la
Fondazione opera prevalentemente con la costituzione di fondi di garanzia e
mutualità, che le hanno consentito di mettere in campo per le varie iniziative, già
otto milioni di credito erogato senza mai andare in perdita. All’anno 2017, La
Fondazione ha favorito l’accesso al credito a quattrocentosessanta famiglie, per
un totale di 2,5 milioni di euro, di cui 900mila per la creazione di impresa, ed
oltre al valore economico, ha generato centocinquanta posti di lavoro19. La
Fondazione segue cinquanta imprese e ha anticipato oltre quattro milioni di euro
a milletrecento famiglie attraverso le varie prestazioni, che hanno così evitato di
trovarsi in una situazione temporanea di forte riduzione del reddito.
Inoltre, c’è un forte valore sociale nell’azione di accompagnamento (che
verrà trattato nello specifico più avanti) che non si misura soltanto con il
sostegno puramente economico. Il consorzio usa un modo di operare che non
duplica i costi economici degli aiuti, ma introduce un’innovazione nel
comportamento: le persone devono uscire dalla sola logica dell’assistenza per i
motivi sopracitati e nell’essere aiutate a vivere le difficoltà devono avere una
partecipazione attiva. E dunque, si pone anche una domanda di innovazione nei
comportamenti alle stesse istituzioni e parti sociali, nel rapporto con le richieste
di aiuto. Dunque, la Fondazione sta dimostrando di poter dare delle risposte
innovative e concrete di welfare, di riuscire a valorizzare la Rete di volontariato
sul territorio e creare sinergie tra le Fondazioni che operano per il bene comune
locale, di far dialogare e collaborare le istituzioni e il mondo del privato sociale.
Come già scritto, la “mission” che la Fondazione vuole perseguire è quella
di aiutare i lavoratori milanesi in temporanea difficoltà economica e sociale. Un
intervento non puramente assistenziale ma di welfare innovativo e responsabile.
La principale azione si rivolge verso le forme di disagio transitorio, originate da
eventi particolari per i quali non esistono forme di protezione pubblica o privata.
19
Fondazione Welfare Ambrosiano, Convegno 1 febbraio 2017, Camera di Commercio di Milano (2017).
118
La sottolineatura già indica che quest’attività è rivolta al mondo del lavoro
dipendente e non alle famiglie dell’area della povertà conclamata, in quanto è
quello che dentro la crisi in corso, sta pagando maggiormente sia in termini
economici che nel peggioramento dello status sociale. Dunque non si tratta di
assistenza ma di un welfare “rivoluzionario” che vuole dare risposte a quell’area
di persone che viene classificata nella, come detto in precedenza, cosiddetta
“area grigia”. È un sostegno economico che viene erogato in attesa di un
reinserimento lavorativo, ma anche di una stabilizzazione equilibrata nella
gestione delle proprie disponibilità e nella prospettiva di recupero di una propria
“dignità personale”20.
Si tratta quindi di una “cultura” di tutela attiva e non di un diritto esigibile,
per soggetti che faticano ad accettare l’idea di un peggioramento economico e
sociale. A questa condizione psicologicamente nuova, spesso si affianca una
solitudine relazionale che rende ancor più complicata la possibilità di ripresa e di
riscatto. Basti pensare ai disoccupati di lungo corso, soprattutto quelli più
anziani, in cui non interviene più il sostegno al reddito statale post licenziamento
e che dunque non riescono a ricollocarsi sul mercato del lavoro. E che magari
devono affrontare delle “scadenze” che devono rispettare: come per esempio il
soddisfacimento dei bisogni primari ed essenziali, come il non dover rinunciare
alle cure o garantire un percorso di studi adeguato ai propri figli, fino ad arrivare
a questioni ancora più gravi, come il non riuscire a mantenere momentaneamente
e concretamente a livello economico la propria famiglia.
Le attività di cui la Fondazione si è occupata nel 2016 confermano quanto
ormai intrapreso negli anni operativi, ovvero quella serie di attività come il
progetto sul Microcredito; il progetto che riguarda le “anticipazioni sociali”,
ovvero la possibilità di richiedere un anticipo della cassa integrazione; il progetto
“Prestito d’onore”, in accordo con l’Accademia della Scala; la possibilità di
ottenere una mutualità sanitaria integrativa come possibilità di assistenza alle
donne, ai minori, ai disabili e alle persone anziane. Inoltre, la Fondazione ha
20
Fondazione Welfare Ambrosiano, Mission.
119
ampliato la propria azione con la messa a regime dell’Agenzia sociale per la
locazione in co-progettazione con il Comune di Milano; l’ampliamento delle
attività di accompagnamento ai bandi sull’autoimprenditorialità nelle aree di
disagio economico sociale; la predisposizione del Bando Agevola Microcredito
per promuovere in particolare le imprese under 35 del nostro territorio21.
L’analisi proverà ad analizzare ognuna di queste prestazioni, caso per caso, per
capirne il funzionamento.
4.3 Attività e progetti della Fondazione
L’attività della Fondazione, dunque, dà un supporto importantissimo alla
persona, alle famiglie e all’impresa. Non solo sulla concessione del Microcredito,
che verrà trattato più nello specifico nel prossimo paragrafo, ma anche in tante
altre prestazioni che possono dare un aiuto reale ai richiedenti in caso di
momentanea difficoltà. L’aspetto positivo è che le prestazioni che si
elencheranno vanno a fornire un sostegno a diverse categorie di persone: cittadini
milanesi, lavoratori in cassa integrazione, gli allievi dell’Accademia Teatro alla
Scala di Milano, minori, donne e persone anziane. Quindi, se si nota, la maggior
parte di loro appartiene alle cosiddette “fasce deboli”22. La Fondazione interviene
per tutelare in diversi modi. Innanzitutto, è molto importante il progetto
“anticipazioni sociali”. Esso è un aiuto nato per evitare l'assenza temporanea di
reddito a tutti i lavoratori (entro comunque l'area della Città Metropolitana di
Milano) che sono in attesa di ottenere i sostegni al reddito previsti dalla legge nel
momento in cui l’azienda subisce uno “shock” produttivo momentaneo, ovvero:
la Cassa Integrazione Straordinaria (viene erogata nel caso in cui l’azienda stia
21
Fondazione Welfare Ambrosiano, Cosa Facciamo. 22
E. Bressan, Le radici del “welfare state” fra politica e religione, CUEM, Milano (2005).
120
subendo una completa ristrutturazione o una forte crisi), la Cassa Integrazione in
Deroga (un sostegno erogato dall’Inps nel caso in cui il lavoratore non possa
accedere alla Cassa Integrazione tradizionale) e i contratti di solidarietà firmati
dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni datoriali. La situazione in cui
si trovano lavoratori e imprese milanesi per effetto della persistente crisi
economica che continua ad avere esiti negativi nonostante siano passati già quasi
dieci anni, necessita di strumenti integrativi volti alla tutela del lavoro e del
reddito, incisivi nella loro funzione di salvaguardia del livello di vita delle
famiglie. Quello che si cerca di fare, dunque, è cercare di anticipare l’iter
amministrativo-burocratico nell’ottenimento della Cassa Integrazione, spesso
lungo e complicato, a favore dei lavoratori e lavoratrici che potrebbero trovarsi in
alcuni frangenti di grave difficoltà, a causa della momentanea (e a volte lunga)
sospensione del pagamento del proprio stipendio. È un intervento, per così dire
“tampone”, ma è importante per garantire un po’ di tranquillità a chi vede già la
sua azienda in gravi difficoltà e ha di conseguenza una legittima preoccupazione
per il futuro. Quindi, il progetto consiste nella possibilità di chiedere su base
volontaria l’anticipo della relativa integrazione salariale qualora non ancora
percepita dall’Istituto di Previdenza. Si possono ottenere fino ad un massimo di
6mila Euro, il quale importo può coprire fino a sette mensilità. Le banche
convenzionate con la Fondazione anticipano al richiedente le mensilità di cassa
integrazione. Il prestito viene estinto quando l’INPS provvede al pagamento delle
relative indennità. La Fondazione istruisce la pratica ed emette la garanzia del
prestito erogato dalle banche.
121
Tab. 4.2: Anticipazioni sociali negli ultimi quattro anni.
Fonte: Fondazione Welfare Ambrosiano, Relazione attività 2016.
Nella tabella 4.2 vengono riportati di dati relativi alle concessioni emesse.
Da quello che si può notare è che negli anni più di quattro milioni di Euro sono
stati messi a disposizione delle famiglie bisognose, a causa del fatto che molte
aziende milanesi hanno dovuto sospendere la propria attività e chiedere la Cassa
Integrazione. Si noti, inoltre, come nel 2016 il totale delle pratiche è stato molto
inferiore agli anni precedenti. Può essere considerato un elemento sia positivo,
sia negativo: positivo perché molte aziende che stanno sopravvivendo alla crisi,
evidentemente non hanno più dovuto chiedere la Cassa Integrazione e di
conseguenza l’utenza non si è rivolta alla Fondazione; l’aspetto negativo però è
che effettivamente molte aziende sul territorio hanno chiuso e dunque non vi
erano nemmeno i presupposti per chiedere la Cassa. Ciò non toglie che,
mediamente, quasi milletrecento famiglie sono state garantite alle banche dalla
Fondazione e certamente è un dato alquanto, in senso lato del termine, positivo23.
La Fondazione propone inoltre un “prestito d’onore” per gli allievi
dell’Accademia della Scala. Uno dei tanti obiettivi della Fondazione è quello di
valorizzare i percorsi formativi per aumentare le opportunità di occupazione
giovanile. Per questo motivo si è creata una partnership con l’Accademia:
l’iniziativa consiste nel favorire l’accesso al credito, attraverso un finanziamento
a condizioni agevolate, agli allievi meritevoli e che si trovano in condizioni
economiche disagiate. Per finanziare i prestiti erogati, la Fondazione e
23
Fondazione Welfare Ambrosiano, Convegno 1 febbraio 2017, Camera di Commercio di Milano (2017).
122
l’Accademia hanno costituito un Fondo di garanzia apposito, dedicato che
rilascia la garanzia necessaria all’erogazione del prestito. Il progetto consiste in
una linea di credito dedicata agli allievi dell’accademia che consente di coprire la
quota di partecipazione ai corsi dell’accademia, con un piano di rimborso a
dodici e ventiquattro mesi ad un tasso fisso del 4%.
Tab. 4.3: prestiti d’onore erogati 2013-2016.
Fonte: Fondazione Welfare Ambrosiano, Relazione attività 2016.
Il terzo sostegno dato dalla Fondazione è il progetto per garantire una
mutualità sanitaria integrativa. Il programma propone tre forme di assistenza
sanitaria complementari a quelle previste dal Servizio Sanitario Nazionale:
l’odontoiatria per i minori, un’assistenza base e prevenzione per le donne,
un’assistenza domiciliare infermieristica e riabilitativa. È rivolto a chi risiede o
lavora nel Comune di Milano. Per l'assistenza domiciliare l'area di competenza è
estesa alla Città Metropolitana. L’odontoiatria è stata pensata come formula di
assistenza per i minori tra i sei e i sedici anni e prevede due azioni che agiscono
in sinergia: la prima è di prevenzione odontoiatrica tramite l’insegnamento di una
corretta igiene dentale e il monitoraggio delle patologie paradentali e cariose; la
seconda è l’offerta di una visita specialistica con eventuale intervento sulle
patologie e di prezzi agevolati in caso di interventi ortodontici. La seconda
formula di assistenza offre un pacchetto d’assistenza sanitaria di base e un
percorso di prevenzione oncologica per le donne a partire dai venticinque anni.
L’assistenza sanitaria di base prevede il rimborso di prestazioni relative a visite
123
specialistiche, diagnostica strumentale, ticket sanitari per accertamenti
diagnostici e pronto soccorso, prevenzione e controllo. La terza forma di
assistenza si rivolge a chi, a seguito di un ricovero ospedaliero o infortunio
necessita di assistenza domiciliare, infermieristica e riabilitativa. Possono
accedervi i residenti nella Città Metropolitana di Milano fino a un’età massima di
settantacinque anni. Tutte e tre le tipologie di assistenza hanno un costo di
iscrizione annuo di circa settanta Euro: la quota è ottima, se si considerano i
servizi offerti che vanno a coprire una buona fetta di situazioni potenziali.
Soprattutto questa misura va a incrociare le fasce più deboli presenti nella
società: i minori e la possibilità di poter pagare meno il dentista che, è risaputo, a
volte prevede costi inaccessibili per tante categorie di persone; le giovani donne
nella lotta e prevenzione dei tumori; infine, i disabili e gli anziani con la tutela
assistenziale a domicilio. L’aspetto inoltre da tenere in considerazione e che può
far riflettere, è il fatto che la sanità pubblica e quella privata diventano sempre
più costose: attraverso questi strumenti è possibile ridurre i costi di accesso e
soprattutto non rinunciare alle cure personali e dei propri cari, solo per il fatto
che si è in una situazione problematica in cui il proprio reddito non riesce a darne
rimedio.
Un altro aspetto molto interessante è che la Fondazione sta dedicando
molte risorse ed energie per garantire un’equità abitativa per i cittadini milanesi.
Per questo motivo ha istituito l'Agenzia Sociale per la Locazione “Milano
Abitare”24. Si tratta di un progetto gestito dalla Fondazione nato in
collaborazione con il Comune di Milano con l'obiettivo di sviluppare iniziative a
sostegno di soluzioni abitative regolamentate nel territorio milanese proponendo
un canone concordato d’affitto come strumento equo e conveniente, sia per i
proprietari della casa, sia per gli inquilini che hanno intenzione di affittarla.
Ovviamente l’Agenzia non si occupa dell’edilizia residenziale pubblica. Milano
Abitare si rivolge a cittadini che hanno un reddito certo (fino a un massimo di
40mila Euro) considerato troppo alto per poter accedere ad un alloggio di edilizia
24
www.milanoabitare.org (Consultazione effettuata il 17/02/2017).
124
popolare, ma che potrebbe essere non sufficiente a sostenere i costi di locazione
richiesti dal libero mercato. Anche in questo caso può essere ben utilizzata
l’espressione “area grigia” citata nel primo paragrafo. Quindi, grazie alle
garanzie che l’agenzia propone, i proprietari di immobili privati possono affittare
il proprio alloggio riducendo i rischi connessi alla selezione degli affittuari e
quindi ridurre il rischio di un mancato pagamento del canone di locazione
stabilito. L’Agenzia, inoltre, non ha fini di lucro e opera a titolo totalmente
gratuito.
Tab. 4.4: “Milano Abitare”.
Fonte: Fondazione Welfare Ambrosiano, Relazione attività 2016.
In conclusione, dunque, si è analizzato caso per caso tutto il sostegno
promosso dalla Fondazione. Ciò che propone è indubbiamente un welfare
innovativo, dinamico e fuori dagli schemi rispetto al sistema assistenziale
125
pubblico. Nel prossimo paragrafo l’analisi scenderà ancora più nello specifico
cogliendo l’essenza stessa della Fondazione, ovvero il sostegno alla persona e
all’impresa attraverso lo strumento del microcredito.
4.4 Il microcredito
Innanzitutto, cos’è il microcredito? Una definizione potrebbe essere la
seguente: il microcredito è uno strumento di sviluppo economico che permette
l'accesso ai servizi finanziari alle persone in condizioni di povertà ed
emarginazione. Esso viene definito come "credito di piccolo ammontare
finalizzato all'avvio di un'attività imprenditoriale o per far fronte a spese
d'emergenza, nei confronti di soggetti vulnerabili dal punto di vista sociale ed
economico, che generalmente sono esclusi dal settore finanziario formale”25. Le
origini del microcredito, nella sua attuale applicazione, possono essere collegate
a diverse organizzazioni fondate in Bangladesh, in particolare alla Grameen
Bank. La Grameen Bank26, fondata da Muhammad Yunus nel 1983, è considerata
il primo istituto di Microcredito moderno: Yunus ha iniziato il progetto in una
piccola città, chiamata Jobra, utilizzando il proprio denaro per fornire piccoli
prestiti a bassi tassi d'interesse per i poveri delle campagne. Il Microcredito si
basa su un unico insieme di principi che sono facilmente distinguibili dalle
tendenze dei più vasti mercati creditizi. Le organizzazioni di Microcredito sono
state inizialmente create come alternativa ai prestiti con altissimi tassi
d’interesse, noti per poter approfittare dei clienti. Infatti, molti istituti di
microcredito hanno iniziato come organizzazioni non-profit e hanno operato con
i fondi statali o con i finanziamenti privati. Nel contesto italiano il microcredito,
25
G. Pizzo, G. Tagliavini, Dizionario di microfinanza, Le voci del microcredito, Carocci, Roma (2013). 26
www.grameen.com (Consultazione effettuata il 17/02/2017).
126
a livello pubblico, è gestito dal Ministero dello Sviluppo Economico attraverso il
Fondo di Garanzia27: l’intervento del Fondo, mediante la concessione di una
garanzia pubblica sulle operazioni di microcredito, ha lo scopo di sostenere
l'avvio e lo sviluppo della microimprenditorialità favorendone l'accesso alle fonti
finanziarie.
Nel caso di Fondazione Welfare Ambrosiano il progetto è rivolto a tutti i
lavoratori e ai residenti nel Comune di Milano in situazione di temporanea
difficoltà economica, che devono far fronte a spese per bisogni primari della
persona (sanità, istruzione o l’affitto della casa) o intendono avviare un’impresa
all’interno del Comune stesso. La Fondazione fornisce la garanzia per agevolare
l’accesso a un credito, erogato a condizioni vantaggiose da banche
convenzionate. Sono inoltre previsti dei servizi ausiliari di accompagnamento
alla persona o all’impresa obbligatori per ottenere i finanziamenti.
Sono attualmente attive tre modalità di accesso al credito: il credito
sociale, il credito d’impresa e il nuovo “Bando Agevola Microcredito”. I primi
due si occupano di erogare un credito fino a 10mila Euro per le spese personali o
famigliari e fino a 20mila Euro per le spese d’impresa. Il terzo si occupa di
agevolare i lavoratori autonomi e le microimprese iscritte nella Camera di
Commercio di Milano, con l’eccezione dei soggetti che hanno aperto l’attività da
almeno cinque anni e che hanno più di dieci dipendenti assunti. L’iniziativa è
rivolta al sostegno di “programmi di investimenti produttivi” attraverso
l’erogazione alle imprese beneficiarie di contributi a fondo perduto, per ottenere
un abbattimento dei tassi di interesse su finanziamenti erogati dal sistema
bancario fino a tre punti percentuali, al massimo quattro se le imprese sono state
iscritte al Registro delle Imprese da non più di due anni e per le imprese
femminili ed “under trentacinque” (cioè costituite da donne e da giovani inferiori
ai trentacinque anni di età).
L’aspetto assolutamente positivo dunque è che vengono valorizzate a
maggior ragione le nuove imprese fondate da giovani e donne. Lo stanziamento
27
Decreto Ministeriale 18 marzo 2015.
127
in denaro complessivo per il bando è pari a 1,5 milioni di Euro, di questi la
Fondazione mette a disposizione 150mila Euro. Al fine di beneficiare di questo
contributo della Fondazione, è necessario che le imprese abbiano stipulato un
contratto di microcredito, con gli istituti di credito convenzionati garantito dal
Fondo di Garanzia per il microcredito del Ministero dello Sviluppo Economico o
dal fondo “FEI” dall’Unione Europea (come già spiegato all’interno del terzo
capitolo). Sono ammissibili spese in conto capitale (ovvero gli investimenti) per
almeno l’ 80% del totale ammesso e spese in conto gestione (ovvero le spese di
gestione ordinaria) per un massino del 20% del totale ammesso, non più
comunque di 25mila Euro finanziabili. La differenza sostanziale all’interno di
questo intervento rispetto agli altri due è il fatto che non viene concesso un
finanziamento puro per la partenza imprenditoriale o per un bisogno personale,
bensì per la “sopravvivenza” stessa dell’attività. Infatti, come si è analizzato nel
secondo capitolo, il problema vero delle attività sta nel rischio di non riuscire a
continuare ad esistere dopo i primi due anni. La Fondazione in questo caso tenta
di risolvere il problema: attraverso l’abbattimento del tasso d’interesse proposto
dalle banche convenzionate (per l’esattezza sono la società “Permicro”, una delle
più importanti società italiane che si occupa di microcredito e il gruppo bancario
Unicredit), si riesce a rendere il meccanismo dell’indebitamento più
“sopportabile” per il piccolo imprenditore. Si noti inoltre, come già accennato nei
capitoli precedenti, quanto può dare sostenibilità un meccanismo del genere:
circa il 94% delle imprese a Milano sono micro e piccole. Circa 57mila sono nate
negli ultimi anni. E possono creare davvero tanti nuovi posti di lavoro. Sono
numeri davvero rilevanti e importanti per capire il tessuto d’intervento potenziale
della Fondazione.
Microcredito però non è solo denaro: Microcredito è anche e soprattutto
“accompagnamento”28. Questa è la vera sfida della Fondazione ed è una sfida a
cui nessun concessore del credito tradizionale prova a rispondere. Questi soggetti
si limitano soltanto ad erogare il credito, ovviamente se la persona ha le garanzie
28
Fondazione Welfare Ambrosiano, Mission.
128
per poterlo ottenere e negli ultimi anni, attraverso il sistema dei “confidi”, è stato
anche reso più facile dal Ministero dello Sviluppo Economico attraverso il Fondo
di Garanzia. Ci sono invece altre realtà che, anche attraverso questo sistema
agevolato, non riescono ad avere comunque le garanzie sufficienti. Per questo
motivo, la Fondazione con la persona stipula un patto, una cosiddetta
“fideiussione morale”: il soggetto a cui verrà erogato il credito dopo un’attenta
valutazione degli operatori della Fondazione e dai loro affiliati (come Formaper
già citata nel secondo capitolo), deve seguire anche un percorso di
accompagnamento gratuito. Difatti, uno degli obiettivi costituenti della
Fondazione è quello di promuovere soluzioni che prevedano l’assunzione di
responsabilità da parte degli individui supportati come condizione propedeutica
alla soluzione del problema. Coerentemente con questo principio, il processo di
abilitazione e della concessione finale del credito è basato sull’assunzione di
responsabilità.
Tutte e tre le tipologie di concessioni prevedono un accompagnamento
dato direttamente dalla fondazione o da “sportelli” affiliati: infatti i destinatari
dei servizi della Fondazione sono tutti i lavoratori, e le loro famiglie, che
prestano attività lavorativa abitualmente a Milano e risiedono nell’area
provinciale. Sono inclusi sia lavoratori dipendenti con contratto a tempo
indeterminato, che lavoratori con contratti a tempo determinato oppure lavoratori
atipici (interinali, a progetto, apprendisti) e più in generale ogni categoria di
lavoratori, anche indipendenti, in situazione di temporanea difficoltà economica a
livello personale e familiare, riconducibile ai più svariati fattori (perdita del posto
di lavoro, cassa integrazione, chiusura della propria impresa, malattia propria o di
un proprio familiare). Le fasi di accompagnamento sono quattro. Nella prima
fase di accoglienza si tratta di compiere uno “screening” del soggetto: un
colloquio in cui la persona racconta la sua esperienza e la sua necessità. Da li
Fondazione capisce se le esigenze del soggetto sono compatibili con gli strumenti
messi in campo dalla Fondazione stessa o è necessario indirizzare il soggetto
verso altri enti. Il secondo step è l’effettiva “presa in carico”, sullo stile degli enti
129
accreditati raccontati nel terzo capitolo: si analizza il bisogno e le reali possibilità
di affrontarlo in termini di risorse personali, territoriali, comunitarie, formali e
informali; si cercano di studiare, formulare e sperimentare risposte che partano
dalla concretezza del bisogno; ideare un progetto con la persona che, partendo
dalla sua situazione reale, valuti le risorse disponibili, individui le strategie
operative per affrontare e risolvere il problema, definisca degli obiettivi realistici,
graduali e verificabili nel tempo; infine, offrire una risposta alle situazioni di
emergenza e collaborare con la rete autorizzata per la definizione del progetto e
la sua sostenibilità ai fini dell’erogazione creditizia. La terza fase, che può anche
essere parallela alla seconda, è l’orientamento vero e proprio: si assiste la persona
nell’analisi del bisogno espresso in relazione alla propria situazione complessiva
fornendo, informazioni sui servizi del territorio verificandone la comprensione da
parte della persona, decodificando la complessità, anche normativa;
eventualmente, inviare, accompagnando, la persona ai servizi più adeguati,
laddove lo strumento di Microcredito reso disponibile dalla Fondazione non sia
applicabile, per offrire una risposta concreta al bisogno espresso. Infine, come
ultima fase, contestuale all’erogazione del credito, c’è il monitoraggio e il
tutoraggio: come si accennava precedentemente, si presta una “fideiussione
morale” di supporto alla concessione del Microcredito che servirà poi alle banche
per l’erogazione effettiva di denaro; accompagnare la persona nelle diverse fasi
del percorso di rientro dal bisogno; garantire gli adempimenti nel corso del
periodo del prestito (come ad esempio delle relazioni, documentazione
amministrativa).
Per quanto riguarda il Bando Agevola, i neo imprenditori vengono seguiti
e monitorati attivamente dalla Fondazione e direttamente dai funzionari del
Comune di Milano una volta ottenuto l’investimento che abbatte il tasso
d’interesse. Essi dunque si impegnano a seguire il programma obbligatorio di
accompagnamento alla realizzazione degli investimenti finanziati, personalizzato
e gratuito. In questo caso, lo stanziamento monetario di 100mila Euro del
130
programma di accompagnamento arriva direttamente dal Comune29. Infatti, l’ente
pubblico ha “sposato” questo modello promosso negli anni dalla Fondazione.
Tale programma si concretizza in un primo incontro di gruppo e in successivo
incontri individuali attraverso i quali si analizzano i progetti d’investimento e di
sviluppo d’impresa per verificare eventuali criticità nell’implementazione e
individuare le possibili soluzioni. Il programma avrà una durata variabile in base
alle specifiche esigenze del beneficiario, da un minimo di dodici ad un massimo
di diciotto mesi e consiste in almeno cinque incontri: innanzitutto un colloquio
con l’ente Formaper come primo approccio informale e successivamente altri
minimo quattro incontri con la Fondazione nei mesi successivi.
L’idea innovativa nasce dal principio appena enunciato. Oltre a ciò che si
è detto in precedenza sulla “fideiussione morale”, la Fondazione mette in campo
un altro aspetto davvero eccezionale: la possibilità di dare un supporto
“psicologico” per chi sta rischiando tutto nella propria attività, come se fosse una
sorta di “angelo custode”. Si è detto qualche riga fa che nei primi due anni esiste
il concreto pericolo che l’attività cessi di esistere. E il fallimento, forse,
sconvolge molto di più la persona a livello personale che a livello monetario. La
Fondazione in questo caso mette in gioco il sostegno personale che serve a chi
magari non potrebbe mai farcela da solo. Questa è innovazione. Questo si può
definire un welfare totalmente nuovo: un ente concede un credito, ma supporta e
fa prendere le responsabilità a chi lo riceve. Così da limitare in maniera molto
ridotta il margine di fallimento per le imprese e le attività, mentre la concessione
del credito sociale porta a far si che il soggetto ricevente capisca che ciò che gli è
stato prestato in realtà è un finanziamento sul suo recupero personale come,
appunto, “persona”30.
Infine, la Fondazione in convenzione col Comune di Milano, prevede
l’erogazione di titoli di garanzia economica e di servizi ausiliari e complementari
29
Fondazione Welfare Ambrosiano, Convegno 2 febbraio 2017, Camera di Commercio di Milano. 30
Fondazione Welfare Ambrosiano, Convegno 2 febbraio 2017, Camera di Commercio di Milano.
131
relativi ai bandi pubblici del credito d’impresa31. Sul modello spiegato all’interno
del secondo e del terzo capitolo, la Fondazione, attraverso incontri e colloqui
personalizzati, aiuta i neoimprenditori a costruire e a perfezionare la propria
idea, a individuare una struttura giuridica-aziendale dell’impresa, a conoscere il
mercato di riferimento con una appropriata azione di ricerca, ad individuare
l’andamento del settore prescelto attraverso la stesura di un piano di marketing, a
studiare lo scenario esterno individuando i fattori che ne possono influenzare il
business (compresa la concorrenza), a sviluppare il progetto d’impresa, fino ad
arrivare all’individuazione dei potenziali clienti nonché a determinare possibili
aree critiche da approfondire. L’accompagnamento all’imprenditorialità dei
vincitori dei bandi è dall’inizio alla fine, dalla nascita dell’idea fino all’effettivo
compimento, non solo nella realizzazione e sviluppo del progetto d’impresa, ma
anche sugli aspetti operativi di raccolta e predisposizione di tutta la
documentazione e la rendicontazione, la cui verifica e accettazione spetta poi al
Comune e dura per tutta la durata del bando, ovvero fino a tre anni.
Tab. 4.5: i Bandi comunali riguardo all’imprenditorialità nelle periferie.
Fonte: Fondazione Welfare Ambrosiano, Relazione attività 2016.
Nella tabella 4.5 sono segnalati i bandi comunali garantiti in parte dalla
Fondazione. Tre di questi hanno puntato molto sulla valorizzazione delle aree
meno curate e valorizzate di Milano, ovvero le periferie. Il bando “Tira su la
31
Legge 266 dell’11 agosto 1997.
132
cler”32 nel 2014 ha portato a nuova vita tredici spazi inutilizzati nella periferia
milanese. Oltretutto, l’affitto degli spazi sta avendo un canone ridotto del 90%
nei primi cinque anni di attività. Questo progetto è stato subito seguito dal bando
“Tra il dire e il fare”33, che ha fatto partire, sempre nella periferia di Milano,
cinquanta nuove attività, finanziate per il 50% del totale investito, in una parte a
fondo perduto e in una parte come prestito. Successivamente, il bando
“Startupper”34, partito nel 2016, ha concesso ulteriori finanziamenti con le stesse
modalità del precedente. Infine, il progetto “Acceleratore di Impresa ristretta”35,
iniziato nel 2014, è volto a sostenere le attività imprenditoriali profit e non profit
all’interno dei penitenziari milanesi, una realtà che ad oggi, nel 2017, conta
ventiquattro imprese. Esso è il primo polo italiano per l’economia carceraria:
rappresenta l’esperienza pilota in Italia, una connessione tra il carcere e il tessuto
produttivo della città.
Tab. 4.6: Erogazione del Microcredito promosso dalla Fondazione 2011-2016.
Fonte: Fondazione Welfare Ambrosiano, Relazione attività 2016.
Nella tabella 4.6 si nota la misura dei finanziamenti erogati negli ultimi
cinque anni, distinguendo l’emissione totale dal credito a ciò che è stato dato alle
32
Cna Milano, Bando “Tira su la cler” – Impresa in periferia (2013). 33
Comune di Milano, Bando “Tra il dire e il fare” (2014). 34
Comune di Milano, Bando “Startupper” (2016). 35
www.acceleratoreimpresaristretta.it (Consultazione effettuata il 10/02/2017).
133
famiglie e alle imprese. Dei soldi totali richiesti, circa un terzo sono stati
effettivamente erogati. Ovviamente, era impossibile poter soddisfare ogni singola
richiesta e le motivazioni sono diverse. Innanzitutto, si può partire dal principio
che la fascia di aiuto che viene coinvolta è la cosiddetta “area grigia”, come già
spiegato precedentemente. Non tutti ne fanno parte di quest’area.
Indicativamente, ne fanno parte le famiglie a medio/basso reddito. Per questo
motivo viene fatta un’attenta analisi da parte della Fondazione e dalla Banca a
chi erogare finanziamenti: soprattutto viene valutata la possibilità di restituzione
del credito e non tutte le famiglie, anche a medio reddito, riuscirebbero a
soddisfare questo requisito. Un secondo aspetto, potrebbe essere che non si riesca
ad ottenere il completo importo sopracitato, ovvero i 10mila Euro per le famiglie
e i 20mila Euro per le imprese. Quindi la banca decide di erogare qualcosa,
certamente come pregevole aiuto, con la certezza di restituzione anziché erogare
l’intero importo che non verrà restituito.
Si noti inoltre la significativa diminuzione delle richieste che c’è stata
negli anni. Questo aspetto è legato a due motivi fondamentali. Il primo è
l’aumento di severità da parte delle banche e di conseguenza della Fondazione:
anche se la Fondazione non ha mai chiuso alcun esercizio in perdita (tranne
l’ultimo del 2015, ma con una perdita lieve) dagli anni di avvio e quindi tutti i
soldi sono stati restituiti, le banche hanno aumentato le garanzie richieste
all’utente. Dunque la Fondazione ha dovuto agire allo stesso modo, negando di
partenza molte pratiche ad alcuni soggetti che non avevano i requisiti richiesti.
Per questo sono diminuite le richieste: è venuto meno il “passaparola” tra i vari
soggetti a causa di questo aumento della rigidità. Il secondo motivo è che c’è
stato un minor coinvolgimento dei partner a promuovere l’accesso al credito
agevolato: certamente questo può essere un aspetto negativo, a causa del fatto
che molti potenziali soggetti beneficiari rimangano tagliati fuori, nonostante
l’aumento della severità. Occorre dunque una maggior collaborazione da parte
della partnership poiché questo strumento potrebbe fare davvero la differenza.
134
Si guardi ora il dato che confronta la percentuale di erogazione tra
famiglie e imprese. Non c’è dubbio che ciò a cui punti maggiormente la
Fondazione è il sostegno alle famiglie bisognose, anche per il fatto che il credito
da erogare ha una misura limitata e, come detto prima, un soggetto potrebbe
anche non aver bisogno di tutto l’importo di 10mila Euro. Però, anche il dato
sulle imprese è da tenere in considerazione: novanta attività hanno beneficiato
dello stanziamento di oltre un milione di Euro e all’interno del Comune di
Milano non sono poche. Inoltre, con il bando Agevola si prospetta un ulteriore
aumento delle imprese sussidiate (si è previsto un intervento su circa settanta
soggetti36).
Il modello del microcredito offerto dalla Fondazione nella città di Milano
è, dunque, uno strumento da tenere in grande considerazione. Molte famiglie e
imprese possono beneficiarne. Il sistema proposto può seriamente dare un aiuto
alle persone che fanno fronte a nuove tipologie di povertà. Per quanto riguarda le
imprese, il microcredito può essere un aiuto essenziale per iniziare ad operare sul
mercato. Non soltanto dal punto di vista economico, ma anche il fattore
dell’accompagnamento gioca un ruolo fondamentale: psicologicamente ed
economicamente l’imprenditore si sente sostenuto dalla Fondazione e dagli enti
correlati. Ed egli, dunque, potrebbe essere più “pronto” a reagire agli scossoni di
mercato, prevedibili ed imprevedibili. Avendo ricevuto una formazione, si
potrebbero limitare i rischi di fallimento o una maggior consapevolezza delle
proprie e limitate risorse. Quindi, si può affermare che la Fondazione possa
mettere in campo un aiuto concreto per l’autoimprenditorialità: coloro che hanno
un’idea di business realizzabile concretamente, l’ente non sostiene soltanto il
punto di vista economico. Ma accompagna la persona finché ella non riesca a
“camminare con le proprie gambe”. È un modello inedito nella realtà e nel
mondo odierno potrebbe avere una sua rilevanza. La Fondazione dunque, ha un
potenziale di sviluppo davvero enorme da poter sfruttare dal punto di vista
36
Fondazione Welfare Ambrosiano, Convegno 2 febbraio 2017, Camera di Commercio di Milano.
135
sociale e, si spera, che negli anni possa crescere costantemente e garantire un
sempre maggior supporto all’utenza bisognosa.
Riflessioni conclusive
L’attività della Fondazione è in forte espansione: nonostante una piccola
perdita risultante nell’ultimo bilancio dovuta al suo ampliamento, la disponibilità
“liquida” è aumentata notevolmente da un anno con l’altro. Significa che,
nonostante l’aumento di “severità” di questi ultimi anni a concedere soprattutto il
microcredito, la Fondazione potrebbe essere capace di garantire maggiormente i
beneficiari, a causa di un maggior “fondo di garanzia”. Dal punto di vista
dell’utenza, invece, si può offrire qualche spunto di riflessione. Innanzitutto, non
bisogna avere “paura” di far parte di questi programmi: molti soggetti, purtroppo,
hanno la necessità di dover richiedere aiuto, ma non lo fanno a causa di uno
“stigma” sociale, come se fosse un “marchio” che poi dovranno portarsi dietro
per tutta la vita. Invece questo non deve creare timori. Ben vengano questi
soggetti in grado di sostenere le persone non soltanto a livello monetario, ma
anche e soprattutto a livello di sostegno “morale” dei cittadini. Un secondo
aspetto collegato a questo, è il fatto che la persona, ma soprattutto l’imprenditore,
grazie all’aiuto della fondazione potrebbero affrontare meglio le loro sfide, la
realtà dei fatti: il rapporto personale tra le persone purtroppo è un fattore ormai
sin troppo lasciato da parte nel “nostro” mondo, nel nostro modo di essere e di
pensare. Si sta perdendo questo elemento, a causa di una sempre maggiore
“spersonalizzazione” comunicativa data da internet, e per la società, soprattutto
per molte parti di essa, può essere molto negativo. La Fondazione vuole una cosa
essenziale: cercare di promuovere quello che si ha meno oggi, ovvero il rapporto
personale. Un luogo in cui la persona può essere più “considerata”, all’interno
dei mercati, alla società, fino ad arrivare alla politica. E da questo punto di vista
136
partire con un percorso che possa essere un valore aggiunto per tutti gli individui.
La società può cambiare, molte persone non devono essere lasciate da parte e la
Fondazione è un esempio positivo a riguardo. È questo un nuovo, vero, autentico
modo di fare welfare: sostenere la persona, con consapevolezza, responsabilità e
invogliarla al “fare” e ad “agire” per cambiare le cose.
137
Riflessioni finali
L’analisi che ho voluto intraprendere si è interrogata su dei possibili modi
per far fronte ai cambiamenti del mercato del lavoro. Partendo da lontano, ho
cercato di percorrere e analizzare com’era una volta il lavoro, fino ad arrivare a
com’è oggi. Nel primo capitolo infatti, si è mostrato che, nella maggior parte
degli anni del secolo scorso, un lavoratore poteva avere una strada ben definita
nella sua vita: le dinamiche fordiste potevano far sì che la persona che entrava
nel suo luogo di lavoro poteva anche rimanerci per tutta la vita. Negli anni
recenti invece, questo paradigma è cambiato notevolmente: una sempre maggiore
flessibilità delle aziende sta portando ad una discontinuità lavorativa che mai si
era vista fino a qualche anno fa. Questo conduce ad una insicurezza intrinseca: il
lavoratore moderno non è certo del domani e probabilmente non lo sarà mai più.
Appunto per questo dal secondo capitolo ho tentato di analizzare alcuni modi per
provare a rimettersi in gioco: innanzitutto capendo chi è un imprenditore o un
lavoratore autonomo e in quali modi si può avviare una propria attività.
La mia analisi a questo punto si è soffermata su due argomenti: come
funzionano le start-up partendo da un’idea innovativa e ciò che sono le micro e
piccole imprese. Le idee innovative sono davvero tante e diversificate e sostenere
queste realtà risulta possibile, ma un percorso di ancor maggiore valorizzazione è
subordinato al coinvolgimento presenza di vari enti pubblici e privati. Infatti,
l’idea di autoimprenditorialità non può nascere soltanto dall’iniziativa di donne e
uomini protesi verso il mondo del lavoro: cioè non è sufficiente che tale sforzo,
se pur valido e esteso verso una reale idea riformatrice imprenditoriale, debba
instaurarsi, finanziarsi e proseguire in perfetta solitudine. Occorre che il
“pensiero” arrivi da chi sta più in alto. Appunto per questo nel terzo capitolo ho
elencato vari modi e metodi di finanziamento pubblico per offrire un più facile
accesso a chiunque abbia voglie e capacità ma non sufficienti disponibilità
economiche, per portare a compimento il suo progetto. Ciò che ho voluto ben
138
puntualizzare è che l’Unione Europea ha per prima promosso questi processi: ha
messo in campo notevoli risorse finanziarie a partire dal 2014, per cercare di
rendere l’Europa più competitiva e meno minacciata dagli avversari emergenti,
come per esempio i Paesi asiatici. I membri dell’Unione Europea gestiscono
attivamente questi fondi, cercando di proporre programmi che possano essere
funzionali al progetto dell’Unione Europea.
Emblematico il caso del programma Garanzia Giovani, in cui l’Europa
propone incentivi per i giovani riguardanti il mercato del lavoro e
l’imprenditoria. A volte però, nonostante il supporto europeo sia presente, esso
non basta a dare una certezza lavorativa o di credito agli individui di ogni età e
condizione sociale. Per questi motivi ho voluto concentrare il quarto capitolo sul
caso milanese di Fondazione Welfare Ambrosiano: una fondazione capace di
arrivare dove non riesce a giungere il pubblico, proponendo un modello di
welfare innovativo a sostegno di coloro che possono ritrovarsi in difficoltà,
oppure coloro che non possono accedere ai finanziamenti pubblici.
Cosa ci si può aspettare dagli anni che verranno? La risposta non è affatto
semplice: il vero “antagonista” per il futuro prossimo è il fatto che si tenta di
risolvere tutto per non risolvere nulla. Questa è la sensazione che traspare. Il
paradosso è una continua evoluzione dell’uomo in campo economico,
tecnologico e sociale ma che in realtà porta sempre di più a una crisi profonda da
cui parrebbe, per ora, impossibile uscirne. A mio giudizio bisogna riappropriarsi
del concetto di bene comune e di sviluppo: alcuni dei problemi fondamentali
come la disoccupazione giovanile, la disoccupazione delle persone in stadio
avanzato d’età e in generale della struttura del welfare, sembrerebbero che,
effettivamente, non vengano presi seriamente e concretamente in considerazione
per portare a compimento i principi enunciati. Tuttavia è utile tentare di dare un
contributo di risoluzione, almeno per quanto ci compete, per poter operare nel
breve periodo: alcune politiche hanno funzionato, altre hanno funzionato meno.
Non traspare una certezza matematica in cui si può dire con sicurezza che, grazie
a questi interventi, sia possibile accelerare il processo di uscita dalla crisi. Ormai
139
la società vive sempre di più nel dubbio del domani, del cosa potrebbe accadere a
distanza di poco tempo. Per questo motivo, ben vengano gli enti come la
Fondazione: dare un supporto attivo a coloro che vivono nell’incertezza, nel
dubbio. E ormai la maggior parte della società è colpita da questi elementi. Se si
avessero più enti che agissero in questo senso, sicuramente il mondo sarebbe un
posto migliore: perché è la persona quella che conta, il rapporto personale è ciò
che davvero cambia e risolve i problemi del mondo. Il resto sono soltanto
palliativi.
“Non possiamo dirigere il vento, ma possiamo orientare le vele.” (Seneca)
140
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